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JOHN GRISHAM IL PARTNER (The Partner, 1997) A David Gernert amico, editor, agente 1 Lo trovarono a Ponta Porã, una piacevole cittadina brasiliana, a due passi dal Paraguay, in un territorio ancora conosciuto come la Frontiera. Lo trovarono in un'ombreggiata casa di mattoni in Rua Tiradentes, un ampio viale con una fila d'alberi al centro e ragazzini scalzi che giocano a calcio sull'asfalto rovente. Lo trovarono solo, per quanto si poté stabilire, anche se negli otto giorni in cui lo avevano sorvegliato di nascosto avevano visto una donna delle pulizie andare e venire nelle ore più disparate. Lo trovarono che conduceva una vita comoda, ma certo non agiata. L'abitazione era modesta, sarebbe potuta appartenere a qualsiasi commerciante locale. L'automobile era un Maggiolino Volkswagen del 1983, fabbricata a São Paulo insieme a milioni di altre. Era rossa e pulita, lucida da scintillare. La prima fotografia gliel'avevano scattata mentre la incerava dietro il cancello della sua proprietà. Lo trovarono molto dimagrito, ben sotto i centodieci chili dell'ultima volta in cui era stato visto. Carnagione e capelli erano più scuri, il mento era più squadrato e il naso più appuntito. Impercettibili modifiche al volto. Avevano pagato profumatamente per corrompere il chirurgo di Rio che lo aveva operato due anni e mezzo prima. Lo trovarono dopo quattro anni di noiose ma puntigliose ricerche, quattro anni di vicoli ciechi, buchi nell'acqua e false segnalazioni, quattro anni di soldi buoni buttati al vento, soldi che sarebbe stato meglio spendere per qualcosa di più proficuo, sembrava. Ma lo trovarono. E attesero. Ci fu la tentazione di sequestrarlo subito, drogarlo e portarlo in una casa sicura in Paraguay, prenderlo prima che lui li vedesse o che qualche vicino di casa s'insospettisse. Per l'eccitazione di averlo trovato ebbero voglia di agire all'istante, ma dopo due giorni si adattarono a pazientare. Oziarono in Rua Tiradentes, vestiti come la gente del luogo, a bere tè all'ombra, a evitare il sole, a mangiare gelati, a parlare ai
bambini, a sorvegliare la sua casa. Lo pedinarono quando andò in centro a fare compere e lo fotografarono a distanza ravvicinata nel momento in cui uscì dalla farmacia. Gli si accostarono a pochi passi al mercato ortofrutticolo e lo ascoltarono parlare con il venditore. Un portoghese eccellente, con il leggerissimo accento di un americano o un tedesco che ha molto studiato. Dopo la rapida puntata in centro, fece direttamente ritorno a casa, ma la sua breve sortita aveva fruttato loro una decina di ottime istantanee. In un periodo precedente della sua vita aveva fatto jogging, ma, negli ultimi mesi prima che scomparisse, il suo esercizio si era ridotto in misura inversamente proporzionale al peso. Ora che era quasi pelle e ossa, non c'era da meravigliarsi di vederlo correre di nuovo. Uscì di casa, chiuse a chiave il cancello e partì al piccolo trotto lungo il marciapiede di Rua Tiradentes. Nove minuti per il primo miglio, tutto in perfetto rettilineo, tra case sempre più diradate. Ai margini dell'abitato l'asfalto lasciava il posto alla ghiaia e a metà del secondo miglio l'andatura era scesa a otto minuti e il sudore era copioso. Era un mezzogiorno di ottobre e faceva caldo. In periferia aumentò ancora la velocità, passò davanti a una piccola casa di cura affollata di giovani madri, superò una chiesetta battista, s'inoltrò nella campagna a una velocità di sette minuti a miglio. Correva da vero fondista e non potevano che compiacersene: Danilo si sarebbe tuffato da solo tra le loro braccia. All'indomani del primo avvistamento un brasiliano di nome Osmar affittò un piccolo e sporco cottage nei sobborghi di Ponta Porã e di lì a poco fu raggiunto dal resto della squadra. Questa era costituita in egual misura da americani e brasiliani, con Osmar che impartiva ordini in portoghese e Guy che sbraitava in inglese. Poiché conosceva entrambe le lingue, Osmar diventò subito l'interprete ufficiale. Guy era di Washington, ex funzionario del governo assunto appositamente per ritrovare Danny Boy, com'era stato soprannominato. Guy era considerato un genio per certi versi e un individuo di grandi capacità per altri. Il suo passato era un buco nero. Il contratto annuale per le ricerche di Danny Boy gli era già stato rinnovato per la quinta volta e, per quanto fosse abile nel dissimularlo, l'inutilità di tanti sforzi aveva cominciato a spingerlo verso la depressione. Quattro anni e tre milioni e mezzo di dollari per un pugno di mosche. Ma ora l'avevano trovato.
Osmar e la sua banda di brasiliani non sapevano nulla delle malefatte di Danny Boy, ma anche uno sciocco si sarebbe reso conto che doveva essere scomparso portando con sé una vagonata di soldi. Osmar però, nonostante la curiosità, aveva imparato presto a non fare domande, mentre Guy e i suoi americani si guardavano bene dal toccare l'argomento. Gli ingrandimenti delle foto scattate a Danny Boy furono appesi alla parete della cucina del piccolo cottage ed esaminati da uomini arcigni che, fumando sigarette forti una dopo l'altra, presero a scuotere la testa. Si scambiarono bisbigli e confrontarono le foto nuove con quelle vecchie, quelle che risalivano alla sua vita precedente. Più basso di statura, diverso il mento, diverso il naso. Capelli più corti e pelle più scura. Era davvero lui? Era già successo diciannove mesi prima a Recife, sulla costa di nordest, dove in un appartamento in affitto avevano esaminato altre foto appese al muro finché si era deciso di sequestrare l'americano e controllargli le impronte digitali. Impronte sbagliate. Americano sbagliato. Lo avevano imbottito di droga e abbandonato ai bordi di una strada. Erano restii a scavare troppo in profondità nella vita attuale di Danilo Silva. Se era davvero il loro uomo, allora era ricco sfondato. E il denaro contante fa sempre miracoli con le autorità locali. Per decenni aveva garantito protezione ai nazisti e agli altri tedeschi rifugiatisi a Ponta Porã. Osmar voleva andare a prenderlo. Guy era contrario. Il quarto giorno l'uomo scomparve e per trentasei ore il piccolo cottage si trasformò in un manicomio. L'avevano visto uscire di casa sul suo Maggiolino rosso. Andava di fretta, secondo la segnalazione. Era filato diritto all'aeroporto, saltando all'ultimo momento a bordo di un piccolo velivolo, e se ne erano perse le tracce. La sua automobile occupava l'unico posto disponibile e fu sorvegliata per ogni secondo di ogni ora. La destinazione dell'aereo era São Paulo, con quattro soste durante il tragitto. Si pensò all'istante di penetrare nella sua abitazione e catalogare ogni cosa. Dovevano esserci registrazioni riguardanti il denaro. Guy sognava di trovare rendiconti bancari, rapporti di movimenti di valuta, documentazioni contabili, tutto ordinatamente riposto in un incartamento che li avrebbe guidati al ritrovamento del malloppo. Ma non era così ingenuo. Se Danny Boy si era dileguato per causa loro, allora non avrebbe mai lasciato alcun indizio dietro di sé. E se era davvero il loro uomo, la sua casa era senz'altro a prova di intruso. Dovunque fosse,
era prevedibile che Danny Boy avrebbe saputo del loro intervento nel momento stesso in cui avessero aperto una porta o una finestra. Aspettarono. Imprecarono e litigarono, con i nervi sempre più a fior di pelle. Guy fece la sua quotidiana telefonata a Washington, la conversazione fu rabbiosa. Tennero d'occhio il Maggiolino rosso. A ogni atterraggio spuntavano binocoli e cellulari. Sei voli il primo giorno. Cinque il secondo. Il piccolo cottage diventò un forno e gli uomini della squadra si trasferirono all'esterno, gli americani a sonnecchiare nel filo d'ombra di un albero rachitico sul retro e i brasiliani a giocare a carte vicino allo steccato antistante. Guy e Osmar uscirono in macchina per ammazzare il tempo e si ripromisero che, se fosse tornato, questa volta lo avrebbero preso. Osmar era sicuro che sarebbe riapparso. Probabilmente era in viaggio d'affari, quali che fossero i suoi affari. Lo avrebbero sequestrato e identificato e, se fosse risultato che non era l'uomo giusto, lo avrebbero semplicemente scaricato in qualche strada di periferia prima di scomparire. Era già accaduto. Rientrò il quinto giorno. Lo pedinarono fino alla sua abitazione in Rua Tiradentes e tutti furono felici e contenti. L'ottavo giorno brasiliani e americani abbandonarono il cottage per prendere posizione. Il percorso era di sei miglia. Era sempre stato lo stesso, tutte le volte che era uscito a correre, partendo pressappoco alla stessa ora, indossando gli stessi calzoncini blu e arancione, le stesse vecchie Nike, calze corte, niente maglietta. Il luogo ideale si trovava a due miglia e mezzo da casa sua, oltre un dosso della strada sassosa, non lontano dal punto in cui lui girava per tornare indietro. Danilo arrivò in cima al dosso dopo venti minuti di corsa, con qualche secondo di anticipo sulla tabella di marcia. Correva più veloce, per qualche strano motivo. Forse le nuvole. Dall'altra parte la strada era bloccata da un'automobile con una gomma a terra, bagagliaio aperto, martinetto inserito a sollevare il lato posteriore. L'automobilista, un giovane tarchiato, si finse sorpreso di veder apparire lo snello podista ansimante e lucido di sudore. Danilo rallentò l'andatura per qualche secondo. C'era spazio per passare sulla destra. «Bom dia» salutò il giovane avanzando di un passo. «Bom dia» rispose Danilo senza fermarsi. All'improvviso l'automobilista estrasse dal bagagliaio una grossa pistola scintillante e gliela puntò contro. Danilo si bloccò, con gli occhi fissi sul-
l'arma e la bocca aperta nel respiro affannato. Il giovane aveva mani grosse e lunghe braccia muscolose. Afferrò Danilo per il collo e lo trascinò verso la macchina, costringendolo ad abbassarsi sul paraurti. S'infilò la pistola in tasca e caricò il prigioniero nel bagagliaio. Danny Boy lottò e scalciò senza successo. Il giovane chiuse il bagagliaio, calò l'automobile sul fondo stradale, buttò il martinetto nel fossato e riparti. Un miglio più avanti imboccò uno stretto viottolo sterrato dove lo attendevano ansiosi i suoi amici. Gli legarono i polsi con corde di nylon e gli coprirono gli occhi con uno straccio nero, poi lo caricarono su un furgone. Osmar si sedette alla sua destra, un altro brasiliano a sinistra. Qualcuno gli prelevò le chiavi dal marsupio che portava appeso alla vita. Il furgone partì senza che Danilo avesse aperto bocca. Sudava ancora e il suo respiro era sempre più faticoso. Pronunciò le sue prime parole quando il veicolo si fermò su una strada polverosa che correva lungo un campo coltivato. «Che cosa volete?» chiese in portoghese. «Zitto» gli rispose in inglese Osmar. Il brasiliano alla sinistra di Danilo prese una siringa da un astuccio metallico e la riempì di un liquido potente. Osmar trattenne saldamente Danilo per i polsi mentre l'altro gli conficcava l'ago nel braccio. Il prigioniero s'inarcò in uno spasmo, ma sapeva di essere impotente. Cominciò a rilassarsi prima ancora che il brasiliano avesse finito di iniettargli tutta la droga. La sua respirazione rallentò, la testa cominciò a girargli. Quando il mento gli cadde sul petto, delicatamente, con il dito indice, Osmar gli sollevò il pantaloncino destro e trovò esattamente quello che si aspettava di trovare. Pelle chiara. Correndo si manteneva magro ma anche abbronzato. I sequestri di persona erano un crimine comune nella Frontiera. Gli americani erano facili bersagli. Ma era quello il vero motivo? si chiedeva Danilo mentre la sua testa vagava e i suoi occhi si chiudevano. Sorrise mentre precipitava nello spazio siderale, schivando comete e meteoriti, scivolando beato tra pianeti e lune attraverso intere galassie. Lo nascosero sotto cartoni di frutta. Le guardie annuirono senza alzarsi e Danny Boy si trovò senza saperlo in Paraguay. La cosa comunque non l'avrebbe interessato più di tanto in quel momento: sobbalzava inerte a bordo del furgone su strade sempre più accidentate e ripide. Osmar fumava una sigaretta dopo l'altra e di tanto in tanto dava indicazioni. Un'ora dopo il se-
questro trovarono l'ultima curva. La baracca era in un anfratto tra due colline scoscese, quasi invisibile dalla strada. Lo trasportarono come un sacco di patate e lo rovesciarono su un tavolo nel rifugio dove Guy e l'esperto di impronte digitali si misero subito al lavoro. Danny Boy russò immerso in un sonno profondo mentre gli venivano prese le impronte delle dita di entrambe le mani. Americani e brasiliani erano ammassati tutt'attorno a seguire ogni singola mossa. Vicino alla porta c'era una bottiglia di whisky ancora sigillata, per festeggiare nel caso avessero messo le mani sul vero Danny Boy. Il dattiloscopista si ritirò in una stanza del retro, chiuse la porta a chiave e dispose le impronte per esaminarle. Aggiustò la luce. Posò sul tavolo le impronte campione, quelle prese a Danny Boy con il suo pieno consenso quand'era molto più giovane, ai tempi in cui si chiamava Patrick e chiedeva di essere iscritto all'ordine degli avvocati dello stato della Louisiana. Strana procedura, quella di prendere le impronte digitali agli avvocati. Le serie erano entrambe molto nitide e balzò subito all'occhio che corrispondevano. Le confrontò lo stesso con la massima cura, a una a una. Non c'era fretta. Che stessero pure sulle spine, là fuori. Era un momento che assaporava. Finalmente aprì la porta e guardò con aria accigliata gli uomini in attesa del suo verdetto. Poi sorrise. «È lui» disse in inglese e fu salutato da uno scroscio di applausi. Guy diede il permesso di aprire la bottiglia di whisky, da bere tuttavia con moderazione. C'era ancora da lavorare. Danny Boy, ancora in stato comatoso, ricevette un'altra dose di droga e fu trasferito in una piccola camera da letto senza finestra e con una porta di legno massiccio che si chiudeva dall'esterno. Era lì che sarebbe stato interrogato e, se necessario, torturato. I ragazzini scalzi che giocavano a calcio in strada erano troppo impegnati nella loro partita per accorgersi di movimenti sospetti. Danny Boy aveva con sé solo quattro chiavi, così bastarono pochi secondi per aprire il cancelletto. Un complice al volante di un'auto a noleggio andò a piazzarsi sotto un grosso albero quattro case più avanti. Un altro, in moto, si fermò all'estremità opposta del viale e cominciò a trafficare attorno ai freni. Se al momento dell'ingresso fosse entrato in funzione un sistema d'allarme, l'intruso se la sarebbe data a gambe in un batter d'occhio. In caso contrario, si sarebbe chiuso a chiave nella casa e avrebbe dato inizio all'inventario.
La porta si aprì senza che suonassero sirene. Il quadrante nell'ingresso segnalava che l'antifurto era spento. L'intruso respirò piano e rimase assolutamente immobile per un minuto intero. Poi smontò il disco rigido dal PC di Danny Boy e raccolse tutti i dischetti. Frugò tra le scartoffie che c'erano sul tavolo, ma trovò solo normali bollette di forniture, alcune pagate, altre in sospeso. Il fax era economico, con poche funzioni, ma soprattutto guasto. Scattò foto di indumenti, generi alimentari, mobili, scaffali di libri, pile di riviste. Cinque minuti dopo l'apertura della porta, nel sottotetto di Danilo si attivò un segnale silenzioso e un'agenzia privata di sorveglianza situata nel centro di Ponta Porã ricevette una telefonata. Nessuno rispose perché l'addetto in servizio dondolava pigramente su un'amaca dietro la casa. Un messaggio registrato partito dall'abitazione di Danilo informò l'eventuale ascoltatore che era in corso un'effrazione. Trascorsero quindici minuti prima che orecchie umane udissero il messaggio. Quando l'addetto si precipitò da Danilo, l'intruso non c'era più. Né c'era il signor Silva. Tutto sembrava in ordine, compreso il Maggiolino sotto la tettoia. Casa e cancello erano chiusi a chiave. Le istruzioni erano precise. In caso di allarme, non chiamare la polizia, cercare prima di localizzare il signor Silva e, se non fosse stato possibile reperirlo, telefonare a un numero di Rio e chiedere di Eva Miranda. Frenando a stento la soddisfazione, Guy fece la sua quotidiana chiamata a Washington. Chiuse gli occhi e sorrise mentre pronunciava le parole: «È lui». La voce gli era salita di un'ottava. All'altro capo ci fu una pausa. «Sicuro?» domandò quindi il suo interlocutore. «Sì, le impronte coincidono.» Un'altra pausa durante la quale Stephano riordinò i propri pensieri, operazione che gli richiedeva di solito pochi millesimi di secondo. «Il denaro?» «Non abbiamo ancora cominciato. L'abbiamo drogato.» «Quando?» «Questa sera.» «Sarò al telefono.» Stephano riappese. Guy si sedette su un ceppo di legno dietro la baracca. La vegetazione era fitta, l'aria rarefatta e fresca. Gli giungevano ovattate le voci di uomini di buonumore. La missione era in gran parte compiuta.
Lui stesso aveva appena guadagnato un premio di cinquantamila dollari. Ne avrebbe ricevuto un altro se avesse trovato il denaro ed era sicuro di riuscirci. 2 Quartiere degli affari a Rio. In un piccolo ufficio ben attrezzato al decimo piano di un grattacielo, Eva Miranda strinse forte il ricevitore con entrambe le mani e ripeté adagio le parole che aveva appena udito. L'allarme silenzioso aveva richiamato la guardia. Il signor Silva non era a casa, ma l'automobile era sotto la tettoia e la porta chiusa a chiave. Qualcuno era entrato e aveva fatto scattare l'allarme. Non potevano esserci errori, perché al suo arrivo la guardia aveva constatato che era ancora in funzione. Danilo era scomparso. Poteva essere uscito a correre. Secondo la guardia, l'allarme era scattato un'ora e dieci minuti prima. Danilo correva per meno di un'ora, sei miglia a un'andatura fra i sette e gli otto minuti a miglio davano un risultato sotto i cinquanta minuti complessivi. Escluso che avesse cambiato programma. Eva conosceva bene i suoi movimenti. Chiamò casa sua in Rua Tiradentes e non rispose nessuno. Compose il numero del cellulare di cui si serviva ogni tanto e non ottenne risposta. Tre mesi prima aveva fatto scattare l'allarme per sbaglio, spaventandoli a morte. In quel caso però una semplice telefonata aveva chiarito tutto. Ora lui era molto più prudente e non sarebbe mai ricaduto nello stesso errore. Era troppo importante. Eva ripeté le telefonate con il medesimo risultato. Una spiegazione ci dev'essere, si disse. Fece il numero di un appartamento di Curitiba, città di un milione e mezzo di abitanti, capitale dello stato di Paraná. Nessuno conosceva l'esistenza di quell'alloggio. Era stato affittato sotto falso nome e veniva utilizzato come magazzino e per qualche raro incontro. Di tanto in tanto vi trascorrevano insieme un fine settimana, troppo pochi per Eva. Non si aspettava risposta e non ne ebbe. Danilo non ci sarebbe mai andato senza avvertirla. Concluso il giro delle telefonate, chiuse a chiave la porta dell'ufficio e vi si appoggiò contro con gli occhi chiusi. Sentiva in corridoio l'andirivieni di segretarie e associati. Al momento lo studio contava trentatré avvocati ed
era il secondo di Rio quanto a importanza, con una filiale a São Paulo e un'altra a New York. Telefoni, fax e copiatrici si fondevano in un cicaleccio sommesso. Eva aveva trentun anni e da cinque era entrata come associata presso lo studio, quanto bastava per sentirsi tenuta a lavorare spesso fino a tardi e a recarsi in ufficio anche di sabato. Erano quattordici i soci titolari, solo due dei quali donne. Lei aveva in mente di modificare quel rapporto tra maschi e femmine. Viceversa dieci dei diciannove associati erano donne, a dimostrazione che anche in Brasile il "gentil sesso" stava aumentando prepotentemente la sua presenza in campo giuridico. Eva aveva studiato legge all'Università Cattolica di Rio, uno degli istituti, secondo lei, più qualificanti. Era lì che suo padre insegnava ancora filosofia. Lui aveva insistito perché si iscrivesse a Georgetown per la specializzazione dopo la laurea ottenuta a Rio. Georgetown era, per suo padre, l'alma mater. L'influenza del genitore, insieme con l'invidiabile curriculum di Eva, l'avvenenza e l'ottimo inglese, le avevano aperto agilmente le porte di uno degli studi più rinomati, dove occupava un posto di rilievo. Si fermò alla finestra esortandosi a rimanere calma. Il fattore tempo era diventato cruciale. Per le sue prossime mosse era indispensabile mantenere i nervi saldi. Poi sarebbe dovuta scomparire. Aveva un appuntamento di lì a mezz'ora, ma non avrebbe potuto rispettarlo. Da un piccolo cassetto ignifugo prese il foglio delle istruzioni e lo lesse ancora una volta. Erano le contromisure che lei e Danilo avevano ripetutamente studiato insieme. Danilo sapeva che lo avrebbero trovato. Eva aveva sempre preferito non pensarci. La sua mente volò lontano per qualche istante, risucchiata in pensieri neri, e quando il telefono squillò lei ebbe un sussulto. Ma non era Danilo. La segretaria la informava che c'era un cliente ad attenderla. Il cliente era in anticipo. Che gli porgesse le sue scuse, rispose, e gli fissasse un nuovo appuntamento. E non la disturbasse più. Il denaro era diviso tra una banca panamense e una fiduciaria alle Bermuda. Con il primo fax autorizzò un trasferimento immediato da Panama a una banca di Antigua. Con il secondo lo distribuì su tre banche di Grand Cayman. Con il terzo prelevò i fondi dalle Bermuda e li trasferì alle Bahamas. A Rio erano quasi le due. Le banche europee erano chiuse, quindi sarebbe stata costretta a tenere i soldi al caldo per qualche ora nei Caraibi in at-
tesa che aprissero. Le istruzioni di Danilo erano chiare ma generiche. I particolari erano lasciati alla sua discrezione. Era stata lei a occuparsi degli investimenti. Lei aveva deciso in quali banche versare il denaro, e in che misura. Lei aveva stilato l'elenco di società fittizie a cui gli investimenti erano attribuiti, un elenco che Danilo non aveva mai visto. Aveva diviso, disperso, indirizzato e reindirizzato. Era una manovra che avevano messo a punto insieme, tralasciando però i dati specifici. Danilo non doveva sapere dove andavano a finire i soldi. Solo Eva. In quel momento e in circostanze così delicate, a lei era data carta bianca su come muovere il capitale in base alle proprie valutazioni. Era specializzata in diritto commerciale. I suoi clienti erano in gran parte imprenditori brasiliani che desideravano sviluppare le esportazioni con Stati Uniti e Canada. Era esperta di mercati internazionali, valute estere e transazioni bancarie. Tutto quello che sapeva sull'arte di far circolare il denaro per il mondo, glielo aveva insegnato Danilo. Continuava a guardare l'orologio. Era trascorsa più di un'ora da quando le era arrivata la telefonata da Ponta Porã. Mentre giungeva l'ennesimo fax, il telefono squillò di nuovo. Era senz'altro Danilo, che finalmente chiariva tutto con le giustificazioni più impensabili facendo scoppiare il momento di crisi come una bolla di sapone. Chissà, forse era stato solo uno stratagemma per mettere alla prova lei, vedere come si sarebbe destreggiata. Ma Danilo non era tipo da giocare. Invece era un socio, contrariato che fosse ancora una volta in ritardo per un appuntamento. Si scusò con poche parole e tornò al suo fax. Sentiva la pressione aumentare con il passare dei minuti e ancora nessuna notizia di Danilo. Nessuna risposta alle sue assillanti chiamate. Se lo avevano trovato, non avrebbero aspettato molto prima di cercare di farlo parlare ed era questo che soprattutto temeva. Per questo doveva fare in fretta. Un'ora e mezzo e la realtà cominciava a gravare come un peso sulle sue spalle. Danilo non si sarebbe allontanato senza avvertirla, era un uomo troppo meticoloso e troppo consapevole di essere sempre braccato. Arrendersi all'evidenza significava prendere atto che il loro incubo più temuto si era materializzato. Nell'atrio si fermò a un telefono pubblico. Chiamò dapprima il custode di casa sua, per sapere se qualcuno si fosse fatto vivo al suo appartamento a Leblon, il quartiere meridionale di Rio dove vivevano i ricchi e famosi. Il
custode la tranquillizzò, ma promise di tenere gli occhi aperti. Telefonò quindi all'ufficio dell'Fbi a Biloxi, Mississippi. Era un'emergenza, spiegò con tutta la calma di cui era capace e facendo del suo meglio per esprimersi in un americano privo di accento. Attese sapendo che da quel momento non sarebbe più potuta tornare indietro. Qualcuno aveva preso Danilo. Il passato lo aveva finalmente raggiunto. «Pronto» risonò una voce nel ricevitore, forte come se fosse a pochi metri da lei. «Agente Joshua Cutter?» «Sì.» Fece una breve pausa. «È incaricato lei dell'indagine su Patrick Lanigan?» Eva sapeva benissimo che lo era. Silenzio per qualche istante. «Sì. Con chi parlo?» Avrebbero scoperto in non più di tre minuti che la telefonata arrivava da Rio, dopodiché le loro ricerche si sarebbero perse in una metropoli di dieci milioni di abitanti. Lei però non poté fare a meno di gettarsi intorno sguardi nervosi. «Chiamo dal Brasile» dichiarò seguendo il copione. «Hanno catturato Patrick.» «Chi?» chiese Cutter. «Le darò un nome.» «L'ascolto» replicò Cutter in un tono improvvisamente brusco. «Jack Stephano. Lo conosce?» Cutter frugò per qualche attimo nella propria memoria. «No. Chi è?» «Un agente privato di Washington. Sono quattro anni che dà la caccia a Patrick.» «E lei mi dice che ora l'ha trovato, giusto?» «Sì. I suoi uomini l'hanno trovato.» «Dove?» «Qui. In Brasile.» «Quando?» «Oggi. E credo che sia in pericolo di vita.» Cutter rifletté per un secondo. «Che cos'altro può dirmi?» chiese poi. Eva gli diede il recapito telefonico di Stephano a Washington, poi riattaccò e uscì. Guy passò lentamente in rassegna le svariate carte prelevate dall'abitazione di Danny Boy e si meravigliò di non trovare indizi di sorta. Un ren-
diconto mensile di una banca locale indicava un saldo di tremila dollari, non proprio quello che loro avevano in mente. Il suo solo deposito ammontava a milleottocento dollari, con addebiti per tutto il mese il cui totale non arrivava a mille. Danny Boy conduceva una vita frugale. Non aveva pagato il telefono e l'energia elettrica, ma le bollette non erano scadute. C'era un'altra decina di piccole fatture, tutte saldate. Uno degli uomini di Guy controllò tutti i numeri di telefono della sua agenda senza trovare niente di interessante. Un altro setacciò il disco rigido prelevato dal piccolo computer e poté constatare che Danny non era un mago dell'informatica: trovò un lungo diario in cui raccontava le sue avventure nell'entroterra brasiliano. L'ultimo brano risaliva a quasi un anno prima. La scarsità di documentazioni scritte era in sé sospetta. Un solo rendiconto bancario? Chi mai conserva unicamente i dati relativi all'ultimo mese? E il mese precedente? Danny Boy aveva nascosto i soldi da qualche parte, lontano da casa. Come si addiceva a un uomo in fuga. Al tramonto Danny Boy, ancora privo di sensi, fu spogliato e lasciato con i soli slip. Senza le scarpe da jogging e le calze, i suoi piedi erano di un bianco quasi abbagliante. Il nuovo colore scuro della sua pelle era una finta. Fu disteso su una tavola di compensato, nella quale erano stati praticati alcuni fori dove far passare le corde di nylon con cui gli bloccarono caviglie, ginocchia, vita, torace e polsi. La testa gli fu immobilizzata con una cinghia nera di plastica intorno alla fronte. Dalla sacca per le trasfusioni appesa direttamente sopra il suo volto partiva un catetere che si infilava in una vena nel suo polso sinistro. Gli fu praticata un'altra iniezione per svegliarlo. Il suo respiro faticoso diventò più rapido e gli occhi, quando li aprì, erano rossi e vitrei. Rimase immobile a fissare la sacchetta della fleboclisi. Entrò nel suo campo visivo il medico brasiliano che, senza una parola, gli infilò un ago nel braccio sinistro. Era tiopentale sodico, una droga rudimentale usata talvolta per far parlare la gente. Siero della verità. Funzionava soprattutto se la vittima aveva qualcosa che desiderava confessare. La droga perfetta con cui sondare una mente non è ancora stata inventata. Trascorsero dieci minuti. Lui cercò invano di muovere la testa. Di lato la sua visione era estremamente ristretta. La stanza era immersa nell'oscurità, a parte un chiarore tenue in un angolo dietro di lui. La porta si aprì e si richiuse. Entrò Guy da solo. Si fermò accanto a lui, posò le dita sul bordo della tavola di legno e disse: «Salve, Patrick».
Patrick chiuse gli occhi. Danilo Silva ora apparteneva a un altro mondo, era scomparso per sempre. Un vecchio amico fidato svaniva nel nulla di punto in bianco. La semplice vita in Rua Tiradentes scompariva con Danilo, il suo prezioso anonimato gli veniva strappato via da quelle parole pronunciate in tono amichevole: «Salve, Patrick». Per quattro anni si era spesso domandato come si sarebbe sentito se lo avessero preso. Avrebbe provato sollievo? Si sarebbe detto che era un atto di giustizia? Si sarebbe emozionato alla prospettiva di tornare a casa ad affrontare il suo destino? Assolutamente no! In quel momento Patrick era paralizzato dal terrore. Praticamente nudo e legato come un animale, sapeva che le prossime ore sarebbero state terribili. «Mi senti, Patrick?» chiese Guy e Patrick sorrise, non perché lo desiderasse, ma perché un impulso che non era in grado di controllare aveva trovato qualcosa di divertente. Guy vide che la droga faceva effetto. Il tiopentale sodico è un barbiturico ad azione di breve durata che dev'essere somministrato in dosi molto controllate. È difficile trovare il livello giusto di coscienza che rende il soggetto suscettibile all'interrogatorio. Se la dose è troppo blanda non si riesce a far breccia nella volontà della vittima. Se è eccessiva, la vittima viene direttamente spedita nel mondo dei sogni. Di nuovo la porta fu aperta e richiusa. Un altro americano entrò per ascoltare, senza che Patrick potesse vederlo. «Hai dormito per tre giorni, Patrick» lo informò Guy. Erano passate solo cinque ore, ma come poteva saperlo? «Hai fame o sete?» «Sete.» Guy svitò il cappuccio di una bottiglietta di acqua minerale e gliela versò adagio tra le labbra. «Grazie» disse Patrick e sorrise di nuovo. «Hai fame?» domandò ancora Guy. «No. Che cosa vuoi?» Guy posò la bottiglia sul tavolo e si chinò su di lui. «Prima sgombriamo il campo da possibili equivoci, Patrick. Mentre dormivi, ti abbiamo preso le impronte. Sappiamo esattamente chi sei, quindi possiamo saltare il tira e molla iniziale, giusto?» «Chi sono?» chiese Patrick sempre sorridente. «Patrick Lanigan.» «Di dove?»
«Biloxi, Mississippi. Nato a New Orleans. Scuola di legge a Tulane. Moglie, una figlia di sei anni. Scomparso da più di quattro anni.» «Tombola. Sono proprio io.» «Dimmi, Patrick, hai assistito al tuo funerale?» «È un reato?» «No, solo una voce che circola.» «Sì. L'ho visto. Ne sono rimasto commosso. Non sapevo di avere tanti amici.» «Che bello. Dove ti sei nascosto dopo il funerale?» «Qua e là.» Da sinistra emerse un'ombra e una mano regolò la valvola sotto il contenitore sospeso. «Che cos'è quello?» chiese Patrick. «Un cocktail» rispose Guy, rivolgendo un cenno all'altro che si ritirò nel suo angolo. «Dove sono i soldi, Patrick?» chiese poi, serafico. «Quali soldi?» «I soldi che hai portato via.» «Ah, quei soldi» ribatté Patrick e inspirò a fondo. Le palpebre si abbassarono di botto, il corpo si rilassò. Passarono pochi secondi e il suo torace cominciò a muoversi più lentamente. «Patrick» lo sollecitò Guy scuotendogli leggermente il braccio. Nessuna reazione, solo un respiro da sonno profondo. Il dosaggio fu immediatamente ridotto mentre aspettavano. La lettura del dossier dell'Fbi su Jack Stephano richiese poco tempo: ex detective di Chicago con due lauree in criminologia, ex cacciatore di teste lautamente pagato, tiratore scelto, maestro autodidatta in attività di ricerca e spionaggio e ora titolare di un'agenzia investigativa con sede a Washington che rintracciava persone scomparse e s'incaricava di operazioni di sorveglianza dietro laute ricompense. Il dossier su Patrick Lanigan riempiva otto scatoloni. Era logico che fra i due dossier nascesse un'attrazione. Non mancavano certo le persone che desideravano ritrovare e riportare a casa Patrick. A questo scopo era stato assunto il gruppo di Stephano. L'agenzia di Stephano, Edmund Associates, occupava l'ultimo piano di un anonimo edificio in K Street, a sei isolati dalla Casa Bianca. Due agenti piantonarono l'atrio davanti all'ascensore mentre altri due facevano irruzione negli uffici. Per poco fu evitato un corpo a corpo con una massiccia
segretaria che sosteneva che il signor Stephano era al momento troppo occupato. Lo trovarono alla sua scrivania, solo, a conversare amabilmente al telefono. Il sorriso gli morì sulle labbra quando gli piazzarono i distintivi sotto il naso. «Che storia è questa?» protestò. La parete dietro la sua scrivania era una particolareggiata carta geografica del mondo con una miriade di lumicini rossi che lampeggiavano in vari punti dei continenti colorati di verde. Quale corrispondeva a Patrick? «Chi l'ha assunta per rintracciare Patrick Lanigan?» chiese l'Agente Uno. «Informazione riservata» ringhiò Stephano. Aveva fatto il poliziotto per anni e non era facile intimidirlo. «Oggi abbiamo ricevuto una telefonata dal Brasile» disse l'Agente Due. Anch'io, pensò Stephano, sforzandosi disperatamente di rimanere impassibile davanti alla notizia sbalorditiva. La bocca gli si aprì involontariamente di qualche millimetro e le spalle gli si abbassarono mentre valutava furiosamente tutte le possibili teorie che spiegassero la presenza nel suo ufficio di quei due energumeni. Aveva parlato solo con Guy. Guy era assolutamente fidato. Guy non avrebbe mai aperto bocca con nessuno, soprattutto agenti dell'Fbi. No, non poteva essere stato lui. Guy aveva usato un cellulare per parlargli dalle montagne nell'est del Paraguay. Sarebbe stato impossibile intercettare la sua chiamata. «È ancora qui?» gli chiese Due in tono ironico. «Sì» rispose, registrando le parole senza udirle. «Dov'è Patrick?» chiese Uno. «Forse è in Brasile.» «In Brasile dove?» Stephano riuscì ad alzare le spalle in un movimento un po' meccanico. «Non ne ho idea. È un paese molto grande.» «Abbiamo un mandato per lui» affermò Uno. «È nostro.» Stephano si strinse nelle spalle ancora una volta, riuscendo a muoversi con maggiore naturalezza. «Complimenti.» «Lo vogliamo» insisté Due. «Subito.» «Non so come aiutarvi.» «Lei sta mentendo» lo accusò Uno. Piazzati davanti alla sua scrivania, lo fissavano con aria minacciosa. Fu l'Agente Due a incaricarsi di spiegare la situazione. «Abbiamo uomini nell'atrio, fuori tutt'intorno alla casa e davanti alla sua abitazione di Falls Church. Sorveglieremo ogni sua mossa da
questo momento in avanti finché non avremo Lanigan.» «Benissimo. Ora potete andare.» «E non torcetegli un capello, intesi? Saremo felici di scuoiarle il culo se succede qualcosa al nostro ragazzo.» Uscirono tutti impettiti e Stephano chiuse a chiave la porta. Il suo ufficio non aveva finestre. Sostò davanti alla carta geografica. In Brasile c'erano tre spie rosse, che non significavano molto. Scosse adagio la testa, più che mai confuso. Con tutto il tempo e il denaro che aveva speso per coprire le proprie tracce. La sua organizzazione era conosciuta in certi ambienti come la migliore nell'incassare soldi e scomparire nel nulla. Mai prima di allora era stato individuato. Mai nessuno aveva saputo a chi Stephano desse la caccia. 3 Un'altra iniezione per svegliarlo. Poi un'iniezione per sensibilizzargli i nervi. La porta fu aperta fragorosamente e la stanza venne illuminata di colpo. Si riempì delle voci di molti uomini, uomini indaffarati, movimenti decisi, passi pesanti. Guy distribuì ordini, qualcuno borbottò in portoghese. Patrick aprì e chiuse gli occhi. Poi li riaprì del tutto sotto la spinta della droga. Gli erano sopra, sentiva le loro mani dappertutto. Gli tagliarono via gli slip, senza molti complimenti, lasciandolo nudo ed esposto. Udì il ronzio di un rasoio elettrico, se lo sentì passare ruvido sulla pelle del torace, dell'inguine, su cosce e polpacci. Si morsicò il labbro inferiore e fece una smorfia, con il cuore che già gli martellava nel petto prima ancora che il dolore fosse cominciato. Su di lui incombeva Guy, con le mani ferme ma gli occhi che seguivano ogni mossa. Patrick non tentò di parlare, ma per misura precauzionale altre mani apparvero da dietro e gli tapparono la bocca con una striscia di nastro adesivo metallizzato. Nei punti dove lo avevano depilato gli furono applicati gelidi elettrodi a forma di morsetto. Una voce forte parlò di "corrente". Altro nastro adesivo fu applicato sopra gli elettrodi. Gli sembrò di avere contato otto punti diversi. Forse nove. Gli guizzavano i nervi. Nella sua oscurità, sentiva le mani che si muovevano sopra di lui. Il nastro gli tirava la pelle. In un angolo due o tre uomini regolavano un apparecchio che lui non
riusciva a vedere. Gli furono passati cavi sul corpo come luminarie natalizie. Non avevano intenzione di ucciderlo, continuava a ripetersi, sebbene avrebbe forse supplicato la morte nell'arco delle prossime ore. Era un incubo che aveva immaginato migliaia di volte in quegli ultimi quattro anni. Aveva pregato che non si avverasse mai, consapevole di illudere se stesso. Aveva sempre saputo che erano vicini, invisibili ma presenti, a cercare e corrompere e a frugare in ogni angolo. Sì, lui lo aveva sempre saputo. Eva no, era troppo ingenua. Chiuse gli occhi, cercò di respirare con regolarità e di controllare i pensieri mentre i suoi aguzzini completavano i preparativi. La droga gli stava provocando tachicardia e prurito. Io non so dove sono i soldi. Io non so dove sono i soldi. Quasi si mise a cantilenarlo a voce alta. Fortuna che il nastro adesivo gli chiudeva la bocca. Io non so dove sono i soldi. Aveva chiamato Eva tutti i giorni tra le quattro e le sei del pomeriggio. Tutti i giorni. Per sette giorni la settimana. Senza eccezioni se non preannunciate. Il suo cuore in tumulto sapeva che ormai Eva aveva trasferito il denaro, che lo aveva nascosto al sicuro in venti posti diversi in giro per il mondo. E lui non sapeva dove si trovava. Ma gli avrebbero creduto? La porta si aprì di nuovo e in due o tre lasciarono la stanza. L'attività intorno al suo tavolaccio di compensato rallentò. Poi tutto fu tranquillo. Riaprì gli occhi e non vide più la sacca della fleboclisi. Guy lo stava osservando. Pizzicò con delicatezza un angolo del nastro metallizzato e lo sollevò perché potesse parlare, se così desiderava. «Grazie» disse Patrick. Da sinistra riapparve il medico brasiliano. Gli conficcò un ago nel braccio. La siringa era lunga e piena di semplice acqua colorata, ma lui non poteva saperlo. «Dove sono i soldi, Patrick?» domandò Guy. «Io non ho soldi» rispose. Gli doleva la testa, schiacciata contro il legno. La cinghia di plastica che gli premeva la fronte era calda. Non si muoveva da ore. «Me lo dirai, Patrick. Ti prometto che me lo dirai. Puoi farlo ora o potrai farlo fra dieci ore, quando sarai mezzo morto. Renditi la vita più facile.» «Io non voglio morire, d'accordo?» dichiarò Patrick con gli occhi colmi di paura. No, non mi uccideranno, pensava.
Guy gli mostrò un piccolo congegno, semplice ma dall'aria sinistra. Una levetta cromata con l'estremità ricoperta di gomma nera sporgeva da una scatoletta dalla quale partivano due cavi. «Vedi questa?» disse Guy, come se Patrick potesse evitare di vederla, bloccato com'era. «Quando la leva è all'insù, il circuito è interrotto.» Guy afferrò l'estremità di gomma tra pollice e indice e l'abbassò piano piano. «Ma quando scende fin qui, il circuito si chiude e la corrente passa attraverso i fili e arriva agli elettrodi che hai addosso tu.» Fermò la leva a pochi millimetri dal punto del contatto. Patrick trattenne il fiato. L'aria nella stanza era immobile. «Vuoi vedere che cosa succede quando passa la scarica?» propose Guy. «No.» «Allora dove sono i soldi?» «Non lo so. Lo giuro.» A una spanna dal naso di Patrick, Guy spinse la leva fino in fondo alla sua corsa. La scarica fu istantanea e spaventosa, saette roventi gli attraversarono le carni. Patrick si contorse tendendo le corde di nylon. Serrò con forza occhi e denti nello sforzo disperato di non gridare, ma cedette dopo una frazione di secondo e lanciò un verso stridulo che echeggiò in tutta la baracca. Guy spostò la leva e diede a Patrick qualche secondo per riprendere fiato e riaprire gli occhi. «Questo è il primo livello, la dose più bassa» lo informò poi. «Ho a disposizione cinque livelli e li userò tutti, se mi obbligherai. Otto secondi al livello cinque ti uccideranno e sono più che pronto a farlo, come ultima risorsa. Mi stai ascoltando, Patrick?» Si sentiva bruciare ancora dal petto fino alle caviglie e il cuore gli batteva come impazzito. «Mi stai ascoltando?» ripeté Guy. «Sì.» «Guarda, la tua situazione è abbastanza semplice. Mi dici dov'è il denaro ed esci di qui sulle tue gambe. Ti riporteremo prima o poi a Ponta Porã e allora sarai tu a scegliere che cosa fare della tua vita. Non abbiamo intenzione di avvertire l'Fbi.» Guy giocherellò in silenzio con la levetta per qualche attimo. «Se invece rifiuti di dirmi dov'è il denaro, allora non uscirai vivo da qui. Hai capito, Patrick?» «Sì.» «Bene. Dov'è?» «Giuro che non lo so. Se lo sapessi, ve lo direi.» Guy abbassò la leva senza una parola e la corrente lo colpì come un get-
to d'acido bollente. «Non lo so!» gridò Patrick. «Lo giuro!» Guy sollevò la leva e aspettò qualche secondo perché Patrick si riprendesse. Poi domandò con calma: «Dov'è il denaro?». «Giuro che non lo so.» Un altro urlo echeggiò nella baracca e dalle finestre aperte rifluì nella gola tra le colline dove vibrò nell'aria affievolito dalla distanza prima di disperdersi nella foresta. L'appartamento di Curitiba era vicino all'aeroporto. Eva ordinò al tassista di attendere in strada e lasciò nel bagagliaio la sua borsa da viaggio. Salì al nono piano dove il corridoio era buio e immerso nel silenzio. Erano quasi le undici di sera. Avanzò lentamente, guardando in tutte le direzioni. Aprì la porta e subito disinserì l'allarme usando un'altra chiave. Danilo non c'era e, anche se non ne era stupita, ne rimase lo stesso delusa. Nessun messaggio registrato in segreteria. Nessun segno di un eventuale passaggio. La sua ansia aumentò. Non avrebbe potuto trattenersi a lungo perché poteva darsi che gli uomini che avevano preso Danilo arrivassero anche lì. C'erano solo tre locali, che perquisì alla svelta. I documenti che le servivano si trovavano nello studio, in uno schedario chiuso a chiave. Aprì i tre pesanti cassetti e trasferì le carte nell'elegante cartella di pelle che Danilo conservava nel ripostiglio. Il grosso della documentazione era di carattere finanziario, senza che peraltro da essa si potesse risalire all'enorme quantità di denaro nascosto. Lui stesso si recava in quell'appartamento una volta al mese a nascondere i documenti e almeno una volta al mese distruggeva quelli divenuti obsoleti. E al momento Danilo non poteva sapere dove si trovassero i suoi documenti contabili. Eva reinserì il sistema d'allarme e ridiscese in strada. Nessuno l'aveva notata. Prese una camera in un alberghetto in centro, vicino al Museo di arte contemporanea. Le banche asiatiche erano aperte e a Zurigo erano quasi le quattro. Tolse dai bagagli un fax portatile che collegò alla presa del telefono nella sua stanza. Il piccolo letto fu presto invaso di fogli di istruzioni e autorizzazioni per trasferimenti di valuta. Era stanca, ma il sonno era un lusso a lei negato. Danilo l'aveva avvisata da tempo che sarebbero andati a cercarla. Non poteva tornare a casa. I suoi pensieri erano concentrati più su di lui che sul denaro. Era vivo? E se lo
era, quanto lo stavano facendo soffrire? Fino a che punto era stato costretto a parlare e a che prezzo? Si asciugò gli occhi e cominciò a riordinare le carte. Non era il momento di piangere. Con la tortura i risultati migliori si ottengono dopo tre giorni di violenze episodiche. Le volontà più ostinate vengono piegate con lentezza. Il dolore s'impossessa dei sogni e ingigantisce durante l'attesa nella mente della vittima. Tre giorni e quasi tutti crollano. Ma lui non aveva tre giorni a disposizione. La sua vittima non era un prigioniero di guerra, bensì un cittadino americano ricercato dall'Fbi. Passata la mezzanotte, lasciarono Patrick a soffrire in solitudine per qualche minuto e a pensare alla prossima seduta. Era madido di sudore, la sua pelle era arrossata dal voltaggio e dal calore della corrente elettrica. Gocce di sangue gli macchiavano il nastro adesivo sul torace, dove gli elettrodi erano troppo stretti e gli ustionavano la pelle. Più che respirare rantolava, passandosi ogni tanto la lingua sulle labbra screpolate. Le corde di nylon intorno a polsi e caviglie gli avevano prodotto dolorose lacerazioni. Guy tornò da solo e si sedette su uno sgabello accanto a lui. Per un minuto nella stanza regnò il silenzio, rotto soltanto dal respiro di Patrick, che si sforzava di non perdere il controllo tenendo gli occhi chiusi. «Sei cocciuto» disse finalmente Guy. Nessuna risposta. Le prime due ore erano state infruttuose. Le domande si erano concentrate sul denaro. Cento volte aveva risposto di non sapere dove fosse. Esisteva? No, aveva ripetuto. Che fine aveva fatto? Non lo sapeva. Guy aveva scarsissima esperienza di torture. Aveva consultato un esperto, uno squilibrato che sembrava trarne un sincero piacere. Aveva letto un rozzo manuale, ma non aveva certo avuto il tempo di esercitarsi. Ora che Patrick sapeva a quali orrori sarebbe potuto andare incontro, era importante intrattenerlo un po'. «Dov'eri quando si sono svolti i tuoi funerali?» gli chiese. Notò un lieve allentarsi dei suoi muscoli. Finalmente una domanda che non riguardava il denaro. Patrick esitò. Che male c'era? Lo avevano preso. Ormai la sua storia stava per venire a galla. Forse se avesse collaborato si sarebbe risparmiato altre scariche elettriche. «A Biloxi» rispose. «Eri nascosto?»
«Sì, certo.» «E hai assistito alle tue esequie?» «Sì.» «Da dove?» «Ero su un albero, con un binocolo.» Teneva gli occhi chiusi e i pugni serrati. «Poi dove sei andato?» «A Mobile.» «Il tuo nascondiglio era lì?» «Uno dei tanti.» «Quanto ci sei rimasto?» «Un paio di mesi, ma non fisso.» «Tutto quel tempo? Dove abitavi a Mobile?» «Nei motel. Mi spostavo in continuazione. Avanti e indietro per il Golfo. Destin. Panama City Beach. Poi di nuovo a Mobile.» «Hai cambiato aspetto.» «Sì. Mi sono tagliato la barba e tinto i capelli. E ho perso più di venti chili.» «Hai imparato una lingua straniera?» «Il portoghese.» «Dunque sapevi dove volevi andare?» «Qui dove siamo?» «Diciamo che siamo in Brasile.» «D'accordo. Sì. Pensavo che fosse un buon posto dove rintanarmi.» «Dopo Mobile dove sei stato?» «Toronto.» «Perché proprio Toronto?» «Da qualche parte dovevo pur andare. È un bel posto.» «E a Toronto ti sei procurato documenti nuovi?» «Sì.» «È a Toronto che sei diventato Danilo Silva?» «Sì.» «E ti sei iscritto a un altro corso di lingue.» «Già.» «E hai perso ancora peso.» «Sì, sono dimagrito di altri quindici chili.» Continuava a tenere gli occhi chiusi e a cercare di ignorare il dolore, o almeno tentava di sopportarlo momentaneamente. Gli elettrodi sul petto continuavano a bruciare e le u-
stioni gli penetravano sotto la pelle. «Quanto ci sei rimasto?» «Tre mesi.» «Dunque te ne sei andato da Toronto più o meno nel luglio del '92.» «All'incirca.» «E da lì?» «Portogallo.» «Perché?» «Da qualche parte dovevo andare. È un bel posto. Non c'ero mai stato.» «Quanto ci sei rimasto?» «Un paio di mesi.» «E poi?» «São Paulo.» «Perché São Paulo?» «Venti milioni di abitanti. Ottimo nascondiglio.» «Quanto ci sei rimasto?» «Un anno.» «Dimmi che cos'hai fatto quand'eri lì.» Patrick prese fiato, poi fece una smorfia perché aveva tentato di muovere le caviglie. Si rilassò. «Ho fatto perdere le mie tracce approfittando della vastità della metropoli. Ho assunto un insegnante che mi ha perfezionato nella lingua. Ho perso ancora qualche chilo. Ho continuato a traslocare da un appartamento all'altro.» «Che cos'hai fatto dei soldi?» Una pausa. Uno spasmo muscolare. Dov'era l'odiosa levetta cromata? Perché non potevano continuare a parlare dei suoi spostamenti? «Quali soldi?» chiese cercando, abbastanza efficacemente, di dominare il terrore. «Smettila, Patrick. Parlo dei novanta milioni di dollari che hai rubato al tuo studio legale e ai suoi clienti.» «Te l'ho già detto. Vi state sbagliando.» Guy lanciò un ordine improvviso. La porta si aprì all'istante ed entrarono gli altri americani. Il medico brasiliano gli iniettò nelle vene altre due siringhe e uscì. Due uomini si piazzarono vicino all'apparecchio nell'angolo. Fu messo in funzione il registratore. Guy si chinò su Patrick con la scatoletta alzata, furente e più che mai deciso a ucciderlo se non avesse confessato. «Il denaro fu versato sul conto corrente del tuo studio legale in una ban-
ca di Nassau. Erano esattamente le dieci e quindici, ora locale. La data era il 26 marzo 1992, quarantacinque giorni dopo la tua morte. E tu eri lì, in perfetta forma e tutto abbronzato, registrato sotto falso nome. Abbiamo le immagini riprese da una telecamera del servizio di sicurezza della banca. I tuoi documenti falsi erano perfetti. I soldi erano appena arrivati e già erano scomparsi, trasferiti a una banca di Malta. Li hai rubati tu, Patrick. Ora dimmi dove sono. Dimmelo e vivrai.» Patrick lo guardò per un'ultima volta, spostò gli occhi sulla levetta, poi li chiuse e li strinse, facendosi forza. «Giuro che non so di che cosa stai parlando.» «Patrick, Patrick...» «No! Ti prego di non farlo!» implorò. «Ti prego!» «È solo il terzo livello, Patrick. Sei a metà strada.» Guy abbassò la leva e guardò il corpo della sua vittima inarcarsi sulla tavola di legno. Patrick urlò a pieni polmoni, un grido così potente e spaventoso che per un secondo Osmar e i brasiliani s'immobilizzarono davanti alla casa. La loro conversazione morì nell'oscurità. Uno levò al cielo una muta preghiera. A un centinaio di metri dalla baracca un brasiliano armato di pistola sedeva a guardia della strada d'accesso. L'abitazione più vicina era a miglia di distanza. Anche lui pregò mentalmente quando sentì urlare di nuovo. 4 Fu la quarta o quinta telefonata dei vicini a far perdere le staffe alla signora Stephano e a indurre Jack a rivelarle qualcosa. I tre uomini vestiti di scuro che bighellonavano intorno a un'automobile parcheggiata in strada di fronte all'ingresso della loro casa erano agenti dell'Fbi. Le spiegò perché erano lì. Le raccontò gran parte della storia di Patrick, un caso di grave violazione dell'etica professionale. La signora Stephano non gli fece domande. Non le importava niente di che cosa facesse suo marito in ufficio. Le stava invece a cuore ciò che pensavano di loro i vicini. Falls Church non è grande e, be', la gente mormora. Andò a coricarsi a mezzanotte. Jack sonnecchiò sul divano nello studio, alzandosi ogni mezz'ora a guardare attraverso le imposte per vedere che cosa facessero là fuori. Stava però dormendo alle tre di notte quando suonò il campanello dell'ingresso. Andò alla porta in accappatoio. Erano in quattro, tra i quali riconobbe
subito Hamilton Jaynes, un vicedirettore del Bureau, il numero due, che per caso viveva a pochi isolati da lì ed era iscritto al suo stesso golf club, sebbene non si fossero mai veramente presentati. Li fece passare nel suo spazioso studio. Durante quelle presentazioni un po' meno che amichevoli fece capolino in vestaglia la signora Stephano, che si affrettò a ritirarsi alla vista di un'intera squadra di uomini in grigio. Fu Jaynes a parlare a nome dell'Fbi. «Il caso Lanigan per noi è ancora aperto e prioritario. Secondo le nostre informazioni l'uomo si trova attualmente in mano sua. Può confermarlo o smentirlo?» «No.» Stephano era gelido come ghiaccio. «Ho qui un mandato per il suo arresto.» Il ghiaccio cominciò a sciogliersi. «Su che basi?» «Asilo a un latitante ricercato dalla polizia federale. Interferenza nelle indagini. Aggiunga lei quello che le pare, se lo desidera. Che differenza fa? A me non interessa che lei sia incriminato. Mi basta sbatterla dentro, dopodiché pizzicheremo tutti i suoi uomini a uno a uno e per finire metteremo sottochiave i suoi clienti. Non ci vorranno più di ventiquattr'ore per chiudere l'operazione. Le incriminazioni arriveranno dopo, a seconda se avremo messo o no le mani su Lanigan. Il quadro le è chiaro?» «Sì, credo di sì.» «Dov'è Lanigan?» «In Brasile.» «Lo voglio. E subito.» Stephano sbatté le palpebre un paio di volte e cominciò a intravedere uno spiraglio. Date le circostanze, consegnare Lanigan non sarebbe stata una mossa sbagliata. I federali avevano ottimi sistemi per farlo parlare. Di fronte alla prospettiva di scontare una pena a vita, c'era da sperare che Patrick schioccasse le dita e facesse ricomparire il denaro. A quel punto avrebbe avuto tutto il tempo per meditare sullo sconcertante problema che non gli riusciva di digerire: com'era stato possibile che qualcuno sapesse che la sua organizzazione aveva catturato Lanigan. «Va bene, ecco la mia proposta» disse. «Datemi quarantott'ore e io vi consegno Lanigan. Voi in cambio bruciate il mio mandato e lasciate cadere tutte le minacce di future iniziative ai miei danni.» «Affare fatto.» Ci fu un momento di silenzio durante il quale entrambe le parti assaporarono la vittoria. «Ho bisogno di sapere dove prelevarlo» chiese poi Jaynes. «Mandate un aereo ad Asunción.»
«In Paraguay? Che fine ha fatto il Brasile?» «In Brasile ha degli amici.» «Sarà.» Jaynes bisbigliò qualcosa a uno dei suoi uomini, che abbandonò la casa. «È tutto intero?» s'informò poi. «Sì.» «Meglio così. Se gli trovo un solo livido addosso, non la mollo fino all'inferno.» «Devo fare una telefonata.» A Jaynes sfuggì un inaspettato sorriso. Frugò le pareti con lo sguardo. «È casa sua.» «State controllando le mie linee?» «No.» «Me lo giura?» «Ho detto di no.» «Chiedo scusa.» Stephano si ritirò in cucina e da lì passò in uno stanzino dove teneva nascosto un cellulare. Uscì nel patio dietro casa e si fermò nell'erba umida vicino a un lampioncino a gas. Chiamò Guy. Le urla erano temporaneamente cessate nel momento in cui il brasiliano di guardia al furgone sentì squillare il telefono di bordo, montato sul cruscotto e munito di un'antenna che si levava per cinque metri sopra il tetto del veicolo. Rispose in inglese, poi corse a chiamare un americano. Dalla baracca uscì di corsa Guy. «Parla?» chiese Stephano. «Un po'. Ha mollato circa un'ora fa.» «Che cosa vi ha detto?» «Il denaro c'è ancora, ma lui non sa dov'è. È sotto il controllo di una donna di Rio, un avvocato.» «Sapete come si chiama?» «Sì. Stiamo facendo qualche telefonata. Osmar ha alcuni uomini a Rio.» «Potete tirargli fuori ancora qualcosa?» «Non credo. È mezzo morto, Jack.» «Interrompete subito. Avete un medico sotto mano?» «Sì.» «Fateglielo rimettere in sesto. Trasferitelo ad Asunción il più presto possibile.» «Ma perché...» «Niente domande. Non c'è tempo. Abbiamo i federali addosso. Fa' come
ti dico e preoccupati che sia in forma.» «In forma? Ma se sono cinque ore che cerco di ammazzarlo!» «Fa' come ti dico. Dagli una lustrata. Drogalo. Parti al più presto per Asunción. Chiamami ogni ora allo scoccare dell'ora.» «Come vuoi.» «E trova la donna.» Sollevarono con delicatezza la testa di Patrick e gli versarono acqua fresca sulle labbra. Gli tagliarono le corde che gli trattenevano polsi e caviglie e molto lentamente gli rimossero nastro adesivo, cavi ed elettrodi. Lui si agitò e sussultò, gemendo parole incomprensibili. Nelle vene già martoriate gli iniettarono morfina, poi un blando depressivo e Patrick perse di nuovo conoscenza. All'alba Osmar era all'aeroporto di Ponta Porã in attesa di un volo che alla fine di quella giornata lo avrebbe scaricato a Rio. Aveva già preso contatti con certe persone che aveva tirato giù dal letto con la promessa di lauti compensi. A quell'ora dovevano aver già avviato le ricerche. Chiamò dapprima suo padre, poco dopo il sorgere del sole, l'ora del giorno in cui gli piaceva sempre sostare sulla sua piccola terrazza in compagnia di giornale e caffè. Abitava in un appartamentino di Ipanema, a tre isolati dalla spiaggia, non lontano dall'amata figlia Eva. Il palazzo aveva più di trent'anni, uno dei più vecchi nel più elegante quartiere di Rio. Viveva da solo. Capì dalla sua voce che era successo qualcosa. Lei lo tranquillizzò come meglio poteva, spiegando che un cliente in Europa aveva bisogno urgente della sua presenza per un paio di settimane e che si sarebbe tenuta in contatto ogni giorno. Aggiunse che quel particolare cliente era un tipo un po' eccentrico, non si fidava di nessuno, e che per questo avrebbe forse mandato qualcuno a frugare nel passato della sua rappresentante legale. Che non si allarmasse, si trattava di procedure non insolite nel suo settore professionale. Erano molte le cose che lui avrebbe voluto chiederle, ma sapeva che sarebbe stato inutile tentare. La telefonata al socio suo supervisore fu molto più difficile. La storia che si era preparata reggeva, ma non era stata capace di colmare certe vistose lacune. Il giorno prima si era messo in contatto con lei un cliente nuovo, che le aveva dato come referenza un avvocato americano suo compagno di università. Doveva recarsi immediatamente ad Amburgo. Sarebbe
partita con il primo volo disponibile. Il cliente si occupava di telecomunicazioni e aveva in progetto un'espansione strategica in Brasile. Il socio era mezzo addormentato. Le chiese di richiamarlo per dargli informazioni più specifiche. Lei telefonò alla propria segretaria e le raccontò la stessa storia, chiedendole di rimandare tutti gli appuntamenti fino al suo ritorno. Da Curitiba prese un aereo per São Paulo, dove s'imbarcò su un volo delle Aerolineas Argentinas per Buenos Aires, senza scalo. Usò per la prima volta il nuovo passaporto ottenuto con l'aiuto di Danilo un anno prima. Lo aveva nascosto in casa insieme con due nuove carte di credito e ottomila dollari in valuta statunitense. Ora era diventata Leah Pires, stessa età ma diverso giorno di nascita. Danilo era stato tenuto all'oscuro di quei dettagli. Viaggiò con la sensazione di essere davvero un'altra persona. Potevano essere accadute molte cose. Forse Danilo era rimasto ucciso in una banale aggressione da parte di malviventi nelle strade di campagna intorno alla cittadina dove abitava, fatti che accadevano di tanto in tanto alla Frontiera. Poteva essere stato sequestrato dalle ombre sbucate dal suo passato, torturato, ucciso e seppellito nella foresta. Forse aveva parlato e forse aveva fatto il suo nome, nel qual caso lei avrebbe dovuto trascorrere fuggendo il resto dei suoi giorni. Se non altro, l'aveva avvertita di quell'eventualità fin dal primo momento. Ma poteva darsi che non avesse parlato e allora lei sarebbe potuta rimanere quella che era. Forse Danilo era ancora vivo. Le aveva assicurato che non lo avrebbero ucciso. Lo avrebbero forse spinto al punto di implorare che lo facessero, ma non potevano permettersi di ucciderlo. Se fossero state le autorità americane a trovarlo per primo, sarebbe stato tutto un problema di estradizione. Lui aveva scelto volutamente l'America Latina per la sua storica riluttanza a concederla. Se lo avessero trovato per primi i suoi persecutori, lo avrebbero pestato fino a farsi dire dove aveva nascosto i soldi. Era questo che lo preoccupava più di ogni altra cosa: la coercizione. All'aeroporto di Buenos Aires cercò di dormire, ma le fu impossibile. Chiamò di nuovo casa sua a Ponta Porã, poi il numero del cellulare e quello dell'appartamento di Curitiba. S'imbarcò su un volo per New York, dove attese per tre ore di prendere quello della Swissair per Zurigo. Lo adagiarono sul sedile posteriore del furgone e lo bloccarono con una
cintura di sicurezza perché non rotolasse giù. Le strade erano accidentate. Indossava solo i calzoncini da jogging. Il medico controllò le fasciature, otto in tutto. Aveva applicato pomate sulle ustioni e gli aveva somministrato antibiotici. Si sedette davanti al suo paziente infilandosi la borsa nera tra i piedi. Patrick aveva sofferto abbastanza. D'ora in poi lo avrebbe assistito. Un paio di giorni di riposo e un adeguato trattamento con antidolorifici e Patrick avrebbe cominciato a rimettersi. Le bruciature gli avrebbero lasciato piccole cicatrici che con tutta probabilità sarebbero scomparse dopo qualche tempo. Si girò e gli batté la mano sulla spalla. Era contento che non lo avessero ucciso. «È pronto» disse a Guy che sedeva davanti. Il conducente brasiliano mise in moto e partì. Si fermarono allo scoccare di ogni ora per alzare l'antenna e permettere al telefono di comunicare oltre le montagne. Guy chiamava Stephano, che si trovava nel suo ufficio di Washington in compagnia di Hamilton Jaynes e di un alto funzionario del dipartimento di Stato. Nel gioco era entrato anche il Pentagono. Guy avrebbe voluto sapere che cosa diavolo stava succedendo, da dove erano sbucati i federali. Nelle prime sei ore fecero cento miglia. Di tanto in tanto percorrevano tratti quasi impraticabili. Spesso lottavano con il telefono per cercare di mettersi in contatto con Washington. Alle due del pomeriggio, quando finalmente lasciarono la regione montagnosa, le strade migliorarono. L'estradizione era una questione spinosa e Hamilton Jaynes non voleva averci a che fare. Si mossero importanti leve diplomatiche. Il direttore dell'Fbi chiamò il capo dello staff presidenziale. Fu tirato in ballo l'ambasciatore americano in Paraguay. Ci furono promesse e minacce. Un indiziato con disponibilità finanziarie può scongiurare l'estradizione dal Paraguay per anni, se non per l'eternità. Ma quell'indiziato in particolare non aveva denaro e non sapeva nemmeno in che paese si trovava. I paraguayani accettarono malvolentieri un'operazione clandestina. Alle quattro Stephano diede a Guy le indicazioni per raggiungere l'aeroporto di Concepción, una cittadina a tre ore di macchina da Asunción. Il brasiliano alla guida imprecò in portoghese, quando si sentì ordinare di invertire la marcia e dirigersi verso nord. Quando entrarono a Concepción era l'imbrunire ed era già buio quando
trovarono finalmente l'aeroporto, riconoscibile da una piccola palazzina di mattoni ai bordi di una stretta striscia d'asfalto. Guy chiamò Stephano, che gli ordinò di lasciare Patrick a bordo del pullmino con la chiave inserita nell'accensione e di allontanarsi. Guy ubbidì, seguito dal medico, dall'autista e dall'altro uomo di scorta americano. Girandosi a guardare indietro ripetutamente, trovarono a un centinaio di metri un grosso albero sotto il quale fermarsi ad attendere senza essere visti. Trascorse un'ora prima che atterrasse un King Air battente bandiera americana. Il velivolo si fermò vicino al piccolo terminal. Scesero due piloti che entrarono nella palazzina. Poco dopo uscirono e si avvicinarono al furgone, aprirono gli sportelli, controllarono subito il cruscotto e trovarono la chiave. Salirono e spostarono il veicolo vicino all'aereo. Patrick fu prelevato con cautela dal sedile posteriore e caricato sul turboelica. A bordo c'era un infermiere dell'Air Force che diede immediata assistenza al prigioniero. I due piloti riportarono il furgone nel piazzale dov'era stato abbandonato in precedenza. Pochi minuti dopo l'aereo decollava. Il King Air fece rifornimento ad Asunción e, mentre l'aereo era fermo al suolo, Patrick cominciò a muoversi. Era troppo debole, dolorante e stordito per potersi alzare a sedere. L'infermiere lo rifocillò con acqua fresca e cracker. Fecero di nuovo rifornimento a La Paz e a Lima. A Bogotá lo trasferirono su un piccolo Lear, due volte più veloce del King Air. Il Lear fece rifornimento ad Aruba, davanti alla costa del Venezuela, poi raggiunse senza altri scali una base della Marina militare statunitense nei pressi di San Juan, in Puerto Rico. Un'ambulanza lo trasportò all'ospedale della base. Dopo quasi quattro anni e mezzo, Patrick era di nuovo sul suolo americano. 5 Lo studio legale per il quale Patrick aveva lavorato prima del suo presunto decesso aveva presentato istanza di fallimento un anno dopo il suo funerale. Anche dopo la sua morte il nome appariva, come di dovere, nell'intestazione della carta da lettere: Patrick S. Lanigan, 1954-1992. Era stampato nell'angolo in alto a destra, sopra i paralegali. Poi erano cominciate a circolare le prime voci e non c'era più stato modo di metterle a tacere. Non c'era voluto molto tempo perché tutti si convincessero che si era
impadronito dei soldi facendo perdere le proprie tracce. Dopo tre mesi, non c'era più nessuno sulla Costa del golfo che lo credesse morto. Il suo nome era stato depennato dalla carta intestata mentre i debiti aumentavano a vista d'occhio. I quattro soci rimasti erano ancora insieme, legati loro malgrado l'uno all'altro con il filo indissolubile del fallimento. Le loro firme comparivano insieme sulle ipoteche e i mutui bancari, ai tempi in cui viaggiavano con il vento in poppa ed erano avviati a un successo che li avrebbe resi veramente ricchi. Avevano costituito insieme il collegio di difesa in alcuni casi senza speranza, motivo per cui lo studio si era trovato in serie difficoltà. Dopo la scomparsa di Patrick, avevano tentato in ogni modo di scindersi, ma i loro sforzi erano stati inutili. Due erano alcolizzati cronici che bevevano in ufficio dietro la porta chiusa a chiave, mai però insieme. Gli altri due erano in fase di recupero, ma faticavano a mantenersi sobri. Lui aveva preso i loro soldi. I loro milioni di dollari. Denaro che avevano già speso ben prima che arrivasse, come sanno fare solo gli avvocati. Denaro per i loro uffici rimessi sfarzosamente a nuovo nel centro di Biloxi. Denaro per nuove abitazioni, yacht, appartamenti ai Caraibi. E i soldi erano in arrivo, i mandati erano firmati, i versamenti confermati; li vedevano, li fiutavano, quasi li toccavano e all'ultimissimo momento ecco che il loro socio defunto glieli aveva fatti scomparire da sotto il naso. Era morto. Loro stessi lo avevano seppellito l'11 febbraio 1992. Loro stessi avevano confortato la vedova e incluso il nome di quel bastardo nell'intestazione della carta da lettere dello studio. Eppure sei settimane dopo era riuscito a derubarli. Sulle responsabilità si erano accapigliati. Il socio anziano, Charles Bogan, pugno di ferro dell'azienda, aveva insistito perché il denaro fosse versato fin dall'inizio su un nuovo conto aperto all'estero. La discussione era stata breve, perché la proposta era più che logica: dei novanta milioni di dollari in arrivo, lo studio avrebbe trattenuto solo un terzo e sarebbe stato impossibile nascondere una somma così ingente a Biloxi, cittadina di cinquantamila anime. Qualche funzionario di banca si sarebbe lasciato sfuggire qualcosa, presto chiunque l'avrebbe saputo. Così si erano votati tutti e quattro alla segretezza più assoluta, pur alimentando nell'animo il desiderio di fare il massimo sfoggio della ricchezza appena acquisita. Si era persino parlato di acquistare un jet per lo studio, un velivolo a sei posti. Dunque Bogan si era visto accollare la sua parte di colpa. A quarantanove anni, era il più anziano dei quattro e, al momento, la personalità più sta-
bile. Era anche responsabile d'aver assunto Patrick nove anni prima e per questo gli era toccata una dose non trascurabile di sofferenza. Doug Vitrano, che rappresentava i clienti in tribunale, aveva preso la fatale decisione di proporre Patrick come quinto socio. Gli altri tre l'avevano accolta, cosicché Lanigan era diventato uno dei titolari dello studio e, in quanto tale, aveva avuto accesso a tutte le informazioni riservate. Bogan, Rapley, Vitrano, Havarac e Lanigan, avvocati e procuratori. Sulle pagine gialle appariva un riquadro in bella evidenza con la scritta: "Specialisti in cause internazionali". Specialisti o no, erano disposti come quasi tutti a occuparsi di qualunque problema legale se il compenso era sufficientemente alto. Schiere di segretarie e assistenti, ingenti spese generali e referenti politici tra i più potenti sulla Costa. Erano tutti e quattro sulla quarantina, anche Havarac, cresciuto su un peschereccio. Andava ancora fiero dei calli che aveva sulle mani, quelle con le quali meditava di spezzare il collo a Patrick. Rapley, il quarto socio, in preda a una profonda depressione, usciva raramente di casa, dove redigeva i suoi interventi in uno studio buio ricavato nella mansarda. Erano passate da poco le nove del mattino e Bogan e Vitrano erano seduti alle loro scrivanie quando l'agente Cutter entrò nell'edificio del Vieux Marché, il quartiere storico di Biloxi. Sorrise alla receptionist e chiese se gli avvocati fossero in studio. Era meglio informarsi prima: quei quattro avevano la fama di ubriaconi che solo di rado si recavano al lavoro. La receptionist lo fece accomodare in una saletta e gli portò un caffè. Il primo ad apparire fu Vitrano, sguardo limpido e pieno possesso delle facoltà mentali. Dietro di lui entrò Bogan. Mescolarono zucchero nel caffè e parlarono del tempo. Nei mesi successivi alla scomparsa di Patrick e del denaro, Cutter era passato a intervalli regolari ad aggiornare i soci sulle indagini svolte dall'Fbi. Per quanto scoraggianti fossero le sue visite, gli avvocati avevano stretto con l'agente rapporti quasi camerateschi. Via via che i mesi divenivano anni, gli aggiornamenti si erano fatti più saltuari. E la conclusione di ciascuno era sempre uguale: nessuna traccia di Patrick. Era passato quasi un anno dall'ultima volta in cui Cutter si era fatto vivo. Per questo pensarono che la sua fosse una visita di cortesia, forse perché si trovava a passare dal centro e gli andava di bere una tazza di tè in loro compagnia. «Abbiamo beccato Patrick» annunciò Cutter.
Charlie Bogan chiuse gli occhi e mostrò tutti i denti fino ai molari. «Oh, mio Dio!» esclamò. Poi si coprì la faccia con le mani. «Oh, mio Dio.» Vitrano rovesciò la testa all'indietro, anche lui a bocca aperta. Fissò incredulo il soffitto. «Dove?» riuscì a chiedere. «È in una base militare di Puerto Rico. È stato catturato in Brasile.» Bogan si alzò e andò a nascondere la faccia contro una libreria, cercando di trattenere le lacrime. «Oh, mio Dio» continuava a ripetere. «Siete sicuri che sia lui?» chiese Vitrano ancora stordito. «Sicurissimi.» «Dacci qualche particolare» lo incalzò Vitrano. «Per esempio?» «Come lo avete trovato. Dove. E che cosa sta facendo, che aspetto ha...» «Non siamo stati noi a trovarlo. C'è stato consegnato.» Bogan tornò a sedersi, tenendo un fazzoletto sul naso. «Sono desolato» si scusò sottovoce. «Conoscete un certo Jack Stephano?» domandò Cutter. Annuirono entrambi con una certa riluttanza. «E conoscete la sua piccola organizzazione?» Scossero entrambi la testa in segno di diniego. «Allora siete fortunati. È stato Stephano a trovarlo. L'ha torturato, quasi ammazzato, e poi l'ha consegnato a noi.» «Mi piace la parte sulla tortura» commentò Vitrano. «Sentiamo qualcosa di più.» «Non è il caso. Noi lo abbiamo prelevato ieri sera in Paraguay e trasferito a Puerto Rico. Ora è in ospedale. Fra qualche giorno sarà dimesso e mandato qui.» «Che cosa si sa dei soldi?» domandò Bogan con voce roca. «Nulla. Ma è anche vero che non sappiamo quello che sa Stephano.» Vitrano abbassò lo sguardo sul tavolo, ma non riusciva a tenere fermi gli occhi. Quando era scomparso quattro anni prima, Patrick si era intascato novanta milioni di dollari. Non poteva averli spesi tutti. Avrebbe potuto comperarsi ville ed elicotteri e tutte le donne della terra e avere ancora milioni a bizzeffe. Avrebbero senz'altro trovato la refurtiva. E un terzo di essa spettava allo studio. Forse, solo forse. Bogan si asciugò gli occhi mentre pensava alla sua ex moglie, la donna dal sorriso radioso che aveva mostrato le zanne quando il tetto le era crollato sulla testa. Dopo il fallimento dello studio, si era sentita disonorata,
aveva preso il figlio più piccolo e si era trasferita a Pensacola, dove aveva chiesto il divorzio sulla base di accuse infamanti. Bogan beveva e sniffava coca. Lei lo sapeva e se n'era servita per schiacciarlo. Né lui era stato in grado di opporsi. Alla fine ne era venuto fuori, ma lei continuava a impedirgli di vedere il figlio. Per strano che fosse, era ancora innamorato della ex moglie, sognava ancora di rappacificarsi con lei. Forse il denaro avrebbe fatto da catalizzatore. Forse una speranza c'era. Sì, lo avrebbero recuperato. «Stephano è venuto a trovarsi in una posizione un po' delicata» osservò Cutter, rompendo il silenzio. «Le bruciature sul corpo di Patrick sono la prova che lo hanno torturato.» «Bene» si compiacque Vitrano. «Ti aspetti la nostra compassione?» chiese Bogan. «In ogni caso Stephano è solo un corollario. Lo terremo d'occhio nella speranza che ci porti al denaro.» «Il denaro salterà fuori senza difficoltà» pronosticò Vitrano. «Qui c'è di mezzo un cadavere. Il nostro vecchio amico Patrick ha ammazzato qualcuno. È un caso di omicidio puro e semplice. Omicidio a scopo di lucro. Quando sarà messo sotto il torchio, vedrai che Patrick si deciderà a cantare.» «Anzi, datelo a noi» propose Bogan senza sorridere. «Dieci minuti e sapremo tutto.» Cutter guardò l'ora. «Vi devo salutare. Devo andare a Point Clear a dare la bella notizia a Trudy.» Bogan e Vitrano grugnirono in sintonia, poi scoppiarono a ridere. «Ancora non lo sa?» chiese Bogan. «No.» «Riprendila con una telecamera, ti prego» lo invitò Vitrano continuando a ridacchiare. «Vorrei proprio vedere la sua faccia.» «Anch'io non ne vedo l'ora» fece eco Cutter. «Quella troia» ringhiò Bogan. «Avvertite gli altri soci, ma statevene buoni fino a mezzogiorno» raccomandò loro Cutter. «Per quell'ora abbiamo fissato una conferenza stampa. Mi farò sentire.» Dopo che se ne fu andato, restarono a lungo in silenzio. C'erano troppi interrogativi, troppe cose di cui parlare. Nella saletta turbinavano mille scenari.
Vittima di una fatale uscita di strada in una zona di campagna, conclusasi in un urto spaventoso senza testimoni oculari, Patrick era stato tumulato dalla bella moglie Trudy l'11 febbraio 1992. In un Armani nero, l'incantevole vedova aveva cominciato a spendere il denaro ereditato mentre ancora si gettava terra sulla bara del defunto. Il testamento lasciava tutto a lei. Era semplice ed era stato aggiornato di recente. Alcune ore prima della messa funebre, Trudy e Doug Vitrano avevano aperto la cassetta di sicurezza nell'ufficio di Patrick e ne avevano inventariato il contenuto. Avevano trovato il testamento, gli atti di proprietà delle due automobili, quello della casa, una polizza sulla vita per mezzo milione di dollari di cui Trudy era a conoscenza e una seconda polizza per due milioni di cui il marito non le aveva mai parlato. Vitrano aveva letto rapidamente quel secondo contratto assicurativo, stipulato da Patrick otto mesi prima. L'unica beneficiaria era Trudy. La compagnia assicuratrice era la stessa per entrambe le polizze, un colosso del settore senza problemi di solvibilità. Trudy aveva giurato di non saperne nulla e il sorriso che aveva sulle labbra aveva convinto Vitrano della sincerità del suo stupore. Funerale o no, Trudy era visibilmente felice della manna che le era piovuta addosso. L'inaspettato antidoto al suo cordoglio l'aveva aiutata a superare servizio funebre e sepoltura senza attacchi di crepacuore. La società di assicurazioni aveva recalcitrato, come sempre all'inizio, ma le minacce di Vitrano erano state abbastanza convincenti da indurla a pagare e quattro settimane dopo la sepoltura Trudy incassava i suoi due milioni e mezzo di dollari. Di lì a una settimana era al volante di una Rolls Royce rossa e la gente di Biloxi aveva cominciato a odiarla. Poi erano scomparsi i novanta milioni e si erano scatenati i sospetti. Forse Trudy non era vedova. Il primo indiziato era stato Patrick e, con il passare del tempo, dall'elenco erano scomparsi tutti gli altri nomi salvo il suo. Le voci si erano trasformate in pesanti malignità e Trudy aveva preso con sé la figlioletta e Lance, il suo compagno riemerso dai tempi del liceo, ed era riparata a Mobile, un'ora a est di Biloxi. Lì aveva trovato un abile avvocato da cui aveva ricevuto tutti i migliori consigli su come far fruttare il proprio denaro. Aveva acquistato una splendida casa a Point Clear affacciata sulla baia di Mobile e l'aveva intestata a Lance. Lance era l'atletico e affascinante fallito con cui aveva fatto l'amore per
la prima volta a quattordici anni. Quando lui ne aveva diciannove si era fatto convincere a spacciare droga e aveva passato tre giorni al fresco mentre lei conduceva una vita spumeggiante al college, ragazza pompon e seduttrice di giocatori di football, leggendaria festaiola, riuscita nonostante tutto a laurearsi a pieni voti. Aveva sposato un facoltoso ragazzo dal quale aveva divorziato due anni dopo. Per qualche tempo era rimasta sola, non senza trarne il massimo dei vantaggi, finché aveva conosciuto e sposato Patrick, un promettente e giovane avvocato arrivato da poco sulla Costa. Il loro fidanzamento si era distinto per la molta passione e lo scarso giudizio. In tutti quegli anni, college, due matrimoni e varie carriere di breve durata, Trudy aveva sempre tenuto Lance a portata di mano. Per lei era come una droga, il maschio robusto e focoso di cui non si saziava mai. Già a quattordici anni aveva capito che non lo avrebbe mai abbandonato. Lance aprì la porta a torso nudo, con i capelli neri raccolti nella coda di rito e vm vistoso diamante al lobo dell'orecchio sinistro. Rivolse a Cutter lo stesso ghigno beffardo che rivolgeva al mondo intero e non disse una parola. «Trudy è in casa?» domandò Cutter. «Forse.» Balenò il distintivo e per un secondo il ghigno vacillò. «Agente Cutter, Fbi. Ci siamo già parlati.» Lance importava marijuana dal Messico con il potente motoscafo che Trudy gli aveva comperato. Vendeva la droga a un racket di Mobile. Gli affari andavano a rilento perché c'era in giro la Dea a fare domande. «È in palestra» rispose indicando con il mento alle spalle di Cutter. «Che cosa vuole?» Cutter ignorò la domanda e si avviò verso la rimessa dalla quale giungeva una musica assordante. Lance lo seguì. Trudy era nel pieno di una difficile sfida aerobica alla quale la stava impegnando una supermodella sul megaschermo di un televisore collocato in fondo al box. Saltellava e ruotava su se stessa, formulando con le labbra le parole di una canzone sconosciuta, e teneva bellamente testa alla sua istruttrice. Body giallo, coda di cavallo bionda, non un grammo di grasso. Cutter l'avrebbe guardata per ore. Persino il suo sudore era incantevole. Dedicava alla ginnastica due ore al giorno. A trentacinque anni, Trudy avrebbe ancora fatto girare la testa a qualsiasi liceale. Lance fermò il video con il telecomando. Trudy si girò di scatto, vide
Cutter e incenerì il suo compagno. «Sei fuori?» lo aggredì. Il divieto di disturbarla era evidentemente tassativo. «Sono l'agente speciale Cutter dell'Fbi» annunciò l'uomo del Bureau. «Ci siamo già visti una volta qualche anno fa.» Lei si asciugò con una salvietta dello stesso giallo del suo body. Non aveva nemmeno il respiro affannoso. Gli mostrò una dentatura perfetta. «Che cosa posso fare per lei?» Lance le si mise al fianco. Due code di cavallo lunghe uguali. «Ho una bella notizia per lei» rispose Cutter con un ampio sorriso. «Cioè?» «Abbiamo trovato suo marito, signora Lanigan. È vivo.» Una pausa brevissima per assimilare la notizia. «Patrick?» «Proprio lui.» «È una bugia» dichiarò Lance. «Non credo. È in stato di fermo a Puerto Rico. Dovrebbe arrivare qui tra una settimana. Ho ritenuto giusto metterla al corrente prima che la notizia sia resa di dominio pubblico.» Profondamente scossa, Trudy indietreggiò sulle gambe malferme e si sedette su una panca vicino alla macchina dei pesi. La lucente sfumatura bronzea della sua pelle si andava schiarendo. Il suo bel corpo elastico si andava accartocciando. Lance si affrettò a soccorrerla. «Dio mio» mormorava a ripetizione l'ex vedova. Cutter depositò in un angolo un biglietto da visita. «Chiamatemi, se posso esservi d'aiuto.» Se ne andò lasciandoli in silenzio. Era chiaro che Trudy non serbava rancore all'uomo che l'aveva imbrogliata fingendosi morto. Né aveva mostrato piacere per la sua ricomparsa, nessun segno di sollievo. In lei Cutter aveva visto solo paura, l'orrore di perdere i soldi. La compagnia assicuratrice avrebbe avviato immediatamente un ricorso. Mentre Cutter era a Mobile, un altro agente della sede di Biloxi si recava a New Orleans a comunicare la stessa notizia alla madre di Patrick. Sopraffatta dall'emozione, la signora Lanigan aveva pregato l'uomo di trattenersi per rispondere ad alcune domande. L'agente era rimasto un'ora, ma aveva potuto darle ben poche risposte. La madre aveva pianto di gioia e, quando l'agente si era congedato, aveva cominciato a chiamare amiche e amici per far sapere loro che il suo unico figlio era ancora vivo.
6 Jack Stephano fu arrestato dall'Fbi nel suo ufficio di Washington. Trascorse trenta minuti dietro le sbarre, poi fu accompagnato in una piccola aula di giustizia del tribunale federale per un'udienza a porte chiuse. Il giudice lo informò che sarebbe stato rilasciato immediatamente dietro cauzione, che non gli era concesso allontanarsi e che sarebbe stato sorvegliato giorno e notte dall'Fbi. Mentre lui si trovava in tribunale, un piccolo esercito di agenti entrò nel suo ufficio, sequestrò praticamente tutti gli archivi e spedì a casa i dipendenti. Conclusa l'udienza, Stephano fu trasferito all'Hoover Building in Pennsylvania Avenue, dove lo attendeva Hamilton Jaynes. Quando i due furono soli nell'ufficio di Jaynes, quest'ultimo gli porse tiepide scuse per l'arresto subito. Non aveva potuto esimersi: non si può rapire un ricercato federale, drogarlo, torturarlo a rischio di ucciderlo, senza essere incriminati di qualcosa. La questione principale era il denaro. L'arresto era stato un pungolo. Stephano giurò che Patrick non aveva rivelato loro nulla. Mentre i due conversavano, le porte dell'ufficio di Stephano venivano sprangate e alle finestre venivano affissi sinistri avvisi federali. Mentre la signora Stephano giocava a bridge, le linee telefoniche della loro abitazione venivano messe sotto controllo. Dopo il breve e infruttuoso colloquio con Jaynes, Stephano fu lasciato nei pressi della Corte Suprema. Visto che lo avevano ammonito a stare alla larga dal suo ufficio, prese un taxi e chiese al conducente di portarlo all'Hay-Adams Hotel, all'angolo fra la H e la 16esima. Compì il tragitto leggendo tranquillamente il giornale e toccandosi di tanto in tanto il congegno che gli avevano cucito dentro l'orlo della giacca finché era in stato di fermo. Era un minuscolo ma potente trasmettitore che si utilizzava per monitorare i movimenti di persone e oggetti, persino automobili. Mentre parlava con Jaynes, si era tastato i vestiti e aveva dovuto resistere alla tentazione di strapparselo di dosso e gettarglielo sulla scrivania. Era un esperto di sistemi di sorveglianza. Appallottolò la giacca infilandola sotto il sedile del taxi ed entrò nell'Hay-Adams Hotel, di fronte al Lafayette Park. Si sentì dire che non c'erano camere libere. Chiese di parlare al direttore, suo ex cliente, e nel giro di pochi minuti il signor Stephano fu scortato a una suite al quarto piano, da cui si godeva di una splendida vista sulla Casa Bianca. Si spogliò, rimanendo in calze e boxer, dispose con cu-
ra tutti gli indumenti sul letto e li esaminò, arrivando quasi ad accarezzare le singole fibre dei tessuti. Ordinò da mangiare. Chiamò la moglie, ma non ebbe risposta. Si mise quindi in contatto con Benny Aricia, il suo cliente che si era visto soffiare novanta milioni di dollari pochi minuti dopo il loro arrivo alla banca di Nassau. Le spettanze di Aricia ammontavano a sessanta di quei milioni, trenta dei quali da girare a Bogan e Vitrano, i suoi avvocati, e al resto di quella banda di mozzaorecchi di Biloxi. Ma pochi secondi prima che Benny ne entrasse in possesso, il denaro si era volatilizzato. Era al Willard Hotel, anch'esso nelle vicinanze della Casa Bianca, nascosto in attesa di comunicazioni da parte di Stephano. S'incontrarono un'ora dopo al Four Seasons di Georgetown, in una suite che Aricia aveva prenotato per una settimana. Benny era sulla soglia dei sessant'anni, ma ne dimostrava dieci di meno. Snello e in ottima forma fisica, aveva l'abbronzatura consolidata di un ricco pensionato della Florida che giocava a golf tutti i giorni. Abitava in un appartamento di proprietà affacciato su un canale, in compagnia di una svedese che, quanto a età, sarebbe potuta essere sua figlia. Al momento in cui i soldi erano scomparsi, lo studio legale era assicurato contro la possibilità di frodi e furti da parte di soci e dipendenti. L'appropriazione indebita è un fenomeno comune negli studi legali. Ma la polizza, stipulata con la Monarch-Sierra Insurance Company, era limitata a quattro milioni di dollari, pagabili allo studio. Aricia aveva citato gli avvocati pretendendo senza mezzi termini il risarcimento di tutti i sessanta milioni che gli erano dovuti. Ma poiché c'era poco fondo da raschiare dal barile di una società la cui istanza di fallimento stava per essere esaminata dai magistrati, Benny si era rassegnato ad accettare i quattro milioni pagati dalla Monarch-Sierra. Metà della cifra l'aveva spesa per dare la caccia a Patrick. Il bell'appartamento di Boca gli era costato mezzo milione di dollari. Aggiungendo altre spese varie, aveva già cominciato a intaccare l'ultimo milione. Sorseggiò un decaffeinato in piedi davanti alla finestra. «Sto per essere arrestato?» chiese. «Probabilmente no. Ma fossi in te, manterrei un profilo molto basso.» Benny andò a posare la tazza sul tavolo e si sedette davanti a Stephano. «Hai parlato con le compagnie di assicurazione?» domandò. «Non ancora. Chiamerò più tardi. Sei al sicuro.» La Northern Case Mutual, la compagnia che grazie alla polizza sulla vita
di Patrick aveva reso ricca Trudy, aveva segretamente versato mezzo milione per cercare lo pseudodefunto. La Monarch-Sierra aveva messo un milione del suo. Nell'insieme, la piccola organizzazione di Stephano aveva ottenuto e speso più di tre milioni di dollari per rintracciare il fuggiasco. «Nessuna novità sulla ragazza?» s'informò Aricia. «Ancora no. I nostri sono a Rio. Hanno trovato suo padre, che non ci ha detto niente. Lo stesso al suo studio legale. Sostengono che è fuori città per lavoro.» Aricia intrecciò le dita. «Allora» chiese con calma, «lui che cosa ha detto di preciso?» «Io non ho ancora sentito il nastro. Doveva essere consegnato al mio ufficio oggi pomeriggio, ma ci sono state delle complicazioni. Non dimenticare che è stato spedito dalle foreste del Paraguay.» «Lo so.» «Secondo Guy, ha ceduto dopo cinque ore di scariche elettriche. Ha detto che i soldi ci sono ancora tutti, nascosti in varie banche, di nessuna delle quali ha potuto fare il nome. Guy lo ha quasi ammazzato per costringerlo a sputare i nomi, ma, visto che non rispondeva nemmeno così, ha giustamente dedotto che a manovrare il denaro ci fosse un'altra persona. Qualche altra scarica ed è saltato fuori il nome della ragazza. Quelli di Guy hanno chiamato subito Rio e hanno avuto conferma della sua identità. Ma si era già dileguata.» «Voglio sentire quel nastro.» «Non è una sonata per pianoforte, Benny, gli stanno bruciando la pelle a suon di scariche elettriche e lui implora pietà urlando.» Benny sorrise. «Lo so. Per questo voglio sentirlo.» Sistemarono Patrick in fondo a uno dei reparti dell'ospedale militare. La sua era l'unica camera con finestre bloccate e porte che potevano essere chiuse a chiave dall'esterno. In corridoio erano stati collocati due militari di guardia. Se anche non l'avessero sorvegliato, Patrick non sarebbe potuto andare da nessuna parte. Le scariche elettriche gli avevano procurato seri danni ai muscoli e ai tessuti delle gambe e del torace. Nemmeno articolazioni e ossatura erano state risparmiate. In quattro punti, due sul petto, uno su una coscia e uno su un polpaccio, le bruciature avevano provocato piaghe. Altre quattro zone del suo corpo presentavano ustioni di secondo grado. Il dolore era così intenso che i quattro medici che l'avevano in cura ave-
vano preso la semplice decisione di tenerlo per qualche tempo sotto sedativi. Non c'era urgenza di trasferirlo altrove. Era un ricercato, ma sarebbe stato necessario qualche giorno per stabilire a chi dovesse essere consegnato per primo. In condizioni ambientali di buio costante, con la musica a basso volume e una fleboclisi narcotizzante, il povero Patrick dormiva di un sonno profondo e senza sogni, ignaro della tempesta che si andava preparando in patria. Nell'agosto 1992, cinque mesi dopo la scomparsa del denaro, era stato incriminato per furto. Si erano raccolte prove sufficienti a dimostrare la sua diretta responsabilità nel colpo, senza che emergesse il minimo indizio sulla presenza di eventuali complici. Dati i risvolti internazionali del reato, il caso era di pertinenza della polizia federale. Lo sceriffo e il procuratore distrettuale della contea di Harrison, che avevano avviato un'indagine sull'omicidio e avevano da tempo accantonato l'inchiesta per occuparsi di questioni più attuali e urgenti, furono costretti a tornare speditamente sui propri passi. La conferenza stampa di mezzogiorno fu ritardata a causa di una riunione che si stava tenendo nell'ufficio di Cutter e alla quale, in un'atmosfera di tensione, partecipavano persone con interessi conflittuali. Da un lato del tavolo sedevano Cutter e i funzionari dell'Fbi che prendevano ordini da Maurice Mast, procuratore del distretto ovest del Mississippi, giunto da Jackson. Di fronte a loro sedevano Raymond Sweeney, lo sceriffo della contea di Harrison, e Grimshaw, suo braccio destro, due poliziotti che vedevano l'Fbi come il fumo negli occhi. A parlare per loro conto c'era T.L. Parrish, procuratore distrettuale di Harrison e contee limitrofe. Era uno scontro tra autorità federali e autorità statali, grandi poteri contro piccoli poteri, un duro braccio di ferro ispirato da motivazioni di prestigio personale, per alimentare il quale entrambe le parti erano pronte a fare carte false pur di accaparrarsi il caso Lanigan. «La pena di morte in questo caso taglia la testa al toro» dichiarò Parrish. «Anche noi federali possiamo chiedere la pena di morte» obiettò Mast a nome del governo con una lieve incertezza che non gli era usuale. Parrish sorrise e abbassò gli occhi. La pena di morte federale era un istituto giuridico approvato di recente dal Congresso con una formula alquanto nebulosa riguardo alle modalità di attuazione. Lo Stato viceversa aveva dalla sua un solido curriculum di esecuzioni capitali. «La nostra è migliore e lo sappiamo tutti» ribatté Parrish, che aveva già
spedito otto uomini nel braccio della morte, mentre Mast doveva ancora emettere la sua prima sentenza capitale. «Poi c'è il problema della detenzione» riprese Parrish. «Noi possiamo mandarlo a Parchman, dove verrà chiuso a chiave per ventitré ore al giorno in una cella che trasuda umidità dai muri e dove gli verrà servito cibo pessimo due volte al giorno e potrà fare la doccia due volte la settimana, in compagnia di scarafaggi e violentatori di ogni tipo. Se lo prendete voi, per il resto della sua vita finirà chiuso in un country club con le corti federali che se lo coccolano e fanno a gara su come tenerlo in vita.» «Non sarà una scampagnata» protestò Mast lasciando trasparire la sua irritazione. «Diciamo allora una giornata in spiaggia. Andiamo, Maurice, non giriamoci intorno. Abbiamo due grossi punti interrogativi ai quali bisogna dare una risposta prima che Lanigan venga messo via. Il primo è il denaro. Dov'è? Che cosa ne ha fatto? Può essere recuperato e restituito ai legittimi proprietari? Il secondo è: chi è stato seppellito al posto suo? Io ho una mezza idea che l'unico a potercelo dire sia Lanigan e non lo farà se non sarà costretto. Bisogna mettergli paura, Maurice. Parchman è un posto spaventoso e ci scommetto che lui in questo momento sta pregando con tutto il cuore di essere consegnato nelle mani dei federali.» Mast ne era convinto ma non poteva confessarlo. Era un caso troppo importante perché fosse lasciato alla polizia locale. Le reti televisive si sarebbero scatenate da un momento all'altro. «Ci sono anche altre imputazioni» gli ricordò. «Il furto è avvenuto all'estero, molto lontano da qui.» «Sì, ma all'epoca la vittima era un residente di questa contea» ritorse Parrish. «Non è un caso semplice.» «Che cosa proponi?» «Forse dovremmo lavorarcelo insieme» rispose Mast e il ghiaccio si sciolse non poco. I federali avevano l'autorità per avocare a sé il caso Lanigan quando e come avessero voluto e un'offerta di collaborazione da parte della procura generale era il massimo a cui Parrish potesse ambire. L'asso nella sua manica era Parchman e tutti i presenti ne erano consapevoli: l'avvocato Lanigan non poteva non sapere che cosa lo attendeva in quel carcere e la prospettiva di passare dieci anni d'inferno prima di morire gli avrebbe sciolto la lingua. Si stabilì un piano per dividere la torta tra le due procure, con il tacito
accordo di un equo sfruttamento delle luci della ribalta da parte di Parrish e Mast. L'Fbi avrebbe continuato le ricerche del denaro scomparso, mentre la polizia dello Stato si sarebbe concentrata sull'omicidio. Parrish avrebbe convocato al più presto il suo gran giurì. Al pubblico avrebbero presentato un fronte unito. Gli aspetti più controversi come il processo e i successivi appelli furono accantonati con la frettolosa promessa di tornarci sopra a tempo debito. Al momento era importante una tregua che consentisse alla procura statale di non doversi preoccupare di quello che faceva quella federale e viceversa. Poiché presso la sede federale era in corso un processo, la conferenza stampa fu tenuta nell'edificio dirimpetto, il palazzo di giustizia di Biloxi, dov'era disponibile l'aula principale al primo piano. I giornalisti erano affluiti a decine, in prevalenza inviati dalle testate locali, ma ce n'erano anche di Jackson, New Orleans e Mobile, tutti ad accalcarsi e sgomitarsi come bambini al passaggio di una sfilata di carri di Carnevale. Seri e compiti, Mast e Parrish presero posto davanti al podio sormontato da una selva di microfoni. Cutter e gli altri si schierarono alle loro spalle come una muraglia. Si accesero i riflettori e lampeggiarono i flash. Mast si schiarì la gola. «Abbiamo il piacere di annunciare la cattura del signor Patrick S. Lanigan, ex cittadino di Biloxi» esordì. «È vivo e vegeto e si trova ora presso di noi in stato di fermo.» Fece una pausa enfatica, assaporando il suo momento di gloria sottolineato dal fremito che agitò lo stormo di avvoltoi. Fornì poi qualche particolare sulla cattura, accennando al Brasile e alla nuova identità dietro la quale si era nascosto il latitante, senza tuttavia lasciar intendere che né lui né l'Fbi avevano avuto qualcosa a che fare con il ritrovamento di Patrick. Aggiunse poi qualche inutile ragguaglio sull'arrivo del prigioniero, le imputazioni a suo carico, la mano veloce e sicura della giustizia federale. Parrish non fu altrettanto esuberante. Promise una rapida incriminazione per omicidio di primo grado e per tutta una serie di annessi e connessi. Le domande piovvero a valanga. Mast e Parrish rifiutarono di rilasciare dichiarazioni praticamente su tutto, riuscendo a reggere per un'ora e mezzo. Pretese che a Lance fosse consentito restare al suo fianco durante l'appuntamento. Disse che aveva bisogno di lui. Lance faceva la sua bella figura in un paio di attillati calzoncini di jeans che lasciavano esposte le gambe muscolose e abbronzate. Nei suoi confronti l'atteggiamento dell'avvocato era sprezzante, d'altra parte aveva visto di tutto e di peggio. Trudy dominava il terzetto in gonna corta a tubino, elegante camicetta
rossa, gioielli e trucco nella giusta misura. Accavallò le belle gambe per attirare l'attenzione dell'avvocato. Posò una mano sul braccio di Lance che le accarezzava il ginocchio. L'avvocato ignorò le gambe di lei e le effusioni di lui. Trudy spiegò che voleva chiedere il divorzio, come già aveva accennato brevemente per telefono. Era fuori di sé. Come aveva potuto trattarla così? Lei e Ashley Nicole, la loro deliziosa figlioletta. E dire che lo aveva amato con tutto il cuore. La loro vita coniugale era stata rosea. E adesso... «Nessun problema per il divorzio» commentò l'avvocato più di una volta. Si chiamava j. Murray Riddleton, un legale esperto in divorzi e con molti clienti. «È un caso di abbandono lampante. Secondo le leggi dell'Alabama, avrà il divorzio, la custodia della figlia, alimenti, parte del patrimonio familiare, tutto quanto.» «Voglio che la pratica sia avviata il più presto possibile» lo sollecitò lei, guardando l'Ego Wall alle sue spalle. «Me ne occuperò domani mattina stessa.» «Quanto tempo ci vorrà?» «Novanta giorni. Non uno di più.» La notizia non la tranquillizzò. «Ancora mi domando come una persona possa fare una cosa del genere a qualcuno che ama. Mi sento un'imbecille.» La mano di Lance risalì leggermente lungo la sua coscia, continuando ad accarezzarla. Il divorzio era l'ultima delle sue preoccupazioni e l'avvocato lo sapeva. Inutile fingere davanti a lui. «Quanto le ha reso la polizza sulla vita?» le domandò, sfogliando il suo incartamento. Lei parve colta in contropiede. «Che cosa c'entra?» sbottò. «Vorranno indietro i loro soldi. Non è morto, Trudy. Niente decesso, niente polizza sulla vita.» «Starà scherzando, spero.» «Niente affatto.» «Ma non possono! Mi dica che non possono.» «No, non glielo dico. Non solo possono, ma non perderanno tempo.» Lance ritrasse la mano e si accasciò sulla sua poltrona. A Trudy s'inumidirono gli occhi. «Non possono...» ripeté. L'avvocato avvicinò a sé un bloc-notes nuovo e impugnò la penna. «Facciamo una lista.» Avevano pagato 130.000 dollari per la Rolls che era ancora di loro pro-
prietà. Lance guidava una Porsche, che lei aveva acquistato per 85.000 dollari. Per la casa aveva versato 900.000 dollari in contanti, era priva di ipoteche ed era intestata a Lance. 60.000 dollari erano andati per il motoscafo. 100.000 per i gioielli. Tra una cosa e l'altra la lista ammontò a un milione e mezzo circa. L'avvocato non ebbe cuore di informarli che tutti quei preziosi beni sarebbero stati i primi ad andarsene. Come un dentista che estragga i denti senza anestesia, costrinse Trudy a fare una stima delle loro spese mensili. Calcolò che da quattro anni si attestavano su una media di diecimila al mese. Avevano compiuto viaggi da sogno e buttato al vento soldi che nessuna compagnia di assicurazioni avrebbe mai potuto recuperare. Trudy era disoccupata, o pensionata, come preferiva definirsi lei. Lance non avrebbe certo parlato dei suoi traffici. Né osarono rivelare al loro avvocato di aver nascosto trecentomila dollari in una banca in Florida. «Quando pensa che mi citeranno?» chiese Trudy. «Entro la settimana» rispose l'avvocato. Fu invece tutto molto più rapido. Mentre era in corso la conferenza stampa e veniva resa pubblica la notizia della resurrezione di Patrick, i rappresentanti legali della Northern Case Mutual entrarono senza dare nell'occhio nell'ufficio di cancelleria al pianterreno e depositarono la richiesta della restituzione dei due milioni e mezzo versati a Trudy Lanigan, più interessi e spese. Era acclusa anche la richiesta di un provvedimento del tribunale che inibisse Trudy dall'intaccare il suo patrimonio ora che non era più vedova. Gli avvocati presentarono la loro istanza davanti a un giudice accomodante con il quale avevano già parlato alcune ore prima e, in un'udienza riservata del tutto regolare, fu loro riconosciuto il provvedimento inibitorio. Protagonista di una certa rilevanza negli ambienti giudiziari locali, il giudice conosceva bene la storia di Patrick Lanigan. Tra l'altro, poco dopo essersi seduta al volante della sua nuova Rolls rossa, Trudy aveva trovato il modo di offendere sua moglie. Mentre Trudy si faceva accarezzare da Lance e conferiva con il suo avvocato, al tribunale di Mobile veniva depositato il provvedimento inibitorio. Due ore dopo, mentre i due contemplavano con occhi nostalgici la baia sorseggiando il primo cocktail della sera, un ufficiale giudiziario interruppe il loro aperitivo il tempo necessario per consegnare a Trudy una copia della causa a lei intentata dalla Northern Case Mutual, un mandato di comparizione al tribunale di Biloxi e una copia autenticata del provvedi-
mento inibitorio. Fra le restrizioni che le venivano imposte, c'era anche quella di staccare assegni finché non ne avesse avuto il permesso dal giudice. 7 L'avvocato Ethan Rapley abbandonò la penombra della sua mansarda, fece una doccia, si rasò, si mise alcune gocce di collirio negli occhi arrossati e bevve un caffè forte mentre recuperava un blazer blu non troppo sgualcito che lo potesse rendere abbastanza presentabile. Erano sedici giorni che non compariva in ufficio. Non che qualcuno avesse sentito la sua mancanza e certamente lui non aveva nostalgia di nessuno di coloro che frequentavano lo studio legale. Quando avevano bisogno di lui gli mandavano un fax e nella stessa maniera lui rispondeva. Scriveva gli atti, i promemoria e i testi delle requisitorie di cui lo studio aveva bisogno per sopravvivere e svolgeva ricerche per le persone che disprezzava. Era costretto qualche volta a mettersi la cravatta e a incontrare un cliente o a partecipare a qualche odiosa riunione con i soci suoi colleghi. Odiava l'ufficio; odiava chi vi lavorava, anche le persone che praticamente non conosceva; odiava ogni libro su ogni ripiano e ogni pratica su ogni tavolo. Odiava le fotografie appese al muro e odiava tutti gli odori, l'aroma stantio di caffè in corridoio, il puzzo del toner vicino alla fotocopiatrice, i profumi delle segretarie. Tutto. Eppure si sorprese ad abbozzare un sorriso mentre risaliva la Costa nel traffico del tardo pomeriggio. Scambiò un cenno di saluto con una vecchia conoscenza mentre procedeva di buon passo per il Vieux Marche. Arrivò addirittura a rivolgere la parola alla receptionist, una donna alla quale anche lui pagava lo stipendio, ma di cui non ricordava il cognome. In sala riunioni c'era già una nutrita folla, costituita soprattutto da avvocati, con l'aggiunta di uno o due giudici e alcuni funzionari del palazzo di giustizia. Erano passate le cinque e l'atmosfera era vivace e festosa. L'aria era densa del fumo dei sigari. Rapley trovò da bere su un tavolino in fondo alla stanza e parlò a Vitrano mentre si versava uno scotch e cercava di mostrarsi compiaciuto. Le bottiglie d'acqua e di analcolici ammassate all'altra estremità furono bellamente ignorate. «È stato così per tutto il pomeriggio» lo informò Vitrano guardando la folla e ascoltando il chiacchiericcio. «Da quando si è saputa la notizia la
gente non sta più nella pelle.» C'erano voluti pochi minuti perché gli ambienti giudiziari della Costa venissero a conoscenza della riapparizione di Patrick. Gli avvocati si nutrono di pettegolezzi, hanno la tendenza ad abbellirli e li ripetono con tempestività stupefacente. E alle voci riportate si erano aggiunte quelle inventate. Pesa sessanta chili e parla cinque lingue. Hanno trovato il denaro. Il denaro è perduto per sempre. Viveva in condizioni di indigenza. O in una villa in mezzo a un parco? Viveva da solo. Aveva una nuova moglie e tre figli. Sapevano dove aveva nascosto i soldi. Non ne avevano la più pallida idea. Alla fine si parlava comunque e sempre del denaro. Anche in sala riunioni, nello scambio di convenevoli e amenità estemporanee tra amici e curiosi, la questione dei novanta milioni scomparsi riemergeva a ogni piè sospinto. Del resto non era un segreto per nessuno dei presenti che un terzo di quei novanta milioni erano soldi persi dallo studio legale. E anche la più remota delle possibilità di recuperare quel denaro aveva attirato amici e curiosi per un bicchiere o due, un pettegolezzo e un'ipotesi, un aggiorriamento e l'inevitabile: «Diamine, spero proprio che trovino i quattrini». Rapley si confuse tra gli altri con il secondo scotch in mano. Bogan bevve acqua brillante intrattenendosi con un giudice. Vitrano si occupò della massa, confermando e negando il meno possibile. Havarac si appartò in un angolo con un anziano giornalista giudiziario che tutt'a un tratto lo trovava molto simpatico. Scese la sera sull'onda degli alcolici, di speranze rinnovate e di una notizia ripetutamente riciclata. Patrick occupò quasi tutto il telegiornale locale. Si videro Mast e Parrish corrucciati dietro i microfoni come se fossero stati trascinati alla conferenza stampa contro la loro volontà. Apparve un primo piano dell'ingresso dello studio legale, senza che nessuno dall'interno rilasciasse dichiarazioni. Ci fu un servizio un po' stucchevole ambientato nel cimitero, corredato di qualche oscura ipotesi sullo sventurato sepolto lì al posto di Patrick. Fu riesumato uno spezzone sul terribile incidente avvenuto quattro anni prima, con immagini del luogo in cui era avvenuto e dei resti carbonizzati della Chevy Blazer del signor Patrick Lanigan. Nessun commento da parte della moglie, dell'Fbi, dello sceriffo. Nessun commento da parte dei protagonisti della vicenda, ma un sacco di congetture più o meno fantasiose da parte dei giornalisti.
La notizia ebbe notevole risonanza anche a New Orleans, Mobile, Jackson e persino Memphis. L'interesse della pubblica opinione era troppo vivo perché la Cnn non se ne occupasse a metà serata. Del caso si parlò sulla rete nazionale per un'ora prima che i servizi venissero diramati anche all'estero. Erano quasi le sette del mattino in Svizzera, quando Eva vide la trasmissione nella sua camera d'albergo. Si era assopita con il televisore acceso poco dopo la mezzanotte e si era svegliata e riaddormentata più di una volta volendo attendere il più possibile eventuali novità su Patrick prima di rilassarsi. Era stanca e spaventata. Avrebbe voluto tornare a casa, ma sapeva di non poterlo fare. Patrick era vivo. Cento volte le aveva promesso che non lo avrebbero ucciso se e quando lo avessero rintracciato. Per la prima volta cominciava a credergli. Quanto aveva rivelato ai suoi sequestratori? Fino a che punto lo avevano fatto soffrire? Quanta parte di verità erano riusciti a strappargli? Formulò una breve preghiera e ringraziò il Signore di avergli salvato la vita. Poi preparò una lista. Sotto lo sguardo indifferente di due militari di guardia e debolmente assistito da Luis, il vecchio attendente portoricano messo a sua disposizione, Patrick percorse a passi faticosi il corridoio. Era scalzo e indossava solo un paio di boxer bianchi d'ordinanza piuttosto sformati. Ora le sue ferite avevano bisogno di aria, niente più bendaggi, solo pomate e ossigeno. Aveva le gambe doloranti e ginocchia e caviglie gli tremavano a ogni passo. Dannazione, se solo fosse riuscito a schiarirsi la mente. Accettava quasi volentieri il dolore delle ferite ancora non rimarginate perché era di stimolo al suo cervello. Solo Dio sapeva quale micidiale miscuglio gli fosse stato pompato in corpo in quegli ultimi tre giorni. La tortura era una nebbia scura e densa che finalmente cominciava a diradarsi. Via via che il suo organismo espelleva i residui delle droghe, nelle orecchie gli riecheggiavano le sue stesse urla angosciate. Che cosa aveva detto loro del denaro? Si appoggiò al davanzale dello spaccio deserto mentre l'attendente gli andava a prendere qualcosa da bere. L'oceano distava un miglio, dietro file di palazzine militari. Era in una base militare.
Sì, aveva ammesso che il denaro c'era ancora, lo ricordava perché per qualche momento avevano smesso di tormentarlo. Poi aveva perso i sensi, o almeno così riteneva, perché era trascorso un lungo intervallo prima che lo risvegliassero gettandogli acqua fredda in faccia. Ricordava la sensazione piacevole dell'acqua, ma ricordava anche che gli era stato impedito di bere. Avevano invece continuato a piantargli aghi nel corpo. Banche. Aveva quasi pagato con la vita il tentativo di nascondere loro il nome di alcune banche. Costretto dalle scariche di energia elettrica che gli percorrevano il corpo, aveva ricostruito i movimenti del denaro da quando l'aveva rubato dalla United Bank of Wales alle Bahamas, a quando, passando per una banca maltese, era finito a Panama, dove nessuno era stato in grado di trovarlo. Quando lo avevano sequestrato, lui non sapeva dove si trovassero i soldi. Se esistevano ancora, più tutti gli interessi maturati nel frattempo, era quasi scontato che glielo avrebbe detto, ora lo ricordava, lo ricordava molto bene perché aveva pensato a quanto inutile sarebbe stato cercare di resistere, dato che sapevano che l'aveva rubato, sapevano che l'aveva lui, sapevano quanto fosse impossibile far fuori novanta milioni di dollari in quattro anni. La semplice verità era invece che nemmeno lui sapeva dov'era stato nascosto, mentre gli elettrodi gli fondevano le carni. L'attendente gli porse la bibita. «Obrigado» gli disse. Grazie in portoghese. Ma perché parlava portoghese? Quando l'interrogatorio sul denaro era finito in un vicolo cieco, c'era stato un momento di vuoto. «Fermi!» aveva gridato da un angolo della stanza qualcuno che non era mai riuscito a vedere. Credevano di averlo ucciso con le scariche di corrente. Non aveva idea di quanto tempo fosse durato il suo svenimento. A un certo punto si era risvegliato cieco; il sudore, le droghe e le urla terrificanti che aveva lanciato lo avevano accecato. O lo avevano bendato? Sì, ora ricordava di averlo pensato: forse lo avevano bendato perché avevano in mente di passare a qualche sistema di tortura nuovo e più sadico, amputazioni di parti del suo corpo, forse. E aveva atteso, nudo, sdraiato sul tavolaccio. Un'altra iniezione al braccio e a un tratto il suo cuore batteva forte e la pelle gli formicolava. Il suo simpatico amico riappariva armato del suo giocattolino. Patrick vedeva di nuovo. Dunque, gli avevano chiesto, chi ha il denaro? Patrick bevve un sorso. L'attendente gli restava vicino, sorrideva mante-
nendosi a sua disposizione come faceva con tutti i pazienti. Patrick fu preso all'improvviso dalla nausea, nonostante avesse mangiato pochissimo. La testa gli girava un po', ma era risoluto a rimanere in piedi per far circolare il sangue, nella speranza di riuscire a pensare meglio. Focalizzò la sua attenzione su un peschereccio all'orizzonte. Gli avevano inviato altre scariche di corrente nel corpo nella speranza di strappargli qualche nome. Urlando, aveva risposto di non poterli aiutare. Gli avevano applicato un elettrodo ai testicoli e il dolore era salito a un livello più alto. Poi c'erano stati momenti di vuoto. Patrick non ricordava. Semplicemente non ricordava le ultime fasi della tortura che aveva subito. Si sentiva bruciare. Era vicino alla morte. Aveva invocato il nome di lei, ma forse solo mentalmente... E dov'era ora? La bottiglietta gli sfuggì di mano. Si protese verso l'attendente. Stephano attese l'una del mattino prima di uscire. Percorse la strada buia sull'automobile di sua moglie. Salutò i due agenti nel furgone parcheggiato all'incrocio. Procedette piano perché potessero seguirlo. Sull'Arlington Memorial Bridge c'erano almeno due veicoli dietro di lui. Viaggiando per strade deserte, il piccolo convoglio raggiunse Georgetown. Stephano sfruttò il vantaggio di sapere dov'era diretto. Svoltò bruscamente sulla Wisconsin, poi girò di nuovo sulla M. Lasciò la macchina in sosta vietata e di buon passo percorse mezzo isolato infilandosi in un Holiday Inn. Prese l'ascensore per salire al secondo piano dove Guy lo attendeva in una suite. Di ritorno negli Stati Uniti per la prima volta dopo parecchi mesi, in tre giorni aveva dormito pochissimo, cosa che lasciava del tutto indifferente Stephano. Su un tavolo vicino a un registratore a batteria, erano allineati sei nastri. «Le stanze qui intorno sono tutte vuote» lo informò Guy. «Perciò puoi ascoltare al volume che vuoi.» «Mi pare di capire che non è molto piacevole» commentò Stephano osservando i nastri. «Da voltastomaco. Non lo farò mai più.» «Ora puoi andare.» «Bene. Sarò a tiro se hai bisogno di me.» Guy uscì. Stephano fece una telefonata e dopo pochi minuti Benny Aricia bussò alla sua porta. Ordinarono caffè nero e trascorsero il resto della notte ad ascoltare le urla di Patrick nelle foreste del Paraguay.
Per Benny fu beatitudine assoluta. 8 Dire che per la stampa quello fu il giorno di Patrick sarebbe poca cosa. Il quotidiano della Costa non riportava in prima pagina nient'altro che lui. LA RESURREZIONE DI LANIGAN annunciava un titolo a caratteri cubitali. Tutta la pagina era occupata da quattro servizi con non meno di sei fotografie. Resoconti sul caso continuavano ugualmente nelle pagine interne. Grande risalto alla sua vicenda veniva dato anche sulla prima pagina dei quotidiani di New Orleans, Jackson e Mobile. E nonostante lo spazio a lui accordato fosse meno vistoso, fotografie e articoli apparivano anche sulla prima pagina dei quotidiani di Memphis, Birmingham, Baton Rouge e Atlanta. Per tutta la mattinata due pulmini della televisione montarono di guardia all'abitazione di sua madre a Gretna, un suburbio di New Orleans. A proteggere la donna c'erano due vigorose vicine di casa, che a turno si presentavano davanti alla porta a lanciare occhiate torve ai teleavvoltoi. Un'altra squadra di giornalisti assediava la casa di Trudy a Point Clear, tenuti a bada da Lance, che si era seduto sotto un albero armato di fucile. Tutto vestito di nero, maglietta, pantaloni e stivali, lo avresti scambiato per un mercenario. Alle domande banali che gli lanciavano, rispondeva facendo la faccia truce. All'interno Trudy aspettava con la figlia di sei anni, che quel giorno aveva preferito non mandare a scuola. Un altro drappello di giornalisti si presentò davanti all'ingresso dello studio legale, dove due corpulente guardie giurate, fatte intervenire con solerte tempestività, impedirono loro di entrare. Altri giornalisti ancora si affollavano davanti all'ufficio dello sceriffo e a quello di Cutter e dovunque ci fosse la possibilità di fiutare qualcosa o trovare uno spunto. Seguendo una segnalazione, uno stuolo si precipitò in cancelleria in tempo per vedere Vitrano che, nel suo migliore vestito grigio, depositava un documento. Fu lui stesso a dichiarare che era l'atto con cui lo studio legale citava Patrick S. Lanigan. Lo studio voleva riavere il suo denaro e Vitrano era più che disposto a discuterne con gli inviati della stampa. Sarebbe stata una mattina di fermento giudiziario. L'avvocato di Trudy fece trapelare la sensazionale notizia che alle dieci si sarebbe recato alla cancelleria di Mobile a presentare una richiesta di divorzio. Eseguì l'opera-
zione con ammirevole maestria. Dopo i mille e più divorzi di cui si era occupato, era la prima volta che inoltrava un'istanza davanti alle telecamere. Solo cedendo alle insistenze dei corrispondenti accettò malvolentieri di farsi intervistare. Il motivo principale della richiesta di divorzio era l'abbandono, ma non mancavano insinuazioni di svariate gravi mancanze complementari. Posò per qualche foto in corridoio, davanti alla porta della cancelleria. Contemporaneamente si diffuse la notizia della causa intentata il giorno prima dalla Northern Case Mutual a Trudy Lanigan per la restituzione dei due milioni e mezzo. Furono presi d'assalto gli impiegati del tribunale e gli avvocati rappresentanti le parti. Un'indiscrezione qui e qualche conferma carpita là e in poche ore erano almeno una decina i giornalisti che sapevano che Trudy non poteva firmare assegni senza il beneplacito del tribunale. Com'era naturale, la Monarch-Sierra Insurance di Palo Alto voleva indietro i suoi quattro milioni di dollari, più interessi e spese legali. I suoi rappresentanti di Biloxi prepararono in tutta fretta una causa legale contro lo studio per il recupero della liquidazione della polizza da esso stipulata con la compagnia assicuratrice e contro il povero Patrick per la frode perpetrata ai danni di tutti. Va da sé che gli organi di informazione ebbero a disposizione copie della richiesta di azione giudiziaria pochi minuti dopo che era stata depositata in cancelleria. Benny Aricia voleva ovviamente riavere da Patrick i suoi novanta milioni. Il suo nuovo avvocato, un uomo tanto verboso quanto esuberante, aveva un modo molto personale di trattare con i mass media. Indisse una conferenza stampa per le dieci e invitò tutti i corrispondenti nella sua spaziosa sala riunioni per discutere con loro tutti gli aspetti dell'istanza presentata dal suo cliente, anche i più insignificanti, prima di presentarla in tribunale. Invitò quindi i suoi nuovi amici degli organi di informazione ad andare con lui a piedi fino al palazzo di giustizia. Durante il tragitto non smise di parlare un solo momento. Mai nella storia recente un evento aveva alimentato sulla Costa una così convulsa attività legale come la cattura di Patrick Lanigan. Nell'atmosfera febbrile che si era propagata per tutto il tribunale della contea di Harrison, in una sala riservata al primo piano si riunirono senza clamore i diciassette membri del gran giurì. Durante la notte erano stati convocati d'urgenza per telefono da T.L. Parrish, il procuratore distrettuale in persona. Conoscevano la natura della riunione. Ciascuno con il suo caf-
fè, presero posto intorno al lungo tavolo. Erano tutti variamente emozionati alla prospettiva di partecipare alla sarabanda. Parrish diede loro il benvenuto, si scusò del disturbo arrecato, quindi rivolse un saluto particolare allo sceriffo Sweeney, al capo della squadra investigativa Ted Grimshaw e all'agente speciale Joshua Cutter. «Sembra che ci ritroviamo davanti un nuovo caso di omicidio» esordì, posando sul tavolo il giornale del mattino. «Sono sicuro che l'avete visto tutti.» I presenti annuirono. Camminando lentamente avanti e indietro con un taccuino in mano, Parrish recitò i punti salienti della situazione: fornì particolari sulla personalità di Patrick; ricordò che faceva parte dello studio che rappresentava Benny Aricia; riparlò della sua morte, ora riconosciuta come solo apparente, e della sepoltura; tirò in ballo altri dettagli, in gran parte già letti anche da tutti gli altri sullo stesso giornale che Parrish aveva posato sul tavolo. Distribuì quindi fotografie dei resti carbonizzati dell'automobile di Patrick; del luogo scattate il giorno dopo, quando la carcassa della Blazer era già stata portata via; dei danni provocati dall'incendio a vegetazione, cespugli, erba e al tronco di un albero. Come colpo di scena finale, Parrish consegnò ai presenti gli ingrandimenti a colori dei resti dell'unica persona che era a bordo della Blazer. «All'epoca eravamo naturalmente convinti che fosse Patrick Lanigan» affermò con un sorriso. «Ora sappiamo di esserci sbagliati.» Non c'era nulla in quelle forme annerite che potesse far pensare che si trattava di spoglie umane. Nessuna parte del corpo era riconoscibile, salvo una vaga sporgenza ossea che, spiegò Parrish, apparteneva al bacino. «Un bacino umano» precisò, nel caso i suoi giurati fossero indotti a credere che Patrick potesse aver ucciso un animale. I giurati la presero abbastanza bene, soprattutto perché c'era poco da vedere, niente sangue, niente mutilazioni o sventramenti. Chiunque fosse, era morto sul sedile anteriore destro, distrutto dalle fiamme come tutto il resto. «Sappiamo che il rogo è stato provocato dalla benzina» continuò Parrish. «Ne siamo certi perché Patrick aveva appena fatto il pieno. Dunque, quando ha preso fuoco il serbatoio, sono saltati in aria ottanta litri di benzina. Gli investigatori hanno tuttavia notato un livello di calore insolitamente alto.» «Avete trovato resti di qualche contenitore a bordo del veicolo?» chiese un giurato. «No. Ma nei casi di questo genere è normale che vengano utilizzati con-
tenitori di plastica. Tra i preferiti dagli incendiari ci sono i bottiglioni del latte e le tanichette di liquido antigelo. Non lasciano tracce. Per noi non sono una novità, anche se è raro che vengano usati per incendiare un'automobile.» «E i cadaveri vengono sempre ridotti in queste condizioni?» domandò un altro. «No» rispose prontamente Parrish. «Se devo essere sincero, non ho mai visto un cadavere carbonizzato fino a questo punto. Cercheremo di ottenere un mandato di esumazione, ma, come probabilmente sapete, il corpo fu cremato.» «Qualche idea su chi possa essere?» domandò Ronny Burkes, portuale. «Abbiamo in mente una persona, ma è solo un'ipotesi.» Dopo qualche altra botta e risposta di scarso rilievo, votarono all'unanimità perché Patrick venisse incriminato di omicidio di primo grado, commesso nell'esecuzione di un altro crimine, per la precisione malversazione aggravata. Punibile con la morte per iniezione letale presso il penitenziario di Stato di Parchman. In meno di ventiquattr'ore Patrick era riuscito a essere incriminato di omicidio volontario, citato in una causa di divorzio, citato per furto di novanta milioni di dollari, citato dai suoi vecchi soci per il furto di trenta milioni e per i danni conseguenti, e citato per la frode di quattro milioni ai danni della Monarch-Sierra Insurance, che, per buona misura, pretendeva un ulteriore risarcimento di dieci milioni. Di tutto questo fu messo cortesemente al corrente dalla Cnn. Sebbene le autorità federali fossero escluse dalla procedura, Maurice Mast si affiancò di nuovo a T.L. Parrish nell'annunciare davanti alle telecamere che la cittadinanza della contea di Harrison, rappresentata dal suo gran giurì, aveva rapidamente deliberato di rimandare a giudizio per omicidio Patrick Lanigan. Schivarono le domande alle quali non potevano rispondere, furono evasivi su quelle alle quali potevano e lasciarono chiaramente intendere che era prevista l'incriminazione per altri reati. Spente le telecamere, i due pubblici ministeri si intrattennero con il dovuto riserbo con il giudice Karl Huskey, uno dei tre magistrati che occupavano a turno il seggio della contea. Huskey era stato un amico intimo di Patrick e, per quanto i dibattimenti dovessero essere assegnati in modo casuale, non era meno abile dei suoi colleghi nell'influire sulla cancelleria in maniera da ottenere o dirottare i processi. E almeno per il momento Hu-
skey voleva occuparsi del caso Patrick. Mentre si trovava solo in cucina a mangiare un sandwich al pomodoro, Lance notò un movimento dietro casa, davanti alla piscina. Afferrò il fucile, uscì, passò dietro una fila di cespugli nel patio e individuò un fotografo accovacciato contro un angolo della dépendance con tre voluminose fotocamere appese al collo. In punta di piedi Lance girò intorno alla palazzina e si acquattò a meno di un metro dalla schiena del fotografo. Si sporse in avanti, avvicinò la canna del fucile alla testa dell'intruso tenendola inclinata verso l'alto e premette il grilletto. Con un urlo, il fotografo piombò in avanti sulle sue macchine fotografiche. Lance lo prese a calci un paio di volte, mentre il malcapitato rotolava su se stesso e vedeva finalmente in faccia il suo aggressore. Le tre macchine finirono nell'acqua della piscina sotto gli occhi orripilati di Trudy. Lance le gridò di chiamare la polizia. 9 «Ora ti rimuovo la pelle morta» annunciò il medico tastando delicatamente con uno strumento appuntito una ferita che il paziente aveva sul torace. «Ti consiglio vivamente di lasciare che ti faccia un'anestesia locale.» «No, grazie» rispose Patrick. Era seduto sul letto, nudo, con il medico, due infermiere e Luis, l'attendente portoricano. «Farà male, Patrick» lo avvertì il medico. «Ho passato di peggio. E poi, dove vorrebbe farmi l'iniezione?» lo sfidò mostrandogli il braccio sinistro interamente ricoperto di lividi, conseguenze delle innumerevoli punture che il brasiliano gli aveva praticato durante la prigionia. Tutto il suo corpo era un arcobaleno di ecchimosi. «Basta droghe.» «Come preferisci.» Patrick si sdraiò e afferrò i bordi del letto. Le infermiere e Luis lo tennero per le caviglie mentre il medico cominciava a grattare le ustioni di terzo grado che aveva sul petto. Con l'aiuto di strumenti chirurgici, gli sollevò dalla ferita la cute morta e la recise. Patrick chiuse gli occhi, serrando i denti in una smorfia. «Sei ancora della stessa idea, Patrick?» chiese il medico. «Sì.» Il medico gli rimosse altro tessuto necrotico.
«La cute si sta ricostruendo bene. Comincio a pensare che potremo evitare un trapianto.» «Bene» gli rispose Patrick prima di fare un'altra smorfia di dolore. Delle nove ustioni, quattro erano abbastanza gravi da poter essere classificate di terzo grado, due al petto, una sulla coscia sinistra e una sul polpaccio destro. Le escoriazioni causate dai legacci su polsi, gomiti e caviglie furono medicate con pomate cicatrizzanti. Il medico completò la sua opera in mezz'ora e gli raccomandò di rimanere per qualche tempo con le ustioni esposte all'aria. Gli applicò un fresco unguento disinfettante e di nuovo gli offrì degli antidolorifici, questa volta da prendere per bocca. Patrick non ne volle sapere. Quando medico e infermiere uscirono, Luis si accertò che si fossero allontanati, poi chiuse la porta e abbassò le tapparelle. Da una tasca sotto la giacca bianca estrasse una Kodak usa e getta, munita di flash. «Comincia da lì» gli ordinò Patrick mostrandogli i piedi del letto. «Tutto il corpo, faccia inclusa.» Luis si portò la fotocamera all'occhio, indietreggiò di qualche passo e premette il pulsante. Un lampo illuminò la stanza. «Di nuovo, da lì» lo istruì Patrick. Luis eseguì. Sulle prime si era schermito sostenendo che avrebbe dovuto avvertire il suo superiore. Essendo vissuto sul confine del Paraguay, Patrick non solo aveva perfezionato il portoghese, ma aveva acquisito sufficiente dimestichezza con lo spagnolo. E se Luis non capiva sempre fino in fondo tutto quello che il suo paziente gli diceva, aveva inteso alla perfezione l'offerta che gli veniva fatta di cinquecento dollari statunitensi in cambio dei suoi servigi da fotografo. Aveva così accettato di acquistare tre apparecchi usa e getta, scattargli un centinaio di fotografie, farle sviluppare subito e nasconderle lontano dall'ospedale in attesa di nuovi ordini. Patrick non aveva cinquecento dollari da dargli, ma aveva persuaso Luis dell'onestà dei suoi intenti, a dispetto di quanto potesse essergli giunto all'orecchio sul suo conto, e gli aveva promesso di spedirgli il denaro appena rientrato in patria. Come fotografo Luis non era un gran che, ma d'altronde nemmeno la sua attrezzatura era di qualità. Le inquadrature furono coordinate da Patrick in maniera da ottenere una buona documentazione delle ustioni che gli erano state provocate durante la tortura, riprese in una serie di primi piani da diverse angolazioni. Il lavoro fu svolto con rapidità e concluso prima che arrivassero le infermiere per il pranzo. Approfittando della pausa del mezzogiorno, Luis si allontanò dall'ospedale per andare a consegnare le pellicole
a un negozio specializzato. A Rio, Osmar convinse una segretaria mal retribuita a intascare mille dollari in contanti in cambio di tutte le ultime novità di cui lei fosse al corrente presso lo studio legale di Eva. I titolari dello studio erano molto abbottonati e non lasciavano trapelare un gran che, però fra le registrazioni delle telefonate Osmar ne trovò due giunte allo studio da un numero di Zurigo. Guy poté stabilire da Washington che si trattava di un albergo, ma la discrezione degli svizzeri gli impedì di avere ulteriori informazioni. La scomparsa di Eva cominciò a far spazientire i suoi soci al punto che dall'apparente imperturbabilità dei primi giorni si arrivò a riunioni quotidiane che la riguardavano. Eva aveva telefonato due volte, poi non si era fatta più sentire, né era stato possibile identificare il misterioso cliente al quale aveva ritenuto di dover dare assistenza in modo così precipitoso. Frattanto cominciavano a levarsi le proteste e le minacce degli altri clienti che si erano visti annullare tutti gli appuntamenti e le cui scadenze legali erano state disattese. I titolari decisero infine di sospenderla temporaneamente in attesa di un faccia a faccia appena fosse rientrata. Osmar e i suoi uomini cominciarono ad assediare il padre di Eva fino a togliergli il sonno. Dall'atrio del palazzo in cui abitava lo seguivano dovunque andasse in macchina e lungo gli affollati marciapiedi di Ipanema. Non escludevano la possibilità di sequestrarlo e strapazzarlo un po', costringendolo a parlare, ma fino a quel momento lui si era mosso con la dovuta prudenza, riuscendo sempre a evitare di farsi sorprendere da solo. Al terzo tentativo di entrare nella sua camera da letto, Lance trovò finalmente la porta aperta. Entrò senza far rumore con una compressa di Valium e un bicchiere della sua acqua minerale preferita, imbottigliata in Irlanda e reperibile a quattro dollari la bottiglia. Si sedette accanto a lei sul letto e, senza una parola, le porse la pillola. Lei la prese, la seconda in un'ora, e la mandò giù con un sorso d'acqua. La macchina della polizia con il fotografo se n'era andata da un'ora. I due agenti erano rimasti una ventina di minuti per le domande di rito, dando la netta sensazione di voler chiudere l'episodio senza denunce, visto che c'era stata una violazione di domicilio e che ai giornalisti era stato raccomandato di tenersi alla larga. Tra l'altro il fotografo lavorava per un'ignobile rivista scandalistica che si pubblicava nel Nord. I poliziotti si erano di-
mostrati comprensivi, per non dire rispettosi, del sistema usato da Lance per affrontare la situazione. Si erano fatti dare il nome dell'avvocato di Trudy nell'eventualità che il fotografo avesse qualche rimostranza da fare. Lance aveva minacciato una controdenuncia. I nervi di Trudy avevano ceduto subito dopo. Aveva scagliato nel caminetto i cuscini di un divano mentre la governante scappava con la bambina. Aveva rovesciato improperi e volgarità su Lance, perché era il bersaglio più vicino. Dopo la notizia riguardante Patrick, la causa promossa contro di lei dalla compagnia assicuratrice, il provvedimento inibitorio del tribunale, gli avvoltoi ammassati intorno a casa sua, quel fotografo colto in flagrante da Lance era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Grazie a Dio ora si era calmata. Aveva preso un Valium anche lui e poteva finalmente rallegrarsi di vederla di nuovo in sé. Avrebbe voluto accarezzarla e confortarla con qualche parola gentile, ma la conosceva troppo bene per non sapere che quand'era in quello stato diventava pericolosamente reattiva e non si poteva mai prevedere quale mossa avrebbe considerato sbagliata. Trudy si adagiò sul letto, chiuse gli occhi e si posò il dorso della mano sulla fronte. La camera, come tutto il resto della casa, era praticamente immersa nel buio, con tutti gli scuri sprangati e le luci spente o comunque ridotte al minimo. Fuori c'era un centinaio di persone a scattare fotografie e girare sequenze da usare nei loro servizi su Patrick. A mezzogiorno aveva visto la propria abitazione al telegiornale locale, inquadrata alle spalle di un'imbecille con i capelli arancione e denti da coniglio che le spuntavano dalla bocca, un essere odioso che aveva blaterato per alcuni minuti su Patrick e la richiesta di divorzio inoltrata quella mattina stessa dalla moglie. La moglie di Patrick! Era un pensiero che la faceva star male. Erano passati quattro anni e mezzo dall'ultima volta in cui era stata la moglie di Patrick. Lo aveva seppellito e poi aveva cercato di dimenticarlo mentre aspettava di incassare la liquidazione della polizza sulla sua vita. Quando i soldi erano arrivati, Patrick era un ricordo sbiadito. L'unico momento doloroso era stato quando aveva dovuto informare Ashley Nicole, la figlioletta di appena due anni, che non avrebbe più rivisto suo padre, che Patrick era andato in cielo dove senz'altro era più felice. La bimba era rimasta un po' confusa, poi aveva accantonato la questione come solo un bambino piccolo sa fare. Trudy aveva imposto che in casa non si facesse il nome di Patrick in presenza della bambina. Per protegger-
la, aveva spiegato. Lei non ricorda suo padre, perciò che nessuno glielo rammenti. Tolto quel breve episodio, aveva retto il peso della vedovanza con ammirevole bravura. Faceva acquisti a New Orleans, ordinava cibi salutistici in California, sudava per tre ore al giorno in body firmati e frequentava con assiduità i saloni di bellezza. Si era procurata una governante che badasse alla figlia quando lei e Lance erano in viaggio. Amavano i Caraibi, specialmente St. Barts con le sue spiagge per nudisti. Si spogliavano ed esibivano con orgoglio i loro corpi in mezzo a frotte di francesi. Natale voleva dire New York, al Plaza. Gennaio era Vail in compagnia dei ricchi e famosi. Maggio, Parigi e Vienna. Desideravano molto possedere un jet privato come alcune delle persone che avevano conosciuto viaggiando sulla corsia di sorpasso. Per un piccolo Lear usato ci voleva un milione di dollari, ma acquistarlo in quel momento era fuori discussione. Lance sosteneva di avere un progetto in proposito e lei si preoccupava ogni volta che lo vedeva diventare troppo serio sulle questioni economiche. Sapeva che contrabbandava droga, ma si occupava solo di marijuana che importava dal Messico senza correre rischi eccessivi. Erano soldi che tornavano comodi e non le dispiaceva che di tanto in tanto si allontanasse da casa. Non serbava rancore a Patrick, non a quello defunto. Detestava il fatto che non fosse morto, che fosse resuscitato a complicarle la vita. Lo aveva conosciuto a una festa a New Orleans, in un periodo in cui filava con Lance ed era a caccia di un marito nuovo, preferibilmente ricco e promettente. Aveva ventisette anni, da quattro era uscita da un matrimonio andato a male e si sentiva ormai più che matura per una nuova relazione stabile. Lui aveva trentatré anni, era ancora scapolo e pronto a metter su famiglia. Aveva appena accettato di entrare in un rinomato studio legale di Biloxi, la cittadina nella quale in quel periodo risiedeva anche lei. Dopo quattro mesi di travolgente passione, si erano sposati in Giamaica. Tre settimane dopo la luna di miele, approfittando di un'assenza di Patrick per motivi di lavoro, Lance era andato a trascorrere la notte nel loro appartamento nuovo. Trudy non poteva permettersi di perdere i soldi, era un'eventualità che non poteva nemmeno essere presa in considerazione. Il suo avvocato avrebbe dovuto trovare una contromisura, qualche cavillo che le permettesse di tenerli. Era ben per questo che lo pagava. Inammissibile che la compagnia di assicurazioni s'impossessasse della sua casa, dei mobili, delle automobili e del guardaroba, dei suoi conti correnti, del motoscafo, di tutti
gli oggetti preziosi che aveva comperato con quei soldi. No, non era giusto. Patrick era morto. Lei lo aveva seppellito. Era vedova da più di quattro anni. Questo doveva pur contare qualcosa. Non era colpa sua se lui era ancora vivo. «Ora dovremo ucciderlo, lo sai anche tu» mormorò Lance nell'oscurità. Era in poltrona, tra il letto e la finestra, con i piedi nudi posati su un'ottomana. Lei non si mosse, non ebbe nemmeno un tremito, ma rifletté per un secondo prima di rispondergli. «Non dire scemenze» disse. Ma c'era poca convinzione nella sua voce. «Non c'è alternativa, lo sai.» «Abbiamo già abbastanza guai così.» Respirava e basta, con il dorso della mano sempre appoggiato alla fronte, gli occhi chiusi, perfettamente immobile, e dentro di sé era felice che Lance avesse affrontato l'argomento. Naturalmente lei ci aveva pensato subito dopo aver saputo che Patrick era riapparso. Aveva valutato un ventaglio di possibili sviluppi, ciascuno dei quali portava alla medesima, ineludibile conclusione: per conservare il denaro, Patrick doveva essere morto. I soldi del resto provenivano da una polizza sulla sua vita. Lei non avrebbe potuto ucciderlo, l'ipotesi era semplicemente ridicola. Lance invece poteva contare su molte poco raccomandabili conoscenze in ambienti oscuri. «Vuoi conservare il denaro, no?» la provocò lui. «Lance, non posso pensarci adesso. Un'altra volta.» Magari anche molto presto. Non poteva mostrarsi troppo ansiosa per non eccitare Lance. Come sempre sarebbe stata lei a guidarlo, attirandolo in qualche schema diabolico del quale si sarebbe accorto solo quando sarebbe stato troppo tardi perché lui potesse fare marcia indietro. «Guarda che non possiamo tirarla troppo per le lunghe» insisté Lance. «Quelli dell'assicurazione ci sono già addosso.» «Per piacere, Lance.» «Inutile girarci intorno. Se vuoi conservare questa casa, i soldi, tutto quello che hai, allora lui deve morire.» Per parecchi minuti lei non parlò e non si mosse, ma le parole di Lance le deliziavano l'anima. Con il poco cervello e tutti i difetti che aveva, era il solo uomo che avesse veramente amato. Era abbastanza spietato da liquidare Patrick, ma era anche abbastanza furbo da non lasciarsi beccare?
L'agente si chiamava Brent Myers, inviato dall'ufficio di Biloxi da Cutter perché prendesse contatto con il loro uomo. Si presentò e mostrò il suo distintivo a Patrick, che non lo degnò di uno sguardo mentre allungava la mano verso il telecomando e biascicava un «Piacere» coprendosi i boxer con il lenzuolo. «Vengo dall'ufficio di Biloxi» aggiunse Myers, sforzandosi sinceramente di essere cordiale. «Dove sarebbe?» domandò impassibile Patrick. «Sì, be', pensavo che fosse il caso di conoscerci, visto che dovremo passare un po' di tempo insieme nei prossimi mesi.» «Non ne sia tanto sicuro.» «Ha un avvocato?» «Non ancora.» «Ha in mente di assumerne uno?» «Affari esclusivamente miei.» Myers non aveva evidentemente le armi per battersi alla pari con un avvocato esperto come Lanigan. Posò le mani sulla spalliera ai piedi del letto e lo fissò con l'aria più severa di cui fosse capace. «Il suo medico dice che lei potrebbe essere pronto a viaggiare fra due giorni.» «Sono pronto già ora.» «Sono in molti ad aspettarla a Biloxi.» «Ho visto» ribatté Patrick alzando il mento in direzione del teleschermo. «Immagino che non intenda rispondere a qualche domanda.» Patrick reagì con un grugnito a quella proposta così ridicola. «Come pensavo» annuì Myers rialzandosi. «In ogni caso sarò io ad accompagnarla a casa.» Lasciò cadere sul lenzuolo un biglietto da visita. «Qui c'è il numero del mio albergo, nel caso le venga voglia di parlare.» «Non stia ad aspettare vicino al telefono.» 10 Sandy McDermott aveva letto con vivo interesse del sensazionale ritrovamento del suo vecchio compagno alla scuola di legge. A Tulane, lui e Patrick avevano fatto coppia per tre anni, nello studio e negli svaghi. Avevano lavorato alle dipendenze dello stesso giudice dopo l'esame di stato e avevano trascorso insieme molte ore nel loro pub preferito in St. Charles a fantasticare su come avrebbero dato l'assalto al mondo giudiziario. Avrebbero messo su uno studio insieme, una piccola ma potente organizzazione
di coriacei squali delle aule di tribunale sorretti da un'etica impeccabile. Sarebbero diventati ricchi e dieci ore al mese del loro tempo lavorativo sarebbero state dedicate gratuitamente ai clienti che non erano in grado di pagare. Tutto previsto. Poi avevano dovuto fare i conti con la vita. Sandy aveva accettato un posto di assistente alla procura federale soprattutto perché era sposo novello e lo stipendio era buono. Patrick era finito in uno studio con duecento avvocati nel centro di New Orleans, lavorava ottanta ore la settimana e per questo non si era sposato. I loro progetti di uno studio piccolo e perfetto erano sopravvissuti fino a quando entrambi avevano compiuto trent'anni. Ogni volta che potevano cercavano di vedersi per una colazione veloce o un bicchiere in compagnia, ma telefonate e incontri erano diventati meno frequenti con il passare degli anni. Poi Patrick si era rifugiato a Biloxi in cerca di una vita meno frenetica e da allora si sentivano sì e no una volta l'anno. La grande occasione per Sandy si era presentata quando l'amico di un cugino aveva subito un'invalidità permanente in un incidente avvenuto su una piattaforma petrolifera nel Golfo. Si era fatto prestare diecimila dollari, aveva aperto il proprio studio, aveva citato la Exxon e incassato tre milioni di dollari, un terzo dei quali aveva tenuto per sé. Era in affari. Senza Patrick, aveva messo insieme un piccolo studio di tre avvocati, tutti specializzati in infortuni e decessi avvenuti all'estero. Quando Patrick era morto, Sandy aveva studiato il calendario e stabilito che l'ultima volta in cui gli aveva parlato risaliva a nove mesi prima. Naturalmente ne aveva sofferto, ma non tanto da smettere di guardare la vita con il dovuto realismo: come per quasi tutti i compagni di college, molto semplicemente ciascuno aveva imboccato la propria strada. Aveva affiancato Trudy per le esequie e aveva sorretto anche lui la bara quand'era stata trasportata alla fossa. Quando, sei mesi dopo, si era saputo della scomparsa del denaro ed erano cominciate a circolare le prime insinuazioni, Sandy se l'era risa augurando buona fortuna al vecchio amico. Corri, Patrick corri, aveva pensato spesso in quei quattro anni, e sempre con un sorriso sulle labbra. Lo studio di Sandy era vicino a Poydras Street, a nove isolati dal Superdome, vicino all'incrocio con Magazine, in una bella palazzina ottocentesca di cui era diventato proprietario per un accordo a conclusione di una vertenza. Aveva affittato il primo e il secondo piano e tenuto il pianterreno per sé, i suoi due soci, tre assistenti e una mezza dozzina di segretarie.
Era assorto quando la sua segretaria entrò in ufficio con il volto incupito. «C'è qui una signora per te» gli annunciò. «Ha un appuntamento?» chiese lui, lanciando un'occhiata a una delle tre agende, quotidiana, settimanale e mensile, che teneva aperte sulla scrivania. «No. Dice che è urgente. Non se ne va. Riguarda Patrick Lanigan.» Lui rivolse alla segretaria un'occhiata incuriosita. «Dice di essere avvocato» aggiunse lei. «Da dove arriva?» «Brasile.» «Brasile?» «Sì.» «Ha l'aria di una... brasiliana?» «Credo di sì.» «Falla passare.» Sandy le si fece incontro sulla soglia e l'accolse con cordialità. Eva disse di chiamarsi Leah e nient'altro. «Non ho capito bene il suo cognome» disse Sandy tra un sorriso e l'altro. «Non lo uso» rispose lei. «Non ancora.» Sarà un'abitudine brasiliana, pensò lui. Come Pelé, un nome o soprannome e basta. La fece accomodare in una poltrona nell'angolo dello studio e ordinò un caffè. Lei si sedette rifiutando il caffè e Sandy non mancò di guardarle le gambe. Era vestita in maniera sobria. Sedendosi a sua volta di fronte a lei, notò i suoi occhi, molto belli, castano chiaro, ma molto stanchi. Aveva i capelli scuri e li portava lunghi, ben oltre le spalle. Patrick era sempre stato dell'idea che l'occhio vuole la sua parte. Con Trudy non c'era compatibilità di carattere, ma indubbiamente era una donna che fermava il traffico. «Sono qui per conto di Patrick» cominciò Eva con una certa titubanza. «È stato lui a mandarla?» «Sì, è stato lui.» Parlava lentamente, in tono sommesso, con un timbro di voce dolce in cui l'accento era appena percettibile. «Lei ha studiato negli Stati Uniti?» «Sì. Mi sono laureata in legge a Georgetown.» Questo spiegava la pronuncia americana quasi perfetta.
«E dove esercita?» «In uno studio di Rio. Mi occupo di intermediazioni internazionali.» Ancora non aveva sorriso e a Sandy dispiaceva. Una visitatrice che giungeva da lontano. Molto bella. E con tanto di cervello e belle gambe. Avrebbe preferito vederla rilassarsi nell'ambiente accogliente del suo ufficio. In fondo erano a New Orleans... «È lì che ha conosciuto Patrick?» le chiese. «Sì. A Rio.» «Gli ha parlato da quando...» «No. Non da quando è stato catturato.» Per poco non aggiunse che era disperatamente preoccupata per lui, ma non sarebbe sembrato molto professionale. Non era lì per divulgare molto della situazione, e certamente non per lasciar trapelare alcunché dei suoi rapporti con Patrick. Di Sandy McDermott ci si poteva fidare, ma era necessario trasmettergli le informazioni a piccole dosi. Ci fu una pausa durante la quale entrambi distolsero lo sguardo e Sandy sentì d'istinto che in quella storia molti erano i capitoli che gli sarebbero stati taciuti. Ma, oh, quanti interrogativi! Come aveva rubato il denaro? Come era arrivato in Brasile? Come aveva trovato lei sulla sua strada? E l'interrogativo principale: dov'erano i soldi? «Dunque io che cosa posso fare?» chiese. «Voglio assumerla per Patrick.» «Sono disponibile.» «La riservatezza è fondamentale.» «Come sempre.» «Questa volta è diverso.» Una differenza che consisteva in novanta milioni di dollari. «Le garantisco che quanto lei e Patrick mi direte sarà strettamente confidenziale» dichiarò con un sorriso rassicurante che lei in parte riuscì a contraccambiare. «Potrebbero cercare di costringerla con la forza» lo avvertì. «So badare a me stesso.» «Potrebbero minacciarla.» «Non sarà la prima volta.» «Potrebbero pedinarla.» «Chi?» «Persone di pochi scrupoli.» «Chi?»
«Quelli che danno la caccia a Patrick.» «Mi pare che l'abbiano già preso.» «Lui sì, ma i soldi no.» «Capisco.» Dunque il denaro esisteva ancora e non ne era sorpreso. Come tutti, anche Sandy si rendeva conto che Patrick non avrebbe potuto sperperare un simile patrimonio in quattro anni. Ma quanto del capitale era rimasto? «Dove sono?» chiese senza molta convinzione, non aspettandosi una risposta. «Non mi può fare questa domanda.» «Gliel'ho appena fatta.» Leah sorrise e cambiò argomento. «Sistemiamo qualche dettaglio. Qual è il suo onorario?» «Per quale servizio?» «Per rappresentare Patrick.» «E difenderlo su quale dei suoi vari fronti? A leggere quello che riportano i giornali, per coprirgli i fianchi ci vorrebbe un esercito intero di avvocati.» «Centomila dollari?» «Per cominciare possono bastare. E devo occuparmi dei suoi interessi sia sul piano civile, sia su quello penale?» «Sì.» «Da solo?» «Sì, non vuole altri avvocati.» «Ne sono lusingato» dichiarò Sandy con sincerità. C'erano decine di avvocati ai quali Patrick avrebbe potuto rivolgersi; avvocati con ottimi precedenti nella difesa di imputati che rischiavano la pena capitale, avvocati ben ammanicati negli ambienti politici della Costa, avvocati di studi legali più potenti e ricchi e senza dubbio avvocati che gli erano stati amici più di quanto fosse stato lui in quegli ultimi otto anni. «Allora sono assunto» concluse. «Patrick è un vecchio amico.» «Lo so.» Sandy si chiese quanto altro lei sapesse della vita privata del vecchio compagno di studi. Quella donna era solo un avvocato? «Vorrei farle avere il denaro oggi stesso» affermò lei. «Se mi dà le coordinate bancarie.» «Certamente. Le preparerò un contratto.» «Ci sono anche altri aspetti che preoccupano Patrick. Uno è la pubblici-
tà. Vuole che lei non rilasci dichiarazioni agli organi d'informazione. Mai. Neanche una parola. Nessuna conferenza stampa. Nemmeno un casuale "no comment".» «Nessun problema.» «Non potrà scrivere un libro su questa storia quando sarà finita.» Sandy scoppiò a ridere, ma lei rimase seria. «Non me lo sognerei mai» le assicurò. «Vuole che sia nel contratto.» Sandy smise di ridere e prese un appunto. «Nient'altro?» «Sì, è possibile che mettano sotto controllo la sua abitazione e il suo ufficio. È bene che assuma un tecnico esperto che la protegga su questo fronte. Patrick è disposto a pagare per tale servizio.» «Affare fatto.» «E sarà meglio che noi due non ci vediamo più qui. Ci sono persone che stanno cercando di rintracciarmi perché pensano che io possa guidarli al denaro. Perciò ci incontreremo altrove.» Sandy non aveva nulla in contrario. Avrebbe voluto aiutarla, offrirle la sua protezione, chiederle dove intendesse andare e come pensasse di nascondersi, ma aveva l'impressione che quella donna tenesse già tutto sotto controllo. La vide consultare l'orologio. «Fra tre ore c'è un volo per Miami. Ho due biglietti di prima classe. Possiamo parlare in aereo.» «Io dove sarei diretto?» «A San Juan, a incontrare Patrick. Ho sistemato tutto.» «E lei?» «Da un'altra parte.» Sandy ordinò altro caffè e brioche mentre attendevano la conferma dell'avvenuto trasferimento dell'onorario sul suo conto corrente. La segretaria annullò gli appuntamenti in ufficio e i suoi impegni in tribunale per i tre giorni successivi. Sua moglie passò allo studio a portargli una borsa con quanto gli serviva per il breve viaggio. Un assistente dello studio li condusse all'aeroporto e lungo il tragitto Sandy notò che la giovane donna aveva con sé solo una piccola sacca di pelle, piuttosto vecchiotta per quanto elegante. «Dove alloggia?» le domandò mentre bevevano un analcolico all'aeroporto. «Dove capita» rispose lei guardando dalla finestra.
«Come faccio a contattarla?» «Lo stabiliremo a suo tempo.» Sedettero in terza fila nella cabina di prima classe e per venti minuti dopo il decollo Leah sfogliò in silenzio una rivista di moda mentre lui cercava di leggere il voluminoso fascicolo di una deposizione. Non ne aveva la minima voglia, né era urgente che lo leggesse. Avrebbe preferito parlare, tempestarla di tutte le domande di cui chiunque avrebbe voluto conoscere le risposte. Ma tra loro c'era come un muro, una barriera che non era solo giustificata dalla differenza di sesso e dalla scarsa conoscenza reciproca. Senz'altro lei conosceva le risposte, ma non sembrava per niente turbata alla prospettiva di esserne l'unica depositaria. Così Sandy cercava di tener testa alla sua impassibilità. Furono distribuite noccioline e ciambelle salate. Entrambi rifiutarono lo champagne e si fecero servire acqua minerale. «Allora, da quanto tempo conosce Patrick?» chiese lui con cautela. «Perché lo vuole sapere?» «Scusi. Mettiamola così, c'è niente che mi può riferire di quello che è accaduto a Patrick in questi ultimi quattro anni? In fondo sta parlando con un suo vecchio amico, che ora è anche il suo rappresentante legale. È comprensibile che sia curioso.» «Dovrà chiedere a lui» ribatté lei senza acredine, prima di tornare a dedicarsi alla sua rivista. Sandy sgranocchiò noccioline. Leah attese che l'aereo iniziasse la manovra di atterraggio a Miami prima di parlare di nuovo. Fu un discorso breve, chiaramente preparato. «Io non la vedrò più per qualche giorno. Devo continuare a spostarmi perché sono inseguita. Riceverà le istruzioni da Patrick e per ora io e lui comunicheremo tramite lei. Occhio a tutto quello che non le sembra assolutamente normale. Una telefonata da uno sconosciuto, un'auto che la pedina, qualcuno che gironzola davanti al suo ufficio. Quando si saprà che lei è il suo avvocato, attirerà le persone che stanno cercando me.» «Chi sono?» «Glielo dirà Patrick.» «È lei che ha il denaro, vero?» «Non posso rispondere a questa domanda.» Sandy guardò le nuvole lambire l'ala dell'aereo. Il capitale doveva essere aumentato. Patrick non era un idiota. Lo doveva aver nascosto all'estero, mettendolo nelle mani di investitori professionisti. Doveva aver guadagnato almeno il dodici per cento l'anno.
Non si parlarono più fino a terra. Attraversarono in fretta il terminal per la coincidenza con San Juan. Lei gli strinse con fermezza la mano nel salutarlo. «Dica a Patrick che sto bene.» «Vorrà sapere dov'è.» «In Europa.» Sandy la guardò scomparire tra gli altri viaggiatori e sentì di odiare il vecchio amico. Tutto quel denaro. Una splendida donna ricca di charme esotico e classe. La chiamata per l'imbarco lo risvegliò dalle sue meditazioni. Scosse la testa e si domandò come potesse mai invidiare un uomo che aveva in quel momento la prospettiva di trascorrere dieci anni nel braccio della morte in attesa della pena capitale. Assediato da cento avvocati famelici ansiosi di spellarlo vivo per mettere le mani sul suo denaro. Invidia! Prese posto in prima classe e cominciò a sentirsi addosso il peso dell'incarico che aveva appena assunto. In taxi Eva tornò all'elegante albergo in South Beach dove aveva trascorso la notte. A seconda degli sviluppi a Biloxi, si sarebbe trattenuta ancora qualche giorno. Patrick le aveva raccomandato di non rimanere in uno stesso posto per più di quattro giorni. Si era registrata con il nome di Leah Pires e per il momento era in possesso anche di una carta di credito intestata allo stesso nome, con un indirizzo di São Paulo. Indossò il costume e scese in spiaggia. Erano le prime ore del pomeriggio e fu contenta di trovarla affollata. Anche le sue spiagge di Rio erano affollate, ma lì le era praticamente impossibile non imbattersi in qualche amico. Qui era una sconosciuta, una delle tante anonime bellezze in minibikini a crogiolarsi al sole. Aveva una gran voglia di tornare a casa. 11 Sandy impiegò un'ora per superare il muro di cinta della base navale. Il suo nuovo cliente non gli aveva reso le cose facili. Nessuno sembrava al corrente del suo arrivo, per cui si trovò costretto ad affidarsi al solito repertorio degli avvocati, minacce di denunce immediate, minacce di pericolose telefonate a senatori e altri notabili, e vigorose e rumorose proteste di ogni sorta per la violazione dei diritti suoi e del suo cliente. Arrivò alla direzione dell'ospedale militare che era già buio e questa volta ottenne quasi subito che un'infermiera lo accompagnasse da Patrick.
La camera era immersa nella penombra, rischiarata solo dalla luce azzurrognola di un televisore acceso con l'audio escluso. Stava trasmettendo una partita di calcio dal Brasile. I due vecchi amici si strinsero la mano. Non si vedevano da sei anni. Patrick nascose le ferite sotto il lenzuolo tirato fin sotto il mento. Per qualche secondo sembrò più importante la partita della visita del vecchio compagno di studi. Se Sandy aveva sperato in un abbraccio fraterno, si rassegnò subito a un incontro in tono minore. Studiò il volto di Patrick senza farsi accorgere. Era magro, quasi emaciato, con un mento più squadrato di come lo ricordasse e il naso più affilato. A garantirgli senza ombra di dubbio che fosse la stessa persona, restavano però gli occhi e la voce. «Grazie di essere venuto» mormorò Patrick. Parlava come se farlo gli richiedesse molta fatica e concentrazione. «Non che avessi molta scelta, la tua amica è assai persuasiva.» Patrick chiuse gli occhi e si morsicò la lingua. Formulò una rapida preghiera di ringraziamento. Eva era ancora in salvo e stava bene. «Quanto ti ha dato?» chiese. «Centomila.» «Bene.» Non aggiunse altro e quando la pausa cominciò a prolungarsi, Sandy si rese conto che doveva attendersi una conversazione interrotta da lunghi intervalli di silenzio. «Sta bene» lo informò. «È una gran bella donna. Sveglia, perfettamente padrona della situazione, quale che sia. Nel caso tu te lo stia chiedendo.» «Mi fa piacere sentirtelo dire.» «Quando l'hai vista per l'ultima volta?» «Un paio di settimane fa. Credo.» «Che cos'è, moglie, fidanzata, amante, compagna occasionale...» «Avvocato.» «Avvocato?» «Sì, avvocato.» Sandy ne fu divertito. Patrick ammutolì di nuovo, non una parola, non un movimento sotto il lenzuolo. Trascorsero i minuti. Sandy prese posto sull'unica sedia, rispettando il silenzio dell'amico. Patrick tornava in un mondo popolato di lupi, e se in quel momento voleva contemplare il soffitto per un po', lo avrebbe accontentato. Avrebbero avuto tutto il tempo per parlare. E non sarebbero stati a corto di argomenti. Era vivo ed era la cosa più importante. Sandy si ritrovò a ricordare immagini del funerale e della cerimonia di sepoltura, della bara che veniva
calata nella terra in una giornata fredda e nuvolosa, delle ultime parole del prete e del pianto controllato di Trudy. Era uno spasso pensare che in quel momento il vecchio Patrick era nascosto su un albero non distante, come andavano ripetendo da tre giorni gli organi d'informazione. Si era nascosto da qualche parte e poi aveva fatto scomparire anche il denaro. Ci sono uomini che vanno allo sbando verso i quarant'anni, la crisi della mezza età li spinge tra le braccia di una nuova moglie o a tornare agli studi. Non il vecchio Patrick. Lui aveva celebrato il suo momento di disagio uccidendo se stesso, rubando novanta milioni di dollari e scomparendo nel nulla. I risvolti comici della vicenda furono cancellati all'improvviso dal ricordo del cadavere ritrovato nell'auto carbonizzata. Gli venne voglia di parlare. «C'è un gran bel comitato di benvenuto ad aspettarti a casa, Patrick» disse. «Chi lo presiede?» «Difficile a dirsi. Due giorni fa Trudy ha chiesto il divorzio, ma è il minore dei tuoi problemi.» «Su questo hai ragione. Lasciami indovinare. Suppongo che voglia metà del denaro.» «Sono molte le cose che vuole. Il gran giurì ti ha rimandato a giudizio per omicidio di primo grado. Rischi la pena capitale. A perseguirti sono le autorità statali, non quelle federali.» «L'ho visto in televisione.» «Bene. Allora sai già della frana giudiziaria che ti è cascata addosso.» «Sì. La Cnn è stata molto diligente nel tenermi aggiornato.» «Non puoi biasimarli, Patrick. La tua storia fa gola a tutti.» «Grazie.» «Quando avrai voglia di parlare?» Patrick spostò gli occhi alle spalle di Sandy. Trovò solo la parete, color bianco asettico, ma non stava guardando nemmeno quella. «Mi hanno torturato, Sandy» mormorò e la sua voce fu percorsa da un fremito. «Chi?» «Mi hanno applicato dei cavi elettrici al corpo e mi hanno torturato con la corrente per farmi parlare.» Sandy si alzò e si avvicinò al letto. Gli posò una mano sulla spalla. «Che cosa gli hai raccontato?» «Non lo so. Non ricordo tutto. Mi drogavano. Guarda qui.» Sollevò il braccio sinistro per mostrargli i lividi.
Sandy trovò un interruttore e accese la lampada sul tavolino. «Cristo» sibilò. «Volevano sapere dei soldi» riprese Patrick. «Perdevo i sensi, e quando rinvenivo mi davano altre scariche. Temo di aver detto loro della ragazza.» «L'avvocato?» «Sì, l'avvocato. Che nome ti ha dato?» «Leah.» «Va bene, allora chiamiamola Leah. Può darsi che abbia detto loro di Leah. Anzi, ne sono quasi certo.» «A chi, Patrick?» Lui chiuse gli occhi e reagì con una smorfia a una fitta che gli si riaccendeva nelle gambe. Aveva i muscoli ancora indolenziti e ogni tanto era colto dai crampi. Abbassò il lenzuolo. «Guarda, Sandy» disse mostrando all'amico le due ustioni che aveva sul torace. «Queste ti spiegano perché sono così preoccupato.» Sandy si chinò per esaminargli meglio le piaghe rosse nei punti in cui era stato depilato. «Chi te l'ha fatto?» chiese di nuovo. «Non lo so. C'era molta gente. Una stanza piena.» «Dove?» Patrick provò compassione per l'amico. Capiva l'ansia che aveva di sapere che cosa fosse accaduto. Come il resto del mondo, Sandy desiderava conoscere tutti gli irresistibili dettagli della sua avventura. Era senz'altro un caso sensazionale, ma nemmeno lui sapeva al momento fino a che punto avrebbe potuto esporsi. Nessuno conosceva i particolari dell'incidente in cui era rimasto carbonizzato John Doe. Riteneva comunque di poter confidare al suo avvocato e amico quelli riguardanti la sua cattura e le torture che aveva subito. Si spostò su un fianco e si tirò di nuovo il lenzuolo fino al collo. Da due giorni non permetteva che gli somministrassero altri farmaci, costringendo se stesso a sopportare il dolore. «Avvicina quella sedia, Sandy. E spegni la luce, che mi dà fastidio.» Sandy si affrettò ad accontentarlo. Si sedette il più vicino possibile al suo capezzale. «Ora ti racconto che cosa mi hanno fatto» esordì Patrick nella semioscurità. Cominciò da Ponta Porã, da quando era uscito di casa per fare jogging in campagna e aveva trovato l'utilitaria con la gomma a terra. Ricostruì per lui il momento in cui era stato catturato. Ashley Nicole aveva venticinque mesi quando avevano seppellito suo padre. Era troppo giovane per ricordarsi di Patrick. Lance era l'unico uomo
che viveva in casa, il solo uomo che lei avesse mai visto insieme con la madre. Era lui che ogni tanto l'accompagnava a scuola. Qualche volta mangiavano tutti insieme a casa come una famigliola. Dopo il funerale Trudy aveva nascosto tutte le fotografie e gli altri oggetti appartenuti alla sua vita con Patrick. Ashley Nicole non aveva mai più sentito fare il nome del padre. Ma dopo tre giorni di bombardamenti da parte dei mass media, era inevitabile che la bambina cominciasse a fare domande. Sua madre si comportava in modo strano. C'era una tale tensione in casa che nemmeno una bimba di sei anni poteva evitare di accorgersene. Trudy attese che Lance uscisse per un incontro con l'avvocato e mise la figlia a sedere sul suo letto per quattro chiacchiere in confidenza. Cominciò confessando di essere stata già sposata. Per la verità lo era stata già due volte, ma non reputava che Ashley Nicole dovesse sapere del suo primo marito. L'argomento attuale era il secondo. «Io e Patrick eravamo sposati da quattro anni, poi lui ha fatto una cosa molto brutta.» «Che cosa?» domandò Ashley Nicole, con gli occhi sgranati da un'attenzione forse superiore a quella che Trudy avrebbe desiderato. «Ha ucciso un uomo e ha fatto in modo che, be', ecco... c'è stato un grave incidente stradale, vedi, l'auto si è incendiata, ed era quella di Patrick, e quando la polizia ha trovato un corpo dentro l'automobile, ha pensato che fosse il suo. Tutti lo hanno creduto. Patrick non c'era più, era morto bruciato nella sua vettura, e io ero molto triste. Era mio marito. Gli volevo molto bene e all'improvviso non c'era più. Lo abbiamo seppellito al cimitero. Ora, dopo quattro anni, hanno scoperto che Patrick era nascosto dall'altra parte del mondo. Era scappato facendo finta di essere morto.» «Perché?» «Perché aveva rubato molti soldi ai suoi amici e siccome è un uomo molto cattivo voleva tenere tutti i soldi per sé.» «Ha ucciso un uomo e ha rubato dei soldi.» «Proprio così, tesoro. Patrick non è una brava persona.» «Mi dispiace che l'hai sposato, mamma.» «Già. Ma guarda, cara, c'è una cosa che devi capire. Tu sei nata quando io e Patrick eravamo sposati.» Lasciò quelle parole sospese nell'aria e guardò la figlia negli occhi per vedere se ne capiva il significato implicito. Evidentemente no. Le strinse la mano e si spiegò meglio: «Patrick è tuo padre».
La bambina fissò la madre corrugando la fronte. «Ma io non voglio che sia...» «Mi dispiace, bimba mia. Te l'avrei detto quando tu fossi stata molto più grande, ma ora Patrick sta per tornare ed è importante che tu lo sappia.» «E Lance? Lui non è mio padre?» «No. Io e Lance stiamo assieme e basta.» Trudy non aveva mai permesso che la figlia lo chiamasse papà. E per parte sua Lance non aveva mai mostrato il minimo interesse ad assumere quel ruolo. Trudy era una mamma nubile. Ashley Nicole non aveva padre. Era una situazione del tutto comune e accettabile. «Io e Lance siamo amici da molto tempo» riprese Trudy, mantenendo l'iniziativa per arginare un migliaio di domande. «Amici molto intimi. Lui ti vuole molto bene, ma non è tuo padre. Non il tuo padre naturale. Ho paura che il tuo vero padre sia proprio Patrick, ma non voglio che tu stia in pensiero per causa sua.» «Lui vuole vedermi?» «Non lo so, ma combatterò con tutte le forze per tenerlo lontano da te. È una persona molto cattiva, tesoro. Ti ha lasciato quando avevi due anni. Ha lasciato me. Ha rubato un mucchio di soldi ed è scomparso. Non gli importava niente di noi allora e non gli importa niente ora. Se non lo avessero trovato, non sarebbe mai tornato. Noi non l'avremmo più rivisto. Perciò non pensare a Patrick e a quello che potrebbe fare.» Ashley Nicole le montò sulle ginocchia. Trudy la strinse al petto e l'accarezzò. «Andrà tutto bene, cara, te lo prometto. Avrei preferito mille volte non raccontarti questa storia, ma con tutti i giornalisti là fuori e tutto quello che fanno vedere in televisione, be', non potevo restare zitta.» «Perché c'è tutta quella gente là fuori?» chiese la bambina aggrappata alle braccia della madre. «Non lo so. Vorrei tanto che se ne andassero.» «Che cosa vogliono?» «Foto. Di te, di me. Foto da far pubblicare sui giornali quando scrivono di Patrick e di tutte le cose brutte che ha fatto.» «Dunque sono là fuori per Patrick?» «Sì, cara.» La bambina alzò gli occhi in quelli della madre. «Odio Patrick» dichiarò. Trudy scosse la testa come se volesse rimproverarla, poi la strinse di nuovo a sé con forza e sorrise.
Lance era nato e cresciuto a Point Cadet, una piccola penisola nella baia di Biloxi dove da generazioni viveva una comunità di pescatori di gamberi e approdavano gli immigranti. Tra i molti amici di strada che ancora frequentava dai tempi di allora c'era Cap, quello che era alla guida del camioncino carico di marijuana quando gli agenti della Narcotici li avevano fermati, svegliando Lance che dormiva con il suo fucile tra le balle di canapa indiana. Si erano affidati allo stesso avvocato, avevano ricevuto la stessa condanna e a diciannove anni erano finiti dentro insieme. Cap gestiva un bar e prestava denaro a usura agli operai del conservificio. Come cercavano di fare almeno una volta al mese, Lance andò a trovarlo per bere un bicchiere con lui nel retro del locale. Da quando Trudy era diventata ricca e si erano trasferiti a Mobile, era diventato più difficile rispettare quella scadenza. Cap aveva letto i giornali e, sapendo dei guai che l'amico stava passando, attendeva di vederlo apparire al suo pub con il muso lungo, in cerca di conforto. Bevvero una birra scambiandosi le ultime novità secondo lo stile dei delinquenti di piccolo cabotaggio che non hanno ancora smesso di sognare di diventare ricchi: chi aveva vinto e quanto nelle case da gioco, qual era la fonte più sicura per procurarsi il crack, chi era stato preso di mira dalla Dea. A Cap Trudy non piaceva e spesso aveva riso di Lance perché le correva dietro come un cagnolino. «E la puttana come sta?» gli chiese. «Sta bene. Ma ora che lo hanno preso è preoccupata.» «Fa bene a esserlo. Quanto ha spillato all'assicurazione?» «Un paio di milioni.» «I giornali dicono due e mezzo. Ma da come spende e spande, sono sicuro che non è avanzato molto.» «È al sicuro.» «Al sicuro un corno. Il giornale dice che la compagnia le ha già fatto causa.» «Abbiamo anche noi i nostri avvocati.» «Già, ma non è perché hai i tuoi avvocati che sei qui, giusto? Sei qui perché hai bisogno di aiuto. Gli avvocati non possono fare quello di cui ha bisogno lei.» Lance sorrise e bevve un sorso di birra. Si accese una sigaretta, come gli era vietato fare in presenza di Trudy. «Zeke dov'è?» «Proprio come immaginavo» sbottò Cap. «Lei finisce nelle grane, ri-
schia di rimanere al verde, e allora manda te quaggiù a cercare Zeke o qualche altro balordo per fargli fare qualche troiata. Lui si fa beccare. Beccano te. Tu ti prendi tutta la colpa e lei dimentica persino come ti chiami. Sei un imbecille, Lance, lo sai.» «Sì, lo so. Dov'è Zeke?» «In galera.» «Dove?» «Texas. I federali l'hanno pizzicato mentre trafficava armi. Sei uno stupido e lo sai. Non farlo. Quando riporteranno qui il tuo uomo, gli metteranno addosso un mezzo esercito di sbirri. Lo chiuderanno da qualche parte dove non potrà andargli vicino nemmeno sua madre. Qui ci sono in gioco soldi da capogiro, Lance. Dovranno proteggerlo fino a quando non riusciranno a farlo crollare e a farsi dire dove ha seppellito la grana. Se cerchi di arrivare a lui devi far fuori almeno cinque o sei sbirri. Rimettendoci le penne a tua volta.» «No, se si lavora come si deve.» «E immagino che tu sappia come fare. Non sarà perché non l'hai mai fatto prima? E da quando tanta scienza infusa?» «Posso trovare la gente giusta.» «A che prezzo?» «Qualunque.» «Hai cinquanta bigliettoni?» «Sì.» Cap sospirò e si guardò attorno. Poi si chinò in avanti appoggiandosi ai gomiti. «Lascia che ti spieghi perché è una pessima idea, Lance. Tu non sei mai stato molto sveglio. Alle ragazze sei sempre piaciuto perché ti trovano carino, ma far funzionare il cervello non è mai stato il tuo forte.» «Grazie, sei un vero amico.» «Tutti vogliono quel tizio vivo. Pensaci bene. Tutti. I federali, gli avvocati, gli sbirri, il tizio a cui ha fregato i soldi. Tutti. Esclusa naturalmente quella battona che ti fa vivere a casa sua. Lei ha bisogno che muoia. Se ti va bene, se riesci a farlo fuori, gli sbirri le saltano subito addosso. E lei si fa trovare assolutamente pulita, perché sarai tu ad andarci di mezzo. È a questo che servono quelli che l'intelligenza ce l'hanno tutta sotto l'ombelico. Lui è morto. Lei si tiene la grana, che è l'unica cosa che tutt'e due sappiamo che le interessa, e tu te ne torni a Parchman perché hai dei precedenti, di cui forse ti sei dimenticato. Per il resto dei tuoi giorni. E guarda che non ti scriverà amorevoli letterine.»
«Possiamo farlo per cinquanta?» «Possiamo?» «Sì, tu e io.» «lo posso darti un nome, niente di più. Non mi ci avvicino nemmeno, a questa storia. Non funzionerà e io non ho niente da cavarci.» «Chi è?» «Uno di New Orleans. Ogni tanto viene qui.» «Puoi pensarci tu?» «Sì, ma niente di più. E, ricordati, ti ho avvertito di starne fuori.» 12 Da Miami Eva prese un volo per New York, dove s'imbarcò sul Concorde per Parigi. Dalla capitale francese a Nizza e da lì, attraversando le campagne in automobile, a Aix-en-Provence, un viaggio che aveva fatto con Patrick quasi un anno prima. Era stata l'unica volta in cui Patrick aveva lasciato il Brasile da quando vi si era rifugiato. I posti di frontiera lo terrorizzavano, nonostante la falsificazione perfetta del suo nuovo passaporto. I brasiliani amano tutto ciò che ha a che fare con la Francia e quelli colti il più delle volte ne conoscono la cultura e la lingua. Eva e Patrick avevano occupato una suite a Villa Gallici, un'elegante locanda ai margini della cittadina, e avevano trascorso una settimana spensierata a passeggiare, girare per negozi, fare gite nei paesini tra Aix e Avignone. Avevano passato anche molto tempo in camera, come sposini novelli. Una volta, dopo aver bevuto più del solito, Patrick ne aveva parlato come della loro luna di miele. Prese una stanza più piccola nello stesso albergo e, dopo un breve riposo e un tè nel patio, uscì a fare due passi in città e a guardare le vetrine del Cours Mirabeau, la strada principale. Bevve un bicchiere di vino rosso a un tavolino all'aperto e osservò l'andirivieni degli studenti universitari. Invidiava i giovani innamorati che passeggiavano sereni tenendosi per mano. Le stesse passeggiate che avevano fatto anche lei e Patrick, a braccetto, scambiandosi bisbigli e ridendo come ragazzini senza preoccupazioni. Era stato ad Aix, nell'unica settimana che avevano trascorso insieme senza interruzioni, che si era accorta di quanto poco Patrick dormisse. A qualunque ora si destasse, lui era già sveglio, intento a guardarla quasi a volerla proteggere da qualche pericolo. C'era sempre un abat-jour acceso.
Quando si addormentava la stanza era al buio, ma non quando si svegliava. Allora lui spegneva la luce e la accarezzava amorevolmente facendola riaddormentare, poi si assopiva a sua volta per mezz'ora prima di accendere la luce di nuovo. Era in piedi ben prima dell'alba e di solito, quando lei finalmente lo raggiungeva nel patio, aveva già letto i giornali e qualche capitolo di un giallo. «Mai più di due» le aveva risposto quando gli aveva domandato quante ore fosse abituato a dormire. Era raro che riposasse durante il giorno e non andava mai a letto presto. Non era né nervoso né impaurito. Non portava armi e non frugava negli armadi e sotto i letti. Non guardava con particolare diffidenza gli sconosciuti e raramente parlava della sua vita di latitante. A parte le poche ore di sonno, il suo comportamento era così normale che spesso le faceva dimenticare che era uno degli uomini più ricercati al mondo. Non era incline a ricordare il passato, ma, poiché erano insieme proprio perché lui si era gettato alle spalle la vecchia vita per costruirsene una nuova, era inevitabile che qualcosa nelle loro conversazioni affiorasse. In quei momenti tornava alla sua giovinezza trascorsa a New Orleans, piuttosto che alla vita da adulto dalla quale era fuggito. Era raro che parlasse di sua moglie, una persona che evidentemente disprezzava con tutto il cuore. Qualche volta aveva cercato di parlare di Ashley Nicole, ma il pensiero della figlia gli faceva salire le lacrime agli occhi, allora gli mancava la voce e si scusava preferendo rinunciare. Gli era troppo doloroso. Poiché il passato non era concluso, era difficile pensare al futuro. Era impossibile fare progetti prima che fossero state diradate le ombre che lo perseguitavano. Non si sarebbe concesso di sottoscrivere cambiali per il futuro prima di aver chiuso i conti con il passato. Erano quelle ombre a tenerlo sveglio, lei ne era consapevole. Ombre che Patrick non vedeva, ma di cui avvertiva chiaramente la presenza. Si erano conosciuti due anni prima a Rio, al suo studio, dove lui si era presentato nelle vesti di un imprenditore canadese al momento residente in Brasile. Aveva detto di aver bisogno di un buon avvocato che lo consigliasse sugli aspetti tecnici e burocratici di un'attività di importazione. L'abbigliamento era quello dell'uomo d'affari che voleva sembrare, un vestito di lino con camicia bianca inamidata. Era snello e abbronzato e di modi cordiali. Parlava un ottimo portoghese, ma non buono quanto l'inglese di Eva. Lui voleva parlare nella lingua di lei e lei in quella di lui. Si era-
no ritrovati per una colazione d'affari che era durata tre ore, durante le quali avevano parlato un po' in una lingua e un po' nell'altra, e già quella prima volta era sbocciata tra loro una simpatia che non era solo professionale. C'era stata in seguito una cena, alla quale era seguita una camminata a piedi scalzi sulla spiaggia di Ipanema. Eva era stata sposata con un uomo più anziano di lei, rimasto ucciso in un incidente aereo in Cile. Non aveva figli. Patrick, o Danilo come si era fatto chiamare all'inizio, aveva sostenuto di aver divorziato senza strascichi dalla sola moglie che avesse avuto e che viveva ancora a Toronto. Per due mesi, via via che i loro rapporti si consolidavano, si erano visti più di una volta alla settimana, fino al giorno in cui, finalmente, lui le aveva confessato la verità. Tutta. Dopo una cena consumata a ora tarda a casa di Eva e una bottiglia di buon vino francese, Danilo aveva messo sul tavolo il suo passato denudando davanti a lei la sua coscienza. Aveva parlato senza interruzioni fino alle prime ore del mattino, trasformandosi da grintoso uomo d'affari in fuggiasco impaurito. Impaurito e ansioso, ma ricchissimo. Dopo quello sfogo così impetuoso, per poco non era scoppiato in lacrime e si era trattenuto solo con un grande sforzo. Lei ne era rimasta commossa. Lo aveva abbracciato e baciato e, visto che non lo aveva fatto lui, aveva pianto al posto suo e gli aveva promesso di fare tutto quanto era in suo potere per aiutarlo. Lui le aveva confidato il suo segreto più terribile e pericoloso e lei lo ricambiava promettendogli tutta la riservatezza di cui era capace. Nelle settimane successive lui le aveva detto dov'erano i soldi e le aveva insegnato a spostarli rapidamente da un angolo all'altro del pianeta. Insieme avevano individuato i paradisi fiscali più adatti e trovato i migliori investimenti. Quando si erano conosciuti, Patrick era in Brasile da quasi due anni. Era vissuto dapprima a São Paulo, per trasferirsi poi a Recife, a Minas Gerais e in altri posti ancora. Per due mesi aveva lavorato sul Rio delle Amazzoni, vivendo su una chiatta sotto una fitta zanzariera, aggredita da nugoli di insetti così fitti da non riuscire a vedere la luna. Aveva eviscerato la selvaggina uccisa dai ricchi d'Argentina nel Pantanal, una vasta riserva grande come la Spagna tra gli stati del Mato Grosso e Mato Grosso do Sul. Aveva visto più Brasile di quanto lei ne conoscesse, era stato in luoghi che Eva non aveva mai sentito nominare. Se come residenza finale aveva scelto Ponta Porã non era un caso. Era un luogo piccolo e remoto, in un territorio
che offriva un milione di altri nascondigli possibili, con il vantaggio strategico di trovarsi vicino alla frontiera con il Paraguay, dove emigrare in caso di necessità. Lei, anche se avrebbe preferito che stesse a Rio, non aveva obiettato perché, non sapendo niente di una vita di latitanza, era costretta a fidarsi del suo giudizio. Ripetutamente lui le aveva promesso di raggiungerla un giorno per rimanere con lei per sempre. Per ora si erano accontentati degli incontri nell'appartamento di Curitiba. Brevissime lune di miele che non superavano mai i due giorni. Eva avrebbe desiderato qualcosa di più, ma lui era restio a fare progetti Con il passare dei mesi, Danilo, che lei aveva imparato a non chiamare mai con il vero nome, aveva finito per convincersi che lo avrebbero trovato. Il suo stato di ansia era peggiorato, le sue ore di sonno si erano ulteriormente ridotte e sempre più spesso lui le spiegava come comportarsi se il peggio si fosse verificato. Aveva smesso di parlare del denaro. Era perseguitato da brutti presagi. Si sarebbe trattenuta ad Aix per qualche giorno a guardare i notiziari della Cnn e a leggere gli articoli sul caso pubblicati dalla stampa americana. Di lì a poco avrebbero trasferito Patrick, lo avrebbero riportato in patria e messo in prigione, schiacciandolo sotto ogni genere di incriminazioni. Sapeva anche lui che sarebbe finito dietro le sbarre, ma le aveva assicurato che se la sarebbe cavata, avrebbe resistito e lottato se lei gli avesse promesso di aspettarlo. Sarebbe tornata probabilmente a Zurigo a sistemare i suoi affari. Non era in grado di pianificare altro. L'impossibilità di fare ritorno a casa l'angustiava. Tre volte aveva parlato con suo padre chiamandolo da telefoni pubblici, per tranquillizzarlo sulle sue condizioni di salute e temporeggiare. Con Patrick avrebbe comunicato tramite Sandy, ma sarebbero passate settimane prima che potesse vederlo di nuovo. Poco prima delle due di notte, risvegliato da un dolore penetrante, lui chiese che gli somministrassero un antidolorifico. Era stato come se gli avessero fatto passare di nuovo una scarica elettrica nelle gambe. E nella mente gli risonavano le voci crudeli dei suoi aguzzini. «Dove sono i soldi, Patrick?» intonava un coro demoniaco. «Dove sono i soldi?» Venne ad assisterlo un attendente mezzo addormentato che si dimenticò di portargli dell'acqua fresca con la compressa. Patrick si fece dare un bic-
chiere e mandò giù il farmaco con un resto di bibita intiepidita sul fondo di una lattina. Dieci minuti e non accadde niente. Era fradicio di sudore. Le lenzuola erano inzuppate. Il sale del suo sudore gli faceva bruciare le piaghe. Altri dieci minuti. Accese la televisione. Gli uomini che lo avevano sequestrato e torturato erano ancora vicini, a caccia del denaro, sapevano senza dubbio dove si trovava in quel momento. Si sentiva più al sicuro durante il giorno. L'oscurità e i sogni lo riprecipitavano in quei momenti terribili. Un'altra mezz'ora. Chiamò il posto di guardia degli infermieri, ma non gli rispose nessuno. Si assopì. Ma era sveglio alle sei, quando entrò il suo medico, quel giorno più sbrigativo e professionale del solito. Gli esaminò le ferite con una certa fretta, poi dichiarò che riteneva il suo compito concluso. «Ora può ripartire» gli disse. «Hanno ottimi medici dov'è diretto.» Scrisse qualcosa sulla sua cartella clinica e uscì senza aggiungere altro. Mezz'ora più tardi gli si presentò l'agente Brent Myers, con un sorriso poco simpatico sulle labbra e il distintivo in mano, come se avesse bisogno di esercitarsi nell'esibirlo. «Buongiorno» lo salutò. «Bussare prima di entrare, no, vero?» lo apostrofò Patrick senza alzare gli occhi. «Oh, chiedo scusa. Senti, Patrick, ho appena parlato con il tuo medico curante. Ottime notizie, si torna a casa. Verrai dimesso domani. Ho avuto l'ordine di riportarti indietro. Partiremo domattina. Il tuo governo ti ha organizzato un volo speciale per Biloxi su un aereo militare. Non è emozionante? Io sarò con te.» «Ora vuole andarsene?» «Senz'altro. Ci vediamo domattina presto.» «Vada via.» Uscito l'agente dell'Fbi, fu la volta di Luis. Entrò senza rumore con un vassoio. Gli portava caffè, succo di frutta e fette di mango. Infilò qualcosa sotto il suo materasso e gli chiese se aveva bisogno di altro. No, rispose Patrick, ringraziandolo sottovoce. Un'ora dopo entrò Sandy per quella che si augurava fosse una lunga giornata di escursioni negli ultimi quattro anni alla ricerca delle risposte alle sue innumerevoli domande. Il televisore fu spento, le tapparelle alzate a lasciar entrare la luce del primo mattino. «Voglio che torni a casa al più presto» fu l'esordio di Patrick. «Portando
queste con te.» Gli consegnò una busta. Sandy esaminò con cura le foto dell'amico scattate da Luis. «Quando te le hanno fatte?» domandò. «Due giorni fa.» Sandy ne prese nota. «Chi ti ha fotografato?» «Luis, l'attendente.» «E chi ti ha conciato così?» «Chi mi aveva in custodia, Sandy?» «L'Fbi.» «Allora credo che siano stati quelli dell'Fbi. È stato il mio governo a rintracciarmi, sequestrarmi e torturarmi e adesso è il mio governo che mi fa estradare. Il governo, Sandy. L'Fbi, il dipartimento di Giustizia e le autorità locali, la procura distrettuale e gli altri del mio comitato di benvenuto. Lì hai le prove di quello che mi hanno fatto.» «Dovrebbero essere denunciati per questo.» «Per milioni di dollari. E subito. Ascolta, io parto tra poche ore con un volo militare per Biloxi. Puoi immaginarti anche tu come verrò accolto. Credo che dovremmo approfittarne.» «Approfittarne?» «Sì. Presentiamo la nostra denuncia nel tardo pomeriggio di oggi perché sia sui giornali domattina. Fa' in modo che qualche indiscrezione arrivi ai mass media. Mostra due di quelle foto, quelle che ho contrassegnato sul retro.» Sandy le cercò. Una era un primo piano delle ustioni al petto, scattata in modo che fosse visibile il volto. Nell'altra si vedeva l'ustione di terzo grado alla coscia sinistra. «Vuoi che dia queste ai giornali?» «Solo a quello della Costa. È l'unico che mi stia a cuore. Lo legge l'ottanta per cento della popolazione della contea di Harrison, dove sono sicuro che verranno cercati i membri della giuria per il mio processo.» Sandy sorrise, poi ridacchiò. «Non hai dormito molto questa notte, vero?» «Sono quattro anni che non dormo.» «Fantastico.» «No, ma è uno dei pochi vantaggi tattici che possiamo prenderci sulle iene che si sono avventate sulla mia carcassa. Li anticipiamo con questa bordata e seminiamo qualche dubbio nell'opinione pubblica. Pensaci, Sandy. L'Fbi che tortura un indiziato, un cittadino americano.» «Fantastico, semplicemente fantastico. Ma ce la prendiamo solo con
l'Fbi?» «Sì, sferriamo un contrattacco lineare. Io contro l'Fbi, un'agenzia governativa, per danni permanenti, fisici e psichici, in seguito alle torture subite durante un brutale interrogatorio nelle foreste del Brasile.» «Questa storia mi piace da matti.» «Ti piacerà ancora di più quando sarà intervenuta la stampa.» «Quanto?» «Non m'importa. Dieci milioni per i danni effettivi, cento come punizione esemplare.» Sandy prese nota di nuovo. Cambiò pagina e rialzò gli occhi fissando Patrick. «Ma non erano agenti dell'Fbi, vero?» «No. Io sono stato consegnato all'Fbi da una banda di ignoti criminali che mi davano la caccia da un pezzo. Gente che è ancora in circolazione.» «L'Fbi sa chi sono?» «Sì.» Sandy rimase in silenzio nell'inutile attesa che Patrick aggiungesse qualche chiarimento. Si udivano i rumori delle infermiere in corridoio. Patrick cambiò posizione, erano tre giorni che giaceva sulla schiena. «Ora sbrigati, Sandy. Avremo tutto il tempo di riparlarne. So che hai alcune domande da farmi, ma ti prego, non ora.» «D'accordo.» «Presenta la denuncia facendo tutto il chiasso che puoi. Saremo sempre in grado di correggere il tiro in seguito, chiamando in causa i veri responsabili.» «Nessun problema. Non sarà la prima volta che denuncio quelli sbagliati.» «Fa parte della strategia. Un po' di comprensione ci farà comodo.» Sandy posò sulla sua valigetta il taccuino e le foto. «Sta' in guardia» gli raccomandò Patrick. «Appena si saprà che sei il mio legale, ti troverai nell'occhio di un ciclone.» «Mass media?» «Anche, ma non solo. Ho nascosto un sacco di soldi, Sandy. C'è gente disposta a tutto per trovarli.» «Quanto ti è rimasto?» «Tutto. Con un'aggiunta.» «Può darsi che ti servano fino all'ultimo centesimo per salvare il collo, amico mio.» «Ho un piano.»
«Non ne dubito. Ci vediamo a Biloxi.» 13 Nella vasta rete in cui i pettegolezzi s'intrecciavano alle indiscrezioni, cominciò a circolare la notizia che, poco prima della chiusura della cancelleria, sarebbe stata presentata una nuova denuncia. La rete era già andata in fibrillazione quando si era avuta la conferma che Patrick in persona sarebbe rientrato in patria l'indomani verso mezzogiorno. Sandy invitò i giornalisti ad aspettare nell'atrio del palazzo di giustizia mentre depositava la sua denuncia. Ne distribuì quindi copie alla decina o più di segugi che sgomitavano per guadagnare la prima fila. Tra i molti inviati della carta stampata, c'erano anche due teleoperatori e un corrispondente radiofonico. Lì per lì sembrava una denuncia qualsiasi, presentata dall'ennesimo avvocato in cerca di pubblicità. Tutto cambiò all'annuncio che Sandy rappresentava Patrick Lanigan. Il suo pubblico aumentò d'incanto grazie all'aggiunta di impiegati incuriositi, avvocati di passaggio e persino un usciere. Con calma, Sandy li informò che il suo cliente denunciava l'Fbi per atti di violenza fisica e tortura. Dedicò il tempo necessario a illustrare le sue accuse, poi rispose alla tempesta di domande senza tralasciare nulla e guardando direttamente negli obiettivi delle telecamere. Conservò la sua carta vincente per la mano finale. Tolse dalla valigetta due fotografie a colori, diventate ingrandimenti trenta per quaranta, montati su un pannello di materiale plastico rigido. «Ecco che cos'hanno fatto a Patrick» concluse in tono drammatico. Nell'improvvisa e quasi incontenibile animazione del gruppo, le telecamere si fecero largo per una zumata. «Lo hanno drogato e gli hanno applicato dei cavi elettrici. L'hanno torturato fino a provocargli gravi ustioni perché non voleva e non poteva rispondere alle loro domande. Questo è il vostro governo all'opera, signore e signori, il vostro governo che tortura un cittadino americano. Criminali stipendiati dal governo che si fanno chiamare agenti dell'Fbi!» Lasciò a bocca aperta persino i giornalisti più consumati. Fu un'interpretazione magistrale. La sede televisiva di Biloxi mandò il servizio in onda alle sei dopo aver annunciato novità sensazionali. Quasi la metà del programma fu occupata da Sandy e dalle sue fotografie. L'altra metà riguardava il rientro di Patrick
fissato per l'indomani. Nelle prime ore della sera il servizio cominciò a essere trasmesso dalla Cnn ogni mezz'ora e Sandy diventò l'avvocato del giorno. Le accuse erano troppo clamorose perché si potesse minimizzarle. Quando si accorse del servizio televisivo in onda sullo schermo dell'apparecchio collocato in un angolo, Hamilton Jaynes stava bevendo un aperitivo con i suoi ragazzi al bar di un elegante country club vicino ad Alexandria. Aveva giocato diciotto buche, durante le quali aveva vietato a se stesso di pensare al Bureau e a tutti i suoi grattacapi. Ma ce n'era uno nuovo che gli stava arrivando in quel momento via etere. L'Fbi denunciato da Patrick Lanigan? Si scusò con gli amici e si appartò a comporre un numero sul suo cellulare. Nel ventre dell'Hoover Building in Pennsylvania Avenue c'è un corridoio su cui si affacciano le porte di locali privi di finestre dove alcuni tecnici visionano i notiziari televisivi di tutto il mondo. In altri locali si ascoltano e registrano i programmi radiofonici. Un ultimo locale è riservato alla lettura di riviste e quotidiani. Al Bureau l'intera operazione prende il nome di Accumulazione. Jaynes chiamò il soprintendente in servizio all'Accumulazione e in pochi minuti fu messo al corrente della nuova situazione. Tornò quindi al suo ufficio al secondo piano dell'Hoover Building. Da lì chiamò il procuratore generale e non si meravigliò di venire a sapere che stava cercando di mettersi in contatto con lui. Seguì una sgradevole strigliata, con Jaynes nella parte dell'accusato messo in condizione di aver poco da ribattere. Riuscì comunque a garantire al procuratore generale che l'Fbi non aveva assolutamente niente a che fare con le presunte violenze subite da Patrick Lanigan. «Presunte?» proruppe il procuratore. «Ho ben visto quelle ustioni con questi occhi! Tutto il mondo le ha viste!» «Non siamo stati noi, signore» ribadì con calma Jaynes, confortato dalla consapevolezza di dire la verità. «Allora chi è stato?» pretese di sapere il procuratore generale. «Lei lo sa?» «Sì, signore.» «Bene. Voglio un rapporto di tre pagine sulla mia scrivania alle nove di domani mattina.» «Lo avrà.»
All'altro capo del filo il telefono fu riattaccato in malo modo e Jaynes imprecò e sferrò un calcio alla scrivania. Poi fece un'altra telefonata, in seguito alla quale due agenti sbucarono dall'oscurità e si piazzarono davanti alla porta di casa della famiglia Stephano. Jack aveva seguito i notiziari per tutta la notte e non si stupì che i federali passassero al contrattacco. Dal patio, si era già intrattenuto in conversazione telefonica con il suo avvocato. Alla fine aveva concluso che la situazione era tutta da ridere, con l'Fbi che veniva accusata degli abusi commessi dai suoi uomini. E congratulazioni per la brillante mossa da parte di Patrick Lanigan e del suo legale. «Buonasera» salutò cordialmente. «Lasciatemi indovinare. Siete qui a vendermi ciambelle fresche.» «Fbi, signore» rispose un agente frugandosi in tasca. «Lascia stare, ragazzo. Ormai ti conosco. L'ultima volta che ti ho visto, eri parcheggiato all'angolo e leggevi un giornale cercando di nasconderti dietro il volante. Ma quando eri ancora al college pensavi onestamente di ritrovarti a fare un lavoro così emozionante?» «Il signor Jaynes desidera vederla» intervenne l'altro. «Perché?» «Non lo so. Ci ha detto di venirla a prendere. Vuole che l'accompagniamo al suo ufficio.» «Hamilton che fa le ore piccole?» «Sissignore. Vuole venire con noi?» «Mi state arrestando di nuovo?» «Oh, no.» «Allora mi dite che cosa state facendo? Ho un sacco di avvocati, sapete? Arresto o fermo arbitrario e vi ritrovate nei pasticci.» I due agenti si scambiarono un'occhiata nervosa. Stephano non aveva paura di vedere Jaynes, riteneva di essere perfettamente in grado di gestire la situazione, quale che fosse. D'altra parte correva il rischio di un'incriminazione per reati penali e forse collaborare gli sarebbe servito da attenuante. «Datemi cinque minuti» disse e scomparve dentro casa. Quando entrò, trovò Jaynes in piedi dietro la scrivania a sfogliare le pagine di un voluminoso fascicolo. «Siediti» brontolò il funzionario. Era quasi mezzanotte. «Buonasera, Hamilton» replicò serafico Stephano.
Jaynes lasciò cadere il fascicolo sul tavolo. «Che cosa diavolo gli avete fatto laggiù?» «Io non lo so. Si vede che uno dei brasiliani si è lasciato prendere la mano. Sopravviverà.» «Chi è stato?» «Hamilton, devo avvertire il mio avvocato? È un interrogatorio?» «Non so ancora che cos'è, d'accordo? Il direttore è a casa e in questo momento si sta consultando per telefono con il procuratore generale, il quale, a proposito, non la sta prendendo molto bene. Ogni tot minuti chiamano me e mi danno una lavata di capo sempre più pesante. È una grana seria, capito, Jack? Le accuse sono gravi e in questo momento mezza popolazione del nostro paese sta guardando quelle dannate fotografie e si domanda perché mai abbiamo torturato un cittadino americano.» «Ne sono desolato.» «Dillo a me. Allora, chi è stato?» «Gente di laggiù. Una banda di brasiliani che abbiamo ingaggiato un mese fa quando ci era giunta la soffiata che il nostro amico si trovava da quelle parti. Non so nemmeno come si chiamino.» «Da dove arrivava la soffiata?» «Piacerebbe saperlo anche a me.» «Allora siamo in due.» Jaynes si allentò il nodo della cravatta e si sedette sul bordo della scrivania. Stephano lo guardava con l'aria di chi è in pace con se stesso. Era nelle condizioni di sottrarsi da qualunque stretta in cui l'Fbi tentasse di chiuderlo. Poteva contare su ottimi avvocati. «Ho da proporti un accordo» sospirò Jaynes. «E ascoltando me è come se ascoltassi il direttore in persona.» «Sono qui che friggo.» «Siamo pronti ad arrestare Benny Aricia domani. Lo strombazzeremo ai quattro venti, racconteremo alla stampa che questo tizio che si era fatto soffiare i novanta milioni aveva assunto voi perché rintracciaste Lanigan. E che quando voi lo avete trovato ve lo siete lavorato senza però riuscire a trovare i soldi.» Stephano rimase impassibile. «Poi arresteremo i due amministratori delegati, Atterson alla MonarchSierra Insurance e Jill alla Northern Case Mutual. Sono gli altri due membri del tuo piccolo consorzio, secondo quanto abbiamo ricostruito. Facciamo irruzione nei loro uffici principeschi con tanto di telecamere al seguito, li trasciniamo fuori in manette e li sbattiamo sui cellulari. Massima
copertura degli organi d'informazione, sia chiaro. E specificheremo per filo e per segno che questa gente ha aiutato Aricia a finanziare la tua piccola missione in Brasile alla caccia di Patrick. Pensaci, Stephano. I tuoi clienti saranno arrestati e schiaffati dentro.» Stephano avrebbe voluto chiedere come diavolo fossero riusciti a identificare gli altri della sua squadra, ma la risposta era intuitiva: avevano semplicemente individuato le persone che ci avevano rimesso di più. «Ti mando in malora, lo sai» aggiunse Jaynes con finta compassione. «Che cosa vuoi?» «L'idea è semplice. Tu ci racconti tutto, come lo avete trovato, che cosa vi ha raccontato, tutto quanto. Abbiamo molte domande. Tu ci dai le risposte e noi lasciamo cadere le accuse contro di te e non torciamo un capello ai tuoi clienti.» «È un sopruso bell'e buono.» «Bravo. Il manuale lo abbiamo scritto noi. Il tuo problema è che noi siamo in grado di umiliare i tuoi clienti e farti chiudere bottega.» «Tutto qui?» «No. Con un po' di fortuna, facciamo finire in galera anche te.» C'erano molti buoni motivi per accettare l'accordo, non ultimo la signora Stephano. Viveva come un disonore il fatto che l'Fbi sorvegliasse casa loro giorno e notte e che avessero posto sotto controllo i loro telefoni, tant'è che il marito si assentava quando doveva parlare telefonicamente con qualcuno. Era sull'orlo di una crisi di nervi, non sopportava di essere ritenuta una persona meno che rispettabile. Lasciando intendere di essere in possesso di informazioni di valore, Stephano aveva indirizzato l'Fbi proprio dove desiderava. Avrebbe potuto farsi scagionare, proteggere i suoi clienti e soprattutto mettere in moto le considerevoli risorse dei federali per rintracciare il denaro. «Dovrò sentire il mio avvocato.» «Ti do tempo fino alle cinque di domani pomeriggio.» Patrick vide le sue ustioni nell'edizione notturna della Cnn, a colori. Erano sulle fotografie che Sandy agitava come un pugile che esibisse al mondo la cintura del campionato appena vinto. Il servizio ricostruiva tutto quanto era avvenuto quel giorno. Nessuna reazione ufficiale da parte dell'Fbi, secondo il corrispondente piazzatosi davanti all'Hoover Building a Washington. Luis, che per caso era nella sua stanza in quel momento, trasalì, poi spo-
stò lo sguardo dal televisore al letto, dove Patrick seguiva il notiziario con un sogghigno. «Le mie foto?» chiese nel suo inglese dal forte accento spagnolo. «Sì» rispose Patrick con una gran voglia di ridere. «Le mie foto» ripeté Luis con orgoglio. La storia dell'avvocato americano che aveva messo in scena la propria morte, aveva assistito al proprio funerale, aveva rubato novanta milioni di dollari dallo studio per il quale lavorava ed era stato catturato quattro anni dopo in Brasile, dove conduceva una vita modesta sotto falso nome, occupò qualche minuto di lettura d'evasione in gran parte dell'Occidente. Eva lesse l'ultimo episodio pubblicato da un giornale americano mentre beveva un caffè sotto il tendone di Les Deux Garçons, al tavolino dove andava a sedere tutti i giorni. Pioveva e un velo di umidità aveva ricoperto i tavoli e le sedie intorno a lei. L'articolo era sepolto in mezzo a tutti gli altri della prima pagina. Vi si descrivevano le ustioni di terzo grado, ma non c'erano fotografie. Eva si sentì spezzare il cuore e inforcò gli occhiali scuri per nascondere gli occhi. Patrick tornava a casa. Ferito e incatenato come un animale, stava per compiere il viaggio a cui sapeva di essere predestinato. E lei lo avrebbe raggiunto. Si sarebbe tenuta nascosta dietro le quinte, pronta ad aiutarlo e a pregare per entrambi. E di notte, come Patrick, avrebbe sofferto nella solitudine della sua stanza chiedendosi che cosa sarebbe stato del loro futuro. 14 Per il viaggio di ritorno Patrick scelse un paio di camici verdi da chirurgo di un paio di taglie superiori alla sua per essere sicuro di non aggravare le ustioni. Il volo era senza scalo, ma sarebbe durato comunque due ore e lui voleva essere il più comodo possibile. Il medico gli consegnò un flacone di antidolorifici e la sua cartella clinica. Patrick lo ringraziò. Strinse la mano a Luis e salutò un'infermiera. Myers lo aspettava alla porta con quattro robusti agenti della polizia militare in borghese. «Sono pronto a fare un patto con te, Patrick» gli disse. «Se ti comporti bene, niente manette e catene. Solo per ora, s'intende, perché dopo che saremo atterrati non avrò scelta.» «Grazie» rispose Patrick avviandosi a cauti passi per il corridoio. Gli dolevano le gambe fino all'articolazione dell'anca e aveva le ginocchia inde-
bolite per la mancanza di esercizio. Camminò a testa alta, con le spalle spinte all'indietro, salutando con cenni del capo le infermiere che incrociava. Nel sotterraneo lo attendeva un furgone blu con altri due agenti della polizia militare, armati e dall'aria bellicosa. Sorretto da una mano forte, Patrick fu aiutato a sedere sulla panca di mezzo. Un poliziotto gli porse un paio di occhiali scuri da aviazione. «Si metta questi» gli consigliò. «Fuori c'è molto riverbero.» Il veicolo non lasciò mai la base. Viaggiò ad andatura ridotta sull'asfalto piagato dal sole e transitò per alcuni posti di blocco senza mai superare i cinquanta chilometri orari. Nessuno parlò. Attraverso i vetri oscurati dei finestrini Patrick guardò scorrere file di dormitori, poi le palazzine degli uffici, poi un hangar. Era lì da quattro giorni. Forse tre. Non lo sapeva con certezza per lo stordimento in cui era vissuto all'inizio sotto l'effetto dei farmaci. Nell'aria fresca che usciva dalle bocchette del cruscotto, strinse più forte la sua cartella clinica, unico oggetto che in quel momento potesse dire di possedere. Pensò a Ponta Porã, quella che era ormai la sua casa, e si chiese se aveva lasciato dietro di sé qualcuno che sentisse la sua mancanza. Che cosa avevano fatto della sua abitazione? La donna di servizio ci andava ancora? Probabilmente no. E la sua automobile, il suo Maggiolino rosso che amava tanto? Chissà che cosa dicevano di lui le poche persone che conosceva. Probabilmente niente. Al contrario, quelli di Biloxi avevano percepito più che mai la sua mancanza. Ecco che torna il figliol prodigo. Il più famoso biloxiano del pianeta torna a casa e come intendono accoglierlo? Con catene e avvisi di reato. E perché non una bella sfilata per la Highway 90, lungo la Costa, a celebrare il concittadino che aveva fatto fortuna? Era grazie a lui se la loro città era diventata famosa, chi altri era stato tanto furbo da accaparrarsi novanta milioni di dollari? Quasi rise del proprio infantilismo. In quale prigione lo avrebbero chiuso? Da avvocato, in momenti diversi le aveva viste tutte, quelle cittadine della contea senz'altro, inclusa persino una cella federale presso la base aerea di Keesler a Biloxi. Un privilegio che a lui non sarebbe stato certo accordato. Chissà se avrebbe avuto una cella tutta per sé o si sarebbe trovato in compagnia di ladri e teste calde. Gli venne un'idea. Aprì la cartelletta e scorse gli appunti del medico. Trovò la frase che cercava scritta in stampatello:
RACCOMANDO CHE IL PAZIENTE VENGA TENUTO IN OSSERVAZIONE E IN AMBIENTE MEDICO PER ALMENO UN'ALTRA SETTIMANA. Che Dio gliene rendesse merito! Perché non ci aveva pensato subito? I farmaci. In quell'ultima settimana il suo povero organismo era stato imbottito di sostanze narcotizzanti. Avrebbe potuto imputare a droghe e farmaci i suoi vuoti di memoria e la sua scarsa capacità di giudizio. Aveva un disperato bisogno di far avere al più presto una copia della sua cartella clinica a Sandy, perché gli preparassero un bel letto comodo, preferibilmente in una camera privata presidiata da uno stuolo di infermiere. Quello era il tipo di detenzione che lui aveva in mente. Piazzassero pure dieci poliziotti alla porta, gli bastava che gli mettessero a disposizione un giaciglio a inclinazione regolabile lontano mille miglia dai criminali comuni. «Devo fare una telefonata» annunciò genericamente rivolto in direzione del conducente. Nessuna risposta. Si fermarono a un grande hangar davanti al quale era in attesa un velivolo da trasporto. I militari attesero al sole che Patrick e Myers, appartatisi nel piccolo ufficio, si consultassero sul presunto diritto costituzionale di un imputato di inoltrare telefonate o inviare documenti via fax al suo rappresentante legale. Le minacce di Patrick convinsero Myers a soprassedere e allo studio di Sandy McDermott a New Orleans furono spedite in facsimile le istruzioni che il medico aveva accluso alla cartella clinica. Dopo una sosta prolungata alla toilette, Patrick tornò dalla sua scorta e montò lentamente a bordo del C-120. L'aereo atterrò alla base di Keesler venti minuti prima di mezzogiorno. Contro le previsioni di Patrick a riceverlo non c'era nessuno, né giornalisti e teleoperatori, né vecchi amici accorsi per confortarlo in quell'ora difficile. Ordini superiori avevano momentaneamente escluso sia gli estranei sia i rappresentanti degli organi di informazione, e questi ultimi, che si erano raccolti in un folto gruppo vicino all'ingresso principale, a un paio di chilometri dalla pista, dovettero accontentarsi di fotografare il velivolo in fase di atterraggio. La delusione generale era bruciante.
Non inferiore era quella di Patrick, che aveva sperato di essere visto da tutti mentre sbarcava nel suo camice, scendendo a fatica le scalette e zoppicando sull'asfalto come un cane storpio in manette e catene. Era un'immagine che si sarebbe impressa in maniera indelebile nella mente di tanti potenziali giurati. Il quotidiano locale aveva dato ampio spazio in prima pagina alla sua denuncia, con tanto di fotografie a colori. Solo l'animo più insensibile avrebbe potuto non provare alcuna compassione per Patrick in un momento come quello. E i suoi avversari, governo, procura e polizia, avevano accusato il colpo. Sarebbe dovuta essere una giornata di gloria per coloro che avevano catturato un avvocato, reo di un furto così clamoroso; invece l'Fbi si era defilato alzando un muro invalicabile tra sé e i mass media. Solo Cutter, che aveva l'ordine di contattarlo appena avesse messo piede a terra, si era presentato alla base aerea, seppure con tutte le precauzioni del caso. Lo aspettava in compagnia dello sceriffo Sweeney, due ufficiali della base e Sandy. «Salve, Patrick. Bentornato a casa» lo salutò lo sceriffo. Patrick tese i polsi ammanettati e cercò di stringergli la mano. «Salve, Raymond» rispose con un sorriso. Si conoscevano bene per essersi molto frequentati per motivi professionali. Quando Patrick si era stabilito in città, Raymond Sweeney era vicesceriffo della contea da nove anni. Cutter si fece avanti per presentarsi, ma, non appena lo sentì menzionare l'Fbi, Patrick rivolse un cenno a Sandy. Salirono a bordo di un furgone della marina militare, quasi identico a quello che lo aveva scaricato davanti all'aeroplano in Puerto Rico, prendendo posto sul sedile posteriore. «Dove andiamo?» chiese Patrick sottovoce al suo avvocato. «All'ospedale della base» gli sussurrò Sandy. «Per motivi clinici.» «Ottimo lavoro.» A passo d'uomo il veicolo superò un posto di controllo, la cui guardia sollevò gli occhi solo per un secondo dalle pagine sportive che stava leggendo, e imboccò poi un vialetto tranquillo in mezzo agli alloggi dei funzionari. La vita del fuggiasco era piena di sogni, quelli notturni, che venivano durante il sonno ed erano veri sogni, e quelli che la mente elaborava durante la veglia, quando si distraeva. Perlopiù erano orribili incubi nati da ombre sempre più minacciose, ma altri erano palpitanti aspirazioni a un futuro roseo, affrancato. Questi ultimi erano rari, aveva scoperto Patrick, perché la vita in fuga è vita vissuta tutta nel passato. Senza un punto d'arrivo.
Altri sogni erano semplici interrogativi su come sarebbe stato il rimpatrio, chi avrebbe trovato ad accoglierlo, che effetto gli avrebbe fatto respirare di nuovo l'aria del Golfo, in quale stagione avrebbe rivisto i luoghi del suo passato, quanti dei vecchi amici lo avrebbero cercato e quanti lo avrebbero evitato. Ripensava a certe persone che avrebbe rivisto volentieri e si chiedeva se fosse un sentimento contraccambiato. Sarebbe stato visto come un lebbroso o come una celebrità? La conclusione della fuga portava con sé un conforto, circoscritto ma innegabile. Lo attendevano problemi terribili, ma almeno poteva lasciarsi alle spalle quelli vissuti di recente. La verità era che non aveva mai potuto abbandonarsi del tutto ai piaceri della sua nuova vita. Nemmeno il denaro poteva fugare i suoi timori. Sapeva di non poter evitare il giorno della resa dei conti, erano troppi i soldi che aveva rubato. Per una somma molto inferiore forse le vittime non sarebbero state altrettanto risolute nel rintracciarlo. Notava piccoli particolari durante il tragitto. I vialetti dei villini erano asfaltati, fatto raro in Brasile, almeno a Ponta Porã. E i bambini giocavano con le scarpe ai piedi, mentre in Brasile erano sempre scalzi, correvano su piante dei piedi coriacee come gomma. Ebbe a un tratto nostalgia della quiete del suo viale, Rua Tiradentes, dove echeggiavano le grida dei bambini affannati nelle loro partitelle. «Tutto bene?» s'informò Sandy. Annuì. Sandy prese dalla cartella una copia del quotidiano locale pubblicato quel giorno. Un titolo campeggiava in prima pagina: LANIGAN DENUNCIA FBI PER SEQUESTRO E TORTURE. Due fotografie occupavano metà pagina. Patrick contemplò per qualche istante l'articolo con ammirazione. «Lo leggerò più tardi.» Con Cutter seduto davanti a sé, Patrick era costretto a evitare argomenti che potessero comprometterlo e gli andava bene così. Davanti all'ospedale della base, fu fatto passare da una porta di servizio e condotto lungo un corridoio. Due analisti di laboratorio si fecero da parte. «Bentornato a casa, Patrick» lo apostrofò il primo. Bella faccia di bronzo. Niente lungaggini burocratiche lì, nessun documento per il ricovero, nessuna domanda su polizze d'assicurazione a cui mandare le fatture. Fu accompagnato subito al secondo piano e sistemato in una camera in fondo al corridoio. Cutter e lo sceriffo se ne andarono dopo poche istruzioni che
rientravano nell'ordinaria amministrazione: uso limitato del telefono, piantoni alla porta, pasti consumati in camera. Patrick fu lasciato solo con Sandy. Si sedette sulla sponda del letto. «Vorrei vedere mia madre» disse. «Arriva. Sarà qui all'una.» «Grazie.» «E tua moglie e tua figlia?» «Vorrei vedere Ashley Nicole, ma non ora. Sono sicuro che non si ricorda di me. Ormai penserà che sono un mostro. E per motivi più che ovvi preferisco non vedere Trudy.» Bussarono forte alla porta. Lo sceriffo Sweeney era di ritorno, con un fascio di fogli di carta. «Scusa il disturbo, Patrick, ma sono qui per motivi professionali. Vorrei sbrigare la faccenda al più presto.» «Prego, sceriffo.» «Devo consegnarti questi. Per cominciare c'è un avviso di convocazione in giudizio da parte del gran giurì della contea di Harrison per omicidio di primo grado.» Patrick prese il documento senza guardarlo e lo girò a Sandy. «Qui c'è una citazione per la richiesta di divorzio presentata da Trudy Lanigan a Mobile.» «Ma che sorpresa» commentò Patrick. «Su quali basi?» «Non ho letto. Qui c'è una citazione da parte di un certo signor Benjamin Aricia.» «Chi?» chiese Patrick in un patetico tentativo di fare dello spirito. Lo sceriffo non lo trovò divertente. «Qui c'è una citazione per l'esposto presentato dal tuo vecchio studio legale.» «Loro quanto vogliono da me?» s'informò Patrick prendendo in mano l'ennesimo avviso giudiziario. «Non ho letto neanche quello. Qui c'è la citazione per l'esposto della Monarch-Sierra Insurance.» «Ah, sì, ricordo.» Patrick consegnò anche l'ultimo avviso a Sandy. Lo sceriffo non aveva altro. «Mi dispiace, Patrick» mormorò Sweeney. «Finito?» «Per ora sì. Passerò in cancelleria a vedere se c'è dell'altro.» «Fammi avere tutto al più presto. Sandy è uno che lavora alla svelta.» Si strinsero la mano, questa volta senza l'ostacolo delle manette, poi lo
sceriffo si accomiatò. «Raymond mi è sempre stato simpatico» disse Patrick con le mani sui fianchi, mentre fletteva lentamente le ginocchia. Compì il movimento solo per metà prima di rialzarsi. «Ho parecchio da lavorare, Sandy. Sono tutto indolenzito.» «Ottimo. Servirà alla difesa.» Sandy sfogliò i documenti. «Sembra che Trudy ce l'abbia a morte con te. Ti vuole scaricare in via definitiva.» «Io ho fatto di tutto per andarle incontro. Che cosa mi imputa?» «Abbandono del tetto coniugale. E crudeltà mentale.» «Robetta.» «Hai intenzione di opporti?» «Dipende da che cosa vuole.» Sandy passò a un'altra pagina. «Be', a leggere qui sembra che voglia il divorzio, custodia esclusiva della figlia con sospensione totale di tutti i tuoi diritti paterni, incluso quello di farle visita, tutti i beni mobiliari e immobiliari posseduti in comunione al tempo della tua scomparsa, è proprio così che la definisce, scomparsa, più, ah... ecco, una percentuale ragionevole dei beni che tu possa aver acquisito dopo la tua scomparsa.» «Sorpresa, sorpresa.» «Questo è quanto, almeno per ora.» «Le concederò il divorzio, Sandy, con tutto il cuore. Ma non sarà facile come crede lei.» «Che cos'hai in mente?» «Ne parliamo un'altra volta. Ora sono stanco.» «Patrick, non possiamo continuare a rimandare. Che tu te ne renda conto o no, abbiamo un sacco di cose da discutere.» «Più tardi. Ora devo riposare. Mamma sarà qui a momenti.» «Bene. Ora che faccio a pugni con il traffico di New Orleans, parcheggio da qualche parte e percorro il resto della strada a piedi, avrò bisogno di due ore per arrivare in ufficio. Quando hai in mente di vedermi di nuovo?» «Scusami, Sandy. Sono stanco. Vogliamo provare domattina? Sarò riposato e potremo lavorare tutto il giorno.» Sandy sospirò e ripose i documenti nella cartella. «Va bene. Sarò qui alle dieci.» «Grazie, Sandy.» Uscito l'avvocato, Patrick poté tirare il fiato per non più di otto minuti, prima che la sua stanza fosse invasa da una squadra di infermiere. «Salve, io sono Rose, la sua capoinfermiera» si presentò una di loro. «Dobbiamo
visitarla. Può togliersi la camicia?» Non era una richiesta. Rose gliela stava già sfilando. Altre due infermiere, non meno nerborute di lei, lo affiancarono e cominciarono a spogliarlo. Sembravano divertirsi. Un'altra infermiera ancora era pronta con un termometro e un contenitore di strumenti vari dall'aspetto sinistro. C'erano anche due uomini, uno che lo osservava dai piedi del letto e un altro che, in giacca arancione, montava di guardia alla porta. Per una quindicina di minuti lo visitarono con il massimo scrupolo. Patrick chiuse gli occhi e lasciò fare. Se ne andarono quasi d'incanto com'erano arrivati. L'incontro tra Patrick e la madre fu commovente. Lui le chiese scusa una sola volta, per tutto. Lei accettò le sue giustificazioni e lo perdonò con l'indulgenza di cui è capace solo una madre. La gioia di rivederlo dissolse la contrarietà che aveva naturalmente inquinato i suoi sentimenti materni in quegli ultimi quattro giorni. Joyce Lanigan aveva sessantotto anni e godeva di una salute relativamente buona, dovendo guardarsi solo dalla pressione alta. Suo marito, il padre di Patrick, l'aveva lasciata vent'anni prima per mettersi con una donna più giovane ed era prontamente morto di infarto. Né lei né Patrick erano stati ai suoi funerali in Texas. Al momento del decesso, la seconda moglie era incinta. A diciassette anni, il figlio, fratellastro di Patrick, aveva ucciso due agenti della Narcotici infiltrati in una banda e ora attendeva la fine nel braccio della morte di Huntsville. Erano panni sporchi di famiglia che nessuno conosceva a New Orleans e a Biloxi. Patrick non ne aveva mai parlato né a Trudy né a Eva. Inutile che lo sapessero. Un destino crudele voleva che entrambi i figli del padre di Patrick fossero incriminati di omicidio di primo grado. Uno era già stato condannato, l'altro aveva scarse possibilità di evitarlo. All'epoca in cui il padre se n'era andato per sopravvivere ancora solo per breve tempo, Patrick era al college. La madre aveva faticato ad adattarsi alla vita di divorziata di mezza età senza esperienze di lavoro. Aveva mantenuto la casa e riceveva dall'ex marito il minimo indispensabile per tirare avanti senza doversi cercare un impiego. Di tanto in tanto faceva supplenze alla scuola elementare, ma preferiva restare a casa a trafficare in giardino, guardare soap opera in televisione, bere tè con le amiche del vicinato. Patrick l'aveva sempre trovata deprimente come carattere, specialmente dopo l'abbandono del genitore, che per lui non era stato particolarmente
penoso, dato che gli aveva fatto da padre non più di quanto avesse fatto da marito a sua madre. L'aveva incoraggiata a uscire di casa, trovarsi un lavoro, dedicarsi a qualcosa, vivere un po', vederla come un'occasione per ricominciare. Ma lei si compiaceva troppo delle sue sventure. Via via che Patrick si impegnava nella professione, aveva trascorso sempre meno tempo con lei. Poi si era trasferito a Biloxi, aveva sposato una donna che sua madre detestava e via di seguito. Le domandò notizie di zii e cugini, persone di cui aveva perso le tracce già prima della sua falsa dipartita, persone a cui in quei quattro anni non aveva mai pensato. S'informò solo perché sapeva che lei si aspettava che lo facesse. Venne a sapere che in complesso stavano tutti bene. No, non voleva vederne nessuno. Loro erano ansiosi di rivedere lui. Strano. Prima non lo erano mai stati. Erano preoccupati per la sua sorte. Strano anche quello. Conversarono per due ore senza accorgersi del passare del tempo. Lei lo rimproverò per quanto era dimagrito. Pelle e ossa, lo definì. Si meravigliò della nuova fisionomia, dei capelli scuri. Disse ogni sorta di cose materne, poi ripartì per New Orleans. Lui le promise di tenersi in contatto. Lo prometteva sempre, pensò lei mentre saliva in macchina. Poi non si faceva mai vivo. 15 Da una suite all'Hay-Adams Hotel, Stephano trascorse la mattina attaccato al telefono con alti dirigenti ansiosi. Era stato facile convincere Benny Aricia che l'Fbi stava per arrestarlo, fotografarlo, prendergli le impronte digitali e metterlo sotto il torchio. Altro paio di maniche con pezzi grossi come Paul Atterson della Monarch-Sierra Insurance e Frank Jill della Northern Case Mutual. Appartenevano entrambi a quella classe di amministratori d'alto rango con stipendi da capogiro e schiere di subalterni con il compito preciso di tenere a distanza tutte le grane. Arresti e incriminazioni erano per le classi inferiori. La collaborazione dell'Fbi fu preziosa. Hamilton Jaynes mandò agenti alla Monarch di Palo Alto e alla Northern Case Mutual a St. Paul con l'in-
carico di sottoporre i due amministratori delegati a un fuoco di fila di domande sulle ricerche e la cattura di un certo Patrick Lanigan. Entrambi gettarono la spugna prima di mezzogiorno. Richiama i tuoi mastini, implorarono Stephano. La ricerca è conclusa, mettiti a disposizione dell'Fbi e, per l'amor del cielo, fa' qualcosa perché questi agenti se ne vadano. La loro presenza ci sta mettendo in grave imbarazzo. Così il consorzio si sciolse. Stephano lo aveva tenuto insieme per quattro anni e così facendo aveva intascato quasi un milione di dollari. Altri due milioni e mezzo li aveva spesi per conto dei suoi clienti ottenendo un risultato di cui poteva andare fiero. Avevano ritrovato Lanigan. Non avevano trovato i novanta milioni, ma sapevano che c'erano ancora. Non erano stati spesi. La speranza di recuperarli restava. Per tutta la mattina Benny Aricia tenne compagnia a Stephano. Era accanto a lui a leggere giornali, a fare telefonate a sua volta, ad ascoltare le sue conversazioni. All'una telefonò al suo avvocato di Biloxi e ricevette la notizia dell'arrivo di Patrick. Praticamente senza fanfare. L'emittente televisiva locale aveva mandato in onda un servizio a mezzogiorno, con tanto di immagini del C-120 che si accingeva ad atterrare a Keesler: più di quello non erano riusciti a trovare. Anche lo sceriffo confermava il rientro del latitante. Aveva riascoltato tre volte il nastro della tortura, fermandosi spesso sui punti che gli davano maggiore soddisfazione. Un paio di giorni prima, in volo dalla Florida, lo aveva ascoltato in cuffia, seduto in prima classe a bere un aperitivo, e aveva sorriso alle urla agghiaccianti di un uomo che chiedeva pietà. Ora sorridere gli era diventato più difficile. Era quasi sicuro che Patrick avesse confessato tutto quello che poteva e non era abbastanza. Patrick sapeva che prima o poi lo avrebbero preso e per questo aveva astutamente affidato il denaro alla ragazza, la quale a sua volta si era incaricata di farlo scomparire in un nascondiglio sconosciuto anche a lui. Brillante. «Che cosa possiamo fare per trovarla?» chiese a Stephano durante la pausa per uno spuntino. Era una domanda che riaffiorava in continuazione. «Che cosa dobbiamo fare o quanto dobbiamo pagare?» «Quanto dobbiamo pagare, immagino.» «Non ne ho idea. Non sappiamo dov'è, ma sappiamo che con tutta probabilità rispunterà dalle parti di Biloxi, ora che c'è qui il suo fidanzato. Abbiamo motivo di sperare.»
«Quanto?» «Diciamo centomila, senza garanzie. Finiti i soldi, lasciamo perdere.» «È possibile che i federali vengano a sapere che stiamo ancora cercando?» «No.» Benny ruotò il cucchiaio nella sua minestra. Dopo i quasi due milioni di dollari già spesi, gli sembrava stupido non fare quell'ultimo tentativo. Anche di fronte a scarse probabilità di successo, il gioco valeva la candela. E in fondo era lo stesso a cui giocava ormai da quattro anni. «E se la trovi?» domandò. «La facciamo parlare» rispose Stephano. Si scambiarono una smorfia al pensiero spiacevole di ripetere su una donna le pressioni già esercitate su Patrick. «E il suo avvocato?» chiese finalmente Aricia. «Non possiamo piazzargli delle cimici in ufficio e a casa, cercare di sapere che cosa si dicono quando parla con il suo cliente? Dovranno pur affrontare il tema dei miei quattrini.» «È una possibilità. Parli sul serio?» «Sul serio? Io ho in ballo novanta milioni, Jack. Meno un terzo per quelle sanguisughe di avvocati. Come faccio a non essere serio?» «Potrebbe essere complicato. Quell'avvocato non è un cretino e il suo cliente è iperdiffidente.» «Non calarmela troppo dall'alto, Jack. Tu stesso ti vanti di essere il migliore. E sei certamente il più costoso.» «Possiamo cominciare standogli alle costole per un paio di giorni, vedere com'è la sua situazione. Non abbiamo fretta. Per un po' il suo cliente non si muove di sicuro. Ora come ora il mio primo problema è togliermi dai piedi i federali. Ho qualche piccola incombenza a cui badare, come riaprire il mio ufficio e disinfestare i miei telefoni.» Aricia sbuffò. «Quanto mi costerà?» «Non lo so. Ne parliamo dopo. Finisci di mangiare, che gli avvocati stanno aspettando.» Stephano uscì per primo, a piedi, e lanciò un saluto cordiale ai due agenti parcheggiati in sosta vietata. In pochi minuti raggiunse lo studio del suo avvocato. Benny gli diede il tempo di allontanarsi, poi uscì a sua volta e salì su un taxi. Trascorsero il pomeriggio in una sala riunioni affollata di avvocati e assistenti. Usarono il fax per comunicare con i rappresentanti legali dell'Fbi,
finché fu raggiunto un accordo che entrambe le parti giudicarono soddisfacente. Le accuse contro Stephano sarebbero state ritirate e nessuna azione sarebbe stata intrapresa ai danni dei suoi clienti. L'Fbi in cambio ricevette la promessa scritta di essere messo al corrente di tutto quello che lui sapeva sulle ricerche e sulla cattura di Patrick Lanigan. Stephano aveva veramente intenzione di riferire loro quasi tutto quello che sapeva. La ricerca si era conclusa, perciò non c'era più niente da nascondere. L'interrogatorio aveva dato scarsi risultati, solo il nome dell'avvocato brasiliano che aveva accesso diretto al denaro. Ora l'avvocato in questione, una donna, era scomparso nel nulla ed era poco probabile che l'Fbi si lanciasse sulle sue tracce. Non erano loro ad averci rimesso i quattrini. E, per quanto si sforzasse di non darlo a vedere, Stephano non vedeva l'ora di sbarazzarsi di quella scomoda compagnia. Sua moglie non lo lasciava più in pace e quanto alla professione, se non avesse riaperto l'ufficio al più presto, rischiava il fallimento. Così aveva in mente di dire loro tutto o quasi quello che volevano sentire. Avrebbe preso i soldi di Benny, quel che restava, e avrebbe cercato di rintracciare quella donna. Chissà, magari con un colpo di fortuna... E avrebbe spedito una squadra a New Orleans a sorvegliare l'avvocato di Lanigan. Tutti piccoli particolari che era inutile raccontare all'Fbi. Visto che non c'era un solo centimetro quadrato disponibile nel palazzo federale di Biloxi, Cutter chiese allo sceriffo Sweeney di trovargli una sistemazione presso la prigione di contea. Sweeney si rassegnò malvolentieri, poco contento di avere i funzionari dell'Fbi in giro per i suoi uffici. Svuotò un ripostiglio e vi piazzò un tavolo e qualche seggiola. Il locale fu ribattezzato Stanza Lanigan. La documentazione al riguardo scarseggiava. Quando Patrick era morto, nessuno aveva sospettato che dietro quel decesso si nascondesse un omicidio, cosicché non si erano compiuti sforzi particolari per raccogliere prove o indizi almeno per le prime sei settimane. I sospetti erano sorti quando era scomparso il denaro, ma ormai la pista era vecchia. Cutter e Ted Grimshaw, l'investigatore capo della contea di Harrison, esaminarono e inventariarono con attenzione il poco che avevano, cioè dieci ingrandimenti a colori della Chevy Blazer bruciata, che fissarono a una parete. Le foto erano state scattate da Grimshaw. Ora sapevano il perché di un rogo così intenso: Patrick aveva senza dub-
bio stipato nell'abitacolo contenitori di plastica pieni di benzina. Così si spiegavano i telai di alluminio fusi, l'esplosione dei vetri, la disintegrazione del cruscotto e i pochi resti del cadavere. In sei delle fotografie si vedevano appunto questi ultimi, un mucchietto di tessuti organici carbonizzati dai quali spuntava mezzo osso del bacino. La vittima era finita sul fondo dell'abitacolo dalla parte del passeggero. La Blazer era rotolata ripetutamente giù per il declivio, quand'era uscita di strada, fermandosi sul lato destro. Lo sceriffo Sweeney aveva conservato la carcassa per un mese, prima di venderla insieme con altri tre veicoli abbandonati. Poi se ne era rammaricato. C'era una mezza dozzina di foto del luogo in cui era stata rinvenuta la Blazer, dov'erano bruciati alberi e arbusti. C'era voluta un'ora di duro lavoro di una squadra di volontari per spegnere l'incendio. Curiosa coincidenza che Patrick avesse voluto essere cremato. Secondo Trudy (e a questo proposito avevano una dichiarazione che lei stessa aveva consegnato loro un mese dopo i funerali) la decisione di Patrick era stata repentina e risaliva a undici mesi prima della sua scomparsa. Era stato allora che aveva chiesto di essere cremato e che le sue ceneri fossero sepolte al Locust Grove. Aveva persino modificato il testamento chiedendo che della sua cremazione si occupasse Trudy o, nel caso della sua morte, Karl Huskey, quale suo secondo esecutore testamentario. Erano accluse anche richieste specifiche riguardo alle esequie e alla sepoltura. Si era giustificato citando un caso di cui si era occupato proprio allora e che riguardava un furioso litigio legale tra i familiari di un defunto sul modo in cui doveva essere seppellito. Aveva persino imposto a Trudy di scegliere il proprio luogo di sepoltura. Lei aveva chiesto di riposare accanto a lui, sebbene entrambi sapessero che avrebbe velocemente cambiato le sue disposizioni se lui l'avesse preceduta. Il necroforo aveva spiegato a Grimshaw che il novanta per cento della cremazione era già avvenuta a bordo dell'automobile. Quando aveva pesato le ceneri dopo averle fatte arrostire per un'ora, la bilancia aveva indicato un centinaio di grammi in tutto, un autentico record. Impossibile dare indicazioni sul corpo: maschio, femmina, nero, bianco, giovane, anziano, vivo o morto prima che fosse consumato dal fuoco. Per onestà, non ci avevano nemmeno provato. Non avevano cadavere, non avevano referto autoptico, non avevano idea di chi fosse lo sventurato. Il fuoco è il sistema più sicuro per distruggere
eventuali prove e in questo Patrick aveva fatto un lavoro da maestro. Aveva trascorso il fine settimana in un vecchio chalet di caccia vicino a Leaf, una cittadina nella contea di Greene, ai margini del parco nazionale di De Soto. La costruzione, molto rustica, era stata acquistata da lui due anni prima insieme con un amico dei tempi dell'università. Le ristrutturazioni che avevano in mente non erano mai state compiute. In autunno e inverno se ne servivano per andare a caccia di cervi e in primavera per cacciare tacchini selvatici. Da quando il suo matrimonio aveva cominciato a scricchiolare, andava sempre più spesso a trascorrere il fine settimana allo chalet, che distava solo un'ora e mezzo da casa sua. Sosteneva che lì riusciva a lavorare meglio, perché era isolato e immerso nel silenzio. Il comproprietario suo amico se n'era totalmente dimenticato. Trudy fingeva di adombrarsi per le sue gite settimanali, ma di solito Lance era poco distante, in attesa che Patrick montasse in macchina. La sera del 9 febbraio 1992, una domenica, Patrick aveva chiamato dallo chalet per avvertire la moglie che sarebbe rincasato verso le dieci. Aveva finito di stendere una complessa richiesta d'appello ed era stanco. Lance si era trattenuto ancora per un'ora prima di svanire nella notte. Patrick si era fermato a un Country Store sulla Highway 15, situato al confine tra le contee di Stone e Harrison. Aveva comperato più di cinquanta litri di benzina per quattordici dollari e ventun centesimi, pagando con una carta di credito. Aveva conversato con la signora Verhall, l'anziana proprietaria che lo vedeva passare spesso di lì. Conosceva molti dei cacciatori che frequentavano la zona, specialmente quelli che, come Patrick, avevano l'abitudine di vantarsi delle proprie imprese venatorie. La donna aveva dichiarato che Patrick era di buonumore e che le aveva solo detto di essere stanco per aver lavorato durante tutto il fine settimana. Ricordava di aver trovato strana quella sua affermazione. Un'ora dopo aveva sentito passare le auto della polizia e le autopompe. La Blazer di Patrick era stata trovata a una dozzina di chilometri più avanti, nel pieno di un rogo sviluppatosi in fondo a una ripida scarpata, a un'ottantina di metri dalla strada. Il primo a vedere l'incendio era stato un camionista che era riuscito ad arrivare a venti metri dall'automobile prima che gli si bruciassero le sopracciglia. Aveva chiamato aiuto via radio, poi si era seduto impotente a guardare ardere la Blazer. L'automobile era coricata sul lato destro, orientata in modo tale che gli era stato impossibile vedere se a bordo ci fosse qualcuno. Né sarebbe servito saperlo.
All'arrivo dei primi agenti di polizia, il rogo era così intenso che non si distingueva più nemmeno il veicolo al suo interno. Avevano cominciato ad ardere anche erba e cespugli tutt'attorno. Era arrivata una piccola autopompa con poca acqua. Altri veicoli di passaggio si erano fermati e in pochi minuti si era raccolta una discreta folla a osservare la scena. Poiché tra i curiosi non c'era il conducente della Blazer, tutti avevano dato per scontato che fosse finito carbonizzato a bordo della sua vettura. Quando sopraggiunsero altre due autopompe, fu possibile spegnere l'incendio. Lo sceriffo Sweeney aveva dovuto aspettare ore perché il calore diminuisse abbastanza da permettergli di avvicinarsi ed era quasi mezzanotte quando aveva scorto un mucchietto annerito che sarebbe potuto essere quanto restava di un cadavere. Il coroner aveva riconosciuto l'osso del bacino ponendo fine alle congetture. Grimshaw aveva scattato le fotografie. Quando le ceneri della vittima si erano intiepidite a una temperatura sopportabile, le avevano raccolte in una scatola di cartone. Solo alle tre e mezzo di notte avevano potuto ricostruire alla luce delle torce le lettere e i numeri della targa, e Trudy aveva ricevuto la telefonata con cui aveva saputo di essere vedova. E tale sarebbe rimasta per quattro anni e mezzo. Lo sceriffo aveva deciso di non spostare la macchina di notte. All'alba era tornato con cinque aiutanti a setacciare la zona. Sulla strada avevano trovato una strisciata di copertoni lunga trenta metri e si era ipotizzato che un cervo sbucato all'improvviso dalla foresta avesse fatto sbandare il povero Patrick. Poiché il fuoco si era propagato in tutte le direzioni, non era possibile trovare indizi sulla meccanica dell'incidente. L'unica sorpresa era stato il ritrovamento di una scarpa a quaranta metri dalla Blazer. Era una Nike Air Max da jogging numero quarantatré, ancora in buono stato. Trudy l'aveva identificata. Quando gliel'avevano mostrata, era scoppiata a piangere. Secondo lo sceriffo il veicolo era rotolato ripetutamente su se stesso giù per il pendio e probabilmente all'interno il cadavere era stato sballottato da una parte all'altra. Durante una delle capriole, aveva perso una scarpa che era schizzata via da un finestrino. Come ricostruzione poteva andare. Avevano caricato la Blazer su un camioncino e l'avevano portata via. Nel tardo pomeriggio avevano cremato i resti di Patrick. Il giorno dopo si era tenuto il servizio funebre, seguito da una breve cerimonia al cimitero, quella alla quale lui stesso aveva assistito attraverso le lenti di un binocolo.
Cutter e Grimshaw contemplarono la scarpa spaiata posata al centro del tavolo. Accanto c'erano le dichiarazioni rilasciate dai testimoni: Trudy, la signora Verhall, il coroner, il necroforo, persino Grimshaw stesso e lo sceriffo. Nessuna conteneva affermazioni clamorose. Nei mesi successivi alla scomparsa del denaro, si era fatto avanti un solo teste a sorpresa, una giovane donna che abitava vicino al negozio della Verhall. Aveva dichiarato sotto giuramento di aver visto una Chevy Blazer rossa del 1991 ferma ai bordi della strada nel punto esatto in cui era scoppiato l'incendio. Due volte. Una volta il sabato sera, poi di nuovo circa ventiquattr'ore dopo, più o meno all'ora dell'incendio. La sua testimonianza era stata raccolta da Grimshaw a casa sua, nelle campagne della contea di Harrison, sette settimane dopo il funerale di Patrick. All'epoca la sua presunta morte era trattata con molto sospetto a causa del furto. 16 Il medico era un giovane pakistano di nome Hayani, uomo premuroso e compassionevole per natura. Sembrava del tutto a suo agio, seduto al capezzale del suo paziente a chiacchierare con lui in un inglese dal pesante accento straniero. La convalescenza procedeva per il meglio. Il paziente però era molto turbato. «Credo che non sarò mai capace di descrivere bene la tortura» confessò Patrick dopo che discorrevano da quasi un'ora. Era stato Hayani ad affrontare l'argomento che occupava le pagine di tutti i giornali da quando era stato tirato in ballo l'Fbi. Da un punto di vista clinico, era per lui un'opportunità rara poter esaminare e curare ferite provocate da sistemi così terrificanti. Non c'è giovane medico che non desidererebbe trovarsi così vicino all'occhio del ciclone. Hayani annuì con un'espressione grave. Non smettere di parlare, lo implorò con gli occhi. Ma era la giornata giusta, per Patrick, ne aveva voglia. «Dormire è impossibile» raccontò. «Forse un'ora al massimo prima di sentire delle voci, poi c'è l'odore della mia carne che brucia e mi sveglio in un lago di sudore. E non passa. Sì, razionalmente mi rendo conto di essere qui in patria, al sicuro, ma so che loro sono ancora in agguato. Non riesco a dormire. Non voglio dormire, dottore.» «Posso darle dei sonniferi.» «No. Almeno non ancora. Non voglio mettermi in corpo altri veleni.»
«Il suo sangue è a posto. C'è ancora qualche residuo, ma in quantità infinitesimale.» «No, basta medicine, dottore, la prego.» «Ma lei ha bisogno di dormire, Patrick.» «Lo so, ma non voglio. Verrei torturato di nuovo.» Hayani scrisse qualcosa sulla cartella clinica. Seguì un lungo silenzio durante il quale entrambi rimasero assorti nei propri pensieri. Hayani trovava difficile credere che quell'uomo così posato fosse capace di uccidere un suo simile, meno che mai in una maniera così atroce. La stanza era illuminata da una strisciolina di sole che trapelava dalla finestra. «Posso parlarle con sincerità, dottore?» chiese Patrick a un volume di voce ancora più basso di prima. «Certamente.» «Ho bisogno di restare qui il più a lungo possibile. Intendo in questa stanza. Tra pochi giorni cominceranno a insistere perché sia trasferito nella prigione della contea, dove mi daranno una branda in una piccola cella in compagnia di due o tre delinquenti di strada e mi sarà impossibile sopravvivere.» «Ma perché dovrebbero trasferirla?» «Come forma di coercizione, dottore. Devono aumentare piano piano la pressione su di me finché non avrò detto loro quello che vogliono. Mi chiuderanno in una brutta cella in compagnia di stupratori e trafficanti di droga lasciando intendere che è meglio che mi metta a parlare subito perché altrimenti quello è il tipo di vita che mi aspetta per il resto dei miei giorni. Galera, a Parchman, il carcere più spaventoso del mondo. Lei è mai stato a Parchman?» «No.» «Io sì. Avevo un cliente rinchiuso là dentro. Un inferno, mi creda. E la prigione della contea non è molto meglio. Ma lei può tenermi qui, dottore. Non ha che da continuare a ripetere al giudice che ho bisogno di cure e mi permetteranno di restare. La prego.» «Va bene, Patrick» rispose il medico scrivendo un altro appunto sulla cartella. Un'altra lunga pausa mentre Patrick respirava affannosamente con gli occhi chiusi. Il pensiero della prigione lo aveva gettato nell'ansia. «Consiglierò un esame psichiatrico» propose Hayani e Patrick si morsicò il labbro inferiore per reprimere un sorriso. «Perché?» chiese fingendosi allarmato. «Perché sono curioso. Qualcosa in contrario?»
«Non credo. Quando?» «Diciamo tra un paio di giorni.» «Non so se ce la faccio. Mi sembra un po' troppo presto.» «Non c'è fretta.» «Allora rimandiamo ancora per un po'. Non vogliamo essere troppo precipitosi, dottore.» «Capisco. Naturalmente. Possiamo provare la settimana prossima.» «Forse. O forse fra due.» La madre del ragazzo era Neldene Crouch. Viveva in una roulotte parcheggiata nei sobborghi di Hattiesburg, ma all'epoca in cui il figlio era scomparso abitava con lui nel parcheggio per roulotte di Lucedale, una cittadina a cinquanta chilometri da Leaf. Secondo quel che ricordava, non aveva più notizie del figlio da sabato 9 febbraio 1992, lo stesso giorno in cui Patrick Lanigan era deceduto sulla Highway 15. Ma, secondo i registri dell'ufficio dello sceriffo, Neldene Prewitt (il suo nome da sposata) aveva telefonato il 13 febbraio per avvertire della scomparsa del figlio. Stava chiamando tutti gli sceriffi della zona, nonché Fbi e Cia. Era peggio che sconvolta e qualche volta si lasciava andare a crisi isteriche. Il figlio si chiamava Pepper Scarboro. Il cognome era quello del primo marito di Neldene, presunto padre di Pepper, circostanza che nemmeno la madre era in grado di garantire. Quanto al suo soprannome, nessuno ricordava da dove fosse saltato fuori quel Pepper. Dopo il parto lei lo aveva battezzato LaVelle, un nome che lui aveva sempre detestato. Già da piccolo si era scelto il soprannome di Pepper, continuando a difenderlo per tutta la vita con anima e corpo. Qualsiasi nome piuttosto di LaVelle. Quand'era scomparso, Pepper aveva diciassette anni. Dopo la quinta elementare, aveva ripetuto la prima media per tre anni e aveva infine lasciato la scuola per lavorare in una stazione di servizio di Lucedale. Disadattato e balbuziente, Pepper aveva scoperto il grande mondo all'aperto quand'era ancora poco più che un bambino e aveva preso l'abitudine di fare campeggio nei boschi e cacciare per giorni di fila, solitamente da solo. Aveva pochi amici e sua madre, che aveva altri due figli più piccoli e una schiera di "compagni", lo bistrattava. Lei viveva con i bambini nel sudiciume di una vecchia roulotte senza aria condizionata. Pepper preferiva dormire in una tendina sotto gli alberi. Aveva risparmiato sul salario per comperarsi il fucile da caccia e l'attrezzatura da campeggio. Così Pepper
trascorreva la gran parte del suo tempo nel parco nazionale di De Soto, a venti minuti ma a mille miglia da sua madre. Non risultava che Pepper e Patrick si fossero mai incontrati. Che lo chalet di Patrick fosse nella zona in cui Pepper andava spesso a caccia era stata considerata una pura coincidenza. Patrick e Pepper erano entrambi maschi di razza bianca, più o meno della stessa statura, ma Patrick era molto più robusto. Vivo interesse suscitò il ritrovamento del fucile, della tenda e del sacco a pelo di Pepper nello chalet di Patrick verso la fine del febbraio 1992. Entrambi erano scomparsi più o meno nello stesso momento e più o meno nella stessa zona. Nei mesi successivi, Sweeney e Cutter avevano accertato che non c'erano state altre segnalazioni di persone scomparse nello stato del Mississippi a partire dal 9 febbraio per dieci settimane. C'erano stati sì alcuni adolescenti scappati di casa durante quel mese, ma tutti erano stati ritrovati prima della fine di primavera. In marzo una casalinga di Corinth aveva fatto perdere le proprie tracce, evidentemente in fuga da un marito violento, e di lei non si era saputo più nulla. Utilizzando i computer dell'Fbi a Washington, Cutter aveva stabilito che di tutte le persone date per disperse prima del presunto incidente automobilistico in cui avrebbe dovuto aver perso la vita Patrick, la più vicina era un camionista di Dothan, Alabama, una cittadina a sette ore dal rogo. L'uomo era scomparso nel nulla il sabato 8 febbraio, lasciandosi alle spalle un matrimonio a pezzi e un sacco di conti da pagare. Dopo aver indagato su quel caso per tre mesi, Cutter si era convinto che non ci fossero collegamenti tra il camionista e Patrick. Le circostanze sembravano indicare invece una relazione tra la scomparsa di Pepper e quella di Patrick. Se per caso Patrick non era deceduto sulla sua Blazer, Cutter e Sweeney erano quasi certi che al suo posto c'era Pepper. Nulla naturalmente che si potesse sostenere in un'aula di giustizia. Patrick poteva aver caricato a bordo un autostoppista proveniente dall'Australia, un senzatetto sbucato da chissà dove, un qualsiasi escursionista. Avevano un elenco con altri otto nomi, che andavano da quello di un anziano abitante di Mobile, visto per l'ultima volta uscire di città più o meno nella direzione del Mississippi, a quello di una giovane prostituta di Houston che aveva detto ad alcuni amici che si trasferiva ad Atlanta per farsi una nuova vita. Tutte e otto quelle persone erano date per disperse da mesi, se non anni, prima del febbraio 1992. Cutter e lo sceriffo avevano da tempo giudicato la lista priva di valore.
L'ipotesi che entrambi ritenevano più probabile era quella di Pepper, solo che non erano in grado di dimostrarne la fondatezza. Riteneva viceversa di poterlo fare Neldene, molto ansiosa di comunicare i suoi punti di vista agli organi d'informazione. Si recò tuttavia prima da un avvocato, un azzeccagarbugli di piccolo cabotaggio che per trecento dollari si era occupato del suo ultimo divorzio, e gli chiese assistenza e guida nella giungla dei mass media. Lui fu ben lieto di accettare, dichiarò che l'avrebbe aiutata senza pretendere compensi, poi fece quello che fa la gran parte degli avvocatucoli come lui quando mettono le mani su un cliente con notizie clamorose: indisse una conferenza stampa nel suo studio di Hattiesburg, centoquaranta chilometri a nord di Biloxi. Esibì agli inviati la sua cliente in lacrime e rovesciò insulti e accuse sullo sceriffo di Biloxi e sui funzionari dell'Fbi, per la svogliatezza con cui avevano cercato di rintracciare Pepper. Vergogna e disonore sui rappresentanti della legge che si erano girati i pollici per quattro anni lasciando la sua povera cliente nell'angoscia. Tuonò e latrò, sfruttando al meglio i suoi quindici minuti di gloria. Alluse a un'azione legale contro Patrick Lanigan, l'uomo che evidentemente aveva ucciso Pepper e aveva bruciato il suo corpo servendosene per scomparire con novanta milioni di dollari, ma evitò di essere troppo preciso. Alla faccia della doverosa prudenza, i giornalisti bevvero la sua storia. L'avvocato distribuì loro alcune fotografie del giovane Pepper, un ragazzo dall'aria anonima, con peluria incolta sotto il naso e capelli sporchi e spettinati. Fu così dato un volto alla vittima misteriosa. Quello era il ragazzo che Patrick aveva ucciso. La storia di Pepper ottenne il previsto scalpore. Di lui si parlò come della «presunta vittima», ma in modo che l'aggettivo rimanesse sempre in secondo piano. Patrick vide il servizio in televisione nella sua camera. Poco dopo la sua scomparsa, erano giunte anche a lui le voci secondo cui Pepper Scarboro era morto nel rogo della Blazer. Nel gennaio 1992 era stato a caccia di tacchini con lui e in una fredda sera d'inverno avevano mangiato insieme seduti davanti a un fuoco da bivacco in mezzo ai boschi. Aveva appreso con stupore che il ragazzo viveva praticamente nella foresta, preferendola alla casa dei suoi familiari, su cui si mostrava molto evasivo. Peraltro era rimasto molto impressionato delle sue straordinarie capacità di scout. Gli aveva offerto il riparo della veranda del suo chalet in caso di pioggia o freddo intenso, ma a quel che gli risultava il ragazzo non ne
aveva mai approfittato. Si erano incontrati spesso nei boschi. Dalla cima di un colle a un miglio di distanza Pepper vedeva lo chalet e quando c'era l'automobile di Patrick si nascondeva nelle vicinanze. Gli piaceva seguirlo quando Patrick usciva per qualche lunga passeggiata o per una battuta di caccia. Gli lanciava sassolini e pigne, fino a strappargli qualche urlo o qualche imprecazione. Poi si sedevano da qualche parte a chiacchierare. Non che Pepper fosse molto loquace, ma gli piaceva interrompere i suoi lunghi periodi di solitudine. Patrick gli portava dolciumi e spuntini. Non lo sorprendeva, ora come allora, che qualcuno pensasse che lui aveva ucciso Pepper. Il dottor Hayani seguì con interesse il notiziario serale. Lesse i giornali e raccontò alla moglie del suo celebre paziente. Seduti a letto, guardarono di nuovo il servizio sul caso trasmesso nel telegiornale della notte. Si accingevano a dormire quando squillò il telefono. Era Patrick, desolato di arrecare disturbo. Soffriva, aveva paura, doveva assolutamente parlare con qualcuno. Tecnicamente era un detenuto, perciò gli era concesso telefonare solo all'avvocato e al medico curante, non più di due volte al giorno. Il dottore aveva un minuto per lui? Certamente. Patrick si scusò di nuovo per aver chiamato così tardi, ma, disse, ormai gli era impossibile riprendere sonno, specialmente dopo quello che aveva visto in televisione e le insinuazioni che aveva ascoltato sul suo presunto omicidio. Aveva visto anche lui il telegiornale? Sì, lo aveva visto. Patrick era a luci spente, raggomitolato nel letto. Confessò di essere contento che in corridoio ci fossero poliziotti a sorvegliare la sua stanza, perché aveva paura. Sentiva voci e rumori senza senso. E le voci non giungevano da fuori, le udiva dentro la sua camera. Possibile che fosse un effetto delle medicine che prendeva? Tutto è possibile, Patrick. Le medicine, l'affaticamento, il trauma per la brutta esperienza, lo choc fisico e psichico. Chiacchierarono per un'ora. 17 Non si lavava i capelli da tre giorni. Voleva che apparissero unti. Non si faceva la barba. Cambiò la camicia da notte di cotone leggero che gli avevano dato al suo arrivo in ospedale con il camice verde da chirurgo, ormai
tutto stropicciato. Hayani gli aveva promesso di procurargliene uno nuovo, ma per quel giorno gli andava bene così. Infilò una calza bianca al piede destro, ma preferì non coprire l'altro, perché fosse bene in vista la ferita lasciatagli sulla caviglia dalla corda con cui lo avevano legato. Calzò quindi un paio di sandali di gomma. Era il giorno della sua esibizione in pubblico. Il mondo era in attesa. Sandy si presentò alle nove portando con sé, dietro istruzioni ricevute dal suo cliente, due paia di occhiali scuri da pochi soldi e un berretto nero dei Saints di New Orleans. «Grazie» disse Patrick, fermo davanti allo specchio del bagno a fare le prove con gli occhiali e a preparare il berretto. Il dottor Hayani giunse qualche minuto più tardi e Patrick s'incaricò delle presentazioni. A un tratto il paziente era nervoso e un po' svagato. Si sedette sulla sponda del letto, si passò le dita nei capelli e cercò di respirare adagio. «Credevo che un giorno così non sarebbe mai arrivato» mormorò a testa china. «Non me l'ero mai immaginato.» Medico e avvocato si scambiarono uno sguardo in silenzio. Hayani gli consegnò due compresse di un potente calmante. Patrick le ingoiò. «Magari me la faccio tutta dormendo» commentò. «A parlare penso io» promise Sandy. «Tu rilassati.» «Lo farà» lo rassicurò Hayani. Lo sceriffo Sweeney bussò alla sua porta ed entrò con una squadra di aiutanti abbastanza nutrita da sedare una sommossa. Dopo pochi convenevoli molto formali, Patrick indossò berretto e occhiali scuri e porse i polsi per farsi ammanettare. «Quella che roba è?» volle sapere Sandy indicando i ferri da caviglie in mano a un aiutante dello sceriffo. «Per le caviglie» rispose Sweeney. «Non credo proprio» sbottò Sandy. «Il mio assistito ha una caviglia ferita.» «È così» confermò il dottor Hayani, ansioso di gettarsi nella mischia. «Guardi qui.» Gli mostrò la caviglia sinistra di Patrick. Sweeney meditò per qualche momento e l'esitazione gli costò cara. «Andiamo, sceriffo» tornò all'attacco Sandy. «Che pericolo di fuga ci può essere? È ferito, ammanettato, circondato da questo mezzo esercito. Che cosa diavolo potrebbe fare? Posto anche che si metta a correre, di quanti centimetri si potrebbe allontanare prima che lo prendano?» «Se è necessario, faccio intervenire il giudice» dichiarò con foga il dottor Hayani.
«Aveva i ferri alle caviglie quando lo hanno portato qui» rammentò loro lo sceriffo. «Ma quelli erano uomini dell'Fbi, Raymond» ribatté Patrick. «E mi avevano incatenato le gambe, non le caviglie. Non che fosse molto meglio.» I ferri furono riposti, Patrick uscì in corridoio e s'incamminò nel silenzio generale circondato dalla squadra degli uomini dello sceriffo. Sandy gli rimase accanto tenendolo delicatamente per un braccio. La cabina dell'ascensore era troppo piccola. Quelli che non ci stavano scesero di corsa le scale e si ricongiunsero al drappello nell'atrio, da dove uscirono nell'aria tiepida dell'autunno per montare su un corteo di automobili lucidate di fresco. Patrick salì su una Suburban nera e scintillante con lo stemma della contea di Harrison e partì seguito dalla Suburban bianca che trasportava la sua scorta armata. Le auto di pattuglia dello sceriffo costituivano avanguardia e retroguardia, due davanti e tre dietro. Superati i posti di controllo, il corteo uscì nel mondo civile. Attraverso le lenti scure dei suoi occhiali Patrick vide strade che aveva percorso migliaia di volte, case che ricordava del suo passato. Imboccarono la Highway 90 e si trovarono di fronte il golfo, con le sue acque calme e marroni come le ricordava. Qualcosa però era cambiato nel paesaggio generale lungo la Costa durante il suo esilio, grazie all'improvviso sviluppo del gioco d'azzardo. Se ne parlava già ai tempi in cui si era eclissato e ora, a distanza di quattro anni, transitava tra le insegne al neon di nuovi casinò in stile Las Vegas, con i parcheggi che si andavano riempiendo alle nove e mezzo del mattino. «Quante case da gioco ci sono?» chiese allo sceriffo seduto alla sua destra. «Tredici, secondo l'ultimo conteggio. Ma ne stanno costruendo altre.» «Incredibile.» L'effetto del sedativo era potente. Gli si appesantì il respiro, sentì i muscoli che si rilassavano. Ebbe voglia di assopirsi, ma imboccarono in quel momento la Main Street e fu preso di nuovo dall'ansia. Solo due isolati ancora. Pochi minuti e si sarebbe ritrovato a tu per tu con il suo passato. Il municipio a sinistra, poi uno scorcio del Vieux Marché e, nel tratto mediano del vecchio viale di negozi e botteghe, il bell'edificio tutto bianco, parte del quale una volta era stata anche sua, ai tempi in cui era uno dei soci dello studio legale Bogan, Rapley, Vitrano, Havarac e Lanigan. L'edificio era ancora solido, ma lo studio legale che vi aveva sede stava andando a pezzi.
Davanti a loro c'era il palazzo di giustizia della contea di Harrison, una camminata di pochi minuti dal suo vecchio ufficio. Era situato in una semplice palazzina di mattoni alta due piani, con un praticello che lambiva Howard Street. L'erba era invisibile sotto i piedi di una folla di curiosi. Lungo i marciapiedi delle vie circostanti non c'era un posto libero dove parcheggiare. Altra gente stava sopraggiungendo di buon passo a piedi e, all'apparire del corteo di Patrick, nuovi veicoli accostarono precipitosamente. La moltitudine raccoltasi davanti al tribunale si separò in due flussi lungo i lati dell'edificio, entrambi costretti a fermarsi all'altezza delle transenne che la polizia aveva eretto sul retro. Patrick, che aveva visto efferati assassini entrare e uscire dalla porta di servizio, conosceva bene la procedura. Il corteo si fermò. Dalle portiere spalancate scese una decina di poliziotti che circondarono la Suburban nera. Lo sportello si aprì adagio. Finalmente apparve Patrick, il cui camice verde spiccava più che mai tra le divise scure degli agenti. Lungo lo sbarramento più vicino si accalcò in pochi attimi un'impressionante muraglia di giornalisti, fotografi e cameramen, seguiti da scie di ritardatari. Patrick abbassò la testa cercando di nascondersi tra gli agenti della scorta che lo accompagnavano in tutta fretta all'ingresso secondario in un fuoco di fila di domande. «Che effetto fa ritrovarsi a casa?» «Dove hai messo i soldi?» «Chi è morto carbonizzato sulla tua macchina?» Oltre la soglia e su per le scale di servizio, un breve tragitto che Patrick aveva già compiuto qualche volta in passato quando tentava di intercettare questo o quel giudice per una firma. Riconobbe subito l'odore. In quei quattro anni nessuno aveva mai ridipinto il vano delle scale di cemento. Oltre un'altra soglia e lungo un breve corridoio, in fondo al quale si era raccolto un capannello di dipendenti del tribunale ad aspettare il suo arrivo. Lo fecero entrare infine in un locale riservato alla giuria di fianco all'aula, dove fu fatto accomodare su una sedia imbottita vicino al tavolo dov'era già pronta la caffettiera. Lo sceriffo Sweeney congedò i suoi aiutanti, mentre Sandy si affrettava a constatare le condizioni del suo assistito. «Un caffè?» gli suggerì. «Volentieri. Senza latte.» «Stai bene, Patrick?» s'informò Sweeney.
«Sì, certo, Raymond, grazie.» L'atteggiamento era sottomesso e impaurito. Gli tremavano mani e ginocchia, non riusciva a dominarsi. Con i polsi ammanettati si aggiustò gli occhiali neri sul naso e si calò più in basso sulle sopracciglia la visiera del berretto. Teneva la testa incassata nelle spalle. Bussarono alla porta. Fece capolino una bella ragazza di nome Belinda. «Il giudice Huskey vorrebbe vedere Patrick» annunciò. Il prigioniero riconobbe la voce. Sollevò la testa, guardò in direzione della porta. «Ciao, Belinda» la salutò sottovoce. «Ciao, Patrick. Bentornato.» Lui riabbassò gli occhi. Belinda era una delle segretarie della cancelleria e non c'era avvocato che non avesse un debole per lei. Era dolce di carattere quanto dolce era la sua voce. Erano davvero passati quattro anni? «Dove?» chiese lo sceriffo. «Qui» rispose lei. «Fra qualche minuto.» «Vuoi vedere il giudice, Patrick?» domandò Sandy. Non era obbligato a farlo. In circostanze normali sarebbe stato considerato assolutamente insolito. «Sì.» Patrick lo desiderava con tutto il cuore. Belinda richiuse la porta. «Io esco» annunciò Sweeney. «Ho bisogno di una sigaretta.» Patrick si ritrovò finalmente solo con il suo avvocato. Si raddrizzò all'improvviso. «Un paio di cose. Nessuna notizia di Leah Pires?» «No» rispose Sandy. «Si farà viva presto, perciò tieniti pronto. Le ho scritto una lunga lettera e desidero che tu gliela faccia avere.» «D'accordo.» «In secondo luogo esiste un apparecchio antintercettazioni che si chiama DX-130. È costruito dalla LoKim, una ditta elettronica coreana. Costa seicento dollari ed è grande più o meno come un dittafono da tasca. Procuratene uno e portalo con te dovunque ci incontriamo. Disinfesteremo il locale in cui ci troveremo e i telefoni che avremo intorno a noi prima di cominciare a parlare. Trovati anche una società che si occupi di sorveglianza e che abbia buone referenze a New Orleans e fa' controllare il tuo ufficio due volte la settimana. Costerà parecchio, ma ci penserò io. Domande?» «No.» Quando sentì bussare di nuovo alla porta, Patrick tornò ad accasciarsi contro lo schienale. Entrò il giudice Karl Huskey. Era solo e non indossava la toga. Si presentò in maniche di camicia e con gli occhiali da lettura sulla
punta del naso. I capelli grigi e le zampe di gallina intorno agli occhi lo facevano sembrare molto più vecchio dei quarantotto anni che aveva, ma l'effetto era voluto. Quando offrì la mano al prigioniero, Patrick aveva già rialzato gli occhi e gli sorrideva. «Mi fa piacere rivederti, Patrick» lo salutò con affetto il giudice nel tintinnio delle manette. Avrebbe voluto abbassarsi per abbracciarlo, non fosse stato per i doveri imposti dal protocollo. «Come va, Karl?» chiese Patrick restando seduto. «Abbastanza bene. E tu?» «Ho avuto giorni migliori, ma sono lieto di vederti. Nonostante le circostanze.» «Grazie. Non saprei...» «Sono diverso, vero?» «Molto. Non so se ti avrei riconosciuto incrociandoti per strada.» Patrick si limitò a sorridere. Huskey era fra coloro che conservavano ancora sentimenti di amicizia e che, proprio per questo, si sentivano traditi da Patrick, ma più ancora provavano profondo sollievo nel sapere che non era morto. Lo preoccupava non poco l'incriminazione per omicidio di primo grado: la gravità dell'accusa sovrastava di gran lunga i problemi delle cause civili che avrebbe dovuto affrontare. Proprio in virtù dei rapporti di amicizia che aveva con l'imputato, Huskey non avrebbe presieduto la corte. Avrebbe orchestrato lui i preliminari, ma si sarebbe fatto da parte prima delle decisioni più importanti. Già sì era parlato sugli organi di informazione dei legami esistenti tra giudice e accusato. «Suppongo che ti dichiarerai non colpevole» pronosticò. «Sì, infatti.» «Allora la prima udienza sarà di routine. Negherò la libertà dietro cauzione perché si tratta di omicidio di primo grado.» «Capisco, Karl.» «Non impiegheremo più di dieci minuti.» «Ci sono già passato. Cambierà solo la sedia.» Nei dodici anni di esercizio, il giudice Huskey si era spesso meravigliato della compassione che provava per i comuni cittadini che avevano commesso delitti gravi. Vedeva l'aspetto umano delle loro sofferenze. Vedeva il senso di colpa divorarli da dentro. Aveva mandato in prigione centinaia di persone che, se solo ne avessero avuto la possibilità, uscendo libere dal-
l'aula giudiziaria non avrebbero mai più commesso un reato, nemmeno minore. Lo animava il desiderio di aiutare, trasmettere comprensione e perdono. E questa volta davanti a lui c'era Patrick e il senso di commozione che lo invadeva era più vivo che mai. Era il suo vecchio amico, vestito come un clown, nervoso e spaventato. Quanto avrebbe desiderato fare qualcosa per aiutarlo. Si piegò sulle ginocchia. «Patrick, non potrò occuparmi io del tuo caso, come capirai da te. Per ora presiederò solo l'udienza preliminare per essere sicuro che siano rispettate tutte le garanzie che spettano all'imputato. Sono ancora tuo amico. Se hai bisogno, chiamami.» Gli batté una mano sul ginocchio, ma con cautela, per timore di fargli male. «Grazie, Karl» mormorò Patrick morsicandosi il labbro. Il giudice era deluso di non poterlo guardare negli occhi per via degli occhiali scuri. Si rialzò. «Solo ordinaria amministrazione oggi, avvocato» annunciò a Sandy mentre si avviava alla porta. «C'è molta gente là fuori?» chiese Patrick. «Sì, Patrick. Amici e nemici. Ci sono tutti.» Il giudice uscì. Delitti sensazionali e criminali famigerati non erano una novità sulla Costa, perciò non era affatto insolito che un'aula di tribunale fosse affollata. Nessuno però ricordava un tribunale così gremito per una semplice "prima apparizione". Gli inviati degli organi di informazione erano arrivati in anticipo per occupare i posti migliori. Il Mississippi è uno dei pochi Stati dove prevale ancora il buonsenso di bandire l'ingresso alle telecamere nelle aule giudiziarie, perciò i giornalisti sarebbero stati costretti ad ascoltare e guardare attentamente, per poter mettere per iscritto ciò a cui avevano assistito. Sarebbero stati insomma costretti a esercitare fino in fondo il loro mestiere, impresa per la quale molti di loro erano tutt'altro che attrezzati. Come in tutti i grandi processi, forte fu il richiamo degli spettatori abituali, dipendenti del palazzo di giustizia, assistenti di studi legali, poliziotti in pensione, avvocati indipendenti che trascorrevano gran parte del giorno in tribunale a scroccare caffè, scambiare pettegolezzi con gli impiegati e le segretarie, esaminare documenti catastali, aspettare la firma di un giudice, qualunque cosa pur di stare alla larga dall'ufficio. Erano accorsi anche molti avvocati che desideravano solo vederlo. Dopo che per quattro giorni i giornali non avevano fatto altro che parlare di lui,
ora erano curiosi di sapere che faccia avesse, specialmente dopo quanto si era scritto delle torture che aveva subito. In mezzo a tanta folla c'erano anche Charles Bogan e Doug Vitrano, rassegnati a occupare posti lontani dalla balaustrata per essere stati battuti sul tempo dai giornalisti. Peccato, perché avevano sperato di vederlo da molto vicino, incrociare il suo sguardo, lanciargli sottovoce minacce e possibilmente insulti, scaricargli addosso quanta più bile fosse stato loro consentito dai limiti imposti da un comportamento civile. Erano invece in quinta fila ad attendere spazientiti un momento che sembrava non arrivare mai. Il terzo partner, Jimmy Havarac, era in piedi contro il muro a discorrere sommessamente con un agente. Parlava fingendo di non vedere gli sguardi di quelli che conosceva, molti dei quali erano avvocati come lui che avevano appreso con immenso e segreto piacere la notizia della truffa subita dal suo studio. Sarebbe stato dopotutto il più ingente onorario versato a uno studio legale in tutta la storia dello Stato e non poteva non scatenare l'invidia dei concorrenti. Havarac li detestava, come detestava praticamente tutti i presenti in aula, uno stormo di avvoltoi in attesa di una carcassa. Havarac, figlio di un pescatore, non aveva dimenticato le tecniche di persuasione che vigevano negli ambienti frequentati da suo padre. Cinque minuti da solo con Patrick e avrebbe avuto i suoi soldi. Il quarto socio, Ethan Rapley, era come sempre nella mansarda di casa sua a redigere il testo di un'insipida requisitoria. Avrebbe letto dell'udienza l'indomani. Tra gli avvocati c'erano anche vecchi amici venuti a sostenere Patrick. La fuga era un sogno segreto e condiviso da molti piccoli avvocati rimasti intrappolati in una professione noiosa e sovrappopolata, in cui le aspettative sono sempre eccessive. Almeno il loro collega aveva avuto il fegato di tentare di realizzare quel sogno. Quanto al cadavere rinvenuto nell'automobile, senz'altro aveva una spiegazione. Giunto in ritardo e finito in un angolo c'era Lance. Era rimasto indietro a valutare l'entità delle misure di sicurezza, giudicandole almeno per il momento notevoli. Ma sarebbero riusciti i poliziotti a non abbassare mai la guardia durante un processo che sarebbe andato per le lunghe? C'erano poi i conoscenti, persone con le quali Patrick non aveva mai scambiato altro che saluti e che ora tutt'a un tratto sostenevano di essere amici di vecchia data. Alcuni non lo avevano mai nemmeno visto di persona e ne parlavano come se di lui conoscessero vita, morte e miracoli. Al-
la stessa maniera erano spuntate all'improvviso intorno a Trudy nuove amiche, passate in tribunale a lanciare un'occhiata di disprezzo all'uomo che le aveva spezzato il cuore e che aveva abbandonato la povera piccola Ashley Nicole. Sfogliavano qualche libro o giornale fingendosi annoiate, con l'aria di chi avrebbe desiderato mille volte trovarsi altrove. Ci fu un'improvvisa animazione tra le persone intorno al banco del giudice e nell'aula calò il silenzio. I giornali furono abbassati tutti insieme. Si aprì la porta accanto al box della giuria ed entrarono alcuni agenti in divisa marrone. Per ultimo si fece avanti lo sceriffo Sweeney, che accompagnava Patrick tenendolo per un braccio, insieme con due aiutanti e Sandy. Eccolo! Tutti allungarono il collo, le teste si mossero di qui e di là per riuscire a vedere meglio. I disegnatori si misero al lavoro. Patrick raggiunse a passo lento il tavolo della difesa. Camminava a testa bassa, ma da dietro le lenti scure scrutava i presenti. Individuò in fondo all'aula Havarac, il cui cipiglio non mancò di interpretare all'istante. E, un attimo prima di sedersi, scorse padre Phillip, la sua guida spirituale. Gli sembrava molto invecchiato, ma affabile come sempre. Patrick si sedette mogio, con le spalle curve e il mento posato sul petto, in un atteggiamento di assoluta umiltà. Non si guardò intorno perché si sentiva addosso gli sguardi di tutti. Sandy gli posò una mano sulla spalla e gli bisbigliò qualcosa di insignificante. Si aprì di nuovo la porta ed entrò, solo, il procuratore distrettuale Parrish che andò a sedersi al tavolo accanto al suo. Parrish era un burocrate con ambizioni limitate. Non aveva da lottare per ottenere ulteriori avanzamenti di carriera e il suo modo di lavorare era metodico, privo di concessioni al clamore e alla presunzione, e del tutto letale. Nella classifica dello stato, era al secondo posto per numero di condanne ottenute. Si sedette accanto allo sceriffo che si era spostato dal tavolo di Patrick a quello di sua competenza. E dietro di lui c'erano gli agenti Joshua Cutter e Brent Myers, assieme ad altri due uomini dell'Fbi che lui non conosceva. La scenografia era quella di un processo spettacolare, che tuttavia avrebbe avuto inizio solo di lì a sei mesi. Un ufficiale giudiziario fece alzare tutti in piedi. Il giudice Huskey entrò nell'aula e andò a prendere il suo posto. «Sedetevi, prego» furono le sue prime parole, alle quali tutti ubbedirono. «Lo Stato contro Patrick S. Lanigan, caso numero 96-1140. L'imputato è presente?» «Sì, vostro onore» rispose Sandy sollevandosi leggermente.
«Vuole alzarsi, prego, signor Lanigan?» domandò Huskey. Ancora ammanettato, Patrick spinse lentamente la sedia all'indietro e si alzò. Rimase curvo in avanti, con testa e spalle chine. Non era una recita. Il sedativo lo aveva intorpidito, non solo nel corpo ma anche nei pensieri. «Signor Lanigan, ho qui una copia di un avviso di imputazione emesso contro di lei dal gran giurì della contea di Harrison, dove lei è accusato di aver ucciso volontariamente un essere umano. Lo ha letto?» «Sì, signore» rispose Patrick rialzando la testa e cercando di dare volume alla voce. «Ne ha discusso con il suo avvocato?» «Sì, signore.» «E come si dichiara?» «Non colpevole.» «La sua dichiarazione di non colpevolezza sia messa agli atti. Ora può sedersi.» Huskey riordinò alcune carte che aveva sul tavolo prima di riprendere la parola: «La corte di sua iniziativa impone da questo momento l'obbligo del silenzio all'imputato, agli avvocati, alle autorità investigative e di polizia, a tutti gli eventuali testimoni e a tutto il personale giudiziario, con effetto immediato e per la durata del processo. Vi farò pervenire copie personali dell'ordinanza. Qualsiasi violazione sarà ritenuta atto di oltraggio nei confronti della corte e punita con la massima severità. Nessuna parola a nessun giornalista senza il mio permesso esplicito. Gli avvocati hanno qualcosa da chiedere?». Dal tono con cui si era espresso, era evidente che il giudice non solo escludeva qualsiasi indulgenza, ma avrebbe provato piacere nel perseguire il trasgressore. Gli avvocati rimasero in silenzio. «Bene. Ho preparato una scaletta per esposizione, istanze, dibattimento preprocessuale e processuale. È a vostra disposizione in cancelleria. Nient'altro?» Si alzò Parrish. «Solo una questione marginale, vostro onore. Vorremmo far trasferire l'imputato al più presto possibile nelle nostre strutture di detenzione. Come sa, si trova attualmente alla base militare, ricoverato in ospedale e, be', noi...» «Ho appena sentito il suo medico, signor Parrish. L'imputato si trova attualmente in terapia. Le assicuro che appena verrà dimesso sarà trasferito alla prigione di contea.» «Grazie, giudice.»
«Se non c'è altro, possiamo aggiornarci.» Patrick fu accompagnato giù per le scale di servizio e caricato sulla Suburban nera in mezzo ai flash delle macchine fotografiche. Durante il viaggio di ritorno in ospedale chiuse gli occhi e si addormentò. 18 Gli unici reati che potevano essere addebitati a Stephano erano sequestro di persona e aggressione ai danni di Patrick, perciò un arresto era improbabile. Tutto era accaduto in Sud America, lontano dalla giurisdizione statunitense. L'aggressione vera e propria, poi, era stata operata da altri, tra i quali alcuni brasiliani. Se si fosse finiti in tribunale, l'avvocato di Stephano era sicuro che l'avrebbero spuntata. Ma c'erano di mezzo i clienti e una reputazione da proteggere. L'avvocato conosceva bene l'arte con cui l'Fbi sapeva perseguitare le sue vittime e per questo aveva consigliato Stephano di accordarsi, accettare di raccontare tutto in cambio della promessa di immunità per sé e i suoi clienti. Aveva voluto assolutamente assistere alla deposizione di Stephano. Gli interrogatori sarebbero durati molte ore per alcuni giorni, ma l'avvocato non intendeva mancare. Jaynes volle che fossero condotti nell'Hoover Building dai suoi uomini. Furono serviti caffè e pasticcini. Due telecamere furono puntate sull'estremità del tavolo dove Stephano sedeva calmo, in maniche di camicia, assistito dal suo avvocato. «Vuole dirci come si chiama?» domandò Underhill, il primo dei suoi inquirenti, che, come i colleghi, aveva imparato a memoria tutti i dati raccolti sul caso Lanigan. «Jonathan Edmund Stephano. Jack.» «E la sua società?» «La Edmund Associates.» «E di che cosa si occupa la sua società?» «Molte cose. Consulenze sulla sicurezza. Sorveglianza. Ricerca di personale e persone scomparse.» «A chi appartiene?» «A me. Per intero.» «Quanti dipendenti ha?» «Dipende. In questo momento a tempo pieno sono in undici. Trenta a tempo parziale o come collaboratori esterni.» «Lei è stato assunto per rintracciare Patrick Lanigan?»
«Sì.» «Quando?» «Il 28 marzo 1992.» Stephano aveva con sé una montagna di appunti, ma non aveva bisogno di consultarli. «Da chi?» «Benny Aricia, l'uomo a cui erano stati rubati i soldi.» «Quanto ha chiesto per questo incarico?» «L'anticipo iniziale era di duecentomila dollari.» «Quanto le ha versato il signor Aricia fino a oggi?» «Un milione e novecentomila.» «Che cosa ha fatto dopo che è stato assunto dal signor Aricia?» «Molte cose. Mi sono recato subito a Nassau nelle Bahamas a visitare la banca dov'era avvenuto il furto. È una filiale della United Bank of Wales. Il mio cliente, il signor Aricia, e lo studio legale che lo rappresentava, vi avevano aperto un conto in cui versare il denaro ma, come ora sappiamo, c'era anche qualcun altro ad attenderlo.» «Il signor Aricia è un cittadino degli Stati Uniti?» «Sì.» «Perché aveva aperto un conto all'estero?» «Si trattava di novanta milioni di dollari, sessanta per lui e trenta per gli avvocati. Nessuno voleva che una somma di tale entità fosse versata in una banca di Biloxi. Era lì che all'epoca viveva il signor Aricia e tutti erano concordi nel ritenere inopportuno che i soldi arrivassero sul suo zerbino di casa.» «Non è che il signor Aricia stava cercando di evadere il Fisco?» «Non lo so. Dovrete chiederlo a lui. Non è cosa che mi riguardi.» «Con chi ha parlato alla United Bank of Wales?» L'avvocato brontolò in segno di disapprovazione, ma non intervenne. «Con Graham Dunlap, un inglese. Vicepresidente della banca, credo.» «Che cosa le ha detto?» «La stessa cosa che aveva già detto agli uomini dell'Fbi. Che il denaro era scomparso.» «Da dove proveniva?» «Da Washington. Il trasferimento aveva avuto inizio alle nove e trenta della mattina del 26 marzo 1992 dalla D.C. National Bank. Era classificato come preferenziale, il che significa che sarebbe stata impiegata meno di un'ora perché la pratica fosse chiusa e la somma messa a disposizione della filiale di Nassau. Alle dieci e un quarto la United Bank era tecnicamente in
possesso dei soldi, ma nove minuti dopo la somma veniva ritrasferita in una banca di Malta e, da lì, successivamente inviata a Panama.» «Com'è possibile che il denaro sia stato prelevato dal conto?» L'avvocato manifestò la sua irritazione. «Questo è uno spreco di tempo» protestò. «Sono informazioni già in vostro possesso da quattro anni. Avete passato più tempo voi con i banchieri che il mio cliente.» Underhill non si scompose. «Abbiamo il diritto di fare queste domande. Stiamo solo verificando che cosa è già di nostra conoscenza. Dunque, signor Stephano, com'è possibile che sia stato prelevato il denaro da quel conto?» «All'insaputa del mio cliente e dei suoi rappresentanti legali, qualcuno, presumiamo il signor Lanigan, aveva accesso al nuovo conto estero e aveva predisposto anticipatamente istruzioni di inoltro alla banca di Malta. Aveva fatto in modo che le istruzioni risultassero sottoscritte dagli avvocati del mio cliente, dando mandato perché il denaro fosse trasferito nove minuti dopo il versamento. In quel momento si pensava che il signor Lanigan fosse morto, perciò nessuno aveva motivo di sospettare che volesse impossessarsi del denaro. Le contrattazioni da cui avevano avuto origine i novanta milioni erano state condotte nella massima segretezza e, all'infuori del mio cliente, dei suoi rappresentanti legali e di pochissime persone al dipartimento della Giustizia, nessuno sapeva quando o dove sarebbe stato inviato il compenso.» «Da quello che ci risulta, nel momento in cui sono arrivati i soldi, in banca c'era una persona ad attenderli.» «Sì. E siamo quasi certi che fosse Patrick Lanigan. La mattina del trasferimento si è presentato a Graham Dunlap facendosi chiamare Doug Vitrano, che è il nome di uno dei soci dello studio legale. Aveva tutti i documenti in regola, passaporto, patente di guida e via dicendo. Era molto ben vestito e sapeva tutto del denaro che stava per arrivare da Washington. Era inoltre in possesso di un'autorizzazione autenticata da un notaio con cui lo studio legale lo incaricava di trasferire i soldi a una banca di Malta.» «So benissimo che avete le copie di quell'autorizzazione e dei documenti per il trasferimento da una banca all'altra» intervenne l'avvocato. «Infatti» rispose Underhill, sfogliando tranquillamente i suoi appunti. L'Fbi aveva seguito il trasferimento a Malta e da lì a Panama, dove si perdevano le tracce del denaro. C'era anche l'ingrandimento di uno sfocato fotogramma ricavato dal nastro del circuito chiuso del sistema di sicurezza installato nella banca in cui si intravedeva l'uomo che si era presentato co-
me Doug Vitrano. L'Fbi e i soci dello studio legale erano sicuri che si trattasse di Patrick, nonostante l'ottimo travestimento: era molto più magro, aveva i capelli corti e molto più scuri, si era fatto crescere i baffi e portava un paio di eleganti occhiali con montatura di corno. Aveva spiegato a Graham Dunlap di essersi recato di persona nelle Bahamas per assistere alla transazione per conto dello studio, data la delicatezza dell'operazione. Dunlap non aveva visto niente di strano e, anzi, aveva ritenuto più che comprensibile l'apprensione degli avvocati e del loro cliente. Una settimana dopo era stato licenziato e si era ritrasferito a Londra. «Allora siamo tornati a Biloxi e ci siamo rimasti per un mese a cercare eventuali indizi» continuò Stephano. «E avete scoperto che gli uffici dello studio legale erano controllati.» «Proprio così. Per ovvie ragioni, abbiamo subito sospettato del signor Lanigan e il nostro compito divenne duplice: da un lato trovare lui e i soldi e dall'altro capire come fosse riuscito a mettere a segno un simile colpo. Lo studio legale ci fu messo a disposizione per un fine settimana e i nostri tecnici lo perquisirono da capo a fondo. Era infestato. Abbiamo trovato cimici in tutti i telefoni, in tutti gli uffici, sotto tutte le scrivanie, nei corridoi, persino nelle toilette al pianterreno. L'unica eccezione era l'ufficio di Charles Bogan per il semplice motivo che Bogan aveva l'abitudine di tenerlo sprangato peggio di una cassaforte. Ed erano apparecchi di alta qualità, ventidue in tutto. I loro segnali venivano rilevati da un ricevitore che trovammo nascosto in uno scatolone in soffitta, in un angolo dove nessuno si avventurava da anni.» Underhill ascoltò senza sentire. Tutto veniva comunque registrato e i suoi superiori avrebbero potuto studiare la deposizione in seguito. Quei preliminari gli erano noti. Tolse dal suo incartamento la documentazione in cui, in quattro fitti paragrafi, veniva analizzato il sistema di intercettazione impiantato da Patrick. I microfoni erano autentici gioielli, minuscoli, potenti, costosissimi, prodotti da una nota azienda malese. Se negli Stati Uniti era illegale possederli o acquistarli, era relativamente facile procurarseli in qualsiasi grande città europea. E Patrick e Trudy avevano trascorso le feste di Capodanno a Roma, cinque settimane prima della morte dell'avvocato. Il ricevitore trovato nello scatolone in soffitta aveva impressionato perfino gli esperti dell'Fbi. Quando Stephano lo aveva rinvenuto, l'apparecchio aveva meno di tre mesi e gli uomini dell'Fbi erano stati costretti ad ammettere che per perfezione tecnologica sopravanzava di un anno almeno le lo-
ro attrezzature elettroniche più recenti. Prodotto da un'ignota ditta tedesca, era in grado di ricevere i segnali di tutti e ventidue i microfoni nascosti negli uffici sottostanti, mantenerli separati e ritrasmetterli, a uno a uno o tutti insieme, a una parabolica collocata nelle vicinanze. «Avete trovato dove venivano spediti i segnali?» chiese Underhill. Quella non era una domanda retorica, perché all'Fbi non erano stati in grado di stabilirlo. «No. Il raggio d'azione è di cinque chilometri, in tutte le direzioni, perciò ci è stato impossibile.» «Qualche ipotesi?» «Sì, una. lo dubito che Lanigan fosse così ingenuo da installare una parabolica nell'arco di cinque chilometri dal centro di Biloxi. Avrebbe dovuto trovare locali in affitto, nascondere l'antenna, passare un sacco di tempo ad ascoltare ore di conversazione. Ha dimostrato di essere molto metodico e io ho sempre avuto il sospetto che si sia servito di un'imbarcazione. Molto più semplice e più sicuro. Lo studio legale si trova a soli seicento metri dalla spiaggia e ci sono sempre imbarcazioni nel Golfo. Niente di più facile che gettare l'ancora a due miglia dalla costa e starsene tranquilli in disparte.» «Possedeva un'imbarcazione?» «Noi non l'abbiamo trovata.» «Qualche prova che ne abbia usata una?» «Forse.» A questo punto Stephano fece una pausa perché stava inoltrandosi in un territorio sconosciuto all'Fbi. La pausa indispettì subito Underhill. «Questo non è un interrogatorio incrociato, signor Stephano.» «Lo so. Abbiamo sentito tutti i noleggiatori di barche lungo la Costa, da Destin a New Orleans, e ne abbiamo trovato uno che sembrava fare al caso nostro. Una piccola agenzia a Orange Beach, Alabama, che l'11 febbraio 1992 aveva affittato una barca a vela di nove metri a un uomo che si era dichiarato disposto a versare il doppio della tariffa mensile di mille dollari se gli fosse stato concesso di pagare in contanti e senza che venisse messo nulla per iscritto. Ritennero che si trattasse di un trafficante di stupefacenti e risposero di no. Allora il cliente offrì cinquemila dollari di deposito, più duemila dollari al mese per due mesi. Era stagione morta e l'imbarcazione era assicurata contro il furto. Decisero di correre il rischio. L'11 febbraio 1992 è il giorno in cui Lanigan è stato sepolto.» Underhill ascoltò senza battere ciglio. Non prese appunti. «Gli ha mo-
strato una fotografia?» «Sì. Hanno detto che poteva essere Patrick, ma non aveva la barba, i capelli erano scuri, portava un berretto da baseball e occhiali da vista. Ed era grasso. È successo prima che scoprisse l'Ultra Slim-Fast. Comunque l'identificazione non è sicura.» «Che nome ha usato?» «Randy Austin. Aveva una patente di guida della Georgia, senza foto. E si è rifiutato di esibire altre credenziali. Del resto pagava in contanti, ben cinquemila dollari. Gli avrebbero venduto la barca per venti.» «Che fine ha fatto l'imbarcazione?» «È tornata alla base. Il tizio con cui ho parlato ha detto che si era insospettito perché Randy non dava l'impressione di sapere molto di vela. Così gli ha fatto domande, ha sondato la situazione. Randy ha detto che era in giro per il Sud perché aveva bisogno di tirare il fiato dopo un matrimonio andato storto ad Atlanta e lo stress della lotta per la sopravvivenza sul lavoro. Aveva un sacco di soldi e gli piaceva andare per mare. Ora gli era venuta l'idea di scendere ai Key esercitandosi con le vele per ritrovare la dimestichezza di un tempo. Promise di rimanere sempre in vista della Costa. Era una storia accettabile e il noleggiatore si è sentito abbastanza rassicurato, ma non del tutto. Il giorno dopo Randy è riapparso dal nulla, non c'era né una macchina né un taxi, come se fosse arrivato alla darsena a piedi o in autostop. Dopo un sacco di preliminari ha preso il mare. La barca era dotata di un potente motore diesel in grado di toccare gli otto nodi. Randy è scomparso all'orizzonte in direzione est e il noleggiatore, non avendo altro da fare, è sceso lungo la Costa, fermandosi in un paio di bar lungo la strada e riuscendo a tenerlo d'occhio. Randy si manteneva a un quarto di miglio dalla terraferma, cavandosela a sufficienza. Poi lo ha visto ormeggiare a Perdido Bay e partire a bordo di una Taurus a noleggio con targa dell'Alabama. È andata avanti così per un paio di giorni, durante i quali il nostro noleggiatore non ha mai perso di vista la sua barca. Randy ci giocava, allontanandosi dalla Costa prima per un miglio, poi un po' di più. Il terzo o quarto giorno ha diretto la prua a ovest, verso Mobile e Biloxi, ed è rimasto via per tre giorni. «È riapparso, poi è partito di nuovo, ancora in direzione ovest. Mai est o sud, verso i Key. Il noleggiatore ha smesso di stare in pensiero per la sua barca, perché Randy rimaneva comunque sempre nei paraggi. Si assentava magari per una settimana, ma ritornava sempre.» «E lei pensa che fosse Patrick?»
«Sì. Ne sono convinto. Secondo me quadra tutto. Sulla barca era isolato. Poteva stare via per giorni senza parlare con nessuno. Poteva registrare i segnali dei suoi microfoni da cento posti diversi lungo il tratto di Costa tra Biloxi e Gulfport. E poi la barca era un ottimo luogo dove mettersi a dieta.» «Che fine ha fatto?» «Randy l'ha lasciata al pontile ed è scomparso senza una parola. Il proprietario ha riavuto la sua imbarcazione insieme con i cinquemila.» «L'avete esaminata?» «Al microscopio. Niente. Il noleggiatore ha detto che non era mai stata così pulita.» «Quando è scomparso?» «Il nostro uomo non ne era del tutto certo perché aveva smesso di seguire quotidianamente gli spostamenti della sua barca. L'ha ritrovata al molo il 30 marzo, quattro giorni dopo il furto dei novanta milioni. Abbiamo parlato a un ragazzo che quel giorno lavorava sul posto e, per quanto è riuscito a ricordare, Randy avrebbe ormeggiato il 24 o il 25. Dunque le date coincidono alla perfezione.» «Che fine ha fatto l'auto a noleggio?» «L'abbiamo rintracciata in un secondo tempo. Era dell'Avis, noleggiata al Mobile Regional Airport la mattina di lunedì 10 febbraio, dieci ore circa dopo lo spegnimento dell'incendio. L'uomo che l'aveva presa non aveva barba, aveva capelli bruni tagliati corti, portava occhiali con montatura di corno, indossava giacca e cravatta e aveva dichiarato di essere appena sbarcato da un volo navetta da Atlanta. Abbiamo mostrato le fotografie all'impiegata in servizio, che si è limitata a dire che non poteva escludere che la persona ritratta fosse Patrick Lanigan. Aveva evidentemente usato la stessa patente della Georgia. Aveva pagato con una Visa falsa, a nome Randy Austin, con un numero rubato da un conto realmente esistente a Decatur in Georgia. Le aveva detto di essere un imprenditore edile indipendente in giro da quelle parti a caccia di un terreno dove costruire una casa da gioco. Sul modulo non aveva scritto nessun nome di società. La macchina gli serviva per una settimana. All'Avis non l'hanno più rivisto. L'auto è scomparsa per quattordici mesi.» «Perché non l'ha restituita?» chiese perplesso Underhill. «Molto semplice. Quando l'ha noleggiata, la sua morte era un fatto molto recente di cui ancora non si sapeva in giro. Ma il giorno dopo la sua faccia era sulle prime pagine dei giornali di Biloxi e Mobile. Probabilmente
ha pensato che fosse troppo rischioso restituire l'automobile. L'hanno poi trovata a Montgomery, rubata e malridotta.» «E Patrick?» «Secondo me deve aver lasciato la zona di Orange Beach il 24 o il 25 marzo, assumendo l'identità di Doug Vitrano, suo ex socio. Abbiamo scoperto che il 25 ha preso un aereo da Montgomery per Atlanta, quindi una coincidenza in prima classe per Miami e di nuovo in prima classe per Nassau. Tutti i biglietti erano a nome Doug Vitrano e per espatriare da Miami e per entrare alle Bahamas ha usato il suo passaporto. L'aereo è atterrato a Nassau alle otto e mezzo del mattino del 26. Il sedicente Doug Vitrano si è presentato alla banca alle nove, orario d'apertura. A Graham Dunlap ha mostrato il passaporto assieme agli altri documenti. Ha dirottato il denaro, con tanti saluti, è montato su un aereo per New York ed è atterrato al La Guardia alle due e mezzo del pomeriggio. A questo punto si è sbarazzato dei documenti di Vitrano e ne ha adoperati altri. E noi lo abbiamo perso.» Quando l'offerta toccò i cinquantamila dollari, Trudy rispose di sì. Il programma era Dentro la notizia, notiziario d'arrembaggio con solidi indici d'ascolto e forte di notevoli appoggi finanziari. Sistemarono le luci, oscurarono le finestre e srotolarono cavi in giro per casa. La "giornalista" era Nancy de Angelo, arrivata con un volo diretto da Los Angeles seguita da uno stuolo di parrucchiere e truccatrici. Risoluta a non esserle da meno, Trudy passò due ore davanti allo specchio e quando riapparve lasciò tutti senza fiato. Nancy disse che era troppo. Doveva sembrare ferita nell'animo, angosciata, travolta da avvenimenti più grandi di lei, assediata dagli avvocati, furiosa con suo marito per quello che aveva fatto a lei e alla figlioletta. Trudy tornò in lacrime nella sua camera e Lance la consolò per mezz'ora. Riapparve quasi affascinante come prima anche se indossava un paio di jeans e un pullover di cotone. Ashley Nicole servì da scenografia, seduta sul divano vicino alla madre. «Ora fa' la faccia triste» le raccomandò Nancy mentre i tecnici controllavano l'illuminazione. «Da te abbiamo bisogno di lacrime» disse a Trudy. «Lacrime vere.» Chiacchierarono per un'ora delle cose orribili che Patrick aveva fatto a lei e alla bambina. Trudy si mise a piangere quando ricordò il funerale. Avevano una foto della scarpa trovata sul luogo dell'incidente. Aveva sofferto per anni dopo la tragedia. No, non si era risposata. No, non aveva avuto notizie del marito da quando era rientrato in patria. Non era sicura di
volerlo rivedere. No, Patrick non aveva fatto niente per vedere la figlia... ed ebbe un'altra crisi di pianto. L'idea del divorzio le era insopportabile, ma che alternative le restavano? E la causa in tribunale... che orrore! Quei bruti della compagnia di assicurazioni che la trattavano come una parassita. Patrick era una persona disgustosa. Se avessero trovato i soldi, si aspettava di riceverne una parte? Mai e poi mai! Era un'ipotesi che la inorridiva e la indignava. L'intervista fu ridotta a venti minuti di trasmissione che Patrick seguì nella sua camera in ospedale. Con un sorriso sulle labbra. 19 La segretaria di Sandy stava ritagliando la foto del principale e l'articolo apparso sul quotidiano di New Orleans con il resoconto della breve udienza tenutasi il giorno prima. Quando arrivò la telefonata, rintracciò immediatamente Sandy, lo sottrasse a un'affollata deposizione e gli passò la linea. Era riapparsa Leah Pires. Lo salutò e subito chiese se aveva controllato che non ci fossero microfoni in ufficio. Sandy la rassicurò, rispose di aver fatto esaminare i suoi locali da poche ore. Leah si trovava in un albergo sulla Canal, a pochi isolati, e propose che s'incontrassero lì: una proposta che, giunta da lei, aveva più peso di un'ordinanza di un giudice federale. Tutto quello che chiedeva. Solo sentire la sua voce lo riempiva di eccitazione. La giovane donna non aveva fretta, così Sandy se la prese comoda, scendendo a piedi per Poydras, poi fino alla Magazinen e finalmente imboccando la Canal. Sempre rifiutando l'idea di girarsi a guardare alle proprie spalle. La paranoia di Patrick era comprensibile, dopo essere vissuto alla macchia fino al giorno in cui le sue ombre lo avevano finalmente raggiunto. Nessuno però lo avrebbe mai convinto che le stesse persone pedinassero anche lui. Era il rappresentante legale di un imputato in un caso di grande scalpore e solo la follia avrebbe potuto spingere gli uomini della controparte a intercettare le sue telefonate e tenerlo sott'occhio. Una mossa sbagliata e il loro caso contro Patrick sarebbe saltato in aria. Aveva tuttavia trovato una società specializzata in sistemi di sicurezza e aveva preso un appuntamento perché gli controllassero l'ufficio. Per accontentare il suo cliente, non per volontà propria.
Leah lo accolse con una vigorosa stretta di mano e un bel sorriso, ma Sandy capì subito che era turbata da molti pensieri. Era scalza, in jeans e maglietta bianca di cotone, molto casual, il che probabilmente valeva per la gran parte dei brasiliani, rifletté. Lui non c'era mai stato, laggiù. La porta dell'armadio a muro era aperta; non c'erano molti indumenti appesi. Si spostava in continuazione, costretta a un bagaglio leggero, probabilmente perennemente in fuga come era stato Patrick fino a pochi giorni prima. Versò caffè per entrambi e gli chiese di sedere al tavolo. «Come sta?» gli domandò. «Guarisce. Il dottore dice che si rimetterà.» «Com'era?» volle sapere allora lei, abbassando il tono della voce. Aveva un accento adorabile, appena percettibile. «Brutta storia.» Sandy prese una cartelletta dalla sua borsa. «Ecco qui.» Alla prima fotografia, lei corrugò la fronte mormorando qualcosa in portoghese. Quando guardò la seconda, le si inumidirono gli occhi. «Povero Patrick» commentò tra sé. «Povero ragazzo mio.» Esaminò con calma le immagini, asciugandosi delicatamente le lacrime con il dorso della mano, finché Sandy ritrovò la presenza di spirito e le allungò un fazzoletto di carta. Non aveva vergogna di piangere su quelle foto e quand'ebbe finito le raccolse in buon ordine e le ripose nella cartelletta. «Mi dispiace» si scusò Sandy. Non sapeva che cos'altro dire. «Ah» ricordò poi, «qui c'è una lettera da parte sua.» Lei smise di piangere e versò dell'altro caffè. «Ha subito danni permanenti?» gli domandò. «Secondo il dottore no. Avrà delle cicatrici, ma dovrebbe guarire completamente.» «E mentalmente come sta?» «Bene. Dorme ancora meno. Ha incubi che lo perseguitano di giorno e di notte, ma reagisce bene alle medicine. Sinceramente non riesco a immaginare che cos'abbia passato.» Bevve un sorso di caffè. «Credo però che possa ritenersi fortunato di essere ancora vivo.» «Aveva sempre detto che non lo avrebbero ucciso.» Aveva tante cose da chiederle. L'avvocato che c'era dentro di lui si tratteneva a stento: Patrick sapeva di averli alle calcagna? Aveva capito che l'inseguimento stava per finire? Dov'era lei quando lo avevano individuato? Viveva con lui? Come avevano nascosto il denaro? Dove si trovavano in quel momento i soldi? Erano al sicuro? La prego, mi dica qualcosa, sono avvocato, di me si può fidare...
«Parliamo del suo divorzio» riprese lei cambiando bruscamente argomento. Avvertiva la curiosità di lui. Si alzò e andò a prendere un voluminoso incartamento da un cassetto. Lo posò sul tavolo. «Ieri sera ha visto Trudv in TV?» «Sì. Patetica, vero?» «Molto graziosa.» «Sì, lo è. Ho paura che Patrick abbia commesso l'errore di sposarla per il suo aspetto fisico.» «Non sarebbe il primo.» «Quanto a questo ha ragione.» «Patrick la disprezza. Quella donna è una poco di buono e gli è stata infedele fin dal primo giorno di matrimonio.» «Infedele?» «Sì. È tutto qui, in questo dossier. Nell'ultimo anno in cui sono stati insieme, Patrick aveva assunto un investigatore. Il suo amante era un certo Lance Maxa, un uomo con cui si incontrava più che assiduamente. Ci sono persino fotografie in cui si vede Lance che entra ed esce dalla casa di Patrick durante le sue assenze. Ci sono foto di Lance e Trudy che prendono il sole ai bordi della piscina di Patrick. Nudi, naturalmente.» Sandy sfogliò l'incartamento e trovò le foto. Nudi come mamma li aveva fatti. Non seppe trattenere un sorriso malizioso. «Questo è un elemento simpatico da includere nella causa di divorzio.» «Capisce anche lei che Patrick desidera questo divorzio. Non si opporrà. Ma bisogna chiudere la bocca a quella donna. Gode troppo a dire tutte quelle porcherie su Patrick.» «Questo dovrebbe zittirla. E la bambina?» Leah si sedette e lo guardò diritto negli occhi. «Patrick vuole molto bene ad Ashley Nicole, ma c'è un problema. Lui non è suo padre.» Sandy alzò le spalle come se fosse storia di tutti i giorni. «Il vero padre chi è?» «Patrick non ne ha la certezza, ma probabilmente è Lance. A quanto pare la relazione tra lui e Trudy è cominciata molto tempo fa. Ancora ai tempi del liceo.» «Come fa Patrick a dire che non è lui il padre?» «Quando la bambina aveva quattordici mesi, Patrick le ha preso un campione di sangue pungendole un dito. Lo ha mandato a un laboratorio insieme con un campione del proprio e ha fatto fare l'analisi del Dna. I suoi sospetti erano fondati. È fuori dubbio che non è lui il padre della bambina.
C'è anche questo nel dossier.» Sandy dovette alzarsi e camminare un po' per riordinare i pensieri. Si fermò alla finestra a contemplare il traffico in Canal Street. Un altro tassello aveva appena trovato il suo posto nel rompicapo di Patrick. L'interrogativo del momento era: da quanto tempo Patrick stava progettando la sua scomparsa? Una moglie infedele, una figlia bastarda, un incidente orribile, nessun cadavere, un furto clamoroso... prendi i soldi e scappa. Un piano sbalorditivo, un colpo magistrale. Tutto aveva funzionato alla perfezione. Fino a qualche giorno prima. «Ma allora perché opporsi al divorzio?» chiese, sempre guardando la strada. «Se non vuole la bambina, perché rimestare questo fango?» Conosceva la risposta, ma voleva sentirla espressa a chiare lettere. Così facendo, Leah gli avrebbe consentito di gettare un primo sguardo sulle intenzioni del suo cliente. «Mostrerà quelle informazioni solo al suo avvocato» spiegò lei. «Gli farà vedere il dossier. Tutto. Dopodiché saranno ansiosi di trovare un accordo.» «In senso economico.» «Infatti.» «E in quali termini?» «A lei non andrà niente.» «Che cosa c'è in ballo?» «Dipende. Potrebbero essere pochi soldi, ma potrebbe essere un patrimonio notevole.» Sandy si girò a rivolgerle uno sguardo severo. «Non posso negoziare un accordo se non so di che cosa è in possesso il mio cliente. Prima o poi dovrete mettermi al corrente.» «Abbia pazienza» rispose lei senza minimamente scomporsi. «A suo tempo saprà.» «Patrick crede davvero di poterne uscire da vincitore?» «Quanto meno ci proverà.» «Non può funzionare.» «Ha un'idea migliore?» «No.» «Appunto. È la nostra unica possibilità.» Sandy si appoggiò alla parete. «Sarebbe opportuno che mi spiegaste qualcosa di più.» «Lo faremo. Glielo prometto. Ma prima deve occuparsi del divorzio.
Vogliamo che Trudy rinunci a ogni pretesa sui suoi beni.» «Dovrebbe essere facile. E divertente.» «Si metta al lavoro. Ci risentiamo la prossima settimana.» Lo stava bruscamente congedando. Era già in piedi a riordinare le sue carte. Sandy prese il dossier e lo ripose nella borsa. «Per quanto tempo si tratterrà qui?» chiese. «Non molto» rispose lei consegnandogli una busta. «Questa è una lettera per Patrick. Gli riferisca che sto bene, che non resto mai a lungo nello stesso posto e che finora non mi risulta di essere stata seguita.» Sandy prese la busta e cercò di incrociare il suo sguardo. Era nervosa, ansiosa che lui se ne andasse. Avrebbe voluto almeno offrirle il suo aiuto, ma sentiva che il momento era sbagliato. Lei sorrise con un certo sforzo. «Ha un lavoro da fare. Vada. Al resto penseremo io e Patrick.» Mentre Stephano a Washington raccontava la sua storia, Benny Aricia e Guy si insediavano a Biloxi. Presero in affitto un appartamento sulla Back Bay e vi installarono telefoni e un fax. Secondo quanto voleva la prassi, la ragazza sarebbe riapparsa lì. Patrick era confinato e per il prossimo futuro la sua vita era abbastanza prevedibile. Non sarebbe andato da nessuna parte. Sarebbe stata costretta lei a raggiungere lui. E loro l'avrebbero catturata. Per quell'ultima, piccola operazione Aricia aveva stanziato centomila dollari e aveva giurato a se stesso che sarebbero stati gli ultimi: dopo aver speso due milioni, aveva saggiamente deciso di fermarsi prima di finire al verde. La Northern Case Mutual e la Monarch-Sierra avevano già gettato la spugna, lasciando sulle sue sole spalle il peso economico delle ricerche. Stephano avrebbe incantato l'Fbi con il flauto dei suoi racconti, mentre Guy e gli altri cercavano la ragazza camminando su un filo di speranza. Intanto Osmar, assistito da una squadra di tirapiedi a basso costo, sorvegliava giorno dopo giorno le strade di Rio. Se la ragazza fosse ricomparsa lì, l'avrebbero vista senz'altro. Il ritorno sulla Costa aveva fatto riaffiorare ricordi infelici nel cuore di Benny Aricia. Ci era arrivato la prima volta nel 1985 in qualità di dirigente della Platt & Rockland Industries, una gigantesca multinazionale che lo aveva spedito in giro per il mondo per vent'anni a risolvere problemi e spianare grane. Una delle aziende più redditizie della società era la Coastal Shipyards con sede a Pascagoula, tra Biloxi e Mobile. Nel 1985 la Coastal
aveva firmato con la marina militare un contratto da dodici miliardi di dollari per la costruzione di quattro sottomarini nucleari classe Expedition e qualcuno ai piani di sopra aveva deciso che per Benny c'era bisogno di una residenza fissa. Cresciuto nel New Jersey, trasferitosi per gli studi a Boston, e all'epoca marito di una repressa arrivista sociale, conduceva nel Mississippi un'esistenza assai poco allegra. Aveva visto in quella trasferta un grave dirottamento dalle alte gerarchie aziendali a cui ambiva. Dopo due anni a Biloxi, la moglie lo aveva piantato. La Platt & Rockland era una società quotata in Borsa con un pacchetto azionario pari a ventun miliardi di dollari, ottantamila dipendenti in trentasei aziende sparse in centotré nazioni. Commerciava in forniture per uffici, legname, migliaia di prodotti per il mercato al dettaglio e polizze assicurative. Si occupava della ricerca di gas naturale, gestiva una flotta mercantile, estraeva rame e, tra le molte altre attività, costruiva sottomarini nucleari. Fortemente decentrata al punto che, come regola, la mano sinistra non sapeva mai che cosa stesse facendo la destra, ammassava suo malgrado profitti immensi. Benny sognava di semplificare la società, tagliando i rami secchi e aumentando gli investimenti nei settori più prosperosi. La sua ambizione era sfrenata e ai livelli direttivi della società tutti erano consapevoli di quali fossero le sue mire. Per lui la vita a Biloxi era uno scherzo crudele, una sosta forzata ai box orchestrata dai suoi nemici dentro la società. Detestava gli appalti governativi, disprezzava la burocrazia e i prepotenti funzionari del Pentagono. Odiava la lentezza con cui venivano costruiti i sottomarini. Nel 1988 aveva chiesto invano un trasferimento. Un anno dopo erano emersi i primi dubbi su un grave sfondamento dei costi del progetto Expedition. I lavori furono sospesi per un'indagine presso i cantieri navali da parte delle autorità del governo e del Pentagono. La poltrona di Benny si era improvvisamente surriscaldata. La fine era vicina. Come ditta appaltatrice per la Difesa, la Platt & Rockland aveva un buon curriculum di sfondamento dei tetti di spesa, fatturazioni gonfiate e millantato credito. Era un modo per guadagnare e, quando i nodi venivano al pettine, la regola era licenziare tutti alla vigilia del dibattimento in tribunale e negoziare con il Pentagono un esiguo risarcimento. Benny si era rivolto a un avvocato locale, Charles Bogan, socio anziano di un piccolo studio che annoverava tra gli avvocati più giovani un certo
Patrick Lanigan. Un cugino di Bogan era senatore in rappresentanza dello stato del Mississippi, un falco spietato che presiedeva la sottocommissione sugli stanziamenti militari ed era molto amato al Pentagono. L'uomo sotto il quale Bogan aveva fatto il suo apprendistato era ora giudice federale, cosicché il piccolo studio legale era tra i meglio politicamente collocati di tutto il Mississippi. E Benny lo aveva tenuto ben presente nel fare la sua scelta. La legge contro il millantato credito aveva lo scopo di sollecitare le testimonianze delle persone venute a conoscenza di casi di fatturazione gonfiata negli appalti governativi. Benny ne aveva studiato attentamente il testo, facendosi assistere persino da uno degli avvocati dello studio, prima di presentarsi a Bogan. Aveva sostenuto di poter provare che nel progetto Expedition la Platt & Rockland aveva in animo di sovraffatturare il governo per seicento milioni di dollari. Sentiva la scure che stava per abbattersi e non intendeva fare la parte del capro espiatorio. Smascherando i suoi datori di lavoro si sarebbe giocato qualunque possibilità di trovare un altro posto allo stesso livello, perché la Platt & Rockland non si sarebbe risparmiata nell'informare tutto il settore del suo tradimento. Avrebbero scritto il suo nome nella lista nera e non avrebbe avuto più un futuro nel giro delle grandi aziende. Capiva perfettamente le regole del gioco. Tuttavia, in base a quanto stabiliva la legge, chi denunciava una malefatta ai danni del governo poteva in certi casi rivendicare il quindici per cento della somma risarcita dalla società colpevole. Benny era in grado di documentare il piano della Platt & Rockland e aveva bisogno dell'esperienza di Bogan e della sua leva politica per intascare il suo quindici per cento. Nel settembre 1990, dopo aver preparato una denuncia solida e convincente, gli avvocati la depositarono alla corte federale. Vi si sosteneva che la Platt & Rockland era colpevole di frode ai danni del governo per una somma pari a seicento milioni di dollari. Il giorno della denuncia Benny aveva dato le dimissioni. Con l'aiuto di ingegneri e consulenti, Bogan aveva fatto interpretare le migliaia di documenti messigli a disposizione da Aricia, dai quali era affiorato un piano ben congegnato e tutto sommato non molto complesso. Lo schema della truffa era classico: gli stessi materiali venivano fatturati più di una volta con documentazioni fittizie. Il trucco in uso da tempo alla Platt & Rockland era noto solo a due alti dirigenti al cantiere navale. Benny sosteneva di esservisi imbattuto per caso.
Al lavoro meticoloso di Bogan si affiancò quello altrettanto scrupoloso del cugino senatore, messo al corrente fin dall'inizio e perciò in grado di seguire lo sviluppo del caso già dal suo arrivo a Washington. Bogan non era tipo da accontentarsi di una pacca sulla schiena, né erano a buon mercato i servigi del senatore. Lo studio legale avrebbe preteso l'onorario standard pari a un terzo della somma in questione. Un terzo del quindici per cento di seicento milioni di dollari. La parte spettante al senatore non era mai stata accertata. Bogan aveva lasciato trapelare abbastanza indiscrezioni alla stampa locale perché la pressione fosse mantenuta viva in Mississippi, mentre a Washington il senatore faceva altrettanto. La Platt & Rockland si era trovata al centro di una pubblicità negativa dalle conseguenze deleterie. Era stata messa alle corde, privata dei finanziamenti, oggetto delle ire degli azionisti. Erano saltate subito le teste di una decina di direttori alla Coastal Shipyards, con la promessa che si trattava solo di una scrematura preliminare. La Platt & Rockland aveva messo come sempre tutto il suo impegno nelle negoziazioni, ma questa volta non aveva avuto lo stesso successo che in passato. Dopo un anno aveva dovuto accettare di risarcire i seicento milioni di dollari, giurando che da quel momento in poi avrebbe rigato diritto. Poiché due sottomarini erano già costruiti per metà, il Pentagono non aveva ritirato l'appalto, cosicché la Platt & Rockland avrebbe potuto concludere un progetto che da un costo iniziale di dodici miliardi di dollari era passato a sfiorare i venti. Benny si era predisposto a intascare una fortuna. Bogan e i soci del suo studio avevano sviluppato progetti su come spendere i loro milioni. Poi Patrick era scomparso insieme con il malloppo. 20 Il fucile di Pepper Scarboro era un Remington calibro 12 a pompa che aveva acquistato in un banco di pegni di Lucedale a sedici anni, quand'era troppo giovane per poter fare compere in una armeria regolare. L'aveva pagato duecento dollari e, secondo la madre Neldene, era la cosa che amava di più. Una settimana dopo la morte di Patrick, durante un normale inventario degli oggetti presenti nel suo chalet, lo sceriffo Sweeney e lo sceriffo Tatum della contea di Greene avevano trovato il fucile da caccia assieme a un vecchio sacco a pelo e una piccola tenda. Il permesso di effettuare la perquisizione era arrivato da Trudy, la qual cosa era già problema-
tica in sé, visto che il nome della donna non appariva sul contratto di proprietà dello chalet. Un tentativo di usare fucile, sacco a pelo e tenda come prove nel processo contro Patrick avrebbe scatenato una dura resistenza da parte della difesa, dato che gli oggetti erano stati trovati in mancanza di regolare mandato di perquisizione. Una valida argomentazione sarebbe stata che all'epoca gli sceriffi non stavano cercando prove di un crimine visto che non si sapeva che fosse stato commesso un delitto. Si erano recati allo chalet solo per raccogliere gli effetti personali di Patrick da consegnare ai familiari. Trudy non aveva voluto il sacco a pelo e la tenda. Si era dichiarata più che mai convinta che non appartenessero a Patrick. Non li aveva mai visti. Erano oggetti di scarso valore, ben diversi da quelli che il marito normalmente acquistava. Inoltre sapeva che non era abituato ad accamparsi. Proprio per questo aveva acquistato uno chalet. Non sapendo che cosa farne, Sweeney vi aveva apposto dei cartellini e li aveva archiviati. L'intenzione era di attendere un anno o due, per poi sbarazzarsene in una delle annuali svendite di oggetti rimasti orfani del rispettivo proprietario. Sei settimane dopo, davanti all'attrezzatura da campeggio di Pepper, Neldene Crouch era scoppiata in lacrime. Al fucile da caccia era stato riservato un trattamento diverso. Lo avevano trovato sotto un letto, vicino alla tenda e al sacco a pelo, nella stanza dove dormiva Patrick. Secondo Sweeney, qualcuno aveva frettolosamente nascosto gli oggetti lì sotto e la presenza del fucile aveva immediatamente attirato la sua curiosità. Patito di caccia lui stesso, sapeva che nessun cacciatore con un briciolo di cervello avrebbe abbandonato la propria arma in uno chalet isolato dove rubarlo sarebbe stato un gioco da ragazzi. Lo aveva esaminato subito e aveva notato che aveva il numero di serie abraso. Dunque aveva evidentemente fatto parte di una refurtiva. Ne aveva discusso con lo sceriffo Tàtum e insieme avevano preso la decisione di far controllare almeno le impronte digitali. Non ne sarebbe scaturito nulla, ne erano certi, ma erano entrambi poliziotti esperti e pazienti. In seguito, dopo ripetute promesse di immunità, il gestore del banco di pegni a Lucedale aveva ammesso di aver venduto l'arma a Pepper. Sweeney e Ted Grimshaw, l'investigatore capo della contea di Harrison, bussarono educatamente alla porta della stanza di Patrick ed entrarono solo quando furono invitati a farlo. Sweeney aveva telefonato per annunciare la visita e informare Patrick del suo scopo. Semplice ordinaria amministra-
zione. Patrick non era ancora stato ufficialmente schedato. Lo fotografarono seduto su una sedia dell'ospedale, in maglietta e calzoncini da ginnastica, spettinato e imbronciato, dopo avergli sistemato davanti al petto il cartello con i numeri della sua pratica. Quindi Grimshaw gli prese le impronte digitali mentre Sweeney gli faceva qualche domanda su Pepper Scarboro. Patrick si avvalse della facoltà di non rispondere ricordandogli che aveva un avvocato e che era suo diritto esigere che fosse presente a qualsiasi interrogatorio. I due poliziotti lo ringraziarono e se ne andarono. Nella Stanza Lanigan della prigione della contea Cutter stava aspettando in compagnia di un dattiloscopista dell'Fbi giunto da Jackson. All'epoca del ritrovamento dell'arma, su di essa erano state rilevate una decina di impronte abbastanza nitide. Da allora Grimshaw le aveva conservate sottochiave. Ora le schede erano sul tavolo. Su uno scaffale c'era il fucile, vicino a tenda, sacco a pelo, scarpa spaiata e quant'altro apparteneva al caso. Bevvero caffè e chiacchierarono di pesca mentre il perito confrontava con una lente di ingrandimento le vecchie impronte e le nuove. Non impiegò molto. «Molte coincidono alla perfezione» dichiarò prima ancora di aver finito. «Il calcio del fucile è pieno di impronte di Lanigan.» Senz'altro una buona notizia, pensarono. E adesso? Per i futuri incontri con il suo avvocato, Patrick pretese un altro locale e il dottor Hayani si premurò di trovarglielo. Chiese anche una sedia a rotelle sulla quale farsi trasportare fino alla nuova stanza situata al primo piano. Lo spinse un'infermiera alla quale, in corridoio, si accodò uno dei due aiutanti dello sceriffo posti di guardia alla sua porta come rinforzo all'agente speciale Brent Myers. Il nuovo locale messogli a disposizione era uno di quelli che venivano usati dai medici per le loro riunioni. L'ospedale era piccolo e nella stanza c'era una certa aria di abbandono. Sandy aveva ordinato lo scanner per l'individuazione di eventuali microspie, ma sarebbe arrivato solo di lì a una settimana. «Vedi di sollecitare» gli raccomandò Patrick. «Ma dai, non penserai che qualcuno abbia messo microfoni in questa stanza» si difese Sandy. «Fino a un'ora fa nessuno sapeva che saremmo venuti a parlarci qui.» «La prudenza non è mai troppa.» Patrick si alzò dalla sedia a rotelle e si
incamminò lungo il tavolo per le riunioni. Senza minimamente zoppicare, notò Sandy. «Senti, Patrick, credo proprio che dovresti cercare di calmarti un po'. So che non hai fatto che fuggire, che sei vissuto nel terrore, costretto a guardarti sempre alle spalle. Ma è una storia finita. Ormai ti hanno preso, rilassati.» «Non hanno smesso. Hanno preso me, ma non i soldi. E per loro i soldi sono molto più importanti, non te lo dimenticare, Sandy. Non si daranno pace finché non li avranno ritrovati.» «Allora dimmi chi dovrebbe spiarci qui dentro? I buoni o i cattivi? Le guardie o i ladri?» «Quelli che hanno perso i soldi hanno speso una fortuna per ritrovarli.» «Tu come lo sai?» Patrick si strinse nelle spalle come se fosse tempo di tornare alle vecchie scaramucce. «Chi sono?» insisté Sandy. Seguì una lunga pausa, come quelle a cui ricorreva Leah quando desiderava cambiare argomento. «Siediti» lo invitò Patrick. Presero posto al tavolo, l'uno davanti all'altro. Sandy tolse dalla sua borsa il voluminoso dossier che gli aveva affidato Leah quattro ore prima, quello in cui erano elencate le malefatte di Trudy. Patrick lo riconobbe subito. «Quando l'hai vista?» chiese con ansia. «Stamattina. Sta bene, ti manda i suoi saluti più affettuosi, ti fa sapere che ancora non la stanno sorvegliando e mi ha chiesto di consegnarti questa.» Gli porse la busta che Patrick gli strappò quasi di mano e aprì in tutta fretta. Ne sfilò una lettera di tre pagine. La lesse adagio, dimenticandosi della presenza del suo avvocato. Sandy occupò il tempo sfogliando il dossier e indugiando sulle fotografie in cui Trudy era ritratta nuda accanto al suo gigolò ai bordi della piscina. Non vedeva l'ora di mostrarle al suo avvocato di Mobile, con cui aveva appuntamento di lì a tre ore. Patrick finì la lettera, la ripiegò e la infilò nella busta. «Ne ho un'altra da darti per lei» annunciò. Allungò lo sguardo e vide le foto. «Bel lavoro, vero?» «Fantastico. Non mi sono mai capitate prove così schiaccianti in una causa di divorzio.» «Ma non è stato facile arrivarci. Eravamo sposati da quasi due anni quando mi sono imbattuto per caso nel suo primo marito. È stato a una festa, prima di una partita dei Saints a New Orleans. Abbiamo bevuto qualche bicchiere insieme e lui mi ha raccontato di Lance. Lo stallone che c'è
in quelle foto.» «Leah me l'ha spiegato.» «All'epoca Trudy era agli ultimi mesi di gravidanza, così ho tenuto la bocca chiusa. Il matrimonio se ne andava lentamente a pezzi e speravamo che la nascita del bambino potesse porvi rimedio. La verità è che ha un talento innato per l'inganno. Così decisi di stare al suo gioco, fare il papà felice e il marito affettuoso, ma dopo un anno cominciai a raccogliere prove del suo tradimento. Non sapevo quando ne avrei avuto bisogno, ma sapevo che il nostro matrimonio era finito. Lasciavo la città ogni volta che ne avevo l'occasione, per affari, per andare a caccia, a pesca, per scampagnate con gli amici o che so io. Mai una volta che lei avesse da ridire.» «Vedo il suo avvocato alle cinque.» «Bene. Avrai di che spassartela. Rovesciagli addosso tutto quello che hai, ma vieni via con un accordo. Voglio che rinunci a tutto, Sandy. Da me non avrà un centesimo.» «A proposito, quando parliamo del tuo patrimonio?» «Presto. Te lo prometto. Ma c'è qualcosa di più urgente.» Sandy preparò con diligenza il bloc-notes e si dispose a prendere appunti. «Ti ascolto.» «Lance è un poco di buono. È venuto su nei bar di Point Cadet, non ha mai finito il liceo e ha già scontato tre anni per traffico di stupefacenti. Brutta razza. Ha amici nella malavita. Conosce persone disposte a tutto per denaro. C'è un altro bel dossier su di lui, ma mi sembra di capire che Leah non te l'ha portato.» «No. Mi ha dato solo questo.» «La prossima volta che la vedi, chiediglielo. Ho raccolto informazioni su Lance per un anno servendomi dello stesso investigatore privato. Lance è un delinquente di piccolo calibro, ma è pericoloso per via dei suoi amici. E Trudy ha di che finanziarlo. Non so quanti soldi le restino, ma è probabile che non abbia speso tutto.» «E tu credi che potrebbe tentare qualcosa contro di te?» «Lo ritengo probabile. Pensaci, Sandy. Ora come ora Trudy è l'unica persona a cui faccio ancora comodo morto. Tolto di mezzo io, lei si tiene i soldi che ha senza dover più temere che la compagnia di assicurazioni la getti sul lastrico. La conosco bene. Soldi e tenore di vita sono le sole cose che contano per lei.» «Ma come potrebbe...» «Potrebbe, Sandy, credimi. Potrebbe.»
Lo disse con la spassionata sicurezza di chi ha commesso impunemente un omicidio e per un secondo Sandy si sentì gelare il sangue nelle vene. «Sarebbe facile» aggiunse ancora Patrick con una luce cupa negli occhi, intorno ai quali le rughe diventarono per un momento solchi profondi. «D'accordo, e io che cosa devo fare? Stare seduto qui fuori con gli agenti?» «Gioca d'anticipo, Sandy.» «Sono tutt'orecchi.» «Per cominciare comunica al suo avvocato che al tuo ufficio è arrivata una segnalazione anonima secondo cui Lance sta cercando un sicario. Fallo già oggi. Alla fine del vostro incontro, quando il tuo collega sarà già sufficientemente scosso e disposto a credere a tutto. Digli che hai intenzione di discuterne con la polizia. Chiamerà senz'altro la sua cliente, che negherà indignata. Ma intanto avremo incrinato la sua credibilità agli occhi del suo avvocato. E venendo a sapere di essere sospettata, Trudy si sentirà le mani legate. Poi racconta la stessa storia allo sceriffo e all'Fbi. Spiega perché sei preoccupato per la mia incolumità. Insisti perché si rivolgano direttamente a Trudy e Lance. Io la conosco molto bene, Sandy, sarebbe disposta a sacrificare Lance per tenersi i soldi, ma non se corre il rischio di finire travolta lei stessa. Se la polizia s'insospettisce subito, farà marcia indietro.» «Vedo che ci hai riflettuto parecchio. Nient'altro?» «Sì. Per ultimo fa' trapelare qualcosa alla stampa. Devi trovare un giornalista...» «Non dovrebbe essere difficile.» «Uno di cui ti puoi fidare.» «Molto più arduo.» «Non credo. Ho letto i giornali e ho un paio di nomi da proporti. Controllali tu, vedi chi ti va più a genio, digli di pubblicare le indiscrezioni che gli passerai e in cambio gli garantisci che avrà la prelazione sulle notizie vere e proprie. È un'offerta alla quale non saprà dire di no. Riferiscigli che lo sceriffo sta investigando su presunti tentativi di mia moglie di trovare un killer per liquidare me e tenersi il denaro. La berrà. Non andrà in cerca di conferme, tanto da sempre i giornali pubblicano qualsiasi cosa.» Sandy finì di prendere appunti e chiuse il bloc-notes. «Di quanta di questa robaccia sei in possesso?» domandò poi battendo la penna sulla cartelletta del dossier. «Oltre una ventina di chili. L'ho nascosta a Mobile prima di far perdere
le mie tracce.» «Che cos'altro hai?» «Altra robaccia.» «Su chi?» «I miei ex soci e altri ancora. Ci arriveremo a tempo debito.» «Quando?» «Presto, Sandy.» L'avvocato di Trudy, J. Murray Riddleton, era un sessantenne gioviale dal collo taurino specializzato in due settori: le cause di divorzio più cruente e le consulenze finanziarie su come spillare quattrini al governo. Appariva come una somma di contrasti: sciatto nel vestire sebbene fosse un uomo di successo, un viso insignificante pur essendo intelligente e preparato, sorridente e al tempo stesso pericoloso, posato nel parlare e tuttavia dotato di una lingua tagliente. Occupava uno studio spazioso nel centro di Mobile, tra cumuli di pratiche dimenticate e vecchi libri di legge. Accolse Sandy con cordialità, gli indicò una poltrona e, visto che erano passate da pochi minuti le cinque, gli offrì da bere. Sandy rifiutò e J. Murray rinunciò a bere da solo. «Dunque come sta il nostro ragazzo?» domandò J. Murray facendo balenare i denti. «Cioè chi?» «Andiamo, il nostro Patrick. Ha già trovato i soldi?» «Non sapevo che li stesse cercando.» J. Murray trovò la battuta esilarante e rise per qualche secondo. Era chiaro che si sentiva assolutamente padrone della situazione, in possesso di tutte le carte buone del mazzo, al riparo da qualsiasi sorpresa da parte del suo avversario. «Ieri sera ho visto la sua cliente in TV» disse Sandy. «In quel programma scandalistico... come s'intitola?» «Dentro la notizia. Non è stata splendida? E quella bambina, che tesorino. Ah, che famigliola sfortunata!» «Il mio cliente vorrebbe chiedere alla sua cliente di astenersi d'ora in poi da ulteriori commenti sul loro matrimonio e divorzio.» «Il suo cliente può baciare il culo della mia. E lei può baciare il mio.» «Declino l'invito. Da parte mia e da parte del mio cliente.» «Senta, figliolo, io sono un falco del Primo Emendamento. Fa' qualunque cosa. Di' quello che vuoi. Fa' pubblicare di tutto. Il diritto è sancito
dalla Costituzione.» Indicò vicino alla finestra la libreria piena di polverosi testi giuridici. «Richiesta respinta. La mia cliente ha il diritto di rendere pubblico quello che le pare, quando le pare. È stata umiliata dal suo cliente e ora deve affrontare un futuro molto incerto.» «È giusto, volevo solo che fosse tutto chiaro.» «Lo è.» «Senz'altro. Dunque, non abbiamo niente in contrario alla richiesta di divorzio della sua cliente e del suo desiderio che le venga affidata la bambina.» «Ma grazie, quanta generosità.» «Per la verità il mio cliente non ha intenzione di pretendere il diritto di visita alla bambina.» «Bravo. Dopo che l'ha abbandonata per quattro anni ha poche pretese da avanzare.» «C'è un altro motivo» ribatté Sandy aprendo il suo dossier e sfilandone il test del Dna. Ne porse una copia a J. Murray, che smise subito di sorridere aggrottando le sopracciglia. «Che roba è?» domandò sospettoso. «Perché non lo legge?» lo invitò Sandy. J. Murray prese gli occhiali da lettura dal taschino della giacca, allontanò il foglio alla distanza adeguata e lo lesse adagio. Rialzò lo sguardo senza riuscire a nascondere del tutto il suo sconcerto. «Disastroso, vero?» domandò Sandy. «Non faccia troppo il gradasso, sono sicuro che si può spiegare tutto.» «Io sono sicuro che non si può. Secondo le leggi dell'Alabama, il test del Dna è prova conclusiva. Ora, mi rendo conto di parlare a un falco del Primo Emendamento, ma se questa notizia diventasse pubblica sarebbe molto imbarazzante per la sua cliente. Pensi un po', una donna che partorisce il figlio di un amante fingendo di essere felicemente sposata al legittimo marito. Non suonerebbe molto bene dalle nostre parti.» «Pubblichi, pubblichi» lo esortò J. Murray, ma con scarsa convinzione. «Non m'importa.» «Meglio che senta prima la sua cliente.» «Per le nostre leggi il particolare è insignificante. Anche se lei è responsabile di adulterio, lui ha continuato a vivere con la moglie anche dopo esserne venuto a conoscenza. Pertanto ha accettato la situazione. Non è concesso usare l'adulterio nella causa di divorzio.» «Lasci perdere il divorzio. Glielo concede. E lasci perdere anche la
bambina.» «Ah, capisco, si tratta di estorsione. Lei rinuncia a ogni pretesa sui beni di lui e lui tiene la bocca chiusa.» «Qualcosa del genere.» «Il suo cliente è fuori di testa e lei non è da meno.» Per un secondo J. Murray strinse i pugni mentre le guance gli si colorivano all'improvviso. Sandy prelevò tranquillamente un altro documento dal suo dossier e lo spinse verso di lui. «Questo che cos'è?» bofonchiò J. Murray. «Lo legga.» «Sono stufo di leggere.» «Bene. È il rapporto di un investigatore privato che ha sorvegliato la sua cliente e il suo fidanzatino per un anno prima della scomparsa del mio cliente. Sono stati visti insieme in vari luoghi, ma soprattutto a casa del mio cliente, presumiamo a letto, in almeno sedici occasioni.» «Sai che storia.» «Dia un'occhiata qui» continuò Sandy lasciando cadere sul rapporto due ingrandimenti a colori di quelle in cui gli amanti erano ritratti nudi. J. Murray tentò dapprima di mostrarsi indifferente, poi afferrò le fotografie per guardarle meglio. Sandy decise di dargli una mano. «Queste sono state scattate ai bordi della piscina a casa del mio cliente, in un momento in cui lui partecipava a un seminario a Dallas. Riconosce qualcuno?» J. Murray riuscì solo a grugnire. «Ci sono molte altre foto» lo informò Sandy, quindi attese che il collega smettesse di frugare le immagini con lo sguardo. «Ho anche tre rapporti di altri investigatori. Il mio cliente era molto sospettoso.» Sotto gli occhi di Sandy, J. Murray si trasformò da legale guerriero in sensibile mediatore, una metamorfosi comune tra gli avvocati che si trovano all'improvviso senza munizioni. Fece un sospiro amareggiato sprofondando nella poltrona dietro la scrivania. «Non ci raccontano mai tutto, vero?» brontolò. Tutt'a un tratto mostrava ostilità verso la persona di cui avrebbe dovuto tutelare gli interessi, si schierava dalla parte degli avvocati, con Sandy, contro i clienti. Con la gente infida da cui bisognava sempre guardarsi. Sandy però non era disposto ad assecondarlo. «Come ho già detto, non sono un falco del Primo Emendamento come lei, ma, se queste foto finissero sui giornali, creerebbero un serio imbarazzo a Trudy.»
J. Murray consultò l'orologio. «Sicuro che non vuole bere niente?» «Sicuro.» «Che cos'ha il suo ragazzo?» «Onestamente ancora non lo so e comunque non è questo il problema. Ciò che conta è che cosa gli resterà quando le acque si saranno calmate e ora come ora nessuno può prevederlo.» «Avrà ancora quasi tutti quei novanta milioni.» «Gli faranno causa per molto di più. Senza contare la possibilità di una lunga condanna detentiva se non addirittura la pena capitale. Signor Riddleton, questo divorzio è l'ultimo dei suoi crucci.» «Allora perché ci minacciate?» «Vuole che la sua cliente tenga la bocca chiusa, si prenda il suo divorzio e se ne vada, senza avanzare né ora né mai pretese nei suoi confronti. Vuole che l'accordo sia stipulato subito.» «Altrimenti?» Sandy non rispose. J. Murray si allentò la cravatta, sprofondando ancora di più nella poltrona. All'improvviso era molto tardi, sentiva il bisogno di tornare a casa. Rifletté per un po', poi sospirò di nuovo. «Trudy perderà tutto, il suo cliente lo sa?» chiese. «La compagnia di assicurazioni la lascerà in mutande.» «Qui non ci sono vincitori, avvocato Riddleton.» «Lasci che le parli.» Sandy raccolse le sue carte e si accinse con calma a togliere l'incomodo. J. Murray fece un ultimo, mesto sorriso e, mentre si stringevano la mano, dando quasi l'impressione di essersene rammentato solo in quel momento, Sandy accennò alla telefonata anonima arrivata al suo ufficio a New Orleans che accusava Lance di essersi messo alla ricerca di un killer. Non sapeva se crederci o no, ma riteneva indispensabile avvisare lo sceriffo e l'Fbi. Ne discussero per qualche minuto. Riddleton promise di informare in merito la sua cliente. 21 Il dottor Hayani aveva tenuto Patrick per ultimo nel suo giro di visite. Era quasi buio, avrebbe dovuto aver già lasciato l'ospedale da un pezzo. Trovò il suo celebre paziente in calzoncini da ginnastica seduto a una scrivania di fortuna nell'unico angolo disponibile della camera. Il tavolino era
illuminato da una lampada che era riuscito a farsi procurare da un inserviente. Penne e matite erano in un bicchiere di plastica. In un altro aveva raccolto i fermagli, gli elastici e le puntine che si era fatto regalare dalle infermiere. Chissà come era riuscito a rimediare anche tre bloc-notes. Era al lavoro. Alla terza visita di quella giornata, il medico lo sorprese occupato a studiare una delle numerose cause intentate contro di lui. «Benvenuto nel mio studio» lo salutò il paziente, praticamente incastrato tra un grosso televisore da una parte e i piedi del letto alle spalle. «Carino» commentò Hayani. Tutti in ospedale parlavano divertiti della nuova attività legale in corso nella stanza 312. «Spero che non ce l'abbia con i medici.» «Può stare tranquillo. In tredici anni di pratica, non ho mai fatto causa a un dottore. Né a un ospedale.» Si alzò e si girò verso Hayani. «Sarà per questo che mi è stato subito simpatico» ribatté il medico cominciando a esaminargli le ustioni sul torace. «Come va?» chiese per la terza volta quel giorno. «Bene» ripeté Patrick per l'ennesima volta. Non trascorreva praticamente mezz'ora senza che qualche infermiera attratta dalla celebrità del suo caso entrasse con qualche pretesto a rivolgergli la medesima domanda. «È riuscito a riposare un po' oggi?» s'informò Hayani, chinandosi a tastargli la coscia sinistra. «No. Mi è difficile dormire se non prendo un tranquillante e durante il giorno preferisco evitarlo» rispose Patrick. Per la verità non sarebbe riuscito a riposare comunque, visto l'andirivieni di cui era oggetto il suo capezzale. Si sedette sulla sponda del letto. «Posso dirle una cosa?» domandò. Hayani rialzò la testa dalla cartella clinica. «Naturalmente.» Patrick guardò a destra e a sinistra come se ci fossero orecchie dappertutto. «Quando facevo l'avvocato» cominciò a bassa voce, «ho avuto come cliente un bancario colto con le mani nella cassa. Aveva quarantaquattro anni. Era sposato, con tre figli adolescenti. Una gran brava persona colpevole di una grave stupidaggine. Fu arrestato a casa sua, di sera, e trasferito nella prigione della contea. Le celle erano piene. Fu rinchiuso con due criminali comuni, di colore, gente senza cervello e senza scrupoli. Lo imbavagliarono per impedirgli di urlare, lo pestarono, poi gli fecero cose che è meglio che lei non sappia. Erano passate due ore da quando si trovava nel proprio salotto a guardare un film in televisione e si ritrovava mezzo ammazzato in una cella a cinque chilometri da casa sua.» Patrick abbassò
la testa e si pizzicò il setto nasale. Il dottor Hayani gli toccò una spalla. «Non può permettere che io faccia la stessa fine, dottore» disse Patrick con un tremito nella voce. «Stia tranquillo.» «Sono questi i pensieri che mi perseguitano, per questo sono in preda agli incubi.» «Ha la mia parola.» «Dio sa quante ne ho passate.» «Glielo prometto, Patrick.» Il nuovo inquisitore era un ometto smilzo di nome Warren, che fumava in continuazione e contemplava il mondo attraverso lenti spesse e scure che gli rendevano invisibili gli occhi. Nella sinistra reggeva la sigaretta, nella destra la penna, e nient'altro di lui si muoveva salvo le labbra. Appollaiato dietro una catasta di scartoffie, sparava le sue domande come una mitraglia a Stephano, che rispondeva giocherellando con un fermaglio accanto al suo avvocato, intento a litigare con un laptop. «Quando avete formato il vostro consorzio?» chiese Warren. «Dopo aver perso le sue tracce a New York, siamo tornati nelle retrovie ad aspettare. Abbiamo ascoltato dove c'era da ascoltare, abbiamo ripercorso le vecchie piste. Niente da fare. Era chiaro che avremmo dovuto rassegnarci a tempi lunghi. Avevo sentito Benny Aricia, che era disposto a finanziare le ricerche. Poi ho incontrato quelli della Monarch-Sierra e i rappresentanti della Northern Case Mutual, che si dichiararono disponibili. La Northern Case Mutual aveva appena scucito più di due milioni e mezzo di dollari alla vedova. Non potevano pretenderli indietro perché non c'erano prove conclusive che Lanigan fosse ancora vivo. Accettarono di contribuire con mezzo milione. La situazione della Monarch-Sierra era un po' più complicata, perché al momento ancora non avevano pagato niente. Erano esposti per quattro milioni.» «La Monarch assicurava lo studio legale per i casi di condotta negligente?» «Più o meno. Era un capitolo separato, incluso nella solita polizza contro errori e omissioni. Ma l'assicuratrice proteggeva lo studio legale anche da eventuali frodi e furti da parte di dipendenti e soci. Siccome a rubare allo studio era stato Lanigan, la Monarch-Sierra era tenuta a risarcire i soci fino a quattro milioni di dollari.» «Ma questo denaro fu incassato dal signor Aricia, giusto?»
«Infatti. Benny Aricia aveva citato lo studio per i sessanta milioni che aveva perduto, ma lo studio non aveva assetti sufficienti a coprire l'entità del risarcimento, così accettò di girargli l'indennità prevista dalla polizza. Ci siamo seduti tutti quanti intorno a un tavolo e abbiamo trovato un accordo. La Monarch-Sierra avrebbe pagato senza opporsi se il signor Aricia prometteva di usare un milione per rintracciare Lanigan. Il signor Aricia accettò, ma solo a fronte di un uguale versamento per lo stesso scopo da parte della Monarch-Sierra.» «Dunque Aricia ci metteva un milione, un altro lo metteva la MonarchSierra e la Northern Case Mutual contribuiva per mezzo milione. Per un totale di due milioni e mezzo.» «Sì, questi erano gli accordi iniziali.» «E lo studio legale?» «Aveva scelto di non partecipare. La verità è che non avevano soldi con cui farlo e, sconvolti com'erano, in quel momento non sapevano nemmeno loro che pesci pigliare. Comunque dapprincipio ci hanno aiutato in altre maniere.» «E gli altri pagarono?» «Sì. I soldi furono versati sul conto della mia agenzia.» «Ora che le ricerche sono finite, quanto è rimasto di quel denaro?» «Praticamente niente.» «A quanto sono ammontate le spese?» «Tre milioni e mezzo, più o meno. Lo stanziamento iniziale si è esaurito un anno fa. Le compagnie di assicurazione non hanno voluto continuare. Il signor Aricia ha investito un altro mezzo milione, poi altri trecentomila. Il suo totale attualmente è di uno virgola nove.» In realtà erano due milioni tondi, ora che Benny aveva accettato a malincuore di cercare la ragazza. Di questo naturalmente l'Fbi non era al corrente. «E come sono stati spesi i soldi?» Stephano ricorse ai suoi appunti, ma gli bastò una rapida occhiata. «Un milione circa in stipendi, viaggi e altre spese relative alla ricerca. Un milione e mezzo in ricompense. E un altro milione come onorario alla mia agenzia.» «Si è fatto pagare un milione di dollari?» sbottò Warren, sempre senza muovere un solo muscolo, ma facendo salire la voce di mezzo tono. «Sì. Per quattro anni di lavoro.» «Mi dica delle ricompense.»
«Be', sono il cuore di un'operazione di ricerca.» «L'ascoltiamo.» «Una delle prime mosse è stata quella di stabilire una ricompensa per qualsiasi informazione sulla scomparsa di Patrick Lanigan. Lo sapevate anche voi, ma pensavate che a finanziarci fosse lo studio legale. Questo perché all'epoca abbiamo convinto Charles Bogan a dare l'annuncio dell'offerta che, all'inizio, ammontava a cinquantamila dollari. Se qualcuno si fosse fatto avanti, Bogan ci avrebbe avvertito in segreto.» «L'Fbi non ne era informato.» «Non è così. L'Fbi sapeva della ricompensa e aveva approvato. Non sapeva solo dei nostri accordi con Bogan. Volevamo essere i primi a mettere le mani su qualunque informazione interessante. Non è che non ci fidassimo dell'Fbi, ma volevamo essere noi a trovare Lanigan e il denaro.» «A questo punto quante persone aveva messo al lavoro sul caso?» «Una decina.» «E lei dove si trovava?» «Qui. Ma mi recavo a Biloxi almeno una volta la settimana.» «E l'Fbi sapeva che cosa stava facendo?» «Assolutamente no. Per quel che risulta a me, l'Fbi non ha mai saputo del nostro intervento fino alla settimana scorsa.» Tanto in effetti risultava dai documenti che Warren aveva davanti a sé. «Continui.» «Non è successo niente per due mesi, tre, quattro. Abbiamo elevato la ricompensa a settantacinque e poi a centomila dollari. Bogan si è buscato tutti i mentecatti e i mitomani del paese e probabilmente di questi ha riferito all'Fbi. Poi, nell'agosto del '92, gli ha telefonato un avvocato di New Orleans che sosteneva di avere un cliente a conoscenza di circostanze riguardanti la scomparsa. L'impressione iniziale è stata buona, così siamo andati a New Orleans a trovarlo.» «Come si chiamava?» «Raul Lauziere, con uno studio in Loyola Street.» «L'ha contattato?» «Sì.» «Chi c'era con lei?» Stephano lanciò un'occhiata al suo avvocato, che in quel momento era assorto in qualche pensiero. «È una questione riservata. Preferirei non fare il nome dei miei associati.» «Non è tenuto» fece eco l'avvocato e chiuse l'argomento.
«Va bene. Continui.» «Lauziere ci diede l'impressione di una persona seria, corretta e credibile. Era anche molto preparato. Sembrava sapesse tutto della scomparsa di Patrick e del denaro. Aveva una raccolta di ritagli di giornale, ordinata con tanto di indice. A noi ha consegnato un rapporto di quattro pagine sulle informazioni in possesso della sua cliente.» «Me ne dia i punti salienti. Lo leggerò più tardi.» «Come vuole» rispose Stephano e cominciò a raccontare: «La sua cliente era una giovane donna di nome Erin, che frequentava a fatica la scuola di medicina a Tulane. Era al verde, appena uscita da un divorzio, per sbarcare il lunario faceva il turno serale alla libreria di un ipermercato appartenente a una delle grandi catene nazionali. In un giorno imprecisato del gennaio '92 aveva notato un cliente indugiare nella sezione linguistica. Era un uomo robusto, in giacca e cravatta, capelli e barba brizzolati, aria un po' nervosa. Erano quasi le nove di sera e non c'era praticamente più nessuno. Lo vide scegliere finalmente un corso linguistico in dodici audiocassette con relativi manuali, il tutto confezionato in un bel cofanetto. Si stava dirigendo verso le casse, a una delle quali lavorava Erin, quando era entrato un altro individuo. Allora il primo si era subito ritirato tra gli scaffali, riponendo il corso di lingue al suo posto. Poi era sbucato dall'altra parte, cercando di oltrepassare il nuovo arrivato senza farsi notare. Era evidente che lo conosceva e non voleva parlargli. Ma non ce l'aveva fatta. L'altro si era accorto di lui e lo aveva salutato chiamandolo Patrick. Dalla conversazione era risultato che non si vedevano da qualche tempo. Erin li aveva sentiti parlare delle rispettive carriere di avvocati. Li aveva ascoltati perché da una parte non aveva nient'altro da fare e dall'altra perché evidentemente era una ragazza curiosa. «Fatto sta che l'uomo che si chiamava Patrick non vedeva l'ora di andarsene, e appena trovato il momento buono si era sganciato dal vecchio amico. Tre sere dopo, più o meno alla stessa ora, era tornato in libreria, in un momento in cui Erin stava sistemando uno scaffale e non si trovava alle casse. Lo aveva visto entrare, lo aveva riconosciuto, si era ricordata che si chiamava Patrick e lo aveva tenuto d'occhio. Lo aveva visto studiare per qualche attimo la cassiera, come per accertarsi che non fosse quella della volta precedente. Poi era tornato nella sezione linguistica e aveva preso lo stesso corso. Alla cassa lo aveva pagato in contanti, quasi trecento dollari. Erin lo aveva visto allontanarsi in tutta fretta. Lui non si era accorto di lei o comunque non l'aveva riconosciuta».
«Di che lingua era il corso?» «Quello era l'interrogativo principale. Tre settimane dopo Erin aveva letto sul giornale che Patrick Lanigan era rimasto ucciso in un terribile incidente automobilistico e lo aveva riconosciuto nella fotografia. Poi, passate altre sei settimane, era apparsa la notizia del denaro rubato al suo studio legale e per la seconda volta Erin aveva trovato sul giornale la foto di Lanigan.» «C'erano telecamere nella zona libri dell'ipermercato?» «No. Abbiamo controllato.» «Dunque qual era la lingua?» «L'avvocato non voleva dircelo. Almeno sulle prime. Noi offrivamo centomila dollari a chi ci avesse indicato dove si trovava Lanigan. L'avvocato, e la sua cliente, volevano la ricompensa solo per rivelarci a quale lingua fosse interessato Patrick. Abbiamo contrattato per tre giorni. Lui non aveva intenzione di cedere, ma alla fine ci ha permesso di interrogare Erin. Abbiamo passato con lei sei ore e, quando ci siamo convinti che diceva la verità, abbiamo pagato i centomila.» «Portoghese brasiliano?» «Sì. E il mondo si è improvvisamente rimpicciolito.» Per sua sfortuna, come tutti gli avvocati di questo mondo, J. Murray Riddleton ci era già passato. Un caso a prova di bomba ti si disfa improvvisamente tra le mani, gli assi si trasformano in scartine. Giusto per divertirsi un po', permise a Trudy di recitare per qualche minuto la parte della donna indignata e offesa prima di calare la scure. «Adulterio!» ansimò lei con tutto l'orrore di una bigotta vergine. Sembrava disorientato persino Lance, che si affrettò a prenderla per mano. «Lo so, lo so» ribatté J. Murray assecondandoli. «Capita quasi sempre nelle cause di divorzio. A un certo punto cominciano i colpi bassi.» «Io l'ammazzo» ringhiò Lance. «A quello arriveremo dopo.» «Con chi?» volle sapere Trudy. «Con il signor Lance qui presente. Sostengono che ve la siate intesa prima, durante e dopo il matrimonio. Dicono che è una storia che risale ai tempi del liceo.» In realtà erano le scuole medie. «È un idiota» dichiarò Lance senza convinzione. Trudy annuì. Assurdo. «Che prove avrebbe?» chiese innervosita.
«Negate?» domandò J. Murray per far scattare la trappola. «Nel modo più assoluto» sentenziò lei. «Ma si capisce» aggiunse Lance. «Quello è un bugiardo matricolato.» J. Murray estrasse da un cassetto uno dei rapporti che Sandy gli aveva consegnato. «Sembra che Patrick non abbia quasi mai smesso di avere sospetti. Aveva assunto degli investigatori e qui c'è il rapporto di uno di loro.» Trudy e Lance si scambiarono una rapida occhiata. Colti con le mani nel sacco, trovavano all'improvviso difficile smentire una relazione vecchia di più di vent'anni. Puntarono in sintonia sulla strafottenza. E allora? «Ve ne darò un sunto» disse J. Murray e cominciò a snocciolare date, circostanze, luoghi. Gli amanti non mostrarono vergogna, ma non poterono nascondere il loro disagio nello scoprire che i loro movimenti erano stati così ben documentati. «Negate ancora?» chiese J. Murray quand'ebbe finito. «Chiunque può scrivere roba del genere» minimizzò Lance. Trudy tenne la bocca chiusa. J. Murray estrasse un altro rapporto, quello relativo ai sei mesi precedenti la scomparsa di Patrick. Date, luoghi, circostanze. Patrick lasciava la città per questo o quell'altro motivo ed ecco che arrivava Lance. Puntuale. «A questi investigatori sarebbe permesso testimoniare in tribunale?» volle sapere Lance. «Non andremo in tribunale» replicò J. Murray. «Perché?» chiese Trudy. «Per via di queste.» E così dicendo J. Murray posò sul tavolo gli ingrandimenti a colori. Trudy ne prese uno e guardò con gli occhi strabuzzati l'immagine di se stessa sdraiata nuda sui bordi della piscina accanto al suo stallone. Benché si sentisse a sua volta mancare la terra sotto i piedi, Lance non seppe trattenere un sorrisetto. Quelle foto gli piacevano. I due se le scambiarono senza parlare. J. Murray si godette lo spettacolo per qualche momento, poi commentò: «Mi sa che siete stati un po' imprudenti». «Ci risparmi la ramanzina» tagliò corto Lance. Com'era prevedibile, Trudy si mise a piangere. Occhi lucidi, labbro tremante, naso gocciolante e giù singhiozzi. Vecchia storia, rifletté J. Murray. Piangevano sempre, non per quello che avevano fatto, ma per il prezzo da pagare per i loro peccati. «Non avrà mia figlia» proclamò Trudy tra un singhiozzo e l'altro. Non
poté aggiungere altro e per qualche momento i due uomini l'ascoltarono piangere. Lance, premuroso come sempre, cercò di consolarla accarezzandola. «Scusate» mormorò finalmente Trudy asciugandosi gli occhi. «Stia tranquilla» disse allora J. Murray senza ombra di compassione. «Non vuole la bambina.» «Perché?» chiese lei. «Perché non è suo padre.» Improvvisamente allo sbando, i due rimasero impietriti. J. Murray estrasse l'ennesimo rapporto. «Quando la bambina aveva quattordici mesi, Patrick si è sottoposto a un'analisi del sangue per la verifica del Dna. È accertato che non è il padre.» «Allora chi...» fece per domandare Lance, senza riuscire a portare a termine la frase. «Dipende da chi era a disposizione» lo soccorse J. Murray. «Non c'era nessuno» dichiarò lei. «A parte me» precisò Lance, dopodiché chiuse gli occhi. La paternità gli piombò addosso come un macigno. Lance reagiva con insofferenza alla presenza dei bambini e tollerava Ashley Nicole solo perché apparteneva a Trudy. «Congratulazioni» esclamò J. Murray. Tolse da un cassetto un sigaro e glielo lanciò. «È femmina» annunciò. Poi scoppiò a ridere. Mentre Lance giocherellava con il sigaro, Trudy lasciò trascorrere in silenzio un attimo di furore. «Dunque qual è la situazione?» domandò quando J. Murray ebbe finito di ridere. «Molto semplice. Rinunciate a qualsiasi pretesa sui suoi beni, quali che siano, e lui concede divorzio, bambina e tutto quello che volete.» «Quali sarebbero i suoi beni?» chiese lei. «Il suo avvocato non è in grado di rispondere in questo momento. Può darsi che non lo sapremo mai. Quell'uomo è destinato al braccio della morte e può darsi che il denaro resti sepolto per sempre.» «Ma io sto per perdere tutto» protestò Trudy. «Guardi che cosa mi ha fatto. Quando è morto, ho ricevuto due milioni e mezzo e ora la compagnia di assicurazioni li vuole indietro.» «Merita un risarcimento adeguato» intervenne con foga Lance. «Posso fargli causa per crudeltà mentale, frode o qualcosa del genere?» domandò lei. «No. Guardate, non ci sono scappatoie. Lei si prende il divorzio e la
bambina e Patrick si tiene tutti i soldi che ci sono. E la questione si chiude senza clamori. Altrimenti questa roba finisce alla stampa.» J. Murray batté la mano sui rapporti e le fotografie. «Sarete messi in croce. Voi avete lavato in pubblico i suoi panni sporchi e lui non vede l'ora di rendervi la pariglia.» «Dove devo firmare?» J. Murray versò vodka per tutti e poco dopo stava già versando il secondo giro. Alla fine accennò a quelle stupide voci secondo cui Lance stava cercando un killer. Le smentite furono immediate e vigorose e J. Murray confessò che in realtà lui non ci aveva mai creduto. Se ne dicevano di cotte e di crude lungo tutta la Costa. 22 Si accodarono a Sandy McDermott quando alle otto del mattino lasciò New Orleans per andare a prendere l'Interstatale 10. Lo pedinarono nel traffico congestionato finché questo non diventò più scorrevole, nei pressi di Lake Pontchartrain. Riferirono via radio che era diretto a Biloxi. Seguirlo era facile. Ascoltarlo sarebbe stato ben diverso. Guy aveva microspie da piazzare nel suo ufficio e a casa sua, una era pronta persino per la sua automobile, ma ancora non era stata presa la decisione finale. I rischi erano notevoli. Aricia era incerto sul da farsi. Secondo lui era prevedibile che Sandy si aspettasse di essere intercettato, pertanto avrebbe potuto inondarli di informazioni inutili se non false e dannose. Avendo avuto già prova della lungimiranza del loro cliente, Stephano e Guy non avevano preso sottogamba il suo punto di vista. Sandy non si guardava alle spalle. Non vedeva neanche molto di quello che aveva davanti a sé. Guidava e basta, senza badare al mondo che aveva intorno, con la mente come al solito lontana mille miglia. Da un punto di vista strategico, il quadro generale delle battaglie riguardanti Lanigan appariva soddisfacente. Le cause civili intentate dalla Monarch-Sierra, lo studio legale e Aricia erano state iscritte in ruoli già affollati. Le sue controdeduzioni erano attese di lì a un mese. L'esibizione delle prove sarebbe cominciata solo dopo tre mesi e sarebbe durata almeno un anno. Non era presumibile che i dibattimenti avessero inizio prima che fossero trascorsi due anni. Positiva era anche la situazione riguardante la denuncia di Patrick contro l'Fbi; il caso sarebbe stato a suo tempo rinviato
perché fosse inclusa la complicità di Stephano e dei suoi clienti. Sandy si rammaricava delle scarse probabilità che aveva di dibatterlo in tribunale. La causa di divorzio era sotto controllo. Il fulcro restava l'accusa di omicidio di primo grado. Il più serio dei problemi di Patrick era anche quello più imminente. La legge voleva che venisse processato entro duecentosettanta giorni dall'incriminazione, perciò quella campana aveva cominciato a suonare i suoi primi rintocchi. Secondo Sandy era altamente improbabile che si arrivasse a una condanna sulla base delle prove presentate in tribunale. Al momento mancavano elementi di prova fondamentali, circostanze significative come l'identità della vittima e il modo in cui era deceduta. Non c'era alcuna certezza che fosse stato Patrick a ucciderla. Il caso era soprattutto classificabile come indiziario, basato più su congetture che su fatti accertati. Ma sull'onda dei sentimenti della comunità, una condanna era molto più probabile. Ormai tutti nell'arco di centosessanta chilometri da Biloxi conoscevano i particolari del caso e non c'era letteralmente anima viva che non pensasse che Patrick aveva ucciso una persona per simulare la propria morte e sparire allo scopo di rubare novanta milioni di dollari. C'erano sì alcuni ammiratori, quelli che come lui sognavano una nuova vita sotto un nuovo nome e con le tasche piene di soldi, ma non avrebbero trovato un posto nella sua giuria. Se si fosse fatto un sondaggio informale nei bar e nei corridoi del palazzo di giustizia, era opinione quasi unanime che fosse colpevole e che meritasse di finire in prigione. Pochi invece erano a favore della pena di morte, che secondo i più andava riservata agli stupratori e agli assassini di poliziotti. Al momento comunque era prioritario proteggere l'incolumità di Patrick. Dal dossier su Lance, che la bella Leah gli aveva consegnato la sera prima in un'altra camera d'albergo, saltava fuori il ritratto di un uomo apparentemente tranquillo, ma con un'inclinazione alla violenza e il grilletto facile. Aveva la passione delle armi e nel suo passato c'era un'accusa, poi caduta, di ricettazione tramite un banco di pegni. Oltre ai tre anni di condanna per traffico di stupefacenti, gli erano stati affibbiati sessanta giorni per aver partecipato a una rissa a Gulfport, anche se la pena era stata poi sospesa per sovraffollamento del carcere. Era stato arrestato altre due volte, per un altro caso di aggressione e per guida in stato di ubriachezza. Lance sapeva come fare bella figura, era atletico e attraente e riusciva a far colpo sulle donne. Si vestiva bene ed era in grado di reggere conversazioni spiritose. Tuttavia le sue sortite nella buona società erano di breve
durata, il suo cuore era sempre nella strada, dove frequentava volentieri strozzini, allibratori, ricettatori e spacciatori, i colletti bianchi della criminalità locale. Quelli erano i suoi amici, e Patrick non aveva mancato di prenderne nota. Nel dossier apparivano una decina di brevi biografie, tutte di persone con precedenti penali. Se all'inizio Sandy aveva accolto con scetticismo la paranoia di Patrick, ora cominciava a convincersi della fondatezza dei suoi timori. Non era un esperto di malavita, ma la natura stessa della sua professione lo portava di tanto in tanto in contatto con i criminali. Più di una volta aveva sentito dire che con cinquemila dollari si poteva far uccidere qualcuno. E forse sulla Costa c'era chi avrebbe ucciso per meno. La Costa non era un terreno a lui familiare, poco abituato com'era a uscire da New Orleans. Non conosceva gli sceriffi e i loro aiutanti, i giudici e i loro cancellieri, non aveva dimestichezza con i suoi stessi colleghi. Sospettava che fosse proprio quello uno dei motivi che avevano spinto Patrick a scegliere lui. Per telefono Sweeney era stato meno che incoraggiante. Aveva dichiarato di essere molto preso e aveva espresso l'opinione personale secondo cui gli abboccamenti con gli avvocati erano una perdita di tempo. Gli avrebbe dedicato solo pochi minuti, a partire dalle nove e mezzo, e solo se non fossero intervenuti impegni più pressanti. Sandy arrivò in anticipo e si versò da bere da un bricco che trovò vicino al serbatoio dell'acqua. Sweeney lo trovò nel viavai degli agenti alle sue dipendenze e lo accompagnò nell'ufficio, un ambiente spartano arredato con mobili di scarto e con sbiadite foto di politici sorridenti appese alle pareti. «Si accomodi» brontolò Sweeney mostrandogli una seggiola instabile mentre lui stesso prendeva posto dietro la scrivania. Sandy ubbidì. «Spero che non le dispiaccia se registro» chiese Sweeney mentre già schiacciava il pulsante del grosso registratore al centro del suo tavolo. «Io prendo nota di tutto.» «Come preferisce» rispose Sandy, che tanto non avrebbe avuto la possibilità di rifiutarglielo. «Grazie di avermi ricevuto.» «Nessun problema» minimizzò Sweeney. Ancora non gli aveva rivolto un sorriso, né aveva fatto niente per dissimulare la sua contrarietà per essere stato disturbato. Si accese una sigaretta e bevve un sorso di caffè. «Verrò subito al punto» lo tranquillizzò Sandy. «Al mio ufficio è giunta la notizia che la vita di Patrick potrebbe essere in pericolo.» Detestava do-
ver mentire, ma le circostanze non gli davano scelta. Doveva agire secondo la volontà del suo cliente. «Perché qualcuno verrebbe a raccontarle che il suo cliente è in pericolo?» chiese Sweeney. «Ho alcuni investigatori che lavorano al caso. Conoscono molta gente. Qualche voce è circolata e uno dei miei uomini me l'ha riferita. Ordinaria amministrazione.» Sweeney non si scompose né in un senso né nell'altro. Fumò la sua sigaretta pensando. In quell'ultima settimana sulle avventure di Patrick Lanigan ne aveva sentite di tutti i colori. Non si parlava d'altro e non erano mancate versioni più o meno pittoresche sull'esistenza di un killer. Sweeney riteneva che le proprie fonti d'informazione fossero più solide di quelle di un avvocato, specialmente se di New Orleans, così preferì lasciarlo parlare. «Qualche sospetto?» «Sì. Un certo Lance Maxa. Sono sicuro che lo conosce.» «Infatti.» «Ha preso il posto di Patrick a fianco di Trudy non molto tempo dopo i funerali.» «Qualcuno potrebbe sostenere che è stato Patrick a prendere il posto suo» obiettò Sweeney e questa volta si concesse il primo sorriso. Sandy stava davvero giocando fuori casa. Lo sceriffo la sapeva più lunga di lui. «Dunque immagino che sappiate tutti di Lance e Trudy» concluse un po' a disagio. «È così. Siamo gente che gira con gli occhi aperti da queste parti.» «Non ne dubito. Resta il fatto che, come sa anche lei, Lance è un poco di buono e secondo i miei uomini gira voce che stia cercando un sicario.» «Quanto offre?» domandò Sweeney scettico. «Non lo so. Ma ha i soldi e il movente.» «È una vecchia storia.» «Bene. Che cosa intende fare?» «A che proposito?» «Per proteggere la vita al mio cliente.» Sweeney trasse un profondo respiro e decise di mordersi la lingua, trattenendo un moto di stizza. «È in una base militare, in una camera di ospedale guardato a vista dai miei uomini e da alcuni agenti dell'Fbi. Non so che cos'altro lei possa suggerire.» «Guardi che non sto cercando di insegnarle il suo mestiere, sceriffo.» «Ne è sicuro?»
«Sicurissimo. La prego di capire che il mio cliente in questo momento è un uomo molto spaventato. Io sono qui a suo nome. Gli hanno dato la caccia per quattro anni, lo hanno trovato e sequestrato. Sente voci che noi non sentiamo, vede ombre che noi non vediamo. È convinto che ci siano persone che stanno cercando di ucciderlo e si aspetta che io lo protegga.» «Non corre pericoli.» «Per ora. Ma forse non sarebbe un male se lei desse una piccola strigliata a Lance. Se sapesse che lo tenete d'occhio, sarebbe uno stupido a tentare qualcosa.» «Lance è stupido.» «Forse, ma Trudy no. Se pensasse di poter finire coinvolta, terrebbe Lance al guinzaglio.» «Cosa che fa dai tempi della scuola.» «Precisamente. Non vorrà correre il rischio.» Sweeney si accese un'altra sigaretta e guardò l'ora. «Nient'altro?» chiese, ansioso tutt'a un tratto di alzarsi e andarsene. Era uno sceriffo, non un impiegato d'ufficio. «Be', sempre che non mi fraintenda e non pensi che io stia cercando di intromettermi nel suo lavoro. Patrick ha profondo rispetto per lei, però... be', pensa di essere molto più al sicuro dove si trova ora.» «Che sorpresa.» «La prigione potrebbe essere pericolosa per lui.» «Avrebbe dovuto pensarci prima di uccidere quel poveraccio.» Sandy ignorò l'allusione. «Sarebbe più facile proteggerlo in ospedale.» «È mai stato nella mia prigione?» «No.» «Allora non cerchi di giudicare fino a che punto non sarebbe un luogo sicuro. Ricopro questa carica da un pezzo, se non lo sa.» «Non c'era presunzione da parte mia.» «Ma figuriamoci. Ha avuto i suoi cinque minuti. C'è altro?» «No.» «Bene.» Sweeney balzò in piedi e uscì. Il giudice Karl Huskey arrivò alla base aerea di Keesler nel tardo pomeriggio e si sottopose alle procedure di riconoscimento per poter accedere all'ospedale. Era nel mezzo di un processo per droga ed era stanco. Patrick gli aveva telefonato chiedendogli se poteva passare a trovarlo. Al funerale, dopo essere stato uno di quelli che avevano trasportato la
bara, Karl si era seduto accanto a Sandy McDermott. A differenza dell'avvocato, lui era stato un amico di recente acquisizione. Aveva conosciuto Patrick durante una causa civile in cui era stato rappresentante legale poco dopo il suo trasferimento a Biloxi e avevano stretto amicizia come accade spesso tra avvocati e giudici quando si vedono di frequente per motivi professionali. Avevano chiacchierato durante i poco appetitosi pranzi mensili dei circoli giudiziari, una volta avevano alzato troppo il gomito insieme a una festa di Natale, giocavano a golf due volte l'anno. C'era stata simpatia tra loro, ma non intimità, almeno durante i primi tre anni di soggiorno di Patrick a Biloxi. Ma nei mesi precedenti la sua scomparsa, i loro rapporti si erano intensificati. Ora, con il senno di poi, non gli era difficile ricordare come Patrick fosse cambiato in quel periodo. Nei mesi dopo la sua scomparsa, le persone che nei circoli giudiziari lo conoscevano meglio, tra le quali Karl, il venerdì, dopo la chiusura degli uffici, si ritrovavano spesso a bere un bicchiere insieme al Lower Bar del Mary Mahoney's Restaurant e cercavano di mettere nuovi tasselli al rompicapo di Patrick. Una buona dose di colpa ricadeva sulle spalle di Trudy, anche se secondo Karl la vedova era un bersaglio fin troppo facile. La vita coniugale dello scomparso non sembrava particolarmente grama, ma era anche vero che Patrick non ne discuteva con nessuno, quanto meno nessuno della compagnia che si ritrovava al Mary Mahoney's. Il comportamento di Trudy dopo il funerale, specialmente l'acquisto della Rolls rossa, l'entrata in scena ufficiale del suo giocattolo da letto e l'atteggiamento strafottente adottato appena incassata l'indennità dell'assicurazione, le avevano inimicato molta gente e i giudizi non erano più molto obiettivi. Fra tutti faceva eccezione Buster Gillespie, cancelliere dell'alta corte di giustizia, assiduo frequentatore di tali dibattiti, il quale professava ammirazione per Trudy, che una volta si era trovata a fianco a fianco con sua moglie a un ballo di beneficenza. Gillespie era l'unico ad assumerne talvolta le difese in mezzo alle critiche che le piovevano addosso da ogni parte. Lo stress professionale era stato senz'altro uno dei moventi di Patrick. Lo studio era sulla cresta dell'onda e lui aveva desiderato con tutto il cuore essere nominato socio. A quello scopo lavorava fino a tardi e accettava tutti i casi difficili rifiutati dai colleghi. Nemmeno la nascita di Ashley Nicole era servita a tenerlo a casa. Era riuscito a diventare socio tre anni dopo essere entrato nello studio, ma erano in pochi a saperlo. Lui stesso lo aveva
confidato a Karl un giorno dopo una sessione in tribunale, ma non se ne era mai vantato pubblicamente. Era stanco e stressato, ma lo stesso si poteva dire della gran parte degli avvocati che entravano nelle aule presiedute da Karl. I cambiamenti più strani avvenuti in Patrick, quelli che sembravano del tutto logici a rianalizzarli a distanza di tempo, erano stati fisici. Era alto un metro e ottantacinque e sosteneva di non essere mai stato magro. Diceva di essere stato un buon podista ai tempi della scuola di legge, arrivando a correre anche per quaranta miglia la settimana. Ma dove poteva trovare il tempo per fare sport un avvocato desideroso di far carriera? Così aveva cominciato a ingrassare e nell'ultimo anno a Biloxi era quasi obeso. Sordo alle battute ironiche degli ambienti giudiziari, aveva continuato a mangiare nonostante i ripetuti rimproveri da parte di Karl. Un mese prima di scomparire, aveva detto a Karl di pesare oltre centodieci chili e che Trudy non ne era affatto contenta. Naturalmente lei faceva esercizi di aerobica con Jane Fonda per due ore al giorno ed era snella come un'indossatrice. Aveva dichiarato anche di avere la pressione alta e aveva promesso di mettersi a dieta. Karl lo aveva molto incoraggiato, ma in seguito aveva scoperto che Patrick gli aveva mentito sulla pressione, il cui livello era del tutto normale. Ora, riflettendo su quel periodo, vedeva bene le ragioni dell'aumento di peso e del successivo dimagrimento. Poi c'era la barba. Se l'era fatta crescere nel novembre 1990 e diceva che era la sua barba da cacciatore di cervi. Farsela crescere non era fatto insolito tra gli avvocati e impiegati del Mississippi. Era un vezzo un po' adolescenziale, altro motivo di rimostranze da parte di Trudy. E più se la lasciava crescere, più gli si ingrigiva. Se i suoi amici si erano abituati a vederlo così, la moglie no. Poi aveva cominciato a lasciarsi crescere anche i capelli, più folti sul culmine della testa e abbastanza lunghi da coprire per metà le orecchie. Karl diceva che era il suo taglio alla Jimmy Carter. Patrick sosteneva di aver perso il suo parrucchiere di fiducia e di non averne trovato un altro che gli andasse bene. Si vestiva ancora con eleganza e sapeva portare con dignità il suo peso eccessivo, ma era troppo giovane per lasciarsi andare. Tre mesi prima di scomparire da Biloxi, Patrick era riuscito a persuadere i colleghi che lo studio aveva bisogno di una propria brochure. Era solo una piccola iniziativa, ma nella quale si era lanciato con passione. All'in-
saputa di Patrick, almeno così si credeva, lo studio stava per suggellare l'accordo di Aricia e nell'animo dei soci c'era grande fermento nell'imminenza di incassare una somma stratosferica grazie alla quale da benestanti si sarebbero trasformati in ricchi. Perché dunque non togliersi il lusso di una brochure di taglio professionale? Così avevano deciso di accontentarlo. Tutti e cinque avevano posato davanti agli obiettivi di un fotografo professionista per ritratti singoli e per una foto di gruppo. Patrick aveva fatto stampare cinquemila copie della brochure, ricevendo i complimenti degli altri soci. Lui stesso appariva in seconda pagina, grasso, barbuto, capelluto, per nulla somigliante al Patrick che avrebbero ritrovato in Brasile. Era stata quella la fotografia utilizzata dalla stampa per la notizia della sua morte. Era la più recente e guarda caso Patrick aveva da poco mandato una brochure alla redazione del quotidiano locale nel caso lo studio avesse voluto farsi pubblicità sulle loro pagine. Di quella vicenda si era riso al Mary Mahoney's, pensando a Patrick che organizzava la scenografia nella sala riunioni dello studio legale. Aveva divertito tutti l'idea di Bogan, Vitrano, Rapley e Havarac, tutti compiti nei loro completi blu scuro, a sorridere davanti alla macchina fotografica mentre Patrick preparava il suo colpo grosso. In quei mesi il gruppo del Mary Mahoney's aveva ripetutamente brindato al suo nome cercando di indovinare dove potesse trovarsi. Gli avevano inviato i loro auguri invidiandolo per i soldi che aveva intascato. Poi il tempo era trascorso e con esso lo choc della sua scomparsa. Una volta dissezionata a dovere la sua vita, le riunioni che lo riguardavano erano diventate meno frequenti e alla lunga erano cessate. I mesi erano diventati anni. Patrick non sarebbe mai stato ritrovato. Per Karl tutta quella storia aveva ancora dell'incredibile. Entrò nell'ascensore e salì da solo al secondo piano. Si domandava se anche lui avesse archiviato Patrick come i suoi amici. Ma gli interrogativi erano troppo numerosi e gustosi perché potesse averli accantonati così facilmente. Una giornataccia in tribunale e si ritrovava a pensare a Patrick che leggeva un romanzo su qualche spiaggia assolata, sollevando lo sguardo di tanto in tanto per bere un sorso e osservare le ragazze. Un altro anno senza un aumento di stipendio e si ritrovava a pensare ai novanta milioni di dollari. Un aggiornamento sul progressivo crollo dello studio legale e si ritrovava a rimproverare Patrick per il disastro che aveva provocato. No, la verità era che, per un motivo o un altro, Karl aveva
ripensato a Patrick almeno una volta al giorno da quando era scomparso. In corridoio non c'erano né infermiere né altri pazienti. I due aiutanti dello sceriffo si alzarono in piedi. «Buonasera, giudice» lo salutò uno dei due. Lui ricambiò ed entrò nella stanza buia. 23 Patrick era seduto a letto a torso nudo a guardare la televisione. Era accesa solo una lampada sul comodino. «Siediti lì» disse a Karl indicandogli i piedi del letto. Gli diede tempo di vedere bene le ustioni che aveva sul torace, poi s'infilò una maglietta. Il lenzuolo gli arrivava alla vita. «Grazie di essere venuto» mormorò. Spense il televisore aumentando l'oscurità nella camera. «Che brutte bruciature, Patrick» commentò Karl mentre si sedeva sulla sponda del letto, il più lontano possibile. Patrick si sollevò il lenzuolo fino al petto. Sotto di esso sembrava ancora emaciato. «È stata una brutta esperienza» ribatté intrecciando le dita sulle ginocchia. «Il dottore dice che sto guarendo bene, ma avrò bisogno di restare qui ancora per un po'.» «Nessuno mi sta facendo pressioni, Patrick.» «Non ancora. Ma scommetto che tra poco cominceranno.» «Rilassati. Sai che la decisione spetta a me.» Patrick sembrò rasserenato. «Grazie, Karl. So che non sopravviverei in prigione. E lo sai anche tu.» «E Parchman, allora? È cento volte peggio.» Seguì una lunga pausa di silenzio, durante la quale Karl rimpianse quella battuta. Gli era scappata ed era crudele. «Scusami. Potevo evitartelo.» «Piuttosto che finire a Parchman, mi uccido.» «E io ti capisco. Ma parliamo di qualcosa di più allegro.» «Tu non puoi giudicare questo caso, vero, Karl?» «No, te l'ho già detto. C'è incompatibilità.» «Quando sarà?» «Molto presto.» «A chi andrà?» «O a Trussel o a Lanks. Probabilmente Trussel.» Mentre parlava, Karl lo fissava, ma Patrick evitava di incrociare il suo sguardo. Il giudice aspettava di vedergli un guizzo negli occhi, seguito da un sorriso e finalmente da
un'aperta risata, e l'inizio del suo orgoglioso racconto della clamorosa avventura. "Coraggio, Patrick" avrebbe voluto esortarlo. "Sputa il rospo, racconta tutto." Ma i suoi occhi lo evitavano. Non era lo stesso Patrick che aveva conosciuto. «Dove ti sei fatto quel mento?» gli chiese comunque. «Me lo sono comperato a Rio.» «E il naso?» «Stesso posto, stesso momento. Ti piace?» «Ti sta bene.» «A Rio ci sono ambulatori per questo genere di ritocchi.» «Ho sentito dire che hanno anche belle spiagge.» «Spiagge incredibili.» «Hai conosciuto nessuna delle ragazze di laggiù?» «Un paio.» Il sesso non era un argomento sul quale Patrick fosse solito soffermarsi. Non disdegnava un prolungato sguardo di ammirazione a una bella donna, ma per quel che Karl ne sapeva era sempre stato fedele a Trudy. Una volta, a caccia di cervi, avevano parlato delle rispettive mogli e Patrick aveva confessato di dover dare il meglio di sé per soddisfare Trudy. Una lunga pausa e Karl capì che Patrick non aveva fretta di confidarsi. Trascorsero il primo minuto in silenzio, il secondo cominciò a farsi pesante, finché Karl decise che c'era un limite al tempo che era disposto ad accordare ai muri di una stanza buia per uno scambio di muti convenevoli. «Senti, Patrick, non presiederò io il tuo processo, perciò non sono qui come tuo giudice. Non sono il tuo avvocato. Sono tuo amico. Con me puoi parlare.» Patrick prelevò dal comodino una lattina di succo d'arancia in cui era infilata una cannuccia. «Ti va di bere qualcosa?» «No.» Lui bevve un sorso e posò di nuovo la lattina. «Era molto romantico, vero? Il sogno di andarsene alla chetichella, scomparire nella notte e riapparire al levar del sole in una nuova vita, con una nuova identità. Lasciare alle spalle tutti i problemi, il tran tran del lavoro, le sofferenze di un matrimonio malriuscito, le pressioni della carriera. È un sogno che fai anche tu, non è vero, Karl?» «Prima o poi capita a tutti, immagino. Tu da quanto tempo lo progettavi?»
«Molto. Dubitavo seriamente che la bambina fosse mia. Così ho deciso...» «Come hai detto?» «È vero, Karl. Il vero padre non sono io. Trudy mi ha sempre tradito. Ho voluto bene a quella bambina con tutto il cuore, ma dentro ne soffrivo. Ho raccolto delle prove e ho giurato a me stesso che le avrei sbattute in faccia a Trudy, ma era più facile rimandare. Ti sembrerà strano, ma con il tempo mi sono abituato all'idea che avesse un amante. Avevo in progetto di andarmene, ma non sapevo come. Così ho letto un paio di libri non proprio legali su come cambiare identità e ottenere documenti nuovi. Non è molto complicato. Ci vuole solo un po' di organizzazione.» «E ti sei fatto crescere la barba e sei aumentato di una trentina di chili.» «Già. Pazzesco come si cambia fisionomia con la barba. È stato più o meno all'epoca in cui sono diventato socio dello studio ed ero già a pezzi. Avevo sposato una donna che mi tradiva, giocavo con una figlia che non era mia, lavoravo con un gruppo di persone che non sopportavo. Così mi è scattato dentro qualcosa, Karl. Un giorno ero sulla Highway 90, avevo un appuntamento importante ma ero inchiodato in un ingorgo. Mi sono messo a guardare il golfo. C'era una barchetta a vela che si muoveva piano piano all'orizzonte. Ho sentito il desiderio struggente di essere là, in viaggio verso qualche luogo dove nessuno mi conosceva. Me ne stavo seduto in macchina a guardarla navigare e dentro stavo male per la voglia di buttarmi a nuoto per raggiungerla. Ho pianto, Karl, ci credi?» «Succede a tutti di avere giorni così.» «Poi è scattato qualcosa e non sono più stato lo stesso. Ho sentito che sarei scomparso.» «Quanto ti ci è voluto?» «Mi è costato molta pazienza. La maggior parte della gente si fa prendere dalla precipitazione quando decide di scomparire ed è lì che commette il primo errore. Io avevo tempo. Non mi ero messo nei guai con i creditori. Ho sottoscritto una polizza d'assicurazione per due milioni di dollari e per questo mi ci sono voluti tre mesi. Sapevo di non poter lasciare Trudy e la bambina al verde. Ho cominciato a metter su peso, mangiando come un matto. Ho cambiato il testamento. Ho convinto Trudy che dovevamo prendere provvedimenti per i nostri funerali e la nostra sepoltura e sono riuscito a farlo senza destare sospetti.» «Bel tocco quello della cremazione.» «Grazie. L'avevo vivamente richiesta.»
«Così è impossibile determinare la causa della morte e l'identità della vittima, cosucce da poco.» «Preferirei non parlarne.» «Scusa.» «Poi sono venuto a conoscenza del signor Benny Aricia e della sua piccola guerra con il Pentagono e la Platt & Rockland Industries. Bogan manteneva contatti molto confidenziali, ma io ho scavato nel posto giusto e ho scoperto che dell'affare facevano parte anche Vitrano, Rapley e Havarac. Tutti i soci salvo me. Erano cambiati, Karl, erano diventati reticenti, misteriosi. È vero che io ero l'ultimo arrivato, ma ero un socio a tutti gli effetti. Avevano votato all'unanimità per accogliermi in società e due mesi dopo mi evitavano complottando con Aricia e tagliandomi fuori. Tutt'a un tratto, se c'era da assentarsi per lavoro toccava sempre a me, cosa che tornava molto comoda a tutti. Trudy poteva organizzare i suoi convegni e i miei soci potevano vedersi con Aricia senza doversi nascondere. Mi spedivano dappertutto ed ero contento anch'io perché così potevo preparare i miei piani. Una volta sono stato a Fort Lauderdale per tre giorni di deposizioni e mentre ero lì ho trovato un tizio a Miami capace di falsificare documenti alla perfezione. In cambio di duemila dollari mi sono procurato patente, passaporto, tessera della previdenza sociale, tessera di iscrizione alle liste elettorali. Tutti i documenti riportavano come residenza la contea di Harrison. Per nome ho scelto Carl Hildebrand, in tuo onore.» «Ne sono commosso.» «A Boston ho rintracciato una persona in grado di farti scomparire. Per mille dollari mi sono comperato una lezione su come svanire nel nulla. A Dayton ho assunto un esperto di sistemi di sorveglianza che mi ha insegnato come piazzare cimici e microspie e altri ammennicoli del genere. Sono stato paziente, Karl. Molto paziente. Mi sono trattenuto in ufficio nelle ore meno probabili a raccogliere quante più informazioni potevo su Aricia. Ho drizzato le orecchie, interrogato le segretarie, rovistato nelle immondizie. Poi ho cominciato a piazzare microspie negli uffici, dapprima un paio, tanto per imparare il mestiere. Ho messo sotto controllo l'ufficio di Vitrano e ho scoperto cose sbalorditive. Avevano intenzione di sbattermi fuori dallo studio, Karl. Ci pensi? Sapevano che Aricia come cliente avrebbe reso qualcosa come trenta milioni di dollari e avevano intenzione di dividerli in quattro parti. Ma non uguali. Naturalmente a Bogan sarebbe spettato di più, una decina di milioni. Era stato lui a far intervenire certe persone di Washington. Agli altri tre sarebbero andati cinque milioni e il resto sareb-
be stato speso per lo studio. Mentre io secondo i loro progetti sarei finito in mezzo a una strada.» «Quand'è stato?» «Estate e autunno del '91. L'approvazione preliminare da parte del dipartimento di Giustizia è del 14 dicembre 1991. All'epoca per incassare i soldi previsti dall'accordo ci volevano novanta giorni e nemmeno un senatore avrebbe potuto accorciare i tempi.» «Raccontami dell'incidente d'auto.» Patrick spinse il lenzuolo con i piedi e si alzò. «Ho un crampo» borbottò, sgranchendosi schiena e gambe. Si fermò davanti alla porta del bagno a dondolarsi. «Era una domenica» disse poi. «Il nove febbraio.» «Sì. Il nove febbraio. Avevo passato il fine settimana allo chalet e stavo tornando a casa quando sono uscito di strada, sono rimasto secco nell'incidente e sono andato in paradiso.» Karl lo fissò senza sorridere. «Ricomincia da capo» lo esortò. «Perché, Karl?» «Per soddisfare la mia morbosa curiosità.» «Tutto qui?» «Giuro. È stata una messinscena geniale, Patrick. Come hai fatto?» «Dovrò lasciar fuori qualche particolare.» «Me ne rendo conto.» «Facciamo due passi. Sono stufo di stare chiuso qui dentro.» Uscirono in corridoio e Patrick spiegò ai suoi angeli custodi che aveva bisogno di sciogliersi i muscoli. I poliziotti lo seguirono mantenendosi a distanza. Un'infermiera sorrise e si premurò di sapere se avessero bisogno di niente. Due Diet Coke, chiese Patrick. Poi non aggiunse altro finché non giunsero in fondo al corridoio, dove c'erano delle vetrate affacciate sul piazzale del parcheggio. Si sedette su una panca con il suo ospite, mentre i poliziotti si fermavano a una decina di metri, girati dall'altra parte. Patrick indossava calzoni da chirurgo, senza calze, con un paio di sandali ai piedi. «Hai visto le foto dell'incidente?» chiese sottovoce. «Sì.» «Avevo trovato quella scarpata il giorno prima. Bella ripida, proprio quello che mi serviva, il luogo perfetto per uscire di strada. Ho aspettato fino alle dieci di domenica sera prima di partire dallo chalet. Mi sono fermato in un negozietto sul confine della contea.» «Dalla signora Verhall.»
«Giusto. Ho fatto il pieno.» «Cinquanta litri, quattordici dollari e ventun centesimi, pagati con una carta di credito dell'Amoco.» «Mi pare di sì. Ho scambiato due parole con la signora Verhall e sono ripartito. Non c'era molto traffico. A circa tre chilometri dal negozio ho svoltato in una strada sterrata e l'ho percorsa per un chilometro e mezzo fino a un altro punto che avevo scelto in precedenza. Mi sono fermato e dal bagagliaio ho preso l'equipaggiamento che si usa per il motocross, casco, imbottitura per spalle e ginocchia, guanti pesanti. Sono rimontato in macchina, per il momento ancora senza il casco, e sono tornato sulla statale, prendendola in direzione sud. La prima volta avevo una macchina dietro di me. La seconda ce n'era una che arrivava dalla direzione opposta. Io ho comunque frenato bruscamente, lasciando i segni dei copertoni sull'asfalto. La terza volta non c'era traffico. Mi sono messo il casco, ho trattenuto il fiato e sono uscito di strada. Per poco non sono morto di paura, Karl.» Karl riteneva che a quel punto dovesse esserci un altro essere umano a bordo dell'automobile, vivo o morto, ma per il momento non osò chiedere nulla. «Andavo a meno di cinquanta all'ora quando sono uscito di strada, ma i cinquanta ti sembrano duecento quanto stai volando e vedi gli alberi che sfrecciano a destra e a sinistra. Poi ho cominciato a rimbalzare, sradicando i cespugli. Il parabrezza è esploso. Io sterzavo di qua e di là, cercando di schivare gli alberi come meglio potevo, poi ho beccato un grosso pino sulla sinistra. L'airbag è scoppiato e per un secondo non ho capito più niente. Ho avuto la sensazione di rotolare, poi silenzio. Ho aperto gli occhi con un dolore intenso alla spalla sinistra. Niente sangue. Ero tutto storto e ho impiegato un po' per raccapezzarmi e capire che la Blazer si era coricata sul fianco destro. Ho cominciato a venirne fuori e durante la manovra mi sono reso conto di quanto fossi stato fortunato. Non mi ero fratturato la spalla, avevo solo una forte contusione. Ho fatto il giro della macchina e ti assicuro che era ridotta in uno stato pietoso. Il tetto era profondamente ammaccato in corrispondenza della mia testa. Pochi centimetri in più e non sono sicuro che me la sarei cavata.» «Ti sei comportato da perfetto incosciente. Avresti potuto rimanere ucciso o gravemente ferito. Perché non hai semplicemente spinto la macchina giù per il pendio?» «Non avrebbe funzionato. Doveva sembrare un incidente vero, Karl, e la scarpata non era abbastanza ripida. Non ti dimenticare che questa è una
grande pianura.» «Allora perché non hai messo un mattone sul pedale dell'acceleratore e non sei saltato giù?» «Perché i mattoni non bruciano. Avrebbero potuto insospettirsi, trovandone uno a bordo. Avevo pensato a tutto e concluso che avrei potuto cavarmela rimanendo al volante quando fossi uscito di strada. Avevo la cintura di sicurezza, l'airbag e un casco.» «Il perfetto stuntman.» Arrivò l'infermiera con le bibite e si trattenne a scambiare due chiacchiere. «Dov'ero rimasto?» chiese Patrick quando finalmente se ne fu andata. «Credo al momento in cui ti preparavi a bruciare la macchina.» «Già. Ho ascoltato per un momento e l'unico rumore che ho sentito è stato quello della ruota posteriore sinistra che girava ancora. Da dove mi trovavo non vedevo la strada, ma da quella direzione non ho sentito arrivare nessun suono. Niente di niente. La casa più vicina era a un chilometro e mezzo ed ero sicuro che nessuno poteva aver sentito lo schianto, ma avevo fretta lo stesso. Mi sono tolto il casco e le imbottiture e li ho buttati nella Blazer, poi sono andato di corsa a prendere la benzina là dove l'avevo nascosta, poco distante.» «Quando?» «Quel giorno stesso, ma molto prima, all'alba. Avevo quattro taniche di plastica da dieci litri l'una, che ho trasportato velocemente alla Blazer. C'era un buio d'inferno e non potevo usare una torcia, ma avevo segnato il percorso. Ho messo tre taniche nell'abitacolo, poi mi sono fermato e ho teso l'orecchio di nuovo. Niente dalla strada, nessun rumore da nessuna parte. Avevo più adrenalina che sangue in giro per il corpo e il cuore conficcato in gola. L'ultimo contenitore l'ho svuotato, un po' dentro e un po' fuori, poi l'ho buttato dentro con gli altri. Mi sono spostato di una decina di metri e ho acceso una sigaretta. L'ho lanciata, sono indietreggiato di qualche passo ancora e mi sono messo al riparo dietro un albero. La sigaretta è caduta sulla Blazer, poi la benzina è esplosa come una bomba. In un attimo c'erano fiamme che uscivano da tutti i finestrini. Mi sono arrampicato per la scarpata e mi sono trovato un buon posto di osservazione a una trentina di metri dalla strada. Volevo vedere senza essere visto. Non credevo che un incendio facesse un fracasso del genere. Hanno preso fuoco i primi cespugli e ho temuto di aver combinato un bel guaio, a rischio di incendiare tutto il bosco, ma per fortuna il venerdì precedente era piovuto forte e gli
alberi e il terreno erano ancora umidi.» Bevve un sorso. «Ehi, Karl, scusami. Mi rendo conto solo ora che non ti ho chiesto niente dei tuoi. Come sta Iris?» «Bene. Ma della mia famiglia parliamo in un altro momento. Adesso voglio sentire la tua storia.» «Già, dov'ero? Sai, non riesco a essere molto coerente con tutta quella roba che mi hanno messo in corpo qui.» «Stavi guardando la macchina che bruciava.» «Giusto. Dunque il rogo diventa sempre più intenso, poi esplode la benzina che c'è nel serbatoio ed è un'altra bomba. Per un attimo ho temuto di correre qualche rischio, con tutti quei detriti che volavano di qui e di là e sfrigolavano tra gli alberi ricadendo. Poi ho sentito del chiasso sulla strada. Voci. Gente che gridava. Non vedevo niente ma sentivo che c'era agitazione. Passa un bel po' di tempo e intanto il fuoco si propaga intorno all'automobile. Lo vedo venire verso di me, così decido di allontanarmi. A un centinaio di metri trovo un ruscello e lo seguo. A questo punto sento una sirena in arrivo. Devo ritrovare la mia moto da cross.» Karl, che pendeva dalle sue labbra ricreando mentalmente scena dopo scena, non perdeva il minimo particolare. Nei mesi successivi alla scomparsa di Patrick, le circostanze della sua fuga dal luogo dell'incidente erano state oggetto di discussioni molto accanite. «Una moto da cross?» «Sì. Un modello vecchio. L'avevo comperata per cinquecento dollari in contanti da un rivenditore di auto usate a Hattiesburg. Ce l'avevo da qualche mese e avevo fatto pratica in giro per i boschi. Nessuno lo sapeva.» «Non era registrata?» «Ci mancherebbe altro. Devo dirti, Karl, che mentre correvo nel bosco cercando il ruscello, ancora spaventato ma tutto intero, e sentivo affievolirsi dietro di me il rumore dell'incendio e le voci mentre più forte diventava la sirena, ebbene, sapevo che stavo correndo verso la libertà. Patrick era morto e si era portato via con sé una brutta vita. Sarebbe stato seppellito con tutti gli onori, avrebbe ricevuto da tutti l'estremo saluto, e di lì a pochi mesi la gente avrebbe cominciato a dimenticarsi di lui. Ma io stavo correndo all'impazzata verso una vita nuova. Era una sensazione esaltante.» E quel poveraccio bruciato nella macchina, Patrick? Mentre tu correvi felice per il bosco qualcun altro moriva al posto tuo. Karl fu sul punto di chiederglielo. Sembrava che Patrick si fosse completamente dimenticato dell'omicidio commesso. «E a quel punto mi sono perso. Il bosco era fitto ed evidentemente mi
ero inoltrato nella direzione sbagliata. Così tiro fuori una piccola torcia pensando di potermene servire senza correre troppi rischi. Provo a procedere da una parte e dall'altra finché non sento più le sirene. Allora mi siedo e vedo di riordinare i pensieri. Sono in preda al panico. Bella fine, eh? Sopravvivere all'incidente d'auto solo per morire di fame nel bosco. Mi rimetto in marcia e con un colpo di fortuna trovo il ruscello. Poco dopo rintraccio anche la moto. La spingo per un centinaio di metri, su per una china, fino a una vecchia pista di boscaioli e come ti puoi immaginare ormai il mio corpaccione di oltre un quintale non ce la fa praticamente più. Non ci sono case in un raggio di due miglia, così posso mettere in moto e avviarmi lungo il sentiero. Avevo battuto la zona più di una volta, perciò la conoscevo abbastanza bene. Trovo una strada sterrata e vedo la prima casa. Avevo montato tubi di scarico di allumìnio che riducevano al minimo il rumore. Poco dopo raggiungo la prima strada asfaltata. Sono nella contea di Stone. Mi tengo alla larga dalle arterie principali e passando per le campagne torno allo chalet.» «Perché ci sei tornato?» «Avevo bisogno di riorganizzarmi.» «Ma non avevi paura di essere visto da Pepper?» Patrick non batté ciglio. Karl aveva scelto alla perfezione il momento per piazzare la sua bordata e ora attendeva la sua reazione. Nessuna. Patrick si guardò i piedi per qualche secondo ancora, poi rispose: «Pepper non c'era più». 24 Era tornato Underhill. Reduce da otto ore trascorse in un'altra stanza a esaminare video e appunti. Entrò, salutò genericamente Stephano e il suo avvocato e si mise subito al lavoro. «Vorrei che riprendesse da dove abbiamo interrotto ieri, signor Stephano.» «Cioè?» «La vostra andata in Brasile.» «Va bene. Dunque, vediamo... È un paese enorme, con centosessanta milioni di abitanti, famoso per avere un numero infinito di luoghi in cui nascondersi, specialmente se si è un latitante. È stato per anni la meta preferita dei nazisti. Abbiamo raccolto un dossier su Lanigan e lo abbiamo fatto tradurre in portoghese. Un esperto in identikit della polizia ha sviluppato con l'ausilio di alcuni programmi grafici computerizzati una serie di
immagini a colori dell'aspetto presunto di Lanigan. Il noleggiatore di Orange Beach e il personale della banca di Nassau ci avevano aiutati a ricostruire la sua fisionomia. I bozzetti preparati in un primo tempo erano stati sottoposti ai soci del suo studio legale, i quali a loro volta li avevano mostrati alle segretarie. Uno dei partner, il signor Bogan, era persino andato a consultare la vedova Lanigan.» «Ora che lo avete preso, potete dire che ci eravate andati vicino?» «Abbastanza. Salvo che per il mento e il naso.» «Continui, la prego.» «Così siamo corsi in Brasile e abbiamo trovato tre delle migliori agenzie investigative private del paese, una di Rio, una di São Paulo e una di Recife, nel Nordest. Pagavamo bene e in valuta pregiata, perciò ci siamo procurati quanto c'era di meglio. Abbiamo messo insieme una squadra e ci siamo installati a São Paulo per una settimana. Li abbiamo ascoltati. La loro idea consisteva nel presentare Patrick come un fuggiasco americano ricercato per rapimento e assassinio della figlia di una famiglia facoltosa, la quale ora offriva una ricompensa per informazioni sul suo conto. L'omicidio di una bambina era naturalmente un espediente per suscitare una maggiore collaborazione di quella che ci sarebbe stata se le ricerche avessero riguardato il colpevole di un furto ai danni di un'associazione di avvocati. «Abbiamo cominciato subito dalle scuole di lingue, dove abbiamo offerto denaro contante e mostrato le sue foto. Le scuole più rinomate ci hanno sbattuto la porta in faccia. In altre hanno guardato le fotografie, ma nessuno è stato in grado di aiutarci. Cominciavamo intanto a provare un notevole rispetto per Lanigan e a pensare che non avrebbe corso il rischio di andare a studiare in un posto dove si facevano domande e compilavano registri. Così abbiamo setacciato gli insegnanti privati, qualcosa come un milione in giro per il Brasile. Un lavoro sfiancante.» «Offrivate sempre denaro contante?» «Facevamo quello che volevano i nostri agenti brasiliani, il che significa mostrare le foto, raccontare la storia della bambina assassinata e attendere una reazione. Se ci capitava di sentire una toccata all'esca, allora si pasturava menzionando la ricompensa.» «E ne avete sentite?» «Qualcuna, qua e là, ma non abbiamo mai pagato, almeno non gli insegnanti.» «Qualcun altro allora.» Stephano annuì e abbassò gli occhi su un foglio. «Nell'aprile del '94 ab-
biamo trovato a Rio un chirurgo plastico che ha mostrato un certo interesse per le foto di Lanigan. Ci ha tenuto in ballo per un mese e finalmente ci ha convinto di aver lavorato su di lui. Diceva persino di avere qualche fotografia, scattata prima e dopo l'intervento. Ci ha manovrati con maestria, spingendoci a versargli duecentocinquantamila dollari in contanti, su un conto estero, per comperare da lui la pratica che lo riguardava.» «Che cosa ci avete trovato dentro?» «Quanto bastava. Fotografie nitide del nostro uomo prima e dopo la plastica. Era strano perché Lanigan aveva preteso di non essere fotografato. Non voleva lasciare nessuna traccia dietro di sé, era pronto a pagare in contanti per sottoporsi all'intervento senza dover dare il proprio nome. Aveva detto di essere un imprenditore canadese che aveva avuto improvvisamente voglia di un aspetto più giovanile. Erano storie antiche, per le orecchie del chirurgo, che aveva capito subito di avere a che fare con un fuggiasco. Ma teneva una videocamera nascosta nel suo gabinetto medico, e dal nastro erano state tratte quelle immagini.» «Potremmo vederle?» «Senz'altro.» Fu scomodato per un momento l'avvocato che allungò una busta a Underhill, il quale l'aprì e degnò le foto solo di una rapida occhiata. «Come avete trovato il dottore?» «Mentre controllavamo le scuole di lingue e gli insegnanti privati, si battevano anche le vecchie strade, falsificatori, chirurghi plastici, importatori.» «Importatori?» «Sì, in portoghese c'è una parola precisa per questi individui, ma importatori è una traduzione che può andare. Sono un gruppo di specialisti in immigrazioni clandestine. Ti fanno entrare in Brasile e fanno perdere le tue tracce, mettendoti a disposizione un'identità nuova di zecca con tanto di documenti e una serie di luoghi dove vivere e nascondersi. Ci siamo trovati a cozzare contro un muro e abbiamo ricevuto lo stesso trattamento dai falsificatori. È chiaro che questa gente non può parlare dei suoi clienti ed è un vero guaio per il nostro mestiere.» «Mentre con i medici è diverso?» «Non proprio. Anche loro non parlano. Ma noi abbiamo assunto come consulente un chirurgo plastico che ci ha dato i nomi di alcuni suoi colleghi non proprio incorruttibili. È così che abbiamo trovato quello di Rio.» «Questo accadeva due anni dopo la scomparsa di Lanigan.» «Infatti.»
«Ed è stato il primo indizio che si trovasse davvero in Brasile?» «Il primo, sì.» «Che cosa avete fatto nei successivi due anni?» «Abbiamo speso un sacco di soldi. Bussato a un sacco di porte. Seguito un sacco di piste sbagliate. Come ho detto, è un paese immenso.» «Quanti erano gli uomini che lavoravano per voi in Brasile?» «C'è stato un momento in cui pagavo sessanta agenti. E meno male che non sono cari come in America.» Se il giudice aveva voglia di pizza, non si poteva non accontentarlo. Fu mandata a prendere da Hugo's, una pizzeria a vecchia gestione familiare in Division Street, vicina al Point e lontana dai fast food allineati lungo la spiaggia. Un aiutante dello sceriffo la recapitò alla stanza 312. Patrick ne avvertì il profumo appena uscita dalla cabina dell'ascensore e, quando Karl aprì la scatola, chiuse gli occhi e s'inebriò del forte aroma emanato da olive nere, funghi coltivati, salsiccia italiana, peperoni verdi e sei tipi di formaggio. Aveva mangiato mille pizze di Hugo's, specialmente negli ultimi due anni della sua vecchia esistenza, ed era da una settimana che sognava di riassaporarne una. Tornare a casa aveva anche qualche vantaggio. «Hai la faccia di un morto resuscitato. Fatti sotto» lo invitò Karl. Patrick divorò la sua prima fetta senza una parola, poi ne aggredì una seconda. «Come hai fatto a dimagrire tanto?» volle sapere Karl facendogli compagnia. «Non potremmo farci portare della birra?» propose Patrick. «No. Scusami, ma, se per caso te lo sei scordato, tu sei un detenuto.» «Perdere peso è un fatto mentale. Basta volerlo ed è facile. Io a un certo momento avevo mille buoni motivi per digiunare.» «Fino a che peso sei arrivato?» «Il venerdì prima di scomparire pesavo centoquindici chili. Ne ho persi ventitré nelle prime sei settimane. Stamattina ne pesavo settantacinque.» «Sembri un profugo. Mangia.» «Grazie.» «Eravamo al tuo chalet.» Patrick si pulì con un fazzoletto di carta e posò la sua fetta nella scatola. Bevve qualche sorso di coca. «Già, eravamo allo chalet. Erano le undici e mezzo. Sono entrato dalla porta principale e non ho acceso le luci. C'è un altro villino a meno di un chilometro, un po' più in alto, visibile dal mio. È
di certi tizi di Hattiesburg e, anche se non pensavo che fossero lì quella settimana, era meglio non correre rischi. Ho coperto la finestrella del bagno con un asciugamano scuro, ho acceso la luce e mi sono tagliato la barba. Poi mi sono accorciato i capelli e li ho tinti color castano scuro, quasi nero.» «Questa, mi spiace di essermela persa.» «In effetti mi donava. Ti sembrerà strano, ma quando mi sono guardato allo specchio già mi sentivo una persona diversa. Poi ho dato una ripulita, ho fatto scomparire peli e capelli perché sapevo che avrebbero passato casa mia al setaccio e ho messo via il nécessaire che avevo usato per la tintura. Ho indossato abiti pesanti. Mi sono bevuto mezza caffettiera di caffè forte e ho messo l'altra metà in un thermos per il viaggio. All'una sono uscito in fretta e furia. Non mi aspettavo che i poliziotti arrivassero già quella stessa notte, ma non si può mai dire. Sapevo che ci sarebbe voluto del tempo per identificare la Blazer e chiamare Trudy, poi qualcuno avrebbe proposto di andare a dare un'occhiata allo chalet. Non mi aspettavo che accadesse tutto subito, ma all'una di notte ero ansioso di battermela.» «Eri preoccupato per Trudy?» «Non più di tanto. Sapevo che avrebbe retto bene al trauma e che se la sarebbe cavata egregiamente fino alla sepoltura. Avrebbe fatto la brava vedova per un mesetto, finché non avesse incassato i soldi dell'assicurazione. Poi avrebbe gettato la maschera. Oh, no, Karl, non provavo affetto per quella donna né mi preoccupavo per lei.» «Sei mai più tornato allo chalet?» «No.» Karl non seppe, non poté evitare la domanda successiva. «Sotto uno dei letti furono ritrovati il fucile e l'attrezzatura da campeggio di Pepper. Come ci erano finiti?» Patrick alzò gli occhi per un secondo, come sorpreso, poi girò la testa dall'altra parte. Karl registrò la sua reazione, sulla quale sarebbe tornato spesso nei giorni seguenti. Un sussulto, uno sguardo sfuggente, poi, per l'incapacità di dare una risposta sincera, i suoi occhi che si giravano verso la parete. "Quando commetti un omicidio fai venticinque errori" dice una battuta in un vecchio film. "Se riesci a pensarne quindici, sei un genio." Forse, per quanto meticolosamente avesse preparato il suo piano, Patrick aveva semplicemente dimenticato gli oggetti di Pepper. Nella precipitazione del momento, gli era sfuggito un particolare così importante.
«Non lo so» rispose, quasi in un ringhio cupo, con gli occhi ancora fissi sul muro. Karl aveva ottenuto ciò che voleva e tenne duro. «Allora, dove sei andato?» «Sono partito in gita per l'inferno» rispose Patrick, voltandosi di nuovo verso di lui, ansioso di proseguire il racconto. «C'erano quattro o cinque gradi, che in moto in campagna, di notte, è come dire venti sottozero. Mi sono mantenuto lontano dalle strade più battute, viaggiando piano perché il vento mi faceva a fette come un coltello. Sono entrato in Alabama e di nuovo ho percorso solo strade secondarie, in piena campagna. Una moto da cross sulla statale alle tre di notte avrebbe potuto attirare l'attenzione di un poliziotto morto di noia, così ho evitato i centri abitati. Verso le quattro del mattino sono arrivato finalmente nei sobborghi di Mobile. Un mese prima avevo trovato un alberghetto dove volevano essere pagati in contanti senza fare domande. Ho nascosto la moto dietro il motel e mi sono presentato all'ingresso come se fossi appena smontato da un taxi. Trenta dollari per una stanza, contanti, niente registrazione. Ho impiegato un'ora per scongelarmi. Ho dormito per due ore e mi sono svegliato con il sole. Tu quando hai avuto la notizia, Karl?» «Dev'essere stato più o meno quando tu eri in piena campagna. Doug Vitrano mi ha chiamato qualche minuto dopo le tre. Mi ha svegliato, cosa che ora mi fa veramente saltare la mosca al naso, lo che mi gioco la nottata di sonno a piangere sulla tua scomparsa e tu che fai l'Easy Rider in fuga verso una nuova vita.» «Non ero sano e salvo.» «No, ma certo non eri in pensiero per i tuoi amici.» «Questo mi dispiace, Karl.» «Non ci credo.» «Hai ragione» confessò Patrick. «Non mi dispiace.» Più tranquillo ora, corroborato dalla sua stessa narrazione, Patrick riusciva persino a sorridere. «Ti sei svegliato con il sole. Un uomo nuovo in un mondo nuovo. Tutti i problemi di un tempo alle spalle.» «Tutti no, ma quasi. Era terribilmente emozionante e faceva anche paura. Dormire era difficile. Ho guardato la televisione fino alle otto e mezzo, non ho visto niente sulla mia morte, ho fatto una doccia, ho indossato abiti puliti...» «Un momento. E la roba per la tintura dei capelli?»
«Avevo buttato tutto in un cassonetto in campagna, nella contea di Washington. Ho chiamato un taxi, che a Mobile non è proprio l'impresa più facile del mondo. Il tassista si è fermato davanti alla porta della mia stanza. Sono partito senza passare dall'ufficio. Ho lasciato la moto dietro il motel e sono andato in un ipermercato che, come sapevo, apriva alle nove. Lì ho comperato una giacca, calzoni sportivi e scarpe comode.» «Come hai pagato?» «In contanti.» «Non avevi una carta di credito?» «Sì, avevo una Visa falsa che mi ero procurato da una certa persona a Miami. Si poteva usare solo quattro o cinque volte, poi andava gettata. La tenevo da parte per l'auto che dovevo noleggiare.» «E quanto denaro avevi con te?» «Ventimila circa.» «Arrivati da dove?» «Li avevo risparmiati nell'arco di un anno. Guadagnavo bene, anche se Trudy faceva del suo meglio per spendere il mio stipendio più in fretta di quanto io riuscissi a racimolarlo. Avevo spiegato in contabilità che avevo bisogno di dirottare qualche spicciolo prima che mia moglie ci mettesse su le zampe. La ragazza mi aveva detto che era un servizio che rendeva normalmente anche agli altri avvocati. Una parte dei soldi finiva su un altro conto. A intervalli regolari andavo a incassarli e li nascondevo in un cassetto. Soddisfatto?» «Sì. Dunque avevi appena comperato un paio di scarpe comode.» «In un altro negozio ho comperato una camicia bianca e una cravatta. Mi sono cambiato in un camerino, trasformandomi in uno dei tanti commessi viaggiatori. Ho acquistato qualche ricambio e alcuni accessori, ho messo tutto in una borsa di tela nuova di zecca e ho chiamato un altro taxi. Con questo sono andato all'aeroporto di Mobile dove ho fatto colazione e ho aspettato il volo della Northwest Airlink da Atlanta. Quando è arrivato, mi sono mescolato agli altri pendolari, tutti indaffaratissimi e ansiosi di aggredire Mobile, e mi sono fermato in fila con altri due al banco dell'Avis. Loro avevano le macchine prenotate. Per me è stato un po' più complicato. Avevo una splendida patente della Georgia e il passaporto da esibire, se fosse stato necessario. Ho usato la Visa, ma ti giuro che morivo di paura. Il numero della carta era valido, di un povero diavolo di Decatur, Georgia, ed ero terrorizzato all'idea che il computer lo individuasse e facesse partire un allarme. Invece è andato tutto liscio. Ho riempito il mio modulo e me la
sono filata.» «Con che nome?» «Randy Austin.» «Spiegami una cosa, Randy» esclamò Karl. Staccò un pezzo di pizza e lo masticò lentamente. «Eri all'aeroporto. Perché non sei semplicemente montato su un aereo e via?» «Non temere, ci ho pensato. Mentre facevo colazione ho guardato decollare due aerei e mi ha preso una voglia sfrenata di partire. Ma non avevo ancora chiuso i miei conti con il passato. È stata una decisione dolorosa.» «Quali conti?» «Credo che tu lo sappia. In macchina sono andato a Gulf Shores, poi lungo la Costa fino a Orange Beach dove ho affittato un appartamentino.» «Che avevi già scelto in precedenza.» «Naturalmente. Sapevo che avrebbero accettato contanti. Era febbraio, faceva freddo, era stagione di magra. Ho preso un blando sedativo e ho dormito per sei ore. Ho guardato il telegiornale e visto il punto in cui avevo trovato la mia fine atroce nel rogo dell'automobile. I miei amici erano sconvolti.» «Stronzo.» «Mi sono comperato alcune mele e un flacone di pillole dietetiche. Dopo il tramonto del sole, camminavo sulla spiaggia per tre ore, un esercizio che ho ripetuto tutte le sere nel periodo in cui sono rimasto nascosto a Mobile. La mattina dopo ho fatto un salto a Pascagoula e ho comperato un giornale. Ho visto il mio faccione sorridente in prima pagina, ho letto della tragedia, il commovente discorsetto di commiato che mi hai dedicato e ho saputo che i funerali si sarebbero tenuti quel pomeriggio alle tre. A Orange Beach ho noleggiato una barca a vela. Poi sono andato in macchina a Biloxi in tempo per assistere alle mie esequie.» «Secondo i giornali hai spiato il momento della tua sepoltura.» «È vero. Ero nascosto su un albero vicino al cimitero e ho visto tutto con un binocolo.» «A me sembra la cosa più imbecille.» «Lo è stato. Da perfetto idiota. Ma era più forte di me. Dovevo assicurarmi, vedere con i miei occhi che il mio trucco aveva funzionato. E credo che ormai mi fossi convinto di poterla fare franca sempre e comunque.» «Suppongo che avessi già scelto anche l'albero.» «Per la verità no. Non ero sicuro che ci sarei andato. Ho lasciato Mobile dirigendomi a ovest e ho continuato a ripetere a me stesso di non farlo. Di
non avvicinarmi a Biloxi.» «E il tuo culone è riuscito ad arrampicarsi su un albero?» «Spinto da solidi motivi. Era una quercia con rami molto grossi.» «Buon per te. Io invece mi rammarico che un ramo non si sia spezzato. Ti saresti meritato una bella botta in testa.» «Non ci credo.» «Oh, sì, che mi dispiace. Noi eravamo tutti raccolti intorno alla tua tomba a trattenere le lacrime e a consolare la vedova, e tu te ne stavi appollaiato su un albero come un grasso gufo a ridere di noi.» «Stai solo cercando di arrabbiarti con me, Karl.» Aveva ragione. Quattro anni e mezzo avevano stemperato tutta la collera che Karl poteva aver provato per lui. La verità era l'opposto: era felice di trovarsi seduto sulla sponda di un letto d'ospedale a mangiare pizza con Patrick e a bearsi dei mille particolari della sua strabiliante avventura. Ma più in là della cerimonia funebre non si sarebbero spinti. Patrick aveva parlato abbastanza ed erano tornati nella sua camera, un posto di cui non si fidava del tutto. «Allora, dimmi un po', come stanno Bogan, Vitrano e i ragazzi?» chiese, appoggiando la testa al guanciale e pregustando le notizie che stava per ascoltare. 25 L'ultima telefonata che Paulo Miranda aveva ricevuto dalla figlia risaliva a due giorni prima. Eva era in un albergo di New Orleans, ancora in viaggio per il suo misterioso nuovo cliente, ancora preoccupata delle persone che avrebbero potuto sorvegliare entrambi, poiché il suo cliente aveva nemici in Brasile. Come durante la telefonata precedente, fu concisa e vaga e non riuscì a nascondere del tutto la propria apprensione. Paulo si era irritato per il suo comportamento e aveva preteso chiarimenti sulla situazione. Lei era soprattutto in ansia per lui. Paulo aveva chiesto che tornasse a casa. In uno scatto d'ira le aveva rivelato per la prima volta di aver contattato i suoi ex soci e di sapere che era stata scaricata. Lei aveva spiegato con calma che ora operava da sola, come avvocato indipendente, per conto di un ricco commerciante con interessi internazionali e che trasferte prolungate come quella sarebbero diventate un'abitudine. Paulo non amava dover litigare con lei per telefono, specialmente quando sentiva tutta la sincerità della preoccupazione della figlia per lui. Era anche stanco degli sconosciuti che come un'ombra si aggiravano nei
pressi della sua abitazione per seguirlo dovunque andasse, fosse al mercato o al suo ufficio alla Pontificia Universidade Catolica. Ne individuava sempre qualcuno e li aveva persino ribattezzati con dei nomignoli. Aveva parlato più di una volta con il custode del palazzo in cui abitava Eva e aveva trovato gli stessi individui a piantonare anche quello. All'una finì l'ultima lezione sulla filosofia tedesca. Per mezz'oretta si trattenne nel suo ufficio con uno studente in difficoltà, poi lasciò l'ateneo. Pioveva e si era dimenticato di portare l'ombrello. La sua automobile era nel piccolo parcheggio riservato ai dipendenti della facoltà, dietro la palazzina con le aule. C'era Osmar ad attenderlo. Paulo camminava immerso nei suoi pensieri, con gli occhi bassi e un giornale a proteggergli la testa, lontano un milione di miglia mentre passava sotto i rami gocciolanti di un albero e finiva in una pozzanghera a pochi metri dalla sua macchina. Dal piccolo furgone rosso di fianco all'automobile smontò un uomo, ma Paulo non se ne accorse. L'uomo aprì il portellone posteriore del furgoncino, ma Paulo non udì e non vide niente. Stava per sfilarsi di tasca la chiave, quando Osmar lo urtò lateralmente facendolo cadere nel furgone. La cartella cadde per terra. Il portello si richiuse. Nell'oscurità sentì tra gli occhi il freddo della canna di una pistola e una voce gli ordinò di non aprire bocca. Qualcuno aprì lo sportello della sua automobile e sparse le carte della sua borsa in tutto l'abitacolo. Poi il furgoncino partì. Una telefonata anonima informò la polizia del sequestro. Il furgone viaggiò per un'ora e mezzo, uscendo di città e inoltrandosi in campagna, senza che Paulo potesse intuire dove stavano andando. All'interno faceva caldo, non c'erano né finestrini né luci, intravedeva a malapena le due persone che gli tenevano compagnia, entrambe armate. Si fermarono a una fattoria e fu condotto nell'ala che gli era stata assegnata, dove aveva a disposizione una camera da letto, un bagno e un salottino con un televisore. I sequestratori si erano già premuniti di procurargli scorte abbondanti di cibo. Non gli sarebbe stato fatto del male, gli spiegarono, se non avesse commesso l'errore di cercare di fuggire. Lo avrebbero trattenuto per una settimana circa, poi, se si fosse comportato bene, lo avrebbero liberato. Paulo chiuse a chiave la porta del suo alloggio e sbirciò dalla finestra. Vide due uomini seduti sotto un albero a ridere e bere tè. Erano entrambi armati di mitraglietta.
A Rio furono fatte parecchie telefonate anonime: al figlio di Paulo, al custode del palazzo dove abitava Eva, al suo ex studio legale e a una sua amica che lavorava in un'agenzia di viaggi. Il messaggio era sempre lo stesso: Paulo Miranda era stato rapito. La polizia indagava. Eva era a New York, aveva preso alloggio per qualche giorno in una suite all'Hotel Pierre, faceva shopping nella Quinta Avenue, trascorreva ore nei musei. Le sue istruzioni erano di continuare a muoversi, trattenendosi a New Orleans sempre per poche ore soltanto. Aveva ricevuto tre lettere da Patrick e a lui aveva scritto due volte. L'incaricato della loro corrispondenza era Sandy. Le sevizie che Patrick aveva subito non avevano di certo intaccato la propensione per la meticolosità. Le sue lettere erano precise, contenevano piani, prospetti, procedure di emergenza. Telefonò a suo padre ma non ebbe risposta. Telefonò al fratello e le piombò il cielo addosso. Suo fratello era un uomo mite e vulnerabile, poco abituato alle crisi, e la implorò di tornare immediatamente a casa. Eva lo tenne al telefono per mezz'ora mentre cercava di calmare tanto lui quanto se stessa. No, non c'erano state richieste di riscatto. Nessuna notizia da parte dei rapitori. Violando gli ordini che aveva ricevuto, gli telefonò. Con il cuore stretto nella morsa dell'ansia, continuando a guardarsi in giro da dietro le lenti scure degli occhiali e arricciandosi ciocche di capelli per dar sfogo all'eccesso di nervosismo, compose il numero della sua camera da un telefono pubblico all'aeroporto di La Guardia. Parlò in portoghese. Se la stavano ascoltando, almeno avrebbero dovuto trovarsi un traduttore. «Patrick, sono Leah» disse, cercando di mantenere il tono della voce il più neutrale possibile. «Cos'è successo?» chiese subito lui, rispondendole in portoghese. Da più di tre settimane non sentiva la sua bella voce e non era contento di udirla in quel momento. «Possiamo parlare?» «Sì. Che cosa c'è?» Patrick controllava il proprio telefono ogni tre o quattro ore. Usava anche il rilevatore che gli aveva procurato Sandy per cercare tutti i possibili nascondigli per una microspia. Gli agenti che montavano di guardia alla sua porta lo rassicuravano abbastanza, ma sapeva bene di poter essere intercettato anche dall'esterno. «Mio padre» rispose lei. Poi gli riferì della scomparsa di Paulo. «Devo
tornare a casa.» «No, Leah» ribatté lui con calma. «È una trappola. Tuo padre non è ricco. Non stanno chiedendo soldi. Vogliono te.» «Non posso abbandonarlo.» «Ma non puoi nemmeno trovarlo.» «È tutta colpa mia.» «Non dire così, sai che il responsabile di questa situazione sono io. Ma non peggiorarla andando a tuffarti da sola nella loro trappola.» Lei si avvitò una ciocca intorno all'indice guardando il febbrile andirivieni dei passeggeri. «Allora che cosa faccio?» «Va' a New Orleans. Chiama Sandy. E intanto dammi tempo di pensare.» Eva comperò un biglietto, si recò al suo cancello e trovò da sedere in un angolo dove poteva nascondere il viso tra un muro e una rivista. Pensò a suo padre e alle cose orribili che avrebbero potuto fargli. In undici giorni i due uomini che amava erano stati rapiti dalle stesse persone e Patrick era ancora in ospedale per le sevizie a cui lo avevano sottoposto. Suo padre era più anziano e meno robusto. Gli avrebbero fatto del male per causa sua. E lei non poteva fare niente per evitarlo. Dopo una giornata di ricerche un poliziotto di Biloxi scorse l'automobile di Lance lasciare il Grand Casino poco prima delle dieci e mezzo di sera. Lance fu fermato e trattenuto senza validi motivi fino all'arrivo di Sweeney. Il colloquio ebbe luogo sul sedile posteriore di un'auto di pattuglia con i lampeggianti accesi nel parcheggio di un Burger King. Lo sceriffo gli chiese come andasse il traffico di droga e Lance rispose che gli affari giravano bene. «Come sta Trudy?» chiese lo sceriffo con la punta di uno stuzzicadenti che gli sporgeva dalle labbra. Stavano ingaggiando un braccio di ferro psicologico. Lance arrivò addirittura a inforcare i suoi Ray-Ban, ultimissimo modello. «Benissimo. E la tua donna?» «Non ce l'ho. Senti, Lance, ci sono arrivate segnalazioni attendibili che stai cercando un liquidatore.» «Balle, balle e ancora balle.» «Già, già, ma secondo noi c'è del vero. Vedi, Lance, tutti i tuoi amici sono come te, tutta gente che si è appena giocata la libertà vigilata o che si sta facendo in quattro per ottenerla. Feccia, sai? Sempre in cerca di qual-
che spicciolo da arraffare, sempre ad arrancare ai limiti della legge. Gli capita una buona soffiata e non vedono l'ora di andarla a spifferare ai federali. Può sempre tornare utile per la libertà vigilata.» «Mi piace.» «E noi sappiamo che hai qualche soldo, hai una donna che sta per perdere un patrimonio e tutto si aggiusterebbe se il signor Lanigan restasse morto.» «Chi?» «Ma bravo. Dunque, senti che cosa facciamo, noi e i federali. Ti teniamo d'occhio, vi teniamo d'occhio, ci incolliamo a te e alla tua donna e, se appena fate una mossa sbagliata, avete chiuso. Tu e Trudy vi troverete in un guaio che al confronto quello di Lanigan è rose e fiori.» «Dovrei avere paura?» «Se avessi un briciolo di cervello sì.» «Ora posso andare?» «Prego.» Entrambi gli sportelli furono aperti dall'esterno e Lance fu riportato alla sua macchina. Contemporaneamente l'agente Cutter suonava alla porta di Trudy nella speranza di coglierla nel sonno. Aveva atteso in un bar che gli fosse comunicato il fermo di Lance. Trudy era sveglia. Gli parlò lasciando la catena alla porta. «Che cosa vuole?» domandò quando Cutter le ebbe mostrato il distintivo e sottolineato la sigla Fbi. Lo aveva riconosciuto. «Posso entrare?» «No.» «Lance è in stato di fermo. Credo che dovremmo parlare.» «Che cosa?» «Lo ha preso la polizia di Biloxi.» Trudy tolse la catena e aprì la porta. Si confrontarono in anticamera. Cutter si stava divertendo molto. «Che cos'ha fatto?» gli chiese lei. «Credo che sarà rilasciato presto.» «Chiamerò il mio avvocato.» «Ottima idea, ma prima ho una cosa da dirle. Fonti fidate ci riferiscono che Lance ha cercato un sicario per far uccidere Patrick Lanigan, suo marito.»
«No!» Trudy si portò una mano alla bocca. Il suo stupore sembrava genuino. «Sì. E potrebbe essere implicata anche lei. È evidente che Lance sta cercando di proteggere i suoi soldi e sono sicuro che per questo motivo verrebbe considerata complice, forse mandante. Se succede qualcosa a Lanigan, la prima porta a cui busseremo sarà questa.» «Io non ho fatto niente.» «Non ancora. Vi terremo d'occhio, signora Lanigan.» «Non mi chiami così.» «Le chiedo scusa.» Cutter ruotò sui tacchi e uscì. Verso mezzanotte Sandy parcheggiò nei pressi di Canal. Percorse correndo Decatur ed entrò nel cuore del Quartiere Francese. Le raccomandazioni ricevute dal suo cliente erano state rigorose, specialmente nel caso dei suoi incontri con Leah. Solo lui avrebbe potuto guidare qualcuno fino a lei, perciò doveva comportarsi con il massimo della cautela. «È in grave pericolo, Sandy» gli aveva detto un'ora prima Patrick. «Cento occhi e cento orecchie.» Girò tre volte intorno allo stesso isolato e quando fu sicuro di non avere nessuno alle spalle, si sedette a bere un analcolico tenendo d'occhio il marciapiede. Poi attraversò la strada ed entrò al Royal Sonesta. Si confuse con i turisti nella hall, poi salì in ascensore al secondo piano. Leah gli aprì e richiuse subito a chiave. Non si meravigliò di trovarla stanca e agitata. «Mi dispiace per suo padre» le disse. «Ci sono novità?» «Non che io sappia, ma ero in viaggio.» Sul televisore c'era il vassoio del caffè. Sandy se ne versò una tazza e vi aggiunse lo zucchero. «Ho avuto la notizia da Patrick» la informò. «Chi è questa gente?» «Là c'è un dossier» ribatté lei indicandogli il tavolino con un cenno del capo. «Si accomodi, prego.» Sandy si sedette sulla sponda del letto con il suo caffè e attese. Era ora di mettere qualche carta in tavola. «Ci siamo conosciuti due anni fa, nel 1994, dopo l'intervento chirurgico al quale si era sottoposto a Rio. Patrick mi disse di essere un imprenditore canadese che aveva bisogno di un avvocato esperto in diritto commerciale internazionale. La verità è che aveva bisogno di un'amica. Io per lui lo sono stata per due giorni, poi ci siamo innamorati. Mi ha raccontato tutto del suo passato, assolutamente tutto. Aveva messo a segno un colpo magistrale
facendo perdere le proprie tracce e impossessandosi di una somma da capogiro, ma riteneva indispensabile sapere chi gli stesse dando la caccia e a che punto fosse nelle ricerche. Nell'agosto 1994 sono venuta negli Stati Uniti e ho preso contatto con un'agenzia privata di Atlanta. Ha un nome strano, si chiama Pluto Group. Ci lavorano ex agenti dell'Fbi. Era stato Patrick a scovarla prima di scomparire. Mi sono presentata con un nome falso, ho detto che arrivavo dalla Spagna e che avevo bisogno di sapere come andavano le ricerche di Patrick Lanigan, per le quali avrei pagato cinquantamila dollari. L'agenzia mandò alcuni dei suoi uomini a Biloxi e cominciò dal vecchio studio legale di Patrick. Finsero di avere qualche indizio interessante sul fuggiasco e gli avvocati li indirizzarono in gran segreto a un uomo di Washington di nome Jack Stephano. Questo Stephano è un investigatore specializzato in spionaggio industriale e nel ritrovamento dei latitanti. Lo contattarono a Washington. Stephano fu molto reticente, ma risultò chiaro che conduceva le ricerche di Patrick. Nel corso di alcuni incontri successivi emerse la prospettiva di una ricompensa. Gli uomini della Pluto gli offrirono informazioni in cambio di cinquantamila dollari e durante le trattative si convinsero che Stephano aveva buoni motivi di ritenere che Patrick fosse in Brasile. La notizia terrorizzò naturalmente sia Patrick sia me.» «Era la prima volta che Patrick veniva a sapere che lo credevano in Brasile?» «Sì. Era lì ormai da più di due anni. Quando mi ha raccontato tutto del suo passato, non sapeva nemmeno se i suoi inseguitori fossero sul continente giusto. Sapere che erano in Brasile fu il panico.» «Perché non è fuggito di nuovo?» «Per molte ragioni. Ci ha pensato. Ne abbiamo parlato chissà quante volte. Io ero pronta a partire con lui, ma alla fine ha ritenuto di potersi nascondere anche restando lì. Non voleva che io fossi costretta ad abbandonare casa mia.» «Forse fuggire di nuovo sarebbe stato inutile.» «Forse. Io ho mantenuto i contatti con la Pluto Group, che aveva l'incarico di seguire le indagini di Stephano come meglio poteva. Agganciarono il suo cliente, Benny Ancia, con la stessa storia delle possibili informazioni da vendergli. Sentirono anche le compagnie di assicurazione. Tutti li rimandavano comunque e sempre a Jack Stephano. Io passavo da loro ogni tre o quattro mesi, arrivando sempre dall'Europa, per essere tenuta al corrente delle novità.»
«Come ha fatto Stephano a trovare Patrick?» «Questo non posso dirglielo io. Dovrà chiederlo a Patrick.» Un altro buco nero e dei più importanti. Sandy posò la tazza per terra e tirò le somme della situazione. Certo avrebbe potuto muoversi meglio se quei due si fossero decisi a raccontargli tutto, mettendolo nelle condizioni di dar loro una mano nell'immediato futuro. Ma forse non avevano bisogno del suo aiuto. Dunque Patrick sapeva in che modo era stato rintracciato. La ragazza gli consegnò il dossier. «Queste sono le persone che hanno sequestrato mio padre» gli disse. «Stephano?» «Sì. Io sono l'unica persona che sa dove si trovano i soldi, Sandy. Il rapimento è una trappola.» «Come fa Stephano a sapere di lei?» «Gliel'ha detto Patrick.» «Patrick?» «Sì. Ha visto le ustioni, no?» Sandy si alzò cercando di riordinare i pensieri. «Allora perché non gli ha detto dove sono i soldi?» «Perché lui non lo sapeva.» «Li ha dati tutti a lei.» «Qualcosa del genere. Ne ho il controllo. Ora hanno preso di mira me e si stanno servendo di mio padre.» «Che cosa vuole che faccia?» Lei aprì un cassetto e ne estrasse un'altra cartelletta, ma meno voluminosa. «Qui ci sono le informazioni sulle indagini condotte dall'Fbi. Non c'è molto, come può capire da sé. L'agente che se ne occupa è un certo Cutter, che opera a Biloxi. Appena ho saputo della cattura di Patrick, ho chiamato Cutter e probabilmente gli ho salvato la vita.» «Piano, piano. Faccio fatica a seguirla.» «Ho detto a Cutter che avevano ritrovato Patrick Lanigan e che si trovava nelle mani di persone che lavoravano per Jack Stephano. Riteniamo che l'Fbi si sia rivolto direttamente a Stephano e l'abbia minacciato. I suoi uomini in Brasile hanno torturato Patrick per qualche ora, quasi uccidendolo, però poi lo hanno consegnato all'Fbi.» Sandy ascoltava attentamente con gli occhi chiusi. «Vada avanti.» «Due giorni dopo Stephano è stato arrestato a Washington e i suoi uffici sono stati posti sotto sequestro.»
«Lei come lo sa?» «Sto pagando ancora fior di quattrini agli uomini della Pluto. Sono in gamba. Noi sospettiamo che Stephano stia raccontando tutto all'Fbi mentre all'insaputa dei federali sta conducendo ricerche su di me. Sono i suoi uomini che hanno preso mio padre.» «Io che cosa devo dire a Cutter?» «Per prima cosa gli dica di me. Mi descriva come un avvocato molto vicino a Patrick, il rappresentante legale che prende le decisioni per lui, ed è al corrente di tutto. Poi gli racconti di mio padre.» «E pensa che l'Fbi interverrà tramite Stephano?» «Forse sì, forse no, ma non abbiamo niente da perdere.» Era quasi l'una e lei era molto stanca. Sandy andò alla porta. «Abbiamo ancora molte cose di cui parlare» sospirò lei. «Già, non mi dispiacerebbe conoscere tutta la storia.» «Ci dia tempo.» «Ma stia attenta, perché non ne abbiamo molto.» 26 Il dottor Hayani cominciò il suo giro alle sette in punto. Dato che Patrick aveva tanta difficoltà a prendere sonno, non mancava di passare da lui tutte le mattine. Di solito trovava il paziente addormentato, dopo una nottata d'insonnia di cui gli avrebbe riferito in seguito. Quella volta era sveglio, seduto alla finestra, con addosso solo i boxer bianchi. Fissava le tapparelle chiuse senza vedere niente perché non c'era niente da vedere. Il buio era appena temperato dalla fioca luce del lume sul comodino. «Tutto bene, Patrick?» s'informò Hayani. Il paziente non rispose. Hayani spostò lo sguardo sul tavolino all'angolo dove era solito lavorare. Non vide né libri, né cartellette fuori posto. «Sì, dottore» rispose finalmente Patrick. «Ha dormito?» «No, per niente.» «Ora è al sicuro. Il sole è alto.» Patrick non rispose, non si mosse e non parlò. Hayani lo lasciò come lo aveva trovato, con le mani strette sui braccioli a guardare la tapparella. Patrick ascoltò lo scambio di convenevoli in corridoio tra il medico e le sue guardie. Sentì l'animazione delle infermiere. Presto gli avrebbero portato la prima colazione, un avvenimento per lui tutt'altro che stimolante
dopo che il digiuno durato quattro anni e mezzo lo aveva abituato a dominare l'appetito. Hayani aveva arginato il desiderio iniziale delle infermiere di fargli riacquistare un po' di peso, imponendo una dieta senza zuccheri e grassi, a base di verdure cotte al vapore e carboidrati. Andò ad aprire la porta e salutò i due aiutanti dello sceriffo, Peter e Eddie. «Dormito bene?» s'informò come sempre Eddie. «Sì, grazie» gli rispose, rispettando il rituale. Sulla panca in fondo al corridoio, vicino all'ascensore, c'era Brent Myers, l'inutile agente dell'Fbi che lo aveva scortato in patria da Puerto Rico. Gli indirizzò un cenno di saluto, ma Brent era troppo preso dalla lettura del giornale. Rientrò nella sua camera e cominciò qualche moderato esercizio di flessione delle articolazioni. I muscoli erano di nuovo a posto, ma lo stato delle ustioni gli sconsigliava di fare una ginnastica vera e propria. Un'infermiera bussò prima di entrare. «Buongiorno, Patrick» cinguettò. Posò il vassoio. «Com'è andata la notte?» «Splendidamente. E la sua?» «Altrettanto, grazie. Posso fare niente per lei?» «No, grazie.» «Mi chiami se ha bisogno» disse ancora lei mentre usciva. Era una routine che ammetteva poche varianti, ma, per quanto tediosa, Patrick non aveva dimenticato quanto peggiore sarebbe stata l'alternativa alla sua situazione attuale: alla prigione di Harrison gli avrebbero servito la colazione su un vassoio di ferro attraverso una feritoia e avrebbe dovuto consumarla alla presenza di compagni di cella che cambiavano tutti i giorni. Portò il caffè nel suo piccolo angolo-ufficio sotto il televisore. Accese la lampada e contemplò le sue carte. Era a Biloxi da una settimana. La sua precedente vita era finita tredici giorni prima in una stretta strada di campagna a un milione di miglia da lì. E aveva nostalgia. Avrebbe voluto essere di nuovo Danilo, il señor Silva, a condurre la sua vita tranquilla e frugale, in una casa dove la donna di servizio gli parlava in un melodico portoghese nel quale affioravano le sue origini indie. Aveva nostalgia delle lunghe passeggiate nelle strade calde di Ponta Porã e delle lunghe corse in campagna. Aveva nostalgia delle chiacchiere con gli anziani al fresco sotto le fronde degli alberi, sorseggiando tè verde. Aveva nostalgia del chiasso e della confusione del mercato. Aveva nostalgia del Brasile, la patria di Danilo, con i suoi spazi immensi, le sue bellezze, i contrasti, le metropoli sovrappopolate e i villaggi di-
menticati, aveva nostalgia della sua popolazione cordiale. Gli mancava l'amata Eva, gli mancavano le sue carezze delicate, la bellezza del suo sorriso, le meraviglie del suo corpo, il calore della sua anima. Senza di lei non sarebbe sopravvissuto. Perché non è dato a un uomo di avere più di una vita? Dov'era scritto che non si doveva poter ricominciare? Ma Patrick era morto e Danilo era stato preso prigioniero. D'altra parte, se era sopravvissuto alla morte del primo e all'arresto del secondo, perché non avrebbe potuto fuggire di nuovo? Sentiva il richiamo di una terza esistenza, questa però al sicuro dalle angosce della prima e dalle ombre della seconda. Una vita perfetta con Eva. Non importava dove, bastava che fossero insieme e irraggiungibili dal passato. Una vita in una casa sfarzosa dove riprodursi come conigli. Eva era forte, ma come tutti aveva i suoi limiti. Amava il padre e non sapeva staccarsi dalla sua patria. Tutti i veri carioca adorano la propria città e la considerano una creazione diretta dell'Onnipotente. E lui l'aveva messa in pericolo e ora doveva trovare il modo per proteggerla. Ci sarebbe riuscito? O la fortuna gli aveva voltato le spalle? Cutter si era arreso alle insistenze di McDermott e gli aveva concesso un appuntamento alle otto. La sede federale sonnecchiava ancora perché era arrivata soltanto un'esigua avanguardia mattiniera. Il grosso dei burocrati non si sarebbe presentato in ufficio prima delle nove. Cutter non fu scontroso, ma nemmeno amichevole; dare udienza ad avvocati importuni non era tra le incombenze che prediligesse. Versò caffè bollente in due bicchierini di carta e fece un po' di spazio sulla sua minuscola scrivania. Sandy ebbe per lui parole cordiali di gratitudine per essere stato ricevuto e Cutter addolcì un po' il suo atteggiamento. «Ricorda la telefonata che ha ricevuto tredici giorni fa?» gli chiese l'avvocato. «Da quella donna che chiamava dal Brasile?» «Certo.» «L'ho vista due o tre volte. È l'avvocato di Patrick.» «Davvero?» «Ed è nei paraggi.» Sandy soffiò forte nel suo bicchierino, poi azzardò un sorso. Riferì velocemente parte di quello che sapeva su Leah, senza mai pronunciare il suo nome, quindi chiese a Cutter come procedeva l'indagine
di Stephano. Il federale diventò subito diffidente. Prese qualche appunto e cercò di inquadrare meglio la situazione. «Come fa a sapere di Stephano?» «La mia collega, la brasiliana, sa tutto di Stephano. È stata lei a farle il suo nome, se ricorda.» «E lei come è venuta a saperlo?» «È una storia lunga e complessa, gran parte della quale io non conosco.» «Allora perché è venuto a parlarne con me?» «Perché Stephano perseguita ancora il mio cliente e io vorrei che venisse fermato.» Altri appunti da parte di Cutter, poi un altro sorso di caffè fumante. Stava elaborando uno schema mentale nel quale cercava di riordinare secondo la giusta cronologia chi aveva detto che cosa a chi. Sapeva quasi tutto di quanto avveniva a Washington negli interrogatori di Stephano, ma non nei particolari. D'altra parte dava per scontato che a Stephano fosse stato imposto di interrompere le ricerche. «Lei come lo sa?» «I suoi uomini in Brasile hanno sequestrato il padre della mia collega.» Cutter non seppe tenere le labbra compresse, né riuscì a dominare un sussulto. Alzò gli occhi al soffitto mentre assimilava quell'ultimo colpo di scena. Poi vi trovò una logica. «È possibile che questo avvocato brasiliano sappia dove si trovano i soldi?» «È possibile.» Una logica più che ferrea. «Il rapimento è uno stratagemma per richiamarla in Brasile dove la loro intenzione sarebbe quella di sequestrare anche lei e somministrarle la stessa medicina già propinata a Patrick» continuò Sandy. «Tutto per quei soldi.» «Quando è avvenuto il rapimento?» «Ieri.» Un assistente di Sandy aveva pescato la notizia su Internet due ore prima. Era un breve resoconto che appariva sulla sesta pagina di "O Globo", un quotidiano popolare di Rio. La vittima si chiamava Paulo Miranda. Sandy ancora non sapeva quale fosse il vero nome di Leah, ma riteneva presumibile che l'Fbi l'avrebbe identificata se e quando avesse intercettato lo stesso articolo. In realtà non riteneva che ci sarebbe stato niente di male nel riferire all'Fbi il nome della giovane donna, ma il suo problema era che non lo conosceva. «Non credo che possiamo fare molto.»
«Non prendiamoci in giro, Cutter. Dietro il rapimento c'è Stephano. È in mano vostra e dovete fermarlo voi. Ditegli che la mia collega non cadrà nella sua trappola e che è pronta ad andare a fare il suo nome alle autorità brasiliane.» «Vedrò se posso venirle incontro.» Cutter non aveva dimenticato che Sandy McDermott aveva presentato una denuncia contro il Bureau per crimini che l'Fbi non aveva commesso chiedendo un risarcimento di svariati milioni. «A Stephano interessano solo i soldi» aggiunse Sandy. «Se al vecchio viene fatto del male, non vedrà più nemmeno un centesimo.» «Sta lasciando intendere che c'è spazio per una trattativa?» «Lei che cosa ne pensa? Avendo come miglior prospettiva una condanna all'ergastolo, non sarebbe disposto a trattare?» «Allora che cosa devo dire a Stephano?» «Di lasciar andare il vecchio. Poi potremo discutere dei soldi.» La giornata di Stephano cominciò presto. L'interrogatorio in programma, il quarto, sarebbe durato tutto il giorno, fino alla conclusione del suo racconto delle ricerche di Patrick. Il suo avvocato era assente per altri, inevitabili impegni in tribunale, ma Stephano non riteneva di aver bisogno di farsi tenere per mano da un avvocato e in tutta franchezza era anche stufo di pagargli quattrocentocinquanta dollari l'ora. Gli si presentò un inquisitore nuovo, Oliver qualcosa, ma a lui uno andava bene quanto l'altro. Erano tutti della stessa scuola. «Si stava parlando dell'intervento chirurgico» gli rammentò Oliver, come se la loro conversazione fosse stata interrotta da una telefonata intempestiva. Non si erano mai visti ed erano passate tredici ore dall'ultima volta in cui Jack aveva parlato di Patrick con qualcuno. «Sì.» «E questo risale all'aprile del '94?» «Sì.» «Allora continui.» Stephano si mise più comodo. «Per un po' non abbiamo fatto progressi. Anzi, per un bel po'. Lavoravamo sodo, ma i mesi passavano senza che cavassimo un ragno dal buco. Niente di niente. Poi sul finire del '94 siamo stati contattati da un'agenzia investigativa di Atlanta, la Pluto Group.» «Pluto?» «Sì, Pluto Group. Bravi ragazzi, ben preparati. C'erano anche agenti vo-
stri. Hanno fatto domande sulla nostra operazione di ricerca di Patrick Lanigan e ci hanno fatto capire che forse avevano informazioni interessanti da venderci. Io li ho incontrati un paio di volte qui a Washington. Avevano un cliente misterioso che sosteneva di sapere qualcosa di Lanigan. Naturale che drizzassi le orecchie. Non avevano fretta, perché non ne aveva il loro cliente. Il quale voleva un sacco di soldi, come c'era da aspettarsi. Ma era una circostanza che ci incoraggiava.» «In che senso?» «Se il loro cliente sapeva abbastanza da poter sperare in una sostanziosa ricompensa, allora doveva sapere che Lanigan aveva ancora il grosso del capitale rubato. Nel luglio del '95 i ragazzi della Pluto mi fecero una proposta. Dissero che il loro cliente era disposto a indicarci un luogo in Brasile dove Lanigan aveva soggiornato di recente. Risposi che ero interessato. Ci accordammo per un versamento in loro favore di cinquantamila dollari presso una banca panamense. Dopo aver ricevuto i soldi, mi indicarono un posticino che si chiama Itajai e si trova nello stato di Santa Catarina, nel profondo sud brasiliano. L'indirizzo corrispondeva a una palazzina di appartamenti in una zona elegante della cittadina. Il custode fu cordiale specialmente dopo una congrua mancia. Gli mostrammo le nostre foto di Lanigan dopo l'operazione e la sua reazione fu positiva. Altra mancia e identificò nelle foto un certo Jan Horst, un tedesco, a suo parere, che parlava un buon portoghese. Aveva preso in affitto un appartamento per due mesi pagando in contanti, aveva condotto vita appartata, ma era sempre stato socievole con lui. Aveva l'abitudine di bere il caffè con il custode e sua moglie. Anche lei riconobbe l'uomo delle nostro foto. Horst aveva detto di essere uno studioso, occupato in quel periodo a raccogliere materiale per un libro sull'immigrazione di tedeschi e italiani in Brasile. Quando se n'era andato, aveva spiegato che la sua prossima tappa era la città di Blumenau, dove avrebbe studiato l'architettura bavarese locale.» «E voi siete andati a Blumenau?» «Si capisce. Subito. Abbiamo battuto tutta la cittadina ma dopo due mesi ci siamo arresi. Dopo l'emozione iniziale, abbiamo dovuto tornare al vecchio tran tran, appostandoci nei mercati e negli ingressi degli alberghi a mostrare le foto offrendo piccole ricompense.» «E quelli della Pluto?» «I loro rapporti con noi si erano improvvisamente raffreddati. Ero ansioso di sentirli, ma non avevano più molto da raccontarci. Credo che il loro cliente si fosse spaventato o magari era già soddisfatto dei cinquantamila
dollari che aveva incassato. Sono trascorsi sei mesi senza che la Pluto si facesse più viva. Poi, verso la fine del gennaio di quest'anno, ecco che riappaiono e questa volta sembra che abbiano fretta. Il loro cliente ha bisogno di soldi e questa volta è deciso a sbottonarsi. Dopo qualche giorno di schermaglia, lasciano cadere sul piatto la loro bomba. Per un milione di dollari ci dicono esattamente dove si trova il nostro uomo. Rispondo di no. Non è che non avessi i soldi, ma era troppo rischioso. Il loro cliente non era disposto a parlare prima di essere pagato e io non ero disposto a pagare prima che il loro cliente parlasse. Non c'era alcun modo per accertare se il cliente della Pluto sapesse veramente qualcosa. Se devo dire la verità, non escludevo che non esistesse più nemmeno un cliente. Gli animi si riscaldarono e le trattative furono interrotte.» «Ma non per molto.» «Per forza. Il loro cliente voleva i soldi e noi volevamo Lanigan. Giungemmo a un altro accordo. Per cinquantamila dollari ci avrebbe dato il nome del posto dove Lanigan aveva soggiornato dopo aver lasciato Itajai. Accettammo perché dal nostro punto di vista cinquantamila dollari erano poca cosa e c'era sempre la possibilità di un colpo di fortuna che ci mettesse sulla pista giusta. Dal loro punto di vista invece era una buona mossa perché consolidava la credibilità del loro cliente. E naturalmente era un passo in più in direzione del milione di dollari. C'era una mente dietro la Pluto e io ero più che disposto a stare al suo gioco e a pagare il milione di dollari. Avevo solo bisogno di garanzie.» «Qual era questo secondo posto?» «São Mateus, nello stato di Espirito Santo, sulla costa a nord di Rio. È una cittadina di sessantamila abitanti, un bel posticino di gente molto cordiale. Ci abbiamo passato un mese a mostrare le nostre foto. La sistemazione era simile a quella di Itajai, un appartamento preso in affitto in contanti per due mesi da un presunto inglese che si era fatto chiamare Derrick Boone. Senza bisogno di mance, il proprietario riconobbe Boone nelle nostre foto. A quanto pare il falso inglese si era trattenuto per una settimana di troppo senza pagare e aveva voglia di vendicarsi. A São Mateus, comunque, Boone non aveva allacciato nessun rapporto con gli abitanti del luogo e il padrone di casa non poté darci nessuna informazione sul suo conto. Lasciammo São Mateus ai primi di marzo e ci riassestammo fra São Paulo e Rio, a pianificare le nostre prossime mosse.» «Che cosa decideste di fare?» «Abbandonammo le regioni del nord per concentrarci sulle cittadine di
provincia negli stati intorno a Rio e São Paulo. Qui a Washington assunsi un atteggiamento più aggressivo con quelli della Pluto. Il loro cliente si era impuntato sul milione di dollari e il mio non voleva pagare senza avere certezze assolute. Eravamo in una fase di stallo, con entrambe le parti che non volevano fare concessioni e contemporaneamente desideravano proseguire i negoziati.» «Avete mai scoperto in che modo il loro cliente fosse così aggiornato sugli spostamenti di Lanigan?» «No. Ci ragionammo sopra per ore. La nostra teoria era che anche il loro cliente stava dando la caccia a Lanigan per motivi a noi sconosciuti. Poteva essere qualcuno dell'Fbi che aveva bisogno di soldi. Era poco plausibile, ma non escludemmo nessuna possibilità. La seconda teoria, più accettabile, era che il loro cliente fosse una persona vicina a Lanigan, che aveva deciso di tradirlo. In ogni caso io e il mio cliente decidemmo che era un'occasione che non potevamo lasciarci scappare. Cercavamo il nostro uomo da quasi quattro anni e ormai ci eravamo resi conto anche noi che il Brasile offre un milione di nascondigli, dei quali Lanigan dava dimostrazione di saper fare un ottimo uso.» «Come avete sbloccato la situazione?» «Lo fecero loro. Nell'agosto di quest'anno ci presentarono una nuova offerta: foto recenti di Lanigan in cambio di altri cinquantamila. Accettammo. Spedimmo i soldi dove ci fu richiesto e loro in cambio mi consegnarono le foto nel mio ufficio qui a Washington. Erano tre ingrandimenti in bianco e nero.» «Potrei vederli?» «Senz'altro.» Stephano li estrasse dalla sua borsa e li posò sul tavolo. Nel primo si vedeva Lanigan mescolato alla folla di un mercato. La foto era stata scattata da lontano. Aveva gli occhiali scuri e teneva in mano qualcosa, forse un pomodoro. Il secondo ingrandimento era parte di un'istantanea scattata un momento prima o un momento dopo. Lo si vedeva sul marciapiede con una borsa in mano. Era in jeans e lo si sarebbe potuto scambiare tranquillamente per brasiliano. La terza immagine era la più interessante: Patrick in calzoncini e maglietta che lavava il suo Maggiolino. Non erano visibili né la targa né la casa. Ma Patrick non portava gli occhiali scuri e lo si poteva vedere bene in viso. «Niente nomi di strade, né targhe» commentò Oliver. «Già. Studiammo queste foto per ore senza trovare nulla. Come ho già detto, c'era un cervello dietro quei ragazzi.»
«Allora che cosa avete fatto?» «Abbiamo accettato di pagare il milione di dollari.» «Quando?» «In settembre. Il denaro fu messo a disposizione di uno studio notarile di Ginevra, in attesa del nullaosta di entrambe le parti perché venisse perfezionato il trasferimento. Secondo l'accordo, il loro cliente aveva quindici giorni per darci un indirizzo preciso. Ci siamo mangiati le unghie per tutti i quindici giorni, poi, il sedicesimo, ci fu fatta pervenire l'informazione. La cittadina era Ponta Porã e la strada era Rua Tiradentes. Ci siamo precipitati, ma arrivati a destinazione abbiamo cominciato a muoverci con tutta la prudenza possibile. Ormai avevamo il massimo rispetto per Lanigan e sapevamo quanto fosse abile nel volatilizzarsi. Lo abbiamo trovato e lo abbiamo tenuto d'occhio per una settimana. Si faceva chiamare Danilo Silva.» «Una settimana?» «Sì, dovevamo essere pazienti. Aveva scelto Ponta Porã per un motivo. È un ottimo posto dove nascondersi, dove i funzionari sono più che servizievoli se hai i soldi giusti con cui farteli amici. La cittadina era stata scoperta dai tedeschi subito dopo la guerra. Se avessimo fatto anche la minima mossa sbagliata, sarebbe intervenuta la polizia locale a proteggerlo. Così abbiamo aspettato e al momento buono lo abbiamo preso fuori città, in una strada di campagna dove non c'erano testimoni. Dopodiché abbiamo riparato immediatamente in Paraguay, dove avevamo un nascondiglio nostro.» «È lì che lo avete torturato?» Stephano bevve un sorso di caffè fissando Oliver negli occhi. «Più o meno» rispose. 27 Patrick passeggiava sciogliendosi i muscoli in fondo alla sala riunioni. Sandy, seduto, lo ascoltava scarabocchiando su un bloc-notes. Un'infermiera aveva portato un vassoio di biscotti che nessuno aveva toccato. Guardandoli, Sandy aveva riflettuto sui detenuti a cui sta per essere appioppata una condanna per omicidio di primo grado, rifocillati a suon di biscotti e pasticcini. Detenuti di reati gravi protetti da una personale scorta di guardie del corpo. Prigionieri che rischiavano la condanna alla pena capitale che ricevevano la visita di un giudice con cui mangiare una pizza.
«La situazione si sta evolvendo, Sandy» disse Patrick senza guardarlo. «Dobbiamo muoverci.» «Muoverci dove?» «Non resterà qui finché terranno prigioniero suo padre.» «Come al solito brancolo nel buio. Voi due parlate per enigmi e io non so dove sbattere la testa. Ma in fondo io non sono che l'avvocato, perché mai mettermi al corrente?» «Ha tutto lei, la documentazione e la storia. Devi andare da lei.» «L'ho appena vista.» «Ti sta aspettando.» «Davvero? Dove?» «In una casa sulla spiaggia a Perdido.» «Fammi indovinare. Dovrei mollare qui tutto per correre là seduta stante?» «È importante, Sandy.» «Lo sono anche gli altri miei clienti» scattò lui. «Perché non mi hai concesso un minimo di preavviso?» «Mi dispiace.» «Oggi pomeriggio devo andare in tribunale. Mia figlia ha la partita. È troppo chiedere di essere avvertito con un minimo di anticipo?» «Non potevo prevedere un rapimento, Sandy. Devi ammettere che le circostanze sono abbastanza insolite. Vienimi incontro.» Sandy sospirò a denti stretti e scrisse qualcosa. Patrick andò a sedersi vicino a lui, sulla sponda del letto. «Scusami, Sandy.» «Di che cosa dobbiamo discutere?» «Aricia.» «Aricia» ripeté lui annuendo adagio. Ricordava quel poco che aveva letto sui giornali. «Ci vorrà un po', quindi fossi in te porterei via qualcosa per pernottare.» «Devo restare in quella casa?» «Sì.» «Con Leah.» «Sì. Ci sono molte stanze.» «E che cosa devo raccontare a mia moglie? Che vado in una casa al mare a passare la notte da una bella brasiliana?» «Non te lo consiglio. Dille che hai una riunione con gli altri membri del mio collegio di difesa.» «Carino.»
«Grazie, Sandy.» Underhill raggiunse Oliver dopo un intervallo. I due si sedettero con la videocamera alle spalle e Stephano all'altro lato del tavolo. «Chi ha interrogato Patrick?» chiese Underhill a Stephano. «Non sono tenuto a dare i nomi dei miei collaboratori.» «Era una persona con esperienza in questi sistemi di interrogatorio?» «Limitata.» «Mi descriva le tecniche usate.» «Non sono sicuro...» «Abbiamo visto le foto delle bruciature, signor Stephano. E l'Fbi è stato denunciato per le ferite inflitte al signor Lanigan dai vostri uomini. Ora ci racconti che cosa gli avete fatto.» «Io non ero presente. Non mi sono occupato io dell'interrogatorio perché ho troppo poca esperienza in quel campo. Sapevo in via generale che lo avrebbero sottoposto a scariche elettriche in vari punti del corpo, ma non sapevo che avrebbero potuto procurargli lesioni gravi.» Ci fu una pausa durante la quale Underhill guardò Oliver e Oliver guardò Underhill. Non gli credevano minimamente. Stephano attese con una mezza smorfia sulle labbra. «Quant'è durata?» «Da cinque a sei ore.» I due agenti consultarono un incartamento e bisbigliarono qualcosa, poi Underhill gli rivolse qualche domanda sui procedimenti per l'identificazione e Stephano gli parlò delle impronte digitali. Oliver si mise al lavoro sulla cronologia e impiegò quasi un'ora per stabilire con precisione quando avevano catturato la vittima, quant'era durato il viaggio in Paraguay e per quanto tempo lo avevano interrogato. Poi misero Stephano sotto torchio chiedendogli del viaggio nella giungla fino alla pista aerea di Concepción. Verificarono un corollario di particolari, si consultarono per qualche istante e finalmente tornarono alla domanda cruciale. «Durante l'interrogatorio del signor Lanigan, che cosa siete venuti a sapere del denaro?» «Non molto. Ci ha detto dov'era stato, ma anche che lo aveva fatto trasferire.» «Possiamo ritenere che questa confessione gli sia stata strappata con la forza?» «Senz'altro.»
«E lei è convinto che in quel momento non sapesse dove si trovavano i soldi?» «Non ero presente, ma la persona che ha condotto l'interrogatorio mi ha detto di essere assolutamente convinto che il signor Lanigan non conoscesse l'esatta ubicazione del denaro.» «E l'interrogatorio non è stato registrato in nessuna maniera?» «Assolutamente no» dichiarò Jack come se non ci avesse mai pensato. «Il signor Lanigan ha parlato di qualche complice?» «Non mi risulta.» «Questo che cosa significa?» «Significa che non lo so.» «E la persona che ha condotto l'interrogatorio? Ha sentito il signor Lanigan menzionare un complice?» «Non mi risulta.» «Dunque, per quel che ne sa lei, il signor Lanigan non ha mai accennato a un complice.» «Così è.» I federali tornarono a esaminare i loro documenti bisbigliando, poi si presero una pausa prolungata, che alla lunga cominciò a innervosire Stephano. Aveva mentito due volte di fila, negando che l'interrogatorio fosse stato registrato e che la vittima avesse parlato di un complice, ma non aveva nessun motivo per temere che quei due potessero sapere che cosa era avvenuto nelle foreste del Paraguay. Ciononostante non si sentiva tranquillo. La porta si aprì all'improvviso. Entrò Hamilton Jaynes, seguito da Warren, il terzo inquisitore. «Salve, Jack» lo salutò Jaynes mettendosi a sedere di lato al tavolo. Warren prese posto accanto ai colleghi. «Salve, Hamilton» rispose Stephano ancora più sulle spine. «Ti ascoltavo dall'altra stanza» gli confessò Jaynes con un sorriso. «E tutt'a un tratto mi sono chiesto se eri sincero.» «Ma certo.» «Sì, naturalmente. Senti, hai mai sentito parlare di una certa Eva Miranda?» Stephano ripeté lentamente il nome, come se ne fosse totalmente all'oscuro. «Non mi pare proprio.» «Fa l'avvocato a Rio. È un'amica di Patrick.» «No.» «Ecco, Jack, ora sai perché sento questo tarlo che mi rode dentro. Io cre-
do che tu sappia benissimo chi è.» «Mai sentita nominare.» «Allora perché la stai cercando?» «Non so di che cosa parli» insisté Stephano con scarso vigore. Il primo commento giunse da Underhill. Lo guardava con attenzione mentre si rivolgeva a Jaynes. «Mente.» «Non c'è dubbio» fece eco Oliver. «Sottoscrivo» aggiunse Warren. Gli occhi di Stephano si spostarono dall'uno all'altro. Aprì la bocca per parlare, ma Jaynes lo fermò alzando la mano. Si aprì la porta e fece capolino un altro della squadra degli inquisitori. «L'analisi della voce indica abbastanza chiaramente che mente» annunciò, prima di scomparire di nuovo. Jaynes raccolse dal tavolo un foglio e ne riassunse il contenuto a voce. «Qui c'è un articolo apparso stamane su un quotidiano di Rio. Parla del sequestro di un certo Paulo Miranda. Sua figlia è l'amica di Patrick, Jack. Abbiamo controllato presso le autorità di Rio. Non è stato chiesto un riscatto. Nessuna notizia da parte dei rapitori.» Allungò il foglio verso Stephano, ma non tanto perché potesse prenderlo. «Allora, dov'è il signor Miranda?» «Io non lo so. Non chiedetelo a me.» Jaynes guardò verso il fondo del tavolo. «Continua a mentire» dichiarò Underhill. Oliver e Warren annuirono. «Avevamo un patto, Jack. Tu dici a noi la verità e noi ritiriamo le accuse contro di te. E, se ben ricordo, avevamo accettato anche di non arrestare i tuoi clienti. Ma adesso secondo te che cosa dovrei fare?» Stephano osservava Underhill e Oliver, che sembravano pronti a censurarlo appena avesse aperto bocca. I due federali ressero il suo sguardo con un cipiglio gelido. «Lei sa dove sono i soldi» ammise Stephano rassegnato. «E tu sai dov'è?» «No. Ha lasciato Rio appena noi abbiamo trovato Patrick.» «Nessuna traccia?» «No.» Jaynes interrogò con gli occhi i suoi consulenti. Sì, aveva smesso di mentire. «Ho accettato di raccontarvi tutto» aggiunse Jack. «Ma niente di più. Abbiamo ancora il diritto di cercare quella donna.» «Noi non sapevamo della sua esistenza.»
«Peccato per voi. Se volete, possiamo rivedere i nostri accordi. Sarò lieto di chiamare il mio avvocato.» «Già, ma ti abbiamo già colto a mentire.» «Chiedo scusa, non si ripeterà.» «Molla la ragazza, Jack. E fa' liberare suo padre.» «Ci penserò.» «No. Fallo adesso.» La casa era una moderna costruzione su tre livelli in una fila di strutture pressoché identiche edificate di recente sulla Costa. Era ottobre, un periodo dell'anno in cui la gran parte delle abitazioni era inutilizzata. Sandy parcheggiò dietro una scintillante e anonima berlina con la targa della Louisiana, presumibilmente a noleggio. Il sole era basso sull'orizzonte, a pochi centimetri dalla superficie dell'acqua. Il golfo era deserto, nessuna imbarcazione, nessuna nave all'orizzonte. Sandy salì le scale e percorse la terrazza circolare finché trovò una porta. Quando bussò, Leah andò ad aprirgli con un sorriso che illuminò per pochi istanti, ma con naturalezza, il viso di una persona il cui carattere doveva essere molto più allegro dello stato d'animo in cui era costretta a vivere in quel momento per lei così difficile. «Si accomodi» lo invitò sottovoce. Poi chiuse la porta a chiave. L'ambiente in cui Sandy venne a trovarsi era spazioso, con vetrate su tre lati e un caminetto al centro. «Molto elegante» si complimentò, subito attirato dai gradevoli profumi che giungevano dalla cucina. Aveva saltato il pranzo grazie a Patrick. «Ha appetito?» domandò lei. «A dir poco.» «Sto preparando qualcosa.» «Un'idea fantastica.» Il parquet di legno naturale scricchiolò sotto i suoi piedi quando la seguì nella zona pranzo in un angolo della sala. Sul tavolo c'era una scatola di cartone e accanto a essa una pila di fogli. Leah doveva aver fatto i compiti. Si fermò vicino al tavolo e disse: «Questo è il dossier su Aricia». «Preparato da chi?» «Patrick, naturalmente.» «Dov'è rimasto per quattro anni?» «Nascosto a Mobile.» Le sue risposte erano concise e ciascuna di esse faceva sbocciare nella mente di Sandy una decina di nuove domande da rivolgerle. «Ci arrivere-
mo dopo» lo arginò lei in via preventiva. Sul tagliere accanto al lavello c'era un pollo arrosto. Su un fornello fumava una padella di riso integrale con pezzetti di verdura. «Ho scelto cose molto semplici» si scusò. «Mi trovo a disagio a cucinare in casa d'altri.» «Sembra tutto squisito. Di chi è la casa?» «L'ho presa in affitto. Per un mese.» Leah trinciò il pollo e chiese a Sandy di versare il vino, un pinot nero di produzione californiana. Si sedettero a un piccolo tavolo nella nicchia per la prima colazione da cui si godeva una splendida vista del mare colorito dagli ultimi scampoli del tramonto. «Salute» brindò lei alzando il bicchiere. «A Patrick» replicò Sandy. «Sì, a Patrick.» Visto che non sembrava intenzionata a toccare il cibo che aveva nel piatto, Sandy bandì ogni indugio e si riempì la bocca con un enorme boccone di petto di pollo. «Come sta?» chiese lei. Lui masticò alla svelta per non dover rispondere a una così deliziosa signorina con la bocca piena. Un sorso di vino. Un tocco di tovagliolo. «Sta bene. Le ustioni si stanno rimarginando. Ieri lo ha esaminato un chirurgo plastico e dice che non sarà necessario ricorrere ai trapianti. Le cicatrici resteranno per qualche anno, ma con il passare del tempo non si vedranno quasi più. Le infermiere gli portano i biscotti, il giudice va a mangiare la pizza da lui, lo sorvegliano non meno di sei uomini armati che si danno il turno giorno e notte, dunque mi sembra di poter affermare che Patrick se la sta cavando meglio di qualsiasi altro accusato di un reato capitale.» «Parla del giudice Huskey?» «Sì, Karl Huskey. Lo conosce?» «No, ma Patrick mi ha parlato spesso di lui. Erano ottimi amici. Una volta mi ha detto che se fosse stato catturato, sperava che avvenisse quando Karl Huskey esercitava ancora.» «È prossimo alla pensione» precisò Sandy. Però Patrick ha fatto giusto in tempo, rifletté. «Non può giudicare lui il caso di Patrick, vero?» chiese lei. «No. C'è incompatibilità.» Sandy mangiò un boccone molto più piccolo, rassegnandosi a cenare da solo perché lei non aveva ancora preso in mano forchetta e coltello. Teneva il bicchiere di vino vicino alla testa e contemplava le nuvole arancione e viola all'orizzonte. «Devo scusarmi per essermi dimenticato di chiederle di suo padre»
mormorò Sandy. «Nessuna novità. Ho sentito mio fratello tre ore fa e mi ha detto che non si sono ancora fatti vivi.» «Mi dispiace molto, Leah. Vorrei poterle essere utile.» «Non sa quanto vorrei poter fare qualcosa io. È così frustrante. Non posso tornare a casa e non posso restare qui.» «Ha tutta la mia solidarietà» ribatté Sandy non sapendo che cos'altro di meglio offrirle. Continuò a cenare in silenzio. Lei giocherellò con il riso e contemplò l'oceano. «È veramente squisito» si congratulò lui due volte. «Grazie» rispose ogni volta lei con un sorriso rattristato. «Suo padre di che cosa si occupa?» «È professore universitario.» «Dove?» «A Rio. All'Università Cattolica.» «Dove abita?» «Nel quartiere di Ipanema. È lì che sono cresciuta.» Era un argomento delicato, ma almeno riusciva ad avere risposte alle sue domande. Forse parlare di lui la aiutava. Le chiese ancora qualcosa, restando sulle generali ed evitando di toccare la questione del rapimento. E lei evitò di toccare il suo cibo. «Beve un caffè?» gli propose quand'ebbe finito. «Immagino che ne avremo bisogno.» «Già.» Lasciarono in cucina i piatti sporchi. Leah fece il caffè mentre Sandy ispezionava la casa. Si ritrovarono nella zona pranzo dove si sedettero ai lati del tavolo di vetro e abbandonarono i convenevoli. «Che cosa sa di Aricia?» gli domandò lei. «Era il cliente al quale Patrick ha soffiato i novanta milioni di dollari, almeno secondo quanto hanno scritto i giornali. Un alto dirigente della Platt & Rockland, che ha denunciato il suo datore di lavoro di falso e frode ai danni del governo. E la Platt & Rockland è risultata colpevole per una cifra di circa seicento milioni. Secondo la legge a lui toccava il quindici per cento. I suoi avvocati erano Bogan e soci, lo studio legale presso il quale lavorava il nostro amico Patrick. Altro non so.» «Non è male. Quello che sto per dirle può essere tutto verificato in que-
sti documenti e nastri. Li passeremo in rassegna assieme se sarà necessario.» «Non è la prima volta che mi succede, sa?» ironizzò lui, ma lei non sorrise. Non aveva più nemmeno voglia di fingere. «L'azione di Aricia non era altro che una truffa ben architettata fin dal principio.» Parlava scandendo bene le parole, senza fretta. Aspettava che lui assimilasse i concetti, con pause di qualche secondo. «Benny Aricia è un uomo corrotto che ha congegnato un piano per defraudare da una parte l'azienda per cui lavorava e dall'altra il governo. In questo si è fatto assistere da avvocati molto capaci, quelli del vecchio studio legale di Patrick, e da alcuni potenti personaggi di Washington.» «Sta alludendo al senatore Nye, il cugino di Bogan.» «Principalmente. Ma, come sa, il senatore Nye è molto influente a Washington.» «Sì.» «Aricia ha studiato il piano fin nei particolari, poi si è rivolto a Charles Bogan. All'epoca Patrick era appena diventato socio e non sapeva niente di Aricia. I suoi colleghi entrarono nel complotto, ma lui no. L'atmosfera allo studio legale cambiò e Patrick se ne accorse. Allora cominciò a mettere il naso dappertutto e origliare a ogni porta e alla fine trovò che all'origine di tanta improvvisa segretezza c'era un nuovo cliente, un certo Aricia. Con la pazienza che richiedevano le circostanze, finse di non accorgersi di nulla, continuando di nascosto a raccogliere indizi e prove di quanto stava accadendo. Molto di quel materiale è qui.» Toccò la scatola. «Torniamo all'inizio» la pregò Sandy. «Mi spieghi perché dice che la denuncia era una truffa.» «Aricia dirigeva la Coastal Shipyards a Pascagoula, una delle aziende della Platt & Rockland.» «Questo lo so. Un'importante appaltatrice del dipartimento della Difesa con qualche ombra nel suo passato e la cattiva reputazione di gonfiare le fatture quando c'era di mezzo il governo.» «Infatti. E di questo aveva approfittato Aricia per mettere in atto il suo piano. La Coastal costruiva nei suoi cantieri i sottomarini nucleari Expedition e le spese avevano già sforato. Aricia decise di ingigantire il divario tra stanziamenti e spese. La Coastal presentò dati falsi in tutti i settori, migliaia di ore di lavoro mai effettuate da dipendenti mai esistiti, materiali acquistati a prezzi esorbitanti, come lampadine a sedici dollari l'una, bicchieri di carta a trenta dollari l'uno e via di seguito. La lista è interminabi-
le.» «C'è anche quella nella scatola?» «Solo per gli elementi principali, sistemi radar, missili, armamenti, cose che non avevo mai sentito nominare. Le lampadine non sono essenziali. Aricia aveva abbastanza esperienza della sua azienda per sapere come evitare che la frode venisse scoperta. Creava un giro di scartoffie peggio di un ciclone, nelle quali il suo nome non appariva quasi mai. Con le sue sei divisioni che si occupavano di appalti per la Difesa, la Platt & Rockland finiva sommersa da una valanga di documentazioni e Aricia ne approfittava. Per ogni spesa fasulla presentata alla Marina, aveva un'autorizzazione scritta e firmata da qualche alto dirigente della sede centrale. Subappaltava la produzione di materiali a prezzi spaventosi, dopodiché ne chiedeva l'approvazione ai superiori. Era un sistema facile, specialmente per un uomo astuto come lui, che aveva comunque intenzione di incastrare i suoi datori di lavoro. Di tutto quello che faceva teneva un resoconto preciso, che poi avrebbe consegnato ai suoi avvocati.» «Sono documenti di cui è in possesso anche Patrick?» «Non tutti.» Sandy guardò di nuovo la scatola. Era chiusa. «E questa è rimasta nascosta da quando lui ha fatto perdere le sue tracce?» «Sì.» «È mai tornato a controllare?» «No.» «E lei?» «Io sono tornata due anni fa per rinnovare l'affitto del luogo in cui era conservata. Ho guardato nella scatola, ma non ho avuto il tempo di esaminarne il contenuto. Ero impaurita e nervosa e non avrei voluto essere lì. Ero convinta che questo materiale non sarebbe mai stato usato perché Patrick non si sarebbe mai fatto prendere. Ma lui aveva visto giusto.» Sandy dominò l'impulso di aggredirla con una nuova gragnuola di domande che non riguardavano Aricia. Rilassati, ordinò a se stesso, non farti vedere troppo avido e chissà che le risposte ai tuoi interrogativi non arrivino da sole. «Dunque il piano di Aricia ha funzionato e lui a un certo punto ha contattato Charles Bogan, che ha un cugino che fa il bello e il brutto tempo a Washington e un ex principale diventato giudice federale. Bogan sapeva che l'aumento delle spese era stato provocato da Aricia?» Lei si alzò e tolse dalla scatola un registratore portatile e alcune minicassette tutte etichettate. Cercò tra le cassette spostandole con una penna fin-
ché trovò quella che desiderava, che inserì nel registratore. A Sandy sembrò evidente che era un'operazione già effettuata molte volte in passato. «Ascolti» lo esortò lei. «Undici settembre 1991. La prima voce è di Bogan, la seconda di Aricia. È Aricia a telefonare e Bogan riceve la chiamata nella sala riunioni al primo piano dello studio legale.» Sandy si chinò in avanti appoggiandosi ai gomiti. Il nastro cominciò a scorrere. BOGAN: Oggi mi ha telefonato uno degli avvocati della Platt a New York. Si chiama Krasny. ARICIA: Lo conosco. Tìpico coglione newyorkese. BOGAN: Sì, non è stato amichevole. Ha detto che forse hanno le prove che sapevi della doppia fatturazione per gli schermi Stalker che la Coastal ha comperato dalla RamTec. Gli ho chiesto di mostrarmele. Ha detto che ci vorrà una settimana. ARICIA: Rilassati, Charlie. Non possono dimostrare un bel niente perché io non ho firmato niente. BOGAN: Ma tu lo sapevi? ARICIA: Certo che lo sapevo. L'ho progettato io. Ho mosso io gli ingranaggi giusti. È stata solo una delle mie mille iniziative. Il loro problema, Charlie, è che non possono dimostrarlo. Non ci sono documenti, non ci sono testimoni. Il nastro continuò a scorrere senza suono per qualche secondo. «Stessa conversazione dieci minuti dopo» spiegò Leah. ARICIA: Come sta il senatore? BOGAN: Bene. Ieri ha visto il segretario alla Marina. ARICIA: Com'è andata? BOGAN: Nel modo migliore. Sono vecchi amici, del resto. Il senatore ha espresso il vivo desiderio di punire la Platt & Rockland per quello che ha fatto senza che il progetto Expedition abbia a patirne. Il segretario la pensa allo stesso modo e ha detto che si darà da fare perché alla Platt & Rockland sia chiesto un pesante risarcimento. ARICIA: Può accelerare i tempi? BOGAN: Perché? ARICIA: Voglio quei dannati soldi, Charlie. Ne sento già l'odo-
re, non sto nella pelle. Leah schiacciò un pulsante e fermò il registratore. Tolse la cassetta e la ripose con le altre. «Patrick ha cominciato a registrare nei primi mesi del '91. La loro intenzione era di tagliarlo fuori licenziandolo dall'azienda alla fine di febbraio con la scusa che non aveva acquisito un giro d'affari sufficiente.» «E quella scatola è piena di nastri?» «Ce ne sono una sessantina, già tutti accuratamente revisionati da Patrick in modo che si possa avere il quadro completo in tre ore di ascolto.» Sandy guardò l'ora. «Abbiamo parecchio lavoro da fare» disse lei. 28 Gli rifiutarono la radio, ma, quando capirono che voleva semplicemente ascoltare un po' di musica, gli portarono un vecchio registratore e due cassette della Rio Philharmonic Orchestra. Gli piaceva soprattutto la musica classica. Abbassò il volume e sfogliò le vecchie riviste che gli avevano messo a disposizione. La sua richiesta di qualche libro non era stata presa in considerazione. Fino a quel momento non aveva avuto da ridire sul cibo, anzi a giudicare dalle pietanze era evidente che almeno si preoccupavano del suo benessere fisico. A tenerlo prigioniero erano giovani uomini che rispondevano agli ordini di una persona la quale, lui l'aveva già dato per scontato, sarebbe rimasta sempre nell'ombra. Se mai lo avessero lasciato libero, i suoi guardiani si sarebbero dileguati e non ci sarebbe stato più nessuno da incriminare. La sua seconda giornata passò lentamente. Sua figlia era troppo intelligente per cadere a capofitto in una trappola così scoperta. Un giorno o l'altro quello che gli stava accadendo avrebbe avuto un senso. Paulo sapeva di poter aspettare quanto loro. Per la seconda visita il giudice si presentò portando già con sé la pizza. Gli era tanto piaciuta la prima, che durante il pomeriggio aveva chiamato Patrick per chiedergli se potevano ripetere la festicciola. Patrick era felice della sua compagnia. Huskey pescò dalla sua cartella un mazzo di buste che gettò sul tavolino di Lanigan. «Tutta gente che vuole mandarti i suoi saluti, soprattutto di-
pendenti del palazzo di giustizia. Ho detto loro che potevano scriverti.» «Non sapevo di avere tanti amici.» «Infatti. Questi sono solo impiegati annoiati con un sacco di tempo a disposizione che passano scrivendo lettere. È il miglior surrogato di una vita d'azione.» «Ti ringrazio.» Huskey avvicinò una sedia al letto e posò i piedi sul cassetto aperto del comodino. Patrick aveva già quasi finito la seconda fetta di pizza e non aveva più appetito. «Presto dovrò rendere ufficiale la mia non idoneità a giudicare il caso» gli ricordò Huskey in tono quasi di scusa. «Lo so.» «Oggi mi sono intrattenuto a lungo con Trussel. So che non vai pazzo per lui, ma è un buon giudice. Sarebbe disponibile.» «Preferisco Lanks.» «Già, ma purtroppo non hai scelta perché Lanks ha problemi di ipertensione e stiamo cercando di non affidargli casi troppo complicati. Come sai, Trussel ha più esperienza di Lanks e me messi insieme, specialmente nei casi in cui è prevista la pena di morte.» Patrick trasalì lievemente, fece saettare gli occhi di qua e di là per un istante e incassò la testa di qualche centimetro nelle spalle ossute. Pena di morte. Una realtà che lo coglieva alla sprovvista, come spesso gli accadeva quando si trascinava allo specchio per un lungo esame. Huskey prese nota di ogni suo movimento. Come dicono, chiunque può commettere un omicidio e, in qualità di giudice, Huskey aveva conversato con molti assassini durante i suoi dodici anni di servizio. Ma era la prima volta che a correre il rischio della pena capitale era un suo amico. «Perché lasci l'incarico?» chiese Patrick. «Per i soliti motivi. Sono stanco e se non lo faccio subito va a finire che non lo faccio più. I ragazzi stanno per andare all'università e ho bisogno di guadagnare più di quello che mi danno come giudice.» Fece una pausa. «Solo per pura curiosità, come sai che voglio mollare?» domandò. «Non l'ho divulgato.» «Le voci circolano.» «Fino in Brasile?» «Avevo una spia, Karl.» «Qualcuno di qui?»
«No, questo no, non avrei potuto correre il rischio di mantenere contatti con una persona di qui.» «Dunque qualcuno laggiù.» «Sì, un avvocato.» «E tu gli hai raccontato tutto?» «Le ho raccontato tutto. È una donna.» Huskey riunì i polpastrelli. «Direi che quadra.» «Te la consiglio vivamente, la prossima volta che ti capita di scomparire da quelle parti.» «Lo terrò a mente. Dov'è ora?» «Qui vicino, credo.» «Ora capisco. Dunque dev'essere la persona a cui hai affidato i soldi.» Patrick sorrise, poi ridacchiò. Finalmente il ghiaccio era rotto. «Che cosa vuoi sapere dei soldi, Karl?» «Tutto. Come li hai rubati? Dove sono? Quanto te ne resta?» «Qual è la voce più interessante che hai sentito circolare a palazzo su questi soldi?» «Oh, ce ne sono a centinaia. Quella che piace più a me è che avresti raddoppiato il capitale per poi seppellirlo nei forzieri di qualche banca svizzera e che saresti rimasto a spassartela in Brasile per qualche anno prima di andare a giocare con i tuoi soldi.» «Non male.» «Ricordi Bobby Doak, quel sorcetto brufoloso che fa divorzi per novantanove dollari l'uno e ce l'ha con tutti gli avvocati che chiedono di più?» «Sì, si fa pubblicità sulle circolari della chiesa.» «Quello lì. Ieri era giù in cancelleria a bere un caffè e a raccontare di aver saputo da fonte arcisicura che ti sei fatto fuori tutti i soldi per comperarti droghe e prostitute minorenni ed è per questo che vivevi come un contadino nelle campagne del Brasile.» «È da lui.» Il momento delle frivolezze passò e Patrick si chiuse in se stesso. Ma Huskey non voleva che il buon momento andasse sprecato. «Allora, dove sono i soldi?» «Non te lo posso dire, Karl.» «Quanto ti resta?» «Una tonnellata.» «Più di quanto hai rubato?» «Più di quanto ho preso, sì.»
«Come hai fatto?» Patrick si alzò per andare alla porta. Era ben chiusa. Si sgranchì schiena e gambe e bevve da una bottiglia d'acqua. Poi si sedette sulla sponda del letto e guardò Karl. «Ho avuto fortuna» rispose quasi in un sussurro. Karl non perse una sillaba. «Me ne sarei andato, Karl, con o senza soldi. Sapevo che la ditta stava per incassare una cifra ingente e avevo un piano per impossessarmene. Ma, se mi fosse andata storta, sarei scomparso lo stesso. Non avrei resistito un giorno di più con Trudy. Detestavo il mio lavoro e comunque i miei soci stavano per tagliarmi allegramente la gola. Bogan e i suoi accoliti stavano per convalidare una frode di dimensioni gigantesche e io ero l'unica persona a saperlo oltre a loro.» «Quale frode?» «La denuncia di Aricia. Ne parleremo più tardi. Così ho cominciato a progettare la mia fuga e ho avuto fortuna, l'ho fatta franca. Ho avuto una fortuna che non mi ha più abbandonato fino a due settimane fa. Una fortuna incredibile.» «Eravamo arrivati alla sepoltura.» «Già. Allora, sono tornato all'appartamentino che avevo preso a Orange Beach. Ci sono rimasto un paio di giorni, chiuso dentro, ad ascoltare nastri in portoghese e a farmi un vocabolario. Ho dedicato anche molte ore a stralciare le conversazioni che avevo registrato in ufficio. Avevo da organizzare molti documenti e posso assicurarti che ho lavorato sodo. Di notte uscivo a camminare in spiaggia per ore, a consumare in sudore il più velocemente possibile i chili che avevo messo su negli ultimi mesi. Quanto a mangiare, non se ne parlava proprio.» «A quali documenti alludi?» «Il dossier su Aricia. Usavo la barca a vela per qualche puntata al largo. Qualcosina sapevo e tutt'a un tratto avevo buoni motivi per imparare meglio. La barca era abbastanza grande per viverci anche per alcuni giorni di fila, così ho cominciato a usarla come nascondiglio.» «Qui?» «Sì. Mi ancoravo vicino a Ship Island e sorvegliavo la costa di Biloxi.» «Perché mai?» «Avevo messo delle microspie in ufficio. Controllavo tutti i telefoni e tutti i locali, eccetto l'ufficio di Bogan. Avevo un microfono persino nel gabinetto al pianterreno, tra l'ufficio di Bogan e quello di Vitrano. Il ricevi-
tore, lo avevo nascosto in soffitta. La palazzina è vecchia e la ditta è antica e lassù ci saranno un milione di vecchie pratiche che nessuno va mai a recuperare. Sopra l'edificio c'era una vecchia antenna televisiva fissata a un comignolo e io ho fatto passare da lì i miei cavi. Il ricevitore ritrasmetteva i segnali dei microfoni a una piccola parabolica che avevo montato sulla barca a vela. Tutta alta tecnologia, Karl, strumentazione d'avanguardia che avevo comperato al mercato nero di Roma pagandola un occhio della testa. Ero in linea d'aria con il comignolo e mi era più facile intercettare i segnali. Tutte le conversazioni che avvenivano nelle vicinanze di uno dei miei microfoni arrivavano a bordo della mia barca. Registravo tutto e di notte sceglievo i brani importanti. Sapevo in quali locali avessero deciso di andare a cenare e di quale umore fossero le loro consorti. Sapevo tutto di loro.» «Pazzesco.» «Avresti dovuto sentire come si sforzavano di essere compiti dopo il mio funerale. Gli arrivavano tutte quelle telefonate di condoglianze e loro rispondevano con tutta la gravità del caso. Ma tra di loro se la ridevano della mia morte. Gli avevo evitato uno scomodo confronto. Per darmi la notizia che venivo sbattuto fuori dello studio era stato scelto Bogan. Il giorno dopo i funerali, Bogan e Havarac hanno bevuto scotch in sala riunioni ridendo della fortuna che avevo avuto per essere andato al Creatore in un momento così opportuno.» «Hai tutti questi nastri?» «Certo che ce li ho. Ascolta, ho il nastro della conversazione avvenuta fra Trudy e Doug Vitrano nel mio vecchio ufficio poche ore prima dei miei funerali, quando hanno aperto la mia cassetta di sicurezza e hanno avuto la bella sorpresa di trovarci la polizza sulla vita per due milioni di dollari. È una scena grandiosa. Trudy ha esitato non più di una ventina di secondi prima di chiedere: "Quando mi danno i soldi?".» «Quando me la fai ascoltare?» «Non lo so, ma non ti farò aspettare troppo. All'inizio avevo raccolto centinaia di nastri. Ho dovuto lavorare per dodici ore al giorno per settimane per riuscire a ridurre il materiale all'essenziale. Puoi immaginare quante telefonate ho dovuto ascoltare.» «Non hanno mai avuto sospetti?» «Niente di concreto. Una volta, parlando con Vitrano, Rapley ha fatto qualche allusione all'incredibile tempismo con cui avevo sottoscritto una polizza sulla vita per due milioni di dollari solo otto mesi prima di morire.
Ci fu anche qualche commento sul mio strano modo di comportarmi negli ultimi tempi, ma le loro erano solo vaghe sensazioni, erano troppo felici che mi fossi tolto dai piedi.» «Hai controllato anche i telefoni di Trudy?» «Ci avevo pensato, ma perché avrei dovuto farlo? Era troppo prevedibile, non mi sarebbe servito a niente.» «Ma ti sarebbero servite le conversazioni di Aricia.» «Le sue sì. Ero a conoscenza di tutte le mosse sue e dei suoi complici. Sapevo che il denaro sarebbe stato versato all'estero. Sapevo in quale banca e quando.» «Dunque come l'hai rubato?» «Anche in questo ho avuto una fortuna sfacciata. Bogan dirigeva le operazioni, ma i contatti con le banche erano tenuti prevalentemente da Vitrano. Così mi sono presentato a Miami con una serie di documenti nuovi dai quali risultava che ero Doug Vitrano. Avevo persino il numero della sua tessera della previdenza sociale. A Miami ho contattato quel tizio che ha un catalogo su computer con un milione di facce. Tu gli mostri quella che vuoi e, zacchete, te la ritrovi sulla patente. Io ne ho scelta una che stava a metà strada tra la mia e quella di Vitrano. Da Miami sono andato a Nassau ed è lì che è cominciata la parte più delicata. Mi sono presentato alla banca, la United Bank of Wales, e mi sono trovato a faccia a faccia con un certo Graham Dunlap, quello che aveva mantenuto i contatti con Vitrano. Gli ho mostrato tutte le mie false credenziali con l'aggiunta di una falsa delega del mio studio legale che mi dava mandato di ritrasferire il denaro appena fosse arrivato. Dunlap non si aspettava una visita di Vitrano. Era sorpreso, persino lusingato che qualcuno dello studio si fosse sobbarcato quel viaggio per una normale transazione come quella. Ha fatto portare caffè e croissant. Stavo facendo colazione quando sono arrivati i soldi.» «Non ha mai pensato di chiamare lo studio?» «No, ma devo dirti che ero pronto a darmela a gambe. Se Dunlap avesse avuto anche il minimo sospetto, lo avrei tramortito e mi sarei precipitato all'aeroporto. Avevo tre biglietti per tre diversi voli.» «Dove saresti andato?» «Be', non dimenticarti che ero morto. Probabilmente avrei scelto il Brasile. Mi sarei trovato da lavorare come barista e avrei passato il resto dei miei giorni in spiaggia. Con il senno di poi potrei dire che senza i soldi mi sarebbe andata meglio. Avendoli, era inevitabile che mi dessero la caccia. E ben per questo che ora mi trovo qui. Comunque Dunlap mi ha fatto le
domande giuste e ha avuto le risposte che voleva. Ha confermato l'arrivo del denaro e io gli ho dato immediatamente l'autorizzazione a rispedirlo a una banca di Malta.» «Tutto?» «Quasi tutto. Quando si è reso conto che tutta la somma stava per lasciare la sua banca, per un attimo Dunlap ha esitato. Io per poco non mi sono inghiottito la lingua. Ha alluso a un non meglio definito costo amministrativo del servizio reso al nostro studio e l'ho sollecitato ad agire secondo la consuetudine. Allora lui si è trasformato in un viscido impiegatucolo, mi ha detto che cinquantamila dollari sarebbero stati sufficienti e io ho accettato. Così i cinquantamila sono rimasti sul conto per essere poi trasferiti a nome di Dunlap. La banca è di Nassau...» «Lo era. Ha chiuso sei mesi dopo che tu l'hai derubata.» «Già, così ho sentito. Mi dispiace per loro. Quando sono uscito e ho sentito il marciapiede sotto le suole, mi è stato difficile non tuffarmi come un pazzo in mezzo al traffico. Avevo voglia di gridare e saltare. Ho preso il primo taxi libero e ho detto al conducente che ero in ritardo per l'aeroporto. Quando sono arrivato, ho trovato che il volo per Atlanta partiva di lì a un'ora, quello per Miami dopo un'ora e mezzo e quello per La Guardia stava già imbarcando. Così sono andato a New York.» «Con novanta milioni di dollari.» «Tolti i cinquantamila per il buon Dunlap. Karl, è stato il viaggio più lungo della mia vita. Ho mandato giù tre martini senza riuscire ad allentare la tensione. Non appena chiudevo gli occhi, vedevo uno schieramento di poliziotti ad aspettarmi con i mitragliatori spianati. Ero sicuro che Dunlap si fosse insospettito e avesse chiamato lo studio e che non so come fossero riusciti a scoprire che volo avevo preso. Non ho mai desiderato tanto sbarcare in vita mia. Quando siamo arrivati e ho visto il lampo di un flash nel momento in cui entravo al terminal, ho pensato subito che per me fosse finita. Invece era un bambino che giocava con la sua Kodak. Mi sono praticamente rifugiato di corsa in una toilette dove mi sono trattenuto per venti minuti in compagnia della borsa di tela in cui c'erano tutti i miei possedimenti.» «Non dimenticare i novanta milioni.» «Ah, già.» «In che maniera sono finiti a Panama?» «Tu come sai che sono arrivati là?» «Sono il giudice di una piccola città, Patrick. La polizia mi tiene al cor-
rente.» «Il secondo trasferimento era contenuto nelle istruzioni che avevo dato a Nassau. La prima tappa era Malta, ma subito dopo il denaro doveva essere inviato a Panama.» «Come hai fatto a diventare così abile in questo gioco di trasferimenti tra banche?» «Ci ho lavorato per un annetto. Ma, dimmi, Karl, quando hai saputo che il denaro era scomparso?» Karl rise e piegò la testa all'indietro appoggiandola alle mani intrecciate. «Il fatto è che i tuoi cari amici dello studio non sono stati proprio dei campioni di riservatezza.» «Mi sorprende.» «Ti dirò anzi che in città non c'era praticamente nessuno che non sapesse che stavano per diventare spudoratamente ricchi. Tenevano la bocca cucita, però spendevano come matti a destra e a manca. Havarac aveva comperato la più grossa e più nera Mercedes mai costruita. L'architetto di Vitrano stava completando il progetto della loro nuova casa, una specie di palazzo reale. Rapley aveva firmato il contratto d'acquisto di una barca a vela di venticinque metri sostenendo che aveva intenzione di mettersi in pensione. Più di una volta mi era giunta all'orecchio l'intenzione dello studio di comperare un jet privato. Sarebbe stato difficile in ogni caso nascondere un onorario di trenta milioni di dollari, ma non si può certo dire che ci abbiano provato. Loro volevano che si sapesse.» «Ma guarda, neanche un avvocato è così spudorato.» «Tu hai fatto il tuo colpo un giovedì, giusto?» «Sì, il 26 marzo.» «Il giorno dopo, quando stavo per cominciare una causa civile, uno degli avvocati ha ricevuto una telefonata dal suo ufficio con la notizia che c'erano problemi con il grosso affare alla Bogan, Rapley, Vitrano, Havarac e Lanigan. Il denaro era scomparso. Fino all'ultimo centesimo. Rubato da non si sapeva chi da una banca estera.» «Hanno fatto il mio nome?» «Quel giorno no, ma non c'è voluto molto. Si è saputo che le telecamere del circuito chiuso della banca avevano registrato una persona che ti somigliava. Non appena si sono aggiunti altri elementi che puntavano nella tua direzione, qui in città è scoppiato il finimondo.» «E tu hai creduto che fossi stato io?» «All'inizio ero troppo sconvolto per pensarci. Lo eravamo tutti. Ti ave-
vamo seppellito, avevamo pregato sulla tua tomba, non ci sembrava possibile. Ma con il trascorrere dei giorni, passato lo smarrimento iniziale, abbiamo cominciato a vedere più chiaro. Il nuovo testamento, la polizza sulla vita, il cadavere cremato... così sono nati i primi sospetti. Poi hanno trovato lo studio infestato di cimici. L'Fbi ha condotto un'indagine a tappeto. Una settimana dopo eravamo praticamente tutti convinti che fossi stato tu.» «E tu eri fiero di me?» «Non direi che ero fiero. Sbalordito. Confuso. C'era di mezzo anche un cadavere. Non sapevo che cosa pensare nemmeno io.» «Nemmeno una punta di ammirazione?» «Io non la ricordo così, Patrick. No, un innocente era stato ucciso perché tu potessi rubare quei soldi. E poi avevi abbandonato moglie e figlia.» «Una moglie che ha incassato una fortuna. E una figlia che non era mia.» «Già, ma io non lo sapevo. Né io né nessun altro. No, non credo che tu abbia suscitato molta ammirazione da queste parti.» «E i miei soci?» «Nessuno li ha più visti per mesi. Sono stati citati da Aricia. Poi hanno avuto altri guai. Avevano esagerato con le spese, così è partita l'azione di fallimento. Divorzi, alcol, tutto molto squallido. Autodistruzione da manuale.» Patrick si issò sul letto e incrociò le gambe con cautela. Assaporò la notizia con un sorrisetto maligno. Huskey si alzò e andò alla finestra. «Per quanto tempo sei rimasto a New York?» chiese sbirciando fuori. «Una settimana circa. Non volevo che i soldi tornassero negli Stati Uniti, nemmeno in parte, così ho organizzato perché finissero in una banca di Toronto. La banca che avevo scelto a Panama era una filiale della Bank of Ontario, perciò mi è stato facile trasferire la somma di cui avevo bisogno.» «Hai cominciato a spenderli?» «Non molto. Ero diventato canadese, con tutti i documenti in regola, originario di Vancouver, e il denaro mi ha permesso di acquistare un piccolo appartamento e ottenere delle carte di credito. Ho trovato un insegnante di portoghese e mi sono sottoposto a un corso di sei ore quotidiane. Mi sono recato spesso in Europa, per usare il passaporto e metterlo alla prova. Tutto ha sempre funzionato alla perfezione. Dopo tre mesi ho messo in vendita l'appartamento e sono andato a Lisbona, dove ho continuato a studiare portoghese. Poi, il 5 agosto 1992, ho preso un aereo per São Paulo.»
«Il tuo giorno dell'indipendenza.» «Libertà assoluta, Karl. Sono arrivato in Brasile con due piccole valigie. Sono salito su un taxi e in pochi attimi ero perso in un mare di venti milioni di persone. Era buio e pioveva, il traffico andava a rilento, e io ero seduto in un taxi a pensare che non c'era nessuno al mondo che sapesse dov'ero. E nessuno che sarebbe mai riuscito a trovarmi. Ho quasi pianto, Karl. Era libertà allo stato puro. Guardavo i passanti sui marciapiedi e pensavo tra me: ora sono uno di loro. Sono un brasiliano che si chiama Danilo e non sarò mai nessun altro.» 29 Sandy dormì tre ore su un materasso duro in una mansarda sopra il salone, lontano da lei, e si svegliò quando i primi raggi del sole s'intrufolarono tra le stecche delle veneziane. Erano le sei e mezzo. Si erano augurati la buonanotte alle tre, dopo sette ore trascorse a esaminare documenti e ascoltare decine di conversazioni segrete intercettate da Patrick. Fece la doccia, si vestì e trovò il modo di raggiungere la cucina dove Leah sedeva nella nicchia davanti a un caffè e con un'espressione vigile che lo sorprese. Diede un'occhiata ai giornali, mentre lei gli preparava la colazione. «Notizie di suo padre?» s'informò. Le voci del primo mattino erano sommesse, le frasi scarne. «No. Ma da qui non posso fare telefonate. Più tardi scendo al mercato e provo da un apparecchio pubblico.» «Dirò una preghiera per lui.» «Grazie.» Lei lo aiutò a caricare nel bagagliaio tutta la documentazione su Aricia e lo salutò. Gli promise di chiamarlo entro ventiquattr'ore. No, per il momento non sarebbe ripartita. I problemi del loro cliente erano diventati urgenti. L'aria fresca del primo mattino era tonificante. In ottobre anche sulla Costa arriva una parvenza di autunno. Indossò un giaccone e uscì per una passeggiata sulla spiaggia a piedi scalzi e gambe nude, con una mano in tasca e l'altra intorno alla tazza del caffè. Si era nascosta dietro gli occhiali scuri e ne era irritata. In spiaggia non c'era nessuno, perché quell'impulso a mimetizzarsi? Come tutti i carioca, aveva passato gran parte della sua vita in spiaggia,
cuore della cultura di Rio. Aveva trascorso l'infanzia con il padre nel suo appartamento di Ipanema, il quartiere più elegante di Rio dove tutti i bambini crescono praticamente in spiaggia. Non era abituata alle camminate lungo l'acqua senza essere circondata da migliaia e migliaia di persone occupate a giocare e a prendere il sole. Suo padre era stato tra i primi a organizzare la resistenza contro lo sfruttamento speculativo di Ipanema. Le manifestazioni dei comitati di quartiere alle quali partecipava andavano contro l'atteggiamento tipicamente carioca del "vivi e lascia vivere", ma con il passare del tempo si era guadagnato ammirazione e sostegno. Nella sua qualità di avvocato, Eva dedicava ancora parte del suo tempo all'assistenza delle organizzazioni che difendevano i quartieri di Ipanema e Leblon. Una cortina di nuvole velò il sole e la brezza rinforzò. Tornò a casa seguita da uno stormo di chiassosi gabbiani. Sbarrò tutte le porte e le finestre, uscì di nuovo e percorse in macchina i tre chilometri che la separavano da un supermercato dove intendeva acquistare shampoo e frutta e trovare un telefono pubblico. Quando finalmente si accorse di lui, ebbe come l'impressione che le fosse stato accanto da sempre. Mentre sceglieva un flacone di balsamo, lo sentì tirare su con il naso come se fosse raffreddato. Si girò e lo guardò da dietro le lenti scure dei suoi occhiali. Lui la mise subito a disagio fissandola apertamente. Non poteva avere più di quarant'anni, di razza bianca, viso pulito, ma non ebbe tempo di notare altro. La osservava con avidi occhi verdi che scintillavano nel suo volto abbronzato. Eva si allontanò con calma, cercando di convincersi che fosse solo un balordo locale che si divertiva a occhieggiare le donne tra le corsie del supermercato e a spaventare le belle villeggianti. Magari lo conoscevano tutti lì dentro, sapevano persino come si chiamava, e lo tolleravano perché non avrebbe fatto male a una mosca. Lo rivide qualche minuto dopo, questa volta nascosto vicino al banco del pane, con la faccia dietro una crosta di pizza. Ma gli occhi metallici seguivano ogni sua mossa. Perché si copriva il volto? Notò che era in calzoni corti e portava i sandali ai piedi. Una vibrazione di panico le scese dal cuore nelle gambe. Il suo primo impulso fu di mettersi a correre, ma resistette concentrandosi sulla ricerca di un cestino. Se era stata individuata, aveva tutto da guadagnare a sorvegliare quell'uomo per interpretare le sue mosse e memorizzare il suo aspetto. Chissà quando l'avrebbe rivisto. Indugiò nel reparto dei generi alimen-
tari e quando ebbe superato il banco dei formaggi lo perse di vista per un po'. Lo rivide girato dall'altra parte, con un cartone di latte in mano. Qualche minuto dopo lo scorse fuori, nel parcheggio. Camminava con la testa inclinata sulla spalla e parlava in un cellulare. Non aveva in mano nient'altro. Che fine aveva fatto il latte? Sarebbe scappata da una delle porte di sicurezza sul retro, ma aveva lasciato la macchina davanti. Pagò i suoi acquisti con tutta la calma di cui era capace, ma quando prese il resto le mani le tremavano. Nel parcheggio c'erano trenta veicoli, compresa la sua auto a noleggio, e sapeva di non poterli ispezionare tutti. Né intendeva farlo. Sapeva che era a bordo di una di quelle vetture e desiderava solo andarsene senza essere seguita. Quando lasciò il parcheggio svoltò in direzione della villa, percorse quattrocento metri, poi invertì bruscamente il senso di marcia e, tornando indietro, lo riconobbe al volante di una Toyota. Lui distolse gli occhi verdi all'ultimo istante. Strano che non portasse occhiali scuri. Ma in quel momento tutto le sembrava strano. Era peggio che strano che si trovasse a guidare su una strada straniera in un paese straniero, ancora senza sapere verso quale meta, portando con sé un passaporto falso secondo il quale era una persona che non avrebbe mai desiderato essere. Sì, tutto era strano e confuso e la sola cosa che desiderava in quel momento era poter rivedere Patrick per scuoterlo e urlargli in faccia tutta la sua disperazione. Quanto le stava accadendo non era giusto, non era nei patti. Patrick era stato perseguitato per ciò che aveva fatto, ma lei non aveva colpe. Non ne aveva lei, come non ne aveva suo padre. Da brava brasiliana, guidava con un piede sull'acceleratore e l'altro sul freno e nel traffico lungo la spiaggia dovette ricorrere a tutte le sue capacità di esperta automobilista, mentre continuava a ripetersi di non cedere al panico. Mai perdere la calma quando si è in fuga, le aveva raccomandato mille volte Patrick. Pensa, tieni gli occhi aperti, programma le tue mosse. Sorvegliò le automobili che la seguivano. Rispettò il codice della strada. "Sappi sempre dove sei" era un'altra delle raccomandazioni di Patrick. E lei aveva studiato le carte stradali per ore. Svoltò in direzione nord e si fermò a un distributore per vedere se era pedinata. Niente, l'uomo con gli occhi verdi era scomparso, ma non ne ebbe la minima consolazione. Lui sapeva di essere stato individuato. Gli sarebbe bastato mandare un avvertimento con il telefonino e passare le consegne a qualcun altro. Un'ora dopo entrò nel terminal di Pensacola e aspettò ottanta minuti un volo per Miami. Si sarebbe imbarcata su qualunque aereo, ma quello per
Miami era il primo in partenza. La sua scelta si sarebbe dimostrata disastrosa. Da dietro una rivista, seduta a un tavolino del bar, controllò tutti i movimenti del terminal, operazione non difficile nell'aeroporto quasi deserto, dove aveva attirato solo l'attenzione di una guardia giurata che non aveva meglio da fare che contemplare una bella donna. Volò su un turboelica in compagnia di cinque passeggeri e riuscì persino a riposare un po'. A Miami rimase per un'ora nascosta in uno dei bar a bere acqua cara come champagne guardando l'andirivieni dei passeggeri. Al banco della Varig acquistò un biglietto di prima classe per São Paulo, sola andata. Non sapeva nemmeno lei perché. Non era la sua città, ma senz'altro era nella direzione giusta. Forse si sarebbe trattenuta per qualche giorno soggiornando in albergo e confortandosi all'idea di essere più vicina a suo padre, dovunque lo tenessero prigioniero. C'erano aerei in partenza per cento destinazioni, perché non tornare in patria? Secondo la procedura ordinaria, l'Fbi aveva diramato un allarme ai posti di dogana e ai controlli passaporti di tutti gli aeroporti. La segnalazione faceva riferimento a una donna di trentun anni che viaggiava con passaporto brasiliano; il nome vero era Eva Miranda, ma probabilmente ne usava uno falso. Scoperta l'identità del padre, ottenere il suo vero nome era stato un gioco. Quando Leah Pires si presentò al controllo passaporti del Miami International, non si aspettava di trovare un ostacolo davanti a sé: era ancora concentrata a individuare eventuali pedinatori. Il suo passaporto a nome Leah Pires aveva superato tutti gli esami a cui era stato sottoposto in quelle due ultime settimane, ma per sua sfortuna l'agente che lo guardò in quel momento aveva letto la segnalazione solo un'ora prima. Pigiò un pulsante mentre leggeva attentamente il suo documento d'identità. Leah capì in pochi istanti che qualcosa non funzionava, notando la velocità con cui gli altri viaggiatori passavano il controllo davanti ad agenti che quasi non alzavano nemmeno gli occhi per confrontare le fotografie dei passaporti con i rispettivi possessori. Accanto al suo poliziotto si materializzò un funzionario in giacca scura. «Vuole accomodarsi da questa parte, signora Pires?» la invitò in tono educato ma fermo. Le stava indicando un ampio corridoio. «C'è qualche problema?» chiese lei. «No, solo qualche domanda.» Il funzionario l'aspettava. La stava aspettando anche una guardia in divisa, con fondina e sfollagente alla cintura. Il
funzionario stringeva in mano il suo passaporto. I passeggeri in coda dietro di lei la stavano guardando. «Domande a quale proposito?» chiese incamminandosi con il funzionario e la guardia verso la seconda porta del corridoio. «Niente di speciale» minimizzò lui, aprendo l'uscio ed entrando dietro di lei in una stanza priva di finestre. Eva lesse sulla sua targhetta che si chiamava Rivera, ma non aveva l'aspetto di un latinoamericano. «Mi restituisca il mio passaporto» reclamò appena furono soli nella stanza chiusa. «Piano, signora Pires. Prima devo farle qualche domanda.» «Non sono tenuta a rispondere alle sue domande.» «La prego, si accomodi. Posso offrirle un caffè o un bicchier d'acqua?» «No.» «Questo indirizzo di Rio è valido?» «Sicuro.» «Da dove è arrivata?» «Da Pensacola.» «Quale volo?» «Airlink 855.» «E la sua destinazione?» «São Paulo.» «Dove di preciso?» «Credo che siano affari miei.» «Viaggio di piacere o di affari?» «Ha qualche importanza?» «Ne ha. Secondo il suo passaporto lei abita a Rio. Dunque dove pensa di soggiornare a São Paulo?» «In albergo.» «Quale albergo?» Lei esitò cercando di ricordarne uno e quel breve intervallo fu micidiale. «Al... all'Intercontìnental» rispose finalmente, riuscendo molto meno che convincente. Lui prese nota. «E dobbiamo presumere che la sua stanza sia stata prenotata a nome di Leah Pires?» domandò poi. «Naturalmente» rispose lei con sufficiente prontezza. Sarebbe bastata una telefonata per sbugiardarla. «I suoi bagagli?» s'informò il funzionario. Un altro colpo alla sua credibilità e questa volta la sua esitazione fu ac-
compagnata dall'impossibilità di sostenere il suo sguardo. «Viaggio leggera» si giustificò. Qualcuno bussò alla porta. Rivera l'aprì di uno spiraglio, prese un foglio e scambiò poche parole sottovoce con un collega invisibile. Leah cercò di mantenere la calma. La porta si richiuse e Rivera lesse la nuova comunicazione. «Secondo quanto ci risulta, lei è entrata nel nostro paese otto giorni fa, qui a Miami, su un volo proveniente da Zurigo con scalo a Londra. Otto giorni senza bagagli. Singolare, non trova?» «Da quando è diventato un reato viaggiare senza bagagli?» ribatté lei. «Non lo è diventato, ma è un reato usare un passaporto falso. Almeno lo è qui, negli Stati Uniti.» Lei guardò il suo, posato sul tavolo. «Quel passaporto non è falso» proclamò indignata. «Mi dica, conosce una certa Eva Miranda?» chiese Rivera e Leah non poté che abbassare la testa. Sentì che il cuore le si fermava nel petto, la caccia era finita. Rivera capì di aver fatto centro. «Devo informare l'Fbi» annunciò. «Ci vorrà un po'.» «Sono in arresto?» «Non ancora.» «Sono un avvocato. Voglio...» «Lo so. E noi abbiamo il diritto di trattenerla per accertamenti. I nostri uffici sono qui sotto. La prego, mi segua.» Fu condotta via, senza tante storie. Camminò tenendo la borsetta contro il petto, con gli occhi ancora abbassati. Il lungo tavolo era ingombro di pratiche e fogli sparsi, pagine accartocciate, tovaglioli e tazzine vuote e persino resti di sandwich fatti arrivare dalla mensa dell'ospedale. Avevano mangiato qualcosa cinque ore prima, ma nessuno dei due aveva pensato a rifocillarsi di nuovo. Solo fuori della stanza era sopraggiunta l'ora di cena. Là dentro era come se il tempo si fosse fermato. Erano entrambi a piedi scalzi, Patrick in maglietta e calzoncini, Sandy in una camicia tutta stropicciata e calzoni sportivi, gli stessi indumenti che aveva indossato ore prima nella casa sulla spiaggia. La scatola di Aricia era abbandonata in un angolo, vuota. Tutto il suo contenuto era sul tavolo.
Qualcuno bussò alla porta aprendola contemporaneamente. L'agente Joshua Cutter entrò senza essere invitato e si fermò poco oltre la soglia. «Questa è una riunione privata» lo affrontò Sandy parandogli davanti. Per impedire che vedesse i documenti sparsi sul tavolo, Patrick si affrettò a piazzarglisi accanto. «Che razza di modi sono questi» protestò infuriato. «Chiedo scusa» rispose Cutter senza scomporsi. «Pensavo solo che le interessasse sapere che Eva Miranda è in nostra custodia. L'abbiamo pescata mentre cercava di partire da Miami usando un passaporto falso.» Momentaneamente impietrito, Patrick non seppe come reagire. «Eva?» chiese Sandy. «Già, altrimenti nota come Leah Pires. Così c'è scritto sul passaporto falso.» Cutter guardava Patrick, mentre rispondeva a Sandy. «Ora dov'è?» domandò Patrick evitando a stento di balbettare. «A Miami. In prigione.» Patrick si girò e camminò lungo il tavolo. Una prigione non era un luogo raccomandabile comunque, ma quella di Miami aveva alle sue orecchie un suono particolarmente sinistro. «Abbiamo un numero a cui possiamo chiamarla?» chiese Sandy. «No.» «Ha diritto ad avere un telefono.» «Stiamo organizzando.» «Mi faccia avere un numero, intesi?» «Vedremo.» Cutter continuava a guardare Patrick ignorando Sandy. «Aveva molta fretta. Niente bagagli, nemmeno una borsa da viaggio. Stava cercando di tornare di nascosto in Brasile, piantandola qui da solo.» «Stia zitto» ringhiò Patrick. «Ora può andarsene» lo esortò Sandy. «Ho pensato solo che vi interessasse saperlo» concluse Cutter con un sorriso prima di togliere il disturbo. Patrick si sedette e si massaggiò le tempie. La testa gli faceva già male prima dell'intervento di Cutter, ora il dolore era lancinante. Con Eva aveva esaminato le tre possibili situazioni che avrebbe dovuto affrontare nel caso lo avessero catturato. Se lei avesse potuto continuare a muoversi in libertà, sarebbe rimasta nell'ombra e avrebbe assistito Sandy, continuando a spostarsi. Se fosse stata presa da Stephano e Aricia, avrebbe dovuto affrontare conseguenze imprevedibili ma senz'altro tutt'altro che augurabili. La terza ipotesi era che finisse nelle mani dell'Fbi, un'eventualità non terribile come
la seconda, ma che poneva comunque problemi enormi. Poteva solo rallegrarsi che non corresse pericolo di vita. Ma il ritorno in Brasile senza di lui era un'alternativa di cui non si era mai parlato. Non poteva credere che avesse avuto intenzione di abbandonarlo. Sandy riordinò in silenzio i documenti sparsi sul tavolo. «A che ora l'hai lasciata?» domandò Patrick. «Alle otto. Ed era tutto tranquillo, Patrick, te l'ho già detto.» «Non ti ha parlato di Miami o del Brasile?» «No. Anzi, quando sono partito ho avuto l'impressione che volesse trattenersi alla villa per un po'. Mi aveva detto di averla presa in affitto per un mese.» «Allora ha avuto paura. Altrimenti perché avrebbe deciso di fuggire?» «Io non lo so.» «Trova un avvocato a Miami, Sandy. Fa' presto.» «Ne conosco un paio.» «Dev'essere spaventata a morte.» 30 Erano le sei passate, dunque probabilmente Havarac era in qualche casa da gioco a bere whisky gratis e a cercare compagnia femminile. Tutti in città sapevano dei debiti che contraeva al tavolo di blackjack. Rapley era senza dubbio chiuso in mansarda come al solito. Segretarie e assistenti erano tornati a casa. Doug Vitrano chiuse la porta principale e raggiunse Charlie Bogan, che lo aspettava con le maniche della camicia arrotolate sulle braccia, seduto alla scrivania del suo ufficio personale, il più spazioso ed elegante dello studio. Patrick aveva piazzato microspie in tutti i locali eccetto quello, un particolare che Bogan aveva fatto pesare notevolmente nel turbolento periodo seguito alla scomparsa del denaro. Quando si assentava dal suo ufficio, lo sprangava a doppia mandata. I suoi soci erano stati troppo negligenti, specialmente Vitrano, il cui telefono era stato utilizzato per le ultime e fatali conversazioni con Graham Dunlap, grazie alle quali Patrick era venuto a conoscenza dei termini e delle coordinate della transazione. Solo un miracolo aveva evitato che i quattro venissero alle mani. In tutta onestà Bogan non poteva sostenere di aver sospettato che qualcuno controllasse lo studio legale, altrimenti perché non mettere in guardia
i suoi soci più disattenti di lui? No, molto più semplicemente aveva agito per amore della prudenza e aveva avuto fortuna. Ci volevano solo pochi secondi per sprangare la porta e riaprirla con l'unica chiave esistente e sempre in suo possesso. Nemmeno agli uscieri era consentito entrare senza il suo permesso. Vitrano prese posto nella comoda poltrona di pelle davanti alla scrivania. «Stamattina ho visto il senatore» lo informò Bogan. «Mi ha convocato a casa sua.» La madre di Bogan era sorella del padre del senatore, il quale era più vecchio di dieci anni di Bogan. «È di buonumore?» chiese Vitrano. «Non lo definirei così. Voleva un aggiornamento su Lanigan e gli ho raccontato quello che so. Ancora nessuna traccia del denaro. È molto nervoso per quello che Lanigan potrebbe sapere. Gli ho giurato per l'ennesima volta che tutte le comunicazioni che ci sono state con lui si sono svolte in questo ufficio e che questo ufficio non era sotto controllo. Non c'è motivo perché stia in pensiero.» «Ma lui è preoccupato lo stesso.» «Certo che è preoccupato. Mi ha chiesto ancora se ci sono documenti che lo collegano ad Aricia e di nuovo gli ho risposto di no.» «Ed è così, vero?» «Sì. Non ci sono documenti in cui appaia il nome del senatore. Gli unici accenni a lui sono stati fatti dove non c'erano orecchie indiscrete, soprattutto sui campi da golf. Non so più quante volte gliel'ho detto e ripetuto, ma non si stanca mai di sentirselo ribadire ora che Patrick è tornato.» «Non gli hai detto del Buco?» «No.» Indugiarono entrambi a contemplare la polvere sul tavolo di Bogan mentre ricordavano ciò che era avvenuto nel Buco. Nel gennaio 1992, un mese dopo l'accordo tra Aricia e il dipartimento di Giustizia e circa due mesi prima della data fissata per la transazione, Aricia si era presentato senza preavviso, fuori di sé per la collera. Patrick c'era ancora, perché mancavano tre settimane al suo funerale. Poiché avevano già avuto inizio i lavori per una radicale ristrutturazione dello studio legale, Bogan non aveva potuto ricevere Aricia nel suo ufficio, ingombro di imbianchini e scale, così aveva accolto il suo bellicoso cliente in una minuscola stanzetta lì di fronte che, per le dimensioni ridotte, tutti chiamavano il Buco. Non aveva finestre, aveva il soffitto inclinato perché si trovava sotto una scala e riusciva a contenere a stento un tavolino con un paio di seggiole.
Era stato mandato a chiamare Vitrano, che fungeva per così dire da ufficiale in seconda, e c'era stata una discussione che non era durata a lungo. Aricia era furioso perché gli avvocati stavano per intascare trenta milioni di dollari e, ora che era stato stipulato l'accordo, facendo i debiti conti riteneva che un onorario di quella entità fosse oltraggioso. La situazione era precipitata perché Bogan e Vitrano avevano difeso la propria posizione. Gli avevano proposto di mandare a prendere il contratto perché potesse vedere da sé che era tutto in regola, ma ad Aricia non importava niente. Nella foga del momento, Aricia aveva chiesto quanta parte di quei trenta milioni di dollari sarebbe finita nelle tasche del senatore. Bogan aveva reagito con durezza e aveva risposto che non erano affari suoi. Aricia aveva insistito che lo erano, perché dopotutto quel denaro gli apparteneva, dopodiché si era lanciato in una pesante requisitoria contro il senatore e il mondo politico in generale, ironizzando sui maneggi con cui il senatore a Washington aveva influenzato la Marina, il Pentagono e il dipartimento di Giustizia affinché accettassero le sue condizioni. «Allora, quanto si prende?» continuava a domandare. Bogan era riuscito a tenere a freno le mani, limitandosi a rispondere che il senatore avrebbe avuto la parte che gli spettava. Aveva ricordato ad Aricia che se aveva scelto quello studio legale era proprio per via dei suoi buoni appoggi negli ambienti politici e aveva aggiunto con asprezza che poteva felicitarsi con se stesso per il fatto di incassare sessanta milioni, considerato che la sua denuncia era fasulla dal principio alla fine. Insomma, si era parlato troppo. Aricia aveva proposto di saldare il conto dello studio con dieci milioni. Bogan e Vitrano avevano rifiutato senza indugio. Aricia era uscito dal Buco imprecando come un indiavolato. Nel Buco non c'erano telefoni, ma erano stati trovati due microfoni: uno sotto il tavolo, fissato con dello stucco nero nell'angolo di congiunzione di due squadrette metalliche; il secondo infilato tra due vecchi libri di legge conservati sull'unica mensola a scopo puramente decorativo. Dopo il trauma dei novanta milioni scomparsi e la successiva scoperta di microspie e cimici un po' dappertutto nella palazzina, Bogan e Vitrano avevano evitato a lungo di discutere della riunione avvenuta nel Buco. Chissà, forse stando zitti sarebbe scomparsa. Con Aricia non ne avevano più parlato, principalmente perché lui li aveva subito citati per danni e non sopportava più nemmeno il suono dei loro nomi. L'episodio era sprofondato nell'oblio, al punto da indurli a cominciare a credere che non fosse mai
accaduto. Ora che era riapparso Patrick, erano costretti a prenderne atto. C'era sempre la possibilità che le microspie non avessero funzionato bene o che nella fretta Patrick non avesse intercettato proprio quella conversazione. Con tutto il materiale che aveva raccolto negli altri uffici, avevano finito per concludere che la speranza che quei pochi minuti di fuoco nel ripostiglio fossero avvenuti a sua insaputa era più che fondata. «Non può aver conservato i nastri per quattro anni» commentò Vitrano. Bogan non disse niente. Sedeva con le dita intrecciate sul ventre a guardare la polvere sulla scrivania. Dio, se fosse andata come doveva! Lui avrebbe intascato i suoi cinque milioni di dollari, altrettanti ne avrebbe presi il senatore. Non ci sarebbe stato il fallimento dello studio, non ci sarebbe stato il divorzio, sarebbe vissuto ancora con la sua famiglia a casa sua, nel pieno rispetto della comunità. I cinque milioni a quest'ora sarebbero già stati dieci, e poi venti, un patrimonio che dava la libertà di permettersi qualsiasi lusso. Era tutto lì, a portata di mano... ma era intervenuto Patrick. L'esaltazione per il ritrovamento di Patrick era durata un paio di giorni, poi piano piano si era spenta, via via che si era capito che il denaro non lo avrebbe seguito a Biloxi. Con il passare dei giorni, anzi, i soldi rubati sembravano allontanarsi sempre di più. «Credi che ritroveremo il denaro, Charlie?» domandò sottovoce Vitrano con gli occhi sul pavimento. Erano anni che non lo chiamava Charlie. «No» rispose Bogan. Ci fu una lunga pausa. «Ci andrà bene se non finiremo dentro.» Avendo un'ora di telefonate da smaltire, Sandy decise di attaccare dalle meno simpatiche. Seduto in macchina nel parcheggio dell'ospedale, chiamò la moglie per avvertirla che avrebbe fatto molto tardi, tanto tardi da essere costretto a trattenersi a Biloxi. Suo figlio giocava in una partita di football alla quale non avrebbe potuto assistere. Si scusò, diede tutta la colpa a Patrick e promise che avrebbe spiegato ogni cosa non appena fosse tornato a casa. La moglie la prese molto meglio di quanto avesse temuto. Trovò una segretaria che si era trattenuta in ufficio anche dopo l'orario di lavoro e si fece dare alcuni numeri telefonici. Conosceva due avvocati a Miami, nessuno dei due ancora al proprio studio alle sette e un quarto di sera. Quanto ai numeri di casa, l'elenco degli abbonati riportava solo quello di uno dei due, al quale non ottenne risposta. Fece allora un giro di telefonate ad avvocati di sua conoscenza a New Orleans e finalmente ottenne
il numero dell'abitazione di Mark Birck, noto penalista di successo a Miami. Birck non si mostrò lieto di ricevere la telefonata nel bel mezzo della cena, ma lo ascoltò lo stesso. Sandy gli illustrò una versione della saga di Patrick condensata in dieci minuti, includendo il recente sviluppo di Eva finita in carcere da qualche parte a Miami. Motivo della telefonata. Birck accettò di interessarsi del caso, sostenendo di conoscere bene le leggi sull'immigrazione. Avrebbe fatto due telefonate dopo cena. Sandy lo avrebbe richiamato di lì a un'ora. Dopo tre tentativi riuscì a localizzare Cutter e gli ci vollero venti minuti di tira e molla per convincerlo a incontrarsi con lui per un caffè e una ciambella. Sandy arrivò in anticipo e, mentre lo aspettava, richiamò Birck. Birck gli riferì che Eva Miranda era veramente in un centro di detenzione federale a Miami. Ancora non era stata incriminata di nulla, ma era presto. Impossibile vederla l'indomani e molto difficile il giorno dopo ancora. In base alla legge, l'Fbi e la polizia di frontiera avevano il diritto di trattenere uno straniero colto a viaggiare con documenti falsi per una durata massima di quattro giorni prima che si potesse chiedere la scarcerazione. Considerate le circostanze era una misura più che logica: le persone di quel genere hanno la scomparsa facile. Birck era stato spesso a quel centro di detenzione e rassicurò Sandy sulle condizioni in cui era trattenuta Eva. Come struttura non era una delle peggiori e le era stata messa a disposizione una cella privata. Con un po' di fortuna, l'indomani mattina avrebbe avuto accesso a un telefono. Senza entrare nei particolari, Sandy chiarì che non c'era fretta perché venisse rilasciata. All'esterno c'erano altre persone che le davano la caccia dalle quali era meglio che fosse tenuta lontana. Birck promise di fare di tutto per vederla al più presto. Sandy accettò l'onorario di diecimila dollari per il suo intervento. Riappese nel momento in cui Cutter entrava e si sedeva a un tavolino vicino alla vetrina come d'accordo. Chiuse la macchina e lo raggiunse. La cena era costituita da pietanze preconfezionate, scaldate in un forno a microonde e servite su un vassoio di plastica. Nonostante l'appetito, non le passò nemmeno per la testa di mangiare quella roba. A portarle la cena si presentarono due donne corpulente in divisa, in un gran tintinnio di chiavi che portavano appese a mazzi alla cintura. Una s'informò sul suo stato d'animo. Le rispose qualcosa di incomprensibile in portoghese che la indusse a lasciar perdere.
Non era mai stata in prigione prima di allora, nemmeno come avvocato. Ora si trovava in una stanzetta con le pareti di calcestruzzo e una porta di ferro, nella quale giungevano solo sporadicamente voci femminili provenienti da altre celle. In generale il luogo era silenzioso. Lo choc iniziale aveva lasciato il posto alla paura, quindi al senso di umiliazione di trovarsi in gabbia come una criminale. Durante le prime ore la soccorse solo il pensiero del suo povero genitore: senza dubbio era tenuto in condizioni peggiori di quelle che era costretta a sopportare lei. Pregò che non gli stessero facendo del male. L'ambiente della prigione favorisce la preghiera, così passò da quelle per il padre a quelle per Patrick. Ora che aveva tempo di riflettere meglio, non era più propensa ad addossargli la colpa della sua disavventura. Si rendeva conto di aver agito troppo d'impulso, lasciandosi prendere dal panico e cercando di fuggire senza le precauzioni del caso, nonostante tutto quello che Patrick aveva cercato di inculcarle sulla necessità di coprire con cura le proprie tracce quando si decide di scomparire. Concluse che il possesso di un documento falso non poteva essere un reato grave e che la sua situazione si sarebbe quindi chiarita in breve tempo. In una città violenta dove non c'erano mai abbastanza celle per tutti, un crimine marginale come il suo sarebbe stato espiato con una multa e l'espulsione. Trovava consolazione pensando al denaro. L'indomani avrebbe preteso l'assistenza di un avvocato, avrebbe chiamato certi funzionari di sua conoscenza a Brasilia e, se necessario, avrebbe usato il denaro per spianarsi la strada. Contava di essere fuori da lì al più presto e di correre in soccorso di suo padre, operando da qualche buon nascondiglio a Rio. Frattanto, chiusa in una cella che, se non era molto calda, era almeno pulita e protetta da guardie armate, si trovava comunque al sicuro. Quello non era un posto dove potessero raggiungerla gli uomini che avevano fatto del male a Patrick e ora tenevano prigioniero suo padre. Spense la luce centrale e si distese sulla branda. Senz'altro l'Fbi non aveva resistito a lungo alla tentazione di informare Patrick del suo arresto. Se lo immaginava seduto ad analizzare gli ultimi sviluppi da ogni angolazione possibile e a escogitare almeno una decina di modi diversi per tirarla fuori di lì. E non avrebbe preso sonno prima di aver ridotto la sua lista alle tre varianti più efficaci. Diceva sempre che la fase più divertente era quella della progettazione.
Cutter ordinò un analcolico e una ciambella al cioccolato. Non era in servizio, perciò si era presentato in jeans e camicia a maniche corte invece che in giacca e cravatta. Se gli atteggiamenti da gradasso gli erano naturali, ora che avevano trovato la ragazza e l'avevano messa sottochiave gongolava più che mai. Sandy divorò un sandwich al prosciutto in quattro bocconi. Erano quasi le nove e l'ultima volta che aveva messo in pancia qualcosa era stato in ospedale, quando aveva mangiato uno spuntino con Patrick. «Abbiamo bisogno di discutere seriamente» esordì. Parlava a voce bassa nel locale affollato. «Ascolto» rispose Cutter. Sandy mandò giù l'ultimo boccone, si pulì la bocca e si sporse verso di lui. «Non mi fraintenda, ma abbiamo bisogno di includere anche altre persone.» «Per esempio?» «Per esempio persone che stanno sopra di lei. Gente di Washington.» Cutter rifletté per qualche istante osservando il traffico sulla Highway 90. Il golfo era a cento metri da loro. «Si può anche fare» gli concesse poi. «Ma dovrò dir loro qualcosa.» Sandy si guardò intorno. Nessuno che s'interessasse a loro. «Mettiamo che io possa dimostrare che la denuncia di Aricia ai danni della Platt & Rockland era una frode. Che Aricia ha cospirato con lo studio legale di Bogan per defraudare il governo e che il cugino di Bogan, il senatore, faceva parte del complotto e che per i suoi servizi avrebbe dovuto ricevere alcuni milioni di dollari. Che gliene pare?» «Gran bella storia.» «Posso dimostrare tutto.» «E, se noi ci crediamo, immagino che dovremmo concedere al signor Lanigan l'immunità in cambio di una forma di risarcimento.» «Forse.» «Non acceleriamo i tempi. C'è sempre la questione del cadavere.» Cutter masticò lentamente un pezzetto di ciambella. «Di che genere di prove parliamo?» chiese poi. «Documenti, registrazioni di telefonate, cose di questo genere.» «Ammissibili in aula?» «Per la maggior parte.» «Abbastanza per ottenere un'incriminazione?» «Più che abbastanza.»
«Dove sono?» «Nel bagagliaio della mia auto.» Cutter si guardò d'istinto sopra la spalla, in direzione del parcheggio. Poi fissò gli occhi in quelli di Sandy. «È il materiale che Patrick ha raccolto prima di battersela?» «Infatti. Aveva avuto sentore del piano di Aricia. Lo studio legale aveva intenzione di sbatterlo fuori, così, buono buono, si è messo a raccogliere scheletri dagli armadi.» «Tanti nemici, un matrimonio che scricchiola e tutto il resto, così decide di prendere i soldi e scappare.» «No. Prima è scappato e i soldi li ha presi dopo.» «Funziona in entrambi i sensi. E adesso vuole negoziare, eh?» «Si capisce. Non lo farebbe anche lei?» «E l'omicidio?» «È una questione che riguarda lo Stato, non voi. Di quello ci occuperemo a suo tempo.» «Potremmo fare in modo che riguardi noi.» «Temo di no. Voi avete l'incriminazione per il furto dei novanta milioni. Lo Stato del Mississippi ha l'incriminazione per l'omicidio. Per vostra sfortuna, i federali non possono più intervenire.» Se c'era un motivo per cui Cutter detestava gli avvocati era proprio quello. Difficile che bluffassero. «Senta, questo colloquio è una formalità» riprese Sandy. «Sto seguendo la via gerarchica per non pestare i piedi a nessuno, ma sono pronto in qualsiasi momento a fare telefonate a Washington. Ho preferito parlarle nella speranza di convincerla che siamo pronti a trattare. Se non le va, me la cavo da solo.» «Chi vuole?» «Qualcuno che abbia completa autorità, Fbi o dipartimento di Giustizia. Ci troviamo da qualche parte e io gli espongo il caso.» «Mi lasci parlare con Washington. Ma le consiglio di avere materiale buono.» Si scambiarono una fredda stretta di mano e Sandy uscì. 31 La signora Stephano dormiva di nuovo sonni beati. Quegli inquietanti uomini vestiti di scuro erano scomparsi dalla strada davanti a casa e i vici-
ni avevano smesso di assillarla con le loro domande inopportune. La gente aveva ripreso a spettegolare su argomenti più ordinari. Suo marito aveva ritrovato un minimo di serenità. Dormiva profondamente quando il telefono squillò alle cinque e mezzo di mattina. Sollevò il ricevitore dell'apparecchio che aveva sul comodino. «Pronto?» «Jack Stephano, per piacere» disse una voce autoritaria. «Chi parla?» chiese lei. Jack si stava muovendo sotto il lenzuolo. «Hamilton Jaynes, Fbi.» «Oh, mio Dio!» esclamò la signora Stephano. Posò una mano sul microfono. «Jack, è di nuovo l'Fbi.» Jack accese la luce, consultò l'orologio, prese la cornetta. «Chi è?» «Buongiorno, Jack. Sono Hamilton Jaynes. Mi dispiace di averti disturbato a quest'ora.» «Potevi non farlo.» «Volevo che sapessi che abbiamo preso la ragazza, quella Eva Miranda. È sottochiave, al sicuro, perciò puoi richiamare i tuoi mastini.» Stephano si alzò dal letto e si fermò vicino al tavolino. L'ultima loro speranza era svanita. Le ricerche del denaro erano finalmente concluse. «Dov'è?» domandò, aspettandosi una risposta solo evasiva. «L'abbiamo noi, Jack. Accontentati di questo.» «Congratulazioni.» «Senti, Jack, ho mandato alcuni uomini a Rio a prelevare suo padre. Hai ventiquattr'ore di tempo. Se non viene rilasciato per le cinque e mezzo di domani mattina, avrò pronto un mandato d'arresto per te e per Aricia. Anzi, mi sa che metterò dentro anche Atterson della Monarch-Sierra e quel Jill della Northern Case Mutual. Così, tanto per togliermi lo sfizio. Del resto è da un po' che ho voglia di parlare a quei ragazzi e ad Aricia.» «Ti diverti, vero?» «Da matti. Daremo una mano ai brasiliani perché ottengano la vostra estradizione. Penso che ci vorranno suppergiù un paio di mesi. Non c'è la libertà dietro cauzione nei casi di estradizione, perciò tu e i tuoi simpatici clienti passerete Natale in galera. E poi, chissà, può anche darsi che una volta tanto si riesca davvero a far funzionare un'estradizione e allora sarà la vostra grande occasione per andare a Rio. Mi dicono che ci sono spiagge da favola. Ci sei ancora, Jack?» «Ti ascolto.» «Ventiquattr'ore.» Ci fu uno scatto e la comunicazione fu interrotta. La
signora Stephano si era chiusa a chiave in bagno. Era troppo scossa. Jack scese a farsi un caffè. Si sedette al tavolo della cucina nella penombra ad attendere il sorgere del sole. Era stanco di Benny Aricia. Era stato assunto per trovare Patrick e il denaro, non per essere tartassato in quella maniera. Conosceva le linee generali della storia di Benny Aricia con la Platt & Rockland e aveva sempre sospettato che ci fosse sotto dell'altro. Aveva tentato qualche piccolo sondaggio, ma Aricia aveva fatto capire chiaramente di non voler discutere dei fatti precedenti la scomparsa di Patrick. Per due validi motivi Stephano aveva sospettato fin dal principio che gli uffici dello studio legale fossero controllati. Da una parte Patrick non poteva sottovalutare l'importanza di raccogliere informazioni dannose sui soci e sui loro clienti, specialmente Aricia. Dall'altra doveva sapere come fare a impossessarsi del denaro dopo aver messo in scena la propria morte. Quello che tutti ignoravano, salvo forse Aricia e i titolari dello studio, era quanto pericolose fossero le informazioni raccolte da Patrick. E Stephano aveva il sospetto che il potenziale di quel materiale fosse pari a quello di una testata nucleare. Quando i soldi erano spariti e lui aveva dato inizio alle ricerche, lo studio legale aveva preferito non unirsi al consorzio. I soci avevano da perdere trenta milioni di dollari, eppure avevano preferito starsene a casa a leccarsi le ferite. Avevano accampato come scusa di non avere i fondi necessari, di essere praticamente in bolletta, in una situazione ormai fallimentare che impediva loro di partecipare. Lì per lì gli era sembrato che le loro motivazioni fossero accettabili, ma non aveva mancato di avvertire una certa riluttanza a ritrovare Patrick. Doveva esserci qualcosa sui suoi nastri. Patrick li aveva colti con le mani nel sacco e, per quanto infelice fosse diventata la loro esistenza, era possibile che la cattura di Patrick rappresentasse per loro il peggiore degli incubi. Lo stesso valeva per Aricia. Avrebbe aspettato un'ora, poi gli avrebbe dato un colpo di telefono. Alle sei e mezzo l'ufficio di Hamilton Jaynes era pieno di gente. Due agenti seduti sul divano studiavano gli ultimi rapporti giunti dai loro contatti a Rio. Uno era in piedi vicino al tavolo in attesa di aggiornare il principale sugli ultimi sviluppi del caso Aricia. Un altro era in coda con le notizie riguardanti Eva Miranda. Entrò una segretaria con uno scatolone di
pratiche. Jaynes, seduto alla scrivania, era al telefono, stanco e in maniche di camicia. Arrivò Joshua Cutter, non meno affaticato e trasandato. Aveva dormito due ore all'aeroporto di Atlanta in attesa di un volo per Washington, dove lo aveva ricevuto un agente per condurlo all'Hoover Building. Jaynes riappese immediatamente e ordinò a tutti i presenti di uscire. «Portaci del caffè, a litri» abbaiò alla segretaria. Quando tutti gli altri furono usciti, Cutter si sedette con un certo disagio davanti all'enorme scrivania. Nonostante la stanchezza, si sforzava di rimanere all'erta. Mai si era trovato nella tana del vicedirettore. «Sentiamo» ringhiò Jaynes. «Lanigan vuole trattare. Dice di avere abbastanza prove da mandar dentro Aricia, gli avvocati e un non meglio identificato senatore.» «Che genere di prove?» «Una scatola di documenti e nastri, roba che Lanigan ha accumulato prima di levare le tende.» «Tu le hai viste?» «No. McDermott mi ha detto di averle nel bagagliaio della sua macchina.» «E i soldi?» «Di quelli non abbiamo parlato. Vuole vedere lei e qualcuno del dipartimento di Giustizia per discuterne. Ho avuto l'impressione che pensi di poter comperare il proscioglimento del suo cliente.» «È una possibilità che esiste sempre quando si ruba denaro sporco. Dove vuole che ci si veda?» «Giù a Biloxi.» «Lasciami chiamare Sprawling alla Giustizia» disse Jaynes, parlando quasi tra sé mentre allungava la mano verso il ricevitore. Arrivò il caffè. Mark Birck tamburellava con la sua stilografica firmata in attesa di vedere la detenuta in parlatorio. Non erano ancora le nove, troppo presto perché un avvocato andasse a trovare un cliente, ma lui aveva un amico all'amministrazione. Aveva spiegato che era un caso d'emergenza. Il tavolo era diviso in tanti box, con un cristallo corazzato a fare da barriera da un capo all'altro. Le avrebbe parlato attraverso una piccola apertura schermata. Giocherellò con la penna per mezz'ora, poi la vide sbucare da dietro un angolo. Indossava una tuta gialla con una scritta sbiadita sul petto. La
guardia le tolse le manette e lei si massaggiò i polsi. Quando furono soli, si sedette davanti a lui. Birck le passò un biglietto da visita da una minuscola fessura. Lei lo prese e lo esaminò con molta attenzione. «Mi ha mandato Patrick» spiegò lui e lei chiuse gli occhi. «La trattano bene?» domandò l'avvocato. Lei si sporse in avanti sui gomiti per parlare dal foro schermato. «Sì. Grazie di essere venuto. Quando potrò uscire?» «Dovrà pazientare qualche giorno. I federali hanno alcune frecce al loro arco. Per cominciare, ed è il pericolo più grave, possono incriminarla per il passaporto falso. Ci sono però alcune controindicazioni, dato che lei è straniera e non ha precedenti penali. Più probabile che si limitino a espellerla dal paese, strappandole la promessa di non tornare. In ogni caso impiegheranno qualche giorno per decidere e nel frattempo lei dovrà restare qui perché non è prevista la libertà dietro cauzione.» «Capisco.» «Patrick è molto preoccupato per lei.» «Lo so. Gli riferisca che sto bene. E che anch'io sono in pensiero per lui.» «Sarà fatto» promise Birck preparando il bloc-notes. «Dunque, Patrick vuole un resoconto dettagliato della modalità della sua cattura.» Lei sorrise e parve rasserenarsi. Chiaro che Patrick desiderasse tutti i particolari. Cominciò dall'uomo con gli occhi verdi e raccontò tutta la sua brutta avventura. Benny aveva sempre riso della spiaggia di Biloxi, una strisciolina di sabbia tra una strada troppo pericolosa da attraversare a piedi e un'acqua scura e opaca in cui nessuno avrebbe osato immergersi. D'estate era meta di villeggianti a basso reddito e durante i fine settimana si popolava di studenti che giocavano a frisbee o correvano sugli acquascooter. Il moltiplicarsi delle case da gioco aveva portato nuovi turisti, che però raramente si trattenevano a lungo in spiaggia prima di tornare ai tavoli. Parcheggiò sul molo, si accese un sigaro, si tolse le scarpe e scese a camminare nella sabbia. Grazie alla presenza delle case da gioco da qualche tempo era molto più pulita che in passato ed era anche deserta. Al largo incrociavano pochi pescherecci. La telefonata di Stephano gli aveva guastato la mattinata, per non parlare del drastico cambiamento che si profilava per il resto della sua vita. Ora
che la ragazza era stata arrestata, svaniva ogni speranza di ritrovare il denaro. Era ormai impossibile obbligarla a rivelare dove fosse nascosto e dall'altra parte non la si poteva più usare per fare pressione su Lanigan. I federali potevano minacciare Patrick con un rinvio a giudizio per un reato che prevedeva la pena capitale e Patrick in cambio aveva da offrire denaro e prove. Ci sarebbe stato uno scambio e a rimetterci le penne sarebbe stato solo lui, Benny. Al primo accenno di difficoltà Bogan e quella banda di molluschi dei suoi soci si sarebbero messi a cantare. Era lui l'unico ad avere tutto da perdere senza niente da offrire in cambio e lo aveva sempre saputo. Il suo sogno era stato in fondo quello di ritrovare i soldi e far perdere le proprie tracce, proprio come Patrick. Ma era un sogno appartenuto a un'altra era. Gli restava un milione di dollari. Aveva amici all'estero e contatti in tutto il mondo. Era ora di dileguarsi, come aveva fatto Patrick. Sandy accettò un appuntamento con Parrish in procura alle dieci del mattino, per quanto fosse stato tentato di rimandarlo. Quando lasciò l'ufficio, alle otto e mezzo, tutto il personale ed entrambi i suoi soci erano intenti a fare copie e ingrandimenti delle pagine più importanti. Parrish aveva chiesto di vederlo. Sandy credeva di sapere perché. Il caso che stava preparando lo Stato contro il suo cliente era tutt'altro che solido e, ora che si era spenta l'emozione iniziale, era venuto il momento di rimboccarsi le maniche. Un pubblico ministero non affronta volentieri un dibattimento circondato da un così grande clamore con una linea d'accusa che lascia troppo spazio alle deduzioni. Parrish desiderava prendere le misure alla difesa, ma cominciò mostrando i muscoli, sottolineò che nessuna giuria sarebbe stata comprensiva con un avvocato che aveva ucciso per denaro, snocciolò le amate statistiche sulla sua alta percentuale di condanne e ricordò di non aver mai perso una causa con un imputato di omicidio di primo grado. Non per vantarsi, ma volle rammentare al legale dell'accusato che al momento erano otto i suoi condannati in attesa nel braccio della morte. Dapprincipio Sandy si limitò ad ascoltare. Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto avere un colloquio molto serio con Parrish, ma non era quello il giorno adatto. Dopo i preamboli del procuratore, chiese in quale modo l'accusa intendesse provare che l'omicidio era avvenuto nella contea di Harrison. Poi toccò il problema della causa del decesso: era stata stabilita in qualche maniera? Patrick non avrebbe certamente testimoniato dando
una mano al pubblico ministero. Poi c'era la questione dell'identità della vittima. Secondo le ricerche già svolte da Sandy, non risultava che ci fosse mai stata una condanna in un caso in cui non fosse stata preventivamente accertata l'identità della vittima. Parrish si era aspettato il contrattacco, preparandosi a risposte evasive a tutte le domande più delicate. «Il suo cliente ha considerato l'eventualità del patteggiamento?» domandò infine, come se l'implicita offerta gli costasse profonda sofferenza. «No.» «Lo considererebbe?» «No.» «Perché?» «Voi avete chiesto il gran giurì, lo avete fatto incriminare di omicidio di primo grado, avete sventolato l'accusa davanti ai mass media. Ora dovete dimostrarlo. Non avete aspettato di avere prove inconfutabili. Non se ne parla proprio.» «Potrei ottenere una condanna di omicidio preterintenzionale» ribatté Parrish contrariato. «Sono sempre vent'anni.» «Può darsi» non si scompose Sandy. «Ma il mio cliente per ora non è stato incriminato di omicidio preterintenzionale.» «Posso farlo domani stesso.» «Si accomodi. Ritiri l'accusa di omicidio di primo grado e ne presenti una di secondo. Poi ne discutiamo.» 32 L'avevano chiamata Suite Camille e occupava un terzo dell'ultimo piano del Biloxi Nugget, il casinò più nuovo, più fantasmagorico, più imponente e più frequentato fra tutti quelli in stile Las Vegas sorti di recente lungo la Costa. Gli imprenditori di Las Vegas avevano trovato divertente e astuto battezzare le suite e i saloni per i banchetti con i nomi dei più terribili uragani che avevano investito la Costa. A un cliente qualsiasi, desideroso solo di avere molto spazio, venivano richiesti 750 dollari al giorno, cioè la cifra che Sandy aveva accettato di pagare. Lo stesso appartamento veniva messo a disposizione gratuitamente ai clienti più importanti e più danarosi che venivano da fuori per spendere un capitale ai tavoli da gioco. Sandy d'altra parte aveva ben altro in mente. Il suo cliente, che si trovava a meno di tre chilometri dal casinò, aveva approvato la spesa. La Camille era costituita
da due camere da letto, cucina, studio e due salotti, un numero di locali sufficiente a permettergli di conferire contemporaneamente con diversi gruppi. Era anche attrezzata con quattro linee telefoniche, una linea per il fax e un videoregistratore. Gli assistenti di Sandy vi avevano trasferito da New Orleans il computer e tutta l'attrezzatura tecnica del caso, insieme con il primo lotto di documenti su Aricia. Il primo visitatore a mettere piede nell'ufficio provvisorio di McDermott fu J. Murray Riddleton, l'avvocato ingoiatore di rospi che si occupava della richiesta di divorzio di Trudy. Gli consegnò con tutta l'umiltà del caso una proposta di accordo sui diritti di proprietà e le visite alla bambina. Ne discussero a pranzo. I termini della resa venivano dettati da Patrick e, poiché era lui ad avere il coltello dalla parte del manico, Sandy si sentì libero di cavillare su punti e virgole. «Come prima bozza non c'è male» ripeteva mentre continuava a imbrattare il foglio di segni in inchiostro rosso. Riddleton si sottopose al maltrattamento con lo stoicismo del bravo professionista. Fece le sue rimostranze, protestò a ogni modifica, ma sapeva bene quanto il suo collega che alla fine l'accordo avrebbe rispecchiato solo ed esclusivamente le pretese di Patrick. Su tutto incombevano il test del Dna e le foto compromettenti. Il secondo visitatore fu Talbot Mims, rappresentante locale della Northern Case Mutual. Era un tipo gioviale ed estroverso che viaggiava su un elegante e attrezzatissimo pullmino trasformato in studio itinerante dalla presenza di un tavolino da lavoro, due telefoni, un fax, un cercapersone, un televisore e un videoregistratore, nonché un divano per riposare quando gli accadeva di essere reduce da giornate particolarmente faticose in tribunale. Con lui viaggiavano un associato, un assistente e una segretaria, tutti muniti di telefono cellulare. Il drappello si presentò al gran completo alla porta della Camille Suite e Sandy li accolse in jeans e offrì a tutti qualcosa da bere. Nessuno accettò. La segretaria e l'assistente trovarono subito qualcos'altro di cui occuparsi per telefono. Sandy condusse Mims e l'anonimo associato in uno dei salotti dove presero posto davanti a una vetrata da cui si godeva lo splendido panorama dell'autosilo del Nugget e dei primi pilastri d'acciaio dell'ennesima casa da gioco in costruzione. «Vengo subito al dunque» esordì Sandy. «Conosce un certo Jack Stephano?» Mims pensò in fretta. «No.» «È comprensibile. Stephano è un superinvestigatore con sede a Washin-
gton. Era stato assunto da Aricia, dalla Northern Case Mutual e dalla Monarch-Sierra perché ritrovasse Patrick.» «E allora?» «Allora guardi qui» rispose Sandy con un sorriso. Tolse da una cartelletta alcune raccapriccianti fotografie a colori e Mims le dispose in ordine sul tavolo. Erano quelle delle terribili ustioni di Patrick. «Queste sono già apparse sui giornali, no?» domandò Mims. «Alcune.» «Sì, mi pare che siano circolate quando avete denunciato l'Fbi.» «Non è stato l'Fbi a fare questi regalini al mio cliente, signor Mims.» «Ah...» Mims rialzò lo sguardo e aspettò che Sandv continuasse. «Non è stato l'Fbi a rintracciare Patrick.» «Allora perché l'avete denunciato?» «Motivi propagandistici. Lo scopo era di suscitare simpatia per il mio cliente.» «Non ha funzionato.» «Forse non su di lei, ma lei non siederà nel box della giuria, dico bene? Resta il fatto che queste ferite sono la conseguenza di violenze prolungate inflitte al mio cliente dagli uomini che lavoravano per Jack Stephano, che a sua volta lavorava per alcuni clienti, uno dei quali era la Northern Case Mutual, rispettabile società quotata in Borsa, una solida reputazione di etica aziendale e assetti azionari pari a sei miliardi di dollari.» Talbot Mims fu molto pratico. Non avrebbe potuto fare altrimenti. Con trecento pratiche aperte in ufficio e diciotto fra le più potenti compagnie assicurative per clienti, non aveva tempo per le amenità. «Due domande» disse. «Può provare quello che dice?» «Sì. E l'Fbi può confermare.» «Che cosa vuole?» «Voglio un responsabile della Northern Case Mutual in questa stanza domani, qualcuno che abbia il massimo di autorità.» «È gente molto occupata.» «Siamo tutti occupati. Non sto minacciando di trascinare la società in tribunale, ma pensi all'imbarazzo se accadesse.» «A me suona come una minaccia.» «La giudichi pure come preferisce.» «A che ora domani?» «Alle quattro del pomeriggio.» «Ci saremo» concluse Mims allungando il braccio per una stretta di ma-
no. Poi uscì a passo di marcia, precipitosamente seguito dal suo entourage. La squadra di Sandy cominciò ad arrivare verso la metà del pomeriggio. Una segretaria rispondeva al telefono che ormai squillava ogni dieci minuti. Sandy aveva diramato telefonate a Cutter, T.L. Parrish, lo sceriffo Sweeney, Mark Birck a Miami, il giudice Huskey, alcuni avvocati di Biloxi e Maurice Mast, procuratore capo per il distretto Ovest del Mississippi. Inoltre aveva chiamato personalmente la moglie due volte per informarsi sulla famiglia e aveva sentito il preside della scuola frequentata dal figlio minore. Aveva parlato per telefono due volte con Hal Ladd, ma lo conobbe solo nelle stanze della Camille Suite. Ladd rappresentava la Monarch-Sierra. Arrivò da solo, circostanza che lo sorprese perché gli avvocati delle compagnie di assicurazioni viaggiavano sempre in coppia. Quale che fosse il problema, perché venisse affrontato ci dovevano essere sempre due legali. In due ascoltavano, in due guardavano, parlavano, prendevano appunti e, soprattutto, erano in due a presentare il conto spese al cliente per lo stesso lavoro. Sandy conosceva due importanti studi legali di New Orleans che avevano già istituito squadre di tre per spillare ancora più soldi ai loro clienti. Ladd era di tutt'altra stoffa, un avvocato molto serio, vicino ai cinquant'anni, che non aveva bisogno di essere assistito. Accettò l'offerta di una bibita e occupò la stessa poltrona su cui si era seduto Mims. Sandy gli rivolse la medesima domanda. «Conosce un certo Jack Stephano?» Ladd rispose di no e Sandy gli illustrò brevemente il personaggio. Poi posò sul tavolo le foto a colori delle ustioni di Patrick e per qualche secondo ne discussero. Sandy precisò che le ferite non erano state inflitte dagli uomini dell'Fbi. Ladd lesse tra le righe. Dopo aver rappresentato per anni gli interessi di varie compagnie d'assicurazione, non si sorprendeva più nel vedere quanto ci fosse da trovare negli spazi bianchi. Ciononostante era rimasto scosso. «Presumendo che lei sia in grado di provare la responsabilità del mio cliente» commentò, «sono sicuro che preferiremmo ridurre al minimo la pubblicità.» «Siamo pronti a ritirare la denuncia contro l'Fbi e a presentarne un'altra contro il suo cliente, la Northern Case Mutual, Aricia, Stephano e chiunque altro abbia materialmente sottoposto a tortura Patrick Lanigan. È un cittadino americano che ha subito violenze fisiche perpetrate con intenzione per il volere di altri cittadini americani. È un caso che vale milioni di
dollari. Depositeremo il nostro ricorso qui, al tribunale di Biloxi.» Ladd rispose che si sarebbe messo immediatamente in contatto con la Monarch-Sìerra e avrebbe preteso che il responsabile legale della società mollasse tutti gli altri impegni per precipitarsi a Biloxi. Era furioso che il suo cliente avesse finanziato le ricerche senza informarlo. «Se questa storia è vera» dichiarò, «mi rifiuterò di rappresentarli ancora.» «Si fidi di me. È vera.» Era quasi buio quando Paulo, bendato e ammanettato, fu accompagnato fuori della casa. Nessuno gli rivolse minacce e nessuno gli puntò contro una pistola, nessuno parlò. Viaggiò da solo, per un'ora circa, seduto sul sedile posteriore di un'utilitaria. Nell'abitacolo la radio era accesa e trasmetteva musica classica. Quando il veicolo si fermò, entrambi gli sportelli anteriori si aprirono e qualcuno lo aiutò a smontare. «Vieni con me» gli mormorò una voce vicino all'orecchio. Una mano muscolosa lo prese per un braccio. Sentì scricchiolare la ghiaia sotto i piedi. Percorsero un centinaio di metri. Quando si fermarono la voce disse: «Sei su una strada a venti chilometri da Rio. A sinistra, a trecento metri, c'è una fattoria dove hanno un telefono. Va' a cercare aiuto. Sono armato. Se ti giri, sarò costretto a ucciderti». «Non mi girerò» promise Paulo. Tremava dalla testa ai piedi. «Bene. Prima ti tolgo le manette, poi la benda.» «Non mi girerò» ripeté Paulo. Gli tolsero le manette. «Ora ti tolgo anche la benda. Tu mettiti subito a camminare.» Gli strapparono la benda dagli occhi. Paulo abbassò la testa e partì al piccolo trotto. Non sentì alcun rumore alle spalle. Non pensò nemmeno lontanamente di girarsi a guardare. Dalla fattoria chiamò la polizia, poi cercò suo figlio. 33 Le stenografe del tribunale si presentarono puntuali alle otto. Si chiamavano Linda tutt'e due, una con la i e una con la y. Mostrarono le loro credenziali e seguirono Sandy al centro della suite, dove i mobili erano stati allontanati per lasciare maggiore spazio intorno al tavolo, dov'erano state aggiunte sedie a quelle preesistenti. Sandy piazzò Y in fondo alla sala con la schiena alla finestra oscurata e I dall'altra parte, in una nicchia di fianco
al bar da cui poteva avere sott'occhio tutti i protagonisti. Entrambe confessarono di sentire il bisogno disperato di un'ultima sigaretta e Sandy glielo concesse, invitandole ad accomodarsi nella camera da letto più distante. Il primo gruppo a presentarsi fu quello di Jaynes. Il vicedirettore dell'Fbi aveva un autista, un agente attempato che gli faceva anche da gorilla e fattorino; poi aveva un avvocato dell'Fbi; e aveva Cutter, accompagnato dal suo supervisore. Prelevato dalla procura generale, c'era infine anche Sprawling, un veterano dallo sguardo penetrante che parlava poco ma registrava molto. Erano tutti vestiti di scuro, in giacca e cravatta; tutti presentarono biglietti da visita che furono raccolti dall'assistente di Sandy. La segretaria di Sandy prese le ordinazioni via via che gli uomini le passavano davanti per andare a sedersi nello studio. Toccò quindi a Maurice Mast, il procuratore capo del distretto Ovest del Mississippi. Viaggiava leggero, con un unico assistente. Per ultimo arrivò T.L. Parrish, da solo, e si poté dare inizio alla riunione. Dalla comitiva si sganciarono solo l'autista di Jaynes e l'assistente di Mast, che rimasero in salotto dove trovarono un piatto di ciambelle e alcuni quotidiani. Sandy chiuse la porta, salutò allegramente tutti i presenti e li ringraziò di aver risposto al suo invito. Gli ospiti si sedettero. Nessuno sorrise, ma non per questo erano scontenti di trovarsi lì. La loro curiosità era palpabile. Sandy presentò loro le stenografe e spiegò che avrebbe personalmente conservato le loro trascrizioni considerandole estremamente riservate. Tutti sembrarono tranquillizzati. Nessuno fece domande o commenti perché nessuno era ancora sicuro di quale sarebbe stato l'argomento del confronto. Preparatosi come se dovesse presentare il caso a una giuria, Sandy aveva compilato una decina di pagine in cui esponeva il punto di vista suo e del suo cliente. Cominciò rivolgendo ai presenti i saluti di Patrick Lanigan e li informò che le ferite stavano guarendo senza complicazioni. Ricapitolò quindi le accuse di cui Patrick era chiamato a rispondere: omicidio di primo grado nei confronti dello Stato, furto e frode da parte della procura federale. Per l'omicidio rischiava la pena capitale. Per gli altri reati un totale di trent'anni di detenzione. «Le accuse federali sono gravi» commentò, «ma sono nulla in confronto all'accusa di omicidio volontario. Francamente e con tutto il dovuto rispetto vorremmo sgombrare il campo dalle incriminazioni della procura federale per poterci concentrare su quella di omicidio.» «Ha un piano per sbarazzarsi di noi?» domandò Jaynes. «Abbiamo un'offerta.»
«Che comprende la refurtiva?» «Indubbiamente.» «Noi non possiamo vantare pretese sul denaro. È stato rubato al governo.» «È qui che vi sbagliate.» «Credete davvero di potervi comperare il proscioglimento dalle accuse?» sbottò Sprawling, che da un po' friggeva per il desiderio di dire la sua. «Ci arriveremo a suo tempo» rispose Sandy, risoluto a seguire il suo copione ignorando le escandescenze della giuria. «Mi sia permesso presentare il mio caso, dopodiché discuteremo delle possibili soluzioni. Ora, presumo che sappiate tutti della denuncia presentata nel 1991 dal signor Aricia contro il suo ex datore di lavoro in base alla legge sul millantato credito. Fu redatta e inoltrata dallo studio legale di Bogan che ha sede qui a Biloxi, uno studio che all'epoca aveva tra i titolari un socio di recente nomina che si chiama Patrick Lanigan. La denuncia era fraudolenta. Il mio cliente lo scoprì e venne inoltre a sapere che i suoi soci avevano intenzione di escluderlo dallo studio dopo che fosse stato raggiunto un accordo con il dipartimento della Giustizia, ma prima che venisse versato il compenso previsto dalla legge per chi aiuta a sventare una frode. Per molti mesi il mio cliente ha raccolto segretamente prove che dimostrano in maniera inequivocabile che il signor Aricia e i suoi avvocati hanno cospirato per truffare novanta milioni di dollari al governo. Le prove sono costituite da documenti e conversazioni registrate.» «Dove sono?» volle sapere Jaynes. «A disposizione del mio cliente.» «Possiamo prendercele, lo sa anche lei. Possiamo ottenere un mandato di perquisizione e averle in qualsiasi momento.» «E se il mio cliente non onorasse il vostro mandato? Se distruggesse le prove o le trasferisse semplicemente in qualche altro nascondiglio? Allora che cosa fareste? Lo schiaffereste in prigione? Gli appioppereste qualche altra incriminazione? Lasci che le dica in tutta sincerità che non ha paura né di voi né dei vostri mandati di perquisizione.» «E lei allora?» contrattaccò Jaynes. «Se le prove sono anche in suo possesso, possiamo procurarci un mandato per lei.» «Niente da fare. Tutto quello che mi dà il mio cliente è confidenziale e protetto dal segreto d'ufficio. In nessuna circostanza e per nessun motivo consegnerò i documenti finché non sarà il mio cliente a impormelo.» «E se ci procurassimo un ordine del tribunale?» chiese Sprawling.
«Prima lo ignorerei, poi farei appello. Avete le mani legate a questo proposito, signori, meglio rinunciare.» E a quel punto tutti parvero rassegnarsi, come del resto erano obbligati a fare. «Quante persone sono coinvolte?» domandò Jaynes. «I quattro soci dello studio legale e il signor Aricia.» Ci fu una pausa pesante durante la quale tutti aspettarono che Sandy facesse il nome del senatore. L'avvocato consultò invece i suoi appunti e rialzò gli occhi. «I termini dell'accordo che abbiamo da proporvi sono semplici. Noi vi consegniamo i documenti e i nastri. Patrick restituirà i soldi. Fino all'ultimo centesimo. In cambio verranno ritirate le accuse federali e ci sarà concesso di concentrarci su quelle che gli hanno mosso le autorità statali. Il fisco accetta di lasciarlo in pace. Il suo avvocato brasiliano, Eva Miranda, viene rilasciato seduta stante.» Elencò le sue condizioni senza esitazioni perché tutto era già meticolosamente predisposto. La sua giuria lo ascoltò in silenzio. Sprawling prese appunti. Jaynes contemplò il pavimento con un'espressione neutra sul viso. Gli altri tennero per sé i loro numerosi interrogativi. «E dev'essere fatto tutto entro oggi» aggiunse Sandy. «Abbiamo fretta.» «Perché?» volle sapere Jaynes. «Perché la signorina Miranda è in cella. Perché voi siete tutti qui e avete l'autorità per prendere le decisioni del caso. Perché il mio cliente ha posto come termine ultimativo le diciassette di oggi, dopodiché terrà per sé il denaro, distruggerà le prove e sconterà la sua pena detentiva nella speranza di riavere un giorno la libertà.» Avendo a che fare con Patrick, non potevano escludere nulla. Finora era riuscito a trascorrere la prigionia in una stanza privata, tutt'altro che scomoda, e con un nutrito stuolo di inservienti pronti ad accontentare tutti i suoi capricci. «Parliamo del senatore» propose Sprawling. «Buona idea» ribatté Sandy. Aprì la porta del salotto e disse qualcosa a un assistente, che trasportò da una stanza all'altra un tavolino a rotelle con un registratore munito di altoparlanti. Sandy chiuse la porta e guardò di nuovo i suoi appunti. «La data è quella del 14 gennaio 1992» annunciò. «Siamo a tre settimane dalla scomparsa di Patrick. La conversazione ha avuto luogo presso la sede dello studio legale, al pianterreno, in una stanzetta chiamata Buco, una specie di sgabuzzino che viene utilizzato sporadicamente per brevi riunioni. La prima voce che udirete è quella di Charlie Bogan. Poi parleranno Benny Aricia e Doug Vitrano. Aricia si era presen-
tato allo studio all'improvviso e, come sentirete, con intenzioni tutt'altro che amichevoli.» Si avvicinò al tavolo ed esaminò i tasti. La piastra di registrazione era nuova, corredata da due casse di buona qualità. «Vi ricordo ancora una volta» disse prima di cominciare, «che udirete in ordine le voci di Bogan, Aricia e Vitrano.» Schiacciò un tasto. Passarono dieci secondi di silenzio totale, poi cominciò la conversazione. Le voci erano tutte alterate. BOGAN: Si era stabilito che il nostro onorario fosse un terzo della somma in gioco. È la percentuale standard. Hai firmato il contratto. È da un anno e mezzo che sai quanto ti saremmo costati. ARICIA: Non meritate trenta milioni di dollari. VITRANO: E tu non ne meriti sessanta. ARICIA: Voglio sapere come verranno divisi i soldi. BOGAN: Due terzi e un terzo. Sessanta e trenta. ARICIA: No, no. Parlo dei trenta milioni che arriveranno qui. Chi prende e quanto. VITRANO: Non sono affari tuoi. ARICIA: Eccome se lo sono. Sono i soldi che escono dalle mie tasche per pagare il vostro onorario. Ho diritto di sapere a chi vanno. BOGAN: Non credo proprio. ARICIA: Quanto si becca il senatore? BOGAN: Non ti riguarda. ARICIA (alzando la voce): Mi riguarda sì! Ha passato un anno intero a lavorarsi quelli della Marina, del Pentagono e del dipartimento di Giustizia. Ha impiegato più tempo a lavorare al mio caso che per i suoi elettori. VITRANO: Non c'è bisogno che ti metta a urlare, d'accordo? ARICIA: Allora, quanto? BOGAN: Avrà la sua parte, Benny. Perché ti preme tanto? È tutto com'era stato stabilito. VITRANO: Mi pareva che tu avessi scelto noi proprio per gli agganci che abbiamo a Washington. ARJCIA: Cinque milioni? Dieci milioni? Quanto gli spetta? BOGAN: Non lo saprai mai.
ARICIA: Oh, sì che lo saprò. Se non me lo dite voi, lo chiamo io, quel figlio di puttana, e lo chiedo direttamente a lui. BOGAN: Accomodati. VITRANO: Che cosa ti ha preso, Benny? Stai per intascare sessanta milioni di dollari e tutt'a un tratto diventi avido. ARICIA: Sentì da che pulpito vengo accusato di avidità! Quando ho messo piede in questi uffici voialtri lavoravate per duecento dollari l'ora. Adesso siete qui a cercare di giustificarmi un onorario di trenta milioni. Avete già cominciato a ristrutturare lo studio, avete ordinato macchine nuove, poi toccherà a barche e aerei e tutti gli altri giocattoli di quelli che sono ricchi davvero. Tutto grazie ai miei soldi. BOGAN: Soldi tuoi? Non è che ti sfugge qualcosa, Benny? Non scherziamo. La tua denuncia è più falsa di un biglietto da tre dollari. ARICIA: Sì, ma ha funzionato. Sono stato io a preparare la trappola per la Platt & Rockland, non voi. BOGAN: Allora perché sei venuto qui? ARICIA: Me lo chiedo anch'io. VITRANO: Non hai buona memoria, Benny. Sei venuto qui perché ti serviva gente con le mani nella pasta giusta. Avevi bisogno di aiuto. Noi abbiamo preparato la denuncia, noi ci abbiamo lavorato per quattromila ore e sempre noi abbiamo mosso le pedine giuste a Washington. Tutte cose di cui tu eri perfettamente al corrente, voglio aggiungere. ARICIA: Tagliamo fuori il senatore. Io dico che senza di lui risparmio dieci milioni di dollari. Ad altri dieci rinunciate voi e alla fine ve ne restano dieci tondi tondi. Secondo me è molto più giusto così. VITRANO (ridendo): Ma sai che i tuoi conticini sono proprio belli, Benny? A te ottanta e a noi dieci. ARICIA: Già, e tanti saluti ai politici. BOGAN: Niente da fare, Benny. Ti stai dimenticando un particolare molto importante. Se non fosse per noi e i politici, tu non prenderesti un centesimo. Sandy fermò il nastro, ma per un intero minuto fu come se nel locale riecheggiassero le voci appena udite. Ciascuno dei presenti si era trovato
qualcosa da guardare, pavimento, soffitto, pareti, ciascuno era intento ad assaporare e memorizzare i punti salienti della conversazione. «Signori, questo è solo un primo assaggio» precisò Sandy con un sorriso maligno. «Quando avremo il resto?» chiese Jaynes. «Anche nelle prossime ore, se volete.» «Il suo cliente è disposto a testimoniare davanti a un gran giurì federale?» domandò Sprawling. «Sì, ma non prometterà di testimoniare in un processo.» «Perché?» «Non è tenuto a spiegarlo. Questa è la sua posizione e basta.» Sandy spinse il tavolo verso la porta, bussò e lo riconsegnò al suo assistente. Poi si rivolse di nuovo agli invitati. «Credo che dobbiate parlare tra di voi. Io mi assento. Fate pure con comodo.» «Non parleremo qui dentro» esclamò Jaynes balzando in piedi. Quella storia era infarcita di microspie e, visto di che cos'era stato capace Patrick, non esisteva un locale al mondo dove sentirsi veramente sicuri. «Come preferite» rispose Sandy. Tutti si stavano alzando. Lasciarono lo studio, attraversarono il salotto e uscirono in corridoio. Lynda e Linda corsero nella camera da letto in fondo a fumare una sigaretta. Sandy si versò del caffè e si dispose all'attesa. Il gruppo si riunì due piani più in basso in una camera che, per quanto spaziosa, sembrò subito troppo piccola. Mentre tutti si sbarazzavano delle giacche che finirono accatastate sui letti gemelli, Jaynes ordinò all'autista di aspettare in corridoio con l'assistente di Mast. Le questioni che avevano da trattare erano troppo delicate per le loro rozze orecchie. Quello che aveva da rimetterci di più sarebbe stato Maurice Mast. Cadendo le incriminazioni federali, gli sarebbe stata tolta la possibilità di dirigere un processo di vasta risonanza, pertanto ritenne doveroso che fosse almeno registrata la sua contrarietà prima che gli altri esponessero i loro punti di vista. «Faremo la figura dei babbei se gli permetteremo di uscirne così a buon mercato» affermò, rivolgendosi soprattutto a Sprawling, che tentava invano di trovare una posizione comoda su un'esile seggiola di legno. La carica di Sprawling era seconda solo a quella del procuratore generale, perciò il suo grado era di parecchi livelli più alto di quello di Mast. Avrebbe ascoltato educatamente le opinioni dei subalterni, ma alla fine la
decisione sarebbe stata presa da lui e Jaynes e nessun altro. Hamilton Jaynes si rivolse a Parrish. «Fino a che punto è convinto di poter far condannare Lanigan per omicidio?» Parrish era un uomo prudente e sapeva che qualunque promessa fatta a quella gente sarebbe stata ricordata a lungo. «Un omicidio di primo grado potrebbe presentare qualche difficoltà. Come omicidio preterintenzionale siamo in una botte di ferro.» «Che pena è prevista?» «Vent'anni.» «Quanti ne sconterebbe?» «Cinque, più o meno.» Per strano che potesse sembrare, l'informazione parve soddisfare Jaynes, un burocrate persuaso che i rei accertati dovessero finire in galera. «Tu sei d'accordo, Cutter?» chiese passeggiando avanti e indietro lungo uno dei letti. «Non abbiamo molte prove» ammise Cutter. «Non siamo in grado di dimostrare chi, come, che cosa, quando, o dove. Pensiamo di sapere perché, ma un processo per omicidio di primo grado potrebbe essere un incubo. Molto più facile il preterintenzionale.» «Che cosa possiamo aspettarci dal giudice?» chiese Jaynes a Parrish. «Gli darà il massimo della pena?» «Se viene ritenuto colpevole di omicidio preterintenzionale mi aspetto che il giudice gli dia vent'anni. La libertà vigilata è di competenza delle autorità carcerarie.» «Possiamo quindi presumere che Lanigan sconterà i prossimi cinque anni in una prigione?» chiese Jaynes guardando gli altri del gruppo. «Sì, senz'altro» confermò Parrish, ma restando un po' sulla difensiva. «E non è che abbiamo intenzione di tirarci indietro. Metteremo tutto il nostro impegno per dimostrare che Lanigan ha ucciso un'altra persona per poter rubare il denaro. La pena capitale è molto improbabile, ma, se viene stabilito un certo grado di dolo, potrebbero condannarlo all'ergastolo.» «Fino a che punto ci interessa se sconterà una pena detentiva nella prigione di Parchman o in un carcere federale?» intervenne Jaynes. Era evidente che per lui era del tutto indifferente. «Sono sicuro che Patrick ha un'opinione in proposito» replicò Parrish, suscitando qualche sogghigno. Le condizioni dettate da Sandy lo soddisfacevano abbastanza, perché, accettandole, Mast e l'Fbi avrebbero dovuto abbandonare il caso lasciando
lui solo a svolgere le funzioni di pubblico accusatore. Approfittando di una pausa nel dibattito, volle dare un'ulteriore spintarella a Mast. «Io non ho dubbi che Patrick sconterà una pena a Parchman» dichiarò. Mast non era disposto a ritirarsi in buon ordine. Scosse la testa e aggrottò le sopracciglia. «Non so» brontolò. «Credo che si stia per fare una brutta figura. Non puoi svaligiare una banca, farti acciuffare e offrire il denaro in cambio della libertà. La giustizia non è in vendita.» «La situazione è un po' più complessa» obiettò Sprawling. «Tutt'a un tratto abbiamo pesci più grossi da mettere nel carniere e Lanigan è la nostra esca. I soldi che ha rubato erano contaminati. Ci è data la possibilità di recuperarli e restituirli ai contribuenti.» Mast non avrebbe mai ingaggiato un duello dialettico con Sprawling. «Con tutto il rispetto» interloquì Jaynes rivolgendosi a Parrish, «posso chiederle di allontanarsi un momento? Noi ragazzi federali avremmo una cosa da discutere.» «Nessun problema» rispose Parrish, uscendo subito in corridoio. Basta con quelle chiacchiere da legulei, Sprawling riteneva che fosse giunto il momento di chiudere. «Signori, è molto semplice. Ci sono persone molto importanti alla Casa Bianca che seguono con estrema attenzione gli sviluppi del caso. Il senatore Nye non è mai stato tra gli amici del presidente e, in tutta franchezza, un bello scandalo quaggiù verrebbe salutato con piacere dall'amministrazione. Il mandato di Nye scade fra due anni, poi ripresenterà la sua candidatura. Queste accuse gli metterebbero i bastoni fra le ruote. E, se risultassero fondate, per lui sarebbe la fine.» «Noi svolgiamo le indagini» propose Jaynes a Mast. «A voi il caso da istruire in tribunale.» A un tratto Mast capì che aveva da trarre solo benefici da quella riunione. La decisione di accordarsi con Patrick era stata presa da persone con un'autorità ben superiore a quella di Sprawling e Jaynes. Ora sembrava che stessero cercando di accontentare anche lui, che in fondo era il procuratore capo del distretto. Mast si rianimò appena fu ventilata l'ipotesi di incriminare il senatore, un evento da cui si poteva trarre enorme prestigio. Già si vedeva in un'aula affollata a far ascoltare a giurati e spettatori attentissimi i nastri registrati da Patrick. «Dunque ci stiamo?» domandò stringendosi nelle spalle come se non ne fosse minimamente toccato. «Sì» rispose Sprawling. «Non c'è da ragionarci troppo. Noi facciamo una bella figura perché recuperiamo i soldi. Patrick se ne sta in galera per
un po'. Gente con la coscienza molto più sporca della sua viene assicurata alla giustizia.» «E facciamo quello che vuole da noi il presidente» aggiunse Mast. Nessuno ricambiò il suo sorriso. «Io non l'ho detto» replicò Sprawling. «Non ho parlato di questo con il presidente. I miei superiori hanno parlato con il suo staff. Più di così non so.» Jaynes recuperò Parrish dal corridoio e per un'ora esaminarono tutti insieme i vari aspetti dell'offerta di Patrick. La ragazza poteva essere rilasciata entro un'ora. Patrick avrebbe dovuto versare anche gli interessi maturati sulla somma da lui sottratta. Quanto alla denuncia inoltrata contro l'Fbi, c'era ancora qualcosa da discutere con Sandy. A Miami Mark Birck si recò di persona a comunicare a Eva la bella notizia della liberazione del padre. Non gli avevano torto un capello. Anzi, era stato trattato con i guanti. Aggiunse che con un po' di fortuna sarebbe stata rilasciata anche lei di lì a uno o due giorni. 34 Con volti solenni ed enigmatici, rientrarono nella Camille Suite e ripresero i posti che avevano occupato in precedenza. Molti di loro avevano abbandonato la giacca nell'altra stanza, si erano rimboccati le maniche e avevano allentato la cravatta, come accingendosi ad affrontare ore di faticoso lavoro. Secondo l'orologio di Sandy, erano rimasti in riunione per quasi un'ora e mezzo. Il portavoce del gruppo era diventato Sprawling. «Riguardo al denaro» cominciò e Sandy intuì immediatamente che ce l'aveva fatta. Si trattava solo di perfezionare i dettagli. «Riguardo al denaro, quanto è disposto a restituire il suo cliente?» «Tutto.» «Tutto quanto sarebbe?» «Novanta milioni.» «E gli interessi?» «A chi stanno a cuore gli interessi?» «A noi.» «Perché?» «Perché è giusto che così sia.» «Giusto per chi?»
«Mah, per i contribuenti.» Per poco Sandy non gli rise in faccia. «Andiamo, voialtri lavorate per il governo federale. Da quando in qua vi preoccupate di difendere i contribuenti?» «È procedura ordinaria nei casi di furto e appropriazione indebita» intervenne Maurice Mast. «Quanto?» volle sapere Sandy. «Che tasso avete in mente?» «Gli interessi legali sono del nove per cento» rispose Sprawling. «Credo che ci potremmo accontentare.» «Ah sì? E quando si scopre che io ho pagato troppo e il fisco mi rimborsa, qual è il tasso di interesse che mi viene riconosciuto?» Nessuno seppe rispondere. «Il sei per cento» dichiarò Sandy. «Uno schifosissimo sei per cento, ecco che cosa paga il governo.» Naturalmente era tutto preparato. Sandy aveva previsto l'andamento della trattativa e aveva in serbo la risposta giusta per qualsiasi loro domanda. Vederli annaspare per stargli dietro gli dava un'enorme soddisfazione. «Vuole dire che offrite il sei per cento?» chiese Sprawling, investigando ora con cautela la posizione assunta dalla controparte. «Certo che no. Noi abbiamo il denaro e siamo noi a stabilire quanto paghiamo. È lo stesso principio usato dal governo. E secondo noi il denaro non farà altro che scomparire nel buco nero del Pentagono.» «Questi sono aspetti che noi non possiamo controllare» ribatté Jaynes. Era già stanco e poco propenso a subire una lezione di contabilità. «Vi spiego come la vediamo noi» disse Sandy. «I soldi sarebbero andati persi fino all'ultimo centesimo, versati a una banda di delinquenti con tanti saluti e complimenti da parte dei beneficiari. Il mio cliente ha impedito che avvenisse, ha trattenuto il denaro e adesso è disposto a restituirlo.» «Dunque avrebbe diritto a una ricompensa?» protestò Jaynes. «No. Ma lasciamo da parte gli interessi.» «Dovremo farlo digerire a certa gente di Washington che ha lo stomaco un po' delicato» intervenne Sprawling, non in tono di supplica, ma in cerca di collaborazione. «Ci dia qualcosa su cui lavorare.» «La metà del tasso applicato dal fisco e non un centesimo di più.» «Girerò l'offerta al procuratore generale» rispose Sprawling con un'espressione da giocatore di poker. «Spero solo che sia di buonumore.» «Gli porga i miei ossequi» disse Sandy. Jaynes rialzò gli occhi dai suoi appunti. «Tre per cento, giusto?» «Giusto. Dal 26 marzo 1992 al 10 novembre 1996. Il totale ammonta a
centotredici milioni di dollari, più un po' di spiccioli che ignoreremo. Diciamo centotredici milioni tondi.» La cifra aveva un bel suono, soprattutto per i rappresentanti del governo. Ciascuno la trascrisse sul proprio taccuino. Era una somma favolosa. Chi avrebbe avuto da ridire su un accordo che riportava tanto denaro nelle mani dei contribuenti? La prima deduzione veniva da sé: Patrick aveva investito bene i novanta milioni iniziali. I collaboratori di Sprawling avevano fatto qualche conto. Se Patrick aveva investito a una media dell'otto per cento all'anno, il capitale ammontava ormai a centotrentun milioni. Se era riuscito a spuntare il dieci per cento, aveva per le mani centoquarantaquattro milioni. Esentasse, naturalmente. Poiché ne aveva speso solo una piccolissima parte, ne sarebbe uscito piuttosto bene. «Resta in sospeso la questione della denuncia presentata per conto del signor Lanigan» riprese Sprawling. «Ritireremo la denuncia contro l'Fbi, ma avrò bisogno di un piccolo favore dal signor Jaynes. Ne discuteremo più tardi. È poca cosa.» «Va bene, procediamo. Voglio sapere quando il suo cliente è disposto a testimoniare davanti al gran giurì.» «Quando lo chiederete voi. Fisicamente, è in grado di farlo anche subito.» «Intendiamo muoverci con una certa rapidità.» «Conviene anche al mio cliente.» Sprawling spuntava via via la lista che aveva redatto. «La riservatezza è un elemento fondamentale. Niente organi d'informazione. Questo accordo sarà oggetto di molte critiche.» «Noi non apriremo bocca» promise Sandy. «Quando volete che sia rilasciata la signorina Miranda?» «Domani. E vogliamo che sia scortata dalla prigione di Miami al terminal delle linee private. Le dev'essere garantita la protezione dell'Fbi finché non si sarà imbarcata su un velivolo.» Jaynes alzò le spalle come se non capisse. «Nessun problema» borbottò. «Nient'altro?» chiese Sandy, fregandosi le mani come se il bello dovesse ancora cominciare. «Da parte del governo no» gli rispose Sprawling. «Ottimo. Allora sentite che cosa ho da proporvi» li invitò Sandy, come se avessero libertà di scelta. «Ho qui due segretarie che mi hanno preparato una prima bozza di accordo e il testo di un ordine di proscioglimento. In
pochi minuti dovremmo poter mettere a punto gli ultimi ritocchi, poi voi potrete firmare. Io mi precipito dal mio cliente e con un po' di fortuna in un paio d'ore avremo chiuso la questione. Signor Mast, le consiglio di contattare il giudice federale perché predisponga il necessario per una conferenza telefonica da tenersi il più presto possibile. Gli invieremo via fax l'ordine di proscioglimento.» «Quando avremo i documenti e i nastri?» chiese Jaynes. «Se tutto viene firmato e approvato nelle prossime ore, avrete il materiale per le cinque del pomeriggio.» «Mi serve un telefono» dichiarò Sprawling. Lo stesso pretesero Mast e Jaynes. Ciascuno corse ad accaparrarsene uno. Sandy rilesse la bozza dell'accordo. I normali detenuti avevano diritto a un'ora d'aria tutti i giorni. Era la fine di ottobre, una giornata fresca e nuvolosa, e Patrick decise di utilizzare la licenza che gli concedeva il regolamento. Le sue guardie in corridoio gliela negarono. Dissero che non erano state autorizzate a lasciarlo uscire. Patrick chiamò Karl Huskey e ottenne subito il permesso. Invitò inoltre il giudice a fermarsi da Rosetti in Division Street vicino al Point e a fargli compagnia per un paio di specialità a base di polpa di granchio da consumare all'aperto. Karl accettò con gioia. Mangiarono su una panchina non lontano da una fontana e un piccolo acero dall'aria mogia. Erano circondati dalle varie ali dell'ospedale. Karl aveva acquistato sfilatini alla polpa di granchio anche per gli aiutanti dello sceriffo, che li stavano consumando a breve distanza, ma non tanto vicini da udire la loro conversazione. Karl non sapeva nulla della riunione in corso alla casa da gioco e Patrick non gliene parlò. Sapeva che nel gruppo c'era anche Parrish, che non avrebbe perso tempo a informare il giudice. «Che cosa dice la gente di me?» chiese dopo che ebbe finito il terzo sandwich. «I pettegolezzi sono finiti, le acque si sono calmate. E i tuoi amici sono ancora tuoi amici.» «A qualcuno ho risposto. Ti andrebbe di consegnare tu le mie lettere?» «Contaci.» «Grazie.» «Ho sentito che hanno preso la tua amica a Miami.» «Già, ma presto sarà fuori. Un piccolo contrattempo per via del passa-
porto.» Huskey staccò un grosso boccone di sandwich e masticò in silenzio. Cominciava ad abituarsi alle lunghe pause che intervallavano le loro conversazioni. A differenza dell'amico, a lui capitava di non sapere che cosa dire. «L'aria fresca è un toccasana» commentò finalmente Patrick. «Ti ringrazio.» «È un tuo diritto costituzionale.» «Sei mai stato in Brasile?» «No.» «Dovresti andarci.» «Con il tuo sistema o con tutta la famiglia?» «No, no, dico a fare una gita.» «Per vedere le spiagge?» «Lascia perdere le spiagge e lascia perdere le grandi città. Devi andare nel cuore della campagna, nei grandi spazi aperti dove il cielo è limpido e blu, l'aria è leggera, i paesaggi stupendi, la gente socievole e senza complicazioni. Quella è casa mia, Karl. Non vedo l'ora di tornarci.» «Può darsi che ti ci voglia un po'.» «Sarà, ma è una prospettiva che mi renderà sopportabile l'attesa. Io non sono più Patrick, Karl. Patrick è morto. Patrick era un uomo in trappola, un infelice. Era grasso e depresso e non posso che essere contento che non ci sia più. Io adesso sono Danilo Silva, una persona molto più felice che conduce una vita tranquilla in un altro paese. E Danilo può aspettare.» È anche un uomo che può contare su una bella donna e un sacco di soldi, avrebbe voluto ricordargli Karl, ma preferì soprassedere. «Come farà a tornare in Brasile, il nostro Danilo?» chiese. «Ci sto lavorando.» «Senti, Patrick... Scusa, io posso continuare a chiamarti Patrick e non Danilo?» «Senz'altro.» «Credo che per me sia venuto il momento di farmi da parte e passare il caso al giudice Trussel. Presto saranno presentate le prime mozioni e sarà necessario prendere qualche decisione che ti riguarda. Io ho fatto tutto quello che potevo per aiutarti.» «Stanno cominciando a farti pressione?» «Un po', ma niente di traumatico. Però non voglio danneggiarti e se continuo a occuparmi del tuo caso qualcuno potrebbe aversene a male. Tutti
sanno che siamo amici. Diamine, mi avevi persino indicato tra quelli che dovevano trasportare la tua bara.» «E ti ho mai ringraziato per questo?» «No. Ma al momento eri morto, perciò non te ne serbo rancore. L'ho fatto con piacere.» «Ne sono certo.» «Comunque ho già parlato con Trussel. È pronto a rilevarmi. Gli ho anche parlato delle tue brutte ustioni e gli ho spiegato quant'è importante che tu resti qui il più a lungo possibile. Ha capito.» «Grazie.» «Ma bisogna che tu guardi in faccia la realtà. Prima o poi ti metteranno dentro e può darsi che tu ci debba restare per un bel pezzo.» «Tu credi che io abbia ucciso quel ragazzo, Karl?» Karl lasciò cadere gli avanzi del suo sandwich in un sacchetto e bevve un sorso di tè freddo. Non era un argomento sul quale si sentisse incline a mentire. «Non è una bella situazione. C'erano dei resti umani in quell'automobile, dunque qualcuno è rimasto ucciso. E l'Fbi ha svolto un'esauriente analisi computerizzata di tutte le persone scomparse il 9 febbraio 1992 o poco prima di quella data. Pepper è l'unica persona nel raggio di trecento miglia di cui non si sia più avuta notizia.» «Ma questo non basta per una condanna.» «Tu non mi hai chiesto della condanna.» «Hai ragione. Allora, tu credi che io lo abbia ucciso?» «Io non so che cosa credere, Patrick. Faccio il giudice da dodici anni e ho visto gente confessare davanti ai miei occhi crimini che loro stessi non riuscivano a credere di aver commesso. In circostanze particolari, un essere umano è capace di tutto.» «Dunque tu lo credi?» «Non voglio credere. E non sono sicuro di quello che penso.» «Ma secondo te sarei in grado di uccidere qualcuno?» «No. Ma secondo me non saresti in grado nemmeno di mettere in scena una morte fasulla e fregarti novanta milioni di dollari. Non si può dire che tu non mi abbia sorpreso ripetutamente in questi ultimi tempi.» Un'altra lunga pausa. Karl guardò l'ora e si preparò ad andarsene. Patrick lo lasciò solo sulla panchina e passeggiò piano per il cortile. La colazione servita alla Camille Suite a base di insipidi sandwich su vassoi di plastica fu interrotta da una chiamata di risposta da parte del giu-
dice federale a cui quattro anni prima era stato assegnato il caso di Patrick. Il giudice aveva solo un minuto perché era nel pieno di un dibattimento al tribunale di Jackson. Mast gli illustrò la composizione del gruppo che si era riunito nella suite e il giudice acconsentì a essere messo in vivavoce. Mast gli riferì allora a grandi linee i termini dell'accordo proposto. Il giudice volle sentire la versione di Sandy e fu accontentato. Rivolse qualche domanda a Sprawling e quella che doveva essere una breve conferenza telefonica cominciò ad andare per le lunghe. A un certo punto Sprawling uscì per conferire in privato con il giudice. In quell'occasione gli comunicò il vivo desiderio delle alte sfere di Washington affinché si giungesse a un accordo con il signor Lanigan che permettesse alle autorità di mettere le mani sui pesci grossi. Il giudice si consultò in privato anche con Parrish, il quale gli rinnovò le sue rassicurazioni che Lanigan non l'avrebbe fatta franca, che avrebbe comunque dovuto rispondere delle accuse più gravi e che, con tutta probabilità, ma senza effettive garanzie, avrebbe trascorso molti anni in prigione. Il giudice era restio ad agire in maniera così frettolosa, ma, date le pressioni delle persone più strettamente coinvolte nel caso e l'autorevolezza dei funzionari scesi a Biloxi, accettò infine di firmare l'ordine con cui Patrick veniva prosciolto da tutte le incriminazioni a livello federale. A stretto giro di fax, ricevette l'ordine, lo firmò e lo rispedì al mittente. Approfittando dell'intervallo per la colazione, Sandy si assentò per una puntata in ospedale. Trovò Patrick nella sua stanza a scrivere una lettera alla madre. «Ce l'abbiamo fatta!» annunciò gettando il testo dell'accordo sul tavolino. «Abbiamo ottenuto tutto quello che volevamo.» «Sono stato scagionato?» «Sì. Il giudice ha appena firmato il proscioglimento.» «Quanto hanno voluto?» «I novanta più il tre per cento.» Patrick chiuse gli occhi e strinse i pugni. Il capitale iniziale aveva subito uno scrollone tremendo, ma gli rimaneva ancora abbastanza per trovare un giorno un luogo sicuro dove stabilirsi con Eva e avere una casa piena di bambini. Una casa grande. E molti bambini. Studiarono insieme il testo dell'accordo. Patrick lo firmò e Sandy tornò di corsa alla casa da gioco. Erano le due del pomeriggio e, quando ebbe inizio la seconda riunione, la folla si era alquanto diradata. Sandy accolse Talbot Mims e il suo clien-
te, un certo Shenault, rappresentante responsabile della Northern Case Mutual, che si presentò accompagnato da due avvocati alle dipendenze dell'azienda, dei quali Sandy non registrò il nome. Per buona misura Mims aveva portato con sé anche uno dei suoi soci e un associato, anche questi senza nome. Sandy intascò i vari biglietti da visita e scortò gli ospiti nello stesso salotto in cui aveva avuto luogo la riunione precedente. Le stenografe presero posizione. Jaynes e Sprawling erano nel locale accanto e stavano parlando al telefono con Washington. Il resto del gruppo era sceso nelle sale da gioco per un'ora di svago con il divieto di bere alcolici. La delegazione della Monarch-Sierra era meno numerosa: Hal Ladd, uno dei suoi associati e Cohen, un ometto azzimato che era il rappresentante legale dell'azienda. Dopo un giro di presentazioni formali in un'atmosfera un po' tesa, tutti presero posto per ascoltare Sandy, il quale cominciò distribuendo a tutti una cartelletta e invitandoli a esaminarne il contenuto. In ciascuna c'era una copia della denuncia inoltrata da Patrick contro l'Fbi per le sevizie subite e in ciascuna c'erano alcune fotografie a colori delle ustioni. I rispettivi avvocati avevano già informato i rappresentanti delle compagnie di assicurazione di che cosa si trattava, perciò nessuno ebbe a sorprendersi. Sandy ricapitolò le sue dichiarazioni del giorno prima, quando aveva affermato che il suo cliente non era stato torturato dall'Fbi per il semplice motivo che non era stato l'Fbi a trovarlo. A rintracciarlo era stato Stephano e Stephano lavorava per tre clienti diversi: Benny Aricia, la Northern Case Mutual e la Monarch-Sierra. Tutti e tre rischiavano di essere trascinati in tribunale da Patrick per rispondere di danni morali e fisici risarcibili con una cifra da capogiro. «Lei come intende dimostrare le responsabilità di Stephano?» s'informò Talbot Mims. «Solo un secondo» rispose Sandy. Aprì la porta di comunicazione con lo studio e chiese a Jaynes se aveva un minuto per lui. Jaynes entrò e si presentò al gruppo. Con molto piacere descrisse nei particolari i risultati dell'interrogatorio a cui era stato sottoposto Stephano sulle ricerche di Patrick; il finanziamento del consorzio, le ricompense, le mance, la caccia in Brasile, l'intervento di chirurgia plastica, i ragazzi della Pluto, la cattura e la tortura. Tutto quanto. E tutto fatto con soldi messi a disposizione da Aricia, dalla Monarch-Sierra e dalla Northern Case Mutual. E tutto fatto solo a proprio, esclusivo vantaggio. Fu un'esibizione straordinaria, della quale Jaynes si compiacque immen-
samente. «Nessuna domanda per il signor Jaynes?» chiese gongolante Sandy quando il resoconto fu terminato. Non ce n'erano. Nelle diciotto ore trascorse, né Shenault né Cohen della Monarch-Sierra erano stati capaci di stabilire chi nelle rispettive aziende avesse autorizzato l'assunzione di Jack Stephano. Era improbabile che se ne venisse mai a capo, ora che tutte le tracce erano state cancellate. Erano entrambe società di antica data, forti di un gran numero di azionisti e costantemente impegnate in costose campagne promozionali. Quella era una grana di cui non volevano nemmeno sentir parlare. «Grazie, signor Jaynes» disse Sandy. «Io sono qui di fianco se ha di nuovo bisogno di me» rispose Jaynes, come se non chiedesse di meglio che tornare a piantare qualche altro chiodo nella bara di quei malcapitati. La sua sola presenza metteva i brividi. Che cosa ci faceva il vicedirettore dell'Fbi a Biloxi e perché sembrava così felice di scaricare loro addosso una tegola di quelle dimensioni? «Ecco come risolviamo il problema» riprese Sandy dopo aver richiuso la porta. «Semplice, veloce, non trattabile. Cominciamo dal signor Shenault. L'ultima sortita della Northern Case Mutual in questa piccola guerra è stato il tentativo di recuperare i due milioni e mezzo di dollari versati a Trudy Lanigan. Noi preferiamo che ve ne torniate a casa zitti zitti. Rinunciate alla pretesa, dimenticatevi di Trudy, lasciatela vivere in pace. Ha una figlia da crescere e in ogni caso ha già speso quasi tutto il denaro. Voi rinunciate all'indennità versata e il mio cliente rinuncerà a chiedere alla sua compagnia il dovuto risarcimento per le sevizie subite.» «Tutto qui?» sbottò Talbot Mims incredulo. «Sì, tutto qui.» «Affare fatto.» «Vorremmo un momento per consultarci» intervenne Shenault sempre a muso duro. «Nossignore che non lo vogliamo» ribatté Mims al suo cliente. «È un'ottima offerta. È sulla tavola. Ce la prendiamo e tutto finisce qui.» «Vorrei analizzare...» «No» tagliò corto Mims mostrando i denti a Shenault. «Accettiamo l'offerta. Guardi, se vuole che i suoi interessi siano rappresentati da qualcun altro, per me va benissimo. Ma finché sono io il vostro consulente legale, noi accettiamo in questo preciso istante.»
Shenault non trovò da ribattere. «Ci stiamo» ribadì Mims. «Signor Shenault?» chiese Sandy. «Be', sì, certo. Va bene.» «Perfetto. Troverete di là un abbozzo dell'accordo che vi ho proposto. Ora, se i signori vogliono lasciarci per qualche minuto, avrei bisogno di conferire in privato con il signor Ladd e il suo cliente.» Mims uscì alla testa della sua squadra. Sandy chiuse la porta a chiave e affrontò Cohen, Hal Ladd e il suo associato. «La proposta che ho per voi è un po' diversa. Loro hanno avuto vita facile perché c'è di mezzo un divorzio abbastanza complicato e il mio cliente può usare la denuncia contro la Northern Case Mutual a proprio vantaggio se si finisse in causa. La vostra posizione purtroppo è più delicata. Loro hanno finanziato Stephano con mezzo milione, voi ci avete messo il doppio, dunque la vostra responsabilità è due volte più grande e, come tutti sappiamo, siete anche molto più ricchi della Northern.» «Che cifra ha in mente?» domandò Cohen. «Niente per Patrick. Al mio cliente però sta molto a cuore il futuro della bambina. Ha sei anni e sua madre ha le mani bucate. Questo è uno dei motivi per cui la Northern Case Mutual ha accettato subito: sarebbe molto difficile recuperare qualcosa dalla signora Lanigan. Patrick vuole che sia istituito un piccolo fondo a disposizione della bambina ma non di sua madre.» «Quanto?» «Un quarto di milione. Più altrettanto a copertura delle sue spese legali. Per un totale di mezzo milione, da versare con la massima discrezione perché il suo cliente non abbia a dover rispondere in pubblico di quelle foto.» Dati i numerosi precedenti di verdetti generosi nei casi di danni personali emessi nei tribunali della Costa, Hal Ladd aveva preannunciato a Cohen che, per quelli subiti da Patrick, Aricia e le compagnie di assicurazione coinvolte rischiavano di dover pagare un risarcimento di svariati milioni. Cohen, californiano, ne era pienamente consapevole e la sua società era più che ansiosa di chiudere al più presto la questione. «Nessuna denuncia da parte vostra se versiamo mezzo milione di dollari?» chiese Cohen. «È così.» «Siamo d'accordo.» Sandy tolse alcuni fogli da una cartelletta. «Ho qui una bozza di cui vi prego di prendere visione.» Ne consegnò una copia a ciascuno e uscì.
35 Lo psichiatra era amico del dottor Hayani. Il secondo colloquio che ebbe con Patrick durò due ore e fu improduttivo quanto il primo. Sarebbe stato l'ultimo. Patrick chiese di smettere e rientrò nella sua camera in tempo per la cena, che dimenticò quasi del tutto mentre seguiva il telegiornale. Non si fece il suo nome. Passeggiò per la stanza e scambiò qualche parola con le guardie. Sandy gli aveva telefonato per tutto il pomeriggio tenendolo aggiornato, ma desiderava vedere i documenti con i propri occhi. Solo alle otto di sera sentì la voce di Sandy in corridoio che chiedeva alle guardie come stava il «prigioniero», come si compiaceva di chiamarlo lui. Gli andò incontro sulla soglia. L'avvocato era sfinito, ma soddisfatto. «Tutto fatto» annunciò consegnandogli un pacco di scartoffie. «E i documenti e i nastri?» «Glieli abbiamo dati un'ora fa. Ci si è avventata sopra almeno una decina di agenti dell'Fbi. Jaynes mi ha detto che ci lavoreranno tutta la notte.» Patrick si sedette al suo tavolo nell'angolo, sotto il televisore, e lesse parola per parola gli accordi stipulati da Sandy, il quale consumò frettolosamente qualche tramezzino che aveva portato con sé, rimanendo in piedi vicino al letto a seguire senza audio alcune azioni di una partita di rugby trasmessa dall'Australia. «Si sono messi a starnazzare quando gli hai chiesto mezzo milione?» domandò Patrick senza alzare gli occhi. «Nessuno ha neanche tentato di aprire il becco.» «Forse avremmo dovuto chiedere di più.» «A me sembra che tu abbia già abbastanza.» Patrick voltò pagina e firmò. «Ottimo lavoro, Sandy. Complimenti.» «È stata una giornata positiva. Le accuse federali sono state ritirate, le vertenze chiuse. La questione degli onorari è risolta. Il futuro della bambina è assicurato. Domani chiuderemo con Trudy. Stai veleggiando con il vento in poppa, Patrick. Peccato solo quel cadavere bollente che ti è rimasto per le mani.» Patrick lasciò i documenti sul tavolo e andò alla finestra volgendogli le spalle. I vetri erano socchiusi di qualche centimetro con la tapparella alzata. Sandy continuò a mangiare osservandolo. «Bisogna che tu mi dica una
cosa, Patrick.» «Che cosa?» «Be', vediamo... Perché non cominciamo da Pepper?» «Va bene. Non ho ucciso Pepper.» «L'ha ucciso qualcun altro?» «Non che io sappia.» «Si è ucciso?» «Non che io sappia.» «Pepper era vivo quando sei scomparso?» «Credo di sì.» «Maledizione, Patrick, ho avuto una giornataccia! Non sono in vena di giocare a rimpiattino!» Patrick si girò. «Non alzare la voce, ti prego» lo invitò in tono pacato. «I poliziotti là fuori hanno orecchie come proboscidi. Siediti.» «Non ho voglia di sedermi.» «Per piacere.» «Sento meglio in piedi. Ti ascolto.» Patrick chiuse la finestra e calò la tapparella. Poi chiuse la porta a chiave e spense il televisore. Andò quindi a occupare la sua postazione abituale, seduto sul letto con il lenzuolo fino alla vita. «Conoscevo Pepper» cominciò a voce bassa. «Un giorno si è presentato al mio chalet a chiedermi qualcosa da mangiare. È stato poco prima del Natale del 1991. Mi ha detto che trascorreva quasi tutto il suo tempo in giro per i boschi. Gli ho preparato uova con pancetta e le ha divorate come un profugo. Balbettava ed era molto timido. Si vedeva che era a disagio. Io naturalmente ero curioso. Mi ha detto di avere diciassette anni ma ne dimostrava di meno. Tutto sommato era abbastanza pulito e in ordine e mi diceva di avere una famiglia a non più di trenta chilometri da lì, eppure viveva nei boschi. L'ho fatto parlare. Gli ho chiesto dei suoi e mi ha raccontato una storia triste. Appena ha finito di mangiare si è alzato per andarsene. Gli ho proposto di fermarsi a dormire da me, ma ha voluto tornare al suo bivacco. «Il giorno dopo sono uscito da solo a caccia e Pepper mi ha rintracciato nel bosco. Mi ha mostrato la sua tendina e il sacco a pelo. Aveva l'attrezzatura per farsi da mangiare, una ghiacciaia portatile, una lanterna e una carabina. Mi ha confidato che era via di casa da due settimane. Il nuovo fidanzato di sua madre era il peggiore che si fosse installato a casa sua da anni. L'ho seguito a un nascondiglio che aveva trovato lui e un'ora dopo ho ucciso il più grosso cervo di tutta la mia carriera di cacciatore. Mi ha detto
di conoscere quei boschi come le sue tasche e si è offerto di mostrarmi tutti i posti migliori per cacciare. «Un paio di settimane dopo ero di nuovo allo chalet. La vita con Trudy era insopportabile e ormai vivevamo tutti e due in attesa dei fine settimana. Pepper è arrivato poco dopo, io ho preparato uno stufato e abbiamo mangiato come maiali tutti e due. Era ancora un'epoca in cui non mi mancava l'appetito. Mi ha raccontato di essere stato a casa per tre giorni ma di essersene andato dopo aver litigato con la madre. Più parlava, meno balbettava. Io gli ho spiegato che ero avvocato e dopo un po' ha cominciato a raccontarmi dei suoi guai con la legge. L'ultima volta che aveva lavorato era stato a una stazione di rifornimento a Lucedale. A un certo punto erano mancati alcuni soldi in cassa. Siccome lo ritenevano tutti un ritardato, avevano incolpato subito lui. Lui naturalmente non aveva niente a che farci. Era un altro dei buoni motivi che lo spingevano a vivere nei boschi. Gli ho promesso che avrei dato un'occhiata alla questione.» «E lì hai cominciato a sviluppare il tuo piano» intuì Sandy. «Più o meno. Ci siamo visti ancora qualche volta, sempre in giro per i boschi.» «Mentre si avvicinava il 9 febbraio.» «Ho informato Pepper che stavano per arrestarlo. Era una bugia. Non mi ero minimamente occupato di lui, non potevo permettermelo, però più mi raccontava particolari, più mi persuadevo che c'entrasse in qualche modo con la scomparsa di quei soldi. Era impaurito e capivo che contava sempre di più sul mio appoggio. Abbiamo discusso sul da farsi e fra le altre ipotesi c'era quella di dileguarsi.» «Un'idea che non mi suona nuova.» «Detestava sua madre, era braccato dalla polizia, sapeva che non avrebbe potuto vivere per sempre nei boschi. L'idea di trasferirsi a Ovest e trovarsi un lavoro come guida per i cacciatori gli piaceva. Così abbiamo architettato un piano. Io ho letto attentamente i giornali finché non mi sono imbattuto nella terribile vicenda di un liceale rimasto ucciso in un incidente ferroviario vicino a New Orleans. Il ragazzo si chiamava Joey Palmer. Ho chiamato un falsificatore di Miami che mi ha procurato il numero della previdenza sociale di Joey e in un lampo, non più di quattro giorni, avevo tutti i documenti che erano necessari a Pepper, patente della Louisiana completa di foto molto somigliante, tessera della previdenza sociale, certificato di nascita. Persino un passaporto.» «A sentir te è un giochetto.»
«No, è più facile ancora. Bastano solo un po' di soldi e un pizzico di fantasia. Pepper era felice come una pasqua. L'idea di montare su un pullman e scomparire in montagna gli piaceva da morire. E guarda che non ha mai mostrato il minimo scrupolo all'idea di piantare in asso la madre senza dirle nulla. Ti assicuro che non si è girato indietro.» «Il tuo tipo.» «Forse sì. Comunque il 9 febbraio, una domenica...» «La data della tua morte.» «Sì, è stato lo stesso giorno. Ho accompagnato Pepper alla stazione della Greyhound di Jackson. Gli ho dato tutte le opportunità per ripensarci, ma era deciso. Anzi, era entusiasta. Pensa che non era mai uscito dal Mississippi. Solo la gita fino a Jackson per lui era un avvenimento specialissimo. Io gli ho chiarito nella maniera più esplicita che non sarebbe mai più potuto tornare indietro per nessun motivo. Lui non ha mai parlato di sua madre. Tre ore di macchina e mai una volta che l'abbia menzionata.» «Dov'era diretto?» «Avevo trovato un posto dove tagliavano la legna a nord di Eugene, nell'Oregon, e avevo controllato i relativi collegamenti stradali. Gli ho scritto tutto e durante il tragitto fino alla stazione dei pullman gli ho fatto ripetere chissà quante volte tutte le fasi dell'operazione. Gli ho regalato duemila dollari in contanti e l'ho lasciato a due isolati dalla stazione. Era quasi l'una del pomeriggio e non potevo correre il rischio che qualcuno mi vedesse. L'ultima volta che ho visto Pepper, se ne andava trotterellando con un sorriso da qui a qui sulla faccia e uno zaino in spalla.» «Ma il suo fucile e l'attrezzatura da campeggio sono stati ritrovati a casa tua.» «Dove altro avrebbe potuto lasciarli?» «Già, uno dei mille tasselli del rompicapo.» «Naturale. Io volevo che credessero che era Pepper il morto carbonizzato sulla macchina.» «Ora dov'è?» «Non lo so e non è importante.» «Non è quello che ti ho chiesto, Patrick.» «Davvero, non ha alcuna importanza.» «Piantala, dannazione! Se ti faccio una domanda voglio una risposta.» «Te la do quando lo ritengo opportuno io.» «Perché sei così evasivo con me?» Il tono di Sandy era più brusco, la sua irritazione diventava palpabile.
Patrick gli diede tempo di calmarsi. Dopo qualche istante cominciarono a respirare entrambi più adagio, cercando un compromesso. «Non sono evasivo, Sandy» disse Patrick. «Come altro dovrei definirti, allora? Mi sto dannando l'anima per risolvere un enigma e me ne sbatti in faccia dieci nuovi. Perché non mi racconti tutto?» «Perché non è necessario che tu sappia tutto.» «Ma sarebbe carino da parte tua.» «Davvero? Quand'è stata l'ultima volta che un criminale da te assistito ti ha raccontato tutto?» «Ti farà ridere, ma io non ti vedo come un criminale.» «Allora che cosa sono?» «Un amico, forse.» «Il tuo lavoro sarebbe più facile se mi reputassi un criminale.» Sandy recuperò i testi degli accordi e si avviò alla porta. «Sono stanco e ho bisogno di riposare. Tornerò domani e tu mi racconterai tutta la verità.» Aprì la porta e uscì. Se n'era accorto Guy due giorni prima, uscendo dalla casa da gioco. Un volto familiare si era girato un po' troppo in fretta dall'altra parte. Poi un'automobile li aveva seguiti in maniera un po' troppo aggressiva. Guy, esperto di operazioni di sorveglianza, l'aveva riferito a Benny, che era alla guida. «Devono essere i federali» aveva ipotizzato. «Non vedo a chi altri possano interessare i nostri movimenti.» Avevano deciso di lasciare Biloxi. Avevano sospeso il contratto telefonico nell'appartamento preso in affitto. Avevano mandato via gli altri. Aspettarono che facesse buio. Guy partì su un'automobile dirigendo a est, verso Mobile, dove avrebbe trascorso una notte con gli occhi aperti in attesa di imbarcarsi su un aereo l'indomani mattina. Benny andò a ovest lungo la Costa, sulla Highway 90, poi attraversò Lake Ponchartrain ed entrò in New Orleans, una città che conosceva bene. Non notò movimenti sospetti alle sue spalle. Mangiò ostriche al Quartiere Francese, poi prese un taxi per l'aeroporto. Atterrò a Memphis e da lì proseguì per O'Hare, dove rimase per il resto della notte in una delle sale d'aspetto dell'aeroporto. All'alba prese un volo per New York. L'Fbi era a Boca Raton a sorvegliare la sua abitazione. Secondo loro la sua convivente svedese avrebbe preso al più presto il largo e sarebbe stata molto più facile da pedinare.
36 Non si era mai vista pratica di rilascio più tranquilla. Alle otto e mezzo del mattino Eva tornava in libertà indossando gli stessi jeans e la stessa camicia con cui era entrata al centro di detenzione. Le guardie furono gentili, gli impiegati sorprendentemente efficienti, il supervisore arrivò persino a farle gli auguri. Mark Birck fu lesto ad accoglierla a bordo della sua automobile, un'elegante Jaguar quasi d'epoca che per l'occasione aveva fatto tirare a lucido. Con un cenno della testa le mostrò la loro scorta. «Quelli sono dell'Fbi» la informò indicandole i due uomini che attendevano a bordo di un'altra automobile. «Pensavo che avessimo finito con quella gente» commentò lei. «Non ancora.» «E io dovrei salutarli?» «No, si limiti a salire, grazie.» Le tenne lo sportello aperto, lo richiuse senza rumore, si attardò per un secondo ad ammirare la lucidatura del lungo cofano felino, poi si accomodò al volante. «Sandy McDermott mi ha mandato un fax» annunciò mentre si staccava dal ciglio del marciapiede. «Apra quella busta.» «Dove stiamo andando?» domandò lei. «All'aeroporto. C'è un jet privato ad attenderla.» «Per portarmi dove?» «New York.» «E da lì?» «Londra, sul Concorde.» Il traffico era intenso. Gli agenti dell'Fbi non li perdevano di vista. «Perché ci seguono?» chiese lei. «Per proteggerci.» Eva chiuse gli occhi e si massaggiò la fronte. Pensando a Patrick nella sua piccola stanza d'ospedale, annoiato, con poco altro con cui tenersi occupato oltre a inventarsi luoghi dove spedirla. Poi notò il telefono. «Posso?» chiese staccando il ricevitore. «A sua disposizione.» Birck guidava con prudenza, continuando a controllare gli specchietti come se stesse facendo da autista al presidente. Eva chiamò in Brasile e, parlando in portoghese con gli occhi lucidi di pianto, conversò via satellite con suo padre. S'informò sulla sua salute, lo rassicurò sulla propria, evitò di rivelargli dove aveva trascorso gli ultimi
tre giorni. Lui scherzò sul sequestro che aveva subito, le disse che ne era uscito senza nemmeno un graffio, dopo essere sempre stato trattato con tutti i riguardi. Lei gli promise di tornare presto. Aveva quasi concluso i suoi impegni d'affari negli Stati Uniti e aveva nostalgia di casa. Birck ascoltò d'istinto, senza tuttavia capire una sola parola. «Ci sono dei numeri di telefono in quel fax, nel caso venga fermata di nuovo» la informò quando Eva ebbe finito di asciugarsi gli occhi. «L'Fbi ha ritirato la segnalazione e ha acconsentito a lasciarle usare quel passaporto ancora per sette giorni.» Lei ne prese mentalmente nota senza rispondere. «C'è anche un numero di telefono di Londra se dovesse capitarle qualcosa a Heathrow.» Finalmente Eva si decise ad aprire la busta. La lettera era di Sandy. A Biloxi tutto procedeva per il meglio e con speditezza. Appena arrivata al JFK, che lo chiamasse al numero di una suite d'albergo. Le avrebbe dato ulteriori istruzioni. In altre parole l'avrebbe informata su questioni di cui non era opportuno mettere al corrente il signor Birck. Al Miami International, gli agenti dell'Fbi restarono sulla loro macchina, mentre Birck l'accompagnava all'interno del terminal. I piloti la stavano aspettando presso un piccolo velivolo a reazione pronto a trasportarla dove voleva. "Portatemi a Rio" ci mancò poco che esclamasse. Scambiò una stretta di mano con Birck, lo ringraziò per quanto aveva fatto per lei e salì a bordo. Niente bagagli. Nemmeno uno straccio di ricambio da mettersi addosso. Patrick gliel'avrebbe pagata cara. Che la mandasse pure a Londra, le mettesse a disposizione anche solo un giorno in Bond e Oxford Street. Per tornare indietro avrebbe avuto bisogno di un cargo, altro che jet privato. A quell'ora J. Murray era più stanco e scarmigliato che mai. Emise a fatica un grugnito di saluto per la segretaria che gli aprì la porta e accettò con un brontolio un caffè forte e senza latte. Sandy lo salutò e lo fece passare in un salotto dove riesaminarono insieme l'accordo per il divorzio. «Molto meglio» si compiacque Sandy quando ebbe finito di leggerlo. Trudy aveva firmato. J. Murray non avrebbe sopportato un altro incontroscontro con lei e quel suo viscido cicisbeo. Il giorno prima nel suo studio c'era stata autentica battaglia. J. Murray aveva un'esperienza annosa in questioni di quel genere e sarebbe stato pronto a scommettere che i giorni
di Lance erano contati. Trudy era soffocata dalle nuove ristrettezze economiche. «Firmeremo» dichiarò Sandy. «Vorrei ben vedere. Avete tutto quello che avete chiesto.» «È un accordo onesto, date le circostanze.» «Già, già.» «Guardi, Murray, ci sono stati sviluppi significativi riguardanti la sua cliente e la causa intentata contro di lei dalla Northern Case Mutual.» «Sono tutt'orecchi.» «Molte delle questioni collaterali non riguardano direttamente la sua cliente, ma il succo è questo: la Northern Case Mutual ha accettato di ritirare le sue pretese contro Trudy.» J. Murray rimase immobile per qualche secondo, poi dischiuse le labbra. Lo stava sfottendo? Sandy prese una copia dell'accordo pattuito con la Northern Case Mutual. Aveva già cancellato alcuni paragrafi più delicati, ma avrebbe lasciato leggere a J. Murray i punti salienti. «Questo è uno scherzo» mormorò prima di cominciare a leggere. Il suo sguardo sorvolò sugli omissis senza la minima curiosità e si soffermò sui due paragrafi che il censore aveva risparmiato. A chiare lettere stava scritto che la compagnia d'assicurazione rinunciava ad avanzare pretese nei confronti della sua cliente. Non gli interessava perché stesse accadendo. Un'impenetrabile cortina di mistero avvolgeva Patrick e non sarebbe stato certo lui a tentare di squarciarla. «Che piacevole sorpresa.» «Ho pensato che l'avrebbe gradita.» «E la mia cliente conserva tutto?» «Tutto quello che le è rimasto.» J. Murray rilesse il testo dell'accordo, adagio. «Posso tenere questo?» chiese. «No, è riservato. Ma domani verrà formalizzata una mozione di rinuncia e gliene farò avere una copia via fax.» «Grazie.» «C'è un'altra questione» disse allora Sandy. Consegnò a J. Murray una copia dell'accordo stipulato con la Monarch-Sierra, dalla quale aveva ugualmente cancellato le parti che dovevano rimanere confidenziali. «Guardi a pagina quattro, terzo paragrafo.»
J. Murray lesse le frasi in cui si stabiliva un fondo di duecentocinquantamila dollari a beneficio esclusivo della piccola Ashley Nicole Lanigan. L'amministratore fiduciario sarebbe stato Sandy McDermott. I soldi sarebbero stati usati solo per la salute e l'istruzione della bambina e quanto eventualmente fosse rimasto le sarebbe stato saldato in un'unica soluzione al compimento del trentesimo anno di età. «Non so che cosa dire.» Ma già stava pensando come trarne vantaggio a livello professionale. Sandy minimizzò. «Nient'altro?» domandò J. Murray con un sorriso smagliante. Nessun altro regalino? «Nient'altro. Il divorzio è un caso chiuso. È stato un piacere.» Si strinsero la mano e Murray, quando uscì dalla suite, camminava con rinnovato vigore. La sua mente lavorava febbrilmente già in ascensore. Le avrebbe raccontato dell'asprezza del suo scontro con quelle canaglie, come davanti alle loro ingiuste pretese si fosse lasciato travolgere dall'indignazione, come avesse fatto irruzione nel pieno di una delle loro riunioni e avesse minacciato di trascinarli in tribunale per scorticarli vivi in pubblico se non fossero venuti a più miti consigli. Del resto era conosciuto per essere un autentico mastino delle aule di tribunale. All'inferno le accuse di adulterio! Si lustrassero pure gli occhi con le loro foto porno! La sua cliente aveva commesso degli errori ma aveva lo stesso diritto a un trattamento giusto. Ed era in gioco il destino di una povera bimba innocente! Le avrebbe raccontato come li avesse sbaragliati. Aveva preteso e ottenuto un fondo fiduciario a beneficio della bambina e sotto il peso delle sue colpe Patrick aveva ceduto. Ecco qui, avevano insistito, accetti un quarto di milione di dollari. E aveva lottato con anima e corpo per proteggere i diritti acquisiti della sua cliente, che non aveva fatto niente di male incassando i due milioni e mezzo di dollari previsti dalla polizza sulla vita del marito. Messi con le spalle al muro, si erano arrabattati in tutti i modi per trovare il sistema di concedere a Trudy di conservare quei soldi. I particolari di quest'ultima fase erano ancora nebulosi, ma aveva un'ora di automobile durante la quale perfezionare la sua storia. Prima di arrivare in ufficio, avrebbe avuto da offrirle su un piatto d'argento una vittoria strabiliante.
La mancanza di bagaglio suscitò una certa circospezione al banco del Concorde al JFK. Fu chiamato un supervisore ed Eva si sforzò di tenere i nervi a posto, ma non avrebbe sopportato un altro arresto: amava Patrick, ma anche l'affetto più profondo sarebbe stato travolto da un'ennesima disavventura. Solo fino a poco tempo prima aveva una promettente carriera di avvocato in una città che adorava. Poi era arrivato Patrick e... Tutt'a un tratto si trovò circondata da calorosi sorrisi britannici. Fu accompagnata in una sala d'aspetto dove bevve un caffè mentre componeva il numero di Sandy a Biloxi. «Tutto bene?» s'informò lui quando udì la sua voce. «Sì, grazie. Sono al JFK e sto per partire per Londra. Patrick come sta?» «Magnificamente. Abbiamo concordato con i federali.» «Per che cifra?» «Centotredici milioni» rispose lui e attese la sua reazione. Patrick era rimasto impassibile ed Eva non gli fu da meno. «Quando?» domandò. «Avrò le istruzioni del caso quando lei sarà a Londra. Le abbiamo prenotato una stanza al Four Seasons a nome di Leah Pires.» «Alias me.» «Mi chiami quando è arrivata.» «Dica a Patrick che gli voglio ancora bene, anche dopo essere finita in carcere.» «Lo vedrò stasera. Sia prudente.» «Ciao.» Mast non poté resistere alla tentazione di far colpo su pezzi grossi come quelli. La sera prima, quand'erano entrati in possesso della documentazione del dossier Aricia, aveva fatto chiamare tutti i membri del gran giurì per informarli di una sessione d'emergenza. Con l'assistenza dell'Fbi, i suoi colleghi avevano analizzato e riordinato tutti i documenti. Aveva lasciato l'ufficio alle tre di notte e vi aveva fatto ritorno cinque ore dopo. Il gran giurì federale era fissato per mezzogiorno. Hamilton Jaynes aveva deciso di trattenersi per assistervi e lo stesso aveva fatto Sprawling della procura generale. Patrick sarebbe stato l'unico teste. Secondo quanto stabilito, non fu accompagnato in manette. Viaggiò nascosto su una macchina del Bureau senza contrassegni ed entrò passando per un ingresso secondario, scortato da Sandy. Indossava calzoni sportivi, scarpe da tennis, una casacca di tuta; tutti indumenti che gli aveva acqui-
stato Sandy. Era pallido e magro, ma camminava con una certa naturalezza. Per la verità si sentiva in gran forma. I sedici giurati erano seduti intorno a un lungo tavolo rettangolare, cosicché almeno una metà di loro gli volgeva le spalle quando entrò nell'aula sorridendo. Quelli che non potevano vederlo si girarono subito. In un angolo erano seduti Jaynes e Sprawling, che lo vedevano per la prima volta in vita loro. Patrick si accomodò a un capo del tavolo, sulla sedia riservata ai testimoni, e prese subito le redini della situazione. Raccontò la sua storia senza bisogno di essere sollecitato da Mast. Era rilassato e vivace, in parte anche perché le persone che aveva davanti a sé non potevano più toccarlo. Era riuscito a liberarsi dai tentacoli di qualunque legge federale. Cominciò dallo studio legale, i soci e le loro personalità, i clienti, le abitudini lavorative, avvicinandosi piano piano ad Aricia. Mast lo interruppe e gli mostrò un documento in cui Patrick riconobbe il contratto stipulato fra lo studio legale e Aricia. Erano quattro pagine che in sintesi stabilivano che lo studio legale avrebbe incassato un terzo di qualsiasi somma Aricia avesse ottenuto come ricompensa per aver denunciato le pratiche illecite della Platt & Rockland Industries. «E lei come ne è entrato in possesso?» volle sapere Mast. «Era stato battuto a macchina dalla segretaria del signor Bogan. I nostri computer erano in rete. Non ho fatto altro che estrarre il file a mia volta.» «È per questo che la copia in esame non è firmata?» «Sì. L'originale è probabilmente nell'archivio del signor Bogan.» «E lei aveva accesso all'ufficio del signor Bogan?» «Limitato» rispose Patrick e spiegò dello zelo con cui Bogan proteggeva i suoi locali. Da lì ebbe origine una digressione sull'accesso che gli era accordato agli altri uffici e sulle affascinanti sortite di Patrick nel mondo dell'alta tecnologia di intercettazione. Spinto dai sospetti che gli suscitava Aricia, si era adoperato per raccogliere quante più informazioni possibili. A questo scopo si era documentato sui sistemi elettronici di intercettazione, aveva rastrellato dati dagli altri computer dello studio, aveva registrato tutti i pettegolezzi e spremuto segretarie e assistenti. Aveva persino esaminato le carte gettate nei cestini e lavorato alle ore più strane nella speranza di trovare porte aperte. Dopo due ore Patrick chiese da bere. Mast decretò una pausa di un quarto d'ora. Il tempo era trascorso veloce perché la sua storia era davvero avvincente.
Quando il teste rientrò, tutti ripresero velocemente posto, ansiosi di conoscere il seguito. Mast gli rivolse qualche domanda sulla denuncia contro la Platt & Rockland e Patrick la descrisse rimanendo sulle generali. «Il signor Aricia è stato molto abile. Era stato lui a fatturare una seconda volta tutte le forniture, facendo in modo che la responsabilità ricadesse sui dirigenti della sede centrale. Ma dietro lo sfondamento dei costi dell'appalto c'era lui.» Mast gli posò accanto una pila di documenti. Patrick ne prese uno e dopo una rapida occhiata capì di quale si trattava. «Questo è un campione delle ore-lavoro che la Coastal Shipyards si faceva pagare illegalmente. Il tabulato registra le presunte ore di lavoro effettuate durante una settimana del giugno 1988. Vi sono elencati ottantaquattro dipendenti, tutti nominativi falsi, con il salario settimanale di ciascuno. Il totale ammonta a settantunmila dollari.» «Come venivano scelti i nomi?» chiese Mast. «All'epoca alla Coastal c'erano ottomila lavoratori. Si prendevano cognomi comuni, come Jones, Johnson, Miller, Green, Young, e si cambiava l'iniziale del nome di battesimo.» «Quanto lavoro inesistente è stato pagato alla Coastal Shipyards?» «Secondo i conti tenuti da Aricia, per un periodo di quattro anni il totale è di diciannove milioni di dollari.» «E il signor Aricia sapeva che questi dati erano falsi?» «Sì, perché li ha falsificati lui.» «E lei come fa a saperlo?» «Dove sono i nastri?» Mast gli consegnò il foglio sul quale erano stati catalogati i nastri di più di sessanta conversazioni. Patrick lo studiò per un minuto. «Credo che sia il numero diciassette» annunciò poi. L'assistente della procura che aveva in consegna le registrazioni scelse la cassetta numero diciassette e la inserì nel registratore posto al centro del tavolo. «Qui sentiamo Doug Vitrano che parla con Jimmy Havarac» spiegò Patrick. «Sono due soci del mio studio legale. Siamo nell'ufficio di Vitrano, 3 maggio 1991.» Il nastro cominciò a scorrere. PRIMA VOCE: Come si fa a far saltar fuori diciannove milioni di dollari in paghe per lavoro mai svolto?
«Questi è Jimmy Havarac» li informò Patrick. SECONDA VOCE: Non è stato difficile. «E quest'altro è Doug Vitrano» intervenne Patrick. VITRANO: In un anno le paghe ammontavano a cinquanta milioni. Per quattro anni si sono sborsati duecento milioni. L'eccedenza è quindi contenuta nel dieci per cento. In un giro come quello, non se n'è accorto nessuno. HAVARAC: E Aricia lo sapeva? VTTRANO: Come sarebbe lo sapeva? L'ha fatto lui. HAVARAC: Ma dai, Doug. VITRANO: È tutto falso, Jimmy. Questa denuncia è falsa dall'inizio alla fine. Le ore-lavoro, le ricevute gonfiate, le doppie e triple fatturazioni per le forniture pesanti. Tutto quanto. Ancia ha cominciato fin dal principio potendo approfittare di un datore di lavoro che fregava soldi ai governi dai tempi dei tempi. Lui sapeva benissimo come funzionava il giro, sapeva come si lavora al Pentagono ed è stato abbastanza furbo da entrare nel gioco per dare il suo contributo. HAVARAC: A te chi l'ha detto? VITRANO: Bogan. Aricia gli ha raccontato tutto. Bogan ha riferito al senatore. Noi teniamo la bocca chiusa e al momento opportuno diventiamo milionari. La conversazione, già stralciata da Patrick anni prima, era terminata. I giurati rimasero in silenzio a guardare il registratore. «Possiamo sentire qualcos'altro?» chiese uno di loro. Mast alzò le spalle girandosi verso Patrick, che espresse parere più che favorevole. Con i commenti in contemporanea e le analisi talvolta colorite di Patrick, ci vollero quasi tre ore per ascoltare i nastri. Per ultimo fu conservato il nastro del Buco, riascoltato quattro volte prima che i giurati si ritenessero soddisfatti. Alle sei fu ordinato da mangiare a una rosticceria del quartiere. Alle sette Patrick fu congedato. Durante la cena, Mast tornò su alcuni dei documenti più significativi ed
enumerò le varie leggi federali alle quali appellarsi. Con le voci dei responsabili incise su quei nastri, il complotto era peggio che smascherato. Alle otto e mezzo il gran giurì votò all'unanimità il rinvio a giudizio per Benny Aricia, Charles Bogan, Doug Vitrano, Jimmy Havarac ed Ethan Rapley, per cospirazione a scopo di frode. In caso di condanna, sarebbero toccati dieci anni di galera a ciascuno, con multe fino a cinquecentomila dollari. Il nome del senatore Harris Nye fu incluso con la qualifica di possibile complice, una designazione provvisoria che con tutta probabilità avrebbe trovato sbocchi negativi una volta approfondito il suo ruolo nella vicenda. Sprawling, Jaynes e Maurice Mast misero a punto una strategia per attaccare i pesci piccoli inducendoli a patteggiare in maniera che denunciassero quelli più grandi di loro in cambio di un atteggiamento clemente da parte della corte. Avrebbero sferrato il primo attacco contro Rapley e Havarac, contando sulla loro antipatia per Charles Bogan. Il gran giurì si aggiornò alle nove. Mast s'incontrò con il capo dell'ufficio giudiziario e organizzò gli arresti per l'indomani mattina all'alba. Jaynes e Sprawling tornarono a Washington. 37 «Una volta mi sono occupato di un incidente automobilistico, quando ero appena entrato a far parte dello studio. Era avvenuto sulla 49, nella contea di Stone, vicino a Wiggins. I nostri clienti procedevano in direzione nord quando da una strada di campagna era sbucato davanti a loro un camioncino. Delle tre persone che si trovavano sulla nostra macchina, il conducente rimase ucciso e la moglie gravemente ferita. Un bambino che era seduto dietro ebbe una gamba fratturata. Il camioncino apparteneva a una cartiera che l'aveva assicurato per ottimi massimali, perciò il caso poteva rendere bene. L'avevano assegnato a me e io ne ero più che felice perché ero nuovo. Nessuno dubitava della colpa del camioncino, ma l'uomo che lo guidava, rimasto illeso, sosteneva che la vettura dei nostri clienti procedeva ad andatura elevata. Questo diventò il nocciolo della questione: a che velocità andava il nostro automobilista morto? Secondo la mia ricostruzione, la velocità al momento dell'impatto era stata di quasi cento chilometri orari, che non era certo eccessiva. I limiti previsti sono di novanta e tutti vanno almeno a cento. I miei clienti si stavano recando a Jackson per una visita ad alcuni parenti e non avevano fretta.
«Secondo i periti della controparte, il mio cliente procedeva a centoventi all'ora e questo naturalmente mi avrebbe gravemente danneggiato, se la corte l'avesse preso per buono. Trenta chilometri oltre i limiti di velocità mi avrebbero senz'altro inimicato la giuria. Trovammo un teste, un vecchio, la seconda o terza persona giunta sulla scena dell'incidente. Si chiamava Clovis Goodman, ottantun anni, cieco da un occhio e orbo dall'altro.» «Dici sul serio?» chiese Sandy. «No, ma è per farti capire che non era un occhio di falco. Però guidava ancora e quel giorno percorreva piano piano la stessa strada sul suo camioncino del 1968 ed è stato sorpassato dalla nostra macchina. Poi, appena oltre il dosso che aveva davanti, la ritrova coinvolta nello scontro. Clovis era un vecchietto molto dolce. Viveva da solo, senza parenti stretti, dimenticato da tutti. Toccato nei suoi migliori sentimenti dalla scena terribile che aveva davanti agli occhi, cercò di aiutare le vittime e si trattenne per un po'. Alla fine se ne andò senza parlare con nessuno. Era troppo sconvolto. A me confidò in seguito di non aver dormito per una settimana. «Ci fu riferito che una delle persone giunte in seguito aveva registrato con una videocamera la scena dell'incidente quando ormai erano sopraggiunti ambulanze, poliziotti e vigili del fuoco. Con il traffico bloccato e la gente che non sapeva come ammazzare il tempo, c'è sempre qualcuno che si mette a registrare. Ci procurammo il nastro. Un nostro assistente lo analizzò e prese nota di tutte le targhe. Trovammo i rispettivi proprietari e cercammo qualche testimone. È così che c'imbattemmo in Clovis. Ci disse di aver praticamente assistito all'urto, ma di non avere la forza di parlarne. Io gli chiesi se mi concedeva un colloquio e lui accettò. «Clovis viveva in campagna, nelle vicinanze di Wiggins, in una casettina bianca che lui e sua moglie si erano costruiti prima della guerra. La moglie era morta da molti anni e morto era anche l'unico loro figlio, che gli aveva lasciato due nipoti, uno in California e l'altra vicino a Hattiesburg. Non li vedeva da un pezzo. Tutto questo lo sono venuto a sapere nella prima ora di conversazione. Clovis era un vecchio solitario, dapprima burbero come se non si fidasse degli avvocati e non volesse sprecare tempo con loro. E tuttavia poco dopo era già lì a far bollire dell'acqua per un caffè e a raccontarmi i segreti di famiglia. Ci siamo seduti in veranda sulle sedie a dondolo in mezzo a una decina di gatti che ci giravano fra i piedi e abbiamo parlato di tutto meno che dell'incidente. Per fortuna era sabato, così potevo prendermela comoda perché non avevo da correre in ufficio. Era un
piacere stare ad ascoltarlo. I suoi argomenti preferiti erano la Depressione e la guerra. Dopo un paio d'ore mi sono azzardato ad alludere all'incidente. Lui si è ammutolito con una smorfia di dolore e sottovoce ha risposto che non se la sentiva di parlarne. Ha detto di sapere qualcosa di importante, ma che non era ancora il momento giusto. Io gli ho domandato a quale velocità stesse viaggiando lui quando è stato sorpassato dalla nostra macchina. Mi ha detto che non superava mai gli ottanta all'ora. Gli ho chiesto se era in grado di fare un'ipotesi sulla velocità della nostra macchina e lui ha scosso la testa. «Due giorni dopo sono passato da lui nel pomeriggio e ci siamo seduti di nuovo in veranda per un'altra serie di aneddoti sulla guerra. Alle sei in punto Clovis ha annunciato che aveva fame, ha aggiunto che aveva un debole per il pescegatto e mi ha chiesto se volevo fargli compagnia. Al momento io ero solo, così ho accettato il suo invito. Naturalmente ho guidato io e lui ha continuato a raccontare. Siamo andati a mangiare in un posto dove ci hanno servito pescegatto bisunto per sei dollari senza limiti di quantità. Clovis mangiava piano piano, con la testa china sul piatto. Quando la cameriera è venuta a portare il conto, Clovis non l'ha nemmeno visto. Il foglietto è rimasto sul piattino accanto a lui per dieci minuti. Lui ha continuato a parlare e io ho pensato che, dato che dovevo pagare io, i soldi sarebbero stati ben spesi se Clovis mi avesse infine reso la sua testimonianza. Mentre tornavamo a casa ha detto all'improvviso che sentiva il bisogno di una birra, solo una, per far funzionare la vescica, e guarda caso in quel momento stavamo passando davanti a un negozio. Mi sono fermato. Lui non si è mosso, così ho comperato io anche la birra. Siamo ripartiti e mi ha detto che gli sarebbe piaciuto mostrarmi dove era cresciuto. Non era distante. Così da una strada di campagna siamo passati a un'altra e dopo una ventina di minuti mi ero perso. Clovis non vedeva bene. Aveva bisogno di un'altra birra, sempre per far funzionare la vescica. Ho chiesto indicazioni alla commessa di un negozio e mi sono rimesso in marcia e, a forza di girare, siamo arrivati in un posto che si chiama Necaise Crossing, nella contea di Hancock. Lì mi ha detto che potevamo tornare indietro. Si era dimenticato di volermi mostrare i luoghi della sua infanzia. Altra birra, altre indicazioni dai negozianti. «Quando siamo stati nei paraggi di casa sua mi sono raccapezzato e allora ho cominciato a fargli domande sull'incidente. Lui ha risposto che ricordarlo lo faceva ancora soffrire troppo. L'ho aiutato a rientrare ed è piombato sul divano mettendosi subito a dormire e russare. Era quasi mezzanotte.
Questa storia è andata avanti per quasi un mese. Sulla sedia a dondolo in veranda, pescegatto di martedì, birre per il buon funzionamento della sua vescica. Il massimale della polizza era di due milioni di dollari. Noi avremmo potuto incassare la cifra intera e, senza che Clovis se ne rendesse conto, la sua testimonianza diventava ogni giorno più indispensabile. Mi aveva assicurato che nessun altro si era messo in contatto con lui sull'incidente, perciò era essenziale che io lo costringessi a darmi notizie certe prima che lo trovassero quelli dell'assicurazione.» «Quanto tempo era passato dall'incidente?» domandò Sandy. «Quattro o cinque mesi. Un giorno finalmente ho deciso di passare al contrattacco. Gli ho detto che eravamo arrivati a una fase cruciale della causa e che era ora che rispondesse a qualche domanda. Mi disse che era pronto. Gli ho chiesto a quale velocità procedesse la nostra automobile quando lo aveva sorpassato. Lui ha detto che era stato uno spettacolo spaventoso vedere quelle persone conciate in quella maniera, schiacciate tra le lamiere in un mare di sangue, specialmente il bambino. Parlava con le lacrime agli occhi. Qualche minuto dopo gliel'ho chiesto di nuovo. "Clovis, hai idea della velocità a cui andava la macchina quando ti ha sorpassato?" Lui ha detto che avrebbe fatto di tutto per aiutare quella povera famiglia. Gli ho risposto che lo avremmo senz'altro apprezzato. Poi mi ha guardato diritto negli occhi. "Secondo te a che velocità andava?" ha domandato a me. «Io gli ho risposto che secondo me procedeva a novanta chilometri orari. "Allora è così" ha concluso Clovis. "Novanta all'ora. Io andavo a ottanta e loro ce l'hanno appena fatta, a superarmi." «Siamo arrivati al processo e Clovis Goodman è stato il miglior testimone che mi sia mai capitato. Era anziano, umile, ma saggio e assolutamente credibile. La giuria ignorò tutte le ricostruzioni fantasiose e basò il suo verdetto su Clovis. Incassammo due milioni e trecentomila dollari. «Ci siamo tenuti in contatto. Sono stato io a redigere il suo testamento. Non aveva molto, solo quella casa con un ettaro e mezzo di terreno e settemila dollari in banca. Alla sua morte desiderava che tutto fosse venduto e che i soldi realizzati fossero donati alle Figlie della Confederazione. Non si faceva parola dei parenti: il nipote era in California da vent'anni e la nipote di Hattiesburg non si era più fatta viva da quando gli aveva mandato l'invito per la festa della consegna dei diplomi nel 1968. Clovis non ci era andato e non le aveva mandato nemmeno un regalo. Non parlava quasi mai di loro, ma so che ne sentiva la mancanza.
«Quando si è ammalato abbastanza gravemente da non essere più in grado di vivere da solo, l'ho fatto ricoverare in una casa di riposo di Wiggins. Ho venduto la casa e il terreno e mi sono occupato io dei suoi interessi finanziari. All'epoca ero il suo solo amico. Gli mandavo cartoline e piccoli regali e ogni volta che dovevo andare a Hattiesburg o a Jackson passavo a trovarlo. Almeno una volta al mese andavo a prenderlo e lo portavo a mangiare pescegatto. Poi si faceva un giro e dopo una birra o due lui cominciava con i suoi racconti. Una volta l'ho portato a pescare. Io e lui da soli in barca per otto ore e giuro di non aver mai riso tanto in vita mia. «Nel novembre del '91 si ammalò di polmonite e per poco non ci rimase. Si spaventò e decise di rivedere il testamento. Voleva lasciare parte dei soldi alla sua chiesa e il resto alla Confederazione. Scelse un posto al cimitero e mi dettò le sue volontà per la sepoltura. Dietro mio suggerimento, decise di includere una clausola per cui non fosse costretto a essere mantenuto in vita dalle macchine e insistette affinché fossi io incaricato di togliere la spina, naturalmente dopo essermi consultato con i suoi medici. Clovis era stanco della casa di riposo, stanco della solitudine, stanco della vita. Diceva di essere in pace con Dio e pronto ad andarsene. «Prese di nuovo la polmonite ai primi di gennaio del '92. Lo feci trasferire all'ospedale di Biloxi per potergli stare accanto. Passavo a trovarlo ogni giorno ed ero il suo unico visitatore. Nessun altro amico, nessun parente, nessun ministro di Dio. Nessun altro che me. Le sue condizioni lentamente peggiorarono e a un certo momento si capì che non si sarebbe ripreso. Cadde in coma. Lo attaccarono alle macchine e dopo una settimana circa decretarono la sua morte cerebrale. Lessi ad alta voce le sue ultime volontà alla presenza dei tre medici, dopodiché spegnemmo il respiratore.» «Che giorno era?» chiese Sandy. «Il 6 febbraio 1992.» Sandy emise un sospiro, chiuse gli occhi con forza e scosse lentamente il capo. «Aveva rinunciato a una funzione in chiesa perché sapeva che non ci sarebbe andato nessuno. Lo seppellimmo in un cimitero vicino a Wiggins. Io sono stato uno di quelli che ha trasportato la sua bara. Erano venute tre vecchie vedove a piangere su di essa, ma l'impressione era che avessero pianto a tutte le cerimonie di sepoltura avvenute a Wiggins negli ultimi cinquant'anni. C'era un pastore che si era trascinato dietro cinque dei suoi anziani diaconi a trasportare la bara. Aggiungendo la presenza di due cittadini di Wiggins, facevamo un totale di dodici. Il servizio fu breve, dopodi-
ché Clovis fu lasciato a riposare in pace.» «Era una bara molto leggera, vero?» domandò Sandy. «Sì.» «E Clovis dov'era?» «Il suo spirito era in cielo a festeggiare con i santi.» «Dov'era il suo corpo?» «Sulla veranda del mio chalet, in un congelatore.» «Tu hai qualcosa di storto nella testa.» «Io non ho ucciso nessuno, Sandy. Il vecchio Clovis cantava con gli angeli mentre le sue spoglie mortali ardevano in automobile. Non credo che ne abbia sofferto.» «Hai una giustificazione per tutto, vero, Patrick?» Patrick era seduto sul letto con i piedi a qualche centimetro da terra. Non rispose. Sandy passeggiò avanti e indietro per un po', poi si appoggiò alla parete. Era solo parzialmente sollevato dal fatto che il suo amico non fosse un assassino, ma l'idea che avesse bruciato un cadavere gli riusciva quasi nauseante. «Sentiamo il resto» lo esortò. «Sono sicuro che hai già preparato una ricostruzione minuziosa.» «Ho avuto tempo di pensarci, sì.» «Ti ascolto.» «La legislazione del Mississippi prevede il reato penale di sottrazione di cadavere, ma non si può applicare nel mio caso perché è riferita esplicitamente alle tombe, mentre io non ho sottratto il cadavere di Clovis dalla sua tomba. L'ho preso dalla bara. C'è un altro reato che riguarda la mutilazione di un cadavere ed è l'unico che Parrish mi possa appioppare. È prevista una pena fino a un anno di carcere e io credo che, se non ha di meglio contro di me, Parrish farà carte false perché mi diano il massimo della pena.» «Non può lasciartela passare liscia.» «No, non può. Ma ecco dove sta la contraddizione. Lui non saprà di Clovis se non glielo dico io, ma io dovrei dirglielo prima che lui lasci cadere l'accusa di omicidio. Ora, raccontargli di Clovis è una cosa, ma testimoniare in aula è un'altra. Lui non può costringermi a testimoniare se mi accusa formalmente di sevizie a un cadavere. Subirà pressioni perché io venga processato per qualcosa perché, come dici tu, non può permettersi di farmela passare liscia. Può mandarmi sotto processo, ma non mi può far condannare perché io sono l'unico testimone e non ha modo di dimostrare
che il cadavere carbonizzato fosse quello di Clovis.» «Dunque Parrish è inchiodato da tutti i lati.» «Infatti. Le accuse federali sono state ritirate e quando noi sganceremo questa bomba Parrish dovrà assolutamente escogitare qualcosa per farmela pagare. Altrimenti c'è il rischio che io ne venga fuori senza una spiegazzatura.» «E il piano qual è?» «Semplice. Scarichiamo Parrish dalle pressioni e gli diamo la possibilità di salvare la faccia. Tu vai dai nipoti di Clovis, racconti loro la verità, offri del denaro. Loro certamente hanno il diritto di citarmi in tribunale quando sapranno come sono andate le cose, e tu puoi fare in modo di stimolarli. Le loro armi sono peggio che spuntate, dopo che hanno ignorato il loro nonno per tanti anni, ma è presumibile che mi facciano causa comunque. E noi giochiamo su di loro. Veniamo a un accordo in via confidenziale e, in cambio del denaro che intascheranno, loro si assumeranno il compito di dissuadere Parrish dall'incriminarmi.» «Machiavellico.» «Lo prendo come un complimento, grazie. Ritieni che ci sia qualche ostacolo?» «Parrish potrebbe decidere di andare fino in fondo a dispetto dei desideri dei parenti.» «Ma non lo farà perché non mi può far condannare. La cosa peggiore che può capitare a Parrish è di trascinarmi in tribunale e perdere la causa. È molto più sicuro per lui usare i nipoti come pretesto ed evitare l'imbarazzo di perdere un caso di così alto profilo.» «È a questo che hai meditato per quattro anni?» «Mi è passato per la mente, sì.» Sandy riprese a passeggiare immerso nelle sue riflessioni. «Dovremo dare qualcosa di solido a Parrish» mormorò quasi fra sé. «Io sono più preoccupato per me che per Parrish» ribatté Patrick. «Non è solo Parrish, qui c'è di mezzo il sistema. Se vieni prosciolto, si potrà dire che ti sei comperato l'immunità e il sistema farà una figuraccia.» «Forse mi sta a cuore solo me stesso.» «Ho anch'io a cuore soprattutto i tuoi interessi, ma non puoi umiliare il sistema e pensare di uscirne illeso.» «Nessuno ha costretto Parrish a buttarsi a capofitto in un'incriminazione di omicidio di primo grado. Avrebbe potuto aspettare una settimana o due. Nessuno lo ha obbligato a strombazzarlo alla stampa. Non ho nessuna
compassione per lui.» «Neanch'io, Patrick, ma è dura fargliela digerire.» «Gliela rendo più facile io. Mi dichiaro colpevole di abuso di cadavere, ma mi rifiuto di scontare anche un solo giorno di galera. Mi presento in tribunale, mi dichiaro colpevole, pago una multa, lascio che Parrish si prenda il credito per aver vinto il caso contro di me, ma io esco dal palazzo di giustizia da uomo libero.» «Con la fedina penale sporca.» «Che importanza avrà in Brasile, secondo te?» Sandy si fermò e si sedette accanto a lui. «Dunque torni in Brasile?» «È casa mia, Sandy.» «E la ragazza?» «Non so se avremo dieci o undici figli. Ancora non abbiamo deciso.» «Quanti soldi avrai?» «Milioni di dollari. Tu devi farmi uscire di qui, Sandy. Ho un'altra vita che mi aspetta.» Un'infermiera entrò senza farsi annunciare. Accese la luce e li guardò con un cipiglio severo. «Sono le undici, Patty. L'ora delle visite è passata da un pezzo.» Toccò la spalla a Patrick. «Tutto bene, caro?» «Benissimo.» «Ha bisogno di niente?» «Niente, grazie.» L'infermiera uscì. Sandy recuperò la sua cartella. «Patty?» domandò. Patrick si strinse nelle spalle. «Caro?» Altra stretta di spalle. A Sandy venne in mente qualcos'altro mentre era già sulla soglia. «Una domandina veloce. Quando sei uscito di strada in macchina, Clovis dov'era?» «Dov'era sempre stato. Seduto di fianco a me con la cintura allacciata. Gli ho messo una birra tra le gambe e gli ho augurato buon viaggio. Sorrideva.» 38 Erano le dieci di mattina a Londra e ancora non erano arrivate le istruzioni per la restituzione della refurtiva. Eva lasciò l'albergo per una lunga passeggiata in Piccadilly. Senza obblighi particolari e senza appuntamenti,
si mescolò alla folla, guardò le vetrine e passeggiò. Tre giorni di solitudine l'avevano sensibilizzata ai rumori e alle voci della gente. Pranzò in un angolo di un vecchio pub affollato con un'insalata e una fetta di formaggio di capra, ascoltando le voci liete di persone che non avevano la più pallida idea di chi lei fosse. E a cui non interessava minimamente saperlo. Patrick le aveva confidato che nel primo anno trascorso a São Paulo la sua gioia più grande consisteva nel fatto che non c'era nessuno che sapesse il suo nome. Seduta in quel pub, si sentiva molto più Leah Pires che Eva Miranda. Cominciò a far compere in Bond Street, prima oggetti di assoluta necessità, biancheria intima e profumi, ma dopo poco era già arrivata agli Armani, ai Versace e agli Chanel, con nessuna considerazione per i prezzi. In quel momento era una donna facoltosa. Sarebbe stato più semplice e meno clamoroso aspettare le nove e arrestarli in studio. D'altra parte le loro abitudini erano diventate imprevedibili e Rapley in particolare raramente usciva di casa. Si decise per un'incursione prima dell'alba e pazienza se avrebbero dovuto pagare con uno spavento e l'umiliazione davanti a familiari e vicini di casa. Prenderli mentre erano ancora a letto o sotto la doccia: quella sarebbe stata la tattica migliore. Charles Bogan rispose alla porta in pigiama e cominciò a piangere in silenzio quando l'ufficiale giudiziario, una persona che conosceva bene, gli mostrò le manette. Bogan non aveva più famiglia, così almeno gli fu risparmiata quella vergogna. A casa Vitrano andò ad aprire la moglie, che assunse subito un atteggiamento ostile. Sbatté l'uscio in faccia a due giovani agenti dell'Fbi, che attesero pazienti che corresse al piano di sopra a tirare il marito fuori da sotto la doccia. Per fortuna i figli dormivano quando Doug fu caricato su un'automobile, ammanettato come un criminale comune, lasciando la moglie in camicia da notte a imprecare e a piangere contemporaneamente sulla soglia di casa. Jimmy Havarac si era coricato come al solito ubriaco fradicio e suonare al suo campanello fu del tutto inutile. Lo chiamarono da un cellulare, seduti in macchina davanti alla porta della sua casa, e solo così riuscirono a svegliarlo. Fu subito arrestato. Allo spuntar del sole Ethan Rapley era in mansarda a lavorare a una causa, inconsapevole del giorno o dell'ora. Non udì niente di quanto avveniva
da basso. La moglie era stata destata dai colpi alla porta e corse di sopra a dargli la cattiva notizia. Non prima però di aver nascosto la pistola che suo marito teneva in un cassetto del comò. Lui la cercò due volte mentre rovistava nel cassetto a caccia di un paio di calze che non fossero scompagnate. Ma evitò di chiedere a lei dove fosse. Temeva che glielo dicesse. L'avvocato che aveva fondato lo studio Bogan era stato promosso al seggio federale tredici anni prima. Lo aveva nominato a quella carica il senatore Nye e per assumerla aveva lasciato l'azienda a Charles. Grazie agli stretti legami sviluppati dallo studio legale con tutti e cinque i giudici federali in carica, va da sé che i telefoni cominciarono a squillare ancora prima che i soci si fossero ritrovati tutti insieme in prigione. Alle otto e mezzo del mattino furono trasportati su auto separate al tribunale federale di Biloxi per un'apparizione organizzata in fretta e furia davanti al magistrato federale che abitava più vicino al palazzo di giustizia. Cutter prese molto male la velocità e la facilità con cui Bogan aveva saputo reagire. Non si aspettava certo che i quattro rimanessero dietro le sbarre in attesa del processo, ma nemmeno aveva anticipato un'udienza così immediata davanti a un magistrato praticamente tirato giù dal letto. Per ripicca, Cutter diramò la notizia alle redazioni dei quotidiani locali e all'emittente televisiva regionale. I documenti del caso furono preparati e sottoscritti in pochi minuti e i quattro lasciarono il tribunale liberi di tornarsene a piedi al loro studio. Furono seguiti da un ragazzone goffo che armeggiava con una minicamera e da un giovane reporter inesperto che non sapeva bene di quale vicenda si trattasse, ma solo che era "qualcosa di grosso". Nessun commento dai quattro avvocati dall'aria feroce. Appena entrati nella palazzina di Vieux Marché, sprangarono la porta. Charles Bogan si precipitò a chiamare il senatore. L'investigatore privato, quello raccomandato da Patrick, trovò la donna in meno di due ore usando solo il telefono. Viveva a Meridian, due ore a nordest di Biloxi. Si chiamava Deena Postell e gestiva il reparto rosticceria e il secondo registratore di cassa di un nuovo supermercatino ai margini dell'abitato. Sandy trovò il negozio ed entrò. Finse di ammirare una fila di petti di pollo appena fritti con contorno di patatine mentre studiava i commessi dietro il banco. La sua attenzione fu attratta da una donna corpulenta e tozza con un'acconciatura cotonata e una voce potente. Come tutti i dipenden-
ti indossava una camicia a strisce rosse e bianche e quando si avvicinò lesse sulla targhetta che si chiamava Deena. Per fare buona impressione aveva scelto un paio di jeans e un blazer blu, senza cravatta. «Che cosa desidera?» gli chiese lei con un sorriso. Erano le dieci, troppo presto per pollo e patatine. «Un caffè doppio, grazie» rispose, contraccambiando il sorriso e ricevendo in cambio un luccichio d'occhi. A Deena piaceva scherzare con gli uomini. Lo attese alla cassa. Invece di darle il denaro, Sandy le mise in mano un biglietto da visita. Lei gli diede un'occhiata, poi lo lasciò cadere. Per una donna che aveva allevato tre figli già nei guai con la giustizia prima di aver raggiunto la maggiore età, una sorpresa come quella era solo messaggera di guai. «Un dollaro e venti» disse, schiacciando i tasti e lanciando una rapida occhiata intorno a sé per assicurarsi che nessuno avesse visto nulla. «Ho solo buone notizie per lei» la rassicurò Sandy prendendo i soldi. «Che cosa vuole?» chiese la donna quasi in un sussurro. «Dieci minuti del suo tempo. L'aspetto a un tavolino là in fondo.» «Ma che cosa vuole?» La commessa prese i suoi soldi e tolse il resto dal cassetto del registratore. «La prego. Sarà felice di avermi accontentato.» Deena aveva un debole per gli uomini in generale e Sandy era un bel tipo, vestito molto meglio della media degli avventori quotidiani. Andò a trafficare con i petti di pollo, preparò dell'altro caffè, poi avvertì il principale che si prendeva qualche minuto di pausa. Sandy l'attendeva a un tavolino in una piccola ala riservata a chi consumava il suo pasto a sedere, tra il distributore di birra e quello del ghiaccio. «Grazie» le disse quando se la trovò davanti. Deena era sui quarantacinque anni, con una faccia rotonda, ravvivata da un generoso strato di cosmetici. «Un avvocato di New Orleans, eh?» esordì. «Già. Immagino che non avrà sentito del caso di quell'avvocato che aveva rubato tutti quei milioni e che qualche tempo fa è stato finalmente catturato.» Lei scuoteva la testa prima ancora che lui avesse finito di parlare. «Io non leggo niente, tesoro. Lavoro sessanta ore la settimana qui dentro e ho due nipotini a carico. Durante il giorno ci bada mio marito. È invalido. Per via della schiena. Io non leggo niente, non guardo niente, non faccio nient'altro che lavorare qui dentro e cambiare pannolini sporchi quando sono a
casa.» Sandy quasi si dispiacque di averglielo chiesto. Il quadro che gli aveva tracciato era deprimente. Le raccontò la storia di Patrick nella maniera più chiara e semplice. Lei la trovò divertente, ma sul finire il suo interesse si spense. «Che si prenda la pena di morte» concluse con nonchalance. «Ma non ha ucciso nessuno.» «Mi pareva che avesse detto che c'era un corpo sulla sua macchina.» «E c'era. Ma era già morto.» «L'aveva ucciso lui?» «No. Lui l'aveva solo, come dire, rubato.» «Mmmm. Senta, io devo tornare al lavoro. Se non le dispiace, mi dice che cosa c'entro io?» «Il corpo che quell'uomo ha rubato era quello di Clovis Goodman, il suo compianto nonno.» Le ricadde la testa sulla spalla destra. «Ha bruciato Clovis!» Sandy annuì. Lei socchiuse gli occhi come per cercare di riordinare le emozioni giuste. «A che scopo?» «Aveva bisogno di fingersi morto.» «Ma perché Clovis.» «Patrick era suo avvocato e amico.» «Bell'amico.» «Senta, io non cerco una logica in tutta questa storia. È successa quattro anni fa, molto prima che ci andassimo di mezzo lei e io.» Lei tamburellò sul tavolo con le dita di una mano mentre si morsicava le unghie dell'altra. L'uomo che aveva davanti le sembrava sapere il fatto suo, come avvocato, perciò era improbabile che si lasciasse incantare dalle sue manifestazioni di cordoglio per l'adorato nonnetto. La situazione meritava una valutazione più attenta. Che parlasse lui. «L'ascolto» disse. «L'oltraggio di cadavere è un reato penale.» «Mi sembra giusto.» «È un atto anche perseguibile civilmente. Questo significa che i parenti di Clovis Goodman possono citare il mio cliente per aver distrutto il cadavere.» «Ah, sì.» Trasse un respiro inarcando un po' la schiena, poi sorrise. «Ora capisco.»
Sorrise anche Sandy. «Sì. È per questo che sono qui. Il mio cliente si offre di indennizzare la famiglia di Clovis in via privata.» «Che cosa si intende qui per famiglia?» «La consorte, figli e nipoti.» «Allora la famiglia sono io.» «E suo fratello?» «Luther è morto due anni fa. Droghe e alcalosi.» «Dunque è rimasta solo lei ad aver diritto a un risarcimento.» «Quanto?» proruppe Deena, incapace di trattenersi oltre. Fremette subito di imbarazzo. Sandy si sporse verso di lei. «Siamo pronti a offrire venticinquemila dollari. Immediatamente. Ho l'assegno in tasca.» Si stava sporgendo anche lei, abbassandosi sul tavolo e avvicinandosi al suo viso, quando, all'udire la cifra, si fermò di colpo. Le si inumidirono gli occhi e il labbro inferiore prese a tremarle. «Oh, mio Dio» mormorò. Sandy si guardò attorno. «Ha sentito bene. Venticinquemila dollari.» Lei tolse una salvietta di carta dal distributore e rovesciò lo spargisale. Si asciugò gli occhi e si soffiò il naso. Sandy si guardava ancora intorno, sperava di non dare spettacolo. «Tutti miei?» riuscì finalmente a balbettare la donna. La sua voce era roca e stentata, rotta dal respiro affannato. «Tutti suoi, sì.» Lei si asciugò gli occhi di nuovo, poi disse: «Ho bisogno di una Coca». Trangugiò una lattina intera senza una parola. Sandy bevve il suo cattivo caffè osservando l'andirivieni dei passanti. Non aveva fretta. «Da come la vedo io» riprese finalmente Deena, ora con gli occhi nuovamente limpidi, «se si presenta qui pronto a mettermi in mano venticinquemila senza fiatare, allora è probabile che sia disposto a darmi di più.» «Non ho l'autorizzazione a negoziare.» «Se faccio causa per il suo cliente potrebbe mettersi male, immagino che sia d'accordo con me. La giuria mi guarda e pensa al povero vecchio Clovis che va in fumo per aiutare il suo cliente a rubare novanta milioni di dollari.» Sandy bevve un altro sorso e annuì. Provava una punta di ammirazione. «Se mi trovo un buon avvocato, probabilmente potrei avere molto di più.» «Forse, ma potrebbe dover aspettare anche cinque anni. E avrebbe co-
munque altri problemi.» «Per esempio?» «Non manteneva contatti con Clovis.» «Forse sì, invece.» «Allora perché non era presente al suo funerale? Potrebbe essere difficile venderla a una giuria. Senta, Deena, io sono qui pronto a chiudere la questione. Se lei non vuole, rimonto in macchina e me ne torno a New Orleans.» «Qual è la sua ultima offerta?» «Cinquantamila.» «Affare fatto.» Gli porse la manona destra, ancora umida della brina che ricopriva la lattina di Coca. Si scambiarono una stretta. Sandy si tolse di tasca un assegno ancora in bianco e lo compilò. Le sottopose anche altri due documenti, una breve dichiarazione con i termini del loro accordo e una lettera di Deena al pubblico ministero. Non gli ci vollero più di dieci minuti. Finalmente a Boca ci furono segni di vita. La svedese fu vista caricare frettolosamente alcuni bagagli sulla Bmw di Benny. Partì di gran carriera. La seguirono al Miami International, dove la donna attese due ore prima di imbarcarsi su un aereo per Francoforte. Avrebbero aspettato a Francoforte. L'avrebbero tenuta d'occhio in attesa che commettesse un errore. Dopodiché avrebbero trovato il signor Aricia. 39 L'ultimo atto ufficiale del giudice preposto al caso fu un colloquio informale di contenuto indeterminato tenutosi nel suo ufficio privato e senza che fosse presente il legale dell'accusato. Non c'era neanche il pubblico ministero. La riunione non sarebbe stata messa agli atti. Tre agenti fecero entrare in gran segreto Patrick da una porta sul retro del palazzo di giustizia. Lo accompagnarono per le scale di servizio e lo introdussero nell'ufficio in cui Huskey lo aspettava in abiti borghesi. Non c'erano processi in corso e la giornata in tribunale sarebbe stata delle più tranquille, non fosse per l'arresto avvenuto all'alba di quattro illustri avvocati, fatto che aveva scatenato una ridda inarrestabile di voci e pettegolezzi. Le medicazioni alle ferite impedivano a Patrick di indossare indumenti attillati. La tenuta da chirurgo faceva il suo bell'effetto e serviva anche a
ricordare a tutti che era degente in un ospedale e non detenuto in un carcere. Quando furono soli, Karl gli consegnò un foglio. «Da' un'occhiata.» Era un ordine di poche righe, firmato dal giudice Karl Huskey, con cui si dichiarava non idoneo a presiedere alla causa promossa dallo stato contro Patrick S. Lanigan. La sua rinuncia sarebbe stata effettiva a partire da mezzogiorno, cioè di lì a un'ora. «Stamane ho passato due ore con il giudice Trussel. Per la verità è appena uscito da questo ufficio.» «Sarà indulgente con me?» «Cercherà di essere giusto. Io gli ho spiegato che secondo me il processo non è per omicidio di primo grado. Era molto risollevato per questo.» «Non ci sarà nessun processo, Karl.» Patrick guardò il calendario appeso alla parete, dove tutti i giorni per tutto il mese di ottobre erano occupati da un numero di udienze che non avrebbero potuto smaltire nemmeno cinque presidenti di corte. «Ancora non ti sei comperato un computer, vedo» commentò. «Ne ha uno la mia segretaria.» Era stato proprio in quell'ufficio che si erano conosciuti, quando molti anni prima Patrick vi era entrato da giovane e sconosciuto avvocato in rappresentanza di una famiglia devastata da un incidente stradale. Presiedeva Karl. Il dibattimento era durato tre giorni, durante i quali i due avevano stretto amicizia. La giuria aveva decretato che al cliente di Patrick la controparte versasse due milioni e trecentomila dollari, all'epoca uno dei risarcimenti più ingenti stabiliti per verdetto sulla Costa. Contro il desiderio di Patrick, lo studio Bogan aveva accettato in appello di chiudere la vertenza per due milioni. Gli avvocati avevano intascato un terzo della somma e, dopo aver pagato certi debiti e fatto certi acquisti, il restante era stato diviso in quattro parti. All'epoca Patrick non era socio. Solo di malavoglia gli avevano riconosciuto un premio di venticinquemila dollari. In quel processo la parte di protagonista era toccata a Clovis Goodman. Patrick raccolse da terra una scaglia di intonaco. Esaminò una scura macchia di umidità sul soffitto. «Dovresti chiedere alla contea di farti ritinteggiare questa stanza. È ancora com'era quattro anni fa.» «Tra due mesi me ne vado, non è più affar mio.» «Ricordi il processo Hoover? Il primo che ho sostenuto nella tua aula e il mio primo grande successo?» «Certo che lo ricordo.» Karl incrociò i piedi sulla scrivania con le dita
intrecciate dietro la nuca. Patrick gli raccontò la storia di Clovis. Una serie di bruschi colpi alla porta interruppe il racconto quando volgeva ormai al termine. Entrò un aiutante con una scatola di cartone dalla quale si spargeva nell'aria un profumo invitante. Patrick si avvicinò al tavolo di Karl per assistere all'apertura: gombo e chele di granchio. «È di Mahoney» riferì Karl. «Con i complimenti di Bob.» Il locale di Mary Mahoney era qualcosa di più di un abbeveratoio per il venerdì sera di avvocati e giudici; era il più antico ristorante della Costa, con una cucina squisita e un gombo leggendario. «Ricambia i saluti da parte mia» disse Patrick scegliendo una chela. «Voglio tornarci presto.» A mezzogiorno in punto Karl accese il piccolo televisore situato al centro di uno scaffale di libri e insieme osservarono senza commenti i servizi cuciti insieme con frenesia sugli arresti effettuati quella mattina. Nessun commento, certamente non dagli avvocati, che si erano barricati in ufficio. Faceva meraviglia che non avesse niente da dire nemmeno Maurice Mast. Bocche cucite anche all'Fbi. In mancanza di notizie autentiche, l'inviata aveva supplito nella maniera in cui era stata addestrata, condendo cioè il reportage con pettegolezzi e dicerie, dove la figura di spicco era quella di Patrick. Voci non confermate le avevano riferito che gli arresti avvenivano nel quadro di un'indagine ancora in corso che riguardava il caso Lanigan e, a riprova delle sue affermazioni, fece andare in onda una sequenza di undici giorni prima, in cui si vedeva Patrick entrare al palazzo di giustizia di Biloxi. Sullo schermo apparve un collega che, con aria più che professionale, informò i telespettatori sottovoce di trovarsi davanti alla porta dell'ufficio del senatore Harris Nye, primo cugino di Charles Bogan, nel caso qualcuno avesse mancato di notare il collegamento. Il senatore si trovava attualmente a Kuala Lumpur per una missione commerciale che aveva lo scopo di riportare nel Mississippi un certo numero di posti di lavoro al minimo di salario e pertanto non poteva contribuire con un commento personale. Nessuna delle otto persone presenti in ufficio sapeva niente di niente, quindi nessuna aveva qualcosa da dire. Tutto il servizio durò dieci minuti senza interruzioni. «Perché sorridi?» domandò Karl. «È una splendida giornata. Spero solo che abbiano il fegato di inchiodare il senatore.»
«Ho sentito che i federali hanno ritirato tutte le loro accuse contro di te.» «Infatti. Ieri ho testimoniato davanti al gran giurì. Non sai che liberazione scaricarmi finalmente di tutta questa zavorra che mi tenevo dentro da anni.» Durante il telegiornale Patrick aveva smesso di mangiare. Da quanto Karl aveva potuto constatare, aveva consumato due chele di granchio senza quasi toccare la zuppa. «Mangia» lo esortò. «Sei uno scheletro.» Patrick prese un salatino e andò alla finestra. «Aiutami a ricapitolare» riprese Karl. «Il divorzio è sistemato. I federali hanno lasciato cadere tutte le accuse e tu hai accettato di restituire i novanta milioni più una piccola parte di interessi.» «Per un totale di centotredici.» «L'accusa di omicidio di primo grado sta per crollare perché non c'è stato nessun omicidio. Lo Stato non può incriminarti del furto perché l'hanno già fatto i federali. Le cause che ti hanno intentato le compagnie di assicurazione sono state archiviate. Pepper è ancora vivo, non si sa dove. Il suo posto l'ha preso Clovis. Resta un solo piccolo reato del quale rispondere, quello di oltraggio a una tomba.» «Più o meno. In realtà è oltraggio di cadavere, se ti va di controllare sul codice penale. Ormai dovresti essere un esperto.» «Già. Reato penale, infatti.» «Minore.» Karl mescolò la sua zuppa di gombo e osservò con ammirazione l'amico che guardava fuori della finestra sgranocchiando un cracker e senza dubbio architettando il suo prossimo colpo di scena. «Posso venire con te?» chiese. «Dove?» «Dovunque tu stia per andare. Uscirai di qui, raggiungerai la ragazza, prenderai il malloppo, arriverai su qualche costa e andrai a vivere su uno yacht. Non mi dispiacerebbe farti compagnia.» «Ancora non ci sono.» «Ma ogni giorno sei più vicino.» Karl spense il televisore. «C'è un vuoto che mi piacerebbe riempire» osservò. «Dopo la morte di Clovis, seppellito o no che sia, che cos'è successo?» Patrick rise sommessamente. «Ti piacciono i particolari, vero?» «Sono un giudice. I fatti sono importanti.» Patrick si sedette e posò i piedi scalzi sul tavolo. «C'è mancato poco che
mi prendessero. Non è facile rubare un cadavere, sai?» «Ti credo sulla parola.» «Avevo insistito perché Clovis mettesse per iscritto le sue volontà riguardo ai funerali. Io stesso avevo aggiunto un codicillo al suo testamento che dava istruzioni all'impresa di onoranze funebri: cassa subito chiusa, niente visite di parenti, niente musica, veglia per una sola notte e servizio al cimitero ridotto al minimo.» «Che tipo di cassa?» «Di legno. Clovis aveva una specie di mania del tipo "cenere alla cenere e polvere alla polvere". Una cassa di legno economico da interrare. Così era stato sepolto suo nonno. Comunque io ero all'ospedale quando è morto e ho aspettato che da Wiggins arrivasse l'impresario con il carro funebre. Si chiamava Rolland, un bel tipo davvero. La sua impresa di pompe funebri è l'unica di tutta la città. Tutto vestito di nero, come richiesto. Gli ho consegnato una copia delle istruzioni di Clovis e gli ho spiegato che non aveva parenti. Il testamento mi dava l'autorità di occuparmi di tutto e Rolland era lì per ubbidire e basta. Erano circa le tre del pomeriggio. Rolland ha detto che aveva bisogno di qualche ora per preparare la salma. Mi ha chiesto se Clovis aveva un vestito in cui seppellirlo. Nessuno ci aveva pensato. Ho risposto di no, non avevo mai visto Clovis in un vestito intero. Allora Rolland mi ha detto che ci avrebbe pensato lui, perché conserva sempre qualche vecchio abito per queste evenienze. «Clovis avrebbe voluto essere seppellito nel terreno di casa sua, ma io gli avevo spiegato molte volte che in Mississippi non si può fare, che bisogna essere sepolti in un cimitero. Suo nonno aveva combattuto nella guerra civile e, secondo Clovis, si era comportato da eroe. Il vecchio era morto quando Clovis aveva sette anni e c'era stata una di quelle veglie di una volta, quelle che duravano tre giorni. La salma del nonno era stata composta in un feretro posto su un tavolo in salotto e la gente passava a guardarla. A Clovis era piaciuto e voleva qualcosa di simile. Mi aveva fatto giurare che avrei organizzato una piccola veglia per lui. Io l'ho spiegato a Rolland, che si è mostrato poco sorpreso, affermando che ne aveva viste di tutti i colori. «Poco prima che facesse buio è arrivato con il carro funebre davanti alla casa di Clovis, dove io ero seduto in veranda. Ho aiutato Rolland a scaricare la bara e a trasportarla in soggiorno, davanti al televisore. Ricordo che mi sono meravigliato di quanto fosse leggera. Consumato dalla malattia, Clovis pesava solo una cinquantina di chili. «"C'è solo lei qui?" mi ha chiesto Rolland guardandosi intorno.
«"Sì. La veglia la faccio io" gli ho risposto. «Gli ho chiesto di aprire la cassa. Lui era titubante e io gli ho spiegato che avevo dimenticato di mettere dentro certi reperti della guerra civile che Clovis voleva portare con sé. Così lui ha aperto la bara sotto i miei occhi con una specie di chiave inglese delle più comuni. Clovis era come l'avevo visto l'ultima volta. Gli ho posato sul petto il berretto di soldato di fanteria del nonno e una bandiera a brandelli del Diciassettesimo Mississippi. Poi Rolland ha richiuso la bara e se n'è andato. «Alla veglia non è venuto nessuno. Verso mezzanotte ho spento le luci e sprangato le porte. Avevo una serie intera di chiavi inglesi e mi ci è voluto meno di un minuto per aprire la cassa. Ho tirato fuori Clovis. Era leggero, rigido come un'asse di legno e senza scarpe. Avrei pensato che per tremila dollari si avesse diritto almeno a un paio di scarpe. L'ho posato sul divano, ho messo nella cassa quattro mattoni di cemento e l'ho richiusa. «Poi ho portato Clovis al mio chalet di caccia. L'avevo disteso sul sedile posteriore e guidavo con tutta la prudenza del mondo. Mi sarebbe stato difficile rispondere alle domande di un agente della stradale. «Già un mese prima avevo comprato un vecchio congelatore che avevo sistemato sulla veranda dello chalet. Avevo appena finito di chiuderci Clovis, quando ho sentito dei rumori provenire dal bosco. Era Pepper, che veniva a trovarmi alle due del mattino e per poco non mi sorprendeva in flagrante. Gli ho spiegato che avevo avuto un litigio molto aspro con mia moglie ed ero di pessimo umore e l'ho pregato di andarsene. Non credo che mi abbia visto salire in veranda con il cadavere. Comunque ho chiuso il congelatore con delle catene, l'ho avvolto in un telo e ci ho accatastato sopra qualche vecchio scatolone. Ho aspettato che facesse giorno perché Pepper era nelle vicinanze. Poi sono tornato a casa, mi sono cambiato e alle dieci ero di nuovo a casa di Clovis. È arrivato Rolland tutto allegro e gioviale. Mi ha chiesto com'era andata la veglia. Al meglio, gli ho risposto. Insieme abbiamo ricaricato la bara sul carro funebre e siamo andati al cimitero.» Karl ascoltò con gli occhi chiusi e le labbra distese in un sorriso, scuotendo ogni tanto la testa in segno di incredulità. «Diabolico» fu il suo commento. «Grazie. Tutto questo avveniva il 6 febbraio, un giovedì. Il venerdì pomeriggio sono andato allo chalet per passarci il fine settimana. Ho lavorato agli atti di una causa, sono andato a caccia di tacchini con Pepper, ho controllato come stava il vecchio Clovis e mi sembrava che riposasse in pace.
Domenica mattina sono partito prima del sorgere del sole per andare a sistemare la moto e la benzina. Più tardi ho accompagnato Pepper alla stazione dei pullman a Jackson. Quando si è fatto buio ho tolto Clovis dal congelatore, l'ho sistemato vicino al caminetto e ho aspettato che si scongelasse. Verso le dieci l'ho caricato in macchina, mettendolo nel bagagliaio. Un'ora dopo io ero morto.» «Nessun rimorso?» «Certo che sì. È stata una cosa terribile, ma avevo preso la mia decisione, Karl, dovevo scomparire e dovevo escogitare un modo. Non potevo uccidere nessuno, ma avevo bisogno di un cadavere. Non avevo alternative.» «Perfettamente logico.» «E quando Clovis è morto per me era venuta l'ora di andarmene. In gran parte ho avuto fortuna. Era un piano rischioso che poteva andare storto in qualsiasi momento.» «La tua fortuna non ha smesso di assisterti.» «Finora.» Karl consultò l'orologio e prelevò un'altra chela di granchio. «Quanto di questo devo raccontare al giudice Trussel?» «Tutto, salvo il nome di Clovis. Quello lo teniamo per dopo.» 40 Patrick si sedette a un estremo del tavolo. Davanti a sé non aveva niente, a differenza del suo avvocato, seduto a destra, che aveva preparato due incartamenti e un bloc-notes come armi pronte per la battaglia. A sinistra sedeva T.L. Parrish, con il suo bloc-notes e un voluminoso registratore per il cui uso aveva ricevuto il consenso dell'imputato. Non si era voluto complicare la riunione con la presenza di assistenti, ma, siccome tutti i bravi avvocati hanno bisogno di controprove, si era deciso di registrare la conversazione. Ora che le accuse federali erano cadute, ci si affidava allo stato perché Patrick rispondesse alla giustizia. Parrish sentiva il peso della sua responsabilità. I federali gli avevano scaricato il loro imputato per dare la caccia a un senatore, ma sapeva che quell'uomo aveva in serbo qualche altro asso nella manica e che la lotta per non soccombere sarebbe stata dura. «Puoi lasciar perdere l'omicidio di primo grado, Terry» esordì Patrick. Quasi tutti lo chiamavano per nome, ma sentirsi chiamare così da un impu-
tato che in una vita precedente aveva conosciuto solo di sfuggita gli faceva accapponare la pelle. «Io non ho ucciso nessuno.» «Chi è bruciato su quella macchina?» «Una persona morta già da quattro giorni.» «Qualcuno che conosciamo?» «No. Era una persona anziana che non conosceva nessuno.» «E com'è morta questa persona anziana?» «Di vecchiaia.» «E dov'è morta di vecchiaia questa persona anziana?» «Qui, nel Mississippi.» Parrish si mise a disegnare sul bloc-notes. La porta si era aperta nel momento in cui i federali si erano tirati indietro e Patrick stava per varcare la soglia senza catene, senza manette, senza che nessuno potesse fermarlo. «Dunque hai bruciato un cadavere?» «Sì.» «Non è contro la legge?» Sandy gli passò un foglio. Parrish lo lesse in pochi secondi. «Abbiate pazienza» si scusò poi. «Non è un reato che ci capita sovente.» «È tutto quello che hai, Terry» dichiarò Patrick con tutta la tranquillità di chi ha progettato quell'incontro per anni. Parrish ne era convinto, ma non è dato a un pubblico ministero ritirarsi così facilmente. «Mi sembra che ci sia un annetto di galera da scontare» mormorò. «Un anno a Parchman dovrebbe farti bene.» «Senz'altro, ma purtroppo non ci andrò.» «Dove hai in mente di andare, invece?» «Non ho ancora deciso. Ma ci andrò con un biglietto di prima classe.» «Procediamo con calma. C'è sempre questo cadavere.» «No, Terry. Non c'è più nessun cadavere. Voi non avete idea di chi sia stato cremato e io non ve lo dirò finché non avremo raggiunto un accordo.» «Di che tenore?» «Voi ritirate le accuse. Rinunciate a giudicarmi. Ci si stringe la mano e ciascuno va per la sua strada.» «Oh, ma che bella proposta. Noi prendiamo lo svaligiatore, lui restituisce i soldi, noi ritiriamo le accuse e lo accompagniamo alla porta con tanti complimenti. Invierebbe il messaggio giusto agli altri quattrocento imputati che ho fatto rinviare a giudizio. Sono sicuro che i loro avvocati capirebbero. Una vera pera corroborante al braccio della legge.»
«A me non importa niente degli altri quattrocento e a loro certamente non importa niente di me. Qui c'è in ballo un'accusa da codice penale, Terry, e ciascuno bada a se stesso.» «Già, ma non tutti sono in prima pagina.» «Ah, capisco, ti preoccupa la stampa. Quand'è che si va alle urne? L'anno prossimo?» «Io non ho rivali. La stampa mi preoccupa solo fino a un certo punto.» «Ma sì che ti preoccupa, tu sei un pubblico ufficiale, il tuo compito è di preoccuparti della stampa, la ragione precisa per cui ti conviene ritirare le accuse contro di me. Non puoi vincere. Ti sta a cuore la prima pagina? Pensa alla tua foto dopo che avrai perso in tribunale.» «La famiglia della vittima non desidera che il signor Lanigan sia perseguito» intervenne Sandy. «E la famiglia è pronta a dichiararlo pubblicamente.» Sollevò un foglio e lo sventolò. Il messaggio era esplicito: noi abbiamo le prove, noi abbiamo la famiglia, noi sappiamo chi sono e tu no. «Dovrebbe fare un bell'effetto un articolo sui familiari che ti pregano di non incriminarmi» osservò Patrick. Quanti soldi gli avete dato? stava per chiedere Parrish, ma preferì tacere. Non era rilevante. Altri scarabocchi sul bloc-notes. Altre valutazioni sulla sua posizione sempre più fragile, mentre il registratore catturava il silenzio. Ora che il suo avversario era alle corde, Patrick entrò nella sua guardia per chiudere l'incontro. «Senti, Terry, tu non puoi incriminarmi per omicidio, quella questione è chiusa. Non mi puoi incriminare per oltraggio di cadavere, perché non sai il cadavere di chi è stato oltraggiato. Non hai niente. So che è una medicina amara da mandare giù, ma non puoi cambiare i fatti. Ti beccherai qualche strapazzata, ma, diavolo, fa parte del mestiere.» «Grazie mille. Senti, posso comunque incriminarti per oltraggio di cadavere. Lo chiameremo John chissà chi.» «Perché non Jane chissà chi?» ribatté Sandy. «Un nome vale l'altro. Cercheremo i certificati di morte di tutti i vecchietti andati all'altro mondo nei primi giorni del febbraio 1992. Andremo dalle famiglie, scopriremo con chi avete parlato. Chissà che non riusciamo a ottenere anche un ordine del tribunale per qualche esumazione. Abbiamo tempo. Intanto tu sarai trasferito alla prigione di contea dove sono sicuro che lo sceriffo Sweeney farà in modo di sceglierti qualche simpatico compagno di cella. Ci opporremo alla libertà dietro cauzione e nessun giudice
te la accorderà perché ci sono alte probabilità di fuga. Passeranno i mesi. Arriverà l'estate. In prigione non c'è l'aria condizionata. Perderai qualche altro chiletto. Noi intanto continueremo a scavare e con un po' di fortuna troveremo la tomba vuota. E fra esattamente nove mesi, duecentosettanta giorni dopo l'incriminazione, andrai sotto processo.» «Come hai intenzione di provare che l'ho fatto? Non ci sono testimoni, solo prove circostanziali.» «Sarà un lavoro duro, ma ti dev'essere sfuggito qualcosa dei miei conticini. Se me la prendo comoda prima di incriminarti, posso aggiungere un paio di mesi alla tua detenzione. Alla fine avrai passato quasi un anno in una prigione di contea prima del processo. È un sacco di tempo per un uomo con un mucchio di soldi.» «Lo sopporterò» ribatté Patrick, guardandolo fisso negli occhi e sperando di non essere il primo a battere le palpebre. «Forse, ma non puoi correre il rischio di essere condannato.» «Dove vuole arrivare?» domandò Sandy. «Bisogna considerare il quadro generale» rispose Parrish con un ampio movimento delle mani al di sopra della testa. «Tu non puoi prenderci per il naso, Patrick. I federali hanno preso il largo e allo Stato non resta molto. Dacci qualcosa di accettabile.» «Vi concedo la condanna. Io entro in un'aula di tribunale, affronto il giudice, ascolto le vostre chiacchiere e mi dichiaro colpevole di oltraggio di cadavere. Ma non sconto neanche un giorno in galera. Tu puoi spiegare al giudice che la famiglia non vuole che io sia perseguito. Puoi consigliare una sospensione della sentenza, libertà vigilata, una multa, un'ammenda, i giorni di detenzione già scontati. Puoi parlare della tortura che ho subito. Tutte queste cose puoi fare, Parrish, e fare anche una gran bella figura. La conclusione è: niente carcere.» Parrish tamburellò con le dita mentre rifletteva. «E tu ci dirai come si chiamava la vittima?» «Sì, ma solo dopo che ci saremo accordati.» «Abbiamo l'autorizzazione da parte della famiglia di aprire la bara» interloquì Sandy, alzando per qualche istante un altro documento prima di riporlo nella cartelletta. «Ho fretta, Terry. Ho da andare da qualche parte.» «Io ho bisogno di parlare con Trussel. Ti rendi conto anche tu che è necessario avere la sua approvazione.» «Te la darà» replicò Patrick.
«Allora siamo d'accordo?» chiese Sandy. «Per quanto mi riguarda sì» rispose Parrish e spense il registratore. Raccolse le sue armi e le ripose nella cartella. Patrick strizzò l'occhio a Sandy. «Oh, a proposito» aggiunse Parrish alzandosi. «Quasi dimenticavo. Che cosa mi dici di Pepper Scarboro?» «Vi posso dare il suo nuovo nome e numero della previdenza sociale.» «Dunque è ancora con noi?» «Sì. Potete andare a trovarlo, ma non disturbatelo. Lui non ha fatto niente.» Il procuratore distrettuale uscì senza un'altra parola. Alle due aveva appuntamento con un vicepresidente anziano della Deutsche Bank di Londra. Era un tedesco che parlava un inglese perfetto, indossava un impeccabile doppiopetto blu, esibiva un sorriso che sembrava stampato e si muoveva come un automa. Le guardò le gambe per una frazione di secondo, poi passò ai motivi del loro colloquio. Il trasferimento dalla sede della sua banca a Zurigo riguardava una somma che ammontava a centotredici milioni di dollari, da girare immediatamente all'AmericaBank a Washington. Lei aveva i numeri di conto e le istruzioni del caso. Fu intrattenuta con tè e biscotti mentre il vicepresidente si scusava e si assentava per consultarsi in privato con Zurigo. «Nessun problema, signora Pires» annunciò con un cordiale sorriso quando riapparve e prese a sua volta un biscotto. Nessun problema, come del resto era stato previsto. Con un sibilo sommesso, dal computer sulla sua scrivania scivolò un foglio. Il vicepresidente glielo consegnò. A trasferimento compiuto, sul conto presso la Deutsche Bank restavano più di un milione e novecentomila dollari. Lei ripiegò il foglio e lo ripose nella borsetta, una lucida Chanel nuova di zecca. Su un altro conto svizzero c'erano tre milioni. Una banca canadese sulla Grand Cayman custodiva per loro sei milioni e mezzo. Una società di cambio delle Bermuda stava investendo per loro quattro milioni di dollari. In Lussemburgo erano in quel momento parcheggiati altri sette milioni e duecentomila dollari, che però stavano per essere trasferiti. Concluse le pratiche, uscì dalla banca e tornò all'automobile che aveva lasciato poco distante. L'autista le aprì la portiera. Ora avrebbe chiamato Sandy per informarlo sui suoi prossimi spostamenti.
Il tentativo di fuga di Benny durò poco. La sua fidanzata trascorse la notte a Francoforte, poi si recò in aereo a Londra, dove atterrò verso mezzogiorno all'aeroporto di Heathrow. Poiché erano stati avvertiti del suo arrivo, al controllo passaporti le fu chiesto di attendere. Portava occhiali scuri e le tremavano le mani. Fu tutto registrato da una telecamera. Alla stazione dei taxi fu trattenuta a sua insaputa da un poliziotto che fingeva di essere l'incaricato allo smistamento. L'agente le chiese di fermarsi vicino ad altre due signore in attesa del suo turno. Il suo autista era un tassista vero, ma solo pochi minuti prima la polizia gli aveva montato in macchina una piccola trasmittente. «Athenaeum Hotel, Piccadilly» disse lei. Il tassista partì immettendosi nel traffico pesante e ripeté la destinazione alla trasmittente. Guidò con calma. Un'ora e mezzo dopo depositò la sua passeggera davanti all'ingresso dell'albergo. Lei dovette aspettare di nuovo alla reception. Il vicedirettore si scusò per il ritardo, ma il computer era guasto. Quando arrivò la conferma che il telefono nella sua stanza era debitamente controllato, le fu consegnata una chiave e un fattorino l'accompagnò di sopra. Lei gli diede una mancia esigua, chiuse con la chiave, mise la catena e andò subito al telefono. Le prime parole che le udirono pronunciare furono: «Benny, sono io. Sono qui». «Dio ti ringrazio» sospirò Benny. «Stai bene?» «Sì. Ho solo paura.» «Non ti ha seguita nessuno?» «No, mi sembra di no. Sono stata attenta.» «Brava. Senti, c'è un baretto in Brick Street vicino a Down, a due isolati dal tuo albergo. Ci vediamo lì tra un'ora.» «D'accordo. Ho tanta paura, Benny.» «Andrà tutto bene, tesoro. Sto morendo dalla voglia di vederti.» Quando lei arrivò, Benny non c'era. Attese un'ora prima di tornare di corsa in albergo in preda al panico. Lui non chiamò e lei non dormì. L'indomani mattina trovò nella lobby i giornali appena consegnati e li lesse mentre beveva il caffè in sala da pranzo. Sepolto in una delle pagine interne del "Daily Mail" trovò finalmente un articoletto di due paragrafi sulla cattura di un certo Benjamin Aricia, ricercato dalla polizia federale statunitense. Fece i bagagli e prenotò su un aereo per la Svezia.
41 In uno scambio di bisbigli tra il giudice Karl Huskey e il suo collega giudice Henry Trussel si stabilì che la questione Lanigan avesse la precedenza assoluta fino alla chiusura del caso. In tutta la comunità giudiziaria di Biloxi si rincorrevano le voci di un possibile accordo, a loro volta inseguite da altre indiscrezioni sulle sventure che avevano travolto lo studio legale di Bogan. In realtà al palazzo di giustizia non si parlava d'altro. Trussel cominciò la sua giornata convocando Parrish e Sandy per un rapido aggiornamento che finì per durare ore. Patrick fu interpellato per tre volte durante la discussione tramite il cellulare del dottor Hayani. Paziente e medico erano nella mensa dell'ospedale a giocare a scacchi. «Non credo che le sue condizioni fisiche siano idonee a una detenzione» borbottò Trussel dopo il secondo colloquio con Patrick. Era chiaramente restio a scagionare Patrick, ma una condanna gli sembrava quanto mai problematica. Con un calendario pieno di casi riguardanti trafficanti di droga e pedofili, era altrettanto riluttante a dedicare troppo tempo a un personaggio della cronaca accusato di aver manomesso un cadavere sulla base di prove solo indiziarie. E del resto Patrick aveva già dato dimostrazione della scaltrezza con cui aveva progettato ogni sua mossa e con un imputato così i rischi di un dibattimento erano semplicemente troppo alti. Si decise quali dovessero essere i termini del patteggiamento. L'operazione burocratica ebbe inizio con una mozione congiunta per ridurre le accuse contro Patrick. Seguì un ordine concordato che sostituiva una nuova imputazione a quella precedente, con accettazione della dichiarazione di colpa. Nel corso della prima riunione, Trussel parlò per telefono con lo sceriffo Sweeney, con Maurice Mast, Joshua Cutter e Hamilton Jaynes a Washington. Si consultò due volte anche con Karl Huskey, tenutosi a sua disposizione per ogni evenienza nell'ufficio accanto. I due giudici e Parrish avevano cariche elettive della durata di quattro anni. Trussel non aveva mai avuto un vero rivale alle elezioni e si considerava politicamente inattaccabile. Huskey stava per andare in pensione. Parrish era in una posizione molto delicata, ma da buon politico sapeva presentare la solita faccia impassibile di chi è capace di prendere le decisioni gravi senza tener conto dell'opinione pubblica. Tutti e tre avevano abbastanza esperienza per aver imparato una lezione fondamentale: quando si ha in mente di compiere un atto probabilmente impopolare, è meglio agire con tempestività. Dare un taglio netto. Le esitazioni servono solo a far en-
trare in suppurazione la ferita. Gli organi d'informazione ci si gettano sopra, giocano d'anticipo scatenando una controversia e una volta presa la decisione non smettono di gettare benzina sul fuoco. Il caso in questione era semplice, dopo che Patrick lo ebbe spiegato a tutti gli interessati. Lui avrebbe rivelato il nome della vittima, allegando inoltre l'autorizzazione da parte della famiglia di aprire la tomba e vedere che cosa c'era nella bara. Se fosse stata vuota, per parte sua avrebbe onorato l'accordo stipulato con le autorità. Se invece si fosse trovato il cadavere nella cassa, allora l'accordo sarebbe sfumato e Patrick avrebbe dovuto di nuovo affrontare l'accusa di omicidio premeditato. A giudicare dalla adamantina sicurezza con cui Patrick parlava della vittima, tutti erano convinti che non avrebbero visto nessun cadavere. Sandy trovò il suo cliente a letto, circondato dalle infermiere e accudito dal dottor Hayani, che gli stava medicando le ustioni. Disse che era urgente e Patrick invitò tutti a uscire. Quando furono soli, esaminarono insieme passo per passo il testo della mozione e dell'ordine del tribunale, lo lessero a voce alta e conclusero infine che lo si poteva sottoscrivere. Patrick firmò. Sandy notò una scatola di cartone per terra vicino al tavolino sul quale Patrick era abituato a lavorare. Conteneva i libri che lui stesso aveva prestato al suo cliente. Il quale aveva già cominciato a fare i bagagli. Sandy consumò un sandwich veloce nella suite dell'albergo, mangiandolo in piedi mentre teneva d'occhio la segretaria che ribatteva a macchina il documento. I due assistenti e l'altra segretaria erano ritornati allo studio di New Orleans. Squillò il telefono e sollevò il ricevitore. La persona all'altro capo del filo disse di essere Jack Stephano, che chiamava da Washington; forse Sandy aveva sentito parlare di lui. Sì, il suo nome non gli era nuovo. Stephano era nella hall dell'albergo e sperava che volesse dedicargli qualche minuto. Senza dubbio. Trussel aveva chiesto agli avvocati di ripresentarsi da lui verso le due. Si sedettero nello studiolo l'uno di fronte all'altro. «Sono qui per pura curiosità» disse Stephano e Sandy non ebbe motivo di non credergli. «Non dovrebbe cominciare presentandomi le sue scuse?» lo apostrofò Sandy. «Sì, ha ragione. Laggiù i miei uomini si sono lasciati prendere un po' la mano e, be', hanno esagerato con il suo cliente.» «Queste sarebbero le scuse?» «Mi dispiace. Abbiamo sbagliato.» Nelle sue parole non c'era neppure
l'eco della sincerità. «Riferirò al mio cliente. Sono sicuro che ne sarà commosso.» «Sì, già, comunque io ormai non ho più alcun interesse personale in questa vicenda. Mi sto recando in Florida con mia moglie per un periodo di vacanza e ho fatto questa deviazione per rubarle non più di un minuto.» «Hanno preso Aricia?» chiese Sandy. «Sì, poche ore fa. A Londra.» «Bene.» «Io non lo rappresento più e non ho più niente a che fare con la Platt & Rockland. Sono stato assunto dopo la scomparsa del denaro. Il mio compito era ritrovarlo. Ci ho provato. Sono stato pagato per questo, ho archiviato il caso.» «Allora perché ha voluto vedermi?» «Perché c'è una cosa che devo assolutamente sapere. Noi abbiamo trovato Lanigan in Brasile perché qualcuno ci aveva dato la soffiata. Qualcuno che lo conosceva molto bene. Due anni fa siamo stati contattati da un'agenzia di Atlanta che si chiama Pluto Group. Avevano un cliente in Europa che sapeva qualcosa su Lanigan e voleva essere pagato per le informazioni. Avevamo dei soldi a disposizione in quel momento, così abbiamo allacciato un rapporto con loro. Il cliente ci dava una dritta, noi accettavamo di ricompensarlo, il denaro cambiava di mano e la dritta si rivelava immancabilmente buona. Questa persona sapeva molte cose su Lanigan, i suoi movimenti, le sue abitudini, i nomi falsi che utilizzava. Ma era una messinscena, dietro c'era un cervello. Sapevamo a che cosa andavamo incontro e francamente eravamo ansiosi di arrivarci. E alla fine ecco che la nostra previsione si avvera. Per un milione di dollari il misterioso cliente ci dice dove vive l'uomo che cerchiamo. Gli intermediari ci consegnano alcune foto di Lanigan, molto nitide. In una sta lavando la sua macchina, una Volkswagen. Decidiamo di pagare. E prendiamo Lanigan.» «Dunque chi era il cliente?» domandò Sandy. «È questo che non sappiamo. Dev'essere stata la ragazza, giusto?» La reazione di Sandy non fu immediata. Grugnì come se stesse per ridere, ma i suoi occhi rimasero gelidi. Gli tornò alla mente, piano piano, tutta la storia dell'agenzia Pluto ingaggiata per sorvegliare Stephano e controllare l'andamento delle sue ricerche di Patrick. «Dov'è ora?» chiese Stephano. «Io non lo so» rispose Sandy. Era a Londra, ma non era certamente necessario riferirglielo.
«Noi abbiamo pagato un totale di un milione e centocinquantamila dollari a questo cliente misterioso il quale in cambio ci ha consegnato il nostro uomo. Come Giuda.» «È finita. Che cosa vuole da me?» «Come ho detto, sono solo curioso. Uno di questi giorni, se dovesse venire a conoscenza della verità, le sarei grato se mi desse un colpo di telefono. Io non ho più niente né da guadagnare né da perdere, ma non avrò pace finché non saprò se è stata lei a prendere i nostri soldi.» Sandy fece una vaga promessa e Stephano si congedò. Allo sceriffo Raymond Sweenev giunse un'indiscrezione sul possibile patteggiamento mentre pranzava e non gli piacque per niente. Chiamò Parrish e il giudice Trussel, tutti e due troppo occupati per parlare con lui. Cutter era fuori ufficio. Sweeney andò di persona al palazzo di giustizia. Si piazzò nel corridoio tra gli uffici privati dei giudici, così se fosse successo qualcosa lui ne sarebbe stato testimone. Scambiò alcune parole sottovoce con gli ufficiali giudiziari e gli agenti. Qualcosa bolliva in pentola. Verso le due apparvero gli avvocati con le bocche cucite su facce di pietra. Si riunirono nell'ufficio di Trussel a porte chiuse. Dopo dieci minuti, Sweeney bussò. Interruppe la riunione pretendendo di sapere che cosa si stesse complottando. Il giudice Trussel gli spiegò in toni pacati che presto l'imputato si sarebbe dichiarato colpevole in conseguenza di un patteggiamento che, a suo avviso e secondo l'opinione unanime dei presenti, era nel miglior interesse della giustizia. Anche Sweeney aveva un'opinione, che rese pubblica senza mezzi termini. «Faremo la figura degli imbecilli. La gente là fuori è ipersensibile a questo caso. Prendete un delinquente ricco e lui usa del suo denaro per comperarsi la libertà. E noi? Tutti intorno a battere le mani come un branco di clown?» «Tu che cosa suggerisci, Raymond?» domandò Parrish. «Grazie di avermelo chiesto. Prima di tutto lo schiafferei nella prigione della contea e lo lascerei al fresco per un po' come è giusto che sia per tutti quelli come lui. Poi lo giudicherei per tutto quello che gli si può addossare.» «Per esempio?» «Ha rubato quei soldi, sì o no? Ha bruciato quel cadavere. Che si faccia dieci anni a Parchman. Questa è giustizia.»
«I soldi non li ha rubati qui» spiegò Trussel. «Noi non abbiamo voce in capitolo. Era una questione federale e i federali hanno già lasciato cadere le accuse.» Sandy era in un angolo con gli occhi fissi su un documento. «Allora qualcuno ha giocato sporco, giusto?» «Non noi» si affrettò a precisare Parrish. «Splendido. Andiamolo a raccontare alla gente che ti ha eletto. Diamo la colpa ai federali perché loro non si presentano agli elettori per il loro mandato. E il cadavere bruciato? Lo lasciamo libero dopo che ha ammesso di averlo fatto?» «Secondo te dovremmo perseguirlo per questo?» volle sapere Trussel. «Ma certo!» «Benissimo. E secondo te che prove abbiamo da presentare?» chiese Parrish. «Il pubblico ministero sei tu. È il mestiere tuo.» «Già, ma sembra che tu sappia tutto. Dimmi, allora, come conduciamo l'accusa?» «Ha ammesso di averlo fatto, sì o no?» «Sì, l'ha ammesso, e tu credi che Patrick Lanigan si siederà al banco degli imputati e confesserà alla giuria di aver bruciato un cadavere? Questa è la tua linea di accusa?» «Non lo farà mai» intervenne Sandy. Sweeney gesticolava, con il collo e le guance paonazzi, incenerì Parrish con un'occhiata, poi fissò con uno sguardo torvo Sandy. Quando si rese conto che davanti a tutti quegli avvocati le sue armi erano spuntate, trovò la forza di controllarsi. «Quando deve succedere?» s'informò. «Oggi nel tardo pomeriggio» gli rispose Trussel. Nemmeno questo piacque a Sweeney. Affondò le mani nelle tasche e si diresse alla porta. «Proprio vero che cane non mangia cane» dichiarò a un volume di voce abbastanza alto perché tutti lo udissero. «Siamo una grande famiglia felice» fece eco Parrish con amaro sarcasmo. Sweeney uscì sbattendo la porta, percorse a passo di marcia il corridoio, uscì dal tribunale e montò in macchina. Dal telefono di bordo chiamò il suo informatore personale, un reporter del "Coast". Avuta carta bianca dai familiari e dall'esecutore testamentario, che era Lanigan, il disseppellimento della bara non incontrò ostacoli burocratici. A
nessuno degli interessati sfuggì l'ironia del fatto che fosse Patrick, l'unico amico di Clovis, a firmare il documento che dava il consenso all'apertura della bara affinché Patrick potesse essere scagionato dall'accusa di averla profanata. Poiché non si trattava di un'autentica esumazione, procedura che richiedeva un'ordinanza del tribunale dopo un'istanza ufficiale e qualche volta addirittura un'udienza, il giudice Trussel ne approfittò per agire con grande discrezionalità, considerato che non si sarebbe arrecato alcun danno ai familiari, né si sarebbe profanata una tomba. Rolland gestiva ancora l'impresa di pompe funebri a Wiggins. Ricordava molto bene il signor Clovis Goodman e il suo avvocato e la strana breve veglia in campagna, a casa del signor Goodman, dove nessuno era andato a rendere omaggio alla salma a parte l'avvocato. Sì, ricordava tutto, disse al giudice per telefono. Sì, aveva letto qualcosa sul signor Lanigan e, no, non aveva pensato che ci fosse un nesso. Il giudice Trussel gli diede i ragguagli necessari. No, rispose Rolland, non aveva aperto la cassa dopo la veglia, non c'era stato motivo di farlo, non era consuetudine aprirla comunque. Mentre il giudice parlava, Parrish inviava a Rolland via fax copie delle autorizzazioni firmate da Deena Posteli e da Patrick Lanigan, l'esecutore. Rolland si mostrò improvvisamente desideroso di collaborare. Non gli era mai capitato un furto di cadavere, atti di cui non si era mai sentito a Wiggins e, sì, si sarebbe occupato di tutto lui senza indugio. Era anche proprietario del cimitero. Il giudice Trussel mandò il suo cancelliere e due aiutanti dello sceriffo. Davanti alla semplice lapide con la scritta "CLOVIS F. GOODMAN, 23 gennaio 1907 - 6 febbraio 1992. Accolto in cielo", una ruspa cominciò gli scavi sotto la soprintendenza di Rolland. Dopo un quarto d'ora toccò la cassa. Rolland e uno dei suoi aiutanti scesero nella fossa a spalare altra terra. Lungo i bordi il tenero legno di pioppo aveva cominciato a marcire. Rolland inserì la chiave e dopo qualche strattone e qualche spinta staccò il coperchio. Lo sollevò adagio. Come previsto, la bara era vuota. A parte i quattro mattoni. Il piano era di farlo a porte aperte, come richiesto dalla legge, ma aspettando che fossero quasi le cinque, quando si è in prossimità dell'ora di chiusura e molti degli impiegati stanno già uscendo. Tutti convennero sul-
l'opportunità di agire in quel modo, specialmente il giudice e il procuratore distrettuale, convinti com'erano di agire sì per il meglio, ma tutt'altro che felici di farlo. Per tutta la giornata Sandy aveva brigato perché l'udienza fosse tenuta il più presto possibile dopo l'apertura della bara. Non c'era motivo di tirarla per le lunghe. Il suo cliente era in stato di detenzione, fatto che per altro intenerì poco il cuore dei rappresentanti della giustizia. Ma non c'erano impedimenti formali di alcun genere, quindi perché non guadagnare tempo? Nessun ostacolo, aveva deciso finalmente il giudice. Parrish non aveva opposto obiezioni di sorta. Aveva otto dibattimenti in programma nelle tre settimane seguenti e sbarazzarsi di Lanigan sarebbe stato solo un sollievo. Dunque tutti erano d'accordo per le cinque di pomeriggio. Con un po' di fortuna l'udienza non sarebbe durata più di dieci minuti. Un altro briciolo di fortuna e nessuno li avrebbe visti. Le cinque erano un'ora gradita anche a Patrick. Che cos'altro aveva da fare, lui? Indossò un paio di calzoni sportivi e una camicia bianca di cotone. Calzò scarpe senza calze per via delle bruciature che aveva ancora sulla caviglia. Abbracciò Hayani e lo ringraziò dell'amichevole compagnia. Abbracciò le infermiere e ringraziò gli inservienti e promise loro che presto sarebbe tornato a trovarli. Non lo avrebbe fatto e tutti lo sapevano. Dopo più di due settimane trascorse come paziente e detenuto, Patrick lasciò l'ospedale con il suo avvocato al fianco e la scorta armata alle spalle. 42 Evidentemente le cinque erano un'ora perfetta per tutti. Non un solo impiegato del tribunale lasciò l'ufficio per tornare a casa appena la notizia si diffuse fin negli angoli più remoti, fenomeno che richiese solo pochi minuti. La segretaria di un importante studio legale che stava controllando nell'ufficio del catasto alcuni atti riguardanti la compravendita di un immobile, udì per caso le ultime su Patrick, corse a un telefono e avvertì l'ufficio. Nel giro di pochi minuti tutta la comunità legale della Costa sapeva che Lanigan stava per dichiararsi colpevole nel quadro di un misterioso patteggiamento e che avrebbe tentato di deporre in segreto alle cinque nell'aula principale del palazzo di giustizia. L'ipotesi di un'udienza clandestina a completamento di trattative di corridoio scatenò una valanga di telefonate: ce ne furono per avvocati, mogli,
giornalisti, colleghi in trasferta. In meno di trenta minuti mezza città sapeva che Patrick stava per comparire in aula e che con tutta probabilità ne sarebbe uscito libero. L'udienza avrebbe suscitato meno attenzione se fosse stata pubblicizzata su giornali e manifesti. La segretezza aveva toccato un nervo scoperto nell'opinione pubblica: il sistema giudiziario si accingeva a garantire l'immunità a uno dei suoi componenti. Fu così che nell'aula principale gli spettatori si ammassarono per raggrupparsi in capannelli tenendo d'occhio i propri posti a sedere, e via via che altra gente arrivava le indiscrezioni ricevevano credibilità: impossibile che tutta quella gente si sbagliasse. Quando giunsero i giornalisti, la conferma fu definitiva. «È qui» disse qualcuno e gli spettatori corsero a sedere. Patrick sorrise ai due operatori che gli vennero incontro armati di telecamera. Fu fatto entrare nella stessa stanza della giuria al primo piano, dove gli tolsero le manette. I calzoni erano un po' troppo lunghi, perciò si prese il disturbo di rimboccarseli mentre Karl entrava e chiedeva agli agenti di attendere in corridoio. «Meno male che doveva avvenire tutto con la massima discrezione» ironizzò Patrick. «Difficile mantenere un segreto qui dentro. Bella tenuta.» «Grazie.» «Questo giornalista che conosco mi chiede di domandarti...» «Nemmeno a parlarne. Nessuna dichiarazione per nessuno.» «Come pensavo. Quando parti?» «Ancora non lo so, ma sarà presto.» «La ragazza dov'è?» «In Europa.» «Posso venire con te?» «Perché?» «Vorrei assistere.» «Ti mando un video.» «Sei un tesoro.» «Davvero te ne andresti? Se avessi l'opportunità di scomparire, lo faresti?» «Con o senza novanta milioni di dollari?» «In entrambi i casi.» «No, guarda che non funziona. Non è lo stesso. Io voglio bene a mia
moglie, tu no. Io ho tre figli stupendi, la tua situazione era completamente diversa. No, io non scapperei. Ma non ti biasimo.» «Tutti sognano di svanire, Karl. A un certo punto nella loro vita, tutti meditano sulla possibilità di abbandonarsi ogni cosa alle spalle. La vita è sempre più bella su una spiaggia o in cima a un monte. Senza problemi. È un desiderio innato. Noi siamo i discendenti di immigrati che hanno lasciato dietro di sé situazioni invivibili e sono venuti qui in cerca di un'esistenza migliore. E hanno continuato a spostarsi verso ovest, a fare i bagagli e ripartire, sempre a caccia della pentola d'oro in fondo all'arcobaleno. Ora non ci sono più nuovi posti dove andare.» «Ehi, non avevo mai considerato questa prospettiva storica.» «C'è un collegamento.» «Peccato che i miei nonni non abbiano fregato novanta milioni a qualcuno prima di lasciare la Polonia.» «Io li ho restituiti.» «Mi giunge voce che potrebbe esserci qualche interessante residuo da qualche parte.» «Se ne sentono tante.» «Dunque mi stai dicendo che la prossima tendenza sarà quella di spillare soldi ai clienti, bruciare cadaveri e volarsene in Sud America dove, naturalmente, c'è un'infinità di belle donne ad aspettare le nostre carezze.» «Finora ha funzionato.» «Poveri brasiliani, con tutti questi avvocati poco puliti che stanno per piombare loro addosso.» Entrò Sandy per un'altra firma. «Trussel è sulle spine» riferì a Karl. «Comincia a sentire la pressione. Il suo telefono scotta.» «E Parrish?» «Nervoso come una prostituta in chiesa.» «Facciamola finita prima che si perdano d'animo» disse Patrick mentre apponeva la sua firma al documento che gli aveva portato Sandy. Un ufficiale giudiziario annunciò che la corte stava per entrare e invitò i presenti a prendere posto. Chi era ancora in piedi corse a sedersi mentre le voci si abbassavano di colpo. Un altro messo chiuse la porta a due battenti. C'erano file di spettatori in piedi lungo le pareti. Erano quasi le cinque e mezzo. Il giudice Trussel fece il suo ingresso con la solita impettita dignità e tutti si alzarono in piedi. Diede il benvenuto ai presenti e li ringraziò per il loro interesse nella giustizia, specialmente a un'ora così scomoda. Con il so-
stegno del procuratore distrettuale aveva concluso che un'udienza frettolosa avrebbe indotto i presenti a pensare che si era tramato alle loro spalle e che quindi era necessario procedere secondo il protocollo. Avevano persino pensato se non valesse la pena rimandare l'udienza, ma in quel caso avrebbero dato l'impressione di essere stati sorpresi nel tentativo di far passare un verdetto preconfezionato. Patrick fu introdotto dalla porta accanto al box della giuria. Si fermò davanti al banco del giudice con Sandy e Parrish. Non si girò a guardare il suo pubblico. Il giudice Trussel sfogliò le pagine della sua pratica, scrutando attentamente parola per parola. «Signor Lanigan» disse finalmente con una voce fonda e lenta. Per mezz'ora tutto sarebbe stato pronunciato al rallentatore. «Ha presentato alcune mozioni.» «Sì, vostro onore» rispose Sandy. «La prima consiste nella riduzione dell'accusa di omicidio di primo grado a oltraggio di cadavere.» Le parole rimbalzarono per tutta l'aula. Oltraggio di cadavere? «Signor Parrish» disse il giudice. Si era convenuto che sarebbe stato principalmente Parrish a condurre il dibattimento, a lui sarebbe toccata l'incombenza di dare spiegazioni alla corte, per gli atti del processo e, più importante ancora, spiegazioni alla stampa e ai cittadini venuti ad ascoltare. Fece un ottimo lavoro nell'illustrare gli ultimi sviluppi del caso. Non si trattava in definitiva di un omicidio, ma di un reato molto meno grave. Lo stato non si opponeva alla riduzione dell'accusa, perché le autorità erano convinte che il signor Lanigan non avesse ucciso nessuno. Parlò camminando avanti e indietro nel suo classico stile alla Perry Mason, agendo da imbonitore per tutte le stagioni in una situazione che gli concedeva ampie deroghe al protocollo. «Poi abbiamo una mozione presentata dall'imputato perché questa corte accetti la sua dichiarazione di colpevolezza per l'accusa di oltraggio di cadavere. Signor Parrish?» Il secondo intervento fu simile al primo. Parrish ricostruì la storia del povero Clovis e Patrick si sentì addosso gli sguardi severi degli spettatori mentre lo ascoltava dilungarsi con piacere nei molti particolari che gli aveva fornito Sandy. "Almeno non ho ucciso nessuno!" avrebbe voluto gridare. «Come si dichiara, signor Lanigan?» chiese il giudice. «Colpevole» rispose Patrick, con fermezza ma senza orgoglio.
«Lo Stato avanza delle istanze?» domandò il giudice al pubblico ministero. Parrish si avvicinò al suo tavolo, spostò gli appunti, tornò verso il banco e mentre ancora camminava finalmente disse: «Sì, vostro onore. Ho qui una lettera della signora Deena Postell di Meridian, Mississippi. È l'unico parente ancora in vita di Clovis Goodman, per la precisione sua nipote». Consegnò un foglio a Trussel come se fosse un documento esibito per la prima volta in quel momento. «Nella lettera la signora Postell chiede a questa corte di non perseguire il signor Lanigan per aver bruciato il cadavere di suo nonno. È morto da più di quattro anni e la famiglia non vuole dover rivivere momenti di sofferenza. È evidente che la signora Postell era molto affezionata al nonno e che la sua scomparsa l'ha molto addolorata.» Patrick scoccò un'occhiata a Sandy. Sandy evitò di incrociare i suoi occhi. «Le ha parlato?» chiese il giudice. «Sì, un'ora fa. Al telefono si è lasciata prendere dalla commozione e mi ha implorato di non riaprire questo caso. Ha dichiarato che non avrebbe mai testimoniato in un processo, né avrebbe collaborato in alcun modo con l'accusa.» Parrish tornò al suo tavolo a frugare in altre carte. Si rivolse al giudice, guardando però la platea. «Visti quali sono i sentimenti dei familiari, lo stato chiede che l'imputato, reo confesso, sia condannato a dodici mesi di carcere, che la pena detentiva sia sospesa previa constatazione di buona condotta, che versi un'ammenda di cinquemila dollari e sostenga tutte le spese legali e che gli sia concessa la libertà vigilata.» «Signor Lanigan, accetta questa sentenza?» chiese Trussel. «Sì, vostro onore» rispose Patrick, incapace di alzare la testa. «Così sia fatto. C'è altro?» chiese Trussel alzando il martelletto. Entrambi gli avvocati scossero la testa. «Il caso è chiuso. La corte si aggiorna.» Il martelletto mandò il suo rintocco nell'aula. Patrick uscì velocemente dalla porta laterale da cui era entrato. Sparito di nuovo davanti agli occhi di tutti. Attese con Sandy per un'ora nell'ufficio di Huskey, mentre fuori calava la sera e gli ultimi ritardatari più coriacei si rassegnavano finalmente ad abbandonare il palazzo di giustizia. Patrick era ansioso di andarsene. Alle sette scambiò un lungo e affettuoso saluto con Karl. Lo ringraziò di essergli rimasto accanto, di averlo aiutato in ogni modo, e gli promise di tenersi in contatto. Mentre usciva lo ringraziò ancora una volta per essere
stato uno dei portatori della sua bara. «Dovere» rispose Karl. «Dovere.» Uscirono da Biloxi sulla Lexus di Sandy. Più laconico del solito, Patrick osservò per l'ultima volta le luci del golfo. Oltrepassarono i casinò sulle spiagge di Biloxi e Gulfport, il molo di Pass Christian e poi le luci cominciarono a diradarsi quando attraversarono la Baia di St. Louis. Sandy gli diede il numero di telefono con il quale chiamò l'albergo. A Londra erano le tre di notte, ma lei rispose come se stesse tenendo d'occhio l'apparecchio. «Eva, sono io» le disse. Sandy quasi fermò l'automobile per fare due passi mentre parlavano. Cercò di non ascoltare. «Stiamo lasciando Biloxi in questo momento, diretti a New Orleans. Sì, sto bene. Mai stato meglio. E tu?» Rimase in ascolto a lungo con gli occhi chiusi e la testa inclinata all'indietro. «Che giorno è oggi?» chiese. «Sei novembre, venerdì» gli rispose Sandy. «Ci vediamo ad Aix, alla Villa Gallici, questa domenica. Sì. Certo. Bene, cara. Ti amo. Torna a dormire. Ti richiamo fra qualche ora.» Entrarono in Louisiana senza parlare e nei pressi di Lake Ponchartrain Sandy aprì finalmente bocca. «Oggi ho ricevuto una visita interessante» disse. «Ah sì?» «Sì. Jack Stephano.» «Qui a Biloxi?» «Sì. Mi ha trovato all'albergo. Mi ha detto che aveva chiuso con il caso Aricia ed era in viaggio per una vacanza in Florida.» «Perché non l'hai ucciso?» «Mi ha chiesto scusa. Ha detto che i suoi ragazzi avevano avuto la mano pesante con te e voleva farti sapere che ne è profondamente rammaricato.» «Bel tipo. Scommetto che non è passato solo per farti le sue scuse.» «No, infatti. Mi ha parlato della talpa in Brasile, dell'agenzia Pluto Group e delle ricompense e mi ha chiesto pari pari se la parte di Giuda nel tuo caso l'ha recitata Eva. Gli ho risposto che non ne avevo idea.» «A lui che cosa importa?» «Bella domanda. Ha detto che è roso dalla curiosità. Ha pagato più di un milione di dollari in premi, ha messo le mani sul suo uomo, ma non sui soldi che erano stati rubati e che non riuscirà a dormire finché non saprà
chi c'era dietro. Sono propenso a credergli.» «È possibile.» «Lui non ha più nessun interesse in questo caso, così ha dichiarato.» Patrick si appoggiò la caviglia sinistra sul ginocchio destro e si toccò con prudenza la bruciatura. «Com'è?» «Cinquantacinque anni, molto italiano, un sacco di capelli grigi ben tenuti, occhi neri, belloccio. Perché?» «Perché l'ho visto dappertutto. Negli ultimi tre anni metà degli sconosciuti che incrociavo nelle campagne brasiliane erano Jack Stephano. Sono stato braccato nel sonno da cento uomini, che erano tutti Jack Stephano. Si appostava nei vicoli, si nascondeva dietro gli alberi, mi seguiva a piedi nelle notti di São Paulo, mi pedinava sui motoscooter e in macchina. Ho pensato più a Stephano che a mia madre.» «La caccia è finita.» «Alla fine non ne potevo più, Sandy. Ho ceduto. La vita del fuggiasco è un'avventura, molto emozionante e romantica, finché non vieni a sapere che c'è qualcuno davvero sulle tue tracce. Finché non sai che, mentre dormi, c'è qualcuno che fruga dappertutto cercandoti. Finché non sai che, mentre stai pranzando in compagnia di una splendida donna in una città di dieci milioni di abitanti, c'è qualcuno che va in giro a bussare alle porte, a mostrare la tua foto a questo o quel commesso, a offrire mance per qualche informazione su di te. Ho rubato troppi soldi, Sandy. Dovevano darmi la caccia e, quando ho saputo che erano già in Brasile, ho capito che non avevo scampo.» «Come sarebbe a dire che hai ceduto?» Il respiro di Patrick si era fatto pesante. Guardò dal finestrino l'acqua del lago e cercò di riorganizzare i pensieri. «Ho ceduto. Ho sentito che non ce la facevo più a scappare e ho ceduto, Sandy.» «Già, l'ho già sentita.» «Sapevo che mi avrebbero trovato, così ho deciso che avvenisse alle mie condizioni e non alle loro.» «Ti ascolto.» «L'idea delle ricompense è stata mia. Eva doveva andare a Madrid, poi ad Atlanta dove contattare quelli della Pluto. Li ho pagati perché avvicinassero Stephano e facessero da intermediari, loro dovevano vendere informazioni e i soldi dovevano essere girati a me. Abbiamo munto Stephano e piano piano lo abbiamo condotto fino a me, fino alla mia casetta di Ponta Porã.»
Sandy si girò adagio, sbalordito, con gli occhi sgranati e la bocca aperta. «Attento a dove vai» lo ammonì Patrick indicandogli la strada. Sandy sterzò bruscamente e riportò la macchina nella corsia di destra. «Stai mentendo» disse senza muovere le labbra. «So che è una balla.» «Tutt'altro. Abbiamo intascato un milione e centocinquantamila dollari da Stephano, soldi che ora sono nascosti, probabilmente in Svizzera con tutti gli altri.» «Tu non sai dove sono?» «Se n'è occupata lei. Saprò dove li ha versati quando la vedrò.» Sandy era troppo scombussolato per trovare qualcosa da dire. Patrick decise di soccorrerlo. «Sapevo che mi avrebbero preso e sapevo che avrebbero cercato di farmi parlare, ma non avevo idea che dovesse finire così male.» Si accarezzò l'ustione sulla caviglia sinistra. «Avevo immaginato che potesse essere brutta, ma quelli per poco non mi hanno ammazzato, Sandy. E alla fine me l'hanno strappato, mi hanno costretto a dirgli di Eva. Grazie a Dio quando però lei era già lontana. Con i soldi.» «Avresti potuto lasciarci la pelle» riuscì finalmente a commentare Sandy. Guidava con la destra grattandosi la testa con la sinistra. «Vero, molto vero. Ma due ore dopo la mia cattura, l'Fbi a Washington sapeva che Stephano mi aveva preso prigioniero. E questo mi ha salvato la vita. Stephano non poteva uccidermi perché i federali sapevano di lui.» «Ma come...» «Eva ha chiamato Cutter a Biloxi. E Cutter ha chiamato Washington.» Sandy avrebbe voluto fermarsi, scendere e mettersi a urlare. Sporgersi dal ponte e sfogarsi urlando una sfilza di imprecazioni. Nel momento in cui aveva creduto di aver ricostruito tutto del passato di Patrick, veniva tramortito da quest'ultimo colpo di scena. «Se sei stato tu a lasciarti prendere, sei stato un idiota.» «Davvero? Non sono appena uscito da un tribunale da uomo libero? Non ho appena parlato per telefono con una donna che amo profondamente, una donna che sta conservando per me un piccolo capitale? Il passato è cancellato per sempre, Sandy, non te ne rendi conto? Adesso non mi cerca più nessuno.» «Con tutto quello che sarebbe potuto andare storto...» «Già, ma non è successo. Io avevo i soldi, i nastri, l'alibi di Clovis. E quattro anni per preparare tutto.» «Ma la tortura non era prevista.» «No, però le ferite si rimargineranno. Non guastarmi il momento, Sandy.
Sto cavalcando la tigre.» Sandy lo lasciò a casa di sua madre, la casa della sua infanzia, dove in forno stava cuocendo una torta. La signora Lanigan lo invitò a trattenersi, ma sapeva che avevano bisogno di restare soli. E poi lui non vedeva moglie e figli da quattro giorni. Ripartì, con un marasma ancora nel cervello. 43 Si svegliò al sorgere del sole in un letto in cui non aveva più dormito da quasi vent'anni, in una stanza che non vedeva da quasi dieci. Erano anni lontani, appartenevano a un'altra vita. Ora le pareti gli sembravano più addossate, il soffitto più basso. Non c'erano più i suoi effetti personali, i trofei della sua fanciullezza, le bandiere dei Saints, i poster con bellezze in costume da bagno. Come avviene nelle famiglie in cui ci si parla poco, la sua stanza era stata il suo rifugio. Aveva cominciato a chiudere la porta a chiave prima di diventare adolescente. I genitori vi entravano solo se lui lo permetteva. Ora sua madre era da basso a fare da mangiare e il profumo della pancetta si era sparso per tutta la casa. Erano rimasti svegli fino a tardi e adesso lei era in piedi di buon'ora, ansiosa di parlare. Più che comprensibile. Si stirò adagio, con circospezione. Le croste sulle bruciature si screpolarono, gli tirarono la pelle. Se avesse esagerato, le avrebbe spezzate e avrebbe ripreso a perdere sangue. Si toccò le ustioni sul petto, dominando il desiderio di affondarvi le unghie per grattarsi come un matto. Incrociò i piedi e si infilò le mani sotto la testa. Sorrise al soffitto, un sorriso arrogante, perché finalmente la vita del latitante era finita. Patrick e Danilo non c'erano più e le ombre che lo avevano perseguitato erano state sbaragliate, Stephano, Aricia, Bogan e compari, e poi i federali e Parrish con il suo sciocco tentativo di incriminarlo: tutti sconfitti. Non c'era più nessuno a dargli la caccia. I primi raggi del sole filtrarono dalla finestra e le mura si chiusero un po' di più su di lui. Fece una doccia veloce e si medicò le ferite con una pomata e nuova garza. Aveva promesso a sua madre altri nipotini, che sostituissero Ashley Nicole, una bambina che lei sperava di rivedere. Le aveva detto meraviglie di Eva e le aveva promesso di portarla a New Orleans in un prossimo futuro. Nessun progetto matrimoniale imminente, ma era inevitabile che si sposassero.
Fecero colazione nel patio mentre le vecchie vie si andavano rianimando. Prima che i vicini cominciassero a fermarsi da loro per congratularsi della buona notizia, uscirono per una lunga passeggiata in auto. Patrick voleva rivedere la vecchia città anche se di sfuggita. Alle nove entrarono da Robilio Brothers sulla Canal dove si comperò indumenti nuovi e una bella valigia di pelle. Mangiarono bignè fritti al Café du Monde in Decatur, e pranzarono tardi al Bon Bon. Attesero all'aeroporto per un'ora tenendosi per mano e parlando poco. Quando fu chiamato il suo volo, Patrick abbracciò la madre e le promise di telefonarle tutti i giorni. Lei rispose che voleva vedere quei nuovi nipotini di cui le aveva parlato. E al più presto, aggiunse, con un sorriso triste. Ad Atlanta, usando il suo passaporto regolare che Eva aveva consegnato a Sandy, s'imbarcò su un aereo per Nizza. L'ultima volta che aveva visto Eva era stato un mese prima, a Rio, durante un fine settimana che avevano trascorso insieme senza mollarsi un attimo. La caccia era quasi finita e Patrick lo sapeva. Erano alla vigilia dell'epilogo. Avevano passeggiato sulle spiagge affollate di Ipanema e Leblon stretti l'uno all'altra, sordi alle grida felici della gente che li circondava. Avevano cenato di sera nei loro ristoranti preferiti, l'Antiquarius e da Antonino, ma senza fare molto onore alle pietanze. Quando parlavano, le loro frasi erano dolci e brevi. Le lunghe conversazioni finivano in lacrime. A un certo punto lei l'aveva persuaso a riprendere la fuga, ad andarsene con lei finché c'era ancora la possibilità, a nascondersi in un castello in Scozia o in un miniappartamento a Roma, dove nessuno li avrebbe mai trovati. Ma il momento era passato e lui era semplicemente stanco di scappare. Nel tardo pomeriggio erano saliti sul Pan di Zucchero a guardare il tramonto. Lo spettacolo della città di notte era straordinario, ma i momenti che loro stavano vivendo ne offuscavano la magia. Lui l'aveva tenuta stretta a sé mentre il vento rinfrescava e le aveva promesso che un giorno, quando quella storia fosse finita, si sarebbero fermati in quello stesso punto a vedere lo stesso tramonto e a fare progetti per il futuro. Lei aveva cercato di credergli. Si erano salutati a un angolo di strada vicino all'appartamento dove lei viveva. Lui l'aveva baciata sulla fronte e si era incamminato nella folla. Era ripartito da Rio in direzione ovest, cambiando aerei in aeroporti sem-
pre più piccoli. Era arrivato a Ponta Porã in tarda sera, aveva trovato il suo Maggiolino parcheggiato dove lo aveva lasciato e aveva percorso le strade tranquille fino a Rua Tiradentes, alla sua modesta dimora dove aveva cominciato l'ultima attesa. L'aveva chiamata tutti i giorni tra le quattro e le sei del pomeriggio, dando sempre nomi diversi. Poi le telefonate si erano interrotte. Lo avevano trovato. Il treno da Nizza arrivò ad Aix in orario, pochi minuti dopo il mezzogiorno di domenica. La cercò tra la gente sul marciapiede, ma in realtà non si aspettava di trovarla lì. Era solo una speranza, quasi una preghiera. Con la nuova valigia nella mano piena dei suoi abiti appena acquistati, trovò un taxi e si fece portare a Villa Gallici, ai margini della cittadina. Lei aveva prenotato una stanza dando entrambi i nomi, Eva Miranda e Patrick Lanigan. Era una sensazione impagabile quella di viaggiare di nuovo come una persona reale, senza doversi più nascondere dietro nomi fasulli e documenti falsi. Lei non era ancora arrivata, lo informarono alla reception, e la prese male. Aveva sognato di trovarla in camera, in una vaporosa lingerie, pronta per un momento di intimità e beatitudine. Quasi sentiva il profumo della sua pelle. «Quand'è stata fatta la prenotazione?» chiese irritato. «Ieri. Ha chiamato da Londra e ha detto che sarebbe arrivata stamane. Non l'abbiamo ancora vista.» Salì in camera e fece una doccia. Disfece i bagagli e ordinò tè e pasticcini. Si addormentò sognando di sentirla bussare alla porta, di accoglierla tra le braccia e gettarsi sul letto con lei. Le lasciò un messaggio alla reception e uscì per una passeggiata nelle vie della bella cittadina rinascimentale. L'aria era fresca e tersa. La Provenza dà il meglio di sé in autunno. Chissà, forse valeva la pena di stabilirsi lì. Guardò i pittoreschi appartamenti affacciati sulle vie antiche e strette e pensò che, sì, doveva essere un bel posto dove abitare. Era una cittadina universitaria dove si coltivavano le belle arti. Lei parlava un ottimo francese e lui non disdegnava l'idea di cimentarsi. Sì, il francese sarebbe stata la sua prossima lingua. Si sarebbero trattenuti lì per una settimana, poi sarebbero tornati a Rio per un po', ma forse Rio non era la città adatta. Ubriaco di libertà, Patrick avrebbe voluto vivere dappertutto, assimilare culture diverse, imparare lingue nuove. Evitò un drappello di mormoni aggressivi, percorse Cours Mirabeau,
bevve un espresso allo stesso caffè dove un anno prima si erano tenuti per mano guardando l'andirivieni degli studenti. Teneva a bada il panico. Era solo qualche stupido contrattempo, una coincidenza sbagliata. Si sforzò di aspettare che facesse buio, poi tornò all'albergo dominando l'andatura. Non c'era. Nessun messaggio. Niente. Telefonò all'albergo di Londra e si sentì rispondere che era partita il giorno precedente, sabato, prima di mezzogiorno. Scese in giardino e trovò una sedia in un angolo, che girò in maniera da poter vedere la reception attraverso una vetrata. Ordinò due cognac doppi per contrastare la temperatura bassa. L'avrebbe vista quando fosse arrivata. Se aveva perso l'aereo, ormai doveva aver chiamato. Se fosse stata fermata di nuovo al controllo passaporti, ormai doveva aver chiamato. Senz'altro avrebbe chiamato se avesse avuto qualche problema di visti o biglietti o altro. Nessuno la inseguiva. I cattivi erano tutti fuori del gioco. Altro cognac a stomaco vuoto e qualche ora dopo era ubriaco. Passò al caffè senza latte per tenersi sveglio. Il bar chiuse a mezzanotte e salì in camera. A Rio erano le otto del mattino. Chiamò malvolentieri suo padre, che aveva incontrato due volte. Lei lo aveva presentato come un amico e cliente canadese. Il poveretto aveva già patito una brutta avventura e non era il caso di preoccuparlo di nuovo, ma non aveva scelta. Spiegò di trovarsi in Francia e di aver bisogno di discutere di una questione legale con il suo avvocato brasiliano. Si scusò per averlo disturbato a casa così presto, ma non riusciva a trovare sua figlia. La questione era importante, per non dire urgente. Paulo non voleva parlare, ma sembrava che il suo interlocutore sapesse molte cose su sua figlia. Gli riferì che si trovava a Londra. Le aveva parlato sabato. Altro non volle aggiungere. Patrick lasciò passare altre due ore di angosciante attesa, poi svegliò Sandy. «Non la trovo» disse, ora lasciando trasparire il panico. Ma Sandy non aveva notizie. Dormire era fuori discussione. Scese alla reception e riuscì a farsi preparare dell'altro caffè. Chiacchierò per tutta notte con il portiere. Girò per due giorni per le vie di Aix, senza meta, dormendo alle ore più strane, senza mangiare, bevendo cognac e caffè nero, chiamando Sandy e spaventando il povero Paulo con ripetute telefonate. La città aveva perso
tutta la sua bellezza romantica. Da solo nella sua camera, piangeva per la disperazione e da solo per le vie malediceva la donna che amava ancora alla follia. Il personale dell'albergo lo guardava andare e venire. All'inizio si presentava ansioso alla reception a chiedere se c'erano messaggi, ma, con il trascorrere delle ore e dei giorni, passava rivolgendo agli impiegati un cenno distratto. Non si faceva più la barba e aveva l'aria stanca. E beveva troppo. Al terzo giorno pagò dicendo che tornava in America. Chiese al suo impiegato di fiducia di conservare una busta sigillata nel caso fosse arrivata la signora Miranda. Prese un aereo per Rio senza sapere perché. Per quanto amasse quella città, era l'ultimo posto al mondo dove poteva sperare di vederla. Era troppo furba per andarci. Sapeva dove nascondersi, come scomparire, come cambiare identità, come trasferire soldi all'istante e come spenderli senza attirare sospetti. Aveva avuto un grande maestro. Patrick le aveva insegnato fin troppo bene l'arte della sparizione. Nessuno avrebbe ritrovato Eva, a meno che, naturalmente, fosse stata lei a volerlo. Ebbe un incontro doloroso con Paulo, a cui raccontò tutta la storia. Il pover'uomo si accasciò davanti ai suoi occhi e pianse e lo maledisse per aver corrotto il dono prezioso che era sua figlia. L'incontro fu un atto di disperazione del tutto infruttuoso. Alloggiò in piccoli alberghi nei pressi del suo appartamento, girò a piedi per le vie circostanti, guardando di nuovo attentamente tutti i volti che incrociava, ma per motivi diversi: ora non era più la preda, bensì il cacciatore. Un cacciatore guidato dalla disperazione. Finì i soldi che aveva e si risolse infine a chiamare Sandy per chiedergli un prestito di cinquemila dollari. Sandy non ebbe esitazioni nel soccorrerlo e gli offrì di inviargliene di più. Si arrese dopo un mese e in pullman tornò a Ponta Porã. Avrebbe potuto vendere la casa e forse l'automobile. Tra tutto avrebbe potuto realizzare trentamila dollari. Ma avrebbe potuto anche tenere l'una e l'altra e trovarsi un lavoro. Avrebbe potuto vivere in un paese che amava, in un posticino che adorava. Avrebbe potuto dare lezioni di inglese, condurre un'esistenza tranquilla in Rua Tiradentes dove non c'erano più cacciatori sulle sue tracce, ma dove i ragazzini scalzi giocavano ancora a calcio sull'asfalto rovente.
Dove altro sarebbe potuto andare? Il suo viaggio era giunto al capolinea. Il suo passato era finalmente chiuso. Un giorno lei lo avrebbe senz'altro trovato. Ringraziamenti Come sempre, nello scrivere questo libro ho cercato l'aiuto di alcuni amici che vorrei ora ringraziare. Steve Holland, Gene McDade, Mark Lee, Buster Hale e R. Warren Moak mi hanno messo a disposizione la loro esperienza e/o sono andati a caccia di piccoli fatti fuori del comune. Will Denton ha ancora una volta letto il manoscritto e ancora una volta ne ha garantito il rigore sul piano legale. In Brasile sono stato assistito da Paulo Rocco, mio editore e amico. Con lui e la sua affascinante moglie Angela ho condiviso l'amata Rio, la più bella città del mondo. Quando li ho sollecitati, tutti questi amici mi hanno sempre dato risposte veritiere. Come al solito gli errori sono da addebitare tutti a me. FINE