Orhan Pamuk. Il mio nome e’ rosso. Titolo originale: Benim Adim Kirmizi Traduzione di Maria Bertolini e semsa Gezgin Co...
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Orhan Pamuk. Il mio nome e’ rosso. Titolo originale: Benim Adim Kirmizi Traduzione di Maria Bertolini e semsa Gezgin Copyright 1998 Orhan Pamuk Copyright 2001 Giulio Einaudi editore s.p.a. Torino Nell'inverno del 1591, dopo dodici anni di viaggi in Oriente, Nero ritorna a Istanbul e trova una citta’ scossa da antiche inquietudini e nuovissime tentazioni. In gran segreto (ma ormai tutti lo sanno), il Sultano ha incaricato lo zio di Nero di realizzare un volume di disegni ispirandosi alle tecniche realiste occidentali. Nello stesso tempo i seguaci del predicatore di Erzurum girano di notte per le taverne e i caffe’ alla ricerca dei miniaturisti che, violando i precetti del Corano e tradendo gli antichi maestri, ritraggono il mondo e gli esseri viventi «come li vedono» e non «come li vede Allah». Con il ritrovamento del cadavere di un doratore che lavorava per il libro di Zio Effendi, Nero e’ costretto a indossare i panni difficili dell'investigatore. Il premio per la soluzione dell'enigma sara’ per lui la mano della bella cugina seküre, che Nero ha amato fin da ragazzo e che e’ stata la causa del suo lungo esilio. Ma l'indagine fitta di tranelli e pericoli, che lo portera’ fino al cuore delle stanze segrete del palazzo del Sultano, gli lascera’ ferite profonde, non rimarginabili. Romanzo d'amore, storia d'intrighi e di misteri, questo nuovo straordinario romanzo di Orhan Pamuk restituisce la ricchezza e la malinconia di un mondo al tramonto. Nel contrasto tra i due vecchi miniaturisti, Zio Effendi e Maestro Osman, Pamuk riassume una discussione che continua ancora oggi nel mondo islamico, diviso tra modernita’ e tradizione. Da una parte, l'insegnamento di Maestro Osman per il quale lo stile personale, in un artista, e’ un difetto, una stupida e insolente vanita’. Dall'altra, chi come Zio Effendi pensa che «ad Allah appartengono l'Oriente e l'Occidente. Allah ci protegga dai desideri di colui che e’ puro e non si e’ mescolato». Orhan Pamuk e’ nato a Istanbul nel 1952. uno dei piu’ importanti scrittori turchi. Tra i suoi romanzi, tradotti in quindici lingue, sono usciti in Italia presso Frassinelli Roccalba (1992), La casa del silenzio (1993), Il libro nero (1996) e presso Einaudi La nuova vita (2000). ********** A Rüya E uccisero un uomo e discussero tra loro. Corano, Sura della Vacca, 72. E non sono uguali il cieco e il veggente. Corano, Sura del Creatore, 19. Ad Allah appartengono L'oriente e l'Occidente. Corano,
Sura della Vacca, 115. Si riportano le lettere dell'alfabeto turco la cui pronuncia differisce da quella italiana. C - c: come g di «gelato». ç - ç: come c di «cena». G - g: come g di «gara». g: mai iniziale e sempre intervocalica, e’ quasi una semivocale la cui pronuncia puo’ essere resa con un allungamento della vocale che precede. J - j: come j francese. ö - ö: come eu francese o come ö tedesca. s - s: come sc di sciare. - ü: come u francese o ü tedesca.
Capitolo primo. Io sono il morto Adesso io sono un morto, un cadavere in fondo a un pozzo. Ho esalato l'ultimo respiro ormai da tempo, il mio cuore si e’ fermato, ma, a parte quel vigliacco del mio assassino, nessuno sa cosa mi sia successo. Lui, il disgraziato schifoso, per essere sicuro di avermi ucciso ha ascoltato il mio respiro, ha tastato il mio polso, mi ha dato un calcio nel fianco, mi ha portato al pozzo e mi ha preso in braccio per poi buttarmici dentro. La testa me l'aveva gia’ spaccata a colpi di pietra, e cadendo nel pozzo e’ andata in pezzi, la mia faccia, la fronte e le guance, e’ rimasta schiacciata, e’ scomparsa, le ossa si sono spezzate, la bocca si e’ riempita di sangue. Sono quattro giorni che manco da casa. Mia moglie e i miei figli mi staranno cercando. Mia figlia, sfinita dal pianto, probabilmente stara’ guardando il cancello del giardino; tutti mi staranno aspettando con lo sguardo fisso sulla porta. Ma mi staranno veramente aspettando? Non lo so. Forse si saranno abituati, che orrore! Perche’ stando qui sembra quasi che la vita che ti sei lasciato dietro continui come sempre. Prima di nascere avevo alle spalle un tempo illimitato. Un tempo che non sarebbe finito neanche dopo la mia morte! Da vivo non pensavo a queste cose, continuavo a vivere nella luce, nel tempo che passa tra due oscurita’. Ero felice, ero veramente felice, ora lo capisco. Nel laboratorio di miniatura del Nostro Sultano io facevo le dorature migliori e non c'era doratore dotato di pari maestria. Con i lavori che facevo fuori arrivavo a guadagnare fino a novecento akçe al mese. E tutte queste cose certamente rendono la mia morte ancora piu’ insopportabile. Facevo solo miniature e dorature, decoravo i bordi delle pagine e coloravo l'interno delle cornici, foglie, rami, rose, fiori, uccelli, nuvole ricciute alla maniera cinese, serie di foglie sovrapposte, foreste di colori dove si nascondevano gazzelle, galere, sultani, alberi, palazzi, cavalli, cacciatori... Di tanto in tanto decoravo un piatto, il retro di uno specchio, un cucchiaio, a volte il soffitto di un palazzo in una villa sul Bosforo, una cassapanca... Negli ultimi anni, invece, ho lavorato solamente per decorare pagine di libri, perche’ il Nostro Sultano pagava generosamente i libri miniati. Non vi dico che quando ho incontrato la morte ho capito che nella vita il denaro non e’ affatto importante. E proprio quando non sei piu’ in vita che capisci l'importanza del denaro. Adesso, considerando il fatto miracoloso che possiate sentirmi nonostante la mia situazione, so che penserete: evita di dirci quanto guadagnavi in vita. Raccontaci quello che vedi li’. Cosa c'e’ dopo la morte, dov'e’ la tua anima, come sono il Paradiso e l'Inferno, cosa vedi li’? Come ti sembra la morte, provi dolore? Avete ragione. So che l'uomo quando e’ ancora in vita muore dalla curiosita’ di sapere cosa accade nell'aldila’. Mi hanno raccontato la storia di un tale che si aggirava tra i cadaveri sui cruenti campi di battaglia solo per soddisfare questa curiosita’... I soldati di Tamerlano, credendolo un nemico, con un colpo di spada l'avevano squartato mentre vagava tra i guerrieri agonizzanti nella speranza di incontrare un resuscitato e conoscere cosi’ i misteri dell'altro mondo. E cosi’, costui arrivo’ alla conclusione che nell'aldila’ gli uomini venivano squartati. Non e’ affatto cosi’. Anzi, posso affermare che le anime squartate in terra qui si ricompongono. E poi, al contrario di quanto affermano gli infedeli miscredenti e i bestemmiatori che credono a Satana, grazie al cielo un aldila’ esiste. Il fatto che io vi parli da li’ ne e’ la prova. Sono morto, ma come vedete, non sono scomparso. Devo dire pero’ che non ho trovato i padiglioni d'oro del Paradiso, ne’ quelli d'argento sotto i quali scorrono i fiumi, gli alberi dalle foglie enormi e dai frutti maturi, ne’ le belle vergini di cui si parla nel Corano. Adesso, invece, ricordo molto bene con quanta soddisfazione ho ritratto tante volte quelle meravigliose fanciulle dai grandi occhi nel Paradiso di cui parla la sura Dell'Ora che cade. Naturalmente non ho incontrato i quattro fiumi, quello di latte, e poi di vino, d'acqua dolce e di miele di cui pero’ narra un personaggio di grande fantasia come Ibn Arabi e non certo il Corano. Non volendo convertire alla miscredenza le tante persone che giustamente vivono nella speranza fantasticando sull'aldila’, devo subito precisare che tutto questo dipende dalla mia particolare situazione. Ogni credente minimamente informato sulla vita dopo la morte sarebbe disposto ad ammettere che chi si trova in uno stato di inquietudine come il mio avrebbe qualche difficolta’ a vedere i fiumi del Paradiso. Per farla breve, io che nella corporazione dei miniaturisti e tra i maestri d'arte sono conosciuto come Raffinato Effendi, sono morto ma non sono stato sepolto. Percio’ la mia anima non ha potuto abbandonare del tutto il corpo. Perche’ la
mia anima possa andare verso il Paradiso, l'Inferno, o dove e’ destino che vada, deve uscire dalla sporcizia del corpo. Questa particolare situazione, che puo’ capitare anche ad altri, e’ per la mia anima causa di tremendo dolore. Non sento di avere la testa fracassata, non sento le fratture che spezzano meta’ delle mie ossa, l'orrore di putrefarmi nell'acqua gelida, ma avverto il dolore profondo della mia anima che si divincola nel tentativo di abbandonare il corpo. come se tutto l'universo cominciasse a contrarsi restringendosi in un qualche luogo dentro di me. Posso paragonare questo senso di contrazione solo alla spaventosa liberazione che ho provato nel momento in cui sono morto. Quando il mio cranio e’ stato fracassato da un colpo di pietra del tutto inaspettato, ho capito subito che quel vigliacco voleva uccidermi, ma non credevo che ci sarebbe riuscito. Ero pieno di speranze, ma non me ne ero reso conto, e conducevo un'esistenza piatta, tutta casa e bottega. Ero attaccato alla vita con passione, con le unghie e con i denti, e con questi l'ho morso. Ma non voglio annoiarvi con il dolore dei colpi ricevuti in testa. Quando ho avuto l'amara certezza che sarei morto, ho provato un'incredibile sensazione di sollievo. Ho vissuto il momento del trapasso con questa sensazione: arrivare qui e’ stato lieve come sognare di dormire. L'ultima cosa che ho visto sono state le scarpe coperte di neve e fango di quel vigliacco del mio assassino. Ho chiuso gli occhi come se dormissi e con un dolce trapasso sono arrivato da questa parte. Non mi lamento del fatto che i denti mi siano caduti come ceci nella bocca piena di sangue, ne’ che il mio volto sia talmente fracassato da essere irriconoscibile, ne’ di essere rimasto schiacciato in fondo a un pozzo, mi lamento perche’ mi credono ancora vivo. Sapere che chi mi vuole bene pensa continuamente a me immaginando che stia perdendo tempo in stupidaggini in qualche angolo di Istanbul, oppure che sia andato dietro a una donna, aumenta il dolore della mia anima inquieta. Basta! Trovate il mio cadavere, seppellitemi e fatemi un funerale con tutte le necessarie preghiere rituali! Ma soprattutto che venga scoperto il mio assassino! Sappiate che finche’ non si scopre quel vigliacco, anche se sepolto nella piu’ bella delle tombe, io attendero’ aggirandomi inquieto per la tomba e insinuero’ in tutti voi la miscredenza. Trovate quel figlio di puttana del mio assassino e io vi raccontero’ tutto quello che vedro’ nell'aldila’! Ma quando lo trovate dovete torturarlo con il torchio e spezzargli otto, dieci ossa, preferibilmente le costole, lentamente, facendogli sentire come scricchiolano, e dovete strappargli a uno a uno quei capelli unti e schifosi e farlo urlare bucandogli il cranio con gli spiedi fatti apposta per le torture. Ma chi e’ il mio assassino, chi e’ la persona nei cui confronti provo una tale rabbia? Perche’ mi ha ucciso in modo cosi’ inaspettato? Siete curiosi? Pensate che il mondo sia pieno di assassini che non valgono niente, che uno valga l'altro? Allora vi avverto fin d'ora: dietro la mia morte c'e’ uno scandaloso complotto contro la nostra religione, le nostre tradizioni, contro il nostro modo di vedere il mondo. Aprite gli occhi, sappiate che a uccidermi sono stati i nemici della vita in cui credete e vivete, i nemici dell'Islam, e che un giorno potrebbero uccidere anche voi. Le parole del grande predicatore Maestro Nusret di Erzurum, che una volta ho ascoltato commosso, una a una si avverano. Devo dirvi che tutto quello che ci accade puo’ venire narrato in un libro, ma disegnarlo non si puo’, e non lo possono fare neanche i miniaturisti piu’ esperti. Proprio come il Corano - che non si intenda male, Allah non voglia! - la forza sconvolgente di un libro dipende anche dal fatto che non puo’ mai essere narrato attraverso i disegni. Temo che non abbiate capito. Guardate, anch'io quando ero solo un apprendista temevo profondamente la realta’, temevo la voce che giungeva da lontano e cercavo di distrarmi facendomi beffe di questo genere di cose. Poi sono caduto in questo ignobile pozzo! E potrebbe capitare anche a voi, tenete gli occhi bene aperti. Devo solo sperare che, se vado in putrefazione, riescano a trovarmi grazie alla puzza. Non ho nulla da fare, se non fantasticare sulle torture che un'anima pia potrebbe infliggere a quel vigliacco del mio assassino, qualora lo trovasse.
Capitolo secondo. Il mio nome e’ Nero Dopo dodici anni, sono tornato come un sonnambulo nella citta’ dove sono nato e cresciuto. Si dice che i moribondi sentano il richiamo della terra, io invece ero attratto dalla morte. All'inizio, quando sono arrivato in citta’ ho pensato che ci fosse soltanto la morte, ma poi ho incontrato anche l'amore. In quel momento, quando sono entrato a Istanbul, l'amore era qualcosa di remoto, di dimenticato come i miei ricordi di questa citta’. Dodici anni fa a Istanbul mi ero innamorato della figlia di mia zia, e lei era solo una bambina. Fu solo quattro anni dopo aver lasciato Istanbul, mentre mi aggiravo per le sterminate steppe, le montagne innevate e le tristi citta’ della Persia a consegnare lettere e a raccogliere tributi, che mi resi conto che pian piano stavo dimenticando il viso del mio amore bambino rimasto a Istanbul. Preso dall'agitazione feci enormi sforzi per ricordarlo, ma poi capii che, per quanto si possa amare, alla fine, lentamente, un viso che non si vede mai lo si scorda. Dopo sei anni passati viaggiando per l'Oriente come scrivano al servizio dei pascia’, sapevo ormai che il viso che immaginavo non era piu’ quello del mio amore di Istanbul. So anche che dopo otto anni dimenticai quel viso che gia’ ricordavo a malapena dopo sei, e cominciai a immaginarlo completamente diverso. Dopo dodici anni, quando ne avevo ormai trentasei, una volta tornato nella mia citta’, raggiunsi la triste consapevolezza di aver cancellato dalla memoria il viso del mio amore. La maggior parte degli amici, dei parenti, degli abitanti del mio quartiere in questi dodici anni erano morti. Andai al cimitero che da’ sul Corno d'Oro, pregai per mia madre e per gli zii morti in mia assenza. L'odore della terra fangosa si mescolava ai ricordi, qualcuno aveva rotto una brocca sulla tomba di mia madre, non so perche’, ma guardando i cocci scoppiai a piangere. Non so se piangevo per i morti, o perche’, stranamente, dopo tutti questi anni non avevo ancora cominciato la mia vita, o, al contrario, perche’ sentivo di essere arrivato alla fine del mio viaggio. Stava cominciando a
cadere una neve leggera. Guardavo distratto i pochi fiocchi che svolazzavano qua e la’ sentendomi sperduto tra le incertezze della vita quando vidi un cane nero che mi guardava da un angolo buio del cimitero. Le lacrime si placarono. Mi soffiai il naso. Vidi che il cane nero scodinzolava amichevole e uscii dal cimitero. Poi affittai la casa dove un tempo abitava un mio parente da parte di padre e mi sistemai nel quartiere. La padrona di casa disse che somigliavo a suo figlio ucciso dai soldati saffavidi durante la guerra. Si sarebbe presa cura della casa e mi avrebbe preparato da mangiare. Uscii per strada come se non fossi a Istanbul, come se mi fossi sistemato in una citta’ araba dall'altra parte del mondo e volessi visitarla, camminai a lungo fino a non poterne piu’. Le strade erano diventate piu’ strette o era solo una mia impressione? In alcuni punti, dove le vie si incuneavano tra le case che si protendevano l'una verso l'altra, fui costretto a camminare strisciando contro muri e porte per non andare a sbattere contro i cavalli con il loro carico. Ma erano piu’ carichi o era solo una mia impressione? Vidi una carrozza incredibile, credo che cose del genere non esistano ne’ in Arabia ne’ in Persia; sembrava una fortezza trainata da cavalli altezzosi. Nei pressi della Colonna di Costantino incontrai un gruppo di mendicanti che chiedeva l'elemosina in mezzo al fetore che proveniva dal mercato dei polli. Uno era cieco e sorrideva guardando la neve cadere. Se qualcuno mi avesse detto che una volta Istanbul era piu’ povera, piu’ piccola e piu’ felice forse non ci avrei creduto, ma era il mio cuore a dirlo. Perche’ la casa del mio amore ormai lontano era dov'era sempre stata, tra i tigli e i castagni, ma quando suonai alla porta vidi che ormai ci abitavano altre persone. La madre del mio amore, mia zia, era morta, mio zio e la figlia avevano traslocato e, come dissero gli uomini alla porta, senza rendersi conto, come succede in questi casi, di ferirti e di infrangere i tuoi sogni, avevano avuto alcune disgrazie. Ma invece di raccontarvi queste cose, sappiate che dai rami del tiglio pendevano ghiaccioli grandi come il mio mignolo e quel giardino che mi ricordava i giorni caldi, verdissimi e pieni del sole d'estate era cosi’ triste, pieno di neve e abbandonato, che faceva venire in mente solo la morte. Sapevo gia’ parte di quello che era accaduto ai miei parenti da una lettera che mio zio mi aveva inviato a Tabriz. In quella lettera lo zio mi chiamava a Istanbul, stava preparando un libro segreto per il Nostro Sultano e aveva quindi bisogno del mio aiuto. Mio zio aveva saputo che a Tabriz per un certo periodo avevo fatto preparare dei libri per i pascia’ ottomani, i prefetti e gli esattori di Istanbul. Il mio lavoro a Tabriz era quello di reclutare i miniaturisti e i calligrafi che non avevano ancora abbandonato la citta’ per andarsene a Kazvin o in altre citta’ persiane, a causa delle guerre e dei soldati ottomani, e far scrivere, illustrare pagine e rilegare libri a questi grandi maestri che si lamentavano di essere trascurati e in miseria e inviare poi il tutto a Istanbul. Se mio zio non mi avesse trasmesso l'amore per la miniatura e i libri quando ero piccolo, non avrei mai potuto fare questo lavoro. Il barbiere che aveva bottega sulla strada dove una volta abitava mio zio, dal lato che dava sul mercato, aveva ancora gli stessi specchi, gli stessi rasoi, le stesse brocche e gli stessi pezzi di sapone. I nostri sguardi si incrociarono, ma non so se mi riconobbe. Vedere il recipiente pieno di acqua calda per lavare i capelli che dondolava disegnando sempre lo stesso arco all'estremita’ della catena che pendeva dal soffitto, mi rallegro’. Alcuni quartieri, alcune strade dove andavo a spasso durante la mia giovinezza in quei dodici anni erano andati in fumo e, adesso, al loro posto rimanevano solo cenere e polvere, erano luoghi spaventosi dove non incontravi che cani o bambini malati, da qualche parte erano state costruite delle case per ricchi, un fatto che mi stupiva. Ad alcune finestre di queste case erano stati messi vetri colorati di Venezia, quelli piu’ costosi. Capii dai bovindi che sporgevano dalle alte mura che, durante la mia assenza, a Istanbul erano state costruite molte case per ricchi. Come nelle altre citta’, anche a Istanbul il denaro non aveva piu’ valore. I forni che, negli anni in cui ero andato in Oriente, tiravano fuori delle belle pagnotte grosse per un akçe, adesso, per lo stesso prezzo, davano solo la meta’ di quel pane, un pane che non aveva piu’ il sapore dell'infanzia. Se la buonanima di mia madre avesse visto che toccava sborsare tre akçe per dodici uova, avrebbe detto «fuggiamo in un altro paese prima che le galline ci cachino in testa», ma sapevo che ovunque il denaro non valeva nulla. Si diceva che le navi provenienti dall'Olanda o da Venezia portassero casse piene di monete false. Un tempo, la nostra zecca fabbricava cinquecento akçe con cento dracme d'argento, adesso - a causa delle infinite guerre con i saffavidi - se ne facevano ottocento. Quando i giannizzeri si accorsero che le akçe che avevano guadagnato, cadendo nel Corno d'Oro, galleggiavano come fagioli finiti in mare dal molo dove scaricavano la verdura, si erano ribellati e avevano circondato il Palazzo del sultano come se fosse una fortezza nemica. In questo periodo di amoralita’ e crisi economica in cui si commettevano furti e omicidi, era divenuto famoso un predicatore di nome Nusret che teneva i suoi sermoni nella moschea di Beyazit dichiarando di essere un discendente del Profeta Maometto. Questo predicatore, noto come Nusret di Erzurum, aveva una spiegazione per tutte le disgrazie che negli ultimi dieci anni avevano terrorizzato Istanbul: gli incendi nei quartieri di Bahçekapi e Kazancilar; la peste che ogni volta che arrivava in citta’ si prendeva decine di migliaia di vite; l'impossibilita’ di vedere la fine, nonostante i moltissimi morti, della guerra con i saffavidi; la riconquista cristiana delle piccole fortezze ottomane d'Occidente a causa delle rivolte e dell'allontanamento dalla via indicata dal Profeta Maometto, della disubbidienza ai dettami del Corano, della tolleranza nei confronti dei cristiani, della libera vendita di vino e dell'uso di strumenti musicali nei conventi dervisci. Il venditore di sottaceti, che mi parlo’ entusiasta del predicatore di Erzurum e mi diede queste notizie, disse che le monete false, nuovi ducati, falsi fiorini ornati da leoni, le akçe con sempre meno argento riempivano i mercati - proprio come i circassi, gli abkhazi, coloro che provenivano dalla Mingerya, i bosniaci, i georgiani e gli armeni popolavano le
strade - e trascinavano irrimediabilmente la gente verso la corruzione e la disonesta’. Disse che gli immorali e i ribelli si riunivano nei caffe’ e parlavano fino all'alba. Gente completamente nuda che non si sapeva chi fosse, pazzi oppiomani, superstiti della setta dei dervisci kalenderi ballavano al suono della musica fino all'alba nei loro conventi, si infilavano spilloni qua e la’ e, dopo aver fatto ogni tipo di oscenita’, si accoppiavano tra loro e anche con i bambini, sostenendo che questa fosse la via che conduceva ad Allah. Non so se ho camminato sentendo il dolce suono di un liuto o la confusione - che chiamo ricordi e desideri - mi ha indicato una via d'uscita, ma non sopportavo piu’ quell'angosciante venditore di sottaceti. So solo che se ami una citta’, la giri molto e dopo anni la tua anima e il tuo corpo arrivano a conoscerla bene, in un momento di tristezza, mentre la neve cade mesta in fiocchi leggeri, le gambe ti portano spontaneamente su una collina che ti e’ cara. Cosi’, lasciando il mercato dei Maniscalchi, subito dopo la moschea di Solimano il Magnifico, guardai la neve che cadeva sul Corno d'Oro, i tetti esposti a Nord e gli angoli delle cupole battuti dalla tramontana ne erano gia’ coperti. Le vele di una nave che entrava in citta’ mi salutavano mentre venivano ammainate, erano dello stesso color piombo della superficie del Corno d'Oro. I cipressi e i platani, la vista dei tetti, la tristezza del pomeriggio, le voci che venivano dal quartiere li’ sotto, le grida dei venditori e le urla dei bambini che giocavano nel cortile della moschea mi confermavano che d'ora in poi non avrei potuto vivere in un altro luogo. Per un attimo credetti che mi sarebbe apparso davanti agli occhi il viso del mio amore ormai dimenticato da anni. Scesi giu’ per il pendio. Mi mescolai alla folla. Dopo la preghiera della sera cenai in un posto dove vendevano e cucinavano fegato. Ascoltai attentamente quanto mi racconto’ il proprietario di quella bottega deserta che mi nutriva con affetto, quasi fossi un gatto, seguendo ogni mio boccone. Con l'ispirazione e le indicazioni che mi diede, quando le strade furono completamente buie, presi una delle viuzze dietro al Mercato degli Schiavi e trovai il caffe’. Dentro era caldo e affollato. Il cantastorie - ne avevo visto di simili a Tabriz e nelle altre citta’ della Persia, ma li’ li chiamano «custodi del sipario» - si era sistemato su un palchetto vicino al camino e aveva appeso un solo disegno, il disegno di un cane fatto in fretta ma con abilita’ su carta grezza, e raccontava la sua storia per bocca di quel cane, indicandolo di tanto in tanto.
Capitolo terzo. Io, il cane Come vedete, le mie zanne sono talmente lunghe e appuntite che mi stanno a malapena in bocca. So che questo mi conferisce un aspetto spaventoso ma mi piace. Una volta, vedendo quanto erano grandi le mie zanne, un macellaio ha detto: «Be', ma questo non e’ un cane, e’ un maiale». Lo morsi talmente forte a una gamba da sentire sotto i denti la durezza del femore, li’ dove finiva la sua carne grassa. Per un cane non c'e’ nulla di cosi’ piacevole come affondare i denti con furiosa e spontanea rabbia nella carne di uno schifoso nemico. Quando mi si presenta un'occasione del genere, quando la mia vittima mi passa accanto con quell'aria stupida da meritarsi un morso, perdo il controllo per il piacere, mi battono i denti e senza rendermene conto comincio a emettere spaventosi ringhi di gola. Sono un cane, e voi che non siete creature ragionevoli quanto me dite che un cane non parla. D'altra parte, sembra che diate credito a una storia in cui a parlare sono i morti e i protagonisti usano parole che non conoscono. I cani parlano, ma solo a chi sa ascoltarli. C'era una volta un predicatore maleducato che veniva da una citta’ di provincia, e giunse in una delle piu’ grandi moschee, diciamo quella di Beyazit. Forse non bisognerebbe svelarne il nome, diciamo che si chiamava Maestro Husret, ma altre bugie non ne possiamo dire, e quest'uomo aveva la testa dura. Aveva poco sale in zucca ma molta forza nella lingua, che Dio lo benedica. Ogni venerdi’ infervorava la comunita’ da farla piangere talmente tanto che c'era chi, con gli occhi ormai prosciugati, perdeva i sensi o si sentiva male. Ma, mi raccomando non fraintendete, lui non piangeva affatto come gli altri predicatori dalla lingua tagliente, al contrario, mentre tutti piangevano lui non batteva ciglio e continuava a parlare con maggior vigore, come se stesse redarguendo l'intera comunita’. Tutte le guardie imperiali, i paggi del Palazzo del sultano, i venditori di helva, la plebaglia e molti suoi colleghi predicatori gli erano profondamente devoti. Certo, lui non era mica un cane, era un essere umano rotto a ogni esperienza, ma davanti a questa folla di devoti usci’ di senno, e vedendo che terrorizzare la gente gli dava lo stesso gusto che farla piangere, e oltretutto gli faceva guadagnare piu’ pane, comincio’ a esagerare dicendo che: «L'unico motivo del prezzo pagato alla peste e alle sconfitte era il fatto che avevamo dimenticato l'Islam dei tempi del Profeta Maometto e credevamo ad altri libri e a bugie ritenendoli parte dell'Islam. Ai tempi del Profeta Maometto si usava forse far cantare il poema che narra della nascita del Profeta? Si usava forse celebrare i funerali quaranta giorni dopo il decesso e preparare helva e frittelle per l'anima del defunto? Ai tempi del Profeta Maometto si usava forse salmodiare il Santo Corano come una canzone? Si usava forse salire sui minareti e chiamare alla preghiera con tono arrogante, civettando come una femmina, e dire: «Che bella voce che ho, e poi il mio arabo e’ come quello di un vero arabo?» Vanno sulle tombe e supplicano, sperano in un aiuto da parte dei defunti, vanno presso i sepolcri e ne venerano le pietre come i pagani, ci attaccano pezzi di stoffa, fanno voti. Ai tempi del Profeta Maometto vi erano forse dervisci che insegnavano cose del genere? Ibn Arabi, il mentore dei dervisci, commise peccato perche’ giuro’ che il Faraone fosse morto nella fede. I dervisci, i mevlevi, gli halveti, i kalenderi, coloro che leggono il Santo Corano accompagnandosi con il suono di strumenti, coloro che danzano
in compagnia dei fanciulli sostenendo di pregare, sono tutti infedeli. Perche’ in questi luoghi si possa tornare a pregare bisogna demolire i conventi dervisci, bisogna scavare per una profondita’ di sette arsin e gettare in mare la terra». Ormai con la bava alla bocca, Maestro Husret continuava: «Credenti, bere caffe’ e’ sacrilegio. Il nostro Profeta sapeva che il caffe’ intorpidisce la mente, buca lo stomaco, fa venire l'ernia e rende sterili, aveva capito che era un prodotto di Satana e non ne beveva. E poi ormai le sale da caffe’ sono luoghi dove chi e’ in cerca di piacere e i ricchi lussuriosi siedono vicini per compiere ogni tipo di spudoratezza; in realta’, prima dei conventi dervisci bisognerebbe chiudere quelle sale. I poveri hanno forse i soldi per bere caffe’? Vanno li’, tracannano caffe’ e poi perdono il controllo tanto da pensare che i cani possano parlare e ascoltare; cosa ci si puo’ aspettare da un cane, bestemmia contro di me e contro la nostra religione?» Con il vostro permesso, vorrei rispondere all'ultima osservazione del signor predicatore. Tutti sapete che questi santonimaestri-predicatori-imam non amano i cani. Credo che dipenda dal fatto che il Profeta Maometto taglio’ le falde del suo abito per non svegliare un gatto che ci si era addormentato sopra. Ricordando che analogo riguardo a noi non era stato mostrato e per l'interminabile guerra tra noi e i gatti - che anche l'uomo piu’ stupido sa che non hanno la minima riconoscenza - si e’ soliti affermare che Maometto, apostolo e profeta di Allah, fosse nemico dei cani. Non ci fanno entrare nelle moschee perche’ vanifichiamo l'effetto purificatore delle abluzioni, e le botte che da secoli ci prendiamo nei cortili delle moschee con i grandi manici delle scope dei custodi sono il risultato di quest'interpretazione errata e maligna. Vorrei ricordarvi una delle piu’ belle sure del Santo Corano, la Sura della Caverna, non perche’ in questa bella sala ci siano miscredenti che non leggono il Santo Corano, ma per rinfrescarvi la memoria. In questa sura si narra di sette giovani che, stufi di vivere tra gli infedeli, si rifugiarono in una caverna e si misero a dormire. Dio tappo’ loro le orecchie e li fece dormire per trecentonove anni esatti. Quando si risvegliarono, uno di loro, mescolatosi nuovamente alla gente, comprese quanti anni fossero trascorsi perche’ il denaro che possedeva era ormai fuori corso, e si stupi’. Mi permetto di ricordarvi che nel diciottesimo versetto di questa sura che parla del legame tra il figlio dell'uomo e Allah, dei suoi miracoli, della contingenza del tempo, della dolcezza di un sonno profondo, si racconta anche di Eshabi Kehf, il cane accucciato sulla soglia della caverna dove dormivano i sette giovani. Certo, chiunque sarebbe orgoglioso di essere nominato nel Santo Corano. Io come cane mi vanto di questa sura e spero che faccia ragionare gli abitanti di Erzurum che chiamano i nemici «cani vagabondi». Allora, da cosa dipende questa ostilita’ nei confronti dei cani? Perche’ dite che il cane e’ sporco? Perche’, seguendo i dettami imposti dalla nostra religione a chi voglia purificarsi, quando un cane entra in casa lavate ovunque per ben tre volte? Perche’ toccarci vanifica le sacre abluzioni? Perche’ se le falde del vostro caftano sfiorano i peli umidi di un cane bisogna poi lavarlo sette volte come farebbe una donna isterica? La fandonia secondo cui la pentola leccata da un cane va gettata o rifatta stagnare possono averla inventata solo gli stagnini. O forse i gatti. Noi cani siamo diventati sporchi quando avete abbandonato i villaggi, le campagne e la vita nomade per venire in citta’ e i cani da pastore sono rimasti in campagna. Prima dell'Islam uno dei dodici mesi era quello del cane e adesso cane vuol dire malaugurio. Amici, questa sera non voglio rattristarvi con le mie pene, amici che volete ascoltare una storia e trarne una lezione, la mia rabbia e’ dovuta al signor predicatore che diffama le nostre sale. E se vi dicessi che non si conosceva neanche il padre di questo Husret di Erzurum? Voi direste, sei veramente un cane, il tuo padrone e’ un cantastorie, e tu per proteggerlo, pussa via, diffondi malignita’ sul signor predicatore. Allah non voglia! Io non maligno su di lui. A me piacciono molto le nostre sale da caffe’. Sapete che non mi dispiace venire disegnato su un foglio cosi’ a buon mercato o essere un cane, ma mi dispiace non potermi sedere come voi uomini, e bermi un caffe’ con voi. Noi andiamo pazzi per il caffe’ e per le sale da caffe’... Ma cos'e’... Guarda, il mio padrone mi offre il caffe’ dal pentolino. Che dite, un disegno puo’ bere il caffe’? Guardate, guardate, il cane beve il caffe’ con la lingua. Ooh, mi ha fatto bene, mi ha riscaldato, mi ha rafforzato la vista, mi ha reso piu’ acuto e sentite cosa mi e’ venuto in mente. Sapete che cosa aveva inviato in dono il Doge di Venezia alla Sultana Nurhayat, figlia del Nostro Eccellente Sultano, oltre a rotoli e rotoli di sete cinesi e vasi di ceramica a fiori blu? Una civettuola cagnetta cristiana dal manto di seta, piu’ morbido dello zibellino. Questa cagnetta era talmente delicata che aveva anche un abitino di seta rossa. Lo so perche’ un mio amico se l'e’ scopata, e lei non si e’ tolta l'abitino neanche in quell'occasione. In Occidente tutti i cani indossano abiti del genere. E si racconta che una signora occidentale, presumibilmente molto fine, vedendo un cane nudo o il coso del cane, non so, esclamo’: «Ah, un animale nudo!» e perse i sensi. Dicono che nel paese degli infedeli occidentali ogni cane ha un padrone e questi poveri cani vengono condotti a passeggio per le strade trainati con una catena al collo, incatenati come gli schiavi piu’ miserabili. Poi gli uomini li costringono a entrare in casa e se li portano addirittura a letto. I cani non possono annusarsi e fare l'amore, e non possono neanche andare a passeggio in due. E quando si incontrano con questo aspetto miserabile, con catene dappertutto, possono solo guardarsi da lontano con gli occhi tristi. Gli infedeli non arrivano a comprendere che noi siamo cani che girano in branco per le strade di Istanbul, in comunita’, liberi, non riconosciamo padroni e, se necessario, fermiamo la gente per strada, ci mettiamo negli angoli caldi che ci piacciono, dormiamo profondamente all'ombra, cachiamo dove vogliamo e mordiamo chi vogliamo. Mi e’ venuto da pensare che i sostenitori del predicatore di Erzurum fossero contrari al fatto che la gente, pregando, gettasse carne ai cani come elemosina, che si costituissero a proposito delle pie fondazioni. Se questi, oltre a essere nemici dei cani, hanno anche intenzione di comportarsi crudelmente, vi faccio presente che gia’ essere nemici dei cani e’ crudelta’. Spero che quando questi vigliacchi, di qui a breve, verranno giustiziati, gli amici boia, come fanno a volte per essere d'esempio, ci chiamino per darcene un pezzo
da mangiare. Vi racconto un'ultima cosa: il mio padrone di prima era una persona molto corretta, di notte andavamo a rubare e poi ci dividevamo il bottino. Io iniziavo ad abbaiare e lui tagliava la gola alla vittima, cosi’ non si sentivano le urla. In cambio del mio aiuto faceva a pezzi i colpevoli che aveva punito, li faceva bollire e me li dava da mangiare. La carne cruda non mi piace. Speriamo che il boia del predicatore di Erzurum ci pensi, cosi’ da non costringermi a mangiare cruda la carne di quel disgraziato. Potrebbe farmi male allo stomaco.
Capitolo quarto. Di me diranno che sono un assassino Se mi avessero detto che avrei fatto del male a qualcuno, anche poco prima di uccidere quello stupido, non ci avrei creduto. Percio’ quello che ho fatto si allontana da me, lento come un galeone straniero che si perde all'orizzonte. A volte mi sento come se non avessi mai ucciso. Sono passati quattro giorni da quando senza volere ho assassinato il povero fratello Raffinato e mi sono gia’ un po' abituato alla situazione. Avrei davvero voluto risolvere quel disgustoso e improvviso problema senza uccidere, ma mi sono subito reso conto che non c'era altra via d'uscita. Ho risolto la questione li’ per li’, e me ne sono assunto ogni responsabilita’. Non ho permesso che sconsiderate calunnie mettessero in pericolo tutta la comunita’ dei miniaturisti. Comunque e’ difficile abituarsi a essere un assassino. Non riesco a stare in casa, vado in strada, non riesco a stare per strada, ne prendo un'altra, poi da quella cammino verso un'altra ancora e quando guardo in faccia le persone vedo che molte di loro si reputano innocenti perche’ non hanno ancora avuto occasione di uccidere. difficile credere che la maggior parte delle persone siano piu’ oneste o piu’ buone di me solo per questa piccola questione di fortuna o destino. In ogni modo, dato che non hanno commesso ancora un omicidio, hanno l'espressione un po' stupida e come tutti gli stupidi sembrano dei bonaccioni. Dopo aver ucciso quel poveretto, mi e’ bastato camminare quattro giorni per le strade di Istanbul per capire che tutti quelli che hanno uno sprazzo di intelligenza negli occhi e un'ombra d'anima in volto sono potenziali assassini. Solo gli stupidi sono innocenti. Stasera ad esempio, ero nella sala dietro il Mercato degli Schiavi, mi stavo scaldando con un caffe’ bollente e guardavo il disegno del cane, ridevo per le cose che raccontava il cane e mi lasciavo andare insieme agli altri, e ho avuto la sensazione che il tipo seduto accanto a me fosse anche lui un assassino. Anche lui, come me, riusciva a ridere del cantastorie, non so se per il suo braccio tranquillo accanto al mio, o per l'inquietudine delle sue dita nervose che tenevano la tazzina, ma ho pensato che anche lui appartenesse alla mia razza, e all'improvviso mi sono voltato e ho iniziato a fissarlo negli occhi. Ha avuto subito paura, aveva un'espressione sconvolta. Mentre la sala si svuotava, un tale l'ha preso per un braccio e gli ha detto: «Gli uomini di Maestro Nusret faranno irruzione qui». Lui l'ha zittito con lo sguardo. Mi hanno trasmesso la loro paura. Nessuno si fida piu’ di nessuno, tutti si aspettano in ogni momento di essere traditi. Fa ancora piu’ freddo, gli angoli delle strade e i muri sono coperti di neve. Nel buio pesto il mio corpo trova da solo la strada tra i vicoli. Ogni tanto la luce fioca di un lume ancora acceso filtra dalle persiane ben chiuse di una casa, dalle finestre coperte di legno scuro e si riflette sulla neve, ma per lo piu’ non si vede nulla e procedo ascoltando il battere dei bastoni delle ronde sul selciato, l'ululato dei branchi di cani idrofobi, i lamenti che provengono dalle case. A notte fonda, a volte, i terribili vicoli della citta’ si illuminano di una luce meravigliosa che pare provenire dalla neve e nel buio, tra alberi e rovine, mi sembra di vedere i fantasmi che da secoli rendono Istanbul misteriosa. In certi momenti, dalle case giunge il mormorio degli infelici; tossiscono senza posa o tirano su col naso, mariti e mogli urlano e gemono nel sonno mentre i figli piangono accanto a loro e tentano di strangolarsi a vicenda. Per ricordare quanto fosse felice la mia vita prima di diventare un assassino, per rallegrarmi, sono venuto per un paio di sere in questo caffe’ ad ascoltare il cantastorie. La maggior parte dei miei fratelli miniaturisti con cui ho trascorso tutta la vita, sempre insieme, ci viene ogni sera. Da quando ho massacrato uno stupido con cui ho cominciato a disegnare da bambino non ho piu’ voglia di vedere nessuno di loro. Nella vita dei miei fratelli, che quando si vedono non possono fare a meno di fare pettegolezzi, nell'atmosfera di ignobile divertimento che aleggia in questo posto, ci sono tante cose che mi fanno vergognare. Ho fatto qualche disegno per il cantastorie perche’ loro non pensassero che ho la puzza sotto il naso e non facessero insinuazioni, ma non credo che questo basti ad arginare l'invidia. Eppure hanno ragione a essere invidiosi. Perche’ sono io il piu’ bravo a mescolare i colori, a tracciare i contorni, a comporre le pagine, a scegliere i soggetti, a disegnare i volti, a sistemare gli affollati consigli di guerra e di caccia, a disegnare animali, sultani, navi, cavalli, guerrieri e innamorati, a instillare la poesia dell'anima nella miniatura come nella doratura. Non lo dico per vantarmi ma perche’ mi comprendiate. Con il tempo, nella vita di un bravo miniaturista l'invidia diventa un materiale indispensabile, come i colori. Nel corso delle mie inquiete camminate, ormai sempre piu’ lunghe, lo sguardo incrocia quello di uno dei miei correligionari, il piu’ innocente, il piu’ ingenuo, e improvvisamente mi viene questo strano pensiero: se adesso penso di essere un assassino, l'uomo che ho di fronte lo capira’ dalla mia faccia. Cosi’ mi sforzo di pensare ad altro, proprio come facevo nei primi anni della mia giovinezza quando pregavo per non pensare alle donne, e mi contorcevo per la vergogna. Ma contrariamente a quanto mi capitava durante quelle crisi
giovanili in cui non riuscivo ad allontanare il pensiero dell'accoppiamento, riesco a dimenticare l'omicidio che ho commesso. Sappiate che vi racconto tutto questo perche’ sono cose che riguardano la mia situazione. Basterebbe che mi facessi venire in mente un solo dettaglio legato all'omicidio, e capireste tutto. E questo mi impedirebbe di essere un assassino senza nome e senza identita’ che si aggira tra di voi come un fantasma, mi porterebbe a essere un colpevole qualunque che si e’ fatto beccare, un volto visibile, un uomo da decapitare. Se permettete non vi rivelero’ tutto, se permettete terro’ alcune cose per me. E persone fini come voi cercheranno di scoprire chi sono dalle mie parole e dai miei colori, come se guardassero le impronte per trovare il ladro. E questo ci porta al nocciolo della questione, adesso molto in voga, lo stile. Il miniaturista ha un suo stile personale, un suo colore, una voce? Li deve avere? Prendiamo ad esempio un disegno di Behzat, il maestro dei maestri, il capostipite dei miniaturisti. Era la scena di un omicidio - cosa che corrisponde alla mia situazione - avevo trovato questa meraviglia nelle pagine che narrano la storia di Cosroe e sirin. Ci erano voluti novant'anni per istoriare quel libro, era stato prodotto a Herat e proveniva dalla biblioteca di un principe persiano rimasto vittima di una spietata lotta per il trono. Voi sapete la fine che hanno fatto Cosroe e sirin, intendo quella raccontata da Nizami, non da Firdusi. Dopo tante avventure e tante traversie, i due innamorati finalmente si sposano, ma il giovane Siruye, figlio di primo letto di Cosroe, e’ un vero demonio, e non li lascia in pace. Il principe desidera ardentemente il trono e sirin, la giovane moglie del padre. Siruye, che secondo Nizami «aveva l'alito fetido come quello dei leoni», trova il modo di rendere schiavo il padre e sale al trono. Una notte entra nella stanza dove il padre dorme con sirin, li cerca a tentoni nel buio e pugnala il padre al cuore. Il sangue del padre scorre fino all'alba, e questi muore nel letto che divide con la bella sirin, ignara di tutto, accanto a lui. Il disegno del grande Maestro Behzat illustra anche la vera paura che mi porto dentro da anni, come questa storia. Il terrore di svegliarmi nel cuore della notte e accorgermi della presenza di un'altra persona da minimi scricchiolii nella stanza completamente buia! Immaginate che questa persona abbia in una mano un pugnale e con l'altra stia per strangolarvi. I muri della stanza con i loro disegni sottili, gli ornamenti delle finestre e degli infissi, le pieghe del tappeto, scarlatto come l'urlo strozzato che esce silenzioso dalla vostra gola e i fiori gialli e viola ricamati con allegra e indicibile finezza sulla splendida trapunta che il vostro assassino calpesta spietatamente con i piedi scalzi e schifosi mentre vi uccide, hanno il medesimo scopo. Mentre da una parte sottolineano la bellezza del disegno che state guardando, dall'altra vi fanno ricordare quanto sono belli la stanza in cui state morendo, e il mondo che state abbandonando. L'indifferenza della bellezza del disegno e del mondo nei confronti della vostra morte, il fatto di essere totalmente soli mentre morite anche se avete accanto vostra moglie sono la vera chiave di interpretazione che vi trasmette la miniatura. L'anziano maestro che vent'anni prima aveva guardato insieme a me il libro tra le mie mani tremanti aveva detto: «di Behzat». Il suo volto non si era illuminato per la luce della candela che avevamo accanto ma per il piacere di vederlo. «chiaramente di Behzat, non serve la firma». E Behzat, che lo sapeva, non aveva apposto la firma neanche in un angolo nascosto del disegno. Secondo l'anziano maestro, questo comportamento di Behzat rivelava timidezza e imbarazzo. La vera maestria, la vera abilita’ e’ disegnare una meraviglia inarrivabile e non lasciare un segno che sveli l'identita’ del miniaturista. Ho ucciso la mia povera vittima con un metodo ordinario e grossolano, inventato grazie a una reazione scatenata dalla paura della morte. Le questioni di stile hanno cominciato a venirmi in mente sempre piu’ spesso ogni volta che, di notte, vengo tra queste rovine per verificare se sia rimasta qualche traccia che possa far scoprire il mio misfatto. Quello che chiamano stile e’ solo un errore che consente di lasciare un segno personale. Avrei trovato questo posto anche senza il bagliore della neve che cade. Tra queste rovine ho ucciso chi mi era amico da venticinque anni. La neve ha coperto ogni traccia che potrebbe essere interpretata come mia firma. Questo dimostra che, per quanto riguarda la questione dello stile e della firma, anche Allah e’ d'accordo con me e con Behzat. Quattro notti fa, se avessimo commesso insieme un peccato imperdonabile, anche senza rendercene conto, come sosteneva quello stupido, illustrando il libro, Allah non avrebbe dimostrato questo affetto a noi miniaturisti. Quella notte, quando con Raffinato Effendi siamo arrivati tra queste rovine, ancora non nevicava. Sentivamo l'eco lontano degli ululati dei cani. «Perche’ siamo venuti qui? - domandava il poveretto. - Cosa mi vuoi far vedere a quest'ora?» «Piu’ avanti c'e’ un pozzo, a dodici passi da li’ ho sepolto i miei risparmi di anni, - risposi. - Se non dici a nessuno tutto quello che ti ho raccontato, io e Zio Effendi ti accontenteremo». «Allora ammetti di essere conscio di quanto stavi facendo fin dall'inizio...», disse con entusiasmo. «Lo ammetto», gli mentii inevitabilmente. «Sai che i vostri disegni sono un grave peccato? - disse con aria innocente. - una bestemmia, un'eresia. Brucerete all'inferno. I vostri dolori, le vostre pene non avranno fine. Avete coinvolto anche me». Mentre ascoltavo queste parole capivo con terrore che molte persone gli avrebbero creduto. Perche’? Perche’ queste parole avevano una tale forza, un tale fascino da risultare naturalmente attraenti e da far venire la voglia di scoprire gli altri traditori. Il fatto che il libro a cui stava lavorando fosse cosi’ segreto, i soldi che spendeva, avevano gia’ suscitato pettegolezzi di questo genere su Zio Effendi. Inoltre anche Maestro Osman, il capo miniaturista, lo odiava. Pensai che, pur sapendo bene che quanto diceva era una calunnia, il fratello doratore l'aveva messa volontariamente tra queste realta’. Quanto era sincero? Gli chiesi di ripetere le affermazioni che ci avevano fatto litigare. Non si dilungo’ e fu molto chiaro. Sembrava che mi invitasse a coprire una colpa per salvarci dalle botte di Maestro Osman come quando eravamo apprendisti. In quel
momento non trovavo credibile la sua sincerita’. Anche quando era solo un apprendista sbarrava gli occhi in questo modo, ma allora non erano ancora diventati cosi’ piccoli per via del lavoro di doratura. Mi sforzai di non provare affetto per lui, era pronto a spifferare tutto. «Guarda, - gli dissi con forzato distacco. - Facciamo dorature, troviamo ornamenti per i bordi delle pagine, tracciamo contorni, abbelliamo le pagine e le facciamo brillare con oro vivo, siamo noi a fare i disegni piu’ belli e rallegriamo cassapanche e armadi. Lo facciamo da anni. il nostro lavoro. Ci ordinano disegni, dicono in quella cornice mettici una nave, una gazzella, un sultano, che vi siano uccelli cosi’, uomini come questo, quella parte della storia stia cosi’, o il tale stia cosi’, e noi eseguiamo. Guarda, questa volta Zio Effendi mi ha detto: «Qui disegna un cavallo come ti viene da dentro». Per capire quale fosse il disegno di cavallo che mi veniva da dentro, ho disegnato centinaia di cavalli, per tre giorni, come gli antichi grandi maestri». Tirai fuori una serie di disegni di cavalli che avevo fatto su un foglio grezzo di carta di Samarcanda e glieli mostrai. Lo interessavano, prese in mano il foglio e se lo avvicino’ agli occhi e, alla luce fioca della luna, comincio’ a contemplare i cavalli bianchi e neri. «I maestri di Shiraz, di Herat, - gli dissi, - sostenevano che per poter fare un vero disegno di cavallo come vuole e come lo vede Allah, il miniaturista deve disegnare ininterrottamente cavalli per cinquant'anni; aggiungevano inoltre che il disegno migliore si fa al buio. Perche’ il vero miniaturista, in cinquant'anni di lavoro diventa cieco e la mano impara a memoria il cavallo che disegna». Lo sguardo innocente che conoscevo sul suo volto da quando eravamo bambini era immerso nei cavalli che avevo disegnato. «A noi danno ordini e noi cerchiamo di disegnare come i vecchi maestri il piu’ segreto, il piu’ irraggiungibile dei cavalli e basta. Non e’ giusto ritenerci responsabili di quanto ci viene ordinato». «Non so se sia giusto, - disse. - Anche noi abbiamo responsabilita’, forza di volonta’. Io temo solo Allah. E Allah ci ha dato l'intelligenza perche’ distinguessimo il bene dal male». Era una risposta giusta. «Allah vede e sa tutto... - gli dissi in arabo. - Capira’ anche che io, tu, noi facciamo questo lavoro senza sapere. A chi denuncerai Zio Effendi? Non credi che dietro questa faccenda ci sia la volonta’ del Nostro Eccellente Sultano?» Rimase in silenzio. Pensai: e’ veramente cosi’ stupido, o dice queste assurdita’ perche’ ha perso la calma, per sincero timore di Allah? Ci fermammo vicino al pozzo. Al buio, per un istante, vidi i suoi occhi e capii che aveva paura. Mi fece pena. Ma ormai avevo scoccato la mia freccia. Pregai Allah perche’ mi dimostrasse ancora una volta che l'uomo che avevo davanti non era solo un pavido stupido, ma anche un vile. «Dodici passi da qui e scaverai», gli dissi. «E tu cosa farai?» «Diro’ a Zio Effendi di bruciare i disegni. Che altro possiamo fare? Se quelli della comunita’ di Maestro Nusret di Erzurum vengono a saperlo, non risparmieranno ne’ noi ne’ il laboratorio di miniatura. Conosci qualcuno di loro? Adesso accetta questi soldi perche’ io sia certo che non ci denuncerai». «Dove si trova il denaro?» «Ci sono settantacinque monete d'oro veneziane in un vecchio vaso di sottaceti». Passi per i ducati, ma come mi era venuto in mente il vaso di sottaceti? Era talmente assurdo che risulto’ credibile. Cosi’ capii ancora una volta che Allah mi era vicino, perche’ il mio amico d'infanzia, ogni anno piu’ avido di denaro, entusiasta, aveva gia’ cominciato a contare dodici passi nella direzione che gli avevo indicato. In quell'istante avevo due cose in mente. Sotto terra non ci sono assolutamente ducati veneziani! Se non riesco a dargli i soldi questo stupido vigliacco ci distruggera’! Per un istante volli abbracciare e baciare quello stupido vigliacco come facevo ai tempi in cui eravamo insieme a bottega, ma gli anni ci avevano talmente allontanato! Pensavo a come scavare la terra. Con le unghie? Pensare tutto questo, non so se lo si puo’ chiamare pensare, duro’ meno di un batter d'occhio. In fretta e furia afferrai con entrambe le mani un masso accanto al pozzo. Lo raggiunsi quando era ancora al settimo o all'ottavo passo e glielo tirai in testa con tutta la mia forza. La pietra lo colpi’ cosi’ velocemente e duramente che per un attimo trasalii, come se me la fossi data io in testa, ed ebbi pieta’ di lui. Invece di dispiacermi del mio gesto, volevo finire al piu’ presto quello che avevo iniziato a fare. Perche’, una volta a terra, lui aveva cominciato a divincolarsi e la cosa mi metteva agitazione. Un bel po' dopo averlo gettato nel pozzo, riuscii a pensare che in quel che avevo fatto c'era qualcosa di grossolano; non si addiceva affatto alla delicatezza di un miniaturista.
Capitolo quinto. Io sono vostro zio Io sono lo Zio Effendi di Nero, ma anche altri mi chiamano zio. Un tempo fu la madre di Nero a volere che lui mi chiamasse cosi’, poi cominciarono a farlo tutti e non solo Nero. Nero ha cominciato a venire a casa nostra trent'anni fa, dopo che ci eravamo trasferiti dietro Aksaray, in quella strada umida e buia, all'ombra di tigli e castagni. Era la casa prima di questa. Se d'estate partivo con Mahmut Pascia’, in autunno, al mio ritorno a Istanbul, trovavo Nero e sua madre rifugiati a casa nostra. La sua compianta madre era la sorella maggiore della mia compianta moglie. A volte, nelle sere d'inverno, tornando a casa, vedevo sua madre e mia moglie abbracciate e in lacrime che parlavano dei loro problemi. Suo padre, un fallito che insegnava in piccole e remote scuole coraniche, era irascibile e rabbioso, e per di piu’ beveva.
All'epoca Nero aveva sei anni, piangeva quando piangeva la madre, smetteva quando smetteva la madre, e guardava me, suo zio, con terrore. Adesso vedermelo davanti come un nipote deciso, maturo e rispettoso, mi rende felice. Il rispetto che mi mostra, l'attenzione che ha nel baciarmi la mano, il modo in cui ha detto «e’ solo per l'inchiostro rosso», quando mi ha regalato il calamaio mongolo, la postura composta in cui mi siede davanti a ginocchia unite, tutto questo mi ricorda ancora una volta che Nero e’ un uomo adulto, come vuole essere, ma anche che io sono un uomo anziano, come voglio essere. Somiglia a suo padre, che ho visto un paio di volte: e’ alto, magro, i gesti un po' nervosi, ma gli si addicono. Il modo in cui appoggia le mani sulle ginocchia, quello sguardo che sembra dire «capisco, ascolto con rispetto» mentre io racconto qualcosa di importante, e come muove il capo in sincrono con le mie parole, sono giusti. Giunto a quest'eta’, so che il vero rispetto non scaturisce dal cuore ma dalle piccole regole e dalla sottomissione. Scoprire che gli piacevano i libri durante gli anni in cui sua madre, vedendo in casa nostra un futuro per il figlio, lo portava spesso qui con ogni scusa, ci ha uniti e - come dicono quelli che abitano nella casa - mi ha fatto da apprendista. Gli raccontavo di come i miniaturisti di Shiraz tracciassero la linea dell'orizzonte nella parte superiore del disegno dando cosi’ origine a un nuovo stile. E di come il grande Maestro Behzat non disegnasse Mejnun come fanno tutti, un pazzo che per amore della sua Leyla girovaga stravolto per i deserti, ma mentre cucina, mentre cerca di accendere un fuoco soffiando sulla legna, mentre cammina tra le tende in mezzo a una folla di donne, facendo risaltare la sua solitudine molto meglio di chiunque altro. Gli spiegavo quanto fosse ridicolo che la maggior parte dei miniaturisti che disegna il momento in cui Cosroe contempla sirin completamente nuda mentre si bagna nel lago nel cuore della notte, adoperi il colore per i cavalli e gli abiti degli innamorati in modo del tutto casuale, senza leggere il poema di Nizami, e che se un miniaturista e’ cosi’ distratto da non leggere con attenzione e intelligenza il testo che sta illustrando, l'unico motivo che lo spinge a impugnare penna e pennello non puo’ essere che il denaro. Adesso sono felice perche’ vedo che Nero ha acquisito un'altra nozione basilare: se non vuoi avere delusioni dalla miniatura e dall'arte, stai ben attento a non considerarlo un lavoro. Anche se hai talento e tanta maestria, cerca il denaro e il potere in altri campi, cosi’ da non prendertela poi con l'arte qualora non riuscissi ad avere soddisfazioni in cambio delle tue capacita’ e del tuo lavoro. Mi ha raccontato che i miniaturisti e i calligrafi di Tabriz, che conosceva uno a uno perche’ commissionava loro libri per i pascia’ e i ricchi di Istanbul e di provincia, vivevano in disperata poverta’. Molti miniaturisti, a Tabriz come a Mashhad o ad Aleppo, avevano smesso di illustrare libri perche’ poco pagati e poco apprezzati e avevano cominciato a fare disegni di una sola pagina, a disegnare stranezze e oscenita’ che divertivano i viaggiatori europei. Aveva sentito dire che il libro che Scia’ Abbas aveva regalato al Nostro Sultano, durante l'accordo di pace, a Tabriz, era stato fatto a pezzi e che le sue pagine venivano usate per farne un altro. E che il Sultano indiano Ekber aveva cominciato a spendere talmente tanto denaro per un nuovo, grande libro, che i piu’ brillanti miniaturisti di Tabriz e Kazvin avevano lasciato il proprio lavoro ed erano accorsi al suo Palazzo. Mentre racconta tutto questo, di tanto in tanto inserisce con garbo altre storie nel discorso. Mi sorride e narra la divertente storia di un falso mahdi, o descrive l'agitazione dei saffavidi per la morte, dopo tre giorni di febbri altissime, di uno stupido principe dato in ostaggio agli uzbechi in cambio della pace. Ma da un'ombra sui suoi occhi capisco che la questione che spaventa entrambi, e’ difficile parlarne, non e’ ancora conclusa. Naturalmente, anche Nero, come ogni giovane che frequentava la nostra casa o che sentiva parlare di noi, o che era al corrente, anche solo alla lontana, della sua esistenza, era innamorato della mia unica e bellissima figlia, seküre. Allora, forse, questo non era ai miei occhi qualcosa di pericoloso e a cui dare peso, dato che tutti erano innamorati della mia bellissima figlia, e molti senza averla neanche vista. Ma l'amore di Nero era l'amore disperato di un giovane che frequentava la nostra casa, che godeva della nostra ospitalita’ e del nostro affetto e che aveva occasione di vedere seküre. Non e’ stato capace di seppellire dentro di se’ il suo amore come speravo facesse, e ha commesso l'errore di confessare il violento incendio che aveva dentro direttamente a mia figlia. E cosi’ ha dovuto allontanarsi da casa nostra. Ormai anche Nero sapra’ che tre anni dopo aver lasciato Istanbul mia figlia si era sposata nel fiore degli anni con un cavaliere, un guerriero con la testa tra le nuvole che, dopo averle dato due figli maschi, e’ partito per la guerra senza piu’ tornare e da ben quattro anni nessuno ha sue notizie. Sento che sa gia’ tutto, e non perche’ questi pettegolezzi e queste notizie a Istanbul si diffondono velocemente, lo so da come mi guarda negli occhi quando restiamo in silenzio. Inoltre, in questo momento ascolta il rumore che fanno i bambini per casa, mentre da’ un'occhiata al Libro delle anime aperto sul tavolino da lettura, e sa che da due anni mia figlia e’ tornata a casa di suo padre con i figli. Con Nero non abbiamo parlato della nuova casa che ho fatto costruire durante la sua assenza. Probabilmente, come potrebbe pensare un giovane volonteroso che ha in mente di diventare ricco e stimato, Nero considera imbarazzante parlare di questi argomenti. In ogni modo, appena e’ entrato in casa, sulle scale gli ho detto che il secondo piano e’ sempre piu’ asciutto e che mi ha fatto bene per i dolori alle ossa traslocare qui. Mentre dicevo «il secondo piano» provavo uno strano imbarazzo, ma sappiate che chiunque, persone con molti meno soldi di me, anche i semplici cavalieri dotati di un piccolo feudo, presto potranno farsi costruire una casa a due piani. Eravamo nella stanza che d'inverno uso come studio. Ho intuito che Nero sentiva la presenza di seküre nella camera accanto. Ho affrontato l'argomento di cui avevo gia’ parlato nella lettera che gli avevo mandato a Tabriz per chiamarlo a Istanbul. «Proprio come facevi tu con i miniaturisti e i calligrafi a Tabriz, anch'io commissiono un libro, - gli ho detto. - Il mio committente e’ il Nostro Eccellente Sultano, fondamento dell'Universo. Trattandosi di un libro segreto, il Nostro Sultano ha fatto predisporre un fondo segreto dal Capo Tesoriere. Ho preso accordi con tutti i piu’ bravi miniaturisti del
laboratorio del Nostro Sultano. A uno faro’ disegnare un cane, a un altro un albero, a uno gli ornamenti dei bordi e le nuvole all'orizzonte e a un altro ancora i cavalli. Voglio che questi disegni, proprio come i dipinti dei maestri veneziani, rappresentino tutto il mondo del Nostro Sultano. Ma non illustreranno le ricchezze terrene del Nostro Sultano, come farebbero i veneziani, bensi’ la sua ricchezza interiore, le gioie e le paure del suo mondo. Se c'e’ il denaro e’ per disprezzarlo e se ci sono Satana e la Morte e’ perche’ li temiamo. Non so cosa dicano i pettegoli. Voglio che a rappresentare il Nostro Eccellente Sultano e il suo mondo siano l'immortalita’ degli alberi, la stanchezza dei cavalli, la sfrontatezza dei cani. Voglio che i miei miniaturisti, che portano i soprannomi di Cicogna, Oliva, Raffinato e Farfalla, scelgano l'argomento come piu’ piace loro. Anche nelle piu’ fredde notti d'inverno, le piu’ iellate, un miniaturista del mio sultano viene di nascosto a farmi vedere quello che ha disegnato per il libro. «Che tipo di disegni sono e perche’ sono fatti cosi’, per adesso non te lo posso dire precisamente. Non perche’ te lo voglia nascondere, o non te lo possa dire. Perche’ sembra che anch'io non sappia esattamente cosa raccontano i disegni. Ma so come dovrebbero essere». Avevo saputo dal barbiere della via dove abitavamo prima, che quattro mesi dopo aver ricevuto la mia lettera Nero era tornato a Istanbul, e cosi’ l'avevo invitato a casa. Sapevo che nella mia storia c'erano un dispiacere e una speranza di felicita’ che ci avrebbero uniti. «Ogni disegno racconta una storia, - proseguii. - Per rendere bello il libro che leggiamo, il miniaturista disegna la scena piu’ bella della storia. Il primo incontro degli innamorati, l'eroe Rüstem che taglia la testa del diabolico mostro, il dolore di Rüstem quando comprende che lo straniero che ha ucciso e’ il figlio, Mejnun impazzito per amore tra leoni, tigri, cervi e sciacalli, la tristezza di Alessandro Magno nel vedere la sua beccaccia fatta a pezzi da un'aquila gigantesca nel bosco dove era andato a trarre auspici dal volo degli uccelli prima di partire per la guerra... I nostri occhi che si stancano a leggere le storie si riposano osservando i disegni. Se c'e’ qualcosa che la nostra mente e la nostra immaginazione hanno difficolta’ a realizzare, il disegno corre subito in aiuto. Il disegno e’ la fioritura a colori della storia. Nessuno puo’ pensare un disegno che non abbia storia. «Credevo che non si potesse pensare, - ho aggiunto quasi pentito. - Ma poi ho visto che e’ possibile. Due anni fa sono stato di nuovo a Venezia, come ambasciatore del Nostro Sultano. Guardavo continuamente i ritratti fatti dai grandi maestri italiani. Senza sapere a quale scena di quale storia appartenesse il personaggio ritratto, ma cercando di capire e indovinare. Un giorno sono rimasto attonito di fronte a un dipinto sul muro di un palazzo». «Era il ritratto di un uomo, di uno come me. Un infedele naturalmente, non uno come noi. Mentre lo guardavo, sentivo di assomigliargli. In realta’ non mi assomigliava affatto. Un volto senza ossa, rotondo, non c'erano zigomi ne’ tracce del mio mento enorme. Non mi assomiglia affatto, ma chissa’ perche’, quando lo guardavo mi faceva battere il cuore. «Seppi dal signore veneziano che mi fece visitare il suo palazzo, che il ritratto appeso al muro era quello di un suo amico, un nobile come lui. Aveva fatto mettere nel proprio ritratto tutto quello che aveva di importante nella vita: la fattoria nel panorama che si vedeva dalla finestra aperta alle sue spalle, il villaggio e un bosco che sembrava vero con tutti i colori mescolati. Sul tavolo, davanti a se’, aveva l'orologio, i libri, il Tempo, il Male, la Vita, la matita, la carta geografica, la bussola, scatole di monete d'oro, gingilli, altri oggetti che non conoscevo ma intuivo come in tanti disegni, chissa’... L'ombra del genio, di Satana, e poi la sua bellissima figlia, un sogno, accanto al padre. «Quale storia si voleva abbellire e completare con questo disegno? Mentre lo guardavo, capivo che la storia di questo ritratto era lui stesso. Il ritratto non era il proseguimento di una storia, era una cosa a se’. «Non riuscivo a togliermi dalla testa il dipinto davanti al quale ero rimasto cosi’ colpito. Uscii dal palazzo, tornai nella casa dove ero ospite e ci pensai per tutta la notte. Avrei voluto essere dipinto anch'io cosi’. No, non posso osare tanto, e’ il Nostro Sultano che deve essere ritratto cosi’! Bisogna ritrarre il Nostro Sultano con quello che possiede, insieme a tutte le cose che mostrano e circondano il suo mondo. Pensai che con questa idea si potesse illustrare un libro. «Il maestro italiano aveva ritratto il signore veneziano in modo da far capire subito che il disegno rappresentava quel signore. Anche senza conoscere quell'uomo, se ti dicessero di trovarlo in mezzo alla folla, grazie al ritratto potresti riconoscerlo tra migliaia di persone. I maestri italiani hanno scoperto il modo e l'arte di dipingere che differenziano un uomo qualsiasi dagli altri mettendo in evidenza la forma del volto, non i vestiti e le medaglie. Questo e’ cio’ che chiamano ritratto. «Una volta che il tuo volto e’ stato dipinto cosi’, non puoi piu’ essere dimenticato. Anche se sei molto lontano, chi guarda il tuo ritratto ti sente dentro come se fossi vicino. E tutti coloro che non ti hanno mai visto quando eri in vita, anni dopo la tua morte, potranno guardarti negli occhi come se tu fossi davanti a loro». Siamo rimasti a lungo in silenzio. Dalla parte superiore della piccola finestra che dava sulla strada filtrava una luce da brivido, aveva il colore del freddo che c'era fuori. Era la finestra che avevo ricoperto da poco di tela cerata, quella di cui non aprivamo mai le persiane inferiori. «C'era un miniaturista, - gli ho detto. - Veniva da me di nascosto, come gli altri miniaturisti, e lavoravamo fino all'alba a questo libro segreto del Nostro Sultano, era quello che faceva le dorature migliori. Povero Raffinato Effendi, una notte e’ uscito di qui e non e’ piu’ tornato a casa. Ho paura che il mio doratore piu’ esperto sia stato eliminato».
Capitolo sesto. Io, Orhan
«Lo avranno ucciso?», domando’ Nero. Era alto, magro e faceva un po' paura questo Nero. Stavo andando verso di loro quando il nonno disse: «Si’, lo avranno ucciso, - e mi vide. - Cosa ci fai tu qui?» Mi guardava in modo tale che, senza imbarazzo, andai a sedermi sulle sue ginocchia, ma mi fece scendere subito. «Bacia la mano a Nero», disse. Gli baciai la mano. Non aveva odore. «Molto carino, - disse Nero e mi bacio’ sulla guancia. - Da grande diventera’ forte come un leone». «Questo e’ Orhan, ha sei anni. Ce n'e’ un altro piu’ grande, sevket, ha sette anni ed e’ molto testardo». «Sono andato in quella via ad Aksaray, - continuo’ Nero. - Faceva freddo, c'erano neve e ghiaccio dappertutto, ma era come se non fosse cambiato niente». «cambiato tutto, si e’ rovinato tutto, - disse mio nonno. - E anche tanto». Si giro’ verso di me. «Dov'e’ tuo fratello?» «con il maestro». «E tu che fai qui?» «Il maestro mi ha detto «bravo, tu puoi andare»». «Hai fatto la strada da solo? - disse mio nonno. - Ti deve accompagnare tuo fratello». Poi si rivolse a Nero: - Ho un amico rilegatore, vanno da lui due volte alla settimana dopo la scuola coranica, lavorano come apprendisti, imparano a rilegare. «Ti piace fare le miniature come tuo nonno?», mi chiese Nero. Rimasi in silenzio. «Va bene, - disse mio nonno. - Dai, adesso vai». Il caldo del braciere era cosi’ piacevole che non volevo andarmene. Mi fermai un attimo ad annusare l'odore di colla e vernice. Sentivo anche profumo di caffe’. «Disegnare in un altro modo, vuol dire vedere in un altro modo? - disse mio nonno. - Per questo motivo hanno ucciso il povero doratore. E poi lui faceva dorature alla vecchia maniera. Non so neanche esattamente se e’ stato ucciso o se e’ soltanto scomparso. Quelli che lavorano alle dipendenze del capo miniaturista, Maestro Osman, stanno illustrando un surname (1) per il Nostro Sultano. Lavorano tutti a casa. Maestro Osman e’ al laboratorio. Voglio che tu vada li’ a vedere con i tuoi occhi. Temo anche che gli altri abbiano litigato tra di loro e si siano uccisi. I soprannomi che ha dato loro anni fa il capo miniaturista sono Farfalla, Oliva, Cicogna... Vai a trovarli nelle loro case...» Invece di scendere per le scale tornai indietro. Dalla stanza con l'armadio a muro dove dormiva Hayriye proveniva un ticchettio, entrai. Non c'era Hayriye ma mia madre. Vedendomi si imbarazzo’. Meta’ del suo corpo era dentro l'armadio. «Dov'eri?», domando’. Ma sapeva benissimo dov'ero. Dentro l'armadio c'e’ un buco, da li’ si vede lo studio del nonno e, se la porta e’ aperta, anche l'anticamera, e poi dall'altra parte dell'anticamera, sempre che la porta sia aperta, la stanza dove dorme il nonno. «Ero con il nonno, - dissi. - Mamma, cosa fai qui?» «Non ti avevo detto che c'e’ un ospite e che li’ non dovevi entrare?» Mi sgridava, ma non a voce alta, non voleva che l'ospite sentisse. «Cosa stavano facendo?», chiese poi con voce dolce. «Stavano seduti. Ma non c'erano i colori. Il nonno raccontava, l'altro ascoltava». «Come era seduto?» Improvvisamente mi accomodai a terra e imitai l'ospite: adesso io sono un uomo molto posato, guarda mamma; adesso, con le sopracciglia aggrottate, ascolto mio nonno e muovo la testa come quell'ospite, serio come se ascoltassi il Mevlûd (2), con lo stesso ritmo. «Vai giu’, - disse mia madre. - Chiamami Hayriye. Subito». Si mise seduta, prese l'asse da scrittura e comincio’ a scrivere su un piccolo foglio. «Mamma, cosa scrivi?» «Non ti ho detto di andare subito giu’ e di chiamarmi Hayriye?» Andai in cucina. Mio fratello era arrivato. Hayriye gli aveva messo davanti un piatto del riso preparato per l'ospite. «Vigliacco, - disse mio fratello. - Te ne sei andato e mi hai lasciato solo con il maestro. Ho fatto io tutta la piegatura. Mi sono venute le dita viola». «Hayriye, ti vuole mia madre». «Quando finisco di mangiare ti picchio, - disse mio fratello. - Pagherai per la tua pigrizia e la tua vigliaccheria». Appena Hayriye usci dalla cucina, senza aspettare di finire il piatto, mi venne addosso. Mi prese per il polso e comincio’ a torcermi un braccio. «No, sevket, no, mi fai tanto male». «Scapperai di nuovo lasciando il lavoro a un altro?» «No, non scappero’». «Giura». «Giuro». «Giura sul Corano». «Giuro sul Corano». Ma non mi lascio’. Mi trascino’ vicino al grande vassoio di rame su cui stava mangiando e mi fece sedere. Con una mano mangiava il riso a cucchiaiate e con l'altra mi torceva il braccio sempre di piu’, era molto piu’ forte di me.
«Non cominciare a torturare tuo fratello, sei crudele», disse Hayriye rientrando un attimo in cucina. Si era coperta il capo e usciva. «Lascialo». «Non ti intromettere, figlia di uno schiavo, - disse mio fratello. Continuava a torcermi il braccio. - Dove vai?» «Vado a comprare i limoni», disse Hayriye. «Bugiarda, - disse mio fratello, - la dispensa e’ piena di limoni». Mi liberai della sua stretta approfittando di un attimo di debolezza, gli diedi un calcio e presi il candeliere per il manico, ma lui mi venne addosso e mi atterro’. Diede un colpo al candeliere, il vassoio si rovescio’. «Maledetti!» disse mia madre. Non urlava per non farsi sentire dall'ospite. Come aveva potuto passare per l'anticamera e scendere le scale senza farsi vedere da Nero? Ci separo’. «Che figura mi fate fare, bastardi». «Orhan oggi ha detto una bugia, - disse sevket. - Mi ha lasciato con il maestro e tutto il lavoro da finire e se n'e’ andato». «Zitto», disse mia madre e gli diede uno schiaffo. Lo aveva colpito in maniera lieve, percio’ mio fratello non pianse. «Voglio mio padre, - disse. - Quando papa’ ritornera’ prendera’ la spada rossa di zio Hasan e noi andremo via da questa casa e torneremo da zio Hasan». «Zitto», disse mia madre. All'improvviso si arrabbio’ talmente che prese sevket per un braccio, lo tiro’ verso di se’ e lo trascino’ in un angolo buio. Li seguii. Mia madre apri’ una porta e quando vide anche me, disse: «Entrate dentro tutti e due». «Ma mamma, io non ho fatto niente», dissi, ma entrai lo stesso. La mamma chiuse la porta. Dentro non era completamente buio, dalla fessura delle persiane che davano sul melograno filtrava una luce fioca, ma ebbi paura. «Mamma, apri la porta, - dissi. - Ho freddo». «Non piangere, fifone, - disse sevket. - Adesso la apre». Mia madre apri’ la porta. «Allora, starete buoni finche’ rimane l'ospite? - disse. - Finche’ Nero non va via, restate in cucina, vicino al focolare, non dovete salire». «Ma li’ ci annoiamo, - disse sevket. - Dov'e’ andata Hayriye?» «Sei un impiccione, adesso basta», disse mia madre. Udimmo un cavallo nitrire. Poi lo udimmo di nuovo. Non era il cavallo del nonno ma quello di Nero. Eravamo felici, come se fosse giorno di fiera o di festa. Mia madre sorrise come se volesse che sorridessimo anche noi. Fece due passi e apri’ la porta che dava sulla stalla. Fece «Shhhhhhh» ed entro’. Si volto’ e ci porto’ nella cucina di Hayriye, era piena di topi e puzzava di grasso, ci fece sedere. «Mi raccomando, non cercate di uscire da qui finche’ non se ne va l'ospite. E non litigate, non fate vedere che siete dei bambini viziati e capricciosi». «Mamma, - dissi prima che chiudesse la porta. - Mamma, ti voglio dire una cosa. Hanno ucciso il povero doratore del nonno». NOTE: (1) Opera scritta in occasione di matrimoni o circoncisioni all'interno della famiglia del sultano. (2) Poema cantato che narra della nascita del Profeta.
Capitolo settimo. Il mio nome e’ Nero Quando vidi suo figlio per la prima volta capii cos'era che, ormai da anni, ricordavo male del volto di seküre. Come quello di Orhan, anche il viso di seküre era affilato e il mento era piu’ pronunciato di quanto ricordassi. Percio’ la bocca del mio amore doveva, ovviamente, essere piu’ piccola e stretta di come io per anni l'avevo immaginata. Per dodici anni, girando di citta’ in citta’, con la fantasia mi era piaciuto ricordare la bocca di seküre piu’ grande, avevo sognato labbra piu’ regolari, piu’ carnose, irresistibili come una grande amarena lucida. Significa che se avessi avuto con me un ritratto del volto di seküre dipinto con i metodi dei maestri italiani, non mi sarei sentito spaesato, a un certo punto dei miei dodici anni di viaggio, credendo di non ricordare affatto il viso dell'amata che mi ero lasciato alle spalle. Perche’ se dentro di te, inciso sul cuore, vive il volto della persona amata, il mondo e’ ancora la tua casa. Vedere il figlio di seküre, parlare con lui, guardarlo da vicino e baciarlo provoco’ in me la particolare inquietudine degli sventurati, degli assassini, dei peccatori. Una voce mi diceva: «Dai, adesso vai a vedere seküre». Pensai addirittura di lasciare mio zio senza dirgli niente e aprire una a una tutte le porte delle stanze che davano sull'anticamera finche’ non avessi trovato seküre, le avevo contate con la coda dell'occhio, erano cinque porte buie, compresa quella delle scale. Ma ero rimasto lontano dalla mia amata dodici anni proprio perche’ le avevo confessato con inopportuna avventatezza quello che provavo per lei. Attesi, silenzioso e furtivo, e ascoltai mio zio guardando i cuscini su cui seküre chissa’ quante volte si era seduta, gli oggetti che aveva toccato. Mi spiego’ che il sultano voleva questo libro per il millenario dell'Egira. Per i mille anni del calendario il nostro grande Sovrano voleva dimostrare che anche lui e la sua dinastia erano capaci di usare i metodi occidentali. Inoltre il sultano aveva ordinato ai miniaturisti esperti di non uscire e di lavorare in casa, lontano dalla folla del laboratorio, perche’
sapeva che erano molto occupati, dovendo fare pure un surname. Di certo non ignorava che i miniaturisti venivano di nascosto da mio zio. «Vedrai il capo dei miniaturisti Maestro Osman, - disse mio zio. - C'e’ chi dice che sia diventato cieco, chi che sia rimbambito, ma secondo me e’ cieco e rimbambito». Il fatto che mio zio pur non essendo un abile miniaturista, avesse avuto l'incarico di ordinare e supervisionare un libro con il permesso e l'incoraggiamento del sultano, ovviamente avrebbe rovinato i rapporti tra lui e il capo miniaturista. Pensando alla mia infanzia rivolsi l'attenzione agli oggetti di casa. Erano dodici anni che ricordavo il kilim blu proveniente da Kula, la caraffa, il vassoio del caffe’ e il secchio di rame, le tazzine e tutte le volte che mia zia buonanima aveva detto orgogliosa che venivano dalla lontana Cina, via Portogallo. Questi oggetti, proprio come il leggio intarsiato di madreperla nell'angolo, l'attaccapanni sul muro, il cuscino di velluto rosso che toccavo ricordandone la morbidezza, venivano dalla casa del quartiere di Aksaray dove avevo trascorso l'infanzia con seküre e avevano ancora qualcosa dello scintillio dei giorni felici che avevo passato disegnando li’. Felicita’ e disegno. Vorrei che i lettori attenti alla mia storia e al mio destino tenessero sempre in mente questi due fattori come punto di partenza del mio mondo. Qui, un tempo, tra libri, matite e disegni, ero molto felice. Poi mi sono innamorato e sono stato cacciato da questo Paradiso. Negli anni del mio esilio d'amore pensai spesso che dovevo molto a seküre e all'amore per lei, perche’ era stato grazie a lei che durante la mia giovinezza avevo affrontato la vita e il mondo con ottimismo. Con l'innocenza di un bambino, non avevo dubbi che il mio amore sarebbe stato corrisposto, ero troppo sicuro, accettavo il mondo con felicita’, lo consideravo un buon posto. E con questo ottimismo che ho accolto e amato i libri, quello che mio zio mi diceva di leggere, quello che insegnavano alla scuola coranica, la miniatura e il disegno. Devo all'amore per seküre la prima e la piu’ ricca meta’ della mia luminosa e allegra istruzione, e devo al suo rifiuto le cupe convinzioni che hanno poi distrutto questo periodo. Nelle notti gelide, la voglia di annullarsi assieme alla fiamma che sta per spegnersi nel focolare nelle stanze dei caravanserragli, il sogno ricorrente - dopo aver fatto l'amore, cado con la donna accanto a me in un abisso solitario - e l'idea che «non valgo niente» sono l'eredita’ che mi ha lasciato seküre. «Sapevi che dopo la morte, - disse mio zio, - le nostre anime possono incontrare le anime di chi dorme profondamente nel suo letto in questo mondo?» «No, non lo sapevo». «Dopo la morte comincia un lungo viaggio, percio’ non ho paura di morire. La mia vera paura e’ morire prima di finire il libro del Nostro Sultano». Parte della mia mente era occupata dal pensiero che ero piu’ forte, piu’ ragionevole e resistente di mio zio, con l'altra pensavo a quanto era caro il caftano che avevo acquistato prima di venire qui per quest'uomo che dodici anni fa non mi aveva concesso la mano di sua figlia, alla bardatura d'argento e alla sella ricamata del cavallo che, tra poco, scendendo le scale, avrei portato fuori dalla stalla e avrei montato. Dissi che gli avrei riferito ogni notizia che avessi ottenuto dai miniaturisti. Gli baciai la mano, scesi le scale, uscii nel cortile, sentii sul viso il freddo gelido e ricordai di non essere ne’ un bambino ne’ un uomo anziano. Ero felice di sentirmi il mondo sulla pelle. Mentre chiudevo la porta della stalla si levo’ una folata di vento. Passando dal selciato al cortile il mio cavallo bianco rabbrividi’ assieme a me, lo tenevo per le briglie. Mi somigliava, con le sue zampe forti solcate dalle vene, la sua impazienza e il suo temperamento. Una volta sulla strada, stavo per montare in sella con un balzo e scomparire per sempre tra le viuzze come un cavaliere delle fiabe, quando mi venne addosso un donnone che non capivo da dove fosse uscito, un'ebrea vestita da capo a piedi di rosa con un fagotto in mano. Era talmente grossa che sembrava un armadio. Comunque era vivace, piena di vita e addirittura civettuola. «Mio leone, ragazzo mio, sei davvero bello come dicono, - disse. - Sei sposato, sei scapolo, vuoi comprare un fazzoletto di seta per la tua amata segreta da Esther, la migliore venditrice di corredi di Istanbul?» «No». «Una cintura di raso rosso?» «No». «Non dire sempre no, no! Ma come, non ha una fidanzata, un'innamorata segreta, un ragazzone cosi’? Chissa’ quante donne in lacrime in questo momento ardono per te!» A un tratto il suo corpo si allungo’ come quello sottile di un'acrobata e con una delicatezza sorprendente mi si avvicino’. Nello stesso istante con l'abilita’ di un illusionista che crea dal nulla, le comparve in mano una lettera. Presi la lettera e la misi subito sotto la cintura come se fossi preparato a questo momento da anni. Era una lettera enorme e gia’ la sentivo bruciare sulla mia pelle gelida, sotto la cintura, tra il fianco e il ventre. «Monta sul tuo cavallo e vai al passo, - disse Esther la venditrice di corredi. - Segui il muro, svolta a destra, vai senza badare a niente, ma quando arrivi vicino al melograno girati e guarda la casa da dove sei uscito, la finestra di fronte». Continuo’ per la sua strada e scomparve di colpo. Montai a cavallo, come un uomo che lo faccia per la prima volta nella vita. Il cuore mi batteva all'impazzata, la mente era confusa, le mani non sapevano come tenere le briglie, ma appena le gambe lo strinsero saldamente, io e il mio cavallo fummo dominati da una mente e da un'abilita’ esperte, e quella bestia intelligente si mise al passo come aveva detto Esther, poi girammo a destra, che bello! Forse allora mi sentii veramente bello. Come nelle fiabe, dietro ogni persiana, ogni grata, c'era una donna del quartiere che mi osservava e io sentivo di bruciare dello stesso incendio. Era questo che volevo? Ritornavo alla malattia di tutti quegli anni? All'improvviso usci’ il sole, ne fui meravigliato. Dove e’ il melograno? Eccolo, e’ questo albero triste e gracile? Si’, e’ quello! Mi girai leggermente sul cavallo. Proprio di fronte a me c'era una finestra, ma non c'era nessuno. Quella strega di Esther mi ha ingannato!
Stavo per convincermene quando all'improvviso le persiane coperte di ghiaccio si aprirono come in un'esplosione e vidi la mia amata che risplendeva al sole nella cornice della finestra, dodici anni dopo, il suo bel viso tra i rami innevati. La mia amata dagli occhi neri guardava me o un'altra vita dietro di me? Non capivo se era triste o sorrideva, o se sorrideva con tristezza. Stupido cavallo, non seguire il mio cuore, rallenta! Mi girai sulla sella, la guardai con nostalgia fino alla fine, fino a quando il suo viso misterioso, fine e delicato, scomparve dietro i rami bianchi. Quando capii, molto dopo, dopo aver aperto la lettera che mi aveva mandato e aver visto il disegno che c'era dentro, che il mio modo di stare a cavallo e il suo modo di stare alla finestra somigliavano alla scena disegnata migliaia di volte, in cui Cosroe va sotto la finestra di sirin - ma tra di noi c'era anche un albero triste - bruciai d'amore, proprio come nei disegni di quei libri che amiamo e adoriamo.
Capitolo ottavo. Il mio nome e’ Esther So che siete tutti curiosi di sapere cosa c'era scritto nella lettera che ho dato a Nero. Dato che ero curiosa anch'io, mi sono informata. Se volete, immaginate di girare le pagine della storia all'indietro e vedrete cos'e’ accaduto prima che gli consegnassi la lettera: ve lo racconto. Adesso e’ quasi sera, nella nostra casa, nel nostro piccolo quartiere ebreo all'imbocco del Corno d'Oro, io e mio marito Nesim, due poveri vecchietti - puf puf - cerchiamo di scaldarci mettendo legna nel focolare. Non fateci caso se adesso dico che sono vecchia, quando tra i fazzoletti, i guanti, le lenzuola di seta, le pezze di stoffa colorata per confezionare camicie arrivate con le navi portoghesi, infilo gioielli, costosi o meno, anelli, orecchini, collane che emozionano le donne, e mi metto il fagotto sottobraccio e giro tutta Istanbul, Esther e’ il mestolo e Istanbul il paiolo, la giro in continuazione. Porto lettere, pettegolezzi di porta in porta, ho fatto sposare meta’ delle ragazze di questa Istanbul, ma non ho iniziato questo discorso per vantarmi. Dicevo che verso sera eravamo a casa, quando - toc toc - hanno bussato alla porta, sono andata ad aprire e c'era quella stupida di Hayriye, la serva. aveva una lettera in mano. Mi ha spiegato tremando cosa voleva la mia seküre, non ho capito se tremava per il freddo o per l'agitazione. Prima ho capito che questa lettera andava portata a Hasan e mi sono meravigliata. La bella seküre ha un marito che non torna dal tempo della guerra - secondo me ci ha gia’ lasciato la pelle - e questo marito guerriero che non torna a casa ha anche un fratello pazzo, si chiama Hasan. Poi ho capito che la lettera di seküre non era per Hasan, ma per un altro. Che cosa c'e’ scritto nella lettera, Esther sta per impazzire dalla curiosita’. alla fine ho cominciato a leggerla. Non vi conosco neanche tanto bene. a dir la verita’ mi sono sentita improvvisamente in imbarazzo, in soggezione. Non vi diro’ come ho letto la lettera. Forse biasimerete la mia curiosita’ - come se voi non foste curiosi, almeno quanto i barbieri - e mi disprezzerete. Vi dico solo quello che ho sentito quando mi hanno letto la lettera. La dolce seküre aveva scritto: «Nero Effendi, tu vieni a casa mia grazie alla confidenza che hai con mio padre. Ma non pensare di ricevere da me qualche segnale. Da quando sei andato via sono successe tante cose. Mi sono sposata, ho due bravi figli. Uno si chiama Orhan, poco fa e’ entrato e l'hai visto. Sono quattro anni che aspetto mio marito e non penso ad altro. Posso anche sentirmi sola, disperata e debole con due figli e un padre anziano, posso aver bisogno della forza e della protezione di un uomo, ma che nessuno pensi di poter approfittare della mia situazione. Per questo motivo, per favore, non bussare piu’ alla nostra porta. Mi hai gia’ fatto vergognare una volta, e allora ho dovuto soffrire tante di quelle pene per poter dimostrare a mio padre la mia innocenza! Insieme a questa lettera ti restituisco anche il disegno che mi avevi mandato quando eri un giovane con la testa fra le nuvole. Perche’ tu non abbia nessuna speranza, non fraintenda. E sbagliato pensare che le persone possano innamorarsi guardando un disegno. Non mettere piu’ piede in casa nostra, e’ la cosa migliore». Povera cara seküre, non sei un uomo, un signore, un pascia’, e non potevi apporre il tuo magnifico sigillo! In fondo al foglio ha comunque scritto, come un uccello piccolo e pauroso, la prima lettera del suo nome, e basta. Ho detto sigillo. Sarete curiosi di sapere come apro e chiudo queste lettere. Ma queste lettere non hanno sigillo. La mia cara seküre pensa, questa Esther e’ un'ebrea ignorante, non puo’ leggere la nostra scrittura. Giusto, io non so leggere la vostra scrittura, ma posso farla leggere a qualcuno. Quindi la lettera la posso leggere benissimo. Vi ho confuso? Ve lo spiego, cosi’ che anche il piu’ ottuso di voi capira’. Una lettera non dice quello che vuole dire solo con la scrittura. Si puo’ leggere la lettera anche annusandola, toccandola, palpandola, proprio come un libro. Percio’ le persone intelligenti dicono, leggi, vediamo cosa dice la lettera. Le persone stupide invece dicono, leggi, vediamo cosa scrive. L'abilita’ sta nel leggere tutta la lettera, non solo il testo. Sentite un po' che altro dice seküre: 1. Dice, anche se mando la lettera di nascosto, visto che l'ho data a Esther che ha come compito abituale quello di portare lettere, la mia intenzione non e’ proprio quella di nascondere le cose. 2. Se una lettera viene piegata molte volte come un börek a forma di amuleto, vuol dire furtivita’ e segretezza. Invece la lettera e’ aperta. E poi c'e’ un enorme disegno. Fa finta di nascondere a tutti il segreto. E una cosa del genere si addice a una lettera che invita all'amore, non a una lettera che lo rifiuta. 3. Lo dimostra anche il profumo della lettera. Questo profumo da una parte e’ talmente lieve da lasciare indeciso chi la prende in mano (chissa’ se e’ stato messo apposta?), ma dall'altra e’ anche delizioso e non e’ facile rimanere indifferenti (e’ una qualche essenza di rose, o e’ il profumo della sua mano?): e’ bastato a far perdere la testa a quel poveraccio che
mi ha letto la lettera. Penso che fara’ perdere la testa anche a Nero. 4. Io sono una Esther che non sa ne’ leggere ne’ scrivere, ma da come scorre la grafia, dal delicato tremito di tutte le lettere, come se fossero prese da una dolce brezza, si capisce che dentro di lei dice proprio il contrario di quello che scrive, anche se la sua grafia sembra che dica, faccio in fretta, scrivo senza badarci molto, senza fare attenzione. Quando parla di Orhan dice «poco fa» e intende di avere scritto senza fare una brutta copia, ma si vede che l'ha fatta, perche’ la cura si intuisce a ogni riga. 5. Il disegno mandato insieme alla lettera racconta la storia della bella sirin che s'innamora dell'avvenente Cosroe guardandone il ritratto, la conosco perfino io, Esther l'ebrea. Le donne di Istanbul che sognano a occhi aperti, adorano questa storia, ma la vedo disegnata per la prima volta. A voi fortunati che sapete leggere e scrivere capita spesso: una persona che non sa leggere vi prega di leggergli una lettera che ha ricevuto e voi la leggete. Le cose scritte possono essere cosi’ impressionanti, emozionanti e conturbanti che il proprietario, imbarazzato dal fatto che siate complici del suo segreto, vi puo’ chiedere, vergognandosi, di leggere la lettera un'altra volta. Voi la leggete. alla fine la lettera viene letta talmente tante volte che entrambi la imparate a memoria. Poi prendono in mano la lettera e vi chiedono, e’ qui che dice questa cosa, e’ qui che ha detto quell'altra e guardano il punto che indicate col dito senza conoscere le lettere. a volte, mentre guardano il verso delle lettere e delle parole che sono incapaci di leggere, ma che hanno imparato a memoria, mi commuovo e, dimenticando che anch'io non so leggere e scrivere, mi viene da baciare queste ragazze analfabete che piangono per delle lettere. E poi ci sono quei maledetti, ma, e’ ovvio, voi non somigliate a loro. Quando una ragazza vuole prendere in mano la sua lettera per toccarla le dicono: «Cosa fai, non sai leggere, cosa vuoi guardare»; alcuni non le restituiscono neanche la lettera, come se fosse loro, e a volte tocca a me, a Esther, litigarci e riprenderla. Io, Esther, che sono una donna cosi’ buona, se mi andate a genio, posso aiutare anche voi.
Capitolo nono. Io, seküre Perche’ ero li’, alla finestra, mentre Nero passava sul suo cavallo bianco, proprio davanti a me? Perche’, grazie a un'intuizione, avevo aperto la persiana proprio in quel momento e l'avevo guardato cosi’ a lungo vedendolo tra i rami innevati del melograno? Non posso dirvi tutto. Ho mandato io Hayriye da Esther. Naturalmente sapevo che Nero sarebbe passato da li’. In quel momento ero entrata da sola nella stanza con l'armadio a muro che si affacciava sul melograno, per controllare le lenzuola nelle cassapanche. Quando ho spinto la persiana con tutta la mia forza, perche’ mi e’ venuto spontaneo farlo, la stanza si e’ riempita della luce del sole. Sono rimasta alla finestra e i nostri sguardi si sono incontrati; ero abbagliata dal sole, era molto bello. Era cresciuto, maturato, si era liberato di quel fare goffo e incerto, era piu’ bello. Guarda seküre, mi disse il cuore, Nero non e’ solo bello, guardalo negli occhi, ha il cuore di un bambino, quanto e’ sincero, quanto e’ solo. Sposalo. Eppure gli ho mandato una lettera in cui scrivevo proprio il contrario. Anche se aveva dodici anni piu’ di me, gia’ a dodici anni io sapevo di essere piu’ matura di lui. allora, invece di pararmisi davanti come un vero uomo e dirmi, faro’ cosi’, faro’ cosa’, saltero’ di qua, mi arrampichero’ di la’, si chinava su un libro o su un disegno, nascondendosi, imbarazzato da tutto. Poi anche lui si innamoro’ di me. Fece un disegno e mi dichiaro’ il suo amore, ormai eravamo cresciuti tutti e due. a dodici anni mi resi conto che Nero non riusciva a guardarmi negli occhi, perche’ aveva paura che incrociando i nostri sguardi avrei capito che era innamorato di me. Per esempio, diceva: «Mi puoi dare quel coltello con il manico d'avorio?», e osservava il coltello, ma non alzava gli occhi per guardarmi. Se, per esempio, gli chiedevo: «buono lo sciroppo di amarena?», non riusciva a esprimere che era buono con un'espressione del viso, con un sorriso dolce, come facciamo tutti quando abbiamo la bocca piena. «Si’», urlava con tutta la sua forza, come se parlasse a un sordo. Perche’ non osava guardarmi in faccia dalla paura. allora io ero molto bella. Tutti gli uomini che riuscivano a vedermi, anche una sola volta da lontano, tra le tende, dalla porta, tra un mucchio di stoffe, si innamoravano immediatamente di me. Non lo dico per vantarmi, lo dico perche’ voi capiate la mia storia e condividiate il mio destino. Come tutti sanno, nella storia di Cosroe e sirin c'e’ un certo momento - Nero e io ne avevamo parlato tanto - in cui Sapur e’ intenzionato a farli innamorare l'uno dell'altra. Un giorno, mentre sirin sta passeggiando in campagna con le sue damigelle, Sapur appende di nascosto il ritratto di Cosroe al ramo di un albero sotto il quale si fermano a riposarsi. Quando vede il ritratto di Cosroe appeso su un ramo di quel bel giardino, sirin si innamora di lui. Sono stati fatti tanti disegni che descrivono questo momento, come dicono i miniaturisti, questa scena in cui sirin guarda con ammirazione e meraviglia il ritratto di Cosroe appeso al ramo. Quando lavorava con mio padre Nero aveva visto tante volte questo disegno e l'aveva anche copiato un paio di volte. Poi, innamoratosi di me, ne aveva fatto una copia per se’. Se non ci fosse stato scritto sotto, solo io avrei potuto capire che il ragazzo e la ragazza nel disegno eravamo noi, perche’ a volte quando scherzavamo, faceva il mio e il suo ritratto con gli stessi lineamenti e gli stessi colori, io vestita di azzurro e lui di rosso. Come se non bastasse, sotto il disegno di Cosroe e sirin aveva scritto Nero e seküre. L'aveva lasciato in un posto dove lo potessi vedere ed era scappato via, come se fosse nel peccato. Ricordo che mi aveva osservata mentre guardavo il disegno per vedere la mia reazione. Ben sapendo che non mi sarei innamorata di lui come sirin, dapprima non lasciai trasparire nulla. La sera di un giorno d'estate in cui cercavamo di rinfrescarci con sciroppi d'amarena raffreddati con ghiaccio che si diceva provenisse dal
lontano monte Uludag, quando Nero rincaso’ dissi a mio padre che lui mi aveva dichiarato il suo amore. allora Nero era appena uscito dalla scuola coranica. Insegnava nella periferia piu’ povera e, non tanto per sua volonta’ ma per la pressione di mio padre, cercava di lavorare con Naim Pascia’, molto abile e stimato. Secondo mio padre aveva la testa fra le nuvole. Mio padre si adoperava perche’ entrasse nella squadra di Naim Pascia’ e cominciasse almeno a lavorare come copista, ma diceva che Nero non si impegnava abbastanza e si comportava da stupido. Quella sera, riferendosi a noi due, disse: «Ma pensa un po', il povero nipote mirava ancora piu’ in alto» e, senza badare a mia madre, aggiunse: «E piu’ intelligente di quanto credessimo». Quello che mio padre fece nei giorni seguenti, come mi tenni lontana da Nero, come lui sloggio’ da casa nostra, poi addirittura dal nostro quartiere, ricordo tutto questo con tristezza, ma, se non amate mio padre e me, non voglio raccontarvelo. Credetemi, non avevamo altra scelta. Quando l'amore senza speranza capisce di essere senza speranza, il cuore ribelle capisce cosa sia la vita, e in situazioni del genere le persone ragionevoli, tagliando corto, dicono gentilmente: «Non eravamo fatti uno per l'altra». E andata cosi’. Voglio ricordare che un paio di volte mia madre disse: «almeno non spezzate il cuore al ragazzo». Nero, che allora mia madre chiamava «il ragazzo», aveva ventiquattro anni e io ne avevo la meta’. Probabilmente mio padre, trovando la dichiarazione d'amore di Nero insolente, si guardo’ bene dal fare a mia madre il favore che gli era stato richiesto. Quando ricevemmo la notizia che se n'era andato da Istanbul, l'avevamo gia’ allontanato dai nostri cuori anche se non l'avevamo dimenticato completamente. Non avendo piu’ avuto sue notizie da nessuna citta’ per anni, ho sempre pensato che fosse giusto nascondere il disegno che aveva fatto e mi aveva dato come pegno per i nostri ricordi e la nostra amicizia infantile. Prima di tutto, perche’ non lo trovasse mio padre e si adirasse, e poi per non far ingelosire mio marito, il guerriero; avevo coperto abilmente i nomi, seküre e Nero, scritti sotto, con l'inchiostro Hasan Pascia’ di mio padre, come se vi fosse sgocciolato sopra e dalle gocce si fossero formati dei fiori. Visto che oggi gliel'ho ridato indietro, se tra di voi c'e’ chi commenta la mia apparizione alla finestra in modo negativo, forse si vergognerebbe un po', potrebbe ripensarci. Dopo essergli apparsa all'improvviso, erano passati dodici anni, rimasi un po' alla finestra, in mezzo alla luce scarlatta del tramonto a guardare ammirata, fino ad avere veramente freddo, il giardino; in questa luce, si faceva lievemente rosso, e poi arancione. Non c'era un filo di vento. Non m'interessava cosa avrebbe detto vedendomi alla finestra chi passava per strada, mio padre o Nero, nel caso fosse tornato indietro e mi fosse passato davanti a cavallo. Una volta Mesrure, una delle figlie di Ziver Pascia’ con cui, piena di gioia, vado all'hamam una volta a settimana, quella che ride, si diverte sempre e quando meno te lo aspetti dice qualcosa di incredibile, mi aveva detto che nessuno puo’ sapere esattamente quello che pensa. Lo credo anch'io. A volte dico una cosa e mi rendo conto di averla pensata solo mentre la dico, ma quando me ne rendo conto sono convinta di pensare il contrario. Mi dispiace che il povero Raffinato Effendi, uno dei miniaturisti che mio padre riceveva a casa e che io, non ve lo nascondo, spiavo uno a uno, sia scomparso come mio marito. Tra tutti, era il piu’ brutto e il piu’ povero di spirito. Chiusi la persiana, uscii dalla stanza, e scesi in cucina. «Mamma, sevket non ti ha obbedito, - disse Orhan. - Mentre Nero prendeva il suo cavallo dalla stalla e’ uscito dalla cucina e l'ha spiato dal buco». «E allora? - disse sevket con un pestello in mano. - anche la mamma lo spiava dal buco dell'armadio». «Hayriye, - dissi. - Per stasera friggi del pane zuccherato con pasta di mandorle, in poco olio». Orhan inizio’ a saltellare festoso, mentre sevket non disse una parola. Mentre salivo per le scale mi raggiunsero facendo baccano e mi passarono accanto spintonandosi allegramente, e io dissi ridendo: «Piano, piano, disgraziati!», e diedi un lieve pugno sulle loro schiene delicate. Come e’ bello stare a casa con i bambini di pomeriggio! Mio padre si dedicava silenziosamente al suo libro. «Il vostro ospite e’ andato via, - gli dissi. - Spero che non vi abbia disturbato». «No, - disse. - Mi ha divertito. E rispettoso con suo zio, come era una volta». «Bene». «Ma e’ anche prudente e misurato». Lo aveva detto per chiudere il discorso, non per elogiare Nero, ne’ per misurare la mia reazione. In un'altra occasione avrei risposto senza peli sulla lingua. Ma questa volta pensai a quell'uomo che immaginavo sul suo cavallo bianco e rabbrividii. Poi, non so come, ci trovammo abbracciati con Orhan nella stanza con l'armadio. Ci si avvicino’ anche sevket; per un attimo si spintonarono. Credevo che stessero per mettersi a litigare quando ci trovammo a rotolare sul pavimento. Li accarezzai come se fossero dei cagnolini, baciai loro la nuca, i capelli, me li strinsi al petto, sentii il loro peso sul seno. «Ah! - dissi. - avete i capelli luridi. Domani andrete all'hamam con Hayriye». «Io non voglio piu’ andare all'hamam con Hayriye», disse sevket. «Sei cresciuto molto?», gli dissi. «Mamma, perche’ ti sei messa questa bella camicia viola?», domando’ sevket. Andai di la’ in camera, mi tolsi la camicia viola. Mi misi la solita, quella verde sbiadito. Mentre mi rivestivo provai freddo, rabbrividii, ma sentii la pelle in fiamme, e poi la freschezza, il vigore del mio corpo. Sulle guance avevo un po' di trucco, probabilmente era andato via mentre giocavo e mi baciavo con i bambini, lo ritoccai per bene con un po' di saliva. Sapete che i miei parenti, le donne che incontro all'hamam, tutti quelli che mi vedono, dicono che sembro una ragazzina di sedici anni, e non una donna attempata di ventiquattro anni con due bambini. Voglio che anche voi ci crediate, altrimenti non vi racconto piu’ niente. Non pensate che il fatto che vi parli sia strano. Sono anni che, quando guardo i disegni dei libri di mio padre, cerco
sempre le donne, quelle belle. raro che ve ne siano e sono sempre schive, timide, camminano a testa bassa, al massimo si guardano tra loro. Non guardano mai il mondo in faccia, a testa alta, come fanno gli uomini, i guerrieri e i sultani. Ma nei libri da pochi soldi disegnati in fretta, se il pittore non sta attento, ci trovi donne che non guardano in terra, o qualche altro elemento del disegno, che ne so, una coppa o chi amano, guardano direttamente chi legge. Io penso sempre che stiano guardando chi legge. Quando penso ai libri di duecento anni fa, i volumi che risalgono all'epoca di Tamerlano, quelli che gli infedeli curiosi portano nei loro paesi dopo averli pagati a peso d'oro, rabbrividisco. Forse, un giorno, qualcuno ascoltera’ questa mia storia molto lontano da qui. Non e’ forse per provare questo brivido che tutti vogliono trovare posto in un libro, non e’ per questo che sultani e visir danno borse d'oro a chi scrive libri dedicati a loro, che raccontano le loro storie? E io, quando sento questo brivido, ho anche voglia di parlare con voi che mi osservate da chissa’ quale epoca, da chissa’ quale posto lontano, proprio come le belle donne che con un occhio guardano la vita dentro il libro e con l'altro la vita fuori. Io sono bella, intelligente, e mi piace farmi guardare. Se a volte dico qualche bugia, e’ perche’ non vi facciate un'idea sbagliata di me. Forse lo avete gia’ intuito, mio padre mi vuole molto bene. Prima di me ha avuto tre figli maschi, Allah se li e’ ripresi uno dopo l'altro ma non ha toccato me, la femmina. Mio padre stravede e si preoccupa sempre per me, ma io non ho sposato l'uomo che aveva scelto lui, ho sposato un cavaliere che mi piaceva e che avevo scelto da sola. Se fosse dipeso da mio padre, l'uomo a cui mi avrebbe concessa, avrebbe dovuto essere al tempo stesso un grande sapiente che amasse la miniatura e l'arte, potente e ricco come Creso ma, dato che cose del genere non accadono neanche nei suoi libri, sarei rimasta a casa ad aspettarlo per anni. La bellezza di mio marito era cosa nota, gli feci avere dei messaggi tramite intermediari e lo vidi al ritorno dall'hamam quando, trovando il modo, all'improvviso mi apparve davanti con gli occhi che bruciavano e subito mi innamorai di lui. Era bruno, aveva la pelle candida e gli occhi verdi, era bello, forte, ma innocente e silenzioso come un bambino addormentato. Avevo l'impressione che odorasse di sangue, forse perche’ aveva esaurito la sua forza uccidendo uomini in guerra, facendo razzie, anche se a casa era dolce e tranquillo come una donna. Quest'uomo che mio padre in un primo momento non accetto’ perche’ era solo un povero soldato - ma poi si convinse perche’ gli dissi che mi sarei uccisa - ricevette un piccolo feudo del valore di diecimila akçe come ricompensa per gli atti eroici compiuti in una guerra o nell'altra, e ando’ a finire che tutti furono invidiosi di noi. All'inizio non mi preoccupai molto quando, quattro anni fa, non torno’ con l'esercito dalla guerra contro i saffavidi. Perche’ piu’ combatteva, piu’ diventava abile e lavorava in proprio e piu’ portava bottino, otteneva feudi piu’ grandi e aveva piu’ uomini sotto di se’. C'era anche chi diceva di averlo visto separarsi dalla fanteria e andare con i suoi uomini verso le montagne. I primi tempi pensavo sempre che sarebbe tornato presto, ma dopo due anni pian piano mi abituai alla sua assenza e, quando capii che Istanbul era piena di mogli di guerrieri scomparsi come me, accettai la situazione. Di notte, a letto, con i bambini ci abbracciavamo e piangevamo insieme. Per non farli piangere inventavo bugie, dicevo che il tale aveva raccontato, aveva le prove, che il padre sarebbe arrivato prima della primavera, ma poi, quando le mie bugie uscivano dalla loro bocca per finire nelle orecchie altrui e tornare a me trasformate in buone notizie, ero la prima a darvi credito. Abitavamo in una casa in affitto nel quartiere di çarsikapi insieme al padre di mio marito - era originario dell'Abkhazia e aveva avuto una vita difficile ma era di animo gentile - e a suo fratello dagli occhi verdi. Quando scomparve mio marito, il pilastro della famiglia, cominciarono le difficolta’. Mio suocero, alla sua veneranda eta’, torno’ a fare il venditore di specchi, mestiere che aveva abbandonato da quando il figlio maggiore era diventato ricco in guerra. Hasan, il fratello scapolo di mio marito, che lavorava alla dogana, dato che i soldi che portava a casa aumentavano, prese a darsi arie da uomo forte. Un inverno, per il timore di non riuscire a pagare l'affitto, in fretta e furia, portarono la serva che faceva i lavori di casa al mercato degli schiavi, la vendettero e mi chiesero di occuparmi della cucina al suo posto, del bucato, e addirittura di fare la spesa. Non risposi che non ero donna da fare questi lavori e obbedii con la morte nel cuore. Ma, quando mio cognato Hasan, non avendo piu’ una serva per la notte, forzo’ la mia porta, non seppi veramente cosa fare. Certo, sarei potuta tornare subito qui, nella casa paterna, ma dal momento che secondo il cadi’, dal punto di vista giuridico, mio marito era ancora vivo, se li facevo arrabbiare potevano costringermi a tornare con i bambini da mio suocero, cioe’ a casa di mio marito, e potevano anche condannare e umiliare mio padre che mi tratteneva. A dire la verita’, avrei benissimo potuto concedermi a Hasan, che mi pareva anche piu’ umano e razionale di mio marito e che, naturalmente, sapevo essere molto innamorato di me. Ma farlo in modo avventato, alla fine non mi avrebbe portato a essere sua moglie, ma - Dio me ne scampi! - la sua concubina. Perche’, temendo che reclamassi la mia parte di eredita’, o addirittura li abbandonassi e tornassi con i bambini da mio padre, anche loro non volevano che il cadi’ dichiarasse la morte di mio marito. Se mio marito non era morto per il cadi’, certamente non potevo sposare Hasan ne’ nessun altro, e questo mi teneva legata a quella casa e al matrimonio; cosi’, preferivano che mio marito fosse «scomparso», una situazione ambigua che poteva andare avanti a lungo. Non dimenticate che facevo tutti i lavori di casa, dalla cucina al bucato e per di piu’ uno di loro era innamorato di me. Per mio suocero e Hasan la soluzione migliore era che sposassi Hasan, ma per farlo era indispensabile trovare dei testimoni e convincere il cadi’. Avevamo la volonta’ dei parenti stretti del mio povero marito, il padre e il fratello, e nessuno li avrebbe contraddetti, il cadi’ per due soldi avrebbe fatto finta di credere a falsi testimoni che avrebbero detto di averne visto il cadavere in guerra. Il problema maggiore era convincere Hasan che dopo aver ottenuto lo stato di vedova non avrei abbandonato la casa, non avrei avanzato diritti sull'eredita’ ne’ preteso soldi per sposarlo. Ancor piu’
importante era fargli credere che l'avrei sposato per scelta personale. Avevo capito che per infondergli fiducia dovevo fare l'amore con lui, ma in modo da convincerlo che non lo facevo per divorziare da mio marito, ma perche’ ero innamorata di lui. Se mi fossi sforzata avrei potuto anche innamorarmi di Hasan. Hasan aveva otto anni meno di mio marito, quando mio marito era ancora a casa, per me era come un fratello e questo sentimento ci aveva avvicinati. Mi piaceva che fosse modesto ma passionale, che amasse giocare con i bambini, e il modo che, a volte, aveva di guardarmi, con desiderio, come se lui morisse di sete e io fossi un bicchiere di sciroppo di amarena ghiacciato. Ma sapevo anche che avrei dovuto sforzarmi molto per innamorarmi di un uomo che mi faceva lavare i panni, che non si faceva scrupoli a mandarmi a fare la spesa come le concubine, come le serve. In quei giorni in cui bastava che andassi a casa di mio padre per scoppiare a piangere guardando pentole, tazze e tazzine e, di notte, con i bambini, dormivamo abbracciati per farci forza, Hasan non mi offri’ quell'occasione. Credendo che non potessi innamorarmi di lui, che questa unica via per il nostro matrimonio non potesse aprirsi, non avendo fiducia in se stesso, si comporto’ male. Cerco’ di bloccarmi un paio di volte, di baciarmi, di toccarmi, disse che mio marito non sarebbe mai tornato, che mi avrebbe ucciso, mi minaccio’, pianse come un bambino e mi resi conto che non potevo sposarlo perche’, con la sua fretta e la sua agitazione, non lasciava tempo all'amore vero e nobile, quello che si racconta nelle leggende. Una notte, quando forzo’ la porta della stanza dove dormivo con i bambini, mi alzai subito, senza badare al fatto che i piccoli potessero spaventarsi, e cominciai a urlare a squarciagola dicendo che la casa era invasa dagli spiriti maligni. Svegliai mio suocero e, tra le grida e la paura degli spiriti, mostrai a suo padre Hasan nel pieno del suo desiderio. Tra i miei ululati e i miei insensati discorsi sugli spiriti, quell'intelligente vegliardo, vergognandosene, si rese conto della disgustosa sporca realta’, il figlio era ubriaco e si era avvicinato senza ritegno alla moglie dell'altro figlio, alla madre dei suoi due bambini. Quando gli comunicai che non avrei dormito fino all'alba e avrei atteso gli spiriti seduta davanti alla porta dei miei figli non disse una parola, e al mattino, quando lo informai che sarei tornata con i bambini alla casa paterna per prendermi cura di mio padre malato per un lungo periodo, accetto’ la sconfitta. Come ricordo del mio matrimonio, presi il grosso orologio con il campanello, bottino portato dall'Ungheria, la frusta fatta con i nervi del piu’ nervoso cavallo arabo, la scacchiera d'avorio di Tabriz - i bambini usavano gli scacchi per giocare alla guerra - e i candelabri d'argento, bottino della guerra di Nahcivan, avevo tanto insistito che non venissero venduti. L'abbandono della casa del mio scomparso marito, come mi aspettavo, trasformo’ l'amore maniacale e irrispettoso di Hasan in un incendio disperato ma degno di rispetto. Sapendo che suo padre non l'avrebbe appoggiato, invece di minacciarmi, comincio’ a mandarmi lettere d'amore con disegni di uccelli, leoni dagli occhi lacrimosi e gazzelle tristi in un angolo del foglio. Non vi nascondero’ che negli ultimi tempi avevo cominciato a leggere e rileggere queste lettere che, a meno che a disegnarle non fosse un amico miniaturista dall'animo poetico, rivelavano la ricca fantasia di Hasan, cosa di cui quando vivevamo sotto lo stesso tetto non mi ero accorta. Il fatto che nelle sue ultime lettere dicesse che non mi avrebbe usata come serva per i lavori di casa perche’ guadagnava molto, il suo linguaggio rispettoso, dolce e scherzoso, le richieste e i litigi infiniti dei bambini e le lamentele di mio padre, mi confondevano le idee e per queste ragioni avevo aperto la persiana della mia finestra, come per cercare di emettere un sospiro di fronte al mondo. Prima che Hayriye apparecchiasse per la cena, preparai a mio padre uno sciroppo di datteri tiepido, dal migliore fiore di dattero d'Arabia, ci misi dentro un cucchiaio di miele e un po' di succo di limone, entrai silenziosa nella stanza dove lui leggeva il Libro delle anime e glielo misi davanti senza farmi notare, come uno spirito, proprio come piaceva a lui. Mi chiese: «Nevica?» con un tono cosi’ triste e debole che capii subito che era l'ultima nevicata a cui il mio povero padre avrebbe assistito nella vita.
Capitolo decimo. Io sono un albero Io sono un albero, sono molto solo. Quando piove, piango. Per amor di Dio, ascoltatemi. Bevetevi un caffe’, in modo da scacciare il sonno e aprire gli occhi, guardatemi attentamente, vi raccontero’ perche’ sono cosi’ solo. 1. Dicono che sono stato disegnato in fretta su un foglio di carta grezza perche’ ci fosse il disegno di un albero dietro al maestro cantastorie. E vero. In questo momento non ci sono altri alberi sottili intorno a me, ne’ erbe della steppa a sette foglie, ne’ scure rocce increspate che a volte somigliano a Satana e altre all'uomo, ne’ in cielo ricciute nuvole cinesi. Solo la terra, il cielo, io e la linea dell'orizzonte. Ma la mia storia e’ piu’ complicata. 2. In quanto albero, in un libro, non rappresento un elemento indispensabile. Ma, in quanto disegno d'albero, mi turba il fatto di non comparire nella pagina di un libro. Se non significo qualcosa in un libro, mi viene da pensare che, appeso al muro, saro’ venerato da infedeli e profani che si getteranno ai miei piedi. Che non odano i seguaci del Maestro di Erzurum, io me ne vanto di nascosto, anche se poi me ne vergogno e ho molta paura. 3. Il vero motivo della mia solitudine e’ che non so neanch'io a quale storia appartengo. Stavo per far parte di una storia, ma ne sono caduto a terra come una foglia. Ve la racconto: LA storia di come sono caduto dalla mia storia come una foglia che cade dall'albero
Quando, quarant'anni fa, lo scia’ persiano Tahmasp - il massimo nemico degli ottomani e, insieme, il sovrano che piu’ amava la miniatura al mondo - comincio’ a invecchiare, per prima cosa si allontano’ dai divertimenti, dal vino, dalla musica, dalla poesia e dalla miniatura. Una volta smesso di bere anche il caffe’, la sua mente si fermo’ del tutto; in preda alle paure dei vecchi annebbiati, trasferi’ la capitale del regno da Tabriz a Kazvin, che allora era possedimento persiano, perche’ fosse lontana dai soldati ottomani. E invecchiando ulteriormente, un giorno ebbe una crisi, sembrava posseduto dagli spiriti, si penti’ e giuro’ che non avrebbe mai piu’ bevuto vino, non avrebbe mai piu’ avuto a che fare con i fanciulli e non si sarebbe mai piu’ interessato alla miniatura; la prova che questo grande scia’, dopo aver perduto il piacere del caffe’, aveva perduto anche il buon senso. Cosi’, rilegatori, calligrafi, doratori e miniaturisti dalle mani miracolose che, da vent'anni, a Tabriz creavano le piu’ belle meraviglie del mondo, si dispersero di citta’ in citta’ come uno sciame d'api. I piu’ brillanti furono chiamati a Mashhad dal governatore Sultano Ibrahim Mirza, nipote e genero di Scia’ Tahmasp. Li sistemo’ nel suo laboratorio di miniatura e li fece lavorare a un meraviglioso libro illustrato con i sette poemi de I sette troni di Giami, il massimo poeta di Herat ai tempi di Tamerlano. Scia’ Tahmasp, che amava e insieme invidiava il nipote, pentito di avergli dato in sposa la figlia, quando seppe di questo libro meraviglioso s'ingelosi’ e in un accesso d'ira caccio’ il nipote dalla provincia di Mashhad e lo spedi’ nella citta’ di Kain e da li’ nella ancor piu’ piccola citta’ di Sebzivar. Cosi’ i calligrafi e i miniaturisti di Mashhad si dispersero in altre citta’, in altri paesi, nei laboratori di altri sultani e altri principi. Ma, per un miracolo, il meraviglioso libro di Ibrahim Mirza non rimase incompiuto grazie a un suo fedelissimo amante dei libri. Quest'uomo montava a cavallo e andava fino alla lontana Shiraz perche’ li’ c'era il maestro che faceva le dorature piu’ belle, da li’ portava due pagine a Isfahan al calligrafo con lo stile piu’ fine, attraversava le montagne fino a Bukhara dove faceva impostare la struttura dei disegni e i personaggi della storia dal piu’ grande maestro miniaturista che lavorava per il khan uzbeco; poi andava a Herat e, questa volta, faceva disegnare a memoria da uno dei vecchi maestri quasi ciechi l'erba e le foglie ricciute; sempre a Herat, si recava da un altro miniaturista e gli faceva scrivere a caratteri d'oro in stile rika la lastra sopra la porta del disegno, partiva di nuovo verso Sud, andava a Kain e mostrava al Sultano Ibrahim Mirza la pagina ancora a meta’ dopo sei mesi di viaggio e si godeva le sue lodi. Compresero che a questo ritmo non avrebbero mai finito il libro e assoldarono dei corrieri tartari. A ognuno di questi, insieme alla pagina da miniare diedero una lettera che spiegava all'artista il lavoro. E cosi’, per le strade di tutto il regno di Persia, del Khorasan, dell'Uzbekistan, della Transoxiana, passarono corrieri con le pagine del libro. Cosi’ come i corrieri, anche la produzione del libro acquisto’ velocita’. Capitava che, in una notte di neve in cui si udiva l'ululato dei lupi, il latore della cinquantanovesima pagina e quello della centosessantaduesima si incontrassero in un caravanserraglio, e chiacchierando amichevolmente si rendessero conto di lavorare per lo stesso libro e, portate le pagine dalle loro stanze, cercassero di capire a quale poema appartenessero e dove si trovassero una rispetto all'altra. Io avrei dovuto essere in una pagina di questo libro, ma oggi ho saputo che purtroppo e’ stato portato a termine. Un vero peccato: in un freddo giorno d'inverno i ladri tagliarono la strada al corriere tartaro che mi portava con se’ passando per i varchi rocciosi. Prima picchiarono il povero tartaro, poi, da veri briganti, lo rapinarono, lo violentarono e lo uccisero crudelmente. Per questo motivo non so neanch'io da quale pagina caddi esattamente. Vi chiedo il favore di guardarmi e di rispondere alle mie domande: avrei fatto ombra a Mejnun, vestito da pastore, che faceva visita a Leyla nella sua tenda? Mi sarei mescolato alla notte per esprimere il buio dell'anima del miscredente disperato? Avrei voluto accompagnare la felicita’ dei due innamorati che fuggono dal mondo e, attraversando i mari, trovano pace in un'isola piena di uccelli e frutta! Avrei voluto fare ombra agli ultimi momenti di Alessandro che mori’ sanguinando dal naso per giorni, dopo aver preso un colpo di sole durante la conquista dell'India. Sarei servito per esprimere la forza e l'eta’ del padre che dava consigli sull'amore e sulla vita? A quale storia avrei aggiunto significato e raffinatezza? Uno dei briganti che uccisero il corriere mi prese con se’ per poi portarmi ovunque; di tanto in tanto si ricordava del mio valore e mi mostrava riguardo come se avesse capito che era molto piu’ piacevole guardare il disegno di un albero che un albero, ma non sapendo a quale storia quest'albero appartenesse, presto si annoio’ di me. Questo bandito mi fece girare di citta’ in citta’ e non mi getto’ via come temevo, ma mi vendette per una brocca di vino a un uomo di cultura in un caravanserraglio. Di notte, questo pover'uomo a volte piangeva, a volte mi guardava alla luce di una candela. Quando mori’ di tristezza, i suoi averi vennero venduti. Arrivai a Istanbul grazie a un maestro cantastorie che mi compro’. Adesso sono molto felice, sono orgoglioso di essere qui, stanotte, tra voi miniaturisti e calligrafi che lavorate per il sultano ottomano, voi che avete mani miracolose, occhi d'aquila, ferrea forza di volonta’, polsi sottili e animo delicato, e vi supplico, per amor di Dio, di non credere a chi dice che sono stato disegnato in fretta e furia da un maestro miniaturista, su un foglio qualunque, per essere appeso al muro. Ascoltate quante altre bugie, quante calunnie, quante false credenze! Ricordate che, ieri sera, il mio padrone aveva appeso al muro il disegno di un cane e aveva raccontato le avventure di questo cane insolente e quelle di Maestro Husret di Erzurum? Adesso, coloro che amano il venerabile Maestro Nusret di Erzurum hanno frainteso; sembra che abbiano pensato che alludessimo a lui. Ma noi potremmo mai dire che non si sa chi sia il padre del nostro eccellente Effendi predicatore? Dio non voglia! Non ci passerebbe neanche per la testa! Che calunnia, che sfacciata menzogna e’ questa! Visto che Husret di Erzurum si confonde con Nusret di Erzurum, vi racconto la storia dell'albero di Maestro Nedret lo Strabico di Sivas. Questo Maestro Nedret lo Strabico di Sivas oltre a maledire l'amore per i bei fanciulli e la miniatura, sosteneva anche che il caffe’ fosse un'invenzione di Satana e che chi lo beveva sarebbe finito all'Inferno. Allora, Maestro di Sivas, hai dimenticato come si e’ piegato quel mio grande ramo? Ve lo racconto, ma giurate di non dirlo a nessuno, e che Allah ci protegga dalle calunnie. Una mattina vidi che un uomo gigantesco, alto come un minareto e con mani e piedi che parevano artigli di leone, e il tipo menzionato sopra, erano saliti su questo mio ramo e, nascosti tra le foglie, chiedo
scusa, scopavano senza ritegno. Seppi poi che il gigante era Satana, e mentre si accoppiavano il nostro gli baciava affettuosamente l'orecchio e gli bisbigliava: «il caffe’ e’ vietato dalla religione; il caffe’ e’ peccato...» Quindi, chi crede che il caffe’ sia dannoso vuol dire che crede a Satana, non ai comandamenti della nostra bella religione. Vi parlero’ anche dei miniaturisti europei, cosi’, se c'e’ qualche vile che vuole imitarli, che gli serva da lezione. Questi miniaturisti europei disegnano i volti dei re, dei preti, dei signori e delle dame cosi’ che, guardandone il ritratto, si riesce a riconoscere una persona anche per strada. Le loro donne girano liberamente per le strade, il resto ve lo lascio immaginare. Ma non e’ tutto, sono andati oltre. Non dico nella ruffianeria, ma nel disegno... Un grande maestro miniaturista europeo e un altro grande miniaturista camminavano su un prato europeo e parlavano di maestria e arte. Di fronte a loro si paro’ una foresta. Quello piu’ abile disse all'altro: «Disegnare con metodi nuovi significa avere una maestria tale che, una volta disegnato un albero di questa foresta, un appassionato che guardi il disegno venga qui e possa distinguere quell'albero in mezzo agli altri». Io, il povero disegno di albero che vedete, ringrazio Iddio per non essere stato disegnato con una simile mentalita’. Non perche’ abbia paura che se fossi stato disegnato con i metodi europei tutti i cani di Istanbul, credendomi vero, mi avrebbero pisciato sopra. Ma perche’ io non voglio essere un vero albero ma il suo significato.
Capitolo undicesimo. Il mio nome e’ Nero Comincio’ a nevicare a sera tarda e continuo’ fino al mattino dopo. Lessi e rilessi la lettera di seküre per tutta la notte. Camminavo nervoso su e giu’ per la stanza vuota della casa vuota e mi avvicinavo al candelabro per contemplare, alla pallida luce palpitante della candela, il tremolio nervoso delle furiose lettere della mia amata, le capriole che facevano per mentire, il loro procedere sinuoso. Rivedevo l'improvviso spalancarsi della persiana, il volto e il sorriso triste della mia amata quando mi era apparsa. Vedendo il suo vero volto, avevo dimenticato tutti quelli che avevo portato dentro di me, trasformandoli di tanto in tanto, per sei-sette anni, volti in cui la sua bocca color amarena si faceva sempre piu’ grande. Nel pieno della notte, a un certo punto fui preso da fantasie di matrimonio. Nella mia immaginazione non avevo dubbi sul mio amore, ne’ sul fatto che fosse corrisposto. Cosi’ ci sposavamo con grande gioia, ma poi in una casa con le scale la felicita’ sognata andava in frantumi. Non riuscivo a trovare un lavoro, litigavo con mia moglie che non mi dava retta. Quando capii di avere tratto queste cupe fantasie dal capitolo sui danni del matrimonio de La vivificazione delle scienze di Al Ghazzali, un libro che leggevo nelle mie notti da scapolo in Arabia, ormai a notte fonda, mi venne in mente che in quelle pagine c'erano molti piu’ discorsi sui vantaggi del matrimonio. Ma, nonostante i miei sforzi, di questi vantaggi letti tante volte riuscii a ricordarne solo due. Quando l'uomo si sposava, qualcuno si occupava dei lavori di casa, ma nella casa con le scale della mia immaginazione non se ne occupava nessuno. Era un modo per risparmiarmi le masturbazioni vissute con senso di colpa e il mio trascinarmi nei vicoli dietro ai ruffiani per andare con le prostitute, con un senso di colpa ancora piu’ forte. Questo pensiero di liberazione, a tarda notte mi fece venire voglia di masturbarmi. Avevo voglia di purezza e, per togliermi dalla testa al piu’ presto questa ossessione, mi ritirai come d'abitudine in un angolo della stanza, ma mi resi conto che non riuscivo a masturbarmi. Dopo dodici anni ero di nuovo innamorato! Questa prova lampante mi riempi’ il cuore di una agitazione e una paura tali che mi misi a camminare per la stanza tremando come la luce della candela. Se seküre si era mostrata alla finestra, che bisogno c'era di quella lettera che esprimeva una logica completamente contraria al suo comportamento? Se la figlia non mi vuole, perche’ il padre mi invita? Forse padre e figlia si stanno prendendo gioco di me. Camminavo su e giu’ per la stanza e sentivo che la porta, il muro, il pavimento che scricchiolava, cigolando e balbettando come me, tentavano di trovare una risposta alle mie domande. Guardai il disegno fatto anni prima, raccontava di come sirin s'innamorava di Cosroe vedendone il ritratto appeso al ramo di un albero. L'avevo fatto ispirandomi a un disegno uguale, era in un libro mediocre proveniente da Tabriz, mio zio l'aveva appena ricevuto. Guardarlo non mi imbarazzo’ (per la semplicita’ del disegno e della dichiarazione d'amore), come mi accadeva negli anni passati ogni volta che ci pensavo, ne’ mi riporto’ ai ricordi felici della mia giovinezza. Verso l'alba la mia mente riusci’ a riprendere il controllo e vidi il gesto di seküre che mi rimandava indietro il disegno, era una mossa di scacchi in un gioco d'amore abilmente studiato per me. Mi sedetti e, alla luce del candelabro, scrissi una lettera di risposta a seküre. Dopo aver dormito un po', al mattino mi misi la lettera sul petto e uscii per strada. Camminai a lungo. La neve aveva allargato le strade strette di Istanbul e aveva purificato la citta’ dalla folla. Tutto era piu’ silenzioso e piu’ immobile, come un tempo. Come nei nevosi giorni d'inverno della mia infanzia, sembrava che i tetti, le cupole e i giardini di Istanbul fossero pieni di corvi. Camminavo veloce ascoltando il rumore dei miei passi e guardando il vapore che mi usciva di bocca e mi agitavo, pensando che anche il laboratorio di miniatura del Palazzo, dove mio zio aveva voluto che andassi, era silenzioso come le strade. Prima di entrare nel quartiere ebreo, mandai un bambino da Esther per farle consegnare la lettera a seküre, indicandole un luogo dove incontrarci prima della preghiera di mezzogiorno. Andai subito al laboratorio dietro Santa Sofia. L'edificio dove ero stato apprendista da bambino e che avevo frequentato con mio zio non era affatto cambiato, a parte i ghiaccioli che pendevano dalle gronde. Il bell'apprendista davanti e io dietro, passammo tra gli anziani maestri rilegatori in preda a un perenne capogiro dovuto
agli odori di colla e solventi, ai miniaturisti piu’ abili gia’ gobbi da giovani, ai ragazzi che mescolavano i colori senza guardare le ciotole appoggiate sulle ginocchia con gli occhi tristemente fissi sulle fiamme del focolare. In un angolo notai un vecchio che decorava meticolosamente l'uovo di struzzo che teneva in grembo, un altro anziano che disegnava allegramente su un cassetto e un apprendista che li seguiva con rispetto. Attraverso una porta aperta vidi giovani studenti che, rimproverati dai maestri, avvicinavano il volto paonazzo ai fogli, quasi a toccarli, per capire dove avessero sbagliato. In un'altra cella, un apprendista triste e malinconico, dimenticati i colori, i fogli e il disegno, guardava la strada dove, poco fa, camminavo agitato. Ero un estraneo. Imboccammo le scale ghiacciate. Camminammo sotto il portico che costeggiava le quattro pareti del secondo piano. Giu’, nel chiostro coperto di neve, due studenti bambini erano in attesa di qualcosa, forse di un castigo, e nonostante i pesanti mantelli di lana grezza tremavano di freddo. Mi venne in mente la mia giovinezza, le botte agli studenti pigri che sprecavano i colori costosi, le bastonate a sangue sulle piante dei piedi. Entrammo in una stanza calda. Vidi due apprendisti comodamente seduti sulle ginocchia, ma non erano i maestri dei miei sogni, erano giovani che avevano appena concluso il loro tirocinio. Questa stanza che un tempo suscitava in me tanto rispetto ed entusiasmo, non sembrava piu’ il grande laboratorio di un ricco sultano; i grandi maestri che portavano i soprannomi inventati da Maestro Osman ormai lavoravano a casa, e il laboratorio ricordava la grande stanza di un caravanserraglio sperduto tra le montagne d'Oriente. Maestro Osman, che rivedevo per la prima volta dopo quindici anni davanti a un tavolino li’ accanto, sembrava un'ombra, un fantasma. Ogni volta che, nel corso dei miei viaggi, sognavo di disegnare, mi appariva nella luce bianca di neve della finestra che dava su Santa Sofia, aveva le fattezze del grande Behzat, e con il suo abito bianco sembrava uno spirito dell'aldila’. Gli baciai la mano coperta di nei e gli ricordai chi ero. Gli raccontai che mio zio mi aveva portato qui da bambino, ma io avevo preferito la penna e me n'ero andato trascorrendo poi anni nelle citta’ d'Oriente come scrivano di pascia’ e di governatori. Insieme a Serhat Pascia’ e ad altri, a Tabriz, avevo conosciuto calligrafi e miniaturisti e avevo fatto preparare dei libri; ero stato a Baghdad e ad Aleppo, a Van e a Tiblisi, e avevo visto tante guerre. «Ah, Tiblisi! - disse il grande maestro guardando la luce che filtrava dal giardino innevato attraverso la tela cerata della finestra. - Stara’ nevicando anche li’?» Si comportava come i maestri persiani di una volta che diventavano ciechi man mano che diventavano piu’ abili, e che, dopo una certa eta’, conducevano una vita mezza da santi e mezza da rimbambiti narrando infinite leggende, ma dai suoi occhi intelligenti riuscii a capire che odiava mio zio in maniera violenta e non si fidava neanche di me. In ogni modo, gli raccontai che nei deserti d'Arabia la neve scende anche sui ricordi, non come qui solo su Santa Sofia. Quando nevica sulla rocca di Tiblisi, le donne che lavano i panni cantano canzoni piene del colore dei fiori e i bambini nascondono i gelati sotto i cuscini per poi mangiarli d'estate. «Raccontami, nei paesi dove sei stato, i miniaturisti e i pittori cosa dipingono, cosa disegnano?», mi domando’. Il giovane miniaturista sognante che in un angolo tracciava contorni perduto nei suoi sogni, alzo’ la testa e mi guardo’ insieme agli altri come per dire: adesso raccontaci la favola piu’ vera. A costoro, persone che in gran parte non sapevano neanche chi fosse il droghiere del loro quartiere, ne’ quanto costasse un'okka di pane, raccontai gli ultimi pettegolezzi che venivano da Oriente, dalle terre di Persia. Perche’ io venivo da li’, dall'Oriente, dalle terre di Persia dove gli eserciti combattevano, i principi si sgozzavano a vicenda e saccheggiavano e incendiavano le citta’, dove della guerra e della pace si parlava ogni giorno, dove da secoli si scrivevano le poesie piu’ belle e si facevano le miniature e i disegni piu’ belli. «Negli ultimi anni della sua vita Scia’ Tahmasp, che come sapete regno’ per cinquantadue anni, aveva dimenticato il suo amore per i libri, la miniatura e il disegno, aveva voltato le spalle a poeti, miniaturisti e calligrafi e si era dato al culto. Quando mori’ gli succedette il figlio Ismail, - dissi. - Il nuovo scia’, tenuto in prigione per vent'anni dal padre, del quale conosceva il carattere irascibile e litigioso, appena salito al trono impazzi’ e si libero’ dei fratelli, sgozzandone alcuni e accecandone altri. Ma i suoi nemici, alla fine, lo avvelenarono con l'oppio e fecero salire al trono Muhammet Hüdabende, il fratello maggiore debole di mente. Durante il suo regno si ribellarono tutti, i principi, i fratelli, i governatori, gli uzbechi, si fecero guerra tra di loro e con il nostro Serhat Pascia’, cose che le terre di Persia furono divise e devastate. L'attuale scia’, squattrinato, stupido e mezzo cieco non ha avuto la forza di far scrivere libri, ne’ di farli illustrare. Cosi’, quei leggendari miniaturisti di Kazvin e di Herat, tutti gli anziani maestri che crearono meraviglie nel laboratorio di Scia’ Tahmasp e i loro apprendisti, i pittori che facevano correre i cavalli al galoppo e volare le farfalle dalle pagine, i maestri del colore, tutti quei rilegatori, i piu’ esperti calligrafi sono rimasti senza lavoro, senza soldi e addirittura senza tetto. Chi e’ immigrato a Nord tra gli uzbechi, chi in India, chi qui a Istanbul. Qualcuno ha cambiato lavoro consumando se stesso e il proprio onore. Qualcuno ha cominciato a lavorare a libri grandi come il palmo di una mano in cui c'erano al massimo tre, quattro pagine disegnate, su commissione di piccoli principi, tutti nemici tra loro, o di governatori. E cosi’, in ogni dove si sono diffusi libri di poco valore, scritti velocemente e disegnati senza cura per il piacere di semplici soldati, pascia’ grossolani e principi viziosi». «A quanto si vendono?», chiese Maestro Osman. «Si dice che il grande Maestro Sadiki abbia disegnato uno Strane creature commissionato da un cavaliere uzbeco per sole quaranta monete d'oro. Nella tenda di un pascia’ che tornava a Erzurum dopo un viaggio in Oriente, vidi una raccolta di disegni osceni tra i quali alcuni usciti dalla mano di Maestro Siyavus. Qualche grande maestro che non riesce a non disegnare fa singoli disegni che appartengono a un libro, a una storia, e li vende. Quando guardi quel singolo disegno non ti chiedi a che storia, a che scena appartenga, lo guardi solo per il disegno in se’, per il piacere di ammirarlo, dici, per esempio, questo e’ come un cavallo vero, che bello, e paghi il pittore per questo. Sono molto richiesti i disegni di guerra e quelli in cui la gente scopa. Una scena affollata di guerra e’ arrivata fino a trecento akçe e
non la ordina quasi nessuno. C'e’ chi, per tenere i prezzi bassi, disegna in bianco e nero senza usare il colore, su carta grezza». «Avevo un doratore tanto felice e dotato di grande talento, - disse Maestro Osman. - Lavorava con una tale finezza che lo chiamavamo Raffinato Effendi. Ma anche lui ci ha lasciati e se n'e’ andato. Sono ormai sei giorni che non lo vediamo. scomparso». «Ma come si fa a lasciare questo laboratorio, questa lieta casa paterna e ad andarsene via?», domandai. «I quattro giovani maestri che ho cresciuto di persona fin dall'apprendistato, Farfalla, Oliva, Cicogna e Raffinato, ormai lavorano agli ordini del Nostro Sultano», disse Maestro Osman. In apparenza questo era per farli lavorare meglio per il surname a cui si interessava tutto il laboratorio. Questa volta il sultano non aveva fatto preparare un angolo speciale nel cortile del Palazzo per i maestri miniaturisti che avrebbero preparato il libro speciale, aveva ordinato loro di lavorare a casa. Restai in silenzio a riflettere che l'ordine poteva essere stato dato per il libro di mio zio. Ma perche’ Maestro Osman parlava in maniera cosi’ allusiva? «Nuri Effendi, - chiamo’ un miniaturista gobbo e pallido. - Illustra la situazione a Nero Effendi!» Quella della «situazione» era la cerimonia che si faceva ogni due mesi, durante le visite del Nostro Sultano al laboratorio, quando lui seguiva da vicino e con entusiasmo i progressi del laboratorio. Al sultano, accompagnato dal capo Tesoriere Hazim, dal capo poeta di corte Lokman e dal capo miniaturista Maestro Osman, veniva spiegato a quali pagine di quali libri stavano lavorando i maestri del laboratorio, chi faceva una certa doratura, chi colorava un certo disegno, uno ad uno tutti i lavori dei maestri del colore, dei contorni, dei doratori, degli abili miniaturisti dai mille talenti. Ormai questa cerimonia non si teneva piu’ perche’ l'autore di molti libri illustrati, il capo poeta di corte Lokman Effendi, era vecchio e non usciva di casa, il capo miniaturista Osman era scomparso tra i fumi del risentimento e della rabbia, e i quattro maestri noti come Farfalla, Oliva, Cicogna e Raffinato lavoravano a casa, e poi, nel laboratorio, il Nostro Sultano non si entusiasmava piu’ come un bambino; mi rattristo’ vedere questo surrogato di cerimonia. Come accade a molti miniaturisti, Nuri Effendi era invecchiato invano, senza vivere la sua vita e senza diventare maestro, ma non invano si era piegato sul tavolo ed era diventato gobbo. Aveva sempre fatto attenzione a quello che succedeva nel laboratorio, a chi faceva una pagina bella. Cosi’, pieno d'entusiasmo, guardai per la prima volta le leggendarie pagine del surname che raccontavano le feste di circoncisione dei figli del Nostro Sultano. Gia’ nella lontana Persia avevo sentito di questa festa di circoncisione durata cinquantadue giorni a cui aveva preso parte tutta Istanbul, uomini di tutti i mestieri, di tutte le corporazioni, avevo gia’ avuto notizia del libro che raccontava la festa mentre ancora vi si lavorava. Nel primo disegno che mi venne mostrato, il Nostro Grande Sultano era seduto con orgoglio nel bovindo del palazzo del compianto Ibrahim Pascia’ e contemplava con sguardo benevolo i festeggiamenti che si svolgevano giu’ nell'Ippodromo. Anche se il suo volto non aveva nulla che lo distinguesse dagli altri, era disegnato con cura e rispetto. Nella pagina destra del disegno - il Nostro Sultano era sulla sinistra - alle finestre, sotto le arcate, c'erano visir, pascia’, ambasciatori persiani, tartari, europei e veneziani. Tutti avevano gli occhi - occhi disegnati in fretta, senza cura, e privi di un obiettivo, a differenza di quelli del sultano - puntati sul movimento nella piazza. Negli altri disegni vidi che la stessa sistemazione e la stessa organizzazione si ripetevano, come le decorazioni sui muri, gli alberi e le tegole, e che, benche’ disegnati in maniera e con colori diversi, erano tutti uguali. Una volta che i calligrafi avessero completato le iscrizioni, finiti i disegni e rilegato il surname, un lettore, sfogliandone le pagine, sotto lo sguardo sempre identico del sultano avrebbe visto sempre la stessa piazza, e sotto lo sguardo della folla di invitati, ogni volta un movimento diverso tra colori diversi. Lo vidi anch'io. Vidi quelli che ghermivano il riso dalle centinaia di ciotole messe nell'Ippodromo e quelli che si spaventavano per i conigli, gli uccelli che uscivano dal bue arrostito durante il saccheggio. Vidi maestri stagnini che passavano su un carro con tutta la corporazione davanti al Nostro Sultano, avevano steso uno di loro e sul suo petto nudo avevano posto un'incudine e battevano il rame senza mai toccare l'uomo con i martelli. Vidi vetrai che ricamavano garofani e cipressi sul vetro mentre passavano coi carri davanti al sultano; venditori di dolci che declamavano dolci poesie mentre passavano con sacchi e sacchi di dolciumi caricati sui cammelli e pappagalli di zucchero dentro le gabbie; vecchi fabbricanti di serrature che nei carri ne esponevano di diversi tipi, con ganci, chiavistelli e con i denti, e passavano lamentandosi della bruttezza dei nuovi tempi e delle nuove porte. Nel disegno che mostrava i giocolieri c'era la mano dei maestri, di Farfalla, Cicogna e Oliva. Un giocoliere faceva rotolare delle uova su un palo senza farle cadere come se fossero su una grande lastra di marmo e un altro suonava il tamburello. L'ammiraglio Kiliç Ali Pascia’ aveva costretto gli infedeli catturati in mare e resi schiavi a costruire una montagna di fango e li aveva caricati tutti su un carro, poi, proprio davanti al sultano aveva fatto esplodere la polvere da sparo dentro la montagna, dimostrando cosi’ di aver distrutto il paese degli infedeli con i suoi cannoni. Vidi tutto questo cosi’ come era nel disegno. Vidi macellai senza barba ne’ baffi, con visi da donna, vestiti di rosa e di viola che, con la mannaia in mano, sorridevano ai montoni scuoiati che pendevano rosei dal gancio. Il leone portato in catene davanti al sultano aveva gli occhi rossi dalla rabbia perche’ era stato irritato e preso in giro, gli spettatori applaudivano i guardiani mentre, nella pagina seguente, un personaggio che rappresentava l'Islam cacciava il maiale rosa e grigio che rappresentava gli infedeli. Dopo aver guardato a lungo anche il disegno del barbiere appeso a testa in giu’ al soffitto della sua bottega che faceva barba e capelli al suo cliente e quello del garzone vestito di rosso che aspettava la mancia porgendo al cliente specchio e sapone profumato in un contenitore d'argento, domandai chi fosse quel meraviglioso miniaturista. «importante che il disegno con la sua bellezza chiami l'uomo alla ricchezza della vita, all'amore, al rispetto per i colori dell'universo creato da Allah, al pensiero interiore e alla fede. L'identita’ dell'autore non e’ importante».
Nuri Effendi era molto piu’ raffinato di quanto pensassi e si comportava prudentemente perche’ aveva capito che mio zio mi aveva mandato a indagare, o ripeteva le parole di Maestro Osman? «Queste dorature le aveva fatte tutte Raffinato Effendi? - gli chiesi. - Chi fa le dorature al suo posto adesso?» Dalla porta aperta verso il cortile interno cominciarono ad arrivare urla, grida di bambini. Presumibilmente, una delle squadre bastonava le piante dei piedi ai novizi che avevano nascosto polvere di granata o lamine d'oro in un foglio, probabilmente a quei due che poco fa aspettavano fuori, tremando di freddo. I giovani miniaturisti che non vedevano l'ora di distrarsi corsero alla porta per vedere cosa stesse accadendo. «Speriamo che, mentre i novizi finiscono di colorare di rosa il terreno della piazza come ha ordinato il nostro Maestro Osman, nostro fratello Raffinato Effendi torni da dove e’ andato e finisca la doratura di queste due pagine, - disse prudentemente Nuri Effendi. - Maestro Osman ha chiesto a Raffinato Effendi di colorare il terreno dell'Ippodromo ogni volta di un colore diverso. Rosa, verde indiano, giallo zafferano o merda d'oca. Perche’ l'occhio che guarda capisce fin dal primo disegno che quella e’ la piazza e va bene che sia color terra, ma al secondo, al terzo disegno, per distrarsi, vuole altri colori. La miniatura si fa per rallegrare la pagina». In un angolo notammo un foglio disegnato lasciato da un apprendista. Stava lavorando a un disegno di una sola pagina, era un elogio della vittoria che mostrava la flotta che andava in guerra, e udendo le urla dei suoi amici con le piante dei piedi spaccate dalle bastonate era andato a vedere. La flotta era fatta di navi tutte uguali, disegnate passando e ripassando un unico stampo, non galleggiava assolutamente sul mare, ma questa temporaneita’ e la mancanza di vento nelle vele non dipendevano dallo stampo ma dall'incapacita’ del giovane miniaturista. Fu triste vedere che il modello era stato ritagliato selvaggiamente da un vecchio libro che non riuscivo a capire quale fosse o da una raccolta calligrafica. Evidentemente Maestro Osman non badava piu’ a molte cose. Quando fu il turno del suo tavolo di lavoro, Nuri Effendi disse con orgoglio che la doratura del monogramma del sultano a cui lavorava da tre settimane era finita. Guardai con rispetto il monogramma e la doratura fatta su un foglio vuoto perche’ non si capisse a chi e per quale motivo veniva inviato. In Oriente vidi molti pascia’ irascibili rinunciare alla ribellione alla sola vista della nobile e forte bellezza del monogramma del sultano. Poi vedemmo le ultime meraviglie finite e lasciate dal calligrafo Cemal, e per non dare ragione ai nemici del colore e della miniatura che sostengono che la vera arte e’ quella della calligrafia e la miniatura solo un pretesto per metterla in evidenza, passammo velocemente oltre. Nasir, esperto di contorni, cercando di restaurarla, stava rovinando una pagina di un Hamse (1) di Nizami che risaliva ai tempi dei figli di Tamerlano, il disegno rappresentava il momento in cui Cosroe vedeva sirin nuda mentre si bagnava. Un vecchio maestro novantaduenne e mezzo cieco che non aveva nulla da raccontare se non che sessant'anni prima, a Tabriz, aveva baciato la mano a Maestro Behzat e che, allora, il grande e leggendario maestro era cieco e ubriaco, ci mostro’ con mani tremanti i fregi della scatola di matite che avrebbe finito di li’ a tre mesi per donarla al Nostro Sultano in occasione dei festeggiamenti per il bayram. Tutto il laboratorio con i suoi quasi ottanta miniaturisti, studenti e apprendisti che lavoravano nelle piccole celle delle stanze del piano di sotto, era immerso nel silenzio. Era il silenzio che segue le punizioni e che in passato avevo ascoltato tante volte; a volte era rotto da una risata nervosa o da uno scherzo, a volte da un paio di singhiozzi e da un sospiro represso prima del pianto che facevano ricordare ai maestri miniaturisti le botte ricevute da apprendisti. Il maestro novantaduenne mezzo cieco, per un attimo, mi fece sentire qualcosa di piu’ profondo, il fatto che qui, lontano da guerre e devastazioni, tutto stava per finire. Subito prima del Giorno del Giudizio ci sara’ questo silenzio. La miniatura e’ il silenzio della mente, la musica dell'occhio. Mentre baciavo la mano di Maestro Osman per salutarlo, provai grande rispetto e allo stesso tempo qualcosa di molto diverso, che mi turbo’: una forma di pena mescolata all'ammirazione che si prova per un santo, uno strano senso di colpa. Forse perche’ mio zio, che desiderava imitare lo stile dei maestri europei, di nascosto o apertamente, era un suo rivale. Nello stesso istante decisi che era l'ultima volta nella vita che avrei visto il grande maestro e, con l'ansia di piacergli e di rallegrarlo, gli domandai: «Grande Maestro, Mio Signore, cosa distingue un vero miniaturista da un miniaturista qualunque?» Pensavo che il Maestro fosse abituato a questo tipo di domande un po' adulatorie, mi avrebbe dato una risposta superficiale e mi avrebbe poi dimenticato completamente. «Non c'e’ un unico criterio che distingue il vero miniaturista dal miniaturista incapace e senza fede, - rispose con aria seria. - Cambia a seconda delle epoche. Sono importanti la moralita’ e la capacita’ del miniaturista di far fronte alle cattiverie che minacciano la nostra arte. Oggi, per capire quanto sia speciale un miniaturista, io gli chiederei tre cose». «Quali?» «Se si adegua ai nuovi costumi e si lascia influenzare da cinesi ed europei e insiste a dire, ah, voglio avere un mio metodo personale di disegno, un mio stile. Se come miniaturista vuole avere un'affettazione, un'aria, e se cerca di dimostrare questo suo desiderio mettendo la firma in un angolo della sua opera come i maestri europei. Ecco, per capire, gli chiederei per prima cosa dello stile e della firma». «E poi?», chiesi rispettosamente. «Poi vorrei sapere cosa prova questo miniaturista pensando che, una volta morti gli scia’ e i sultani che ci ordinano i libri, questi volumi passeranno in altre mani, andranno fatti a pezzi e i nostri disegni verranno usati in altri libri. una cosa delicata che non si puo’ impedire ne’ rattristandosi ne’ rallegrandosi. Percio’ al miniaturista avrei chiesto del tempo. Il tempo della miniatura e il tempo di Allah. Hai capito figliolo?» No. Ma non glielo dissi e domandai: «E per terza?»
«Terza viene la cecita’!», disse il grande maestro, il capo miniaturista Osman, e rimase zitto come se avesse espresso un concetto ovvio, da non richiedere commento. «In che senso la cecita’?», chiesi imbarazzato. «La cecita’ e’ silenziosa. Se tu unisci il primo e il secondo punto che ti ho detto poco fa appare la cecita’. Il luogo piu’ profondo della miniatura e’ vedere quello che appare nel buio di Allah». Rimasi in silenzio, uscii fuori. Scesi senza fretta per le scale ghiacciate. Sapevo che avrei posto le tre grandi domande del grande maestro a Farfalla, a Oliva e a Cicogna, non solo per entrare in argomento, ma per capire questi miei coetanei divenuti leggendari gia’ in vita. Ma non andai subito a casa dei maestri miniaturisti. Incontrai Esther in un nuovo mercato, vicino al quartiere ebreo, affacciato sulla collina alla confluenza tra Corno d'Oro e Bosforo. In mezzo a serve che facevano la spesa, donne dei quartieri poveri con larghi caftani sbiaditi, tra la folla concentrata su carote, mele cotogne, cipolle e mazzi di ravanelli, Esther con l'abito rosa da ebrea che era costretta a indossare, vivace e corpulenta, con la bocca sempre aperta e gli occhi che roteavano, le sopracciglia in movimento per mandare segnali, era sempre esuberante. Si infilo’ nei salvar la lettera che le diedi con gesto veramente misterioso e abile, come se tutta la gente del mercato ci stesse spiando. Disse che seküre mi pensava. Prese la sua mancia e quando le raccomandai: «Portagliela in fretta», indico’ il suo fagotto, facendomi capire di avere ancora molto da fare e che avrebbe portato la lettera a seküre solo verso mezzogiorno. Le dissi di informare seküre che sarei andato a trovare i tre grandi giovani maestri. NOTE: (1) Letteralmente «cinque»; si tratta di un componimento poetico composto da cinque mesnevi. Il primo esempio di Hamse nella letteratura persiana e’ quello di Nizami.
Capitolo dodicesimo. Mi chiamano Farfalla Poco prima della preghiera di mezzogiorno suonarono alla porta, andai a vedere: era Messer Nero. Quando ero apprendista, per un certo periodo era stato dei nostri. Ci abbracciammo e ci baciammo. Stupito, stavo per chiedergli se portasse notizie di suo zio quando disse che voleva vedere i miei disegni, le mie tavole, che era venuto in amicizia e mi avrebbe fatto una domanda da parte del Nostro Sultano. Dissi, va bene. Che domanda mi tocca? Me lo disse. Va bene! Lo stile e la firma Finche’ crescera’ il numero di coloro che non disegnano per il piacere dell'occhio e la fede, ma per il denaro e la fama, vedremo molte cose brutte e molta avidita’ dovute alla preoccupazione di possedere uno stile e apporre una firma. Non lo ripetevo perche’ ci credevo ma perche’ andava fatto: il vero talento e la vera arte non si guastano neanche con la brama di oro e di fama. Anzi, a dire il vero, come nel mio caso, il denaro e la fama sono diritti di chi ha talento e lo stimola. Ma se lo dicessi, i miniaturisti mediocri, quelli che muoiono di gelosia, mi darebbero addosso per essermi sbilanciato troppo e mi toccherebbe disegnare un albero su un chicco di riso per dimostrare che amo il lavoro piu’ di quanto non lo amino loro. So bene che lo stile e questa brama di firma e personalita’ sono arrivati dall'Oriente, per l'influenza di alcuni poveri maestri cinesi traviati e ingannati da disegni occidentali portati da preti gesuiti, sono ormai qualcosa di molto vicino. A questo proposito, vorrei raccontarvi tre storie, in modo da trarne una lezione: Tre esempi di stile e di firma |Alif C'era una volta un giovane khan amante della miniatura e della pittura che viveva nella sua fortezza tra le montagne a Nord di Herat. Il khan amava solo una donna del suo harem. E la bellissima ragazza tartara di cui era pazzo ricambiava il suo amore. Si amavano sudando come matti fino all'alba ed erano tanto felici da desiderare che la loro vita continuasse sempre cosi’. Scoprirono che la via migliore per realizzare questo loro desiderio era aprire i libri e guardarli per ore e ore, giorni e giorni, guardare senza mai fermarsi i perfetti e meravigliosi disegni dei vecchi maestri. Guardando i disegni perfetti delle favole che si ripetevano senza mai cambiare sentivano che il tempo si fermava e la loro felicita’ si confondeva con il tempo beato del periodo d'oro narrato dalla favola. Nel laboratorio di miniatura del khan c'era un miniaturista, maestro dei maestri, che riproduceva gli stessi disegni per le pagine degli stessi libri con la stessa perfezione. Per sua abitudine, quando disegnava su una pagina le pene d'amore di Ferhat per sirin, gli sguardi ammirati e nostalgici di Mejnun e Leyla che si incontrano, Cosroe e sirin che si fissano con sguardi espressivi e pieni di significato nel paradisiaco giardino da fiaba, al posto degli innamorati il maestro disegnava il khan e la bella tartara. Quando il khan e la sua amata osservavano queste pagine pensavano veramente che la loro felicita’ non avrebbe mai avuto fine e riempivano il maestro di oro e di lodi. Alla fine, quest'abbondanza di oro e complimenti travio’ il maestro che, con lo zampino di Satana, dimentico’ di dovere la sua perfezione agli antichi maestri e credette, orgoglioso, che se vi avesse messo qualcosa della sua personalita’ i disegni sarebbero piaciuti di piu’. Invece, il khan e la sua amata accolsero queste novita’, le tracce dello stile personale del miniaturista, come difetti, e se ne dispiacquero. Quando il
khan senti’ che la loro felicita’ di un tempo nei disegni che guardavano tanto a lungo qua e la’ si era guastata, innanzitutto divenne geloso della bella tartara, perche’ veniva disegnata sempre per prima sulle pagine. Poi, per far ingelosire la bella tartara fece l'amore con un'altra concubina. Quando la bella tartara lo venne a sapere dai pettegoli dell'harem, si rattristo’ talmente che si impicco’ in silenzio a un cedro nel cortile dell'harem. E il khan, resosi conto del suo errore e capito che dietro tutta la faccenda c'era la brama di stile del miniaturista, quello stesso giorno fece accecare il maestro traviato da Satana. |Ba C'era una volta, in un paese d'Oriente, un anziano e felice re appassionato di miniatura che viveva felicemente con la sua bellissima nuova sposa cinese. Nel tempo, i cuori dell'avvenente figlio di primo letto del re e della giovane moglie si avvicinarono. Il figlio, terrorizzato dall'idea di tradire il padre, vergognandosi del suo amore proibito, si chiuse nel laboratorio e si dedico’ alla pittura. Dato che disegnava con tristezza e con la forza dell'amore, i suoi disegni erano cosi’ belli che guardandoli non si riusciva a distinguerli da quelli degli antichi maestri e suo padre il re ne era molto orgoglioso. La giovane moglie cinese guardava i disegni e diceva: «Si’, e’ molto bello! Ma passeranno gli anni, e se non mette la sua firma nessuno sapra’ che l'autore di questa meraviglia e’ lui». E il re diceva: «Se mio figlio firma, non si appropria ingiustamente di un disegno fatto imitando gli antichi maestri? E poi, firmare, non sarebbe come affermare che il disegno porta il suo difetto?» La moglie cinese, resasi conto di non poter convincere l'anziano marito, riusci’ a persuadere dei suoi ragionamenti sulla firma il figlio chiuso nel laboratorio. Ferito nell'orgoglio per aver dovuto seppellire il suo amore, il figlio volle credere all'idea della sua giovane e bella matrigna e, con lo zampino di Satana, appose la sua firma in un angolo di un disegno, un angolo che pensava non si vedesse assolutamente, tra l'erba e il muro. Il primo disegno che firmo’ era una scena tratta dal Cosroe e sirin. Si sa, dopo il matrimonio con sirin, Siruye, figlio di primo letto di Cosroe, si innamora di lei e una notte entra dalla finestra e conficca il pugnale nel cuore del padre che le dorme accanto. Ecco, mentre l'anziano re guardo’ la scena disegnata dal figlio, all'improvviso intui’ un difetto, aveva visto la firma, ma come capita a molti di noi, non si rese conto di averla proprio vista, ebbe solo la sensazione di aver visto «un disegno difettoso». Dato che non era nello stile degli antichi maestri, l'anziano re si agito’. Questo significava che il volume che leggeva non raccontava una storia, una leggenda, ma qualcosa di meno adatto a un libro, una verita’. Quando il vecchio lo intui’, ebbe paura. E in quello stesso istante, come nel disegno, il figlio miniaturista entro’ dalla finestra e senza guardare gli occhi del padre sbarrati per la paura, conficco’ il pugnale, grande come quello del disegno, nel petto del padre. |Gim Nella sua opera storica, Rasidüddin di Kazvin scrive con piacere che duecentocinquant'anni fa, a Kazvin, la decorazione dei libri, la calligrafia e la miniatura erano le arti piu’ stimate e amate. Lo scia’ allora al trono, che dominava quaranta paesi, da Bisanzio fino alla Cina (l'amore per la miniatura puo’ essere il segreto di questo grande potere), purtroppo non aveva un figlio maschio. Quando lo scia’ decise di dare in moglie la sua bella figlia a un intelligente miniaturista, perche’ i paesi conquistati non si dividessero, organizzo’ una gara tra i tre grandi giovani maestri scapoli del suo laboratorio. A quanto racconta Rasidüddin, le regole della gara erano molto semplici: vince chi fa il disegno piu’ bello! Dato che, proprio come Rasidüddin, anche i giovani miniaturisti sapevano che questo significava disegnare come gli antichi maestri, tutti e tre disegnarono la scena piu’ amata. In un giardino paradisiaco, tra cipressi e cedri, conigli timidi e rondini in volo, una bella fanciulla con gli occhi fissi a terra soffriva le pene d'amore. Colui che piu’ voleva emergere tra i tre che, l'uno all'insaputa dell'altro, proprio come gli antichi maestri, fecero lo stesso disegno, per appropriarsi della bellezza del disegno nascose la sua firma nel luogo piu’ segreto, tra i narcisi. Ma per questa insolenza, che lo allontano’ dalla modestia degli antichi maestri, venne cacciato da Kazvin ed esiliato in Cina. Cosi’ si fece una seconda gara tra gli altri due maestri. Questa volta, entrambi fecero un disegno bello come una poesia, che mostrava una bella fanciulla in un giardino meraviglioso, a cavallo. Uno dei due miniaturisti aveva disegnato uno strano naso al bianco destriero della fanciulla dai lineamenti orientali, non si capiva se l'avesse fatto apposta o per errore, ma il particolare venne notato da padre e figlia come un difetto. Il miniaturista non aveva apposto la sua firma, ma per far risaltare il suo meraviglioso disegno aveva abilmente messo un difetto al naso del cavallo. Il difetto e’ la madre dello stile, disse lo scia’, e mando’ il miniaturista in esilio a Bisanzio. Secondo l'enorme volume di Rasidüddin di Kazvin, mentre fervevano i preparativi per le nozze tra la figlia dello scia’ e l'abile maestro che aveva disegnato senza firmare e senza un difetto, proprio come gli antichi maestri, accadde dell'altro. Alla vigilia delle nozze, la figlia dello scia’ passo’ la giornata a guardare tristemente il disegno fatto dal giovane e avvenente maestro che l'indomani sarebbe diventato suo sposo. Mentre scendeva il buio della sera, ando’ dal padre e gli disse: «Nei loro meravigliosi disegni, gli antichi maestri disegnavano le belle fanciulle come cinesi e questa e’ una regola immutabile che viene dall'Oriente, e’ giusto. Ma quando ne amavano una, lasciavano un segno, qualcosa della loro amata sulle sopracciglia, sugli occhi, sulle labbra, sui capelli, sul sorriso, sulle ciglia della donna disegnata. Questo difetto segreto sistemato nei disegni era il segno del loro amore, lo potevano trovare solo loro e le loro amate. Ho guardato tutto il giorno il disegno della bella fanciulla a cavallo, caro padre, e in lei non vi e’ segno di me! Questo miniaturista e’ forse un grande maestro, e’ giovane e avvenente, ma non mi ama». Cosi’ lo scia’ annullo’ immediatamente le nozze e padre e figlia vissero insieme per tutta la vita. «Allora, secondo questa terza storia, il difetto che da’ origine a quello che chiamiamo stile, si rivela da un segno segreto nel viso, negli occhi e nel sorriso della bella di cui e’ innamorato il miniaturista», domando’ Nero con un atteggiamento gentile e rispettoso. «No, - dissi con aria fiera e sicuro di me. - Alla fine, quel che
passa nel disegno della fanciulla che ama, non e’ piu’ un difetto ma diventa regola. Dopo un po' tutti cominciano a imitare il maestro e disegnano i volti delle fanciulle uguali a quello». Rimanemmo un po' in silenzio. Quando vidi Nero che aveva ascoltato attentamente le mie tre storie, distratto dai rumori che faceva mia moglie camminando nella stanza accanto e nell'anticamera, cominciai a fissarlo negli occhi. «La prima storia dimostra che lo stile e’ un difetto, - dissi. - La seconda che il disegno perfetto non ha bisogno di firma. E la terza, unisce i concetti della prima e della seconda e dimostra che la firma e lo stile non sono altro che una stupida e insolente vanita’». Ma cosa capiva della miniatura quest'uomo a cui stavo dando una lezione? Gli dissi: «Hai capito dalle mie storie chi sono?» «Si’, l'ho capito», rispose, ma non sembrava affatto convinto. Non cercate di capirmi attraverso il suo sguardo e la sua percezione, ve lo dico direttamente io chi sono. Sono capace di fare qualsiasi cosa. Disegno e coloro, divertendomi e ridendo come gli antichi maestri di Kazvin. Sono migliore degli altri e lo dico con il sorriso. E non ho assolutamente nulla a che fare con la scomparsa di Raffinato Effendi, motivo per cui Nero e’ venuto qui, se le mie intuizioni sono giuste. Nero mi chiese come si conciliavano il matrimonio e l'arte. Lavoro molto e lo faccio con piacere. Mi sono appena sposato con la piu’ bella ragazza del quartiere. Quando non dipingo facciamo l'amore come matti. Poi torno al mio lavoro. Ma non gli risposi in questo modo. Gli dissi che era una questione molto importante. Gli dissi che se un miniaturista fa meraviglie con il suo pennello sul foglio, quando giace con sua moglie non puo’ essere altrettanto alacre. Ma potrebbe essere vero anche il contrario, aggiunsi: se il pennello del miniaturista rende felice sua moglie, sul foglio l'altro pennello non brilla altrettanto. Come tutti coloro che sono gelosi del talento dei miniaturisti, anche Nero credette a queste bugie e se ne rallegro’. Mi disse che voleva vedere le ultime pagine che avevo dipinto. Lo feci sedere al mio tavolo da lavoro, tra colori, calamai, timbri, pennelli, penne e temperini. Mentre Nero contemplava il disegno di due pagine che facevo per il surname che rappresentava le cerimonie della festa di circoncisione del nostro principe, mi sedetti sul cuscino rosso accanto a lui, e il calore del cuscino mi fece venire in mente che poco prima, li’ era seduta mia moglie dalle belle cosce. Mentre io, con il pennello di canna ero intento a disegnare la tristezza degli sventurati prigionieri davanti al sultano, la mia assennata mogliettina teneva in mano la canna della mia virilita’. La scena di due pagine che stavo disegnando raccontava la liberazione, per grazia del sultano, dei prigionieri finiti in carcere assieme alle famiglie per non aver pagato i debiti. Avevo sistemato il sultano accanto a un tappeto coperto da sacchi e sacchi di akçe d'argento, proprio come avevo visto durante la cerimonia. Dietro di lui avevo messo il Tesoriere con in mano il quaderno da cui leggeva le registrazioni dei debiti, avevo disegnato i prigionieri legati tra loro con catene e pastoie, tristi e dolenti davanti al sultano, con le sopracciglia corrugate, scuri in volto, alcuni con le lacrime agli occhi. Avevo fatto gli abiti rossi e i bei volti del suonatore di liuto e del tamburino che accompagnavano le preghiere, le poesie dei prigionieri quando il sultano dava loro in dono la borsa che li avrebbe liberati dalla prigione, e perche’ il disegno spiegasse bene il dolore e la vergogna causati dallo sprofondare nei debiti, anche se non era previsto, vicino all'ultimo dei tristi prigionieri avevo disegnato sua moglie abbrutita dal turbamento e con un abito viola, e la bella e triste figlia dai capelli lunghi con un manto scarlatto. Per fargli capire che dipingere vuol dire amare la vita, stavo per raccontare a questo Nero dalle sopracciglia corrugate come file e file di debitori incatenati si estendessero su due pagine, la segreta logica del rosso nel disegno, quello che gli antichi maestri non facevano mai, l'uso dello stesso colore per dipingere con amore il cane nell'angolo e il caftano di raso del sultano, i discorsi fatti con mia moglie guardando il disegno e le nostre risate, quando lui mi fece una domanda molto imbarazzante. Sapevo forse dove poteva essere il povero Raffinato Effendi? Ma che povero! Non gli dissi che era un imitatore da due soldi, che faceva dorature solo per denaro, che era uno stupido privo di ispirazione. «No, - dissi. - Non lo so». Avevo mai pensato che i personaggi aggressivi che girano intorno al predicatore di Erzurum potevano aver fatto qualcosa di male a Raffinato Effendi? Mi trattenni e non gli dissi che senza dubbio anche lui era dei loro. «No, - dissi. - Perche’?» La miseria, la peste, l'immoralita’, l'indecenza che rendono Istanbul schiava, si possono spiegare solo con l'allontanamento dall'Islam di Maometto, Apostolo e Profeta di Allah, con l'acquisizione di nuove e brutte abitudini e con l'infiltrazione nella nostra societa’ dei costumi europei. Lo sostiene anche il predicatore di Erzurum, ma quando i suoi nemici affermano che i seguaci del predicatore attaccano i conventi dervisci dove suonano musica e profanano le tombe dei santi, lo fanno per ingannare il sultano. Ora, dato che sanno che non sono ostile al santone di Erzurum, come loro d'altronde, mi chiedono con tatto se sono stato io a uccidere Raffinato Effendi. Improvvisamente mi resi conto che queste dicerie erano diffuse gia’ da un po' tra i miniaturisti. Adesso, privi di ispirazione e talento, con grande piacere, spargevano la voce che ero un vile assassino. Solo perche’ quello stupido di Nero aveva preso sul serio le calunnie di questa moltitudine di miniaturisti gelosi, mi venne voglia di colpire con il calamaio la sua testa circassa. Nero contempla la mia stanza da lavoro imprimendosi nella memoria tutto quel che vede; guarda attentamente le mie lunghe forbici per tagliare la carta, le tazze piene di orpimento, le vaschette dei colori, la mela che lavorando ogni tanto mordevo, il bricco del caffe’ accanto al focolare, le tazzine da caffe’, i cuscini, la luce che filtra dalla finestra socchiusa,
lo specchio che uso per controllare la disposizione della pagina, i miei camici e la cintura rossa di mia moglie, li’, nell'angolo, come un segno del peccato, le era caduta mentre usciva di fretta sentendo bussare alla porta. Anche se gli nascondo i miei pensieri, consegno ai suoi sguardi impavidi e aggressivi i miei disegni e questa stanza in cui vivo. Lo so, il mio orgoglio vi meravigliera’ tutti, ma sono io il miniaturista che guadagna di piu’ e questo vuol dire che sono il migliore! Perche’ Allah ha voluto che la miniatura sia un divertimento e faccia vedere a chi sa guardare che anche il mondo e’ un divertimento.
Capitolo tredicesimo. Mi chiamano Cicogna Era l'ora della preghiera di mezzogiorno. Bussarono alla porta, andai ad aprire e vidi che era il Nero della mia infanzia. Ci abbracciammo. Aveva freddo, lo invitai dentro, non gli chiesi neanche come avesse fatto a trovare la casa. Pensai che l'avesse mandato da me suo zio per sapere perche’ Raffinato Effendi era scomparso e dove fosse. Ma non era venuto solo per questo, portava anche notizie di Maestro Osman, e disse di avere una domanda da farmi. Maestro Osman aveva detto che e’ il tempo che distingue il vero miniaturista dagli altri. Il tempo della miniatura. Cosa ne pensavo? Ascoltatemi. La miniatura e il tempo Come tutti sanno, una volta, i miniaturisti dell'Islam, e tra loro anche gli antichi maestri arabi, guardavano il mondo come lo guardano oggi gli infedeli europei e disegnavano tutto guardando dal luogo dove stavano, il vagabondo e il cane per strada, o il commesso e i sedani nel negozio. Non conoscevano la prospettiva di cui si vantano oggi gli arroganti maestri europei e questo rendeva il loro mondo noioso e limitato come lo vedevano il cane e il sedano. Poi accadde qualcosa e il mondo della nostra miniatura cambio’. Vi raccontero’ tutto dall'inizio. Tre storie sulla miniatura e sul tempo |Alif Trecentocinquant'anni fa, quando Baghdad cadde nelle mani dei mongoli e venne saccheggiata impietosamente in un freddo giorno di febbraio, Ibni sakir era il calligrafo piu’ famoso ed esperto del mondo arabo, come di tutto l'Islam. Per quanto fosse giovane, nelle biblioteche di Baghdad, famose in tutto il mondo, vi erano ben ventidue volumi - per la maggior parte Corani - scritti da lui. Certo che questi libri avrebbero vissuto fino al giorno del giudizio, Ibni sakir viveva con un'idea del tempo profonda e infinita. Aveva lavorato stoicamente tutta la notte, alla luce tremante dei candelabri, all'ultimo di questi libri leggendari di cui oggi non si sa piu’ nulla e che in pochi giorni vennero strappati, fatti a pezzi, bruciati uno ad uno e buttati nelle acque del Tigri dai soldati del khan mongolo Hulagu. Dare le spalle all'alba e guardare l'occidente, l'orizzonte, era un metodo che i maestri calligrafi arabi legati alla tradizione e all'idea dell'immortalita’ dei libri usavano da cinque secoli contro la cecita’ per far riposare gli occhi e Ibni sakir, nel fresco del mattino, sali’ sul minareto della moschea Halife e dal balconcino vide tutto quello che avrebbe messo fine a una tradizione di scrittura che risaliva a cinquecento anni prima. Fu il primo a veder entrare a Baghdad gli spietati soldati di Hulagu e rimase in cima al minareto. Vide il saccheggio e la demolizione di tutta la citta’, centinaia di migliaia di persone passate a fil di spada, l'uccisione dell'ultimo dei califfi dell'Islam che da cinquecento anni regnavano su Baghdad, le donne violentate, le biblioteche demolite, decine di migliaia di libri gettati nel Tigri. Due giorni dopo, mentre, tra il fetore dei cadaveri e le urla di morte, contemplava il corso del Tigri rosso per il colore dell'inchiostro colato dai fogli, penso’ che tutti i libri che aveva scritto con la sua bella calligrafia erano scomparsi, non erano serviti a fermare questa terribile strage e questa distruzione, e giuro’ di non scrivere mai piu’. Poi fu preso dalla voglia di esprimere il suo dolore e la disgrazia che aveva visto con l'arte della pittura, cosa che fino a quel giorno aveva disprezzato e considerato come una ribellione a Dio, e disegno’ tutto quello che vedeva dal minareto su un foglio che portava sempre con se’. Dopo l'invasione mongola, dobbiamo a questo felice miracolo la forza del disegno islamico che duro’ trecento anni, e quel che lo distingue dai disegni di idolatri e cristiani, il ritrarre l'universo con dolore sincero, guardandolo dall'alto, da dove lo guarda Allah, e segnando la linea dell'orizzonte. Lo dobbiamo anche al fatto che, dopo la strage, Ibni sakir, con i disegni in mano e la determinazione per la miniatura nel cuore, ando’ verso il paese da cui venivano gli eserciti mongoli e apprese il disegno dei maestri cinesi... Cosi’, fu evidente che l'idea di tempo infinito che da cinquecento anni era nel cuore dei calligrafi arabi non si sarebbe realizzata con la calligrafia, ma con il disegno. Il fatto che alcune pagine illustrate di libri e volumi distrutti e scomparsi siano finite in altri volumi per continuare a mostrare il mondo di Allah e’ la prova della loro vita eterna. |Ba In un tempo non tanto lontano ne’ troppo recente - in cui tutto ripeteva tutto e nessuno si sarebbe accorto dell'esistenza del tempo se non fosse stato per la morte e la vecchiaia - il mondo veniva disegnato sempre con le stesse storie e gli stessi disegni, come se il tempo non esistesse affatto, e il piccolo esercito di Fahir Scia’, come racconta Salim di Samarcanda nella sua breve opera storica, «rovino’» i soldati di Selahattin Khan. Il trionfatore Fahir Scia’, dopo aver fatto schiavo e torturato a morte Selahattin Khan, come era tradizione, per prima cosa visito’ la biblioteca e l'harem della buonanima per apporvi il suo sigillo. In biblioteca, il suo esperto rilegatore fece i libri a pezzi, ne mescolo’ le pagine e rilego’ nuovi volumi, i suoi calligrafi cambiarono la dicitura «l'Invincibile» Selahattin Khan con il nome di Fahir Scia’, «il Trionfatore», e i suoi miniaturisti cancellarono il volto gia’ quasi dimenticato della buonanima di
Selahattin ricamato abilmente sui disegni piu’ belli dei libri, sostituendolo con il volto piu’ giovane di Fahir Scia’. Quando poi Fahir Scia’ entro’ nell'harem non ebbe difficolta’ a riconoscere subito la donna piu’ bella, ma dato che era una persona fine che si intendeva di libri e miniatura, invece di possederla con la forza, decise di persuaderla e le parlo’. Cosi’, la bellissima moglie della buonanima di Selahattin Khan, la Sultana Neriman, ancora in lacrime, chiese una sola cosa a Fahir Scia’ prima che diventasse suo marito. La richiesta era di non far raschiare e cancellare il volto del suo compianto marito Selahattin Khan ritratto come Mejnun davanti alla Sultana Neriman ritratta come Leyla in un libro che parlava del loro amore. Il diritto all'immortalita’ che suo marito cercava di ottenere attraverso i libri che faceva fare da anni non doveva essergli negato, almeno in una pagina. Il trionfatore Fahir Scia’ accetto’ generosamente questa semplice richiesta e i miniaturisti non toccarono il disegno. Cosi’, Neriman e Fahir fecero subito l'amore e in breve si amarono dimenticando l'orrore del passato. Ma Fahir Scia’ non riusciva a scordare quel disegno nel volume di Leyla e Mejnun. Quel che lo inquietava non era il disegno di sua moglie con il precedente marito, ne’ la gelosia, no. Lo rodeva il fatto di non poter raggiungere il tempo eterno, mescolarsi agli immortali assieme alla moglie per non essere stato disegnato nelle antiche leggende di quel libro meraviglioso. Questo tarlo lo rose per cinque anni e al termine di una notte felice in cui aveva fatto l'amore a lungo con Neriman, Fahir Scia’, con un candelabro in mano, entro’ nella biblioteca di nascosto, come un ladro, apri’ il volume di Leyla e Mejnun e disegno’ il suo volto come Mejnun al posto di quello del compianto primo marito di Neriman. Ma come molti khan che amano la miniatura, era inesperto e non riusci’ a disegnarlo bene. Cosi’, quando la mattina dopo il bibliotecario apri’ il libro e vide che davanti alla Leyla con il volto di Neriman era apparso un volto nuovo al posto di quello della buonanima di Selahattin Khan, dichiaro’ che non era quello di Fahir Scia’, ma del suo nemico principale, il giovane e avvenente Abdullah Scia’. Questo pettegolezzo demoralizzo’ i soldati di Fahir Scia’ e infuse coraggio al giovane e aggressivo nuovo sovrano del paese confinante. Alla prima guerra questi sconfisse Fahir Scia’, lo rese schiavo e lo fece uccidere, appose il proprio sigillo alla sua biblioteca e al suo harem e divenne il nuovo marito della sempre piu’ bella sultana Neriman. |Gim La storia del miniaturista noto a Istanbul con il nome di Mehmet l'Alto e nelle terre di Persia come Muhammed di Khorasan, viene in genere raccontata tra i miniaturisti come esempio di lunga vita e di cecita’, ma in realta’ e’ un esempio della miniatura e del tempo. Dobbiamo tenere presente che comincio’ a fare miniature come apprendista gia’ all'eta’ di nove anni, che si dedico’ a quest'arte per piu’ o meno centodieci anni senza diventare cieco e che la piu’ grande particolarita’ di questo maestro era quella di non averne. Non e’ un gioco di parole, e’ un elogio sincero. Come tutti, disegnava alla maniera degli antichi grandi maestri, ma con un qualcosa di piu’, e per questo motivo era il piu’ grande. La sua modestia, la sua totale fedelta’ all'arte della miniatura, che intendeva come servizio ad Allah, lo tennero sempre lontano dai litigi che avvenivano nei laboratori dove lavorava e dal desiderio di diventare capo miniaturista, pur avendo raggiunto l'eta’ per esserlo. Durante tutta la sua vita di miniaturista, per centodieci anni disegno’ i dettagli rimasti qua e la’, l'erba che riempiva l'angolo della pagina, migliaia di foglie d'albero, le curve delle nuvole, le criniere di cavalli da pettinare una ad una, i muri di mattoni, gli innumerevoli ornamenti che si ripetono sempre insieme a decine di migliaia di volti tutti uguali, gli occhi a mandorla e il mento sottile. Era molto felice e molto silenzioso. Non cerco’ di brillare sugli altri e non fece richieste di stile e personalita’. Considerava il laboratorio del principe per il quale lavorava in quel momento come casa sua e se stesso come un oggetto di quella casa. Quando khan e scia’ cominciarono a strangolarsi a vicenda e i miniaturisti ad andare di citta’ in citta’ in cerca di nuovi padroni, come se fossero donne di un harem, lo stile del nuovo laboratorio si rivelo’ prima nelle foglie, nel prato, nella curva delle rocce che lui disegnava e nelle curve segrete della sua pazienza. A ottant'anni dimentico’ di essere un mortale e comincio’ a credere di vivere nelle leggende che disegnava. Forse per questo motivo alcuni dicevano che vivesse fuori dal tempo e che percio’ non sarebbe mai invecchiato ne’ morto. C'era chi si spiegava che non fosse mai diventato cieco con il miracolo del tempo che si era fermato per lui, anche se aveva passato l'intera vita senza una fissa dimora, nelle celle e nelle tende dei laboratori di miniatura, e la maggior parte del tempo davanti ai fogli. C'era chi invece diceva che, in realta’, era cieco ma disegnava tutto a memoria e non aveva bisogno di vedere per dipingere. Quando questo leggendario maestro, che non si era mai sposato e in vita sua non aveva mai fatto l'amore, a centodiciannove anni nel laboratorio di Tahmasp Scia’ incontro’ l'esempio vivente del bel fanciullo dagli occhi a mandorla, dal mento marcato e dal volto di luna che aveva disegnato per cent'anni, un vivace apprendista di sedici anni mezzo cinese e mezzo croato, ovviamente si innamoro’ subito di lui, e per ottenere il giovane apprendista di incredibile bellezza, si lascio’ coinvolgere nelle lotte di potere tra i miniaturisti, comincio’ a fare carte false, intrighi e truffe, e a mentire come un vero innamorato. Cercare di esaudire le voglie terrene dalle quali era riuscito a rimanere lontano per cento anni all'inizio animo’ il maestro, ma poi lo allontano’ dall'eternita’ dei tempi leggendari. Un pomeriggio, mentre contemplava il bellissimo apprendista, prese freddo davanti alla finestra al vento gelido di Tabriz, l'indomani divenne cieco mentre starnutiva e due giorni dopo cadde dalle alte scale di pietra del laboratorio e mori’. «Avevo sentito il nome di Mehmet l'Alto, ma non sapevo questa storia», disse Nero. Aveva pronunciato queste parole con delicatezza, per precisare che aveva capito che la storia era finita e la sua testa era piena di quello che gli avevo raccontato. Rimasi un po' in silenzio, perche’ lui mi guardasse con attenzione. Dato che stare senza far niente mi rendeva inquieto, appena avevo iniziato a raccontare la seconda storia, avevo ripreso a dipingere li’ dove mi ero interrotto quando aveva bussato alla porta. Il mio bell'apprendista Mahmut, sempre al mio fianco per mescolare i colori, temperare le penne e, a volte, anche cancellare i miei errori, mi sedeva accanto in silenzio, ascoltava e mi guardava, mentre dall'interno si sentivano i rumori che faceva mia moglie. «Ah, - disse Nero, - il sultano si e’ alzato in piedi». Mentre lui guardava il disegno meravigliato, mi comportai come se il motivo della sua meraviglia non fosse importante,
ma a voi dico direttamente che durante la cerimonia di circoncisione che dipingiamo nel surname, il Nostro Sommo Sultano, che segue accanto al bovindo per cinquantadue giorni la sfilata degli artigiani, delle corporazioni, del popolo, dei soldati e dei briganti, appare seduto in tutti e duecento i disegni. Solo in questo disegno l'ho fatto in piedi nella piazza mentre distribuisce alla folla i soldi dalle borse piene di fiorini. L'ho fatto per rendere la meraviglia e la gioia della folla che si strangola, si prende a pugni e a calci per ghermire i soldi, a culo in aria mentre li raccoglie da terra. «Se nel contesto del disegno c'e’ amore, il disegno dev'essere fatto con amore, - dissi. - Se c'e’ dolore, anche nel disegno deve scorrere il dolore. Ma il dolore non deve scaturire dai personaggi del disegno o dalle loro lacrime, ma dalla sua armonia interna che in un primo momento non si vede ma si sente. Io non ho disegnato un personaggio a bocca aperta come fanno centinaia di maestri da secoli per illustrare la meraviglia, ma ho meravigliato tutto il disegno. E questo e’ possibile facendo alzare in piedi il sultano». Cercando un segno, pensai allo sguardo di Nero sui miei oggetti e il mio materiale pittorico, in realta’ su tutta la mia vita, e vidi la mia casa con i suoi occhi. Ci sono disegni di palazzi, di hamam, di fortezze fatti in un certo periodo a Tabriz o a Shiraz in cui perche’ il disegno sia conforme all'attenzione del sommo Allah che tutto vede e comprende, il miniaturista dipinge il palazzo come se fosse stato diviso a meta’ con un rasoio miracoloso, fino alle cucine, ai bicchieri, alle decorazioni sui muri, cose che da fuori non si vedrebbero assolutamente, le tende, il pappagallo in gabbia, gli angoli piu’ segreti, i cuscini e la bella seduta sul cuscino che non e’ mai uscita al sole. Come il lettore curioso che guarda ammirato quel disegno, lui contemplava i miei colori, i miei fogli, i miei libri, il mio bell'apprendista, le pagine del libro sui costumi e l'album calligrafico fatto per i viaggiatori europei, i disegni a sfondo erotico che avevo scarabocchiato in fretta e di nascosto per un pascia’, le pagine spinte, i miei calamai di tutti i colori, di vetro, di bronzo, di terracotta, i miei temperini, le mie penne con il manico d'oro e lo sguardo del mio bell'apprendista. «Al contrario degli antichi maestri, io ho visto tante guerre, tante, - dissi per riempire il silenzio con la mia storia. Macchine da guerra, cannoni, eserciti, morti. Ero sempre io a dipingere il soffitto delle tende di guerra del Nostro Sultano, dei nostri pascia’. Quando si tornava a casa dopo le guerre, ero io a disegnare i panorami di guerra che tutti dimenticano, i cadaveri squartati, gli eserciti mescolati tra loro, i soldati del povero infedele che guardano impauriti i nostri cannoni e il nostro esercito dai bastioni delle fortezze assediate, i ribelli cui veniva tagliata la testa, l'entusiasmo dei cavalli all'assalto. Mi resta in mente tutto quello che vedo, un nuovo macinino, un nuovo tipo di finestra, un nuovo cannone, il grilletto di un nuovo fucile europeo, una persona a un banchetto, il colore dell'abito che indossa, cosa mangia, dove mette la mano e come...» «Qual e’ la lezione da trarre dalle tre storie che mi hai raccontato?», chiese Nero con un atteggiamento che voleva chiudere il discorso e nello stesso tempo richiedeva una spiegazione. «Alif, - dissi. - La prima storia, quella del minareto, dimostra che e’ il tempo che fa il disegno perfetto nonostante il grande talento del miniaturista. Ba, la seconda storia, quella con l'harem e i libri, dimostra che l'unico modo per uscire dal tempo e’ il talento e l'arte della miniatura. Dimmi tu della terza». «Gim! - disse Nero sicuro di se’. - La storia del miniaturista di centodiciannove anni e’ una sintesi di quelle di Alif e di Ba. Dimostra che colui che abbandona la vita perfetta e la miniatura finisce il suo tempo e muore».
Capitolo quattordicesimo. Mi chiamano Oliva Era dopo la preghiera di mezzogiorno, stavo piacevolmente, anche se di fretta, disegnando dolci volti di fanciulli, quando bussarono alla porta. Mi agitai e le mie mani presero a tremare, lasciai la penna. Con qualche difficolta’ ma con attenzione, misi via la tavola di lavoro che stavo usando e andai alla porta di volata, e prima di aprire mi raccomandai ad Allah. Voi, che saprete le cose che vi raccontero’, siete molto piu’ vicini ad Allah di questo nostro misero e sporco mondo e di noi vili creature del sultano, percio’ non ve lo nascondo: dicono che il re dell'India, il piu’ ricco scia’ del mondo, Ekber Khan, stia facendo fare un libro di cui tutti parlano, ha sparso la voce ai quattro angoli delle terre d'Islam perche’ i miniaturisti piu’ brillanti del mondo vadano da lui. Gli uomini che ha mandato a Istanbul ieri sono venuti a trovarmi, mi hanno invitato in India. Ho aperto la porta, questa volta non erano loro, era il Nero dei tempi della mia infanzia, l'avevo dimenticato. Un tempo non veniva tra noi, era geloso di noi. O no? Era venuto per parlarmi, in amicizia, per vedere i miei disegni. Lo feci accomodare perche’ vedesse tutte le mie cose. Mi disse che aveva appena fatto visita anche al capo miniaturista Maestro Osman. E che il grande maestro gli aveva detto una grande cosa: e’ possibile capire se un miniaturista e’ un vero miniaturista o meno da come parla della cecita’ e della memoria. E allora capitelo: La cecita’ e la memoria Prima della miniatura era buio e anche dopo la miniatura sara’ buio. Con i nostri colori, il nostro talento e il nostro amore, noi ricordiamo quello che Allah ci dice di vedere. Ricordare e’ sapere cio’ che vediamo. Sapere e’ ricordare quello che vediamo. Vedere e’ sapere senza ricordare. Vuol dire che dipingere e’ ricordare il buio. L'amore per la pittura dei grandi maestri sa che i colori e la vista sono fatti di buio e vuole tornare nel buio di Allah assieme ai colori. Chi non ha memoria non ricorda ne’ Allah, ne’ il suo buio. La pittura di tutti i grandi maestri, tra i colori, cerca quel buio profondo e fuori dal tempo. Per farvi capire cosa significa ricordare questo buio scoperto dai grandi antichi maestri di Herat, vi raccontero’
Tre storie sulla cecita’ e la memoria |Alif Nella traduzione turca di Lamii di Soffi di umanita’, dove il poeta Giami narra leggende su importanti personaggi storici e santi, si dice che il famoso Maestro Ali di Tabriz, che lavorava nel laboratorio di miniatura di Cihan Scia’ sovrano dei turcomanni del Montone Nero, dipinse una splendida copia di Cosroe e sirin. Da quanto ho sentito dire, in questo libro, la cui lavorazione duro’ ben dieci anni, Maestro Ali, maestro dei maestri, creo’ pagine talmente meravigliose da essere paragonabili solo a quelle di Behzat, il piu’ grande degli antichi maestri, dimostrando una tale abilita’ che, ancor prima che fosse pronto meta’ libro, Cihan Scia’ comprese che avrebbe ricevuto un libro meraviglioso e unico al mondo. Cihan Scia’, sovrano dei turcomanni del Montone Nero, viveva nel terrore di Uzun Hasan, giovane sovrano del Montone Bianco, e l'invidia che provava nei suoi confronti lo indusse subito a pensare che, una volta pronto il libro meraviglioso, il suo prestigio sarebbe si’ cresciuto, ma che Uzun Hasan, sovrano del Montone Bianco, avrebbe potuto farsi fare un libro ancora piu’ bello. Dato che era una di quelle persone veramente invidiose che avvelenano la propria felicita’ con la paura che gli altri possano essere altrettanto felici, Cihan Scia’ intui’ subito che se il maestro miniaturista avesse fatto un altro libro, anzi uno ancora migliore, l'avrebbe fatto per Uzun Hasan, il suo nemico principale. Cosi’, per evitare che nessuno oltre a lui potesse possedere questo libro meraviglioso, decise di far uccidere il Maestro Ali, una volta completato il libro. Ma una bella circassa del suo harem dal cuore d'oro gli ricordo’ che sarebbe stato sufficiente accecarlo. Questa brillante decisione che Cihan Scia’ prese e subito comunico’ agli adulatori che aveva intorno, giunse anche all'orecchio di Maestro Ali, che pero’ non lascio’ il libro a meta’ e non abbandono’ Tabriz, come avrebbe fatto un miniaturista qualunque. Non scelse neanche altre vie per rimandare la propria cecita’, come rallentare il libro o disegnare male perche’ non venisse perfetto. Lavoro’ con sempre maggior entusiasmo e convinzione. Nella casa dove viveva solo, cominciava a lavorare dopo la preghiera del mattino, fino a quando, a mezzanotte, i suoi occhi stanchi per la luce delle candele non iniziavano a lacrimare dal dolore, continuava a disegnare cavalli, cipressi, innamorati, draghi e principi fascinosi. Spesso osservava per giorni una pagina fatta dai grandi antichi maestri di Herat per poi rifare lo stesso identico disegno su un foglio che non guardava mai. Alla fine, il libro per Cihan Scia’ del Montone Nero fu pronto, e il maestro miniaturista, come si aspettava, venne prima riempito d'oro e poi accecato con uno spillone. Maestro Ali abbandono’ immediatamente Herat, ancor prima che il dolore si placasse, e si reco’ da Uzun Hasan, sovrano del Montone Bianco. «Si’, sono cieco, - gli disse. - Ma ho in mente tutte le meraviglie del libro che ho dipinto in questi ultimi undici anni, ricordo ogni tocco di penna e di pennello e la mia mano sa disegnare a memoria senza che io debba vedere. Mio Khan, io posso dipingere per te il piu’ bel libro mai visto fino a oggi. Perche’ i miei occhi ormai non possono piu’ soffermarsi sulle brutture di questo mondo ed esserne distratti, posso disegnare a memoria e nel modo piu’ puro tutte le meraviglie di Allah». Uzun Hasan credette subito al grande maestro e questi non venne meno alla parola data e disegno’ a memoria il libro piu’ meraviglioso mai esistito al mondo per il suo sultano del Montone Bianco. Tutti sanno che, dietro alla vittoria di Uzun Hasan, sovrano del Montone Bianco, che sconfisse e uccise Cihan Scia’, sovrano del Montone Nero, nei pressi di Bingöl, c'e’ la forza spirituale infusa al sovrano dal nuovo libro. Questo libro meraviglioso, insieme al primo che il Maestro Ali di Tabriz fece per la buonanima di Cihan Scia’, fini’ poi nel tesoro del nostro compianto Sultano Mehmet Khan il Conquistatore quando sconfisse il trionfante Uzun Hasan nella battaglia di Otlukbeli. Chi li ha visti lo sa». |Ba Dato che il nostro compianto Sultano Solimano il Magnifico dava molta piu’ importanza ai calligrafi, per sostenere che l'arte della miniatura era piu’ importante di quella della calligrafia, gli sfortunati miniaturisti di allora raccontavano la storia che adesso vi narrero’, ma, come capira’ chiunque la ascolti con attenzione, si tratta di una storia sulla cecita’ e la memoria. Dopo la morte di Tamerlano, il dominatore del mondo, figli e nipoti litigarono e si fecero guerre spietate; quando conquistavano la citta’ di un altro, come prima cosa facevano battere moneta, dire preghiere e fare prediche in moschea, e come seconda invece facevano strappare i libri di cui si impossessavano, vi facevano apporre una nuova firma e una nuova dedica «al dominatore del mondo» e poi li facevano rilegare perche’ chi guardava il libro credesse che quel sultano era il dominatore del mondo. Quando Abdüllatif, nipote di Tamerlano e figlio di Ulug Bey, conquisto’ Herat, ordino’ un libro dedicato a suo padre, ma mise una tale fretta ai miniaturisti, ai calligrafi e ai rilegatori che disegni, pagine e scritte presi dai volumi distrutti si mescolarono tra loro mentre questi venivano strappati e bruciati. Dato che non era da Ulug Bey, amante della miniatura, far rilegare disegni a casaccio in una sorta di album, suo figlio riuni’ tutti i miniaturisti di Herat e chiese loro di raccontare la storia di ogni singolo disegno per metterli insieme in maniera adeguata. Ma ognuno racconto’ una storia diversa e i disegni si mescolarono ulteriormente. Allora, si cerco’ e si trovo’ l'ultimo anziano capo miniaturista, dimenticato dopo aver donato i propri occhi ai libri di tutti gli scia’ e principi che avevano dominato su Herat negli ultimi cinquantaquattro anni. Quando si capi’ che il vecchio maestro era cieco, ci fu un momento di agitazione, ci fu anche chi rise, ma il vecchio maestro chiese che gli portassero un bambino che non avesse ancora compiuto sette anni, intelligente ma analfabeta. Lo trovarono subito e lo portarono. Il vecchio miniaturista mise davanti al bambino un disegno e gli chiese di descriverlo. Mentre il bambino raccontava quello che vedeva nel disegno, il vecchio miniaturista alzo’ gli occhi ciechi al cielo e lo ascolto’ attentamente, e poi disse: «Dal Libro dei re di Firdusi, l'abbraccio di Alessandro Magno e Dario. Dal Roseto di Sadi, la storia del maestro che s'innamora della sua bella discepola... Dal Tesoro dei misteri di Nizami, la gara dei medici...» Gli altri miniaturisti si adirarono con l'anziano miniaturista cieco e dissero: «Li abbiamo riconosciuti anche noi. Queste sono le scene piu’ famose delle storie piu’ famose». L'anziano miniaturista cieco questa volta fece mettere davanti al bambino i disegni piu’ difficili e lo ascolto’ di nuovo attentamente. «Dal Libro dei re di Firdusi, Hürmüz che avvelena i calligrafi uno a
uno, - disse sempre con gli occhi al cielo. - Dal Mesnevi (1) di Mevlana, la brutta storia e lo scadente disegno del marito che scopre la moglie e il suo amante in cima all'albero di pere», continuo’. E andando avanti cosi’ riconobbe tutti i disegni dal racconto del bambino e fece rilegare i libri. Quando l'esercito di Ulug Bey entro’ nella citta’ di Herat, il sovrano chiese all'anziano miniaturista il segreto per riconoscere, anche senza vedere, le storie che esperti miniaturisti pur vedendo non avevano saputo riconoscere. «Il motivo non e’, come si potrebbe credere, che essendo cieco ho una buona memoria, - disse l'anziano miniaturista. - solo che non dimentico mai che le storie si ricordano con le parole, e non con la fantasia». Ulug Bey gli disse che anche i suoi miniaturisti conoscevano quelle parole e quelle storie, ma non erano stati capaci di mettere i disegni in ordine. «Perche’ loro pensano alla miniatura, il loro talento e la loro arte, ma non sanno che gli antichi maestri hanno fatto questi disegni grazie ai ricordi di Allah», disse l'anziano miniaturista. Ulug Bey gli chiese come mai un bambino riuscisse a capirlo. «Il bambino non lo sa, - disse l'anziano maestro. - Solo io che sono un vecchio miniaturista cieco, so che Allah ha creato il mondo come vorrebbe vederlo un intelligente bambino di sette anni. Perche’ Allah ha creato il mondo in primo luogo perche’ fosse visto. Poi ci ha dato la parola perche’ condividessimo quello che vediamo, parlassimo tra di noi, ma noi dalle parole abbiamo creato storie e abbiamo creduto che la miniatura fosse fatta per queste storie. Ma l'arte della miniatura e’ creare direttamente i ricordi di Allah, e’ vedere il mondo come lo vede Lui». NOTE: (1) Tipo di componimento poetico; solitamente con «Il Mesnevi» s'intende quello composto dal grande poeta mistico Mevlana Celaleddin Rumi nel XIII secolo. |Gim noto che, per timore della cecita’ - eterna e legittima preoccupazione della stirpe dei miniaturisti - ci fu un tempo in cui i maestri arabi guardavano a lungo l'orizzonte all'alba verso occidente, e un secolo dopo, a Shiraz, molti miniaturisti al mattino mangiavano foglie di rosa tritate e noci pestate a stomaco vuoto. Sempre nello stesso periodo, perche’ la luce del sole - considerata motivo della cecita’ che prima o poi, come la peste, colpiva tutti i miniaturisti di Isfahan - non battesse direttamente sui loro tavoli di lavoro, operavano in un angolo della stanza in penombra o addirittura alla luce dei candelabri, e nei laboratori uzbechi di Bukhara alla fine della giornata i maestri si lavavano gli occhi con acqua benedetta. Tra tutti questi metodi, quello che affrontava la cecita’ nel modo piu’ innocente, e’ certamente quello di Maestro Seyyit Mirek, maestro del grande Behzat. Secondo Maestro Mirek, la cecita’ non e’ una disgrazia, ma e’ l'ultima gioia che Allah concede al miniaturista che ha dedicato tutta la vita alla Sua bellezza. Perche’ l'arte della miniatura e’ una ricerca da cui si arriva a capire come Allah vede il mondo e questa immagine eccezionale e’ possibile se ci si rende conto di quanto ci si e’ consumati, con gli occhi stanchi dopo un'intensa vita di lavoro, una volta raggiunta la cecita’. Vuol dire che e’ solo dalle memorie dei miniaturisti ciechi che si puo’ capire come Allah vede il mondo. Il miniaturista anziano si esercita per tutta la vita perche’ la sua mano trasferisca da sola il disegno meraviglioso sul foglio quando quest'immagine arriva, cioe’ quando davanti ai suoi occhi compaiono i ricordi e dentro il buio della cecita’, cio’ che vede Allah. Secondo lo storico Mirza Muhammet Haydar Duglat, che scrisse sui miniaturisti di Herat e sulle leggende di quel periodo, il Maestro Seyyit Mirek ha anche fornito un esempio di quest'idea di miniatura parlando del miniaturista che vuole fare il disegno di un cavallo. Secondo il suo punto di vista, anche il miniaturista meno abile, se ha la testa completamente vuota, quando disegna un cavallo guardando un cavallo, proprio come i pittori europei di oggi, lo disegna a memoria. Perche’ nessuno puo’ guardare nello stesso istante il cavallo e il foglio su cui disegna il cavallo. Anche se il tempo passa in un batter d'occhio, quello che il miniaturista riproduce sul foglio non e’ il cavallo che sta vedendo, ma e’ il ricordo del cavallo che ha visto poco prima, e questo, anche per il piu’ mediocre dei miniaturisti, e’ la prova che il disegno e’ realizzabile solo con la memoria. Come risultato di questa teoria che vede la vita professionale attiva del miniaturista come preparazione alla gioiosa cecita’ che verra’ e ai ricordi del cieco, i maestri di Herat di quel periodo consideravano come un esercizio, un allenamento, i disegni che facevano per scia’ e principi e bibliofili, e ritenevano che lavorare, disegnare continuamente e guardare per giorni e giorni, senza mai riposare, le pagine alla luce dei candelabri fosse un lavoro felice che li avrebbe portati alla cecita’. Per tutta la vita Maestro Mirek cerco’ sempre il momento piu’ adatto per raggiungere questa fine felice, disegnando alberi con tutte le foglie su un'unghia, su un chicco di riso o addirittura su un capello, avvicinandosi alla cecita’ intenzionalmente e velocemente; altre volte invece disegnava giardini felici e soleggiati e cosi’, prudentemente, rimandava il buio. A settantacinque anni, il Sultano Hüseyin Baykara apri’ le pagine di migliaia di libri accumulati nel suo tesoro ben custodito per premiare questo grande maestro. Maestro Mirek guardo’ senza sosta, per tre giorni e tre notti, le meravigliose pagine dei leggendari libri degli antichi maestri di Herat alla luce dei candelabri d'oro della stanza del tesoro piena di armi, tessuti di seta di velluto e d'oro, e divenne cieco. Il grande maestro affronto’ questa nuova condizione con maturita’ e rassegnazione, come se accogliesse gli angeli di Allah e non parlo’ ne’ disegno’ piu’. Lo storico Mirza Muhammet Haydar Duglat spiega questo fatto dicendo che un miniaturista che raggiunge le immortali visioni di Allah non riuscira’ mai piu’ a tornare sulle pagine dei libri fatti per i comuni mortali, e aggiunge che nel luogo dove i ricordi del miniaturista cieco incontrano Allah c'e’ un silenzio assoluto, un buio felice e l'infinita’ della pagina vuota. Naturalmente sapevo che Nero non mi aveva posto la domanda di Maestro Osman sulla cecita’ e sulla memoria per conoscere la mia risposta, ma per sentirsi a suo agio mentre guardava i miei oggetti, la mia stanza, i miei disegni. Ma fui ugualmente felice di vedere che le storie che avevo raccontato lo avevano toccato profondamente. «La cecita’ e’ un mondo felice dove non possono entrare ne’ Satana ne’ il peccato», gli dissi. «A Tabriz, - racconto’ Nero, - alcuni miniaturisti vecchio stile che, influenzati da Maestro Mirek, vedono la cecita’
come la piu’ grande virtu’ concessa da Allah, fingono di essere ciechi perche’ si vergognano di non esserlo benche’ ormai anziani, e temono che questa sia una prova della loro scarsa abilita’. Con questa convinzione, influenzata anche da Cemalettin di Kazvin, alcuni, pur non essendo veramente ciechi, per imparare a guardare il mondo come un cieco, si mettono al buio tra gli specchi e, alla luce fioca della fiamma di una candela, guardano per settimane, senza mangiare ne’ bere, le pagine degli antichi maestri di Herat». Bussarono alla porta. La aprii e vidi un grazioso apprendista del laboratorio del sultano con i begli occhi spalancati. Disse che avevano trovato il cadavere di nostro fratello il doratore Raffinato Effendi in un pozzo e che il funerale si sarebbe tenuto nel pomeriggio alla moschea Mihrimah. Poi corse via per portare la notizia agli altri. Che Allah ci protegga.
Capitolo quindicesimo. Il mio nome e’ Esther l'amore che fa diventare sciocche le persone o sono solamente gli sciocchi a innamorarsi? Sono anni che faccio la venditrice ambulante di corredi e cerco di combinare matrimoni, ma non conosco la risposta a questa domanda. Avrei veramente voluto conoscere una coppia, anzi meglio, un uomo che, innamorandosi, diventasse piu’ intelligente, piu’ furbo e capace di intrighi sagaci. A quanto ne so, se un uomo mette in atto furbizie, piccole trappole, stratagemmi, vuol dire che non e’ affatto innamorato. Il nostro Nero Effendi invece, mentre mi parla di seküre, da’ subito a vedere di avere perso la calma, di avere superato ogni limite. Al mercato gli avevo detto che seküre pensava continuamente a lui, che voleva la sua risposta, che non l'avevo mai vista cosi’, e gli ripetei a memoria il solito ritornello. Mi guardava in un modo che faceva pena. Mi disse di portare «velocemente e direttamente» la sua lettera a seküre. Gli sciocchi credono che nel loro amore ci sia una situazione che necessita una premura tutta speciale, rivelano la forza del loro amore e forniscono un'arma all'amato; se sono intelligenti, invece, ritardano la risposta. Risultato: in amore la fretta ritarda le faccende. Per questo motivo, se Nero Effendi avesse saputo che avrei portato altrove la lettera che mi aveva dato, dicendo «e’ urgente, e’ urgente», mi avrebbe ringraziato. Al mercato mi ero quasi congelata ad aspettarlo. Per riscaldarmi, pensai di passare prima da una delle mie figliocce, era di strada. Chiamo figliocce le ragazze per le quali ho consegnato lettere e che ho fatto sposare con le mie mani. Questa brutta ragazza mi e’ cosi’ riconoscente che, oltre a mostrarmi grandi attenzioni e grande devozione, ogni volta che vado a trovarla mi da’ anche qualche akçe. Mi disse che era incinta e ne era contenta. Preparo’ un te’ di tiglio, lo bevvi con piacere. Una volta sola contai anche i soldi che mi aveva dato Nero Effendi. Venti akçe. Ripresi il cammino. Passai per viuzze, passaggi nefasti dove il fango gelato non permetteva di camminare. Mentre bussavo alla porta, mi venne voglia di scherzare e gridai. «arrivato il corredo, e’ arrivato il corredo, - dissi. - Ho splendide mussole degne di un sultano, meravigliosi scialli del Kashmir, pezze di velluto di Bursa, bellissimi tessuti egiziani col bordo di seta per camicie, coperte di mussola ricamata, lenzuola da divano e da letto, fazzoletti di tutti i colori. arrivato il corredo!» La porta si apri’ e io entrai. Come sempre, la casa odorava di letto, sonno, olio fritto e umidita’. Il terribile odore degli scapoli che invecchiano. «Vecchiaccia, - disse. - Cosa gridi?» Senza dire nulla, tirai fuori la lettera e gliela diedi. Nella stanza buia mi si avvicino’ come un'ombra e all'improvviso me la strappo’ di mano. Ando’ nella stanza accanto, dove c'e’ sempre una lampada accesa. Rimasi sulla soglia. «Non c'e’ il tuo signor padre?», domandai. Non rispose. Era estasiato e leggeva la lettera. Lo lasciai leggere. Aveva la lampada dietro e non riuscivo a vederlo in faccia. Quando la fini’, la lesse di nuovo. «E allora, - dissi. - Che scrive?» Hasan comincio’ a leggere: «seküre, mia signora, dato che anch'io ho vissuto per anni pensando a una sola persona, capisco e apprezzo che tu aspetti tuo marito e non pensi a nessun altro che a lui. Da una donna come te, ci si possono aspettare solo dignita’ e onesta’ (Hasan si fece una risata!) Ma venire a trovare tuo padre per parlare di miniatura non significa molestarti. Questo non mi verrebbe mai in mente. Non affermerei mai di aver ricevuto segnali, di essere stato incoraggiato da te. Quando ho visto il tuo viso come una luce alla finestra, ho pensato che fosse un dono di Allah. Perche’ a me basterebbe la felicita’ di vedere il tuo viso («Questo lo ha rubato a Nizami» intervenne con rabbia Hasan). Ma poiche’ mi chiedi di non avvicinarmi a te, allora dimmi, sei forse un angelo a cui sarebbe terribile avvicinarsi? Ascoltami: quando di notte contemplavo la luce della luna riflessa sulle montagne nude, dalle finestre dei maledetti caravanserragli deserti in cui pernottavano un oste senza speranza e banditi sfuggiti alla pena di morte e cercavo di dormire ascoltando l'ululato di lupi solitari e piu’ sfortunati di me, pensavo sempre che un giorno mi saresti apparsa all'improvviso, proprio come sei apparsa a quella finestra. Ascolta, adesso che sono venuto da tuo padre per il libro, tu mi rendi il disegno che ho fatto da bambino. Per me questo e’ il segno che ti ho ritrovato, lo so. Non e’ un segno di morte. Ho visto uno dei tuoi figli, Orhan. Povero orfano. Gli faro’ da padre!» «Pero’, scrive bene, - dissi. - diventato un poeta».
«Sei forse un angelo a cui sarebbe terribile avvicinarsi? - disse. - Quell'espressione l'ha rubata a Ibni Zerhani, io avrei fatto di meglio». Tiro’ fuori di tasca la sua lettera. «Prendi questa e portala a seküre». I soldi che mi diede con la lettera per la prima volta mi diedero fastidio. Percepii qualcosa di schifoso nel suo folle attaccamento a quell'amore non corrisposto. Come a confermare le mie intuizioni, per la prima volta da molto tempo, Hasan mise da parte le buone maniere e disse: «Dille che se vogliamo la possiamo riportare a casa per decreto del cadi’». «Vuoi davvero che glielo dica?» Rimase in silenzio. «No, non glielo dire», disse. La luce della lampada gli si riflesse sul volto e vidi che guardava davanti a se’ come un bambino conscio della sua colpa. Conoscendo questi suoi modi, rispetto il suo amore e porto le sue lettere. Non lo faccio per soldi. Stavo uscendo dalla casa quando Hasan mi fermo’ sulla soglia. «Dirai a seküre quanto la amo?», chiese agitato con fare da stupido. «Non glielo scrivi nelle tue lettere?» «Dimmi, come posso convincere lei, suo padre, loro?» «Comportandoti da brava persona», gli risposi incamminandomi verso la porta. «A quest'eta’ e’ tardi...», disse con dolore sincero. «Hai cominciato a guadagnare molti soldi Hasan. Questo fa di te una brava persona...», dissi e uscii. In casa era cosi’ buio e opprimente che l'aria fuori mi sembro’ calda. Il sole mi colpi’ in faccia. Pensai che volevo la felicita’ di seküre. Ma, in un certo senso, rispettavo anche quel poveraccio che avevo visto nella sua casa umida, fredda e buia. Istintivamente mi incamminai verso il Mercato delle Spezie di Laleli, anche se non era nei miei piani, pensavo di riprendermi tra i profumi di cannella, zafferano e pepe, ma mi sbagliavo. A casa, dopo aver preso le lettere, seküre mi chiese subito di Nero. Le dissi che l'incendio d'amore lo assediava senza pieta’, le piacque. «Perfino le donne chiuse in casa a lavorare a maglia, tutti si chiedono perche’ il povero Raffinato Effendi e’ stato ucciso», dissi cambiando discorso. «Hayriye, prepara dell'helva e portalo a Kalbiye, la moglie del povero Raffinato Effendi», disse seküre. «Dicono che verra’ molta gente, tutti i seguaci del Maestro di Erzurum, e che i parenti non lasceranno che il suo sangue sia stato versato inutilmente», dissi. Ma seküre aveva gia’ cominciato a leggere la lettera di Nero. La guardai in faccia attentamente e mi indispettii. Questa donna ha talmente tanta esperienza da riuscire a controllare il riflesso delle sue passioni sul viso. Mentre leggeva la lettera, sentii che era contenta del mio silenzio, che lo considerava come un'approvazione alla speciale importanza della lettera di Nero. Cosi’, quando fini’ la lettera e mi sorrise, perche’ le faceva piacere, mi vidi costretta a domandarle: «Cosa dice?» «Come quando era bambino... innamorato di me». «Cosa ne pensi?» «Io sono sposata. Aspetto mio marito». Al contrario di quanto possiate pensare, non mi arrabbiai per questa bugia, anzi devo dire che mi fece piacere. Se molte ragazze e donne a cui ho portato lettere e dato consigli sulla vita avessero mostrato l'attenzione di seküre, il mio lavoro come il loro sarebbero stati facilitati almeno della meta’, anzi, alcune avrebbero trovato mariti migliori. «E quell'altro cosa dice?», chiesi. «Non voglio leggere la lettera di Hasan adesso, - mi rispose. - Hasan sa che Nero e’ tornato a Istanbul?» «Non sa neanche della sua esistenza». «Con Hasan parlate?», chiese spalancando i suoi bellissimi occhi neri. «Perche’ lo vuoi tu». «Si’?» «Soffre. Ti ama molto. Anche se il tuo cuore vuole un altro, ormai ti sara’ molto difficile liberarti di lui. Accettando le sue lettere gli hai dato speranza. Devi temerlo. determinato a sposarti facendoti accettare il fatto che il fratello e’ ormai morto, non gli basta piu’ riportarti a casa». Sorrisi per compensare la parte minacciosa della mia ultima frase e per non cadere nel ruolo di portavoce di quell'infelice. «Allora, che dice quell'altro?», mi chiese, ma sapeva di chi chiedeva? «Il miniaturista?» «Sono molto confusa, - disse all'improvviso, forse spaventata dai suoi stessi pensieri. - Sembra che tutto si confonda ancora di piu’. Mio padre sta invecchiando. In futuro cosa sara’ di noi, cosa sara’ di questi orfani? Sento che qualcosa di male si sta avvicinando a tutti noi, che Satana ci prepara cose cattive. Esther, dimmi qualcosa che mi renda felice». «Tu non ti preoccupare, cara seküre, - dissi con premura. - Sei veramente molto intelligente e molto bella. Un giorno, con il tuo bel marito dormirai nello stesso letto, lo abbraccerai, dimenticherai tutti i problemi e sarai felice. Te lo leggo negli occhi». Provai cosi’ tanto affetto per lei che mi vennero le lacrime agli occhi. «Va bene, ma quale sara’ questo marito?» «Non te lo dice quel tuo cuore intelligente?» «Sono infelice perche’ non riesco a capire cosa dice il mio cuore». Rimanemmo in silenzio. Per un attimo pensai che seküre non si fidasse assolutamente di me e nascondesse abilmente la sua sfiducia per farmi parlare e cercando di farsi compatire. Quando capii che non avrebbe risposto alle lettere in quel
momento, dissi quello che dico a tutte le mie ragazze, anche a quelle strabiche, presi il mio fagotto, uscii nel cortile e me la svignai: «Se tieni ben aperti i tuoi begli occhi, non ti accadra’ nulla di male, mia cara, non temere».
Capitolo sedicesimo. Io, seküre Un tempo, ogni volta che arrivava Esther con i suoi corredi, sognavo che, finalmente, un innamorato che avrebbe fatto battere forte il cuore di una donna intelligente, bella, ben educata, vedova ma onesta come me, mi avesse scritto una lettera e me l'avesse mandata. Ma vedendo che le lettere erano sempre da parte dei soliti spasimanti, trovavo la forza e la pazienza di aspettare mio marito. Adesso, invece, ogni volta che Esther se ne va, la mia mente e’ confusa e sono ancora piu’ infelice. Cercai di ascoltare le voci del mondo. Dalla cucina proveniva il borbottio di qualcosa che bolliva in pentola e un odore di limone e cipolla. Era Hayriye che lessava le zucchine. sevket e Orhan erano in cortile, giocavano a duellare sotto il melograno, si stavano spintonando, sentivo le loro urla. Mio padre, nella stanza accanto, era silenzioso. Aprii la lettera di Hasan e la lessi, ebbi l'ennesima conferma di non avere motivo di cui preoccuparmi. Ebbi solo piu’ paura di lui e mi congratulai con me stessa per aver resistito ai suoi tentativi di venire a letto con me quando abitavamo nella stessa casa. Poi lessi la lettera di Nero, tenendola con cura, come se fosse un oggetto fragile, e la mia mente si confuse. Smisi di leggere e uscii al sole pensando: se, una di quelle notti, fossi andata a letto e avessi fatto l'amore con Hasan, a parte Allah, non se ne sarebbe accorto nessuno. Somiglia al mio scomparso marito, sarebbe stato uguale. A volte penso cose assurde e strane come questa. Con il sole che mi riscaldava, all'improvviso, sentivo di avere un corpo: la pelle, il collo, i capezzoli. D'un tratto, mentre il sole batteva su di me, usci’ Orhan. «Mamma, cosa leggi?», domando’. Va bene, avevo detto di aver smesso di leggere le lettere che mi aveva appena portato Esther, era una bugia. Le stavo rileggendo. Ma questa volta le ripiegai, le infilai nel seno e chiesi a Orhan di venirmi in braccio. «Uff, santo cielo, quanto sei pesante, sei diventato grande», e lo baciai. Mentre gli dicevo: «Sei gelato, - lui rispose: - Mamma, tu invece sei calda», e appoggio’ la schiena al mio seno. Piaceva a tutti e due stare seduti, abbracciati stretti, senza parlare. Gli annusai il collo e lo baciai. Lo abbracciai ancora piu’ forte. Rimanemmo cosi’, in silenzio. Dopo un bel po' disse: «Mi fai il solletico». «Dimmi, - domandai con voce seria. - Se venisse il sultano dei ginn e ti chiedesse... qual e’ la cosa che piu’ vorresti dalla vita?» «Vorrei che sevket non stesse con noi». «Cos'altro vorresti? Vorresti avere un papa’?» «No. Quando divento grande mi sposero’ con te». Pensai che il brutto della vita non e’ invecchiare, diventare brutta, perdere il marito e diventare povera, ma non avere nessuno che sia geloso di te. Feci scendere dal mio grembo il corpo ormai riscaldato di Orhan, e pensando che chi era d'animo cattivo come il mio non dovesse sposare una persona buona, andai da mio padre. «Il Nostro Eccellente Sultano vedra’ con i suoi occhi che il libro e’ finito e vi premiera’, - dissi. - Andrete di nuovo a Venezia». «Non lo so, - disse mio padre. - Questo omicidio mi ha spaventato. I nostri nemici devono essere forti». «So anche che la mia situazione li incoraggia, crea malintesi e speranze infondate». «Come?» «Ormai devo sposarmi al piu’ presto». «Cosa? - disse mio padre. - Ma tu sei sposata. Come ti e’ venuta quest'idea? Chi ti vuole sposare? Anche se ci fosse un uomo assennato e irresistibile, - disse il mio saggio padre, - non penso che sia facile trovarlo e farcelo piacere». Poi riassunse cosi’ la mia sfortunata condizione: «Ci sono grandissimi problemi da risolvere prima che tu ti possa sposare, lo sai». Dopo un lungo silenzio aggiunse: «Tesoro mio, mi vuoi lasciare e andartene via?» «Ieri ho sognato che mio marito era morto», dissi. Ma non scoppiai a piangere come una donna che avesse veramente fatto un sogno del genere. «Bisogna saper leggere i sogni, come fa chi sa leggere la miniatura guardandola». «Volete che vi racconti il mio sogno?» Rimanemmo in silenzio per un po', ci sorridemmo come due persone intelligenti che valutano velocemente ogni possibile soluzione a quanto si sono dette. «Commentando il tuo sogno posso credere che lui sia morto, ma tuo suocero, tuo cognato e il cadi’, che e’ obbligato a dare retta a loro, richiederebbero altre prove». «Sono passati due anni da quando ho preso i bambini e sono tornata a casa, ma mio suocero e mio cognato non riescono a farmi tornare li’». «Perche’ sanno benissimo di essere in difetto, - disse mio padre. - Ma questo non significa che ti concederanno il divorzio». «Visto che sono passati ormai quattro anni, se fossimo stati seguaci di Imam Malik o di Ibn Hanbal, il cadi’ mi avrebbe concesso il divorzio e mi avrebbe anche fatto dare gli alimenti. Ma, grazie a Dio, siamo hanafiti, e non lo possiamo
fare». «Non mi parlare del sostituto del cadi’ di Scutari, quel seguace di Imam safii. gente marcia». «Dicono che tutte le donne di Istanbul i cui mariti sono scomparsi durante la guerra vadano da lui con dei testimoni. Dicono che, dato che e’ seguace di Imam safii, chiede alla donna se il marito e’ scomparso, da quanto tempo, se ha problemi economici, chi sono i suoi testimoni e poi la fa divorziare subito». «Chi ti mette queste cose in testa figlia mia? - domando’. - Chi e’ che ti ha fatto perdere la ragione?» «Una volta divorziata, se c'e’ qualcuno che mi puo’ far perdere la ragione, certamente sarete voi a dirlo, e io non mi opporrei mai a una vostra decisione su chi devo sposare». Il mio astuto padre, vedendo che anche sua figlia era altrettanto astuta, inizio’ a sbattere le palpebre. A dir la verita’, mio padre sbatte le palpebre cosi’ velocemente in tre casi: 1. Quando e’ in difficolta’, mentre fa lavorare rapidamente il cervello per trovare qualche stratagemma. 2. Nei momenti in cui e’ talmente triste e disperato da mettersi a piangere. 3. Quando e’ in difficolta’, per far credere che da un momento all'altro potrebbe mettersi a piangere dalla tristezza, unendo astutamente il primo e il secondo caso. «Prendi i bambini e te ne vai lasciando solo il tuo vecchio padre? Sai che temo di essere ucciso a causa del nostro libro si’, disse il nostro libro - ma gia’ adesso che te ne vuoi andare con i bambini desidero la morte». «Caro padre, non eravate voi a sostenere che per liberarmi di quel fannullone di mio cognato dovevo divorziare?» «Non voglio che mi abbandoni. Tuo marito un giorno potrebbe tornare. E se non tornasse, il problema non e’ essere sposata. Basta che rimani in questa casa con tuo padre». «Non desidero altro che abitare con voi in questa casa». «Cara, poco fa non dicevi che volevi sposarti al piu’ presto?» Ecco, discutere con mio padre e’ cosi’, va a finire che mi convinco di avere torto. «Si’, e’ vero», risposi guardando davanti a me. Poi, cercando di trattenermi per non piangere, forte di quanto fosse giusto quello che mi era venuto in mente, dissi: «Allora, non mi sposero’ mai piu’?» «Ben venga un genero che non ti porti lontano da me. Chi e’ il tuo pretendente, verrebbe ad abitare in questa casa insieme a noi?» Rimasi in silenzio. Naturalmente sapevamo tutti e due che mio padre non avrebbe avuto rispetto per un genero che avesse abitato in questa casa insieme a noi, e pian piano l'avrebbe schiacciato. Mio padre avrebbe disprezzato un genero che vivesse in casa della moglie, e l'avrebbe fatto in maniera cosi’ abile e insidiosa che io stessa non avrei piu’ voluto concedermi a quell'uomo. «Sai che nella tua situazione e’ praticamente impossibile che ti sposi senza l'approvazione di tuo padre. Non voglio che ti sposi e non ti daro’ il permesso». «Io non voglio sposarmi, voglio divorziare». «Perche’ un animale che ha a cuore solo i suoi interessi ti potrebbe ferire. Sai quanto ti voglio bene, figlia mia. E poi dobbiamo finire questo libro». Rimasi in silenzio. Se avessi cominciato a parlare - e Satana si era accorto della mia rabbia e mi stuzzicava - avrei detto in faccia a mio padre che sapevo che di notte accoglieva Hayriye nel suo letto, e non stava bene che una ragazza come me dicesse a suo padre di saperlo a letto con la serva. «Chi e’ che ti vuole sposare?» Guardai davanti a me e rimasi zitta, non per vergogna ma per rabbia. Il peggio era che, non riuscire a rispondere sapendo di essere furiosa, mi faceva arrabbiare ancora di piu’. Immaginavo mio padre e Hayriye in quella situazione ridicola e schifosa, a letto. Stavo per scoppiare a piangere, quando, sempre fissando davanti a me, dissi: «Ci sono le zucchine sul fuoco, vado a controllare che non si brucino». Passai nella stanza accanto alle scale, con la finestra che dava sul pozzo che non aprivamo mai, al buio trovai velocemente il mio materasso e lo misi per terra, mi ci buttai sopra. Quanto e’ bello, da bambini, subire un torto per poi mettersi a letto e addormentarsi piangendo! Solo io mi amo, e la mia solitudine e’ cosi’ drammatica, e mentre piango per la mia solitudine voi che sentite i miei singhiozzi e le mie urla, potreste venire ad aiutarmi. Dopo un po' vidi che Orhan si era sdraiato sul mio letto. Infilo’ la testa tra i miei seni, vidi che anche lui piangeva e sospirava, lo tirai verso di me e lo abbracciai. «Non piangere mamma, - disse dopo un po'. - Papa’ tornera’ dalla guerra». «Come fai a saperlo?» Rimase zitto. Lo coccolai e lo abbracciai cosi’ tanto che dimenticai tutte le mie angosce. Prima di addormentarmi, adesso, abbracciando il corpo esile del mio gracile Orhan, ho un unico problema, ve lo dico. Mi pento di avervi detto per rabbia, poco fa, quella cosa su mio padre e Hayriye. No, quello che ho detto non era una bugia, ma me ne vergogno lo stesso molto, dimenticatelo, guardateci come se non ve l'avessi mai detto e come se mio padre e Hayriye non facessero quelle cose, d'accordo?
Capitolo diciassettesimo. Io sono vostro zio difficile avere figlie femmine, difficile. Era di la’ che piangeva, la sentivo singhiozzare ma non riuscivo a far altro che guardare le pagine del libro che avevo tra le mani. In una pagina del volume che cercavo di leggere, il Libro del Giorno
del Giudizio, era scritto che tre giorni dopo la morte l'anima prende congedo da Allah e va a visitare il corpo nel quale viveva una volta. L'anima, vedendo il drammatico stato del suo corpo di un tempo nella tomba, in mezzo al sangue e all'acqua putrida, si rattrista e piange in maniera luttuosa: «Povero corpo, povero caro vecchio corpo mio». Cosi’, per un po', pensai alla tragica fine di Raffinato Effendi, a quando era in fondo al pozzo, che la sua anima forse gli aveva fatto visita nel pozzo ma non nella tomba ed era certamente molto triste. Quando i singhiozzi di seküre si furono placati, lasciai quei libri di morte. Indossai una camicia di lana in piu’, strinsi la spessa fascia di feltro che mi riscaldava lo stomaco e mi misi anche i pantaloni di pelo di coniglio. Mentre stavo per uscire di casa vidi sevket sulla porta: «Dove vai nonno?» «Entra in casa. Io vado al funerale». Per le strade coperte di neve, passai tra resti di incendi, tra povere case in rovina, case sbilenche, che stavano a malapena in piedi. Camminai a lungo, con passi accorti da vecchio, cercando di non scivolare sul ghiaccio, andai nei quartieri di periferia, tra orti e campi, davanti ai negozi che vendevano ruote e pezzi di ricambio per carrozze, alle botteghe dei fabbri, davanti a sellai, cuoiai, maniscalchi e ferramenta, e mi diressi verso le mura. Non sapevo perche’ il funerale si tenesse alla moschea Mihrimah presso la Porta di Edirne. Una volta in moschea abbracciai i fratelli del morto, avevano un'aria arrabbiata e irremovibile. Noi miniaturisti e calligrafi ci abbracciammo in lacrime. Mentre recitavo la preghiera funebre, avvolto da una nebbia grigiastra calata all'improvviso a coprire ogni cosa, abbassai lo sguardo sulla bara, sopra la pietra rituale. Provai una rabbia talmente forte nei confronti dell'assassino che, nella mia testa, le parole della preghiera si confusero completamente. Dopo la preghiera, quando la comunita’ prese la bara sulle spalle, ero ancora tra i miniaturisti e i calligrafi. Con Cicogna, dimenticando le notti in cui lavoravamo fino all'alba e lui cercava di convincermi dello scarso valore delle dorature di Raffinato Effendi, di quanto fosse grossolano nell'usare i colori - mette dappertutto il blu per far sembrare piu’ ricco il disegno - e io gli davo ragione e dicevo: «Ma non c'e’ comunque di meglio», ci abbracciammo di nuovo singhiozzando. Mi piacque molto lo sguardo amichevole e rispettoso di Oliva, il suo modo di abbracciarmi - chi sa abbracciare e’ una brava persona - che per l'ennesima volta pensai che, tra i miniaturisti e i calligrafi, era lui quello a credere di piu’ nel mio libro. Sulle scale della porta del cortile mi trovai accanto a Maestro Osman, il capo miniaturista, non sapevamo cosa dirci. Fu un momento strano e carico di tensione. Uno dei fratelli del defunto prese a singhiozzare, un altro a cui piaceva farsi notare disse «Allah e’ grande». Poi Osman mi chiese «In quale cimitero lo portano?», ma lo fece tanto per dire qualcosa. Pensai che rispondere «Non lo so» sarebbe stato un comportamento ostile, mi agitai e senza pensarci feci la stessa domanda alla persona sulle scale accanto a me: «In quale cimitero? In quello della Porta di Edirne?» «A Eyüp», rispose un giovane barbuto stupido e arrabbiato. Mi voltai verso il maestro e dissi: «A Eyüp», ma lui aveva gia’ sentito la risposta del giovane barbuto stupido e arrabbiato. Cosi’ mi guardo’ con occhi che dicevano «ho capito» e di colpo compresi che non voleva prolungare il nostro incontro. Naturalmente, Maestro Osman e’ risentito perche’ il Nostro Sultano ha affidato a me il lavoro di scrittura, miniatura e illustrazione del libro che chiamo «segreto». E poi, il Nostro Sultano, sotto la mia influenza, ha cominciato a interessarsi allo stile europeo. Una volta, il sultano ha costretto il grande Maestro Osman a imitare il ritratto di un pittore italiano. So che Maestro Osman mi ritiene responsabile di quello strano disegno che, benche’ schifato, aveva comunque eseguito - l'aveva definito «una tortura». E aveva ragione. Mi fermai in mezzo alle scale a guardare il cielo per un po'. Quando fui sicuro di essere rimasto indietro, cominciai a scendere per le scale ghiacciate. Avevo appena fatto pian piano un paio di scalini che qualcuno mi prese sottobraccio e mi abbraccio’: era Nero. «Fa molto freddo, - disse. - Avete freddo?» Sono sicuro che e’ stato lui a far perdere la testa a seküre. Lo dimostra anche la sua sicurezza nel prendermi sottobraccio. Nel suo atteggiamento c'e’ qualche cosa che dice: ho lavorato dodici anni, sono diventato uomo. Arrivammo in fondo alle scale. Cosa mi racconti oltre alle cose che hai saputo al laboratorio? «Vai avanti figliolo, - gli dissi. - Vai e raggiungi gli altri». Si meraviglio’, ma fece finta di niente. Anzi, mi piacque il modo serio con cui sfilo’ il braccio. Se gli concedessi seküre, verrebbe ad abitare con noi? Uscimmo dalla citta’ dalla Porta di Edirne, laggiu’, lontano, vedevo la bara svanire nella nebbia, e la folla di miniaturisti, calligrafi, apprendisti che, con la bara sulle spalle, scendeva velocemente per la discesa verso il Corno d'Oro. Erano andati talmente veloci che avevano gia’ superato meta’ della strada fangosa che dalla valle coperta di neve scende a Eyüp. Tra il silenzio e la nebbia, alla mia sinistra il camino della fabbrica di candele della fondazione Hanim Sultan fumava allegramente. Sotto le mura, nei mattatoi che servivano i macellai e i conciatori greci di Eyüp, l'attivita’ ferveva. Il fetore delle carcasse arrivava fino alle cupole della moschea e ai cipressi del cimitero. Dopo aver camminato un po', sentii le urla dei bambini che giocavano li’ sotto, nel nuovo quartiere ebreo di Balat. Arrivato alla spianata di Eyüp, mi si avvicino’ Farfalla. Disinvolto, comincio’ a parlare con il suo solito atteggiamento concitato: «Sono stati Oliva e Cicogna, - disse. - Come tutti, anche loro sapevano benissimo che io andavo d'accordo con la buonanima, era risaputo. Tra di noi serpeggia l'invidia, ci si chiede chi sara’ il prossimo capo miniaturista, chi succedera’ a Maestro Osman, anzi ci sono ostilita’ e inimicizia. Adesso immagino che daranno la colpa a me e, come minimo, il Tesoriere e il Nostro Sultano, spinto dal Tesoriere, si allontanera’ da me, no, da noi».
«Quando dici noi, cosa intendi?» «Noi vogliamo che nel laboratorio si segua l'antica morale, che si segua la strada dei maestri persiani, che non si disegni per soldi. Noi pensiamo che nei nostri libri, al posto di armi, eserciti, schiavi e conquiste debbano esserci le antiche leggende, le antiche storie, non dobbiamo abbandonare le antiche forme, i miniaturisti del sultano non possono lavorare per due soldi nelle botteghe del mercato e disegnare qualsiasi cosa per chiunque. Il Nostro Eccellente Sultano ci darebbe ragione». «Calunni te stesso, e lo fai inutilmente, - dissi per tagliare corto. - Sono sicuro che nel laboratorio non puo’ vivere una persona che riuscirebbe a fare una cosa del genere. Siete tutti fratelli. Disegnare due o tre cose mai disegnate in passato non costituisce un danno tale da creare inimicizia». In quel preciso momento, proprio come quando udii la notizia per la prima volta, ebbi una certezza. L'assassino di Raffinato Effendi era uno dei maestri che aveva fatto una rapida carriera nel laboratorio del Palazzo ed era in mezzo alla folla che, davanti a me, saliva verso il cimitero. In quel momento fui sicuro anche che l'assassino avrebbe continuato con le sue diavolerie e i suoi intrighi, che era nemico del libro che stavo preparando e che, molto probabilmente, era addirittura venuto a casa mia a prendere del lavoro per il libro. Chissa’ se, come quasi tutti i miniaturisti e i pittori, anche Farfalla era innamorato di mia figlia? Mentre parlava, aveva dimenticato che, qualche volta, gli avevo chiesto disegni completamente contrari ai suoi pensieri, o stava abilmente insinuando qualcosa? Dopo un po' pensai che non stesse insinuando un bel niente. Anche Farfalla, come gli altri maestri, provava un evidente sentimento di riconoscenza nei miei confronti. Quando, per le guerre o per il disinteresse del sultano, venivano meno i compensi e le regalie per i miniaturisti, a periodi, l'unico guadagno aggiuntivo per tutti era stato il mio libro. Sapevo di scatenare delle gelosie e, per questo motivo - ma non solo per questo - li ricevevo da soli a casa mia, ma questo non significava assolutamente che avrebbero provato ostilita’ nei miei confronti. Tutti i miei miniaturisti erano persone abbastanza mature da riuscire ad amare sinceramente una persona usando il cervello e da trovare un motivo piu’ umano, anche se costretti per interesse. Perche’ il silenzio non durasse oltre e non si tornasse sullo stesso discorso, dissi: «Per amor di Dio, riescono a portare la bara in salita alla stessa velocita’ con cui lo facevano in discesa». Farfalla sorrise mostrando tutti i denti: «Perche’ fa freddo». Pensai, ma potrebbe uccidere un uomo? Per gelosia, ad esempio? E potrebbe uccidere anche me? Puo’ inventare una scusa. Quest'uomo bestemmiava contro la mia religione. Ma e’ un grande maestro, un vero talento, perche’ dovrebbe uccidere? La vecchiaia non e’ solo affaticarsi in salita, dovrebbe essere anche non aver cosi’ tanta paura della morte, svogliatezza, non entrare nel letto di una serva con entusiasmo ma con svogliatezza. Ebbi un'intuizione improvvisa, e gli comunicai la decisione che avevo preso in quel momento: «Non continuero’ piu’ il mio libro». «Come?», disse Farfalla cambiando espressione. «Porta sfortuna. E poi il Nostro Sultano mi ha tagliato i fondi. Dillo anche a Oliva e a Cicogna». Forse mi avrebbe fatto altre domande, ma improvvisamente ci trovammo nel cimitero, in mezzo a cipressi fitti, felci e lapidi. La sua tomba era circondata da file e file di persone, e capii che il cadavere veniva deposto nella tomba in quel momento dalle voci che ripetevano bismillahi âla milleti Resullah e dai pianti che aumentarono in maniera evidente. «Scopritegli il viso, scopriteglielo per bene», disse qualcuno. Probabilmente spostavano il sudario e, se la sua testa fracassata aveva ancora gli occhi, si stavano guardando negli occhi con il morto; ma io ero dietro e non riuscivo a vedere. Io non avevo guardato la morte negli occhi davanti a una tomba, ma in un luogo completamente diverso. Un ricordo. Trent'anni fa il nonno del Nostro Sultano, ora e’ in Paradiso, si era messo in testa di prendere ai veneziani l'isola di Cipro, perche’ lo seyhülislam Ebussuut Effendi gli aveva ricordato che quest'isola era stata un tempo destinata dai sultani egiziani all'approvvigionamento di Mecca e Medina, e aveva emesso una fatwa secondo la quale non era giusto lasciare nelle mani degli infedeli cristiani un'isola che aveva alimentato i luoghi sacri. Cosi’, come primo incarico in veste da ambasciatore, mi era toccato un lavoro difficile come quello di comunicare ai veneziani questa inaudita decisione, che dovevano darci l'isola. A Venezia avevo visitato le chiese, mi ero meravigliato dei ponti e dei palazzi, ero rimasto affascinato dai disegni nelle case dei ricchi e, pieno di stupore, fidandomi della loro ospitalita’, avevo consegnato loro quella lettera piena di minacce comunicando che il mio arrogante sultano voleva l'isola. I veneziani si erano cosi’ arrabbiati che nel Consiglio immediatamente convocato avevano deciso che una lettera del genere non era neanche da prendere in considerazione. Inoltre, folle infuriate mi avevano costretto a barricarmi nel palazzo del Doge e alcuni che erano riusciti a superare guardiani e portieri stavano per strozzarmi, quando due cavalieri vicini al Doge mi avevano portato, attraverso i corridoi del palazzo, alla porta posteriore che dava sul canale. Li’, in una nebbia come questa, mi aveva accolto un gondoliere molto alto, era vestito di bianco e mi aveva preso sottobraccio, per un attimo mi era sembrato la morte e, guardandolo negli occhi, avevo visto me stesso. Una cornacchia mi si poso’ accanto. Guardai dolcemente Nero negli occhi e gli chiesi di prendermi sottobraccio e di farmi compagnia sulla via del ritorno. Gli dissi di venire a casa il giorno dopo, la mattina presto, per lavorare al mio libro. Perche’ appena avevo pensato alla mia morte, avevo capito che avrei dovuto finire il libro a tutti i costi.
Capitolo diciottesimo. Di me diranno che sono un assassino
Fui quello che pianse di piu’ mentre gettavano fango gelato su cio’ che restava della salma del povero Raffinato Effendi. Gridavo, lasciate che muoia insieme a lui, lasciate che venga sepolto con lui, e mi presero per i fianchi perche’ non cadessi nella fossa. Quando mi sentii mancare l'aria, premendomi la fronte con le mani, mi tirarono indietro perche’ potessi respirare. Dagli sguardi dei parenti del defunto, capii che avevo probabilmente esagerato con i singhiozzi e le lacrime e mi ripresi. I pettegoli del laboratorio, vedendo che piangevo cosi’, avrebbero potuto pensare che tra me e Raffinato Effendi ci fosse un legame di cuore. Per non attirare di piu’ l'attenzione mi nascosi dietro un platano fino alla fine del funerale. Un parente, perfino piu’ stupido dello stupido che avevo spedito all'Inferno, mi segui’ dietro il platano e mi fisso’ con un'espressione che credeva piena di significato. Mi abbraccio’ a lungo. Poi l'imbecille mi disse: «Tu sei Sabato o Mercoledi’?» «Mercoledi’ era il nome della buonanima», gli risposi, e lui si meraviglio’. La storia di questi soprannomi che ci legano ancora come un segreto e’ semplice. Quando eravamo semplici apprendisti, il nostro rispetto, la nostra ammirazione, il nostro amore per Maestro Osman, che allora era appena passato dal ruolo di assistente a quello di maestro, erano enormi. Era un grande miniaturista, ci ha insegnato tutto lui, era uno di quelli che Allah ha provvisto di un talento magico, cosi’ come di grande intelligenza. Come era uso che facessero gli apprendisti, ogni mattina uno di noi doveva andare a casa del maestro per portargli il portapenne, la borsa, la cartella dei fogli e, camminando dietro di lui, doveva accompagnarlo a piedi fino al laboratorio. Ci facevamo a pezzi per stargli vicino, litigavamo tra noi dicendo, no, oggi vado io. Maestro Osman aveva un suo prediletto, ma il fatto che ci andasse tutte le mattine fomentava tra i miniaturisti infiniti pettegolezzi e scherzi di cattivo gusto, e cosi’ il grande maestro aveva deciso che ognuno di noi avrebbe dovuto andare da lui un giorno alla settimana. Il grande maestro lavorava di venerdi’ e non andava al laboratorio di sabato. Il suo amatissimo figlio - un apprendista come noi, ma che anni dopo, tradendo tutti, aveva abbandonato quest'arte accompagnava il padre di lunedi’ come un apprendista qualsiasi. Poi c'era nostro fratello Giovedi’, alto e magro, il piu’ ingegnoso di tutti, mori’ ancora giovane di una malattia misteriosa che provocava febbri altissime. La buonanima di Raffinato Effendi veniva di mercoledi’, e per questo motivo lo chiamavamo Mercoledi’, ma poi il maestro, sempre con lo stesso amore, ci aveva cambiato nome, e cosi’ Martedi’ era diventato Oliva, Venerdi’ Cicogna, Domenica Farfalla, e a lui aveva dato il nome di Raffinato per la finezza delle sue dorature. Probabilmente il maestro, come aveva fatto con tutti noi, anche con lui, per un periodo, ogni mattina, aveva detto: «Ben arrivato Mercoledi’, come stai?» Quando ricordai come mi chiamava, temetti di scoppiare a piangere. Quando eravamo apprendisti, malgrado le botte, ci sembrava di essere in Paradiso, perche’ Maestro Osman ci voleva bene, ci baciava le mani e le braccia con le lacrime agli occhi per la bellezza delle nostre miniature e, grazie ai suoi baci, il nostro talento fioriva d'amore e ci sentivamo in Paradiso. Anche il colore della gelosia, la cui ombra aleggiava in quegli anni felici, a quei tempi era diverso. Vedete che mi sento diviso in due, come i disegni di quei personaggi che hanno la testa e le mani colorate da un maestro, e il corpo e l'abito da un altro. Quando un tipo come me, timorato di Dio, diventa inaspettatamente un assassino, non riesce ad abituarsi subito. Per potermi comportare come se la mia vita continuasse come prima, ho acquisito una seconda voce, adatta al ruolo di assassino. Adesso parlo con questa voce perfida e ironica che non entra nella mia vita di prima. Naturalmente, di tanto in tanto, ascolterete anche la mia voce abituale, quella con cui avrei parlato se non fossi diventato un assassino, ma la sentirete legata al mio soprannome, e non quando si dice «io, l'assassino». Che nessuno tenti di metterle insieme, perche’ io non ho uno stile o un difetto personale che potrebbero farmi scoprire. Credo che lo stile, o qualsiasi cosa che distingua un miniaturista dall'altro, sia un difetto, e non un segno di personalita’ come qualcuno, vantandosene, sostiene. Ammetto che nella mia particolare situazione questo possa creare qualche problema. Non voglio assolutamente che capiate se sono Farfalla, Oliva, o Cicogna - soprannomi che Maestro Osman ci ha dato con amore e Zio Effendi ha usato volentieri. Se lo capiste, molto probabilmente, mi consegnereste di corsa agli sgherri del Comandante delle guardie imperiali. Percio’ credo di non poter dire tutto. In realta’ mi rendo conto che, anche quando sto per conto mio, mi seguite. Non posso tranquillamente rimuginare sui dettagli della mia vita o sulle cose che mi fanno rabbia e che mi farebbero scoprire. Quando facevo quei tre esempi, Alif, Ba e Gim, con una parte del mio cervello controllavo il vostro sguardo. I guerrieri, gli innamorati, i principi e i leggendari eroi che ho disegnato decine di migliaia di volte, da un lato guardano il disegno, i nemici o i draghi con cui combattono in quell'epoca leggendaria, le belle fanciulle per cui versano lacrime, ma dall'altro, con una parte del corpo, si rivolgono agli appassionati della miniatura che stanno contemplando quel magnifico disegno. Se ho uno stile e una personalita’, sono nascosti nelle mie miniature come nell'omicidio che ho commesso e nelle mie parole! Vediamo un po', scoprite chi sono dal colore delle mie parole! Penso anche che se mi scopriste, la cosa darebbe serenita’ all'infelice anima del povero Raffinato Effendi. Mentre adesso io, sotto gli alberi, in mezzo al cinguettio degli uccelli, contemplo le acque del Corno d'Oro e le cupole di Istanbul e mi accorgo ancora una volta di quanto sia bella la vita, su di lui buttano terra a palate. Povero Raffinato Effendi, negli ultimi tempi, da quando frequentava gli uomini di quell'accigliato predicatore di Erzurum, non mi voleva piu’ bene, ma nei venticinque anni in cui abbiamo illustrato insieme libri per il Nostro Sultano, ci sono stati anche momenti in cui ci siamo sentiti vicini. Vent'anni fa, a un certo punto, mentre lavoravamo al Libro dei re del compianto padre del Nostro Sultano, siamo diventati amici, e ci siamo avvicinati ancor piu’ lavorando alle otto pagine miniate di un divan di Fuzuli. Allora ero venuto qui per partecipare ai suoi progetti ragionevoli ma privi di logica (diceva che il miniaturista deve sentire nell'anima il testo che disegna), e una sera d'estate avevo ascoltato pazientemente i versi del divan che mi leggeva con ostentazione mentre le rondini volavano come impazzite sopra di noi. Di quella notte mi e’
rimasta impressa una frase: «Io non sono io, colui che chiamo io sei sempre tu». Mi e’ rimasto in mente anche quello che avevo pensato e mi ero chiesto come disegnarlo. A casa sua, dove mi recai di corsa appena saputo che era stato trovato il cadavere, vidi che il piccolo giardino dove eravamo soliti leggere poesie era coperto di neve e mi sembro’ piu’ piccolo, come tutti i giardini che rivediamo dopo anni. Anche la sua casa era piu’ piccola. Dalla stanza accanto si sentivano le urla delle donne che, come in gara tra loro, aumentavano di intensita’ le loro grida esagerate. Quando il fratello maggiore comincio’ a raccontare, lo ascoltai attentamente: il volto del nostro povero fratello Raffinato era quasi a pezzi, la testa fracassata. Una volta tirato fuori dal pozzo in fondo al quale giaceva da quattro giorni, i fratelli avevano avuto difficolta’ a riconoscerlo e la sua povera moglie Kalbiye che avevano fatto venire da casa, nel buio della notte aveva dovuto riconoscere questo cadavere irriconoscibile con gli abiti ormai a brandelli. Mi venne in mente l'immagine di Giuseppe gettato nel pozzo dai fratelli invidiosi che veniva tirato fuori dai mercanti. Mi piace molto disegnare questa scena del Giuseppe e Zuleykha, perche’ ci ricorda che nella vita l'invidia tra fratelli e’ un sentimento basilare. Quando ci fu un attimo di silenzio, sentii che guardavano verso di me. E se piangessi? Ma il mio sguardo cadde su Nero. Il vigliacco ci osservava tutti con l'aria di chi e’ stato mandato tra i miniaturisti da Zio Effendi per indagare su questa faccenda. «Chi puo’ aver commesso una simile vigliaccheria? - grido’ il fratello. - Quale persona spietata puo’ aver ucciso mio fratello, lui che non era capace di far male a una mosca?» Partecipai anch'io con aria sincera a questa domanda cui si rispose piangendo e cercai la mia risposta. Chi erano i nemici di Raffinato? Se non l'avessi ucciso io, chi altro avrebbe potuto? Ricordo che una volta - mi pare fosse negli anni in cui lavoravamo ai due volumi dell'Hunername (1) - aveva litigato con quelli che non si curavano dei metodi degli antichi maestri e per fare dorature piu’ economiche e veloci rovinavano con brutti colori i bordi delle pagine sulle quali noi pittori lavoravamo tanto. Chi erano? Poi si era diffusa la voce che l'inimicizia non fosse nata per questo motivo ma per amore di un bell'apprendista rilegatore che lavorava al piano di sotto, ma era una storia molto vecchia. C'era chi si arrabbiava per l'eleganza di Raffinato, per la sua delicatezza e per quei suoi modi femminili e raffinati, ma i motivi erano altri, come la sua cieca fedelta’, la sua minuziosita’ nell'armonia cromatica tra doratura e disegno, il suo far notare a Maestro Osman con garbata saccenteria e, soprattutto se miei, i minimi difetti degli altri miniaturisti... Il suo ultimo litigio riguardava un argomento a cui una volta Maestro Osman era molto sensibile: i lavori che i miniaturisti del Palazzo accettavano e facevano segretamente per committenti esterni. Negli ultimi anni l'interesse del sultano e i soldi del Tesoro erano diminuiti, e tutti i miniaturisti avevano preso a far visita alle ville a due piani di pascia’ piu’ o meno nobili, e i migliori, di notte, avevano cominciato ad andare da Zio Effendi. Non sono assolutamente offeso per il fatto che Zio Effendi, con la scusa della sfortuna, abbia deciso di non continuare il suo libro, il nostro libro. Naturalmente immagina benissimo che quel fesso di Raffinato Effendi sia stato eliminato da uno di noi che lavora al libro. Se foste al suo posto, convochereste a casa vostra di notte, una volta ogni due settimane, un assassino a dipingere? O preferireste scoprire per primo chi sia il vero assassino, chi sia il miglior miniaturista? Non ho dubbi che in breve capira’ chi e’ il migliore tra i maestri che frequentano la sua casa, cominciando dalla scelta dei colori per la doratura, dai contorni del disegno, dai ritratti all'ordine della pagina. Non penso assolutamente che si abbasserebbe a pensare che uno come me possa essere un volgare assassino e non un miniaturista dotato di vero talento. Con la coda dell'occhio seguii quello stupido di Nero Effendi, lo aveva portato con se’. Lasciarono il cimitero insieme e, mentre la folla del funerale si allontanava, scesero verso il molo di Eyüp, e io li seguii. Presero una barca a quattro remi e, insieme a giovani apprendisti che, dimenticati morto e funerale, ridevano tra di loro, io salii su una barca a sei remi. A un certo punto, al largo di Fenerkapi, le nostre barche si avvicinarono fino quasi a toccarsi, e io vidi bene da vicino che Nero bisbigliando raccontava qualcosa a Zio Effendi e all'improvviso pensai quanto sarebbe stato facile uccidere di nuovo. Allah, tu hai concesso questa incredibile forza a tutti noi, ma allo stesso tempo ci hai anche spaventato perche’ non ne facessimo uso. Ma se qualcuno, vincendo questa paura, la applica, diventa subito un'altra persona. Una volta temevo Satana, cosi’ come il minimo accenno di cattiveria dentro di me. Adesso, invece, sento che la cattiveria e’ una cosa a cui si puo’ resistere, necessaria al miniaturista. Se non prendiamo in considerazione il tremore delle mie mani, durato per alcuni giorni dopo l'omicidio, da quando ho ucciso quel miserabile disegno meglio, stendo colori piu’ lucidi e coraggiosi e, cosa piu’ importante, vedo che la mia fantasia crea meraviglie. Ma quante persone a Istanbul apprezzerebbero le meraviglie che disegno? Al largo di Cibali guardai Istanbul con rabbia, da lontano, in mezzo al Corno d'Oro. Le cupole coperte di neve brillavano sfavillanti sotto il sole uscito all'improvviso. Piu’ una citta’ e’ grande e colorata, piu’ ci sono angoli dove nascondere le tue colpe e i tuoi peccati, piu’ e’ affollata, e piu’ facilmente puoi mescolarti alla folla con la tua colpa. L'intelligenza di una citta’ non si misura dai sapienti, dalle biblioteche, dai miniaturisti, dai calligrafi e dalle scuole coraniche, ma dal numero di insidiosi omicidi commessi nelle sue strade buie in migliaia di anni. Con questa logica, non ho dubbi che Istanbul sia la citta’ piu’ intelligente del mondo. Al molo di Unkapani, dopo Nero e suo zio, anch'io scesi dalla barca, li seguii mentre percorrevano la salita appoggiandosi l'uno all'altro. Si fermarono tra le rovine, dietro la moschea del Sultano Mehmet, e si dissero un'ultima cosa prima di salutarsi. Per un attimo, Zio Effendi mi sembro’ un povero vecchio. Mi venne voglia di corrergli dietro e raccontargli le calunnie di quel miserabile al cui funerale avevamo appena partecipato, cosa avevo fatto per proteggere tutti da queste calunnie e chiedergli: «vero quello che diceva Raffinato Effendi, che disegnando facciamo un uso cattivo della fiducia del Nostro Sultano, tradiamo i nostri metodi, bestemmiamo contro la nostra religione? E voi, avete finito il vostro ultimo grande disegno?»
A sera, mi fermai in mezzo a una strada piena di neve, guardai dove finiva la strada buia che i bambini e i padri di ritorno a casa insieme a me abbandonavano a spiriti, fate, briganti, ladri e alla tristezza degli alberi coperti di neve. Alla fine di questa strada, nella fastosa casa a due piani di Zio Effendi, adesso, sotto il tetto che ho intravisto per un attimo tra i rami nudi dei castagni, c'e’ la donna piu’ bella del mondo. Ma io non voglio perdere la testa. NOTE: (1) Opera in due volumi di Seyit Lokman risalente all'epoca del Sultano Murat III. Con le sue 107 tavole, e’ uno dei principali esempi dell'arte della miniatura turca.
Capitolo diciannovesimo. Io, la moneta Sono una sultana ottomana da ventidue carati. Mi fregio del glorioso monogramma del nostro grande monarca il sultano. Qui, in questo bel caffe’, ora intristito dal funerale, Cicogna, uno dei grandi maestri del Nostro Sultano, a mezzanotte mi ha disegnato ma non mi ha ancora colorata con l'oro, in ogni caso il disegno lo potete completare da soli con l'immaginazione. La mia copia e’ qui, ma io sono nel borsellino del grande maestro, vostro fratello Cicogna. Adesso si alza in piedi, mi tira fuori dal borsellino e mi mostra a voi. Salve, salve, saluto i maestri gli artisti e gli ospiti. La mia lucentezza vi fa spalancare gli occhi, il riflesso della fiamma della lampada su di me vi entusiasma e siete gelosi del mio ultimo padrone, Maestro Cicogna. Avete ragione, perche’ non esiste cosa migliore di me per misurare il talento di un artista. Negli ultimi tre mesi, Maestro Cicogna ha guadagnato quarantasette monete d'oro, tutte come me. Siamo tutte in questo borsellino e Messer Cicogna, guardatelo, non ci nasconde, sapendo anche che tra i miniaturisti di Istanbul nessuno guadagna piu’ di lui. Sono molto orgogliosa di essere accettata come misura tra i miniaturisti e di fornire una conclusione alle discussioni inutili. Una volta, quando non eravamo ancora abituate ai caffe’ e non avevamo la mente cosi’ aperta, la sera quegli stupidi miniaturisti non si accontentavano di discutere - no, tu sei piu’ abile, no, sono io il piu’ bravo a scegliere i colori, io disegno gli alberi piu’ belli, nessuno e’ piu’ bravo di me a fare le nuvole - ma facevano a botte tutte le notti spaccandosi i denti a vicenda. Adesso, il fatto che la mia logica sia dominante, conferisce una dolce armonia al sistema di lavoro del laboratorio, anzi una modalita’ degna degli antichi maestri di Herat. Vi elenco le tante e diverse cose che, grazie all'armonia e alla modalita’ di questa logica, potreste scambiare con me: un piede - che sarebbe poi la cinquantesima parte - di una concubina giovane e bella; un magnifico specchio da barbiere in legno di noce con cornice d'osso; una cassa ben dipinta, ornata con l'argento di novanta akçe, con raffigurazioni del sole; centoventi pani freschi; bare e fosse per seppellire tre persone; un bracciale d'argento; un decimo di un cavallo; le gambe di un'anziana concubina grassa; un vitello di bufalo; due bei piatti cinesi; un mese di stipendio di Mehmet il derviscio di Tabriz, o della maggior parte dei miniaturisti persiani nel laboratorio del Nostro Sultano; un buon falcone da caccia con la sua gabbia; dieci anfore di vino di Panayot; un'ora di Paradiso con il famoso giovane Mahmut, e molte altre infinite possibilita’. Prima di arrivare qui, ho passato dieci giorni dentro il lurido calzino di un povero apprendista calzolaio. Poverino, ogni notte, a letto, prima di dormire, faceva l'infinito inventario delle cose che avrebbe potuto ottenere grazie a me. I versi di questa lunga e dolce poesia, come una ninna nanna, mi hanno dimostrato che non esiste buco in cui il denaro non possa entrare. Ho detto buco, e mi e’ venuta in mente una cosa. Se raccontassi le avventure che mi sono capitate prima di arrivare qui, ne verrebbero fuori volumi e volumi. Siamo tra di noi, pochi intimi, se non lo dite a nessuno e se Cicogna Effendi non si offende, vi rivelero’ un segreto. Giurate? Va bene. Confesso. Io non sono una vera sultana ottomana da ventidue carati, uscita dalla zecca del quartiere della Colonna di Costantino. Sono una moneta falsa. Sono stata fabbricata a Venezia con oro di bassa lega e sono stata messa in circolazione come moneta d'oro ottomana. Grazie della vostra comprensione. A quanto ne so, sono anni che alla zecca di Venezia si fanno queste cose. Ma fino a poco tempo fa, le monete d'oro leggero che gli infedeli veneziani portavano e distribuivano in Oriente erano ducati veneziani, li facevano loro, sempre nella stessa zecca. Ma gli ottomani sono molto rispettosi della logica, e per loro un oggetto e’ quello che ha scritto sopra; dato che sulle monete c'era scritta sempre la stessa cosa non fecero caso alla qualita’ dell'oro con cui erano fatte, e cosi’ le false monete d'oro veneziane riempirono tutta Istanbul. Poi cominciarono a distinguere le monete false con poco oro e molto rame dalla consistenza, provando a morderle. E se ti capita di ardere d'amore, e corri dal giovane splendido Mahmut di cui tutto il mondo e’ innamorato, lui non prende in bocca quello che hai li’, ma la moneta, la morde, dice che e’ falsa e ti porta in Paradiso per mezz'ora invece che per un'ora. Vedendo che le loro monete false conducevano a questi tragici risultati, gli infedeli veneziani dissero: facciamo le monete false con le monete d'oro ottomane, e ci cascheranno di nuovo. Adesso vorrei attirare la vostra attenzione su uno strano paradosso. Quando questi infedeli veneziani disegnano, non disegnano ma sembrano riprodurre realmente la cosa che disegnano. Eppure quando coniano monete, non le fanno vere ma false. A Venezia ci misero in casse di ferro, ci caricarono sulle navi, e arrivammo a Istanbul rollando e ondeggiando. Mi
trovai nel negozio di un cambiavalute, nella bocca fetida d'aglio di un esperto. Un attimo dopo arrivo’ uno stupido contadino che voleva cambiare una moneta d'oro. Quel mascalzone del cambiavalute disse: vediamo se e’ falsa o meno, dammela che la mordo, e si mise in bocca la moneta del contadino. Quando ci incontrammo nella bocca, capii che era una vera sultana ottomana, e lei, vedendomi in mezzo al fetore d'aglio, disse: «Tu sei falsa». Aveva ragione, ma avendomi parlato con aria arrogante e avendo ferito il mio orgoglio, le mentii: «Sei tu che sei falsa». Intanto lo stupido contadino si vantava: «Figurarsi se la mia moneta e’ falsa! L'ho sepolta sotto terra vent'anni fa, allora non c'era questa immoralita’!» Mentre io ero curiosa di sapere come sarebbe andata a finire, il cambiavalute si cavo’ di bocca me invece della moneta del contadino. «Prendila, questa e’ la tua moneta d'oro, e’ una moneta falsa di quei vigliacchi dei veneziani, non la voglio», disse. E poi lo rimprovero’ dicendo: «Ma non ti vergogni neanche un po'?» Lui cerco’ di dire qualcosa, ma poi mi prese e se ne ando’. Quando si senti’ dire le stesse cose anche da altri cambiavalute, si offese e mi cambio’ per novanta akçe come una moneta d'oro basso. E cosi’ ebbe inizio il mio infinito peregrinare di mano in mano, e sono ormai sette anni che va avanti. Devo dire, con un certo orgoglio, che ho trascorso la maggior parte del mio tempo a Istanbul, passando da un borsellino all'altro, dalle fusciacche alle tasche, come dovrebbe fare una moneta intelligente. Il mio terrore e’ venire messa in un'anfora e rimanere sepolta per anni sotto una pietra in un giardino; non e’ che una cosa del genere non mi sia mai accaduta, ma, chissa’ perche’, questi periodi noiosi sono sempre durati poco. Gran parte della gente a cui sono capitata in mano voleva liberarsi di me al piu’ presto, specialmente quando scopriva che ero falsa. Non ho incontrato ancora nessuno che avvertisse l'incauto acquirente che ero falsa. Ma coloro che non si accorgevano che ero falsa e davano centoventi akçe per me, appena si rendevano conto di essere stati ingannati, si tormentavano in preda alla rabbia, all'infelicita’ e all'ansia fino a quando non si liberavano di me ingannando un'altra persona. Durante queste crisi, nonostante anche loro tentassero spesso di ingannare gli altri (gli andava sempre male per la fretta e la rabbia), bestemmiavano con tutto il cuore chiamando «impudente» chi li aveva ingannati. In questi ultimi sette anni, ho cambiato cinquecentosessanta mani, a Istanbul non c'e’ casa, negozio, mercato, moschea, chiesa, sinagoga in cui non sia entrata. Andando in giro, ho visto che su di me si fanno molti piu’ pettegolezzi di quanto immaginassi, si inventano leggende e si dicono bugie. Mi e’ stato continuamente rinfacciato che ormai, oltre a me, non esiste piu’ un valore, che sono spietata, cieca, che amo anch'io il denaro, che il mondo, purtroppo, e’ fondato su di me, che posso comprare tutto, che sono immonda, vile, vigliacca. Chi ha capito che sono falsa si e’ comportato con ancora piu’ rabbia e mi ha detto cose addirittura peggiori. Diminuendo il mio valore reale, aumentava il mio valore metaforico. Ma, malgrado tutte queste spietate metafore e sconsiderate calunnie, ho visto che la maggioranza del popolo mi ama con passione sincera. Penso che, in questi tempi di disamore, un amore cosi’ sincero, anzi, impetuoso, sia una cosa che deve far piacere a tutti noi. Ho visto ogni angolo di Istanbul, strada per strada, quartiere per quartiere, ho conosciuto le mani di tutti, dagli ebrei agli abkhazi, dagli arabi agli abitanti della Mingerya. Sono uscita da Istanbul una sola volta, dentro il borsellino di un derviscio di Edirne che andava a Manisa. Quando i briganti ci tagliarono la strada e dissero: «O la borsa o la vita», il povero derviscio, in fretta e furia, ci nascose nel buco del suo didietro. Qui puzzava peggio della bocca di quell'uomo a cui piaceva l'aglio, ed era molto scomodo. Ma subito dopo successe una cosa ancora peggiore, perche’ i ladroni smisero di dire al derviscio «O la borsa o la vita!», ma «O l'onore o la vita!», e si misero in fila. Meglio non raccontarvi quel che patii in quel buchetto. per questo motivo che non mi piace uscire da Istanbul! A Istanbul sono stata sempre amata. Le fanciulle mi hanno baciato come se fossi l'uomo dei loro sogni, mi hanno nascosto nei borsellini di velluto, sotto i cuscini, in mezzo ai loro grandi seni, nelle mutandine e mi hanno tastato nel sonno per essere sicure che ci fossi. Sono stata nascosta in un angolo del focolare di un hamam, in uno stivale, in fondo a una boccetta tra i meravigliosi odori della bottega di un profumiere, nella tasca segreta del sacco di lenticchie di un cuoco. Ho girato tutta Istanbul negli angoli segreti delle cinture di pelle di cammello, delle fodere di tessuto egiziano a righe, delle scarpe foderate di panno, dei salvar dai mille colori. Petro, il mastro orologiaio, mi ha messo nello scomparto segreto di un pendolo, un droghiere greco direttamente nel formaggio; sono stata avvolta in pezze di panno assieme a sigilli, gioielli e chiavi, nascosta dentro camini, focolari, sotto a davanzali, tra cuscini di paglia, negli anfratti di armadi e cassapanche. Ho conosciuto padri che, alzandosi continuamente da tavola, controllavano se ero ancora al mio posto, donne che mi mettevano in bocca senza motivo e mi succhiavano come una caramella, bambini che, a forza di annusarmi, mi ficcavano nel naso, vecchi con un piede nella fossa che non trovavano pace se non mi tiravano fuori dal borsellino di cuoio sette volte al giorno. C'era una circassa maniaca delle pulizie che, dopo aver spazzato e lavato tutta casa, ci tirava fuori dal borsellino e ci sfregava con una spazzola di legno. Un cambiavalute guercio ci impilava di continuo, un facchino che profumava di caprifoglio ci contemplava con la famiglia come fossimo un panorama, e un doratore che adesso non e’ piu’ tra noi - non serve fare nomi - ci allineava continuamente in diversi modi. Sono andata in giro su barche di mogano, sono entrata a Palazzo, ne sono uscita, sono stata nascosta dentro i volumi dei maestri di Herat, dentro tacchi di scarpe che profumavano di rosa, sotto le coperte dei basti. Ho visto centinaia di mani, sporche, pelose, pingui, unte, tremanti, vecchie. Mi e’ rimasto addosso l'odore dei luoghi dove si fuma l'oppio, delle manifatture di candele, del pesce secco, del sudore di Istanbul. Dopo essere passata per tutta questa confusione e questo movimento, quando il vile bandito, nel buio della notte, ha tagliato la gola alla sua vittima e mi ha infilata nel suo borsellino e una volta giunti nella sua maledetta casa mi ha sputato addosso dicendo: «Che schifo! tutta colpa tua», mi sono offesa cosi’ tanto da voler scomparire. Ma non sono scomparsa dalla circolazione perche’ nessuno avrebbe potuto distinguere un bravo miniaturista da uno
meno bravo, e cosi’ i miniaturisti si sarebbero uccisi tra di loro e sono entrata nel borsellino di quello di maggior talento, il piu’ intelligente, e sono arrivata qui. Se siete migliori di lui, fatemi vostra.
Capitolo ventesimo. Il mio nome e’ Nero Quanto sapeva suo padre delle lettere che ci mandavamo io e seküre? Considerando la lettera di seküre, i suoi modi da ragazza timida e timorata del padre, avrei dovuto pensare che non si fossero scambiati neanche una parola su di me, ma sentivo che non era cosi’. Lo sguardo furbo di Esther la venditrice di corredi, la magia dell'apparizione di seküre alla finestra, la fermezza dello zio nel mandarmi dai suoi miniaturisti e la disperazione con cui mi si era rivolto quella mattina, mi turbavano. Quella mattina, mio zio mi fece sedere davanti a se’ e comincio’ subito a parlare dei ritratti che aveva visto a Venezia. Come ambasciatore del Nostro Grande Sultano era stato in molti palazzi, in molte case di ricchi, in molte chiese. Aveva passato intere giornate davanti a migliaia di ritratti, aveva visto migliaia di volti disegnati su tela, dentro le cornici, sui muri. «Volti umani, ma unici, soli, tutti diversi tra loro!», disse. Si era ubriacato della loro varieta’, dei loro colori, della morbidezza della luce, cosi’ come della loro durezza, della bellezza e di quello che i loro occhi dicevano. «Era come un'epidemia, chiunque si faceva fare il ritratto, - disse. -Tutta Venezia. Quelli che avevano denaro e potere si facevano fare il ritratto come testimonianza, come ricordo della loro vita e come simbolo della loro fortuna e del loro potere. Per rimanere per sempre davanti a noi, per dirsi tra loro che esistono, per alludere al fatto di essere separati, diversi dagli altri». Le parole erano sprezzanti come se parlasse di gelosia, ambizione e avidita’, ma quando parlava dei ritratti che aveva visto a Venezia, il suo volto, per un attimo, si illuminava e si riempiva di vita come quello di un bambino. I ricchi, i principi, le grandi famiglie, si facevano ritrarre in ogni occasione, e perfino quando facevano disegnare scene della Bibbia o leggende religiose sui muri delle chiese, questi infedeli pretendevano che vi venissero dipinti i loro volti. E cosi’, per esempio, guardavi un dipinto che rappresentava la sepoltura di Santo Stefano e, tra la gente che piange davanti alla tomba, c'e’ anche quel principe che, felice e contento, ti mostra compiaciuto i dipinti appesi ai muri del suo palazzo. E ancora, in un affresco che mostrava San Pietro che guarisce i malati con la sua ombra, ti accorgevi che lo sfortunato invalido piegato in due dal dolore che gli e’ accanto, era il fratello del gentile padrone di casa, sano come un pesce, e ci rimanevi male. Il giorno dopo, questa volta in un dipinto che illustra la Resurrezione dei morti, vedevi il cadavere di chi, poco prima, seduto a tavola accanto a te, si era abbuffato. «Alcuni erano andati talmente oltre che, - disse mio zio con aria timorosa, come se parlasse del fascino di Satana, - per poter avere un posto nel dipinto, acconsentivano anche a essere tra la folla, un servitore che versa il vino nei calici, un personaggio senza pieta’ che lapida un'adultera, un assassino con le mani sporche di sangue». Feci finta di non capire e dissi: «Ma e’ come quando nei libri che narrano antiche leggende persiane vediamo Scia’ Ismail che sale al trono? Come quando nella storia di Cosroe e sirin troviamo il ritratto di Tamerlano che e’ venuto molto dopo di loro?» C'era uno scricchiolio da qualche parte della casa? Poi lo zio disse: «Sembra che i disegni europei siano fatti per farci paura. Ci spaventano il potere e la ricchezza di chi li fa fare, oltretutto vogliono farci credere che stare a questo mondo sia un evento speciale e misterioso. Con i loro volti unici, con i loro occhi e il loro atteggiamento, con i loro abiti pieni di pieghe e di ombre, vogliono terrorizzarci, come se fossero creature misteriose». Mi racconto’ di come una volta, nella dimora di un ricco signore sulle sponde del lago di Como, un pazzo curioso si perse nelle stanze di una meravigliosa esposizione dove erano stati raccolti i ritratti di tutti i personaggi famosi della storia europea, dai re ai cardinali, dai guerrieri ai poeti. «Dopo avermi fatto visitare la sua dimora, il mio ospite pieno d'orgoglio mi lascio’ libero di girare per le stanze, - disse, - e vidi che questi personaggi infedeli, a quanto pare importanti, si erano trasformati in personalita’ che avevano piu’ spazio in questo mondo solo perche’ erano stati ritratti. Il ritratto aveva conferito loro qualcosa di magico e li aveva resi cosi’ straordinari che, per un attimo, tra i dipinti, mi sentii in difetto e impotente. Pensai che, se qualcuno mi avesse disegnato con questi metodi, avrei compreso meglio perche’ ero al mondo». Aveva capito subito che la miniatura islamica, che gli antichi maestri di Herat avevano reso perfetta e immutabile, sarebbe finita con la passione per il ritratto, ed ebbe paura dei suoi desideri. «Forse volevo anche sentire di essere diverso da tutti, differente, unico», disse. E aveva avuto la sensazione di venire trascinato da un forte desiderio verso la cosa che temeva, come accadra’ quando Satana ci trascinera’ verso il peccato. - Come posso dire, sembrava un desiderio peccaminoso, come orgoglio nei confronti di Allah, credersi importante, mettere se stessi al centro del mondo. Poi gli era venuto in mente che quella cosa che, nelle mani dei maestri europei, era diventata una specie di gioco per bambini, se rivolta al Nostro Sultano, si sarebbe trasformata in una forza legittima che avrebbe superato ogni magia, avrebbe influenzato tutti coloro che l'avessero vista, sarebbe stata utile alla nostra religione. Ecco, l'idea di far preparare un libro che contenesse il ritratto del Nostro Sultano e delle cose che lo rappresentavano gli era venuta in quel momento. Quando mio zio, una volta tornato a Istanbul, disse al Nostro Eccellente Sultano che avrebbe fatto bene a farsi ritrarre con i metodi dei maestri europei, questi, in un primo momento, si oppose.
«L'essenziale e’ la storia, - disse. - Un bel dipinto completa elegantemente la storia. Se provo a immaginare un dipinto che non completa la storia, mi viene in mente che quel dipinto, alla fine, sarebbe un idolo. Perche’, visto che non si puo’ credere a una storia che non esiste, allora si crede al disegno, a quella cosa. come quando si adoravano gli idoli della kaaba, prima che il Profeta li facesse distruggere. Se non sono un pezzo di una storia, come si fa a ritrarre, per esempio, un garofano, oppure questo nano insolente?» «Mostrando che la bellezza del garofano e’ la sua particolarita’». «E nell'ordine della pagina lo sistemeresti al centro del mondo?» «Ho avuto paura, - disse mio zio. - Per un attimo, vedendo dove mi portavano i pensieri del sultano, mi feci prendere dall'agitazione». Intuii che mio zio aveva paura di prevedere al centro del mondo, cosi’ come del foglio, qualcosa di diverso dalla volonta’ di Allah. Come avevo immaginato, data la paura di mio zio, il Nostro Sultano gli disse: «Andra’ a finire che vorrai appendere al muro un dipinto al centro del quale hai messo un nano. Ma i dipinti non vanno appesi al muro. Perche’, dopo un po', qualunque fosse la nostra intenzione, cominceremmo ad adorare anche il dipinto appeso al muro. Se, come gli infedeli, avessi creduto che Cristo il profeta fosse allo stesso tempo Allah - Allah non voglia! - allora avrei capito che Allah si sarebbe potuto vedere nel mondo, anzi, che sarebbe apparso nell'uomo, avrei accettato di fare ritratti agli uomini e li avrei appesi al muro. Capisci che, alla fine, senza rendercene conto, cominceremmo ad adorare qualsiasi dipinto appeso al muro?» «Lo capivo benissimo, - mi disse mio zio. - E dato che lo capivo, avevo anche paura di quel che entrambi stavamo pensando». «Per questo motivo non posso accettare che il mio ritratto venga appeso al muro», aveva detto il Nostro Sultano. «Ma lo voleva», sussurro’ mio zio con un sorriso satanico. Adesso era il mio turno di avere paura. «Voglio comunque che si faccia un mio ritratto con i metodi dei maestri europei, - aveva detto il Nostro Sultano. Bisogna nasconderlo tra le pagine di un libro. Mi dirai tu quale libro deve essere». «Per un attimo rimasi stupito e adorante», continuo’ mio zio. Poi fece lo stesso sorriso satanico di prima, e pensai che si fosse improvvisamente trasformato in un'altra persona. «Il Nostro Eccellente Sultano mi ordino’ di iniziare subito a fare il libro. Mi girava la testa dalla felicita’. Ordino’ di prepararlo come dono per il Doge di Venezia da cui mi avrebbe mandato di nuovo. Voleva che questi, nel millenario dell'Egira, una volta pronto il libro, vedesse la forza vittoriosa del Nostro Eccellente Sultano, califfo dell'Islam. Ma perche’ non si sapesse che aveva intenzione di accordarsi con i veneziani e non si creassero gelosie all'interno del laboratorio, mi chiese di prepararlo in segreto. E io, felice, cominciai a far fare i miei disegni di nascosto».
Capitolo ventunesimo. Io sono vostro zio E cosi’, venerdi’ mattina cominciai a raccontargli come avrebbe dovuto essere il libro con il ritratto del Nostro Sultano fatto con i metodi dei maestri europei. Il mio punto di partenza era come avevo affrontato l'argomento con il Nostro Sultano e come l'avevo convinto a fare il libro. Ma il mio scopo segreto era far scrivere a Nero la storia che accompagnasse i disegni, e che non avevo ancora iniziato. Gli dissi che avevo finito la maggior parte delle illustrazioni del libro e che stavo per terminare l'ultima. «C'e’ il ritratto della morte, - dissi, - nel mio libro, c'e’ il disegno di un albero, l'ho fatto fare a Maestro Cicogna perche’, con la sua intelligenza, mostrasse com'e’ tranquillo il mondo del Nostro Sultano, c'e’ il ritratto di Satana e c'e’ il disegno del cavallo che ci porta in luoghi lontani, c'e’ il cane subdolo e saccente, c'e’ la moneta... Li ho fatti disegnare ai migliori miniaturisti del laboratorio, sono fatti cosi’ bene che appena li vedi, sai subito come dev'essere il testo. Poesia e disegno, colore e parola sono fratelli, lo sai». A un certo punto mi chiesi se dirgli o meno che avrei potuto concedergli la mano di mia figlia. Verrebbe ad abitare con noi in questa casa? Poi mi dissi, non farti ingannare da come ti ascolta con attenzione, dal suo volto infantile, spera solo di prendersi la tua seküre e fuggire via. Ma, a parte Nero, nessun altro avrebbe potuto portare a termine il mio libro. Tornando dalla preghiera del venerdi’, gli parlai anche delle ombre, la piu’ grande scoperta pittorica dei maestri italiani. «Se, - dissi, - disegniamo le strade, come se ci camminassimo, fermandoci li’, conversando e guardando il mondo, dovremmo anche imparare a disegnare quel che si vede di piu’ nelle strade, ovvero l'ombra, come fanno i maestri europei». «Come si fa a disegnare l'ombra?», chiese Nero. Quando ascoltava, vedevo l'impazienza in mio nipote. A volte giocherellava con il calamaio mongolo che mi aveva portato. Altre volte invece prendeva il ferro e attizzava il fuoco. Temevo che mi volesse uccidere colpendomi in testa con quel ferro. Perche’ io allontanavo l'arte della miniatura dallo sguardo di Allah. Perche’ tradivo i meravigliosi disegni dei maestri di Herat e un'intera tradizione artistica. Perche’ avevo convinto anche il Nostro Sultano. In certi momenti rimaneva seduto a lungo, senza muoversi minimamente e senza distogliere gli occhi dai miei. Forse pensava di farsi mio schiavo finche’ non avesse ottenuto mia figlia. Una volta, proprio come facevo quando Nero era bambino, lo portai in giardino e provai a descrivergli gli alberi come avrebbe fatto un padre, il riflesso del sole sulle foglie, la neve
che si scioglie, la logica per cui, allontanandoci, le cose sulla nostra strada appaiono piu’ piccole. Ma fu un errore: ci volle poco per capire che il rapporto padre-figlio che c'era tra noi un tempo ormai era finito. Al posto della curiosita’ e della passione per il sapere che nutriva da bambino, c'era la pazienza che si dimostra a uno sciocco rimbambito di cui si desidera la figlia. Il peso, la polvere dei paesi e delle citta’ che aveva girato per dodici anni erano penetrati con violenza nell'anima di mio nipote. Era piu’ stanco di me, e mi fece pena. Non pensavo che fosse in collera con me perche’ dodici anni fa non gli avevo concesso seküre - era impossibile - ma perche’ sognavo disegni fuori dai canoni della miniatura islamica, dei leggendari maestri di Herat, e perche’ gli narravo queste sciocchezze con insistenza. Immaginai che la mia morte sarebbe giunta per mano sua. Ma non avevo paura di lui. Anzi, provai a spaventarlo, perche’ sentivo che la paura sarebbe stata adatta al testo che gli avevo chiesto di scrivere. Dissi: «L'uomo deve potersi porre al centro del mondo come in quei disegni, - e aggiunsi, uno dei miei miniaturisti ha ritratto la morte in maniera splendida. Vuoi vedere?» E cosi’, cominciai a mostrargli i disegni che per un anno avevo fatto fare di nascosto ai migliori maestri. All'inizio era un po' imbarazzato, anzi intimorito. Quando vide che la morte era disegnata ispirandosi alle rappresentazioni che se ne vedono in molti Libri dei Re - Afrasiyab che taglia la testa a Siyavus, o Rüstem che uccide Suhrab senza sapere che e’ suo figlio - e’ entrato subito in argomento. Nel disegno del funerale del compianto Sultano Solimano che avevo fatto fare con toni tristi e austeri, si percepiva un ordine simile a quello dei maestri europei, oltre al mio personale tentativo di inserire le ombre. Gli feci notare la profondita’ diabolica che confondeva la linea dell'orizzonte con le nuvole. Gli ricordai che la morte era disegnata con una sua personalita’ come i personaggi infedeli di cui avevo visto i ritratti nei palazzi veneziani, avevano tutti una loro specificita’. «Desideravano essere unici e particolari, lo volevano intensamente, - dissi. - Guarda, guarda negli occhi della morte, non hai paura della morte, ma dell'intensita’ del desiderio di essere unico, particolare e eccezionale. Guarda questo disegno e scrivi la sua storia. Fai parlare la morte, eccoti carta, penna e inchiostro. Daro’ subito al calligrafo quello che scriverai». Per un po' guardo’ il disegno in silenzio. Poi chiese: «Chi l'ha fatto?» «Farfalla. E il migliore di tutti. Maestro Osman e’ stato innamorato di lui per anni, l'ha adorato». «Ho visto un disegno simile al caffe’ dove si esibisce il cantastorie, raffigurava un cane, ma era piu’ grossolano», disse Nero. «La maggior parte dei miei miniaturisti e’ legata spiritualmente a Maestro Osman e al laboratorio, e non crede in quello che disegna per il mio libro. Immagino che quando escono di qui, a mezzanotte, al caffe’, si prendano insolentemente gioco di me e dei disegni che fanno per denaro. A un certo punto, grazie alle mie insistenze, il Nostro Sultano commissiono’ un ritratto a un giovane pittore veneziano che fece venire dall'ambasciata. Poi fece copiare a Maestro Osman un disegno identico a quell'olio con i suoi metodi. Maestro Osman, costretto a imitare il pittore veneziano, ritenne responsabile me di questa costrizione e del vergognoso disegno che aveva fatto. Aveva ragione». Passai la giornata a mostrargli tutti i disegni, eccetto l'ultimo che non avevo ancora finito, lo incitai a scriverne la storia, gli parlai dei caratteri dei miniaturisti e dei soldi che davo loro. Parlammo di prospettiva, discutemmo se fosse eresia disegnare le cose che stanno dietro sempre piu’ piccole, come nei disegni veneziani, nominammo anche il povero Raffinato Effendi, forse ucciso per avidita’ e ambizione. Quella notte, mentre Nero tornava a casa, ero ormai certo che l'indomani sarebbe venuto a trovarmi come aveva promesso, e che avrebbe ascoltato ancora le storie del mio libro. Ma sentendo il rumore dei passi che si allontanavano davanti alla porta aperta, in quella gelida notte qualcosa rendeva il mio insonne e inquieto assassino piu’ forte e piu’ diabolico di me e del mio libro. Chiusi la porta attentamente e, come faccio sempre prima di coprire di cenere il focolare e andare a letto, vi sistemai dietro la vecchia giara che uso come vaso per il basilico, quando mi ritrovai davanti seküre con una camicia da notte bianca che la faceva sembrare un fantasma nel buio. «Sei proprio decisa a sposare quest'uomo?», le chiesi. «No, padre mio. Ho gia’ deciso di non sposarmi. E poi io sono sposata». «Se vuoi ancora sposarti con lui, posso darti il permesso». «Non voglio sposarmi con lui». «Perche’?» «Perche’ voi non lo volete. E, sinceramente, io non desidero qualcuno che voi non volete». Per un attimo vidi le braci del focolare riflettersi nei suoi occhi. Stava piangendo, non di dolore ma di rabbia, eppure la sua voce non era risentita. «Nero ti ama molto», dissi come se le rivelassi un segreto. «Lo so». «Ha passato la giornata ad ascoltare tutto quello che gli raccontavo non per amore della miniatura, ma per amor tuo». «L'importante e’ che finisca il vostro libro». «Tuo marito un giorno ritornera’», dissi. «Stanotte, non so perche’, forse per il silenzio, ho capito che mio marito non tornera’ mai piu’. Quello che ho sognato dovrebbe essere vero: l'avranno ucciso. Ormai e’ cibo per lupi e uccelli». Pronuncio’ quest'ultima frase come se avesse paura che i bambini sentissero e la sussurro’ con una strana rabbia. «Se mi uccidono, - dissi, - voglio che tu faccia finire questo libro per cui ho dato tutto. Giurami che lo farai». «Giuro. Ma chi lo finira’?» «Nero! Tu puoi convincerlo». «Ma padre, voi glielo state gia’ facendo fare. Non avete bisogno di me».
«vero, ma lo fa per te. Se mi uccidono potrebbe aver paura e rinunciare». «E allora significa che non mi puo’ sposare», disse sorridendo la mia intelligente figliola. Come mai sorrise? Durante la conversazione non avevo visto altro che i luccichii che di tanto in tanto le apparivano negli occhi. Eravamo in mezzo alla stanza, in piedi uno di fronte all'altra. «Comunicate, vi mandate segnali di nascosto?», le chiesi, non riuscendo a trattenermi. «Come potete pensare una cosa del genere?» Ci fu un lungo e doloroso silenzio. Molto lontano un cane abbaio’. Sentii freddo, rabbrividii. La stanza era ormai cosi’ buia che non riuscivamo quasi piu’ a vederci, intuivamo solo di essere uno davanti all'altra. Poi, all'improvviso, ci abbracciammo, ci stringemmo con forza. Comincio’ a piangere, disse che le mancava la madre. Le baciai i capelli, li accarezzai, avevano lo stesso profumo di quelli di sua madre. La accompagnai a letto e la misi accanto ai suoi figli che dormivano. Ripensando agli ultimi due giorni, non ebbi alcun dubbio: seküre comunicava con Nero.
Capitolo ventiduesimo. Il mio nome e’ Nero Quella notte, una volta tornato a casa e liberatomi della padrona di casa, sempre piu’ convinta di essere mia madre, andai subito a chiudermi nella stanza dove, sdraiato sul letto, iniziai a pensare alla mia seküre. Prendiamo i piccoli rumori a cui rivolsi l'attenzione con il piacere di un gioco. Era la seconda volta che andavo a casa loro dopo dodici anni, e non si era assolutamente fatta vedere. D'altronde, aveva cominciato a incoraggiarmi in un modo cosi’ magico da darmi la certezza che mi guardasse di continuo, che mi valutasse come futuro marito e ne provasse un logico piacere ludico. Percio’ anch'io credevo di vederla dappertutto. Capii meglio Ibn Arabi quando parla dell'amore come capacita’ di rendere visibile l'invisibile, desiderio di sentirsi accanto cio’ che non si lascia vedere. Riuscivo a capire che seküre mi guardava di continuo, perche’ ero tutt'orecchie ai rumori della casa, agli scricchiolii del legno. A un certo punto capii che era con i figli nella stanza che si apriva sull'anticamera. Sentii che i bambini si spintonavano e litigavano, ma cercavano di abbassare la voce per timore degli sguardi minacciosi e accigliati della madre. Ogni tanto sentivo che bisbigliavano in maniera innaturale e ostentata, ma non come si fa per non disturbare chi prega, e poi ridacchiavano. Un'altra volta, mentre loro nonno mi parlava delle meraviglie della luce e dell'ombra, i due bambini, sevket e Orhan, entrarono e ci offrirono il caffe’ tenendo il vassoio con gesti attenti, ovviamente studiati nei minimi dettagli. Doveva essere stata la madre a mandarli, benche’ fosse un compito di Hayriye, perche’ i figli avessero l'occasione di vedere da vicino l'uomo che forse avrebbe fatto loro da padre e poterne parlare insieme; dissi a sevket: «Che begli occhi che hai», ma sentendo che Orhan, il minore, si sarebbe ingelosito, aggiunsi: «Anche tu». Poi posai sul vassoio la foglia di un garofano appassito che avevo tirato fuori da una tasca e li baciai tutti e due sulle guance. Dopo di che, in casa, si sentirono risate e sghignazzi. A volte, curioso di sapere in quale buco del muro, delle porte chiuse, o del soffitto fosse piazzato l'occhio che mi osservava, cercavo di indovinare guardando le crepe, i nodi del legno o le imperfezioni, e immaginavo seküre sistemata li’ dietro; poi, inutilmente, sospettavo di un altro buco buio e per capire se il mio sospetto fosse fondato o no, a costo di mancare di rispetto a mio zio che continuava ininterrottamente a parlare, mi alzavo in piedi e, con aria impegnata, meravigliata e pensierosa per dimostrare che ascoltavo le sue parole, facevo finta di camminare su e giu’ per la stanza immerso nei miei pensieri e mi avvicinavo al punto del muro di cui avevo sospettato, alla forma indistinta che vi appariva. Non incontrare l'occhio di seküre era una delusione, li’, dietro a quello che credevo fosse uno spioncino. Mi sentivo di colpo stranamente solo e mi spazientivo come chi nella vita non sa cosa fare. In alcuni momenti, all'improvviso, sentivo che seküre mi osservava e ne ero cosi’ convinto che cominciavo a darmi arie come un uomo che per colpire la ragazza amata, vuole farsi vedere piu’ profondo, piu’ forte e potente. Poi pensavo che magari seküre e i bambini facevano paragoni con quel marito che non tornava dalla guerra, con quel padre perduto, e allora mi venivano in mente i nuovi famosi personaggi veneziani e i racconti di mio zio su come venivano ritratti. E volevo somigliare a questi nuovi personaggi famosi che dovevano la fama a un testo o a una pagina illustrata, e non come i santi ai dolori sofferti nelle celle, o come il marito perduto alle braccia e alle teste tagliate a fil di spada, solo perche’ immaginavo che seküre ne avesse sentito parlare dal padre. E mi sforzavo veramente tanto per avere davanti agli occhi i disegni di questi personaggi famosi, ispirati alla forza delle oscurita’ visibili e degli angoli misteriosi del mondo, meraviglie che mio zio aveva visto e cercava di spiegare al nipote che non le aveva mai viste, che quando alla fine non mi appariva nulla mi sentivo sconfitto e umiliato. A un certo punto, mi trovai di nuovo davanti sevket. Quando mi si avvicino’, per un attimo pensai che, in quanto figlio maggiore, avrebbe baciato la mano all'ospite sia entrando che uscendo dalla stanza, come si usa tra le tribu’ arabe della Transoxiana e tra le genti circasse dei monti del Caucaso e, senza esitare, gli porsi la mano perche’ la baciasse e se la portasse alla fronte. Nello stesso istante udii la risata di seküre provenire da un luogo non molto lontano. Rideva di me? Mi agitai e baciai sevket sulle guance pensando che si aspettasse questo. Lo baciai con un sorriso, mostrando di sapere di aver interrotto il discorso di mio zio e di non volergli affatto mancare di rispetto, e nel frattempo lo annusai per capire se avesse addosso il profumo della madre. Quando mi resi conto che mi aveva infilato in mano un pezzo di carta, sevket si era gia’ girato e aveva cominciato ad allontanarsi.
Nascosi il foglio nel palmo della mano chiuso a pugno, come fosse un gioiello. Quando mi resi conto che si trattava di una lettera di seküre, dalla gioia stavo quasi per mettermi a sorridere inebetito davanti allo zio. Non era forse la prova che seküre mi voleva con tutte le sue forze? Per un attimo immaginai di fare l'amore con lei. E credendo che la mia incredibile fantasia si sarebbe realizzata in breve tempo, mi resi conto di avere un'inopportuna erezione di fronte allo zio. seküre lo aveva notato? Per rivolgere l'attenzione a qualcosa d'altro, cercai di ascoltare il racconto di mio zio. Dopo un bel po', mentre mio zio si avvicinava per mostrarmi un'altra pagina del libro, aprii quel foglio che profumava di caprifoglio, lo guardai e vidi che non c'era scritto nulla. Non potevo credere che non ci fosse scritta una parola, lo giravo e rigiravo. «Finestra, - disse mio zio. - Usare il metodo della prospettiva e’ come guardare il mondo da una finestra. Cos'e’ quel foglio?» «Niente, zio Effendi», dissi, annusando a lungo il foglio. Non volendo usare il pitale di mio zio, dopo pranzo mi congedai e andai al gabinetto nel giardino. Era gelido. Per non congelarmi il didietro feci in fretta e uscii subito, e sevket mi si paro’ davanti come se volesse tagliarmi la strada, silenzioso. Aveva in mano il pitale del nonno, era pieno e fumante. Entro’ nel gabinetto e lo vuoto’. Fuori, con il pitale vuoto in mano, gonfiando le guance paffute, mi fisso’ con i suoi begli occhi e disse: «Tu hai mai visto un gatto morto?» Aveva lo stesso naso di sua madre. Chissa’ se lei ci osservava? Guardai e vidi che le persiane della meravigliosa finestra del secondo piano dove avevo visto seküre per la prima volta dopo anni, erano chiuse. «No». «Vuoi vedere il gatto morto nella casa dell'ebreo impiccato?» Senza aspettare una risposta usci’ in strada e si incammino’. Gli andai dietro. Facemmo quaranta, cinquanta passi sulla strada fangosa e gelata, entrammo in un giardino abbandonato. C'era odore di foglie morte, un vago aroma di muffa. Con i passi sicuri e decisi di chi conosce bene il posto, il bambino varco’ la porta di una casa gialla, quasi nascosta dall'ombra dei fichi e dei mandorli. La casa era completamente vuota, ma asciutta e tiepida come se fosse abitata. «Di chi e’ questa casa?», chiesi. «Degli ebrei. Quando lui e’ morto, la moglie e i figli se ne sono andati nel quartiere ebreo, vicino all'imbarcadero di Yemis. Adesso cercano di venderla tramite Esther, quella dei corredi». Ando’ in un angolo della stanza, poi ritorno’. «Il gatto se n'e’ andato, non c'e’», disse. «Un gatto morto che va via?» «Il nonno dice che i morti vanno in giro». «Non loro, la loro anima», dissi. «Come fai a saperlo?», domando’ con espressione seria, tenendo il pitale in mano, saldamente, con attenzione. «Lo so e basta. Tu vieni sempre qui?» «Viene mia madre con Esther. Dicono che di notte ci vengano gli spiriti, ma io non ho paura di questo posto. Hai mai ammazzato qualcuno?» «Si’». «Quante persone?» «Non molte, due». «Con la spada?» «Con la spada». «Le loro anime vanno in giro?» «Non lo so. Secondo le scritture devono andare in giro». «Zio Hasan ha una spada rossa, taglia tutto quello che tocca. Ha anche un pugnale con il manico di rubini. Hai ucciso tu mio padre?» Con la testa feci un gesto che non voleva dire ne’ si’ ne’ no. «Come fai a sapere che e’ morto?» «La mamma ieri ha detto che e’ morto. Che non tornera’ piu’. L'ha sognato». Quando, per i nostri miseri interessi, per le nostre focose sensazioni di lussuria e per l'amore che ci trasforma in uomini dal cuore spezzato, ci prepariamo a fare cose disgustose, vorremmo sempre avere un fine, se possibile supremo; ecco, in quel momento decisi, una volta ancora, di fare da padre a questi orfani e cosi’, rientrato a casa, ascoltai con maggior attenzione il nonno che raccontava il libro di cui dovevo completare testo e disegni. Comincio dai disegni che mi ha mostrato lo zio, il cavallo per esempio. Di questo disegno, anche se non c'erano uomini e attorno al cavallo non vi era nulla, non riuscivo a dire che era semplicemente un disegno di cavallo. Il cavallo era li’, ma ovviamente il suo cavaliere era andato da qualche parte, oppure, chissa’, magari sarebbe uscito dai cespugli disegnati nello stile di Kazvin. Lo capivi, volente o nolente, dalla sella e dalle decorazioni. Forse, accanto al cavallo stavano per comparire dei personaggi armati di spada. Evidentemente mio zio aveva chiesto al maestro chiamato in segreto dal laboratorio di disegnare un cavallo. Ma il miniaturista che veniva di notte riusciva a trasferire su carta il disegno del cavallo che aveva in testa solo disegnandolo a memoria, come se facesse parte di una storia, e cominciava a disegnare cosi’. Probabilmente, a un certo punto mio zio interveniva ispirandosi ai metodi dei maestri europei su quel disegno uscito dalle rappresentazioni di guerra e amore che il maestro aveva visto migliaia di volte. «Non disegnare il cavaliere, - diceva. - Fai un albero. Ma fallo dietro e piccolo». Il miniaturista della notte si metteva a tavolino assieme a mio zio e, a lume di candela, lavorava con entusiasmo a questo
eccezionale e strano disegno che non somigliava a nessuna delle rappresentazioni a cui era abituato e che aveva studiato a memoria perche’ mio zio gli pagava bene ogni disegno e, a dir la verita’, perche’ questo strano tipo di miniatura lo affascinava. Ma, proprio come mio zio, anche questo maestro, da un certo punto in poi, non riusciva a capire qual era la storia che ornasse e illustrasse il disegno del cavallo. Mio zio si aspettava che io guardassi questi disegni in stile meta’ veneziano e meta’ persiano e scrivessi una storia adatta alle pagine che aveva di fronte. Per poter ottenere seküre, dovevo assolutamente scrivere qualcosa, ma non mi veniva in mente altro che il racconto del cantastorie al caffe’.
Capitolo ventitreesimo. Di me diranno che sono un assassino Gli ingranaggi del mio orologio con il loro tic tac dicevano che si era fatta sera, non avevano ancora chiamato alla preghiera, ma era gia’ da un po' che avevo acceso il candeliere accanto al leggio. Avevo appena finito, velocemente e a memoria, il disegno di un fumatore d'oppio con la penna immersa nell'inchiostro nero di Hasanpasa su un foglio ben rifinito e incerato, quando udii dentro di me quella voce che ogni sera mi dice di uscire in strada. Ma mi trattenni. Ero talmente deciso a non uscire per rimanere in casa a lavorare, che ero arrivato a inchiodare la porta. Il libro che stavo illustrando in gran fretta mi e’ stato ordinato da un armeno che e’ venuto a bussare alla mia porta dal lontano quartiere di Galata stamattina presto, quando non si era alzato ancora nessuno. Quest'uomo che, benche’ balbuziente, fa l'interprete e la guida, quando i viaggiatori europei o italiani vogliono un libro sulle vesti ottomane, mi viene subito a cercare e iniziamo a contrattare. Mi sono accordato con lui per preparare un decente catalogo di costumi, venti disegni, per un compenso di centoventi akçe; cosi’, all'ora della preghiera serale, mi sono seduto e, con cura e attenzione, ho disegnato una dozzina di personaggi di Istanbul con i loro vestiti: lo seyhülislam, il capo delle guardie di Palazzo, l'imam, il giannizzero, il derviscio, il cavaliere, il cadi’, il venditore di fegato e polmone, il boia - il ritratto del boia che tortura e’ molto apprezzato - un mendicante, una donna che va all'hamam, un fumatore d'oppio. Per guadagnare due o tre akçe in piu’, ho fatto talmente tanti di questi libri che ormai, per non annoiarmi, invento dei giochi, per esempio, disegno il cadi’ senza mai staccare la punta della penna dal foglio o la figura del mendicante tenendo gli occhi chiusi. I banditi, i poeti e gli infelici sanno che quando si sente chiamare alla preghiera della sera i ginn e i demoni dentro di loro cominciano tutti insieme a battere i piedi e a darsi da fare per traviarli. La voce inquieta che e’ dentro di noi dice fuori, fuori, corri in mezzo alla gente, nel buio, nella miseria, nell'infamia. Ho passato anni cercando di placare questi ginn e questi demoni. Eppure e’ grazie a loro che ho fatto i miei disegni, che molti considerano un miracolo delle mie mani. Ma sono sette giorni, da quando ho ucciso quel vile, che non riesco piu’ a controllare, neanche la sera, i ginn e i demoni dentro di me. Battono i piedi con una tale violenza che penso: se esco un po', forse si placheranno. Dopo aver pronunciato questa frase, senza capire ne’ come ne’ perche’, come al solito, mi ritrovai di nuovo per strada. Camminai veloce. Attraversai senza mai fermarmi strade piene di neve, passaggi fangosi, salite ghiacciate, marciapiedi deserti. Mentre camminavo il buio della notte calava sugli angoli piu’ deserti e piu’ disabitati della citta’, mi lasciavo pian piano alle spalle il mio peccato, e mentre i miei passi riecheggiavano per le vie, lungo i muri degli edifici di pietra, delle scuole coraniche e delle moschee, le mie paure scemavano. Istintivamente, i piedi mi condussero in questo povero quartiere di periferia dove venivo ogni sera, strade abbandonate dove anche ginn e fantasmi entrano rabbrividendo. Ho sentito dire che meta’ degli uomini di questo quartiere erano morti nella guerra con i persiani e l'altra meta’ l'aveva abbandonato ritenendolo maledetto, ma io non credo a queste cose. L'unica disgrazia causata a questo bellissimo quartiere dalle guerre con i persiani e’ che quarant'anni fa hanno chiuso il convento dei dervisci kalenderi con la scusa che ospitasse dei nemici. Girai dietro ai rovi e agli allori, erano profumati anche con il freddo, sistemai con la solita attenzione le assi di legno tra il camino demolito e la finestra con la persiana caduta, ed entrai. Sentii odore di incenso e muffa secolare. Essere li’ mi rese cosi’ felice che stavo quasi per mettermi a piangere. Se ancora non vi ho detto di non temere nessuno a parte Allah e che il castigo che mi verra’ dato in questo mondo non ha per me la minima importanza, lo voglio dire adesso. Temo la pena severa che subiranno gli assassini come me nel Giorno del Giudizio, il Corano lo dice chiaramente, per esempio nella Sura della Salvazione. Ogni volta che mi passano davanti agli occhi i colori e la violenza di questo castigo - immagini semplici, ingenue ma spaventose, ricordano le immagini dell'Inferno dipinte su pelle dagli antichi miniaturisti arabi nei libri antichi, e anche le torture dei demoni dipinte dai maestri cinesi e mongoli - non riesco a fare a meno di seguire questa logica. Cosa dice la Sura del Viaggio Notturno nel trentesimo versetto? Non dice forse di non uccidere senza un motivo giusto, secondo gli insegnamenti di Allah? Bene, allora, prima di tutto il vile che ho mandato all'Inferno non era un credente - di cui Allah proibisce l'uccisione - e poi avevo molti validi motivi per spaccargli la testa. Quest'uomo ha parlato male di coloro che lavorano al libro che il Nostro Sultano ha ordinato in segreto, ha parlato male di noi. Se non l'avessi messo a tacere, avrebbe accusato come miscredenti Zio Effendi, tutti i miniaturisti e addirittura Maestro Osman e li avrebbe gettati in pasto agli uomini del predicatore di Erzurum. Nel momento in cui qualcuno dicesse apertamente che i miniaturisti sono atei, quelli di Erzurum, che non vedono l'ora di trovare un pretesto per dimostrare la loro forza, distruggerebbero noi maestri e tutto il laboratorio, e il Nostro Sultano non potrebbe restare a guardare senza dire una parola.
Come faccio ogni volta che vengo qui, spazzai e pulii con la scopa e gli stracci che nascondo in un angolo. Mentre pulivo mi si riscaldo’ il cuore e mi sentii un bravo servitore di Allah. Lo pregai a lungo perche’ non mi privasse di questo sentimento di bonta’. Un freddo che farebbe cacare rame alle volpi mi penetrava fino al midollo, nella gola cominciava quel dolore insinuante, uscii all'aperto. Subito dopo, in quello strano stato d'animo, mi ritrovai in un quartiere completamente diverso. Non so cosa sia successo nel tempo intercorso durante il tragitto dal quartiere abbandonato del convento derviscio a questo, non so cosa ho pensato, come ho fatto a infilarmi in queste strade alberate dai cipressi. Ma per quanto possa camminare ancora, ho un pensiero che non riesco a togliermi dalla testa, mi rode come un tarlo, se ve lo dico forse me ne libero un po'. Raffinato Effendi, che possiamo definire un vile calunniatore o un poveraccio - e’ uguale - poco prima di morire, mentre accusava Zio Effendi, mi aveva detto una cosa. Vedendo che, quando aveva raccontato che Zio Effendi usava il metodo della prospettiva degli infedeli, mi ero impressionato, il vile mi aveva detto: «C'e’ ancora un ultimo disegno. In quel disegno Zio Effendi bestemmia contro tutto cio’ in cui crediamo. Non solo non ci crede ma bestemmia». Tre settimane prima della calunnia del vile, Zio Effendi mi aveva veramente chiesto di disegnare cose diverse - un cavallo, una moneta, la morte - in diversi angoli di un foglio, con dimensioni diverse, come in un disegno europeo. Quasi tutto il foglio dorato dal povero Raffinato Effendi con i bordi gia’ preparati era coperto da altri fogli, come per nascondere qualcosa a me e agli altri miniaturisti. Vorrei chiedere allo Zio cosa era rappresentato in quest'ultimo disegno, ma mi trattengo. Se glielo chiedessi, naturalmente, sospetterebbe che sia stato io a uccidere Raffinato Effendi e comunicherebbe il suo sospetto a chiunque. Un altro motivo che mi inquieta e’ che Zio Effendi potrebbe confermare le parole di Raffinato Effendi. A volte penso di parlargliene come se fosse qualcosa di strano che immagino io, non qualcosa che riguarda Raffinato Effendi, ma questo non allevia le mie paure. Forse, essere ateo senza rendersene conto non e’ poi cosi’ terribile, ma adesso ne sono pienamente consapevole. Le mie gambe, sempre piu’ intelligenti della testa, mi avevano istintivamente condotto nella via dove abita Zio Effendi. Mi nascosi in un angolo e, al buio, guardai la casa il piu’ a lungo possibile. Casa da ricchi in mezzo agli alberi, a due piani, grande e strana! Non sapevo in che parte della casa fosse seküre. Cercai di immaginare dietro quale persiana avrei potuto vedere seküre se la casa fosse stata tagliata in due, proprio al centro, come in certi disegni fatti a Tabriz ai tempi di Scia’ Tahmasp. La porta si apri’. Nel buio vidi uscire Nero. E lo Zio che, rimasto un attimo dietro la porta del cortile, lo guardava con affetto e richiudeva la porta. La mia mente, che si era dedicata a stupide fantasticherie, fece tutto da sola e, con grande dolore, di colpo arrivo’ a tre conclusioni: Uno: dato che Nero e’ meno caro e meno pericoloso, Zio Effendi fara’ finire a lui il libro, il nostro libro; Due: la bella seküre sposera’ Nero; Tre: quanto andava dicendo il povero Raffinato Effendi era vero, e io l'ho ucciso inutilmente. In casi del genere, quando la nostra mente impietosa giunge alla dolorosa conclusione che il nostro cuore non vuole riconoscere, tutto il corpo si ribella. In un primo momento anche una parte della mia mente si ribello’ con forza alla terza conclusione, e cioe’, che ero un assassino vile e privo di scopo. Intanto le mie gambe avevano di nuovo agito in maniera piu’ veloce e logica ed erano corse dietro Nero Effendi. Non so quante strade avevamo gia’ attraversato quando pensai che sarebbe stato facile uccidere Nero che mi camminava davanti tranquillo e che mi sarei liberato dalle prime due fastidiose conclusioni. E, in quel caso, aver fracassato il cranio del povero Raffinato Effendi non si sarebbe rivelato inutile. Se adesso facessi otto o dieci passi di corsa, raggiungessi Nero e gli tirassi un colpo in testa con tutta la mia forza, le cose continuerebbero come prima, e Zio Effendi chiamerebbe me a finire il nostro libro. Ma una parte onesta (a volte l'onesta’ non e’ forse timore?) e prudente della mia mente continuava a ripetere che il vile che avevo ammazzato e gettato nel pozzo era un vero bugiardo. Se era vero, significava che non l'avevo ucciso inutilmente, che Zio Effendi non ha niente da nascondere sul libro che prepara, e che mi convochera’ a casa sua. Ma guardando Nero che mi camminava davanti ebbi la certezza immediata che nulla di tutto cio’ sarebbe accaduto. Erano solo fantasie. Nero era piu’ reale di me. Succede a tutti, dopo aver fantasticato per settimane, per anni, come per reazione al pensare troppo con una certa logica, che un giorno vediamo una cosa, un volto, un abito, una persona felice, e d'un tratto ci rendiamo conto che i nostri sogni non si avvereranno mai, che quella ragazza non ci verra’ mai concessa, quella tale posizione mai ottenuta. Guardavo la testa di Nero con odio profondo, un odio caldo che mi avvolgeva il cuore, gli guardavo la nuca, il movimento delle spalle, quell'inquietante modo di camminare, era come se stesse facendo un favore al mondo. Gli uomini come Nero, senza sensi di colpa e con un futuro felice davanti, aprono le porte come un sultano che entra nelle sue scuderie, credono che il mondo intero sia la loro casa e disprezzano noi che ci stiamo dentro. Mi fu difficile trattenermi dal raccogliere un sasso da terra e tirarglielo in testa. Eravamo due uomini innamorati della stessa donna, lui davanti e io dietro, a sua insaputa, proseguivamo tra curve e deviazioni, salite e discese nelle vie di Istanbul e passavamo tranquilli per le strade deserte - campo di battaglia di branchi di cani -, in mezzo alle rovine dove aspettano i ginn, per i cortili delle moschee sulle cui cupole dormono gli angeli, vicino ai cipressi che, mormorando, parlano con le anime, accanto ai cimiteri coperti di neve e pieni di fantasmi, poco lontano dai briganti che strangolano la gente, tra negozi infiniti, stalle, conventi dervisci, fabbriche di candele, sellai e mura, e io pensavo che non lo stavo seguendo ma che lo stavo imitando.
Capitolo ventiquattresimo. Il mio nome e’ Morte Come vedete sono la Morte, ma non abbiate paura, sono solo un disegno. Nei vostri occhi leggo che avete comunque paura di me. Mi piace che, pur sapendo che non sono vera, abbiate lo stesso paura, quasi aveste veramente incontrato la morte, come bambini che si fanno prendere dal gioco. Mi guardate e intuite che ve la farete sotto dalla paura quando arrivera’ quell'ultimo e inevitabile momento. Non e’ uno scherzo, sono soprattutto gli uomini forti come leoni a perdere il controllo quando incontrano la morte. per questo che i campi di battaglia che avete disegnato migliaia di volte non puzzano, come si crede, di sangue, polvere da sparo e armature arroventate, ma di merda e carne putrefatta. So che e’ la prima volta che vedete un ritratto della morte. Un anno fa, un vecchio alto, magro e misterioso convoco’ a casa sua il giovane maestro che mi ha disegnato. Nello studio in penombra di una casa a due piani gli offri’ un delizioso caffe’ profumato d'ambra che andava giu’ come seta, aprendo cosi’ la mente del giovane maestro. Poi, in una stanza buia dalla porta azzurra gli indico’ le migliori carte indiane, i pennelli di pelo di scoiattolo, le lamine d'oro, le molteplici varieta’ di penne e di temperini con il manico di corallo e, per invogliarlo, gli fece capire che avrebbe pagato molto bene. Poi gli disse: «Disegnami la morte». «Non posso disegnare la morte senza avere mai visto un disegno della morte in vita mia», rispose il miniaturista dalle mani meravigliose che poi mi avrebbe disegnato. «Per disegnare una cosa non c'e’ bisogno che tu prima ne veda per forza il disegno», disse il vecchio magro e ambizioso. «Si’, forse non ce n'e’ bisogno, - disse il maestro che mi disegno’. - Ma, se vuoi che il disegno risulti perfetto come quelli degli antichi maestri, bisogna prima disegnarlo migliaia di volte. Per quanto possa essere esperto, la prima volta un miniaturista disegna un argomento nuovo come un apprendista, e questo non mi si addice di certo. Non posso sprecare il mio talento solo per disegnare la morte, perche’, per me, sarebbe come morire». «Questo morire forse ti avvicinerebbe all'argomento», disse il vecchio. «Non e’ aver vissuto un certo argomento a fare di noi dei maestri, ma il non averlo mai vissuto». «Allora questa maestria deve fare conoscenza con la morte». Cosi’, come si conviene ai miniaturisti rispettosi sia dei vecchi maestri sia del proprio talento, si impegnarono in una conversazione finissima e piena di doppi sensi, metafore, allusioni, affermazioni equivoche e insinuazioni. So che riferire per intero quella discussione annoierebbe i distinti miniaturisti del nostro caffe’, ma io ascoltavo con grande attenzione, perche’ in fondo si trattava della mia esistenza. A un certo punto sentii dire: «Il metro di misura del talento del miniaturista e’ disegnare tutto con la perfezione degli antichi maestri o introdurre nel disegno soggetti che nessuno riesce a vedere?», domando’ l'arguto maestro dalle mani abili e dai begli occhi. Era prudente, pur conoscendo gia’ la risposta a questa domanda. «I veneziani misurano il valore del miniaturista dai soggetti e dalle tecniche mai utilizzati prima», disse il vecchio presuntuoso. «I veneziani muoiono come veneziani», disse il maestro che mi avrebbe disegnato. «Ma tutte le morti si assomigliano», disse il vecchio. «La leggenda e la miniatura non raccontano che ci assomigliamo, ma il contrario, - continuo’ l'arguto maestro. - Il miniaturista diventa maestro disegnando leggende assolutamente diverse tra loro, come se le conoscessimo». Cosi’ il discorso ando’ avanti: la morte dei veneziani e dei musulmani, l'Angelo della Morte e gli altri angeli di Allah, il fatto che non bisogna mai confonderli con i disegni degli infedeli. Il giovane maestro che di li’ a poco mi avrebbe disegnato, e che in questo momento mi fissa con i suoi begli occhi qui nel caffe’, si era annoiato di tutte queste grandi parole, la sua mano era impaziente, non vedeva l'ora di disegnarmi, ma non sapeva come. Il vecchio subdolo e astuto che voleva convincere il giovane maestro ne percepi’ l'impazienza. E punto’ i suoi occhi scintillanti alla fiamma della candela che bruciava invano nella stanza piena di ombre sul giovane maestro dalle mani miracolose. «La Morte che il veneziano ha disegnato come se fosse una persona, e’ un angelo come il nostro Asraele. Come l'Arcangelo Gabriele si e’ mostrato in forma umana al nostro Profeta quando gli ha dato il Corano. Hai capito?» Capii che il giovane maestro a cui Allah aveva donato un talento incredibile aveva decisamente perso la pazienza e voleva disegnarmi. Quel vecchio diabolico era riuscito a mettergli in testa un'idea diabolica. In realta’ non vogliamo disegnare quello che conosciamo con tutte le sue luci, ma quello che non conosciamo, con tutte le sue ombre. «Non conosco assolutamente quella morte», disse il maestro che di li’ a poco mi avrebbe disegnato. «Conosciamo tutti la morte», disse il vecchio. «Ne abbiamo paura, ma non la conosciamo». «E allora disegna questa tua paura», disse il vecchio. In quel momento il mio ritratto stava per essere realizzato. Sentii che la nuca del grande maestro s'intorpidiva, i muscoli delle sue braccia si distendevano, la punta delle dita cercava la penna. Ma essendo davvero un grande maestro, si trattenne, sentendo che questa tensione avrebbe reso piu’ profondo il suo amore per la miniatura. E il vecchio furbo, che lo aveva capito, per ispirarlo gli lesse brani sulla morte dai libri che aveva davanti, dal Libro
delle anime di El-Cevziyye, da Al Ghazzali, dal Libro del Giorno del Giudizio, da Suyuti. E cosi’, mentre faceva questo mio ritratto che voi, intimoriti, contemplate, il maestro dalle mani miracolose ascolto’: l'Angelo della Morte aveva migliaia di ali che si estendevano dal Paradiso fino al mondo, dal punto piu’ estremo d'Occidente a quello piu’ estremo d'Oriente, e per chi ha fede quelle ali erano un abbraccio, mentre per i peccatori e i ribelli erano acuminate come chiodi, e cosi’, sentendo dire che molti di voi miniaturisti siete destinati all'inferno, mi copri’ di chiodi. L'angelo che Allah avrebbe mandato per togliervi la vita, teneva in mano un quaderno con tutti i nomi di voi uomini e nelle sue pagine i nomi di alcuni erano segnati con un cerchio nero; solo Allah conosce l'ora della morte e a quell'ora, dall'albero sotto al piu’ alto dei cieli, cade una foglia e chi riesce a prenderla e a leggerla sa a chi tocca morire, e cosi’ mi disegno’ con fattezze orribili, con l'espressione pensierosa. Dato che quel vecchio pazzo leggeva che l'Angelo della Morte arrivava sotto spoglie di uomo, tendeva la mano e faceva morire la persona la cui vita era giunta al termine e, all'improvviso, tutt'intorno si diffondeva una luce come quella del sole, l'arguto maestro mi disegno’ in mezzo alla luce, sapendo che questa luce non poteva essere vista da chi era vicino al morto. Mentre il vecchio ambizioso lesse dal Libro delle anime alcune testimonianze di ladri di tombe che parlano di cadaveri con chiodi infilati qua e la’ per il corpo, di fiamme al posto dei cadaveri e di crani pieni di piombo, il grande maestro, che ascoltava attentamente, disegnandomi aggiunse un dettaglio che avrebbe terrorizzato chiunque. Ma se ne penti’. Non di avere aggiunto questa cosa spaventosa, ma di avere fatto il disegno. Mi sento come se mio padre mi considerasse con vergogna e pentimento. Perche’ il maestro dalle mani meravigliose si era pentito di avermi disegnato? 1. Perche’ io, il ritratto della morte, non ero stato fatto con sufficiente precisione. Come vedete, non sono perfetta, ne’ come i disegni dei grandi maestri veneziani ne’ come quelli degli antichi maestri di Herat. Io stessa mi vergogno del mio stato disastroso; il grande maestro non mi ha disegnato in modo degno della serieta’ della morte. 2. Il maestro che mi ha disegnato grazie alla diabolica persuasione del vecchio si era improvvisamente trovato a imitare i metodi e le idee dei maestri europei senza pensarci su, e questo lo rodeva perche’ lo considerava una specie di mancanza di rispetto nei confronti degli antichi maestri, un qualcosa di sconveniente che gli capitava per la prima volta. 3. Ma bisogna mettersi in testa, specialmente chi si e’ abituato a me e ha cominciato a ridere, che con la morte non si scherza. Adesso, il maestro che mi ha disegnato, di notte vaga pentito senza sosta per le strade e, come alcuni maestri cinesi, pensa di essere la cosa che ha disegnato.
Capitolo venticinquesimo. Il mio nome e’ Esther Le donne di Kizilminareli e Karakedili mi avevano ordinato pezze di stoffa di Bilecik viola e rosse per farne trapunte, cosi’, di buon mattino, le misi nel mio fagotto. Tolsi la pezza di seta cinese verde uscita dalla nave portoghese appena arrivata e la sostituii con quella azzurra. In mezzo, piegandole per bene, vi sistemai tante calze di lana, fasce e panciotti di lana spessa di tutti i colori che, una volta aperto il fagotto, avrebbero fatto battere il cuore anche alla donna meno interessata. Poi, per le donne che venivano a chiacchierare e non a comprare, misi costosi fazzoletti di seta leggera, borsellini, guanti di crine ricamati e sollevai il fagotto - ahi - era cosi’ pesante da spaccarmi la schiena. Lo appoggiai a terra. Lo riaprii, stavo pensando cosa togliere, quando bussarono alla porta, ando’ Nesim. Alla porta c'era la serva Hayriye, era tutta agitata. In mano aveva una lettera. «La manda seküre Hanim», bisbiglio’. Era cosi’ agitata da sembrare lei l'innamorata che voleva sposarsi. Presi la lettera con grande serieta’, e raccomandai a quella stupida ragazza di tornare a casa senza farsi vedere da nessuno. Nesim mi guardava con aria interrogativa. Presi il fagotto finto, ingombrante ma leggero, quello che uso quando consegno le lettere. «La figlia di Zio Effendi, seküre, sta bruciando d'amore, - dissi. - La poveretta ha completamente perso la testa». Feci una risata e uscii, ma fui colta da scrupoli. Non avrei dovuto prendermi gioco dell'avventura di cuore di seküre, dovevo solo piangere per la sua triste vita. Quanto era bella, la mia triste figliola dagli occhi neri! Camminai velocemente davanti alle case fatiscenti del nostro quartiere ebreo che nel freddo del mattino sembrava ancora piu’ deserto e misero. Dopo un bel po', quando vidi il mendicante cieco che controlla i passanti all'angolo della strada dove abita Hasan, gridai con tutta la mia forza: «arrivato il corredo!» «Cicciona di una strega, - disse. - Anche se non avessi urlato, ti avrei riconosciuta dal passo». «Brutto cieco, - dissi. - Tartaro iettatore! I ciechi sono disgraziati abbandonati da Allah. Che Allah ti maledica». Una volta non mi arrabbiavo, non ci facevo caso. Ad aprire la porta venne il padre di Hasan. Viene dall'Abkhazia, e’ un gentiluomo, e’ educato. «Vediamo cosa ci hai portato questa volta», disse. «Quel pigrone di tuo figlio dorme ancora?» «Ma no, aspetta notizie da te». La casa e’ cosi’ buia che mi sembra sempre di entrare in una tomba. seküre non chiede mai di loro, ma io gliene parlo spesso perche’ non pensi a tornare in questa tomba. Mi e’ perfino difficile immaginare che una volta la mia bella seküre fosse la padrona di questa casa, che vivesse qui con quelle pesti dei figli. Dentro c'e’ fetore di sonno e di morte. Passai
nell'altra stanza, era ancora piu’ scuro. Era buio pesto. Non avevo ancora tirato fuori la lettera, quando Hasan apparve nell'oscurita’ e me la strappo’ di mano. Come sempre, lo lasciai in pace perche’ la leggesse e placasse la sua curiosita’. Alzo’ subito la testa dalla lettera. «Non c'e’ altro? - domando’, ma sapeva che non c'era altro. - una lettera brevissima», commento’, e la lesse: «Nero Effendi, tu vieni in casa nostra, ti trattieni tutto il giorno. Ma ho sentito che non hai scritto neanche una riga per il libro di mio padre. Ti avverto, non avrai speranze se prima non finirai il libro di mio padre». Con la lettera in mano, mi guardava negli occhi come se fossi io la colpevole di tutto quel che stava accadendo. Non amo questo genere di silenzi nella casa di Hasan. «Non dice piu’ che e’ sposata, che il marito tornera’ dalla guerra, - disse. - Perche’?» «Che ne so, - risposi. - Non sono io che scrivo queste lettere». «A volte mi fai venire dei dubbi in proposito», disse e mi restitui’ la lettera insieme a quindici akçe. «Ci sono uomini che piu’ guadagnano e piu’ diventano avari, ma tu non sei cosi’», dissi. Aveva un aspetto cosi’ intelligente e diabolico che, malgrado quei suoi modi loschi e sgradevoli, riuscivo a capire perche’ seküre continuasse ancora ad accettare le sue lettere. «Che cos'e’ questo libro del padre di seküre?» «Vallo a sapere! Dicono che a finanziarlo sia il Nostro Sultano». «Si dice che a causa dei disegni del libro i miniaturisti si uccidano tra loro, - disse. - Per i soldi o perche’, Allah non voglia!, bestemmiano contro la nostra religione? Dicono che basti guardarli una volta per diventare immediatamente cieco». Lo disse sorridendo e capii che non dovevo prenderlo sul serio. Anche se erano cose da prendere sul serio, per lui non era importante che le prendessi sul serio anch'io. Come molti uomini che hanno bisogno delle mie lettere, della mia mediazione, anche Hasan mi disprezza quando viene ferito nell'orgoglio. E io, come richiede il mio lavoro, fingo che la cosa mi rattristi e loro ne gioiscono. Le ragazze, invece, quando si sentono ferite mi abbracciano e piangono. «Tu sei una donna intelligente, - disse Hasan per lusingarmi credendo di avermi ferita. - Portagliela subito. Sono curioso di leggere la risposta di quel cretino». Per un attimo, mi venne voglia di dirgli: «Nero non e’ cosi’ cretino». In queste situazioni far ingelosire i rivali fa guadagnare molto Esther la Sensale. Ma temetti un'improvvisa crisi d'ira. «Sai, il mendicante tartaro all'inizio della strada e’ molto maleducato», dissi uscendo. Mi diressi verso l'altro lato della strada per evitare il mendicante e cosi’, di buon mattino, passare dal mercato dei polli. Perche’ i musulmani non mangiano la testa e le zampe del pollo? Perche’ sono gente strana! Mia nonna buonanima raccontava che quando arrivarono dal Portogallo spesso facevano il brodo con le zampe di pollo. A Kemeraraligi vidi una donna a cavallo che stava diritta come un uomo, con gli schiavi attorno, tutta fiera, era la moglie di un pascia’ o la figlia di un ricco e sospirai. Anche seküre avrebbe potuto vivere come una donna fiera se non avesse avuto un padre consacrato ai libri, con la testa tra le nuvole, e se suo marito fosse tornato carico di tesori dalla guerra con i saffavidi. Se lo meriterebbe piu’ di chiunque altro. Quando imboccai la via di Nero, il cuore comincio’ a battermi forte. Davvero voglio che seküre lo sposi? Riesco a tenere seküre in contatto con Hasan e, insieme, lontana da lui, ma con questo Nero cosa accadra’? Oltre all'amore che prova per seküre, ha tutto a posto? «arrivato il corredo!» Non cambierei con nulla la felicita’ di mettere una lettera in mano a chi si e’ rimbecillito per la solitudine, per la mancanza di una moglie o di un marito. Anche quando sono sicuri di ricevere una pessima notizia, all'inizio, prima di leggere la lettera, hanno tutti un brivido di speranza. Nero, di certo, aveva le sue ragioni per sperare, visto che seküre non parlava di un ritorno del marito e la frase «non avrai speranze» era legata a un'unica condizione. Lo guardai leggere la lettera con gusto. Si agito’, ebbe paura della felicita’ che provava. Quando si ritiro’ per scrivere una risposta, aprii il mio falso fagotto, come farebbe un'arguta venditrice di corredi, e tirai fuori un borsellino nero. Lo mostrai a quella ficcanaso della padrona di casa di Nero. «del migliore velluto persiano», dissi. «Mio figlio e’ morto nella guerra con la Persia, - disse. - Da parte di chi e’ la lettera che hai dato a Nero?» Le leggevo in faccia che si dava da fare per accoppiare Nero, bello e forte, con la sua brutta figlia o con la figlia di chissa’ chi. «Nessuno, - dissi. - Un suo parente povero che sta per morire a Bayrampasa Odalari gli chiede dei soldi». «Poveretto, - disse senza assolutamente crederci. - Chi e’ questo sventurato?» «Come e’ morto tuo figlio in guerra?», le chiesi con ostinazione. Cominciammo a guardarci con ostilita’. La vedova era una donna molto sola, che vita difficile! Se voi foste Esther, venditrice di corredi e portalettere, vedreste che, nella vita, solo la ricchezza, il potere e le favolose storie d'amore rendono curiose le persone. Il resto - le cose tristi, separazioni, gelosie, ostilita’, lacrime, pettegolezzi e infinite miserie e’ tutto uguale, proprio come gli oggetti nelle case: un vecchio kilim sbiadito, un mestolo e un piatto da portata dentro una teglia da börek, vicino al focolare, le pinze e il contenitore per la cenere, due casse sciupate, una grande e una piccola, l'attaccapanni per il turbante che tiene ancora per non far capire che in casa vive una vedova sola, una vecchia spada per spaventare i ladri. Nero torno’ tutto contento con un borsellino in mano. «Esther, - disse in modo da farsi sentire piu’ che da me, da quella ficcanaso della padrona di casa. - Prendilo e portalo al povero infermo. Se ha una qualche risposta, aspetta che te la dia. Io saro’ tutto il giorno da Messer Zio». Non c'e’ bisogno di tutti questi giochetti. Non c'e’ niente da nascondere se un bravo giovane come Nero riceve segnali,
manda fazzoletti e lettere, se si sceglie una ragazza. E se avesse davvero messo gli occhi sulla figlia della padrona di casa? A volte non mi fido affatto di Nero e ho paura che tradisca brutalmente seküre. Pur stando tutto il giorno nella stessa casa di seküre, e’ incapace di mandarle un segnale. In strada aprii il borsellino, c'erano dentro dodici akçe e una lettera. Ero talmente curiosa di leggerla che andai da Hasan quasi di corsa. I fruttivendoli avevano esposto cavolfiori e carote davanti ai negozi. Ma non avevo neanche la forza di toccare i porri che mi chiamavano: «Esther, vieni a prenderci». Quando imboccai una via laterale vidi che il tartaro cieco era pronto a dirmi di nuovo qualcosa. «Puah...», sputai verso di lui. Perche’ non viene il gelo a uccidere questi vigliacchi? Mi fu difficile pazientare mentre Hasan si leggeva la lettera. Alla fine, non potendomi piu’ trattenere, gli chiesi: «E allora?» Cosi’ me la lesse: «seküre, Mia Signora, tu vuoi che io porti a termine il libro di tuo padre. Sappi che non ho altri obiettivi. Vengo in quella casa con questo scopo, e non per turbarti, come hai detto una volta. Sono ben cosciente che il mio amore per te e’ un mio problema. Ma e’ a causa di questo amore che non riesco a scrivere il testo che mi ha chiesto tuo padre, mio zio, per il suo libro. Ogni volta che sento la tua presenza in casa rimango di sasso e non riesco a essere d'aiuto a tuo padre. Ci ho pensato molto, e c'e’ un unico motivo per tutto questo. Dopo dodici anni ho rivisto il tuo viso una sola volta, quando sei apparsa alla finestra. Adesso temo di perdere quella visione. Se ti potessi vedere una volta piu’ da vicino, non avrei paura di perdere l'immagine del tuo viso e finirei facilmente il libro di tuo padre. Ieri, sevket mi ha portato nella casa abbandonata dell'ebreo impiccato. In quella casa non ci vedrebbe nessuno. Oggi posso aspettarti li’, vieni quando vuoi. sevket mi ha detto che ieri hai sognato che tuo marito era morto». Hasan lesse la lettera, in alcuni punti la sua voce gia’ stridula andava in falsetto, come quella di una donna, in altri punti rideva e imitava le suppliche tremanti di un innamorato che ha perso la testa. Trovava ridicolo che la voglia «di vederti una volta» fosse espressa in persiano. «Appena ha capito che seküre gli da’ qualche speranza, Nero ha iniziato subito a mercanteggiare, - disse. - Questo modo di pensare al proprio interesse non e’ da vero innamorato». «Lui e’ veramente innamorato di seküre», dissi con aria innocente. «Questo dimostra che stai dalla parte di Nero. Il fatto che abbia scritto di aver sognato mio fratello morto, significa che ne accetta la morte». «solo un sogno», dissi come una stupida. «Io so quanto e’ intelligente e imbroglione sevket. Abbiamo vissuto insieme per anni in questa casa! Se sua madre non fosse stata d'accordo e non lo avesse, in qualche modo, forzato a farlo, sevket non sarebbe mai andato con Nero nella casa dell'ebreo impiccato. Se seküre pensa di liberarsi di mio fratello, di noi, si sbaglia! Mio fratello e’ ancora vivo e tornera’ dalla guerra». Senza terminare la frase ando’ nell'altra stanza, stava per accendere una candela alla fiamma del focolare quando si brucio’ la mano, grido’. Si lecco’ la mano e finalmente accese la candela, che mise vicino a un leggio. Tolse una penna da un astuccio, la immerse nel calamaio e scrisse velocemente su un piccolo foglio. Capii subito che gli faceva piacere che lo guardassi, e per fargli vedere che non lo temevo sorrisi con tutta la mia forza. «Chi e’ questo ebreo impiccato? Lo sai». «C'e’ una casa gialla poco lontano dalla loro. Dicono che l'adorato e ricchissimo medico del precedente sultano, Mose’ Hamon, nascose per anni in quella casa la sua concubina, un'ebrea di Amasya, e il fratello di lei. Anni fa, ad Amasya, nel quartiere ebreo un giovane greco scomparve alla vigilia della Pasqua ebraica e si disse che il giovane era stato strangolato per fare del pane azzimo col suo sangue. Poi vennero fuori dei falsi testimoni e si comincio’ a impiccare gli ebrei, e cosi’ il medico prediletto del sultano porto’ via la sua bella insieme al fratello e li nascose con il permesso del sultano. Quando il Sultano mori’, i suoi nemici non riuscirono a prendere la donna, ma impiccarono l'uomo che viveva da solo». «Se non aspetta che mio fratello torni dalla guerra, anche seküre verra’ punita», disse Hasan e mi diede le lettere. Sul suo volto non si leggevano rabbia e odio, ma la tristezza e la malinconia tipiche dei veri innamorati. Per un attimo, nei suoi occhi, vidi che l'amore l'aveva trasformato in un vecchio. Anche i soldi che aveva cominciato a guadagnare alla dogana non l'avevano assolutamente ringiovanito. Vedendo quanto fosse debole il suo sguardo, mi venne in mente che, dopo tutte quelle minacce, mi avrebbe comunque chiesto di convincere seküre. Ma ormai stava diventando una persona talmente cattiva da non poterlo piu’ chiedere. Quando uno ammette di essere cattivo - in amore, il rifiuto e’ un valido motivo per esserlo - la violenza arriva facilmente. Fui presa da una tale paura della sua spada rossa che tagliava tutto quello che toccava di cui parlavano i bambini e di altre cose analoghe, che mi venne voglia di scappare e corsi in strada tutta agitata. E cosi’, indifesa, mi lasciai offendere dalle ingiurie del mendicante tartaro. Ma mi ripresi subito, lasciando silenziosamente nel suo fazzoletto un sasso raccolto per terra: «Prendi, pigro di un tartaro!» Lo guardai senza ridere mentre allungava la mano speranzoso verso il sasso credendo che fosse denaro. Senza ascoltare le sue bestemmie, me ne andai da una ragazza che avevo fatto sposare con un brav'uomo. La mia dolce figliola mi offri’ un börek con spinaci cucinato il giorno prima ma ancora croccante, per pranzo stava preparando un piatto di carne d'agnello stufata con cipolla, insaporito con abbondanti uova e reso leggermente aspro con susine, come piace a me; per non offenderla aspettai che finisse di cuocerlo e ne mangiai ben due mestolate con il pane fresco. Aveva preparato anche una buona composta di uva, e senza farmi scrupoli, le chiesi della marmellata di rose, la aggiunsi alla composta e la mangiai. Poi andai a consegnare le lettere alla mia bella seküre.
Capitolo ventiseiesimo. Io, seküre Avrei voluto raccontarvi che quando Hayriye mi annuncio’ l'arrivo di Esther, stavo sistemando il bucato lavato e asciugato nella cassapanca... Ma perche’ mentirvi? Va bene, quando e’ arrivata Esther stavo spiando mio padre e Nero dallo spioncino dell'armadio e, dato che aspettavo con impazienza le lettere di Nero e Hasan, pensavo anche a Esther. Cosi’ come sentivo che la paura della morte di mio padre si fondava su un ragionevole dubbio, sapevo che l'interesse di Nero nei miei confronti non sarebbe durato per tutta la vita. Nero non e’ semplicemente innamorato, vuole soprattutto sposarsi. E dato che vuole sposarsi si innamora facilmente. Se non me, sposera’ un'altra e prima di sposarla si innamorera’ anche di lei. In cucina, Hayriye aveva fatto accomodare Esther in un angolo, le aveva offerto un bicchiere di sciroppo d'acqua di rose e mi guardava con aria colpevole. Da quando va a letto con mio padre so che gli riferisce tutto e la temo. «Mia Bella, mia bellissima dagli occhi neri e dal nero destino, sono in ritardo perche’ quel maiale di mio marito Nesim non mi lasciava venire, - disse Esther. - Tu non hai un marito che ti sta addosso, non sai quanto sei fortunata». Quando tiro’ fuori le lettere, gliele strappai di mano. Hayriye non mi stava tra i piedi ma si era ritirata in un angolo da dove poteva sentire. Diedi le spalle a Esther perche’ non mi vedesse in faccia e lessi per prima la lettera di Nero. Quando pensai alla casa dell'ebreo impiccato, ebbi un fremito. Poi mi dissi, non avere paura seküre, tu riusciresti a superare tutto, e cominciai a leggere la lettera di Hasan. Anche lui stava per impazzire. «seküre, Mia Signora, ardo d'amore, ma so che non te ne importa nulla. Di notte sogno di correre dietro alla tua immagine su colline deserte. Ogni volta che non rispondi alle mie lettere, che so che leggi, e’ come se il mio cuore fosse trafitto da una freccia con la coda a tre piume. Ti scrivo sperando in una risposta. Qualcuno l'ha sentito dire dai tuoi figli e si e’ sparsa la voce che hai sognato tuo marito morto, sostenendo cosi’ di essere libera. Non so se sia vero. So solo che sei ancora sposata con mio fratello e che sei legata a questa casa. Ormai anche mio padre mi da’ ragione, e oggi andremo dal cadi’ per riportarti a casa. Prenderemo degli uomini e verremo da voi, informa pure tuo padre. Prepara i bagagli, stai per tornare a casa. Mandami subito una risposta tramite Esther». Dopo aver letto la lettera una seconda volta mi ripresi e guardai Esther con aria interrogativa. Ma non mi disse nulla di nuovo, ne’ su Hasan ne’ su Nero. Presi subito la penna che tenevo in un angolo dell'armadio delle pentole, misi la carta sul tagliere del pane e stavo per cominciare a scrivere a Nero, quando mi fermai. Mi venne in mente una cosa. Mi girai e guardai Esther. Era felice come una bambina grassa, tutta presa a bere lo sciroppo d'acqua di rose, e per un attimo mi parve veramente assurdo che potesse conoscere i miei pensieri. Rimisi a posto carta e penna, mi voltai verso di lei e le sorrisi. «Guarda com'e’ dolce il tuo sorriso, mia bellissima, - mi disse. - Non ti preoccupare, alla fine si risolve tutto. Istanbul pullula di ricchi signori, di pascia’ che non vedono l'ora di sposare una bella ragazza come te, una ragazza con le mani d'oro». Sapete com'e’, a volte diciamo qualcosa in cui crediamo, e lo facciamo in modo tale da chiederci: «Ma perche’ l'ho detto come se non ci credessi veramente?» Ecco, feci anch'io cosi’ e dissi: «Ma Esther, chi e’ che vorrebbe sposare una vedova con due figli, per amor di Dio!» «Con una come te molti, ma mooolti uomini vorrebbero sposarsi», disse facendo un gesto con la mano che indicava «molto». La guardavo negli occhi. Pensavo che in realta’ non le volevo bene. Rimasi in silenzio, e lei capi’ che non le avrei dato una lettera di risposta e che doveva andarsene. Quando Esther se ne fu andata, sentii lo stesso silenzio, come posso dirvi, nell'anima, e mi ritirai nel mio angolo. Mi appoggiai al muro e rimasi in piedi a lungo, al buio, senza fare nulla. Pensai a me stessa, a cosa fare, alla paura che mi cresceva dentro. E per tutto quel tempo ascoltai sevket e Orhan che, al piano di sopra, parlavano tra loro. «Sei fifone come una donna, - disse sevket. - Attacchi alle spalle». «Mi balla un dente», disse Orhan. Allo stesso tempo, con un angolo della mente seguivo quel che accadeva tra mio padre e Nero. La porta azzurra dello studio era aperta, e potevo tranquillamente ascoltarli. Mio padre diceva: «Dopo aver visto i ritratti dei maestri italiani, ti rendi conto con un certo timore che gli occhi non possono piu’ essere semplicemente due buchi rotondi, tutti uguali, ma sono come i nostri, e riflettono la luce come uno specchio, la assorbono come un pozzo. Le labbra non sono piu’ fessure su volti piatti come fogli, ma nodi d'espressione che, distendendosi e sciogliendosi, manifestano la nostra allegria, la tristezza e l'anima, e ogni bocca ha un rosso diverso. I nostri nasi non sono piu’ insipidi muri che dividono in due i nostri volti, ma curiosi e vivi strumenti con una forma diversa per ognuno di noi». Chissa’ se Nero si meravigliava come me del fatto che mio padre parlasse dei signori infedeli che si facevano ritrarre dicendo «noi». Quando guardai dallo spioncino, il volto di Nero era cosi’ pallido che per un attimo mi spaventai. Moro mio diletto, mio triste eroe, hai passato una notte insonne pensando a me, e’ per questo che le tue guance hanno perso colore? Forse non lo sapete: Nero e’ alto, snello e di bell'aspetto. Ha la fronte spaziosa, gli occhi a mandorla e un naso importante e sottile. Ha mani lunghe e magre con dita vivaci e svelte, da bambino. Quando si alza in piedi e’ robusto, ha le spalle dritte un po' larghe, ma di certo non quanto un facchino. Da bambino non aveva ancora un corpo e un viso ben definiti. A distanza di dodici anni, quando l'ho rivisto per la prima volta da questo angolo buio, ho capito subito che era diventato un uomo.
Adesso, al buio, se appoggio bene l'occhio allo spioncino, dodici anni dopo, vedo la tristezza sul volto di Nero. Mi sento colpevole e allo stesso tempo orgogliosa che abbia sofferto cosi’ tanto per me. Il volto di Nero che ascolta mio padre guardando un disegno e’ innocente e infantile. Quando lo vidi aprire la bocca, rosa come quella di un bambino, mi venne voglia di offrirgli il mio seno. Nero mi avrebbe posato la testa tra i seni, mentre le mie dita lo accarezzano sulla nuca, tra i capelli e, prendendomi un capezzolo in bocca come fanno i miei figli, avrebbe chiuso gli occhi felice, capendo che solo con il mio affetto avrebbe potuto trovare pace, legandosi a me per sempre. Madida di sudore, immaginai che Nero non guardasse piu’ il ritratto di Satana che gli mostrava mio padre, ma contemplasse meravigliato e attento i miei seni. Sembrava ubriaco, guardava i miei seni, i miei capelli, il mio collo, tutto. Gli piacevo cosi’ tanto che diceva tutte le dolci parole che da ragazzo non era riuscito a dirmi e capivo che adorava i miei modi fieri, il mio contegno, la mia educazione, la paziente e coraggiosa attesa di mio marito, la bella lettera che gli avevo scritto. Per un attimo provai rabbia nei confronti di mio padre che mi tendeva tranelli per non farmi risposare. Sono stufa dei disegni che fa fare ai miniaturisti cercando di imitare i maestri europei, dei suoi ricordi di Venezia. Quando chiusi di nuovo gli occhi - Dio mio, non l'ho fatto di mia volonta’ - Nero mi si avvicino’ cosi’ dolcemente che, nel buio, lo sentii accanto a me. Capii che era comparso all'improvviso dietro di me, mi baciava la nuca, il collo, dietro le orecchie, ed era molto forte. Mi sentivo al sicuro perche’ era forte, grande e potente, perche’ riuscivo ad appoggiarmi a lui. La nuca mi solleticava, i capezzoli mi si inturgidivano. Ero al buio con gli occhi chiusi e avvertii in maniera precisa il suo coso enorme, tanto che la testa prese a girarmi. Chissa’ com'e’ il coso di Nero? A volte, in sogno, mio marito me lo fa vedere tra mille dolori. Mi accorgo che cerca di camminare con il corpo insanguinato, tra le frecce e le lance tirate dai soldati saffavidi, e di avvicinarsi, ma purtroppo c'e’ un fiume che ci separa. Mentre, sofferente e insanguinato, mi chiama dall'altra parte del fiume, vedo il suo coso diventare enorme. Se e’ vero quello che ha raccontato quella sposa georgiana all'hamam, e che confermano anche certe vecchie bisbetiche, che puo’ essere grande cosi’, il coso di mio marito non lo era poi molto. Se Nero ce l'ha piu’ grande di lui, se era veramente il suo quella cosa enorme che si intravedeva sotto la fascia quando ha preso il foglio in bianco che gli ho mandato con sevket si’, lo era - forse non entrerebbe dentro di me o mi farebbe molto male, il solo pensiero mi fa paura. «Mamma, sevket mi fa il verso». Uscii dall'angolo buio dell'armadio, passai silenziosamente nella stanza di fronte, presi il panciotto rosso dalla cassa e lo indossai. Avevano tirato fuori il mio materasso e ci stavano litigando sopra gridando. «Non vi ho forse detto che non si puo’ urlare quando in casa c'e’ Nero?» «Mamma, perche’ ti sei messa il panciotto rosso?», chiese sevket. «Ma mamma, sevket mi faceva il verso», disse Orhan. «Non ti ho detto di non fargli il verso? Che cos'e’ questa schifezza?» C'era un brandello di pelle. «Una carogna, - disse Orhan. - L'ha presa sevket per strada». «Andate subito a buttarla dove l'avete presa». «Ce la porta sevket». «Su, andate, ho detto subito». Quando videro che cominciavo a mordermi le labbra per la rabbia, come faccio prima di picchiarli, si spaventarono e corsero via. Speriamo che tornino presto e che non prendano freddo. Tra tutti i miniaturisti il mio preferito e’ Nero, perche’ lui mi ama piu’ di tutti e io conosco la sua anima. Presi carta e penna e senza rifletterci troppo, tutto d'un fiato gli scrissi: «Va bene, prima della preghiera della sera ti vedro’ nella casa dell'ebreo impiccato. Finisci il libro di mio padre al piu’ presto». A Hasan invece non risposi, non ritenevo che lui e suo padre potessero fare un'incursione improvvisa a casa nostra, anche se fossero veramente andati dal cadi’ oggi stesso. In quel caso non mi avrebbe scritto, non avrebbe atteso la mia risposta e sarebbe piombato direttamente da noi. Adesso sara’ li’ ad aspettare la mia lettera, non la ricevera’ e impazzira’, e allora prendera’ degli uomini per tentare l'incursione. Non crediate che non lo tema. A dir la verita’, conto su Nero perche’ mi protegga. Ma lasciate che vi dica quel che mi comunica il cuore: forse non ho cosi’ tanta paura di Hasan perche’ amo anche lui. Se mi diceste come e’ possibile amarlo, non mi arrabbierei, ma vi darei ragione. Negli anni in cui, sotto lo stesso tetto, abbiamo atteso che mio marito tornasse dalla guerra, ho avuto modo di vedere quanto sia meschino, debole e profittatore quest'uomo. Esther dice che adesso guadagna molti soldi e so che non mente da come alza le sopracciglia. Avendo piu’ soldi avra’ anche piu’ fiducia in se stesso, e penso che tutte le cattiverie che rendono Hasan repellente siano scomparse per lasciare spazio a quel lato cupo, strano e vivace che ho avuto modo di scoprire nelle sue lettere ostinate. Sia Nero che Hasan hanno sofferto molto per amor mio. Nero e’ fuggito lontano, e’ scomparso, offeso, per dodici anni. Hasan mi ha mandato ogni giorno una lettera con disegni di uccelli e gazzelle. Leggendo le sue lettere ho imparato a temerlo, ma anche a esserne curiosa. Non mi stupisce che sappia che ho sognato mio marito morto perche’ so bene che anche Hasan e’ curioso di conoscere tutto quello che mi riguarda. Ho il sospetto che Esther gli faccia leggere le mie lettere a Nero. Per questo non ho risposto a Nero tramite Esther. Lo sapete voi se i miei sospetti sono fondati. «Come mai avete fatto tardi», brontolai quando i bambini tornarono. Capirono subito che non ero veramente arrabbiata. Di nascosto da Orhan, portai sevket nell'armadio buio. Lo presi in
braccio. Gli baciai il collo, i capelli e la nuca. «Come sei freddo, amore mio. Dammi quelle belle manine che la mamma te le riscalda...» Aveva le mani che puzzavano di carogna ma non dissi nulla. Lo abbracciai forte stringendomelo al petto. Dopo un po' si riscaldo’ e si sciolse come un gattino che fa le fusa. «Vuoi bene alla tua mamma?» «Mmmh». «Gliene vuoi?» «Si’». «Piu’ di tutti?» «Si’». «Allora ti diro’ una cosa, - dissi come se gli rivelassi un segreto. - Ma non lo dirai a nessuno, va bene?», gli bisbigliai all'orecchio: «Anch'io voglio piu’ bene a te di tutti, hai capito?» «Anche piu’ di Orhan?» «Si’, piu’ di Orhan. Orhan e’ piccolo, e’ come un uccellino, non capisce niente. Tu sei piu’ intelligente, tu capisci. - Gli baciai i capelli annusandoli. - Percio’ adesso ti chiedero’ una cosa. Ti ricordi che ieri hai portato di nascosto un foglio bianco a Nero Effendi? Glielo porterai anche oggi, va bene?» «Lui ha ucciso il mio papa’». «Cosa?» «Ha ucciso il mio papa’. Me l'ha detto ieri, nella casa dell'ebreo impiccato». «Cosa ha detto?» «Ho ucciso io tuo padre, ha detto. Io ho ucciso molti uomini, ha detto». Fu un attimo. Di colpo sevket si era gia’ liberato dal mio abbraccio e piangeva. Perche’ piangeva? Va bene, un attimo prima, forse, non riuscendo a trattenermi gli avevo dato uno schiaffo. Non pensiate che ho un cuore di pietra. Ma sentendo dire una cosa del genere sull'uomo con il quale, per il loro bene, stavo pensando di sposarmi, mi ero innervosita. Improvvisamente mi commossi per il povero orfano che continuava a piangere e stavo per piangere con lui. Ci abbracciammo. Ogni tanto singhiozzava, ma che c'e’ da piangere tanto per uno schiaffo? Gli accarezzai i capelli. cominciato tutto cosi’. Sapete che l'altro giorno ho raccontato a mio padre di avere sognato mio marito morto. In realta’, in questi quattro anni in cui non e’ tornato dalla guerra con i persiani, l'ho sognato spesso, e una volta c'era anche un morto, ma non so se il morto fosse lui, non era molto chiaro. I sogni servono sempre ad altro. In Portogallo, da dove viene la nonna di Esther, i sogni servono ai miscredenti per accoppiarsi con Satana. Allora gli antenati di Esther, rinnegando l'ebraismo, dissero di essere diventati cristiani cattolici, ma i torturatori gesuiti della Chiesa portoghese non ci credettero e, pur di bruciare ogni ebreo, li torturarono tutti per far confessare loro i ginn e i demoni che sognavano e, sempre con la tortura, attribuirono loro anche sogni mai sognati. Vuol dire che laggiu’ i sogni servivano alla gente per scopare con Satana o per accusarla e poi bruciarla. I sogni servono a tre cose. Alif: vuoi una cosa ma non ti permettono neanche di chiederla. Allora dici, l'ho sognato. Cosi’, hai espresso il tuo desiderio senza chiedere. Ba: vuoi fare qualcosa di cattivo a qualcuno. Per esempio vuoi calunniare qualcuno. Allora dici, ho sognato che la tale signora tradiva il marito, oppure ho sognato che portavano brocche e brocche di vino a quel tal pascia’. Cosi’, anche se non ci credono, parte della cattiveria va comunque a segno. Gim: vuoi una cosa, ma non sai neanche bene quale. Racconti un sogno confuso. Gli altri lo commentano e dicono subito cosa devi chiedere e cosa ti possono dare. Per esempio dicono: tu hai bisogno di un marito, di un bambino, di una casa... Questi sogni non sono affatto cose che sogniamo veramente quando dormiamo. Tutti raccontano sogni fatti di giorno come se li avessero fatti di notte in modo da trarne vantaggio. Solo gli stupidi raccontano i sogni fatti di notte cosi’ come sono. Allora, o ti prendono in giro o commentano il tuo sogno come se ci fosse qualcosa di brutto. Invece i sogni veri non vengono presi sul serio da nessuno, neanche da chi li sogna. Voi lo fate forse? Quando, con un sogno raccontato a mezza bocca, ho insinuato che mio marito potesse essere morto, dapprima mio padre ha detto che questo sogno non poteva essere accettato come indice di verita’. Ma, sempre mio padre, di ritorno dal funerale, per via di questo sogno e’ giunto alla conclusione che mio marito e’ morto. Cosi’, grazie a questo sogno, tutti si sono convinti che mio marito, incapace di morire da ormai quattro anni, e’ effettivamente morto, ma la sua morte e’ stata presa talmente sul serio da venire addirittura annunciata. allora che i bambini hanno capito di essere rimasti orfani e si sono intristiti. «Tu non sogni mai?», chiesi a sevket. «Si’, - disse sorridendo. - Mio padre non ritorna, e alla fine mi sposo io con te». Il suo naso sottile, gli occhi neri, le spalle larghe non somigliano a quelli di suo padre ma ai miei. A volte mi dispiace non aver potuto dare la fronte spaziosa e alta di mio marito a tutti e due i miei figli. «Su, vai a giocare al duello con tuo fratello». «Con la vecchia spada di papa’?» «Si’». Guardai a lungo il soffitto ascoltando i rumori della spada e quelli dei bambini sul legno, cercando di vincere la paura e l'agitazione che mi crescevano dentro. Scesi in cucina e dissi a Hayriye: «E' un bel po' che mio padre ha voglia di mangiare una zuppa di pesce. Forse ti mandero’ a Kadirga. Tira fuori quella
gelatina di frutta che piace tanto a sevket e dalla ai bambini». Mentre sevket mangiucchiava in cucina, io e Orhan salimmo di sopra. Lo presi in braccio, gli baciai il collo. «Sei sudato, - dissi. - Che hai qui?» «sevket mi ha colpito con la spada rossa dello zio». «Ma e’ livido, - dissi, toccandolo. - Ti fa male? Che disgraziato, sevket. Ascoltami. Tu sei molto intelligente, sei acuto. Ti chiedero’ una cosa. Se lo fai, ti diro’ un segreto che non direi a nessuno, neanche a sevket». «Cosa?» «Vedi questo foglio? Vai vicino al nonno. Senza farglielo vedere, dallo a Nero. Hai capito?» «Ho capito». «Lo farai?» «Che segreto mi dirai?» «Tu intanto portalo», dissi. Lo baciai un'altra volta sul collo che profumava di muschio. Dico muschio per modo di dire. da parecchio che Hayriye non porta i bambini all'hamam. Non ci sono piu’ andati da quando sevket, vedendo le donne, ha avuto un'erezione. «Poi ti dico il segreto. - Lo baciai. - Sei molto intelligente, sei molto bello. sevket e’ capriccioso. Lui alzerebbe le mani anche su sua madre». «Non lo portero’. Ho paura di Nero Effendi. Ha ucciso mio padre». «Te l'ha detto sevket? - domandai. - Vai subito giu’ a chiamarlo». Vedendo quanto ero arrabbiata scese impaurito dalle mie braccia e corse via. Forse era anche contento che alla fine avrebbe pagato suo fratello. Dopo un po' arrivarono tutti e due rossi in viso. sevket aveva in una mano la gelatina, nell'altra la spada. «Hai detto a tuo fratello che Nero Effendi ha ucciso vostro padre, - dissi. - Non voglio piu’ sentire niente del genere in questa casa. Vorrete bene a Nero Effendi, lo rispetterete. Avete capito? Non potete passare tutta la vita senza un padre». «Io non lo voglio. Io torno a casa nostra, da zio Hasan, e aspetto mio padre li’», disse quell'insolente di sevket. Mi arrabbiai talmente tanto che gli diedi uno schiaffo. Non aveva ancora lasciato la spada, gli cadde di mano. «Voglio mio padre», piagnucolo’. Ma io piangevo piu’ di lui. «Vostro padre non c'e’ piu’ e non tornera’, - dissi piangendo. - Siete rimasti senza un padre, avete capito, piccole pesti?» Piansi cosi’ tanto che ebbi paura di farmi sentire. «Noi non siamo delle pesti», disse sevket in lacrime. Continuammo a piangere a dirotto. Dopo un po', il pianto mi aveva intenerito il cuore e mi aveva resa piu’ buona. Sempre tra le lacrime, io e i bambini ci abbracciammo e ci sdraiammo sul materasso. sevket mi aveva appoggiato la testa tra i seni. A volte, quando mi si stringe cosi’, sento che in realta’ non dorme. Io avrei dormito con loro, ma la mia mente era al piano di sotto. Si sentiva un dolce profumo di arancia amara cotta. All'improvviso sobbalzai rumorosamente e i bambini si svegliarono: «Scendete e dite a Hayriye di darvi da mangiare». Rimasi sola nella stanza. Aveva cominciato a nevicare. Pregai Allah di aiutarmi. Poi aprii il Corano e, nella Sura della famiglia di Imran, lessi che coloro che vengono uccisi in guerra per amore di Allah vanno accanto a Lui, e fui tranquilla per mio marito buonanima. Mio padre aveva fatto vedere a Nero il ritratto incompiuto del Nostro Sultano? Chi l'aveva guardato diceva che sembrava cosi’ vero da far paura e distoglieva lo sguardo, come chi cerca di guardare il sultano negli occhi e non ci riesce. Chiamai Orhan, lo baciai a lungo sulla testa e sulle guance senza prenderlo in braccio. «Adesso, senza aver paura e senza farti assolutamente vedere da tuo nonno, vai subito a dare questo foglio a Nero. Hai capito?» «Mi balla un dente». «Quando torni, se vuoi te lo tolgo, - dissi. - Vagli vicino, se ne stupira’ e ti abbraccera’. Poi con delicatezza gli metti il foglio in mano. Hai capito?» «Ho paura». «Non c'e’ niente di cui aver paura. Sai chi vuole essere tuo padre se non lo diventa Nero? Zio Hasan! Vuoi che zio Hasan diventi tuo padre?» «Non voglio». «Allora, vai, mio Orhan bello e intelligente, - dissi. - Guarda che tra un po' mi arrabbio... E mi arrabbio anche se piangi». Infilai la lettera ben piegata nella piccola mano che disperato e ubbidiente mi porse. Dio mio, aiutami tu, che questi orfani non rimangano soli. Lo presi per mano e lo accompagnai alla porta. Sulla soglia mi guardo’ spaventato per un'ultima volta. Tornai al mio angolo e, dallo spioncino, lo vidi passare per l'anticamera con passo incerto; si avvicino’ a mio padre e a Nero, si fermo’, rimase li’ per un attimo, come fosse indifeso, mi cerco’ dietro di se’ e lancio’ uno sguardo allo spioncino. Si mise a piangere. Infine, con uno sforzo, riusci’ a gettarsi tra le braccia di Nero. Nero era lucido - era per questo che meritava di diventare il padre dei miei figli - e non capendo perche’ mai Orhan piangesse non si scompose e gli frugo’ in mano. Appena Orhan torno’ indietro sotto lo sguardo meravigliato di mio padre, corsi ad abbracciarlo, lo baciai a lungo, lo portai al piano di sotto, in cucina, gli riempii la bocca di quell'uva sultanina che gli piace tanto e dissi: «Hayriye, vai con i bambini al porto di Kadirga, da Kosta, e compra un cefalo per cucinare la zuppa a mio padre. Tieni queste venti akçe e con il resto, al ritorno, prendete fichi e amarene secche, piacciono tanto a Orhan. E per sevket compra ceci tostati e dolci all'uvetta e alle noci. Portali dove vogliono loro fino all'ora della preghiera della sera, ma fa'
attenzione che non prendano freddo». Una volta che furono vestiti e uscirono, il silenzio della casa mi fece piacere. Salii al piano di sopra, tirai fuori lo specchio che avevo nascosto in mezzo alle federe profumate di lavanda, l'aveva fatto mio suocero e me l'aveva regalato mio marito, lo appesi. Mi ci specchiai, se guardavo da lontano e mi muovevo un po', a pezzi, riuscivo a vedermi tutta. Il panciotto rosso mi stava bene, ma sotto volevo indossare la camicia viola, parte della dote di mia madre. Dalla cassapanca tirai fuori anche la giacca di lana color pistacchio ricamata a fiori da mia nonna e la indossai, ma non mi donava. Mentre infilavo la camicia viola sentii freddo, rabbrividii, e con me tremo’ lievemente anche la fiamma della candela. Naturalmente, pensai di mettere sopra il mantello scarlatto foderato di pelliccia di volpe, ma all'ultimo momento cambiai idea e, in silenzio, passai per l'anticamera per prendere dalla cassapanca l'ampio mantello di lana celeste che mi aveva lasciato mia madre. In quel momento, udii delle voci attraverso la porta e mi agitai. Nero se ne va! Tolsi subito il vecchio mantello di mia madre, indossai quello scarlatto con la pelliccia. Mi stringeva sul seno, ma mi piaceva di piu’. Mi coprii bene la testa, mi calai bene sul viso il velo di lino. Certamente Nero Effendi non era ancora andato via, mi ero sbagliata per l'agitazione. Se uscissi adesso, potrei dire a mio padre che vado a comprare il pesce con i bambini. Scesi le scale silenziosa come un gatto. Chiusi la porta - tic - come uno spirito. Attraversai il cortile in silenzio, una volta in strada mi fermai un attimo e, con il velo davanti, guardai indietro, sembrava che non fosse casa nostra. Per strada non c'era nessuno, neanche un gatto. Aveva appena iniziato a nevicare lievemente. Entrai rabbrividendo in quel giardino abbandonato dove non arriva mai il sole. C'era puzza di foglie marce, umidita’ e morte, ma appena dentro la casa dell'ebreo impiccato, mi sentii a casa. Dicono che qui, di notte, si diano convegno i ginn, accendono il focolare e fanno baldoria. Ascoltare i miei passi in quella casa vuota mi fece paura. Attesi immobile. In giardino qualcosa si mosse, ma subito ritorno’ il silenzio. Li’ vicino udii un cane abbaiare. Riconosco tutti i cani del nostro quartiere da come abbaiano, ma quello non riuscii a identificarlo. Nel silenzio che segui’ mi parve che nella casa ci fosse qualcun altro, e rimasi li’, immobile per non far sentire i miei passi. Per strada passo’ qualcuno che chiacchierava. Pensai a Hayriye e ai bambini, speravo che non prendessero freddo. Pian piano iniziai a pentirmi di quel che stavo facendo. Nero non sarebbe venuto, mi ero sbagliata, dovevo tornare a casa prima di compromettere ulteriormente il mio onore. Ero terrorizzata, immaginavo che Hasan mi vedesse, quando udii un fruscio nel giardino. La porta si apri’. All'improvviso, velocemente, mi spostai. Non sapevo perche’, ma una volta lasciatami sulla destra la finestra che prendeva luce dal giardino capii che Nero mi poteva vedere, nella luce che si rifletteva sopra di me, in mezzo al mistero delle ombre, come avrebbe detto mio padre. Mi coprii il viso con il velo e restai ad aspettare ascoltando i passi. Nero attraverso’ la soglia, mi vide, fece ancora qualche passo e si fermo’. Tra di noi, adesso, c'erano cinque o sei passi, ci guardammo. Era piu’ prestante e piu’ forte che dallo spioncino. Rimanemmo in silenzio. «Togliti il velo, - disse come se bisbigliasse. - Ti prego». «Sono sposata. Aspetto mio marito». «Togliti il velo, - ripete’ con lo stesso tono. - Lui non tornera’ piu’». «Mi hai chiamata qui per dirmi questo?» «No, per vederti. Sono dodici anni che penso a te. Togliti il velo, tesoro mio, lasciati vedere almeno una volta». Mi tolsi il velo. Mi piaceva farmi guardare negli occhi, a lungo, senza dire nulla. «Il matrimonio e i figli ti hanno resa ancora piu’ bella. Il tuo viso e’ molto diverso da come lo ricordavo». «Come mi ricordavi?» «Con dolore. Perche’, quando ti ricordavo, pensavo che la donna che ricordavo non fossi tu, ma un'immagine. Rammenti che quando eravamo piccoli parlavamo di Cosroe e sirin che s'innamorarono guardando i propri ritratti? Perche’ sirin non si innamorava di Cosroe, subito, appena ne vedeva il ritratto appeso al ramo dell'albero? Aveva dovuto guardarlo tre volte per innamorarsene. Tu dicevi che nelle favole tutto accadeva tre volte. E io dicevo che l'amore doveva nascere al primo ritratto. Ma chi poteva disegnare un ritratto di Cosroe tanto vero da far innamorare e tanto preciso da farlo riconoscere? Di questo non parlavamo mai. In questi dodici anni, se avessi avuto un ritratto vero del tuo viso meraviglioso, forse non avrei sofferto cosi’ tanto». Disse molte cose belle sull'amore che nasce guardando un ritratto e su quanto aveva sofferto per me. Nel frattempo, mi accorgevo che, passo passo, mi si stava avvicinando, e non riuscivo a tenere in mente quello che diceva parola per parola, i suoi discorsi si mescolavano ai miei ricordi. In seguito, avrei ripensato a ogni sua parola. Allora, dentro di me sentivo solo la magia di quello che diceva e che mi legava a lui. Mi sentii in colpa per averlo fatto soffrire per dodici anni. Come era buono, come parlava bene questo Nero! Come un bambino innocente! Glielo leggevo negli occhi. Il fatto che mi amasse cosi’ tanto mi dava fiducia. Ci abbracciammo. E mi piacque talmente che non mi sentii piu’ in colpa. Era una sensazione piu’ dolce del miele, mi persi. Lo abbracciai piu’ forte. Gli permisi di baciarmi, lo baciai anch'io. E mentre ci baciavamo, sembrava che il mondo intero fosse immerso in una dolce oscurita’. Avrei voluto che tutti si abbracciassero come noi. Mi sembrava di ricordare che amare fosse qualcosa di simile. Mi infilo’ la lingua in bocca. Ero cosi’ felice, mi sembrava che il mondo, insieme a noi, si immergesse in una bonta’ luminosa e non potevo pensare a nulla di male. Se questa mia povera storia un giorno verra’ raccontata in un libro e disegnata dai leggendari maestri di Herat, vi diro’ come illustrare il mio abbraccio con Nero. Ci sono alcune pagine meravigliose che mi ha mostrato mio padre: il fluire della scrittura e lo stormire delle foglie hanno la stessa vivacita’; le decorazioni dei muri e la doratura della pagina hanno la stessa trama; l'agitazione della rondine che buca cornice e doratura con l'ala e’ la stessa di quella degli amanti. Gli amanti che si guardano da lontano e si rimproverano con parole piene di significato, in questi disegni sono talmente
piccoli e si vedono cosi’ da lontano che, chi li guarda, per un attimo, pensa che la storia non parli di loro ma del magnifico palazzo e del cortile dove si incontrano, del giardino le cui foglie sono state disegnate con amore una a una, della volta stellata che li illumina e degli alberi scuri. Ma chi guarda attentamente questi disegni e si concentra sull'ordine nascosto dei colori, che il miniaturista puo’ ottenere solo con sincera rassegnazione, e sulla luce che emana da tutto il disegno, capira’ subito che il segreto di questi disegni e’ che sono stati creati con la medesima materia dell'amore che rappresentano. Come se, dal profondo, vi filtrasse la luce dell'amore disegnato. Quando Nero e io ci abbracciammo, credetemi, sembrava che in tutto il mondo si propagasse quella stessa bonta’. Ho abbastanza esperienza di vita per capire che una bonta’ del genere non puo’ durare a lungo. Prima, Nero accarezzo’ dolcemente i miei grandi seni. Mi piacque talmente che, dimenticando tutto, volli che mi succhiasse i capezzoli. Ma non lo fece, anche lui non era sicuro di quello che faceva. Sembrava non sapesse cosa fare, ma voleva piu’ di quello che faceva. E cosi’, mentre continuavamo ad abbracciarci, si insinuarono tra noi paura e vergogna. Quando mi prese per i fianchi e mi appoggio’ sul ventre il suo grande coso duro, all'inizio mi piacque. Ero curiosa e non mi vergognavo, se lo abbracci cosi’ e’ chiaro che si arriva a questo punto, mi dissi orgogliosa. E quando lo tiro’ fuori, girai la testa dall'altra parte, ma non riuscii a distogliere lo sguardo e, di fronte alle dimensioni del suo coso, sgranai gli occhi. Molto dopo, quando mi chiese di fare cose che non farebbero subito neanche le donne kipciache o quelle svergognate che raccontano storielle all'hamam, esitai stupita e indecisa. «Non arrabbiarti, tesoro mio», mi supplico’. Mi alzai in piedi e lo spinsi via e, senza assolutamente badare al fatto che si sarebbe offeso, cominciai a urlare.
Capitolo ventisettesimo. Il mio nome e’ Nero Secondo seküre che, nell'oscurita’ della casa dell'ebreo impiccato, mi gridava infuriata aggrottando le belle sopracciglia, io avrei potuto tranquillamente mettere la meraviglia che tenevo in mano nella bocca delle ragazze circasse incontrate a Tiblisi, delle meretrici kipciache, delle povere spose vendute nei caravanserragli, delle vedove turkmene e persiane, di una qualunque delle puttane di Istanbul, che sono sempre piu’ numerose, di quelle poco di buono delle donne di Mingerya, delle civette abkhaze e armene, delle megere ebree, delle streghe genovesi e siriache, degli attori bisessuali e dei ragazzini insaziabili, ma non nella sua. Stando alle fantasie e alle parole di seküre, si vede, avevo perso il senso della misura andando a letto con ogni tipo di infima prostituta da quattro soldi nei vicoli delle piccole e afose citta’ d'Arabia, navigando sulle sponde del Mar Caspio, viaggiando dalla Persia a Baghdad, e avevo dimenticato che ci sono donne con una loro dignita’. Tutto questo significava che anche le mie parole d'amore non erano sincere. Ascoltavo con rispetto le colorite parole della mia amata, parole che avevano fatto impallidire l'arma del delitto che tenevo in mano, mi vergognavo della sconfitta, ma due cose mi rendevano felice: 1. Spesso, in casi simili, con altre donne mi ero comportato in modo animalesco, ma non avevo neanche tentato di rispondere alla rabbia e alle parole di seküre, con altrettanta rabbia e parole altrettanto colorite; 2. Capivo che seküre sapeva molto dei miei viaggi e questo voleva dire che mi pensava piu’ di quanto immaginassi. seküre, vedendomi triste per non aver soddisfatto il mio desiderio, aveva gia’ cominciato a rattristarsi per me. «Se mi amassi veramente, di amore vero, - disse quasi per farsi perdonare, - da uomo per bene, ti saresti controllato e non avresti cercato di ferire l'orgoglio della donna per la quale nutri intenzioni serie. Non sei l'unico che insiste per sposarmi. Ti ha visto venire qui qualcuno?» «No». Volto’ il suo dolce viso che non riuscivo a ricordare da dodici anni verso la porta, come se ci fosse qualcuno che camminava nel giardino buio coperto di neve, e cosi’ mi concesse il piacere di vederne il profilo. Quando improvvisamente si udi’ uno scricchiolio, rimanemmo tutti e due zitti ad aspettare, ma dalla porta non entro’ nessuno. Adesso ricordo che seküre, che anche a dodici anni sapeva molte piu’ cose di me, spesso mi provocava una sensazione di inquietudine. «Qui si aggira lo spirito dell'ebreo impiccato», disse. «Ci vieni mai?» «Ginn, streghe, spettri... Vengono col vento, entrano negli oggetti, parlano dal silenzio. Tutto parla. Non c'e’ bisogno di venire qui. Li sento». «sevket mi ha portato qui per farmi vedere un gatto morto, ma non c'era». «Gli hai detto di aver ucciso suo padre». «Non l'ho detto affatto. Ha capito cosi’? Avrei voluto essere io suo padre, non ucciderlo». «Perche’ gli hai detto di aver ucciso suo padre?» «Mi ha chiesto se avevo mai ucciso qualcuno. Gli ho detto la verita’, che ho ucciso due persone». «Per vantarti?» «Per vantarmi e per conquistare il figlio della donna che amo. Perche’ ho capito che la madre, a casa, consola quei piccoli banditi mostrando loro quello che il padre ha riportato dalla guerra e magnificandolo». «Vantati allora! Loro non ti amano affatto». «sevket non mi ama, ma Orhan si’, - dissi con l'orgoglio di aver colto in fallo la mia amata. - Ma io faro’ da padre a entrambi».
Per un attimo, nella penombra, tra di noi passo’ l'ombra di qualcosa che non c'era, rabbrividimmo. Quando mi ripresi, seküre piangeva a piccoli singhiozzi. «Il mio povero marito ha un fratello, Hasan. Mentre aspettavo il ritorno di mio marito, per due anni abbiamo vissuto nella stessa casa, con lui e mio suocero. Si e’ innamorato di me. Adesso si e’ insospettito di qualcosa e si e’ infuriato, immaginando che io sposi qualcuno, forse te. Mi ha scritto, mi vuole riportare a casa con la forza. Visto che agli occhi del cadi’ non sono vedova, dicono che, in nome di mio marito, mi riporteranno in quella casa con la forza. Possono arrivare da un momento all'altro. Mio padre non vuole che io diventi vedova per decisione del cadi’, perche’ crede che se divorziassi troverei un nuovo marito e lo abbandonerei. Il mio ritorno con i bambini, da quando e’ rimasto solo dopo la morte di mia madre, l'ha reso molto felice. Verresti ad abitare con noi?» «Come?» «Se ci sposiamo, abiteresti con mio padre, con noi?» «Non lo so». «Pensaci in fretta. Non avrai molto tempo, credimi. Mio padre intuisce che sta per capitare qualcosa di male, e ha ragione. Se Hasan e i suoi uomini fanno un'incursione a casa nostra con i giannizzeri e portano mio padre dal cadi’, diresti di aver visto il cadavere di mio marito? Tu vieni dalla Persia, ti crederebbero». «Si’, lo direi, ma non l'ho ucciso io». «Va bene. Per farmi dichiarare vedova, insieme a un altro testimone, diresti al cadi’ di aver visto il cadavere sanguinante di mio marito in un campo di battaglia in Persia?» «Non l'ho visto, tesoro mio, ma per te lo direi». «Vuoi bene ai miei figli?» «Si’, voglio bene ai tuoi figli». «Cosa ami in loro, dimmelo». «Di sevket amo la forza, la decisione, l'onesta’, l'intelligenza e l'ostinazione, - risposi. - Di Orhan, il suo essere piccolo e fragile, e l'intelligenza. Amo il fatto che siano figli tuoi». Un po' sorrise e un po' pianse, la mia amata dagli occhi neri. Con la calcolata agitazione di chi vuole concludere molte cose in poco tempo, cambio’ subito argomento: «Il libro che mio padre sta facendo fare dev'essere finito e consegnato al Nostro Sultano. La sfortuna che ci circonda e’ causata da questo libro». «Che altra diavoleria c'e’ oltre all'uccisione di Raffinato Effendi?» La domanda non le piacque. Cercando di sembrare sincera, ma senza sembrarlo, rispose: «I sostenitori di Maestro Nusret di Erzurum spargono la voce che il libro di mio padre e’ sacrilego, pieno di cose europee. I miniaturisti che vanno e vengono da casa nostra, e che sono gelosi l'uno dell'altro, stanno forse combinando qualcosa? Tu sei uno di loro, dovresti saperlo!» «Il fratello di tuo marito buonanima, - chiesi, - ha qualcosa a che fare con questi miniaturisti, con il libro di tuo padre, con i sostenitori di Maestro Nusret, o e’ uno che si fa i fatti suoi?» «No, niente a che fare, anche se Hasan non e’ un tipo che si fa i fatti suoi», disse. Ci fu un silenzio misterioso e strano. «Quando abitavi nella stessa casa con Hasan, ti coprivi?» «Per quanto si possa in una casa di due stanze». Proprio in quel momento, non molto lontano, un paio di cani cominciarono ad abbaiare agitati. Non riuscii a chiederle: Perche’ tuo marito, che ha fatto tante guerre, che ha avuto le sue vittorie, le sue proprieta’, ti ha costretta a vivere con il fratello in una casa di due stanze; ma, spaventato e imbarazzato, domandai all'amore della mia infanzia: «Perche’ lo hai sposato?» «Sicuramente mi avrebbero fatto sposare con qualcuno», disse. Era vero, e, senza elogiare il marito per non offendermi, spiego’ in modo breve e intelligente perche’ l'avesse sposato: «Tu te ne sei andato e non sei tornato. Forse offendersi e’ un segno d'amore, ma l'innamorato offeso e’ noioso e senza un futuro». Era vero, ma non era quello il motivo per cui aveva sposato quel bandito di suo marito. Dal suo sguardo furbo non era difficile indovinare che seküre, come tutti, mi aveva dimenticato poco dopo la mia partenza da Istanbul. Pensai che avesse inventato quest'enorme bugia per consolare un po' il mio cuore infranto e che fosse un segno di buone intenzioni da accogliere con gratitudine, e cominciai a raccontarle di come, durante i miei viaggi, avessi sempre pensato a lei, di come la sua immagine mi tornasse a far visita tutte le notti, come un fantasma. Questi erano i dolori miei piu’ segreti e profondi, pensavo che non li avrei mai potuti raccontare a nessuno; erano totalmente veri, ma non erano affatto sinceri come notai improvvisamente con stupore. A questo punto, per rendere comprensibili i miei sentimenti e i miei desideri di quel momento, devo affrontare una differenza significativa di cui mi accorgevo per la prima volta nella vita, il fatto che, a volte, esprimere la realta’ cosi’ come e’ ci spinge a non essere sinceri. L'esempio migliore viene forse dai miniaturisti, uno di loro e’ diventato un assassino e ci tormenta. Anche il disegno piu’ perfetto - per esempio quello di un cavallo - sebbene rappresenti un cavallo vero, un cavallo che Allah ha progettato minuziosamente, anche un cavallo disegnato da un grande maestro, puo’ non corrispondere, in quel momento, ai sentimenti sinceri del miniaturista. La sincerita’ del miniaturista o di noi esseri umani umili servitori di Allah, non si rivela nei momenti di perfezione e destrezza, ma al contrario in un momento di lapsus, errore, indisposizione e patetica debolezza. Lo dico per le signore che sono rimaste deluse capendo che il grande desiderio che provavo per seküre in quel momento, come ha avvertito anche lei, non era affatto diverso dal desiderio che avevo provato nel corso dei miei viaggi, per esempio, per una bella donna di Kazvin dal volto sottile e color del rame e dalla bocca viola. La mia seküre, con la sua profonda conoscenza della vita e la sua perspicacia, dono
di Allah, capiva che per dodici anni avevo sofferto le pene d'amore per lei, paragonabili a vere torture cinesi, ma capiva anche il mio comportamento da meschino lussurioso desideroso solo di saziare in fretta e furia il suo sordido appetito, dopo dodici anni, appena rimasto solo con lei. Nizami paragona la bocca di sirin, la bella delle belle, a una tazza piena di perle. Quando i cani zelanti cominciarono di nuovo ad abbaiare con tutta la loro forza, seküre, inquieta, disse: «Andiamo via». In quel momento, anche se non era ancora sera, ci accorgemmo che la casa dello Spettro Ebreo era diventata molto buia. Il mio corpo si mosse da solo per abbracciarla, ma lei come un passero che saltella - oppla’ - cambio’ posto. «Sono ancora bella? Dimmelo in fretta». Le dissi di si’, mi ascolto’ credendo e partecipando alle mie parole. «Come sono vestita?» Glielo raccontai. «Profumo?» Naturalmente anche seküre sapeva che cio’ che Nizami chiama il gioco degli scacchi in amore non si fa con giochi letterari del genere, ma con comportamenti dell'anima che avvengono in segreto tra gli innamorati. «Quanto guadagni adesso? - mi chiese. - Riuscirai a mantenere gli orfani?» Parlando del mio lavoro di rappresentante dell'Impero per piu’ di dodici anni, della grande esperienza acquisita con le guerre, dei cadaveri che avevo visto e del mio splendido futuro, la abbracciai. «Quanto e’ stato bello abbracciarsi prima, - disse. - Adesso invece ha perso la sua prima magia». Per dimostrarle la mia sincerita’, la abbracciai piu’ forte e le chiesi perche’ mi avesse rimandato con Esther il disegno che avevo fatto dodici anni prima, dopo averlo conservato tanto a lungo. Quando le lessi negli occhi che si meravigliava della mia stupidita’ e provava affetto per me, ci baciammo. Questa volta non mi sentii dominato dalla lussuria ma piuttosto scosso da un amore forte che batteva le ali come un'aquila e penetrava nel cuore, nel petto, nello stomaco, ovunque, in tutti e due. Far l'amore non e’ forse il miglior modo per placare l'amore? Mentre le toccavo i grandi seni, seküre mi respinse con maggiore decisione e dolcezza. Non ero un uomo maturo che potesse mandare avanti un matrimonio tranquillo con una donna ancora vergine. Non avevo esperienza, avevo la testa fra le nuvole, avevo dimenticato che la gatta frettolosa fa i gattini ciechi, non sapevo che un matrimonio felice richiede prima di tutto pazienza e sofferenza. Si era sciolta dal mio abbraccio, aveva rimesso il velo di lino e andava verso la porta. Quando dalla porta aperta vidi la neve scendere sulle strade buie, dimenticai che avevamo sempre parlato sussurrando - forse per non disturbare l'anima dell'ebreo impiccato - e alzai la voce. «Cosa faremo d'ora in poi?» «Non lo so», rispose, ligia alle regole del gioco degli scacchi in amore, e ando’ via silenziosa lasciando nel vecchio giardino le belle impronte dei suoi piedi che la neve, veloce, copriva.
Capitolo ventottesimo. Di me diranno che sono un assassino Sono sicuro che sia capitato anche a voi. Quando cammino zigzagando per le infinite strade di Istanbul, quando mangio un po' di zucchine stufate o strizzo gli occhi e guardo attentamente le curve di una decorazione con sottili motivi di foglie, all'improvviso mi sembra che tutto questo sia gia’ accaduto. Mentre cammino per strada sulla neve, mi viene da dire che ho gia’ camminato per quella strada sulla neve. Le cose straordinarie che sto per raccontarvi sono accadute nel presente che conosciamo tutti, cosi’ come nel passato. Era pomeriggio, calava il buio, nevicava appena e io camminavo nella via di Zio Effendi. Diversamente da altre volte, ero venuto qui sapendo cosa volevo, ero deciso. Mentre la mia mente era altrove e pensavo ad altro, come accade in certe notti - i libri di Herat con le decorazioni a motivi solari ma senza doratura, eredita’ dei tempi di Tamerlano, la prima volta che dissi a mia madre che avevo preso settecento akçe per un libro, le mie colpe e le mie idiozie - non ero stato portato in questa via spontaneamente dalle mie gambe. Quando il grande portone del cortile, che temevo che nessuno mi aprisse, si apri’ appena bussai, capii che Allah era di nuovo con me. Sul selciato lucido dove passavo nelle notti in cui venivo qui per aggiungere nuovi disegni al libro di Zio Effendi, non c'era nessuno. A destra il secchio del pozzo, sopra un passero che non sembrava assolutamente soffrire il freddo, piu’ in la’ il focolare, chissa’ perche’ non era acceso anche se era sera, a sinistra la stalla dove venivano legati i cavalli degli ospiti, tutto era al suo posto. Entrai dalla porta aperta vicino alla stalla e salii di sopra battendo i piedi - tap tap - sulle scale di legno e tossendo. Non ci fu risposta ai miei colpi di tosse. E neanche al rumore di quando mi tolsi le scarpe infangate e le lasciai accanto alle altre allineate vicino alla porta. Come sempre, guardai se c'era il paio di scarpe verdi e eleganti che immaginavo appartenessero a seküre, non le vidi e mi venne in mente che in casa poteva non esserci nessuno. Entrai nella prima stanza a destra dove pensavo che dormisse seküre abbracciata ai figli. Toccai i materassi, i letti, aprii una cassapanca nell'angolo e un armadio con le ante leggere come una piuma. Mentre immaginavo che quel dolce profumo di mandorle fosse quello della pelle di seküre, un cuscino pigiato nella parte superiore dell'armadio che avevo aperto cadde prima sulla mia stupida testa, poi sulla brocca e infine sui bicchieri di rame che erano nell'angolo. In
genere, quando sentiamo un rumore ci rendiamo conto che la stanza e’ buia, ma io mi resi conto soprattutto che la stanza era fredda. «Hayriye? - chiamo’ Zio Effendi dall'altra stanza, - seküre? Chi c'e’?» Uscii dalla stanza in un batter d'occhio, attraversai l'anticamera ed entrai nello studio dalla porta azzurra dove nei giorni d'inverno lavoravamo al libro di Zio Effendi e dissi: «Sono io Zio Effendi, sono io». «Chi sei?» In quel momento capii che i soprannomi che ci aveva dato Maestro Osman quando eravamo bambini servivano a Zio Effendi per prenderci in giro. Pronunciandolo lentamente, gli sillabai il soprannome del «vostro servo misero e peccatore», come direbbe un calligrafo orgoglioso nel firmare l'ultima pagina di un volume sontuoso, gli dissi da che cosa derivava e anche il mio vero nome, insieme a quello di mio padre. Prima disse: «Cosa? - poi esclamo’: - Ah!» Come il vecchio che, in una favola siriaca che avevo sentito raccontare da bambino, aveva incontrato la morte, per un brevissimo e infinito momento rimase in silenzio. Se adesso, qualcuno di voi, sentendomi parlare di morte, pensa che sia venuto qui con l'intenzione di fare una cosa del genere, significa che sta mal interpretando il libro che sta leggendo. Chi avesse un'intenzione del genere busserebbe alla porta, si toglierebbe le scarpe, verrebbe senza coltello? «Ah, sei venuto? - ripete’ come il vecchio della favola. Ma poi assunse tutt'altra aria. - Benvenuto figliolo. Dimmi, cosa desideri?» Ormai era completamente buio. Dalla superficie incerata della piccola finestra che, quando viene aperta in primavera, da’ sui platani e i melograni, entrava abbastanza luce da distinguere le forme dell'interno, una luce che piacerebbe ai pittori cinesi. Non vedevo completamente il volto di Zio Effendi seduto davanti a un leggio, nel solito angolo illuminato da sinistra e, in preda all'ansia, cercavo la sicurezza di quando disegnavo e parlavo di miniatura con lui fino all'alba, qui, alla luce delle candele, in mezzo a pennelli, calamai, penne e sigilli. Forse avrete sentito parlare anche voi del grande artista Maestro Muhammed di Isfahan. Nessun miniaturista gli era pari nella scelta dei colori, nella composizione della pagina, nel disegnare uomini, animali e volti, nel sistemare con entusiasmo nella poesia del disegno la segreta logica della geometria. Diventato maestro ancora in giovane eta’, questo artista dalle mani miracolose, per ben trent'anni fu il miniaturista piu’ coraggioso e intraprendente dei suoi tempi per la scelta dei soggetti, per creativita’ e stile. Abile ed equilibrato, con i suoi disegni a penna, aveva aggiunto ai diabolici disegni fini e delicati di Herat, demoni terrificanti, ginn con le corna, cavalli con enormi testicoli, creature meta’ uomini e meta’ mostri, giganti, ginn arrivati dalla Cina con i mongoli, ed era stato il primo a interessarsi e a farsi influenzare dai ritratti che arrivavano con le navi provenienti dal Portogallo e dall'Olanda. Era stato lui a riscoprire in vecchi libri quasi a pezzi gli antichi metodi ormai dimenticati che risalivano ai tempi di Gengis Khan e a farne uso. Prima di chiunque altro, aveva avuto il coraggio di disegnare Alessandro il Grande mentre guardava di nascosto le bellezze nude che nuotavano nell'isola delle donne, o argomenti eccitanti come sirin che si bagna alla luce della luna. Aveva disegnato e fatto accettare all'ambiente dei miniaturisti immagini come quella del Nostro Profeta Maometto che vola con il suo cavallo Burak, di scia’ che si grattano, di cani che si accoppiano, di dervisci ubriachi di vino. Per trent'anni, laborioso ed entusiasta, aveva disegnato bevendo vino e fumando oppio. Poi, in vecchiaia, era diventato discepolo di un derviscio fanatico e, in breve, era cambiato completamente, giungendo alla conclusione che tutti i suoi disegni precedenti erano atei e contro la religione e li aveva rinnegati. Aveva quindi dedicato i suoi ultimi trent'anni di vita a girare di citta’ in citta’, di palazzo in palazzo, di biblioteca in biblioteca, per cercare ed eliminare dai tesori e dalle biblioteche di scia’ e sultani i libri che aveva illustrato. Quando, nella biblioteca di uno scia’, trovava un suo disegno di molti anni prima, faceva di tutto per distruggerlo, e se non ci riusciva con le buone ci provava con l'inganno; in un momento in cui nessuno lo vedeva, strappava la pagina con il disegno, o, appena trovava l'occasione, versava dell'acqua sul suo capolavoro, rovinandolo irreparabilmente. Avevo raccontato questa storia in quanto esemplare dei dolori del miniaturista che, senza rendersene conto, si fa corrompere dall'arte del disegno abbandonando la fede. Era per questo motivo che gli ricordai di quando Maestro Muhammed aveva bruciato l'enorme biblioteca del Principe Abbas Mirza, il governatore di Kazvin, solo perche’ conteneva centinaia di libri con alcuni suoi disegni che non riusciva a distinguere dagli altri. Esagerando, raccontai come se l'avessi provata di persona la morte del miniaturista bruciato vivo, tra dolori e pentimenti, durante il terribile incendio. «Figliolo, hai forse paura dei disegni che abbiamo fatto?», mi disse affettuosamente Zio Effendi. La stanza era cosi’ buia che non si vedeva nulla, ma immaginai che me l'avesse domandato sorridendo. «Ormai non ci sono piu’ segreti sul nostro libro, - dissi. - Forse non e’ importante. Ma le voci circolano. Voci che noi bestemmiamo implicitamente contro la nostra religione. Voci che non stiamo facendo preparare il libro che il Nostro Sultano desidera e attende, ma un libro di nostro gusto che, anzi, si fa beffe del Nostro Sultano, incoraggia l'ateismo ed e’ contro la religione, imita i maestri infedeli. C'e’ chi sostiene che nel nostro libro perfino Satana risulti simpatico. Dicono che guardiamo con la prospettiva di un lurido cane di strada, e che - con la scusa che la moschea e’ sullo sfondo - disegniamo un tafano e una moschea della stessa grandezza, bestemmiando cosi’ contro la nostra religione e prendendo in giro i credenti che vanno in moschea. Di notte, pensando a tutto questo, non riesco a dormire». «I disegni li abbiamo fatti insieme, - disse Zio Effendi. - Abbiamo fatto cose del genere, ci sono forse passate per la testa?» «Allah non voglia! - risposi con enfasi. - Non so dove l'abbiano sentito, ma dicono che c'e’ un ultimo disegno che contiene un'esplicita bestemmia e non solo implicito ateismo». «Tu hai visto l'ultimo disegno».
«Ho fatto i disegni che volevate nei diversi angoli che mi avete indicato su un grande foglio per un disegno di due pagine, - dissi con un'attenzione e una precisione che Zio Effendi avrebbe apprezzato. - Ma non ho visto il disegno completo. Se l'avessi visto, avrei avuto la coscienza piu’ pulita mentre smentivo tutte queste schifose calunnie». «Perche’ ti senti in colpa? - mi chiese. - Cos'e’ che ti rode l'anima? Chi e’ che ti ha fatto sospettare di te stesso?» «Sospettare che un libro che si e’ disegnato felicemente per mesi attacchi le cose sacre in cui si crede e’ come vivere le torture dell'inferno. Se solo potessi vedere quel disegno completo». «E' questo il tuo problema? Sei venuto qui per questo?» All'improvviso mi agitai. Avrebbe potuto pensare qualcosa di orribile, che ero stato io a uccidere il povero Raffinato Effendi? «Coloro che vogliono deporre dal trono il Nostro Sultano e far salire al suo posto il principe ereditario contribuiscono a queste calunnie e spargono la voce che il Nostro Sultano sostenga segretamente questo libro», dissi. «Quanti gli danno retta? - chiese con aria stanca e annoiata. - Un predicatore ambizioso che attira l'interesse della gente, comincia a dire che la religione e’ in pericolo. la fonte piu’ sicura di guadagno». Chissa’, forse pensava che fossi venuto solo per riferirgli queste dicerie? «Povero Raffinato Effendi buonanima, - dissi con voce tremante. - Sembra che siamo stati noi a ucciderlo perche’ ha visto quest'ultimo disegno completo e ha pensato che fosse una bestemmia contro la nostra religione. Me l'ha detto un capitano dei gendarmi del laboratorio di miniatura con cui ho una certa confidenza. Sapete come sono, apprendisti o maestri, spettegolano tutti». Seguendo questa logica e agitandomi sempre di piu’, continuai a parlargli. Non so quanto di quel che raccontavo l'avevo sentito o solo immaginato per paura, dopo aver ammazzato quel vile calunniatore, o lo immaginavo in quel momento, mentre raccontavo. Dopo aver parlato cosi’ tanto, credevo che Zio Effendi mi facesse vedere quell'ultimo disegno di due pagine per rincuorarmi. Perche’ non riusciva a capire che solo cosi’ potevo liberarmi dalla paura di essere sprofondato nel peccato? Nel tentativo di scuoterlo, mi feci coraggio e gli chiesi: «Si puo’ fare un disegno contro la religione anche senza rendersene conto?» Invece di rispondere, mi fece un gesto molto elegante con la mano, come se ci fosse un bambino che dormiva nella stanza e mi volesse avvertire, e io rimasi in silenzio. «Si e’ fatto molto buio, - bisbiglio’, - accendiamo la candela». Quando accese la candela, non mi piacque vedere sul suo viso un'espressione di orgoglio a cui non ero per niente abituato. O era forse compassione? Aveva capito tutto e pensava che fossi io il vigliacco assassino, o aveva forse paura di me? Ricordo che all'improvviso persi il controllo dei miei pensieri e cominciai a seguirli, stupito, come se fossero quelli di un altro. Sul tappeto per terra c'era qualcosa in un angolo, sembrava una figura di lupo, come mai non me n'ero accorto prima? «La passione di tutti i khan, gli scia’ e i sultani che hanno amato la pittura, la miniatura e i bei libri vive tre stagioni, disse Zio Effendi. - All'inizio sono coraggiosi, socievoli e curiosi. Vogliono il disegno perche’ attira gli sguardi degli altri e perche’ fa guadagnare rispetto. In questa stagione imparano, nella seconda stagione fanno fare i libri che vogliono per il proprio piacere. Una volta imparato a provare piacere sincero guardando i disegni, godono della stima di tutti e inoltre, dopo la morte, lasciano dei libri in questo mondo come eredita’. Nell'autunno della loro vita, invece, nessun sultano si interessa piu’ di una immortalita’ che rimarrebbe in questo mondo. Io comprendo l'immortalita’ in questo mondo e il fatto di essere ricordato da altre generazioni, dai nostri nipoti che vivranno. I sovrani amanti della miniatura hanno gia’ ottenuto un'immortalita’ in questo mondo con i libri che ci hanno commissionato, in cui ci hanno chiesto di inserire i loro nomi e, a volte, di scrivere la loro storia. Quando diventano vecchi, vogliono conquistarsi un buon posto nell'aldila’. E sentenziano che il disegno costituisce un ostacolo. Questo e’ quel che piu’ mi rattrista e mi fa paura. Scia’ Tahmasp, che era un maestro miniaturista, trascorse la giovinezza nel suo laboratorio ma, avvicinandosi alla morte, chiuse il suo meraviglioso laboratorio, allontano’ i suoi meravigliosi miniaturisti da Tabriz, distribuí i libri che aveva fatto fare e cadde in una crisi di pentimento. Perche’ tutti pensano che il disegno chiudera’ loro le porte del Paradiso?» «Sapete perche’? Perche’ ricordano che il nostro Profeta Maometto ha detto che nel giorno del giudizio i pittori verranno puniti da Allah nel modo piu’ duro». «Non i pittori, - disse Zio Effendi. - Ma gli artisti, coloro che, come Allah, cercheranno di dare forma alle creature. E un hadit tramandato da Al Bukhari». «Il giorno del giudizio si chiedera’ all'artista di animare le forme che ha creato, - dissi con attenzione. - Ma non potendo animarle, verra’ punito con le pene dell'inferno. Non dimentichiamo, non dimentichiamo che «artista» nel Corano e’ un attributo di Allah. Nessuno deve tentare di competere con lui. Che i pittori tentino di fare quello che fa Lui e affermino di essere dei creatori come Lui e’ il piu’ grande dei peccati». Gli avevo detto queste cose in modo duro, come se anch'io gliene facessi una colpa. Mi guardo’ negli occhi. «Secondo te e’ questo che abbiamo fatto noi?» «Assolutamente no, - risposi sorridendo. - Ma dicono che il defunto Raffinato Effendi, quando ha visto tutto dell'ultimo disegno, abbia cominciato a pensarlo. Pare che dicesse che disegnare secondo la scienza della prospettiva, avvalersi dei metodi dei maestri europei, siano perversioni diaboliche. Nell'ultimo disegno, dicono che abbiamo disegnato il volto di un mortale usando i metodi europei in sodo da creare l'impressione, in coloro che guardano, che fosse un volto vero e non un disegno, e questo puo’ far venire voglia di venerare il disegno cose accade nelle chiese. Diceva che la prospettiva era una perversione diabolica perche’ portava il disegno dallo sguardo di Allah a quello di un cane per strada, e poi l'utilizzo dei metodi dei maestri europei e il confronto tra la nostra sapienza, le nostre abilita’ e le abilita’ e i metodi degli infedeli, ci avrebbe privato della purezza e ci avrebbe resi loro schiavi».
«Non c'e’ nulla di puro, - disse Zio Effendi. - Ogni volta che nella miniatura o nel disegno si creano meraviglie, ogni volta che in un laboratorio viene prodotta una qualche bellezza che fa venire le lacrime agli occhi e i brividi, so che li’ si sono avvicinate due cose diverse che unendosi hanno creato una nuova meraviglia. Abbiamo Behzat e la bellezza di tutto il disegno persiano grazie alla commistione del disegno arabo con quello mongolo-cinese. I piu’ bei disegni di Scia’ Tahmasp hanno legato lo stile persiano alla sensibilita’ turkmena. Se oggi tutti parlano del laboratorio di miniatura di Ekber Khan in India, e’ perche’ ha stimolato i suoi miniaturisti ad adottare i metodi dei maestri europei. Ad Allah appartengono l'Oriente e l'Occidente. Allah ci protegga dai desideri di colui che e’ puro e non si e’ mescolato». Alla luce della candela, il suo viso sembrava dolce e luminoso, sa la sua ombra riflessa sul muro era buia e spaventosa. Anche se trovavo razionale e giusto il suo discorso, non riuscivo a credergli. Pensando che sospettasse di se anch'io sospettavo di lui, e intuivo che ogni tanto sperava di sentire la porta del cortile e aspettava qualcuno che lo salvasse da se. «Mi hai raccontato che, per il rimorso, Maestro Muhammed di Isfahan diede fuoco a se’ e alla gigantesca biblioteca perche’ conteneva i disegni che aveva ripudiato, - disse. - E io ti raccontero’ un altro aneddoto di quella leggenda, che tu non conosci. Si’, quel miniaturista passo’ gli ultimi trent'anni di vita a cercare i suoi disegni. Ma sfogliando le pagine dei libri vide che i disegni fatti a imitazione dei suoi erano piu’ numerosi. Negli anni successivi, invece, vide che due generazioni di pittori si erano appropriate della forma dei disegni che lui aveva ripudiato, li avevano incisi nelle loro senti, e oltre a impararli a memoria, li avevano resi parte della loro anima. Mentre Maestro Muhammed cercava di trovarli ed eliminarli, capi che i giovani miniaturisti, ammirati, li avevano moltiplicati nei libri, se n'erano serviti per disegnare altre storie, li avevano incisi nella memoria di tutti, li avevano sparsi per tutto il mondo. Quando, nel corso degli anni, guardiamo un libro e poi un altro, un disegno e poi un altro, capiamo che, con le sue meraviglie, un bravo pittore rimane nella nostra mentre e alla fine cambia anche il panorama della nostra memoria. Una volta che il talento, e i disegni di un miniaturista penetrano nella nostra anima, diventano per noi un criterio di bellezza del mondo intero. L'artista di Isfahan non solo fu testimone dell'aumento dei suoi disegni pur bruciandoli ed eliminandoli con le proprie mani, sa capi anche che tutti vedevano il mondo come lo vedeva lui una volta e i disegni diversi da quelli che aveva fatto durante la sua giovinezza venivano ormai considerati brutti». Non riuscii a frenare l'ammirazione e la voglia di compiacere Zio Effendi e si gettai ai suoi piedi. Mentre gli baciavo le mani, gli occhi si si riempirono di lacrime e sentii che, nella sia anima, stava, prendendo il posto di Maestro Ossami. «Il miniaturista, - disse Zio Effendi con atteggiamento cospiaciuto, - disegna ascoltando la propria coscienza e seguendo le regole in cui crede, senza temere nulla. Non si preoccupa di quel che potranno dire i suoi nemici, i bigotti e gli invidiosi». Ma Zio Effendi non e’ neanche un miniaturista, pensai mentre, con 1-e lacrime agli occhi, gli baciavo la mano coperta di nei e macchie. E si vergognai subito di questo mio pensiero. Cose se qualcun altro si avesse ficcato a forza quest'idea diabolica e insolente nella testa. Ma, ad ogni sodo, anche voi sapete che il mio pensiero era giusto. «Non li temo, - disse Zio Effendi. - Perche’ non temo la morte». Ma loro chi? Annuii come se avessi capito il suo discorso. Ma dentro di me montava la rabbia. Vidi che il vecchio volume che aveva li’ accanto era il Libro delle anime di El-Cevziyye. Ai rimbambiti desiderosi di morire piace molto questo libro che racconta le avventure che accadranno all'anima dopo la morte. Tra portapenne, tempere, temperini, calamai, scatole e vassoi, sullo scrittoio e sulla cassapanca, vidi un unico oggetto nuovo: un calamaio di bronzo. «Dimostriamo di non avere paura di loro, - dissi facendomi coraggio. - Tirate fuori l'ultimo disegno e facciamoglielo vedere». «Ma questo non dimostrerebbe che diamo retta alle loro calunnie, che le prendiamo sul serio? Non abbiamo fatto niente, e non abbiamo nulla di cui avere paura. Cos'altro c'e’ che giustificherebbe questa tua paura?» Mi accarezzo’ i capelli come un padre. Ebbi paura di scoppiare di nuovo in lacrime e lo abbracciai. «So perche’ e’ stato ucciso il povero doratore Raffinato Effendi, - dissi agitato. - Raffinato Effendi calunniando voi, il vostro libro, noi, ci avrebbe mandato addosso gli uomini di Maestro Nusret di Erzurum. Aveva stabilito che qui si facevano cose contro la religione, si adorava Satana, e aveva cominciato a dirlo a destra e a sinistra e a istigare contro di voi gli altri miniaturisti che lavorano al libro. Non so perche’ l'abbia fatto cosi’ all'improvviso. Forse per gelosia, forse ha dato retta a Satana. Anche gli altri miniaturisti che lavorano al vostro libro hanno saputo che Raffinato Effendi era deciso a rovinarci. Potete immaginare che tutti hanno timori e sospetti, proprio come me. Uno di loro, una notte si e’ agitato perche’ Raffinato Effendi l'ha preso da parte e l'ha istigato contro di voi, di noi, il nostro libro, la miniatura, il disegno, contro ogni cosa in cui crediamo e ha ucciso quel vigliacco e l'ha gettato nel pozzo». «Vigliacco?» «Raffinato Effendi aveva un carattere debole, era un infido di ignobili origini, - dissi. - Vile!», urlai come se ci fosse lui nella stanza. Rimanemmo in silenzio. Aveva paura di me? Io avevo paura di me. Era come farsi trascinare dall'ambizione e dalla mente di un altro, ma era bello. «Chi e’ questo miniaturista che si e’ fatto prendere dall'agitazione come te e come il miniaturista di Isfahan? Chi l'ha ucciso?» «Non lo so», dissi. Ma volli anche che dalla mia espressione capisse che mentivo. Avevo sbagliato a venire qui, ma non volevo assolutamente farmi prendere da sensi di colpa e pentimenti. Vedevo che Zio Effendi sospettava di me e ci provavo gusto. Pensai velocemente, se capira’ che sono io l'assassino e avra’ paura di me, mi fara’ vedere l'ultimo disegno, ormai lo volevo vedere per curiosita’, non per capire se era contro la religione.
«importante sapere chi ha ucciso quell'infame? - domandai. - Chi l'ha eliminato non ha forse fatto un'opera buona?» Il fatto che non mi fissasse negli occhi mi diede coraggio. Le persone elevate, che credono di essere piu’ buone e oneste di te, quando si vergognano per te, non ti guardano negli occhi. Forse perche’ pensano di denunciarti e consegnarti al boia. Fuori davanti alla porta del cortile, i cani cominciarono ad abbaiare come impazziti. «Nevica di nuovo, - dissi. - Dove sono tutti a quest'ora della sera? Perche’ se ne sono andati e vi hanno lasciato solo? Non hanno acceso neanche una candela». «E' molto strano, molto. Non lo capisco assolutamente». Era talmente sincero che gli credetti, e sentii ancora una volta, nel profondo, che in realta’ gli volevo bene, anche se insieme agli altri miniaturisti lo prendevamo in giro. Non capii come fece a sentire che per un attimo avevo avuto nel cuore grande rispetto e amore nei suoi confronti e mi accarezzo’ di nuovo i capelli con quell'irresistibile affetto paterno. Sentii che la miniatura di Maestro Osman, ispirata agli antichi maestri di Herat, non aveva futuro. Era un pensiero talmente orribile che ebbi paura di me stesso. Dopo una disgrazia capita a tutti di supplicare, con un'ultima speranza, che le cose continuino come prima, senza preoccuparsi di essere ridicoli e stupidi: «Continuiamo a disegnare il nostro nuovo libro, - dissi. - Che tutto sia come prima». «Tra i miniaturisti c'e’ un criminale. Continuero’ il libro con Nero Effendi». Mi stava forse istigando a ucciderlo? «Dov'e’ adesso Nero? - chiesi. - Dov'e’ vostra figlia, e i bambini?» Sentivo che era un'altra forza a mettermi in bocca queste parole, ma non riuscivo a trattenermi. Ormai non avevo piu’ altre vie per essere felice e sperare. Potevo essere solo intelligente e beffardo, e dietro questi due simpatici ginn sempre divertenti, l'intelligenza e la beffa, la presenza di Satana li comandava e mi si avvicinava. Nello stesso momento, gli sfortunati cani fuori dalla porta del cortile, ripresero ad abbaiare come pazzi, come se avessero annusato l'odore del sangue. Avevo gia’ vissuto questo momento? In una citta’ molto lontana, in un'epoca che adesso mi sembrava molto lontana, mentre fuori nevicava, avevo cercato di spiegare, piangendo, alla luce di candela, a un vecchio rimbambito che mi aveva accusato di aver rubato dei colori di non avere colpa. Anche allora, proprio come adesso, i cani accanto alla porta del cortile avevano cominciato a ululare come se avessero sentito odore di sangue. Zio Effendi aveva intenzione di schiacciarmi, lo capivo dal suo mento maestoso simile a quello di quel vegliardo malvagio e rugoso, e dagli occhi con cui adesso, finalmente, mi fissava spietato. Vivevo questo momento come un ricordo certo e nebuloso, come quel brutto ricordo dei tempi del mio apprendistato di quando avevo dieci anni, che riuscivo a immaginare nella mia testa come un disegno a righe evidenti ma a colori pallidi. Il laborioso miniaturista che era nella mia mente - il capo miniaturista Maestro Osman ci ha insegnato che esiste - mi disegnava mentre mi alzavo in piedi, passavo dietro Zio Effendi, prendevo quel nuovo calamaio di bronzo, enorme e pesante che stava sullo scrittoio tra i soliti calamai, alcuni di vetro, altri di porcellana, altri di cristallo di rocca, colori decisi e colori vaghi, come se le cose che facevo e vedevo in quel momento non appartenessero a quel momento, ma fossero un ricordo molto lontano. Come accade nei sogni, ci vediamo da fuori e rabbrividiamo. Con lo stesso brivido e il grande calamaio di bronzo in mano, gli dissi: «Ai tempi del mio apprendistato, quando avevo dieci anni, ho visto un calamaio del genere». «Quello e’ un calamaio mongolo vecchio di trecento anni, - disse Zio Effendi. - Me l'ha portato Nero da Tabriz. Si usa solo per il rosso». In quel momento, colui che mi istigava perche’ lo tirassi, con tutta la mia forza, sul cervello di quel rimbambito, era certamente Satana. Non gli diedi retta. E con stupida speranza gli annunciai: «Ho ucciso io Raffinato Effendi». Capite perche’ lo dissi con speranza, no? Speravo che Zio Effendi mi capisse e mi perdonasse. Inoltre, avrebbe avuto paura di me e mi avrebbe aiutato.
Capitolo ventinovesimo. Io sono vostro zio Quando mi disse di avere ucciso Raffinato Effendi, nella stanza piombo’ un pesante silenzio. Pensai che avrebbe ucciso anche me. Il cuore mi batte’ forte, a lungo. Era venuto qui per uccidermi, per calunniarmi, o per spaventarmi? Sapeva cosa voleva? Quando mi resi conto di non conoscere affatto il cuore di questo meraviglioso miniaturista di cui, da anni, conoscevo il talento e le capacita’ inventive ebbi veramente paura. Sentivo che era in piedi dietro di me, attaccato alla mia nuca, e aveva ancora in mano quell'enorme calamaio per l'inchiostro rosso, ma non riuscii a voltarmi e a guardarlo in faccia. Immaginavo che il silenzio l'avrebbe innervosito, cosi’ dissi: «I cani non si sono ancora placati». Ancora silenzio. E io capii che la mia morte o la mia salvezza da questa sventura dipendevano da me e da cosa gli avrei detto. Oltre alle miniature e ai disegni, l'unica cosa che conoscevo di lui era l'intelligenza. E questa e’ una cosa di cui andare orgogliosi, se credete che, nella sua opera, il miniaturista non debba assolutamente svelare se stesso e la sua anima. Ma come aveva fatto a braccarmi in questa casa completamente vuota? Il mio vecchio
cervello pensava velocemente, ma, allo stesso tempo, era anche confuso dall'idea di non poter uscire da questo gioco. Dov'era seküre? «Avevi capito che l'avevo ucciso io, vero?», mi chiese. Non l'avevo capito. Anzi, non l'avevo capito finche’ non me l'aveva detto. E poi, adesso, parte della mia mente pensava che aveva fatto bene a uccidere Raffinato Effendi, forse la buonanima del maestro doratore, facendosi prendere pian piano dalla paura, ci avrebbe veramente portati alla rovina. Cosi’, dentro di me nacque un vago sentimento di gratitudine nei confronti dell'assassino con il quale ero rimasto solo nella casa completamente vuota. «Non mi meraviglio che tu l'abbia ucciso, - dissi. - Gente come noi, che vive con i libri, che di notte sogna pagine, in questo mondo ha sempre paura di qualcosa. E poi, noi ci occupiamo di una cosa ancor piu’ proibita, ancor piu’ pericolosa, ci occupiamo del disegno in una citta’ musulmana. In ogni miniaturista c'e’ una forte pulsione a sentirsi in colpa, proprio come Maestro Muhammed di Isfahan, pentirsi, colpevolizzare se stessi prima di chiunque altro, rammaricarsi e chiedere perdono ad Allah e alla comunita’ dei credenti. Prepariamo i nostri libri di nascosto, come i peccatori, spesso come se dovessimo scusarci di qualcosa. So bene che cedere anticipatamente agli attacchi di predicatori, cadi’ e dervisci che ci accuseranno di empieta’, e questo eterno senso di colpa, uccidono e alimentano allo stesso tempo la fantasia del miniaturista». «Cioe’ non mi biasimi per aver fatto fuori quello stupido di Raffinato Effendi». «Quel che ci attrae nella scrittura, nella miniatura, nel disegno e’ proprio in quella paura. Il motivo per cui ci dedichiamo al disegno e ai libri dalla mattina alla sera, inginocchiati a lavorare a lume di candela fino a diventare ciechi, non sono solo il denaro e la benevolenza, ma anche la fuga dal brusio della gente e della comunita’ dei credenti. Come ricompensa per la nostra passione, vogliamo che le persone da cui fuggiamo e ci nascondiamo vedano e apprezzino il disegno che, ispirati, abbiamo fatto. Ma se ci chiamano atei! Quali dolori per un artista di talento! Il vero disegno si nasconde nel mai visto, nel mai fatto. Nel disegno che, in un primo momento, tutti definirebbero brutto, malfatto, empio. Il vero miniaturista sa che deve andare li’, anche se ha paura della solitudine. Ma chi puo’ tollerare per tutta l'esistenza questa vita pericolosa e snervante? Il miniaturista crede di liberarsi delle paure sofferte per anni colpevolizzando in primo luogo se stesso. Gli credono solo quando confessa la propria colpa e lo mandano al rogo. Il miniaturista di Isfahan l'ha fatto da solo». «Tu non sei un miniaturista, - disse, - e io non l'ho ucciso perche’ avevo paura». «L'hai ucciso perche’ volevi disegnare come volevi, senza paure!» Per la prima volta, dopo molto tempo, colui che voleva essere il mio assassino disse una cosa molto intelligente: «So bene che parli cosi’ per distrarmi, per convincermi, per sfuggire a questa situazione, - e aggiunse: - ma l'ultima cosa che hai detto e’ giusta. Voglio che tu capisca. Ascoltami». Mi voltai e lo guardai negli occhi. Il fatto che avesse abbandonato completamente le buone maniere che c'erano tra di noi dimostrava che si era lasciato andare. Ma dove? «Non ti mancherei di rispetto, non ti preoccupare», disse. Mentre mi passava davanti scoppio’ in una risata, una risata che aveva un suono drammatico. «Come adesso, - disse. - Faccio una cosa, ma e’ come se non fossi io. Come se ci fosse qualcosa dentro di me che si agita, tutta la cattiveria che mi muove. Ma ne ho molto bisogno. Anche per disegnare». «Questi sono pettegolezzi su Satana inventati da vecchie comari». «Starei dunque mentendo?» Sentii che non aveva abbastanza coraggio per uccidermi e voleva quindi che lo facessi arrabbiare. «No, non menti. Ma non riesci a riconoscere quello che provi». «No, conosco bene quello che provo. Soffriro’ le pene dell'inferno ancor prima di morire. Per colpa tua, siamo sprofondati nel peccato fino al collo, e senza rendercene conto. E ora tu mi vieni a dire di essere piu’ coraggioso. Sono diventato un assassino per colpa tua. I cani rabbiosi di Maestro Nusret ci uccideranno tutti». Non era affatto sicuro di se’, urlava sempre piu’ forte e brandiva il calamaio con molta piu’ rabbia. Chissa’ se qualcuno udendo le sue urla sarebbe accorso. «Come l'hai ucciso? - chiesi, piu’ per guadagnare tempo che per curiosita’. - Com'e’ che vi siete incontrati al pozzo?» «La sera che e’ uscito da casa tua, Raffinato Effendi e’ venuto a cercarmi, - disse con una voglia inattesa di raccontare. Mi ha detto di aver visto quell'ultimo disegno di due pagine. Ho veramente cercato di convincerlo a non fare troppo clamore. Abbiamo camminato fino a quelle rovine, gli ho detto che c'erano dei soldi sepolti vicino al pozzo. Quando ha sentito parlare di soldi mi ha creduto. la dimostrazione che un miniaturista lavora per denaro. per questo che non sono triste, era un miniaturista di talento, ma era uno qualunque. Era pronto a scavare la terra ghiacciata con le proprie unghie. Se avessi veramente avuto dell'oro sepolto accanto al pozzo, non ci sarebbe stato bisogno di ucciderlo. Hai scelto un vile per le tue dorature. La buonanima aveva la mano felice, ma le dorature che faceva, la scelta e l'uso dei colori erano banali. Non ho lasciato nessuna traccia. Che cos'e’ veramente lo stile, dimmi? Adesso sia gli europei sia i cinesi parlano del carattere e del talento del pittore, e lo chiamano «stile». Un bravo miniaturista dovrebbe avere uno stile che lo distingua dagli altri o no?» «Un nuovo stile non nasce per desiderio del miniaturista, non ti preoccupare, - dissi. - Muore un principe, uno scia’ perde la guerra, un'epoca che sembrava interminabile si conclude, un laboratorio viene chiuso e i suoi miniaturisti cercano altre patrie, altri protettori amanti dei libri. Un giorno, un sultano accoglie con affetto nel suo padiglione o nel suo Palazzo questi miniaturisti e questi calligrafi, confusi ma pieni di talento, ormai senza casa ne’ patria, che vengono da luoghi diversi, diciamo da Herat o da Aleppo; egli, con cura, fonda cosi’ il suo laboratorio. I miniaturisti non si adattano a stare insieme, i primi tempi disegnano ognuno con i propri vecchi metodi, poi, come i bambini che prendono
confidenza giocando insieme per strada, cominciano ad assomigliarsi, si scontrano e regolano i loro conti. Il risultato, dopo anni di litigi, gelosie, complotti e lavoro sui colori e sulla miniatura e’ un nuovo stile. In genere, a creare questo stile e’ il miniaturista piu’ brillante, il piu’ dotato del laboratorio. Possiamo chiamarlo anche il piu’ fortunato. Agli altri non rimane che imitare e perfezionare, anzi affinare all'infinito questo stile». Senza guardarmi negli occhi, implorandomi di essere onesto e buono e tremando quasi come una ragazzina, mi chiese con un'aria dolcissima e che assolutamente non mi aspettavo: «Io ho uno stile?» Per un attimo temetti di scoppiare in lacrime. Gli parlai volentieri, cercando con tutta la mia forza di essere dolce, affettuoso e buono: «Tu sei il miniaturista piu’ dotato, il piu’ miracoloso, quello con la mano piu’ magica, con l'occhio piu’ fine che abbia mai visto nei miei sessant'anni di vita. Anche se avessi davanti a me un disegno cui avessero partecipato con la loro penna mille pittori, riuscirei a indovinare e riconoscere subito il tocco della meravigliosa penna che Allah ti ha donato». «Anch'io la penso cosi’, ma tu non sei abbastanza intelligente da comprendere il segreto del mio talento, - disse. Adesso, dato che hai paura di me, menti. Parla comunque del mio stile». «Sembra quasi che la tua penna trovi da sola il tratto giusto, senza bisogno di essere toccata. Quello che la tua penna mostra non e’ ne’ corretto ne’ comico! Quando disegni una folla, la tensione che emerge dallo sguardo delle persone, dalla composizione della pagina, dal significato del testo, nel tuo disegno si trasforma in un infinito e raffinato bisbigliare. Io guardo e riguardo i tuoi disegni per ascoltare quel bisbiglio, e ogni volta mi accorgo sorridendo che il loro significato cambia e, come posso dire, provo a rileggere il disegno come fosse un testo scritto. Cosi’, quando questi livelli di significato si sommano uno all'altro, ne viene fuori una profondita’ che supera perfino la prospettiva dei maestri europei». «Hmmm. Bene. Lascia perdere i maestri europei. Dimmelo di nuovo». «La tua penna e’ davvero cosi’ meravigliosa e cosi’ forte che chi guarda il tuo disegno non crede alla realta’ ma a cio’ che hai disegnato. Con il tuo talento, potresti corrompere una persona di provata fede, cosi’ come condurre sulla via di Allah il piu’ incorreggibile degli infedeli». «E' vero, ma non so se sia un complimento. Dillo di nuovo». «Nessun altro miniaturista conosce come te la giusta consistenza, i segreti del colore. Sei sempre tu a preparare i colori piu’ lucidi, piu’ vivi, piu’ veri». «Va bene. Altro?» «Tu sai di essere il piu’ grande miniaturista dopo Behzat e Mir Seyyid Ali». «vero, lo so.. Se lo sai anche tu, perche’ non fai il tuo libro con me, ma con Nero Effendi, un modello di mediocrita’?» «Il suo lavoro non richiede l'abilita’ di un miniaturista, - dissi. - Questo e’ un motivo. Il secondo e’ che non e’ un assassino come te». Mi sorrise dolcemente, perche’ anch'io gli avevo sorriso con franchezza. Intuivo che con questo atteggiamento e questo stile mi sarei liberato di quest'incubo. Cosi’, avviai il discorso e cominciammo a conversare piacevolmente sul calamaio mongolo di bronzo che teneva in mano, non come padre e figlio, ma come due uomini anziani, curiosi e con una lunga esperienza alle spalle. Il peso del bronzo, l'equilibrio del calamaio, la profondita’ del collo, la lunghezza delle vecchie canne dei calligrafi e i segreti dell'inchiostro rosso di cui sentiva la consistenza muovendo lentamente il calamaio in piedi davanti a me... Parlammo del fatto che, se i mongoli non avessero importato i segreti del rosso appresi dai maestri cinesi nel Khorasan, a Bukhara, a Herat, noi, a Istanbul, non avremmo mai potuto fare questi disegni. Parlando, la consistenza del tempo cambiava, come quella del colore, cambiava e il tempo passava. Parte della mia mente continuava a meravigliarsi che in casa non ci fosse ancora nessuno, e io pregavo che lui mettesse a posto il pesante calamaio. «Quando il libro sara’ terminato, coloro che vedranno i disegni comprenderanno il mio talento? - chiese con la disinvoltura delle nostre vecchie abitudini di lavoro». «Se Allah lo vuole, se un giorno finiremo, il Nostro Sultano prendera’ in mano e dara’ un'occhiata a questo libro, certo, prima controllera’, con la coda dell'occhio, se l'oro e’ stato usato correttamente, contemplera’ il suo ritratto come se leggesse la dettagliata descrizione di un individuo, non ammirera’ il nostro meraviglioso disegno ma se stesso disegnato, come fanno tutti i sultani, e poi ci fara’ un grande favore se vorra’ perdere del tempo a guardare le meraviglie che disegniamo, ispirati dall'Oriente e dall'Occidente, con tanta fatica, tanto sforzo degli occhi e tanta passione! Anche tu sai che, se non accade un miracolo, non chiedera’ assolutamente chi abbia fatto la tale cornice, chi la doratura, chi il disegno di quest'uomo e chi di questo cavallo e chiudera’ a chiave il libro nel suo Tesoro. Ma noi, come tutti coloro che hanno talento, continuiamo a disegnare, pensando sempre che un giorno avverra’ quel miracolo. Rimanemmo un po' in paziente silenzio». «Quando accadra’ quel miracolo? - domando’. - Quando verranno veramente compresi i disegni che facciamo fino a diventare ciechi? Quando ci concederanno l'amore che merito, che meritiamo?» «Mai!» «Come?» «Non ti daranno mai quello che vuoi, - risposi. - In futuro sarai sempre meno compreso». «I libri rimangono nei secoli», disse con aria orgogliosa, ma non del tutto sicuro di se’. «Nessun maestro veneziano possiede la tua poesia, la tua fede, la tua sensibilita’, la purezza e la brillantezza dei tuoi colori, credimi. Ma i loro disegni sono piu’ convincenti, somigliano di piu’ alla vita. Non disegnano come se vedessero
il mondo dal balcone di un minareto e senza badare alla prospettiva, come la chiamano loro, disegnano guardando dalla strada, o dalla stanza del principe, tutto insieme, il letto e la trapunta, il tavolo, lo specchio, la tigre, sua figlia e il denaro; disegnano tutto, lo sai. Io non credo del tutto a quello che fanno, che il loro disegno tenti direttamente di imitare il mondo mi sembra un'inezia, mi offende. Ma i disegni fatti con questi metodi hanno un tale fascino! Disegnano tutto quello che l'occhio vede, come l'occhio lo vede. Loro disegnano quello che vedono, noi invece disegniamo quello che guardiamo. Non appena vedi i loro disegni, capisci, con i metodi europei, che e’ possibile far durare il tuo volto fino alla fine del mondo. Il fascino di una cosa del genere e’ talmente forte che non sono solo i sarti, i macellai, i soldati, i preti, i droghieri di Venezia a farsi ritrarre, ma quelli di tutti i paesi europei. Perche’ una volta che vedi quei disegni, anche tu vuoi vederti cosi’ e credere di essere una creatura completamente diversa dagli altri, unica, speciale, con le tue peculiarita’. I nuovi metodi permettono di disegnare l'uomo non come lo vede la mente, ma come lo vede l'occhio. In futuro, un giorno tutti disegneranno cosi’. Quando si parlera’ di disegno, tutto il mondo capira’ quello che hanno fatto! Anche un povero stupido sarto che non capisce nulla di miniatura, vorra’ farsi fare il ritratto per credere, guardandosi la curva del naso, di non essere uno stupido qualsiasi, ma una personalita’ speciale e unica». «Eh, allora faremo quei disegni», disse lo spiritoso assassino. «Non li faremo! - dissi. - Non hai imparato dal defunto Raffinato Effendi che tu hai ucciso, quanto tutti abbiano paura di imitare gli europei? Anche se non avessero paura e ci provassero e’ la stessa cosa. Alla fine i nostri metodi moriranno, i nostri colori sbiadiranno. Nessuno si interessera’ ai nostri libri, ai nostri disegni. E quelli che se ne interesseranno, non capiranno niente e arricciando il naso diranno che manca la prospettiva, oppure non troveranno i libri. Perche’ la mancanza di interesse, il tempo e le disgrazie pian piano elimineranno i nostri disegni. Nella colla araba ci sono pesce, ossa e miele, nei volumi le pagine sono lucidate con bianco d'uovo e amido, e i topi insaziabili e sfrontati le ingoieranno; tarli, vermi e insetti di mille e una specie le roderanno - cric cric - ed elimineranno i nostri libri. I volumi si strapperanno, le pagine si staccheranno; i ladri, la servitu’ disinteressata, i bambini, le donne che accendono i focolari, strapperanno sconsideratamente pagine e disegni. I principi bambini per gioco rovineranno i disegni con la penna, caveranno gli occhi ai personaggi, si puliranno il moccio sulle pagine, coloreranno i bordi di nero con la penna; coloro che continuano a ripetere che i nostri disegni rappresentano il peccato, scarabocchieranno dappertutto, li strapperanno, li taglieranno e li useranno, forse, per farne altri disegni o per giocare e divertirsi. Mentre le madri, ritenendole indecenti, strapperanno le figure di donne, padri e fratelli ci si masturberanno sopra, e per questo motivo, cosi’ come per l'umidita’, il fango, la colla di cattiva qualita’, la saliva e ogni tipo di cibo e sporcizia, le pagine si appiccicheranno tra loro. Nei punti appiccicati, fioriranno come ascessi macchie di muffa e di sporcizia. Poi le piogge, i tetti che perdono, le alluvioni, il fango rovineranno i nostri libri. Anche l'ultimo libro ancora intonso uscito fuori come per miracolo dal fondo asciuttissimo di una cassa miracolosa, insieme ad altre pagine stracciate, bucherellate, ingiallite, illeggibili, ridotte in pappa dall'acqua, dall'umidita’, dagli insetti e dal disinteresse, un giorno, di certo, scomparira’ inghiottito dalle fiamme di un incendio spietato. A Istanbul esiste forse un quartiere che non scompaia ogni vent'anni a causa degli incendi? Allora come fanno i libri a esistere? In questa citta’, dove ogni tre anni scompaiono piu’ libri e biblioteche di quanti non ne siano scomparsi a Baghdad a causa degli incendi e dei saccheggi mongoli, quale miniaturista puo’ immaginare di far vivere i propri capolavori per piu’ di cent'anni ed essere ricordato, come Behzat, per i suoi disegni? Non solo quello che abbiamo fatto noi, ma tutto quello che da secoli e’ stato realizzato in questo mondo, scomparira’ per gli incendi, i tarli, il disinteresse. Cosi’, sirin che dalla finestra guarda orgogliosa Cosroe, e Cosroe che guarda - che bello - sirin mentre si bagna alla luce della luna; l'amoroso e raffinato gioco di sguardi di tutti gli innamorati; Rüstem che, dopo una lotta violenta, uccide Satana in fondo al pozzo; la tristezza di Mejnun pazzo d'amore quando, nel deserto, fa amicizia con la tigre bianca e la capra selvatica; la cattura e l'impiccagione del cane da pastore traditore che regalo’ alla lupa con cui si accoppiava ogni notte una pecora del gregge che custodiva; tutte quelle decorazioni della cornice fatte con fiori, angeli, rami con foglie, uccelli e lacrime; i suonatori di liuto disegnati per decorare le misteriose poesie di Hafiz; le decorazioni murali che rovinano gli occhi di migliaia, decine di migliaia di apprendisti e rendono ciechi i maestri; i distici nascosti sopra le porte, sulle piccole lastre appese ai muri, dentro le cornici concentriche del disegno; le timide firme nascoste in fondo ai muri, negli angoli, sui frontoni, sotto i piedi, sotto i cespugli, tra le rocce; i fiori che ornano le trapunte che coprono gli innamorati; le teste mozzate degli infedeli che aspettano pazientemente in un angolo durante l'attacco vittorioso della buonanima del nonno del Nostro Sultano alla fortezza nemica; i cannoni, i fucili, le tende che si vedono dietro la scena in cui l'ambasciatore degli infedeli bacia i piedi al bisnonno del Nostro Sultano, anche tu da giovane hai partecipato alla realizzazione di questo disegno; i diavoli con le corna e senza corna, con la coda e senza coda, con le zanne e gli artigli acuminati; le migliaia di uccelli di ogni specie, tra cui anche la saggia upupa, il passero saltellante, l'inesperto nibbio, l'usignolo poeta; i gatti quieti e i cani irrequieti, le nuvole frettolose; le graziose erbette ripetute in migliaia di disegni, le rocce ombreggiate in maniera impacciata e le decine di migliaia di cipressi, platani e melograni con le foglie disegnate una a una con la pazienza di Giobbe; i palazzi e le loro centinaia di migliaia di mattoni fatti sul modello dei palazzi dell'epoca di Tamerlano o di Scia’ Tahmasp ma che decorano storie di epoche molto piu’ antiche; le decine di migliaia di principi tristi seduti su un meraviglioso tappeto disteso sui prati e sotto alberi primaverili in fiore che ascoltano musica suonata da belle donne e bei ragazzi; quei meravigliosi disegni di ceramiche decorative e tappeti la cui perfezione si deve alle lacrime per le botte prese da migliaia di apprendisti negli ultimi centocinquant'anni, da Samarcanda a Istanbul; gli stupendi disegni di giardini e di nibbi che fai ancora con lo stesso entusiasmo, le tue incredibili scene di morte e guerra, i sultani che cacciano con raffinatezza e le gazzelle timorose che con altrettanta raffinatezza fuggono, gli scia’ che muoiono, i nemici ridotti in schiavitu’, i galeoni infedeli e le citta’ nemiche e quelle notti buie e brillanti che escono dalla tua penna, le stelle, i cipressi che sembrano fantasmi, l'amore e la morte che colori di rosso, tutti questi disegni, tutto scomparira’».
Mi diede il calamaio in testa con tutta la sua forza. Per la violenza del colpo barcollai in avanti. Provai un dolore terribile che non riuscirei a descrivere in nessun modo. Per un attimo, il mondo sembro’ impallidire avvolto dal mio dolore. Quasi tutta la mia mente aveva capito che quello che mi era stato fatto era volontario, ma la parte che non funzionava bene per il colpo, con triste buona volonta’ avrebbe voluto dire a quel folle che intendeva essere il mio assassino, ti sei sbagliato, mi hai fatto male. Mi colpi’ un'altra volta con il calamaio. Questa volta anche la parte stupida della mia mente capi’ che il colpo non era arrivato per sbaglio, era follia, rabbia, alla fine avrebbe potuto essere anche la morte. Ebbi talmente paura di questa situazione che cominciai a urlare come se ululassi con tutta la mia forza e la mia sofferenza. Se il mio grido venisse dipinto, sarebbe completamente verde. Ma capii che nel buio della sera e nelle strade vuote, nessuno avrebbe sentito questo colore. Ero completamente solo. Ebbe paura del mio urlo e si fermo’. Per un attimo ci guardammo negli occhi. Nelle sue pupille vidi che anche se provava paura e vergogna, si era rassegnato a quel che faceva. Sembrava non essere il maestro miniaturista che conoscevo, ma uno sconosciuto lontano e cattivo che non parlava la mia lingua. E questo prolungo’ di secoli la mia solitudine di quell'attimo. Cercai di prendergli la mano, come per abbracciare questo mondo; non servi’ a nulla. Lo supplicai, o mi parve di supplicarlo: figliolo, figliolo non mi uccidere. Come accade nei sogni, sembrava che non mi sentisse. Mi colpi’ ancora. La mia mente, quello che vedevo, i miei ricordi, i miei occhi erano diventati la mia paura e si erano mescolati tra loro. Non vedevo nessun colore, e avevo capito che tutti i colori erano il rosso. Quello che pensavo fosse il mio sangue era inchiostro rosso. E quello che lui aveva sulle mani e che pensavo fosse inchiostro era il mio sangue rosso che non si arrestava. In quel momento trovai la mia morte ingiusta, crudele e spietata. Ma il luogo dove la mia vecchia testa coperta di sangue mi conduceva lentamente era quello. Me ne resi conto dopo. I miei ricordi erano bianchi come la neve li’ fuori. La testa mi pulsava e mi faceva male. Adesso vi raccontero’ la mia morte. Forse l'avrete gia’ capito: la morte non e’ sicuramente la fine di tutto. Ma come scrivono tutti i libri, e’ anche incredibilmente dolorosa. Ho il cranio e il cervello fracassati, ma mi sento anche bruciato e scosso ovunque da fitte, parti del mio corpo penetrano l'una nell'altra. cosi’ difficile resistere a questo dolore infinito che un angolo della mia mente, come unica possibilita’, cerca di dimenticare e di cadere in un dolce sonno. Prima di morire, mi venne in mente una fiaba siriaca che avevo ascoltato da bambino. Un uomo anziano e solo, una notte si sveglia, si alza e beve un bicchiere d'acqua. Fa per metterlo sul tavolino e vede che la candela che era li’ non c'e’ piu’. Dov'e’? Vede filtrare una luce sottile come un filo. La segue e torna nella sua stanza, vede che nel letto c'e’ un'altra persona con la candela in mano. «Chi sei?», chiede. «La morte», dice lo sconosciuto. Per un attimo il vecchio rimane in un silenzio enigmatico. Poi dice: «Allora sei venuta». «Si’», risponde la morte, contenta. E il vecchio: «No, dice deciso, - tu sei il mio sogno rimasto a meta’. In un attimo spegne la candela che lo sconosciuto tiene in mano e nel buio tutto scompare. Il vecchio torna nel suo letto vuoto e si addormenta. Vive ancora altri vent'anni». Capivo che a me non sarebbe accaduto lo stesso. Perche’ mi aveva tirato il calamaio in testa un'altra volta. Il dolore era cosi’ intenso che ormai mi accorgevo solo vagamente dei colpi che mi dava. Lui, il calamaio, la stanza mal illuminata dalla candela, tutto era gia’ lontano e sbiadito. Ma ero ancora vivo, lo capivo dalla mia voglia di attaccarmi a questo mondo, di correre e fuggire, dai gesti delle mie mani e delle mie braccia per proteggermi la testa e il viso pieni di sangue, dal fatto di avergli morso il polso, a un certo punto, se non sbaglio, e da un colpo di calamaio in faccia. Forse abbiamo lottato un po', se si puo’ chiamare lotta. Era molto forte e molto arrabbiato. Mi stese a terra. Mi appoggio’ le ginocchia sulle spalle, quasi mi inchiodo’ a terra e, con un linguaggio molto irrispettoso, racconto’ qualcosa a quel vecchio morente che ero. Mi colpi’ di nuovo con il calamaio in testa, forse perche’ non riuscivo a capirlo, ad ascoltarlo, o perche’ non mi piaceva contemplare i suoi occhi iniettati di sangue. Per l'inchiostro che zampillo’ dal calamaio e, penso, per il sangue che zampillo’ da me, il suo volto e il suo corpo si coprirono completamente d i rosso. Era triste vedere come ultima cosa al mondo quest'uomo che mi era nemico, e cosi’ chiusi gli occhi. Subito dopo vidi una luce dolce e morbida. Era dolce e attraente come il sanno che speravo placasse i miei dolori. Dentro la luce vidi qualcuno e, come un bambino, chiesi: «Chi sei?» «Sono Asraele, l'Angelo della Morte. Sono io che pongo fine al viaggio del figlio dell'uomo in questo mondo. Sono io che separo i bambini dalle madri, le mogli dai mariti, gli innamorati, i padri dalle figlie. In questo mondo non ci sara’ nessun essere vivente che non mi incontrera’». Quando capii che la morte era inevitabile, cominciai a piangere. Piangere mi faceva venire una sete profonda. Da una parte c'era un dolore che aumentando stordiva, era il luogo, frettoloso e crudele in cui era rimasto il mio viso coperto di sangue. Dall'altra c'era il luogo dove la fretta e la crudelta’ finivano, ma per me quel luogo era ignoto e spaventoso. Sapendo che il mondo dei morti era quel mondo brillante dove mi chiamava Asraele, lo temevo. Ma capivo anche che non sarei potuto rimanere a lungo in questo mondo che mi faceva contorcere e urlare dal dolore e che per me non c'era piu’ un angolo tranquillo in un paese di terribili dolori e torture. Per rimanere in questo mondo sembrava che dovessi sopportare un dolore tremendo e non era piu’ possibile per un vecchio come me. Cosi’, poco prima di morire fui io stesso a desiderare la morte. E nello stesso istante capii subito che la risposta alla domanda a cui avevo pensato per tutta la vita senza trovare soluzione era questo semplice desiderio: come fanno a
morire tutti gli uomini senza eccezioni? Capii anche che la morte mi avrebbe reso piu’ sapiente. Ma fui comunque preso dall'indecisione di chi prima di iniziare un lungo viaggio non riesce a non guardare per un'ultima volta la propria stanza, gli oggetti e la casa. Volevo vedere mia figlia per un'ultima volta, ero agitato e nostalgico. Lo volevo talmente che capii che se avessi tenuto duro e resistito ancora un po' al dolore e alla sete che man mano aumentava avrei potuto aspettare mia figlia. Cosi’, quella dolce luce mortale che avevo davanti agli occhi sbiadi’ un po' e la mia mente apri’ le porte alle voci e agli scricchiolii di quel mondo dove stavo morendo. Riuscivo a sentire il mio assassino che passeggiava per la stanza, apriva la porta, frugava tra i fogli, cercava con avidita’ l'ultimo disegno, non lo trovava e frugava tra i miei attrezzi, dava calci alle casse, alle scatole, ai calamai, al leggio. Capii anche che ogni tanto gemevo e mi dibattevo con strani movimenti delle mie vecchie braccia e delle mie gambe stanche. Aspettai. Il dolore non si placava assolutamente, e man mano la sete aumentava, non ce la facevo piu’ a resistere. Aspettai comunque ancora un po'. Mi venne in mente che mia figlia, tornando a casa, avrebbe potuto incontrare quel vigliacco del mio assassino, non ci volevo neanche pensare. Nello stesso istante percepii che il mio assassino usciva dalla stanza. Probabilmente aveva trovato l'ultimo disegno. Avevo troppa sete, ma aspettai lo stesso. Dai, vieni figlia mia, mia bella seküre, vieni. Non venne. Ormai non avevo piu’ la forza di resistere al dolore. Capii che sarei morto senza rivedere mia figlia. Mi sembro’ cosi’ doloroso che per la tristezza volli morire. Proprio in quel momento, da sinistra apparve un volto mai visto e mi porse un bicchiere d'acqua sorridendo benevolo. Dimenticai tutto, avido d'acqua mi protesi verso il bicchiere. Lo ritiro’. «Dí che il Profeta Maometto ha mentito, - disse. - Nega tutto quello che ha detto». Era Satana. Non gli risposi, e non ne ebbi paura. Non avevo mai creduto che disegnarlo significasse credere a Satana, aspettai fiducioso; sognai il mio futuro e l'infinito viaggio che avevo davanti. In quello stesso istante, quando mi si avvicino’ l'angelo luminoso che avevo visto poco prima, il Demonio scomparve. Parte della mia mente sapeva che quest'angelo luminoso che aveva fatto fuggire Satana, era Asraele. Ma un'altra parte ribelle della mia mente mi ricordo’ che nel Libro del Giorno del Giudizio c'era scritto che Asraele era un angelo con mille ali che potevano distendersi dall'Oriente fino all'Occidente e tenere nelle sue mani tutto il mondo. La mia mente era completamente confusa quando l'angelo mi si avvicino’ e, come se volesse aiutarmi, si’, proprio come descrive Al Ghazzali nel Dürret-ül Fahire, disse dolcemente: «Apri la bocca per far uscire l'anima». «Dalla mia bocca non potrebbe uscire altro che un «nel nome di Allah clemente e misericordioso»», risposi. Ma era un'ultima scusa. Avevo capito che non avrei potuto piu’ resistere, che era giunto il momento. Per un attimo mi vergognai di abbandonare questo mio misero corpo brutto e insanguinato alla figlia che non avrei piu’ rivisto. Volevo uscire da questo mondo come da un abito stretto che mi infastidiva. Aprii la bocca e tutto divenne variegato come nei disegni che raccontano l'ascesa del Profeta al Paradiso, avvolto in una luce stupenda, come dipinto con grande abbondanza di acqua d'oro. Dagli occhi mi scese una lacrima di dolore. Dai polmoni e dalla bocca usci’ un faticoso respiro e tutto si immerse in un meraviglioso silenzio. Adesso riuscivo a vedere la mia anima che lentamente si staccava dal corpo nelle mani di Asraele. La mia anima era grande come un'ape e circondata da luci, e per il tremore che la scuoteva mentre abbandonava il corpo, fremeva in mano ad Asraele come mercurio. La mia mente non pensava a questo ma al nuovissimo mondo in cui stavo per entrare. Dopo tanto dolore adesso ero quieto, e il fatto di essere morto non mi provocava, come temevo, dolore, al contrario mi ero rilassato e avevo capito subito che la situazione in cui mi trovavo era permanente, e quella pesante oppressione che sentivo in vita solo passeggera. Ormai tutto sarebbe rimasto cosi’ nei secoli dei secoli, fino alla fine del mondo, non me ne lamentavo, ma non ne ero neanche contento. I fatti che una volta mi venivano velocemente addosso uno dietro all'altro, adesso si erano estesi, allargandosi e contemporaneamente esistendo, in uno spazio sconfinato. Proprio come si vede nei grandi disegni di due pagine dove il miniaturista di spirito mette in ogni angolo cose che non hanno nulla a che fare tra loro, adesso, nello stesso momento, accadevano molte cose.
Capitolo trentesimo. Io, seküre Nevicava talmente tanto che i fiocchi passavano attraverso il velo e mi entravano negli occhi. Procedevo con difficolta’ nel giardino coperto di erbe marce, fango e rami spezzati, ma appena uscii in strada camminai veloce. Lo so, siete curiosi di sapere cosa penso. Quanto mi fido di Nero? Saro’ sincera con voi. Anch'io non so cosa pensare. Sono molto confusa, mi capite, vero? Ma so comunque che, come sempre, mi occupero’ della cucina, dei bambini, di mio padre e di altre cose, e dopo un po', il mio cuore mi sussurrera’ cosa e’ giusto e cosa e’ sbagliato, senza che io debba interrogarlo. Domani, prima di mezzogiorno, sapro’ chi sposero’. Ma c'e’ una cosa che voglio condividere con voi, subito, prima di tornare a casa. No, lasciate perdere le dimensioni di quell'enorme coso che mi ha fatto vedere Nero. Magari ne parliamo dopo. Quello di cui voglio parlare e’ la sua fretta. Non credo che c'entri la lussuria. Sinceramente, anche se fosse, non farebbe una gran differenza. Quel che mi stupisce e’ la stupidita’! Ma non gli viene in mente che potrei spaventarmi e fuggire via, che potrebbe ferire il mio onore e
allontanarmi da se’; e poi potrebbe provocare dell'altro, di ben peggio! Dall'espressione triste della sua faccia, si capisce subito quanto mi ama, quanto mi desidera. Ha aspettato dodici anni, perche’ non riesce ad aspettare dodici giorni comportandosi come si deve? Sapete, credo di essermi innamorata di quella sua goffaggine, di quei suoi tristi sguardi infantili. L'ho capito quando ho provato pieta’ nei suoi confronti mentre invece avrei dovuto arrabbiarmi molto. «Ah, povero bambino mio, - diceva una voce dentro di me. - Riesci a soffrire cosi’ tanto e sei cosi’ goffo». Mi veniva una tale voglia di proteggerlo che avrei anche potuto fare l'errore di concedermi a quel vizioso. Pensando ai miei poveri figli allungai il passo. Poi mi parve di vedere un uomo, quasi un fantasma, che mi veniva addosso nella neve fitta e nel buio calato all'improvviso, cosi’ me la svignai a capo chino. Quando entrai dalla porta del cortile, capii subito che Hayriye e i bambini non erano tornati. Va bene, non avevano ancora chiamato alla preghiera della sera. Salii le scale, la casa profumava di marmellata di arance amare, mio padre era nella sua stanza buia, io avevo i piedi gelati; quando, entrando nella stanza con la lampada, vidi che l'armadio era aperto, i cuscini caduti a terra e tutto in disordine, pensai fossero stati sevket e Orhan. La casa era silenziosa, il solito silenzio, no, non proprio il solito. Quando mi cambiai e misi gli abiti da casa, per un attimo desiderai rimanere da sola al buio a fantasticare, ma udii uno scricchiolio provenire da sotto, proprio sotto di me, non dalla cucina ma dallo studio estivo. Mio padre era sceso li’ con questo freddo? Non ricordavo di aver visto la luce di una candela ma, d'un tratto, sentii cigolare la porta che dava sul cortile. Subito dopo, quando cominciarono gli inutili e infausti ululati di quei maledetti cani, mi innervosii. «Hayriye, - gridai. - sevket, Orhan...» Avevo freddo. Il braciere di mio padre era senz'altro acceso, andai da lui, volevo stare con lui e riscaldarmi; non pensavo piu’ a Nero, ma ai bambini. Avevo in mano la lampada. Passando per l'anticamera, pensai se mettere l'acqua sul fuoco per la zuppa di pesce. Entrai nella stanza con la porta azzurra, era tutto sottosopra, ero confusa e stavo per dire: ma cosa ha combinato mio padre. Poi, li’ per terra, lo vidi. Urlai in preda al terrore. Urlai di nuovo. Poi rimasi in silenzio davanti al cadavere di mio padre. Guardate, dal vostro silenzio, dal vostro sangue freddo, capisco che voi sapete gia’ tutto quello che e’ accaduto in questa stanza. Se non tutto, molto. Adesso siete curiosi della mia reazione di fronte a quello che vidi, dei miei sentimenti. Quando si guarda un disegno, a volte, si cerca di capire il dolore del protagonista, pensando allo svolgersi della storia fino a quel punto drammatico. Voi, guardando quello che faro’ io, non vorrete provare il piacere di capire il mio dolore, ma immaginare quel che avreste fatto, cosa avreste provato al mio posto, se vostro padre fosse stato ucciso cosi’. Bene. La sera tornai a casa e vidi che qualcuno aveva ucciso mio padre. Si’, mi strappai i capelli per la disperazione. Si’, piansi a dirotto. Si’, lo abbracciai con tutta la mia forza, come facevo quando ero bambina e lo annusai. Si’, tremai a lungo di paura, dolore e solitudine, mi mancava il respiro. Si’, non riuscivo a credere ai miei occhi e supplicai Allah che mio padre si alzasse in piedi e si sedesse silenzioso come sempre nel suo angolo, tra i suoi libri. Alzati papa’, alzati, non morire, da’i papa’, alzati. Ma la sua testa insanguinata era a pezzi. Era tutto sottosopra, i libri, i fogli strappati, i tavolini, gli attrezzi da pittura, i calamai rotti e buttati in giro, un cuscino, i leggii, le tavolette da scrittura, tutto fracassato con ferocia, non era la rabbia che aveva ucciso mio padre a farmi paura, ma l'odio che aveva ridotto cosi’ la stanza e tutto il resto. Non piangevo piu’. Mentre, nella via accanto, due persone passavano ridendo e chiacchierando al buio, nella mia mente sentivo l'infinito silenzio del mondo e con le mani mi pulivo il viso dalle lacrime e il naso dal moccio. Pensai a lungo ai bambini, alla nostra vita. Ascoltai il silenzio. Corsi. Presi mio padre per i piedi e lo trascinai in anticamera. Non so perche’ si fece piu’ pesante, ma non ci badai e cominciai a farlo scendere dalle scale. A meta’ scale rimasi senza forze, mi sedetti per terra, forse avrei pianto, ma udii uno scricchiolio, pensai che stessero arrivando Hayriye e i bambini e afferrai di nuovo i piedi di mio padre, stringendoli sotto le ascelle, scesi giu’, questa volta piu’ in fretta. La testa del mio caro padre era talmente fracassata e piena di sangue che, sbattendo sugli scalini, faceva il rumore di uno straccio bagnato. Girai il suo corpo che, chissa’ come, era tornato leggero, lo trascinai sulla soglia, passai accanto alla stalla e con un unico movimento entrai nello studio estivo. Corsi accanto al focolare della cucina per vedere qualcosa nella stanza buia. Tornai indietro e, alla luce della candela che avevo in mano, vidi che anche questa stanza dove avevo portato mio padre era stata distrutta e per un attimo rimasi senza parole. Chi e’, Dio mio, chi e’ stato? La mia mente lavorava velocemente, e velocemente prendevo in considerazione molte cose. Lasciai mio padre nella stanza, in mezzo a una confusione spaventosa, e chiusi bene la porta. Presi un secchio dalla cucina, lo riempii con l'acqua del pozzo, salii al piano di sopra, accesi una lampada e pulii il sangue, prima in anticamera e poi sulle scale. Feci tutto di corsa. Salii su, nella mia stanza, mi tolsi l'abito sporco di sangue e ne indossai uno pulito. Con il secchio e lo straccio in mano stavo per entrare nella stanza di mio padre quando sentii aprirsi la porta del cortile. Nello stesso istante ascoltai chiamare alla preghiera della sera. Raccolsi tutte le mie forze e li aspettai con la lampada in mano in cima alle scale. «Mamma, siamo noi», disse Orhan. «Hayriye! Ma dove eravate!», esclamai, cercando di non urlare ma di parlare bisbigliando. «Mamma, siamo arrivati prima della preghiera della sera...», diceva sevket. «Zitti, vostro nonno sta male, sta dormendo». «Sta male? - chiese Hayriye da sotto. Ma dal mio silenzio si rese conto che ero arrabbiata: - seküre Hanim, abbiamo
aspettato Kosta. Quando e’ arrivato il cefalo, non abbiamo perso tempo, abbiamo raccolto dell'alloro, ho preso i fichi secchi e le amarene per i bambini». Avrei voluto scendere e sgridare Hayriye a voce bassa, ma pensai che sulle scale la lampada avrebbe illuminato i gradini bagnati e le macchie di sangue che non avevo potuto pulire per la fretta. I bambini salirono - tap tap - al piano di sopra e si tolsero le scarpe. «Sssh, - dissi spingendoli verso la nostra stanza. - Vostro nonno dorme, non e’ di la’». «Vado nella stanza con la porta azzurra, vicino al braciere, - disse sevket. - Non vado nella stanza del nonno». «Vostro nonno sta dormendo li’», sussurrai. Per un attimo li vidi esitare. «Che i ginn cattivi che sono entrati dentro vostro nonno e l'hanno fatto ammalare non colpiscano anche voi. Andate nella vostra stanza, su». Li presi tutti e due per mano e li feci entrare nella stanza dove dormivamo insieme abbracciati. «Allora, ditemi un po', cosa avete fatto fuori fino a quest'ora?» «Abbiamo visto i mendicanti arabi», disse sevket. «Dove? - chiesi. - Avevano delle bandiere?» «Sulla salita. Hanno dato un limone a Hayriye e lei ha dato loro dei soldi. Avevano gli abiti coperti di neve». «E poi?» «In piazza c'era gente che tirava le frecce a un bersaglio». «Con questa neve?», domandai. «Mamma, ho freddo, - disse sevket. - Vado nella stanza con la porta azzurra». «Non si puo’ uscire da questa stanza, altrimenti si muore. Adesso vi porto il braciere». «Perche’ dovremmo morire?», chiese sevket. «Vi racconto una cosa, - li interruppi. - Ma non ditela a nessuno, va bene?» Me lo promisero. «Mentre eravate fuori, e’ venuto qui un uomo pallidissimo, tutto bianco, veniva da molto lontano, da un altro paese, e ha parlato con vostro nonno. Era un ginn». Mi chiesero da dove venissero i ginn. «Dall'altra parte del fiume», risposi. «Dove sta mio padre?», domando’ sevket. «Si’, da li’, - dissi. - Il ginn e’ venuto per guardare i disegni nei libri di vostro nonno. Il peccatore che guarda quei disegni muore subito». Restammo in silenzio. «Vado giu’ da Hayriye, - dissi. - Portero’ qua il braciere e il vassoio per mangiare. Mi raccomando, non uscite dalla stanza, altrimenti morite. Perche’ il ginn e’ ancora in casa». «Mamma, mamma non andare», disse Orhan. Mi girai verso sevket: «Sei responsabile di tuo fratello. Se uscite e il ginn non vi colpisce, saro’ io a uccidervi». Feci la mia faccia terribile, quella che faccio sempre prima di picchiarli. «Adesso pregate che vostro nonno malato non muoia. Se siete buoni, Allah accettera’ le vostre preghiere e nessuno vi tocchera’». Cominciarono a pregare senza troppa convinzione. Scesi al piano di sotto. «Qualcuno ha rovesciato la marmellata di arance amare, - disse Hayriye. - Un gatto non avrebbe la forza di fare una cosa del genere, cani non ne sono entrati...» Improvvisamente vide la mia espressione terrorizzata e si fermo’: «Tutto bene? Cosa e’ successo? successo qualcosa a tuo padre?» «morto». Lancio’ un urlo. Batte’ il coltello e la cipolla che aveva in mano sull'asse di legno cosi’ forte da far saltare via il cefalo. Lancio’ un altro urlo. Nello stesso istante, vedemmo entrambe che il sangue sulla sua mano sinistra non era del cefalo, ma colava dall'indice che si era tagliata al primo urlo. Corsi su, mentre cercavo un pezzo di stoffa nella stanza di fronte alla mia, sentii rumori e urla dalla stanza dei bambini. Entrai con il pezzo di stoffa in mano, sevket era montato sopra Orhan con le ginocchia appoggiate sulle sue spalle, lo stava strangolando. «Cosa state facendo!», urlai con tutta la mia forza. «Orhan stava per uscire dalla stanza», disse sevket. «Non e’ vero, - disse Orhan. - sevket ha aperto la porta, gli ho detto di non uscire». Comincio’ a piangere. «Se non state tranquilli, vi uccido». «Mamma, non andare», diceva Orhan. Di sotto, fasciammo il dito di Hayriye e fermammo il sangue. Quando le dissi che mio padre non era morto di morte naturale, si spavento’ e prego’ Allah che ci proteggesse; si guardava il dito tagliato e piangeva. Amava cosi’ tanto mio padre da piangere sfregandosi gli occhi o piangeva cosi’ tanto da amarlo? Volle salire di sopra per vederlo. «Non e’ di sopra, - dissi. - nella stanza sul retro». Mi guardo’ perplessa. Quando capi’ che non l'avrei accompagnata, non riusci’ a vincere la curiosita’ e la sua voglia di avere paura. Prese la lampada e si avvio’. Da dove mi trovavo, dall'ingresso della cucina, la vidi fare quattro o cinque passi sulla soglia, spingere lentamente la porta rispettosa e preoccupata e guardare la grande stanza completamente sottosopra alla luce della lampada che teneva in mano. Non riusci’ a vederlo subito e alzo’ la lampada per illuminare ogni angolo. Poi urlo’: «Aah!» Aveva visto mio padre li’ dove l'avevo lasciato, accanto alla porta. Rimase ferma a guardarlo. La sua ombra era immobile sulla soglia e sul muro della stalla. E mentre lo guardava, io immaginai cosa stesse vedendo. Quando torno’ indietro e mi venne accanto non piangeva. Capii che sarebbe stata in grado di cacciarsi in testa quel che volevo dirle, e ne fui contenta. «Adesso ascoltami Hayriye», cominciai. Parlavo dondolando il coltello sporco di pesce che la mia mano aveva afferrato spontaneamente. «Il piano di sopra e’ a soqquadro, quel maledetto demonio e’ entrato anche li’ e ha distrutto e buttato giu’ tutto, ha frugato ovunque. li’ che ha spaccato la testa e la faccia a mio padre, che l'ha ucciso. L'ho portato giu’ io perche’ i bambini non vedessero e tu non ti spaventassi. Ero uscita anch'io dopo di voi. Mio padre era solo in casa». «Non lo sapevo, - disse con fare insolente. - E dov'eri?» Rimasi in silenzio per un po', volevo che lo notasse. Poi risposi: «Ero con Nero. Mi sono incontrata con Nero nella casa dell'ebreo impiccato. Ma non devi dirlo a nessuno. E per adesso non dirai neanche che mio padre e’ stato ucciso».
«Chi l'ha ucciso?» Era veramente stupida o faceva cosi’ per mettermi alle strette? «Se lo sapessi non nasconderei la sua morte. Non lo so. Tu lo sai?» «Come posso saperlo io. E adesso cosa faremo?» «Farai come se non fosse accaduto nulla», dissi. Mi veniva da piangere e da urlare, ma mi trattenni. Restammo entrambe in silenzio. Dopo un bel po' di tempo, dissi: «Adesso lascia perdere il pesce. Prepara la tavola per i bambini». Quando comincio’ a piangere, ci abbracciammo forte. La accarezzai, per un attimo provai pieta’ per me stessa e per i bambini, per tutti noi. Ma mentre la stringevo, il tarlo del dubbio si muoveva sospettoso dentro di me. Voi sapete dov'ero mentre mio padre veniva assassinato. Sapete che sono stata io ad allontanare Hayriye e i bambini da casa, che l'ho fatto con altre intenzioni, che sono state coincidenze una dopo l'altra... Ma Hayriye lo sa? Quando le spiego le cose, capisce? Capira’? Capira’, ma allo stesso tempo si preoccupera’. La abbracciai ancora piu’ forte. Quando immaginai che il suo cervello da serva avrebbe potuto pensare che avessi voluto celare un inganno, mi sentii come se la stessi ingannando davvero. Mentre mio padre veniva ucciso, io mi incontravo con Nero e facevo l'amore con lui. Se fosse stata solo Hayriye a pensarlo non mi sarei sentita tanto in colpa, ma so che lo pensate anche voi. Inoltre, credete che vi nasconda qualcosa, ammettetelo. Povera me! Come sono sfortunata! Cosi’, quando cominciai a piangere, Hayriye pianse con me e ci abbracciammo. Una volta seduta alla tavola che avevamo preparato nella stanza al piano di sopra, feci finta di mangiare. Ogni tanto uscivo con la scusa di controllare il nonno e piangevo. I bambini erano molto sospettosi, e quando, dopo cena, ci mettemmo a letto, praticamente mi si appiccicarono addosso. Non riuscivano a prendere sonno per paura dei ginn, si agitavano e dicevano: «Sento uno scricchiolio, l'hai sentito anche tu?» Promisi di raccontare una storia d'amore per farli rilassare e dormire. Lo sapete, al buio le parole hanno le ali. «Mamma, non ti sposerai con nessuno, vero?», domando’ sevket. «Ascoltami adesso, - dissi. - C'era una volta un principe che s'innamoro’ da lontano di una fanciulla bellissima. Come accadde? Perche’ prima di vedere la fanciulla, ne aveva visto il ritratto». Come faccio quando sono triste e infelice, raccontai la mia storia inventandola sul momento, come mi veniva. L'avevo inventata con i colori delle cose che mi passavano per il cuore, dei miei ricordi e delle mie sofferenze, sembrava una specie di triste miniatura che accompagnava quel che mi era capitato. Quando si furono addormentati entrambi, uscii dal letto caldo e con Hayriye mettemmo in ordine la stanza che quello schifoso demonio aveva messo sottosopra. Mentre esaminavamo le casse svuotate e frugate in ogni angolo, i libri, le stoffe, le tazze gettate a terra e rotte, le pentole, i calamai, il leggio spaccato, i barattoli di colori, i fogli strappati con odio e buttati a terra, una di noi ogni tanto si interrompeva e scoppiava a piangere. Sembrava che fossimo piu’ tristi per il disastro delle stanze e degli oggetti e per la brutale intrusione nella nostra intimita’ che per la morte di mio padre. Le persone che perdono i loro cari, secondo la mia esperienza, trovano consolazione nel vedere che nella casa tutto rimane come era, che le tende, le coperte, la luce del giorno appaiono come prima, fino a credere, a volte, che Asraele non abbia portato via i loro cari. Il fatto che la casa che mio padre curava con pazienza e amore, di cui aveva minuziosamente decorato le porte e le nicchie, fosse stata messa impietosamente a soqquadro, non ci consolava ne’ ci permetteva di pensare ad altro, anzi ci ricordava di continuo la crudelta’ di quel maledetto e ci spaventava. Per mio desiderio, scendemmo giu’, prendemmo l'acqua dal pozzo, gli praticammo le sacre abluzioni e leggemmo dal suo Corano preferito, un volume di Herat, la Sura della famiglia di Imran che la buonanima di mio padre diceva di amare molto perche’ parlava di speranza e di morte; a un certo punto entrambe ci accorgemmo con terrore del cigolio della porta del cortile, ma poi non udimmo piu’ nulla. A mezzanotte controllammo il chiavistello della porta del cortile e la bloccammo con il vaso di basilico che mio padre innaffiava nelle mattine di primavera con l'acqua del pozzo; poi, entrando in casa, per un attimo pensammo che le ombre allungate dalla nostra lampada appartenessero a qualcun altro. Ci spaventammo ancora di piu’, provando un terrore che ci prese come una specie di venerazione silenziosa mentre gli lavavamo il volto sporco di sangue e gli cambiavamo gli abiti «Passami il braccio», aveva bisbigliato Hayriye. La nostra unica scelta era comportarci come se mio padre fosse morto di morte naturale. Quello che ci stupi’ quando gli togliemmo gli abiti e la biancheria sporchi di sangue fu vedere, nella stanza buia, alla luce della candela, il colore diafano e vitale che aveva assunto la sua pelle. Tremavamo, ancora spaventate, e non ci imbarazzava guardare il suo corpo nudo pieno di nei e ferite, disteso liberamente. Quando Hayriye ando’ a prendere la biancheria e la camicia verde di seta non riuscii a trattenermi, guardai il coso del mio povero padre. Ma poi mi vergognai di averlo guardato. Dopo avergli messo degli abiti puliti e avergli lavato con cura il sangue dal collo, dal viso e dai capelli, lo abbracciai con tutta me stessa, annusai il suo odore fino a saziarmi, ficcando il naso nella sua barba, e piansi a lungo. Per coloro che mi reputino incosciente, se non colpevole, aggiungo subito che piansi ancora due volte: 1. Quando, mentre riordinavo la stanza al piano di sopra in modo che i bambini non si accorgessero di niente, per un'abitudine che risaliva alla mia infanzia, portai all'orecchio una conchiglia che serviva a levigare i fogli e mi accorsi che la voce del mare era quasi completamente scomparsa. 2. Quando vidi che anche il cuscino rosso di velluto, diventato ormai parte del didietro di mio padre che ci si era seduto sempre negli ultimi vent'anni, era stato fatto a pezzi. Danni irreparabili a parte, quando la casa fu a posto, negai fermamente ad Hayriye la sua richiesta di prepararsi il letto nella nostra stanza per quella notte. «I bambini potrebbero sospettare qualcosa», le dissi. Ma la verita’ era che volevo
rimanere da sola con i bambini e punirla. Mi misi a letto, non riuscii a dormire per un bel po'. Non perche’ pensavo alla mostruosita’ di quanto era accaduto, ma perche’ valutavo tutto quello che poteva ancora accadere.
Capitolo trentunesimo. Il mio nome e’ rosso Quando Firdusi, il poeta del Libro dei Re, venne a Ghazna, alla corte di Scia’ Mahmut per essere disprezzato come un poeta provinciale, e all'improvviso declamo’ l'ultima strofa di una quartina di tre versi che finivano con una rima molto difficile, io ero li’, sul suo caftano. Quando il leggendario eroe del Libro dei Re, Rüstem, parti’ alla ricerca del suo cavallo scomparso in paesi lontani, io ero sulla sua faretra, nel sangue che colo’ quando con la sua spada straordinaria taglio’ in due il gigante leggendario, tra le pieghe delle coltri quando passo’ la notte a fare l'amore con la bella figlia dello scia’ di cui era ospite. Ero ovunque e sono ovunque. Quando il vile Tur tagliava la testa a suo fratello Ireç, quando i meravigliosi e leggendari eserciti combattevano nella steppa e quando, per un colpo di sole, il sangue scorreva brillando senza sosta dal bel naso di Alessandro, io ero li’. Ero sull'abito della bella che lo scia’ dei sassanidi, Behram Gür - che ogni giorno della settimana sedeva su un trono di colore diverso e passava ogni notte con una bella diversa proveniente da un clima diverso e ne ascoltava le storie - visitava il martedi’ e di cui si era innamorato vedendone il ritratto, ed ero su tutto cio’ che indossava dalla corona al caftano, Cosroe, e sirin se n'era innamorata guardandone il ritratto. Ero sulle bandiere degli eserciti che assediavano le fortezze, sulle tovaglie dei banchetti, sui caftani di velluto degli ambasciatori che baciavano i piedi ai sultani, e ovunque si dipingeva la spada per le cui storie i bambini vanno matti. Sono stato steso con i pennelli sui fogli di carta pesante provenienti dall'India e da Bukhara, sotto lo sguardo di apprendisti dai begli occhi, di maestri miniaturisti, ero sui tappeti di Usak, sulle decorazioni dei muri, sulle camicie indossate da donne tristi che guardavano la strada dalla finestra socchiusa, sulle creste dei galli da combattimento, sui frutti e sui leggendari melograni di leggendari paesi, sulla bocca di Satana, sulla sottile linea nei quadri, sui sinuosi ricami delle tende, sui fiori che il miniaturista faceva solo per il proprio piacere, appena visibili a occhio nudo, sugli occhi di ciliegia delle statue di uccelli fatte di zucchero, sulle calze dei pastori, sulle albe leggendarie, sui cadaveri e sulle ferite di migliaia, anzi, decine di migliaia di guerrieri, scia’ e innamorati. Amo stare nelle rappresentazioni di guerra dove il sangue si apre come un fiore, sul caftano del poeta piu’ bravo mentre uomini e poeti bevono vino e ascoltano musica sui prati, sulle ali degli angeli, sulle labbra delle donne, sulle ferite dei morti e sulle loro teste tagliate che grondano sangue. Sento che vi domandate: cosa vuol dire essere un colore? Il colore e’ il tocco dell'occhio, la musica dei sordi, un grido nel buio. Dato che sono decine di migliaia di anni che ascolto, di libro in libro, di oggetto in oggetto, quel che dicono le anime, come il ronzio del vento, lasciatemi dire che il mio tocco somiglia a quello degli angeli. Parte di me richiama i vostri occhi, e’ la mia parte pesante. L'altra parte vola in aria con i vostri sguardi, e’ la mia parte leggera. Sono cosi’ contento di essere rosso! Mi brucia dentro, sono forte, so di attirare l'attenzione, so anche che non riuscite a resistermi. Non mi nascondo. Per me, la finezza non si ottiene con la debolezza o la fragilita’, ma con la decisione e la forza di volonta’. Mi faccio notare. Non ho paura degli altri colori, delle ombre, della folla o della solitudine. Com'e’ bello riempire con il mio fuoco vittorioso una superficie che mi attende! Dove mi espando io, gli occhi brillano, le passioni si fortificano, le sopracciglia si alzano, i cuori battono forte. Guardatemi, com'e’ bello vivere! Contemplatemi, com'e’ bello vedere. Vivere e’ vedere. Io vedo ovunque. La vita comincia con me, tutto torna a me, credetemi. Fate silenzio e ascoltate come mai sono un rosso cosi’ meraviglioso. Un maestro miniaturista esperto di colori pesto’ e polverizzo’ con le proprie mani nel mortaio le migliori cocciniglie provenienti dai luoghi piu’ caldi dell'India e ne preparo’ cinque dramme, poi preparo’ una dramma di saponaria e mezza dramma di lotor. Mise tre okka di acqua nel recipiente, ci butto’ la saponaria e la fece bollire. Poi aggiunse il lotor e lo mescolo’ ben bene. Lo fece bollire il tempo necessario a prendersi un buon caffe’. Mentre lui beveva il caffe’, io mi spazientivo come un bambino in procinto di nascere. Una volta che il caffe’ gli ebbe aperto la mente e gli occhi, getto’ nel recipiente la polvere rossa e la mescolo’ per bene con uno dei sottili bastoncini puliti che usava per questo lavoro. Adesso sarei diventato un vero rosso, la mia densita’ e’ talmente importante, l'acqua non deve bollire a lungo inutilmente, ma deve comunque bollire. Prese un po' d'acqua con l'estremita’ del bastoncino e la mise sull'unghia del pollice (le altre dita non vanno assolutamente bene). Ohh, che bello essere rosso! Gli tinsi l'unghia di rosso senza colare, la mia densita’ andava bene ma c'era del sedimento. Tolse il recipiente dal fuoco, mi filtro’ attraverso un tessuto pulitissimo e mi colo’, divenni ancora piu’ puro. Poi mi mise sul fuoco, mi fece bollire ancora due volte fino a schiumare, aggiunse un po' di allume battuto e mi lascio’ raffreddare. Passarono un paio di giorni, rimasi li’ in fondo al recipiente senza mescolarmi a nulla. Desideravo essere steso sulle pagine, ovunque e su ogni cosa, mi offendeva stare cosi’. In questo periodo di silenzio meditai su cosa significasse essere rosso. Una volta, in una citta’ della Persia, quando il pennello di un apprendista mi stese sulle decorazioni di una coperta da sella del cavallo disegnato a memoria da un miniaturista cieco, avevo sentito discutere due maestri ciechi. «Noi che, com'era ovvio, alla fine siamo diventati ciechi per aver lavorato con ardore e fede tutta la vita, sappiamo e ricordiamo che tipo di colore e che tipo di sentimento e’ il rosso, - disse il maestro che aveva disegnato il cavallo a
memoria. - Ma se fossimo stati ciechi dalla nascita, come avremmo capito il rosso che il nostro bell'apprendista sta stendendo?» «un bel problema, - disse l'altro. - Ma i colori non si capiscono, si sentono». «Raccontate, maestro, la sensazione del rosso a chi non l'ha mai visto». «Se lo toccassimo con la punta delle dita, avremmo una sensazione di qualcosa tra il ferro e il rame. Se lo prendessimo in mano, sentiremmo bruciare. Se lo afferrassimo, lo sentiremmo pieno come un pezzo di carne salata. Se lo prendessimo in bocca, la riempirebbe. Se lo annusassimo, avrebbe l'odore del cavallo. Se profumasse di fiori, sarebbe simile alla margherita, non alla rosa rossa». Allora, centodieci anni fa, la pittura europea non era una vera minaccia come pensavano gli scia’, e i grandi leggendari maestri, fiduciosi nei propri metodi come in Allah, interpretarono l'uso di diversi toni di rosso che facevano i maestri europei anche nella piu’ ordinaria ferita da spada o nel tessuto piu’ banale, come una specie di disonesta goffaggine, tanto da riderci sopra. Solo un miniaturista inesperto, indeciso e debole, potrebbe usare rossi diversi per il rosso di un caftano, dissero. L'ombra non puo’ essere una scusa. Esiste un unico rosso e bisogna credere solo in quello. «Qual e’ il significato di questo rosso?», chiese di nuovo il maestro cieco che aveva disegnato il cavallo a memoria. «Il significato dei colori e’ il fatto che siano qui davanti a noi e che possiamo vederli, - rispose l'altro. - Non si puo’ raccontare il rosso a chi non lo vede». «Anche gli infedeli, gli atei e i miscredenti, per negare Allah, dicono che non si vede», disse il maestro cieco che aveva disegnato il cavallo. «E invece Egli si fa vedere da chi vede, - disse l'altro maestro. - per questo che il Corano dice che chi vede e chi non vede non potranno mai essere uguali». Il bell'apprendista mi aveva steso pian piano sulla coperta da sella del cavallo. Fissare la mia pienezza, la mia forza e la mia vivacita’ sul bianco e nero di una bella miniatura e’ una sensazione cosi’ piacevole che quando il pennello di pelo di gatto mi spalma, dalla gioia, sento un po' di solletico. Cosi’, dando colore, sembra che io dica al mondo «che tu sia!», e il mondo e’ a partire dal mio color sangue. Chi non vede lo nega, ma io sono ovunque.
Capitolo trentaduesimo. Io, seküre L'indomani mi alzai dal letto prima che i bambini si svegliassero, scrissi a Nero una breve lettera dicendogli di venire subito alla casa dell'ebreo impiccato e la misi in mano a Hayriye perche’ la portasse di corsa a Esther. Hayriye prese la lettera e mi guardo’ negli occhi in modo sfrontato, temeva quel che ci sarebbe potuto accadere e io ricambiai il suo sguardo con un'audacia appena acquisita, non avendo piu’ un padre da temere. Questo stabili’ il colore delle convenzioni e delle regole che ci sarebbero state d'ora in avanti tra di noi. Vi confesso che negli ultimi due anni ero preoccupata che Hayriye potesse avere un bambino da mio padre e, dimenticando di essere una serva, si mettesse a fare la signora. Prima che i bambini si svegliassero, andai dal mio povero padre e gli baciai con rispetto la mano impietrita ma, stranamente, ancora morbida. Nascosi le sue scarpe, il suo turbante imbottito, il suo mantello viola e quando i bambini si svegliarono dissi loro che il nonno era guarito ed era andato presto da Mustafa Pascia’. Mentre Hayriye, tornata dai suoi giri mattutini, preparava la tavola per la colazione e metteva anche cio’ che restava della marmellata di arance amare, pensavo che in quel momento Esther stava suonando alla porta di Nero. Non nevicava piu’, era uscito il sole. Notai la stessa cosa anche quando entrai nel giardino dell'ebreo impiccato: i pezzi di ghiaccio che pendevano dalle grondaie e dagli infissi si stavano sciogliendo velocemente e il giardino che puzzava di muffa e foglie putride assorbiva avido i raggi del sole. Trovai Nero ad aspettarmi dove l'avevo visto soltanto la sera prima, mi sembrava fossero passate settimane. Sollevai il velo e gli dissi: «Gioisci, se ti riesce. Ormai tra noi non ci saranno piu’ le obiezioni, le contrarieta’, i dubbi di mio padre. Ieri notte mentre tu, qui, cercavi di toccarmi in maniera disonesta, qualcuno, un demonio, e’ entrato nella nostra casa vuota e ha ucciso mio padre». Sarete senz'altro piu’ curiosi della reazione di Nero che di sapere il perche’ del mio atteggiamento presuntuoso e non esattamente sincero. Non lo so bene neanch'io perche’. Forse avevo paura che, se avessi pianto, Nero mi avrebbe abbracciato e io mi sarei avvicinata a lui prima di quanto pensassi. «Ci ha messo a soqquadro la casa, ha rotto un sacco di cose, si vede che ha agito con rabbia e odio. Non penso assolutamente che questo demonio abbia finito, non se ne stara’ tranquillo nel suo angolo. Ha rubato l'ultimo disegno del libro di mio padre. Voglio che tu protegga me, noi, il libro di mio padre da lui. Ma a che titolo, per quale relazione di parentela? Ecco, questo e’ il problema». Stava per dire qualcosa, ma lo fermai con lo sguardo, fu semplice, come se l'avessi sempre fatto. «Dopo la morte di mio padre agli occhi del cadi’ il mio tutore e’ mio marito, la famiglia di mio marito. Era cosi’ anche prima che morisse mio padre, perche’ secondo il cadi’ mio marito e’ vivo. Sono riuscita a tornare da mio padre anche se non ero ancora vedova, perche’ Hasan, in assenza del fratello, ha cercato di approfittare di me e la sua goffa impertinenza ha lasciato mio suocero nel dubbio. Adesso, dato che mio padre e’ morto e io non ho neanche un fratello maschio, vuol dire che sono completamente priva di protezione. Oppure i miei tutori sono, senza dubbio, il fratello di mio marito e mio suocero. Tu sai che si sono gia’ mossi per riportarmi a casa loro, stavano per forzare mio padre,
avevano deciso di obbligarmi con le minacce. Appena si sapra’ che mio padre e’ stato ucciso, si daranno subito da fare per ricondurmi a casa. Ma io non voglio tornare in quella casa, e cosi’ nascondo la morte di mio padre. Forse inutilmente. Perche’ potrebbero esserci loro dietro questo delitto». Proprio in quel momento, un delicato raggio di sole filtro’ dalle persiane e dalle finestre rotte della casa dell'ebreo impiccato tra me e Nero illuminando anni e anni di polvere accumulata nella stanza. «Questo non e’ l'unico motivo per cui nascondo la morte di mio padre, - dissi guardando Nero fisso negli occhi che mi restituiva uno sguardo piu’ attento che innamorato con mio grande piacere. - Ho paura di non riuscire a dimostrare dov'ero quando mio padre e’ stato ucciso. Ho paura che Hayriye, anche se la testimonianza di una serva non ha alcun valore, sia parte degli intrighi contro di me, e se non contro di me contro il libro di mio padre. Non avendo un tutore che mi protegga, potrei annunciare al cadi’ l'assassinio di mio padre, e in un primo momento sarebbe facile fargli accettare l'omicidio, ma in seguito, per i motivi che ho elencato poco fa - per esempio Hayriye potrebbe essere al corrente del fatto che mio padre non voleva che ti sposassi - potrebbe essere causa per me di grande sventura». «Tuo padre non voleva che tu mi sposassi?», chiese Nero. «No, non voleva, perche’, come sai, temeva che tu mi portassi lontano da lui. Adesso che non e’ piu’ possibile fargli questa cattiveria, il mio povero caro padre non potra’ obiettare in nessun modo al nostro matrimonio. Tu hai qualcosa da obiettare?» «No, mia bella». «Bene. Anche il mio tutore non ti chiedera’ ne’ denaro ne’ oro. Perdona la mia impertinenza, parlare di accordi matrimoniali. Ma esistono delle condizioni necessarie perche’ io mi sposi che, purtroppo, devo spiegare dettagliatamente subito e adesso». Rimasi a lungo in silenzio. «Si’», disse Nero con l'aria di chi si scusa per un ritardo. «Primo, - iniziai, - se mi maltratti in maniera intollerabile o se sposi un'altra divorzieremo e tu mi manterrai comunque, lo giurerai davanti a due testimoni. Secondo, se abbandoni la casa per piu’ di sei mesi, con o senza motivo, e se non torni piu’, potro’ divorziare ed essere mantenuta, lo giurerai davanti a due testimoni. Terzo, dopo che ci saremo sposati ti trasferirai a casa mia, ma non potrai dividere il letto con me finche’ non verra’ trovato quel vile che ha ucciso mio padre, o non lo troverai tu stesso - vorrei tanto torturarlo con le mie mani! - e, grazie al tuo talento e ai tuoi sforzi, il libro del Nostro Sultano non sara’ finito e consegnato con onore. Quarto, amerai i miei figli che dividono il letto con me come se fossero i tuoi». «Va bene». «Bene. Se tutti gli ostacoli verranno eliminati a questa velocita’, presto entreremo nel mondo delle coppie sposate». «Si’, nel mondo delle coppie sposate, ma non nello stesso letto». «La cosa piu’ importante e’ il matrimonio, - dissi. - Prima risolviamo quello. L'amore viene dopo il matrimonio. Non dimenticare: il fuoco d'amore che divampa prima del matrimonio si spegne e lascia dietro di se’ solo tristi rovine. Certamente anche l'amore che si prova dopo il matrimonio finisce, ma il suo posto lo prende la felicita’. Eppure ci sono stupidi frettolosi che s'innamorano prima del matrimonio e bruciando d'amore consumano l'amore. Perche’? Perche’ pensano che l'unico grande scopo della vita sia l'amore». «E quale sarebbe lo scopo giusto?» «La felicita’. Sia l'amore che il matrimonio servono a ottenerla: un marito, una casa, dei figli, un libro. Non vedi che anche la mia condizione di donna con un marito scomparso e un padre morto e’ migliore della tua arida solitudine? Morirei se non avessi i miei figli, passiamo le giornate a coccolarci, a ridere e a giocare. Adesso, dato che e’ questo che tu invidi e non vedi l'ora di passare la notte con me, se non nello stesso letto almeno sotto lo stesso tetto, insieme al cadavere di mio padre e al baccano dei miei figli, apri bene le orecchie e ascoltami». «Ti ascolto». «Ci sono diversi modi per cercare di divorziare. Per esempio, dei falsi testimoni potrebbero giurare il falso dicendo che mio marito, prima di andare in guerra, ha disposto che venissi considerata divorziata nel caso lui non fosse tornato dopo due anni. Oppure, meglio ancora, potrebbero giurare di aver visto il cadavere di mio marito su un campo di battaglia e descriverlo nei dettagli. Ma se pensiamo al cadavere di mio padre in casa e all'opposizione di mio cognato e di mio suocero, fare assegnamento su queste false testimonianze potrebbe essere una via molto insidiosa, e i cadi’ intelligenti e prudenti avrebbero paura e non le accetterebbero. Anche i cadi’ che, come noi, appartengono alla scuola hanafita, non mi concederebbero il divorzio, pur tenendo conto che mio marito non torna dalla guerra da quattro anni e mi ha lasciata senza sostentamento. Ma il cadi’ di Scutari, per concedere la possibilita’ di divorziare alle donne che si trovano nella mia stessa situazione e che, a causa delle guerre con i persiani, aumentano ogni giorno, con la complicita’ del Nostro Sultano e dello seyhülislam, chiude un occhio, a volte delega il suo vice, uno shafiita, che concede facilmente e velocemente il divorzio, sempre con il mantenimento per la moglie. Trova due uomini come testimoni, pagali, vai con loro sulla sponda asiatica, a Scutari, e convinci il cadi’ a delegare il suo vice per concedermi il divorzio; se con questi testimoni riesci a ottenere il mio divorzio e lo fai registrare negli atti del cadi’, prendi subito un foglio, un documento che lo provi e mi permetta di sposarmi senza aspettare il divorzio. Se riesci a fare tutto questo oggi pomeriggio e a tornare sulla sponda europea, non sara’ difficile trovare un imam che ci sposi in serata, e stanotte, come mio marito, potrai dormire sotto lo stesso tetto con me e i miei figli. Ci potrai salvare da una notte insonne a tremare per paura di quel demonio e ad ascoltare i cigolii della casa, e mi difenderai nella mia condizione di povera donna senza nessuno, domani mattina, quando annunceremo la morte di mio padre». «Si’, - disse Nero con un ottimismo un po' infantile. - Si’. Ti prendo in moglie». Poco fa vi avevo detto che non sapevo perche’ parlavo con questo tono altezzoso e poco sincero con Nero. Adesso lo
so: probabilmente intuivo che solo con quest'arroganza potevo convincere Nero, di cui conoscevo la stupidita’ da quando era piccolo, di cose che io stessa difficilmente credevo si potessero risolvere. «Abbiamo molto da combattere contro chi affermera’ che il mio divorzio e il nostro matrimonio, e speriamo che si celebri oggi pomeriggio, non siano validi, contro chi cerchera’ di impedire che il libro di mio padre venga finito, i nostri nemici, ma adesso e’ meglio che non confonda ulteriormente la tua mente, che e’ gia’ piu’ confusa della mia». «Non hai affatto la mente confusa», disse Nero. «Perche’ queste non sono idee mie, sono cose che ho imparato parlando con mio padre nel corso degli anni», dissi, perche’ non pensasse che tutto veniva fuori dalla mia mente di donna e credesse alle mie parole. Nero disse la stessa cosa che dicono tutti gli uomini che mi trovano molto intelligente. «Sei molto bella». «Si’, - dissi. - Mi piace che la mia intelligenza venga elogiata. Quando ero piccola anche mio padre la elogiava molto». Stavo per dire che purtroppo, una volta cresciuta, mio padre aveva smesso di elogiarla, quando scoppiai a piangere. Piangendo mi sembrava di uscire da me stessa e diventare un'altra donna separata da me e, come il lettore che si angustia guardando un disegno triste nella pagina di un libro, vedevo la mia vita dal di fuori e mi compativo. Versare lacrime per i propri problemi come se appartenessero agli altri ha un lato cosi’ innocente che, quando Nero mi abbraccio’, ci riempimmo di bonta’. Ma la bonta’ rimaneva tra noi, quando ci abbracciavamo, non arrivava mai fino al mondo dei nemici che avevamo attorno.
Capitolo trentatreesimo. Il mio nome e’ Nero Quando seküre, vedova, orfana e infelice, se ne ando’ via con i suoi passi leggeri come piume, io rimasi a fantasticare sul nostro matrimonio immerso nel silenzio della casa dell'ebreo impiccato e nel profumo di mandorle che lei mi aveva lasciato addosso. Ero confuso, e la mia mente ragionava cosi’ in fretta da farmi quasi provare dolore. Senza essere troppo in grado di affliggermi per la morte di mio zio, tornai a casa di corsa. Da una parte il tarlo del dubbio mi rodeva e pensavo che seküre mi ingannasse, mi usasse come una pedina all'interno di un grande complotto, dall'altra non facevo che fantasticare sul nostro matrimonio. Diedi una risposta sbrigativa alla mia anziana padrona di casa che, sulla soglia, mi interrogava per capire dove fossi andato e da dove tornassi a quell'ora del mattino; poi, una volta a casa, nella mia stanza, tirai fuori ventidue monete d'oro veneziane dalla fodera della cintura che avevo nascosto nel materasso e, con mani tremanti, le infilai nel borsellino. Tornato di nuovo in strada, capii immediatamente che i tristi e umidi occhi neri di seküre non avrebbero abbandonato la mia mente per tutto il giorno. Prima cambiai cinque leoni veneziani da un cambiavalute ebreo che sorrideva in continuazione. Poi tornai pensieroso nel quartiere di cui finora non vi ho detto il nome perche’ non mi piace (ve lo dico adesso: «dei Rubini»), nella casa dove mi aspettavano mio zio morto e seküre insieme ai figli. Mentre correvo per le strade, un alto platano mi disprezzo’ perche’ camminavo in modo troppo allegro, facevo sogni meravigliosi e progetti di matrimonio nel giorno in cui era morto mio zio. Poi, la fontana del quartiere, che scorreva sibilando perche’ il ghiaccio si era sciolto, mi disse: «Fregatene, fai quello che devi fare e cerca di essere felice». Uno iettatore di gatto nero che si leccava in un angolo mi graffio’ la mente dicendo: «Va bene tutto, ma chiunque, tu compreso, ti sospetta dell'assassinio di tuo zio». Il gatto smise di leccarsi e per un attimo mi fisso’ con i suoi magici occhi. I gatti di Istanbul sono insolenti perche’ la gente dei quartieri li vizia, lo sapete. Vidi l'Imam Effendi, sembra sempre addormentato perche’ tiene le palpebre dei suoi enormi occhi neri mezze chiuse, non era a casa sua ma nel cortile della moschea del quartiere, e li’ gli posi una questione giuridica molto comune, se e’ obbligatorio o meno testimoniare in tribunale, e ascoltai la risposta con fare altezzoso, alzando le sopracciglia, come se la udissi per la prima volta. Nel caso ci siano altri testimoni, deporre e’ facoltativo, mi spiego’ Imam Effendi, ma nel caso in cui ci sia un unico testimone, e’ un sacro dovere. Dicendo: «Ecco, il mio problema e’ proprio questo», entrai nel vivo della questione. Per quanto riguarda un fatto noto a tutti, i testimoni, con la scusa che deporre e’ facoltativo non vanno in tribunale per pigrizia, cosi’ le persone che sto cercando di aiutare non possono risolvere i loro problemi. «Eh, - disse Imam Effendi, - allora tu allenta un po' il cordone della borsa». E io lo allentai e gli feci vedere le monete d'oro veneziane: il grande cortile della moschea, il viso dell'imam, di colpo tutto si illumino’ del luccichio dell'oro. Mi chiese di cosa si trattasse. Gli spiegai chi ero. Dissi: «Zio Effendi e’ malato. Prima di morire vuole che sua figlia sia dichiarata ufficialmente vedova, e che le vengano concessi gli alimenti». Non ci fu neanche bisogno che gli parlassi del vice del cadi’ di Scutari. Imam Effendi aveva capito tutto, e disse che era molto tempo che l'intero quartiere si preoccupava per la sfortunata seküre Hanim, aggiungendo che era gia’ passato troppo tempo. Invece di cercare dal cadi’ di Scutari il secondo testimone necessario per il divorzio, Imam Effendi propose suo fratello. Adesso, se gli davo una moneta d'oro, avrei fatto un'opera buona anche per questo fratello che viveva nel quartiere e conosceva il problema di seküre e degli adorabili orfanelli. Avevo fatto vedere all'Imam Effendi due monete d'oro, e per il secondo testimone mi fece uno sconto; ci accordammo subito, e Imam Effendi ando’ a chiamare il fratello.
Nel resto della nostra giornata c'e’ qualcosa che assomiglia alle storie avventurose narrate dai cantastorie nei caffe’ di Aleppo. Coloro che fanno scrivere queste storie sotto forma di poema, con bella calligrafia, non le fanno illustrare, non le prendono sul serio perche’ sono troppo piene di avventure e di inganni. Io invece, passai tutta la giornata a illustrare con quattro scene le pagine della mia mente con le nostre avventure. Nella prima scena, il miniaturista dovrebbe disegnarci sulla barca rossa a quattro remi che abbiamo preso da Unkapani per andare a Scutari, in mezzo alle acque del Bosforo, tra i rematori con i baffi folti e le braccia muscolose. L'imam e il fratello magro e dal volto tenebroso, felici per la gita del tutto imprevista, chiacchierano con i rematori e io, poveretto, a prua, fantastico sul mio matrimonio felice e, timoroso, sto attento a eventuali segni di iattura, come, per esempio, il relitto di una nave corsara in fondo alle acque agitate del Bosforo, che in quella mattina di sole invernale sembrano ancora piu’ limpide. Allora, anche se il miniaturista usa colori allegri per il mare e le nuvole, dovrebbe pure disegnare qualcosa di scuro, equivalente alle mie paure, e di forte quanto i miei sogni di felicita’; per esempio, dovrebbe inserire un orribile pesce in fondo al Bosforo, in modo che il lettore della nostra avventura capisca che in quel momento non e’ proprio tutto rosa. Il nostro secondo disegno dovrebbe tenere conto di raffinatezze degne di Behzat, con dettagli ben curati che mostrano i palazzi dei sultani, le riunioni del Consiglio imperiale, l'accoglienza agli ambasciatori europei, l'interno delle case affollate; dovrebbe, in pratica, far capire lo scherzo e l'ironia all'interno del disegno. Cioe’, il Cadí Effendi, mentre li’ in un angolo con una mano alzata come per dire «fermati», fa un deciso cenno di diniego alla bustarella che gli porgo, con l'altra mano deve intascare timidamente le mie monete d'oro veneziane; allo stesso tempo, nel disegno deve apparire il risultato di questa bustarella, ovvero, al posto del cadi’ di Scutari, bisognerebbe mettere il suo vice, lo shafiita Sahap Effendi. Si possono disegnare contemporaneamente gli eventi che si alternano nel tempo solo con l'arguzia che i miniaturisti scaltri applicherebbero all'ordine della pagina. In questo modo, l'occhio che prima vede la bustarella che porgo e, in un'altra parte del disegno, nota che colui che siede a gambe incrociate sul cuscino del cadi’ e’ il suo vice, capira’, anche senza leggere la storia, che una volta intascate le due monete d'oro veneziane, Cadí Effendi ha delegato il suo vice shafiita perche’ conceda il divorzio a seküre. Anche il terzo disegno deve mostrare la stessa scena, ma questa volta, per i muri bisogna usare decorazioni in stile cinese con fitti rami ricciuti, e questi devono avere colori piu’ cupi, e sopra il vice del cadi’ bisognerebbe aggiungere qualche nuvola curiosa e colorata, in modo da far capire che nella nostra storia c'e’ un gioco. L'imam e suo fratello devono essere rappresentati nel disegno insieme, nonostante siano stati ammessi alla presenza del cadi’ separatamente. Gli hanno raccontato che erano ormai quattro anni che il marito della povera seküre non tornava dalla guerra, che lei era in miseria perche’ il marito non la manteneva, i due orfani infelici e affamati, e che, dato che lei veniva considerata ancora una donna sposata, non c'erano candidati disposti a far loro da padre; inoltre, non le si potevano dare soldi in prestito senza il permesso del marito. Insomma, il loro racconto era tale che anche un muro, in lacrime, avrebbe concesso subito il divorzio, ma il vice senza cuore non fece una piega e chiese chi fosse il tutore di seküre. Dopo un attimo di esitazione, mi feci avanti dicendo che il venerabile padre di seküre, che era stato ufficiale e ambasciatore del Nostro Sultano, era ancora in vita. «Se non viene lui di persona non concedero’ il divorzio!», disse il vice. Questa volta, preoccupato, gli spiegai che mio Zio Effendi era in fin di vita, che il suo ultimo desiderio espresso ad Allah era vedere la figlia divorziata, e che io lo rappresentavo. «A che le serve divorziare! - disse il vice. - Perche’ un uomo che sta morendo dovrebbe volere che la figlia divorzi da un marito gia’ scomparso in guerra. Se ci fosse un buon partito, un sicuro candidato a marito, allora si’, potrei capirlo, cosi’ morirebbe senza preoccupazioni per la figlia». «C'e’, Effendi», dissi. «Chi e’?» «Io!» «Ma si puo’? Tu rappresenti il tutore! - disse il vice del cadi’. - Che lavoro fai?» «Ho lavorato nelle citta’ d'Oriente come funzionario e capo esattore. Ho terminato un libro sulla storia delle guerre persiane che presentero’ al Nostro Sultano. Mi intendo di pittura e di miniatura. E sono vent'anni che ardo d'amore per questa ragazza». «Sei suo parente?» Mi vergognai talmente di essermi ridotto ad adulare quest'uomo per ottenere qualcosa, quando meno me lo aspettavo, per avergli svelato di colpo la mia vita senza piu’ segreti, senza misteri, come un oggetto da mettere in mostra, che restai in silenzio. «Invece di arrossire come un peperone, rispondi. Altrimenti non le concedo il divorzio». «figlia di mia zia». «Mmh, ho capito. Sarai in grado di renderla felice?» Mentre me lo domandava, fece un gesto volgare con la mano. Il miniaturista eviti di disegnare questo orrore. sufficiente che faccia vedere com'ero rosso in faccia. «Guadagno bene». «Io appartengo alla scuola shafiita, ma il fatto di concedere il divorzio a questa sfortunata seküre, il cui marito non torna dalla guerra da ormai quattro anni, non ha nulla a che vedere con le scritture e la mia fede, - disse il vice. - Le concedo il divorzio. Ormai, anche se tornasse dalla guerra, il marito non puo’ far valere diritti su di lei». Il disegno successivo, cioe’ il quarto, deve mostrare il vice che registra il divorzio con eserciti di lettere obbedienti mossi da inchiostro nero, poi mentre mi consegna il foglio con il timbro che attesta che ormai la mia seküre e’ vedova e
non esistono impedimenti, nel caso voglia sposarsi subito. L'intimo splendore della felicita’ che provavo in quel momento non potrebbe essere espresso ne’ tingendo di rosso i muri del tribunale, ne’ incorniciando il disegno di rosso sangue. Corsi in mezzo alla folla di altri uomini venuti li’ per ottenere il divorzio per le loro sorelle maggiori o minori, figlie, e di falsi testimoni raccolti davanti alla porta del cadi’, e presi la via del ritorno. Dopo aver attraversato il Bosforo ed essere arrivato direttamente al quartiere dei Rubini, mi liberai di quell'imam comprensivo e di suo fratello, si erano proposti anche per sposarci. Avevo capito subito che tutti coloro che incontravo per strada erano gelosi dell'incredibile felicita’ che stavo per ottenere e stavano complottando contro di me, cosi’ andai di corsa nella via della mia seküre. Come avevano fatto le maledette cornacchie che saltellavano allegre sopra le tegole a capire che in casa c'era un morto? Il fatto di non potermi rattristare, di non poter versare neanche una lacrima per mio zio mi faceva sentire dolorosamente in colpa, ma capii subito dalle persiane e dalla porta ben chiuse, dal silenzio e perfino dal melograno che tutto procedeva. Avrete capito che in quell'attimo agivo di fretta, seguendo il mio intuito. Tirai un sasso raccolto da terra verso la porta del cortile, ma la mancai! Lanciai un sasso verso la casa, colpi’ il tetto. Feci piovere pietre sulla casa con rabbia. Infine si apri’ una finestra. Era quella del secondo piano dove, quattro giorni prima, mercoledi’, tra i rami del melograno avevo visto seküre per la prima volta. Vi apparve Orhan, e attraverso la persiana socchiusa udii la voce di seküre che lo sgridava, poi la vidi. Per un attimo io e la mia bella ci fissammo speranzosi. Come era graziosa, come era bella. Fece un cenno che poteva significare «Aspetta», e chiuse la finestra. Mancava ancora un bel po' al calar della sera, attesi speranzoso nel giardino vuoto ammirando la bellezza del mondo, degli alberi, della strada infangata. Poco dopo arrivo’ Hayriye, era vestita come una signora, non come una serva. Senza avvicinarci, ci ritirammo dietro i fichi. «tutto a posto, - le dissi. Le mostrai il foglio che mi aveva dato il cadi’. - seküre ha divorziato. Adesso dal quartiere accanto...» Stavo per dire trovero’ un imam, ma invece dissi: «Viene l'imam, seküre si prepari». «seküre Hanim vuole un corteo nuziale, anche se modesto, vuole che gli abitanti del quartiere vengano a casa, che si faccia una cena di nozze. Abbiamo preparato riso con albicocche e mandorle». Forse avrebbe raccontato nei minimi particolari cosa avevano cucinato, ma la interruppi. «Se la notizia del matrimonio si sparge, - dissi, - Hasan e i suoi uomini verranno a saperlo, faranno un'irruzione, creeranno uno scandalo e annulleranno il matrimonio e noi non potremmo farci niente. Manderebbero tutto a monte. Dobbiamo stare attenti a Hasan e al suocero e anche a quel demonio che ha ucciso il nostro Zio Effendi. Non avete paura?» «Certo che abbiamo paura», rispose scoppiando a piangere. «Non dovete dire niente a nessuno, - dissi. - Prendete lo zio, mettetelo a letto in camicia da notte come se non fosse morto, ma semplicemente malato, disponete al suo capezzale bicchieri e sciroppi, chiudete la persiana. Non accendete la lampada nella stanza, facciamo in modo che il padre malato funga ancora da tutore di seküre. Non possiamo organizzare un corteo nuziale, chiamate solo tre o quattro vicini all'ultimo momento. E quando li invitate, spiegate loro che e’ l'ultimo desiderio di Zio Effendi... Non saranno nozze liete ma piene di lacrime. Se non dovessimo riuscirci saremo puniti, saresti punita anche tu, hai capito?» Piangendo, annui’. Le spiegai che avrei montato il mio cavallo bianco per cercare i testimoni e che poi sarei tornato a casa, di dire a seküre di prepararsi, io sarei diventato il signore della casa, ma adesso sarei andato dal barbiere. Non c'era assolutamente nulla di premeditato. I pensieri mi venivano in mente li’ per li’, mentre parlavo e credevo di essere una creatura amata e protetta da Allah, come avevo sentito dire in guerra, Lui mi proteggeva, percio’ le cose sarebbero andate bene. Quando ti senti cosi’ sicuro puoi fare tutto quello che ti viene in mente, e ti viene bene. Dal quartiere dei Rubini mi incamminai verso il Corno d'Oro, attraversai quattro strade, nella moschea di un quartiere vicino a Yasin Pascia’ trovai un imam dalla barba nera e dal volto luminoso, stava inseguendo con un manico di scopa dei cani impudenti per il cortile fangoso. Gli spiegai il mio problema, gli raccontai che il padre della figlia di mia zia stava per morire, che come ultimo desiderio del padre morente noi due ci saremmo sposati e che la ragazza aveva divorziato oggi dal marito scomparso in guerra per decisione del cadi’ di Scutari. Quando l'imam obietto’ che per la legge islamica dopo il divorzio la donna deve aspettare un mese prima di risposarsi, risposi che il marito di seküre non si faceva vedere da quattro anni, percio’ era impossibile che lei fosse incinta, e che proprio per questo motivo il cadi’ di Scutari le aveva concesso il divorzio. Gli mostrai il documento. Volevo che l'Imam Effendi fosse sicuro che non ci fossero ostacoli al matrimonio. Si’, io e la sposa eravamo parenti di sangue, ma il fatto che fosse la figlia di mia zia non impediva il matrimonio; il suo precedente matrimonio era stato annullato, tra di noi non c'erano differenze religiose, ne’ di classe sociale, ne’ di patrimonio. Accettando le monete d'oro che gli porgevo e celebrando il matrimonio apertamente, davanti agli occhi di tutto il quartiere, avrebbe fatto una buona azione anche nei confronti degli orfani della vedova. Imam Effendi gradiva il riso con le mandorle e le albicocche? Si’, gli piaceva, ma stava ancora guardando i cani sulla porta del cortile. Prese le monete d'oro. Si sarebbe vestito per la cerimonia, avrebbe sistemato barba e capelli, avrebbe verificato che il suo turbante fosse in ordine e poi sarebbe venuto a sposarci. Mi chiese dove fosse la casa, glielo indicai. Che cosa c'e’ di piu’ naturale per uno sposo che abbandonarsi alle mani affettuose e alle piacevoli chiacchiere di un barbiere e farsi fare la barba per le nozze dimenticando ansie e pericoli, anche se il matrimonio sognato per dodici anni andava celebrato in fretta? Il barbiere dove spontaneamente mi condussero le mie gambe era quello di Aksaray, vicino al mercato, nella via dove si trovava la casa ormai distrutta che la buonanima di mio zio, mia zia e la bella seküre avevano abbandonato dopo gli anni della nostra infanzia. Il barbiere con il quale c'era stato uno scambio di sguardi cinque giorni prima, il primo giorno in cui, dopo tanti anni, ero tornato, questa volta, appena entrato, mi abbraccio’ e, da vero barbiere di Istanbul, invece di chiedere dove fossi scomparso per dodici anni, mi racconto’ subito gli ultimi
pettegolezzi del quartiere dicendo che, prima o poi, tutti saremo arrivati alla fine di quel viaggio pieno di significato che chiamiamo vita. Non sembrava che fossero passati dodici anni, ma dodici giorni. Il mastro barbiere era invecchiato e, come si capiva dal rasoio tra le sue mani coperte di nei che ballava tremando sulla mia guancia, si era dato troppo all'alcol e aveva preso un apprendista dalla pelle rosea, con belle labbra e occhi verdi. Rispetto a dodici anni fa era piu’ pulito e ordinato. Il catino in cui aveva versato l'acqua bollente per lavarmi con cura i capelli e il viso era sospeso a una nuova catena agganciata al soffitto. I vecchi e larghi bacili erano stati stagnati, il braciere era pulito e senza ruggine, e i rasoi con i manici di agata erano affilati. Indossava un grembiule pulitissimo, che dodici anni fa non gli sarebbe venuto in mente di mettersi. Pensai che avesse messo in ordine il suo negozio e se stesso dopo avere ingaggiato quell'apprendista raffinato, alto e slanciato per la sua eta’ e, immaginando che il matrimonio dia nuova vitalita’ e fertilita’ alla casa di un uomo celibe come al suo lavoro e al suo negozio, mi abbandonai ai piaceri del barbiere, al profumo di rosa, e all'acqua calda e saponata. Non so quanto tempo passo’, mi ero sciolto tra le abili mani del barbiere e il caldo del braciere che riscaldava dolcemente il piccolo negozio e, dato che oggi, dopo tante sofferenze, la vita, senza porre condizioni, mi faceva il dono piu’ grande, provavo gratitudine per Allah Onnipotente, profonda curiosita’ per il misterioso equilibrio da cui veniva fuori il mondo che Lui aveva creato e tristezza e dolore per lo zio che giaceva morto nel letto della casa di cui tra poco sarei diventato il signore. Stavo per riprendermi quando qualcosa si mosse davanti alla porta aperta del barbiere, mi girai a guardare: c'era sevket! Mi porse un foglio con fare agitato ma sicuro di se’. Non riuscii a dirgli nulla, mi aspettavo le peggiori notizie, ero scosso da brividi freddi, lessi: «Senza corteo nuziale non mi sposo. seküre». Con qualche difficolta’ lo tirai per un braccio e lo feci sedere in grembo. Avrei voluto scrivere alla mia seküre: «Con piacere amore!», ma come si fa a trovare penna e calamaio da un barbiere analfabeta! Cosi’, per un prudente calcolo, bisbigliai all'orecchio di sevket di rispondere di si’ a sua madre. E con lo stesso sussurro gli chiesi come stava il nonno. «Dorme». Adesso capisco che, come sevket, anche voi mi sospettate (sevket sospetta certamente altre cose) della morte di mio zio. Peccato! Lo costrinsi a farsi baciare. sevket ando’ via, proprio non gli piacevo. E durante la cerimonia nuziale, con addosso gli abiti della festa, mi guardo’ da lontano con aria ostile. Dato che non era seküre ad andare dalla casa paterna a quella dello sposo, ma esattamente il contrario, ero io che andavo a vivere nella casa paterna di seküre, il corteo nuziale era stato organizzato in funzione di questa situazione. Certo che non potevo abbigliare e adornare i miei amici, i parenti ricchi, farli montare a cavallo e poi portarli alla porta di seküre. Ma, ad ogni modo, presi con me due amici (uno era stato funzionario come me, l'altro gestiva un hamam), due amici d'infanzia che avevo incontrato in questi sei giorni, da quando ero tornato a Istanbul, e il mio caro barbiere che, augurandomi ogni bene, aveva le lacrime agli occhi; salii sul cavallo bianco che avevo montato il primo giorno, e tutti insieme andammo alla porta della mia cara seküre come se dovessimo prenderla per condurla in un'altra casa, in un'altra vita. Diedi una ricca mancia a Hayriye che apri’ la porta. seküre indossava l'abito rosso da sposa e l'acconciatura nuziale rosa che le arrivava fino ai piedi; tra pianti, singhiozzi, sospiri (una donna sgrido’ i bambini), grida e auguri di buona sorte usci’ di casa e monto’ sul secondo cavallo bianco che avevamo portato con noi. C'erano un tamburino e un suonatore di zurna ingaggiati all'ultimo momento dal barbiere che provava tenerezza nei miei confronti, e quando attaccarono una marcia nuziale, il nostro corteo, un corteo povero, triste, ma orgoglioso, si mise in cammino. Appena i cavalli si mossero, capii che il corteo nuziale era uno stratagemma inventato da seküre con la sua solita astuzia per mettere al sicuro il matrimonio. Grazie al corteo, anche se all'ultimo momento, il matrimonio veniva annunciato all'intero quartiere, e cosi’ confermato da tutti, e gli eventuali ricorsi sarebbero apparsi deboli. Ma d'altra parte, far sapere apertamente che stavamo per sposarci, celebrare le nozze in maniera palese come se sfidassimo i nostri nemici, l'ex marito di seküre e la sua famiglia, metteva in pericolo la cosa fin dall'inizio. Se fosse dipeso da me, mi sarei sposato con seküre in segreto, senza farlo sapere a nessuno, senza festa, e una volta diventato suo marito avrei difeso il nostro matrimonio. In testa al corteo nuziale, mentre procedevo per le strade del quartiere sul bianco cavallo da fiaba, i miei occhi impauriti cercavano Hasan e i suoi uomini che potevano aggredirci da una strada o dalla porta di un cortile buio. Vidi i vecchi davanti alle porte, davanti ai muri, che guardavano il nostro strano corteo nuziale senza capire bene cosa accadesse, ma con rispetto, e vidi gli uomini del quartiere e gli estranei che si fermavano per salutarci. Nel piccolo mercato, dove entrammo assolutamente per caso, capii subito dall'allegria del fruttivendolo che recito’: «Che Allah vi benedica!», e fece tre-quattro passi con noi, senza allontanarsi troppo dalle sue mele cotogne, carote, mele, dal sorriso del droghiere triste, dagli sguardi di approvazione del fornaio che faceva grattare dal suo apprendista le parti bruciate dei pasticcini, che in realta’ seküre aveva abilmente attivato la rete di voci e pettegolezzi, e che il divorzio e il nuovo matrimonio erano stati resi noti e accettati nel quartiere in brevissimo tempo. Ma stavo all'erta, comunque, temevo continuamente una spiacevole e inaspettata incursione, bastava la minima provocazione, una frase antipatica. Percio’ non mi lamentai assolutamente degli strilli e degli scherzi dei bambini che ci vennero dietro per chiedere la mancia all'uscita del mercato. Capivo che la loro allegria, il loro rumore e la loro folla ci proteggeva e ci approvava, vedevo i sorrisi delle donne dietro le finestre, le persiane, le grate. Il mio sguardo era fisso sulla strada che il corteo aveva preso, grazie al cielo, finalmente stavamo riprendendo la via di casa, ma il mio cuore era vicino a seküre e alla sua tristezza. In realta’ quello che mi rattristava non era la sfortuna che
l'aveva costretta a sposarsi nel giorno della morte del padre, ma era quella festa, cosi’ misera e incolore. La mia seküre era degna di cavalli bardati d'argento con selle ricamate, e su quei cavalli, di cavalieri con abiti di seta, pellicce di zibellino e ricami d'oro, di doni e corredi caricati su centinaia di carri e cavalli, e dietro di lei un seguito di decine di figlie di pascia’, sultane e una folla di anziane dell'harem che, sedute sui carri, parlassero della ricchezza dei tempi andati. Invece alla sua festa non c'erano neanche quattro servitori che, con i bastoni in mano, sostenessero la coperta di seta rosso sangue tesa ai quattro lati del cavallo che si usa per proteggere le figlie dei ricchi dal malocchio, non c'era un servitore che la precedesse portando con sfarzo le enormi candele nuziali ornate di frutta, foglie d'oro e d'argento, pietre, fili lucenti e ornamenti a forma d'albero. Neanche il tamburino e il suonatore di zurna avevano rispetto per il corteo nuziale, smettevano spesso di suonare e, dato che davanti a noi non c'era nessuno che gridasse «Spostatevi, spostatevi, arriva la sposa», ci mescolavamo tra la folla del mercato, tra i servitori che prendevano l'acqua alla fontana della piazza, e io piu’ che vergogna provavo un dolore da piangere. Mentre stavamo avvicinandoci a casa, trovai il coraggio di guardarla voltandomi indietro sul mio cavallo, e capii che seküre, dietro i fili nuziali rosa e il velo rosso sangue, invece di rattristarsi per queste mancanze che non meritava assolutamente, adesso era piu’ serena per aver finito la sfilata e il percorso senza incidenti, e allora mi rilassai anch'io. Cosi’ feci scendere la bella sposa a cui tra poco mi sarei unito con i gesti che fanno tutti gli sposi, la presi sottobraccio e versai lentamente con la mano sulla sua testa un borsellino di akçe in modo che tutti vedessero e si divertissero. Mentre i bambini che ci erano venuti dietro durante quel triste corteo nuziale davano la caccia alle monete, io e seküre entrammo nel cortile, passammo dall'ingresso e, appena entrati in casa, ci accorgemmo con terrore dell'intenso fetore di cadavere e del caldo. Mentre la folla del corteo nuziale si sistemava in casa, vedendo seküre che si comportava come se non ci fosse nessun odore, proprio come gli anziani, le donne e i bambini a casa (da un angolo, Orhan mi guardava sospettoso), per un attimo ne dubitai anch'io; ma avevo sentito cosi’ chiaramente nella bocca, nel naso e nei polmoni il fetore dei cadaveri rimasti al sole sui campi di battaglia, con gli abiti strappati, scarpe, stivali, cinture a pezzi, con il viso, gli occhi, le labbra ormai ridotti a cibo per lupi e uccelli, che ero sicuro di non sbagliarmi. Giu’ in cucina, chiesi a Hayriye dove fosse Zio Effendi, e come mai la casa puzzasse cosi’, le dissi che sarebbe venuto fuori tutto. Questo non era parlare ma delirare bisbigliando. E pensavo anche che era la prima volta che parlavo a Hayriye da padrone. «Come avete ordinato l'abbiamo messo sul materasso con la camicia da notte, e l'abbiamo coperto con la trapunta, e al suo capezzale abbiamo portato i bicchieri con gli sciroppi. Se puzza e’ per via del caldo del braciere nella stanza», disse piangendo. Qualche lacrima fini’ nella pentola dove friggeva la carne di montone. Capii che Zio Effendi di notte la prendeva nel suo letto, e mi vergognai di averlo pensato. Esther, che sedeva in orgoglioso silenzio in un angolo della cucina, inghiotti’ quello che stava masticando e si alzo’ in piedi. «Falla felice, - disse. - Tratta seküre come si merita». Il mio primo giorno a Istanbul avevo sentito dentro quel suono di liuto che udivo camminando per le strade, ma nel suo ritmo c'era piu’ vita che tristezza. Anche dopo, mentre Imam Effendi ci sposava, nella stanza in penombra dove giaceva mio zio con la camicia da notte, dentro di me risuonava il ritmo di quella musica. Mio zio era in camicia da notte, non si vedeva che non era malato ma cadavere perche’ Hayriye, prima, in un batter d'occhio aveva fatto prendere aria alla stanza e aveva nascosto la candela in un angolo buio, e durante la cerimonia fu lui il tutore di seküre; il mio amico barbiere e un saccente anziano del quartiere fecero da testimoni. Nel corso della cerimonia, che termino’ con gli auguri, i consigli e le preghiere di tutti, un vecchio, preoccupato per la sua salute, stava per avvicinarsi a mio zio, ma appena l'imam ci ebbe uniti in matrimonio, di scatto, presi la mano contratta di mio zio e con tutta la mia forza urlai: «Non vi preoccupate, caro zio, mio signore. Faro’ di tutto per far vivere seküre e i bambini con la pancia piena, le spalle coperte, serenita’ e amore». Poi feci finta che mio zio dal letto cercasse di sussurrarmi qualcosa, e appoggiai l'orecchio alla sua bocca con attenzione e rispetto, proprio come noi giovani rispettosi ascolteremmo attenti un paio di consigli provenienti dal filtro di una vita intera, quando cogliamo il momento propizio per un anziano che rispettiamo, come se bevessimo un magico elisir, ecco, cosi’ anch'io aprii bene occhi e orecchie e feci finta di ascoltare mio zio. Imam Effendi e il vecchio del quartiere mi guardarono con approvazione, apprezzando la mia fedelta’ e infinita devozione nell'ascoltare i consigli che il suocero mi sussurrava dal suo capezzale, dalla soglia della morte. Spero che a questo punto nessuno pensi piu’ che io abbia avuto parte nell'assassinio di mio zio. Agli ospiti della festa che erano nella stanza dissi che il pover'uomo malato voleva rimanere solo. Uscirono subito, e mentre passavano nella stanza accanto, dove erano riuniti gli uomini a mangiare riso e carne di montone fritta (adesso anch'io non distinguevo piu’ l'odore di cadavere da quello di carne fritta con origano e cumino) preparati da Hayriye, uscii in anticamera e, come un uomo triste che gira distratto e pensieroso per la propria casa, aprii sconsideratamente la porta della stanza di Hayriye e vi entrai sconsideratamente, senza badare alle donne terrorizzate dall'uomo, guardai dolcemente seküre, i cui occhi sorridevano felici, e le dissi: «Tuo padre ti chiama, seküre, ora siamo sposati, gli bacerai la mano». Un paio di donne del quartiere che seküre aveva fatto chiamare per rendere pubblico il matrimonio e le ragazze che presi per parenti per la devozione nei loro sguardi, cercarono di mettersi in ordine e fecero finta di coprirsi il volto mentre mi squadravano saziandosi per bene gli occhi. Piu’ tardi, non molto dopo la preghiera serale, la folla della festa si dissolse, aveva finito di mangiare noci, mandorle, gelatina di frutta e caramelle di zucchero candito. Nella stanza delle donne, il pianto continuo di seküre e i capricci e i
litigi dei bambini avevano scacciato l'allegria; tra gli uomini, invece, il fatto che io non ridessi alle battute dei vicini sulla prima notte di nozze e rimanessi chiuso in un triste silenzio venne interpretato come afflizione per la malattia di mio suocero. Tra tutte queste angosce, la scena che piu’ mi e’ rimasta impressa e’ quella in cui, prima di cena, una volta rimasti soli, io e seküre salimmo nella stanza dello zio e, con vero rispetto, baciammo entrambi la mano fredda e contratta del morto; poi, ritiratici in un angolo buio della stanza ci baciammo come se dopo tanta sete bevessimo acqua senza saziarcene. Ero riuscito a prendere in bocca la calda lingua di mia moglie, aveva il sapore delle caramelle che i bambini mangiucchiavano di continuo.
Capitolo trentaquattresimo. Io, seküre Una volta che se ne furono andati tutti dalla porta del cortile - anche gli ultimi ospiti della nostra triste festa nuziale si erano rimessi le scarpe, si erano coperti per bene ed erano usciti trascinandosi dietro i figli che si infilavano in bocca l'ultima caramella - rimanemmo a lungo in silenzio. Eravamo in cortile, si udiva solo il becchettio del passero che beveva l'acqua dal secchio del pozzo. Quando anche quest'uccello - aveva sul capino delle piume cortissime che luccicavano alla luce del focolare - se ne fu andato, realizzai con dolore che mio padre giaceva morto di sopra, nel suo letto, nella nostra casa perduta nella notte. «Bambini, - dissi con un tono che sevket e Orhan conoscono molto bene e che uso per gli annunci importanti. - Venite un po' qui». Vennero. «D'ora in poi Nero sara’ vostro padre. Baciategli la mano». Gliela baciarono silenziosi e ubbidienti. «I miei sfortunati orfanelli sono cresciuti senza padre e non sanno assolutamente come ubbidire a un padre, come ascoltarlo guardandolo negli occhi e come averne fiducia, - dissi a Nero. - Percio’ sono certa che se saranno irriverenti, freddi, immaturi e infantili li sopporterai, consapevole che sono cresciuti senza mai vedere il padre, senza conservarne ricordi». «Io ricordo mio padre», disse sevket. «Sssh... ascolta. D'ora in poi la parola di Nero per voi sara’ superiore alla mia -. Mi voltai verso Nero. - Se non ti daranno retta, se saranno irriverenti, se ti mostreranno anche il minimo segno di insolenza, capriccio, impertinenza, prima redarguiscili, poi perdonali, - dissi rinunciando allo schiaffo che stavo per dare a tutti e due. - Nel tuo cuore io e loro dobbiamo avere lo stesso posto». «seküre, Mia Signora, io non ti ho sposata solo per essere tuo marito, ma anche per essere il padre di questi adorabili orfanelli», disse Nero. «Avete sentito?» «Allah, Mio Signore non farci mancare la tua luce, - disse Hayriye, dall'angolo. - Allah, Mio Signore, proteggici». «Avete sentito, no? - dissi. - Bambini miei, belli e bravi, vostro padre vi ama tanto e se, per sbaglio, vi capitera’ di disubbidirgli, lui, all'inizio, vi perdonera’». «Li perdonero’ anche in seguito», disse Nero. «Ma se faranno qualcosa che hai detto loro di non fare per ben tre volte... Allora si meriteranno le botte, - dissi. - Avete capito? Il vostro nuovo padre Nero e’ tornato dalle terribili guerre da cui vostro padre buonanima non e’ riuscito a tornare, dalle piu’ cattive e piu’ infami, e’ un duro. Il nonno vi ha viziati, si faceva mettere i piedi in testa. Ma ormai vostro nonno e’ molto malato». «Voglio andare dal nonno», disse sevket. «Se non sarete ubbidienti, Nero vi insegnera’ che le botte sono benedette. E il nonno non potra’ salvarvi dalle mani di Nero, come faceva con me. Se non volete far arrabbiare vostro padre, non litigherete piu’ tra di voi, dividerete tutto quello che avete, non direte bugie, pregherete, non andrete a dormire senza avere studiato le vostre lezioni, non direte male parole a Hayriye e non la prenderete in giro... Avete capito?» Nero si chino’ e, con un solo gesto, prese in braccio Orhan, ma sevket rimase lontano. Per un attimo mi venne voglia di abbracciarlo e piangere. Povero triste orfanello, mio povero sevket solo e abbandonato, come sei solo in questo immenso mondo. Per un attimo mi sentii una bambina piccola. Pensai alla mia infanzia, ricordai che anch'io una volta andavo in braccio al mio caro padre come Orhan che adesso era in braccio a Nero, ma lo facevo con gioia, non nel modo innaturale di Orhan, sembrava un frutto attaccato all'albero sbagliato, noi ci abbracciavamo e ci annusavamo di continuo, come fanno i cani. Stavo per scoppiare a piangere ma - con qualche difficolta’ - mi trattenni e, anche se non avevo affatto in mente una cosa del genere, dissi: «Su, chiamate Nero «papa’»». Come era fredda la notte, come era silenzioso il nostro cortile. Molto lontano i cani abbaiavano tristi e dolenti. Passo’ un po' di tempo, il silenzio sboccio’ come un fiore buio e si distese su tutto senza farsi notare. «Va bene, bambini. Entriamo in casa, non prendiamo freddo». Entrammo in casa esitanti, con la timidezza tipica degli sposi che temono di rimanere da soli dopo la festa, non solo io e Nero, ma anche i bambini, Hayriye, tutti quanti. Dentro si sentiva il fetore del cadavere, ma nessuno sembrava accorgersene. Mentre salivamo le scale in silenzio le ombre proiettate sui muri dalle candele che tenevamo in mano,
come sempre, giravano e si confondevano tra loro, si ingrandivano e rimpicciolivano, ma mi sembrava che accadesse per la prima volta. Al piano di sopra, in anticamera, mentre ci toglievamo le scarpe, sevket disse: «Prima di andare a dormire devo dare un bacio al nonno?» «L'ho visto poco fa, - disse Hayriye. - Tuo nonno sta veramente male, soffre cosi’ tanto che gli spiriti maligni sono entrati dentro di lui; ha la febbre. Andate nella vostra stanza, vi preparo il letto». Li aveva gia’ fatti entrare nella stanza. Mentre metteva a terra i materassi, le lenzuola e le trapunte diceva che dormire qui, in una stanza calda, nel mezzo della notte, tra lenzuola pulite e sotto calde trapunte di piuma d'oca, era come dormire nel Palazzo del sultano. «Hayriye, raccontaci una favola», disse Orhan seduto sul suo vaso da notte. «C'era una volta un uomo azzurro, - disse Hayriye. - E c'era anche il suo piu’ caro amico, un ginn». «Perche’ l'uomo era azzurro?», domando’ Orhan. «Hayriye, per amor di Dio, - la interruppi. - Almeno stasera non raccontare storie di spiriti, fate e fantasmi». «Perche’ non deve raccontarle? - chiese sevket. - Mamma, quando noi ci addormentiamo tu esci dal letto e vai dal nonno?» «Vostro nonno, che Allah lo protegga, e’ molto malato. Certo che di notte andro’ da lui per curarlo. Ma poi torno a letto!» «Manda Hayriye dal nonno, - disse sevket. - Di notte, non e’ lei che lo cura?» «Hai finito?», domando’ Hayriye a Orhan. Mentre gli puliva il sedere, Orhan aveva un'aria dolcemente distratta, diede un'occhiata nel vaso da notte e fece una smorfia, non per la puzza ma perche’ trovava insufficiente quello che vedeva. «Hayriye, - dissi. - Svuota il vaso da notte e riportamelo. Stanotte sevket non deve uscire dalla stanza». «Perche’ non devo uscire? - domando’ sevket. - E perche’ Hayriye non puo’ raccontare favole con spiriti e fate?» Orhan, piu’ che per paura, con quell'aria di stupido ottimismo che ha sempre dopo aver fatto la cacca, rispose: «Scemo, perche’ ci sono i ginn in casa». «Mamma, e’ vero?» «Se uscite dalla stanza per andare da vostro nonno, il ginn vi scovera’». «E dove dorme Nero stanotte, dove stende il materasso?», disse sevket. «Non lo so, - dissi. - Il materasso glielo prepara Hayriye». «Mamma, tu dormi ancora con noi?», chiese sevket. «Quante volte ve lo devo dire. Dormiro’ con voi come prima». «Sempre?» Hayriye usci dalla stanza con il vaso da notte in mano. Tirai fuori dall'armadio dove li avevo nascosti i nove disegni che il vile assassino non aveva toccato e portato con se’ insieme all'ultimo disegno e mi sedetti sul letto, li guardai a lungo alla luce della candela, cercando di capirne il segreto. Questi disegni sono cosi’ belli che li puoi guardare come se fossero dei ricordi dimenticati e, come la scrittura, parlano a chi li guarda. Guardando i disegni mi estraniai. Anche Orhan si era messo a guardare quel rosso strano e incerto, lo capii dal buon profumo della sua bella testolina, me l'aveva messa sotto il naso. Come capita a volte, mi venne voglia di offrirgli il seno e allattarlo. Poi, quando si spavento’ per il terribile disegno della morte respirando dolcemente con le sue labbra rosse, mi venne voglia di mangiarmelo. «Adesso ti mangio, hai capito?» «Mamma, fammi il solletico», disse e si distese. «Alzati da li’, alzati, bestiolina», lo sgridai e gli diedi uno schiaffo, perche’ si era gettato sui disegni. Poi vidi che non era successo niente, il disegno del cavallo sopra gli altri si era un po' stropicciato, ma non si vedeva. Quando Hayriye torno’ con il vaso da notte vuoto, raccolsi i disegni. Stavo per uscire dalla stanza quando sevket urlo’ tutto agitato. «Dove vai mamma?» «Torno subito». Attraversai l'anticamera, era gelida. Nero era seduto allo stesso posto, nell'angolo dove, per quattro giorni, aveva parlato con mio padre di disegno, miniatura e prospettiva, di fronte al cuscino vuoto di mio padre. Appoggiai i disegni al leggio davanti a lui, sul cuscino in terra. All'improvviso, alla luce della candela, la stanza si riempi’ di colore, di luce, di calore, di un'incredibile vivacita’; sembrava che di colpo tutto fosse in movimento. Guardammo i disegni, rispettosi, immobili e silenziosi. Appena ci muovevamo, l'aria che portava l'odore di morte dalla stanza di fronte, faceva ondeggiare la fiamma della candela, e i misteriosi disegni di mio padre sembravano muoversi con lei. I disegni mi si erano ingranditi davanti agli occhi perche’ avevano causato la morte di mio padre? Ero rimasta incantata dalla stranezza di quel cavallo, dall'eccezionalita’ del rosso, dalla tristezza dell'albero, dalla malinconia dei due dervisci o avevo paura dell'assassino che, a causa loro, aveva ucciso mio padre e altre persone? Dopo un po', io e Nero ci rendemmo conto che, oltre che per i disegni, il silenzio calato tra noi era dovuto al fatto che eravamo rimasti soli in una stanza nella nostra prima notte di matrimonio, e avevamo entrambi voglia di parlare. «Quando ci alzeremo domattina, tutti dovranno sapere che il mio povero padre e’ morto nel sonno», dissi. Anche se era vero, le mie parole non erano sincere. «Domattina andra’ tutto bene», disse Nero nello stesso strano modo, mentre, senza crederci, diceva il vero. Fece un movimento appena accennato per avvicinarsi a me e mi venne voglia di abbracciarlo, di prendergli la testa tra le mani, come facevo con i bambini. In quel momento sentii aprirsi la porta della stanza di mio padre e saltai su terrorizzata, corsi ad aprire e guardai. Alla
luce che filtrava in anticamera, rabbrividendo, vidi che la porta della stanza di mio padre era socchiusa. Uscii nell'anticamera gelida. Nella stanza di mio padre il braciere era ancora acceso e c'era fetore di cadavere. Ci era entrato sevket, o chi altro? Alla fioca luce del braciere il suo cadavere giaceva sereno nella camicia da notte. Mi venne in mente che, certe notti, prima di dormire, mentre leggeva alla luce della candela il Libro delle anime, andavo a salutarlo: «Buona notte caro papa’». Mi prendeva di mano il bicchiere, si tirava un po' su e diceva: «Che tu non rimanga mai sola, tesoro mio», poi mi baciava sulla guancia come quando ero piccola e mi fissava da vicino. Guardai il terribile volto di mio padre ed ebbi paura. Da una parte non volevo guardarlo in faccia, dall'altra volevo vedere quanto era diventato terribile il suo viso, era come se Satana mi spingesse ad avvicinarmi. Ero appena tornata molto spaventata nella stanza con la porta azzurra, quando Nero mi fu addosso. Lo respinsi, piu’ che con rabbia, senza sapere cosa facevo. Alla luce tremolante della candela, ci demmo qualche spinta, ma piu’ che una vera e propria lotta, ne sembrava l'imitazione. Batterci ci piaceva, toccarci le braccia, le gambe, il petto. La mia confusione mentale somigliava allo stato d'animo di cui parla Nizami nel Cosroe e sirin. Chissa’ se Nero, che aveva letto tanto Nizami, sentiva che mentre dicevo, come sirin, «Non baciarmi in bocca, non sciuparmi le labbra, non lo fare», intendevo dire «continua»? «Non verro’ a letto con te finche’ non si sara’ trovato quel demonio, l'assassino di mio padre», dissi. Mentre uscivo dalla stanza come se fuggissi, provai vergogna. Avevo parlato a voce talmente alta ed era chiaro che volevo farmi sentire dai bambini e Hayriye. Sembrava che volessi far udire le mie urla a loro, come al mio povero padre e alla buonanima di mio marito, il cui cadavere decomposto era tornato polvere in qualche landa desolata. Appena tornata dai bambini, Orhan disse: «Mamma, sevket e’ uscito in anticamera». «Sei uscito?», gli chiesi e feci per dargli uno schiaffo. «Hayriye», disse sevket aggrappandosi a lei. «Non e’ uscito, - disse Hayriye. - rimasto sempre in camera». Per un attimo rabbrividii e non riuscii a guardarli negli occhi. Capii subito che, dopo l'annuncio della morte di mio padre, per salvarsi dalla mia ira i bambini si sarebbero rivolti a Hayriye, le avrebbero confidato i nostri segreti e questa vigliacca di una serva avrebbe colto l'occasione per cercare di dominarmi. Sarebbe capace di darmi la colpa della morte di mio padre e farsi concedere da Hasan la tutela dei bambini! Ne sarebbe capace! Tutta quest'insolenza solo perche’ andava a letto con la buonanima di mio padre. Perche’ dovrei nascondervelo ormai? Lo faceva di certo. Le sorrisi con dolcezza. Poi presi in braccio sevket e lo baciai. «Ti dico che sevket e’ uscito in anticamera», disse Orhan. «Andate a letto, lasciatemi in mezzo che vi racconto la storia dello sciacallo senza coda e dello spirito nero». «Ma hai detto a Hayriye di non raccontare favole di spiriti, - disse sevket. - Perche’ stanotte Hayriye non le puo’ raccontare?» «Gli spiriti passeranno anche per la citta’ dei bambini abbandonati?», chiese Orhan. «Ci passeranno! - risposi. - In quella citta’ i bambini non hanno ne’ mamma ne’ papa’. Hayriye, vai giu’ a controllare un'altra volta le porte. A meta’ favola ci addormenteremo». «Io non mi addormento», disse Orhan. «Dove dorme Nero stasera?», domando’ sevket. «Nello studio. Avvicinatevi bene alla mamma, ci riscaldiamo insieme sotto la trapunta. Di chi sono questi piedini gelidi?» «Sono miei, - disse sevket. - E Hayriye dove dorme?» Dopo un po' che avevo iniziato la favola, come sempre per primo s'addormento’ Orhan, e io abbassai la voce. «Quando mi saro’ addormentato, non ti alzerai dal letto, vero mamma?», chiese sevket. «Non mi alzero’». E non ne avevo affatto l'intenzione. Quando anche sevket si fu addormentato, cominciai a pensare che dormire abbracciata ai miei figli nella notte del mio secondo matrimonio era una gran felicita’, e poi di la’ avevo anche un marito bello, intelligente e pieno di desiderio. A quanto ricordo, in quel misterioso e inquieto stato tra sogno e veglia, prima feci i conti con l'irata anima di mio padre buonanima, poi cercai di sfuggire all'immagine del vile assassino che voleva mandarmi a tenergli compagnia, ma l'assassino, piu’ terribile dell'anima di mio padre, non mi lasciava in pace e fece rumore. Nel sogno, tirava delle pietre contro la nostra casa. Colpi’ la finestra e il tetto. Tiro’ una pietra anche contro la porta, anzi mi sembro’ che la forzasse. Poi, quando questo spirito maligno emise un suono lamentoso che sembrava l'ululato o il gemito di un animale, il cuore comincio’ a battermi all'impazzata. Mi svegliai tutta sudata. Avevo sentito quello strano rumore nel sogno o veniva veramente dalla casa e mi avevano svegliata? Non riuscivo a capirlo, mi avvicinai ai bambini e restai ad aspettare immobile. Mi ero quasi convinta di avere sentito questi rumori nel sonno, quando udii di nuovo lo stesso lamento. Poi, in cortile, cadde qualcosa di grande e rumoroso. Era un'altra pietra? All'improvviso mi spaventai sul serio. Ma il peggio arrivo’ dopo. Sentivo scricchiolii per la casa. Dov'era Hayriye, in quale stanza dormiva Nero? E il cadavere del mio povero padre? Allah proteggici. I bambini dormivano profondamente. Se fosse stato prima di sposarmi, mi sarei alzata dal letto e cercando di vincere la paura e di dominare la situazione come l'uomo di casa, avrei sfidato spiriti e anime. Invece adesso me ne stavo acquattata e abbracciata ai miei figli. Era come se non ci fosse nessuno al mondo, e nessuno avrebbe aiutato me e i bambini. Mi aspettavo una sventura e mi misi a pregare Allah. Ero sola come nei sogni. Sentii aprirsi la porta del cortile. Era la porta del cortile? Si’. Improvvisamente mi alzai senza pensare cosa facevo, presi il mantello e uscii. «Nero!», bisbigliai in cima alle scale. Avevo messo qualcosa ai piedi e scesi giu’. La candela che avevo acceso in fretta col fuoco del braciere appena uscita
in cortile si spense. Si era alzato un forte vento, ma il cielo era limpido; quando i miei occhi si abituarono all'oscurita’, vidi che la mezza luna illuminava bene tutto. Dio mio! La porta del cortile e’ aperta. Rimasi di stucco tremando al freddo. Perche’ non avevo preso un coltello? In mano non avevo nemmeno un candelabro, un pezzo di legno. Nel buio, per un attimo vidi che la porta del cortile si muoveva da sola, poi, probabilmente quando si fermo’, ne udii il cigolio. Ricordo di aver pensato che era come un sogno. Quando udii uno scricchiolio in casa che sembrava provenire dal tetto, capii che l'anima del mio povero padre aveva difficolta’ a uscire dal corpo. Sapere che l'anima di mio padre soffriva mi addoloro’, ma allo stesso tempo mi rilasso’. Se la causa di tutti questi scricchiolii e’ mio padre, allora non me ne verra’ nulla di male. Ma il dolore della sua anima, sola, che si dibatteva per uscire dal corpo al piu’ presto per innalzarsi mi rattristo’ talmente che cominciai a pregare Allah che lo aiutasse. Mi rasserenai pensando che l'anima di mio padre avrebbe protetto me e i bambini. Se fuori dalla porta del cortile c'e’ un demone intenzionato a compiere qualche malvagita’, che tema l'anima inquieta di mio padre. Proprio in quel momento, pensai con angoscia se non fosse Nero a rendere inquieto mio padre. Mio padre sta facendo qualcosa di cattivo a Nero? Dov'era Nero? In quell'istante, appena fuori dalla porta del cortile, lo vidi per strada e mi fermai. Parlava con qualcuno. Mi accorsi che, dal giardino vuoto, dall'altra parte della strada, dietro gli alberi, qualcuno parlava con Nero. Oltre a capire che il lamento che avevo sentito poco fa dal letto apparteneva a questa voce, mi resi conto che era Hasan. Nella sua voce c'era una specie di supplica, una specie di pianto, non privo di un tono minaccioso. Li ascoltai da lontano. Stavano regolando i conti nella notte silenziosa. In quello stesso istante, capii anche che, nella vita, ero rimasta sola con i miei figli. Pensavo di amare Nero, ma in realta’ non volevo amare solamente lui. Perche’ nella voce malinconica di Hasan, nel dolore che avevo intuito, c'era qualcosa che mi strappava il cuore. «Domani portero’ qui il cadi’, i giannizzeri, dei testimoni che giureranno che mio fratello e’ vivo e combatte ancora sulle montagne della Persia, - diceva. - Il vostro matrimonio non e’ legittimo. Qui dentro si commette adulterio». «seküre non era tua moglie, ma della buonanima di tuo fratello», disse Nero. «Mio fratello e’ vivo, - disse Hasan convinto. - Ci sono dei testimoni che l'hanno visto». «Stamattina, il cadi’ di Scutari ha concesso a seküre il divorzio perche’ lui non torna dalla guerra da ormai quattro anni. Se e’ vivo, che i tuoi testimoni gli dicano che e’ divorziato». «Prima di sposarsi, seküre avrebbe dovuto aspettare un mese, - continuo’ Hasan. - contro la religione e il Santo Corano. Come mai il padre di seküre ha accettato una simile indecenza?» «Zio Effendi, - disse Nero, - e’ molto malato. in punto di morte... stato il cadi’ a concedere il permesso per il matrimonio». «Avete avvelenato tuo zio insieme o lo avete fatto con l'aiuto di Hayriye?», chiese Hasan. «Mio zio e’ immensamente triste per quello che hai fatto a seküre. Se e’ vivo, anche tuo fratello potrebbe chiedere conto della tua disonesta’». «Sono tutte bugie, - disse Hasan. - Scuse che ha inventato seküre per scappare di casa». Da casa arrivo’ un urlo, era Hayriye. Poi urlo’ anche sevket, si gridavano qualcosa l'un l'altro. Senza volerlo, spaventata, istintivamente anch'io urlai e corsi in casa senza capire bene perche’. sevket scese le scale di corsa e usci’ in cortile. «Il nonno e’ gelato, - grido’. - Il nonno e’ morto». Ci abbracciammo. Lo presi in braccio. Hayriye continuava a sbraitare. Nero e Hasan avevano sentito tutto. «Mamma, hanno ucciso il nonno», disse questa volta sevket. Lo sentirono tutti. L'aveva sentito anche Hasan? Abbracciai sevket piu’ stretto. Senza agitarmi lo riportai in casa. In cima alle scale, Hayriye si chiedeva come avesse fatto il bambino a scappare di nascosto. «Mamma, ci avevi detto che non ci avresti lasciato», disse sevket. Scoppio’ a piangere. Pensavo a Nero sulla porta del cortile. Avevo ancora in mente Hasan, e Nero che non riusciva a chiudere la porta. Baciai sevket sulle guance, lo strinsi forte, gli annusai il collo, lo calmai e lo misi in braccio a Hayriye. «Voi due salite su, Hayriye», dissi a bassa voce. Salirono di sopra. Mi girai verso la porta del cortile. Pensavo che li’ dove ero, a qualche passo dalla porta, Hasan non mi potesse vedere. Di fronte, nel giardino buio, aveva cambiato posto, era passato dietro gli alberi bui sul bordo della strada? Invece mi vedeva, mentre parlava si rivolgeva anche a me. Quello che mi irritava non era il fatto di parlare con qualcuno di cui, al buio, non vedevo il volto. Mentre colpevolizzava me, noi, mi innervosivo perche’ capivo che, in realta’, aveva ragione, scoprivo di non averla affatto io, di essere colpevole - come mi faceva sentire sempre anche mio padre - e, con tristezza, mi rendevo conto di essere innamorata dell'uomo che parlava. Allah aiutami. L'amore e’ un mezzo per soffrire inutilmente o la via per arrivare a te? Hasan disse che ero stata io a uccidere mio padre d'accordo con Nero. Disse che aveva sentito le parole di mio figlio, che in realta’ era tutto molto chiaro e che avevamo commesso un peccato mortale. L'indomani mattina sarebbe andato a raccontare tutto al cadi’. Se non ero colpevole, se le mie mani non erano rosse del sangue di mio padre, avrebbe riportato a casa me e i bambini e ci avrebbe fatto da padre finche’ il fratello non fosse tornato dalla guerra. Se invece ero colpevole, in quanto donna spietata che ha abbandonato il marito che rischia la vita in guerra, meritavo ogni sorta di pena. Lo ascoltammo, poi, tra gli alberi ci fu un attimo di silenzio. «Adesso, se torni di tua volonta’ a casa del tuo vero marito, - disse Hasan con un atteggiamento completamente diverso, - se prendi i bambini e vieni a casa buona buona, in silenzio, senza farti vedere da nessuno, io dimentico tutto, l'intrigo
del falso matrimonio, quello che ho saputo stasera, le vostre colpe, e perdono tutto. seküre, aspetteremo pazientemente insieme il ritorno di mio fratello dalla guerra». Era ubriaco? Nella sua voce c'era qualcosa di cosi’ infantile che adesso ero io a preoccuparmi, perche’ la sua proposta davanti a mio marito avrebbe potuto costargli la vita. «Hai capito?» mi domando’ tra gli alberi. Nel buio, non riuscivo a vedere esattamente dove fosse. Allah aiutaci tutti, noi tue creature peccatrici. «Non puoi vivere sotto lo stesso tetto con l'uomo che ha ucciso tuo padre, seküre, lo so». Per un attimo mi venne in mente che potesse essere stato lui a uccidere mio padre. E adesso, forse, ci prendeva in giro. Questo Hasan era diabolico. «Ascoltami, Hasan Effendi, - disse Nero nel buio. - Mio suocero e’ stato ucciso, questo e’ vero. L'ha ucciso un vigliacco». «stato ucciso prima del matrimonio, vero? - disse Hasan. - L'avete ucciso perche’ si era opposto all'intrigo del matrimonio, al divorzio simulato, ai falsi testimoni, alle vostre truffe. Se avesse pensato che Nero era un uomo perbene, non gli avrebbe concesso sua figlia adesso, ma tanti anni fa». Aveva vissuto con la buonanima di mio marito, con noi, per anni e conosceva il nostro passato come uno di noi. Peggio ancora, Hasan ricordava assolutamente tutto, con la passione di un innamorato geloso, tutto quello che io e mio marito ci dicevamo in casa, le cose che avevamo dimenticato o che adesso volevamo dimenticare. Durante gli anni avevamo spartito, con lui, con suo fratello, talmente tanti ricordi che ebbi paura che adesso cominciasse a parlarne, facendomi sentire quanto mi era estraneo, nuovo e lontano Nero. «Sospettiamo che l'abbia ucciso tu», disse Nero. «L'avete ucciso per sposarvi. Questo e’ chiaro. Io invece non ho motivo per ucciderlo». «L'hai ucciso perche’ non ci sposassimo, - disse Nero. - Quando hai sentito che aveva acconsentito al divorzio e al nuovo matrimonio di seküre, hai perso la testa. Eri gia’ arrabbiato con Zio Effendi perche’ aveva incoraggiato seküre a tornare a casa sua. Volevi vendicarti di lui. Sapevi che non avresti mai potuto avere seküre finche’ lui era vivo». «Non dilungarti, - disse Hasan con fermezza. - Non posso starti a sentire. Fa molto freddo qui. Stavo gia’ morendo di freddo prima, mentre tiravo pietre per attirare la vostra attenzione. Non mi avete sentito». «Nero era in casa, stava guardando i disegni di mio padre», dissi io. Avevo fatto male a dirglielo? Hasan parlo’ con quel tono artificiale, proprio come quello che assumevo io a volte, senza volere, quando parlavo con Nero: «seküre, Mia Signora, se tu, in quanto moglie di mio fratello, adesso prendessi i bambini e tornassi subito a casa dell'eroico cavaliere al quale sei legalmente sposata, faresti la cosa migliore». «No, - risposi come se bisbigliassi alla notte. - No, Hasan, no». «Allora la responsabilita’ e la fedelta’ che ho nei confronti di mio fratello mi impongono di riferire subito tutto quel che ho sentito al cadi’ domattina. Altrimenti ne saro’ ritenuto responsabile». «Sarai comunque responsabile, - disse Nero. - Nel momento in cui andrai dal cadi’, io raccontero’ che hai ucciso tu Zio Effendi, il devoto servo del Nostro Sultano. Questa mattina». «Va bene, - disse Hasan calmo. - Diglielo». Strillai. «Verrete entrambi torturati! - urlai. - Non andate dal cadi’. Aspettate. Chiariremo tutto». «Non ho paura della tortura, - disse Hasan. - Sono gia’ stato torturato due volte e ogni volta ho visto che durante la tortura il colpevole e l'innocente si distinguono. Sono i calunniatori che devono temere la tortura. Raccontero’ anche del libro e dei disegni del povero Zio Effendi al cadi’, al comandante dei giannizzeri, allo seyhülislam, a tutti. Tutti parlano di quei disegni. Cosa c'e’ in quei disegni?» «Non c'e’ niente», disse Nero. «Allora li hai guardati subito». «Zio Effendi mi ha chiesto di portare a termine il libro». «Bene. Speriamo che ci torturino insieme». Rimasero entrambi in silenzio. Poi udimmo il rumore dei suoi passi provenire dal giardino vuoto. Se ne andava o si avvicinava? Non lo vedemmo ne’ riuscimmo a capire. Per lui era un inutile fastidio passare, al buio pesto, tra spine, cespugli e rovi dall'altra parte del giardino. Poteva scomparire senza che lo vedessimo anche passando tra gli alberi e girandoci davanti, ma non lo sentimmo assolutamente venire verso di noi. All'improvviso urlai: «Hasan!» Ma non ottenni risposta. «Zitta», disse Nero. Tremavamo tutti e due per il freddo. Senza aspettare, chiudemmo bene le porte ed entrammo in casa. Prima di andare nel letto riscaldato dai bambini tornai a guardare mio padre. Nero, invece, si sedette davanti ai disegni.
Capitolo trentacinquesimo. Io, il cavallo Non fateci caso se adesso me ne sto qui calmo e tranquillo, in realta’ sono secoli che corro. Attraverso le pianure, vado in guerra, porto le malinconiche figlie degli scia’ e le faccio sposare, corro dalla favola alla storia, dalla storia alla leggenda, di libro in libro, pagina dopo pagina. Appaio in molte favole e storie, in molti libri e molte guerre, ho
accompagnato eroi invincibili, innamorati leggendari, eserciti da sogno e ho corso da una guerra all'altra con i nostri vittoriosi sultani e, ovviamente, sono stato disegnato molte ma molte volte. Come ci si sente a essere stato disegnato cosi’ tante volte? Certo, ne sono orgoglioso, ma mi chiedo se sono sempre io quello che viene disegnato. Da questi disegni si capisce anche che ognuno mi ha in testa con una forma diversa. Ma sento chiaramente che tra i disegni c'e’ una comune peculiarita’, un comune accordo. Tempo fa, gli amici miniaturisti raccontavano delle storie e da loro ho saputo questa. Il re degli infedeli europei pensa di sposarsi con la figlia del Doge di Venezia. Si sposeranno, ma se il veneziano fosse povero e la figlia brutta? Chiede quindi al suo miniaturista piu’ esperto di ritrarre la figlia del Doge di Venezia, il suo patrimonio, quel che possiede. Dato che i veneziani non sanno cosa voglia dire proteggere la propria intimita’, mostrano al pittore la figlia, e cosi’ i cavalli e i palazzi. E l'abile pittore disegna talmente bene quella ragazza e quel cavallo che, vedendoli, li riconosceresti. Mentre, nel cortile del suo palazzo, il re europeo ammira i disegni arrivati da Venezia per decidere se sposarla, il suo cavallo si eccita e cerca di montare il bel cavallo del disegno e gli stallieri hanno qualche difficolta’ a fermare l'animale impazzito che, con il suo enorme attrezzo, distrugge disegno e cornice. Dicono che quello che fece impazzire il cavallo europeo non fu la bellezza del cavallo veneziano - per essere bello era bello - ma il fatto che fosse disegnato prendendo esempio da un determinato cavallo femmina, proprio come se lo fosse. Allora e’ un peccato essere disegnato come quel cavallo, proprio come un vero cavallo? Per quanto mi riguarda, come vedete, sono veramente poco diverso dagli altri cavalli. In realta’, coloro che fanno attenzione alla bellezza del mio ventre, alla lunghezza delle mie gambe, alla mia postura orgogliosa, capirebbero che sono diverso. Ma queste bellezze non rivelano la mia diversita’ di cavallo, ma la diversita’ di talento del miniaturista che mi ha disegnato. Sapete tutti che non esiste un cavallo assolutamente identico a me. Io sono solo il disegno dell'immagine di cavallo propria del miniaturista. Ma quanto e’ bello questo cavallo! dice chi mi guarda. In realta’ non elogiano me, ma il miniaturista. Infatti, i cavalli sono tutti differenti tra loro, e il primo a notarlo dev'essere il miniaturista. Venite a vedere, ogni stallone ha un attrezzo che non somiglia a quello degli altri. Non abbiate paura, potete guardare bene, da vicino, anzi potete prenderlo in mano. Anche il mio portentoso strumento ha una forma, le sue curve. Perche’ la squadra dei miniaturisti ci disegna a memoria, anche se noi cavalli usciamo tutti diversi dalla mano dell'artista piu’ grande, il supremo Allah? Perche’ si vantano di disegnare migliaia, decine di migliaia di cavalli senza nemmeno guardarci? Perche’ non cercano di disegnare il mondo che vedono con i loro occhi, ma il mondo che vede Allah. Questa non e’ forse una sfida all'unicita’ di Allah - Allah ce ne scampi e liberi! - non e’ forse dire posso fare anch'io quello che fa Allah? Coloro che senza accontentarsi di quello che vedono i loro occhi, disegnano migliaia di volte lo stesso cavallo nella loro immaginazione, dicendo questo e’ il cavallo che vede Allah, coloro che sostengono di disegnare il cavallo piu’ bello a memoria, i miniaturisti ciechi, non gareggiano, in realta’, con Allah e non si comportano da atei? I nuovi metodi di pittura dei maestri europei non negano Allah, al contrario, sono piu’ appropriati alla nostra religione. Ma non voglio che i fratelli di Erzurum mi fraintendano. A me non piace assolutamente che le donne degli infedeli europei vadano in giro mezze nude senza ritegno, che gli uomini che non s'intendono del sapore di caffe’ e di bei ragazzini vadano in giro senza baffi ne’ barba, con i capelli lunghi come quelli delle donne, che dicano che il profeta Gesu’ e’ anche Allah - Allah ce ne scampi e liberi! Anzi, sono molto arrabbiato, e se avessi davanti uno di loro gli tirerei un bel calcio. Ma sono stufo di venire mostrato in modo sbagliato da miniaturisti che non vanno mai in guerra e se ne stanno a casa come le donne. Mi disegnano mentre corro, con due zampe protese nello stesso istante. Non esistono cavalli che corrono come conigli. Se una delle mie zampe anteriori e’ davanti, l'altra e’ dietro. Nessun cavallo, come si vede nei disegni di guerra, mentre uno zoccolo anteriore e’ completamente a terra, allunga l'altro come un cane curioso. I cavalli di una divisione di cavalleria non possono fare tutti il passo nello stesso istante, con lo stesso zoccolo, come si disegna ripetendo venti volte la stessa forma una dopo l'altra, come se fossero una l'ombra dell'altra. Quando nessuno ci vede, cerchiamo e mangiamo l'erba verde; non aspettiamo mai diritti ed eleganti come nei disegni. Perche’ si vergognano tanto del nostro modo di mangiare, bere, cacare e dormire? Perche’ hanno paura di disegnare il mio meraviglioso attrezzo? Piace in particolare ai bambini e alle donne contemplarlo, saziando gli occhi quando non c'e’ nessuno, che male c'e’? Il Maestro di Erzurum e’ contrario anche a questo? Si narra che una volta a Shiraz c'era uno scia’ ansioso e scrupoloso. Dato che aveva paura che i suoi nemici lo facessero abdicare per far salire al trono suo figlio, non lo mando’ come governatore a Isfahan ma lo fece imprigionare nella stanza piu’ remota del Palazzo. Quando il padre mori’ di morte naturale e il principe - che aveva vissuto per trentuno anni in una stanza che non affacciava su un cortile ne’ su un giardino ed era cresciuto tra i libri - sali’ al trono, disse: «Portatemi un cavallo, l'ho sempre visto disegnato sui libri, sono molto curioso di vedere com'e’». Gli portarono il piu’ bel cavallo grigio del Palazzo, e il nuovo scia’ quando vide che aveva le narici come camini, un culo orrendo, un manto che non brillava affatto come nei disegni, una groppa rozza, fu molto deluso e fece uccidere tutti i cavalli del paese. Alla fine di questa crudele strage che duro’ quaranta giorni, i fiumi del paese si tinsero di un triste colore rosso sangue. Fu Allah a fare giustizia: il nuovo scia’, rimasto senza cavalleria, sconfitto dagli eserciti del signore turkmeno del Montone Nero, venne ucciso e fatto a pezzi, ma nessuno, come accade nei libri, si rattristo’ pensando che i cavalli non fossero stati vendicati.
Capitolo trentaseiesimo. Il mio nome e’ Nero Quando seküre si chiuse nella stanza con i bambini, rimasi a lungo ad ascoltare i rumori e gli interminabili scricchiolii della casa. A un certo punto seküre e sevket cominciarono a bisbigliare qualcosa, ma lei, brusca, lo fece tacere con un «sssh». Nello stesso istante udii un cigolio nel cortile accanto al pozzo, poi piu’ nulla. Piu’ tardi notai che un gabbiano si era posato sul tetto, ma anche lui, come tutto il resto, venne avvolto dal silenzio. Poi sentii un lamento lontano, proveniva dall'altra parte dell'anticamera, capii: era Hayriye che piangeva nel sonno. I suoi lamenti si trasformarono in tosse, e anche la tosse, com'era scoppiata, all'improvviso cesso’ e comincio’ di nuovo quell'orribile silenzio infinito. Poco dopo, credendo che ci fosse qualcuno nella stanza dove giaceva il cadavere di mio zio, ebbi un brivido. Nei momenti di silenzio, guardavo i disegni e immaginavo come ci avessero steso il colore il passionale Oliva, Farfalla dai begli occhi, il doratore buonanima. Come faceva mio zio in certe notti, mi veniva voglia di chiamare i disegni uno a uno e dire: «Satana!», «Morte!», ma la paura mi tratteneva. Questi disegni mi avevano gia’ abbastanza irritato, perche’, malgrado le insistenze di mio zio, non riuscivo a scrivere racconti adatti a loro. Nella mia mente, pian piano, si definiva l'inconfutabile realta’ che la morte di mio zio fosse dipesa da loro, e provavo paura e impazienza. Li avevo guardati a sufficienza mentre ascoltavo i racconti di mio zio, solo per stare accanto a seküre. Adesso che seküre era mia moglie, perche’ avrei dovuto prestare attenzione a queste stranezze? «Perche’, dopo che i bambini si sono addormentati, seküre non esce dal suo letto per venire da te?», disse una voce spietata dentro di me. E guardando i disegni a lume di candela, attesi paziente che la mia bella dagli occhi neri venisse a trovarmi. Al mattino, quando mi svegliai per le urla di Hayriye, afferrai il candelabro e corsi in anticamera. Per un attimo credetti che Hasan e i suoi uomini avessero fatto irruzione in casa e pensai di nascondere i disegni. Ma dopo un po' capii che Hayriye urlava per ordine di seküre, doveva annunciare la morte di Zio Effendi ai bambini e ai vicini. Quando, con seküre, ci incontrammo in anticamera, ci abbracciammo e ci stringemmo. I bambini, saltati giu’ dal letto per le urla di Hayriye, erano esitanti. «Vostro nonno e’ morto, - disse loro seküre. - Mi raccomando, non entrate in quella stanza». Si sciolse dal mio abbraccio, ando’ accanto al padre e scoppio’ a piangere. Feci entrare i bambini nella stanza da cui erano usciti. «Cambiatevi, che prendete freddo», dissi. Mi sedetti sul bordo del letto. «Il nonno non e’ morto stamattina, e’ morto ieri notte», disse sevket. Una lettera, disegnata sul cuscino da un lungo e bel capello di seküre, mi diceva «uau». La trapunta continuava a trattenere il suo calore. Adesso, insieme a Hayriye, sentivamo piangere e urlare anche lei. Che urlasse come se il padre fosse morto adesso all'improvviso mi suonava talmente falso e sorprendente che sentii di non conoscere affatto la mia seküre, doveva avere dentro di se’ un ginn a me ignoto. «Ho paura», disse Orhan. Aveva uno sguardo che chiedeva il permesso di piangere. «Non abbiate paura, - li rassicurai. - Vostra madre piange per dare la notizia della morte del nonno ai vicini e agli amici, per farli venire qua». «E che cosa vengono a fare?», chiese sevket. «Se vengono non saremo soli ad essere tristi e piangere. Cosi’ la nostra sofferenza verra’ condivisa e alleviata». «Hai ucciso tu mio nonno?», grido’ sevket. «Se fai dispiacere a tua madre, non ti voglio piu’ bene!», gli gridai di rimando. Non gridavamo come un patrigno e un orfano, ma come due persone che parlano in riva a un fiume impetuoso. seküre era andata in anticamera e cercava di aprire le persiane della finestra spingendo le ante perche’ le sue urla si udissero meglio nel quartiere. Uscii dalla stanza. Ci appoggiammo insieme alla finestra dell'anticamera, forzammo il legno della finestra. Poi, con una spinta, la persiana si apri’ e cadde in cortile. Il sole e il freddo ci colpirono in faccia, e per un attimo rimanemmo attoniti. seküre scoppio’ a piangere a dirotto, urlando come se chiamasse a raccolta tutto il mondo. La morte di Zio Effendi, annunciata con grida al quartiere, si trasformo’ per me in un dolore ancor piu’ terribile e angoscioso di quello provato finora. Anche il pianto di mia moglie, vero o falso che fosse, mi faceva soffrire. Perfino io cominciai a piangere in un modo a me inaspettato. Non so se piangevo per la tristezza, o facevo finta di piangere per paura di essere ritenuto responsabile della morte di mio zio. «Se n'e’ andato, se n'e’ andato, se n'e’ andato, ah il mio caro padre se n'e’ andato, andatoooo», urlava seküre. I miei singhiozzi e le mie parole avevano lo stesso tono, ma non sapevo bene neanch'io cosa dicevo. In quel momento mi vedevo con gli occhi della gente del quartiere che ci spiava dalle case, dalle porte socchiuse, tra le ante delle finestre, e pensavo che il mio comportamento fosse giusto. Piangendo, mi liberavo dei dubbi che la mia sofferenza e le mie lacrime fossero o non fossero vere, delle mie preoccupazioni di essere accusato di omicidio, come della paura di Hasan e dei suoi uomini. seküre era mia, e mi sembrava di festeggiarlo con urla e lacrime. Mi avvicinai a lei mentre urlava e, senza badare ai bambini che ci guardavano con le lacrime agli occhi, la baciai sulla guancia con amore. Anche se piangevo, sentii che la sua guancia, come il suo letto morbido e tiepido, profumava come i mandorli della nostra infanzia. Poi tutti, anche i bambini, andammo accanto al cadavere. Gli dissi: «La ilahe illallah, Non c'e’ altro Dio che Allah», come se non fosse un maleodorante cadavere di due giorni, ma un moribondo, in modo che ripetesse queste ultime parole prima di morire e andasse in Paradiso. Poi facemmo finta che lo zio le avesse pronunciate e guardammo il suo
viso quasi scomparso, la testa fracassata e, per un attimo, sorridemmo. Levai le mani per recitare la sura Yasin, e tutti mi ascoltarono in silenzio. Con un pezzo di stoffa pulita portata da seküre gli legammo con delicatezza la bocca aperta, gli chiudemmo l'occhio ancora intero con affetto, voltammo lievemente il corpo e lo posammo sul fianco destro, poi girammo cio’ che restava del suo viso verso la Mecca. seküre copri’ il padre con un lenzuolo pulito. Mi piacque il silenzio dopo i pianti e fui contento di vedere i bambini che osservavano tutto con grande attenzione. Alla fine mi sentivo come un uomo con una vera moglie, dei figli, un focolare, una casa, e questo era un pensiero piu’ forte di qualsiasi paura della morte. Raccolsi i disegni, li misi uno a uno dentro la cartella e la presi con me, indossai il caftano pesante e uscii di casa correndo. Feci finta di non vedere una vecchia comare e quel moccioso di suo nipote - palesemente contento e intento a immaginare nuovi divertimenti - che, udite le urla, venivano da noi per il piacere di condividere il dolore, e andai direttamente alla moschea del quartiere. La topaia che l'imam chiamava casa, come accade per molte moschee nuove e appariscenti, in confronto alla pomposa struttura dall'enorme cupola e del grande cortile era un luogo talmente piccolo da vergognarsi. E l'imam, come spesso accadeva, aveva esteso la sua casa da quella piccola topaia fredda a tutta la moschea, e non si preoccupava che sua moglie stendesse la biancheria lisa e scolorita tra due castagni all'estremita’ del cortile. Una volta sfuggiti all'attacco di due cani feroci che, come la famiglia dell'imam, si erano impadroniti del cortile, e a quello dei figli dell'imam che correvano con i bastoni in mano, io e l'imam ci ritirammo in un angolo. Sul suo viso vidi uno sguardo che, dopo il divorzio di ieri e il matrimonio che non avevamo fatto celebrare a lui - ero sicuro che si fosse offeso -, diceva: «Allora, che c'e’ ancora?» «Zio Effendi e’ morto stamattina». «Pace all'anima sua, il suo posto sia il Paradiso!», disse benevolo. Perche’ avevo aggiunto la parola «stamattina» e mi ero posto inutili dubbi? Gli misi in mano un'altra moneta d'oro, come quelle che gli avevo dato ieri. Gli chiesi di far cantare l'appello al funerale prima di quello alla preghiera e di mandare il fratello come banditore ad annunciare immediatamente il decesso a tutto il quartiere. «Mio fratello ha un caro amico mezzo cieco, con lui laviamo molto bene i morti», disse. Cosa c'era di meglio che far lavare Zio Effendi a un uomo cieco e a uno mezzo scemo? Gli dissi che la cerimonia funebre sarebbe stata a mezzogiorno e che sarebbe venuta gente dal Palazzo del sultano, dal laboratorio di miniatura, dalle scuole coraniche e da altri luoghi importanti. Non aggiunsi nulla che spiegasse perche’ il viso e il cranio di Zio Effendi fossero a pezzi. Avevo gia’ stabilito che avrei potuto risolvere il problema solo da un luogo molto in alto. Siccome il Nostro Sultano aveva dato incarico al Tesoriere capo di elargire il denaro per il libro che aveva ordinato a mio zio, dovevo portargli la notizia della morte. Con l'obiettivo di entrare a Palazzo, andai da un tappezziere che, fin da quando ero bambino, lavorava nella sartoria di fronte alla porta di Sogukçesme, era mio parente da parte della buonanima di mio padre, e gli baciai la mano coperta di nei. Gli spiegai, supplicandolo, che dovevo vedere il Tesoriere. Mi fece aspettare tra apprendisti calvi che, chini, cucivano tende con in braccio pezze di seta multicolore, poi mi disse di seguire l'assistente del capo sarto che, cosi’ capii, sarebbe andato a Palazzo per prendere delle misure e fare dei conti. Una volta arrivato nel Cortile dei Giannizzeri dalla porta di Sogukçesme evitai di passare inutilmente davanti all'edificio del laboratorio di fronte a Santa Sofia e far cosi’ sapere agli altri miniaturisti dell'omicidio. Benche’ deserto, il Cortile dei Giannizzeri mi sembro’ rumoroso come sempre. Non c'era nessuno neanche davanti alla porta del sovrintendente ai permessi di accesso al Palazzo, dove, nei giorni in cui si riunisce il Consiglio imperiale, i postulanti si mettono in fila, e nessuno intorno ai magazzini. Mi sembrava comunque di udire un mormorio continuo che proveniva dalle officine, dal forno, dall'infermeria, dalle stalle, dai cavalli e dagli stallieri davanti alla seconda porta di cui contemplavo ammirato torri e pinnacoli, cosi’ come mi sembrava di udirlo dai cipressi. Dopo un po' pensai che la mia agitazione dipendesse dalla paura di passare per la prima volta nella vita dalla seconda porta, la Porta della Felicita’. Alla porta non riuscii a prestare attenzione all'angolo dove si racconta che ci siano i boia sempre pronti, ne’ a nascondere la mia agitazione ai guardiani che diedero un'occhiata alla tappezzeria che portavo per dare l'impressione di aiutare la mia guida, il sarto. Appena entrati nel Cortile del Consiglio, tutto fu avvolto da un profondo silenzio. Mi sentivo il cuore pulsare nelle vene della fronte e del collo. Il luogo che avevo tante volte sentito descrivere da coloro che erano stati a Palazzo, da mio zio, adesso, proprio come il Paradiso, era davanti a me come un meraviglioso giardino multicolore. Ma non provavo la felicita’ di chi sta entrando in Paradiso, provavo paura e un grande e religioso rispetto, capivo di essere un semplice servo del Nostro Sultano e mi rendevo veramente conto che egli era il cardine del mondo. Guardando ammirato i pavoni che si aggiravano nel verde, i bicchieri d'oro legati con una catenella alle fontane che scorrevano gorgogliando, i dignitari di corte che camminavano vestiti di seta, silenziosi come se non toccassero terra, provai l'entusiasmo di servire il mio sovrano. Avrei assolutamente finito il libro segreto del Nostro Sultano di cui portavo sottobraccio i disegni rimasti a meta’. Camminavo dietro il sarto senza capire bene cosa facevo, con gli occhi fissi sulla Torre del Divan che risvegliava paura e ammirazione in chi la guardava da vicino. Con un guardiano accanto, attraversammo come in un sogno, timorosi e in assoluto silenzio, le sale del Consiglio e del Tesoro. Avevo l'intima sensazione di aver gia’ visto questi luoghi e di conoscerli. Passando per un'ampia porta entrammo nel luogo un tempo noto come vecchia sala del Consiglio. Sotto una grande cupola, vidi i maestri artigiani che aspettavano con stoffe, tagli di pelle, foderi di spada d'argento, casse di madreperla. Capii subito che erano i fabbricanti di mazze, stivali, argenti e velluti, erano gli ebanisti che lavoravano l'avorio e i liutai
che tenevano in mano i loro strumenti, appartenevano alle squadre scelte del Nostro Sultano. Erano tutti in attesa davanti alla porta del Tesoriere per questioni di contabilita’ quotidiana, acquisto di merci, alcuni dovevano prendere delle misure negli appartamenti delle donne dove era proibito entrare. Fui contento di non vedere un miniaturista tra loro. Anche noi ci fermammo ad aspettare in un angolo. Di tanto in tanto si udiva la voce dell'impiegato della Tesoreria che faceva ripetere tutto da capo per un errore nei conti, poi udivamo un mastro fabbro rispondergli rispettoso. Le nostre voci raramente superavano il sussurro, e il frullare delle ali dei piccioni che volavano nel cortile, amplificato dalla cupola, era piu’ forte delle parole di noi artigiani. Quando venne il mio turno, entrando nella piccola stanza a volta del Tesoriere, vidi solo un impiegato. Gli dissi subito che c'era una questione importante da sottoporre al Tesoriere, un libro che il Nostro Sultano aveva ordinato e a cui teneva molto era rimasto a meta’. Quello scrivano dalla voce nasale intui’ qualcosa, apri’ gli occhi e io gli mostrai alcuni disegni del libro di mio zio. Quando lo vidi confuso per la stranezza e l'insolito fascino dei disegni, gli dissi il nome, il soprannome e il mestiere di mio zio aggiungendo che era morto per questi disegni. Parlavo in fretta. Sapevo molto bene che se fossi tornato da Palazzo senza raggiungere il Nostro Sultano, avrebbero detto che ero stato io a ridurre mio zio in quel terribile stato. Quando l'impiegato ando’ a cercare il Tesoriere, cominciai a sudare freddo. Il Tesoriere che, come mi aveva detto mio zio, era sempre accanto al Nostro Sultano, a volte gli stendeva il tappeto da preghiera, era il suo confidente, sarebbe mai uscito dal Palazzo Interno per venire da me? Trovavo anche piuttosto incredibile che un messaggero fosse andato al Palazzo Interno, il cuore del Palazzo. Dov'era il Nostro Eccellente Sultano, era andato in una delle sue ville sulle rive del Bosforo, o era nell'harem e il Tesoriere era con lui? Parecchio tempo dopo venni chiamato; devo dire che per un attimo non fui cosciente, non mi resi conto di avere paura. Ma quando vidi l'espressione di rispetto e meraviglia del maestro tappezziere sulla porta della stanza, mi agitai. Una volta dentro, per un attimo fui preso dal panico, credetti di non riuscire piu’ a dire una parola. In testa aveva il turbante che potevano indossare soltanto lui e i visir. Era il Tesoriere. Aveva messo su un leggio i disegni che aveva preso lo scrivano e li guardava. Ebbi paura come se li avessi fatti io. Baciai le falde del suo abito. «Figliolo, - disse. - Ho capito bene, tuo zio e’ morto?» Per un attimo non riuscii a rispondergli, non so se per agitazione o per senso di colpa, riuscii solo ad annuire. Nello stesso momento accadde qualcosa di assolutamente inaspettato: dagli occhi mi usci’ una lacrima che mi rigo’ pian piano una guancia. Trovarmi a Palazzo, parlare con il Tesoriere, cosi’ vicino al Nostro Sultano, essere cosi’ vicino al Nostro Sultano, tutto questo mi aveva reso strano. Mi scesero altre lacrime dagli occhi, ormai piangevo a dirotto e non me ne vergognavo. «Piangi quanto vuoi, figliolo», disse il Tesoriere. Singhiozzai. Pensavo di essere invecchiato in questi dodici anni, di aver raggiunto la maturita’. Ma quando uno si avvicina cosi’ tanto al suo sultano, al cuore dello Stato, capisce di essere un bambino. Non mi importava che i maestri argentieri e tappezzieri li’ fuori udissero i miei singhiozzi. Ormai sapevo che avrei raccontato tutto al Tesoriere. Cosi’ raccontai come mi veniva. Vedevo che davanti agli occhi del Tesoriere tutto prendeva vita, il mio matrimonio con seküre, le difficolta’ del libro di mio zio, i segreti dei disegni davanti a noi, le minacce di Hasan, il cadavere di mio zio, e mi rilassai. E dato che sentivo con tutto me stesso che abbandonandomi alla giustizia e all'infinito affetto del Nostro Sultano, Rifugio dell'Universo, avrei potuto sfuggire alla trappola in cui ero caduto, raccontai tutto. Chissa’ se il Tesoriere avrebbe riferito correttamente la mia storia al Nostro Sultano, Essenza del Mondo, prima di consegnarmi ai torturatori e al boia? «Venga immediatamente annunciata al laboratorio la morte di Zio Effendi, - disse il Tesoriere. - Che tutti i miniaturisti prendano parte al funerale». Mi guardo’ in faccia per vedere se avevo qualche obiezione. Il suo interesse mi diede fiducia, ed espressi i miei sospetti su chi e perche’ potesse avere ucciso mio zio e il doratore Raffinato Effendi. Feci allusione agli uomini del predicatore di Erzurum, coloro che assalivano i conventi dervisci perche’ vi si suonava e danzava. Quando vidi che il Tesoriere mi guardava dubbioso, volli condividere con lui altri sospetti. Gli spiegai che essere chiamato a far disegni e miniature per il libro di Zio Effendi poteva avere inevitabilmente creato concorrenza e gelosia tra i maestri miniaturisti, per motivi di denaro e di orgoglio. Gli dissi che la segretezza del lavoro, in se’, potrebbe aver messo in moto tutti questi odi, vendette e complotti. Ma raccontandoglielo, intuivo con ansia che anche il Tesoriere, in un certo modo, sospettava di me, proprio come accade a voi. Allah, fai che venga fuori tutto, non chiedo altro. Ci fu silenzio. Come se si vergognasse per me delle mie parole e della mia sorte, il Tesoriere smise di guardarmi e osservo’ i disegni sul leggio. «Sono nove, - disse. - Con Zio Effendi pero’ ci eravamo accordati per dieci disegni. E aveva avuto da noi molte piu’ lamine d'oro rispetto a quelle usate in questi disegni». «Probabilmente l'assassino ha rubato l'ultimo disegno su cui era stato messo abbondante oro», dissi. «Chi era il calligrafo? Non l'abbiamo mai saputo». «La buonanima di mio zio non aveva ancora finito di scrivere il testo del libro. Voleva che lo aiutassi io a finirlo». «Figliolo, dici che sei appena tornato a Istanbul». «Sono arrivato a Istanbul una settimana fa, dopo tre giorni dal l'assassinio di Raffinato Effendi». «Tuo Zio Effendi illustrava da un anno un libro di cui non era ancora stato scritto il testo?» «Si’».
«Ti aveva descritto le cose che questo libro raccontava?» «Mi aveva spiegato i desideri espressi dal Nostro Sultano: adesso che sono passati mille anni dall'Egira del Nostro Profeta, il calendario islamico indica il millesimo anno, voleva un libro che mostrasse al Doge veneziano la forza e la ricchezza della dinastia ottomana, la spada e l'orgoglio dell'Islam, e infondesse nei cuori il timore nei suoi confronti. Questo libro avrebbe raccontato e mostrato con disegni le cose piu’ preziose, piu’ irrinunciabili del nostro mondo e, come nei libri ricchi di arguzie, nel bel mezzo del volume ci sarebbe stato un ritratto del Nostro Sultano. Dato che sarebbero stati utilizzati anche i metodi dei maestri europei, il Doge veneziano avrebbe provato ammirazione e desiderio di essergli amico». «Lo so, ma le cose piu’ preziose e irrinunciabili per gli ottomani sono forse questi cani e questi alberi?», chiese indicando i disegni. «La buonanima di mio zio diceva che il libro non avrebbe mostrato la ricchezza del Nostro Sultano, ma la sua forza spirituale e la sua tristezza nascosta». «Il ritratto del Nostro Sultano?» «Non l'ho visto, dovrebbe averlo nascosto quell'assassino miscredente, chissa’, forse a casa sua». Adesso mio zio passava per qualcuno che non aveva fatto preparare il libro promesso in cambio dell'oro che aveva preso, per un uomo che aveva fatto fare degli strani disegni che il Tesoriere considerava privi di valore. Il Tesoriere mi vedeva come qualcuno che aveva ucciso questo uomo incapace e inaffidabile, per sposarne la figlia, o chissa’ per quale motivo, per esempio per vendersi le lamine d'oro? Capivo dai suoi sguardi che la mia fine era vicina, parlai con un ultimo sforzo e con grande agitazione, e gli riferii che mio zio aveva detto che il povero Raffinato Effendi poteva essere stato ucciso da uno dei maestri miniaturisti a cui dava lavoro. Gli raccontai dei suoi sospetti nei confronti di Oliva, Cicogna e Farfalla, ma non mi dilungai. E poi non avevo ne’ molte prove ne’ alcuna certezza. Sentivo che il Tesoriere adesso mi considerava un vile calunniatore e uno stupido pettegolo. Per questo motivo, quando il Tesoriere disse che avremmo dovuto nascondere ai miniaturisti che mio zio non era morto di morte naturale, fui contento, lo ritenni un primo segno di collaborazione. I disegni rimasero dal Tesoriere. Quando uscii fuori dalla Porta della Felicita’, da cui poco prima ero passato agitato come se entrassi in Paradiso, mi rilassai come chi, dopo tanti anni, torna a casa.
Capitolo trentasettesimo. Io sono vostro zio Il mio funerale e’ stato molto bello, proprio come volevo. Sono venuti tutti quelli che desideravo venissero, ne ero orgoglioso. Haci Hüseyin Pascia’ di Cipro e Baki Pascia’ lo Zoppo, i visir che erano a Istanbul quando sono morto, sono stati fedeli, si sono ricordati che un tempo avevo reso loro molti servigi. L'arrivo di Melek Pascia’ il Rosso, brillante e criticatissimo ministro delle finanze, ha reso piu’ vivace il modesto cortile della moschea nel quartiere. Sono stato particolarmente contento di vedere che c'era il capo delle guardie del Sultano, Mustafa Agha’, se avessi vissuto piu’ a lungo e proseguito la mia carriera nello Stato adesso sarei nella sua stessa posizione. E poi lo storiografo di corte Kemalettin Effendi, le guardie del Consiglio, alcuni erano cari amici, altri nemici, il segretario particolare Sert Salim Effendi - sempre con il suo sorriso ottimista - e altri vecchi funzionari del Consiglio ritiratisi presto dalla vita attiva, i miei amici della scuola coranica, altri che non capivo come e dove avessero saputo della mia morte, parenti e amici, un gruppo abbastanza numeroso di giovani, serio e importante. Ero fiero di questa comunita’, della sua serieta’ e del suo dolore. La presenza del Tesoriere Hazim Agha’ e del Comandante delle guardie imperiali ha dimostrato a tutti quanto fosse sincero il dolore del Nostro Eccellente Sultano per la mia morte. Non so se questo significhi che si dara’ da fare per trovare quel vigliacco del mio assassino, e qualcuno verra’ torturato. Ma, adesso, vedo che quel maledetto guarda la mia bara nel cortile insieme agli altri miniaturisti e ai calligrafi con espressione compunta e molto addolorata. Non crediate che ce l'abbia con il mio assassino, che mediti vendetta, o che la mia anima sia turbata perche’ sono stato ucciso in modo vile e spietato. Adesso sono su un piano completamente diverso, e la mia anima, dopo aver sofferto sulla terra per anni, e’ molto serena di aver ritrovato se stessa. Quando la mia anima ebbe temporaneamente abbandonato quel corpo sofferente e insanguinato a colpi di calamaio, rimase a tremare per un po' in mezzo alla luce. In questa luce meravigliosa, due bellissimi angeli sorridenti, con i volti che brillavano come il sole, proprio come avevo letto tante volte nel Libro delle anime, mi si avvicinarono pian piano e, come se non fossi un'anima ma ancora un corpo, mi presero per le braccia e mi sollevarono. Era come nei bei sogni, salimmo veloci ma delicatamente, senza scosse! Passammo per foreste di fiamme, superammo fiumi di luce, attraversammo mari bui e montagne di neve e di ghiaccio. Ci vollero migliaia di anni per superare ogni zona, ma per me fu breve come un batter d'occhio. E cosi’ attraversammo i sette cieli, tra diverse comunita’, strane creature, stagni pieni di ogni specie di insetti e uccelli, nuvole. A ogni cielo, l'angelo che faceva strada bussava a una porta e alla domanda: «Chi e’?», mi descriveva con tutti i miei nomi e le mie qualita’ aggiungendo la frase: «Un bravo servitore del Sommo Allah!», e questo mi faceva piangere di gioia, ma sapevo che mancavano ancora migliaia di anni al Giorno del Giudizio, quando chi meritava il Paradiso si sarebbe separato da chi meritava l'Inferno.
Salvo qualche piccola differenza, tutto accadeva come avevano raccontato Al Ghazzali, El Cevziyye e altri saggi nelle loro pagine sulla morte. Le cose che nei libri erano considerate questioni irrisolvibili, oscuri misteri che solo i defunti potevano conoscere, adesso si illuminavano esplodendo una ad una con luci di mille colori. Come posso descrivere tutti i colori che vidi durante questa meravigliosa ascesa? L'intero universo era fatto di colori, tutto era colore. Oltre a sentire che la forza che mi separava dalle altre cose consisteva di colori, capii anche di essere abbracciato con amore e legato all'intero universo dai colori. Vidi cieli arancioni, bei corpi verde foglia, uova color caffe’, meravigliosi cavalli azzurri. Era come nelle leggende e nei disegni che avevo guardato per anni, e mi sembrava di vedere tutto, meravigliato e ammirato, per la prima volta, e allo stesso tempo di rivedere cose affiorate dai miei ricordi. Quelli che definivo ricordi facevano parte dell'universo, e tutto l'universo, per il tempo illimitato che mi si apriva davanti in futuro, sarebbe diventato, prima, la mia esperienza, in seguito, i miei ricordi. Mentre morivo in questa gioia di colori, capii anche perche’ mi stavo rilassando come se mi liberassi di una camicia troppo stretta: d'ora in poi nulla mi era vietato, e disponevo di spazio e tempo illimitati per vivere in ogni epoca e in ogni luogo. Non appena me ne resi conto, sentii con timore e gioia di essere accanto a Lui. In quel momento percepii con devozione la presenza di un rosso inconfondibile. In breve tutto si fece completamente rosso. La bellezza di questo colore nasceva dentro di me e in tutto l'universo. Mi stavo avvicinando alla Sua esistenza, e mi veniva da piangere dalla gioia. All'improvviso mi vergognai di giungere al Suo cospetto coperto di sangue. Ma un'altra parte della mia mente diceva anche che era stato Lui a chiamarmi al Suo cospetto mandando Asraele e gli altri angeli, come avevo letto nei libri sulla morte. Avrei potuto vederLo? Dall'agitazione credetti di non riuscire a respirare. Questo colore che copriva ogni cosa, e in cui si muovevano tutte le immagini dell'universo, era un rosso talmente bello e meraviglioso che esserne parte e pensare di essere cosi’ vicino a Lui mi fece piangere piu’ forte. Ma capii che non mi si sarebbe avvicinato di piu’. Lui chiedeva di me ai Suoi angeli, loro mi elogiavano e Lui mi apprezzava perche’ ero stato un fedele esecutore dei Suoi ordini e avevo rispettato i Suoi divieti. La gioia che cresceva dentro di me e le lacrime che mi rigavano il volto, per un attimo, furono scosse da un dubbio. Per fugarlo chiesi subito con aria colpevole e impaziente: «Negli ultimi vent'anni della mia vita mi sono fatto influenzare dai disegni degli infedeli che ho visto a Venezia. A un certo punto, avrei voluto far dipingere il mio ritratto con i loro metodi, ma ho avuto paura. Ho fatto disegnare il tuo universo, le tue creature e il Nostro Sultano - la tua ombra nel mondo - con i metodi degli infedeli». Non ricordo la Sua voce, ma la risposta che mi diede. «Mio e’ l'Oriente come l'Occidente». Non riuscii a trattenermi per l'emozione. «Ma tutto, tutto questo universo, che significato ha?» «Segreto», udii dentro di me. O forse «Amore». Non ne sono sicuro. Mentre gli angeli mi si avvicinavano, capii che, per adesso, in questo alto cielo, si era presa una decisione che mi riguardava, ma che, assieme alla moltitudine di altre anime che morivano da decine di migliaia di anni, avremmo dovuto attendere nel Limbo fino al Giorno del Giudizio, quando sarebbero state prese le decisioni definitive. Mentre scendevo giu’, ricordai dai libri che, durante la sepoltura, avrei dovuto riabbracciare il mio cadavere. Grazie al cielo intuii subito che entrare di nuovo nel mio cadavere era una metafora letteraria. Com'era composta, malgrado il dolore, la dignitosa folla del funerale di cui ero cosi’ orgoglioso, mentre scendeva, dopo la preghiera, con la bara in spalla nel piccolo cimitero di Tepecik proprio li’ accanto! Lo vedevo dall'alto, erano sottili, fini come un filo. Volevo precisare il mio posto: come si evince anche dall'hadit del Profeta che dice «L'anima del credente e’ un uccello che mangia sugli alberi del Paradiso», dopo la morte l'anima gira in cielo. Questo hadit non significa, come afferma invece Ebu bin Abdülber, che l'anima si trasformera’ in uccello, anzi che sara’ un uccello, ma, come sostiene giustamente El Cevziyye, che l'anima si trovera’ nei luoghi dove si trovano gli uccelli. Il luogo da dove guardavo, che i maestri veneziani amanti della prospettiva chiamerebbero il «punto di vista», giustificava l'interpretazione di El Cevziyye. Dal luogo dove mi trovavo in questo momento riuscivo a contemplare, per esempio, come se guardassi un disegno, la folla del funerale che andava verso il cimitero come un filo sottile, come una barca che, a vele spiegate, prendeva velocita’ grazie al vento appena girato, li’ dove finiva il Corno d'Oro verso Sarayburnu. Dato che guardavo dall'altezza di un minareto, il mondo somigliava ai disegni di un libro meraviglioso di cui giravo le pagine una dopo l'altra. Ma salendo cosi’, riuscivo a vedere piu’ di quello che vede una persona che ha ancora l'anima attaccata al corpo. Potevo vedere i bambini che, in un lontano giardino abbandonato, tra i cimiteri, sull'altra sponda, dietro Scutari, giocavano alla cavallina; come procedeva spedita la barca a sette coppie di rematori del ministro degli Esteri, dodici anni e tre mesi fa, quando prelevammo l'ambasciatore veneziano dalla sua villa per portarlo al cospetto del Gran Visir Ragip Pascia’ il Calvo; nel nuovo mercato di Langa la donna grassa che teneva in braccio un grande cavolo come se tenesse il suo bambino per allattarlo; la mia gioia quando mori’ il Guardiano del Consiglio Ramazan Effendi, perche’ non avrebbe piu’ ostacolato la mia carriera; io che guardavo le camicie rosse in braccio a mia nonna mentre mia madre stendeva la biancheria in cortile; io che correvo per quartieri lontani alla ricerca della casa della levatrice quando la buonanima della madre di seküre ebbe le prime doglie; il posto della cintura rossa che avevo perduto piu’ di quarant'anni fa (l'aveva rubata Vasfi); il meraviglioso e lontano giardino che sognai una volta, ventun'anni fa, e che Allah, speriamo, in futuro mi fara’ vedere come Paradiso; le teste, i nasi e le orecchie mandati da Ali Bey, il Governatore della Georgia, una volta domati i ribelli della fortezza di Gori; la mia bella seküre che, dopo aver salutato i vicini venuti a casa, piangeva per me guardando il focolare in cortile.
I libri e i vecchi saggi dicono che l'anima ha quattro patrie: 1. Il ventre della madre. 2. Il mondo. 3. Il Limbo dove mi trovo adesso. 4. Il Paradiso o l'Inferno che raggiungera’ dopo il Giorno del Giudizio. Ma dal Limbo, passato e presente si vedono nello stesso momento, e finche’ i ricordi dell'anima sono li’, non esistono limiti di spazio. E che la vita sia una camicia troppo stretta, lo si capisce solo uscendo dalle prigioni del tempo e dello spazio. Purtroppo, prima di morire, nessuno puo’ capire che, come nel mondo dei morti un'anima senza corpo e’ motivo di vera felicita’, tra i vivi la piu’ grande felicita’ e’ un corpo senz'anima. Per questo motivo, durante il mio bel funerale, contemplai soffrendo la mia seküre che piangeva inutilmente per me, e che poi, a casa, si tormentava, e supplicai il Sommo Allah perche’ ci concedesse un'anima senza corpo in Paradiso e un corpo senz'anima nel Mondo.
Capitolo trentottesimo. Io, Maestro Osman Immagino che abbiate presente gli sfortunati vegliardi che sono invecchiati dedicando generosamente la vita a un'arte. Ce l'hanno con tutti. Sono alti, ossuti e sottili. Vorrebbero che la brevissima porzione di vita che rimane loro fosse una ripetizione della lunga porzione precedente. Si infiammano e si adirano per nulla, si lamentano di qualsiasi cosa. Vogliono tenere le redini di tutto e portano tutti alla disperazione. Non sono mai soddisfatti di niente e di nessuno. Io sono uno di loro. Il maestro dei maestri, Nurullah Selim accanto al quale ebbi l'onore di disegnare nello stesso laboratorio quando ero ancora un apprendista sedicenne, era cosi’ a ottant'anni (ma non rabbioso quanto me). Anche l'ultimo grande maestro, Sari Ali, che seppellimmo trent'anni fa, era cosi’ (ma non alto e magro quanto me). Dal momento che so che le frecce delle critiche rivolte a questi leggendari maestri che un tempo diressero dei laboratori adesso si vanno a conficcare nella mia schiena, voglio che sappiate che alcune cose abitualmente dette su di noi non sono affatto vere. 1. Non ci piace nulla di nuovo perche’ non c'e’ veramente nulla di nuovo che possa piacere. 2. Trattiamo da stupidi la maggior parte delle persone perche’ la maggior parte delle persone e’ stupida e non perche’ siamo nervosi, infelici o per qualche altro problema. (Comunque, trattarle meglio sarebbe per noi segno di finezza e intelligenza). 3. Non confondo i nomi e i volti - tranne quelli dei miniaturisti che ho amato e cresciuto da quando erano semplici apprendisti - perche’ sono rimbambito, ma perche’ a questi nomi e a questi volti mancano colore e luce, quindi non vale la pena ricordarli. Al funerale di Zio Effendi, a cui Allah tolse la vita anzitempo a causa delle sue stupidita’, cercai di dimenticare i dolori che mi aveva causato un tempo la buonanima sforzandosi di imitare i maestri europei. Sulla via del ritorno pensai che la cecita’ e la morte, doni di Allah, non erano molto lontani da me. Verro’ di certo ricordato, come i miei disegni e i libri che ho decorato, vi brilleranno gli occhi, nel vostro cuore sbocceranno fiori di felicita’. Ma voglio che dopo la mia morte si sappia che negli ultimi anni di vita, in vecchiaia, c'erano ancora molte cose che mi facevano sorridere. Per esempio: 1. I bambini (riassumono le regole universali); 2. I dolci ricordi (i bei ragazzi, le donne, disegnare bene, l'amicizia); 3. Avere a che fare con le meraviglie degli antichi maestri di Herat (e’ impossibile spiegarlo a chi non le conosce). Il significato elementare di tutto cio’ e’ che nel laboratorio del Nostro Sultano, di cui io sono a capo, non si fanno piu’ le meraviglie di una volta. Prevedo che le cose andranno peggiorando, tutto si esaurira’, finira’. Nonostante la nostra vita sia stata interamente e amorevolmente dedicata a questo lavoro, sento con dolore che molto di rado abbiamo raggiunto le bellezze degli antichi maestri di Herat. Accettare queste verita’ con umilta’ facilita la vita. L'umilta’ e’, infatti, una qualita’ che facilita la vita, una virtu’ molto ben accetta nel nostro mondo. Ecco, con tanta umilta’, stavo ritoccando un disegno che mostrava, nel surname che narra la cerimonia di circoncisione dei nostri principi, la presentazione di una spada con il fodero di velluto rosso finemente ricamato d'oro, rubini, smeraldi e turchesi, e quella di un cavallo arabo con morso e redini d'oro, staffe coperte di perle e smeraldi e una macchia bianca sul muso, il pelo piu’ lucente dell'argento, rabbioso, orgoglioso, vivace e veloce come il fulmine, con la sella di velluto rosso ricamato d'oro e immagini del sole tempestate di rubini, i doni del Governatore dell'Egitto al bimbo circonciso. Stavo dando colpi di pennello a destra e a manca al disegno che avevo impostato e che poi avevo fatto eseguire dagli apprendisti: a uno il cavallo, a uno la spada, il principe, gli ambasciatori che li contemplano. Aggiunsi del viola su alcune foglie del platano dell'Ippodromo, del giallo sui bottoni dell'ambasciatore del Khan tartaro. Stavo per stendere un po' d'oro sulle redini del cavallo quando bussarono alla porta. Mi fermai. Era un messaggero. Il Tesoriere di Palazzo mi convocava. Mi facevano un po' male gli occhi. Mi misi la lente nella tasca del caftano e uscii con il ragazzo. Come e’ bello camminare per strada dopo aver lavorato tanto! Il mondo appare nuovo e stupefacente come se fosse stato creato da Allah appena ieri. Vidi un cane, era piu’ espressivo di qualsiasi disegno di cane. Vidi un cavallo, i maestri miniaturisti l'avrebbero disegnato meglio. Vidi un platano nell'Ippodromo, era il platano sulle cui foglie, poco fa, nel disegno, avevo aggiunto del viola. Camminare nell'Ippodromo di cui, da due anni, disegno le parate, e’ un po' come camminare nel proprio disegno.
Giriamo per una via e, se siamo in un disegno europeo, usciamo dal quadro e dal disegno e ce ne andiamo; se siamo in un disegno fatto alla maniera dei maestri di Herat, arriviamo nel luogo dove ci vede Allah; se siamo in un disegno cinese, non ne usciamo mai, perche’ i disegni dei cinesi continuano all'infinito. Il messaggero non mi stava conducendo nella vecchia stanza del Consiglio dove ci incontravamo con il Tesoriere per parlare delle sue percentuali, di regali, di libri, delle uova di struzzo decorate che i miniaturisti preparavano per il Nostro Sultano, della salute, del benessere e della serenita’ dei miniaturisti, dei colori che ci occorrevano, delle lamine d'oro o di altri materiali, delle lamentele e dei desideri, dei piaceri, delle richieste, dell'allegria e della forza di volonta’ del Nostro Grande Sultano, del piu’ e del meno, dei miei occhi, delle mie lenti, del mio mal di schiena, di quel vigliacco del genero e del gatto soriano del Tesoriere. Entrammo in silenzio nel giardino privato del Sultano. Scendemmo verso il mare pian piano, come due colpevoli, tra gli alberi piu’ silenziosi di noi. Mi stavo avvicinando al Chiosco del sultano, significava che avrei visto il mio sultano, e’ li’, dicevo tra me e me, quando cambiammo strada. Dopo qualche passo, entrammo sotto la volta di un edificio di pietra, dietro i cantieri. Il forno dei guardiani imperiali sprigionava profumo di pane. Vidi gli ufficiali della guardia del corpo del sultano vestiti di rosso. In una stanza c'erano il Tesoriere e il Comandante delle guardie imperiali. L'Angelo e Satana! Il Comandante delle guardie imperiali, che nel giardino del Palazzo eseguiva le condanne a morte, torturava, interrogava, picchiava, cavava gli occhi e bastonava le piante dei piedi per il Nostro Sultano, mi sorrideva dolcemente. Sembrava il compagno con cui avrei diviso la cella di un caravanserraglio che stava per raccontarmi una favola. Ma a cominciare il racconto non fu il Comandante delle guardie imperiali, bensi’ il Tesoriere: «Un anno fa, il Nostro Signore mi ha ordinato di far preparare un libro come dono per una delegazione di ambasciatori, e voleva che fosse tenuto segreto, - disse con fare timido. - Data la grande segretezza, non reputo’ adatto a scriverlo il nostro maestro Lokman, capo dei poeti di corte, e non volle neanche coinvolgere te, di cui tanto ammira il talento. Riteneva che foste gia’ abbastanza impegnati con il surname che narra le cerimonie di circoncisione dei principi». Appena entrato nella stanza avevo immaginato con terrore che un vile mi avesse calunniato, avesse influenzato il Sovrano dicendo che in un disegno si bestemmiava, in un altro si faceva della satira, e che, senza alcun riguardo per la mia veneranda eta’, sarei stato torturato. Adesso le parole del Tesoriere, che cercava di riparare all'offesa di aver commissionato un libro a un altro, erano per me piu’ dolci del miele. Ascoltai la storia del libro, la conoscevo gia’ abbastanza bene e non appresi nulla di nuovo. Sapevo anche di questi pettegolezzi, ovviamente anche di Maestro Nusret di Erzurum e delle invidie del laboratorio. «Chi e’ che sta preparando il libro?», chiesi. «Come sapete, Zio Effendi», disse il Tesoriere. Fissandomi negli occhi, aggiunse: «Sapete che non e’ morto di morte naturale, ma e’ stato ucciso?» «Non lo sapevo», risposi con il tono schietto di un bambino, poi tacqui. «Il Nostro Sultano si e’ molto adirato», disse il Tesoriere. Tutta questa confusione su Zio Effendi era ridicola. I maestri miniaturisti parlavano di lui beffandosene, lo deridevano perche’ era piu’ affettato che sapiente, piu’ zelante che intelligente. Al funerale avevo pensato che ci fosse qualcosa di strano. Come era stato ucciso? Il Tesoriere racconto’. Terribile. Signore proteggici. Chi era stato? «Il sultano ha dato un ordine, - disse il Tesoriere. - Vuole che anche questo libro, come il surname, venga portato a termine al piu’ presto...» «Ha dato anche un secondo ordine, - interveni’ il Comandante delle guardie imperiali. - Se lo schifoso assassino e’ nella squadra dei miniaturisti, vuole che questo demone malvagio venga trovato». All'improvviso vidi l'eccitazione sul volto del Comandante delle guardie imperiali, come se gia’ conoscesse la terribile pena che il Nostro Sultano avrebbe inflitto al colpevole. Capii che i due, insieme, avevano appena ricevuto questi ordini dal Nostro Sultano, che erano obbligati a lavorare insieme e che, gia’ adesso, non riuscivano a nascondere il loro odio reciproco. Oltre all'ammirazione, provai amore nei confronti del Sovrano. Un fanciullo porto’ il caffe’, ci sedemmo. C'era un nipote che Zio Effendi aveva cresciuto e che s'intendeva di miniatura e di libri: Nero. L'avevo conosciuto? Rimasi in silenzio. Su invito dello zio era appena tornato a Istanbul dal confine persiano dove lavorava per Serhat Pascia’ (il Comandante delle guardie imperiali lancio’ uno sguardo dubbioso), a Istanbul si era avvicinato molto allo zio ed era venuto a sapere del libro che preparava. Diceva che lo zio, dopo l'assassinio di Raffinato Effendi, sospettava dei miniaturisti che venivano da lui di notte per il libro. Aveva visto i disegni fatti da questi maestri per il libro: aveva affermato che l'assassino dello zio ne aveva rubato uno, quello del sultano, in cui sarebbe stato usato piu’ oro. Questo giovane aveva nascosto per due giorni l'assassinio dello zio al Palazzo, al Tesoriere. Nel frattempo, dato che aveva sposato la figlia dello zio in fretta e furia - con un matrimonio che suscitava dubbi di conformita’ alla legge - e si era sistemato in quella casa, entrambi sospettavano di Nero. «Se verranno perquisite le case, i luoghi dove abitano i miei miniaturisti e la pagina perduta verra’ fuori, si capira’ subito che Nero aveva ragione, - dissi. - Ma se sono ancora i miei figli prediletti, che conosco da quando erano solo apprendisti, se sono i miei miniaturisti dalle mani miracolose, nessuno di loro riuscirebbe a togliere la vita a qualcuno». «Perquisiremo minuziosamente, palmo a palmo, le case, le tane, i luoghi, i negozi se ci sono, tutto quello che e’ di Oliva, di Cicogna, o di Farfalla», disse il Comandante delle guardie imperiali usando con aria di scherno quei soprannomi che io avevo dato loro con amore. «Ma anche quelli di Nero...» Poi assunse un'espressione disperata: «Grazie a Dio, in questa difficile situazione, siamo riusciti ad avere dal cadi’ il permesso di torturare durante
l'interrogatorio. Ha detto che la tortura e’ conforme alla legge perche’ l'assassinio di una seconda persona vicina alla squadra dei miniaturisti ha gettato il sospetto su tutti, dall'apprendista al maestro». In silenzio pensai: 1. Dicendo che la tortura era conforme alla legge, in pratica denunciava che il permesso non era venuto dal Nostro Sultano; 2. Dicendo che per il cadi’ erano sospettati tutti i miniaturisti, colpevolizzava anche me in quanto capo squadra che non riusciva a scoprire il colpevole; 3. Capivo che voleva anche la mia approvazione, palese o tacita, prima di torturare i miniaturisti della mia squadra, i cari Farfalla, Oliva e Cicogna, e tutti gli altri che negli ultimi anni mi avevano tradito. «Dato che il Nostro Sultano vuole che siano portati a compimento sia il surname che questo libro rimasto a meta’, disse il Tesoriere, - siamo preoccupati che la tortura provochi danni alle mani, agli occhi, al talento dei maestri». Si rivolse a me. «Non e’ forse cosi’?» «Proprio poco tempo fa e’ accaduto un fatto, - disse con fare rozzo il Comandante delle guardie imperiali. - Un orefice che stava facendo dei lavori di restauro, invidioso come un bambino, ha dato retta a Satana e ha rubato una tazza con il manico tempestato di rubini che apparteneva alla Sultana Necmiye, sorella del Nostro Sultano. Lei ne era molto addolorata, amava molto quella tazza. Dato che il furto era avvenuto nel Palazzo di Scutari, il Sovrano mi ha affidato il caso. Avevo capito che anche la Sultana Necmiye, come il Nostro Sultano, era preoccupata per il talento, gli occhi e le dita degli orefici e dei maestri gioiellieri. Feci subito spogliare i maestri gioiellieri e li feci gettare tra il ghiaccio e le rane della vasca del giardino. Di tanto in tanto uscivano e venivano frustati, ma in modo da non toccarne i volti e le mani, con attenzione ma con violenza. In breve, il gioielliere che aveva dato retta a Satana confesso’ e accetto’ la sua pena. Non ci furono danni agli occhi e alle dita dei maestri gioiellieri, perche’ dentro erano puliti, malgrado l'acqua ghiacciata, il freddo e le frustate. Poi, il sultano mi disse che sua sorella era rimasta molto contenta e che, dopo aver eliminato il seme cattivo, i gioiellieri lavoravano con maggior zelo». Ero sicuro che il Comandante delle guardie imperiali avrebbe trattato i miei maestri peggio dei gioiellieri. Anche se rispettava il piacere del Nostro Sultano nel commissionare libri, come molti, pensava che la vera arte fosse la calligrafia, e la miniatura, in particolare il disegno, fossero una cosa inutile e quasi blasfema da deprecare, un qualcosa di effeminato da disprezzare. «Voi siete ancora personalmente presente nel vostro lavoro, con tutta la vostra forza, ma i vostri cari miniaturisti stanno gia’ dandosi da fare per scegliere un capo dopo la vostra morte», disse per provocarmi. C'era una voce di cui non ero al corrente, una nuova trappola? Mi trattenni e rimasi zitto. Il Tesoriere si era gia’ accorto a sufficienza della rabbia che provavo nei suoi confronti per aver commissionato un libro a quell'idiota di nascosto da me, e nei confronti dei miei miniaturisti ingrati che per farsi notare e guadagnare qualche akçe, in segreto, illustravano questo libro. All'improvviso mi trovai a immaginare le torture che avrebbero potuto infliggere ai miei miniaturisti. Durante l'interrogatorio non ti spellano vivo perche’ non ci sarebbe piu’ ritorno; non ti impalano come si fa con i ribelli perche’ e’ un tipo di deterrente che porta alla morte; infine, spezzare - crac-crac - le braccia, le gambe, le dita di questi maestri, e’ fuori questione. Certamente non avrebbero cavato un occhio ai miniaturisti, come credo si faccia spesso negli ultimi tempi, dato che per le vie di Istanbul capita di incontrare persone con un occhio solo. Cosi’, vidi i miei cari miniaturisti tremare e guardarsi a vicenda con odio in un angolo nascosto del giardino privato del sultano, dentro la vasca ghiacciata, tra le ninfee e, per un attimo, mi venne da ridere. Ma immaginare come urlerebbe Oliva mentre viene marchiato su una natica con il ferro rovente, come diventerebbe pallida la pelle del mio caro Farfalla incatenato, mi fece male al cuore. Non riuscii neanche a pensare al mio caro Farfalla, che a volte mi ha fatto venire le lacrime agli occhi per il suo talento e il suo amore per la miniatura, mentre viene bastonato sulle piante dei piedi. Rimasi cosi’, confuso. Per un attimo la mia vecchia mente si fermo’, nella magia del silenzio profondo che aveva dentro di se’. Una volta dimenticavamo tutto e disegnavamo con amore. «I migliori miniaturisti del Nostro Sultano sono loro, - dissi. - Non fate loro del male». Il Tesoriere si alzo’ in piedi soddisfatto, prese un rotolo di fogli dal leggio nell'altro angolo della stanza e me lo mise davanti come se la stanza fosse buia, mi sistemo’ accanto due grandi candelabri con grosse candele le cui fiamme ondeggiavano. Erano quei disegni. Come posso descrivervi quello che vidi mentre ci passavo sopra con le lenti? Mi veniva da ridere, ma non perche’ fossero ridicoli. Provavo rabbia, ma non perche’ fossero da prendere sul serio. Sembrava che Zio Effendi avesse chiesto ai miei maestri di disegnare come se fossero altre persone e non se stessi. Era come se li avesse forzati a ricordare ricordi inesistenti, a sognare e disegnare un futuro che non avrebbero mai voluto vivere. Ancor piu’ incredibile era il fatto che per queste assurdita’ si uccidevano. «Guardando questi disegni potete dirci quale miniaturista li ha toccati con la sua penna?», disse il Tesoriere. «Si’, - dissi con rabbia. - Dove avete trovato questi disegni?» «Li ha portati Nero, li ha consegnati lui, - disse il Tesoriere. - Cerca di provare la propria innocenza e quella della buonanima di suo zio». «Quando lo interrogherete torturatelo, - dissi. - Vediamo cos'altro ha nascosto la buonanima di Zio Effendi». «Lo abbiamo mandato a chiamare, - disse il volenteroso Comandante delle guardie imperiali. - Poi perquisiremo anche tutta la casa del novello sposo». Sul volto di entrambi apparve una strana luce, una luce di paura e ammirazione, si alzarono in piedi. Anche senza girarmi, capii che era entrato il Nostro Sultano, il Grande Sovrano.
Capitolo trentanovesimo. Il mio nome e’ Esther Come e’ bello piangere tutti insieme! Mentre tutte le donne, parenti, conoscenti e amiche, riunite a casa durante il funerale del padre della povera seküre piangevano, anch'io mi tormentai e versai le mie lacrime. A volte piangevo appoggiandomi alla bella ragazza che mi era accanto e dondolando dolcemente assieme a lei, a volte versavo lacrime a un ritmo completamente diverso, rattristandomi per la mia misera vita e i miei problemi. Se piangessi cosi’ una volta alla settimana, dimenticherei che cammino tutto il giorno per guadagnarmi il pane, che mi umiliano perche’ sono grassa ed ebrea e sarei una Esther ancora piu’ chiacchierona. Amo le cerimonie perche’ in mezzo alla folla dimentico di essere una pecora nera e perche’ mangio a sazieta’. Le feste dove si mangiano baklava, dolcetti alla menta, pane e pasta di mandorle, gelatina di frutta; le cerimonie delle circoncisioni con riso e carne e börek; i festeggiamenti organizzati dal sultano all'Ippodromo con succo di amarena; i matrimoni dove si mangia di tutto; e i funerali, dopo i quali si gustano dolci al sesamo, al miele, alle prugne. Uscii silenziosamente nell'anticamera, mi infilai le scarpe e scesi giu’. Stavo per andare in cucina, quando udii uno strano rumore provenire dalla porta socchiusa della stanza accanto alla stalla; feci due passi, guardai dentro e vidi che sevket e Orhan avevano legato con una corda il figlio di una delle donne che piangevano al piano di sopra e con i vecchi pennelli della buonanima gli stavano dipingendo la faccia. sevket gli diceva: «Se provi a scappare ti picchiamo», poi gli diede uno schiaffo. «Bambini, giocate tranquilli, non fatevi male, va bene?», dissi con la voce piu’ falsa e vellutata. «Tu non ti intromettere!», urlo’ sevket. Vidi vicino a loro anche la timida sorellina bionda del bambino che stavano tartassando e chissa’ perche’ mi misi nei suoi panni. Dimentica tutto Esther! In cucina Hayriye mi squadro’ sospettosa. «Mi sono prosciugata a furia di piangere, Hayriye, - dissi. - Dammi un po' d'acqua, per amor di Dio». Me la diede in silenzio. Prima di berla guardai i suoi occhi gonfi di pianto. «Povero Zio Effendi, dicono che sia morto prima del matrimonio di seküre, - dissi. - Non si puo’ Tappare la bocca alla gente. Anzi, dicono pure che non sia morto di morte naturale». Per un attimo rimase a fissarsi la punta delle scarpe in modo esagerato. Poi alzo’ la testa e, senza guardarmi disse: «Dio ci protegga dalle calunnie». Il primo gesto significava «quanto dici e’ vero», e il tono di voce faceva percepire che aveva parlato in maniera forzata. «Cosa sta succedendo?», le chiesi all'improvviso, bisbigliando come per condividere un segreto. Ma l'incerta Hayriye aveva ovviamente capito che dopo la morte di Zio Effendi non aveva piu’ alcuna speranza di ottenere una qualche superiorita’ su seküre. Ed era lei quella che poco fa, al piano di sopra, piangeva in modo piu’ sincero. «Cosa sara’ di me adesso?», disse. «seküre ti vuole molto bene», le risposi, abituata a portare notizie. Alzando i coperchi dei contenitori messi in fila tra la giara della gelatina di frutta e quella dei sottaceti, prendendo con un dito di tanto in tanto un boccone da uno e un boccone da un altro, a volte solo avvicinando il naso per annusarli, le chiesi chi fossero le persone che avevano mandato i piatti di helva. «Quello e’ di Kasim Effendi di Kayseri, quello del maestro miniaturista che abita due strade piu’ in la’, quello di Solak Hamdi il fabbricante di chiavi, quello della sposa di Edirne», Hayriye li stava elencando uno a uno quando seküre la interruppe. «Kalbiye, la moglie della buonanima di Raffinato Effendi, non e’ venuta a fare le condoglianze, non ha mandato a dire niente e non ha preparato neanche dell'helva!» Si stava dirigendo dalla porta della cucina verso il cortile, ai piedi delle scale. Capii che voleva stare con me e parlarmi lontano da Hayriye e cosi’ la seguii. «Raffinato Effendi non provava risentimento nei confronti di mio padre. Noi, il giorno del suo funerale, abbiamo fatto l'helva e l'abbiamo mandato a casa sua. Voglio sapere cosa succede», disse seküre. «Adesso vado, chiedo e cerco di scoprirlo», dissi capendo i timori di seküre. Dato che non le avevo fatto sprecare troppe parole, mi bacio’. Mentre il freddo in cortile ci penetrava nelle ossa, ci abbracciammo e rimanemmo immobili. Poi accarezzai i capelli della mia bella seküre. «Esther, ho paura», disse. «Tesoro mio, non avere paura. In tutto c'e’ sempre qualcosa di buono. Hai visto, alla fine ti sei sposata». «Ma non so se ho fatto bene, - disse. - Percio’ non l'ho fatto avvicinare. Ho passato la notte accanto al mio povero padre». Spalanco’ gli occhi e mi fisso’ come per dire: «capisci?» «Hasan sostiene che per il cadi’ il vostro matrimonio non ha valore, - dissi. - Ti ha mandato questo». «Ormai non importa», sussurro’, eppure apri’ subito il foglietto e lo lesse, ma questa volta non mi disse cosa le aveva scritto. Aveva ragione, perche’, abbracciate in quel cortile, non eravamo affatto sole. Un falegname laido che aveva riparato la persiana della finestra dell'anticamera al piano di sopra, che quella mattina per un motivo ignoto era caduta rompendosi, spiava noi e le donne che piangevano in casa e addirittura Hayriye che usciva di corsa per aprire la porta al figlio del vicino affezionato che bussava gridando: «arrivato l'helva».
«da tanto che e’ stato seppellito, - disse seküre. - Sento che adesso l'anima del mio povero caro padre si separa per l'ultima volta dal suo cadavere e sale al cielo». Si stacco’ dal mio abbraccio e guardando il cielo limpidissimo prego’ a lungo. Improvvisamente la sentii cosi’ lontana e cosi’ estranea che non mi sarei stupita se fossi stata io la nuvola che guardava seküre dal cielo. Terminata la sua preghiera, la bella seküre mi bacio’ sugli occhi con affetto. «Esther, - disse, - finche’ l'assassino di mio padre e’ vivo, a questo mondo non ci sara’ pace ne’ per me, ne’ per i miei figli». Mi fece piacere che non nominasse suo marito. «Vai a casa di Raffinato Effendi, cerca di far parlare la moglie e vedi di scoprire perche’ non ci hanno mandato l'helva. Poi portami subito notizie». «Hai qualcosa da dire a Hasan?», chiesi. Mentre le facevo questa domanda non riuscii a guardarla negli occhi e me ne vergognai. Per non darlo a vedere bloccai Hayriye e alzai il coperchio del contenitore che teneva in mano. «Ohh, helva di semola con pinoli, - esclamai mettendomene in bocca un pezzetto, - hanno aggiunto anche dell'arancia amara». Vedere per un attimo seküre che mi sorrideva dolcemente come se tutto andasse bene, mi riempi’ di gioia. Presi il mio fagotto, uscii fuori, feci in tempo a fare due passi che in fondo alla strada vidi Nero. Il novello sposo che aveva appena seppellito il suocero era molto contento della vita, lo capivo dalla sua aria orgogliosa. Per non fargli perdere l'allegria, lasciai la strada ed entrai in un orto, passai per il giardino della casa dell'impiccato, il fratello dell'amante del famoso medico ebreo Mose’ Hamon. Ogni volta che ci passo, questo giardino che odora di morte mi rattrista talmente tanto che mi dimentico di cercare un acquirente per la casa. Anche la casa di Raffinato Effendi aveva quello stesso odore di morte ma non era assolutamente triste. Sono entrata in migliaia di case e ho conosciuto centinaia di vedove, so che le donne che perdono anzitempo il marito si abbrutiscono con sentimenti di sconfitta e tristezza oppure di rabbia e ribellione (nella mia cara seküre c'erano tutti). Kalbiye Hanim aveva bevuto il veleno della rabbia e capii subito che questo avrebbe facilitato il mio lavoro. Dato che Kalbiye Hanim giustamente sospettava che tutti coloro che le suonavano alla porta nei giorni peggiori della sua vita venissero per compatirla, o, peggio ancora, per gioire segretamente della loro condizione vedendo lei in uno stato penoso, non cercava di dire parole dolci ai suoi ospiti e andava al sodo senza farsi prendere da debolezze, quali farli accomodare, chiacchierare amichevolmente sostenendo la conversazione come fanno le donne orgogliose con cui la vita e’ stata crudele. Perche’ oggi a mezzogiorno, mentre Kalbiye meditava di andare a schiacciare un pisolino con la sua tristezza, Esther aveva suonato alla sua porta? Sapendo che non si sarebbe minimamente interessata alle nuovissime pezze di seta arrivate con la nave proveniente dalla Cina, ai fazzoletti di Bursa, senza neanche far finta di aprire il mio fagotto, affrontai subito l'argomento e le raccontai il problema della povera seküre. «Pensare di aver offeso senza rendersene conto Kalbiye Hanim di cui condivide la sorte, per la povera seküre e’ un dolore in piu’», le dissi. Kalbiye Hanim confermo’ orgogliosa di non avere cercato seküre, di non essere andata a farle le condoglianze e a condividere il suo lutto, e che non le andava neanche di preparare un helva e mandarglielo. Dietro al suo orgoglio c'era di certo anche una gioia che non riusciva a nascondere: si erano accorti che era offesa. Ecco, partendo da questo punto debole, la vostra intelligente Esther cerco’ di capire cosa stesse accadendo. Non ci volle molto perche’ Kalbiye spiegasse di essere arrabbiata con Zio Effendi per il libro che aveva fatto preparare. Il suo defunto marito non aveva accettato il lavoro per guadagnare due o tre akçe in piu’, ma perche’ Zio Effendi l'aveva convinto che questo libro era stato ordinato dal sultano. Racconto’ che la buonanima di suo marito, vedendo che tutte quelle pagine miniate che Zio Effendi faceva dorare pian piano si allontanavano dall'essere pagine miniate e diventavano veri disegni con inimmaginabile contenuto di empieta’, di ateismo, anzi, pieni di bestemmie, aveva iniziato a preoccuparsi e a non sapere piu’ che fare. Ma dato che Kalbiye era una donna molto piu’ intelligente e attenta di Raffinato Effendi, aggiunse prudentemente: tutti questi dubbi non gli erano sorti all'improvviso ma per gradi, il povero compianto Raffinato Effendi non aveva incontrato una bestemmia palese, e aveva placato la sua ansia pensando di aver solo avuto una strana impressione. In ogni caso la buonanima di Raffinato Effendi non si era mai persa le prediche di Maestro Nusret di Erzurum, e se non praticava la preghiera rituale per tempo non era sereno. Era legato alla sua religione in modo quasi fanatico e sapeva che al laboratorio di miniatura del sultano alcuni vili si prendevano gioco di lui; era convinto che questi scherzi insolenti fossero dovuti all'invidia per il suo talento e la sua arte. Una grande lacrima brillante trabocco’ dall'occhio lucido di Kalbiye per scorrerle sulla guancia, e la buona Esther decise che alla prima occasione le avrebbe trovato un marito migliore di quello appena perso. «La buonanima non condivideva questi suoi problemi con me, - disse Kalbiye attenta. - Sono stata io a mettere insieme i ricordi e ho deciso che tutto questo ci e’ accaduto a causa dei disegni di Zio Effendi, dal quale era andato la sua ultima notte». Era un suo modo di fare le scuse. Per tutta risposta le dissi che forse anche Zio Effendi adesso era stato ucciso dallo stesso «vile», e le feci notare come le sorti e i nemici di seküre e di Kalbiye avessero dei punti in comune. Anche i due orfani che mi scrutavano attentamente da un angolo pensavano che le due situazioni fossero simili. Ma la mia spietata logica da sensale di matrimoni mi ricordo’ subito che seküre era molto piu’ bella, ricca e misteriosa. E le dissi quello che sentivo dentro di me: «seküre dice che se ha qualche colpa ti chiede scusa. Ti propone un'amicizia da sorella, da persone accomunate dalla stessa sorte e vuole che ci pensi bene e la aiuti. La buonanima di Raffinato Effendi, uscendo di qui l'ultima notte, ti ha parlato di qualcuno che avrebbe visto dopo Zio Effendi? Tu hai mai saputo che dovesse incontrare qualcun altro?»
«Nelle tasche del mio povero Raffinato ho trovato questo», rispose. Da una scatola di vimini con il coperchio che conteneva pennini, pezzi di stoffa e una noce enorme tiro’ fuori un foglio piegato. Presi il foglio stropicciato e guardandolo attentamente da vicino vidi tante forme disegnate con l'inchiostro ad acqua. Avevo appena capito a cosa somigliassero quando Kalbiye diede voce al mio pensiero. «Sono cavalli, - disse. - Erano anni che Raffinato Effendi buonanima faceva solo dorature, non disegnava cavalli e nessuno gli chiedeva mai di disegnarne». La vostra vecchia Esther guardava quei cavalli disegnati in fretta e sbiaditi dall'acqua senza capirci granche’. «Se prendessi questo foglio e lo portassi a seküre, ne sarebbe molto contenta», dissi. «Se lo vuole che venga qui lei», disse Kalbiye orgogliosa.
Capitolo quarantesimo. Il mio nome e’ Nero Forse lo avete gia’ capito, nella vita degli uomini come me, esperti di afflizione, per i quali l'amore e l'affanno, la felicita’ e la miseria sono solo pretesti per una solitudine eterna, non capitano ne’ grandi gioie ne’ grandi dolori. Non dico che quando l'anima degli altri e’ scombussolata da questi sentimenti non li capiamo, al contrario, capiamo chi vive questi sentimenti in modo profondo. Quello che non capiamo e’ la strana agitazione in cui precipita la nostra anima in quel momento. Questa silenziosa agitazione che ci offusca la mente e il cuore prende il posto della gioia e della tristezza che dovremmo provare. Grazie al cielo avevo seppellito suo padre, ero tornato a casa dal funerale di corsa, avevo abbracciato la mia seküre e le avevo fatto le condoglianze, ma ero rimasto di stucco quando lei si era gettata sui cuscini, mentre i figli mi guardavano in modo ostile, e aveva cominciato a piangere a dirotto. La sua afflizione era la mia vittoria; all'improvviso avevo sposato il sogno della mia giovinezza e, liberatomi del padre che mi disprezzava, ero diventato il signore della casa, chi avrebbe potuto credere alle mie lacrime? Ma no, credetemi, non e’ cosi’; avrei voluto rattristarmi davvero, ma non ci riuscivo. Non era mai stato mio padre, ma mio zio a farmi da padre. E poi, dato che l'imam invadente che aveva lavato il cadavere non aveva tenuto la bocca chiusa, la voce che mio zio non fosse morto di morte naturale, come avevo sentito nel cortile della moschea durante il funerale, si era diffusa anche tra la gente del quartiere. Anche per questo volevo rattristarmi, perche’ il fatto che non piangessi avrebbe fatto pensare male di me; la paura di essere considerato un cuore di pietra e’ un sentimento sincero, lo sapete. Le vecchiette comprensive trovano sempre una giustificazione per non scacciare dalla comunita’ le persone come me: «e’ un uomo che piange dentro di se’», dicono. Mentre piangevo dentro di me e mi meravigliavo vedendo gli indiscreti vicini di casa piangere a dirotto, mentre cercavo di nascondermi in un angolo per non farmi vedere dai parenti lontani ed ero indeciso se prendere in mano la situazione comportandomi da padrone di casa, bussarono alla porta. Per un attimo mi agitai credendo che fosse Hasan, sarebbe andato anche bene, pur di liberarmi in qualche modo di questo inferno di lacrime. Era un messaggero venuto da Palazzo. Ero convocato a Palazzo. Mi meravigliai. Uscendo dal cortile trovai un'akçe per terra, nel fango. Avevo molta paura. Perche’ mi avevano convocato a Palazzo? Si’, avevo paura, ma ero contento di essere fuori, al freddo, per strada tra cani e cavalli, alberi e uomini. Come gli illusi che prima di venire consegnati al boia cominciano a parlare tranquillamente con il secondino del piu’ e del meno, delle bellezze della vita, delle anatre nel lago e delle strane forme delle nuvole in cielo, e credono di avere amichevolmente risolto la spietatezza del mondo, provai a fare amicizia con il messaggero venuto a prendermi, ma era un ragazzo per niente cordiale, butterato, riservato. Mentre passavamo accanto alla moschea di Santa Sofia notai ammirato gli slanciati, slanciatissimi cipressi che si allungavano verso il cielo fosco e rabbrividii, e non fu per l'orrore di morire dopo aver sposato seküre dopo tanti anni di attesa, ma per l'ingiustizia di morire sotto tortura a Palazzo senza essere neanche andato a letto con lei e aver fatto l'amore a sazieta’. Non ci dirigemmo verso la porta centrale le cui torri guardavo impaurito e dietro la quale lavorano i rapidi boia e gli aguzzini, ma verso le falegnamerie. Mentre passavamo tra i magazzini, un gatto intento a leccarsi nel fango tra le zampe di un cavallo sauro dalla cui bocca usciva vapore, non si giro’ neanche a guardarci: come noi, anche il gatto era molto impegnato con la sporcizia. Dietro i magazzini mi presero in consegna dal ragazzino silenzioso due persone - dai loro abiti verdi e viola non riuscii a capire per conto di chi lavorassero - e mi gettarono in una stanza buia di una piccola costruzione - capii che era nuova dall'odore di legno - chiudendomi dentro a chiave. Sapevo che venire rinchiuso in una stanza buia era una cerimonia usata per spaventare prima della tortura e, sperando che cominciassero con la bastonatura delle piante dei piedi, pensavo a qualche bugia da inventare per potervi sfuggire. Li’ accanto, sembrava ci fosse gente, c'era un rumore continuo. Tra di voi ci sara’ senz'altro qualcuno che, notando l'allegra ironia del mio linguaggio, pensa che io non parli affatto come un uomo che sta per essere torturato. Non vi avevo forse gia’ detto che, tra le creature di Allah, credo di essere tra quelle fortunate? Se non e’ bastata a dimostrarlo la buona fortuna che ho avuto in questi due giorni dopo le sofferenze che ho sopportato per anni, deve avere un qualche significato l'akçe che ho trovato per terra uscendo dalla porta del cortile.
Mentre attendevo la tortura mi consolai con l'akçe che ormai ero certo mi avrebbe protetto, tenni in mano il segno di fortuna mandatomi da Allah, lo accarezzai e lo baciai diverse volte. Quando mi presero al buio, mi condussero nell'altra stanza e mi vidi davanti il Comandante delle guardie imperiali e gli aguzzini croati con la testa rasata, capii che l'akçe non avrebbe potuto fare nulla. Aveva ragione quella spietata voce dentro di me: l'akçe nella mia tasca non era stata mandata da Allah, ma era una di quelle akçe che due giorni fa, con un gesto augurale, avevo rovesciato sulla testa di seküre e che i bambini non erano riusciti a trovare. Cosi’, mentre mi consegnavo nelle mani degli aguzzini, non avevo piu’ illusioni, niente a cui aggrapparmi. Non me n'ero neanche reso conto: dai miei occhi scendevano lacrime. Avrei voluto supplicare, ma dalla mia bocca, come nei sogni, non usci’ un suono. Sapevo che l'uomo puo’ all'improvviso diventare una nullita’, per le guerre, le morti, gli assassinii politici e le torture di cui ero stato testimone da lontano, ma non l'avevo vissuto cosi’ intimamente. Mi sfilavano dal mondo come se mi stessero sfilando gli abiti che avevo indosso. Mi tolsero il panciotto e la camicia. Uno dei boia si sedette sopra di me, premendo sulle mie spalle con le ginocchia. L'altro mi mise in testa una gabbia con movimenti attenti delle mani, come quelli raffinati e esperti di una donna in cucina, e comincio’ a girare lentamente il chiavistello. Non era la gabbia ma un torchio a stringermi la testa. Urlai con tutte le mie forze. Supplicai, ma con parole incomprensibili. Piansi, piu’ che altro per sfogarmi. Si fermarono, mi chiesero. Ho ucciso io Zio Effendi? Feci un respiro: no. Il chiavistello comincio’ di nuovo a girare. Che male. Me lo chiesero di nuovo. No. Chi? Non lo so! Cominciai a pensare se dire di averlo ucciso io. Ma intorno alla mia testa il mondo girava dolcemente. Divenni apatico. Mi chiesi se mi sarei abituato al dolore. Io e i miei aguzzini rimanemmo un attimo fermi cosi’. Non sentivo male da nessuna parte, avevo solo paura. Stavo per capire di nuovo dall'akçe che avevo in tasca che non mi avrebbero ucciso quando mi lasciarono. Tolsero la gabbia del torchio, che, in verita’, mi aveva schiacciato la testa ben poco. Il boia sopra di me scese. Ma non aveva per niente l'aria di chiedere scusa. Mi rimisi camicia e panciotto. Ci fu un silenzio lungo, lunghissimo. All'altro capo della stanza vidi il capo miniaturista Osman Effendi. Gli andai accanto e gli baciai la mano. «Non temere figliolo, - mi disse. - Ti hanno messo alla prova». Capii subito di aver trovato un nuovo padre dopo mio zio. «Per adesso, il Nostro Sultano ha dato ordine che tu non venga torturato, - disse il Capo delle guardie imperiali. Desidera che tu aiuti il capo miniaturista Maestro Osman a trovare il vile assassino che uccide i suoi maestri, i suoi servitori che preparano i libri. Dovete trovare il maledetto entro tre giorni, guardando le pagine miniate, parlando con i maestri. Il Sovrano e’ molto disturbato dalle voci diffuse dai sobillatori sui suoi libri e i suoi miniaturisti. Io e il Capo Tesoriere Hazim Agha’ possiamo aiutarvi a trovare questo vile, come ha ordinato il sultano. Uno di voi e’ parente di Zio Effendi buonanima, ha ascoltato i suoi racconti; sa come lavoravano i miniaturisti che venivano di notte, conosce la storia del libro. L'altro e’ un grande maestro che si vanta di conoscere tutti i membri della squadra come il palmo della sua mano. Se entro tre giorni non riuscite a trovare quel maiale e la pagina smarrita che ha rubato e di cui tutti parlano, il Nostro Sultano vuole che tu figliolo, Nero Effendi, venga interrogato e torturato per primo. Stessa sorte tocchera’ ai maestri della squadra dei miniaturisti». Non vidi nessuno scambio di segni segreti tra i due vecchi amici che collaboravano da anni, il capo miniaturista Maestro Osman e il Tesoriere Hazim Agha’, che gli forniva il lavoro e gli passava il denaro e i materiali. «Quando si compie un delitto negli alloggi, nelle stanze, tra le persone che sono al servizio del Nostro Sultano, tutti sanno che viene considerata colpevole l'intera squadra, fino a quando non viene trovato e consegnato il colpevole, e nel caso in cui una squadra non trovi l'assassino al suo interno, viene punita e considerata una squadra di assassini assieme al suo capo, - disse il Comandante delle guardie imperiali. - Percio’ il nostro capo miniaturista Maestro Osman aprira’ bene gli occhi, osservera’ ogni pagina con sguardo acuto e trovera’ la diavoleria, il trucco, l'istigazione, la malignita’ che hanno creato inimicizia tra i miniaturisti innocenti, consegnera’ il colpevole all'infallibile giustizia del Nostro Sultano, il grande Monarca, e cosi’ dimostrera’ l'innocenza della sua squadra. Gli abbiamo portato tutto quello che ha chiesto, e gliene porteremo ancora. I miei uomini stanno raccogliendo nelle case dei maestri una a una le pagine miniate dei libri per portarle qui».
Capitolo quarantunesimo. Io, Maestro Osman Dopo aver ribadito gli ordini del sultano, il Comandante delle guardie imperiali e il Tesoriere se ne andarono, lasciando noi due nella stanza. Ovviamente Nero era stanco e afflitto per la finta tortura, la paura e le lacrime. Rimase in silenzio
come un bambino. Capii che gli avrei voluto bene e lo lasciai in pace. Avevo tre giorni per osservare le pagine che gli uomini del Comandante delle guardie avevano raccolto nelle case dei calligrafi e dei maestri miniaturisti e identificarli. Sapete bene quanto mi avevano disgustato i disegni del libro di Zio Effendi che Nero aveva consegnato al Tesoriere Hazim Agha’ per provare la sua innocenza quando li avevo visti la prima volta. Bisogna ammettere che delle pagine che suscitano un ribrezzo cosi’ violento e un odio tale in un miniaturista che ha dedicato tutta la vita a questo lavoro, senz'altro contengono qualcosa di attraente. Perche’ se l'arte e’ solo brutta non desta neanche ribrezzo. Ecco, cosi’ cominciai a esaminare con una certa curiosita’ le nove pagine commissionate dalla buonanima di quello stupido ai miniaturisti che andavano a trovarlo di notte. Su un foglio bianco c'era un albero collocato nella cornice e nella doratura, anche queste opera del povero Raffinato. Cercai di immaginare la storia alla quale appartenesse. Se dicessi ai miei miniaturisti, al caro Farfalla, all'intelligente Cicogna, allo scaltro Oliva, di disegnare un albero, lo immaginerebbero come parte di una storia prima di disegnarlo con sicurezza. E se poi guardassi quell'albero con attenzione, dai rami e dalle foglie potrei capire la storia immaginata dal miniaturista. Pero’ quest'albero era misero e solo, e sullo sfondo la linea dell'orizzonte era molto alta, tanto da farlo sembrare ancor piu’ solo; ricordava i metodi dei piu’ antichi maestri di Shiraz. Ma nel vuoto creato da quell'orizzonte cosi’ alto non c'era nulla. Cosi’, il desiderio di disegnare un albero semplicemente perche’ era un albero, come fanno i maestri europei, e il desiderio di vedere il mondo dall'alto, tipico dei maestri persiani, si erano mescolati creando un disegno penoso, che non era ne’ europeo ne’ persiano. Mi veniva da dire che un albero del genere potesse trovarsi solo li’ dove finisce il mondo. Ma i miei miniaturisti e la scarsa intelligenza della buonanima di quello stupido, cercando di combinare questi due metodi diversi, avevano ottenuto un risultato privo di significato. Quello che mi faceva arrabbiare non era che il disegno fosse stato creato da due mondi diversi, ma la mancanza di abilita’. Provai la stessa sensazione guardando anche gli altri disegni, il cavallo perfetto uscito dai sogni, la donna umile. Mi facevano arrabbiare anche i soggetti, questi due dervisci erranti o Satana. Era ovvio che i miei maestri avevano inserito questi disegni nel libro del Nostro Sultano. Ammirai ancora una volta la suprema volonta’ di Allah che aveva tolto la vita a Zio Effendi prima che il libro fosse finito. Io non avevo nessuna voglia di portarlo a termine. Come avrei potuto non innervosirmi per questo disegno di cane che ci fissa da sotto il naso, come se fosse un nostro fratello, ma disegnato da sopra? Perche’ da una parte provavo ammirazione per la naturalezza della posizione del cane, per la bellezza del suo sguardo mentre ci guarda minaccioso con la coda dell'occhio e avvicina la testa a terra, per il bianco violento dei suoi denti, in poche parole, per il talento dei miniaturisti che l'avevano disegnato (stavo quasi per indovinare chi era stato) e, dall'altra, non perdonavo assolutamente il fatto che questo talento fosse stato sprecato per servire l'assurda logica di una forza di volonta’ incomprensibile. Il desiderio di imitare i maestri europei, anzi, l'ordine del Nostro Sultano di realizzare il libro, dono per il Doge, con metodi comprensibili ai veneziani, non era sufficiente a perdonare la presunzione di questi disegni. Il rosso di un disegno affollato - mi resi subito conto che ciascuno dei miei maestri ne aveva toccato un angolo - mi fece teneramente paura. Una mano che non capivo a chi appartenesse aveva inserito nel disegno un rosso di una strana tonalita’ secondo una logica segreta, e tutto il mondo che il disegno mostrava era gradatamente sprofondato nel rosso. Spiegai a Nero da quale maestro erano stati disegnati il platano (Cicogna), le navi e le case (Oliva), l'aquilone e i fiori (Farfalla). «chiaro che un grande maestro come voi, che e’ stato a capo di un'intera squadra di miniaturisti, conosce il talento dei suoi maestri uno a uno, il temperamento della penna e l'uso del pennello di ognuno di loro, - disse Nero. - Ma come fate a riconoscere i vostri maestri dal momento in cui sono stati forzati a disegnare con metodi nuovi e sconosciuti da un bizzarro bibliofilo come mio zio, come fate a essere cosi’ sicuro da identificare l'autore del tale disegno?» «C'era una volta un sultano appassionato di libri e di miniatura che viveva da solo nella torre che dominava Isfahan, risposi raccontandogli una storia. - Era un sultano forte e intelligente, ma spietato. Non amava nulla a parte i libri che commissionava e sua figlia. Il sultano era cosi’ smisuratamente affezionato a sua figlia che tra i suoi nemici girava voce che ne fosse innamorato, e non avevano del tutto torto. Ne era talmente orgoglioso e geloso da dichiarare guerra ai principi e agli scia’ vicini che mandavano gli ambasciatori a chiederne la mano. Non riusciva a trovare un marito degno di sua figlia e cosi’ la teneva nascosta nell'ultima di quaranta stanze chiuse da quaranta serrature e, per via di una voce diffusasi a Isfahan, anche lui credeva che la bellezza della ragazza sarebbe appassita se gli altri uomini l'avessero vista. Un giorno, quando un libro su Cosroe e sirin nello stile di Herat che aveva ordinato fu finito, a Isfahan si sparse la notizia: la bella pallida che appariva in un disegno affollato tra le pagine era la figlia del sultano geloso! Il sultano, che si era insospettito gia’ prima di sentire queste voci, apri’ le pagine del libro con mani tremanti e, con le lacrime agli occhi, si rese subito conto che era stata ritratta la bellezza di sua figlia. C'era chi sosteneva che, una notte, mentre la figlia del sultano era protetta da quaranta serrature, la sua bellezza fosse uscita dalla stanza, come fanno i fantasmi annoiati, e si fosse riflessa negli specchi, per poi passare sotto le porte, dai buchi delle serrature, fino a raggiungere, come una luce, come un fumo invisibile, gli occhi di un miniaturista che lavorava di notte. Il giovane maestro miniaturista non pote’ resistere e disegno’ questa incredibile bellezza da cui non riusciva assolutamente a distogliere lo sguardo in un angolo del disegno a cui stava lavorando in quel momento. Il disegno mostrava il momento in cui sirin, durante una passeggiata in campagna, s'innamorava di Cosroe guardandone il ritratto». «Mio maestro, mio signore, questa e’ veramente una coincidenza, - disse Nero. - Perche’ anche noi amiamo molto la rappresentazione di quella fiaba». «Queste non sono fiabe, sono cose realmente accadute, - continuai. - Ascolta: il nostro maestro non disegno’ la figlia del sultano come la bella sirin, ma come una dama di corte che aiuta sirin, suona il liuto e imbandisce la tavola. Perche’ in quel momento stava disegnando la dama di corte. Cosi’, la bellezza di sirin fu poca cosa paragonata alla meravigliosa
bellezza della dama accanto e l'equilibrio del disegno si guasto’. Quando vide la figlia nel disegno, il sultano volle sapere chi fosse il maestro miniaturista che l'aveva ritratta. Ma lo scaltro maestro, temendo l'ira del sultano, non aveva disegnato la dama con il suo solito stile, ma con uno stile nuovo, per non essere riconosciuto. Perche’ quel disegno era stato toccato dalla penna e dal talento di molti altri maestri». «Allora come fece il sultano a capire chi era stato il miniaturista ad aver ritratto sua figlia?» «Guardando le orecchie!» «Guardando le orecchie di chi? Della figlia, del ritratto della figlia?» «Di nessuna delle due in realta’. Ebbe un'intuizione, apri’ tutti i libri, le pagine, i disegni fatti dai suoi miniaturisti e guardo’ le orecchie, ed ebbe l'ennesima conferma di quello che sapeva da anni: ognuno, qualunque sia il suo talento, disegna le orecchie con uno stile proprio. E questo non cambia assolutamente, puo’ trattarsi del volto di un sultano, di un bambino, di un guerriero, o, Allah non voglia, del volto non celato da un velo del Nostro Profeta o, Allah non voglia, di Satana. Il miniaturista, in ogni situazione, in ogni disegno, disegna le orecchie allo stesso modo, quasi fossero una firma segreta». «Perche’?» «Quando disegnano un volto, i maestri miniaturisti si concentrano sull'espressione, sul renderla simile o dissimile a un'altra, sull'avvicinarla alla bellezza suprema e adeguarla alle antiche forme. E quando tocca disegnare le orecchie non le rubano ad altri maestri, non imitano una forma, ne’ guardano un orecchio vero. Perche’ quando disegnano un orecchio non ci riflettono, non lo curano, non si soffermano su quello che fanno. Muovono la penna a memoria». «Ma i grandi maestri non disegnano tutte le loro meraviglie a memoria, senza mai guardare i cavalli, gli alberi, gli uomini veri?», domando’ Nero. «vero, - dissi io. - Ma questo e’ un sapere a memoria ottenuto con il pensiero e la riflessione di anni, scervellandosi, lavorando. Dato che per tutta la vita vedono parecchi disegni di cavalli e parecchi cavalli, sanno molto bene che un ultimo cavallo in carne e ossa danneggerebbe l'idea perfetta di cavallo che hanno in testa. La penna del maestro miniaturista che per tutta la vita disegna decine di migliaia di cavalli, alla fine si avvicina molto al disegno di cavallo progettato da Allah e lo capisce dalla propria anima e dalla propria esperienza. Il cavallo che la mano disegna a memoria in un attimo, e’ fatto con talento, travaglio e sapienza, ed e’ un cavallo vicino al cavallo di Allah. Ma l'orecchio che la mano disegna senza accumulare conoscenza, senza sapere e pensare a quello che fa e senza fare attenzione all'orecchio della figlia del sultano, ha sempre un difetto. E, in quanto difetto, e’ diverso per ogni miniaturista. Diventa cioe’ una specie di firma». Si senti’ un rumore e un movimento. Gli uomini del Comandante delle guardie imperiali stavano lasciando in una stanza del vecchio laboratorio di miniatura le pagine raccolte a casa dei calligrafi e dei miei miniaturisti. «In realta’ l'orecchio e’ gia’ di per se’ un difetto dell'uomo, - dissi sperando che Nero sorridesse. - Diverso e uguale in ognuno: un vero orrore». «Cosa accadde poi al miniaturista che si fece sorprendere dalla firma dell'orecchio?» Per evitare che Nero si rattristasse ulteriormente, non dissi: «Venne accecato». Gli risposi: «Sposo’ la figlia del sultano. E da quel giorno, questo metodo di identificazione dei miniaturisti e’ noto come «metodo della dama», tra i molti khan, scia’, sultani proprietari di laboratori di miniatura, e viene utilizzato come metodo segreto per scoprire subito un colpevole; nel caso in cui questi neghi la sua colpa, basta fargli fare un disegno, una piccola miniatura. Perche’ i veri artisti hanno questo desiderio improvviso di dipingere cio’ che e’ proibito! A volte le loro mani disegnano da sole creature maligne. La chiave di volta e’ trovare dettagli che non si trovano nel cuore del disegno, a cui non viene data importanza, che vengono disegnati in fretta e si ripetono sempre. Possono essere le orecchie, le mani, l'erba, le foglie o la criniera dei cavalli, le zampe o perfino gli zoccoli. Ma, attenzione, il pittore non deve sapere che questi particolari contengono la sua firma segreta. Per esempio, i baffi non vanno bene, perche’ molti pittori sanno di disegnare i baffi con un proprio stile e sanno che il disegno dei baffi e’ quasi una firma. Le sopracciglia invece si’, perche’ nessuno vi presta attenzione. Adesso vieni, vediamo chi sono i giovani maestri che hanno toccato con i loro pennelli, con le loro penne, i disegni della buonanima di Zio Effendi». Cosi’ mettemmo accanto le pagine di due libri, uno preparato in segreto e l'altro alla luce del sole, con storie e argomenti diversi, con metodi di diversi miniaturisti: il libro della buonanima di Zio Effendi e il surname della festa di circoncisione del nostro Principe, disegnato sotto il mio controllo. Io e Nero guardammo attentamente dove passava la mia lente: 1) Per prima cosa, sulla pagina del surname, notammo la bocca aperta della pelliccia di volpe portata in braccio da un maestro pellettiere con il caftano rosso e la cintura viola che passava davanti al Nostro Sultano mentre osservava la parata dalla villa costruita appositamente per l'evento. I denti della volpe, che si vedevano uno a uno, e i denti nel disegno di Satana, di quella infelice creatura meta’ demonio e meta’ gigante che pensavo provenisse da Samarcanda, erano opera della stessa mano, usciti dalla penna di Oliva. 2) Durante uno splendido giorno di festa, sotto la finestra del Nostro Sultano che dava sull'Ippodromo, era apparso un gruppo di miseri soldati delle truppe di frontiera con le vesti stracciate. Uno di loro aveva detto: «Nostro Sultano, noi, tuoi eroici soldati, siamo stati fatti schiavi combattendo per la vera religione contro gli infedeli e siamo riusciti a liberarci solo lasciando al nostro posto un parente o un fratello e promettendo di trovare i soldi per il riscatto, ma una volta tornati a Istanbul abbiamo visto che la vita era diventata molto cara; adesso non riusciamo a mettere insieme i soldi che libererebbero i nostri parenti rimasti ostaggio degli infedeli e abbiamo bisogno del tuo aiuto; dacci dell'oro o degli schiavi da portare in cambio dei nostri parenti ancora prigionieri per liberarli», disse. E poi, ecco, le unghie delle zampe del cane pigro che, da un angolo della piazza, con un solo occhio aperto, in quel momento osservava il Nostro
Sultano, i poveri reduci, gli ambasciatori persiani e tartari; ed ecco le unghie del cane che riempiva l'angolo della rappresentazione con le avventure dell'akçe nel libro di Zio Effendi. Erano evidentemente uscite dalla stessa penna, dalla mano di Cicogna. 3) Tra i giocolieri che facevano capriole e facevano rotolare le uova sopra tavole di legno davanti al Nostro Sultano, ve n'era uno calvo, con un panciotto viola e i polpacci nudi che suonava il tamburello inginocchiato sul tappeto rosso nell'angolo; teneva le dita esattamente nello stesso modo della donna che portava il grande vassoio nel disegno rosso nel libro dello Zio: l'autore era Oliva. 4) Le pietre azzurre del terreno rosa dove poggiavano i piedi i maestri cuochi che camminavano con le loro pentole insieme alla squadra di cuochi che sfilava cuocendo cavoli ripieni di carne e cipolla nella grande pentola sul fornello sistemato nel carro che passava davanti al Nostro Sultano, e le pietre scarlatte del terreno blu dove camminava, senza toccarlo, quella cosa, un mezzo fantasma, nel disegno che Zio Effendi aveva chiamato morte, erano uscite dalla stessa mano, quella di Farfalla. 5) I messaggeri tartari a cavallo portavano la notizia che gli eserciti dello scia’ si stavano preparando a una nuova guerra contro gli Ottomani, che subito avevano raso al suolo la fastosa residenza estiva dell'ambasciatore persiano; quest'ultimo continuava a ripetere al Nostro Sultano, Protettore dell'Universo, che lo scia’ di Persia era un amico e che nutriva nei suoi confronti solo sentimenti fraterni. Durante la rabbiosa demolizione erano accorsi i portatori d'acqua per contrastare la polvere arrivata fino all'Ippodromo, e per tranquillizzare un gruppo che si preparava ad aggredire l'ambasciatore erano arrivati uomini che portavano sulla schiena sacchi di pelle pieni di olio di lino da versare sulla gente. Il modo in cui i portatori d'acqua e gli uomini con i sacchi di pelle pieni di olio di lino alzavano i piedi correndo era uguale a quello dei soldati che correvano nella pagina del rosso, tutti opera della stessa mano, quella di Farfalla. Quest'ultima scoperta non e’ mia, io dirigevo la caccia agli indizi spostando la lente a destra e a sinistra, su un disegno o sull'altro, ma di Nero, che per paura della tortura e nella speranza di riabbracciare presto la moglie che lo aspettava a casa aveva spalancato gli occhi. Osservare con il metodo della dama cio’ che restava dei disegni della buonanima di suo zio e fare una lista dei miniaturisti che li avevano toccati per poi interpretare le informazioni ottenute ci prese tutto il pomeriggio. La buonanima dello zio di Nero non aveva lasciato nessuna pagina al pennello e al talento di un unico miniaturista, e tutti e tre i miei maestri avevano toccato la maggior parte dei disegni. Voleva dire che i disegni viaggiavano di casa in casa, e che l'andirivieni era intenso. Quando mi accorsi del tocco inesperto di una quinta mano che aveva partecipato ai disegni oltre ai maestri che conoscevo, stavo per arrabbiarmi pensando a quanto fosse incapace il vile assassino, ma Nero identifico’ suo zio dal modo prudente di mettere i colori, e cosi’ ci liberammo di una falsa pista. Lasciando da parte anche il povero Raffinato Effendi, che aveva fatto le dorature per il libro di Zio Effendi quasi uguali a quelle che aveva fatto per il nostro surname (certo, questo si’ che mi offendeva) e che penso che, di tanto in tanto, abbia toccato con il suo pennello i muri, le foglie e le nuvole, risultava che ad avere sicuramente toccato i disegni erano stati solo i tre maestri piu’ brillanti della mia squadra di miniaturisti. Questi erano i tre figli che avevo cresciuto con amore fin da quando erano solo apprendisti, i miei tre talenti: Oliva, Farfalla, Cicogna... Parlare del talento, della maestria e del carattere di ognuno di loro non vuol dire parlare solo di loro, ma anche della mia stessa vita. Le qualita’ di OLIVA In realta’ il suo vero nome e’ Velican, non so se abbia altri soprannomi oltre a quello che gli ho dato io, perche’ non l'ho mai visto firmare. Quando era apprendista mi veniva a prendere a casa ogni martedi’ mattina. molto orgoglioso, e questo significa che, se arrivasse al punto da firmare, vorrebbe comunque che la firma si vedesse e fosse riconoscibile, non la nasconderebbe. Allah gli ha dato troppe capacita’. in grado di fare qualsiasi cosa, dalle dorature ai contorni, e le fa nel migliore dei modi. lui nel laboratorio del sultano il miniaturista piu’ brillante a disegnare alberi, animali e volti umani. Il padre, che porto’ Velican a Istanbul quando credo avesse dieci anni, era stato allievo di Siyavus, il famoso ritrattista del laboratorio dello scia’ saffavide di Tabriz, la cui dinastia di maestri risale ai mongoli. Velican disegna i giovani innamorati con il volto di luna come i cinesi, come gli antichi maestri di centocinquant'anni fa che lavorarono sotto l'influenza mongola e cinese a Samarcanda, a Bukhara e a Herat. Da apprendista era un osso duro e cosi’ e’ rimasto anche da maestro. Avrei voluto che uscisse dagli schemi dei maestri mongoli, cinesi e di Herat, anzi, che li dimenticasse. Quando glielo dico, come molti miniaturisti che cambiano laboratorio e paese, sostiene che in realta’ li ha gia’ dimenticati, anzi, che non li ha mai imparati. Molti miniaturisti devono la loro importanza alle forme meravigliose che nascondono nella loro memoria, ma se Velican le avesse dimenticate, sarebbe stato piu’ grande. Il fatto che nasconda le cose che ha imparato nelle profondita’ dell'anima come fossero peccati irrinunciabili, ha due utilita’ di cui nemmeno lui si rende conto: 1. Crea in lui un senso di colpa ed estraneita’ che infonde la giusta dose di talento a un cosi’ abile miniaturista. 2. Quando e’ in difficolta’, ricorda quel che dice di avere dimenticato e, usando uno degli antichi stili di Herat, risolve i problemi di un nuovo soggetto, di una storia nuova, di una rappresentazione inusuale. Ha buon occhio, e sa adattare con armonia gli insegnamenti degli antichi maestri di Scia’ Tahmasp a un disegno nuovo. Nelle sue mani il disegno di Herat e la miniatura di Istanbul si fondono in modo equilibrato. Una volta, come faccio con tutti i miei maestri, ero andato a casa sua senza avvertirlo prima. Al contrario del mio e di quello di molti altri maestri, l'angolo dove lavorava era in grande disordine, c'erano colori, pennelli, conchiglie per lucidare i fogli, il leggio era sottosopra ed era tutto molto sporco. Per me sarebbe impensabile: ma lui non se n'era neanche vergognato. E poi non faceva altri lavori per guadagnare qualche akçe in piu’. Quando lo raccontai a Nero, mi spiego’ che suo zio gli aveva detto che il piu’ curioso dei metodi europei e il piu’ adattabile a questi era Oliva. Capivo
che per la buonanima di quell'idiota voleva essere un complimento. Capivo anche che era un giudizio sbagliato. Sapere che era segretamente legato piu’ di quanto non apparisse ai metodi di Herat trasmessi dal maestro di suo padre Siyavus e dal maestro di Siyavus, Muzaffer, all'epoca di Behzat, e agli antichi maestri, mi ha sempre fatto pensare che in Oliva ci fossero altri lati oscuri. Tra i miei miniaturisti il piu’ silenzioso, il piu’ sensibile, il piu’ colpevole, il piu’ cattivo, il piu’ infido e’ lui (ma questo lo dissi tra me e me). Quando si parla delle torture del Comandante delle guardie imperiali, per primo mi viene in mente lui. (Vorrei che venisse torturato e vorrei che non venisse torturato). Ha occhi svegli, vede tutto, si accorge di tutto, anche dei miei difetti, ma apre la bocca di rado e ci mostra i nostri difetti con la prudenza di un vagabondo che si adatta a ogni situazione. infido, ma secondo me non e’ lui l'assassino. (Anche questo, non lo dissi a Nero). Non crede in nulla. Non crede neanche nei soldi, ma ne mette pavidamente da parte. Invece, al contrario di quanto sostengono gli uomini pii, ma non i miscredenti, gli assassini escono allo scoperto. La miniatura e’ una sfida alla pittura, e la pittura, a sua volta, una sfida nei confronti di Allah - Allah non voglia - lo sanno tutti. In questo senso Oliva, in quanto miscredente, e’ un vero pittore. Ma adesso penso che abbia meno talento di Farfalla, anzi di Cicogna. Avrei voluto che Oliva fosse mio figlio. Lo dissi per far ingelosire Nero. Nero spalanco’ i suoi occhi neri e mi guardo’ con l'interesse di un bambino. Allora gli dissi che Oliva era meraviglioso a disegnare con il pennino, a tracciare guerrieri, cacciatori, panorami con cicogne e gru come quelli cinesi, bei fanciulli seduti sotto un albero che leggono poesie e suonano il liuto; a rappresentare la tristezza degli innamorati leggendari, la collera dello scia’ armato di spada, la paura sul volto dell'eroe che schiva l'assalto del drago. «Forse lo Zio avrebbe fatto fare a lui l'ultimo disegno dove il volto del Nostro Sultano, e il suo modo di stare seduto sarebbero stati disegnati con tutti i dettagli, secondo i metodi europei», disse Nero. Mi voleva mettere alla prova? «Se e’ cosi’, perche’ allora, dopo aver ucciso Zio Effendi, Oliva si sarebbe portato via un disegno che gia’ conosceva?», domandai. «E che bisogno aveva di uccidere Zio Effendi per vedere quel disegno?» Ci pensammo su tutti e due per un attimo. «Perche’ in quel disegno mancava qualcosa, - disse Nero. - Oppure si e’ pentito, o ha avuto paura di qualcosa. Oppure...» Ci penso’ un altro po'. «Oppure potrebbe averlo portato via per fare un danno ulteriore, per prendere un ricordo, anzi cosi’, senza una ragione, dopo aver ucciso il mio povero zio. Oliva e’ un grande maestro, sicuramente ha rispetto per un bel disegno». «Abbiamo gia’ detto che Oliva e’ un grande maestro, - dissi adirato. - Ma neanche uno dei disegni di Zio Effendi e’ bello». «Non abbiamo ancora visto l'ultimo», disse Nero con aria spavalda. Le qualita’ di FARFALLA noto come Hasan di Baruthane, ma per me e’ Farfalla. Questo nome mi ricorda sempre quanto fosse bello da bambino e poi da ragazzo. talmente bello che chi lo vede non ci crede e si gira per guardarlo di nuovo. Il miracolo che continua a stupirmi e’ che oltre a essere bello ha anche talento. un maestro del colore, e’ il suo lato piu’ forte; sembra che disegni con amore, quasi volando, per il piacere di colorare. Dissi a Nero pero’, che e’ anche frettoloso, senza meta, indeciso. Poi, preoccupato di essere giusto, aggiunsi: e’ un vero miniaturista che disegna col cuore. Se la miniatura non la si fa per la mente, per risvegliare la bestia che e’ in noi, o per lusingare il sultano, ma solo perche’ e’ una gioia per gli occhi, allora Farfalla e’ un vero miniaturista. Traccia righe larghe, comode, felici, rotonde, come se fosse andato a lezione dai maestri di Kazvin quarant'anni fa, stende colori lucenti, puri, coraggiosi e nell'ordine segreto del suo disegno c'e’ sempre qualcosa di dolce e rotondo, ma sono stato io a crescerlo, e non i maestri di Kazvin ormai scomparsi da tempo. Forse e’ per questo che lo amo come un figlio, piu’ di un figlio, ma senza provare alcuna ammirazione per lui. Nell'infanzia e nei primi anni della sua giovinezza l'ho picchiato molto, con penne, righe, e anche con il bastone, come facevo con tutti i miei apprendisti, ma non vuol dire che io gli abbia mancato di rispetto. Ho picchiato tanto anche Cicogna con la riga, ma lo rispetto. Le botte del maestro non spaventano gli spiriti di talento e il demone che e’ nel giovane apprendista, ma li fanno indietreggiare solo in modo passeggero. Se sono botte sacrosante, allora i ginn e Satana si risvegliano facendo risvegliare il miniaturista che sta crescendo nel lavoro. Le botte che ho dato a Farfalla, invece, l'hanno reso un miniaturista felice e ubbidiente. Sentii di nuovo il bisogno di elogiarlo di fronte a Nero: «La miniatura di Farfalla, - dissi, - e’ una buona dimostrazione che il disegno della felicita’ che il poeta chiede con la sua poesia e’ possibile solo con la padronanza del colore, un dono di Allah». Quando lo capii, mi resi anche conto di cosa mancava a Farfalla: in lui non c'e’ quel momento di sfiducia che nella sua poesia Giami descrive come «la notte buia dell'anima». Come un miniaturista che disegna felice in Paradiso, comincia a lavorare fiducioso e contento, credendo di fare un disegno felice e ottenendo davvero un disegno felice. L'assedio della fortezza di Doppio da parte dei nostri eserciti, l'ambasciatore ungherese che bacia il piede al Nostro Sultano, il Profeta che ascende al settimo cielo con il suo cavallo. Questi sono certamente eventi felici di per se’, ma in mano a Farfalla si trasformano in una vera festa che esce sbattendo le ali dalla pagina. Se in un disegno che sto facendo fare si sente troppo il buio della morte o la serieta’ della riunione del Consiglio, dico a Farfalla «coloralo come vuoi» e cosi’ gli abiti, le foglie, le bandiere, i mari che paiono silenziosi come se qualcuno li avesse cosparsi con la stessa terra con la quale si ricoprono i morti, ondeggiano subito al vento. A volte penso che Allah voglia che il mondo sia visto come lo disegna Farfalla e che abbia ordinato che la vita sia tutta una festa. Questo e’ un mondo dove i colori, in armonia, si recitano a vicenda poesie meravigliose, dove il tempo si ferma, dove Satana non ha assolutamente un posto. Ma anche Farfalla sa che gli manca qualcosa. Qualcuno gli ha suggerito - si’, giustamente - che nei suoi disegni tutto e’ bello come nei giorni di festa, ma manca di profondita’. I suoi disegni piacciono ai principi bambini e alle donne dell'harem rimbambite e quasi moribonde, non agli uomini costretti ad affrontare il male. Povero Farfalla, conosce bene
queste voci, a volte e’ geloso di miniaturisti molto meno abili di lui e privi di talento, solo perche’ loro hanno un demone, uno spirito. Ma cio’ che lui chiama demone o spirito, spesso e’ soltanto cattiveria e gelosia. Mi fa arrabbiare perche’ non si lascia andare e non e’ felice in quel mondo meraviglioso che disegna, e’ felice solo se immagina che la sua miniatura piacera’ agli altri. E poi mi fa arrabbiare anche perche’ pensa ai soldi che guadagnera’. Ironia della sorte: ci sono miniaturisti molto meno abili di lui che quando disegnano riescono a dedicarsi molto piu’ di lui all'arte. Il bisogno di colmare queste lacune ha indotto Farfalla a dimostrare di essersi sacrificato per la miniatura. Come quei miniaturisti dal cervello di gallina che fanno disegni praticamente invisibili a occhio nudo su un'unghia o su un chicco di riso, ha la passione per i lavori piccoli e fini. Una volta gli ho chiesto se quest'ambizione, che acceca precocemente molti miniaturisti, fosse nata in lui perche’ si vergognava del talento che Allah aveva abbondantemente profuso in lui. Solo i miniaturisti incapaci si fanno prendere dalla passione per cose come tracciare una a una le foglie di un albero su un chicco di riso, per guadagnarsi una facile fama e ingraziarsi i loro ottusi signori. Il fatto di non fare miniature e disegni per i propri occhi, ma per gli occhi degli altri, questo bisogno di piacere agli altri che non e’ riuscito a vincere, ha reso Farfalla schiavo delle lusinghe piu’ di chiunque altro. Per questo motivo, il pavido Farfalla, per sentirsi sicuro, vorrebbe anche diventare capo miniaturista. Era stato Nero ad affrontare l'argomento: «Si’, - confermai, - so che vorrebbe prendere il mio posto quando saro’ morto». «E per questa ragione potrebbe uccidere i suoi fratelli miniaturisti?» «Si’, potrebbe. Perche’ e’ un grande maestro, ma non sa di esserlo, e quando disegna non riesce a dimenticare il mondo». Appena pronunciate queste parole, capii che in realta’ anch'io volevo che il mio successore fosse Farfalla. Non riesco a fidarmi di Oliva, e credo che anche Cicogna, alla fine, senza rendersene conto, diverra’ uno strumento dei metodi europei. La determinazione a farsi amare che c'e’ in Farfalla - mi dispiace aver pensato che potesse uccidere - e’ necessaria per gestire un laboratorio di miniatura e il sultano. Solo la sensibilita’ e la fede nei colori di Farfalla potra’ resistere all'abilita’ degli europei nel disegnare cardinali, ponti, barche, candelabri, chiese e stalle, buoi e ruote con ogni dettaglio, ombre comprese, come se per Allah avessero tutti uguale importanza, all'abilita’ di farli vedere come se non fossero disegni, ma la realta’, e ingannare chi li guarda. «Siete andato anche a casa di Farfalla senza avvertirlo, come avete fatto con gli altri miniaturisti?» «Guardando i disegni di Farfalla si intuisce che egli sa amare e rattristarsi col cuore e capisce subito il valore dell'amore. Ma come tutti gli amanti dei colori, si lascia prendere dal vento dell'entusiasmo ed e’ volubile. Dato che ho sempre amato molto il miracoloso talento che Allah gli ha concesso e la sua sensibilita’ per i colori, durante la sua giovinezza l'ho seguito da vicino, so tutto di lui. Certo che cosi’, gli altri miniaturisti diventano subito gelosi e il rapporto maestro-discepolo si guasta, diventa difficile. Farfalla ha avuto molti momenti d'amore senza temere assolutamente quello che avrebbero detto gli altri. Ultimamente, da quando si e’ sposato con la bella figlia del droghiere del quartiere, non ho avuto ne’ voglia ne’ occasione di andare a trovarlo». «Si dice che stia legando con i sostenitori del Maestro di Erzurum, - disse Nero. - Dicono che se verranno proibiti i nostri surname, dove si vede la parata di tutti, dal cuoco al giocoliere, dai dervisci ai danzatori, dai venditori di sis kebap ai ladri, o i nostri sefername (1) che mostrano le guerre, le armi, le situazioni cruente, perche’ non conformi alla religione, se quei bigotti del Maestro di Erzurum creano confusione e si ritorna ai libri e alle forme dei vecchi maestri persiani, a guadagnarci sarebbe Farfalla». «Anche se ritorniamo ai meravigliosi e raffinati disegni dei tempi di Tamerlano, anche se ritorniamo ai dettagli della vita e del mestiere che, dopo di me, il mio intelligente Cicogna continuerebbe nel modo migliore, tutto alla fine sara’ dimenticato, - dissi con estrema amarezza. - Perche’ tutti vorranno disegnare come gli europei». Credevo a queste parole cosi’ dure? «Anche mio zio la pensava cosi’, - disse piano Nero. - Ma lui era ottimista». NOTE: (1) Libro di viaggio, di avventura. Le qualita’ di CICOGNA Ho visto che si firma Mustafa Pittore e Peccatore. Perche’ lui firma con il sorriso e con un'espressione vittoriosa senza pensare se ha uno stile o meno, se bisogna evidenziarlo con la firma o meno, se bisogna nascondere la firma come facevano gli antichi maestri, se la modestia richieda o meno una firma. andato avanti coraggiosamente sulla strada che gli ho tracciato io, ha visto cose che nessuno aveva visto prima di lui e le ha sistemate sul foglio. Come me, ha sempre osservato i maestri vetrai che soffiavano il materiale fuso nei forni, che lo giravano per farne caraffe azzurre e bottiglie verdi, le pelli, gli aghi, le forme dei calzolai attenti e chini sulle scarpe e sugli stivali che stavano cucendo, l'arco tracciato da un'altalena o da una giostra in una festa di piazza, la pressione che spreme l'olio dal seme schiacciato, il fragore dei nostri cannoni contro i nemici, le canne, le viti dei fucili, e non ha detto che gli antichi maestri dei tempi di Tamerlano, i leggendari maestri di Tabriz e di Kazvin non si erano abbassati a disegnare queste cose: lui le ha disegnate. stato il primo miniaturista musulmano ad andare in guerra e a tornarne sano e salvo per prepararsi per il sefername che avrebbe disegnato, a guardare con interesse le fortezze nemiche, i cannoni, gli eserciti, i cavalli feriti che sanguinavano, i moribondi e i cadaveri per poi disegnarli. Lo riconosco in primo luogo dallo stile, dagli argomenti che sceglie, e ancor prima dalla sua capacita’ di cogliere dettagli a cui nessuno fa caso. Posso tranquillamente affidargli un disegno completo, dalla progettazione alla composizione, fino al colore del minimo particolare. Percio’, in realta’, e’ lui che meriterebbe di diventare capo
miniaturista dopo di me. Ma e’ talmente ambizioso, talmente presuntuoso e sprezzante nei confronti degli altri miniaturisti che non puo’ gestire tutti questi uomini, li farebbe fuggire. In realta’, a sentirlo, con la sua incredibile diligenza, potrebbe essere lui a fare tutti i disegni del nostro laboratorio. Volendo ci riuscirebbe anche. un grande maestro. Conosce il suo lavoro. Si ama. Beato lui. Una volta sono andato a casa sua senza avvertirlo e l'ho visto lavorare. C'erano le pagine che disegnava per i libri del Nostro Sultano, per me, le pagine di libri sugli abiti che faceva frettolosamente per i miseri libri di stupidi viaggiatori europei pronti a disprezzarci, una delle tre pagine che preparava per un presuntuoso pascia’, disegni per album di calligrafia, e cose che faceva per se stesso... Tutto - compreso uno spudorato accoppiamento - in giro, sui leggii, sui tavolini, sui grandi cuscini, e il mio Cicogna, alto e snello, che lavorava come un'ape e correva da un disegno all'altro, cantava, dava un pizzicotto sulle guance all'apprendista intento a mescolare i colori, aggiungeva qualcosa di spiritoso al disegno e poi con sonore risate lo ammirava e me lo mostrava. Al contrario degli altri miei miniaturisti, non aveva smesso di lavorare per mettersi a fare salamelecchi al mio arrivo, anzi, era ben felice di mostrarmi la sua efficienza (riesce a svolgere il lavoro di sette o otto miniaturisti), la sua abilita’, dono di Allah, e il talento acquisito lavorando. E adesso mi sorprende trovarmi a sperare in segreto che, se e’ uno dei miei tre maestri, il vile assassino sia Cicogna. Quando era apprendista, quando il venerdi’ mattina lo vedevo davanti alla mia porta, non mi rallegravo come quando vedevo Farfalla. Il suo stile somiglia a quello dei maestri europei perche’ mostra lo stesso rispetto per ogni tipo di dettaglio, senza una logica (a parte il fatto che si vedono). Ma al contrario dei pittori europei, il mio ambizioso Cicogna non vede e non disegna i volti uno a uno, particolari e diversi tra loro. Dato che disprezza apertamente chiunque, non da’ importanza al volto delle persone. Non credo che la buonanima di Zio Effendi abbia fatto fare a lui il ritratto del Nostro Sultano. Anche quando disegna un argomento serio, non riesce a trattenersi dal mettere in un angolo un cane sospettoso distaccato dall'evento, oppure dal tracciare un misero mendicante che con la sua poverta’ umilia la ricchezza e il fasto della cerimonia. Ha talmente tanta fiducia in se stesso da prendere in giro il disegno che ha fatto, il suo argomento e se stesso. «L'assassinio di Raffinato Effendi nel pozzo somiglia alla storia di Giuseppe che venne gettato nel pozzo dai fratelli invidiosi, - disse Nero. - E quello di mio zio somiglia all'assassinio di Cosroe da parte del figlio che aveva adocchiato la sua giovane moglie sirin. Dicono tutti che Cicogna adori disegnare guerre e morti sanguinose». Pensare che il miniaturista somigli ai suoi disegni, vuol dire non capire assolutamente ne’ me ne’ i miei maestri. Quello che ci rivela non sono gli argomenti che ci vengono commissionati - sono sempre gli stessi - ma e’ la sensibilita’ che trasmettiamo al disegno quando ci avviciniamo ad esso. La luce che sembra filtrare dal disegno, la timidezza o la rabbia che si potrebbe intuire dalla composizione dei personaggi, dei cavalli, degli alberi nella pagina, la voglia e la tristezza che emana il cipresso mentre si allunga verso il cielo, il senso di paziente rassegnazione che trasmettiamo alla pagina mentre disegniamo piastrelle decorate con una passione che acceca... Questi sono i nostri segni segreti: e non i cavalli che sembrano ripetersi. Quando disegna la furia e la velocita’ di un cavallo, il pittore non disegna la propria furia e la propria velocita’; cercando di disegnare il piu’ straordinario dei cavalli, esprime solo l'amore che sente per la ricchezza del mondo e per Colui che l'ha creata, i colori di una sorta di amore per la vita, null'altro.
Capitolo quarantaduesimo. Il mio nome e’ Nero Con il grande Maestro Osman avevamo passato un intero pomeriggio davanti alle pagine dei libri - alcune da scrivere, alcune gia’ finite, alcune da colorare, alcune rimaste per qualche ragione a meta’ - a parlare dei maestri miniaturisti, delle pagine del libro di mio zio e a compilare schede con cui li valutavamo. Pensavamo quasi che l'andirivieni degli uomini del Comandante delle guardie imperiali fosse terminato, non ci mancavano di rispetto ma erano arroganti, ci portavano le pagine (alcune non avevano nulla a che fare con i nostri due libri, e altre erano l'ennesima dimostrazione che anche i calligrafi facevano lavoretti di nascosto fuori dal Palazzo per un paio di akçe) raccolte durante le incursioni nelle case dei miniaturisti e dei calligrafi; a un certo punto, uno di loro, il piu’ sicuro di se’, si avvicino’ al grande maestro e tiro’ fuori dalla cintura un foglio. Per un attimo pensai che fosse una lettera di raccomandazione inviata da un padre a molti capo laboratorio per proporre il figlio come apprendista e non me ne curai. Dalla luce fioca capii che il sole del mattino era ormai scomparso. Per riposare gli occhi facevo il movimento che gli antichi maestri di Shiraz consigliavano spesso al miniaturista che non vuole diventare cieco in giovane eta’, cercavo di guardare lontano senza fissare un punto preciso con gli occhi. Fu in quel momento che, con entusiasmo, riconobbi il dolce colore e il modo di piegare la carta che mi fece sobbalzare il cuore nel foglio che il mio maestro teneva in mano e guardava stupito. Era assolutamente identico alle lettere che seküre mi mandava tramite Esther. Che coincidenza, stavo per dire come uno stupido, per di piu’, come nella prima lettera di seküre, anche in questa c'era un disegno su carta grezza! Maestro Osman si tenne il foglio con il disegno e mi porse la lettera. In quel momento capii con vergogna che era proprio di seküre. «Nero, mio signore. Ho mandato Esther da Kalbiye, la vedova della buonanima di Raffinato Effendi, perche’ cercasse di sapere qualcosa. Le ha mostrato questo foglio miniato che ti mando. Poi sono andata anch'io da lei e ho fatto di tutto per persuaderla, l'ho supplicata e sono riuscita a farmi dare questo foglio pensando che potesse servirti. Il foglio era sul
cadavere del povero Raffinato Effendi nel pozzo. Kalbiye dice che nessuno aveva mai commissionato cavalli alla buonanima di suo marito, lo giura. Allora chi ha fatto questo disegno? Gli uomini del Comandante delle guardie hanno perquisito la casa. Ti mando il foglio pensando che questo cavallo possa essere importante. I bambini ti baciano la mano. Tua moglie seküre». Lessi ancora due volte le ultime tre parole della bellissima lettera, con rispetto, come se contemplassi attentamente tre meravigliose rose rosse in un giardino. Poi, avvicinai anch'io gli occhi al foglio che Maestro Osman guardava attentamente con la lente. Vidi subito che le forme disegnate a inchiostro erano cavalli tracciati con un unico movimento per esercitare la mano secondo il metodo degli antichi maestri. Maestro Osman lesse la lettera di seküre in silenzio, poi diede voce alla sua domanda: «Chi ha fatto questo disegno?» «Il miniaturista che ha disegnato il cavallo di Zio Effendi, e’ chiaro», si rispose da solo. Ne era cosi’ certo? E poi non eravamo affatto sicuri di sapere chi avesse disegnato il cavallo del libro. Tirammo fuori il disegno del cavallo insieme a nove altri e cominciammo a esaminarlo attentamente. Era un bel sauro, era semplice, non ci si stancava di guardarlo. Ma quando dicevo che non ci si stancava di guardarlo dicevo la verita’? Avevo avuto tempo a sufficienza per contemplare questo cavallo anche quando ero con mio zio o da solo a guardare questi disegni, ma non mi ci ero soffermato. Era un bel cavallo, ma ordinario. Era talmente ordinario che non eravamo riusciti a capire chi ne fosse l'autore. Non era un sauro color dattero, ma, come si suol dire, color castagna, e nel manto c'era anche una punta di rosso. Era un cavallo che avevo gia’ visto tante volte in altri libri e disegni e si capiva che il miniaturista lo aveva disegnato a memoria senza assolutamente fermarsi a riflettere. L'avevamo guardato con questa attenzione finche’ non scoprimmo che nascondeva un segreto. Adesso, comunque, vedevo nel cavallo una bellezza che tremava come vapore e una forza che creava l'entusiasmo di viverci dentro, di imparare e di abbracciare tutto. Stavo quasi per chiedere: «Chi e’ il miniaturista dalle magiche mani che ha disegnato questo cavallo come lo vede Allah?», come se, per un attimo, avessi dimenticato che era un vile assassino. Il cavallo, come se fosse un vero cavallo, era davanti a me, ma parte della mia mente sapeva che era un disegno e mi incantavo tra questi due pensieri che mi suscitavano un senso di integrita’, di perfezione. Per un po' confrontammo i cavalli disegnati a inchiostro per abituare la mano con il cavallo del libro di mio zio e capimmo subito che erano usciti dalla stessa mano. La posizione dei cavalli non faceva pensare al movimento, ma al riposo. Erano orgogliosi, forti e raffinati. Provai ammirazione per il cavallo del libro di mio zio. «Questo cavallo e’ talmente bello che ti viene voglia di prendere un foglio, fare un cavallo come questo e poi disegnare tutto il resto», dissi. «Il complimento piu’ bello che si possa fare a un miniaturista e’ dirgli che i suoi disegni suscitano in noi l'entusiasmo di disegnare, - disse Maestro Osman. - Ma adesso non ci dobbiamo preoccupare del talento di questo demonio, ma cercare di identificarlo. La buonanima di Zio Effendi non ti ha mai detto a quale storia appartenesse questo cavallo?» «No, non me l'ha detto. Secondo lui questo era uno dei cavalli che viveva nelle terre che possiede il Nostro Sultano Effendi. Un bel cavallo. Un cavallo ottomano. Una cosa che mostra al Doge di Venezia i paesi e le ricchezze del Nostro Sultano. Ma d'altra parte, come succede in tutti i disegni dei maestri europei, questo doveva essere piu’ vivace di un cavallo visto da Allah, un cavallo vissuto a Istanbul, con stalla e stalliere definiti, in modo che il Doge di Venezia dicesse: l'Ottomano ha cominciato a somigliare a noi, visto che i suoi miniaturisti hanno cominciato a vedere e a disegnare come noi, e avrebbe accettato la nostra forza e la nostra amicizia. Perche’ quando uno comincia a disegnare i cavalli in un'altra maniera, comincia anche a vedere il mondo in un'altra maniera. Malgrado sia strano, questo cavallo e’ disegnato con i metodi degli antichi maestri». Parlarne cosi’ tanto l'aveva reso ai miei occhi piu’ attraente e valoroso. Aveva la bocca leggermente aperta e gli si vedeva la lingua tra i denti. Aveva occhi lucenti, zampe forti e raffinate. Cio’ che rende leggendario un disegno e’ il disegno stesso o cio’ che di esso si dice? Maestro Osman passava la lente d'ingrandimento sul cavallo. «Cosa vuole significare questo cavallo? - domandai con sincerita’. - Perche’ esiste questo cavallo? Perche’ questo cavallo? Cos'e’ questo cavallo? Perche’ questo cavallo mi entusiasma?» «Sultani, scia’, pascia’ amanti dei libri trovano belli i disegni proprio come i libri che ordinano perche’ sono un segno della loro forza e della loro potenza e, grazie all'abbondanza di dorature e di lavori di miniatura fatti con il sacrificio degli occhi, sono prova della loro ricchezza, - disse Maestro Osman. - La bellezza del disegno, proprio come l'oro usato nel disegno, e’ importante come prova della rarita’ e del valore del talento del miniaturista. Altri invece, guardando il disegno, sfogliano il libro, trovano bello il cavallo per l'argomento che rappresenta, perche’ somiglia a un cavallo, perche’ e’ il cavallo di Allah, o perche’ e’ veramente un cavallo di fantasia e spiegano questo senso di realta’ con il talento. Per noi invece, la bellezza nel disegno comincia con la molteplicita’ dei significati e la raffinatezza. Scoprire che in questo cavallo, oltre al cavallo, c'e’ anche la mano dell'assassino, il segno del demonio, ha ovviamente aumentato i significati del disegno. Poi si puo’ trovare bello non il disegno, ma il cavallo disegnato. Non guardare il disegno del cavallo come un disegno, ma come un cavallo». «Se lo guardate come se guardaste un cavallo, cosa vedreste in questo disegno?» «Guardando la sua mole posso dire che non e’ un puledro, posso dire che e’ un buon cavallo da corsa perche’ ha il collo lungo e ricurvo, che e’ adatto a lunghi viaggi perche’ ha la schiena piatta. Le sue zampe sottili possono voler dire che e’ agile e abile come un cavallo
arabo, ma non e’ arabo perche’ ha il corpo lungo e grosso. La finezza delle sue zampe dimostra, come dice Fadlan il saggio di Bukhara nel suo libro sugli animali quando parla delle caratteristiche canoniche dei cavalli, che puo’ saltare facilmente un fiume che si trova davanti senza trasalire e averne paura. Quel libro sugli animali, cosi’ ben tradotto da Fuyuzi il nostro veterinario di corte, dice delle cose cosi’ belle sui cavalli, io le conosco a memoria, e posso affermare che il nostro sauro possiede tutte le caratteristiche giuste. Il migliore dei cavalli ha un bel muso, occhi da gazzella e orecchie come foglie di canna, distanti l'una dall'altra. Un buon cavallo ha denti piccoli, fronte bombata, sopracciglia asciutte, e’ alto, ha la criniera lunga, vita corta, naso e spalle piccoli, schiena piatta, cosce piene, petto imponente, attaccatura della coda larga e cosce abbondanti. E orgoglioso e raffinato, e quando cammina, sembra salutare chi gli e’ accanto». «proprio il nostro sauro», dissi guardando ammirato il disegno del cavallo. «Abbiamo capito com'e’ il nostro cavallo, - disse Maestro Osman con lo stesso sorriso timido. - Ma purtroppo non ci aiuta assolutamente a capire chi e’ il maestro che l'ha disegnato. Perche’ so che nessun miniaturista intelligente disegnerebbe un cavallo guardando un vero cavallo. I miei maestri lo disegnano a memoria, in un colpo solo. Prova ne e’ che la maggior parte di loro inizia a disegnare i contorni del cavallo dall'estremita’ dello zoccolo». «Non si comincia dalla zampa perche’ il cavallo la posa a terra?», dissi come se chiedessi scusa. «Come dice Cemalettin di Kazvin nel suo testo sulla miniatura dei cavalli, possiamo finire il disegno di un cavallo che abbiamo iniziato a tracciare dalla zampa, solo se conosciamo a memoria tutto il cavallo. Si sa che il disegno di un cavallo viene fatto pensandoci e ricordandolo e, cosa ancor piu’ buffa, guardando un cavallo vero si comincia dalla testa, poi si passa al collo, e dal collo al corpo. Dicono che ci siano alcuni pittori europei che disegnano una normale bestia da soma vista per strada provando e riprovando indecisi diverse volte e che poi la vendano ai sarti o ai macellai. Un simile disegno di cavallo non ha assolutamente nulla a che fare con il significato dell'universo, con la bellezza creata da Allah. Ma sono sicuro che anche loro sanno che la vera miniatura non si fa con l'aiuto di quello che vede l'occhio in quel momento, ma con l'abitudine della mano e con cio’ che la mano ricorda. Il pittore e’ sempre solo davanti al foglio. Percio’ ha bisogno di ricordare. Adesso non possiamo far altro che trovare la firma segreta nascosta nel nostro cavallo disegnato a memoria da una mano abile e veloce, avvalendoci del metodo della dama. Guarda attentamente anche tu». Passava pian piano la lente che aveva in mano sul meraviglioso cavallo come se cercasse un tesoro su una vecchia mappa finemente ricamata su pelle. «Si’, - dissi come uno studente preso dall'agitazione di aver fatto una scoperta brillante che voglia farsi notare dal suo insegnante. - Possiamo confrontare i colori e i ricami della coperta della sella con quelli delle coperte delle selle degli altri disegni». «I miei maestri non toccano mai con il loro pennello questi ricami. I ricami dei vestiti, dei tappeti e delle tende li disegnano gli apprendisti. Quelli forse li ha disegnati la buonanima di Raffinato Effendi, lasciali perdere». «Le orecchie? - chiesi tutto agitato. - Le orecchie dei cavalli». «No. Queste sono le orecchie a foglie di canna che gia’ conosciamo, non escono assolutamente dai canoni dei tempi di Tamerlano». «La treccia nella criniera, il fatto che i crini siano pettinati uno a uno», stavo per dire, ma questo gioco maestroapprendista non mi piaceva e rimasi zitto. Visto che sono un apprendista, devo conoscere i miei limiti. «Guarda qua, - disse Maestro Osman con l'aria lamentosa e insieme attentissima di un medico che mostri a un collega il bubbone della peste. - Lo vedi?» Adesso aveva posto la lente sulla testa del cavallo e lo faceva avvicinare pian piano a noi allontanandola dalla superficie del disegno. Per vedere meglio cosa stava ingrandendo la lente, mi misi accanto al maestro. Il naso del cavallo era strano. Le narici. «Hai visto?», disse Maestro Osman. Per essere certo di quel che vedevo, dovevo appoggiare l'occhio sulla lente. Nello stesso momento, anche Maestro Osman fece la stessa cosa, ci trovammo guancia a guancia di fronte alla lente che si era allontanata dal disegno. Sentire la durezza della barba ispida, la fredda guancia del maestro sulla mia guancia, per un attimo mi spavento’. Rimanemmo in silenzio. Come se dentro quel disegno lontano un palmo dai miei occhi stanchi stesse accadendo qualcosa di meraviglioso e noi ne fossimo i rispettosi e stupiti testimoni. «Cosa c'e’ nel naso?», riuscii a bisbigliare dopo un bel po'. «Ha disegnato il naso in modo strano», rispose Maestro Osman senza staccare gli occhi dal disegno. «Ha sbagliato? C'e’ un difetto?» Stavamo ancora guardando questo strano e straordinario disegno di naso. «questo che tutti, compresi i grandi maestri cinesi, considerano stile, imitando gli europei?», domando’ Maestro Osman con tono beffardo. Mi offesi un po', credendo che stesse prendendo in giro la buonanima di mio zio. «Mio zio buonanima diceva che se il difetto non deriva dalla mancanza di abilita’ o talento, ma dalle profondita’ dell'anima del miniaturista, allora e’ stile». Ma, oltre a questo naso che poteva essere dipeso dalla mano o dal cavallo o da qualsiasi altra cosa, non c'erano altre tracce per identificare il vigliacco che aveva ucciso mio zio. Perche’ a parte le narici di questi cavalli fatti a inchiostro sul foglio trovato addosso al povero Raffinato Effendi, avevamo difficolta’ a distinguere anche i nasi. Passammo molto tempo a trovare i disegni di cavalli che i cari miniaturisti di Maestro Osman avevano fatto negli ultimi anni per diversi libri e a cercare il difetto della narice. Dato che il surname che stavano finendo raccontava delle parate che sfilano davanti alle comunita’, alle corporazioni di arti e mestieri e al Nostro Sultano, tra i duecentocinquanta
disegni c'erano pochissimi cavalli. Vennero mandati degli uomini nell'edificio del laboratorio dove si trovavano alcuni libri di esempi, album di modelli e libri appena terminati, e poi negli appartamenti delle donne e nell'harem ovviamente con il permesso del Nostro Sultano - perche’ portassero tutti i libri che non fossero chiusi a chiave nella Tesoreria privata del Palazzo. In un disegno di due pagine che rappresentava il funerale di Solimano il Magnifico, morto durante l'assedio di Szigetvar, trovato tra le pagine di un libro che celebrava le vittorie e proveniente dall'appartamento di un giovane principe, prima guardammo il cavallo sauro con la macchia bianca sulla fronte e quello grigio dagli occhi di gazzella che tiravano il carro funebre e i tristi cavalli con selle ricamate d'oro e meravigliose coperte da sella messe in occasione del funerale di Solimano il Magnifico. Li avevano disegnati Farfalla, Oliva e Cicogna. Tutti i cavalli, quelli che tiravano il carro funebre del loro signore con quelle ruote enormi, come quelli che salutavano guardando con occhi annebbiati il cadavere del loro signore sotto una spessa coperta rossa, erano nella stessa raffinata posizione - una gamba delicatamente avanti, l'altra ferma li’ accanto - presa dagli antichi maestri di Herat. Avevano tutti il collo lungo e ricurvo, le code legate, la criniera tagliata e pettinata, ma nessuno aveva il naso con il difetto che cercavamo. Il difetto non c'era neanche nei nasi di centinaia di cavalli che portavano comandanti, sapienti, maestri, che avevano preso parte al funerale e salutavano la buonanima del Sultano Solimano dalle colline dei dintorni. Anche noi fummo contagiati dalla mestizia di questo triste funerale. Ci rattristava vedere rovinato questo meraviglioso libro per cui tanto avevano lavorato Maestro Osman e i suoi maestri, le donne dell'harem che amoreggiavano con i principi l'avevano rigato e scritto qua e la’ sulle pagine. Una brutta scritta diceva: «Mio signore, vi amo e vi attendo con la pazienza di quest'albero», sotto l'albero dove il Nostro Sultano andava a caccia accanto al nonno. Ecco, esaminammo volumi leggendari che non avevo mai visto ma che sapevo perfettamente come erano stati fatti, con questa sensazione di sconfitta e tristezza. Nel secondo volume dell'Hunername a cui avevano lavorato tutti e tre i maestri vedemmo centinaia di cavalli azzurrognoli, sauri, grigi, di ogni colore, che portavano cavalieri con scudi e spade dietro ai cannoni che rimbombavano e ai fanti che avanzavano e superavano le colline rosa con armature, armi e vettovaglie; erano chiassosi ma ordinati, e nessuno aveva il naso difettoso. «Cos'e’ il difetto!», disse poi Maestro Osman, mentre, nello stesso libro, guardava una pagina su cui erano disegnati la Porta Imperiale e il Cortile dei Giannizzeri in cui ci trovavamo in quel momento. Anche nel disegno che mostrava un piccolo ospedale e, a destra, la Sala delle Udienze, gli alberi del cortile che sarebbero potuti entrare in una cornice, grandi quanto la nostra mente riteneva, sui nasi dei cavalli di tanti colori, montati da portieri, messaggeri, scrivani del Divan, non c'era il segno che cercavamo. Contemplammo il padre del nonno del Nostro Sultano, Yavuz Selim, che piantava le tende accanto al torrente Küskün durante la guerra contro il sovrano di Dulkadir, e che cacciava, mentre i levrieri neri dalla coda scarlatta, le agili gazzelle e i pavidi conigli scappavano, lasciando in un lago di sangue scarlatto la tigre coperta di macchie che parevano fiori. Il segno che cercavamo non era sul naso del cavallo sauro con la macchia bianca sul muso montato dal Nostro Sultano, ne’ su quelli dei cavalli montati dai falconieri che attendevano con gli uccelli pronti sul braccio dietro le colline rosse li’ di fronte. Fino al calar della sera, vedemmo centinaia di cavalli usciti dalle penne dei miniaturisti di Maestro Osman, Oliva, Farfalla e Cicogna negli ultimi quattro o cinque anni. I sauri pomellati di nero e di giallo dalle orecchie sottili di Mehmet Giray Khan di Crimea; i cavalli rosa e grigi di cui si vedeva solo il collo mentre apparivano dietro una collina durante una guerra; i cavalli di Haydar Pascia’ che riconquisto’ all'infedele spagnolo la fortezza di Halkül Vad in Tunisia; i cavalli sauri e quelli color pistacchio dello spagnolo, uno dei quali, fuggendo, cadde sul muso; il cavallo nero che fece dire a Maestro Osman: questo mi e’ sfuggito, ma chi l'avra’ fatto cosi’ frettolosamente; il cavallo scarlatto che apre le orecchie e ascolta con rispetto il liuto suonato da un paggio sotto l'albero; Sebdiz, il cavallo di sirin, timido e delicato come lei, che la aspetta mentre lei si bagna nel lago alla luce della luna; i cavalli vivaci che montano i giocatori di jirit; il veloce cavallo e il suo bello stalliere che chissa’ perche’ fecero dire a Maestro Osman: in gioventu’ ho amato molto e mi sono stancato molto; il cavallo color del sole che Allah invio’ al profeta Elia per proteggerlo dall'assalto degli idolatri, dove per sbaglio le sue ali erano attaccate al profeta Elia; il nobile cavallo grigio, con un enorme corpo e una testa minuscola, di Solimano il Magnifico che contempla con occhi tristi il figlio, un principe giovane e amabile, insieme al quale va a caccia dopo averlo chiamato vicino a se’ dopo la morte precoce di altri tre figli; cavalli arrabbiati; cavalli che corrono; cavalli stanchi; cavalli belli; cavalli che nessuno guarda; cavalli che mai usciranno da queste pagine; cavalli che saltano rompendo la cornice come se volessero sfuggire alla noia di queste pagine. Sul naso di nessuno di loro c'era la firma che cercavamo. Ma, ad ogni modo, nonostante la sensazione di stanchezza e di tristezza che ci aveva preso, l'entusiasmo non ci abbandono’. Un paio di volte dimenticammo il cavallo e ci facemmo prendere dalla bellezza del disegno e dei colori, quasi ne fossimo caduti schiavi. Maestro Osman guardava i disegni che aveva preparato, controllato e fatto disegnare in gran parte, piu’ che con ammirazione con l'entusiasmo di ricordare. «Questo e’ di Kasim di Kasimpasa!», disse una volta, indicando l'erba violacea sotto la tenda di guerra scarlatta del nonno del Nostro Sultano, Solimano. «Non e’ mai stato un maestro, ma per quarant'anni ha fatto quest'erba a cinque foglie e un unico fiore per riempire i vuoti dei disegni e due anni fa e’ morto. Dato che disegnava meglio di chiunque altro questa piccolissima erba, la facevo disegnare sempre a lui». Rimase un po' in silenzio, poi, «Che peccato, che peccato!», mormoro’ il maestro. Sentii con tutta la mia anima che con queste parole finiva qualcosa, si concludeva un'epoca. Fuori stava per fare buio, ma all'improvviso la stanza si inondo’ di luce, e qualcosa si mosse; il cuore comincio’ a battermi forte e capii subito. Il dominatore del mondo, il Nostro Eccellente Sultano, era entrato all'improvviso. Mi gettai ai suoi piedi. Gli baciai le falde dell'abito. Mi girava la testa. Non riuscivo a guardarlo negli occhi. Ma lui aveva gia’ cominciato a parlare con Maestro Osman. Il fatto che parlasse con la persona con cui ero assieme
poco fa, fianco a fianco, a guardare i disegni, mi riempi’ di un caldo orgoglio. Non riuscivo a crederci, ma il Nostro Eccellente Sultano adesso era seduto dove poco fa sedevo io e ascoltava attentamente, proprio come me, quel che il mio maestro raccontava. Accanto a lui, il Tesoriere, il Capo dei falconieri imperiali e altri due o tre personaggi che non sapevo distinguere controllavano i disegni sulle pagine aperte. A un certo punto mi feci coraggio e lo guardai a lungo in viso, anche se di lato, osservai gli occhi del Sovrano Dominatore del Mondo. Come era bello! Come era perfetto! Il cuore non mi batteva piu’ dall'agitazione! Proprio in quel momento, i nostri sguardi s'incrociarono. «Quanto volevo bene alla buonanima di tuo zio...», disse. Si’, diceva proprio a me. Per agitazione persi parte delle sue parole. «Mi e’ dispiaciuto molto. Ma e’ una consolazione vedere che questi disegni che ha fatto preparare sono delle meraviglie. Quando le vedra’, l'infedele veneziano si stupira’, avra’ paura della mia intelligenza. Scoprite chi e’ questo miniaturista crudele dal naso di quel cavallo. Altrimenti sara’ necessario torturare tutti i maestri». «Mio sultano, Eccellente Protettore dell'Universo, - disse Maestro Osman. - Se facciamo disegnare velocemente ai miei maestri un cavallo su un foglio bianco senza che pensino a una storia, forse potremo capire chi ha commesso questo errore». «Certo, se questo e’ un errore e non un vero naso», commento’ intelligentemente il Nostro Sultano. «Mio sultano, - disse Maestro Osman. - Per questo, se stanotte si annunciasse che avete indetto una gara, se si bussasse alla porta dei miei maestri e si chiedesse loro di disegnare velocemente un cavallo sul foglio vuoto per questa gara...» Il Nostro Sultano guardo’ il Comandante delle guardie imperiali con l'aria di dire: «Hai sentito?» «Sapete qual e’ la storia di gara che piu’ mi piace, del Poeta Nizami?» Alcuni risposero: «Lo sappiamo»; altri: «Quale?», e altri ancora non dissero nulla, come me. «Non mi piace la storia dei poeti che gareggiano, non mi piace neanche la storia degli specchi dei pittori cinesi e bizantini che gareggiano, - disse il mio sultano. - Mi piace la storia dei medici che gareggiano fino alla morte». Disse, e se ne ando’ all'improvviso, lasciandoci li’, per arrivare in tempo alla preghiera serale. Quando poi uscii nella penombra dalle porte del Palazzo mentre si cantava la preghiera serale, andando di corsa verso il mio quartiere e sognando felicemente seküre, i bambini, la nostra casa, spaventato ricordai questa storia della gara dei medici. Uno dei medici che gareggiavano davanti al sultano - quello che viene spesso disegnato vestito di rosa - aveva preparato una medicina verde con un veleno tanto forte da uccidere un elefante e la diede all'altro medico, quello con il caftano blu. Lui inghiotti’ con appetito prima la medicina col veleno e subito dopo una medicina blu con l'antidoto che aveva preparato e non gli accadde nulla, come si capi’ dal suo sorriso dolce. Muovendosi lentamente e gustandosi il suo turno, colse una rosa rosa dal giardino e avvicinandola alle labbra vi bisbiglio’ dentro una poesia misteriosa che nessuno udi’. Poi, con gesti molto sicuri, porse la rosa al medico vestito di rosa perche’ la annusasse. Il medico vestito di rosa si preoccupo’ talmente tanto della forza della poesia bisbigliata dentro la rosa che appena avvicino’ il naso per annusare la rosa che, oltre al suo profumo, non aveva alcuna particolarita’, crollo’ per la paura e mori’.
Capitolo quarantatreesimo. Mi chiamano Oliva Era prima della preghiera serale, bussarono alla porta, aprii. Era un uomo del Comandante delle guardie imperiali che veniva da Palazzo, un tipo pulito, sorridente, un bel ragazzo. Aveva in mano una candela che invece di illuminargli il viso, glielo riempiva di ombre, e poi un foglio e una lavagna. Mi spiego’ subito: il Nostro Sultano aveva indetto una gara tra i maestri miniaturisti per il piu’ bel disegno di cavallo da tracciare in un colpo. Mi era stato ordinato di inginocchiarmi a terra, di sistemare il foglio sull'asse da disegno e l'asse sulle ginocchia e di eseguire velocemente, nel luogo indicato, entro la cornice, il piu’ bel disegno di cavallo del mondo. Feci accomodare il mio ospite. Andai di corsa a prendere l'inchiostro e il mio pennello piu’ sottile, fatto con pelo d'orecchio di gatto. Mi sedetti a terra e per un attimo mi fermai a riflettere! In questa faccenda potrebbe esserci un intrigo, un gioco che potrei dover pagare col sangue, con la vita? Forse! Ma le leggende sugli antichi maestri di Herat non sono forse state tracciate con questa linea sottile che separa morte e bellezza? Fui preso dalla voglia di disegnare, ma temevo di disegnare in tutto e per tutto come gli antichi maestri e mi trattenni. Guardando il foglio bianco, attesi un attimo che la mia anima si liberasse dalle preoccupazioni. Dovevo raccogliere le forze e la concentrazione e pensare solo al cavallo che avrei tracciato. Tutti i disegni di cavallo che avevo fatto e visto finora, mi stavano gia’ passando davanti agli occhi. Ma tra loro ce n'era uno ancora piu’ perfetto degli altri. Sarei stato io a disegnare questo cavallo che ancora nessuno era riuscito a disegnare. Lo immaginai nel buio, il resto si cancello’, come se per un momento avessi dimenticato perfino me stesso, io che abitavo qui, io che avrei disegnato. La mia mano aveva spontaneamente infilato la penna nell'inchiostro, aveva scelto la consistenza giusta. Da’i mano, rendi reale questo cavallo che ho davanti agli occhi! Era come se io e il cavallo, insieme, stessimo per prendere il nostro posto in questo mondo. All'improvviso, con un'intuizione, cercai questo posto sul foglio bianco. Ci sistemai il cavallo della mia immaginazione e... Si’, la mia mano, senza che ci dovessi riflettere, si getto’ spontaneamente avanti sicura e decisa e comincio’ - guarda che bello - a disegnarlo dalla punta della zampa, poi, tracciando una curva, passo’ subito alla sua sottilissima caviglia per poi salire. Quando poi, con la stessa decisione, fece la curva del ginocchio e arrivo’ veloce sotto il petto, mi rallegrai! Ecco, gira qui, sali vittoriosa. Come e’ venuto bene il petto! Poi, assottigliandosi, divenne il collo, proprio
come il cavallo che avevo davanti agli occhi. Senza alzare la penna, dalle guance scesi alla bocca, ci pensai un po' e la lasciai aperta, ci entrai dentro, da’i cavallo apri la bocca, gli tirai fuori una bella lingua. Girai lentamente - non esitare e adesso il naso. Mentre salivo su dritto guardai per un attimo tutto, e quando vidi che avevo tracciato la linea proprio come avevo immaginato dimenticai di disegnare e fu come se a disegnare non fossi io ma la mia mano. Ecco le orecchie e quella meravigliosa inclinazione del bel collo. Mentre disegnava velocemente la sella a memoria, la mia mano si fermo’ a prendere l'inchiostro dal calamaio. Ora disegnavo la groppa, le natiche forti e diritte, ero molto felice, completamente preso dal mio disegno. Per un attimo credetti di essere vicino al cavallo che disegnavo, iniziai allegramente la coda, questo e’ il cavallo di un guerriero, un cavallo da corsa, gli feci un nodo alla coda e salii su con piacere. Mentre tracciavo il coccige, il deretano, mi sembro’ di sentire un brivido fresco nel mio didietro, nell'ano e grazie a quel piacere superai velocemente la bella morbidezza della groppa per passare con amore alla zampa posteriore sinistra protesa indietro e agli zoccoli. Ero ammirato dalla mia mano che aveva dato una posizione raffinata alla zampa anteriore sinistra, proprio come avevo in mente. Sollevai la mano e disegnai velocemente l'occhio focoso ma triste e, dopo un attimo di indecisione, la narice e la coperta da sella; pettinai la criniera come se ne accarezzassi i crini uno a uno, attaccai la staffa, gli misi una macchia bianca sulla fronte e disegnai volentieri i testicoli e un pene di dimensioni misurate ma giuste affinche’ tutto fosse a posto. Quando faccio un meraviglioso disegno di cavallo, io divento quella meraviglia.
Capitolo quarantaquattresimo. Mi chiamano Farfalla Credo che fosse l'ora della preghiera serale. C'era qualcuno alla porta. Mi spiego’: il mio sultano aveva indetto una gara. Con grande piacere, mio sultano, chi puo’ disegnare un cavallo meglio di me! Ma sapere che bisognava disegnarlo senza usare i colori, per un attimo mi trattenne. Perche’ senza colori? Perche’ io so usarli meglio degli altri? Chi scegliera’ il disegno migliore? Cercai di strappare qualche informazione di bocca al bel ragazzino dalle spalle larghe e dalle labbra rosa che veniva da Palazzo, e intuii che dietro questa faccenda c'era Maestro Osman. Senza dubbio Maestro Osman conosce il mio talento e ama me piu’ di tutti gli altri maestri. Cosi’, mentre guardavo il foglio vuoto davanti ai miei occhi, comincio’ ad animarsi un cavallo che potesse piacere a entrambi, con la sua postura, il suo sguardo, la sua aria. Doveva essere un cavallo vivace ma serio, uno di quelli che faceva Maestro Osman dieci anni fa, con le zampe anteriori sollevate, come i cavalli che piacciono al Nostro Sultano, in modo che tutti e due fossero d'accordo sulla bellezza del cavallo. Quante monete d'oro avrebbero dato in premio? Come avrebbe eseguito questo disegno il pittore Mir? Come l'avrebbe fatto Behzat? All'improvviso mi venne in mente una cosa, cosi’ velocemente che prima di capire che cosa fosse, quella birichina della mia mano, cominciando dalla zampa sinistra anteriore sollevata, aveva gia’ afferrato la penna e iniziato a disegnare il meraviglioso cavallo che nessuno avrebbe mai potuto immaginare. Dopo aver immediatamente unito la zampa al corpo, con rapido piacere tratteggio’ due archi, se li aveste visti, avreste detto che, con il mio talento, non ero un pittore ma un calligrafo. Guardavo ammirato la mia mano che si muoveva da sola come se fosse la mano di qualcun altro. Questi archi meravigliosi divennero il ventre paffuto, il petto solido e il collo di cigno del meraviglioso cavallo, e il disegno era quasi fatto. Come sono bravo! Poi vidi che la mia mano era passata dalla bocca aperta, aveva girato per il naso e aveva disegnato la fronte intelligente e le orecchie. Disegnai un altro arco, guarda mamma com'e’ bello, come se scrivessi una lettera, che bello, stavo per mettermi a ridere. Dalla curva perfetta del collo del mio meraviglioso cavallo impennato scesi fino alla sella. La mia mano disegnava la sella; guardai con orgoglio il corpo, paffuto e rotondo come il mio, del cavallo che ormai si vedeva bene. Tutti ammireranno questo cavallo. Immaginai le dolci parole che mi avrebbe detto il Nostro Sultano una volta vinto il premio: mi avrebbe dato una borsa piena di monete d'oro, e mi veniva da ridere immaginando di contarle una ad una, a casa. Intanto la mia mano fini’ la sella che guardavo con la coda dell'occhio e la mia penna entro’ e usci’ dal calamaio; poi, disegnai la groppa ridendo, come se stessi facendo uno scherzo. Gli feci velocemente la coda. Gli disegnai un dolce sedere rotondo, lo amavo e avrei voluto afferrarlo con le mani come se fosse il dolce culetto di un ragazzino che mi sarei fatto in quel momento. Mentre sorridevo, la mia mano intelligente fini’ le zampe posteriori e la penna si fermo’. Divenne il piu’ bel cavallo impennato del mondo. Mi riempii di gioia; ero felice e pensavo che il mio cavallo gli sarebbe piaciuto molto, mi avrebbero dichiarato il miniaturista di maggior talento, anzi, capo miniaturista gia’ da adesso, ma a un certo punto intuii che questi stupidi avrebbero aggiunto: come l'ha disegnato in fretta, sembrava che giocasse! Mi preoccupai, pensando che anche solo per questo motivo avrebbero potuto non prendere sul serio il mio meraviglioso disegno. Cosi’ ricamai con fine minuziosita’ la criniera, le narici, i denti, i crini della coda, la coperta da sella del cavallo in modo che vedessero che avevo lavorato seriamente. In questa posizione, lateralmente, da dietro si sarebbero potuti vedere i testicoli del cavallo, ma non li disegnai perche’ le donne avrebbero potuto distrarsi. Guardai il mio cavallo con orgoglio. Era impennato, vivace, forte come la tempesta! Era come se il vento avesse soffiato le sue linee rotonde come le lettere di un album di calligrafia, ma nello stesso tempo, era anche calmo. Avrebbero elogiato il meraviglioso miniaturista che aveva fatto questo disegno come elogiano Behzat, il pittore Mir, e io sarei diventato uno di loro. Quando faccio un meraviglioso disegno di cavallo, divento un altro miniaturista che disegna un meraviglioso disegno di cavallo.
Capitolo quarantacinquesimo. Mi chiamano Cicogna Era dopo la preghiera serale, stavo per andare al caffe’, quando mi dissero che c'era qualcuno alla porta. Speriamo che sia qualcosa di buono, dissi. Andai, c'era un tipo che veniva dal Palazzo, mi spiego’. Va bene. Il cavallo piu’ bello del mondo. Voi ditemi quante akçe pagate per ogni cavallo, e io ve ne disegno subito cinque o sei di cavalli piu’ belli del mondo. Ma mantenni un comportamento prudente e non risposi cosi’, feci accomodare il ragazzo che aspettava fuori. Pensai: non e’ possibile che io disegni il cavallo piu’ bello del mondo. Posso disegnare cavalli da guerra, grandi cavalli mongoli, nobili cavalli arabi, eroici cavalli insanguinati che si contorcono dal dolore, una sfortunata bestia da soma che traina il carro pieno di pietre verso un edificio in costruzione, ma chi lo definirebbe il cavallo piu’ bello del mondo? Capii che, di certo, dicendo il cavallo piu’ bello del mondo, il Nostro Sultano intendeva il piu’ meraviglioso dei cavalli disegnati migliaia di volte in Persia con tutte le sue regole, forme e posizioni. Ma perche’? Certamente non perche’ guadagnassi una borsa di monete d'oro. Si sa che, se mi dicessero di disegnare un cavallo normale, nessuno potrebbe competere con i miei cavalli. Chi ha convinto il Nostro Sultano? Il Nostro Sovrano, malgrado i pettegolezzi degli invidiosi, sa bene che sono io il miniaturista piu’ abile e ama i miei disegni. All'improvviso la mia mano si mosse con rabbia come se volesse liberarsi di tutti questi ragionamenti e, iniziando dalla punta della zampa, in un colpo solo, disegno’ un cavallo come si deve. Li vedete per strada, in guerra. Stanco ma composto... Poi, con la stessa rabbia, disegnai il cavallo di un cavaliere, e’ venuto piu’ bello. Nessun miniaturista del laboratorio del sultano puo’ disegnare cose cosi’ belle. Stavo per disegnarne a memoria un altro, quando il ragazzo che veniva da Palazzo mi interruppe: «Ne basta uno». Stava per prendere il foglio e andarsene via, ma lo fermai. Sapevo bene che questi vigliacchi non avrebbero fatto vincere una borsa di monete d'oro a questi cavalli. Se disegno come disegno io non mi permetterebbero mai di ricevere una borsa di monete d'oro! E se non la prendo, il mio prestigio verra’ danneggiato. Pensai. «Fermati», dissi al ragazzo. Andai di la’ e presi due lucenti monete d'oro veneziane false e le infilai nella mano del ragazzo che veniva da Palazzo. Ebbe paura, sbarro’ gli occhi. «Sei un ragazzo bello e forte», gli dissi. Tirai fuori uno dei manuali di stile che nascondevo a tutti. Vi avevo copiato i disegni piu’ belli che avevo visto nel corso degli anni. E poi se dai dieci monete d'oro a Cafer, il capo dei nani di corte, quel vile ti copia i migliori disegni di alberi, draghi, uccelli, cacciatori e guerrieri dalle pagine segrete chiuse a chiave nel Tesoro. Il mio manuale e’ meraviglioso per chi, invece di vedere il mondo in cui vive nel disegno e nella miniatura, voglia ricordare gli antichi maestri e le antiche storie. Mostrandolo apertamente al ragazzo che veniva da Palazzo, sfogliai le pagine e scelsi il cavallo piu’ bello. Passai velocemente l'ago che tenevo in mano e feci dei buchi sul foglio. Sistemai un foglio pulito sotto la sagoma. Vi versai sopra abbondante polvere di carbone, la feci assorbire e la scossi un po' per farla passare di sotto. Alzai la forma. La polvere di carbone era passata sul foglio di sotto, a puntini, c'era tutta la forma del bel cavallo, mi fece piacere vederlo. Afferrai la penna. Con un'ispirazione che in quel momento mi veniva da dentro, unii i punti con movimenti molto veloci e decisi, in modo bello e raffinato, e mentre disegnavo il ventre, il bel collo, il naso, la groppa di questo cavallo, lo sentii con amore dentro di me. «Ecco, - dissi. - Il cavallo piu’ bello del mondo. Nessuno di quegli altri stupidi puo’ disegnarlo». Diedi altre tre monete d'oro false al ragazzo che veniva da Palazzo perche’ ci credesse anche lui e non andasse a raccontare al Nostro Sultano con quale ispirazione l'avevo disegnato. Gli feci capire che se avessi vinto una borsa di monete d'oro gli avrei dato di piu’. E poi, lui fantastico’ di vedere di nuovo mia moglie, l'aveva contemplata a bocca aperta. Molti credono di essere dei bravi miniaturisti se fanno un bel disegno di cavallo. Ma per poter essere il miniaturista migliore non basta disegnare il cavallo piu’ bello, devi anche convincere il Nostro Sultano e gli stupidi intorno a lui che sei tu il migliore miniaturista. Quando disegno un cavallo meraviglioso io posso solo essere me stesso.
Capitolo quarantaseiesimo. Di me diranno che sono un assassino Siete riusciti a capire chi sono da come ho disegnato il cavallo? Appena ho sentito che mi volevano far disegnare un cavallo, ho capito che non era una gara ma che volevano individuarmi dal cavallo disegnato. Sapevo che i miei schizzi di cavallo erano rimasti sul cadavere del povero Raffinato Effendi. Ma io non ho un difetto, uno stile che permetta di identificarmi dai cavalli che disegno. Ne ero sicuro, ma mentre disegnavo il cavallo mi agitai comunque. Quando ho fatto il cavallo per Zio Effendi ho disegnato qualcosa che potrebbe smascherarmi? Adesso dovevo disegnare un cavallo diverso. Questa volta avevo pensato cose completamente
diverse, «mi ero trattenuto», e non ero stato me stesso. Ma chi sono io? Sono uno che nasconde le meraviglie dentro di se’ per adeguarsi allo stile del laboratorio del sultano? O uno che un giorno disegnera’ vittoriosamente il cavallo che ha dentro? Per un attimo ebbi paura di sentire dentro di me l'esistenza di questo miniaturista. Era come se un'altra anima dentro di me mi contemplasse, me ne vergognai. Dato che avevo capito subito che non riuscivo a stare a casa, uscii e camminai a passo veloce per le strade. Nella sua epopea, Maestro Osman Baba aveva scritto che per abbandonare il demonio che ha dentro, il vero derviscio deve camminare per tutta la vita senza mai fermarsi a lungo da nessuna parte, e dopo aver viaggiato di citta’ in citta’ per sessantasette anni, stanco di sfuggire a Satana, gli si deve consegnare. Questa e’ l'eta’ in cui i maestri miniaturisti abbracciano la cecita’, il buio di Allah e, anche se del tutto involontariamente, arrivano a possedere uno stile e, nello stesso tempo, a liberarsi da ogni traccia di stile. Passeggiai per il quartiere di Beyazit, al mercato dei polli, nella piazza deserta del mercato degli schiavi, in mezzo ai piacevoli profumi delle botteghe che vendevano zuppe e dolci come se fossi in cerca di qualcosa. Passai davanti ai barbieri con le porte chiuse, agli stiratori, a un anziano fornaio che mi guardo’ meravigliato mentre contava i soldi, a una drogheria che odorava di sottaceti e pesce salato ed entrai in un negozio di spezie dove stavano pesando qualcosa solo perche’ rimasi attratto dai colori e, come se osservassi la gente con passione, alla luce di un lume guardai ammirato i sacchi di caffe’, zenzero e cannella, le scatole di resina di tutti i colori, i mucchi di anice, di cumino bianco e nero, e di zafferano di cui avevo sentito il profumo gia’ dal bancone. A volte vorrei mettere tutto in bocca, altre volte disegnare qualsiasi cosa su un foglio bianco. Andai nel posto dove nelle ultime due settimane mi ero riempito la pancia due volte e che chiamo mensa degli infelici in verita’ dovrei chiamarla mensa dei miseri. Per chi lo conosce le sue porte sono aperte fino a mezzanotte. Dentro c'erano qualche infelice, un paio di poveracci che parevano galeotti, ladruncoli di polli miseri e disperati i cui occhi, come quelli degli oppiomani, avevano lasciato questo mondo per altri paradisi; due mendicanti disadattati anche rispetto alla loro categoria, e un gentiluomo che sedeva in un angolo lontano da questa folla. Salutai educatamente il cuoco di Aleppo. Mi riempii il piatto di involtini di cavolo con carne, li condii con yogurt e tanto peperoncino piccante e andai a sedermi accanto al gentiluomo. Ogni sera mi cala addosso una tristezza, una malinconia. Fratelli, fratelli, ci stiamo avvelenando, diventiamo marci, moriamo, ci sfiniamo vivendo, ci immergiamo fino al collo nella miseria... Certe notti lo sogno che esce fuori dal pozzo e comincia a inseguirmi, ma l'abbiamo sepolto bene, con abbondante terra, non puo’ uscire dalla tomba. Il fatto che il gentiluomo con il naso dentro la zuppa che immaginavo dimentico del mondo intero avesse iniziato a chiacchierare con me e’ un segno inviatomi da Allah? Si’, mi dissi, la carne era ben tritata, gli involtini di cavolo davvero squisiti. Gli feci delle domande. Mi disse che dopo vent'anni di impiego in una scuola coranica era appena diventato lo scrivano di Arifi Pascia’. Non gli chiesi perche’ a quest'ora della notte non se ne stesse nella signorile dimora del suo pascia’, in moschea, oppure a casa tra le braccia di sua moglie, ma in questo ristorante per briganti scapoli. Lui mi chiese da dove venissi, chi fossi. Ci pensai un attimo e gli dissi: «Il mio nome e’ Behzat. Vengo da Herat, da Tabriz. Ho fatto i disegni piu’ straordinari, le meraviglie piu’ incredibili. In ogni laboratorio di miniatura musulmano della Persia o dell'Arabia dove si disegna, da secoli dicono: quando lo guardi credi che sia vero, come il disegno di Behzat». Ma la vera questione non e’ questa. Il mio disegno non elabora cio’ che vede l'occhio ma cio’ che vede la mente. Il disegno invece, come sapete, e’ una gioia per l'occhio. Mettete insieme questi due concetti e viene fuori il mio mondo. Cioe’: Alif: Il disegno e’ rappresentare cio’ che vede la mente per la gioia dell'occhio. Lam: Cio’ che vede l'occhio entra nel disegno quel tanto che serve alla mente. Mim: Di conseguenza, la bellezza e’ cio’ che l'occhio riscopre nel mondo e che la mente conosce gia’. Quel gentiluomo reduce da vent'anni di scuola coranica aveva capito la logica estratta dalle profondita’ della mia anima seguendo un'improvvisa ispirazione? No. Perche’ neanche dopo avere passato tre anni seduto accanto a un maestro di Corano dei quartieri poveri che dava lezioni per venti akçe al giorno - oggi con questo denaro si comprano venti pani non sapeva ancora chi e’ Behzat. Era evidente che perfino questo venerabile maestro con vent'anni di scuola coranica alle spalle non conosceva Behzat. Va bene, mi spiego. Dissi: «Io ho disegnato di tutto, proprio di tutto. Il Nostro Profeta seduto in moschea assieme ai suoi quattro califfi, davanti al mihrab verde; in un altro libro ho disegnato l'Apostolo e Profeta di Allah, Maometto sul suo cavallo Burak ascendere al settimo cielo in Paradiso durante la notte di Miraç; Alessandro Magno, sulla via della Cina, che suona il tamburo del tempio sulla riva per spaventare il mostro che agita il mare; il sultano che amava masturbarsi e che, ascoltando il liuto, spiava le belle dell'harem nuotare nude nella sua piscina; la sconfitta, avvenuta di fronte al sultano, di un giovane lottatore che, credendo di conoscerne tutti i trucchi, sosteneva che avrebbe battuto il proprio maestro, e il maestro che lo batte con un ultimo trucco che aveva tenuto per se’ senza insegnarglielo; l'innamoramento di Leyla e Mejnun ancora bambini, mentre leggevano inginocchiati il Corano in una scuola dai muri finemente decorati; gli innamorati che non riescono a guardarsi negli occhi, cominciando dai piu’ timidi fino ai piu’ spudorati; la costruzione di palazzi con pietre, il castigo e la tortura dei colpevoli, il volo delle aquile, gli allegri conigli, le tigri crudeli, i cipressi, i platani e le gazze che metto sempre in cima a questi alberi, la morte, i poeti che gareggiano, i banchetti di vittoria e coloro che, come te, a tavola non vedono altro che una zuppa». Il prudente scrivano ormai non aveva paura, anzi mi trovava divertente e sorrideva. «Il tuo venerabile maestro te l'ha letto senz'altro e lo sai, - dissi. - C'e’ un racconto che amo molto nel Giardino di Sadi.
Ti ricordi, il re Dario durante una caccia si allontano’ dalla folla e comincio’ a passeggiare per le colline. Poi, all'improvviso, incontro’ un pericoloso sconosciuto. Il re sul cavallo si agito’ e prese subito l'arco, ma quell'uomo barbuto lo supplico’ dicendo: mio re, fermatevi e non scoccate la vostra freccia! Come, non mi avete riconosciuto? Non vedete che sono il fedele stalliere a cui affidate centinaia dei vostri cavalli e puledri? Mi avete visto tante volte! Io conosco tutti e cento i vostri cavalli, il loro temperamento, i loro colori. E perche’ non prestate attenzione a uno dei servi che comandate, uno che avete spesso occasione di incontrare?» Quando disegno questa scena, disegno felice e tranquillo i cavalli neri, sauri e bianchi che lo stalliere guarda con affetto su un paradisiaco prato verde coperto di fiori di ogni colore, in modo che anche il lettore piu’ stupido capirebbe la lezione da trarre dal racconto del poeta Sadi: la bellezza e il segreto di questo mondo possono emergere solo con l'attenzione, l'interesse e l'affetto che gli si mostra con amore. Se volete vivere in quel Paradiso dove vivono giumente e cavalli felici, aprite bene gli occhi su questo mondo, fate attenzione ai suoi colori, ai suoi dettagli e ai suoi scherzi. L'alunno dell'insegnante da venti akçe, oltre a divertirsi, aveva anche paura di me. Voleva gettare il suo cucchiaio e fuggire via, ma non lo lasciai in pace. «In quel disegno, Behzat, il maestro dei maestri, ha disegnato il re, lo stalliere, i cavalli talmente bene, - continuai. Sono passati cento anni e non si smette di imitare i suoi cavalli. Ormai ognuno dei cavalli che ha disegnato come ha immaginato e come gli e’ venuto dal cuore, e’ diventato un modello. Centinaia di miniaturisti - me compreso disegnano quei cavalli a memoria. Tu hai mai visto il disegno di un cavallo?» «Avevo visto il disegno di un cavallo con le ali in un libro magico che un grande maestro, un importante sapiente, aveva dato un giorno alla buonanima del mio maestro». Avrei dovuto affogare li’ per li’ quell'idiota che, assieme al suo maestro, aveva preso sul serio lo Strane creature, immergendogli la testa nella ciotola della zuppa, o dovevo lasciare che mi raccontasse con grandi elogi l'unico disegno di cavallo - chissa’ che brutta copia era - che aveva visto nella vita? Trovai una terza soluzione, gettai il mio cucchiaio e uscii dal locale. Camminai a lungo, e quando entrai in un convento derviscio abbandonato mi tranquillizzai. Spazzai e pulii li’ intorno e restai ad ascoltare il silenzio senza fare nulla. Tirai fuori lo specchio da dove l'avevo nascosto e lo appoggiai sul leggio, sistemai sulle mie ginocchia l'asse da lavoro e il disegno di due pagine e, guardandomi in faccia da dove ero seduto, iniziai a fare il mio ritratto a carboncino. Lavorai a lungo, pazientemente. Dopo un bel po', vedere di nuovo che il volto sul foglio non somigliava al mio nello specchio mi riempi’ di una tale tristezza che mi vennero le lacrime agli occhi. Come facevano i maestri veneziani di cui Zio Effendi raccontava con grandi elogi? Per un attimo mi misi nei loro panni e pensai che sentendomi come uno di loro forse sarei riuscito a fare un ritratto che mi somigliasse. Dopo un po' maledissi i pittori europei e lo Zio Effendi e, cancellando quello che avevo fatto, cominciai a disegnare di nuovo guardando lo specchio. Infine, mi trovai prima per le strade e poi in questo misero caffe’. Non mi ero neanche reso conto di come vi ero arrivato. Entrando, mi vergognai talmente di mescolarmi a questi miseri miniaturisti e calligrafi che mi sudava la fronte. Intuivo che mi osservavano e dandosi delle gran gomitate mi indicavano e ridacchiavano, va bene, lo vedevo. Mi sedetti in un angolo cercando di avere un atteggiamento disinvolto. Cercavo di vedere gli altri maestri, i cari fratelli con i quali un tempo, da apprendista di Maestro Osman, lavoravo. Ero sicuro che stanotte avevano fatto disegnare anche a loro un cavallo e che questi stupidi avevano preso la gara sul serio, si erano fatti in quattro. Il cantastorie non aveva ancora iniziato a raccontare. Non aveva nemmeno appeso il suo cartellone. E questo mi spinse a cercare qualche contatto con la folla del caffe’. Va bene, vi diro’ la verita’: scherzavo come tutti, raccontavo storielle vergognose, baciavo gli amici con modi esagerati, facevo battute a doppio senso, allusioni, giochi di parole, chiedevo ai giovani assistenti come stavano, come tutti, offendevo con parole spietate i nemici comuni, ed esaltandomi di piu’ finivo per fare scherzi di mano e per baciare la gente sul collo. Mentre mi comportavo cosi’, sapere che parte della mia anima rimaneva spietatamente in silenzio, mi provoco’ un dolore insopportabile. Ad ogni modo, oltre a riuscire, con giochi di parole, a paragonare il mio pene e quello di coloro su cui spettegolavamo a penne, canne, alle colonne del caffe’, a oggetti, bitte, magli, porri, minareti, dolci a forma di dito, pini e, per due volte, all'intero universo, trovai similitudini per i sederi dei bei ragazzi di cui parlavamo con arance amare, fichi, dolcetti e cuscini e con un minuscolo formicaio. Invece il calligrafo piu’ presuntuoso, un mio coetaneo, in tutto questo tempo era riuscito a paragonare il suo strumento soltanto a un albero di nave o al bastone di un facchino, facendo questi confronti in modo molto goffo e senza la minima fiducia in se stesso. Trattai brevemente e con molte allusioni le canne degli anziani maestri ai quali non si rizza piu’, le labbra color amarena dei nuovi apprendisti, i maestri calligrafi che (come me) nascondono il denaro (nell'angolo piu’ svergognato), dissi che nel vino che stavamo bevendo invece di una foglia di rosa era stato messo dell'oppio, e che gli ultimi maestri di Shiraz e Tabriz, ad Aleppo, mescolavano caffe’ e vino, parlando dei calligrafi e dei bei ragazzi di questa citta’. A volte credevo che una delle due anime dentro di me dominasse sull'altra e mi sembrava finalmente di dimenticare la mia parte silenziosa e priva d'amore. Allora mi ricordavo delle feste e delle cerimonie della mia infanzia, le avevo condivise con tutti come con tutto me stesso. Ma, malgrado questi scherzi, baci e abbracci, dentro di me c'era sempre un silenzio che mi lasciava addolorato e completamente solo anche in mezzo alla folla. Chi mi aveva messo dentro quest'anima silenziosa e spietata - era un ginn, non un'anima - che mi biasimava continuamente, mi separava dalla compagnia? Satana? Il silenzio dentro di me non trovava pace con le insolenze di Satana, ma al contrario, con storie piu’ innocenti che mi penetravano nell'anima. Pensando che, grazie all'effetto del vino, mi infondessero quella pace, raccontai due storie. Un apprendista calligrafo
alto, pallido, ma dall'incarnato roseo, mi ascoltava attento, fissandomi con i suoi occhi verdi. Due storie sulla cecita’ e sullo stile che il miniaturista racconta a conforto della solitudine della sua anima |Alif Disegnare cavalli guardando i cavalli non e’ una scoperta dei maestri europei ma il primo ad averne l'idea fu Cemalettin, il grande maestro di Kazvin. Dopo che Uzun Hasan, khan del Montone Bianco, ebbe conquistato Kazvin, l'anziano Maestro Cemalettin, oltre a entrare nel laboratorio di miniatura del khan vittorioso, gli disse che voleva andare in guerra con lui per illustrare le sue gesta con rappresentazioni di guerra viste con i propri occhi. E cosi’, questo grande maestro che per sessantadue anni aveva disegnato cavalli, cavalieri e guerre senza averne mai visti, ando’ in guerra per la prima volta, ma senza poter neanche vedere un violento e fragoroso scontro di cavalli madidi di sudore, perche’ divenne cieco a causa di una palla di cannone giunta dalle schiere nemiche e perse entrambe le mani fino al polso. Come i veri grandi maestri, l'anziano maestro che gia’ aspettava la cecita’ come un dono di Allah, non considero’ la perdita delle mani una grande mancanza. Disse che la memoria di un miniaturista non e’ nelle mani, come sostenevano alcuni con insistenza, ma nella sua intelligenza e nel suo cuore, e che adesso, da cieco, in realta’ vedeva i disegni e i panorami veri, i veri e perfetti cavalli che Allah diceva di vedere. Per condividere queste meraviglie con gli amanti della miniatura, prese un apprendista alto, pallido ma dall'incarnato roseo e dagli occhi verdi e gli racconto’ come avrebbe disegnato - se avesse potuto tenere in mano la penna - i meravigliosi cavalli che gli apparivano davanti agli occhi nel buio di Allah e glieli fece fare. Dopo la morte del maestro, il bell'apprendista raccolse in tre volumi - La Miniatura dei cavalli, Il Flusso dei cavalli, L'Amore per i cavalli - la storia di trecentotre cavalli, tutti disegnati a cominciare dalla zampa sinistra anteriore e, per un certo tempo, questa storia fu molto amata e ricercata nelle terre del Montone Bianco; ne uscirono nuove copie manoscritte e imitazioni, vennero studiati a memoria da miniaturisti, apprendisti e studenti e furono usati come manuale di esercizi, ma quando il regno del Montone Bianco di Uzun Hasan venne eliminato e la miniatura di Herat domino’ tutta la Persia, vennero dimenticati. Indubbiamente, in questo, ebbe influenza la ragionevole logica sostenuta da Kemalettin Riza nel suo libro I cavalli del cieco, in cui si criticano violentemente questi tre volumi sostenendo che dovrebbero essere bruciati. Nessun cavallo di cui parla Cemalettin di Kazvin nei suoi tre libri puo’ essere il cavallo di Allah, perche’ essi non sono puri, perche’ l'anziano maestro li ha descritti dopo averli visti, anche se una sola volta e per pochissimo tempo, su un vero campo di battaglia. Dato che il tesoro di Uzun Hasan del Montone Bianco venne saccheggiato e portato a Istanbul dal Sultano Maometto il Conquistatore, non c'e’ da meravigliarsi che alcune di queste trecentotre storie si vedano in altri libri e che alcuni cavalli vengano disegnati secondo queste storie. |Lam A Herat e Shiraz, se negli ultimi anni di vita un maestro miniaturista diventava cieco per il troppo lavoro, il fatto non solo era visto come un segno della determinazione del maestro, ma, nello stesso tempo, veniva elogiato come contropartita di Allah per il suo duro lavoro e la sua abilita’. Per questo motivo, per un certo periodo, a Herat, i vecchi maestri che non diventavano ciechi venivano guardati con sospetto, una situazione che ne spinse molti a cercare la cecita’ in vecchiaia. Dopo un lungo periodo in cui i miniaturisti che si accecavano da soli o si accecavano per non lavorare per un altro scia’ o per non cambiare stile, venivano ricordati con ammirazione, Ebu Said, un nipote di Tamerlano della stirpe di Miran Scia’, apri’ una nuova era nel laboratorio di miniatura fondato dopo la conquista di Taskent e Samarcanda, rispettando piu’ chi faceva finta di essere cieco che il vero cieco. Fu l'anziano Maestro Veli il Nero a ispirare Ebu Said, dicendo che era ovvio che un maestro cieco al buio avrebbe visto i cavalli di Allah, mentre la vera abilita’ era nel guardare il mondo come un cieco pur vedendo; glielo dimostro’ a sessantasette anni, disegnando un cavallo, guardando il foglio a occhi spalancati, ma senza vederlo e pensarci, cosi’ come veniva alla punta della sua penna. Alla fine di questa cerimonia di miniatura in cui Miran Scia’ fece suonare il liuto ai musicisti sordi e raccontare storie ai cantastorie muti perche’ fossero di aiuto al leggendario maestro, il meraviglioso cavallo disegnato da Veli il Nero venne paragonato ai cavalli disegnati dal grande maestro, rispetto ai quali non c'era alcuna differenza. Dopo questa vicenda, che rese inquieto Miran Scia’, il leggendario maestro disse che l'abile miniaturista, sia ad occhi aperti che ad occhi chiusi, non puo’ che vedere i cavalli sempre in un unico modo, come li vede Allah. Secondo lui, se si tratta di un maestro, non c'e’ differenza tra il cieco e il vedente. La mano disegna sempre lo stesso cavallo, perche’ allora non era stato scoperto cio’ che gli europei chiamano stile. I cavalli del grande Maestro Veli il Nero furono imitati da tutti i miniaturisti musulmani per centodieci anni, e dopo la sconfitta di Ebu Said e la dispersione del laboratorio, egli lascio’ Samarcanda per Kazvin e due anni dopo venne accecato e ucciso dai giovani soldati di Nizam Scia’ che pensavano che volesse rifiutare con cattive intenzioni il versetto del Corano che dice «E non sono uguali il cieco e il veggente». Avrei raccontato ancora una terza storia all'apprendista calligrafo dai begli occhi su come il grande maestro si acceco’ da solo, e non volle mai lasciare Herat, perche’ non disegno’ piu’ dopo essere stato condotto a forza a Tabriz; avrei raccontato che lo stile del miniaturista e’ quello del laboratorio di miniatura a cui e’ legato, e altre leggende che avevo ascoltato da
Maestro Osman, ma la mia mente era stata catturata dal cantastorie. Come facevo a sapere che stasera avrebbe raccontato la storia di Satana? «Chi parla di se’ e’ il primo Satana!, - mi venne da dire. - Satana chi ha uno stile, anche chi separa l'Oriente e l'Occidente e’ Satana». Chiusi gli occhi e disegnai Satana come mi veniva da dentro, sul foglio grezzo del cantastorie. E mentre disegnavo, il cantastorie e il suo apprendista, gli altri miniaturisti e i curiosi ridevano tra loro e mi provocavano. Secondo voi ho uno stile, oppure e’ il vino che ho bevuto?
Capitolo quarantasettesimo. Io, Satana Mi piacciono il profumo del peperoncino fritto nell'olio, la pioggia che cade sul mare calmo all'alba, l'apparizione improvvisa di una donna alla finestra aperta, il silenzio, mi piace pensare e mi piace la pazienza. Credo in me stesso e spesso non bado a quel che si dice sul mio conto. Ma stasera sono venuto in questo caffe’ ad avvertire i miei fratelli miniaturisti e calligrafi di alcuni pettegolezzi, di bugie e voci che circolano. Naturalmente, so che siete pronti a credere esattamente il contrario di cio’ che dico, solo perche’ sono io a dirlo. Ma sarete anche abbastanza intelligenti da intuire che non sempre il contrario di cio’ che dico e’ vero e sarete abbastanza sensibili da provare interesse senza credere a tutto cio’ che dico. Sapete che il mio nome, che e’ ripetuto cinquantadue volte nel Corano, e’ uno di quelli citati piu’ spesso. Va bene, cominciamo dal libro di Allah, dal Santo Corano. Tutto quel che vi si dice sul mio conto e’ vero. Vorrei che sapeste che dicendolo dimostro modestia. Perche’ c'e’ anche la questione dello stile. Il fatto che il Corano mi disprezzi, mi ha sempre causato dolore, e questo dolore e’ il mio stile di vita. Non lo discuto. Si’, Allah creo’ l'uomo davanti agli occhi di noi angeli. Poi ci chiese di prosternarci davanti a lui. Si’, come e’ scritto nella Sura del Limbo, mentre tutti gli angeli si prosternavano, io mi opposi. Ricordai loro che Adamo era stato creato dal fango, mentre io, come sapete, ero stato creato da un elemento molto piu’ pregiato, il fuoco. Non mi prosternai davanti all'uomo. E Allah mi reputo’ «orgoglioso». «Scendi dal Paradiso, - mi ordino’. - Li’ non hai nessun diritto di fare l'altezzoso». «Concedimi di vivere fino al Giorno del Giudizio, quando i morti torneranno in vita», dissi. Me lo concesse. E io gli dissi che in tutto questo tempo avrei traviato la stirpe di Adamo, la causa della mia punizione perche’ non mi ero prosternato davanti a lui. E lui disse che avrebbe mandato all'Inferno tutti coloro che avrei traviato. Sapete che abbiamo mantenuto entrambi le nostre rispettive promesse. Non ho molto da aggiungere sull'argomento. C'e’ chi afferma che in quel momento io e l'Altissimo Allah stringemmo un accordo. Stando a loro, io aiutavo Allah a mettere alla prova le sue creature cercando di traviare le loro menti. I buoni, decidendo per il bene, non si facevano traviare, i cattivi venivano sopraffatti dai loro desideri, peccavano e finivano all'Inferno. Dato che se tutti fossero andati in Paradiso non sarebbe stato possibile spaventare nessuno, e nemmeno gestire gli affari terreni e di Stato con la sola benevolenza, e nel mondo era necessaria la cattiveria quanto la benevolenza, il peccato quanto la buona azione, il mio operato era molto importante. Il fatto che io sia sempre stato «il cattivo», che non mi siano mai stati riconosciuti dei meriti, benche’ l'ordine del mondo si realizzi grazie a me e con il permesso di Allah (perche’ mi aveva concesso di vivere fino al Giorno del Giudizio?), e’ stato sempre un mio cruccio segreto. Persone come Hallaci Mansur, o Ahmet Ghazzali, fratello del famoso Imam Ghazzali, che difesero questa logica per mio conto fino alla fine, arrivarono al punto di dire e scrivere che in realta’ tutti i peccati che facevo commettere, erano cose che voleva Allah, visto che si realizzavano con il permesso e il desiderio di Allah, che il bene e il male non esistevano perche’ tutto proveniva da Allah, e che, inoltre, io ero parte di Allah. Alcuni di questi idioti, giustamente, vennero uccisi e bruciati assieme ai loro libri. Perche’ il bene e il male esistono di certo, e tracciare un limite tra queste due cose e’ il lavoro di tutti, io non sono - che Allah mi perdoni! - Allah e non ho messo io queste sciocchezze nella testa di questi idioti, hanno fatto tutto da soli. E da qui nasce la mia seconda obiezione. Non sono io la fonte di tutte le cattiverie e di tutti i peccati nel mondo. Molti peccano senza bisogno delle mie provocazioni, delle mie convinzioni, delle ansie che creo, ma a causa delle loro ambizioni, della lussuria, dell'indecisione, della vilta’ e, nella maggior parte dei casi, della stupidita’. Quanto sono assurdi gli sforzi che fanno i mistici per purificarmi da ogni cattiveria, e’ contro il Corano pensare che tutto il male dipenda da me. Non sono io a traviare il fruttivendolo che inganna il suo cliente vendendogli una mela marcia, il bambino che dice bugie, l'adulatore, il vecchio dalle fantasie svergognate, il ragazzino che si masturba. E poi, in questi ultimi due casi, l'Altissimo Allah non troverebbe neanche che la cattiveria sia tale da dover pensare a me. Certo che mi sforzo molto perche’ vengano commessi i peccati, ma alcuni maestri scrivono che sono sempre io a traviare chi sbadiglia a bocca aperta, chi starnutisce o scoreggia. Questo vuol dire che non mi hanno capito affatto. Potreste dire, non ti capiscono e cosi’ tu puoi traviarli piu’ facilmente. vero. Ma devo ricordarvi che anch'io ho un orgoglio, e proprio a causa di quest'orgoglio il mio rapporto con l'Altissimo Allah si e’ guastato. Perche’ mai i miei fratelli miniaturisti continuano a disegnarmi come una creatura orribile dalla faccia coperta di bubboni, deforme, con le corna e la coda, visto che posso travestirmi facilmente e, soprattutto, visto che in decine di migliaia di libri e’ scritto che appaio ai veri credenti come una bella donna che risveglia la lussuria, me lo potete spiegare? Cosi’ siamo arrivati al nostro vero argomento: la miniatura. Una folla che riempie le strade di Istanbul provocata da un
predicatore che non nominero’ perche’ non vi faccia del male, dice che cantare la preghiera come fosse musica, riunirsi nei conventi dervisci lodando Allah con preghiere accompagnate dalla musica perdendo i sensi e bere caffe’ sono cose contrarie alla parola di Allah. Alcuni miniaturisti che temono questo predicatore e le sue torme, dicono che disegnare con il metodo europeo e’ opera mia, l'ho sentito. In centinaia di anni su di me hanno detto solo calunnie. Ma nessuna e’ cosi’ lontana dalla verita’ come questa. Torniamo all'inizio. Tutti sono rimasti a quando ho fatto mangiare il frutto proibito a Eva, ma dimentichiamo questo. No, l'inizio non e’ neanche che Allah mi trovo’ orgoglioso. All'origine di tutto, c'e’ il fatto che io, con una scelta molto corretta, non mi prosternai davanti all'uomo quando Egli ce lo mostro’, a me e agli altri angeli, e ci chiese di prosternarci davanti a lui e gli angeli si prosternarono. Dopo avermi creato dal fuoco, aveva creato l'uomo da una materia meno pregiata, dal fango. prosternati davanti all'uomo! Secondo voi era giusto che dicesse cosi’? Fratelli, rispondetemi con una mano sulla coscienza! Va bene, lo so, avete paura a esporvi pensando che nulla rimarra’ tra di noi, Egli udra’ tutto e un giorno ve ne chiedera’ conto. Allora non vi chiedo perche’ vi abbia dato la coscienza, dico che avete ragione ad aver paura e dimentico questa mia domanda e il dettaglio fuoco-fango. Ma c'e’ una cosa che non dimentichero’ mai e ricordero’ sempre con orgoglio: Io non mi sono prosternato davanti all'uomo. Invece, e’ esattamente questo che fanno adesso i maestri europei. Non si accontentano di disegnare e mostrare tutto cosi’ come e’, cominciando dal colore degli occhi, dalla consistenza della pelle, dalle ineguagliabili pieghe delle labbra dei signori, dei sacerdoti, dei ricchi commercianti e anche delle donne, fino alle belle ombre tra i seni, alle rughe sulla fronte, agli anelli sulle dita, anche ai peli schifosi che spuntano dalle orecchie, addirittura mettono le persone al centro dei loro disegni come se fossero creature davanti alle quali prosternarsi e appendono i loro disegni al muro come idoli da adorare. L'uomo e’ una creatura cosi’ importante da ritrarlo con tutti i suoi dettagli, compresa l'ombra? Disegnando le case di una strada che mano a mano si rimpiccioliscono come l'occhio, a torto, le vede, non si mette al centro del mondo l'uomo, invece di Allah? Queste sono cose che conosce meglio l'Onnipotente e Altissimo Allah. Ma penso che sia chiara l'assurdita’: affermare che sono io a suggerire l'idea di questi disegni, io che ho rifiutato di prosternarmi davanti all'uomo e ne ho avuto pena e solitudine, che sono scaduto di fronte ad Allah, che ho subito tante ingiurie per questo motivo. Al limite, e’ piu’ logico credere che i ragazzini si masturbino per colpa mia, che sia io a far scoreggiare tutti, come scrivono certi mullah, come dicono alcuni predicatori. Vorrei aggiungere un'ultima cosa sull'argomento, ma le mie parole non sono per coloro che hanno sempre la testa annebbiata dalla smania di farsi notare, dalla lussuria, dall'attaccamento al denaro e da passioni assurde! Mi capirebbe solo Allah con la sua intelligenza illimitata: non gli hai forse insegnato tu a essere orgogliosi facendo prosternare gli angeli davanti a loro? Adesso loro fanno quello che hanno imparato dai tuoi angeli, si prosternano davanti ai loro simili e si mettono al centro del mondo. Tutti, anche i tuoi servi piu’ fedeli, vogliono disegnare con i metodi europei. il risultato dell'adorazione di se stessi, presto ti dimenticheranno, ne sono assolutamente certo. E poi, quando ti avranno dimenticato, daranno la colpa a me. Come posso spiegarvi che non bado a tutto quello che si crede? Certamente rimanendo in piedi sano e salvo malgrado le pietre che mi tirano, le ingiurie, le maledizioni, le imprecazioni che arrivano senza pieta’ al mio indirizzo. Se i nemici irosi e superficiali che bestemmiano contro di me ad ogni occasione si ricordassero che e’ stato il Supremo Allah a concedermi di vivere fino al Giorno del Giudizio, le cose sarebbero piu’ facili per tutti. Invece, loro hanno ottenuto da Allah una vita di solo sessanta, settant'anni. Se dicessi loro di prolungare questa vita bevendo caffe’, so che alcuni non lo metterebbero piu’ in bocca, volendo fare proprio il contrario di quello che vuole Satana, oppure si metterebbero a testa in giu’ e si farebbero versare il caffe’ nel didietro. Non ridete. Non e’ importante il contenuto dei pensieri, ma la forma. Non e’ importante cio’ che disegna il miniaturista, ma lo stile. Eppure anche questo non deve assolutamente essere evidente. Per ultima cosa avrei voluto raccontare una storia d'amore, ma e’ tardi. Il bravo cantastorie che mi ha prestato la voce stanotte ha promesso che non domani, ma dopodomani, mercoledi’, raccontera’ questa dolce storia d'amore appendendo al muro il disegno di una donna.
Capitolo quarantottesimo. Io, seküre Ho visto mio padre in sogno, mi diceva qualcosa che non riuscivo a capire, era terribile, mi sono svegliata. sevket e Orhan mi abbracciavano forte uno da una parte e uno dall'altra, il loro calore mi aveva fatto sudare. sevket mi aveva messo una mano sulla pancia. Orhan aveva appoggiato la testa sudata sul mio seno. Riuscii a uscire dal letto e dalla stanza senza svegliarli. Passai per l'anticamera e aprii silenziosamente la porta di Nero. Alla luce del candelabro che tenevo in mano non vidi lui, ma il suo letto bianco in mezzo alla stanza buia e fredda come un cadavere avvolto nel sudario. La luce del candelabro non arrivava fino al letto. Quando avvicinai di piu’ la mano, la luce arancione della candela si riflesse sul viso stanco, sulla barba, sulle spalle nude di Nero. Mi avvicinai di piu’, dormiva appallottolato come un porcellino di Sant'Antonio, nello stesso modo di
Orhan, e aveva l'espressione di una fanciulla addormentata. «Questo e’ mio marito», dissi tra me e me. Lo sentivo cosi’ lontano ed estraneo che fui colta da un senso di pentimento. Se avessi avuto in mano un pugnale l'avrei ucciso. Non perche’ lo volessi veramente, pensavo solo, come abbiamo fatto tutti quanti da piccoli, a come sarebbe stato se l'avessi ucciso. Non credevo che avesse vissuto per anni pensando a me, ne’ all'innocente espressione infantile che aveva sul viso. Lo scossi con la punta del mio piede nudo e lo svegliai. Vedendomi, piu’ che incantarsi o agitarsi, ebbe paura, anche se solo per un attimo, proprio come speravo. Prima che fosse sveglio del tutto iniziai a parlare: «Ho visto mio padre in sogno. Mi ha detto una cosa terribile, mi ha detto che sei stato tu a ucciderlo...» «Non eravamo forse insieme mentre tuo padre veniva ucciso?» «Lo so anch'io, - dissi. - Ma tu sapevi che mio padre sarebbe rimasto solo in casa». «Non lo sapevo. Sei stata tu a mandare i bambini con Hayriye. Lo sapeva Hayriye, e forse Esther. Tu meglio di chiunque altro sai chi altro lo sapeva». «A volte mi pare che una voce dentro di me stia per dirmi perche’ tutto va male, il segreto di questa sfortuna. Apro la bocca per far uscire quella voce, ma come nei sogni, dalla gola non esce voce. Ormai anche tu non sei piu’ quel Nero buono e innocente che ho conosciuto nella mia infanzia». «Siete stati tu e tuo padre a scacciare quel Nero innocente». «Se mi hai sposato per vendicarti di mio padre, ti sei vendicato. Forse e’ per questo che i bambini non ti amano affatto». «Lo so, - disse, ma c'era della tristezza nella sua voce. - Prima che si addormentassero, quando tu sei scesa per un attimo giu’, dicevano in modo che sentissi: «Nero, Nero, il culo a pero»». «Potevi picchiarli», dissi, e volevo davvero che li picchiasse. «Se alzi le mani su di loro ti ammazzo», aggiunsi poi agitata. «Vieni a letto, - disse. - Gelerai». «Forse non entrero’ mai nel tuo letto. Forse abbiamo fatto uno sbaglio a sposarci. Dicono che il nostro matrimonio non e’ valido. Stanotte, prima di addormentarmi ho sentito il rumore dei passi di Hasan. Non dimenticare che quando abitavo con la buonanima di mio marito, ho sentito per anni il rumore dei suoi passi. I bambini gli vogliono bene. senza cuore. Ha una spada scarlatta, guardati da lui». Negli occhi di Nero vidi qualcosa di cosi’ stanco e rigido che capii che non sarei riuscita a spaventarlo. «Di noi due, il piu’ speranzoso ma anche il piu’ triste sei tu, - dissi. - Io mi ostino a non essere infelice, per proteggere i miei figli, tu invece ti ostini a dimostrare quanto vali. E non perche’ mi ami». Racconto’ a lungo quanto mi amava, quanto mi aveva pensata nei caravanserragli desolati, nelle nude montagne, nelle notti di neve. Se non mi avesse detto tutto cio’, avrei svegliato i bambini e sarei tornata a casa del mio ex marito. All'improvviso, in maniera assolutamente spontanea, gli dissi: «A volte mi sembra che il mio ex marito possa ritornare da un momento all'altro. Non ho paura di rimanere con te in una stanza di notte, di farmi sorprendere dai bambini, ho paura che appena ci abbracciamo, lui bussi alla porta». Sentimmo le grida dei gatti che lottavano a morte li’ fuori, accanto alla porta del cortile. Poi silenzio. Per un attimo pensai che mi sarei messa a piangere. Non riuscivo ad appoggiare sul tavolino il candelabro che avevo in mano, ne’ a tornare nella stanza con i miei figli. Mi dissi che non sarei uscita da quella stanza finche’ non fossi stata convinta che in questo omicidio non c'era il suo zampino. «Tu ci disprezzi, - dissi a Nero. - Da quando mi hai sposata sei diventato orgoglioso. Ti facevamo gia’ pena perche’ mio marito non tornava, adesso provi ancora piu’ pena perche’ mio padre e’ stato ucciso». «seküre, mia signora, - disse attentamente. Mi era piaciuto che avesse aperto il discorso in questo modo. - Anche tu sai che tutto questo non e’ vero. Farei qualsiasi cosa per te». «Allora esci dal letto e aspetta in piedi come me». Perche’ gli avevo detto che aspettavo qualcosa? «Non posso», rispose indicando imbarazzato la trapunta e la camicia da notte che indossava. Aveva ragione. Ma mi arrabbiai comunque perche’ non mi dava retta. «Prima che mio padre venisse ucciso, entravi in questa casa con l'aria colpevole di un gatto sorpreso con il topo in bocca, - dissi. - Invece, adesso sembra che quando dici «seküre, mia signora» non creda neanche tu alle tue parole e voglia farci sapere che non ci credi». Non tremavo di rabbia ma per il freddo gelido che mi prendeva le gambe, la schiena e il collo. «Entra nel mio letto e sii mia moglie», disse. «Come faremo a trovare il vile che ha ucciso mio padre? - domandai. - Se ci vorra’ tanto a trovarlo, non e’ giusto che io rimanga in questa casa con te». «Grazie a te e a Esther, Maestro Osman ha rivolto tutta la sua attenzione ai cavalli». «Maestro Osman era il nemico principale della buonanima di mio padre. Adesso il mio povero padre da lassu’ vede che per trovare il suo assassino c'e’ bisogno di lui e ne soffre». Salto’ improvvisamente fuori dal letto, mi venne addosso. Non riuscii nemmeno a muovermi. Ma al contrario di quanto pensavo, si fermo’, spense con la mano il cero del candelabro che tenevo in mano. Si fece completamente buio. «Cosi’ tuo padre non ci vedra’, - disse bisbigliando. - Siamo soli. Adesso dimmi seküre, quando sono tornato qui dopo dodici anni, mi hai lasciato capire che avresti potuto amarmi, che potevi trovare un posto per me nel tuo cuore. Poi ci siamo sposati. Da quando ci siamo sposati eviti di amarmi». «Mi sono sposata con te per forza», bisbigliai. Sentivo che le mie parole, come dice il poeta Fuzuli, come dei chiodi, penetravano spietate nel suo corpo davanti a me
nel buio. «Se ti avessi amato, ti avrei amato quando eravamo bambini», bisbigliai di nuovo. «Dimmi, mia bella, nel buio, - continuo’. - Hai senz'altro spiato e conosciuto tutti quei miniaturisti che andavano e venivano a casa vostra. Secondo te chi e’ l'assassino?» Mi piaceva che riuscisse ancora a scherzare. In fondo, era mio marito. «Ho freddo». Non ricordo se lo dissi davvero. Cominciammo a baciarci. Abbracciarlo, mentre tenevo ancora il candelabro in mano, prendere la sua lingua vellutata in bocca, le mie lacrime, i miei capelli, la mia camicia da notte, il mio tremore, anche il suo corpo, era tutto bello. Era bello anche riscaldare il naso appoggiandolo alla sua guancia nel freddo ma, mentre si baciavano, la seküre spaventata si trattenne, non riusci’ a lasciarsi andare e penso’ al candelabro che aveva in mano, al padre che la guardava, al suo ex marito, ai figli che dormivano nel letto. «C'e’ qualcuno in casa», urlai. Allontanai Nero e uscii in anticamera.
Capitolo quarantanovesimo. Il mio nome e’ Nero Uscii di casa nel buio del mattino senza farmi vedere da nessuno, silenzioso come un ospite colpevole, e camminai a lungo per le strade fangose. Eseguii le mie abluzioni nel cortile ed entrai nella moschea di Beyazit. Dentro non c'era nessuno a parte un vecchio che continuava a dormire mentre pregava, una capacita’ che si ottiene solo dopo quarant'anni, e l'Imam Effendi. Come capita a volte, quando, tra i nostri sogni e i nostri ricordi infelici, sentiamo che Allah per un attimo rivolge la sua attenzione su di noi, e con la speranza di chi, pieno di aspettative, riesce a infilare una petizione nella mano del sultano per chiedergli qualcosa, io supplicai Allah di darmi una casa felice e piena di persone che mi vogliono bene. Quando arrivai a casa sua, mi resi conto che, nel giro di una settimana, Maestro Osman aveva pian piano preso nella mia testa il posto della buonanima di mio zio. Era piu’ scontroso, piu’ distante, ma la fede che dedicava a illustrare i libri era piu’ profonda. Il grande maestro somigliava piu’ a un anziano e innocuo derviscio che a un uomo che per anni aveva fatto soffiare venti di paura, ammirazione e amore tra i miniaturisti. Probabilmente, mentre andavamo da casa sua a Palazzo, lui leggermente chino sul cavallo, io leggermente chino accanto al cavallo, assomigliavamo a un anziano derviscio e al suo ansioso discepolo, come nei disegni di scarso valore che decorano le vecchie favole. A Palazzo, trovammo il Capo delle guardie imperiali e i suoi uomini piu’ ansiosi e pronti di noi. Dato che il Nostro Sultano era certo che quella mattina avremmo guardato i disegni di cavallo fatti dai tre maestri e avremmo individuato velocemente e facilmente chi di loro era il maledetto assassino, aveva disposto che venisse torturato senza neanche aspettare il suo ordine. Cosi’ non fummo condotti davanti alla Fontana del Boia, dove tutto accadeva in maniera palese perche’ servisse da lezione alla gente, ma nella casetta costruita di materiale scadente in un angolo riparato del giardino privato del sultano, quella che si preferiva per gli interrogatori, le torture e le esecuzioni clandestine. Un giovane raffinato e gentile che non poteva essere uno degli uomini del Comandante delle guardie imperiali, con atteggiamenti sicuri appoggio’ tre fogli su un leggio. Quando Maestro Osman tiro’ fuori la lente, il cuore comincio’ a battermi forte. Fece passare piano piano la lente e il suo occhio - lo teneva sempre alla stessa distanza dalla lente - sui tre meravigliosi disegni di cavallo, come un'aquila che vola delicatamente sul territorio. Come un'aquila che individua la gazzella da cacciare, rallento’ per un attimo sui nasi dei cavalli e concentro’ li’ la sua attenzione, rimanendo completamente imperturbabile. «Non c'e’», disse a sangue freddo. «Cosa non c'e’?», domando’ il Comandante delle guardie imperiali. Io pensavo che il grande maestro avrebbe lavorato lentamente, avrebbe osservato ogni particolare dei cavalli, dalla criniera agli zoccoli. «Maledetto miniaturista, non ha lasciato un segno, - disse Maestro Osman. - Da questi disegni non si capisce chi ha disegnato il sauro». Presi la lente che aveva lasciato e guardai le narici dei cavalli. Il maestro aveva ragione. Nessuno dei tre cavalli aveva qualcosa che somigliasse alla strana narice del sauro disegnato per il libro di mio zio. Ecco, proprio in quel momento iniziai a pensare agli aguzzini che attendevano fuori con uno strano strumento che non capivo come sarebbe stato usato. Mentre cercavo di vederli dalla porta socchiusa, notai che uno indietreggiava e fuggiva come fosse stato spiritato, si gettava dietro un gelso e si acquattava li’. In quel preciso istante, come una luce che illuminava il mattino plumbeo, entro’ il Nostro Eccellente Sultano, Fondamento dell'Universo. Maestro Osman gli spiego’ subito che non poteva determinare nulla da questi disegni. Ma, comunque, non riusci’ a non attirare l'attenzione del Nostro Sultano sui cavalli di questi meravigliosi disegni, sulla finezza della posizione dell'uno e la serieta’ e l'orgoglio del terzo cavallo, erano cavalli che si sarebbero potuti vedere solo nei libri antichi. Nello stesso momento, individuo’ uno a uno i miniaturisti che avevano fatto i disegni, e il ragazzo che aveva fatto il giro delle porte dei maestri confermo’. «Non vi meravigliate, Mio Sovrano, del fatto che conosca i miei miniaturisti come il palmo della mia mano, - disse il
maestro. - Io mi stupisco che siano stati questi maestri che conosco cosi’ bene a produrre un segno a me ignoto. Perche’ nessun difetto di un maestro e’ privo di fondamento». «E cioe’?», chiese il Nostro Sultano. «Mio sultano, Felice Fondamento dell'Universo, questa firma segreta sul naso del sauro, secondo me non e’ un assurdo e insignificante difetto del miniaturista, ma e’ qualcosa le cui radici risalgono ai tempi andati, ad altri disegni, ad altri metodi, ad altri stili e forse anche ad altri cavalli. Se sfogliassimo le meravigliose pagine dei libri di centinaia di anni fa che nascondete nel vostro tesoro privato, nelle vostre segrete dai mille chiavistelli, nelle casse di ferro, negli armadi, forse vedremo che quello che oggi consideriamo un errore e’ in realta’ un metodo, e potremo collegarlo alla penna di un miniaturista». «Vuoi entrare nel Tesoro del Palazzo Interno?», domando’ il sultano stupito. «Si’», confermo’ il mio maestro. Era una richiesta ardita, quasi quanto voler entrare nell'harem. E in quel momento capii che l'harem e il Tesoro privato non solo erano situati nei due angoli piu’ belli del cortile del paradisiaco cuore del Palazzo del Nostro Sultano, ma occupavano anche i due angoli piu’ delicati della sua anima. Stavo per indovinare cosa sarebbe accaduto dal bel volto del Nostro Sultano, ormai riuscivo a guardarlo con coraggio, quando, all'improvviso, se ne ando’. Si era arrabbiato, era offeso? Tutti noi, anzi tutti i miniaturisti, avrebbero potuto essere danneggiati dall'insolenza del mio maestro? Mentre guardavo i tre cavalli davanti a me, immaginai di essere ucciso senza mai piu’ vedere seküre, senza poter entrare nel suo letto. Nonostante tutta la loro bellezza, questi meravigliosi cavalli adesso mi sembrava provenissero da un mondo a me molto lontano. In quel silenzio spaventoso si incise bene nella mia mente che, come essere presi da piccoli nel Palazzo Interno, nel cuore del Palazzo, crescere e vivere li’, significava essere schiavi del Nostro Sultano e morire per lui, cosi’, essere miniaturista significa essere schiavo della bellezza di Allah e morire per essa. Dopo un bel po', quando gli uomini del Comandante delle guardie imperiali ci fecero salire su, verso la Porta Centrale, avevo in mente questa morte; il silenzio della morte. Ma, mentre passavamo dalla Porta della Felicita’, dove molti pascia’ erano stati uccisi, i guardiani non ci guardarono nemmeno. Il Cortile del Consiglio, che ieri mi aveva abbagliato, anche la torre e i pavoni non mi colpirono affatto. Avevo capito che ci portavano sempre piu’ all'interno, nel Palazzo Interno, nel cuore del mondo segreto del Nostro Sultano. Cosi’, passammo per porte che nemmeno i visir potevano varcare senza permesso. Come un bambino entrato in una favola, non alzavo gli occhi da terra per non incontrare le meraviglie e i mostri che avrebbero potuto apparirmi davanti. Non riuscii neanche a guardare la Sala delle Udienze. L'occhio mi cadde per un attimo, scivolando sulle mura dell'harem, su un platano che non aveva nulla di diverso dagli altri alberi e su un uomo alto che indossava un lucente caftano di raso azzurro. Passammo tra alte colonne. Ci fermammo davanti a una porta pesante, piu’ grande e appariscente delle altre, decorata con gli stessi ornamenti che si vedono di solito sulle cupole delle moschee. Sulla soglia c'erano degli agha’ con caftani lucenti, e uno di loro era chino sulla serratura. Il Tesoriere ci guardo’ negli occhi e disse: «Beati voi, perche’ il Nostro Eccellente Sultano vi ha concesso di entrare nel Tesoro del Palazzo Interno. Guarderete libri che nessuno puo’ vedere, contemplerete pagine d'oro, incredibili disegni e, come un cacciatore, ne seguirete le tracce. Il mio sultano ha detto di aver concesso tre giorni a Maestro Osman - di questi tre il primo e’ gia’ terminato - e che, in due giorni, fino a giovedi’ a mezzogiorno, il maestro avrebbe individuato il traditore e informato il sultano. Nel caso in cui non ci riuscisse, mi ha ordinato di ricordargli che il Comandante delle guardie imperiali avrebbe risolto questa faccenda con la tortura». Prima tolsero la custodia del lucchetto sistemato a protezione del sigillo messo sulla serratura perche’ non entrassero altre chiavi. Il custode del Tesoro e due agha’, vedendo che il sigillo era a posto, annuirono. Il sigillo venne rotto e, non appena la chiave fu infilata nella serratura, questa si apri’ scricchiolando in un silenzio nel quale tutti rimanemmo con le orecchie ben tese. Maestro Osman divenne all'improvviso terreo. Quando l'unica anta della pesante porta di legno intarsiato fu aperta, il suo viso venne inondato da un'antichissima luce nera. «Il mio sultano ha ritenuto che sarebbe stato inutile che con voi venissero i maestri copisti e gli scrivani che curano l'inventario degli oggetti, - disse il Tesoriere. - Il bibliotecario e’ morto, non c'e’ piu’ nessuno che si prenda cura dei libri. Per questo motivo il mio sultano ha ordinato che con voi entrasse solo Cezmi Agha’». Questi era un nano dagli occhi brillanti che dimostrava almeno settant'anni. Il suo copricapo, che somigliava a una vela, era ancora piu’ strano di lui. «Per Cezmi Agha’ qui e’ come fosse casa sua. colui che meglio conosce i libri, come qualsiasi altra cosa». L'anziano nano non ne sembrava orgoglioso. Esaminava un braciere dai piedi d'argento, un vaso da notte con il manico intarsiato di madreperla, le lampade e i candelabri che alcuni paggi stavano portando nella stanza del Tesoro. Il Tesoriere disse che la porta sarebbe stata nuovamente chiusa a chiave dietro di noi e vi sarebbe stato apposto il sigillo dei settant'anni del Sultano Yavuz Selim e che, dopo la preghiera serale, con la testimonianza dei molti agha’ presenti, il sigillo sarebbe stato rotto e aperto di nuovo; ci disse anche di stare attenti che nei nostri abiti, nelle nostre tasche o sotto le nostre cinture non entrasse qualcosa «per sbaglio», perche’ ci avrebbero perquisiti fino alle mutande. Entrammo dentro passando tra gli agha’ messi in fila. Faceva un freddo cane. Quando la porta si chiuse, improvvisamente divenne buio pesto e sentii un odore di muffa, polvere e umidita’ penetrarmi nel naso. Era pieno zeppo di cose; oggetti, casse, elmi, tutto mescolato e trasformato in un'unica folla. Ebbi la sensazione di assistere da molto vicino a una grande guerra. I miei occhi si abituarono alla strana luce che batteva ovunque tra le spesse sbarre delle finestre e le scale che salivano
lungo i muri fino al mezzanino e i parapetti della passerella di legno che circondava il secondo piano. La stanza era rossa per il colore dei velluti sui muri, dei tappeti e dei kilim. Provai grande rispetto per l'esito delle campagne, delle guerre, per il sangue versato, le citta’ e i tesori saccheggiati per accumulare tutta questa ricchezza e tutti questi oggetti. «Avete avuto paura? - chiese l'anziano nano dando voce al sentimento che avevo dentro. - Tutti, quando entrano qui per la prima volta, hanno paura. Di notte l'anima di questi oggetti parla bisbigliando». La cosa spaventosa era il silenzio in cui era immersa questa incredibile moltitudine di oggetti. Dietro di noi si udiva lo scricchiolio del sigillo che veniva apposto alla serratura della porta e noi, assolutamente immobili, ci guardavamo attorno ammirati. Vidi spade, avori, caftani, candelabri d'argento, bandiere di raso. Vidi scatole di madreperla, casse di ferro, vasi cinesi, cinture, strumenti musicali, corazze, cuscini di seta, sfere che mostrano il mondo, stivali, pellicce, corni di rinoceronte, uova di struzzo miniate, fucili, frecce, mazze, armadi, armadi, e ancora armadi. Dappertutto era pieno di stoffe, tappeti e tessuti pregiati, e sembrava colassero giu’, su di me, in un'unica lentissima massa, dai piani superiori ricoperti di legno, dai parapetti, dagli armadi a muro, dalle piccole nicchie costruite nei muri. Sulle stoffe, le scatole, i caftani dei sultani, le spade, le grandi candele rosa, i turbanti, i cuscini coperti di perle, le selle ricamate d'oro, le scimitarre dall'impugnatura intarsiata di diamanti, le mazze con i rubini sul manico, i turbanti imbottiti, i pennacchi, gli strani orologi, le statue di cavalli ed elefanti d'avorio, i narghile’ con il coperchio di diamanti, i cassetti di madreperla, i pennacchi dei cavalli, i grossi rosari, gli elmi ornati di rubini e turchesi, le brocche e i pugnali, sembrava si riflettesse una strana luce, una luce che non avevo mai visto prima. Questa luce, che filtrava appena dalle finestre di sopra, proprio come la luce del sole che, in un giorno d'estate, entra dalla lanterna sopra la cupola di una moschea, illuminava i granelli di polvere nella stanza in penombra, ma non era la luce del sole. Grazie a questa strana luce, l'aria era quasi diventata palpabile e tutti gli oggetti sembravano fatti dello stesso materiale. Dopo aver ascoltato, spaventati e tutti insieme, il silenzio della stanza ancora per un po', mi resi conto che la cosa che faceva sbiadire il rosso dominante sulla gelida stanza e che rendeva della stessa misteriosa consistenza ogni oggetto, era la polvere che copriva tutto. Quel che rendeva piu’ orribile tutta questa massa era il fatto che l'occhio si mescolava a questi oggetti strani e indistinti e non riusciva a capire cosa fossero neanche al secondo o al terzo sguardo. Un oggetto che prima mi era sembrato una cassa, adesso mi sembrava un leggio e poi uno strano strumento europeo. Capivo che la cassa di madreperla tra i caftani e i pennacchi tirati fuori dalle casse e buttati alla rinfusa, in realta’ era uno strano forziere mandato dallo Zar di Mosca. Cezmi Agha’ sistemo’ con una certa dimestichezza il braciere nel focolare aperto nel muro. «Dove sono i libri?», bisbiglio’ Maestro Osman. «Quali libri? - domando’ il nano. - Quelli che vengono dall'Arabia, o i Corani in stile cufico, quelli che porto’ da Tabriz quel sant'uomo del Sultano Yavuz Selim, o quelli sequestrati ai pascia’ condannati a morte, o i volumi portati in dono ai nonni del Nostro Sultano dall'ambasciatore veneziano, o i libri cristiani che risalgono ai tempi di Maometto il Conquistatore?» «Quelli che trent'anni fa Scia’ Tahmasp ha inviato in dono a quel sant'uomo del Sultano Yavuz Selim», disse Maestro Osman. Il nano ci condusse accanto a un grande armadio di legno. Ne apri’ le ante, ma quando Maestro Osman si vide i volumi davanti comincio’ a spazientirsi. Apri’ un volume, lesse la firma del calligrafo, ne sfoglio’ le pagine. Insieme a lui, anch'io guardai stupito le pagine, i disegni di khan dagli occhi lievemente a mandorla, disegnati uno a uno, con grande cura. «Gengiz Khan, çagatay Khan, Tuluy Khan, Kubilay Khan imperatore della Cina», lesse Maestro Osman, chiuse il volume e ne prese un altro. Ci trovammo di fronte un disegno incredibilmente bello che mostrava la scena in cui Ferhat, con la forza dell'amore, prende sulle spalle la sua amata sirin insieme al cavallo e la porta con dolore. Per mettere in rilievo la passione e la tristezza degli innamorati, le rocce delle montagne, le nuvole e le foglie dei tre nobili cipressi, testimoni dell'amore di Ferhat, erano state disegnate dal tremolio di una mano triste con un dolore cosi’ intenso che fummo subito contagiati dal sapore di lacrime e dalla tristezza delle foglie che cadevano. Questa toccante rappresentazione non era stata disegnata, come fanno tutti i grandi maestri, per indicare la forza del braccio di Ferhat, ma per esprimere che tutto il mondo in quel momento provava le pene dell'amore. Maestro Osman disse: «una delle imitazioni di Behzat fatte ottant'anni fa a Tabriz», mise il volume al suo posto e ne apri’ un altro. Si trattava di un disegno che illustrava l'amicizia forzata tra gatto e topo dal Kelila e Dimna. Il povero topo schiacciato nel campo tra gli assalti della martora da terra e del nibbio dal cielo, trova salvezza in un povero gatto caduto nella trappola di un cacciatore. Si mettono d'accordo. Il gatto comportandosi da amico lecca affettuosamente il topo. La martora e il nibbio hanno paura del gatto e decidono di non dare piu’ la caccia al topo. Quindi il topo libera con prudenza il gatto dalla trappola. Prima che potessi capire la sensibilita’ del miniaturista, il maestro aveva gia’ rimesso il libro accanto agli altri e aperto un'altra pagina di un altro volume a caso. Era un gradevole ritratto di una donna misteriosa che, aprendo delicatamente una mano, chiedeva qualcosa e con l'altra si teneva un ginocchio sopra il mantello verde e poi di un uomo che, girato di profilo verso di lei, la ascoltava attentamente. Invidioso dell'intimita’, dell'amore e dell'amicizia che c'era tra loro, guardai il disegno con piacere. Maestro Osman lo lascio’ e passo’ a una pagina di un altro libro. I cavalieri degli eserciti dell'Iran e del Turan, eterni nemici, avevano indossato le loro corazze, gli elmi, gli schinieri, gli archi, le faretre, le frecce e avevano montato quei bellissimi e leggendari cavalli armati fino al collo e si erano allineati in una steppa con uno sfondo giallo polvere
rizzando le loro lance dalla punta adorna di vari colori e, prima di attaccarsi a morte, contemplavano pazienti la lotta dei loro comandanti che si erano buttati avanti per primi cominciando a combattere. Stavo per dire a me stesso che cio’ che disegna e mostra veramente il miniaturista, vero credente, e’ la guerra che fa con se stesso e l'amore per la pittura, e questo non cambia se il disegno e’ di oggi o di cent'anni fa, che rappresenti la guerra o l'amore. Significa che quel che disegna un miniaturista e’ la propria pazienza, questo stavo per dire a me stesso, quando: «Non e’ neanche questo», affermo’ Maestro Osman, chiudendo il pesante volume. In un album, vedemmo il disegno di un vasto panorama che si allungava dove le montagne alte scomparivano tra nuvole ricciute. Pensai che disegnare significasse guardare questo mondo e poterlo mostrare come se fosse l'altro mondo. Maestro Osman racconto’ come questo disegno cinese potesse essere giunto a Istanbul dalla Cina, prima da Bukhara a Herat, poi da Herat a Tabriz e da Tabriz al Palazzo del Nostro Sultano dopo essere entrato e uscito da diversi libri, strappato da volumi fatti a pezzi, poi rilegato assieme ad altri disegni. Vedemmo disegni di guerra e di morte, uno piu’ terribile e piu’ bello dell'altro: Rüstem e Scia’ Mâzenderân; Rüstem che attacca l'esercito di Afrasiyab; Rüstem il misterioso e irriconoscibile guerriero dentro la corazza... In un altro album ammirammo eserciti leggendari che non riuscivamo a identificare, cadaveri fatti a pezzi mentre combattevano spietatamente, pugnali insanguinati, soldati infelici con il riflesso della luce della morte negli occhi, guerrieri che si straziavano a vicenda come fossero cipolle. Per l'ennesima volta, Maestro Osman guardo’ il disegno in cui Cosroe spiava sirin che, di notte, si bagna nel lago alla luce della luna, i due innamorati, Leyla e Mejnun che quando s'incontrano dopo una lunga separazione, svengono entrambi, e il vivace e felice disegno di Salâman e Absal che fuggono su un'isola felice rimanendo soli, tra alberi, fiori e uccelli e, come un vero grande maestro, anche con la peggiore delle illustrazioni, egli fu capace di attirare la mia attenzione sulla stranezza che si notava in un angolo, forse per la debolezza d'animo del miniaturista, forse per un discorso costruito spontaneamente dai colori. Mentre Cosroe e sirin ascoltavano le dolci favole raccontate dalle loro damigelle, quale miniaturista infelice e malevolo aveva messo quel gufo iellato su un ramo di albero dove non avrebbe dovuto assolutamente posarsi? Chi aveva sistemato quel bel ragazzino vestito da donna tra le egiziane che sbucciando le arance si tagliano le dita per contemplare la bellezza di Giuseppe? Il miniaturista che aveva disegnato l'accecamento di Isfendiyar con una freccia, avrebbe mai potuto immaginare che, un giorno, a diventare cieco sarebbe stato lui? Vedemmo gli angeli che circondano il Nostro Profeta mentre sale in cielo, il vecchio dalla carnagione scura, con sei braccia e la barba lunga che rappresenta Saturno, Rüstem bambino che dorme tranquillo nella sua culla intarsiata di madreperla sotto lo sguardo della madre e delle balie. La dolorosa morte di Dario tra le braccia di Alessandro Magno, Behram Gür che si chiude nella stanza scarlatta con la principessa russa, Siyavus che passa in mezzo alle fiamme con un cavallo nero che non portava alcuna firma segreta sul naso, il triste funerale di Cosroe ucciso dal figlio. Maestro Osman, scegliendo e lasciando i volumi in fretta, a volte riconosceva un miniaturista e me lo indicava, trovava la firma timidamente nascosta tra i fiori, nell'ombra di un rudere oppure in un angolo del pozzo buio dove si nascondeva lo spirito, e guardando le firme e i segni spiegava chi avesse rubato cosa a chi. Di alcuni volumi girava le pagine, pensando di trovare qualche pagina illustrata. A volte c'erano lunghi silenzi e si udiva solo il vago fruscio delle pagine. Altre volte Maestro Osman cacciava un urlo «Aah!», e io non capendo perche’ si stupisse, rimanevo zitto. Mi ricordava che avevamo incontrato lo stesso ordine di pagina, lo stesso ammassamento di alberi e cavalieri in altri disegni di altri volumi, in altre rappresentazioni di storie completamente diverse e apriva i disegni per farmeli vedere. Confrontava un disegno di un volume dell'Hamse di Nizami realizzato al tempo del figlio di Tamerlano, Scia’ Reza, cioe’ quasi duecento anni fa, con un disegno di un volume che riteneva fosse stato realizzato settanta o ottant'anni fa a Tabriz e mi chiedeva come mai i miniaturisti avessero fatto lo stesso disegno senza aver mai visto uno l'opera dell'altro; poi si dava la risposta da solo: «Disegnare e’ ricordare». Apriva e chiudeva gli antichi volumi, si rattristava di fronte a quelle meraviglie (perche’ ormai nessuno riusciva piu’ a disegnare cosi’), si rallegrava di fronte all'incapacita’ (perche’ in realta’ noi miniaturisti eravamo tutti fratelli!), mostrava quello che il miniaturista aveva ricordato, i vecchi disegni di alberi, gli angeli, gli ombrelli, le tigri, le tende, i draghi e i principi tristi e li confrontava tra loro. Una volta Allah aveva veduto il mondo nel suo stato piu’ straordinario e, credendo alla bellezza di quanto aveva visto, l'aveva lasciato alle sue creature. Il lavoro di noi miniaturisti e quello degli amanti della miniatura era ricordare questo meraviglioso panorama che Allah aveva visto e ci aveva lasciato. I piu’ grandi maestri di ogni generazione, con sforzo e ispirazione, cercavano di raggiungere e disegnare questa meravigliosa immagine che Allah diceva agli uomini di vedere, dedicandovi tutta la vita e lavorando fino a diventare ciechi. Con il loro lavoro riportavano alla memoria i propri ricordi dorati. Ma, purtroppo, anche i piu’ grandi maestri, proprio come i vecchi stanchi e i grandi miniaturisti divenuti ciechi a furia di lavorare, di quel meraviglioso disegno riuscivano a ricordare vagamente solo qualcosa. Malgrado non avessero mai visto l'uno le opere dell'altro e, inoltre, ci fossero tra loro centinaia di anni di differenza, gli antichi maestri di tanto in tanto disegnavano allo stesso modo, era una specie di miracolo: un albero, un uccello, un principe che si lava nell'hamam, la posizione di una triste fanciulla alla finestra, tutti uguali tra loro. Dopo un bel po', quando la luce rossa della stanza del Tesoro si fece lievemente piu’ cupa, e si capi’ che nell'armadio non era rimasto neanche uno dei libri recati in dono da Scia’ Tahmasp al nonno del Nostro Sultano, Maestro Osman riprese lo stesso ragionamento: «A volte, l'ala di un uccello, l'attaccatura di una foglia all'albero, la piega dell'orlo di una cornice, la posizione di una
nuvola nell'aria, il sorriso di una donna vengono mostrati, insegnati, studiati a memoria dal maestro all'apprendista per generazioni, e celati per secoli. Il maestro miniaturista non dimentica mai un dettaglio appreso dal suo maestro e pensando che sia un modello, crede con tutto il cuore alla sua immutabilita’ come crede all'immutabilita’ del Corano e, come se studiasse a memoria il Corano, lo incide nella memoria. Ma il fatto di non dimenticarlo non significa assolutamente che il maestro usera’ sempre e solo questo dettaglio. Le abitudini del laboratorio dove il miniaturista consuma la luce dei suoi occhi, del maestro capriccioso accanto al quale disegna, il suo gusto per i colori e i gusti del sultano, qualche volta non gli permettono di disegnare questo dettaglio, e allora lui non disegna l'ala di un uccello o il sorriso di una donna...» «Oppure il naso di un cavallo», lo interruppi di colpo. «Oppure il naso di un cavallo... - riprese Maestro Osman senza assolutamente sorridere, - ... come sono penetrati nelle profondita’ della sua anima, ma li disegna secondo le abitudini del laboratorio in cui lavora in quel momento, nel modo in cui disegnano tutti. Capisci?» Lesse un'iscrizione incisa sulla pietra del muro del palazzo, in una pagina che mostrava sirin sul trono, dal Cosroe e sirin di Nizami, ne avevamo gia’ esaminate molte copie. Supremo Allah, proteggi la forza, l'impero, il paese del Nostro Nobile Sultano, Nostro Imperatore Giusto, figlio del vittorioso khan Tamerlano in modo che lui sia felice (questo era inciso sulla pietra a sinistra) e ricco (questo sulla pietra a destra). «Dove troveremo i disegni in cui il miniaturista ha disegnato il naso del cavallo com'era inciso nella sua memoria?», chiesi poi. «Dobbiamo trovare il volume del leggendario Libro dei Re che Scia’ Tahmasp ha mandato in dono, - disse Maestro Osman. - Dobbiamo andare a quei bei tempi vecchi e leggendari in cui Allah partecipava alla realizzazione della miniatura. Abbiamo ancora molti libri da guardare». Mi passo’ per la testa che il vero obiettivo di Maestro Osman non fosse trovare i cavalli dal naso strano, ma poter guardare il piu’ a lungo possibile questi meravigliosi disegni che dormivano da anni nella stanza del Tesoro, lontani dagli occhi di tutti. Ero talmente ansioso di trovare gli indizi che mi avrebbero fatto riabbracciare seküre che mi aspettava a casa da rifiutarmi di credere che il grande maestro potesse voler rimanere nella gelida stanza del Tesoro il piu’ possibile. Cosi’, con le indicazioni dell'anziano nano, continuammo ad aprire altri armadi, altre casse e a guardare i disegni. A volte mi stufavo di quei disegni tutti cosi’ simili tra loro, non ne potevo piu’ di vedere Cosroe che andava ad ammirare sirin sotto la finestra della sua dimora, mi allontanavo dal maestro senza nemmeno dare un'occhiata al naso del cavallo di Cosroe, cercavo di riscaldarmi accanto al braciere o camminavo con rispetto e ammirazione tra la spaventosa massa di stoffe, oro, bottino, armi e corazze nelle altre stanze del Tesoro che si aprivano una dopo l'altra. Invece, a volte, per un'esclamazione di Maestro Osman o per un gesto della sua mano, immaginavo che in un nuovo volume fosse apparsa una nuova meraviglia, oppure, si’, alla fine, in una qualche pagina, un cavallo dal naso strano e correvo accanto a lui; guardando la pagina che il maestro teneva tra le mani che tremavano leggermente, rannicchiato su un tappeto di Usak risalente ai lontani tempi del Sultano Maometto il Conquistatore, incontravo un disegno mai visto prima, Satana che, infido, saliva sull'Arca del profeta Noe’. Contemplammo felici e beati la cacciata di centinaia di scia’, re, imperatori e sultani saliti sul trono di vari stati a cominciare dai tempi di Tamerlano fino al Sultano Solimano il Magnifico, tra gazzelle, leoni, conigli. Vedemmo che anche Satana rimaneva a bocca aperta e si meravigliava dello svergognato che violentava un cammello dopo essersi costruito una scaletta con pezzi di legno legandoli alle rotule delle gambe posteriori dell'animale indifeso. In un libro in arabo, proveniente da Baghdad, vedemmo il volo del commerciante che attraversava i mari planando, aggrappato alle zampe del leggendario uccello. Nella prima pagina del volume successivo che si apri’ spontaneamente, ammirammo la rappresentazione che piu’ piaceva a me e a seküre: sirin che s'innamora di Cosroe guardando il suo ritratto appeso all'albero. Vedendo il disegno che rappresentava il meccanismo di un complesso orologio fatto di carrucole, uccelli e statuette arabe sistemati sul dorso di un elefante, ci ricordammo del tempo. Non so per quanto rimanemmo cosi’ a guardare i volumi e i disegni, passando dall'uno all'altro. Era come se un tempo dorato, che non scorreva e non mutava, scandito dai disegni e dalle storie che guardavamo, si mescolasse al tempo ammuffito e umido che vivevamo nella stanza del Tesoro. Le pagine disegnate nei laboratori dei vari scia’, principi, khan, sultani sacrificando la luce degli occhi, dopo tanti anni passati nelle casse, sembravano rianimarsi mettendo in movimento elmi, spade con l'impugnatura incastonata di diamanti, e ancora pugnali, corazze, tazze provenienti dalla lontana Cina, delicati liuti impolverati, cuscini coperti di perle che era possibile vedere veramente solo nei disegni e kilim e ancora cavalli che ci circondavano. «Adesso capisco che migliaia di miniaturisti, facendo in delicato segreto sempre gli stessi disegni per secoli, avevano disegnato il segreto e delicato trasformarsi del mondo in un altro mondo». Confesso di non avere capito del tutto cosa intendesse il grande maestro. Ma l'attenzione che mostrava per quelle migliaia di disegni fatti negli ultimi duecento anni, iniziando da Bukhara e Herat, fino a Tabriz, Baghdad e Istanbul, andava ben oltre la ricerca di un segno nelle narici dei cavalli. Stavamo compiendo una specie di triste cerimonia in onore dell'ispirazione, del talento e della pazienza dei grandi maestri che, su quelle terre, disegnavano e facevano miniature da un paio di secoli. Per questo motivo, quando, all'ora della preghiera serale, le porte della stanza del Tesoro si aprirono, e quando Maestro Osman mi disse che non aveva voglia di uscire, e che solo guardando i disegni fino al mattino alla luce delle candele e delle lampade avrebbe meritevolmente portato a termine l'incarico affidatogli dal Nostro Sultano, la prima cosa che pensai fu di rimanere qui con lui - e con il nano - e glielo comunicai.
Quando le porte si aprirono e il mio maestro confermo’ questa nostra decisione agli agha’ che attendevano fuori e chiese il permesso al Tesoriere, io gia’ ne ero pentito. seküre e la casa mi mancavano molto. Ero sulle spine pensando a come avrebbero passato la notte, ai bambini, chiedendomi se avrebbero chiuso le finestre con le persiane ormai riparate. I grandi platani bagnati nel cortile del Palazzo Interno, che s'intravedevano in mezzo a una vaga nebbia dall'anta socchiusa della porta della stanza del Tesoro, e i movimenti di due giovani paggi che parlottavano a gesti per non disturbare il Nostro Sultano, mi richiamarono alla mente la meravigliosa vita che c'era fuori, ma restai immobile, in preda ai sensi di colpa e alla vergogna.
Capitolo cinquantesimo. Noi, due poveri dervisci Visto che, probabilmente grazie al nano Cezmi Agha’, le voci sulla nostra esistenza sono giunte fino alla squadra dei miniaturisti, mentre noi ci trovavamo in un album nascosto nel piu’ segreto angolo del Tesoro accumulato dagli antenati del Nostro Sultano in centinaia di anni, conquistando e saccheggiando centinaia di Paesi, tra le pagine provenienti dalla Cina, da Samarcanda e da Herat, possiamo ormai raccontare la nostra storia con il nostro stile, sperando che, nella folla distinta che riempie questo bel caffe’, non ci sia nessuno che possa offendersi. Sono passati centodieci anni da quando siamo morti, e una quarantina dalla chiusura dei nostri conventi - luoghi di atei, tane del demonio - perche’ si pensava che non fosse possibile che ci ravvedessimo e che fossimo sostenitori della Persia, eppure guardateci, siamo di nuovo qui davanti a voi. Perche’? Perche’ siamo stati disegnati secondo lo stile europeo! Come si vede in questo disegno, un giorno, noi due poveri dervisci andavamo in giro di citta’ in citta’, nelle terre del Nostro Sultano. A piedi scalzi, a capo scoperto, mezzi nudi, col panciotto e una pelle di cervo, una cintura in vita, in mano un bastone con l'estremita’ ricurva, al collo le scodelle da mendicante legate alla catena, uno con l'ascia per tagliare la legna, l'altro con il cucchiaio per mangiare quel che Allah faceva entrare nelle nostre scodelle. Allora, io e il mio bell'amico, il mio amore, mio fratello, ci eravamo dedicati alla solita discussione: chi avrebbe preso per primo il cucchiaio e avrebbe mangiato dalla scodella? Stavamo dicendo, no prima tu, no prima tu, quando, accanto a una fontana, fummo fermati da uno strano tipo, era un viaggiatore europeo che ci diede una moneta d'oro veneziana ciascuno e comincio’ a fare il nostro ritratto. Era europeo, era strano. Ci sistemo’ proprio in mezzo al foglio come se fossimo la tenda del Nostro Sultano e ci ritrasse cosi’ come eravamo, mezzi nudi; pensai subito di fare lo sguardo del cieco, facendo apparire solo il bianco degli occhi per sembrare entrambi due veri poverelli, due dervisci erranti dell'ordine dei kalenderi, cosi’ lo dissi al mio compagno e rovesciammo gli occhi. In questa condizione, naturalmente, il derviscio non contempla il mondo esteriore, ma il mondo che ha nella testa, e dato che noi avevamo la testa piena d'oppio, il panorama interno era molto piacevole. Nel frattempo il panorama esterno si era guastato ancor di piu’. Perche’ udimmo un maestro effendi gridare. Che non ci siano malintesi. Abbiamo detto maestro effendi, ma, una settimana fa hanno frainteso in questo bel caffe’, questo maestro effendi non e’ assolutamente il predicatore di Erzurum, Maestro Nusret, non e’ neanche Maestro Husret, che non si sa di chi sia figlio, e neanche quel maestro di Sivas che si accoppio’ con Satana sull'albero. Perche’ coloro che pensano sempre male hanno detto che se il cantastorie sparla di Maestro Effendi, gli taglieranno la lingua e gli verseranno il caffe’ in testa. Centoventi anni fa, il caffe’ non c'era, ma quel maestro effendi di cui parliamo nella nostra storia era comunque fumante di rabbia. «Cosa disegni a fare questi due, infedele europeo! - diceva. - Questi vergognosi dervisci kalenderi che girano mendicando, fumano oppio, bevono vino, scopano tra di loro e, come si vede dal fatto che girano mezzi nudi, non sanno cosa siano preghiera, casa, famiglia, patria, sono la vergogna del mondo. Perche’ disegni il male mentre in questo nostro Paese ci sono tante bellezze? Per farci del male?» «Affatto, ma disegnare le cose brutte porta piu’ denaro», rispose l'infedele e noi due dervisci ci meravigliammo della forza dell'intelligenza di questo miniaturista. «Se ti rendesse di piu’, faresti piu’ bello anche Satana?», chiese il maestro effendi cercando di trascinarlo in un'astuta discussione, ma come si capisce da questo disegno, il miniaturista europeo era un vero artista, non pensava alle parole vane ma ai fatti concreti, ai soldi, e non gli diede retta. Cosi’ ci disegno’, sistemo’ il disegno nella cartella dietro la sella del cavallo e ritorno’ al suo paese infedele, ma il vittorioso esercito degli Ottomani conquisto’ e saccheggio’ quella citta’ sulla sponda del fiume Danubio, e noi ritornammo a Istanbul e giungemmo fino alla stanza del Tesoro. E da li’, dopo essere stati osservati e copiati, finimmo in un quaderno segreto, poi in un altro libro e alla fine in questa felice sala dove il caffe’ si beve come un elisir che da’ vita alla vita. Adesso: Una breve spiegazione riguardo al disegno, alla morte e al nostro posto nel mondo Il maestro effendi di Konya di cui parlavamo poco fa, in una parte del voluminoso libro in cui aveva raccolto le sue
prediche facendole scrivere, diceva: i kalenderi sono persone di troppo nel mondo. Perche’ le persone nel mondo sono divise in quattro classi: 1. Signori, 2. Mercanti, 3. Agricoltori, 4. Artisti. Se non si rientra in nessuna di queste classi, allora vuol dire che si e’ di troppo. Diceva inoltre: «Questi girano sempre in due e discutono sempre su chi mangera’ per primo con in mano un solo cucchiaio», ma e’ solo un'allusione alla vera questione, e cioe’ chi scopera’ per primo l'altro, e chi non lo sa ride senza capire. Ci raccomandiamo, che il maestro non venga male interpretato, dato che segue la nostra stessa via, e come tutti i bei ragazzi, gli apprendisti e la squadra dei miniaturisti, aveva capito il nostro segreto. Ma il vero segreto e’ questo: mentre ci ritraeva, l'infedele europeo ci guardava in un modo cosi’ dolce e attento che noi amavamo lui e il fatto che ci ritraesse. Sbagliava a guardare il mondo a occhi nudi e disegnando quello che vedeva, cosi’ disegnava noi, che in realta’ vedevamo, come dei ciechi, ma non ci facemmo caso. Adesso siamo molto contenti. Secondo il maestro effendi siamo all'Inferno, secondo alcuni miscredenti siamo solo cadaveri putrefatti e invece per voi miniaturisti intelligenti qui riuniti siamo un disegno e, in quanto disegno, siamo - che bello - davanti a voi come fossimo vivi. Perche’ dopo aver incontrato il solito maestro effendi, andammo da Konya a Sivas passando per tre locande e sette villaggi e mendicando, poi una notte fece molto freddo e nevico’, cosi’ noi due poveri dervisci ci abbracciammo, ci addormentammo e morimmo congelati. Prima di morire sognai di essere disegnato e che il mio disegno, dopo aver vissuto migliaia di anni, andava in Paradiso.
Capitolo cinquantunesimo. Io, Maestro Osman C'e’ una storia che si racconta a Bukhara, risale ai tempi lontani di Abdullah Khan. Il khan uzbeco era un sovrano molto sospettoso, e benche’ non fosse contrario al fatto che un disegno venisse toccato dalla penna di piu’ di un miniaturista, non gli piaceva assolutamente che i maestri confrontassero i disegni tra loro e si imitassero a vicenda. Perche’ se disegnando veniva commesso un errore, diventava impossibile trovare il colpevole tra i miniaturisti che si imitavano spudoratamente. E, peggio ancora, i miniaturisti che rubavano uno dall'altro, dopo un po', invece di sforzarsi e cercare i ricordi di Allah nel buio, riproducevano pigramente cio’ che vedevano guardando sopra la spalla di chi avevano accanto. Per questo motivo, il khan uzbeco accolse i due grandi maestri che, fuggendo da guerre e scia’ crudeli, si rifugiarono presso di lui - uno veniva da Sud, da Shiraz, e l'altro da Oriente, da Samarcanda - ma proibi’ a questi due famosi talenti di guardare l'uno i disegni dell'altro e li confino’ in due studioli ai due angoli opposti del suo palazzo. Cosi’, i due grandi maestri, per esattamente trentasette anni e quattro mesi, come se ascoltassero una leggenda, sentirono da Abdullah Khan quanto fossero meravigliose le pagine dell'altro, pagine che non potevano vedere, in quali punti e per quali motivi stranamente si assomigliavano, con reciproca e tremenda curiosita’. Quando, dopo una vita lunga quanto quella di una tartaruga, il khan uzbeco mori’, i due anziani maestri corsero uno nello studio dell'altro per vedere i disegni. Seduti assieme sui due angoli di uno stesso cuscino, uno con i libri dell'altro in grembo, guardarono l'uno i disegni dell'altro, disegni che conoscevano solo grazie ai racconti di Abdullah Khan, ed entrambi rimasero delusi. Perche’ i disegni che guardavano non sembrarono loro leggendari come quelli di cui parlava il khan, erano normali e privi di luce, confusi come tutti i disegni che avevano visto negli ultimi anni. I due grandi maestri non capirono che il motivo di questa confusione era la cecita’ che stava per colpirli, e quando poi divennero completamente ciechi, pensando di essere stati ingannati per tutta la vita, morirono con la convinzione che i sogni fossero piu’ belli dei disegni. A mezzanotte, nella gelida stanza del Tesoro, mentre, con le dita ghiacciate dal freddo, sfogliavo le pagine dei libri che per quarant'anni avevo sognato di vedere e le ammiravo, ero molto piu’ felice dei protagonisti di questa crudele storia di Bukhara. Il fatto di prendere in mano libri di cui per tutta la vita avevo sentito le leggende, prima di diventare cieco e morire, mi entusiasmava talmente che a volte, vedendo che una pagina era ancora piu’ bella di quanto si diceva, mormoravo «Grazie, grazie Allah». Ad esempio, ottant'anni fa, quando Scia’ Ismail attraverso’ il fiume e si riprese Herat e tutto il Khorasan con la forza della spada lasciando al governo di Herat suo fratello Sam Mirza, il fratello, per festeggiare questa gioia, fece preparare un libro intitolato L'incontro delle stelle che narrava una leggenda simile a quella nota nel Palazzo di Emir Hüsrev di Delhi. Un disegno di questo libro, come avevo sentito raccontare, mostrava due sovrani che festeggiavano il loro incontro e la loro vittoria sulla sponda di un fiume, i volti di questi due sovrani somigliavano sia a quelli del sultano di Delhi Keykubat e di suo padre Bugra Khan, il sovrano del Bengala di cui il libro parlava, che a quelli di Scia’ Ismail e di suo fratello Sam Mirza, coloro che commissionarono il libro. Quando, guardando il disegno, fui sicuro di riconoscere nella tenda del sultano i volti degli eroi appartenenti alla storia che avevo in mente, ringraziai Allah per avermi dato l'occasione di vedere questo miracolo. In un disegno di Maestro Muhammed, uno dei grandi maestri della stessa epoca leggendaria, un povero servo in cui l'ammirazione e l'affetto per il suo sultano avevano raggiunto il livello di amore, era stato disegnato mentre attendeva a lungo e con pazienza che la palla con cui il suo sultano giocava a polo giungesse a lui per afferrarla e porgergliela; poi, quando la palla gli giungeva veramente, lui la raccoglieva da terra e la porgeva al sultano. Come avevo sentito migliaia di volte, l'amore, l'ammirazione e la sottomissione che giustamente proverebbe un povero servo per un sommo sovrano o un bell'apprendista giovane per un grande maestro, erano stati disegnati con tale sensibilita’ e con un'intuizione cosi’
profonda, a cominciare dall'estensione delle dita del servo che tenevano la palla fino al suo timore di guardare in faccia il sultano, che chi guardava questa pagina, come sentivo anch'io profondamente, capiva che la felicita’ piu’ grande del mondo era essere maestro di apprendisti giovani, belli e comprensivi, cosi’ come essere apprendista di un grande maestro con una sottomissione che arriva alla schiavitu’, ed ero triste per chi non l'avrebbe mai provata. Mentre sfogliavo le pagine e guardavo attento e veloce le migliaia di uccelli, cavalli, soldati, innamorati, giganti, alberi, nuvole, il compiaciuto nano del Tesoro, come uno scia’ dei tempi andati che coglie l'occasione per esibire le proprie ricchezze, tirava fuori dalle casse nuovi volumi e me li metteva davanti vantandosene in maniera sfrontata. Le pagine di questi magnifici volumi, uno di colore purpureo rilegato col metodo di Shiraz, l'altro con la copertina di lacca scura, fatta a Herat in stile cinese, usciti da due diversi angoli di una cassa di ferro piena di libri meravigliosi, volumi ordinari e album di calligrafia completamente mescolati, si assomigliavano talmente che all'inizio pensai che fossero uno la copia dell'altro. Cercando di indovinare quale fosse l'originale e quale l'imitazione, seguii i nomi dei calligrafi nella pagina delle firme, cercai le firme segrete, e alla fine capii con un brivido che questi due volumi dell'Hamse di Nizami erano i leggendari libri che Maestro Ali di Tabriz aveva fatto per Scia’ Cihan, khan del Montone Nero e per Uzun Hasan, khan del Montone Bianco. Quando venne accecato dallo scia’ del Montone Nero, il grande maestro, rifugiatosi presso Uzun Hasan, khan del Montone Bianco, ne aveva disegnato a memoria un altro ancora migliore del primo. Vedere che i disegni del secondo dei leggendari volumi fatti ormai da cieco erano piu’ semplici e genuini, mentre i colori del primo erano piu’ vivaci e pieni di vita, mi rammento’ che i ricordi dei ciechi mettono in evidenza la spietata semplicita’ della vita, ma ne uccidono la vivacita’. So di essere un grande maestro e Allah che tutto vede e tutto sa vede anche questo, e un giorno anch'io diventero’ cieco, ma adesso lo voglio? Come un condannato a morte che vuole guardare per un'ultima volta il panorama prima del colpo in testa, dissi al sommo Allah: «Che io veda tutti questi disegni, che mi sazi gli occhi», perche’ nel buio magnifico e terribile della stanza del Tesoro cosi’ piena di oggetti, l'esistenza di Allah si sentiva da molto vicino. Nelle pagine che sfogliavo, spesso incontravo leggende e proverbi sulla cecita’, un mistero di Allah. Maestro Ali Reza di Shiraz, che nella sua famosa rappresentazione di come sirin, durante una passeggiata in campagna si innamora di Cosroe guardando un suo ritratto appeso al ramo di un platano, aveva disegnato tutte le foglie del platano una a una, in modo da coprire il cielo, come in risposta a uno stupido che guardando il disegno avrebbe potuto dire che il vero tema non era il platano, e aveva tentato di disegnare di nuovo lo stesso platano con tutte le sue foglie su un chicco di riso, per dimostrare orgogliosamente che il vero tema della miniatura non era la passione della giovane e bella fanciulla, ma la passione del miniaturista. Naturalmente non vidi questo albero sul chicco di riso - riusci’ a farne solo meta’ perche’ divenne cieco dopo sette anni e tre mesi dall'inizio del lavoro - ma il meraviglioso albero del maestro disegnato sul foglio, se la firma apposta con orgoglio sotto i bei piedi delle graziose damigelle di sirin non mi ingannava. In un'altra pagina, invece, aveva disegnato l'accecamento di Alessandro causato dalla freccia con la punta a tridente di Rüstem, e l'aveva fatto in maniera cosi’ vivace e multicolore, come fanno i miniaturisti consci dei metodi indiani, che a chi guardava il disegno sembrava che la cecita’ - eterno problema e segreto desiderio del vero miniaturista - fosse l'inizio di una gioia felice. Contemplavo tutti questi disegni e volumi con l'entusiasmo di chi vuole vedere con i propri occhi le leggende di cui ha sentito parlare per anni, ma, nello stesso tempo, con l'agitazione di un anziano che intuisce che tra poco non li vedra’ piu’. Nella gelida stanza del Tesoro avvolta in un rosso cupo che non avevo mai visto e che era dovuto al colore delle stoffe, alla polvere e alla strana luce delle candele nei candelabri, a un mio grido di ammirazione, Nero e il nano mi venivano accanto, ammiravano da dietro le mie spalle le meravigliose pagine che stavo guardando e io non potevo fare a meno di descriverle. «Questo rosso e’ del grande maestro di Tabriz, Mirza Baba Imami, il rosso e’ il suo segreto, un segreto che ha portato con se’ nella tomba. Guardate, qui ha colorato il bordo del tappeto, qui il segno della setta dei kizilbas sul turbante dello scia’ dei saffavidi, in questa pagina la pancia di un leone, e qui il caftano di questo bel ragazzo. Questo bellissimo rosso che Allah non fa vedere direttamente alle sue creature, a parte quando fa versare il loro sangue, lo nasconde negli insetti rari, tra le pietre, per farlo poi cercare e trovare; nell'universo lo possiamo vedere a occhio nudo solo sulle stoffe fatte dall'uomo e nei disegni dei grandi maestri, - dicevo e aggiungevo - ringrazio chi ce lo fa vedere adesso». «Guardate questo», ripresi dopo un bel po' continuando a non trattenermi e mostrai loro un meraviglioso disegno che sarebbe potuto entrare in ogni libro di poesia che parli di amore, amicizia, primavera, felicita’. Guardando gli alberi della primavera in fiore con tutti i loro colori, i cipressi del giardino del Paradiso e la felicita’ degli innamorati seduti in questo giardino che, bevendo vino, leggevano poesie, nella stanza gelida del Tesoro che puzzava di muffa e polvere, ci parve quasi di sentire il dolce profumo dei fiori della primavera e della pelle degli innamorati felici. «Guardate la grossolanita’ della fattura del cipresso li’ dietro, e in un miniaturista che e’ riuscito a cogliere con il cuore le braccia degli innamorati, i loro bei piedi nudi, la finezza della loro posizione, la gioia degli uccelli che gli volano attorno! esclamai. - Questo e’ un disegno di Lütfi di Bukhara che lasciava sempre i suoi disegni a meta’ perche’ era capriccioso e attaccabrighe e non si fermava in nessuna citta’ e litigava con tutti i khan e gli scia’, ritenendo che non capissero nulla di pittura. Questo grande maestro che litigo’ continuamente e giro’ di citta’ in citta’, dal palazzo di uno scia’ all'altro e non trovo’ un sovrano per i cui libri valesse la pena di lavorare, alla fine si lego’ al laboratorio di miniatura di un signore che dominava le nude montagne e dicendo «Il suo paese e’ piccolo ma ama la miniatura», trascorse li’ gli ultimi
suoi venticinque anni. Ancora oggi si discute e si scherza sul fatto se sapesse o meno che il suo khan era cieco». «Vedete queste pagine? - chiesi molto dopo mezzanotte e questa volta, con i candelabri in mano, accorsero entrambi. Questo libro, da Herat fino a qui, dai tempi del nipote di Tamerlano fino a oggi, in centocinquant'anni ha cambiato dieci proprietari». Tutti e tre leggemmo, ingrandendole con la mia lente, le firme che riempivano ogni angolo della pagina a loro dedicata, le dediche, i cronogrammi, i nomi dei sultani uno sopra l'altro incastrati tra loro, che nella vita reale si erano strangolati a vicenda. «Questo libro e’ stato finito a Herat con l'aiuto di Allah dal calligrafo Sultan Veli, figlio di Muzaffer di Herat, nell'anno ottocentoquarantanove dall'Egira, per Ismet-üd Dünya, moglie di Muhammed Cûki, fratello del vittorioso Baysungur, il grande sovrano». Poi leggemmo che passo’ nelle mani del Sultano Halil del Montone Bianco e poi al figlio Yakup Bey, e da lui ai sultani uzbechi del Nord, e da questi sultani uzbechi - ognuno di loro si diverti’ felicemente per un po' con il libro, tolse un paio di disegni e ne fece mettere di nuovi, invidioso del precedente proprietario aggiunse ai disegni il viso della sua bella moglie e scrisse orgogliosamente il proprio nome sul frontespizio - il libro passo’ poi a Sam Mirza, fratello minore di Scia’ Ismail che conquisto’ Herat e che lo dono’ al fratello maggiore con una dedica a parte, e Scia’ Ismail lo porto’ a Tabriz, lo fece preparare come dono e ci fece scrivere una dedica, il beato Sultano Yavuz Selim Khan lo vinse a e saccheggio’ il Palazzo del Settimo Cielo a Tabriz, e il libro giunse a Istanbul, in questa stanza del Tesoro, assieme ai soldati del sultano vittorioso, dopo aver attraversato deserti, montagne e fiumi. Ma quanto condividevano Nero e il nano la mia attenzione e il mio entusiasmo da anziano miniaturista? Aprendo nuovi volumi e sfogliandone le pagine, sentivo dentro di me la profonda tristezza di migliaia di miniaturisti diventati ciechi disegnando abilmente in centinaia di citta’, piccole e grandi, al servizio di scia’, khan, signori diversi, uno piu’ crudele dell'altro. Mentre sfogliavo con vergogna le pagine di un libro primitivo che mostrava i metodi e gli strumenti di tortura, invece, sentii il dolore delle botte prese da tutti noi da apprendisti, degli schiaffoni ricevuti con i righelli fino ad avere le guance paonazze, dei colpi dati sulle nostre teste rasate con l'attrezzo di marmo per lucidare le pagine. Non so cosa ci facesse nel Tesoro degli ottomani quel misero libro commissionato a miniaturisti disonesti che accettavano di buttare giu’ frettolosamente questi disegni per due o tre monete d'oro da viaggiatori infedeli che poi lo utilizzavano per dimostrare ai loro correligionari quanto siamo tirannici e cattivi, e il nostro uso della tortura come mezzo per raggiungere la giustizia di Allah nel mondo. Ma io mi vergognai del vile piacere evidente nel miniaturista che disegnava bastonature sulle piante dei piedi, botte, crocifissioni, impiccagioni, gente appesa per i piedi, appesa a ganci, impalata, fatta volare al posto di una palla di cannone, inchiodata, strangolata, sgozzata, data in pasto ai cani affamati, frustata, messa in un sacco, torchiata, immersa nell'acqua gelida, con i capelli strappati, le dita spezzate, spellata finemente, con il naso tagliato e gli occhi cavati. Solo i veri miniaturisti come noi che sono stati spietatamente bastonati sulle piante dei piedi da apprendisti, picchiati alla cieca, presi a pugni perche’ il maestro nervoso che aveva sbagliato a tracciare una linea si rilassasse, picchiati per ore e ore con bastoni e righelli perche’ il demone dentro di noi morisse e si trasformasse in spirito di miniatura, possono godere cosi’ profondamente facendo disegni di bastonatura sulle piante dei piedi e torture e colorare questi strumenti allegramente come un bambino che colora il suo aquilone. Forse coloro che contemplano il mondo di noi miniaturisti da lontano, senza capirci molto ma con il desiderio di avvicinarsi e comprendere e alla fine non riescono ad avere questa pazienza, proprio come coloro che, dopo tanti secoli, contempleranno i disegni nei libri che abbiamo illustrato, possono intuire la vergogna e la felicita’, il profondo dolore e il piacere di vedere che provavo mentre guardavo i disegni in questa gelida stanza del Tesoro, ma non lo possono capire del tutto. Le mie vecchie dita che avevano perso la sensibilita’ per il freddo girando le pagine, la mia vecchia lente col manico di madreperla e il mio occhio sinistro passavano sopra i disegni come un'esperta cicogna nomade che ha attraversato tutto il mondo, passavano senza meravigliarsi del panorama sottostante, ma guardando comunque sempre con ammirazione e leggendo qualcosa di nuovo. Dalle pagine che non ci avevano mai mostrato - alcune di esse leggendarie - venivo a sapere da chi aveva imparato una certa cosa un certo miniaturista, in quali laboratori e sotto la protezione di quale scia’ avesse preso forma per la prima volta quello che adesso si chiama stile, al servizio di chi avesse lavorato un certo leggendario maestro, oppure, per esempio, che le nuvole ricciute di stile cinese che da Herat si erano diffuse in tutte le terre di Persia con l'influenza cinese, vennero usate anche a Kazvin e di tanto in tanto mi dicevo: «Ma pensa!» Eppure, il dolore che sentivo nel profondo, la tristezza e la vergogna che non potrei condividere con voi riguardava la sofferenza, l'umiliazione subita per la loro arte dai miniaturisti dal viso rotondo, dagli occhi di gazzella, alti e belli, di cui la maggior parte venne maltrattata dai maestri, il loro entusiasmo e la loro speranza, gli amori che vivevano con i loro maestri e l'amore comune per la miniatura, la speranza e la cecita’ che raggiungevano alla fine dei loro anni. Entrai con questa tristezza e questa vergogna in quel mondo di sentimenti delicati e raffinati che la mia anima silenziosamente stava dimenticando, perche’ da anni disegnavo per il Nostro Sultano disegni di guerre e di feste. In un album di calligrafia vidi un ragazzo persiano dalle labbra rosse e dalla vita sottile che, proprio come facevo io in quel momento, teneva un libro in grembo, e ricordai quel che gli scia’ ricchi e potenti avevano dimenticato: che tutte le cose belle sono di Allah. Nella pagina di un altro album contemplai con le lacrime agli occhi due giovani innamorati meravigliosamente belli disegnati da un giovane maestro di Isfahan, e mi ricordai dell'amore dei miei begli apprendisti per la miniatura. La bella ragazza dalle labbra di ciliegia, dagli occhi a mandorla, dal naso all'insu’, alta e snella, aveva scoperto l'esile braccio - con una pelle che faceva venire voglia di baciarla e poi morire - del giovane dai piedi piccoli come lei, dalla pelle trasparaee fossero tre bei fiori, i piccoli e profondi segni d'amore che il giovane si era procurato nella parte interna del braccio bruciandosi col fuoco per dimostrare la forza del suo amore e la sua fedelta’. Stranamente, il cuore comincio’ a battermi forte. Come accadeva quando, sessant'anni fa, da apprendista guardavo i
disegni a penna un po' audaci che mostravano bei ragazzi dalla pelle di marmo e belle ragazze sottili dai seni piccoli, la mia fronte si imperlo’ di sudore. Mi ricordai della profondita’ dell'amore per la pittura che provavo guardando un bel giovane dal volto angelico, dagli occhi a mandorla, dalla pelle rosa, portato nel laboratorio come candidato apprendista, nei primi anni in cui ero diventato maestro e mi ero appena sposato. Per un attimo sentii cosi’ fortemente che la miniatura non aveva niente a che fare con la vergogna e la tristezza, ma con questo desiderio che provavo e che il talento del maestro miniaturista trasforma prima in amore per Allah e poi nell'amore per il mondo che Lui vede, mi sembro’ di rivivere tutti gli anni che avevo passato seduto e gobbo con l'asse da scrittura in grembo, tutte le botte prese per imparare la mia arte, la decisione di diventare cieco dipingendo, tutti i dolori della miniatura che avevo subito e avevo fatto subire come la vittoria di un felice piacere. Come se guardassi una cosa proibita, ammirai a lungo questo meraviglioso disegno, in silenzio e con lo stesso piacere. Poi, continuando a guardarlo, mi scese una lacrima dall'occhio, mi rigo’ la guancia e si perse nella mia barba. Quando vidi che uno dei candelabri che giravano lentamente per la stanza del Tesoro stava per avvicinarsi, misi via l'album e aprii a casaccio uno dei volumi che poco fa mi aveva lasciato accanto il nano. Anche questo era un album speciale preparato per gli scia’. Vicini a un prato vidi due cervi innamorati e degli sciacalli ostilmente gelosi di loro. Girai pagina. Vidi cavalli sauri e bai che avrebbero potuto fare solo gli antichi maestri di Herat, come erano belli! Girai pagina. Vidi il disegno di un funzionario di stato, seduto in un modo sicuro, era un disegno di settant'anni fa, non potevo individuarlo dal viso, perche’ poteva somigliare a chiunque. Stavo pensando che l'atmosfera del disegno mi faceva venire in mente qualcosa, il fatto che la barba dell'uomo seduto fosse dipinta con diversi colori. Il cuore comincio’ a battermi forte, riconobbi la meravigliosa mano del disegno, il mio cuore l'aveva intuito prima di me, solo Lui poteva disegnare una mano cosi’ bella. Il disegno era del grande Maestro Behzat. Mi parve che il disegno irradiasse una luce sul mio viso. Prima di allora avevo gia’ visto un paio di volte i disegni del grande Maestro Behzat, ma, forse perche’ li avevo guardati anni fa, con i vecchi maestri e non da solo, forse perche’ non riuscivamo a essere sicuri che fossero del grande Behzat, non mi avevano mai abbagliato tanto come ora. Sembrava che il buio pesante e impregnato di muffa della stanza del Tesoro fosse illuminato. Questa mano ben disegnata e quel meraviglioso sottilissimo braccio marchiato dai segni d'amore che avevo visto poco fa, si unirono nella mia mente. Ringraziai Allah per avermi fatto vedere queste bellezze prima di diventare cieco. Come faccio a sapere che tra poco diventero’ cieco? Non lo so! All'improvviso sentii che avrei potuto comunicare questa mia intuizione a Nero che mi era venuto accanto e guardava con il candelabro in mano le pagine che guardavo io, ma dalla bocca mi uscirono altre parole. «Guarda la bellezza della mano, - dissi. - di Behzat». La mia mano spontaneamente prese quella di Nero, come fosse la mano di uno di quei bei giovani apprendisti dalla morbida pelle di velluto che avevo amato nella mia giovinezza. La sua mano era regolare e solida, piu’ calda della mia, la parte del polso che si univa al braccio, li’ dove si vedevano le vene, era fine e larga come piaceva a me. Durante la mia giovinezza, prima di prendere la mano di un apprendista e dirgli come tenere il pennello, fissavo affettuosamente i suoi occhi spaventati e dolci. Cosi’ guardai Nero. Nelle sue pupille vidi la fiamma della candela del candelabro che teneva in mano. «Noi miniaturisti siamo tutti fratelli, - dissi. - Ma adesso tutto finira’». «Come?» Avevo detto questa frase come un grande maestro che consacra i suoi anni a un khan, a un principe, crea nel laboratorio meraviglie nello stile degli antichi maestri, anzi, fa in modo che il laboratorio abbia un suo stile, pur sapendo che quando il suo protettore il khan avra’ perso tutte le guerre, il nuovo signore che arrivera’ dopo il saccheggio dei soldati nemici che entrano in citta’, demolira’ il suo laboratorio, distruggera’ le rilegature dei suoi libri, sfogliera’ le sue pagine disprezzando tutto, distruggera’ le piccole e grandi cose in cui ha creduto, che ha scoperto e amato come figli. Allora dira’: «Adesso finira’ tutto» e desiderera’ diventare cieco. Ma bisognava che raccontassi queste cose a Nero in un altro modo. «Questo e’ il disegno del grande poeta Abdullah Hatifi, - dissi. - Hatifi era un poeta cosi’ interessante che quando Scia’ Ismail entro’ a Herat, mentre tutti erano andati ad adularlo, lui non si mosse dal suo posto e fu Scia’ Ismail ad andare da lui, a casa sua, fuori citta’. Si capisce che questo e’ il disegno di Hatifi dalla scritta sotto il disegno e non dal viso di Hatifi disegnato dal Maestro Behzat, non e’ vero?» Nero mi guardo’ annuendo con i suoi begli occhi. «Se si guarda il viso del poeta nel disegno, vediamo che e’ un viso come altri, - dissi. - Se adesso Abdullah Hatifi buonanima fosse qui, non lo potremmo assolutamente riconoscere dal viso in questo disegno. Ma avremmo potuto riconoscerlo dall'intero disegno. Dall'atmosfera del disegno, dalla posizione di Hatifi, dai colori, dalla doratura e da quella bellissima mano disegnata da Maestro Behzat, qualcosa fa venire subito in mente che si tratta del disegno di un poeta. Perche’ nella nostra pittura il significato viene prima della forma. Adesso che si inizia a disegnare imitando i maestri europei e italiani, come nel libro che il Nostro Sultano aveva ordinato alla buonanima di tuo zio, tutto questo mondo di significati avra’ fine e iniziera’ il mondo delle figure che con lo stile europeo...» «Mio zio buonanima e’ stato ucciso», mi interruppe Nero bruscamente. Accarezzai la mano di Nero con la mia come se accarezzassi la piccola mano di un apprendista destinata a disegnare meraviglie in futuro. Per un po' ammirammo in rispettoso silenzio la meraviglia di Behzat. Poi Nero tolse la mano dalla mia. «Abbiamo guardato troppo in fretta i cavalli sauri della pagina precedente, non abbiamo osservato i nasi», disse. «Li’ non c'e’ nulla», dissi e aprii la pagina precedente perche’ la vedesse: le narici dei cavalli non avevano nulla di
straordinario. «Quando troveremo i cavalli con i nasi strani?», mi chiese Nero come un bambino. Ma a un'ora tra la mezzanotte e il mattino, quando io e il nano tirammo fuori il leggendario Libro dei Re di Scia’ Tahmasp da una cassa di ferro, sotto stoffe di seta e raso verde, Nero dormiva rannicchiato su un tappeto rosso di Usak con la graziosa testa appoggiata su un cuscino di velluto ricamato di perle. Avevo capito subito, appena avevo visto il libro leggendario dopo tanti anni, che per me la giornata cominciava solo allora. Il libro era cosi’ grande e pesante che io e Cezmi Agha’ lo sollevammo e lo trasportammo con qualche difficolta’. Quando toccai quella rilegatura che venticinque anni fa avevo guardato da lontano, capii che sotto la pelle c'era il legno. Venticinque anni fa, quando mori’ il Sultano Solimano il Magnifico, Scia’ Tahmasp era cosi’ contento di essersi liberato di questo sultano che aveva occupato Tabriz tre volte, che, oltre a mandare al Sultano Selim che gli succedeva molti cammelli carichi di doni, gli aveva anche fatto avere un meraviglioso Corano e questo libro, il piu’ bello del suo tesoro. Il libro era prima stato inviato con una delegazione di trecento ambasciatori persiani a Edirne dove, allora, il nuovo sultano passava l'inverno a cacciare, e quando arrivo’ a Istanbul assieme ad altri doni su cammelli e muli, prima che venisse chiuso a chiave nel Tesoro, il capo miniaturista Memi il Nero e noi tre suoi giovani maestri eravamo andati a contemplarlo. Quel giorno eravamo andati di corsa a Palazzo, proprio come gli abitanti di Istanbul che vanno a vedere un elefante portato dall'India, o una giraffa arrivata dall'Africa, e avevo sentito raccontare dal Maestro Memi il Nero che durante la sua vecchiaia il grande Maestro Behzat era andato da Herat a Tabriz, ma essendo cieco non aveva toccato questo libro. Per noi miniaturisti ottomani che allora ammiravano dei libri ordinari con sette, otto disegni, guardare questo volume con duecentocinquanta enormi disegni era come visitare un palazzo meraviglioso mentre tutti dormono. Avevamo contemplato le pagine incredibilmente ricche del libro senza fiatare con un sentimento di pia e silenziosa devozione, come se ammirassimo i giardini del Paradiso miracolosamente apparsi davanti a noi per un attimo. Per i vent'anni successivi parlammo di questo libro chiuso a chiave nel Tesoro. Dopo venticinque anni, alzai silenziosamente la spessa copertina del leggendario Libro dei Re, come se aprissi l'enorme porta di un palazzo; mentre sfogliavo le pagine, ognuna frusciava con un suono piacevole, ed io, piu’ che ammirazione, provai una sensazione di tristezza. 1) Non riuscivo a concentrarmi molto sui disegni per via di certe storie che sostenevano che tutti i maestri miniaturisti di Istanbul avevano rubato qualcosa alle pagine di questo libro per poi usarlo. 2) Pensavo di incontrare in qualche angolo una mano disegnata da Behzat e facevo attenzione solo a questo non riuscendo a dedicarmi alle meraviglie del libro che venivano fuori ogni cinque, sei disegni (con che decisione e delicatezza Tahmuras batteva la sua mazza ferrata sulla testa dei demoni e dei giganti che poi in tempo di pace gli insegneranno l'alfabeto, il greco e tante altre lingue!) 3) Le narici dei cavalli e la presenza di Nero e del nano non mi permisero di dedicarmi completamente a cio’ che vedevo. Poter guardare questo libro a sazieta’, grazie a un'occasione che di certo Allah aveva generosamente creato prima che il sipario di velluto del buio che, come un favore di Allah, si avvicina a tutti i grandi miniaturisti, calasse davanti ai miei occhi, era una grande fortuna, ma, allo stesso tempo, guardarlo piu’ con la mente che col cuore era, ovviamente, anche motivo di tristezza. Prima che la luce del mattino raggiungesse la stanza del Tesoro che man mano cominciava ad assomigliare a una gelida tomba, vidi tutte le duecentoquarantanove (non duecentocinquanta) illustrazioni di questo straordinario libro. Lo guardai con la mente, quindi, per punti, come fanno i sapienti arabi appassionati di ragionamenti, dico che: 1) Non incontrai un cavallo dalle narici simili a quelle disegnate dal vile assassino tra i cavalli multicolori che Rüstem incontrava nel Turan inseguendo i ladri di cavalli; non tra i meravigliosi cavalli di Scia’ Feridun che attraversarono il fiume Tigri nonostante il sultano arabo non avesse dato il permesso di attraversarlo; non fra i tristi cavalli grigi che da lontano contemplano Tur, il perfido e disonesto fratello maggiore che taglia la testa al fratello minore Ireç perche’ il padre ha lasciato a lui l'Asia Minore, al secondogenito le lontane terre di Cina, e Tur e’ geloso perche’ il paese piu’ bello, la Persia, e’ toccato a Ireç; non tra i cavalli dell'esercito di Alessandro, un esercito di khazari, egiziani, berberi e arabi, tra corazze, scudi di ferro, spade che non si rompevano mai ed elmi scintillanti; non sul leggendario cavallo che, grazie alla giustizia di Allah, uccise Scia’ Yazdgird sulla sponda del lago verde - lo scia’ perdeva continuamente sangue dal naso perche’ si era ribellato al destino che gli aveva dato Allah -; non tra le centinaia di cavalli leggendari e di cavalli reali disegnati da sei o sette miniaturisti. Eppure, avevo davanti a me ancora piu’ di un giorno per guardare gli altri libri custoditi nel Tesoro. 2) C'e’ una voce che gira tra i maestri miniaturisti ormai da venticinque anni e che e’ sempre argomento di pettegolezzo: si dice che un miniaturista sia entrato in questa irraggiungibile stanza del Tesoro con il permesso speciale del sultano, abbia trovato questo magnifico libro, e alla luce delle candele abbia copiato nei suoi quaderni esempi di molti cavalli, alberi, nuvole, fiori, uccelli, giardini, guerre, scene d'amore per poi usarli... Ogni volta che un miniaturista disegnava qualcosa di meraviglioso e straordinario, i maestri gelosi dicevano cosi’. Anche per disprezzarlo un po', perche’ erano lavorazioni di Tabriz, persiane. Allora Tabriz non era tra le terre del Nostro Sultano. Quando era riferita ad altri, anch'io credevo a questa calunnia, ma quando era riferita a me provavo una rabbia legittima e un orgoglio segreto. In quel momento, con tristezza, vidi che noi, i quattro miniaturisti che avevamo guardato questo libro una sola volta venticinque anni fa, quel giorno lo avevamo dipinto nelle nostre menti in modo strano, e per tutti questi venticinque anni, lo avevamo ricordato trasformandolo nella nostra memoria e riproducendolo nei libri dei sultani. Non sono triste per la spietatezza dei sultani diffidenti che non avevano tirato fuori dai loro tesori questo libro e gli altri per metterceli
davanti, ma per la limitatezza del mondo della nostra miniatura. I miniaturisti persiani, sia i grandi maestri di Herat sia i nuovi maestri di Tabriz, hanno prodotto disegni e meraviglie ben piu’ perfetti rispetto a noi miniaturisti ottomani. Per un attimo pensai che sarebbe stato meglio se, tra due giorni, tutti i miniaturisti fossero stati torturati assieme a me e, con la punta del temperino che avevo in mano, raschiai senza pieta’ gli occhi del primo viso che mi trovai sottomano sul disegno che avevo davanti. Era la storia di un sapiente persiano che vinceva il maestro di scacchi indiano subito dopo avere imparato il gioco guardando la scacchiera e i pezzi portati dall'ambasciatore indiano! Menzogna persiana! Raschiai uno a uno anche gli occhi dei giocatori di scacchi, dello scia’ e dei suoi uomini che li guardavano. Sfogliando le pagine all'indietro, raschiai senza pieta’ uno a uno anche gli occhi degli scia’ che combattevano, quelli dei soldati degli eserciti scintillanti con corazze meravigliose e quelli delle teste mozzate li’ a terra. Dopo aver fatto questo lavoro su tre pagine, mi infilai il temperino sotto la cintura. Mi tremavano le mani, ma non mi sentivo troppo male. Adesso capivo forse cosa provavano tutti quei pazzi che facevano questa strana operazione che mi era capitato di incontrare molto spesso durante i cinquant'anni della mia carriera di miniaturista. Volevo che dagli occhi che avevo raschiato nelle pagine del libro stillasse sangue. 3) E questo mi conduce al dolore e alla consolazione della fine della mia vita. In questo bellissimo libro che Scia’ Tahmasp aveva commissionato ai migliori maestri miniaturisti facendoli lavorare per dieci anni, la penna del grande Behzat non aveva toccato niente, in nessuna parte erano disegnate quelle bellissime mani che solo lui sapeva fare. Questa era la prova che Behzat era diventato cieco quando da Herat, che aveva perso importanza, era andato a Tabriz. Cosi’, ancora una volta, capii con gioia che il grande maestro, una volta raggiunta la perfezione degli antichi maestri lavorando per tutta la vita, per non confondere la sua arte con le richieste di un altro laboratorio e di un altro scia’, si era accecato da solo. In quel momento, Nero e il nano aprirono un grosso volume che avevano in mano e me lo misero davanti. «No, non e’ questo, - dissi senza pero’ contrariarli. - Questo e’ un Libro dei Re mongolo, i cavalli di ferro dei cavalieri di ferro di Alessandro Magno vengono riempiti di fuoco greco, poi vengono accesi e bruciano come una lampada e assalgono i nemici emettendo fiamme dalle narici». Guardammo questo fiammante esercito di ferro copiato dai disegni cinesi. «Cezmi Agha’, - dissi. - Venticinque anni fa, nel Selimname, il libro che parla della vita del Sultano Selim I, avevamo disegnato i doni degli ambasciatori persiani che portarono questo libro di Scia’ Tahmasp...» Trovo’ e porto’ subito il volume del Selimname e me lo mise davanti. Nella pagina di fronte a quella lucente che mostrava la presentazione del Libro dei Re al Sultano Selim, insieme ad altri doni da parte degli ambasciatori, tra i nomi dei doni scritti uno a uno che una volta avevo letto e dimenticato, i miei occhi attoniti trovarono quasi d'istinto quella cosa: «Lo spillone da turbante d'oro e turchese con la decorazione di madreperla che usarono per accecarsi gli antichi maestri di Herat e il maestro dei maestri Behzat.» Chiesi al nano dove avesse trovato il volume del Selimname. Camminammo nel buio polveroso della stanza del Tesoro girando tra casse, mucchi di stoffe e tappeti, armadi e sottoscala. Vidi le nostre ombre ingrandirsi e rimpicciolirsi, passare sopra scudi, avori, pelli di tigre. In una delle altre stanze immersa nella stessa strana stoffa rossa e nel velluto, accanto alla cassa di ferro dove avevamo trovato il volume del Libro dei Re, tra altri libri, coperte ricamate con fili d'oro e d'argento, granati grezzi, pugnali intarsiati di rubini, notai alcuni doni mandati da Scia’ Tahmasp, tappeti di seta di Isfahan, una scacchiera d'avorio e un portapenne che con i suoi draghi, i suoi rami e il suo ombrello intarsiato di madreperla, dimostrava di risalire ai tempi di Tamerlano. Aprii il portapenne, assieme a un leggero odore di carta bruciata e di rosa, c'era lo spillone da turbante d'oro e turchese con la decorazione di madreperla. Presi lo spillone e tornai al mio posto come un'ombra. Quando rimasi solo, misi lo spillone con cui Maestro Behzat si era accecato sulla pagina aperta del Libro dei Re e lo contemplai. Mi avrebbe fatto rabbrividire nello stesso modo una qualsiasi altra cosa che lui avesse preso tra le sue mani miracolose, e non solo vedere lo spillone con cui si era accecato, ma perche’ mai Scia’ Tahmasp aveva mandato in dono al Sultano Selim questo terribile spillone con il libro? Forse perche’ lo scia’, che durante la sua infanzia aveva preso lezioni di miniatura da Behzat e in giovinezza aveva portato i miniaturisti in palmo di mano, in vecchiaia, allontanando da se’ poeti e pittori, si era dedicato al culto? Era per questo motivo che aveva accettato di liberarsi di questo libro meraviglioso su cui avevano lavorato i piu’ grandi maestri per dieci anni? Questo spillone era stato mandato assieme al libro per far sapere a tutti che la fine del miniaturista era la cecita’ volontaria, o per dire che chi guardava una volta le pagine di questo libro leggendario, come si raccontava una volta, non desiderava piu’ vedere altro al mondo? Ma per lo scia’ pentito del suo amore giovanile per la pittura e timoroso di aver peccato, come fanno molti sultani invecchiando, questo libro non era piu’ una meraviglia. Ricordai le storie che raccontavano i miniaturisti infelici che invecchiavano pieni di delusioni. Mentre gli eserciti del sovrano del Montone Nero Cihan Scia’ stavano per entrare a Shiraz, Ibni Hüsam, il leggendario capo miniaturista della citta’, dicendo, «Io non potrei disegnare in un altro modo», si era fatto marchiare a fuoco gli occhi dal suo apprendista. Si diceva che un anziano maestro persiano che si trovava tra i miniaturisti portati a Istanbul dopo che gli eserciti di Sultano Selim I, vincendo Scia’ Ismail, entrarono a Tabriz e saccheggiarono il Palazzo del Settimo Cielo, non volendo disegnare con lo stile ottomano, si era accecato con dei farmaci. Nei momenti di rabbia raccontavo di Behzat che si era accecato perche’ fosse un esempio per i miei miniaturisti. Non puo’ esserci un'alternativa? Se il maestro si appropriasse un po' dei nuovi stili, non potrebbe salvare almeno in parte un intero laboratorio e lo stile degli antichi maestri? Sulla punta acuminata dello spillone da turbante che andava stringendosi in modo molto raffinato c'era qualcosa di scuro, ma i miei occhi stanchi non riuscivano a distinguere se fosse sangue. Avvicinando la lente, contemplai a lungo lo
spillone, con la tristezza che avrei provato contemplando una triste scena d'amore. Cercai di immaginare come avesse fatto Behzat. Dicevano che non si diventa subito ciechi, proprio come succede agli anziani che diventano ciechi naturalmente, il buio vellutato scende piano, a volte dopo giorni, anche mesi. L'avevo intravisto passando nella stanza accanto, mi alzai e lo guardai, era li’. Uno specchio d'avorio col manico a spirale e con una spessa cornice di ebano, ricamata a fiori in stile calligrafico tuli. Mi sedetti al mio posto e contemplai i miei occhi allo specchio. Come ondeggiava bene la fiamma del candelabro d'oro in quelle mie pupille che disegnavano e contemplavano disegni da sessant'anni. Come ha fatto Maestro Behzat? mi chiesi di nuovo curioso. Senza assolutamente distogliere le pupille dallo specchio, la mia mano trovo’ da sola lo spillone, con l'abitudine della mano di una donna che si mette il kajal negli occhi. Proprio come se bucassi l'estremita’ di un uovo di struzzo da decorare, senza esitare, coraggioso, calmo e forte infilai lo spillone nella pupilla del mio occhio destro. Non sentivo male per il dolore, ma perche’ vedevo quello che facevo. Infilai lo spillone nell'occhio per un quarto di dito e lo sfilai. Nel distico che decorava la cornice dello specchio, il poeta augurava infinita bellezza e infinita luminosita’ a coloro che lo guardavano, e vita eterna allo specchio. Sorridendo, feci la stessa cosa nell'altro occhio. Rimasi a lungo assolutamente immobile. Contemplai il mondo. Tutto. I colori del mondo non divennero bui come pensavo, sembrava che si fossero solo leggermente mescolati. Ma vedevo quasi tutto. Dopo un po', la fioca luce del sole scese tra le stoffe rosso cupo, color del sangue, nella stanza del Tesoro. Il Tesoriere e i suoi uomini, sempre con lo stesso rito, ruppero il sigillo e aprirono la serratura e la porta. Cezmi Agha’ cambio’ i vasi da notte, le lampade e il braciere, prese del pane fresco e delle more di gelso secche e disse che avremmo continuato a cercare i cavalli dai nasi strani tra i libri del Nostro Sultano. Cosa c'e’ di piu’ bello che cercare di ricordare il mondo che vede Allah guardando i disegni piu’ belli dell'universo?
Capitolo cinquantaduesimo. Il mio nome e’ Nero Al mattino, quando il Tesoriere e gli agha’ aprirono le porte con la solita cerimonia, i miei occhi erano talmente abituati al rosso vellutato della stanza del Tesoro che la luce invernale del mattino che filtrava dal cortile del Palazzo Interno mi parve spaventosa, fatta per ingannare chi la guardava. Proprio come Maestro Osman, non mi mossi dal mio posto. Era come se, muovendomi, quell'aria di muffa, polverosa e tangibile delle stanze del Tesoro, sarebbe fuggita dalla porta insieme agli indizi che stavamo cercando. Maestro Osman guardava la luce che filtrava all'interno tra le teste degli agha’ del Tesoro disposti in due file accanto alle porte aperte con uno strano stupore, sembrava che contemplasse per la prima volta una meraviglia. L'avevo osservato attentamente da lontano, nella notte, mentre guardava i disegni e sfogliava le pagine del Libro dei Re di Scia’ Tahmasp e, di tanto in tanto, avevo visto apparire sul suo volto quella stessa espressione di stupore. La sua ombra riflessa sul muro a volte tremava, la testa si avvicinava attentamente alla lente che teneva in mano, le labbra prendevano un'espressione gentile come se fosse pronto a rivelare un dolce segreto, e poi, mentre guardava ammirato un disegno, si richiudevano da sole. Quando la porta venne chiusa, camminai impaziente su e giu’ per le stanze, con un'inquietudine che aumentava di continuo, pensai con ansia che non avremmo potuto trarre sufficienti informazioni dai libri del Tesoro, e che il tempo a disposizione non ci sarebbe bastato. Avevo l'impressione che Maestro Osman non prestava sufficiente attenzione a questo lavoro, e gli rivelai le mie preoccupazioni. Come un vero maestro abituato ad accarezzare i suoi apprendisti, mi tenne la mano in modo piacevole. «Persone come noi non hanno altra scelta che cercare di vedere il mondo come lo vede Allah e rifugiarsi nella giustizia di Allah, - disse. - Qui, tra questi disegni e questi oggetti, dentro di me, in profondita’, sento che i due concetti si incontrano. Mentre ci avviciniamo per vedere il mondo come lo vede Allah, la sua giustizia si avvicina a noi. Guarda, e’ lo spillone con cui Maestro Behzat si e’ accecato...» Mentre raccontava la storia spietata dello spillone, sotto la lente che avvicino’ perche’ vedessi meglio, guardai la punta aguzza di quella cosa sgradevole e notai qualcosa di roseo e umido. «Per gli antichi maestri, cambiare la loro abilita’, i loro colori e lo stile a cui avevano dedicato tutta la vita, era una grande questione di coscienza, - disse Maestro Osman. - Consideravano una disonesta’ vedere il mondo un giorno come diceva di vederlo uno scia’ in Oriente, un altro come diceva un sovrano in Occidente, come fanno i miniaturisti di oggi». I suoi occhi non guardavano i miei e neanche la pagina aperta di fronte a se’. Era come se guardassero il candore di un luogo lontano e irraggiungibile. Nella pagina del Libro dei Re davanti a se’, gli eserciti dell'Iran e del Turan si scontravano con tutte le loro forze, i cavalli lottavano spalla a spalla e le lance dei cavalieri avevano perforato le corazze e spezzato i corpi; i busti insanguinati divisi in due, le teste e le braccia spaccate, erano caduti a terra, e gli eroici guerrieri impazziti si uccidevano a vicenda estraendo le spade con l'allegria e i colori di una festa. «I grandi maestri, costretti ad adottare i metodi dei vincitori e a imitare i loro miniaturisti, per salvare l'onore si accecavano con uno spillone, anticipando eroicamente cio’ che il loro lavoro avrebbe compiuto nel tempo. Prima che il
purissimo buio di Allah calasse sui loro occhi come un premio, guardavano continuamente, per ore, a volte per giorni, una pagina meravigliosa. Il mondo e il significato di quel disegno - a volte si macchiava di gocce di sangue che stillavano dai loro occhi per averlo guardato ore e ore, senza alzare la testa - prendevano il posto della malvagita’ che li circondava con una dolce morbidezza, perche’ gli occhi degli eroici maestri si offuscavano lentamente e andavano verso la cecita’! Che gioia! Sai quale disegno vorrei guardare fino ad abbracciare il buio della cecita’?» Aveva rivolto lontano i suoi occhi (le pupille a volte sembravano rimpicciolirsi mentre la cornea man mano si ingrandiva), come fa chi cerca di rievocare un ricordo dell'infanzia, verso un luogo che pareva essere fuori dalla stanza del Tesoro. «La scena disegnata col metodo degli antichi maestri in cui Cosroe a cavallo va sotto la dimora di sirin e aspetta ardendo d'amore!» Forse avrebbe raccontato quel disegno con l'aria di una triste poesia, in lode alla cecita’ degli antichi maestri. «Mio grande maestro, mio signore, - lo interruppi in preda a uno strano impulso, - quello che vorrei guardare sempre e’ il viso delicato della mia amata. Sono passati tre giorni da quando l'ho sposata. Ho pensato a lei per dodici anni con nostalgia. La scena in cui sirin s'innamora di Cosroe vedendo il suo ritratto me la ricorda sempre». Sul viso di Maestro Osman forse c'era un carico di espressione, una curiosita’ che non riusciva a nascondere, ma non erano rivolti ne’ alla mia storia ne’ alla sanguinosa scena di guerra che aveva davanti. Sembrava che aspettasse con calma l'arrivo di una buona notizia. Quando fui sicuro di non essere visto, all'improvviso presi lo spillone da turbante che aveva davanti a se’ e mi allontanai. In una zona buia della terza stanza del Tesoro, quella adiacente all'hamam, c'era un angolo formato da centinaia di grandi orologi strani mandati da molti re e sovrani europei e messi da parte dopo poco tempo perche’ non piu’ funzionanti. Andai li’ e osservai con maggior attenzione lo spillone con cui, come diceva Maestro Osman, Behzat si era accecato. Di tanto in tanto la punta d'oro dello spillone coperta di un liquido roseo brillava alla luce rossastra del giorno che si rifletteva nelle cornici, dai vetri di cristallo, dalle cornici d'oro degli orologi impolverati e guasti. Veramente il leggendario Maestro Behzat si era accecato con questo strumento? E Maestro Osman aveva fatto su di se’ la stessa cosa terribile, come Behzat? Mi parve che un Saraceno crudele, multicolore e grande come un dito, legato al meccanismo di uno dei grandi orologi, mi dicesse di si’ con lo sguardo. Sicuramente quest'ottomano col turbante, ai tempi in cui funzionava, divertiva il Nostro Sultano e le donne dell'harem muovendo la testa tante volte quante erano le ore, uno scherzo del re degli Asburgo, che l'aveva inviato in dono, e del suo abile orologiaio. Guardai diversi libri ordinari. Come diceva anche il nano, provenivano dagli averi confiscati ai pascia’ mandati a morte. Erano stati strangolati talmente tanti pascia’ che i volumi sembravano infiniti. Il nano, con spietata allegria, dimenticando di essere un servo, ebbro del suo patrimonio e del suo potere, disse che un pascia’ che fa scrivere un libro a suo nome e lo fa illustrare e dorare merita l'uccisione e la confisca del patrimonio. Anche in questi volumi - album di calligrafia, libri miniati, raccolte di poesie illustrate - quando incontravo la scena in cui sirin s'innamorava di Cosroe guardandone il ritratto, mi fermavo a contemplarla a lungo. Il disegno nel disegno, cioe’ il ritratto di Cosroe che sirin guardava durante una passeggiata in campagna, non era mai troppo chiaro. E non era cosi’ perche’ i miniaturisti non avevano potuto disegnare sufficientemente bene una cosa piccolissima come questo disegno nel disegno. Perche’ la maggiore parte dei miniaturisti riusciva a lavorare tanto finemente da disegnare su unghie, chicchi di riso, perfino su un capello. Allora perche’ non avevano disegnato in maniera precisa il viso, gli occhi del bel Cosroe di cui s'innamorava sirin, cosi’ da farlo riconoscere? Nel pomeriggio, a una cert'ora, mentre sfogliavo a casaccio, forse per dimenticare la mia disperazione e pensando di rivolgere queste domande a Maestro Osman, le pagine di un disordinato volume di calligrafia che mi ero trovato sotto mano, fui attratto da un cavallo in un disegno su stoffa che illustrava un corteo nuziale. Improvvisamente il mio cuore perse il suo ritmo. Li’, davanti a me, c'era un cavallo dal naso strano. Portava una sposa civettuola e guardava me. Sembrava che il magico cavallo mi volesse svelare un segreto. Afferrai il libro e corsi da Maestro Osman tra gli oggetti e le casse, gli aprii la pagina davanti. Guardo’ il disegno. Mi spazientii quando non vidi il suo volto illuminarsi. «Le narici del cavallo sono uguali a quelle del cavallo disegnato per il libro di mio zio», dissi. Mise la lente che teneva in mano sopra il cavallo. Avvicino’ i suoi occhi al disegno e alla lente quasi a toccare la pagina col naso. Non riuscii a resistere a quel lungo silenzio. «Come vedete, questo non e’ un cavallo disegnato con il metodo e lo stile del cavallo disegnato per il libro di mio zio, - dissi. - Ma il naso e’ uguale. Il miniaturista ha cercato di vedere il mondo come lo vedevano i cinesi». Rimasi un po' in silenzio. «Un corteo nuziale. Sembra un disegno cinese, ma i personaggi disegnati non sono cinesi, sono come noi». Adesso sembrava che la lente del maestro fosse attaccata al disegno e il suo naso alla lente. Per vedere non aveva messo in movimento con tutta la sua forza solo gli occhi, ma la testa, i muscoli del collo, la sua vecchia schiena, le spalle. Ci fu un lunghissimo silenzio. «La narice del cavallo e’ tagliata», disse dopo parecchio ansimando. Accostai la testa alla sua. Guancia a guancia, guardammo la narice. Improvvisamente mi resi conto con tristezza non solo che la narice del cavallo era tagliata ma anche che Maestro Osman aveva difficolta’ a vedere.
«Lo vedete, no?» «Molto poco, - rispose. - Raccontami tu quello che vedi». «Secondo me questa e’ una sposa infelice, - dissi tristemente. - Monta un cavallo grigio dal naso tagliato e procede tra guardie e compagni di viaggio che le sono estranei. Il viso degli uomini, quelle espressioni dure, le spaventose barbe nere, le sopracciglia corrugate, i baffi folti, le ossa grosse, i semplici manti di stoffa, le scarpe sottili, i cappelli di pelle d'orso, le asce e le spade rivelano che sono turkmeni del Montone Bianco della Transoxiana. Visto che viaggia anche di notte con la sua damigella alla luce delle lampade e delle torce, la bella sposa deve intraprendere un viaggio molto lungo ed e’ forse una triste principessa cinese». «Oppure, per sottolineare la perfezione della bellezza della sposa, il miniaturista, oltre a metterle del bianco sul viso come fanno i cinesi, ha tracciato gli occhi a mandorla come quelli dei cinesi e noi pensiamo che lei sia cinese», disse Maestro Osman. «Non e’ importante chi sia, ma mi fa pena questa bella triste che va in sposa, di notte, in mezzo a una steppa, accompagnata da guardie forestiere dagli sguardi duri, in un paese straniero e da un marito mai visto, - dissi. - Come faremo a capire dalla narice tagliata del suo cavallo, chi e’ il nostro miniaturista?», incalzai. «Gira le pagine dell'album e descrivimi cio’ che vedi», disse Maestro Osman. Adesso era con noi anche il nano che poco fa, mentre portavo, correndo, il volume a Maestro Osman, avevo visto sedersi sul vaso da notte, e guardavamo tutti e tre le pagine che sfogliavo. Vedemmo delle belle fanciulle cinesi disegnate con lo stesso stile del disegno della nostra triste sposa, erano riunite in un giardino e suonavano uno strano liuto. Vedemmo case cinesi, tristi carovane che facevano lunghi viaggi, alberi della steppa, panorami di steppe belli quanto i vecchi ricordi. Vedemmo alberi ricciuti di stile cinese, fiori primaverili sbocciati con tutto il loro vigore, usignoli che cantavano allegri sui rami. Vedemmo principi che parlavano di poesia, di vino e d'amore seduti nelle loro tende di stile khorasanico, meravigliosi giardini, signori affascinanti che andavano a caccia con un meraviglioso falcone sul braccio, seduti diritti sui loro splendidi cavalli. Poi ci sembro’ che tra le pagine passasse Satana, e sentimmo che la cattiveria nel disegno e’ spesso segno di intelligenza. Non aveva forse aggiunto un che di beffardo il miniaturista all'atteggiamento dell'eroico principe che uccideva il drago con la sua gigantesca lancia? Aveva goduto per la miseria dei poveri contadini che aspettavano la guarigione alla presenza dello sceicco? Godeva di piu’ disegnando gli occhi dei poveri cani che sembravano uniti mentre si accoppiavano, oppure quando colorava di un rosso diabolico le bocche aperte delle donne che ridevano guardandoli? Poi vedemmo anche i demoni del miniaturista: queste strane creature assomigliavano ai ginn e ai giganti che avevano disegnato tante volte gli antichi maestri di Herat come i miniaturisti dei Libri dei Re, ma lo scherzoso talento del miniaturista li aveva resi piu’ crudeli, piu’ aggressivi e piu’ umani. Vedemmo terribili demoni alti come uomini, ma dal corpo deforme, con corna nodose e code da gatto e ridemmo. Girando le pagine, i diavoli nudi con sopracciglia folte, volti paffuti, occhi grandi, denti acuminati, unghie aguzze e pelle scura e grinzosa come quella dei vecchi, cominciarono a picchiarsi e a lottare, a rubare un enorme cavallo e a portarlo in sacrificio ai loro dei, a saltellare e a giocare, a tagliare gli alberi, a rapinare i bei sultani con le loro portantine, ad afferrare draghi e rapinare tesori. Quando raccontai che nel volume che avevano toccato diversi miniaturisti con le loro penne, il miniaturista che aveva disegnato i diavoli era Siyah Kalem, e che aveva disegnato anche i dervisci kalenderi con i capelli rasati, gli abiti a brandelli, catene di ferro e scettri in mano, Maestro Osman mi fece ripetere le somiglianze una a una ascoltandomi con attenzione. «Tagliare le narici dei cavalli perche’ respirassero meglio e corressero piu’ a lungo e’ un'abitudine mongola da tanti secoli, - disse poi. - Quando gli eserciti di Hulagu Khan, che con i suoi cavalli conquisto’ tutta l'Arabia, la Persia e la Cina, entrarono a Baghdad e passarono a fil di spada gli abitanti della citta’ e la saccheggiarono gettando nel Tigri tutti i libri, Ibni sakir, il famoso calligrafo che poi divenne anche miniaturista, per fuggire dalla citta’ e dal massacro, come si sa, non ando’, come tutti, a Sud, ma a Nord, da dove venivano i cavalieri mongoli. A quei tempi, non si facevano disegni nei libri perche’ il Corano lo proibiva e i miniaturisti non venivano presi sul serio. Avevo sentito dire che il nostro maestro spirituale, il nostro Maestro Ibni sakir a cui dobbiamo il piu’ grande segreto del nostro mestiere - la visione del mondo dal minareto, la presenza continua, palese o segreta, della linea dell'orizzonte e il disegnare tutto, dalle nuvole agli insetti, con curve, alla maniera dei cinesi, con colori vivaci e ottimisti - durante il lungo e leggendario cammino che intraprese per arrivare fino al cuore degli eserciti mongoli per andare a Nord, guardo’ le narici dei cavalli. Ma, per quanto ho visto e sentito io, nessuno dei cavalli che aveva disegnato a Samarcanda, dove giunse dopo un anno di cammino, incurante delle tempeste e della neve, aveva il naso tagliato. Perche’ per lui i cavalli perfetti da sogno, non erano i cavalli mongoli forti e vittoriosi che aveva incontrato durante la sua maturita’, ma erano quelli arabi delicati della sua giovinezza che si era lasciato tristemente alle spalle. Per questo motivo, lo strano naso del cavallo disegnato per il libro di Zio Effendi non mi ha fatto venire in mente ne’ i cavalli mongoli, ne’ l'abitudine diffusa dai mongoli del Khorasan e di Samarcanda». Maestro Osman parlava, a volte guardando il libro, a volte me, ma sembrava che non vedesse noi ma le cose che immaginava. «Oltre all'abitudine di tagliare le narici dei cavalli e oltre al disegno cinese, un'altra cosa che arrivo’ in Persia e poi fin qui con gli eserciti mongoli sono questi demoni del libro. Avete gia’ sentito che sono ambasciatori di crudelta’ inviati da oscure forze sotterranee che, prendendo la vita di noi uomini e i nostri beni, fuggono via e ci conducono nel tunnel del buio e della morte. In questo mondo sotterraneo, tutto ha un'anima - le nuvole, gli alberi, gli oggetti, i cani, i libri - e parla». «Si’, - disse l'anziano nano. - Allah e’ testimone, certe notti in cui vengo chiuso a chiave qui dentro, le anime di questi orologi, di questi piatti cinesi, queste ciotole di cristallo che gia’ tintinnano in continuazione, cominciano a parlare
inquiete assieme alle anime di tutti i fucili e le spade, gli scudi e gli elmi insanguinati e, nel buio pesto, la stanza del Tesoro diventa un confuso campo di battaglia». «Portarono questa credenza dal Khorasan in Persia, poi nella nostra Istanbul i dervisci kalenderi di cui abbiamo visto i disegni, - disse Maestro Osman. - Mentre il Sultano Selim I, dopo aver vinto Scia’ Ismail, saccheggiava Tabriz e il Palazzo del Settimo Cielo, Bediüzzaman Mirza, che discendeva dalla stirpe di Tamerlano, tradi’ Scia’ Ismail e si uni’ agli ottomani, insieme ai dervisci kalenderi che erano con lui. Il Sultano Selim I, sia benedetto, che torno’ in pieno inverno da Tabriz a Istanbul, oltre a due delle belle mogli dalla pelle bianca e dagli occhi a mandorla di Scia’ Ismail che vinse a porto’ con se’ anche tutti questi libri lasciati dai vecchi padroni di Tabriz, dai mongoli, dagli ilkhanidi, dai jalali, dal Montone Nero e saccheggiati allo scia’ sconfitto dagli uzbechi, dai persiani, dai turkmeni e dai timuridi, nascosti nella biblioteca del Palazzo del Settimo Cielo a Tabriz. Io li guardero’ finche’ il Nostro Sultano e il Tesoriere non mi faranno uscire di qui». Ma ormai nei suoi occhi c'era quella mancanza di sguardo tipica dei ciechi; teneva in mano la lente dal manico di madreperla non per vedere, ma per abitudine. Rimanemmo un po' in silenzio. Maestro Osman chiese al nano che aveva ascoltato tutta la storia come una favola toccante di portargli di nuovo il libro di cui descrisse attentamente la rilegatura. Quando il nano se ne fu andato, chiesi innocentemente al mio maestro: «Allora, chi ha fatto il disegno del cavallo nel libro di mio zio?» «Sono tagliate le narici di tutti e due i cavalli, - disse. - Ma sia a Samarcanda che in Transoxiana, questo disegno e’ stato fatto con i metodi cinesi. Invece il bel cavallo del libro di tuo zio, come i meravigliosi cavalli dei maestri di Herat, e’ stato disegnato con il metodo persiano. Un cavallo delicato come se ne vedono di rado! Quello e’ un cavallo miniato, non un cavallo mongolo». «Ma ha le narici tagliate come un vero cavallo mongolo», bisbigliai. «Perche’, si vede che, uno degli antichi maestri che disegnava duecento anni fa a Herat, quando i mongoli si ritirarono e inizio’ il regno di Tamerlano e dei suoi figli, lasciandosi influenzare dai cavalli mongoli che aveva visto e ricordava o dal disegno di un altro miniaturista che li aveva disegnati con le narici tagliate, aveva fatto un cavallo meraviglioso con le narici delicatamente tagliate. Nessuno sa in quale pagina di quale libro fatto per quale scia’ si trovasse. Ma sono sicuro che quel libro e quel disegno piacque molto in un qualche palazzo - chissa’, forse alla favorita dell'harem dello scia’ - fu molto lodato e divenne leggenda! E sono anche sicuro che tutti i miniaturisti ordinari erano gelosi di questo cavallo dal naso tagliato e l'hanno imitato brontolando e ne hanno fatte molte copie. Cosi’, insieme a quel meraviglioso cavallo, anche le sue narici sono divenute un modello e sono state custodite nella memoria dai miniaturisti che poi le hanno disegnate in quel laboratorio. Dopo tanti anni, questi miniaturisti, quando i loro signori vennero sconfitti in guerra, cambiarono citta’ e paese sotto nuovi scia’ e nuovi principi, proprio come le tristi donne che andavano in altri harem, e portarono con se’ anche le narici delicatamente tagliate dei cavalli che avevano in mente. Molti miniaturisti, forse, alla fine finirono per dimenticare questo naso tagliato che avevano accantonato in un angolo della memoria in altri laboratori, e non lo disegnarono piu’ per via di altri metodi e di altri maestri. Alcuni, invece, oltre a disegnare cavalli dai nasi delicatamente tagliati nei nuovi laboratori a cui si unirono, lo insegnarono anche ai loro begli apprendisti dicendo: «gli antichi maestri facevano cosi’». Cosi’, secoli dopo che i mongoli e i loro cavalli dal naso tagliato avevano lasciato le terre di Persia e d'Arabia, pur all'inizio di una nuova vita nelle citta’ bruciate, distrutte e saccheggiate, alcuni miniaturisti, credendo che fosse un modello, continuarono a disegnare le narici dei cavalli tagliate. Sono poi sicuro che altri, senza sapere nulla dei cavalieri mongoli conquistatori e delle narici tagliate dei loro cavalli, disegnano i cavalli come i nostri miniaturisti, sostenendo che «sono un modello»». «Mio maestro, mio signore, - esclamai ammirato, - il vostro metodo della dama ha dato veramente un risultato come ci aspettavamo. Ogni miniaturista ha anche una firma segreta». «Non ogni miniaturista, ma ogni laboratorio, - disse orgogliosamente. - E nemmeno tutti i laboratori; proprio come accade in alcune famiglie infelici, dove per anni ognuno dice una cosa diversa e nessuno capisce che la felicita’ dipende dall'armonia e che l'armonia e’ felicita’. Alcuni miniaturisti cercano di disegnare come i cinesi, alcuni come i turkmeni, alcuni come quelli di Shiraz, alcuni come i mongoli e non riescono ad avere un metodo comune, come mariti e mogli infelici che litigano per anni». Adesso l'orgoglio dominava in maniera evidente il suo volto, e al posto dell'espressione «triste, da vecchio patetico» che gli avevo visto per molto tempo, c'era lo sguardo rabbioso di un uomo contrariato che vuole avere tutto il potere in mano. «Maestro mio, - dissi. - Voi, qui a Istanbul, in vent'anni avete unito tanti miniaturisti provenienti da ogni parte del mondo, con caratteri e nature diversi, con un'armonia tale da creare lo stile degli ottomani». Perche’, adesso che glielo dicevo in faccia, l'ammirazione che provavo poco fa con tutto il cuore si era trasformata in ipocrisia? Quando lodiamo qualcuno apertamente, qualcuno di cui ammiriamo sinceramente l'abilita’ e la maestria, per poter essere sinceri, bisogna forse che questa persona abbia perduto ogni potere e sia ridotta in miseria? «Ma dov'e’ finito quel nano?», domando’. Non l'aveva detto come chi ama l'adulazione e le lodi, ma come chi ha il potere e ricorda vagamente che non deve amarle, o perche’ voleva cambiare argomento. «Anche se siete un grande leggendario maestro dei metodi persiani, avete creato un mondo della miniatura diverso e degno della fama e forza degli ottomani, - bisbigliai. - Avete dato voi alla miniatura la forza della spada ottomana, i colori positivi delle sue vittorie, l'attenzione e la passione per gli oggetti e gli strumenti, la sua liberta’ e tranquillita’ di vita. Maestro mio, il piu’ grande onore della mia vita e’ guardare qui con voi le meraviglie di antichi maestri leggendari e...»
Continuai a lungo a mormorargli complimenti. Nella confusione e nel buio gelido della stanza del Tesoro che somigliava a un campo di battaglia abbandonato, la vicinanza dei nostri corpi trasformava i miei sussurri in una specie di linguaggio intimo. Poi, come accade ad alcuni ciechi che non controllano assolutamente le espressioni del volto, negli occhi di Maestro Osman apparve lo sguardo di un anziano che si era piacevolmente lasciato andare. Lodai a lungo l'anziano maestro, a volte sentendolo con tutto il cuore e a volte rabbrividendo per la sincera ripugnanza che provo nei confronti dei ciechi. Mi tenne la mano con le sue dita fredde, mi accarezzo’ le braccia, mi tocco’ il viso. Mi sembro’ che attraverso le dita mi trasmettesse la sua forza e la sua vecchiaia. Pensai a seküre che mi aspettava a casa. Rimanemmo fermi per un po', con le pagine aperte davanti. Sembrava che le mie lodi, l'ammirazione e la pena che provava per se’ ci avessero stancati e ci fossimo concessi una pausa di riposo. Eravamo imbarazzati. «Ma dov'e’ finito il nano?», chiese di nuovo. Ero sicuro che quel nano infido si fosse nascosto in un angolo e ci stesse spiando. Girai le spalle a destra e poi a sinistra come se lo cercassi con lo sguardo, ma avevo gli occhi fissi in quelli di Maestro Osman. Era cieco, o voleva far credere a tutti, compreso se stesso, di essere cieco? Alcuni anziani maestri di Shiraz senza talento ne’ abilita’, quando invecchiavano facevano finta di essere ciechi per venire rispettati di piu’ e perche’ non venissero accusati dei loro cattivi risultati. «Voglio morire qui», disse. «Mio grande maestro, mio signore, - lo adulai ignobilmente. - Capisco bene cio’ che dite, in un momento cosi’ brutto in cui non si da’ valore alla miniatura ma ai soldi che questa portera’, non agli antichi maestri ma agli imitatori degli europei, e mi vengono le lacrime agli occhi. Ma il vostro compito e’ anche quello di proteggere i vostri maestri dai loro nemici. Ditemi, ve ne prego, che risultato ha dato il metodo della dama? Chi e’ che ha disegnato quel cavallo?» «Oliva». Non mi stupii di come lo disse. Rimase un po' in silenzio. «Ma sono certo che non e’ stato Oliva a uccidere tuo zio e il povero Raffinato Effendi, - prosegui’ con calma. - Traggo la conclusione che e’ stato Oliva a disegnare il cavallo dal fatto che lui e’ il piu’ legato agli antichi maestri e conosce meglio, con il cuore, le leggende e i metodi di Herat, l'albero genealogico dei suoi maestri risale fino a Samarcanda. So che non mi chiederai perche’ non abbiamo incontrato queste narici negli altri cavalli che Oliva ha disegnato per anni. Ti avevo gia’ detto che a volte un dettaglio, l'ala di un uccello, l'attaccatura di una foglia all'albero, non viene assolutamente fuori a causa dei capricci e della severita’ del maestro miniaturista, del gusto e dell'atmosfera del laboratorio e del sultano, ma rimane nascosto nella memoria per generazioni, passando di maestro in apprendista. Vuol dire che il cavallo che il caro Oliva ha imparato durante l'infanzia direttamente dai maestri persiani e che non ha mai dimenticato e’ questo. Che questo cavallo gli sia venuto fuori per lo stupido libro di tuo zio, per me e’ parte dello spietato gioco di Allah. Non abbiamo tratto esempi sufficienti dagli antichi maestri di Herat? Non abbiamo pensato anche noi alle meraviglie degli antichi maestri di Herat quando si parlava di bel disegno, proprio come fa il miniaturista turkmeno che se immagina una figura di bella donna, riesce a disegnarla solo come una donna cinese? Tutti ammiriamo gli antichi maestri di Herat. Dietro a ogni grande miniaturista c'e’ la Herat di Behzat, e dietro Herat ci sono i cavalieri mongoli e i cinesi. Perche’ mai Oliva, che e’ cosi’ legato alle leggende di Herat, avrebbe dovuto uccidere il povero Raffinato Effendi che era molto piu’ legato di lui, anzi ciecamente legato ai vecchi metodi?» «Chi allora? - domandai. - Farfalla?» «Cicogna! - rispose. - E me lo dice il cuore. Perche’ conosco la sua ambizione, la sua eccessiva laboriosita’. Ascolta: il povero Raffinato Effendi che faceva le dorature, molto probabilmente ha capito che nel libro di tuo zio fatto imitando i metodi europei c'era un qualche pericolo. D'altra parte, essendo cosi’ stupido - i maestri di doratura sono piu’ vicini ad Allah rispetto ai pittori ma, purtroppo, sono noiosi e stupidi - da dar ascolto alle parole di quello stupido predicatore di Erzurum e sapendo che lo stupido libro di tuo zio era un grande lavoro segreto per il sultano, le sue paure e i suoi dubbi si sono contraddetti a vicenda: doveva credere al suo sultano o al predicatore di Erzurum? Questo mio povero figliolo, che conosco come il palmo della mia mano, in un altro momento sarebbe certamente venuto da me, dal suo maestro, e mi avrebbe raccontato il problema che lo rodeva come un tarlo. Ma perfino lui aveva capito molto bene, con il suo cervello di gallina, che fare le dorature per il libro di Zio Effendi, imitare gli europei, significava tradire me e il nostro laboratorio, e cosi’ ha cercato qualcun altro e ha confessato il suo problema a quel furbo ambizioso di Cicogna, ammirandone il talento, facendo l'errore di ammirarne anche l'intelligenza e il moralismo. Ho visto tante volte Cicogna sfruttare l'ammirazione di Raffinato Effendi. Ci dev'essere stata una discussione e Cicogna l'ha ucciso. Avendo Raffinato Effendi confessato le sue paure anche ai seguaci del predicatore di Erzurum, questi, per dimostrare la loro forza, per vendetta hanno ucciso tuo zio, l'ammiratore degli europei, che ritenevano responsabile della morte del loro amico. Non posso dire che mi dispiaccia troppo. Tanti anni fa, tuo zio, convincendo il Nostro Sultano, aveva fatto fare un suo ritratto a un pittore veneziano - si chiamava Sebastiano - con il metodo europeo, come se fosse un re miscredente, e poi mi aveva messo davanti questo vergognoso disegno come esempio costringendomi a fare una cosa brutta e umiliante, a copiarlo. E io, per timore del Nostro Sultano, avevo disonestamente imitato quel disegno fatto con i metodi dei miscredenti. Se non l'avessi imitato, forse oggi mi sarebbe dispiaciuto per la morte di tuo zio e avrei fatto di tutto per trovare il vile assassino. Ma il mio problema non e’ tuo zio, ma il mio laboratorio. Per colpa di tuo zio, anche i maestri che ho amato piu’ dei miei figli, che ho allevato per venticinque anni curandoli attentamente, hanno tradito me e tutte le tradizioni della nostra miniatura e hanno cominciato a imitare i maestri europei, perche’ cosi’ ormai voleva il Nostro Sultano. Tutti questi disonesti meritano la tortura! Noi miniaturisti possiamo meritare il Paradiso se diventiamo
servi non del Nostro Sultano, ma del nostro talento e della nostra arte. Adesso pero’ vorrei guardare questo libro da solo». Aveva pronunciato queste parole tristemente, come le direbbe un pascia’ stanco che esprime il suo ultimo desiderio prima della condanna a morte, perche’ responsabile di una sconfitta. Apri’ le pagine del libro che il nano gli mise davanti e comincio’ a impartirgli ordini con un tono di rimprovero perche’ trovasse la pagina che voleva vedere. Con questi suoi modi burberi era tornato subito il capo miniaturista che tutto il laboratorio conosceva e a cui era abituato. Mi allontanai e, ritiratomi in un angolo, tra cuscini ricamati di perle, fucili con la canna arrugginita e il calcio ornato di pietre preziose e armadi, contemplai da lontano Maestro Osman. Il dubbio che mi rodeva mentre lo ascoltavo, adesso mi aveva preso completamente. Mi sembrava cosi’ ovvio che fosse stato lui a uccidere il povero Raffinato Effendi e poi mio zio per fermare il libro del Nostro Sultano, imitazione europea, che, per un attimo, mi sentii in colpa per l'ammirazione provata poco fa nei suoi confronti. D'altra parte, volente o nolente, provavo anche un profondo rispetto nei confronti di questo grande maestro che si era completamente dedicato al disegno che aveva davanti e che sembrava, con occhi ciechi o quasi, contemplarlo con la pelle rugosa del suo volto anziano. Quando si fece strada nella mia mente che avrebbe facilmente potuto consegnare uno qualsiasi dei suoi maestri alla tortura del Comandante delle guardie imperiali, ma anche me, per liberarsi del libro di mio zio, per tornare a essere l'unico prediletto del sultano, per sciogliermi dalle catene dell'amore che in questi due giorni mi avevano legato a lui, misi in moto l'immaginazione. Era passato molto tempo e avevo la mente completamente confusa. Per placare i demoni dentro di me, per distrarre i ginn dell'indecisione, guardai a lungo, a casaccio, le pagine illustrate dei volumi che tirai fuori dalle casse. Quante persone, quanti uomini e donne a bocca aperta! Come espressione di stupore negli ultimi duecento anni si era usata questa, in tutti i laboratori di miniatura, da Samarcanda a Baghdad. L'eroe Keyhüsrev schiacciato dai nemici mentre supera sano e salvo la corrente del fiume Ceyhun con l'aiuto del suo cavallo nero e di Allah, il vile traghettatore che non lo prese sulla zattera e il rematore rimangono a bocca aperta per lo stupore. Cosroe rimane a bocca aperta, stupito, vedendo per la prima volta la bellezza di sirin dalla pelle di luna che si bagna nel lago argentato, brillante come un tempo. Invece le bocche che guardai piu’ attentamente e piu’ a lungo erano quelle delle bellezze dell'harem che si vedevano alle porte socchiuse dei palazzi, alle irraggiungibili finestre delle torri delle fortezze, dietro le tende. Tejav che perse la corona, sconfitto dagli eserciti persiani, fuggendo dal campo di battaglia, mentre la sua favorita, la bellissima Espinuy, lo contempla alla finestra dell'harem del Palazzo con tristezza e meraviglia, a bocca aperta e con gli occhi che lo supplicano di non abbandonarla ai nemici. Giuseppe viene catturato con l'accusa di avere violentato Zuleykha e condotto in cella mentre la diabolica calunniatrice Zuleykha sta alla finestra, con la bella bocca aperta piu’ per la lussuria che per la meraviglia. I poetici innamorati sono felici ma tristi e fuori di se’ per la forza dell'amore e del vino in un giardino paradisiaco, mentre la damigella maligna, con la bocca rossa aperta piu’ per gelosia che per meraviglia, li contempla. In quest'espressione, anche se e’ un modello che tutti i miniaturisti hanno sia nei loro manuali di esempi sia nelle loro menti, la bocca della bella ogni volta e’ spalancata con una delicatezza diversa. Quanto mi ha consolato vedere questi disegni? Verso sera, mentre il buio calava, andai da Maestro Osman e gli dissi: «Mio maestro, mio signore, quando verra’ aperta la porta, con il vostro permesso, io abbandonero’ il Tesoro». «Come mai? - chiese. - Abbiamo ancora una notte e una mattina davanti. I tuoi occhi sono gia’ sazi di guardare i disegni piu’ belli del mondo?» Mentre parlava, non aveva alzato il viso dalla pagina che aveva davanti, ma il pallore che appariva nelle sue pupille era la conferma che stava pian piano diventando cieco. «Abbiamo scoperto il segreto delle narici del cavallo», dissi coraggiosamente. «Ah! - disse. - Si’! Ormai il resto appartiene al Nostro Sultano e al Tesoriere. Forse ci perdoneranno tutti». Avrebbe incolpato Cicogna? Non riuscii nemmeno a chiederglielo per paura. Temevo che non mi lasciasse piu’ uscire. Peggio ancora, pensavo addirittura che mi avrebbe accusato. «Non trovo piu’ lo spillone da turbante con cui Behzat si e’ accecato», disse. «Probabilmente l'ha preso il nano e l'ha rimesso al suo posto, - dissi. - Quant'e’ bella la pagina che state guardando!» Il suo viso s'illumino’ come quello di un bambino, sorrise. «Cosroe che va con il suo cavallo sotto la dimora di sirin e la aspetta ardendo d'amore, - disse. - Disegnato con il metodo degli antichi maestri di Herat». Adesso guardava il disegno come se lo vedesse, ma non aveva nemmeno preso la lente in mano. «Vedi la bellezza delle foglie e dei fiori di primavera che sembrano illuminati come stelle e si vedono uno a uno, la modesta pazienza degli ornamenti dei muri, la delicatezza nell'uso della doratura, il fine equilibrio che c'e’ nella composizione dell'intero disegno? Il cavallo del fascinoso Cosroe e’ fine e delicato come una donna. La sua amata sirin lassu’ alla finestra e’ triste ma orgogliosa. Sembra che gli innamorati possano restare qui, cosi’, in eterno, in mezzo alle luci che filtrano dai colori delicatamente ricamati dal miniaturista con amore, dalla trama del tessuto, dalla pelle del disegno. Vedi, hanno la testa girata leggermente l'uno verso l'altra, ma i corpi sono girati verso di noi. Perche’ sanno di essere in un disegno e che noi li vediamo. Percio’ non cercano di assomigliare completamente alle cose che vediamo noi. Al contrario, ci dimostrano di essere venuti fuori dai ricordi di Allah. Percio’, li’, in quel disegno, il tempo si e’ fermato. Anche se la storia che raccontano con il disegno andra’ di fretta, loro, senza fare gesti esagerati con le mani e le braccia, con i loro corpi delicati o anche con gli occhi, come giovani fanciulle timide, gentili e ben educate, staranno cosi’ per l'eternita’. Insieme a loro, nella notte blu tutto si gelera’. L'uccello in cielo vola agitato come i frettolosi cuori dei giovani al buio, tra le stelle e, allo stesso tempo, rimane fermo, in questo momento straordinario, inchiodato al cielo per l'eternita’. Gli antichi maestri di Herat che sapevano che il buio vellutato di Allah stava per calare davanti ai loro occhi come un sipario, sapevano anche molto bene che se diventavano ciechi guardando un disegno per giorni e
settimane, senza muoversi assolutamente, alla fine, la loro anima si sarebbe mescolata al tempo eterno del disegno». All'ora della preghiera serale, quando la porta del Tesoro si apri’ con la stessa cerimonia e la stessa folla di persone, Maestro Osman continuava a guardare attentamente quella pagina, dove l'uccello stava in cielo senza muoversi. Ma chi si accorgeva del colore pallido delle sue pupille, proprio come ci accorgiamo di alcuni ciechi che s'avvicinano al piatto che hanno davanti dalla parte sbagliata, capiva che stava guardando in modo strano la pagina meravigliosa che aveva davanti a se’. I custodi del Tesoro, una volta saputo che Maestro Osman sarebbe rimasto dentro e che Cezmi Agha’ era alla porta, non mi perquisirono a fondo e non riuscirono a scovare lo spillone da turbante che avevo nascosto nelle mutande. Quando uscii dal cortile del Palazzo per le strade di Istanbul, entrai in un vicolo, tirai fuori il terribile oggetto che aveva accecato il leggendario Behzat e lo infilai sotto la cintura. Camminai per le strade come se corressi. Il freddo della stanza del Tesoro mi era penetrato talmente nelle ossa che mi sembrava che nelle strade della citta’ fosse arrivata una dolce e precoce aria primaverile. Passando davanti ai negozi di drogheria, di legname, ai barbieri, agli erboristi, ai fruttivendoli del mercato vecchio che stavano per chiudere uno dopo l'altro, rallentavo e guardavo le botti, le coperte, le carote, i barattoli nei negozi riscaldati dalle lampade. La via di mio zio - non riuscivo ancora a dire «la mia via», ma neanche «la via di seküre» - dopo due giorni di assenza, mi parve un luogo ancora piu’ estraneo e lontano. Ma la gioia di abbracciare, sano e salvo, seküre e la logica secondo la quale da stanotte sarei potuto entrare nel letto della mia amata, dato che l'assassino si poteva considerare trovato, mi fecero sentire talmente vicino a tutto il mondo che, quando vidi il melograno e la persiana ormai riparata e chiusa, mi venne da urlare come un contadino che grida verso l'altra parte della valle, ma mi trattenni. Quando avrei visto seküre volevo cominciare il mio discorso con la frase: «Il vile assassino e’ stato scoperto». Aprii la porta del cortile. Non so se fu per il cigolio della porta, o per la tranquillita’ del passero che beveva acqua dal secchio del pozzo, o per il buio che c'era in casa ma, con l'intuito da lupo di un uomo che vive completamente solo da dodici anni, capii subito che la casa era vuota. Come avrebbe fatto un uomo che comprende dolorosamente di essere rimasto solo, aprii ogni porta, armadio, addirittura sollevai i coperchi delle pentole. Aprii e guardai anche nelle casse. L'unica cosa che sentii nel silenzio era il rumore del mio cuore che batteva forte. Quando tirai fuori la spada che avevo nascosto in fondo alla cassa piu’ lontana e la indossai, come un vecchio che nella vita ormai ha fatto tutto, per un attimo mi tranquillizzai. Nei lunghi anni in cui avevo lavorato con la penna, e’ sempre stata la mia spada dal manico di avorio a darmi la serenita’ interiore e l'equilibrio (anche l'equilibrio per camminare). I libri aggiungono all'infelicita’ dell'uomo una profondita’ che scambiamo per consolazione. Scesi in cortile. Il passero se n'era andato. Uscii lasciando la casa nel silenzio del buio che calava, come se stessi abbandonando una nave che affonda. Corri, diceva il mio cuore ora piu’ fiducioso, vai e trovali. Corsi. Comunque, rallentavo nei luoghi affollati e quando, nei cortili delle moschee che prendevo come scorciatoie, aumentava il numero di cani che m'inseguivano allegri e divertiti.
Capitolo cinquantatreesimo. Il mio nome e’ Esther Stavo cucinando una zuppa di lenticchie quando Nesim disse: «C'e’ qualcuno alla porta». Gli misi in mano il cucchiaio dicendogli: «Non far attaccare la zuppa», presi la sua vecchia mano nella mia e girai il cucchiaio un paio di volte nella zuppa. Perche’ se non gli fai vedere le cose, sarebbe capace di tenere il cucchiaio fermo nella zuppa per ore. Quando vidi Nero alla porta, ebbi pena di lui. Aveva un'espressione cosi’ avvilita che temevo di chiedergli cosa fosse accaduto. «Non entrare, - dissi. - Mi cambio e vengo subito». Mi misi il vestito rosa e giallo che indosso quando vengo invitata alle feste del Ramadan, alle tavole dei ricchi, ai matrimoni che durano molto e presi il mio fagotto da festa. «Poi torno e mangio la zuppa», cosi’ salutai il povero Nesim. Eravamo appena passati per una strada del nostro piccolo quartiere ebreo dove anche i camini, come le povere pentole, fumavano con qualche difficolta’: «Dicono che l'ex marito di seküre sia tornato dalla guerra», dissi. Nero rimase in silenzio finche’ non uscimmo dal quartiere. Il suo volto era terreo come il colore della sera che calava. «Dove sono?», chiese dopo un bel po'. Dalla sua domanda capii che seküre e i bambini non erano a casa. «Saranno a casa loro», gli risposi. Accorgendomi subito che le mie parole l'avrebbero ferito, dato che intendevo la precedente casa di seküre, con la frase successiva gli aprii uno spiraglio di speranza. «Probabilmente». «Tu hai visto il marito tornato dalla guerra?», domando’ Nero guardandomi negli occhi. «Io non ho visto ne’ lui, ne’ seküre che abbandonava la casa». «Come hai fatto a capire che hanno abbandonato la casa?» «Dalla tua faccia». «Raccontami tutto», mi ordino’ deciso. Era tanto afflitto da non capire che Esther - per poter essere una Esther che trova mariti a cosi’ tante ragazze sognatrici
con l'occhio alla finestra e l'orecchio alla porta, e che suona tranquillamente alla porta di cosi’ tante case infelici - non deve mai raccontare tutto. «Ho saputo che il fratello dell'ex marito di seküre, Hasan, si e’ avvicinato a casa vostra, - vidi che era contento perche’ avevo detto casa vostra, - dicendo a sevket che suo padre stava per tornare dalla guerra, che sarebbe stato a casa nel pomeriggio e se non avesse trovato i figli e la madre si sarebbe rattristato molto. Anche se sevket ha portato subito la notizia a sua madre, seküre si e’ comportata in maniera prudente e non e’ riuscita a prendere una decisione. Nel pomeriggio sevket e’ scappato di casa e si e’ rifugiato dallo zio Hasan e dal nonno». «Tu come fai a saperlo?» «seküre non ti ha detto che Hasan briga da due anni per farla tornare nella sua vecchia casa? Per un certo periodo Hasan ha mandato lettere a seküre per mio tramite». «seküre gli ha mai risposto?» «Conosco ogni tipo di donna di Istanbul, - affermai orgogliosa. - Non c'e’ nessuna cosi’ legata alla sua casa, a suo marito, alla sua dignita’ come seküre». «Adesso pero’ suo marito sono io». Nella sua voce c'era quella sfiducia maschile che mi mette sempre tristezza. Quando seküre passava da una parte, dall'altra cominciava la distruzione. «Hasan ha scritto su un foglio, perche’ lo portassi a seküre, che sevket era andato a casa per aspettare il padre, e che era molto infelice a causa di quel falso marito che lei aveva sposato con un matrimonio fasullo, di quel nuovo padre, e che non sarebbe tornato». «E seküre cosa ha fatto?» «Ti ha aspettato tutta la notte, sola con il povero Orhan». «E Hayriye?» «Sono anni che Hayriye non vede l'ora di trovare un'occasione per affogarla in un bicchier d'acqua. Per questo andava a letto con la buonanima di tuo zio. Quando Hasan ha visto che seküre ha passato la notte terrorizzata dall'assassino e dai fantasmi, le ha mandato un'altra lettera». «Cosa le ha scritto?» «Grazie a Dio, questa povera Esther non sa leggere e scrivere, cosi’ quando i signori arrabbiati o i padri nervosi le fanno questa domanda, lei risponde: io non posso leggere la lettera ma solo la faccia della bella figliola che la legge». «Cosa ci hai letto?» «Disperazione». Per un bel po' non parlammo. Vidi il gufo che aspettava la notte appollaiato sul tetto di una chiesetta greca. Vidi i mocciosi del quartiere che ridevano guardando il mio fagotto e il vestito. Vidi il cane rognoso che, al calar della notte, scendeva grattandosi allegramente per la strada del cimitero affiancata dai cipressi. «Piano, - gridai a Nero poco dopo. - Io non riesco a fare queste salite come te. Dove mi porti con questo fagotto in mano?» «Prima di andare a casa di questo Hasan, io ti portero’ da uomini giovani e generosi che ti faranno aprire il fagotto e compreranno per le loro amate fazzoletti a fiori, cinture di seta, borsellini ricamati con fili d'argento». Era un bene che Nero, in questo stato penoso, riuscisse ancora a scherzare, ma vidi subito il lato serio del suo scherzo: «Se ti raccogli attorno un esercito, non ti porto affatto a casa di Hasan, - dissi. - Ho molta paura delle liti, delle risse». «Se tu sarai la Esther intelligente di sempre, non ci saranno ne’ liti ne’ risse», mi tranquillizzo’. Passammo da Aksaray e prendemmo la strada che va verso gli orti di Langa. Nero entro’ da un barbiere ancora aperto che si trovava in un quartiere decadente, in fondo a una strada fangosa. Lo vidi parlare con il barbiere che, alla luce delle lampade, si stava facendo radere da un ragazzino dal viso buono e dalle mani belle. Dopo un po' ad Aksaray, il barbiere, il suo bel garzone e altri due uomini si unirono a noi. In mano avevano spade e asce. A Sehzadebasi, in una stradina buia, si uni’ a noi anche uno studentello di scuola coranica con la spada in mano che sembrava solo un attaccabrighe. «Ma assalirete una casa, in citta’, in pieno giorno?», domandai. «Non e’ giorno, e’ notte», rispose Nero con l'aria di voler scherzare. «Non sentirti cosi’ sicuro solo per aver raccolto tanti uomini, - lo avvertii. - Speriamo che i giannizzeri non vi vedano girare armati di tutto punto come un esercito». «Non ci vede nessuno». «Ieri gli uomini del predicatore di Erzurum hanno assalito una taverna e poi il convento dei dervisci cerrahi a Sagirkapi e hanno picchiato tutti. Un anziano che ha ricevuto un colpo di bastone in testa e’ morto. Nel buio pesto potrebbero anche pensare che siate dei loro». «Ho saputo che sei andata a casa della buonanima di Raffinato Effendi e - Allah ti benedica - sua moglie ti ha mostrato quei cavalli a inchiostro e l'hai raccontato a seküre. Raffinato Effendi era molto coinvolto dagli uomini di questo predicatore di Erzurum?» «Se ho cercato di sapere qualcosa in quella casa e’ perche’ pensavo di essere d'aiuto alla mia povera seküre, - dissi. Ero andata li’ per mostrare le stoffe appena uscite dalla nave fiamminga. Non per immischiarmi nei vostri affari religiosi e politici che la mia povera mente ebrea non comprenderebbe». «Esther Hanim, tu sei molto intelligente». «Siccome lo sono, ti dico anche che gli uomini di questo predicatore di Erzurum impazziranno ancora di piu’, faranno ancora molto male, c'e’ da avere paura di loro».
Quando entrammo nella strada dietro a çarsikapi, il cuore comincio’ a battermi forte per la paura. I rami nudi e bagnati dei castagni e dei gelsi luccicavano nella pallida luce della mezza luna. Un vento soffiato dai ginn e dagli spettri che faceva svolazzare i merletti dal mio fagotto e fischiare gli alberi, porto’ l'odore di tutti noi ai cani del quartiere in agguato. Quando cominciarono ad abbaiare, uno dopo l'altro, indicai la casa a Nero. Per un attimo guardammo silenziosamente il tetto buio, le persiane. Nero sistemo’ i suoi uomini attorno alla casa, nell'orto deserto, ai due lati della porta del cortile e li’, dietro i fichi. «In quella strada c'e’ uno svergognato mendicante tartaro, - dissi. - E cieco, ma sa meglio del capo del quartiere chi entra ed esce dalla strada. Si masturba di continuo come le schifose scimmie del Nostro Sultano. Non toccatelo, ma dategli otto, dieci akçe, e vi dira’ qualsiasi cosa». Guardai da lontano Nero dargli i soldi e poi incalzarlo, appoggiandogli la spada al collo. Poi, non so come, il garzone del barbiere che pensavo stesse spiando la casa, comincio’ a picchiare il tartaro con il manico dell'ascia. Li guardai pensando che la lite sarebbe finita subito, ma il tartaro piangeva. Corsi e glielo tolsi di mano prima che lo uccidesse. «Ha bestemmiato contro mia madre», grido’ il garzone del barbiere. «Dice che Hasan non e’ in casa, - intervenne Nero. - Dira’ la verita’ questo cieco?» Mi allungo’ la lettera che aveva scritto li’ per lí. «Prendi questa e portala a casa, a Hasan, e se lui non c'e’, dalla a suo padre», ordino’. «Non hai scritto qualcosa a seküre?», gli chiesi mentre prendevo la lettera. «Se le mando una lettera a parte, sara’ un'ulteriore provocazione per gli uomini della casa, - rispose Nero. - Dille che ho trovato il vigliacco che ha ucciso suo padre». «vero?» «Tu dille cosi’». Feci zittire il tartaro che piangeva e si lamentava ancora, rimproverandolo. «Non dimenticare quello che ho fatto per te», gli dissi, ma stavo prendendo tempo per non andare via da li’. Perche’ mi ero immischiata in queste faccende? Due anni fa, a Edirnekapi avevano ucciso una venditrice di corredi e le avevano tagliato le orecchie, quando la ragazza che aveva promesso si era sposata con un altro. Mia nonna diceva che i turchi uccidono spesso senza motivo. Mi venne nostalgia della zuppa di lenticchie che adesso il mio caro Nesim stava mangiando a casa. Anche se non volevo andare, camminai verso la casa, pensando che ci fosse seküre. Ero molto curiosa. «arrivato il corredo! Ecco le stoffe di seta dalla Cina per abiti da festa». Notai che la luce arancione che filtrava dalle persiane ebbe un fremito. La porta si apri. Il gentile padre di Hasan mi fece accomodare. La casa era caldissima, come le case dei ricchi. Quando seküre mi vide - era seduta con i figli intorno a un tavolo illuminato - si alzo’ in piedi. «seküre, - dissi. - E' arrivato tuo marito». «Quale?» «Quello nuovo. Hanno circondato la casa di uomini armati. Sono pronti a lottare con Hasan». «Hasan non e’ in casa», disse il suocero gentile. «Meno male. Tu prendi questa lettera e leggila», dissi e gli consegnai la lettera di Nero come un fiero ambasciatore che presenta il perentorio ordine del sultano. Mentre il suocero gentile leggeva la lettera, seküre mi chiamo’. «Esther, vieni a prendere un po' di zuppa di lenticchie, cosi’ ti riscaldi». «Non mi piace», risposi in un primo momento. Mi infastidiva che parlasse come se fosse a casa sua. Ma quando capii che voleva rimanere sola con me, afferrai un cucchiaio e le andai dietro. «Di' a Nero che e’ tutta colpa di sevket, - bisbiglio’. - Ieri, per paura dell'assassino ho aspettato tutta la notte da sola con Orhan. Orhan ha tremato tutta la notte. I miei figli erano separati! Quale madre puo’ separarsi dai propri figli! Nero non e’ tornato a casa, e mi hanno portato la notizia che gli aguzzini del Nostro Sultano l'avevano fatto parlare e che era coinvolto nell'assassinio di mio padre». «Ma Nero non era accanto a te mentre tuo padre veniva ucciso?» «Esther, - imploro’ spalancando i suoi bellissimi occhi neri. - Ti prego, aiutami». «Dimmi perche’ sei tornata qui, cosi’ posso capire e aiutarti». «Credi che sappia perche’ sono tornata? - disse. Era sul punto di piangere. - Nero ha maltrattato il mio sevket. E quando Hasan ha detto che il vero padre dei bambini era tornato, gli ho creduto». Ma capivo dai suoi occhi che mentiva, e a sua volta lei sapeva che lo capivo. «Mi sono lasciata ingannare da Hasan!», mormoro’, e sentii che con questo voleva farmi capire che amava Hasan. Ma si rendeva conto di aver cominciato a pensare di piu’ a Hasan perche’ si era sposata con Nero? Si apri’ la porta, entro’ Hayriye con in mano un pane profumato appena uscito dal forno. Dalla sua faccia vidi subito che non sembrava affatto contenta di vedermi; con la morte di Zio Effendi, per sua disgrazia, la poveretta era rimasta attaccata a seküre come un'eredita’ che non si puo’ ne’ gettare ne’ vendere. Quando seküre torno’ dai figli, davanti al pane nella stanza, capii la vera realta’. Quel che lei cercava senza trovarlo non era un marito che la amasse, non lo era ne’ il vero padre dei suoi figli, ne’ Hasan, ne’ Nero. Cercava un padre che questi suoi figli con gli occhi spalancati dalla paura potessero amare. seküre era pronta ad amare con buona volonta’ qualsiasi buon marito. «Cerchi cio’ che desideri con il cuore, - dissi senza assolutamente pensarci. - Invece dovresti decidere con la testa». «Sarei disposta a tornare da Nero con i bambini, subito, adesso. Ma a certe condizioni! - Rimase un po' in silenzio. Dovra’ trattare bene sevket e Orhan. Non dovra’ chiedermi conto del fatto che mi sono rifugiata qui. E rispettera’ le condizioni del nostro matrimonio, lui le conosce. Stanotte mi ha lasciato da sola a casa, in balia dell'assassino, dei ladri,
degli sciagurati e di Hasan». «Non ha ancora trovato l'assassino di tuo padre, ma mi ha detto di dirti che l'ha trovato». «Torno da lui o no?» Prima che le potessi rispondere, l'ex suocero, che aveva finito da un bel po' la lettera, ci interruppe: «Dite a Messer Nero che io non posso assumermi la responsabilita’ di ridargli mia nuora in assenza di mio figlio». «Quale figlio?», domandai malevola ma con un tono dolce. «Hasan, - rispose. Dato che era un vero signore, si era sentito in imbarazzo. - Mio figlio maggiore sta per tornare dalle terre di Persia, ci sono testimoni». «Dov'e’ Hasan?», chiesi. Assaggiai due cucchiaiate della zuppa che mi aveva offerto seküre. «andato a raccogliere gli scrivani, i facchini, i suoi uomini alla Dogana, - rispose con l'atteggiamento infantile tipico degli uomini buoni e stupidi che non riescono assolutamente a inventare bugie. - Dopo quello che hanno fatto ieri gli uomini del predicatore di Erzurum, stanotte anche i giannizzeri sono in strada». «Noi non li abbiamo visti, - dissi avviandomi verso la porta. - la tua ultima parola?» L'avevo chiesto al suocero per spaventarlo, ma ovviamente seküre aveva capito che in realta’ parlavo con lei. Era veramente cosi’ confusa, o nascondeva qualcosa, o aspettava che Hasan tornasse con i suoi uomini? Mi rallegrai di constatare che in realta’ l'indecisione di seküre mi piaceva. «Noi non vogliamo Nero, - disse sevket coraggiosamente. - E tu, cicciona, non venire piu’ qui». «E allora chi portera’ alla tua bella mamma quelle coperte con i merletti, quei fazzoletti con fiori e uccelli, quelle stoffe rosse per le camicie che ti piacciono tanto? - domandai lasciando il mio fagotto in mezzo alla stanza. - Apritelo e guardatelo, vestitevi e mettete quello che vi pare, tagliate e cucite quello che volete fino alla mia prossima visita». Uscendo mi sentii triste. Non avevo mai visto gli occhi di seküre cosi’ pieni di lacrime. Stavo per abituarmi al freddo di fuori quando Nero mi fermo’ con la spada in mano sulla strada piena di fango. «Hasan non e’ in casa, - dissi. - Forse e’ andato a prendere il vino al mercato per festeggiare il ritorno di seküre. Forse, come hanno detto, tornera’ con i suoi uomini. Allora vi batterete, perche’ lui e’ matto. E poi impugna quella sua terribile spada». «Cosa ha detto seküre?» «Suo suocero ha detto no, non gli do mia nuora, ma tu non devi avere paura di lui, devi avere paura di seküre. Secondo me, tua moglie e’ confusa, e’ tornata li’ perche’ ha capito che non poteva passare un'altra notte terrorizzata nella stessa casa, sia per paura dell'assassino sia per le minacce di Hasan, e poi perche’ tu sei scomparso senza avvertirla dopo appena due giorni dalla morte di suo padre. Inoltre le hanno detto che sei coinvolto nell'assassinio di suo padre... Ma non e’ vero che il suo ex marito sta tornando. Sembra che suo padre e sevket abbiano creduto alla bugia di Hasan... Sekü-re ha intenzione di tornare da te, ma a certe condizioni». Elencai le condizioni guardando Nero negli occhi. Le accetto’ con aria grave, come se parlasse con un vero ambasciatore. «Anch'io ho una condizione, - dissi. - Adesso vado di nuovo in casa loro». Mostrai le imposte della finestra dietro la quale c'era il suocero. «Tra poco attaccate da li’ e dalla porta. Quando grido, smettete. Se viene Hasan, battetevi senza esitare». Tutte queste cose, ovviamente, non erano cose che direbbe un ambasciatore che non porta, pena, ma questa Esther si era fatta coinvolgere. Quando urlai «E arrivato il corredo», la porta si apri subito. Andai direttamente dal suocero. «Tutto il quartiere, anche il cadi’ di questa sponda di Istanbul, chiunque sa che seküre e’ divorziata e si e’ risposata in modo conforme al Corano, - dissi. - Tuo figlio e’ gia’ morto da tanto tempo, anche se rinasce e torna a voi dal Paradiso dove e’ accanto al Profeta Mose’, seküre ormai e’ divorziata, non ci si puo’ far nulla. Avete rapito una donna sposata e la trattenete qui. Nero mi ha detto di farvi sapere che ve la fara’ pagare con i suoi uomini, prima del cadi’». «Commetterebbe un errore, - disse il suocero con delicatezza. - Non abbiamo rapito noi seküre! Io, grazie a Dio, sono il nonno di questi bambini. Hasan e’ loro zio. Quando seküre e’ rimasta sola, che cosa poteva fare, si e’ rifugiata da noi. Se vuole puo’ tornare subito con i suoi figli. Ma non dimenticare che questa e’ la casa dove ha felicemente partorito e cresciuto i suoi figli». «seküre, - ripresi in modo avventato. - Vuoi tornare a casa di tuo padre?» Alle parole «casa» e «felicemente» aveva cominciato a piangere. «Mio padre non c'e’ piu’», disse. O mi era solo sembrato di sentirlo? I bambini le si attaccarono alla gonna, la fecero sedere e la abbracciarono; abbracciandosi tutti formarono un unico corpo piangente. Questa Esther non e’ assolutamente stupida. Capivo bene che seküre, piangendo, voleva accontentare tutte e due le parti prima di fare la sua scelta, ma sapevo anche che piangeva sinceramente. Perche’ anch'io avevo cominciato a piangere, e Hayriye, la serpe, si era unita al pianto. Ma l'assalto di Nero e dei suoi uomini comincio’ in quel momento, e mise a posto il gentile suocero dagli occhi verdi, l'unica persona in casa a non piangere. Cominciarono a battere contro le imposte della finestra e a forzare la porta. C'erano due persone davanti alla porta che la spingevano con una specie di mazza, ogni colpo sembrava il colpo di un cannone. «Tu sei un uomo gentile e con una certa esperienza, - dissi al suocero prendendo coraggio anche dalle lacrime. - Apri la porta e di' loro che seküre sta per venire, cosi’ quei cani rabbiosi li’ fuori si fermeranno». «Se fossi nei miei panni, getteresti in strada e lasceresti a questi cani una donna sola, per di piu’ tua nuora?» «E' lei che vuole andare», gli risposi. Mi asciugai il naso tappato dal pianto con il mio fazzoletto viola. «Allora puo’ aprire la porta e uscire», disse. Mi sedetti accanto a seküre e ai figli. Per via del rumore terribile di quelli che forzavano la porta, qualsiasi cosa
diventava una scusa per piangere. I bambini cominciarono a piangere piu’ forte, e cosi’ seküre ed io. Ma tutte e due in realta’ stavamo contando i colpi che cadevano come se dovessero demolire la casa e le urla minacciose, e piangevamo solo per guadagnare tempo. «Mia bella seküre, - dissi. - Tuo suocero ti da’ il permesso, tuo marito Nero ha accettato le tue condizioni, ti aspetta con amore, tu non hai niente da fare ormai qui dentro. Mettiti il mantello e il velo, prendi il tuo fagotto e i bambini, apri la porta e andiamocene buoni buoni a casa tua». Le mie parole provocarono ancora piu’ le lacrime nei bambini. E aprirono gli occhi di seküre. «Ho paura di Hasan, - disse. - La sua vendetta sarebbe terribile. Lui e’ spietato. Perche’, in fondo, qui sono venuta da sola». «Questo non significa assolutamente la fine del tuo nuovo matrimonio. Eri disperata, certo che dovevi rifugiarti da qualche parte. Tuo marito ti ha gia’ perdonata per quello che e’ successo, ti accetta. E Hasan lo terremo a freno come abbiamo fatto per anni». Le sorrisi. «Ma non saro’ io ad aprire la porta, - disse. - Sarebbe come tornare di mia volonta’». «Mia cara seküre, nemmeno io posso aprire la porta, - le spiegai. - Sai anche tu che se lo facessi, sarebbe come ficcare il naso nelle vostre faccende. Per questo si vendicherebbero con me nel modo piu’ crudele». Vidi dai suoi occhi che mi dava ragione. «Allora nessuno puo’ aprire la porta, - disse. - Lasciamo che la rompano ed entrino e ci portino via con la forza». Capii subito che questa era la soluzione migliore per seküre e i suoi figli ed ebbi paura. «Ma potrebbe essere versato del sangue, - dissi. - Se nella faccenda non interviene il cadi’, interviene il sangue, e la faida durera’ anni. Nessun uomo che voglia vivere con dignita’ resterebbe fermo a guardare se gli sfondano la porta, gli assalgono la casa e rapiscono una donna». Quando, invece di darmi una risposta ragionevole, abbraccio’ i figli e comincio’ a piangere con tutta se stessa, capii per l'ennesima volta, pentita, quanto fosse infida e astuta questa seküre. Una voce dentro di me diceva di lasciar perdere tutto e di andarmene, ma ormai neppure io potevo avvicinarmi alla porta squassata dai colpi. In realta’ avevo paura che entrassero dentro rompendola cosi’ come che non riuscissero a romperla. Perche’ pensavo che Nero, che aveva fiducia in me e paura di superare certi limiti, da un momento all'altro poteva ritirare i suoi uomini, incoraggiando il suocero. Quando mi avvicinai a seküre, vidi non solo che fingeva di piangere, ma addirittura tremava in un modo impossibile da imitare. Mi avvicinai alla porta e urlai con tutta la mia forza: - Basta, ora fermatevi! All'improvviso si fermarono sia il trambusto di fuori che i pianti nella casa. «Orhan potrebbe aprire la porta alla sua mammina, - dissi con un'ispirazione improvvisa e con voce dolce, come se parlassi direttamente al bambino. - Vuole tornare a casa, nessuno si arrabbierebbe con lui». Avevo appena finito di parlare che Orhan sfuggi’ all'abbraccio ormai allentato della madre, e come uno che ha vissuto in questa casa per anni apri’ prima il chiavistello, poi il batacchio e il saliscendi e arretro’ di due passi dalla porta. Dalla porta socchiusa che si apri’ da sola, entro’ il freddo di fuori. Ci fu un tale silenzio che sentimmo abbaiare lontano un cane pigro. Quando seküre bacio’ Orhan, tornato tra le sue braccia, sevket disse: «Lo diro’ a mio zio Hasan». Vidi seküre alzarsi, prendere il mantello e preparare il suo fagotto, e mi rilassai talmente che ebbi paura di ridere. Mi sedetti e presi due cucchiaiate di zuppa di lenticchie. Nero ebbe l'intelligenza di non avvicinarsi alla porta di casa. sevket a un certo punto si chiuse a chiave nella stanza della buonanima di suo padre ma, nonostante lo chiamassimo in aiuto, Nero non mise piede in casa e non lascio’ entrare neanche i suoi uomini. Quando la madre gli permise di prendere il pugnale col manico intarsiato di rubini dello zio Hasan, anche sevket accetto’ di uscire di casa. «State attenti a Hasan e alla sua spada rossa», disse il suocero con un'aria di vera preoccupazione piu’ che di sconfitta e vendetta. Bacio’ i nipoti, uno a uno, annusandoli sulla testa. Bisbiglio’ qualcosa anche all'orecchio di seküre. Quando vidi che guardava frettolosamente la porta, il muro, il focolare della casa per un'ultima volta, ricordai che questo era il luogo dove, con il primo marito, seküre aveva passato gli anni piu’ belli della sua vita. Ma si rendeva conto che adesso quella stessa casa era il rifugio di due uomini infelici e soli, che puzzava di morte? Dato che mi ero offesa, sulla via del ritorno non le restai vicina. Quello che avvicino’ tre donne - una serva, un'ebrea e una vedova - con due bambini sulla via del ritorno, non furono il freddo e il buio della notte, ma gli angusti quartieri sconosciuti, le strade difficili da passare e la paura di Hasan. Il nostro affollato convoglio protetto dagli uomini di Nero, una carovana che porta un tesoro, passo’ per vie trasversali, per strade secondarie, per quartieri remoti e deserti in modo da non incontrare guardie, giannizzeri, attaccabrighe, curiosi del quartiere, briganti e Hasan. A volte, nel buio pesto trovammo la strada scontrandoci tra noi e con i muri. Ci abbracciammo strette credendo che gli spettri, i ginn e i demoni che sarebbero usciti da sottoterra ci avrebbero rapinato e portato via nel buio. Sentimmo russare e tossire le persone che dormivano nel freddo della notte dietro le imposte chiuse e i muri che toccavamo e il lamento degli animali nelle stalle. Io, Esther, che sono passata per tutte le strade di Istanbul, esclusi i quartieri piu’ poveri e brutti, quei quartieri che ospitavano popolazioni di ogni genere e immigrati da qualche sfortunata nazione, anche se di tanto in tanto pensavo di svanire per le strade nel buio pesto e senza fondo, non riuscivo a riconoscere alcuni angoli dove passavo con pazienza, di giorno, con il mio fagotto in mano, i muri di via dei Sarti, l'intenso odore di letame che chissa’ perche’ sapeva di cannella, della stalla adiacente al giardino di Maestro Nurullah, le rovine di via dei Giocolieri, il passaggio dei Falconieri e la Fontana del Pellegrino Cieco nella piazza dove terminava il passaggio, e capii che non stavamo andando
a casa della buonanima del padre di seküre, ma in una qualche direzione a me ignota. Evidentemente Nero voleva nascondere la sua famiglia a Hasan che quando si arrabbiava poteva farne di tutti i colori e da quel demonio dell'assassino - e aveva trovato un posto dove rifugiarsi. Se avessi saputo quale, adesso lo direi a voi, e domani mattina a Hasan. Non per cattiveria, ma perche’ ero sicura che seküre avrebbe di nuovo voluto le attenzioni di Hasan. Nero, intelligente e giusto, non si fidava piu’ di me, affatto. Eravamo in una strada buia, dietro il Mercato degli Schiavi, quando udimmo urla, grida, lamenti a gran voce provenire dall'estremita’ della strada. Sentimmo un gruppo di gente che si faceva largo a spintoni e riconobbi con paura il tipico rumore di asce, spade, bastoni degli scontri e delle risse, insieme alle urla di chi soffre. Nero passo’ la sua grande spada a un uomo di fiducia, prese con forza il pugnale dalla mano di sevket - facendolo piangere - e allontano’ seküre, Hayriye e i bambini insieme al garzone del barbiere e altri due uomini. Mi disse che lo studente di scuola coranica mi avrebbe portata a casa per una scorciatoia; non mi lascio’ andare con loro. Era una coincidenza, o il furbacchione voleva tenermi nascosto il luogo dove si sarebbero rifugiati? In fondo alla stradina dove fummo costretti a passare c'era un negozio, avevo capito che si trattava di un caffe’. Forse la rissa con le spade era finita ancor prima di iniziare. Una folla entro’ urlando - dapprima credetti che lo saccheggiassero e distruggendo il caffe’. Prima portarono fuori le tazzine, i bricchi, i bicchieri, i tavolini perche’, alla luce delle fiaccole, noi curiosi vedessimo e ci servisse da lezione, poi li ruppero davanti agli occhi di tutti. Picchiarono un po' un uomo che cerco’ di fermarli, e che poi riusci’ a liberarsi. All'inizio pensai che ce l'avessero solo con il caffe’, come dicevano. Raccontavano dei danni del caffe’, di quanto facesse male agli occhi, allo stomaco, di come annebbiasse il cervello e facesse deviare l'uomo dalla retta via, dicevano che era un veleno europeo, e che il Profeta Maometto si era rifiutato di berlo anche se Satana travestito da bella donna gliel'aveva offerto. Sembrava una divertente lezione nel pieno della notte e, una volta a casa, pensavo di rimproverare Nesim dicendogli: «Non bere quel veleno». Li’ attorno c'erano molte locande e caravanserragli economici, e presto si radunarono parecchi fannulloni distratti entrati in citta’ clandestinamente senza essere registrati, incoraggiando i nemici del caffe’. In quel momento, capii che si trattava degli uomini del famoso predicatore di Erzurum, Maestro Nusret. Voleva ripulire i nidi del vino e della prostituzione, i caffe’, e punire coloro che erano usciti dalla via del Profeta Maometto, che coltivavano la danza del ventre e la musica, sostenendo che fossero riti da convento derviscio. Bestemmiarono contro i nemici della religione, contro chi lavora per Satana, gli idolatri, gli atei e coloro che disegnano. Solo allora ricordai che in questo caffe’ si appendevano disegni alle pareti e si malignava in modo impertinente sul Maestro di Erzurum. Usci’ un servo con il volto coperto di sangue, pensai che stesse per crollare a terra, ma con la manica della camicia si puli’ il sangue dalla fronte e dalle guance, si uni’ a noi e comincio’ a contemplare l'assalto. La folla spaventata indietreggio’ leggermente. Mi accorsi che Nero aveva riconosciuto qualcuno in mezzo alla folla e che si era bloccato in un attimo di esitazione. Gli uomini del predicatore di Erzurum si stavano raggruppando, pensai che stessero per arrivare i giannizzeri o qualche altro gruppo armato di bastoni. Le fiaccole si spensero, la folla si mescolo’. Nero mi prese per un braccio e mi porto’ dallo studente. «Passate per le strade secondarie, - disse. - Ti accompagna a casa». Anche lo studente voleva svignarsela al piu’ presto, ci allontanammo di corsa. Pensavo a Nero, ma se questa Esther rimane fuori dalla mischia, come potra’ raccontare il resto della storia?
Capitolo cinquantaquattresimo. Io, la donna Dicono: cantastorie effendi, tu puoi imitare qualsiasi cosa, ma non puoi essere una donna! Io sostengo esattamente il contrario. Si’, non mi e’ toccato in sorte il matrimonio, perche’ giravo di citta’ in citta’ a raccontare storie e a imitare tutto fino a perdere la voce, a notte fonda, nei caffe’, ai matrimoni, alle feste. Ma questo assolutamente non significa che io non conosca il genere femminile. Conosco molto bene le donne, anzi ne ho incontrate personalmente quattro, ne ho visti i volti e ho parlato con loro. Nell'ordine sono: 1. Mia madre buonanima; 2. La mia cara zia; 3. La moglie di mio fratello (lui mi picchiava sempre); una volta, mentre la stavo guardando, mi disse: «esci dalla stanza!» (e’ stato il mio primo amore); 4. La donna che ho visto per un attimo a una finestra aperta, a Konya, durante un viaggio. Anche se non le ho mai parlato, per anni ho provato e continuo a provare sentimenti lussuriosi nei suoi confronti. Forse adesso e’ morta. Siccome vedere una donna con il viso scoperto, parlarle, essere testimone, dei suoi atteggiamenti crea in noi uomini profondi turbamenti dei sensi e turbamenti morali, prima di sposarsi e’ meglio non vedere affatto le donne, specialmente quelle belle. L'unica soluzione per soddisfare i sensi e’ cercare l'amicizia dei bei ragazzi che non fanno rimpiangere le donne e, alla fine, possono diventare una dolce abitudine. Pare che nelle citta’ europee le donne vadano in giro in modo da lasciare scoperti non solo il viso, ma anche i capelli lucenti - la loro parte piu’ attraente - il collo, le braccia; e se e’ vero quello che si racconta, lasciano addirittura scoperta una parte delle gambe; e’ proprio a causa di cio’ che gli uomini camminano con difficolta’, perennemente eccitati, vergognandosi e provando dolore, un fatto che, ovviamente, ha paralizzato la societa’. Ed e’ questo il motivo per cui l'infedele europeo ogni giorno perde una fortezza di fronte all'Ottomano. Cosi’, dopo aver capito presto, nella mia prima giovinezza, che vivere lontano dalle belle donne era la via migliore per ottenere la felicita’ e la serenita’ dell'anima, la mia curiosita’ nei confronti delle donne e’ aumentata. Dato che a quei
tempi non avevo visto altre donne, escluse mia madre e mia zia, la mia curiosita’ prese una piega misteriosa, mi sentivo formicolare il cervello e capivo che era possibile sentire come loro solo facendo quello che facevano loro, mangiando quello che mangiavano loro, ripetendo le loro parole, imitando i loro atteggiamenti, indossando i loro abiti. Cosi’, un venerdi’ in cui mia madre, mio padre, mio fratello e mia zia erano andati al roseto di mio nonno al lido Fahreng, dissi loro di essere molto malato e rimasi a casa. «Dai, vieni sui prati, ci sono i cani, gli alberi, i cavalli, cosi’ li imiti e ci fai ridere. Che cosa farai da solo in casa?», mi chiese la buonanima di mia madre. Non potevo risponderle: «Mi mettero’ i tuoi vestiti e diventero’ donna, cara mamma». Cosi’ le dissi: «Resto qui». «Non essere noioso, - riprese mio padre. - Vieni che facciamo la lotta». Adesso, a voi fratelli miniaturisti e calligrafi raccontero’ cosa provai quando se ne furono andati, mentre indossavo, uno a uno, i capi di biancheria intima e gli abiti, e i segreti dell'essere donna che capii quel giorno. Posso dirvi subito questo: diversamente da quanto abbiamo letto spesso sui libri, da quanto abbiamo sentito dai predicatori, quando si diventa donna, in realta’, non ci si sente come Satana. Anzi, e’ esattamente il contrario. Quando mi misi le mutande di lana ricamate con motivi di rose della buonanima di mia madre, dentro di me si diffuse una dolce benevolenza, provai la sua stessa sensibilita’. Quando la camicia di seta verde pistacchio che mia zia non indossava mai per non sciuparla fu a contatto con la mia pelle nuda, dentro di me nacque l'amore nei confronti di tutti i bambini, me compreso. Volevo cucinare per tutto il mondo e allattare tutti. Cosi’, dopo aver piu’ o meno intuito cosa si prova ad avere i seni, per capire la cosa di cui ero piu’ curioso, essere una donna con grandi seni, mi infilai tante cose - calze, tovaglioli - e quando vidi l'enorme sporgenza, si’, va bene, allora mi sentii orgoglioso come Satana. Sapevo che gli uomini, anche solo vedendo l'ombra dei seni, mi sarebbero corsi dietro, mi avrebbero supplicato e si sarebbero fatti a pezzi pur di prenderli in bocca, e mi sentii molto forte, ma volevo davvero essere forte? La mia mente era confusa. Volevo essere forte e volevo anche che provassero pena per me, da una parte volevo che un uomo ricco, forte e intelligente, assolutamente sconosciuto, mi amasse follemente, e dall'altra ne avevo paura. Mi misi i braccialetti d'oro che mia madre nascondeva nelle calze di lana profumate di muschio che stavano accanto alle lenzuola ricamate a foglie in fondo alla cassa del corredo, mi spalmai sulle guance la cipria che lei metteva di ritorno dall'hamam per rendere le guance piu’ rosee, indossai il mantello color verde pino di mia zia e il velo sottile dello stesso colore, mi tirai su i capelli, e quando mi guardai allo specchio con la cornice di madreperla, rabbrividii. Anche se non li avevo assolutamente toccati, i miei occhi e le mie ciglia adesso erano diventati occhi e ciglia di donna. Si vedevano solo gli occhi e le guance, ma ero una donna molto bella e ne fui felice. Il mio pene, che se n'era reso conto prima di me, era eretto. Questo mi rese infelice. Nello specchio che tenevo in mano, osservai scorrere una lacrima che scese dal mio bell'occhio e in quel momento, dentro di me, torno’ il doloroso ricordo di una poesia che non ho mai dimenticato. Perche’ con un'ispirazione che mi venne dal Supremo Allah, la cantai come se fosse una canzone e la ballai cercando di dimenticare le mie pene: Dice il mio cuore indeciso, quando sono in Oriente in Occidente esser io voglio e quando sono in Occidente in Oriente esser io voglio. Altre mie parti dicono se sono uomo esser donna io voglio, se sono donna esser uomo io voglio. Come e’ difficile essere un essere umano, piu’ difficile ancora vivere una vita umana. Provar piacere col davanti come col didietro, con l'Oriente come con l'Occidente io voglio. Stavo per dire, mi raccomando, che i nostri fratelli seguaci del predicatore di Erzurum non sentano questa canzone che mi venne spontaneo cantare, si arrabbierebbero. Ma perche’ dovrei temerli? Forse non si arrabbieranno, perche’, non lo dico per fare pettegolezzi, per esempio quel famoso predicatore, il venerabile Quellochenone’neanchehusret Effendi, che e’ sposato, anche lui, proprio come voi miniaturisti sensibili, ama i bei ragazzi piu’ di noi donne, cosi’ mi hanno riferito. Io me ne frego, perche’ lo trovo brutto, e poi e’ molto vecchio. Ha perso i denti e, come dicono i bei ragazzi che gli si sono avvicinati, ha l'alito che puzza, scusatemi, come il culo di un orso. Va bene. Chiudo il discorso e torno al mio vero problema. Appena capii di essere molto bello, non volli piu’ lavare la biancheria, i piatti e uscire a fare le commissioni come le serve. La poverta’, le lacrime e l'infelicita’, piangere disperate davanti allo specchio e la tristezza sono cose per donne brutte. Devo trovare un marito che mi porti in palmo di mano, ma chi? Cosi’ cominciai a guardare dallo spioncino i figli dei pascia’ e dei nobili che la buonanima di mio padre chiamava a casa con scuse di ogni genere. Volevo trovarmi in una condizione simile a quella della famosa bella dalla bocca piccola e con due figli di cui tutti i miniaturisti sono innamorati. E meglio che vi racconti la storia della povera seküre. Ma, aspettate, avevo promesso che mercoledi’ sera vi avrei raccontato: La storia d'amore che Satana fa raccontare alla donna A dire il vero e’ molto semplice. accaduto a Kemerüstü, un quartiere povero della nostra Istanbul. Messer Ahmet, noto nel quartiere, era lo scrivano di Vasif Pascia’, un tipo tranquillo, sposato, con due figli, garbato. Un giorno vide a una finestra aperta una bella bosniaca dai capelli e dagli occhi neri, altissima, sottile, con la pelle d'argento, e perse la testa. Ma la donna era sposata, e non voleva assolutamente il messere, amava il suo bel marito. Cosi’, il povero messere non riuscí a confidare il suo problema a nessuno, divenne pelle e ossa, comincio’ a prendere il vino dal greco e a berlo, e alla fine non riusci’ piu’ a nascondere il suo amore alla gente del quartiere. E la gente, che adorava le storie d'amore e amava e rispettava molto anche il messere, dapprima provo’ rispetto per il suo amore e, scherzandoci su un paio di volte, fece finta di non capire. Ma poi, quando il messere, che non riusciva assolutamente a dominare il suo incurabile dolore, comincio’ a ubriacarsi ogni sera e a piangere a lungo seduto davanti alla porta della casa dove la bella dalla pelle
d'argento viveva felice con il marito, tutti ebbero paura. L'innamorato sofferente piangeva ogni sera e loro non riuscivano ne’ a picchiarlo ne’ a cacciarlo ne’ a consolarlo. E il messere, come un vero gentiluomo, senza offendere nessuno, piangeva da solo. Pian piano la sua incurabile malinconia si trasmise all'intero quartiere e procuro’ tristezza e infelicita’ a tutti; persero la gioia e, come la fontana che continuava a scorrere tristemente nella piazza, lui divenne la loro fonte di tristezza. E cosi’, prima la parola tristezza, poi la parola sfortuna, e poi l'idea di sterilita’ si diffusero nel quartiere e la gente inizio’ a crederci davvero. Alcuni traslocarono altrove, ad altri ando’ male il lavoro, altri ancora persero la voglia di lavorare e non riuscirono piu’ a maneggiare bene la loro arte. Un giorno, quando il quartiere era rimasto ormai deserto, il messere innamorato prese la moglie e i figli e se ne ando’ ad abitare da un'altra parte, e la bella dalla pelle d'argento e suo marito restarono completamente soli. La disgrazia di cui erano il motivo aveva rovinato il loro amore e li aveva allontanati. Vissero insieme per tutta la vita, ma non furono mai piu’ felici. Stavo per dire che questa storia mi piaceva molto perche’ raccontava quanto siano pericolosi le donne e l'amore ma, no, avevo dimenticato di essere donna, adesso dovevo dire un'altra cosa. Per esempio una cosa tipo: Ah, come e’ bello l'amore! Ma chi sono quegli sconosciuti che cercano di forzare la porta?
Capitolo cinquantacinquesimo. Mi chiamano Farfalla Quando vidi la folla, capii che i seguaci del predicatore di Erzurum stavano massacrando i nostri allegri miniaturisti. Tra la folla che assisteva all'assalto c'era anche Nero. Vidi che aveva un pugnale in mano ed era accanto ad alcuni tipi strani, Esther la famosa venditrice di corredi e altre donne con dei fagotti in mano. Quando vidi che la gente che veniva condotta fuori dal caffe’ veniva picchiata senza pieta’ e che la sala veniva distrutta crudelmente, pensai di fuggire. Poi, forse perche’ stavano arrivando i giannizzeri, gli uomini del predicatore di Erzurum spensero le fiaccole e fuggirono. Non c'era nessuno alla porta buia del caffe’, e nessuno guardava. Entrai dentro: era tutto rotto e, camminando, calpestai frammenti di tazzine, piatti, bicchieri, stoviglie e vetri. Una lampada appesa a un chiodo in alto sul muro non si era spenta durante la confusione, ma illuminava solo le macchie di fuliggine sul soffitto e non il pavimento completamente coperto di schegge, i tavolini sfasciati, i pezzi di legno della panca. Mi arrampicai sui cuscini, allungai la mano e presi la lampada. Alla sua luce mi accorsi dei corpi stesi a terra. Quando vedevo un volto coperto di sangue, non riuscivo a guardarlo, e mi avvicinavo a un altro. Il secondo corpo gemeva, quando vide la luce gli usci’ dalla bocca una voce da bambino, indietreggiai. Era entrato qualcun'altro. All'inizio mi spaventai, ma poi capii che era Nero. Ci avvicinammo insieme al terzo corpo sdraiato a terra. Quando accostai la lampada al suo volto, tutti e due vedemmo quello che gia’ sospettava un angolo della nostra mente: avevano ucciso il cantastorie. Sulla faccia, che era truccata come quella di una donna, non c'erano tracce di sangue, ma gli avevano pestato il mento, gli occhi, la bocca dipinta di rosso e l'avevano stretto al collo, era pieno di lividi. Aveva le mani dietro la schiena. Non era difficile immaginare che mentre uno teneva quel vecchio vestito da donna per le mani, gli altri l'avevano colpito in faccia per poi strangolarlo. Chissa’ se nel frattempo avevano detto: «Tagliategli la lingua, ha malignato sul nostro maestro»? «Porta qui la lampada», disse Nero. Sui macinini da caffe’, i setacci, i pezzi di bilance e tazzine tra la fanghiglia dei caffe’ rovesciati, attorno al focolare, si riflesse la luce della lampada che tenevo in mano. Nero, nell'angolo in cui ogni sera il cantastorie appendeva i suoi disegni, alla luce della lampada, cercava gli attrezzi del mestiere del morto, la cintura, il tovagliolo, il bastone. Puntando sul mio viso la luce della lampada che mi aveva strappato di mano, mi disse che voleva trovare i disegni. Si’, certamente, io ne avevo fatti due per amicizia. Riuscimmo a trovare solo la papalina di fattura persiana che la buonanima metteva sulla testa completamente rasata. Uscimmo nel buio della notte senza incontrare nessuno, passando per la porta posteriore a cui si accedeva da un passaggio strettissimo. Durante l'assalto, la folla e i miniaturisti dovevano essere fuggiti da questa porta, ma i vasi rovesciati e i sacchi di caffe’ per terra dimostravano che anche qui c'era stata una colluttazione. L'assalto al caffe’, lo spietato assassinio del maestro cantastorie, il terribile buio della notte ci fecero avvicinare. Pensavo che il silenzio tra Nero e me dipendesse da questo. Attraversammo un paio di strade, Nero mi diede in mano la lampada perche’ la portassi io, poi tiro’ fuori il pugnale e me lo appoggio’ sul collo. «Andremo a casa tua, - disse. - La voglio perquisire. Per essere sicuro». «L'hanno gia’ perquisita», gli dissi, e tacqui. Provai umiliazione, non rabbia. Il fatto che credesse ai pettegolezzi inventati su di me, non dimostrava che anche Nero era invidioso come tutti? Dimostrava poca fiducia in se’ anche dal modo in cui teneva il pugnale. La mia casa si trova proprio nella direzione opposta a quella della strada dove camminavamo dopo essere usciti dalla porta posteriore del caffe’. Per questo, per non incontrare gente, girando nel quartiere, tra le strade, una volta a destra una volta a sinistra, e passando per giardini vuoti che avevano l'odore triste degli alberi bagnati e solitari, tracciammo un ampio arco. A meta’ del cammino, eravamo arrivati in un certo posto, quando Nero disse: «Ho passato due giorni con Maestro Osman nella stanza del Tesoro a guardare le meraviglie degli antichi maestri».
Rimasi a lungo in silenzio. Dopo un bel po', ad alta voce, parlai anch'io: «A una certa eta’, anche se il miniaturista si siede davanti allo stesso leggio con Behzat, quello che vede farebbe gioire solo i suoi occhi, darebbe serenita’ ed entusiasmo alla sua anima, ma non arricchirebbe il suo talento. Perche’ la miniatura non si fa con gli occhi ma con le mani, e le mani, non solo all'eta’ di Maestro Osman, ma anche alla mia, ormai imparano con molta difficolta’». Gridavo perche’ la mia bella moglie, che ero sicuro che mi stesse aspettando, capisse che non ero solo e cosi’ non incontrasse Nero, ma non perche’ prendessi sul serio questo povero stupido presuntuoso con il pugnale in mano. Passando per la porta del cortile, mi parve di vedere la luce della lampada che si muoveva in casa, ma adesso, grazie al cielo, dentro era tutto buio. Entrare nella mia casa paradisiaca, dove passavo il mio tempo e i miei giorni cercando i ricordi di Allah per disegnare e, quando i miei occhi erano stanchi, a fare l'amore con la mia bellissima amata, sotto la minaccia di un animale con il pugnale in mano, mi sembro’ una violazione cosi’ spietata della mia intimita’ che giurai di vendicarmi di Nero. Guardo’ i miei fogli, una pagina che stavo per finire - i prigionieri che ottengono la clemenza del sultano supplicandolo di liberarli dalle catene dei debiti - i colori, i leggii, i coltelli, i temperini, i pennelli, tutto quello che c'era sul mio tavolo da lavoro, e ancora i fogli, gli strumenti per lucidarli, tra i portapenne e le scatole per i fogli, l'armadio, le casse, sotto i cuscini, un paio di forbici, sotto il morbidissimo cuscino rosso, e poi sotto il tappeto e ancora, girando intorno, riguardo’ negli stessi posti, avvicinando la lampada che aveva in mano. Come mi aveva detto quando estrasse il pugnale, non avrebbe cercato in tutta la casa, ma nella stanza dove disegnavo. Non avrei potuto nascondere quello che volevo nascondere nella stanza da dove mia moglie ci stava spiando adesso? «C'era un ultimo disegno del libro di mio zio, - disse. - L'assassino l'ha rubato». «Era diverso dagli altri, - gli spiegai. - In un angolo, la buonanima di tuo zio mi aveva fatto fare un albero. Dietro... In mezzo e davanti ci doveva essere il ritratto di qualcuno, probabilmente del Nostro Sultano. Lo spazio era pronto, ma non era ancora stato disegnato. Dato che in questo disegno, come fanno gli europei, gli oggetti sul fondo erano di dimensioni ridotte, mi aveva chiesto di disegnare l'albero piccolo. Andando avanti, il disegno dava l'impressione di guardare il mondo dalla finestra, non di guardare un disegno. Capii allora che i contorni e la doratura di questo disegno, fatto con il metodo europeo della prospettiva, costituivano la cornice della finestra». «La cornice e la doratura le faceva Raffinato Effendi». «Se e’ questo che vuoi sapere, ho gia’ detto che non l'ho ucciso io». «Anche se uno uccide, non dice di aver ucciso», disse in fretta e mi chiese cosa facessi nel caffe’ durante l'assalto. Aveva sistemato la candela un po' piu’ avanti rispetto al cuscino su cui ero seduto, tra i miei fogli e le pagine che avevo disegnato, in modo da illuminarmi il viso. Lui continuava a girare come un'ombra nel buio, per la stanza. Oltre a dire quello che ho gia’ detto a voi, e cioe’ che in realta’ andavo di rado al caffe’ e ci ero passato per caso, gli dissi anche che avevo fatto due dei disegni appesi al muro, ma in realta’ non mi piaceva quel caffe’. «Perche’, - dissi, se la miniatura non acquista forza dal talento del miniaturista, dal suo amore per essa e dalla sua voglia di abbracciare Allah, ma dal desiderio di umiliare e penalizzare le cattiverie del mondo, alla fine umilia e penalizza se stessa. Anche se umilia il predicatore di Erzurum, o Satana. E poi, se in quel caffe’ non fossero stati criticati i seguaci del predicatore di Erzurum, forse stanotte non sarebbe stato assaltato». «Pero’ ci andavi comunque», disse il meschino. «Ci andavo perche’ a volte mi capitava di divertirmi». Ma capiva che parlavo onestamente? «Noi figli di Adamo, anche se, grazie alla nostra coscienza e intelligenza, sappiamo che una cosa e’ brutta e sbagliata, possiamo allo stesso tempo provare piacere per quella cosa, - aggiunsi. - Mi vergogno di provare piacere per quei disegni mediocri, per quelle imitazioni, per le storie su Satana, sul denaro, sui cani, raccontate in maniera rozza, senza rime». «Allora perche’ andavi in quel caffe’ con i miscredenti?» «Va bene, - risposi, dando retta a una voce interiore, - a volte anch'io ho un dubbio che mi rode come un tarlo, te lo dico: da quando si sa apertamente, non solo da Maestro Osman ma anche dal Nostro Sultano, che io sono il miniaturista piu’ abile e di talento tra i maestri del nostro laboratorio, ho cominciato ad avere talmente paura della gelosia degli altri miniaturisti che, per non farmi affogare, ogni tanto vado dove vanno loro, sto con loro, cerco di somigliare a loro. Capisci? E da quando hanno cominciato a dire che sono un seguace del predicatore di Erzurum, perche’ nessuno desse credito a questa diceria, frequento quel caffe’ di vigliacchi miscredenti». «Maestro Osman mi ha detto che fai molte cose come se dovessi scusarti della tua abilita’ e del tuo talento». «Che altro ti ha detto su di me?» «Che fai assurdi disegni su chicchi di riso e su unghie, perche’ gli altri credano che tu, per amore della miniatura, hai abbandonato la vita. Ha detto che, dato che ti vergogni del talento che Allah ti ha donato, cerchi sempre di essere gradito agli altri». «Maestro Osman e’ al livello di Behzat, - dissi sinceramente. - Altro?» «Mi ha rivelato i tuoi difetti senza il minimo imbarazzo», continuo’ il vile. «Parlami dei miei difetti». «Ha detto che malgrado il tuo talento, non disegni per amore della miniatura, ma per renderti gradito. La cosa che ti fa piu’ piacere quando disegni e’ immaginare il piacere che provera’ chi guardera’ il tuo disegno. Invece dovresti disegnare per il mero piacere di disegnare». Il fatto che Maestro Osman avesse rivelato liberamente quello che pensava di me a un uomo che non era stato capace di dedicare la propria vita alla miniatura ma al mestiere di scrivano, o funzionario di un ministero, e all'adulazione, mi feri’ il cuore. Nero poi aggiunse:
«I grandi antichi maestri non hanno mai rinunciato a metodi e stili coltivati negli anni sacrificandoli a beneficio di un nuovo scia’, dei piaceri di un nuovo principe o dei gusti di un'altra epoca, e per questo motivo si accecavano eroicamente per non essere costretti a cambiare metodo e stile. Voi, invece, con la scusa che cosi’ vuole il Nostro Sultano, per le pagine del libro di mio zio avete imitato, bramosi e disonesti, i maestri europei». «Di certo, il grande Maestro Osman non voleva dire niente di male. Vado a preparare una tisana di tiglio per te, mio ospite». Passai nella stanza accanto. La mia amata, che indossava la camicia da notte di seta cinese comprata da Esther, mi salto’ addosso facendomi il verso: «Vado a preparare una tisana di tiglio per te, mio ospite!», e afferro’ la mia canna. In fondo all'armadio piu’ vicino al nostro materasso, che lei aveva preparato per terra, tra le lenzuola profumate di petali di rosa trovai la mia spada con l'impugnatura tempestata di agata e la sfoderai. talmente tagliente che se ci butti sopra un fazzoletto di seta lo fende in due, e se ci lasciassi cadere una lamina d'oro, la taglierebbe a pezzi regolari, come se fossero tracciati con la riga. Nascosi la spada sotto il vestito e tornai nello studio. Nero Effendi era cosi’ contento di potermi interrogare che girava ancora attorno al cuscino rosso con il pugnale in mano. Misi una pagina disegnata a meta’ sul cuscino. «Guarda questo», dissi. S'inginocchio’ curioso, cerco’ di capire. Gli andai alle spalle, lo assalii e lo feci cadere. Gli cadde il pugnale. Lo presi per i capelli e, premendogli la testa a terra, gli appoggiai da sotto la spada sul collo. Con il mio corpo pesante schiacciavo il corpo delicato di Nero steso a pancia in giu’, e con il mento e la mano gli premevo la testa in modo che toccasse la punta della spada. Una mia mano teneva i suoi capelli sporchi, l'altra appoggiava la spada sulla delicata pelle del suo collo. Fu intelligente e non si mosse assolutamente, sapeva che avrei potuto versare subito il suo sangue. Mi innervosiva stare cosi’ vicino ai suoi capelli ricci, alla sua nuca invitante, a cui, in un altro momento, avrei voluto dare un colpo insolente, alle sue brutte orecchie. «Mi trattengo a stento dall'ucciderti su due piedi», gli sussurrai all'orecchio come se gli confidassi un segreto. Mi piaceva che mi ascoltasse come un bambino ubbidiente senza dire nulla: «Conosci la leggenda del Libro dei Re, - gli bisbigliai. - Feridun Scia’ commette un errore e divide in tre il suo paese, lasciando le zone piu’ brutte ai suoi primogeniti e quella migliore, la Persia, al figlio minore, Ireç. Tur, deciso a vendicarsi, inganna il fratello minore Ireç di cui era geloso e, prima di tagliargli la gola, proprio come faccio io adesso, lo tiene per i capelli e, proprio come faccio adesso, si appoggia al fratello con tutto il suo corpo. Senti il peso del mio corpo su di te?» Non rispose, ma vedevo che mi ascoltava dai suoi occhi che guardavano come una vittima sacrificale, ormai ero ispirato: «Io sono fedele al metodo e allo stile persiano, non solo nella pittura, ma anche nel mio modo di appoggiare la spada al collo e di tagliare con precisione la testa. Un'altra rappresentazione del genere, che piace molto, l'ho vista nei disegni che raccontano la morte di Scia’ Siyavus». A Nero, che mi ascoltava in silenzio, raccontai a lungo di come Siyavus si era preparato alla vendetta nei confronti dei fratelli, di come aveva bruciato tutto il suo patrimonio, aveva salutato sua moglie e, montato a cavallo, era andato in guerra con il suo esercito, di come aveva perso la guerra, di come venne trascinato a terra per i capelli, in mezzo alla polvere del campo di battaglia coperto di cadaveri, a pancia in giu’ come lui adesso e, alla fine, di come gli venne appoggiato al collo un pugnale; mentre lo scia’ leggendario era in questa situazione, amici e nemici discussero tra loro se ucciderlo o meno, e lo scia’ sconfitto li ascoltava con la faccia a terra. Chiesi alla mia vittima: «Ti piace quel disegno? Il collo di Siyavus steso a terra viene tagliato da Geruy che gli si avvicina da dietro e gli salta addosso appoggiandogli la spada sul collo come faccio io, afferrandogli i capelli. Poco dopo, dove prima scorreva il suo sangue rosso, usci’ del fumo nero dalla terra arida, e in quel punto sboccio’ un fiore». Rimanemmo un po' in silenzio ad ascoltare le urla lontane dei seguaci del predicatore di Erzurum per le strade. La disgrazia e il terrore che c'erano li’ fuori, subito ci avvicinarono, noi due, stesi a terra uno sopra l'altro. «Ma in tutti quei disegni, - dissi stringendo di piu’ i capelli che tenevo nel palmo della mano, - si sente la difficolta’ di disegnare delicatamente due persone che si odiano e hanno i corpi intrecciati, come noi. come se il tradimento, la gelosia e la confusione della guerra prima del magico e meraviglioso momento del taglio della testa, fossero un po' troppo presenti nei disegni. Anche i piu’ grandi maestri di Kazvin fanno fatica a disegnare due uomini uno sopra l'altro, confondono tutto. Invece, guarda, noi due siamo piu’ ordinati, piu’ fini». «La spada taglia», si lamento’. «Grazie caro per aver parlato, ma non taglia. Faccio attenzione, non vorrei compromettere la bellezza della nostra posizione. Gli antichi grandi maestri, in tutte quelle rappresentazioni di amore, morte e guerra, quando disegnavano i corpi avvinghiati come un unico corpo, ci facevano solo venire le lacrime agli occhi. Guarda, la mia testa si e’ avvicinata alla tua nuca come se fosse parte del tuo corpo. Sento l'odore dei tuoi capelli e della tua nuca. Le mie gambe sono distese attorno alle tue con tale armonia che chi ci vede potrebbe pensare a un raffinato animale a quattro zampe. Senti l'equilibrio del mio peso sul sedere e sulla schiena?» Ci fu un silenzio, ma non spinsi la spada, perche’ lui avrebbe potuto sanguinare. «Se non parli, potrei morderti quest'orecchio», gli bisbigliai all'orecchio. Quando nei suoi occhi vidi che era pronto a parlare, gli ripetei la domanda: «Senti l'equilibrio del mio peso su di te?» «Si’». «bello? Siamo belli? - chiesi. - Siamo belli quanto i leggendari eroi che si uccidono delicatamente a vicenda nei capolavori degli antichi maestri?» «Non lo so, - disse Nero. - Dovrei avere uno specchio». Quando immaginai mia moglie che ci spiava dalla stanza accanto alla luce della lampada del caffe’ poco distante da noi,
ebbi paura di mordere veramente l'orecchio di Nero per l'eccitazione. «Tu, Nero Effendi, che sei entrato in casa mia e nella mia intimita’ con il tuo pugnale per interrogarmi, - continuai, adesso senti la mia forza su di te?» «Sento anche che hai ragione». «Adesso fammi la domanda che vuoi». «Raccontami come ti accarezzava Maestro Osman». «Quando ero apprendista, quando ero molto piu’ fine, delicato e bello di adesso, mi saliva sopra come sono salito adesso io su di te. Mi accarezzava le braccia, a volte mi faceva anche male, ma tutto questo mi piaceva, perche’ ammiravo la sua cultura, il suo talento e la sua forza e non pensavo male perche’ gli volevo bene. Voler bene a Maestro Osman per me era la via che mi apriva all'amore per la miniatura, i colori, i fogli, le penne, la bellezza della pittura, e tutto quello che veniva disegnato, e poi il mondo e Allah. Maestro Osman e’ piu’ di un padre per me». «Ti picchiava molto?», chiese. «Mi picchiava giustamente, e lo faceva in maniera obiettiva, come deve picchiare un padre, ma allo stesso tempo mi picchiava anche facendomi male, mi puniva per insegnarmi come deve picchiare un maestro. Oggi mi rendo conto che ho imparato molte cose meglio e piu’ velocemente grazie al dolore e alla paura del righello con cui mi colpiva sulle unghie. Quando ero apprendista, per non farmi prendere per la frangia e farmi sbattere la testa al muro, non facevo traboccare il colore, non consumavo inutilmente il liquido d'oro, mi imprimevo per bene nel cervello la piega della zampa del cavallo, correggevo l'errore di chi aveva tracciato i contorni, pulivo i miei pennelli in tempo e imparavo a dedicare tutta la mia attenzione e la mia anima alla pagina. Dato che devo alle botte ricevute il mio talento e la mia maestria, adesso picchio i miei apprendisti a cuor leggero. So che anche le botte ingiuste, se non feriscono l'orgoglio dell'apprendista, alla fine gli torneranno utili». «Ma, comunque, quando picchi un apprendista dal bel viso, dallo sguardo dolce, dal carattere d'angelo, a volte esageri solo per il tuo godimento; capisci che anche Maestro Osman ha fatto cosi’ con te?» «A volte mi colpiva dietro l'orecchio con lo strumento di marmo per lucidare il foglio, e per giorni il mio orecchio ronzava e andavo in giro mezzo sordo. A volte mi dava uno schiaffo e per settimane la guancia mi bruciava facendomi venire le lacrime agli occhi. Mi ricordo queste cose, ma voglio comunque bene al mio maestro». «No, - disse Nero. - Ti arrabbiavi con lui. Per la rabbia che si e’ accumulata pian piano dentro di te, ti sei vendicato disegnando per il libro di mio zio, imitazione europea». «Tu non conosci affatto i miniaturisti. esattamente il contrario. Le botte ricevute durante l'infanzia legano il miniaturista al suo maestro fino alla morte con un amore profondo». «per gelosia fraterna che a Ireç e a Siyavus il collo venne tagliato infidamente e crudelmente con la spada appoggiata da dietro come adesso fai tu con me. E la gelosia dei fratelli nel Libro dei Re e’ provocata sempre da un padre ingiusto...» «vero». «Il vostro padre ingiusto che vi fa litigare, adesso si prepara a tradirvi», disse insolente. «Ahh, basta, taglia», si lamento’. Grido’ ancora un po' per il dolore. «Si’, e’ un lavoro di un attimo tagliarmi la gola e far scorrere il mio sangue come si fa con le pecore da sacrificare. Ma se lo fai senza ascoltare quello che ti raccontero’ - a dire la verita’ non credo che tu lo possa fare, ahh, basta - rimarrai sempre curioso di sapere cosa stavo per raccontarti. Molla un po' la spada». La mollai un po'. «Maestro Osman, che e’ stato testimone dello sbocciare del vostro talento, dono di Allah, come un fiore primaverile, e del suo trasformarsi in abilita’ grazie alle sue attenzioni, seguendo ogni vostro passo, ogni vostro respiro fin dalla vostra infanzia, adesso vi volta le spalle per proteggere il suo laboratorio e il metodo ai quali ha dedicato tutta la vita». «Il giorno in cui abbiamo sepolto Raffinato Effendi ti avevo raccontato tre storie per farti capire che brutta cosa e’ quel che si chiama stile». «Ma erano storie sullo stile del singolo miniaturista, - intervenne Nero attento. - Mentre invece l'agitazione di Maestro Osman e’ volta a proteggere lo stile del laboratorio». Racconto’ a lungo di come il sultano desse importanza al ritrovamento del vigliacco che aveva ucciso Raffinato Effendi e suo zio, e che a questo scopo gli aveva aperto perfino la porta del Tesoro del Palazzo Interno, di come Maestro Osman stava sfruttando questa occasione per sabotare il libro di suo zio e penalizzare coloro che, tradendolo, avevano iniziato a imitare i maestri europei. Mi disse anche del cavallo col naso tagliato, che Maestro Osman dubitava di Oliva per il suo stile, ma che avrebbe consegnato al boia Cicogna perche’, come capo miniaturista, era sicuro della sua colpevolezza. Sentivo che, sotto la pressione della spada, diceva la verita’ e volevo baciarlo perche’ si era dedicato come un bambino al suo racconto. Non ebbi assolutamente paura delle sue parole. Perche’ il fatto che Cicogna si togliesse di mezzo significava che sarei potuto diventare io il capo miniaturista dopo la morte - che Allah la ritardi - di Maestro Osman. Non mi inquietava la possibilita’ che queste cose potessero realizzarsi, ma che potessero non realizzarsi. Il vuoto che sentivo tra le parole della storia significava che Maestro Osman poteva sacrificare Cicogna, cosi’ come me. Pensare a questa incredibile possibilita’ mi faceva una tremenda paura, e mi terrorizzava rimanere senza un padre, senza un luogo dove andare. Riflettendoci, mi veniva voglia di conficcare la spada nel collo di Nero, ma mi trattenni e non discussi l'argomento ne’ con lui ne’ con me stesso. Perche’ mai fare un paio di disegni assurdi per il libro di Zio Effendi ispirandoci ai maestri europei avrebbe dovuto metterci nella posizione di traditori? Pensai di nuovo che dietro la morte di Raffinato Effendi ci fosse un complotto di Cicogna e Oliva contro di me e tolsi la spada dal collo di Nero. «Andiamo insieme da Oliva, perquisiamo la sua casa e mettiamo tutto sottosopra, - dissi. - Se ha l'ultimo disegno, almeno capiremo che non dobbiamo piu’ avere paura di nessuno. Se non ce l'ha, lo prendiamo con noi e assaliamo la
casa di Cicogna». Gli dissi di fidarsi di me e che il suo pugnale sarebbe bastato a tutti e due. Gli chiesi scusa per non avergli offerto nemmeno una tisana di tiglio. Mentre prendevo la lampada del caffe’ da terra, per un attimo osservammo tutti e due con sguardo pieno di significato il cuscino su cui l'avevo gettato. Mi avvicinai con la lampada in mano e guardai il taglio indistinto che aveva sul collo, sarebbe stato il segno della nostra amicizia. Nero aveva perso un po' di sangue. Per le strade si sentiva ancora il rumore dei seguaci del predicatore di Erzurum e di quelli che li inseguivano, ma nessuno bado’ a noi. Raggiungemmo presto la casa di Oliva. Bussammo alla porta del cortile, bussammo alla porta della casa e, impazienti, bussammo anche alle persiane. Non c'era nessuno, avevamo fatto cosi’ tanto rumore che sicuramente non poteva dormire. Fu Nero a proporre quello che pensavamo entrambi. Entriamo? Con la parte smussata del pugnale di Nero forzai il ferro della serratura, poi, infilando il pugnale nella porta, spingendola e flettendo la serratura, la rompemmo. Da dentro arrivo’ odore di umidita’, sporcizia e solitudine di anni. Alla luce della candela vedemmo un letto disordinato e, gettati alla rinfusa sui cuscini, cinture, panciotti, due turbanti, camicie, il vocabolario persiano-turco di Nimetullah Effendi dell'ordine dei dervisci naksbandi, il mobiletto per posare i turbanti, del tessuto pettinato di doppia altezza, ago e filo, un piatto di rame pieno di bucce di mela, tanti cuscini, un copriletto di velluto, colori, pennelli e tutto il materiale per dipingere. Stavo per gettarmi tra i fogli sul suo banco da lavoro, sulla carta indiana tagliata attentamente e sulle pagine disegnate, quando mi trattenni. Prima di tutto, perche’ sapevo che Nero era piu’ curioso di me, e che non porta assolutamente fortuna a un maestro miniaturista frugare tra le cose di un altro meno dotato. Oliva non e’ abile come si crede, e’ solo volenteroso. Cerca di compensare la sua mancanza di abilita’ con l'ammirazione per gli antichi maestri. Ma le vecchie leggende possono infiammare solo l'immaginazione del miniaturista, e’ la mano che fa la miniatura. Mentre Nero guardava dappertutto, perfino in fondo al cesto della biancheria sporca, in tutte le casse, dentro le scatole, io, senza toccare nulla, davo un'occhiata agli asciugamani di Bursa di Oliva, al suo pettine di ebano, al suo asciugamano da hamam, sporco, alle bottiglie di acqua di rose, a un ridicolo asciugamano di stoffa indiana, alle sue giacche di maglia, al suo mantello pesante e sporco, a un vassoio di rame tutto storto, ai suoi oggetti - economici e trasandati rispetto ai soldi che guadagnava - e ai suoi tappeti sporchi. O Oliva era molto tirchio, o nascondeva i suoi soldi, oppure li spendeva e spandeva da qualche parte... «proprio una casa da assassino, - dissi colto da ispirazione. - Non c'e’ neanche un tappeto da preghiera». Ma non era quello che avevo in mente. Ci pensai. «Sono oggetti di un uomo che non sa essere felice...» Ma parte della mia mente intuiva che l'infelicita’ e la vicinanza a Satana erano utili alla miniatura. «L'uomo, anche se sa come essere felice, non riesce a esserlo», commento’ Nero. Mi mise davanti una serie di disegni fatti su fogli grezzi di Samarcanda, ispessiti da altri fogli che aveva tirato fuori dal fondo di una cassa. Vedemmo un simpatico Satana proveniente dal lontano Khorasan che sbucava da sottoterra, un albero, una bella donna, un cane e il disegno della morte che avevo fatto io. Erano i disegni che ogni sera il cantastorie ucciso appendeva al muro quando raccontava una storia indecente. Alla domanda di Nero, gli mostrai il mio disegno della morte. «Anche nel libro di mio zio ci sono gli stessi disegni», disse. «Sia il cantastorie che il proprietario del caffe’ avevano capito che far fare ai miniaturisti i disegni da appendere ogni sera al muro era piu’ intelligente. Il cantastorie faceva fare un disegno a noi miniaturisti in fretta, ci chiedeva di spiegargli un po' della storia, gli scherzi dei miniaturisti, poi inventava qualcosa anche lui e iniziava subito il suo racconto». «Perche’ hai fatto questo disegno della morte che avevi gia’ fatto per il libro di mio zio?» «Lo voleva il cantastorie, era solo un disegno. Ma l'ho fatto senza la cura che avevo dedicato al libro di tuo zio, in fretta, come voleva la mia mano. Anche gli altri hanno disegnato per il cantastorie, forse per scherzo, cio’ che avevano gia’ disegnato per quel libro segreto, ma in modo rozzo e semplice». «Chi aveva disegnato il cavallo? - chiese. - Ha il naso tagliato». Avvicinando la lampada contemplammo il cavallo ammirati. Somigliava al cavallo fatto per il libro di suo zio, era stato disegnato con meno cura e per un gusto piu’ modesto. Era come se qualcuno, oltre a dare meno soldi al miniaturista e avergli messo fretta, gli avesse fatto disegnare un cavallo rozzo e, forse proprio per questo motivo, piu’ longevo. «Forse Cicogna sa chi ha disegnato questo cavallo, - dissi. - Quello stupido presuntuoso non riesce a vivere senza ascoltare i pettegolezzi dei miniaturisti e viene ogni sera al caffe’. Sono sicuro che e’ stato Cicogna a disegnare questo cavallo».
Capitolo cinquantaseiesimo. Mi chiamano Cicogna Farfalla e Nero arrivarono a mezzanotte, sistemarono i disegni a terra, uno a uno, e mi chiesero di dire chi li avesse fatti. Sembrava il gioco che facevamo da piccoli, «Di chi e’ il turbante». Si disegnavano sui fogli i copricapi conici, i turbanti da maestro di religione, da cavaliere, da donna, da boia, da dignitario di corte, da scrivano e si chiedeva a chi appartenessero, poi le risposte venivano confrontate con i nomi scritti su un foglio coperto a faccia in giu’. Dissi che il cane l'avevo disegnato io. Avevamo raccontato tutti la sua storia al cantastorie ucciso in quel modo vile. Spiegai che era stato il simpatico Farfalla, che mi stava puntando il pugnale alla gola, a disegnare la Morte sulla quale
adesso ondeggiava la luce della lampada. Ricordavo che Oliva, pieno di entusiasmo, aveva disegnato Satana, forse era la sua storia, aveva detto la buonanima. Io avevo iniziato l'albero, e i miniaturisti che erano venuti al caffe’ avevano disegnato le foglie. E raccontammo anche la storia dell'albero, cosi’ come quella del rosso, stessa cosa. Su un foglio era gocciolato del rosso, il cantastorie diceva che non ci si poteva fare un disegno. Facemmo gocciolare ancora piu’ rosso, poi tutti i miniaturisti, oltre a disegnare qualcosa di rosso in un angolo del disegno, spiegarono la storia, in modo che il cantastorie la raccontasse per noi. Questo bellissimo cavallo, l'ha disegnato Oliva - bravo! - e la donna triste, mi ricordo, Farfalla. In quel momento Farfalla mi tolse il pugnale dal fianco e disse a Nero che era stato lui a disegnare la bella donna, si’, adesso se lo ricordava. Tutti avevamo disegnato i soldi del mercato, invece i due dervisci, ovviamente, li aveva disegnati Oliva, diretto discendente dei dervisci kalenderi. La loro dottrina si basa sull'elemosina e sullo scoparsi i bei ragazzini, infatti il loro sceicco, Evhad-üd Dini Kirmani, duecentocinquant'anni fa aveva scritto un libro su queste cose e aveva composto una poesia dove riconosceva nei bei volti la bellezza di Allah. Fratelli, maestri miniaturisti, scusate il disordine della mia casa, ci avete colto di sorpresa, non abbiamo potuto offrirvi caffe’ ambrato ne’ arance dolci perche’ mia moglie dorme ancora nella stanza accanto. Mi dicevo, speriamo che non trovando cio’ che cercano nelle ceste che aprono con curiosita’ e frugano fino in fondo, tra tessuti pettinati in doppia altezza, stringhe, cinture estive di seta indiana e mussola, cotonine persiane e grembiuli nelle casse e sotto tappeti e cuscini, tra le pagine miniate che ho preparato per vari libri e le pagine dei libri rilegati, non entrino improvvisamente nella stanza accanto in modo che non sia costretto a sporcarmi le mani di sangue. Devo comunque confessare che comportarmi come se avessi molta paura di loro mi riempiva di piacere. Il talento del miniaturista si basa sul fare attenzione alla bellezza del momento e a prendere tutto sul serio, come sul prendere distanza con l'abilita’ di uno scherzo tra se stessi e questo mondo che lo prende troppo sul serio, facendo un passo indietro come per guardarsi allo specchio. Cosi’, dato che me lo chiesero, dissi loro che si’, il caffe’ era affollato come capitava spesso, durante l'assalto dei seguaci del predicatore di Erzurum c'erano circa quaranta persone insieme a me: Oliva, Nasir il miniaturista specializzato in contorni, il calligrafo Cemal, due giovani maestri miniaturisti, giovani calligrafi che adesso vivono con loro e il bellissimo apprendista Rahmi, altri begli apprendisti, sei, sette persone tra poeti, ubriaconi, drogati e dervisci e altri ancora che si erano aggiunti a questa folla felice e spiritosa raggirando il proprietario del caffe’. Raccontai che quando inizio’ l'assalto, fummo presi dal panico e, mentre l'inutile folla di curiosi raccolta dal proprietario del caffe’ comincio’ a fuggire in preda alla paura di venire accusata di qualcosa dalle porte anteriori e posteriori, a nessuno venne in mente di difendere coraggiosamente il caffe’ e il povero vecchio cantastorie travestito da donna. Ero triste per questo? Si’! Io, il pittore Mustafa, detto Cicogna, che ho dedicato sinceramente tutta la vita alla miniatura, trovo necessario incontrare ogni sera i miei fratelli miniaturisti da qualche parte, chiacchierare, scherzare e giocare con loro, raccontarci storie, poesie, motti di spirito, dissi, guardando negli occhi quel Farfalla dal cervello da gallina che aveva assunto l'aria di un ragazzino grassottello con le lacrime agli occhi che soffre molto di gelosia. Il vostro Farfalla, che ha ancora gli occhi belli come quelli dei bambini, da apprendista era una bellezza molto piu’ delicata e aveva una pelle stupenda. Cosi’, dato che me lo chiesero, raccontai che il secondo giorno che la buonanima dell'anziano cantastorie che lavorava girando di citta’ in citta’, di quartiere in quartiere, inizio’ a recitare, un miniaturista appese al muro un disegno, forse per scherzo, e il cantastorie chiacchierone, che se ne accorse, comincio’ a parlare come se fosse il cane del disegno e tutto questo piacque molto. E cosi’ si continuo’ ogni sera con i disegni fatti dai maestri miniaturisti e gli scherzi bisbigliati all'orecchio del cantastorie. Le insinuazioni sul predicatore di Erzurum venivano incoraggiate anche dal proprietario del caffe’, un tipo di Edirne, sia perche’ rallegravano i miniaturisti che temevano la rabbia del predicatore, sia perche’ portavano nuovi clienti al caffe’. Mi dissero di aver trovato i disegni che avevamo davanti e che il cantastorie appendeva ogni sera dietro di se’ nella casa deserta di nostro fratello Oliva, e chiesero il mio parere. Dissi che non c'era bisogno di nessun parere, e che anche il proprietario del caffe’ era un derviscio kalenderi, un mendicante, un ladro, un vile barbaro come Oliva. Spiegai che probabilmente Raffinato Effendi, che era ingenuo e aveva una gran paura delle parole e specialmente di quelle pronunciate dal predicatore, aggrottando le sopracciglia, durante le prediche del venerdi’, aveva tentato di lamentarsi di loro con i seguaci del predicatore di Erzurum. Oppure, con grande probabilita’, quando lui aveva cercato di avvisarli, ma cosa fate, non fate cosi’, Oliva, che ha lo stesso carattere del proprietario del caffe’, ha ucciso il povero doratore senza pieta’. E i seguaci del predicatore di Erzurum, arrabbiati per questo, hanno ucciso Zio Effendi considerandolo il responsabile della morte di Raffinato Effendi per via del libro di cui, forse, lui aveva raccontato. E oggi, per ulteriore vendetta, hanno assaltato il caffe’. Ma quel ciccione di Farfalla e Nero, serissimo (sembrava un fantasma), che frugavano uno a uno i miei oggetti con il piacere di aprire ogni coperchio, di sollevare ogni pietra, quanta attenzione prestavano alle mie parole? Quando, nella cassa di noce miniata, trovarono i miei stivali, l'armatura e gli strumenti da guerra, vidi la gelosia sul volto infantile di Farfalla e ripetei orgoglioso quello che tutti sapevano bene. Io sono il primo miniaturista musulmano che e’ andato in guerra con l'esercito e che, guardando attentamente, ha disegnato cio’ che ha visto! Quando Farfalla mi chiese di indossare l'armatura e fargli vedere cosa mettevo sotto, senza sentirmi in imbarazzo, mi tolsi la giacca foderata di pelliccia di coniglio nero, la camicia, i pantaloni e le mutande. Mi piaceva farmi contemplare alla luce del focolare, indossai le mutande lunghe e pulite che mettevo sotto l'armatura, la pesante camicia rossa, le calze di lana, gli stivali di pelle gialla per il freddo e, infine, gli schinieri. Poi infilai con piacere l'armatura che avevo tolto dalla custodia. Come se dessi ordini a un paggio, mi girai di schiena e feci legare strettamente a Farfalla i lacci dell'armatura e gli feci mettere anche le spalline. Mentre indossavo le polsiere, i guanti, il cinturone di pelo di cammello
e, alla fine, l'elmo dorato da cerimonia, dissi con orgoglio che, d'ora in poi, le scene di guerra non sarebbero piu’ state disegnate come una volta. Ormai non si possono disegnare i cavalieri di due eserciti in due file una davanti all'altra girando la stessa sagoma una volta a rovescio una volta a diritto. D'ora in poi, nei laboratori della dinastia ottomana, le scene di guerra verranno disegnate con eserciti che si mescolano, come i cavalli, le armature e i morti insanguinati che ho visto e disegnato io! «Il miniaturista non disegna cio’ che vede lui, ma cio’ che vede Allah», disse Farfalla geloso. «Si’, ma l'altissimo Allah vede cio’ che vediamo noi», dissi. «Certo che Allah vede cio’ che vediamo noi, ma non lo vede come noi, - continuo’ Farfalla come se mi sgridasse. - Una guerra che noi, stupiti, vediamo tutta confusa, lui la vede da vicino con due eserciti ordinatamente in fila, uno di fronte all'altro». Avevo una risposta, avrei voluto dirgli: «Crediamo in Allah e disegniamo solo cio’ che ci fa vedere lui, non cio’ che non ci fa vedere». E invece me ne restai zitto, perche’ avevo paura che Farfalla mi accusasse di imitare gli europei, o forse perche’ mi batteva spietatamente sull'elmo e sulla schiena con il pugnale con la scusa di provare la mia armatura. Trattenendomi pensavo di conquistare quest'idiota dagli occhi belli e Nero e di salvarci cosi’ dal complotto di Oliva. Mi dissero cosa cercavano appena capirono che non l'avrebbero trovato qui. Un disegno rubato dal vile assassino... Dissi che a questo scopo la mia casa era gia’ stata perquisita, e l'assassino intelligente ormai l'avrebbe nascosto in un luogo assolutamente irraggiungibile (pensavo a Oliva), ma quanta attenzione mi prestarono? Nero racconto’ a lungo del cavallo con il naso tagliato, disse che i tre giorni che il Nostro Sultano aveva dato a Maestro Osman stavano per terminare. Quando io insistetti su cio’ che indicavano i cavalli dai nasi tagliati, guardandomi negli occhi, Nero mi disse che Maestro Osman, come indizio, aveva collegato questi cavalli a Oliva, ma che sospettava piu’ di me, essendo certo delle mie ambizioni. Apparentemente, erano venuti qui credendo che l'assassino fossi io e per trovare la prova, ma, secondo me, questo non era il vero motivo. Avevano bussato alla mia porta anche per solitudine e disperazione. Quando avevo aperto, avevo visto che il pugnale che Farfalla puntava verso di me gli tremava in mano. Avevano paura che il vile assassino che non riuscivano a capire chi fosse, li cogliesse all'improvviso in un angolo buio con il sorriso di un vecchio amico e tagliasse loro la gola; allo stesso tempo, l'idea che Maestro Osman, d'accordo con il Nostro Sultano e il Tesoriere, li consegnasse al boia disturbava il loro sonno, e inoltre la folla di seguaci del predicatore di Erzurum li’ fuori li scoraggiava. Con questa agitazione, avrebbero voluto che fossi loro amico. Ma Maestro Osman aveva detto proprio il contrario. Adesso dovevo dimostrare a entrambi, con delicatezza, che era vero quello che si auguravano anche loro con tutto il cuore. Dire che il grande maestro si sbagliava, che ormai era rimbambito, avrebbe significato mettermi contro Farfalla. Perche’ mi sembrava di vedere ancora negli occhi appannati del bel miniaturista dalle ciglia di farfalla che batteva sulla mia armatura con il pugnale in mano, le tenui fiamme dell'amore che provava nei confronti del grande maestro di cui era il prediletto. Negli anni della mia giovinezza, l'intimita’ tra quei due, tra maestro e apprendista, si insinuava con enorme gelosia tra i miniaturisti, ma loro non ci badavano e si guardavano negli occhi a lungo davanti a tutti, si accarezzavano e si baciavano e poi, Maestro Osman, senza pieta’, dichiarava che Farfalla era il miniaturista con la penna piu’ agile, il pennello piu’ solido per i colori. Questo giudizio, spesso giusto, provocava tra i miniaturisti gelosi interminabili giochi di parole accompagnati da allusioni insolenti, insinuazioni diaboliche e gesti spinti per i quali venivano usati penne, pennelli, calamai e portapenne. E infatti non sono l'unico a pensare che Maestro Osman, dopo di se’, voglia Farfalla a capo del laboratorio. da parecchio tempo che ho capito che e’ questo che il grande maestro ha in testa, quando parla di quanto sono litigioso, scontroso e ostinato. Giustamente pensa anche che, rispetto a Oliva e Farfalla, io sono piu’ incline ai metodi europei e non potrei rifiutare i nuovi desideri del Nostro Sultano dicendo «gli antichi maestri non avrebbero mai disegnato cosi’». A questo punto so che con Nero posso avere una stretta collaborazione: perche’ il nostro nuovo e agitato sposo doveva veramente finire il libro di suo zio, non solo per conquistare il cuore di seküre e dimostrarle di poter prendere il posto di suo padre, ma anche per ingraziarsi facilmente il sultano. Cosi’, affrontai la situazione in un modo assolutamente inaspettato per entrambi. Entrai in argomento dicendo che il libro di Zio Effendi era un felice e impareggiabile miracolo. Quando questa meraviglia sarebbe stata finita, come aveva ordinato il Nostro Sultano e come voleva Zio Effendi, tutto il mondo sarebbe rimasto a bocca aperta di fronte alla forza e alla ricchezza del sultano ottomano e di fronte all'abilita’, all'eleganza e al talento di noi maestri miniaturisti. Avrebbero avuto paura di noi, della nostra forza e spietatezza, e allo stesso tempo, vedendo le cose che ci rattristano e ci rallegrano, e come abbiamo imparato dai metodi europei, e i nostri colori cosi’ allegri e la nostra percezione dei minimi dettagli, spaventati, avrebbero intuito cio’ che di rado intuiscono i sultani piu’ intelligenti, cioe’, che noi siamo sia in un luogo nel mondo del disegno, sia in un luogo molto lontano, tra gli antichi maestri. Farfalla prima batte’ sulla mia armatura come un bambino che vuole capire se e’ vera o meno, poi come un amico che vuole provarne la solidita’, e infine come un geloso incorreggibile che vuole farmi male bucando in qualche modo l'armatura con entrambe le scuse. In realta’, capiva che ero piu’ abile di lui, inoltre, probabilmente intuiva che Maestro Osman lo sapeva. Farfalla era un maestro straordinario per il suo talento, dono di Allah, e fui ancora piu’ orgoglioso della sua gelosia. Io non ero diventato maestro tenendo in mano la canna del mio maestro, ma con la forza della mia canna, e sentii che potevo fargli ammettere che ero superiore. Alzai la voce e gli raccontai che, purtroppo, c'erano persone che volevano sabotare il miracoloso libro del Nostro Sultano e della buonanima di Zio Effendi. Maestro Osman era il padre, il maestro di tutti, avevamo imparato tutto da lui! Ma, facendo un'indagine nel tesoro del Nostro Sultano, dopo avere capito che il vile assassino era Oliva, aveva cercato di nasconderlo per un motivo ignoto. Ero certo che Oliva, non essendosi fatto trovare in casa, si era nascosto nel
convento abbandonato dei dervisci kalenderi vicino a Fenerkapi. Il convento era un covo di infamia e immoralita’, ma non era questo il motivo per cui era stato chiuso ai tempi del nonno del Nostro Sultano, bensi’ per le interminabili guerre con i persiani; una volta, Oliva si era vantato di «sorvegliare» il convento chiuso. Se non si fossero fidati di me e avessero pensato che volevo ingannarli, dato che il pugnale in mano l'avevano loro, avrebbero potuto punirmi li’ sui due piedi. Farfalla mi diede ancora due pesanti colpi di pugnale a cui non molte armature avrebbero resistito. Si giro’ verso Nero che mi dava ragione, e che lo sgrido’ come si fa con i bambini. Mi avvicinai a lui da dietro e stringendogli il braccio attorno al collo da dentro l'armatura, lo avvicinai a me. Con l'altra mano gli piegai il braccio e gli feci cadere il pugnale. In realta’, non stavamo veramente combattendo, ma neanche giocando. Raccontai una scena analoga dal Libro dei Re. una scena poco nota. «Nel terzo giorno dell'incontro tra l'esercito dell'Iran e l'esercito del Turan allineati con tutte le armature e gli equipaggiamenti uno davanti all'altro ai piedi del monte Hamaran, per sapere chi fosse il misterioso guerriero persiano che ogni giorno uccideva un grande guerriero del Turan, quelli del Turan mandarono l'abile sengil sul campo, - iniziai a raccontare. - Quando sengil sfido’ il misterioso guerriero, questi accetto’. Mentre gli eserciti delle due parti, con le armature che sfavillavano al sole di mezzogiorno, li guardavano trattenendo il respiro, i due si scontrarono cosi’ velocemente che le scintille che si sprigionarono dalle armature strinarono la pelle dei cavalli, benche’ bardati. Il combattimento duro’ a lungo. Il guerriero del Turan scocco’ le frecce, il guerriero persiano uso’ molto bene la spada e il cavallo e, alla fine, il misterioso persiano, prima fece cadere sengil del Turan dal cavallo tirandolo per la coda, poi lo raggiunse mentre fuggiva e lo strinse da dietro con l'armatura, prendendolo per il collo. Il guerriero del Turan, curioso di sapere chi fosse il misterioso guerriero, mentre accettava la sconfitta chiese disperatamente cio’ di cui tutti erano curiosi da giorni: «Chi sei?» «Per te il mio nome e’ morte», rispose il misterioso guerriero. Ma chi era?» «Era il leggendario Rüstem», intervenne Farfalla allegro come un bambino. Lo baciai sul collo. «Abbiamo tradito tutti Maestro Osman, - dissi. - Adesso, prima che lui ci punisca, dobbiamo trovare Oliva, liberarci della serpe annidata tra noi e stabilire un solido accordo in modo da affrontare insieme gli eterni nemici della miniatura e coloro che ci vogliono consegnare frettolosamente al boia. Forse, quando arriveremo li’, nel convento abbandonato di Oliva, capiremo che il vile assassino non e’ uno di noi». Il povero Farfalla non disse nulla. Come tutti i miniaturisti che, anche se di talento, pretenziosi, o con le spalle coperte, sono gelosi e ostili tra loro, ma si cercano, in realta’ Farfalla temeva sia di andare all'Inferno da solo sia di rimanere tutto solo in questo mondo. Sulla strada per Fenerkapi, c'era una strana luce giallo-verde, ma non era la luce della luna. Per via di questa luce, al posto del solito panorama notturno costituito da cipressi, cupole, muri di pietra, case di legno e rovine, aleggiava un senso di estraneita’ da fortezza nemica. Salendo sulla collina, vedemmo un incendio lontano, in un qualche luogo dietro la moschea di Beyazit. Nel buio pesto, incontrammo un carro tirato da buoi mezzo pieno di sacchi di farina che andava come noi verso le mura, offrimmo due akçe al conducente e ci salimmo sopra. Nero aveva con se’ i suoi disegni, si sedette facendo attenzione a non rovinarli. Mentre contemplavo sdraiato le nuvole basse illuminate dall'incendio, sentii cadere la prima goccia di pioggia sul mio elmo. Dopo un lungo viaggio, a mezzanotte, svegliammo tutti i cani di quel quartiere desolato per trovare il convento abbandonato. Anche se avevamo visto la fiamma delle lampade accese per colpa nostra in qualche casa di pietra, fu solo la quarta porta a cui bussammo ad aprirsi, e un vecchietto con la papalina in testa che alla luce della lampada ci osservava come se avesse visto degli spettri, senza assolutamente mettere il naso fuori, sotto la pioggia battente, ci indico’ il convento abbandonato, aggiungendo con un certo piacere che avremmo avuto a che fare con spiriti maligni, demoni e fantasmi. Nel giardino del convento ci accolsero l'odore di foglie marce e la quiete dei cipressi orgogliosi, assolutamente indifferenti alla pioggia. Prima guardai la copertura di legno del muro del convento, poi, avendo trovato il modo di guardare attraverso la fessura della persiana di una piccola finestra, vidi la spaventosa ombra di qualcuno che pregava alla luce di una lampada, o forse faceva finta di pregare per noi.
Capitolo cinquantasettesimo. Mi chiamano Oliva Dovevo alzarmi subito e interrompere le mie preghiere per aprire la porta, o dovevo farli aspettare sotto la pioggia e continuare a pregare? Quando capii che mi stavano spiando, recitai la mia preghiera fino in fondo senza riuscire a concentrarmi. Quando aprii la porta e mi trovai davanti i nostri Farfalla, Cicogna e Nero, dalla bocca mi usci’ un grido di gioia. Fu con quell'entusiasmo che abbracciai Farfalla. «Quante cose ci sono accadute, quante cose! - gemetti, affondando la testa nella sua spalla. - Cosa vogliono da noi? Perche’ ci uccidono?» Avevano addosso quella paura di staccarsi dal gregge che durante la mia vita di miniaturista, di tanto in tanto, mi era capitato di vedere negli altri maestri. Una volta nel convento non si separarono mai. «Non abbiate paura, - dissi. - Qui possiamo nasconderci per giorni».
«Abbiamo paura pensando che, forse, la persona di cui dobbiamo avere paura e’ tra noi», disse Nero. «Se penso a questo ho paura anch'io, - dissi. - Ho sentito queste voci». I pettegolezzi, dagli uomini del Comandante delle guardie imperiali, erano giunti alla squadra dei miniaturisti e si diceva che colui che aveva ucciso Raffinato Effendi e la buonanima di Zio Effendi fosse tra noi che avevamo perduto la luce degli occhi per quel libro che non era assolutamente piu’ segreto. Nero mi chiese quanti disegni avessi fatto per il libro di Zio Effendi. «Il primo e’ stato Satana. Gli ho disegnato un demonio sotterraneo come lo disegnavano gli antichi maestri nei laboratori dei khan del Montone Bianco. Il cantastorie apparteneva alla mia stessa setta derviscia, percio’ avevo disegnato anche due dervisci. Sono stato io a proporre a tuo zio di metterli nel libro, l'ho convinto dicendo che nelle terre ottomane c'e’ posto anche per questi dervisci». «Tutto qui?», domando’ Nero. Quando dissi che avevo fatto solo questi disegni, Nero ando’ verso la porta con l'aria di chi ha sorpreso un apprendista a rubare, e prese da fuori un rotolo di fogli che non si erano bagnati con la pioggia e lo mise davanti a noi tre come una gatta che mostra ai suoi cuccioli un uccello ferito. Li avevo riconosciuti subito mentre li portava sottobraccio. Erano i disegni che avevo preso al caffe’ durante l'assalto della notte. Non chiesi come avessero fatto a entrare in casa mia e a trovarli. E cosi’, insieme a Farfalla e a Cicogna gli mostrammo con calma, uno a uno, i disegni che avevamo fatto per la buonanima del cantastorie. E un cavallo, un bel cavallo, rimase da parte, solo. Non sapevo neanche che fosse stato disegnato un cavallo, credetemi. «Non hai fatto tu questo cavallo?», chiese Nero come un maestro con il bastone in mano, pronto a picchiare i suoi allievi. «Non l'ho fatto io», risposi. «E quello nel libro di mio zio?» «Non ho fatto neanche quel cavallo». «Dallo stile abbiamo capito che eri stato tu a disegnare quel cavallo, - disse. - E l'ha capito anche Maestro Osman». «Io non ho uno stile, - risposi. - Non lo dico per vantarmi, per andare contro il vento che soffia negli ultimi tempi. Non lo dico neanche per dimostrare la mia innocenza. Perche’ per me avere uno stile e’ peggio che essere assassino». «C'e’ una cosa che ti rende diverso dagli antichi maestri e dagli altri», disse Nero. Gli sorrisi. Aveva cominciato a raccontare le cose che penso che voi tutti sappiate gia’. Ascoltai con molta attenzione di come il Nostro Sultano e il Tesoriere, insieme, cercavano di trovare una soluzione per fermare gli omicidi, i tre giorni concessi a Maestro Osman, il metodo della dama, le narici dei cavalli e il miracolo piu’ grande, aver potuto ammirare quei libri irraggiungibili nel Tesoro del Palazzo Interno. Nella vita di tutti ci sono dei momenti in cui mentre viviamo una cosa capiamo che non la dimenticheremo per un lungo periodo. Cadeva una triste pioggia. Come se fosse triste per la pioggia, Farfalla aveva abbracciato il suo pugnale. Cicogna, con il dorso dell'armatura bianco di farina e la lampada in mano, si era fatto coraggio ed entrava nelle zone interne del convento. Questi maestri, le cui ombre si aggiravano per i muri del convento come fantasmi, erano i miei fratelli, quanto li amavo! Ero felice di essere un miniaturista. «Sai cosa vuol dire la felicita’ di sedere accanto a Maestro Osman e guardare per giorni le meraviglie degli antichi maestri? - chiesi a Nero. - Ti ha baciato? Ha accarezzato il tuo bel viso? Ti ha preso per mano? Sei rimasto affascinato dal suo talento, dalla sua sapienza?» «Tra le meraviglie degli antichi maestri, Maestro Osman mi ha fatto vedere che tu hai uno stile, - disse Nero. - Mi ha insegnato che lo stile non e’ una cosa che il miniaturista sceglie di sua volonta’, e’ il passato del miniaturista, sono i ricordi che ha dimenticato a determinare questo difetto segreto. Mi ha anche dimostrato che, dato che lo stile dei maestri europei si e’ diffuso in tutto il mondo, questi difetti segreti, le debolezze di cui una volta ci si vergognava molto e che venivano tenuti nascosti perche’ non ci allontanassero dagli antichi maestri, d'ora in poi verranno definiti con orgoglio «caratteristica personale», «stile». D'ora in poi, a causa degli stupidi che si vantano dei loro difetti, il mondo della pittura sara’ piu’ colorato, ma piu’ stupido e, ovviamente, molto piu’ difettoso». Il fatto che fosse cosi’ orgogliosamente convinto delle sue parole era la prova che Nero apparteneva a questa razza di stupidi. «Maestro Osman potrebbe spiegare come mai ho disegnato per anni in maniera canonica le narici di centinaia di cavalli per i libri del Nostro Sultano?», domandai. «Dato che lui rappresenta vostro padre come il vostro amato, per l'amore e le bastonate che vi ha dato da quando eravate bambini, lui non puo’ capire che vi ha fatti tutti simili a se stesso e tra di voi. Lui voleva che il laboratorio del sultano ottomano avesse uno stile, non voi. E voi, a causa dell'ammirazione per la sua ombra, dimenticavate i difetti, le cose che non rispondevano a un modello, le differenze che vi venivano da dentro. Quando hai avuto la possibilita’ di disegnare per altri libri, per altre pagine dove gli occhi di Maestro Osman non sarebbero arrivati, allora hai disegnato il cavallo che avevi conservato dentro di te per anni». «La buonanima di mia madre era molto piu’ intelligente di mio padre, - iniziai a raccontare. - Una notte in cui a casa piangevo stanco non solo di Maestro Osman, ma anche delle bastonate degli altri maestri severi e nervosi, dei colpi di
righello che ci davano i capisquadra per intimidirci, e dicevo che non volevo piu’ ritornare al laboratorio, mia madre mi spiego’ che al mondo ci sono due tipi di persone. Quelli che sono rimasti schiacciati dalle bastonate ricevute durante l'infanzia e che rimarranno oppressi per sempre, disse la buonanima di mia madre. Perche’ le botte uccidono il demonio che hanno dentro. E poi quelli fortunati che superano le botte senza uccidere il demonio che hanno dentro di se’, ma spaventandolo ed educandolo. E loro non dimenticano mai questo brutto ricordo dell'infanzia, ma - non dirlo a nessuno, si raccomando’ mia madre - dato che imparano ad andare d'accordo con Satana, sanno essere furbi piu’ di chiunque altro, sanno cose che gli altri non sanno, hanno amici, conoscono i loro nemici, intuiscono in tempo gli intrighi orditi contro di loro e, questo lo aggiungo io, sanno anche disegnare meglio. Quando non disegnavo i rami di un albero in maniera armonica, Maestro Osman mi prendeva a schiaffi talmente forte che mentre mi scendevano lacrime amare, davanti agli occhi mi appariva un bosco. Subito dopo che mi aveva dato dei pugni rabbiosi in testa dicendo che non vedevo il difetto in fondo alla pagina, prendeva con amore in mano lo specchio e lo metteva sulla pagina perche’ mi liberassi dall'abitudine dell'occhio e, appoggiando la sua guancia alla mia, mi mostrava uno a uno i difetti che, all'improvviso, apparivano nella pagina riflessa alla rovescia nello specchio, con un amore tale che io non ho mai piu’ dimenticato ne’ quell'amore ne’ quella figura. Quando mi svegliavo al mattino dopo aver pianto nel mio letto con l'orgoglio ferito perche’ mi aveva sgridato davanti a tutti e mi aveva picchiato sulle braccia con il righello, lui mi baciava le braccia con un amore tale che credevo veramente che un giorno sarei diventato un maestro leggendario. Non ho disegnato io quel cavallo». «Noi, - disse Nero rivolgendosi a Cicogna, - cercheremo nel convento l'ultimo disegno che ha rubato il maledetto assassino di mio zio. Tu avevi visto l'ultimo disegno?» «Era una cosa inaccettabile per il Nostro Sultano, per noi miniaturisti fedeli agli antichi maestri, per ogni musulmano fedele alla sua religione», dissi e tacqui. Le mie parole lo stimolarono di piu’. Lui e Cicogna presero a cercare ovunque nel convento, misero tutto sottosopra. Li accompagnai un paio di volte, per facilitare il loro lavoro. In una delle stanze dei dervisci, dal cui soffitto gocciolava acqua, gli indicai la buca che c'era per terra perche’ non ci cadessero e perche’, se volevano, la perquisissero. Infilai nella serratura la grande chiave di quella che era la cella del padre spirituale della setta prima che i dervisci del convento si separassero per unirsi ai bektashi. Quando videro che nella stanza dov'erano entrati pieni di curiosita’ non c'era un muro e pioveva direttamente dentro, non ci frugarono neanche. Mi aveva fatto piacere che Farfalla non fosse d'accordo con loro, ma intuivo che nel momento in cui avessero trovato una prova per accusarmi, anche lui si sarebbe unito. Nero e Cicogna avevano paura che Maestro Osman ci consegnasse al boia, dicevano che dovevamo aiutarci a vicenda e andare dal Tesoriere con questa forza, erano molto vicini. Avevo capito che cio’ che motivava Nero non era solo il desiderio di fare un vero regalo di nozze alla bella seküre, trovare l'assassino di suo zio, ma anche mettere i miniaturisti ottomani sulla strada dei maestri europei per finire il libro dello zio con i nuovi soldi provenienti dal Nostro Sultano, e imitare i maestri europei (piu’ che una bestemmia era ridicolo). Ovviamente capivo che Cicogna, che sognava di diventare capo miniaturista alla fine di questo complotto (perche’ tutti immaginavano che Maestro Osman avrebbe voluto Farfalla come capo miniaturista) ed era pronto a tutto per il proprio successo, voleva liberarsi di noi come di Maestro Osman. Per un attimo fui in preda alla confusione. Pensai a lungo, ascoltando la pioggia. Poi, come chi cerca di superare la folla e consegnare la propria supplica al sovrano e al gran visir, mi avvicinai ispirato a Cicogna e Nero. Li feci passare per un'anticamera buia, da una porta larga, e li condussi in quel luogo terribile che una volta era la cucina. Chiesi se avessero trovato qualcosa in mezzo a quelle rovine, ma non avevano trovato nulla. Non c'erano tracce dei calderoni, delle batterie di pentole, dei mantici che i poveri usavano per cucinare. Non avevo mai provato a pulire questo orribile luogo pieno di ragnatele, polvere, fango, feci di cani e gatti e detriti. Dentro, un continuo e forte vento la cui fonte era, come sempre, incerta, indeboliva la luce della lampada illuminando e oscurando le ombre. «Avete cercato, ma non avete trovato il mio tesoro segreto», dissi. Spostai la cenere usando come sempre il taglio della mano come una scopa tra le rovine che trent'anni fa erano un focolare e cosi’, facendolo cigolare e tenendolo per il manico, tirai il coperchio di ferro del forno, adesso scoperto. Tenni la lampada vicino alla piccola bocca del forno. Non dimentichero’ mai come Cicogna, prima di Nero, si getto’ avanti per afferrare i sacchi di pelle. Stavano per aprirli subito li’, davanti alla bocca del forno, ma, dato che ero tornato nella stanza grande e Nero aveva paura di rimanere li’ da solo ed era venuto con me, Cicogna ci segui’ con le sue lunghe gambe magre. Quando videro che il sacco conteneva le mie calze di lana, i miei pantaloni, le mie mutande rosse, il mio panciotto piu’ elegante, la mia camicia di seta, il mio rasoio, il mio pettine e altri oggetti, rimasero per un attimo indecisi. Dall'altro sacco pesante che apri’ Nero vennero fuori una a una cinquantatre monete d'oro veneziane, le lamine d'oro che avevo rubato negli ultimi anni in laboratorio, il mio quaderno di esempi che nascondevo a chiunque e, tra le sue pagine, lamine d'oro rubate, disegni spinti fatti in parte da me e in parte raccolti in giro, un anello di agata ricordo della mia cara madre e un ciuffo dei suoi capelli, le mie penne e i miei pennelli migliori. «Se, come credete, l'assassino fossi io, - dissi con stupido orgoglio, - dal mio tesoro segreto non sarebbero uscite queste cose ma quell'ultimo disegno». «Perche’ queste cose?», chiese Cicogna. «Quando gli uomini del Comandante delle guardie imperiali hanno perquisito casa mia - proprio come hanno perquisito la tua - si sono infilati in tasca senza alcuna vergogna due di queste monete d'oro che ho risparmiato per tutta la vita. Ho pensato che saremmo stati perquisiti ancora a causa del vile assassino, e infatti avevo ragione. Se avessi quell'ultimo disegno, adesso sarebbe qui». Quest'ultima frase era stata un errore, ma intuivo che si erano comunque un po' tranquillizzati, non avevano paura che li
strangolassi in un angolo buio del convento. Mi avete creduto anche voi? Eppure, questa volta, fui io ad agitarmi. Non perche’ gli amici miniaturisti che conoscevo fin da quando ero bambino ormai sapevano che da molto tempo accumulavo denaro, compravo e nascondevo oro e inoltre avevano visto i miei disegni spinti e i miei quaderni. In realta’, mi pentivo di aver mostrato queste cose ai miei amici in un momento di agitazione. Solo i misteri di chi vive nella confusione totale possono essere chiariti cosi’ facilmente. «In ogni modo, - disse Nero dopo un bel po', - decidiamo cosa dire sotto tortura se Maestro Osman si disinteressa di noi e ci consegna al Comandante delle guardie imperiali senza accusare nessuno in particolare». Sentivo che avevamo tutti addosso un senso di vuoto, una stanchezza. Cicogna e Farfalla guardavano i disegni spinti sui miei quaderni alla luce tenue della lampada. Avevano l'aria di fregarsene di tutto, ed erano spaventosamente felici. Provai un forte desiderio di guardare quella pagina, immaginavo molto bene quale fosse, mi alzai e mi misi dietro di loro, osservai in silenzio il mio disegno spinto con l'entusiasmo di far riaffiorare un ricordo felice rimasto lontano. Anche Nero si aggiunse a noi. Chissa’ perche’, ma il fatto di guardare tutti e quattro insieme quel disegno mi tranquillizzava. «E non sono uguali il cieco e il veggente?», domando’ Cicogna dopo un bel po'. Anche se quello che vedevamo era indecente, alludeva al supremo piacere di vedere che ci aveva concesso Allah? Ma Cicogna non capiva nulla di queste cose, non leggeva mai il Corano. Sapevo che questo versetto del Corano veniva ricordato spesso dai maestri di Herat. I grandi maestri usavano questo detto in risposta alle minacce dei nemici della miniatura che sostenevano che disegnare era proibito dalla nostra religione e che, il Giorno del Giudizio, i pittori sarebbero stati mandati all'Inferno. Ma fino a quel momento magico, non avevo mai sentito la frase che usci’ spontaneamente dalla bocca di Farfalla. «Avrei voluto fare un disegno che mostrasse che il cieco e il veggente non sono uguali!» «Chi sono il cieco e il veggente?», chiese Nero con aria innocente. Farfalla disse: «E non sono uguali il cieco e il veggente», e lo ripete’ ancora nell'arabo del Corano per poi continuare: Anche il buio e la luce non possono essere uguali, Anche l'ombra e la calura non possono essere uguali, E anche i vivi e i morti non possono essere uguali. All'improvviso rabbrividii pensando alla fine che avevano fatto Raffinato Effendi, Zio Effendi e nostro fratello il cantastorie ucciso questa notte. Anche gli altri avevano paura quanto me? Per un po' nessuno si mosse dal suo posto. Cicogna teneva il quaderno ancora aperto in mano, ma sembrava che non vedesse il mio disegno spinto, anche se lo guardavamo ancora! «Io avrei voluto disegnare anche il Giorno del Giudizio, - disse Cicogna. - La resurrezione dei morti, la separazione tra colpevoli e innocenti. Ma perche’ non riusciamo a disegnare il nostro Corano?» Da giovani, quando lavoravamo nella stessa stanza del laboratorio, proprio come facevano i maestri anziani per riposare gli occhi, a volte alzavamo la testa dal banco di lavoro, dal leggio, e parlavamo di un argomento completamente diverso che ci veniva in mente. Proprio come facevamo adesso con il quaderno aperto davanti a noi, anche allora, quando parlavamo di qualcosa che ci veniva improvvisamente in mente, non ci guardavamo. Perche’ volgevamo gli occhi fuori dalla finestra per riposarli. Non so se per l'entusiasmo di ricordare la bellezza dei nostri giorni felici da apprendisti, o per il sincero pentimento che provai in quel momento perche’ era tanto che non leggevo il Corano, o per l'orrore dell'omicidio che avevo visto la sera al caffe’, quando tocco’ parlare a me, mi sentii confuso, il cuore comincio’ a battermi come di fronte a un pericolo e, non venendomi in mente altro, all'improvviso dissi: «Ci sono dei versetti alla fine della sura della Vacca che intendono questo, vorrei molto disegnarli: Signore, non ci riprendere se dimentichiamo e sbagliamo. Signore, non ci imporre un carico pesante come quello che imponesti a coloro che furono prima di noi. Condona e perdona, abbi pieta’ di noi. Abbi compassione di noi, Signore». La mia voce all'improvviso divenne rotta e mi vergognai delle lacrime che mi scendevano dagli occhi in modo del tutto inaspettato. Forse perche’ avevo paura dello scherzo che avevamo sempre pronto per proteggerci, per non dimostrare la nostra sensibilita’ quando eravamo apprendisti. Credevo che le mie lacrime si sarebbero calmate subito, ma non riuscii a trattenermi e cominciai a singhiozzare. Piangendo, capivo che gli altri si facevano prendere da sentimenti di fratellanza, rovina e tristezza. Ormai nel laboratorio del sultano si sarebbe disegnato alla maniera europea, i metodi e i libri a cui avevamo dedicato tutta la nostra vita pian piano sarebbero stati dimenticati, in realta’ sarebbe finito tutto, e se non ci acchiappavano e ci massacravano i seguaci del predicatore di Erzurum, a renderci invalidi sarebbero stati gli aguzzini del sultano... Ma mentre piangevo, in un angolo della mia mente sentivo di non piangere per queste ragioni e, tra singhiozzi e sospiri, continuavo ad ascoltare il triste ticchettio della pioggia. Ma gli altri se n'erano accorti? Da una parte piangevo sinceramente e dall'altra mi sentivo vagamente in colpa perche’ facevo finta di piangere. Farfalla mi si avvicino’, mi mise una mano sulla spalla, mi accarezzo’ i capelli, mi bacio’ sulla guancia, mi disse parole dolci. Questo gesto di amicizia mi fece piangere piu’ sinceramente e con maggior senso di colpa. Non riuscivo a guardarlo in faccia, ma chissa’ perche’ mi ero fatto prendere dalla convinzione, sbagliata, che piangesse anche lui. Ci sedemmo insieme. Ecco, in questa atmosfera, ricordammo di essere diventati tutti e due apprendisti nello stesso anno, la malinconia della strana sensazione di essere strappati dalle nostre madri e iniziare all'improvviso un'altra vita, il dolore delle botte ricevute gia’ dal primo giorno, la gioia dei primi regali arrivati dal Tesoriere, i giorni in cui tornavamo a casa di corsa. All'inizio raccontava solo lui e io lo ascoltavo tristemente, ma poi, quando si unirono alla conversazione anche Cicogna e Nero - che, nei primi anni del nostro apprendistato, frequentava il nostro laboratorio - dimenticai il pianto di poco prima e iniziai a parlare e a ridere con loro.
Ricordammo le mattine d'inverno in cui gli apprendisti si svegliavano presto, accendevano il focolare che si trovava nella stanza piu’ grande del laboratorio e lavavano il pavimento con l'acqua calda. Ricordammo come la buonanima di un vecchio «maestro» senza ispirazioni, tanto prudente da disegnare in un giorno intero una sola foglia d'albero, ci aveva sgridati per la centesima volta senza assolutamente picchiarci, dicendo «non guardate li’, guardate qui!», e quando, invece di quella foglia, ci aveva di nuovo sorpresi a guardare le verdi foglie degli alberi primaverili che si vedevano dalla finestra aperta. Ricordammo il pianto di un apprendista magrissimo, lo si udi’ in tutto il laboratorio mentre camminava verso la porta con il suo fagotto in mano, era stato mandato a casa perche’ era diventato strabico a forza di lavorare troppo. Poi ci venne in mente come era bello perche’ non era assolutamente colpa nostra guardare un rosso mortale che colava su una pagina da un calamaio di bronzo incrinato (era la scena in cui l'esercito ottomano che occupo’ Eres, dopo aver rischiato di morire di fame sulla via di sirvan, sulla sponda del fiume Kinik trova cibo per rifocillarsi); ci avevano lavorato tre miniaturisti per sei mesi. Parlammo con finezza e rispetto di quando tutti e tre avevamo fatto l'amore con la moglie piu’ bella, una circassa, del pascia’ settantenne che, per le sue conquiste, il suo potere e la sua ricchezza, voleva gli affreschi sul soffitto di casa come nel padiglione di caccia del Nostro Sultano, e di come, tutti e tre, ce n'eravamo innamorati. Parlammo con nostalgia anche del piacere che dava la zuppa di lenticchie che mangiavamo nelle mattine d'inverno davanti alla porta socchiusa perche’ il suo vapore non ammorbidisse i fogli. Ma anche della tristezza di allontanarsi dagli amici e dai maestri del laboratorio quando si andava in un luogo lontano a fare l'apprendista, obbligati dal nostro maestro. A un certo punto mi venne in mente l'immagine piu’ dolce del mio caro Farfalla, quando aveva sedici anni. Un giorno d'estate, mentre il sole che entrava dalla finestra aperta batteva sulle sue braccia nude color miele, lui lucidava il foglio muovendo velocemente la conchiglia che aveva in mano. E, facendo distrattamente questo lavoro, ogni tanto si fermava per un attimo, avvicinava gli occhi a un difetto sul foglio e lo esaminava con attenzione, ripassava la conchiglia in quel punto con un paio di movimenti diversi, riprendeva la posizione di prima e guardava lontano dalla finestra con aria sognante mentre la mano andava su e giu’ velocemente. Quello che non avrei mai potuto dimenticare era il suo modo di guardarmi negli occhi, per un istante, prima di tornare a guardare fuori dalla finestra, come facevo anch'io con gli altri. Quello sguardo aveva sempre un unico significato, noto a tutti gli apprendisti: se non sogni il tempo non passa.
Capitolo cinquantottesimo. Di me diranno che sono un assassino Mi avete dimenticato, vero? Ormai non ho piu’ motivo di nascondervi che esisto. Perche’ parlare con questa voce che man mano cresce dentro di me e’ diventato un bisogno irresistibile. A volte cerco di controllarmi, ma temo che la tensione palpabile nella voce mi tradisca. A volte mi lascio andare e allora mi escono di bocca parole che rivelano l'altra mia personalita’, forse ve ne siete accorti: mi tremano le mani, mi suda la fronte e capisco subito che questi sono segni rivelatori. Eppure come sono felice qui! Mentre, seduti insieme con i miei fratelli miniaturisti ci consoliamo a vicenda e rivanghiamo venticinque anni di ricordi, non ci vengono in mente le inimicizie, ma la bellezza e il piacere di disegnare. Nel modo in cui restiamo seduti, convinti che la fine del mondo sia ormai imminente, ricordando i bei giorni passati e accarezzandoci a vicenda con le lacrime agli occhi, c'e’ qualcosa delle donne dell'harem. Ho preso questa similitudine da Ebu Said di Kirman che, scrivendo le vicende dei figli di Tamerlano, tramando’ le storie degli antichi maestri di Herat e di Shiraz. Centocinquant'anni fa, Cihan Scia’, sovrano del Montone Nero, sconfisse i piccoli eserciti dei khan e degli scia’ della stirpe di Tamerlano in guerra tra loro, ne distrusse i paesi, attraverso’ tutta la Persia con i suoi vittoriosi eserciti turkmeni per poi giungere in Oriente, e da ultimo, a Esterabad sconfisse anche Ibrahim, nipote di Scia’ Ruh figlio di Tamerlano, infine prese Gurgan e mando’ i suoi eserciti verso la fortezza di Herat. Secondo lo storico di Kirman, questo grande colpo inferto all'invincibile forza della stirpe di Tamerlano che per mezzo secolo aveva dominato la Persia e meta’ del mondo, dall'India a Bisanzio, aveva generato un clima di catastrofe e rovina tali che nella fortezza di Herat assediata nacque una confusione colossale. Lo storico Ebu Said che, stranamente, amava ricordare ai suoi lettori che Cihan Scia’, sovrano del Montone Nero, nelle fortezze conquistate uccideva senza pieta’ tutti coloro che appartenevano alla stirpe di Tamerlano, portava nel suo harem le donne scelte dall'harem di scia’ e principi, separava i miniaturisti e, senza pieta’, ne affidava un gran numero di loro come apprendisti ai suoi maestri, a questo punto, dalla storia dello scia’ e dei suoi soldati che cercavano di respingere il nemico dai bastioni della fortezza, era passato alla storia dei miniaturisti che attendevano nel laboratorio, tra penne e colori, la terribile e gia’ chiara fine dell'assedio. Aveva scritto che i famosi e indimenticabili miniaturisti oggi ormai dimenticati, che nominava uno a uno, non erano riusciti a fare altro che abbracciarsi e piangere ricordando i bei tempi, proprio come le donne dell'harem dello scia’. Anche noi, come le tristi donne dell'harem, ricordammo che una volta il sultano ci mostrava un affetto piu’ sincero e durante le feste ci regalava caftani foderati di pelliccia, borse piene di monete, ce li dava dopo aver accettato le scatole multicolori e decorate, gli specchi e i piatti, le uova di struzzo dipinte, i lavori di carta ritagliata, i disegni di una sola pagina, i collage divertenti, le carte da gioco e i libri che gli offrivamo noi. Dov'erano adesso i laboriosi miniaturisti anziani che resistevano alle sofferenze e si accontentavano di poco? Non si chiudevano in casa preoccupati di non
mostrare agli altri come disegnavano e non avevano l'ansia che venissero scoperti i lavori fatti all'esterno e ogni giorno si presentavano al laboratorio. Dov'erano gli anziani miniaturisti che, con modestia, avevano dedicato tutta la vita a disegnare le fini decorazioni dei muri dei palazzi, le foglie dei cipressi che, se le guardavi a lungo, capivi che erano tutte diverse l'una dall'altra, e l'erba a sette foglie della steppa, che riempiva i vuoti della pagina? Dov'erano i modesti maestri che accettavano che ci fosse una saggezza e una giustizia nel fatto che Allah ad alcuni concedeva solo talento e abilita’, e ad altri pazienza e rassegnazione, e non erano mai gelosi? Ricordando questi anziani maestri, alcuni gobbi e sempre sorridenti, altri sognatori e ubriachi, altri ancora che cercavano di sistemarci con le loro figlie zitelle, parlammo di episodi dimenticati del laboratorio di quando eravamo apprendisti e poi dei nostri inizi come maestri. C'era un tipo lievemente strabico, specializzato in contorni, che quando tracciava le righe appoggiava la lingua alla guancia - se la riga andava verso destra la appoggiava alla guancia sinistra, se andava verso sinistra alla guancia destra. C'era un miniaturista minuto e sottile che quando faceva traboccare il colore diceva «pazienza, pazienza, pazienza», e rideva da solo. C'era un maestro doratore che chiacchierava per ore con gli apprendisti di rilegatura del piano di sotto e affermava che l'inchiostro rosso, se messo sulla fronte, arrestava il processo di invecchiamento. C'era un maestro nervoso che quando le unghie gli si riempivano dei colori che vi stendeva per vederne la densita’, fermava un apprendista a caso, anzi, chiunque gli capitasse, e stendeva il colore sulle unghie di questo. C'era un miniaturista grasso che si accarezzava la barba con le pelose zampe di coniglio che si usavano per raccogliere la polvere d'oro avanzata dalla doratura e ci faceva davvero ridere. Dov'erano? Dov'erano adesso gli strumenti per lucidare i fogli che diventavano quasi una parte del corpo degli apprendisti, venivano usati per anni per poi essere gettati via in un angolo, le lunghe forbici per tagliare la carta che gli apprendisti rovinavano giocandoci come fossero spade, le assi da scrittura su cui erano incisi i nomi dei grandi maestri perche’ non venissero confusi, il profumo di muschio dell'inchiostro di china, il ticchettio delle brocche di caffe’ che si udiva nel silenzio, la nostra gatta soriana che ogni estate figliava e noi che facevamo pennelli con i peli delle orecchie e della collottola dei micetti, gli strati e strati di fogli indiani che ci venivano forniti in abbondanza perche’ non rimanessimo mai fermi e potessimo sempre scarabocchiare qualcosa come i calligrafi, il temperino per cancellare gli errori con il manico d'acciaio che si usava solo con il permesso del capo miniaturista perche’ fosse da esempio a tutto il laboratorio quando si grattavano via gli errori piu’ evidenti. Parlammo dell'errore commesso dal Nostro Sultano facendo lavorare i miniaturisti a casa. Parlammo della squisita belva calda che arrivava dalla cucina di Palazzo in inverno, quando il buio calava presto, quando avevamo lavorato fino a farci dolere gli occhi alla luce di lampade e candele. Ricordammo ridendo fino alle lacrime l'anziano maestro di doratura rimbambito che aveva il tremore e non riusciva a prendere in mano carta e penna e che veniva a fare visita al laboratorio una volta al mese portando il dolce di pasta fritta che la figlia cuoceva per noi apprendisti. Parlammo delle meravigliose pagine di Memi il Nero, il predecessore di Maestro Osman, trovate dopo il suo funerale, quando venne perquisita la sua cella rimasta vuota per giorni, tra i fogli infilati nella cartella sotto il materasso che stendeva a terra per fare il pisolino di mezzogiorno. Ci raccontammo quali erano le pagine di cui andavamo orgogliosi e che, se fossero state copiate, di tanto in tanto tireremmo fuori per guardarle, proprio come Maestro Memi il Nero, le elencammo e ne parlammo. Ricordammo di quando il cielo, nella parte alta del disegno del Palazzo fatto per l'Hunername, era stato colorato con acqua d'oro, e tra le cupole, le torri e i cipressi era venuto fuori un panorama da fine del mondo, non per l'oro ma per il colore, un colore da disegno elegante. Raccontarono della strana sensazione e del solletico provati dal Nostro Profeta mentre, dalla cima del minareto, saliva in cielo sottobraccio a due angeli; era stato disegnato con colori cosi’ seri che anche i bambini che vedevano questo sacro panorama in un primo momento ne avevano veramente paura, e poi ridevano con aria rispettosa come se anche loro soffrissero il solletico. Raccontai di come avevo delicatamente e rispettosamente messo in fila le teste tagliate dal nostro ex Gran Visir mentre domava i ribelli saliti sulle montagne e avevo tracciato le sopracciglia corrugate dalla morte e sui colli tagliati avevo messo il rosso, avevo disegnato le labbra tristi che si chiedevano il senso dell'esistenza, i nasi che tiravano un ultimo disperato respiro, gli occhi chiusi alla vita, uno a uno, minuziosamente e, come farebbe un ritrattista europeo, avevo disegnato tutti con piacere, non come ordinarie teste di morto, ma ognuno con un volto diverso, conferendo una misteriosa atmosfera di mistero. E poi parlammo con nostalgia delle rappresentazioni di amore e di guerra che amavamo di piu’, le meravigliose bellezze e le raffinatezze che ci facevano venire le lacrime agli occhi, erano i nostri indimenticabili e irraggiungibili ricordi. Ci passarono davanti agli occhi giardini deserti e misteriosi dove nelle notti stellate s'incontrano gli innamorati, alberi primaverili, uccelli leggendari, il tempo che si ferma... Immaginammo guerre sanguinose, vicine e spaventose come i nostri incubi, guerrieri fatti a pezzi, cavalli insanguinati, bellezze che si pugnalano a vicenda, tristi donne dalla bocca piccola, dalle mani piccole, dagli occhi a mandorla che osservano quel che accade dalla finestra socchiusa... Ricordammo i bei ragazzi, orgogliosi e felici, scia’ e khan avvenenti, i loro regni e i palazzi demoliti da tempo. Come le donne che piangono nell'harem di quegli scia’, ormai sapevamo di essere passati dalla vita al ricordo, ma, come loro, saremmo passati dalla storia alla leggenda? Perche’ l'ombra della paura di essere dimenticati, piu’ terribile della paura della morte, non ci trascinasse nel terrore, ci chiedemmo quali fossero le rappresentazioni di morte che piu’ amavamo. E subito ricordammo Dehhak che, ingannato da Satana, uccide suo padre. Ai tempi di quella leggenda, narrata all'inizio del Libro dei Re, il mondo era stato appena creato, e tutto era cosi’ semplice che non c'era bisogno di spiegare nulla. Volevi del latte, mungevi la capra e ne bevevi; volevi un cavallo, ci montavi sopra e te ne andavi; volevi la cattiveria, arrivava Satana e ti convinceva a uccidere tuo padre. L'uccisione da parte di Dehhak di suo padre Merdas, un nobile arabo, era bella perche’ senza motivo e perche’ aveva avuto luogo a mezzanotte nel giardino di un meraviglioso palazzo mentre le stelle d'oro illuminavano appena i cipressi e i multicolori fiori di primavera.
Poi ricordammo come, dopo tre giorni di combattimenti, il leggendario Rüstem aveva ucciso suo figlio Suhrab che comandava gli eserciti nemici, senza sapere che fosse suo figlio. Nella disperazione e nel pianto di Rüstem che, dopo avergli squassato il petto a colpi di spada, capisce che Suhrab e’ suo figlio dalle polsiere che gli aveva dato la madre molti anni prima, c'era qualcosa che aveva colpito profondamente tutti noi. Ma cosa? Mentre la pioggia ticchettava tristemente sul tetto del convento, io camminavo su e giu’, e all'improvviso dissi: «O sara’ nostro padre, il nostro Maestro Osman, a tradirci e farci uccidere, o saremo noi a tradire e far uccidere lui». Fu il terrore, e non perche’ cio’ che avevo detto fosse sbagliato, ma proprio perche’ era giusto e tacemmo. Mentre camminavo su e giu’, con l'ansia di mettere tutto a posto, dicevo tra me: adesso racconto di come Siyavus uccise Afrasyab, cosi’ cambiamo discorso. Ma e’ un tradimento che non mi spaventa. Racconta l'uccisione di Cosroe. Va bene, ma come la racconta Firdusi nel Libro dei Re, o come Nizami nel Cosroe e sirin? La cosa che nel Libro dei Re infonde tristezza e’ che Cosroe capisce con le lacrime agli occhi chi e’ l'assassino appena entra nella stanza! Come ultimo rimedio, manda il ragazzo che ha accanto a prendere dell'acqua, un abito pulito, una spugna, il suo tappeto, dicendo che vuole pregare, e il ragazzo ingenuo non capisce che il suo signore lo manda a chiamare aiuto e va veramente a prendere cio’ che gli e’ stato chiesto. Una volta rimasto solo nella stanza, l'assassino per prima cosa chiude a chiave la porta. In questa rappresentazione, che si trova alla fine del Libro dei Re, Firdusi descrive schifato l'assassino trovato dagli organizzatori del complotto: un tipo puzzolente, peloso e con la pancia. Continuando a camminare su e giu’ avevo la testa piena di parole ma, come in un sogno, non mi usciva la voce. Come in un sogno, sentii che gli altri bisbigliavano tra loro e parlavano male di me. All'improvviso, mi saltarono addosso tutti e tre. Mentre venivano verso di me, mi fecero perdere l'equilibrio in maniera cosi’ violenta che, tutti e quattro, rotolammo a terra. Ci spingemmo, lottammo sul pavimento, ma non duro’ molto. Io rimasi sotto, sdraiato di schiena, e loro mi montarono sopra. Uno si sedette sulle mie ginocchia. L'altro sul mio braccio destro. Nero appoggio’ le ginocchia all'attaccatura delle mie braccia e, sistemando con forza il suo didietro tra il mio petto e il mio stomaco, si sedette sopra di me. In questa situazione non riuscivo assolutamente a muovermi. Tutti meravigliati, riprendemmo fiato. Ricordai questo: la buonanima di mio zio aveva un figlio schifoso, era piu’ grande di me di due anni, spero che sia stato catturato mentre assaliva una carovana e gli abbiano tagliato la testa. Quest'invidioso, sentendo che ne sapevo piu’ di lui, ero piu’ intelligente e raffinato di lui, trovava sempre una scusa per provocare dei litigi, e se non li provocava, proponeva di fare la lotta, mi metteva subito sotto, con le ginocchia sulle spalle e mi guardava negli occhi proprio come faceva adesso Nero; poi faceva dondolare tra le labbra uno sputo e, mentre lo sputo man mano aumentava di volume e scendeva lento verso i miei occhi, io, schifato, pensavo che prima o poi sarebbe caduto, cercavo di muovere la testa a destra e a sinistra, e lui si divertiva molto. Nero mi disse di non nascondergli nulla. Dov'e’ l'ultimo disegno? Confessa! Provavo una tristezza e una rabbia soffocanti per due motivi: perche’ non mi ero accorto che si erano messi d'accordo tra loro e avevo parlato inutilmente; perche’ non avevo immaginato che la gelosia potesse arrivare fino a questo punto e non ero scappato prima. Nero disse che se non avessi tirato fuori l'ultimo disegno mi avrebbero tagliato la gola. Una cosa ridicola. Avevo serrato le labbra, come se, aprendo la bocca, potesse uscire la verita’. D'altra parte pensavo che non ci fosse nulla da fare. Se si fossero messi d'accordo e avessero detto al Tesoriere che l'assassino ero io, avrebbero risolto il problema. La mia unica speranza era che Maestro Osman indicasse un altro, tirasse fuori altri indizi, ma era vero cio’ che diceva Nero su di lui? Potevano uccidermi qui, e poi consegnarmi? Mi appoggiarono il pugnale alla gola. Vidi subito che Nero provava un piacere che non riusciva a nascondere. Mi diedero uno schiaffo in faccia. La lama tagliava? Mi diedero un altro schiaffo. Riuscii comunque a ragionare. Se non dico nulla, non succede nulla! Questo mi diede forza. Ormai non nascondevano la gelosia che provavano nei miei confronti fin da quando erano apprendisti, erano gelosi di me che per tutta la vita avevo palesemente colorato meglio di chiunque altro, avevo tracciato le righe piu’ belle, avevo fatto le miniature migliori. Li amavo perche’ erano cosi’ gelosi di me. Sorrisi ai miei cari fratelli. Uno di loro - non voglio che sappiate chi ha fatto questa cosa vergognosa - mi bacio’ focosamente come se baciasse la sua amata di cui sentiva la mancanza da tempo. Gli altri ci guardavano alla luce della lampada che avevano avvicinato. Risposi al bacio del mio caro fratello. Se arriviamo alla fine di tutto, sappiate che sono io che faccio le miniature migliori. Trovate le mie pagine e guardatele. Come se aver risposto al suo bacio l'avesse fatto davvero arrabbiare, comincio’ a picchiarmi con rabbia. Ma gli altri lo trattennero. Ebbero un attimo di indecisione. Il fatto che si fossero spintonati fece arrabbiare Nero. Sembrava che non provassero rabbia nei miei confronti, ma nei confronti della direzione in cui andava la loro vita, e che volessero vendicarsi di tutto il mondo e di tutti. Nero tiro’ fuori un oggetto dalla sua cintura, un lungo ago dalla punta molto acuminata. All'improvviso lo avvicino’ al mio occhio e fece il gesto di infilarmelo dentro. «Il grande Behzat, il Maestro dei maestri, ottant'anni fa, mentre Herat cadeva, capi’ che tutto era finito e, perche’ nessuno lo costringesse a disegnare in un altro modo, si acceco’ con onore, - disse. - Dopo essersi lentamente infilato e sfilato dagli occhi questo spillone da turbante, il magnifico buio di Allah lentamente scese sulla sua cara creatura, sul miniaturista dalle mani miracolose. Questo spillone passo’ da Herat a Tabriz insieme a Behzat ormai cieco e ubriaco, per poi venire mandato in dono da Scia’ Tahmasp al padre del Nostro Sultano, insieme a quel leggendario Libro dei Re. In un primo momento, Maestro Osman non ha capito perche’ questo spillone fosse stato inviato in dono. Ma oggi ha
capito anche il malaugurio e la logica ragionevole nascosti dietro questo crudele regalo. Il Maestro Osman, dopo aver visto che ormai anche il Nostro Sultano vuole un ritratto dipinto con il metodo dei maestri europei e che anche voi che amava piu’ dei suoi figli lo tradivate, stanotte, nella stanza del Tesoro, si e’ infilato questo spillone negli occhi, proprio come Behzat. Adesso, se io acceco te, il vile che ha trascinato alla rovina il suo laboratorio, cosa potrebbe accadere?» «Che tu mi accechi o meno, alla fine per noi non ci sara’ comunque piu’ posto, - dissi. - Se Maestro Osman diventa veramente cieco, o se muore, e noi, sotto l'influenza europea, cominciamo a disegnare come ci viene da dentro, con tutti i nostri difetti e con tutta la nostra personalita’ e uno stile, somiglieremo a noi stessi, ma non saremo noi stessi. Se invece resistiamo, continuiamo a disegnare come gli antichi maestri, e solo disegnando come loro possiamo essere noi stessi, il Nostro Sultano, che ha voltato le spalle anche a Maestro Osman, trovera’ qualcuno che ci sostituisca. Nessuno ci guardera’ piu’, la gente avra’ solo pena di noi. L'assalto al caffe’ aggiungera’ altro pepe alla situazione, perche’ meta’ di tutta questa storia verra’ certamente attribuita a noi miniaturisti che abbiamo sparlato di Effendi il Predicatore». Anche se avevo cercato di spiegare in vari modi che litigare tra noi non sarebbe servito a nulla, fu tutto inutile. Non sembravano avere affatto intenzione di ascoltarmi. Erano agitati, volevano risolvere la faccenda in fretta, decidere prima dell'alba chi era il colpevole, senza badare se fosse giusto o meno, credevano che non sarebbero stati torturati e che le cose nel laboratorio sarebbero continuate per anni come prima. E comunque, quel che Nero minacciava di fare, non piaceva agli altri due. Se saltava fuori che il colpevole era un altro e il Nostro Sultano veniva a sapere che mi avevano accecato inutilmente? Li spaventava anche l'intimita’ di Nero con Maestro Osman e il fatto che ne parlasse in modo insolente. Cercarono di allontanare lo spillone che Nero continuava a tenere pericolosamente davanti ai miei occhi con rabbia furiosa. Nero si agito’ come se gli avessero tolto di mano lo spillone e noi ci fossimo messi d'accordo. Si spintonarono. Per sfuggire allo spillone, potevo solo alzare il mento e buttare indietro la testa. Poi tutto accadde velocemente, inizialmente non capii neanche cosa fosse successo. Provai un dolore acuto ma limitato all'occhio destro, per un attimo mi si intorpidi’ la fronte. Poi tutto torno’ come prima, ma il terrore si era gia’ impadronito di me. La lampada si era allontanata, ma vidi comunque l'altro infilarmi con decisione lo spillone, questa volta, nell'occhio sinistro. Aveva appena strappato lo spillone dalla mano di Nero, ed era piu’ attento e minuzioso di lui. Quando capii che lo spillone era entrato all'improvviso, non mi mossi assolutamente, sentii lo stesso bruciore. L'intorpidimento che avevo sulla fronte sembrava si fosse diffuso a tutta la testa, ma quando usci’ lo spillone fini’. Adesso guardavano i miei occhi e poi la punta dello spillone. Come se non fossero sicuri di quanto era accaduto. Quando la terribile cosa che mi era capitata fu ben chiara, smisero di spingere, e il peso sulle mie braccia si alleggeri’. Cominciai a urlare come se ululassi. Non per il dolore ma per il terrore di quel che mi era accaduto. Non so per quanto urlai. Il mio urlo all'inizio non tranquillizzava solo me, ma anche gli altri. La mia voce ci avvicinava. Quando il mio urlo si prolungo’, li vidi agitarsi. Non provavo dolore. Ma non riuscivo a togliermi dalla testa che mi avevano infilato lo spillone negli occhi. Eppure non ero ancora diventato cieco. Grazie a Dio riuscivo a vedere che mi osservavano tristi e terrorizzati e le loro ombre si muovevano indecise sul soffitto del convento. Questo mi rallegro’, ma nello stesso tempo mi spavento’ profondamente. «Lasciatemi, - gridai. - Lasciatemi vedere ancora, vi prego». «Raccontaci subito di come vi siete incontrati con Raffinato Effendi quella sera e ti lasciamo», disse Nero. «Tornavo a casa dal caffe’, ho incontrato il povero Raffinato Effendi. Era agitato, in uno stato pietoso. In un primo momento mi ha fatto pena. Ma adesso lasciatemi, poi vi racconto. Mi si annebbia la vista». «Non puo’ annebbiarsi subito, - disse Nero senza alcuna delicatezza. - Maestro Osman ha individuato il cavallo dal naso tagliato con gli occhi bucati, credimi». «Il povero Raffinato Effendi disse che mi voleva parlare e che si fidava solo di me». Adesso non provavo pena nei suoi confronti, ma nei miei. «Se ce lo racconti prima che il sangue si blocchi, al mattino potrai contemplare il mondo per l'ultima volta a sazieta’, disse Nero. - Guarda, la pioggia si sta calmando». «Gli proposi di ritornare al laboratorio, ma capii subito che quel posto non gli piaceva, anzi, che ne aveva paura. Mi accorsi cosi’, per la prima volta, che Raffinato Effendi si era staccato e allontanato molto da noi miniaturisti, dopo aver disegnato insieme per venticinque anni, da quando eravamo apprendisti. Negli ultimi otto, nove anni, da quando si era sposato, lo vedevo al laboratorio ma non sapevo neanche cosa facesse... Mi disse che aveva visto l'ultimo disegno. Era stato commesso un grande peccato. Nessuno di noi avrebbe mai potuto farlo dimenticare. Secondo lui, saremmo tutti bruciati all'Inferno. Era agitato, molto spaventato, provava la rovinosa sensazione di chi commette un peccato grave senza rendersene conto». «Cos'e’ questo peccato grave?» «Quando glielo chiesi spalanco’ gli occhi come per dire, ma non lo sai? Pensai che il nostro vecchio amico era davvero invecchiato. Disse che il povero Zio Effendi nel suo ultimo disegno aveva usato il metodo della prospettiva in maniera avventata. Pare che in questo disegno le cose non fossero state disegnate secondo l'importanza che hanno nella mente di Allah, ma come apparivano ai nostri occhi. Ed era un grave peccato. E disegnare il Nostro Sultano, il Califfo dell'Islam, della stessa grandezza di un cane, era il secondo peccato. Il terzo peccato era disegnare Satana della stessa grandezza e per di piu’ renderlo simpatico. La piu’ grande bestemmia, una volta utilizzato questo modo europeo di vedere le cose, era stata fare un enorme disegno del Nostro Sultano e disegnarne il viso con tutti i dettagli. Come fanno gli idolatri... Oppure come i «ritratti» dei cristiani, che non sono riusciti a liberarsi dalle loro abitudini idolatre, eseguiti sui muri delle
chiese per poi prosternarcisi davanti. Raffinato Effendi conosceva molto bene questa parola, l'aveva imparata da Zio Effendi, e aveva giustamente creduto che il ritratto fosse il peccato piu’ grande e che con il ritratto la pittura musulmana sarebbe finita. Mi racconto’ queste cose mentre camminavamo per le strade perche’ non eravamo andati nel caffe’ dato che - diceva - li’ si sparlava del nostro Predicatore Effendi e della nostra religione. Di tanto in tanto si fermava e, come per chiedere aiuto, mi domandava: tutto questo e’ vero, non c'e’ soluzione, bruceremo all'Inferno? Si disperava, aveva crisi di pentimento, e all'improvviso decisi di non credergli assolutamente. Era un imbroglione che faceva finta di disperarsi». «Come l'hai capito?» «Conosciamo Raffinato Effendi da quando eravamo bambini. molto tranquillo, ma e’ silenzioso, sfuggente e incolore. Come le sue dorature. Mi sembrava di avere davanti una persona piu’ stupida, piu’ ingenua e fiduciosa di lui, ed era troppo superficiale». «Anche lui frequentava i seguaci del predicatore di Erzurum», disse Nero. «Nessun musulmano si dispera cosi’ tanto per aver commesso un peccato senza rendersene conto, - dissi. - Un buon musulmano sa che Allah e’ giusto e ragionevole e prende in considerazione l'intenzione della sua creatura. Solo gli ignoranti con il cervello da gallina pensano di andare all'Inferno per aver mangiato carne di maiale senza rendersene conto. Un vero musulmano sa che la paura dell'Inferno non serve a spaventare se stesso ma gli altri. Ecco, era questo che Raffinato Effendi stava facendo, voleva spaventarmi. Era stato tuo zio a insegnarglielo, fu allora che lo capii. Adesso, cari fratelli miniaturisti, ditemi onestamente, i miei occhi sono gia’ congestionati, l'iride sta perdendo colore?» Portarono le lampade e me le appoggiarono sul viso, mi guardarono negli occhi con l'attenzione e l'affetto di un medico. «Come se non fosse accaduto nulla». L'ultima cosa che avrei visto al mondo sarebbero stati questi tre che mi fissavano negli occhi? Capivo che fino alla fine dei miei giorni non avrei mai dimenticato quei momenti e malgrado me ne pentissi raccontavo, perche’ avevo ancora qualche speranza: «Tuo zio fece sapere a Raffinato Effendi che stava facendo una cosa proibita. Coprendo l'ultimo disegno, mostrandone un angolo e facendo fare un disegno a ognuno di noi e nascondendoci il resto... Dando al disegno un'aura di mistero e di segreto, ha diffuso la paura del peccato. stato lui il primo, e non i seguaci del predicatore che in vita loro non avevano mai visto libri miniati, ad avere le ansie e l'agitazione del peccato, ed e’ stato lui a trasmetterle anche a noi. Di cosa puo’ mai avere paura il miniaturista con la coscienza pulita?» «Ormai il miniaturista con la coscienza pulita ha molte cose di cui avere paura, - disse Nero con aria saccente. - Si’, nessuno dice nulla della miniatura, ma secondo la nostra religione il disegno e’ proibito. I disegni dei maestri persiani, le meraviglie dei piu’ grandi maestri di Herat, in fin dei conti, vengono visti come una parte degli ornamenti dei bordi, nessuno potrebbe dire qualcosa su di essi perche’ mettono in evidenza la bellezza della scrittura, le meraviglie del calligrafo. E poi quante persone vedono la nostra miniatura? Ma, avvalendosi dei metodi dei maestri europei, la miniatura che facciamo non e’ piu’ miniatura ma comincia a diventare palesemente disegno. Ecco, e’ questo che proibisce il Corano e non piace assolutamente al Nostro Profeta. Il Nostro Sultano e mio zio lo sapevano molto bene. Mio zio e’ stato ucciso per questo motivo». «Tuo zio e’ stato ucciso perche’ aveva paura, - dissi. - Proprio come te, aveva cominciato ad affermare che la miniatura che faceva non era contro la religione, contro il libro... Proprio quello che cercano i seguaci del predicatore di Erzurum, che si farebbero a pezzi pur di trovare qualcosa contro la religione. Raffinato Effendi e tuo zio erano proprio fatti l'uno per l'altro». «E li hai uccisi tutti e due, vero?», disse Nero. Per un attimo pensai che mi avrebbe picchiato e in quel momento capii che anche il nuovo marito della bella seküre non era affatto addolorato per la morte di suo zio. Non mi avrebbe picchiato ma, anche se l'avesse fatto, ormai non me ne importava piu’ nulla. «In realta’, oltre a far preparare un libro influenzato dai miniaturisti europei come voleva il Nostro Sultano, tuo zio voleva anche far preparare un libro che fosse una sfida a tutti e contenesse il timore del peccato, per poi vantarsene orgogliosamente. Aveva adorato in modo servile i disegni dei maestri europei che aveva visto nei suoi viaggi e aveva creduto veramente alle cose che aveva raccontato a tutti noi per giorni e giorni, senz'altro ha raccontato anche a te quelle sciocchezze sulla prospettiva e sul ritratto. Secondo me, nel libro che facevamo non c'era nulla di dannoso ne’ di contrario alla religione... E lui, dato che lo sapeva, si dava delle arie come se stesse facendo preparare qualcosa di pericoloso, e questo gli piaceva molto... Fare una cosa pericolosa con il permesso speciale del sultano per lui era importante quanto adorare i disegni dei maestri europei. Se facessimo dei disegni da appendere ai muri, si’, quello sarebbe peccare. Ma in nessun disegno per quel libro ho intuito qualcosa contro la religione, qualcosa di miscredente, di empio, neanche il vago timore di qualcosa di proibito. Voi lo avete intuito?» I miei occhi avevano appena perso forza ma, grazie al cielo, riuscivo a vedere tanto da capire che la mia domanda li aveva lasciati perplessi. «Non riuscite a decidere, vero? - chiesi con piacere. - Anche se, in segreto, pensate che nei disegni che abbiamo fatto ci sia una vaga idea di peccato, un'ombra di empieta’, non lo potreste mai ammettere apertamente. Perche’ sarebbe come dare ragione ai vostri nemici, ai seguaci del predicatore di Erzurum, ai bigotti che vi accusano. D'altra parte non potete neanche dire, con convinzione, di essere innocenti come bambini, perche’ significherebbe rinunciare all'abbagliante orgoglio che fa fare qualcosa di segreto, misterioso, proibito, rinunciare alla possibilita’ di vantarvi un po'. Sapete come ho capito che anch'io mi davo delle arie? Portando a mezzanotte il povero Raffinato Effendi in questo convento!
Pensavo di averlo portato qui perche’ ci eravamo congelati camminando per le strade. In realta’ mi piaceva che vedesse che ero un avanzo dell'ordine dei kalenderi, un miscredente, peggio ancora, uno pseudo-kalenderi. Pensavo che il povero Raffinato Effendi, vedendo che ero l'ultimo superstite di una setta di pervertiti, di pederasti, oppiomani e vagabondi, e che commettevo ogni indecenza, avrebbe avuto ancora piu’ paura di me, avrebbe avuto piu’ rispetto e, forse, avrebbe chiuso il becco per la paura. Invece accadde il contrario. Oltre al fatto che questo posto non gli piacque, il nostro amico d'infanzia dal cervello da gallina, decise immediatamente che le accuse di empieta’ di cui aveva saputo da tuo zio erano fondate. Cosi’, il nostro caro amico dei tempi dell'apprendistato che prima diceva: «aiutami, convincimi che non andremo all'Inferno in modo che stanotte dorma tranquillo», con aria minacciosa, comincio’ a dirmi: «puo’ finire male». Diceva che nell'ultimo disegno lo Zio si era allontanato molto dagli ordini del Nostro Sultano, che questi non l'avrebbe perdonato, che i pettegolezzi sarebbero arrivati all'orecchio del predicatore di Erzurum. Era diventato quasi impossibile fargli credere che tutto andava per il meglio. Capii che avrebbe raccontato le sciocchezze di Zio Effendi a tutti quei suoi amici dal cervello da gallina che si erano appassionati al predicatore di Erzurum, che avrebbe ingigantito le cose dicendo che si bestemmiava contro la religione, che Satana veniva mostrato simpatico e loro ci avrebbero creduto. Sapete come sono gelosi gli artisti, come tutti gli artigiani. Adesso avrebbero detto tutti insieme e con piacere: i miniaturisti peccano di empieta’. E poi, grazie alla collaborazione di Raffinato Effendi e Zio Effendi, questa calunnia si sarebbe rivelata vera. Dico calunnia, perche’ non credevo assolutamente a cio’ che diceva mio fratello Raffinato sul libro e sull'ultimo disegno. Gia’ allora non permettevo a nessuno, mai, di parlare male di tuo zio. E poi trovavo molto giusto che la simpatia del Nostro Sultano, da Maestro Osman, si fosse rivolta a lui, e anch'io credevo ai suoi lunghi racconti sui maestri europei e sui loro disegni, anche se non quanto lui. Pensavo sinceramente che noi miniaturisti ottomani potessimo tranquillamente prendere qualcosa dai metodi europei, come desideravamo e come vedevamo durante i viaggi, senza avere nulla a che fare con Satana, e che questi disegni non ci avrebbero assolutamente creato problemi. La vita era facile e, dopo Maestro Osman, la buonanima di tuo zio, per me, era un nuovo padre in questa nuova vita». «Non tornare su quel punto, - mi ordino’ Nero. - Prima racconta come hai ucciso Raffinato». «Questa faccenda, - dissi capendo di non riuscire a usare la parola uccidere, - l'ho organizzata non solo per noi, per salvare noi stessi, ma per la salvezza di tutto il laboratorio. Raffinato Effendi aveva capito di avere in mano un'arma di ricatto. Pregai e supplicai il Sommo Allah che mi facesse vedere quanto era meschino questo vile. Allah accetto’ le mie preghiere e mi mostro’ l'infamia dell'infame: gli proposi dei soldi. Mi vennero in mente queste monete d'oro, ma, ispirato da Allah, inventai una bugia. Gli dissi che non erano qui nel convento, ma nascoste in un altro luogo. Uscimmo. Camminammo senza meta per le strade vuote, nei quartieri remoti senza assolutamente sapere dove andare. Non avevo idea di cosa fare, ero molto spaventato. Alla fine della nostra camminata senza meta e senza direzione, quando passammo di nuovo per una strada dove eravamo gia’ passati, il nostro fratello doratore Raffinato Effendi che aveva dedicato tutta la vita alla ripetizione e all'aspetto esteriore, s'insospetti’. Ma intanto Allah ci aveva fatto trovare in mezzo alle rovine e subito accanto a un pozzo cieco». A questo punto capii che non sarei riuscito a raccontare il resto e lo dissi. «Anche voi, se foste stati al mio posto, avreste pensato alla salvezza di tutti gli altri vostri fratelli miniaturisti e avreste fatto la stessa cosa», esclamai con coraggio. Quando sentii che mi davano ragione, mi venne voglia di piangere. Stavo per dire che avevo voglia di piangere perche’ quell'affetto che non meritavo mi aveva intenerito, ma non era cosi’. Stavo per dire che era perche’ avevo sentito di nuovo il tonfo del suo corpo sbattere sul fondo del pozzo dove lo avevo gettato, ma non era cosi’. Com'ero felice prima di diventare un assassino, stavo per dire, ma non era cosi’. Mi passo’ davanti agli occhi un cieco che passava per il nostro povero quartiere quando ero bambino. Dai suoi abiti sporchi tirava fuori un boccale di rame ancora piu’ sporco e diceva a noi bambini che lo guardavamo da lontano accanto alla fontana del quartiere: figlioli, chi di voi riempira’ d'acqua il boccale per questo vecchio cieco? Se nessuno lo faceva, diceva: fareste un'opera buona, figlioli, un'opera buona! Il colore delle pupille e dell'iride era sbiadito e scomparso, avevano lo stesso colore della cornea. Con l'angoscia di somigliare a quel vecchio cieco, raccontai anche di come avevo ucciso Zio Effendi, lo feci in fretta e senza godermi affatto il racconto. Non dissi ne’ troppe verita’ ne’ troppe bugie. Una volta trovata una via di mezzo che non mi stringesse tanto il cuore, mi resi conto che avevano capito che non ero andato li per uccidere Zio Effendi. Oltre a capire che non l'avevo ucciso in maniera premeditata, capirono anche che, dicendo che se non c'e’ l'intenzione non si va all'Inferno, stavo cercando scuse e pretesti. «Dopo aver consegnato Raffinato Effendi agli angeli di Allah, - dissi con aria pensierosa, - le parole che pronuncio’ nei suoi ultimi attimi divennero un tarlo e cominciarono a rodermi. Essermi sporcato le mani di sangue per l'ultimo disegno aveva reso quel disegno piu’ affascinante ai miei occhi. Andai da tuo zio che non chiamava piu’ nessuno a casa sua per il libro, perche’ mi facesse vedere l'ultimo disegno. Non me lo mostro’, si comporto’ con me come se tutto andasse a gonfie vele. Non c'era nulla per cui valesse la pena uccidere qualcuno, neanche un disegno! Gli confessai di avere ucciso Raffinato Effendi e di averlo gettato nel pozzo perche’ non mi disprezzasse e mi prendesse sul serio. Mi prese sul serio, ma continuo’ a disprezzarmi. Non esiste un padre che disprezza il figlio. Il grande Maestro Osman si arrabbiava molto con noi, ci picchiava molto, ma non ci ha mai disprezzati. Fratelli, abbiamo sbagliato a tradirlo». Sorrisi ai miei fratelli che mi guardavano attentamente negli occhi come se ascoltassero le mie ultime parole sul letto di morte. Provai la stessa sensazione di un fratello che sta per morire, anch'io li vedevo allontanarsi da me, si facevano man mano piu’ opachi. «Ho ucciso tuo zio per due motivi. Perche’ aveva costretto il grande Maestro Osman a imitare come una scimmia il
miniaturista europeo Sebastiano. E poi perche’, per debolezza, volevo sapere se avevo uno stile». «Cosa ti ha detto?» «Ha detto che ce l'ho. Ma per lui questo non era un insulto, ma certamente una lode. Ricordo che, d'un tratto, vergognandomi, mi chiesi se fosse una lode anche per me. Da una parte vedo lo stile come una sorta di degenerazione, di disonesta’, dall'altra un tarlo mi rode. Non voglio avere uno stile, ma Satana mi provoca e ne sono curioso». «Tutti, segretamente, vorrebbero avere uno stile, - disse Nero con aria saccente. - Tutti vorrebbero anche un ritratto, come lo ha voluto il Nostro Sultano». «una malattia a cui non si puo’ resistere? - domandai. - Man mano che questa malattia si diffondera’, nessuno di noi potra’ resistere ai metodi dei maestri europei». Ma non mi ascoltavano. Nero raccontava la storia dell'infelice signore turkmeno che ando’ in esilio per dodici anni in Cina dopo aver dichiarato il suo amore alla figlia dello scia’. Non avendo un ritratto della sua amata, che sogno’ per dodici anni, dimenticava il suo viso tra le belle cinesi e la pena d'amore si trasformava in un tormento profondo voluto da Allah. Sapevamo tutti che la storia che raccontava era la sua. «Grazie a tuo zio ormai tutti abbiamo imparato la parola ritratto, - dissi. - Speriamo, un giorno, di imparare anche a raccontare la nostra vita come la nostra vita, senza aver paura». «Le storie appartengono a tutti, - disse Nero. - Non a uno solo». «E tutta la miniatura e’ la miniatura di Allah, - conclusi completando i versi di Hatifi, il poeta di Herat. - Ma se si diffondono i metodi dei maestri europei, tutti crederanno che raccontare la storia degli altri come la propria sia segno di bravura». «E quello che vuole Satana e’ proprio questo». «Lasciatemi, basta, - urlai con tutte le mie forze. - Lasciate che contempli il mondo per l'ultima volta». Quando li vidi molto spaventati, tornai a essere piu’ fiducioso. Nero si riprese: «Tirerai fuori l'ultimo disegno?» Guardai Nero in modo da fargli capire che l'avrei tirato fuori, mi lascio’. Il cuore comincio’ a battermi forte. Senz'altro avrete gia’ capito chi sono, cosa che, forse, cercavo di nascondere. In ogni caso, non meravigliatevi del fatto che mi comporti come gli antichi maestri di Herat. Loro non nascondevano la loro firma perche’ non si sapesse chi erano, ma per il rispetto che provavano per i maestri e per le regole. Camminai agitato tra le stanze completamente buie del convento con la lampada in mano, facendo strada alla mia pallida ombra. Sui miei occhi aveva cominciato a calare il sipario del buio, o erano queste stanze, queste anticamere a essere cosi’ buie? Quanto tempo, quanti giorni, quante settimane mi mancavano prima di diventare cieco? La mia ombra e io ci fermammo tra i fantasmi della cucina, nell'angolo pulito dell'armadio impolverato prendemmo i fogli e tornammo velocemente indietro. Nero, per prudenza, mi aveva seguito, ma non aveva preso il pugnale con se’. Prima di diventare cieco, avrei forse voluto prendere il pugnale e accecare anche lui? «Sono contento di vederlo un'ultima volta prima di diventare cieco, - affermai orgoglioso. - Voglio che lo vediate anche voi. Guardatelo». Cosi’, alla luce della lampada, mostrai quel disegno preso a casa di Zio Effendi il giorno che lo uccisi. Dapprima li osservai mentre guardavano curiosi e spaventati il grande disegno di due pagine. Quando mi girai per guardarlo con loro, tremavo leggermente. Perche’ mi era entrato negli occhi lo spillone da turbante, o forse perche’ mi era venuta la febbre da estasi. I disegni di albero, cavallo, Satana, morte, cane, donna, che avevamo fatto tutti noi nell'ultimo anno, erano sistemati, grandi e piccoli, nei vari angoli di queste due pagine secondo il nuovo metodo che Zio Effendi aveva applicato senza alcuna esperienza in modo che le dorature e le cornici di Raffinato Effendi buonanima non ci facessero piu’ pensare di guardare la pagina di un libro ma tutto il mondo, come alla finestra. Al centro di quel mondo, nel posto dove avrebbe dovuto esserci il ritratto del Nostro Sultano, c'era il mio ritratto, e per un attimo lo contemplai orgoglioso; mi dispiaceva un po' averlo fatto cosi’ poco somigliante, dopo aver lavorato male, giorni e giorni, cancellandolo e rifacendolo, guardando lo specchio; ma sentivo anche un entusiasmo incontrollabile, e non solo perche’ il disegno, la pagina, mi aveva messo al centro di un mondo, ma mi rendeva piu’ profondo, complicato e misterioso di quello che ero, per un qualche diabolico motivo che non riuscivo a spiegarmi. Volevo che i miei fratelli miniaturisti vedessero e capissero questo mio entusiasmo e lo condividessero con me. Ero al centro di tutto come un sultano o un re, ma ero anche me stesso. Questa situazione mi riempiva d'orgoglio e allo stesso tempo di vergogna. Dato che questi due sentimenti, in reciproco equilibrio, mi tranquillizzavano, riuscivo a provare un piacere stupefacente per la mia posizione in questo disegno. Ma perche’ questo piacere fosse completo, tutte le rughe sul mio viso, tutte le pieghe del mio abito, le ombre, i foruncoli e le pustole, tutto, a cominciare dalla barba fino al tessuto dell'abito avrebbe dovuto essere perfetto e completo, insieme ai colori, ai dettagli e all'abilita’ dei pittori europei. Sui volti dei miei vecchi amici che guardavano il disegno, invece, vedevo una sorta di paura e meraviglia, oltre a quel sentimento che ci rodeva tutti, la gelosia. Insieme allo schifo e alla rabbia che avrebbero provato nei confronti di chi era sprofondato nel peccato, lo invidiavano con spavento. «Di notte, qui, guardando questo disegno alla luce della lampada, ho capito per la prima volta che Allah mi aveva abbandonato, e che nella mia solitudine solo Satana mi avrebbe mostrato amicizia, - dissi. - Se fossi stato veramente al centro del mondo - ogni volta che guardavo il disegno lo volevo davvero - mi sarei sentito ancora piu’ solo, malgrado tutte queste cose che amo attorno a me, la donna che somiglia alla bella seküre e gli amici dervisci, la bellezza del rosso che domina il disegno. Non ho paura di avere una personalita’ e una particolarita’, non temo che gli altri mi si prosternino davanti, anzi, lo voglio».
«Allora non sei pentito? - domando’ Cicogna con l'aria di chi e’ appena uscito dalla preghiera del venerdi’». «Mi sento come Satana, e non perche’ ho ucciso due persone, ma per il mio ritratto. Penso di aver ucciso quei due per poter fare questo disegno. Ma la solitudine della mia nuova situazione mi spaventa. Imitare i miniaturisti europei senza raggiungere la loro abilita’ rende il miniaturista ancora piu’ schiavo. Voglio sfuggire a questa situazione. In realta’ anche voi avete capito che ho ucciso quei due perche’ tutto continuasse come prima nel laboratorio, l'ha capito senz'altro anche Allah». «Ma questo creera’ a tutti problemi piu’ grandi», disse il mio caro Farfalla. Improvvisamente afferrai il polso dello stupido Nero che continuava a guardare il disegno, lo strinsi con tutta la mia forza, piantandoci le unghie con rabbia e glielo piegai. Il pugnale gli cadde di mano. Lo raccolsi subito da terra. «Ormai non riuscirete a liberarvi dei vostri problemi neanche consegnandomi al boia», dissi. Avvicinai la punta acuminata del pugnale come se volessi infilarla negli occhi di Nero. «Dammi lo spillone da turbante». Lo tiro’ fuori e me lo diede, lo infilai nella cintura. Cominciai a fissare i suoi occhi che guardavano ubbidienti. «Mi fa pena la bella seküre che alla fine non ha trovato una soluzione migliore che sposare te, - dissi. - Se non fossi stato costretto a uccidere Raffinato Effendi per salvarvi dalle disgrazie, si sarebbe sposata con me e sarebbe stata anche felice. Sono io quello che ha capito meglio le storie e le capacita’ dei maestri europei che suo padre ha raccontato a tutti noi. Percio’ ascoltatemi bene. Qui non c'e’ piu’ posto per i miniaturisti che vogliono vivere con il loro talento e la loro onesta’, ormai e’ chiaro. Se proviamo a imitare i maestri europei come volevano la buonanima di Zio Effendi e il sultano, se non lo faranno quelli come Raffinato Effendi e i seguaci del predicatore di Erzurum, la legittima paura che abbiamo dentro ci tratterra’ e non riusciremo ad andare fino in fondo. E se tentiamo di avere uno stile e una personalita’ di tipo europeo e diamo retta a Satana, andando fino in fondo, tradendo il passato, non ci riusciremo mai, allo stesso modo in cui, nonostante il mio talento e le mie conoscenze, io non sono riuscito a fare il mio ritratto. Perche’ il disegno che ho fatto e’ primitivo, non mi somiglia, ho imparato ancora una volta che per acquisire le capacita’ dei maestri europei ci vogliono secoli... era una cosa che sapevamo gia’ tutti, ma non ci avevamo riflettuto con la dovuta attenzione. Se il libro di Zio Effendi fosse stato finito e mandato in dono, i maestri veneziani ci avrebbero riso in faccia, e il loro riso sarebbe passato al Doge veneziano e basta. Avrebbero detto: l'ottomano rinuncia a essere ottomano, e non avrebbero piu’ avuto paura di noi. Come sarebbe stato bello se avessimo seguito la strada degli antichi maestri! Ma nessuno lo vuole, ne’ il Nostro Sultano, ne’ Nero Effendi che e’ triste perche’ non ha il ritratto della sua cara seküre. Allora sedetevi qui e imitate per secoli i metodi europei! Firmate con alterigia i vostri disegni di imitazione. Gli antichi maestri di Herat, quando cercavano di disegnare il mondo come lo vede Allah, per non mostrare di avere una personalita’, non mettevano la firma. Invece voi firmerete per non far credere di non avere una personalita’. Ma c'e’ un'altra via d'uscita, forse hanno suonato anche alla vostra porta, uno a uno: il sultano indiano Akbar raccoglie intorno a se’ i miniaturisti piu’ abili del mondo spargendo oro e affetto. Adesso e’ chiaro, non sara’ qui a Istanbul, ma nel laboratorio di Agra che finiremo il libro che si prepara per il millesimo anno dell'Islam». «Per gonfiarsi d'orgoglio come te, un miniaturista deve prima diventare assassino?», chiese Cicogna. «Basta essere il piu’ abile e il piu’ dotato», risposi senza prenderlo sul serio. Lontano un gallo altezzoso canto’ due volte. Raccolsi il mio fagotto, le mie monete d'oro, sistemai i miei quaderni di esempi e i miei disegni nella cartella. Mi passo’ per la mente che li avrei potuti uccidere uno dopo l'altro con il pugnale dalla punta acuminata fisso sulla gola di Nero, ma amavo molto i miei amici d'infanzia, eravamo stati insieme dai lontani tempi dell'apprendistato, anche Cicogna che mi aveva infilato lo spillone da turbante in un occhio. Urlando spaventai il caro Farfalla che si alzo’ in piedi, lo feci sedere. Quando fui certo di poter uscire dal convento sano e salvo, mi affrettai a dire impazientemente la frase pomposa che avevo pensato di pronunciare proprio sulla porta: «Questa mia fuga da Istanbul somigliera’ alla fuga di Ibni sakir da Baghdad sotto l'assedio mongolo». «Allora, invece di andare a Oriente, devi andare a Occidente», disse Cicogna geloso. «Ad Allah appartengono l'Oriente e l'Occidente», dissi come la buonanima di Zio Effendi, in arabo. «Ma l'Oriente e’ in Oriente, l'Occidente e’ in Occidente», disse Nero. «Il miniaturista non deve gonfiarsi d'orgoglio, - disse Farfalla. - Invece di pensare all'Oriente e all'Occidente, deve solo disegnare come gli viene da dentro». «E' giusto quello che dici, - ribattei al caro Farfalla. - Mi e’ venuta voglia di baciarti». Avevo appena fatto un paio di passi verso di lui quando quell'invadente di Nero mi salto’ addosso. In una mano avevo il mio fagotto con la biancheria e le monete d'oro e sottobraccio la cartella piena di disegni. Volendo proteggerli, non riuscii a salvarmi. Mi lasciai afferrare per il braccio che teneva il pugnale. Ma anche lui non fu fortunato, inciampo’ nel leggio e, all'improvviso, perse l'equilibrio e invece di afferrarmi per il braccio, ci si trovo’ appeso. Mentre lo prendevo a calci con tutte le mie forze, gli morsi le dita e riuscii a liberarmi di lui. Ululo’ dal dolore. Questa volta gli calpestai sempre la stessa mano facendogli molto male e gridai agli altri due brandendo il pugnale: «Sedetevi e non muovetevi!» Si sedettero. Infilai la punta del pugnale nella narice di Nero come faceva Keykavus nella leggenda. Quando comincio’ a sanguinargli, dai suoi occhi supplichevoli scese anche qualche lacrima di dolore. «Dimmi adesso, - gridai. - Diventero’ cieco?» «Secondo la leggenda, ad alcuni accade, ad altri no. Se Allah e’ soddisfatto della tua miniatura, ti vorra’ accanto a se’ e ti concedera’ il suo magnifico buio. Allora non vedrai piu’ questo misero mondo, ma i meravigliosi panorami che vede lui. Se invece non e’ contento della tua miniatura, continuerai a vedere come adesso».
«La vera miniatura la faro’ in India, - dissi. - Non ho ancora fatto il disegno per cui Allah mi giudichera’». «Non sognare troppo di sfuggire ai metodi europei, - disse Nero. - Sai che Akbar Khan spinge tutti i suoi miniaturisti a firmare? I preti gesuiti portoghesi hanno gia’ portato li’ i disegni e i metodi europei. Ormai sono dappertutto». «Per chi vuole rimanere puro c'e’ sempre qualcosa da fare e c'e’ sempre un posto dove fuggire», dissi. «Si’, diventare cieco e fuggire in paesi che non esistono», disse Cicogna. «Perche’ vuoi rimanere puro? - chiese Nero. - Rimani come noi e mescolati». «Per tutta la vita imiteranno gli europei per avere uno stile personale, - dissi. - Non avranno mai uno stile personale perche’ imitano gli europei». «Non c'e’ altro da fare», disse quel disonesto di Nero. Ovviamente, la sua unica felicita’ non era la miniatura, ma la bella seküre. Tolsi il pugnale con la punta insanguinata dal naso di Nero e lo alzai sopra la sua testa come la spada di un boia che si prepara a tagliare una testa. «Se volessi, adesso ti taglierei la testa, - dichiarai palesemente. - Ma ti posso perdonare, per i bambini di seküre e la sua felicita’. Trattala bene, non fare l'animale e l'ignorante con lei. Promettimelo!» «Te lo prometto», rispose. «Ti dono a seküre», dissi. Ma il mio braccio fece esattamente il contrario di quel che aveva pronunciato la mia bocca. Colpii Nero col pugnale con tutto me stesso. All'ultimo minuto, sia perche’ lui si era mosso, sia perche’ io avevo cambiato direzione al colpo, il pugnale non gli arrivo’ sul collo ma sulla spalla. Guardai spaventato cio’ che il mio braccio aveva fatto in maniera del tutto spontanea. Il punto da dove estrassi il pugnale conficcato nella carne divenne scarlatto, di un rosso puro. Ebbi paura e mi vergognai di quello che avevo fatto, ma sapevo anche che tra poco, se fossi diventato cieco su una nave, probabilmente nei mari d'Arabia, non mi sarei trovato accanto nessuno dei miei amici miniaturisti per vendicarmi. Cicogna, giustamente spaventato che fosse il suo turno, fuggi’ nelle stanze buie. Gli andai dietro con la mia ombra e con la lampada in mano, ma ebbi paura e tornai indietro. L'ultima cosa che feci fu baciare e salutare Farfalla. Non riuscii a baciarlo intensamente come avrei voluto perche’ tra noi c'era l'odore del sangue. Vide che piangevo a calde lacrime. In una specie di silenzio mortale interrotto solo dai gemiti di Nero, uscii dal convento. Mi allontanai di corsa dal giardino bagnato e fangoso e dal quartiere oscuro. La nave che mi avrebbe portato al laboratorio di Akbar Khan sarebbe partita dopo la preghiera del mattino e a quell'ora una barca l'avrebbe raggiunta per l'ultima volta dal porto di Kadirga. Iniziai a correre con le lacrime agli occhi. Quando passai silenzioso come un ladro per Aksaray, all'orizzonte apparivano le prime luci del giorno. Di fronte alla prima fontana di quartiere che incontrai, dopo essere passato per strade secondarie, passaggi stretti e muri, c'era la casa di pietra dove avevo passato la mia prima notte a Istanbul, venticinque anni fa. Li’, vidi di nuovo dalla porta socchiusa il pozzo dove, venticinque anni fa, all'eta’ di undici anni, mi sarei voluto gettare sentendomi in colpa per aver bagnato di notte il materasso che questo mio lontano parente, buono e generoso, aveva preparato per ospitarmi. Poi, a Beyazit, il negozio di orologi dove andavo spesso a far aggiustare gli ingranaggi del mio orologio rotto, il negozio di bottiglie dove compravo lampade di cristallo vuote, caraffe che pitturavo per poi vendere di nascosto a gentiluomini, bottiglie che decoravo con fiori e l'hamam dove una volta andavo abitualmente perche’ era economico e poco frequentato, salutarono me e le mie lacrime. Anche intorno alle rovine del caffe’ non c'era nessuno, cosi’ come nella casa dove mi auguravo con tutto il cuore che la bella seküre fosse felice con il suo nuovo marito, anche se forse in questo momento stava morendo. Tutti i cani, gli alberi cupi, le finestre cieche, i camini neri di Istanbul, i suoi cittadini laboriosi e infelici che, all'alba, correvano alla preghiera del mattino e i suoi fantasmi che da quando mi ero sporcato le mani di sangue mi guardavano sempre in modo ostile quando camminavo per le strade, adesso che avevo confessato i miei omicidi e avevo deciso di abbandonare la citta’ della mia vita, ormai mi guardavano amichevolmente. Dopo aver superato la moschea di Beyazit, contemplai il Corno d'Oro da una collina. L'orizzonte s'illuminava, ma l'acqua era ancora scura. Due pescherecci, le navi da carico con le vele ammainate e una galea dimenticata, che dondolavano lente sulle onde invisibili, mi dissero di non andare, non andare. Avevo le lacrime agli occhi a causa dello spillone? Immagina la vita che farai in India grazie alle meraviglie del tuo talento, mi dissi. Cambiai strada, passai di corsa per due giardini fangosi e mi avvicinai a una vecchia casa di pietra in mezzo al verde. Era la casa dove ogni martedi’ venivo a prendere Maestro Osman per accompagnarlo al laboratorio quando ero ancora apprendista, camminavo due passi dietro di lui tenendogli la borsa, la cartella, il portapenne e l'asse da scrittura. Qui non era cambiato nulla, ma i platani nel giardino e sulla strada erano talmente cresciuti che, nella casa e nella strada, si notava il senso di prosperita’, potere e ricchezza dei tempi di Solimano il Magnifico. Dato che ero vicino alla strada che scendeva al porto, diedi retta a Satana e mi feci prendere dal desiderio di vedere per l'ultima volta il palazzo del laboratorio dove avevo passato venticinque anni della mia vita. Cosi’ passai per la strada che facevo il martedi’ quando ero apprendista camminando dietro Maestro Osman, da via Okçular che in primavera profumava di tiglio da fare svenire, davanti al forno dove il mio maestro comprava börek con carne per tutti, dalla discesa con i filari di alberi di mele cotogne e di castagni e di mendicanti, davanti alle serrande chiuse del nuovo mercato, al barbiere che il mio maestro salutava ogni mattina, accanto all'orto deserto dove d'estate arrivavano gli acrobati e mettevano le tende per gli spettacoli, sotto le stanze maleodoranti degli scapoli e le volte bizantine che puzzavano di muffa, accanto al Palazzo di Ibrahim Pascia’, alla colonna Serpentina che avevo disegnato centinaia di volte e al platano che ogni volta disegnavamo in maniera diversa e arrivai all'Ippodromo, passai sotto i castagni e i gelsi su cui di mattina cinguettavano allegramente passeri e gazze.
La pesante porta del laboratorio era chiusa. Non c'era nessuno ne’ alla porta ne’ sotto le volte del portico. Per un breve attimo guardai le persiane chiuse delle finestrelle dalle quali da apprendisti contemplavamo gli alberi nei momenti di noia, quando qualcuno mi fermo’. Aveva una voce stridula e acuta che graffiava le orecchie. Disse che il pugnale insanguinato con l'impugnatura di rubini era suo e suo nipote sevket, con l'aiuto della madre, gliel'aveva rubato. E questo, secondo lui, dimostrava che ero uno degli uomini di Nero che avevano assalito la sua casa e rapito seküre. Quest'uomo saccente e rabbioso dalla voce stridula diceva di conoscere gli amici miniaturisti di Nero e sapeva che sarebbe venuto al laboratorio. Aveva una lunga spada che luccicava di uno strano rosso e, chissa’ perche’, tanti conti da fare con me e tante storie da raccontarmi. Stavo per dirgli che si sbagliava, ma vidi l'incredibile rabbia sul suo volto. Vidi anche che avrebbe fatto una mossa per uccidermi con odio. «No, fermati», avrei voluto dirgli. Lui aveva gia’ fatto la sua mossa. Io non riuscii neanche a puntargli il pugnale, riuscii solo ad alzare la mano con cui tenevo il mio fagotto. Il fagotto volo’ in aria. La spada scarlatta, senza rallentare, prima mi taglio’ la mano, poi il collo e infine mi stacco’ la testa. Capii che la mia testa si era staccata dai due passi strani che fece il mio povero corpo stordito, da come dondolava stupidamente il pugnale e dal tonfo della mia testa che cadde a terra facendo zampillare il sangue dal collo. Dal fango dove era caduta la testa non riuscivo a vedere ne’ il mio assassino ne’ il mio fagotto pieno d'oro e dei disegni che avrei voluto tenermi stretto. Erano rimasti dal lato della mia nuca, verso la discesa che scendeva a mare e il porto di Kadirga che ormai non avrei potuto raggiungere. La mia testa non si sarebbe piu’ girata a guardare quelle cose come il resto del mondo. Li dimenticai e pensai a quel che voleva la mia testa. Quello che pensavo prima che la spada mi tagliasse la testa: la nave partira’ da Kadirga; tutto cio’ nella mia mente si era unito all'ordine «fai in fretta»; e quest'ordine mi ricordava una frase di mia madre di quando ero piccolo: «fai in fretta». Mamma, mi fa male il collo e non si muove nulla. Allora era questo che chiamano morte. Ma sapevo di non essere ancora morto. Le mie pupille forate non si muovevano, ma con gli occhi aperti ci vedevo molto bene. Quello che vedevo li’ da terra aveva riempito tutti i miei pensieri. La strada era leggermente in salita. Il muro e le volte del laboratorio, il tetto, il cielo e cosi’ via. Fu come se il momento che guardavo si fosse prolungato e capii che vedere adesso era diventato una sorta di ricordare. Allora mi venne in mente cio’ che provavo quando, un tempo, guardavo per ore un bel disegno. Se lo guardi a lungo, la tua mente entra nel tempo del disegno. Adesso tutti i tempi erano diventati quel tempo. Nessuno mi avrebbe piu’ visto e mentre i miei pensieri impallidivano, la mia testa nel fango avrebbe guardato per anni questa triste discesa, il muro di pietra, i gelsi e i castagni irraggiungibili che erano poco lontani. Questa interminabile attesa all'improvviso mi sembro’ cosi’ dolorosa e noiosa che desiderai uscire in fretta da quel tempo.
Capitolo cinquantanovesimo. Io, seküre Passai una notte insonne a casa di un lontano parente di Nero dove lui ci aveva mandato perche’ ci nascondessimo. Di tanto in tanto riuscivo ad addormentarmi nel letto dove, con Hayriye e i bambini, dormivamo tutti insieme in mezzo ai rantoli e ai colpi di tosse, ma nei miei sogni inquieti ero inseguita continuamente da donne e strane creature con le braccia e le gambe tagliate e riattaccate alla rinfusa. Verso l'alba mi svegliai per il freddo e coprii bene sevket e Orhan, li abbracciai, li baciai sulla testa e, come ai bei tempi in cui dormivo tranquilla a casa della buonanima del mio caro padre, pregai Allah di mandarmi un sogno felice. Non riuscii a prendere sonno. Vidi cio’ che vedevo sempre nei miei sogni felici, mentre guardavo in strada tra le persiane della finestra nella piccola stanza buia. Un uomo che sembrava un fantasma stremato dai combattimenti e dalle ferite, con un bastone in mano che brandiva come una spada, si avvicinava a me con aria nostalgica e con un passo che pensavo di conoscere. Quando in sogno facevo per abbracciare quest'uomo, mi svegliavo in lacrime. Quando capii che l'uomo in strada era Nero, mi usci’ quell'urlo che nei sogni non mi usciva mai. Corsi ad aprire la porta. Il suo viso era gonfio e viola per le botte. Aveva il naso lacerato, pieno di sangue, e un'enorme ferita che gli partiva dalla spalla e arrivava fino al collo. La camicia era completamente rossa di sangue. Come il marito dei miei sogni, mi sorrideva, perche’ finalmente era tornato a casa. «Entra», dissi. «Chiama i bambini, - disse. - Torniamo a casa». «Tu non sei in condizioni di tornare a casa». «Non avere piu’ paura di lui, - disse. - Velican Effendi, il Persiano». «Oliva... Hai ucciso quel poverino?» «fuggito in India con la nave che partiva da Kadirga», rispose e, sapendo di non aver portato a termine il suo lavoro, per
un attimo abbasso’ lo sguardo. «Riuscirai a camminare fino a casa? - domandai. - Fatti dare un cavallo». Sentii che una volta a casa sarebbe morto ed ebbi pena di lui. Non solo perche’ sarebbe morto, ma anche perche’ non aveva mai provato la felicita’. Nella triste determinazione dei suoi occhi vedevo che non voleva morire in questa casa e che, in realta’, avrebbe voluto sparire senza farsi vedere in questo terribile stato. Lo fecero montare a forza su un cavallo. Durante il viaggio di ritorno, passando per strade secondarie con i nostri fagotti in mano, per la paura, in un primo momento i bambini non osavano guardare in faccia Nero a cavallo. Ma, da sopra il cavallo che avanzava lentamente, Nero riusci’ comunque a raccontare come aveva rovinato il gioco del vile assassino che aveva ucciso il nonno, e come avevano combattuto con la spada. Vedevo che si stavano avvicinando a lui e pregavo Allah che Nero non morisse. Quando tornammo a casa Orhan urlo’: «Siamo arrivati a casa!», con una tale allegria che capii che in quel momento l'Angelo della Morte avrebbe avuto pieta’ di noi e Allah ci avrebbe concesso ancora del tempo. Ma, ad ogni buon conto, sapendo per esperienza che e’ impossibile conoscere quando, perche’ e a chi il Sommo Allah puo’ prendere la vita, non nutrii troppe speranze. Aiutammo Nero a smontare da cavallo con grande difficolta’, lo facemmo salire al piano di sopra tutti insieme, lo trasportammo nella stanza con la porta azzurra di mio padre e lo mettemmo a letto. Hayriye riscaldo’ dell'acqua e la porto’ su. Strappando o tagliando con le forbici io e Hayriye gli togliemmo la camicia insanguinata attaccata alla pelle, la cintura, le scarpe, la biancheria intima, tutto, fino alle mutande. Aprendo le persiane, il tenue sole invernale che giocherellava sui rami del giardino entro’ nella stanza e rispecchiandosi sulle brocche, le pentole, le scatole di colla, i calamai, i pezzi di vetro e i temperini illumino’ la pelle color morte e le ferite color carne di Nero. Bagnai con l'acqua calda le pezze su cui passai la spugna e pulii il corpo di Nero con attenzione, come se pulissi un antico tappeto pregiato, lo feci affettuosamente e volentieri come se mi prendessi cura di uno dei miei figli. Come un medico, gli pulii gli ematomi sul volto senza premere, il taglio sulla narice senza fargli male, la terribile ferita sulla spalla. Intanto, come facevo quando pulivo i bambini da piccoli, sussurravo frasi assurde. Aveva tagli sul petto, sulle braccia. Le dita della mano sinistra erano state morse ed erano diventate viola. Gli stracci, passando sul suo corpo, si imbevevano di sangue. Gli toccai il petto. Sentii sotto la mano la tenerezza del suo ventre, mi fermai a guardargli il pene. Giu’ dal cortile arrivavano le voci dei bambini. Perche’ alcuni poeti chiamano il pene la «penna di canna»? Quando sentii Esther entrare in cucina parlando allegramente e misteriosamente come per portare nuove notizie, scesi giu’. Esther era cosi’ agitata che comincio’ a raccontare senza neanche abbracciarmi e darmi un bacio. La testa di Oliva era stata trovata davanti alla porta del laboratorio insieme ai suoi disegni e al suo fagotto. Stava per fuggire in India e aveva voluto andare per un'ultima volta al laboratorio. C'erano i testimoni. Hasan, vedendo li’ Oliva, aveva sguainato la sua spada rossa e gli aveva tagliato la testa con un colpo solo. Mentre lei raccontava, io pensavo al mio povero caro padre. Sapere che l'assassino era stato punito mi libero’ dalla paura. Sentii che la vendetta mi infondeva un piacevole senso di serenita’ e giustizia. In quel momento fui molto curiosa di sapere come questa sensazione venisse vissuta adesso da mio padre e, all'improvviso, tutto il mondo mi sembro’ un palazzo con innumerevoli stanze che si aprivano una sull'altra. Riuscivamo a passare da una stanza all'altra solo ricordando e immaginando, ma la maggior parte di noi lo faceva molto poco e rimaneva sempre ad aspettare nella stessa stanza. «Non piangere mia cara, - disse Esther. - Vedi, alla fine e’ andato tutto bene». Le diedi quattro monete d'oro. Se le mise in bocca una a una con libidine e le morse con ambizione e desiderio, goffamente. «Le monete d'oro false dell'infedele veneziano hanno invaso ogni luogo», mormoro’ sorridendo. Appena se ne fu andata, dissi a Hayriye di non lasciare salire i bambini. Andai su, chiusi a chiave la porta. Mi avvicinai al corpo nudo di Nero e gli feci quello che mi aveva chiesto di fare nella casa dell'ebreo impiccato la notte in cui era stato ucciso il mio povero padre, piu’ che per desiderio per curiosita’, con attenzione piu’ che con paura. Non posso dire di aver capito fino in fondo perche’ i poeti persiani da secoli facciano similitudini tra la penna di canna e quello strumento, tra il calamaio e la bocca di noi donne, cosa c'e’ dietro queste similitudini - la dimensione della bocca? Il misterioso silenzio del calamaio? Che Allah sia un pittore? - le loro origini si sono ormai perse a furia di essere ripetute. Ma l'amore dev'essere una cosa che non va capita con la razionalita’ di chi come me fa continuamente funzionare il cervello per difendersi, ma con l'irrazionalita’. Allora vi confido un segreto. Li’, in quella stanza che puzzava di morte, il coso che avevo in bocca non mi procurava nessuna eccitazione. Quello che mi eccitava era sentire le urla allegre dei miei figli che in cortile si spingevano dicendosi parolacce, mentre tutto il mondo mi palpitava in bocca. Nel frattempo, mentre la bocca era cosi’ impegnata, i miei occhi riuscirono a vedere Nero che mi guardava in faccia con uno sguardo completamente diverso. Mi disse che non avrebbe mai piu’ dimenticato la mia faccia, la mia bocca. La sua pelle odorava di foglio ammuffito come certi vecchi libri, nei suoi capelli c'era tutto l'odore di polvere e stoffa della stanza del Tesoro. Quando mi lasciavo andare a toccargli le ferite, i gonfiori, i tagli, gemeva come un bambino, e pian piano s'allontanava dalla morte e cosi’ capii che mi sarei legata a lui ancora di piu’. L'amore prese velocita’ come le vele di una barca che lentamente si gonfiano al vento, e come quella barca austera si fece strada coraggiosamente verso mari sconosciuti. Capivo da come teneva il timone, anche sulla soglia della morte, che Nero aveva navigato molto in queste acque,
chissa’ con quali donne svergognate. Mentre io non sapevo se il braccio che baciavo era mio o suo, se quello che prendevo in bocca era il mio dito o tutta la mia vita, mezzo svenuto per le ferite e il piacere, lui controllava l'andamento del mondo con un occhio semiaperto e, di tanto in tanto, mi guardava il viso ammirato prendendolo delicatamente tra le mani, per poi osservarlo subito dopo come se fosse il viso di una prostituta di Mingerya. Nel momento del piacere, il suo grido, come quello degli eroi leggendari che vengono passati a fil di spada nei disegni dello scontro tra gli eserciti dell'Iran e del Turan, e il fatto che l'avesse sentito tutto il quartiere, mi spaventarono. Ma come un vero maestro miniaturista che riesce a progettare la disposizione e l'ordine di tutta la pagina anche nel piu’ alto momento d'ispirazione in cui la mano che tiene la penna di canna si muove direttamente per comando divino, con una parte della sua mente Nero controllo’ il nostro posto nel mondo perfino al culmine dell'eccitazione. «Dirai che stavi mettendo della pomata sulle ferite del loro padre», disse ansimando. Questa frase non solo costitui’ il colore del nostro amore che era cominciato nella strettoia tra la vita e la morte, tra il proibito e il Paradiso, tra la disperazione e la vergogna, ma fu anche la scusa del nostro amore. Nei ventisei anni successivi, cioe’ fino a quando una mattina non mori’ d'infarto cadendo accanto al pozzo, con il mio caro marito abbiamo sempre fatto l'amore a mezzogiorno, quando la luce del sole entrava nella stanza tra le persiane, i primi anni ascoltando le allegre urla di sevket e Orhan, e abbiamo sempre detto «mettere la pomata sulle ferite». Cosi’, i miei figli gelosi che non volevo venissero strapazzati dalle richieste e dalla gelosia di un padre rozzo e triste, hanno continuato a dormire nel letto con me per tutti questi anni. Tutte le donne intelligenti sanno che e’ molto piu’ bello dormire abbracciate ai propri figli che dormire abbracciate a un marito debole e maltrattato dalla vita. Noi, io e i miei figli, siamo stati felici, ma Nero no. Il primo evidente motivo e’ che le ferite sulla spalla e sul collo non guarirono mai completamente; come avevo sentito dire da qualcuno, il mio caro marito era rimasto «invalido». Quest'invalidita’, aspetto a parte, non gli aveva reso piu’ difficile la vita. Anzi, a volte sentivo le donne che lo vedevano da lontano, lo definivano affascinante. Ma una spalla di Nero rimase sempre piu’ bassa dell'altra e il collo inclinato in un modo strano. Mi sono arrivati all'orecchio anche i pettegolezzi di chi diceva che una donna come me avrebbe sposato solo un uomo inferiore a se stessa, e che l'invalidita’ di Nero, oltre