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JULIE PARSONS IL PESO DELLA COLPA (The Guilty Heart, 2003) A Liz, mia madre, la miglior narratrice del mondo Il dolore per il peccato strazia dall'interno il cuore colpevole. J.S. Bach, La passione secondo san Matteo I bambini sono sempre là fuori. A centinaia, a migliaia. Innumerevoli e splendidi come le stelle della Via Lattea. I loro visini fanno capolino dalla luminescenza degli schermi di computer. Aprono la bocca e i loro denti bianchi brillano. Hanno capelli scuri come il cielo notturno. Hanno capelli chiari e dorati come i fiori primaverili. Sono paffuti e tondi, ben pasciuti e coccolati, con guance e gomiti ornati da fossette simili all'incavo lasciato da un dito. Sono scarni e ossuti, trascurati, denutriti, le scapole simili a tozze ali d'angelo che spuntano dalle piccole schiene magre. Sono in piedi e seduti. Sono accovacciati e sdraiati. Non oppongono alcuna resistenza. Tradiscono pochissimo dolore. Aspettano in silenzio, al buio, il momento in cui la tastiera verrà toccata, il mouse accarezzato e il confortante ronzio del computer li riporterà in vita. Sono sempre lì, sempre in attesa, sempre disponibili. Sempre tuoi. 1 Piena estate, il periodo peggiore da trascorrere a New Orleans. Ogni volta che Nick si allontanava dalla raffica fredda del condizionatore, il sudore gli colava tra le scapole, e le nubi temporalesche si stavano trasformando in torri nere che tutti i pomeriggi incombevano sulla città prima di abbattersi al suolo sotto forma di enormi, gonfi goccioloni. Avrebbe dovuto andarsene dopo il Mardi Gras, magari puntare nuovamente verso ovest e la California, tornare a San Francisco dalla donna con il negozio di perline. Gli aveva assicurato che ci sarebbe sempre stato un posto per lui, alla sua tavola. Ci sarebbe stato anche del lavoro, l'incarico di progettare e illustrare le brochure da inviare ai clienti che acquistavano
per corrispondenza. Lei stava creando un proprio sito web e Nick avrebbe potuto occuparsi anche di quello, volendo. Ma la donna si stava avvicinando troppo perché lui potesse sentirsi a suo agio, così aveva lasciato lei e la figlia dagli occhi scuri, e si era diretto verso sud, verso la città situata sull'ansa a forma di mezzaluna del Mississippi. Avrebbe dovuto andarsene dopo il Mardi Gras, invece era rimasto. Aveva un buon lavoro, insegnava disegno dal vero nella facoltà di arte della Tulane University. E, grazie a un foglietto affisso nella bacheca del college, aveva una stanza in una decrepita casa lunga e stretta sull'Esplanade Avenue, appena fuori dal Quartiere Francese. Avrebbe potuto stabilirsi lì, pensava. Finalmente una città americana in cui poteva camminare comodamente e agevolmente. Nelle strade diritte del Quartiere, sbirciando attraverso i cancelli cortili sempre freschi grazie al denso fogliame verde. Lungo la riva del fiume, gli argini che dominavano i tetti di tegole rosse della città. Avrebbe potuto vagabondare nei viali bordati di alberi del Garden District, le enormi e ornate facciate delle case che apparivano accoglienti e al contempo minacciose. Oppure prendendo il tram per percorrere St. Charles Avenue - una masnada di turisti con la videocamera che lanciavano grida ammirate davanti alle gigantesche querce sempreverdi svettanti sopra il binario, con i rami coperti da coltri di muschio - fino all'università, attraversando l'Audubon Park, i suoi eleganti edifici in stile romanico disseminati tra prati e giardini. Una facoltà di arte dove evidentemente vigeva un'impostazione classica, aveva pensato nel salutare la sua classe di matricole, quel primo giorno. Nessuna traccia di quelle stronzate concettuali né di incomprensibile performance art. Alle sue spalle, nello studio dal soffitto alto, la modella aveva preso posto sulla piattaforma, lasciando cadere la vestaglietta. Si era diffuso un coro di respiri trattenuti, mentre i ragazzi la fissavano. Non perché fosse bella. Non era bella, ma era nuda. Anche lui si era voltato a guardarla. Una donna autentica. Seni bianchi, con grandi capezzoli bruni, che pendevano verso il ventre e si allargavano posandosi sulla gabbia toracica. Peli scuri sotto le ascelle. Un ventre tondo e morbido, screziato da smagliature simili a lucide tracce di lumaca. Una tenue fioritura di vene varicose dietro le ginocchia. Piedi con talloni callosi e brutte dita storte. La modella avrebbe fatto un buon lavoro, ricordava di aver pensato lui. Avrebbe dimostrato a quei ragazzi che non tutti i corpi femminili appaiono perfettamente aerografati, impacchettati e sterilizzati, pronti per essere guardati con ammirazione.
«Cambio», le aveva detto Nick ogni due minuti, «Cambio» e «Cambio» e «Cambio». Come il direttore di un circo o l'insegnante in una scuola di danza russa. E lei aveva ubbidito, torcendo e ruotando il busto, sollevando e abbassando le braccia, appoggiando il peso del corpo prima su una gamba e poi sull'altra. Alzando il mento, reclinando la testa all'indietro, accovacciandosi, sedendosi sui talloni, infine rannicchiandosi in posizione fetale, le mani sul viso, le ginocchia accostate al petto, finché lui non le aveva gridato di fermarsi. L'aveva invitata a riposarsi mentre girava fra gli studenti per vedere che cosa avevano disegnato. Erano divertenti, quelle lezioni. Ogni giorno, durante quel primo trimestre, avevano fatto tutti un'esperienza diversa. Lui aveva osservato come elaboravano i propri esitanti scarabocchi tracciati a matita o carboncino su enormi fogli di spessa carta da disegno. Alcuni di quei ragazzi sapevano davvero disegnare. Nick era affascinato dal loro lavoro, dal modo in cui riuscivano a vedere oltre la superficie della pelle chiazzata della modella e attribuivano a quest'ultima una personalità, un carattere, una natura peculiare e unica. Gli avevano fatto ripensare ai propri ritratti di Susan, sua moglie o probabilmente ormai ex moglie, risalenti a parecchi anni prima, quando tutti e due studiavano ancora. Una giornata soleggiata nel parco chiamato Stephen's Green, periodo di esami. Lei, con accanto una pila di testi di medicina, che gli mostrava disegni di muscolatura, legamenti, ossa, le sue dita che ghermivano le pagine come se volesse penetrare sotto la superficie per afferrare ciò che vi si celava. Lui che, impugnata la matita, lanciava rapide e saltuarie occhiate a Susan mentre ne trasferiva l'immagine sulla carta. La folta chioma di capelli chiari, la pelle liscia e pallida del viso, del collo e delle braccia. Le curve del suo corpo sotto il vestito lungo a margheritine azzurre e bianche. I suoi piedi, nudi, le dita che si flettevano e si piegavano, animate di vita propria, mentre parlava. I suoi piedi che erano quelli di Owen. Nick li aveva stretti nel palmo della mano quella prima mattina, quando suo figlio era venuto al mondo. Si era premuto sulle labbra la pianta increspata per poi far scivolare l'indice sotto le dita, guardandole mentre gli si arcuavano intorno per stringerlo con forza: la stessa forza con cui le dita delle mani del neonato, simili a minuscole stelle marine, gli serravano il pollice. Poi si era aggirato per la stanza d'ospedale - mentre Susan dormiva, il corpo inerte e svuotato, riverso sui cuscini bianchi - sussurrando paroline dolci al piccolo, facendogli promesse e impegnandosi solennemente a offrirgli amore e lealtà.
C'era una serie di schizzi dei piedini di Owen da qualche parte, in uno scatolone, probabilmente nel seminterrato della loro casa, dove lui li aveva lasciati, a meno che Susan non avesse fatto quanto aveva minacciato di fare: distruggere qualunque cosa potesse ricordarle Nick e il modo in cui aveva tradito lei e il figlio. Adesso, a estate inoltrata e con gli studenti ancora in vacanza, stava insegnando a una classe di adulti, prevalentemente signore di mezza età iscritte a un corso della durata di un mese e mezzo, che prevedeva lezioni esclusivamente mattutine. Avevano appena riposto le tempere raffinate e ripulito i loro costosi pennelli, si erano tolte il grembiule da lavoro a disegni floreali ed erano andate a pranzo, la loro strascicata pronuncia tipicamente meridionale che echeggiava nel corridoio, lasciando nello studio tracce quasi impercettibili di profumo e di sigaretta. Nick si fermò accanto al suo cavalletto, il condizionatore sferragliava nel vano della finestra e i raggi obliqui del sole pomeridiano filtravano dalle imposte di legno. Iniziò a disegnare, stavolta affidandosi alla memoria. I piedi, le lunghe gambe magre, il busto sottile, la testa con la sua cresta di folti capelli corti. Ma dov'era il viso? Perché non c'erano occhi, bocca, naso, mento, guance, fronte? Nulla con cui riempire lo spazio vuoto, ridare forma al suo bambino. Con cui riportarlo indietro dall'imprecisato luogo in cui era sparito. La sua mano afferrò il carboncino, esitò, poi si posò sulla carta. Premette con forza. Il carboncino si spezzò in due, lasciando sulla superficie candida una macchia di nero, carico e intenso al centro. Nick la fissò e poi allungò una mano per lisciarla con il polpastrello. Ma il centro nero rimase. Come un buco, un intaglio, circondato da un alone, un frantumarsi di pelle, di tessuto, di ossa. Quella sera si sarebbe sbronzato. Persino in quel momento, mentre restava fermo a stracciare in quattro il foglio, riuscì a sentire il gusto della birra in fondo alla lingua. Jax era la marca locale, amara e forte, proprio come piaceva a lui. Avrebbe preso l'autobus di Freret Street fino a Canal Street per poi vagabondare nel Quartiere Francese, osservando i turisti e fermandosi in ogni bar che incontrava. Sarebbe andato a Bourbon Street, fingendo di vederla per la prima volta in vita sua. Avrebbe occhieggiato le ragazze seminude nelle vetrine dei locali di spogliarello. Avrebbe comprato un mazzo di garofani dal fioraio all'angolo di Iberville Street per poi offrirlo alla prima forestiera carina che incrociava la sua strada. Forse sarebbe entrato al Pat O'Brien's e avrebbe ordinato un Hurricane in un bicchiere alto per poi portarselo dietro per il resto della serata, infilato in un'apposita
scatoletta di cartone. O magari si sarebbe cercato una donna. Gli sarebbe stato indifferente se la pagava in contanti o le offriva semplicemente da bere per tutta la sera. E alla fine si sarebbe ritrovato, distrutto e fuori di testa, nel letto di lei, in preda a postumi di una sbornia così spettacolari che per giorni e giorni sarebbe riuscito a pensare unicamente a come liberarsene. Faceva caldo adesso, a metà pomeriggio, quando scese dall'autobus per unirsi alla folla in strada. Si fermò a comprare una bottiglia di root beer da un ambulante, buttando la testa all'indietro per berne una lunga sorsata. Si asciugò con il dorso della mano il liquido colato sul mento. Intorno a lui, il sole dardeggiava e scintillava riflettendosi sulle vetrine e sui tettucci e i cofani delle auto che lì in centro procedevano lentamente. Passò dalla luce intensa all'ombra di un tendone e per un po' rimase immobile, sfuggendo al chiarore. Colse l'improvviso balenare del fulmine e udì, pochi secondi dopo, il rombo del tuono mentre una lunga ombra cominciava a invadere la strada. La pioggia iniziò a cadere impetuosa come acqua rovesciata da un secchio. Il tuono echeggiò più volte, sovrastando il rumore delle vetture, il pesante ritmo dei bassi della musica dance, i suoni umani di passi e chiacchiericcio. I rivoletti d'acqua nel canale di scolo salirono fin sopra il bordo del marciapiede, allagarono la strada e puntarono verso l'androne del negozio in cui si era rifugiato. Gli mulinarono intorno ai piedi, un ruscello di schiuma e rifiuti: cartacce, mozziconi, lattine di Coca-Cola vuote, persino un hamburger smangiucchiato e ancora racchiuso nell'involucro di polistirene. Lui indietreggiò per allontanarsene. Poi, quando il diluvio cominciò ad attenuarsi, tornò cautamente all'aperto e svoltò l'angolo, raggiungendo Bourbon Street. 2 Era uno di quei casi che rifiutavano di cadere nell'oblio. Non importava quanti anni fossero passati, la gente se ne ricordava ancora. Il bambino scomparso. I genitori sconvolti. Gli appelli in televisione. I servizi giornalistici dedicati alle ricerche, le più intense e meticolose mai effettuate dalla polizia in un caso che non fosse di terrorismo. Gli avvistamenti. Visto a Donegal, a Wexford, a Belfast, a Cork. Visto a Grafton Street mentre mangiava un hamburger di McDonald's insieme a un uomo e una donna di mezza età. Visto qui, là e ovunque, ma mai avvistato sul serio. Mai più. La gente rammentava ancora il suo nome. Persino dopo dieci anni. Owen Cassidy, otto anni. Folti capelli biondi tagliati corti. Occhi di un az-
zurro brillante. Corporatura snella. Indossava una giacca a vento blu con cappuccio, pantaloni di fustagno neri, un maglione rosso lavorato ai ferri e scarpe da ginnastica. Visto per l'ultima volta dal suo migliore amico Luke Reynolds mentre attraversava il prato di fronte a Victoria Square, a Dún Laoghaire, tra le due e le tre pomeridiane del giorno di Halloween del 1991. E cosa stava facendo quel giorno? Quello che qualunque altro bambino della sua età faceva sempre a Halloween. Si preparava per il falò. Raccoglieva legna da ardere, barattava mortaretti, dava gli ultimi ritocchi al proprio costume. Faceva il calcolo di quanti dolciumi, spiccioli e giocattolini avrebbe ricevuto in dono andando di casa in casa nelle strade e nelle piazze della zona, quella sera. E come mai era solo? Come mai non c'era nessuno a tenerlo d'occhio? Come mai si era dovuto aspettare fino alle sei e trenta di quella sera prima che qualcuno si accorgesse che Owen non era nei paraggi e che nessuno sapeva dove potesse trovarsi? Be', era a quel punto che la faccenda si era fatta interessante. Gli sta bene, aveva detto la gente, annuendo con aria saputa al di sopra della pinta di birra. Cosa ti puoi aspettare, se non sai dove sono i tuoi figli? Io incolpo i genitori. Sembravano una coppia così carina. Ma lo sai, l'hai sicuramente saputo, che orrore, scoparti una vicina di casa mentre tua moglie è al lavoro e tuo figlio è scomparso. Che mascalzone. Sembravano una coppia così a modo. Professionisti. Lei, Susan, medico, oncologa nel miglior ospedale pediatrico del Paese. Lui, Nicholas, Nick per gli amici, uno scrittore, un illustratore di libri per bambini. «Pluripremiato», lo avevano definito tutti gli articoli di giornale. E tanto attraenti, tutti e due. Lei con i capelli chiari raccolti in un'accurata crocchia sulla nuca, la pelle priva di rughe e gli stessi occhi azzurri del figlio. E lui con i capelli scuri lunghi fino alle spalle e scarmigliati ad arte, «una bellezza da rock star», avevano detto i tabloid, con lo stesso viso scarno e le stesse gambe e braccia lunghe del figlio, in jeans e giacca di pelle, a dimostrare la metà dei suoi anni. E poi c'era la bambinaia. Dov'era, quel pomeriggio? Be', il suo era un caso davvero triste. Si chiamava Marianne O'Neill. Aveva diciannove anni, quasi venti. Delicata e carina. Viveva con i Cassidy da due anni ma li conosceva da molto, molto più tempo. Era stata paziente di Susan Cassidy, nella prima adolescenza si era ammalata di leucemia, era stata curata e guarita. La sua famiglia si era tenuta in contatto con la dottoressa, e Marianne, quando aveva scelto di trasferirsi a Dublino da Galway, era andata
ad abitare dai Cassidy come ragazza alla pari. Si trattava di una soluzione soddisfacente per tutti. Gli O'Neill erano felici di sapere la figlia al sicuro, nella grande città. I Cassidy erano contenti di avere qualcuno che si assumesse la responsabilità del loro figlioletto, così avrebbero potuto continuare le rispettive vite ricche di impegni. Lei con la sua settimana lavorativa di sessanta ore in ospedale; lui con i suoi libri e i suoi disegni e i suoi flirt. Una soluzione ideale. Quindi, come mai Marianne, invece di badare al bambino come era pagata per fare, aveva trascorso il pomeriggio con gli amici, Chris Goulding, che abitava nella casa accanto, sua sorella Róisín e il ragazzo di quest'ultima, Eddie? Avevano tutti oziato nel seminterrato dei Goulding, drogandosi e ubriacandosi e combinandone di tutti i colori. Mentre il bambino e il suo amico si erano allontanati, con qualche soldo in tasca. «Comprati dei dolcetti, vai a cercare legna, vai dove vuoi, ma non tornare per un po', capito, Owen?» Interrompendone così le proteste, il piagnucolio, le insistenti richieste di potersi unire al gruppo. «Vattene, Owen, te l'ho già detto. Non ti voglio intorno, oggi pomeriggio.» Quel pomeriggio, il giorno di Halloween, il 31 ottobre 1991. Il giorno in cui l'intero edificio perfetto, confortevole e meticolosamente costruito crollò. E niente fu più lo stesso per nessuno di loro. Mai più. Owen Cassidy, il nome e il viso. Che diavolo gli era successo? Non poteva essere semplicemente svanito nel nulla, giusto? Eppure era scomparso. Era davvero sparito nel nulla. 3 Il mazzo di chiavi rimaneva sempre con Nick. Agganciato alla cintura quando usciva. Posato sul comodino accanto al letto quando restava in casa. Il primo oggetto verso cui allungava la mano ogni mattina, l'ultimo che toccava prima di girarsi su un fianco per addormentarsi. La chiave della porta d'ingresso dell'abitazione che aveva condiviso con la moglie e il figlio. La chiave del seminterrato in cui un tempo aveva tenuto il suo studio. La massiccia chiave di ferro del cancello che si apriva nel muro del giardino. Le chiavi della porta del garage, della propria auto e di quella della moglie. Spesso le teneva sollevate e le faceva oscillare da una parte all'altra, sul loro anello. Poi se le posava davanti e le spuntava. Ne elencava ad alta voce nome e funzione. Rammentava a se stesso, più e più volte, che cosa si era lasciato alle spalle.
Fino a quando le donne che incontrava e poi conosceva a fondo, che talvolta era giunto ad amare durante quei lunghi anni di lontananza, non riuscivano finalmente a chiederglielo. «Dimmi, Nick, perché, cosa, dove?» A volte rispondeva, a volte no. Dipendeva. Da quant'era liscia la loro pelle, dal loro profumo, da come usavano le mani, gli occhi, e dalla natura del loro sorriso. Quelle a cui lo raccontava lo prendevano tra le braccia, se lo stringevano al seno, gli scostavano i capelli dalla fronte, lo baciavano dolcemente. Cercavano di farlo sentire meglio, meno responsabile, di lenire il suo senso di colpa. Finché lui non le spingeva via, con rabbia, gridando che non potevano sottrargli la consapevolezza, la certezza, il terribile senso di responsabilità. Non potevano farlo sentire meglio con le loro parole e i loro gesti. E, soprattutto, non potevano restituirgli suo figlio. A quel punto capivano che lui aveva parlato troppo. Si era mostrato nudo e impotente. Capivano che niente sarebbe più stato lo stesso. E che la relazione era finita. E lui passava ad altro. Alla città, al lavoro, alla stanza seguenti. Al comodino seguente su cui lasciare le chiavi durante la notte. Alla donna seguente che avrebbe avuto compassione di lui, sarebbe diventata sua amica, se ne sarebbe innamorata. Alla serie seguente di domande. Parlami delle chiavi. A cosa servono? Racconta, racconta. Be', vedi, anni fa ero sposato e avevo un'adorabile casetta in una via carina, in una piccola città. Avevo un figlio. Si chiamava Owen. Era basso e magro. Aveva folti capelli biondi e occhi di un azzurro brillante. Aveva una fessura tra gli incisivi superiori e una piccola cicatrice sul mento, ricordo di quando era caduto dalla sua prima bicicletta ferendosi sul marciapiede di pietra. E un giorno lo lasciai per andare a trovare qualcuno. Una donna, non mia moglie. Pensavo che non avrebbe avuto problemi. Era con i suoi amici. Era con la bambinaia. Inoltre non m'importava. Volevo stare con lei. Non l'ho nemmeno salutato. Non ricordo quali siano state le ultime parole che gli ho detto. Rammento solo che furono le ultime. Perché non lo rividi più. Nessuno lo rivide mai più. Scomparve. Accadde qualcosa. Non so che cosa, ma so che fu una cosa brutta. E adesso tutto ciò che mi resta, come ricordo, sono le chiavi di casa mia. Di casa nostra. La casa in cui vivevamo, Owen e sua madre e io. Solo che non potevo continuare ad abitarci. Così me ne sono andato. Non ho portato con me nient'altro che le chiavi.
Chiudi a chiave la porta, babbo, non scordarlo. Chiudi a chiave la porta, babbo, lascia fuori i cattivi. Chiudi a chiave la porta, babbo, saremo al sicuro, vero? Il mazzo di chiavi rimaneva sempre con lui. Il giorno in cui Owen era scomparso, era posato là dove Nick l'aveva lasciato, insieme agli spiccioli e all'orologio, sul tavolino da toeletta nella camera di Gina Harkin. A che ora aveva progettato di lasciare la donna per tornare a casa? Tra le quattro e le cinque di quel pomeriggio. Ma si era addormentato, la testa affondata nel cuscino di lei, e quando si era svegliato aveva stentato a capire che ora fosse. Era notte fonda oppure mattina? Avrebbe voluto restare lì, immobile, inspirando il tepore di Gina, ma lei lo aveva svegliato con una tazza di tè. Gli aveva detto che era ora di andare. Gli aveva passato le chiavi, l'orologio, e lasciato cadere lentamente le monetine dalla propria mano minuta sul largo palmo di lui. Lo aveva salutato da dietro il vetro sporco della finestra sul davanti della casa. Lo aveva osservato mentre armeggiava con le chiavi, cercando quella giusta da infilare nella serratura della propria porta d'ingresso. E aveva visto come, prima che lui ci riuscisse, l'uscio era stato spalancato. Da Susan, tornata presto dal lavoro. Prima di quanto si fossero aspettati. Aveva visto come lui, nel varcare la soglia, allungava una mano dietro di sé, verso di lei, le chiavi penzolanti tra le dita, e le faceva oscillare su e giù. Poi aveva raddrizzato il pollice, il braccio proteso, l'ultima cosa che lei aveva visto prima che Nick scomparisse all'interno. Spingendola a ridere dell'audacia, dell'inebriante stupidità di quell'uomo. E non ci aveva pensato più finché, il mattino dopo, di buon'ora, la polizia non aveva bussato alla sua porta per rivolgerle alcune domande. Che cosa aveva visto, cosa sapeva, cosa poteva dire loro? Su che cosa? Su Owen Cassidy, otto anni. Che nessuno aveva più visto dal primo pomeriggio del giorno precedente. E qualche giorno dopo l'avevano interrogata. Ci parli del padre di Owen Cassidy, Nick. Ce lo ripeta, signora Harkin, possiamo chiamarla Gina? Ci dica. A che ora è venuto qui? A che ora se n'è andato? E ci dica, Gina - non le dispiace se la chiamiamo Gina, vero? cosa ha fatto Nick durante tutte le ore che ha passato qui con lei? Cosa ha fatto, di preciso? Lei è un'artista come lui, vero? Nick si trovava qui per lavoro oppure per piacere? Quale delle due, Gina?
E lei non aveva potuto rispondere. E non aveva potuto nemmeno lui. Non aveva potuto dire niente che riuscisse a spiegare, blandire, giustificare, scusare. Non aveva potuto dire niente di niente. 4 Sino a che punto era ubriaco Nick quando vide la ragazza per la prima volta? Non certo ubriaco fradicio. Riusciva ancora a reggersi in piedi, a salire e scendere da uno sgabello del bar. A raggiungere il bagno degli uomini. Riusciva ancora a valutare l'arco della sua urina giallo chiaro che scorreva sulle piastrelle macchiate dell'orinatoio, i suoi occhi che - nello specchio sporco che correva lungo tutta la parete deturpata dai graffiti - incrociavano lo sguardo dell'uomo in piedi accanto a lui. Riusciva ancora a chiudersi la cerniera lampo, lavarsi le mani, tornare al bancone per ordinare di nuovo. «Una caraffa di birra per questi miei amici, barman, per favore», facendo oscillare una mano, indicando i tizi allineati alla sua destra e alla sua sinistra. Abbastanza ubriaco per mettere a fuoco e parlare, e abbastanza ubriaco per sentirsi intontito e quasi felice. Come se il mondo stesse per ridiventare un luogo benevolo e gradevole. Anche se solo per pochi, brevi istanti. E poi vide la ragazza. Si trovava sulla pedana rettangolare che occupava la sezione anteriore del bar. Alcune ragazze avevano ballato lì sopra per tutta la sera. Lui le aveva degnate a stento di un'occhiata. La birra era più interessante. Una droga molto più potente della carne nuda che veniva esibita. Quasi tutte non erano niente di speciale. Bruttine o graziose come qualsiasi sezione trasversale della popolazione. Alcune erano basse, altre alte, altre grassottelle, altre decisamente ossute. Alcune avevano il seno cascante, altre esibivano protesi in silicone, con una vita tutta loro. Quasi tutte guardavano al di sopra delle teste del pubblico, le mascelle che masticavano ritmicamente il chewing-gum a tempo con la musica, stuzzicandosi svogliatamente i capezzoli o passandosi una mano sull'inguine con nient'altro in mente, Nick ne era sicuro, se non cosa preparare per cena o a che ora se ne sarebbe andata la baby-sitter. Ma ormai cominciava a farsi tardi. La clientela nel bar era cambiata. I forestieri con il portafoglio rigonfio e la moglie che li aspettava sul pullman del giro turistico erano già usciti. Questi uomini riuniti in gruppetti,
le mani perennemente impegnate a giocherellare con chiavi, sigarette, denaro, provenivano da un universo differente. Così come la ragazza in quel momento in piedi sopra di loro, sulla pedana. Lui fece un passo indietro per vederla meglio. Aveva un corpo magnifico. Ballava come una vera professionista. Gli occhi di Nick si arrampicarono su per le lunghe gambe, attraversarono il ventre liscio e tondo, percorsero i seni minuti, graziosi, puntati verso l'alto. La ragazza aveva una pelle bianchissima. Sembrava integra, pura, con un che di fanciullesco, come se si trovasse a cavallo tra la pubertà e l'età adulta. Lui sollevò il bicchiere e bevve un lungo sorso. E la guardò in faccia. Una maschera le celava i lineamenti. Rappresentava la testa di un animale. Due piccole orecchie le spuntavano sulla sommità del capo. Fessure triangolari le incorniciavano gli occhi e un muso appuntito le conferiva un'aria pericolosa e infida, in netto contrasto con la delicata bellezza del suo corpo. All'improvviso Nick, fissandola dal basso, si sentì assalire dalle vertigini. Il sangue gli rombò nelle orecchie, mentre lui osservava il modo in cui lei andava avanti e indietro sulla pedana. Uno strano silenzio era calato nel locale; ogni conversazione cessata. Tutti stavano osservando la ballerina con la maschera. Lui si guardò intorno, esaminò gli altri uomini, i visi rivolti verso l'alto. Si chiese cosa stessero provando. Poi smise di chiederselo. Il viso mascherato della ragazza svettava sopra di lui, sembrando al contempo familiare e bizzarro. Nick vide che adesso lei brandiva un frustino. Uno scudiscio da cavallerizzo fatto di cuoio rigido, oliato. Lo fece oscillare al di sopra della folla, sempre più vicino, e poi, con un movimento improvviso che lo sbalordì facendogli fare un salto all'indietro, se lo calò energicamente sulla coscia destra, poi sulla sinistra. Subito dopo, dando le spalle al pubblico, si colpì le natiche e le reni. Nick avrebbe voluto raggiungerla con un balzo per strapparglielo di mano. Ma, tutt'intorno, i presenti avevano cominciato ad applaudire e urlare. Lei usò il frustino da cavallerizzo ancora e ancora, talvolta talmente forte che lui trasalì e si ritrasse, altre volte delicatamente, passandoselo sulla pelle senza lasciare il minimo segno. Gli uomini si spinsero in avanti, stentando a contenere l'eccitazione, Nick ormai insieme a loro, invocando il bis, ancora e ancora. Lei si piegò verso di lui, abbassando una mano, protendendo lo scudiscio, facendoglielo guizzare sopra la testa. Lui sentì la puntura sulla cute, sotto i capelli, e trasalì. Poi, tutt'a un tratto, senza preavviso, la musica cessò; la ragazza avanzò di un passo e, piegando un ginocchio, s'inchinò elegantemente e, con un ampio gesto, si levò la maschera che tenne scostata dal viso, la fece dondo-
lare stringendone la cinghietta tanto che ruotò da una parte e dall'altra, una testa mozzata che il boia teneva sollevata per compiacere la folla. Nick la fissò e capì di cosa si trattava. Era il muso di una volpe, le mascelle dischiuse, i piccoli denti aguzzi esposti in un sogghigno. Spostò lo sguardo dalla maschera alla ragazza. I capelli, tinti di un biondo platino, a causa del sudore le aderivano al cranio minuto. Lei stava ansimando per riprendere fiato, un'espressione di esultanza e trionfo sui lineamenti delicati. S'inchinò di nuovo, la schiena rigida e parallela alla pedana, un piede arcuato e puntato in avanti. Il gesto di una ballerina classica, non di una spogliarellista, pensò Nick mentre la testa della ragazza raggiungeva quasi il pavimento e la maschera da volpe oscillava a pochi centimetri dal viso di lui. La osservò quando lei raddrizzò la parte superiore del corpo, si erse in tutta la sua altezza mettendosi in punta di piedi, poi si voltò, saltò giù dal palcoscenico e scomparve tra la ressa, dirigendosi verso una porta dietro il bancone. «Gesù.» Il tizio in piedi accanto a Nick sollevò il bicchiere. «Che te ne pare? Gran bel pezzo di figa.» Tracannò quanto restava del suo drink e indicò il bicchiere di Nick. «Allora, amico? Vuoi fare il bis?» Ma Nick non rispose. Sentiva un gusto acido di birra e bile in fondo alla gola, lo stomaco in subbuglio per la nausea, e il viscido sudore del disgusto di sé che gli colmava le narici con il suo tanfo. Il viso della ragazza gli appariva così nitido adesso, nella penombra dell'affollato locale invaso dal fumo. Era Róisín Goulding, la ragazza della porta accanto. Sorella di Chris, figlia di Brian e Hilary. Molto più grandi di Owen, lei e il fratello. Lui aveva ventun anni, lei diciannove. Amici di Marianne O'Neill, la bambinaia di Owen. Entravano e uscivano continuamente da casa sua. E anche Owen era sempre con loro. Stava loro alle calcagna. Ascoltava la loro musica. Tornava a casa con un mucchio di storie da raccontare. Cosa avevano fatto, dove erano andati, chi avevano incontrato. Supplicava di poter rimanere fuori con loro, la sera tardi, quando si nascondevano nella rimessa dei Goulding per osservare la volpe, la volpe femmina, che entrava nel giardino. Con i suoi cuccioli appena nati, raggiungeva furtivamente il prato immerso nella luce lunare. «Avanti, Owen, sei il più piccolo, non baderà a te. Avanti, Owen, vedi se è disposta a mangiarti dalla mano, dalle un biscotto, un pezzo di pane.» Mentre Nick restava fermo accanto a una finestra del piano di sopra, la luce che si riversava in riquadri di un azzurro argenteo sui tetti e sugli alberi e, sotto di lui, sui capelli biondi del suo unico figlio. La testa biondo platino della ragazza sobbalzò su e giù tra la folla. Lui cominciò a seguirla, spingendo da parte le persone, calpestando piedi, i-
gnorando le proteste dei clienti ai quali, nella frenesia dell'inseguimento, aveva rovesciato la birra. Ma la porta dietro cui l'aveva vista scomparire era chiusa a chiave. E, quando lottò con la maniglia, abbassandola e torcendola per poi premere la spalla sullo stipite di legno, uno degli addetti alla sicurezza, con la maglietta ben tesa sul torace prominente e i bicipiti gonfi, lo afferrò, scostandolo con forza, la sua stretta rude ed energica. «Niente da fare, amico, non puoi entrare lì. A meno che tu non abbia pagato in anticipo e la piccola signora lo dica espressamente. Ma stasera non ha detto niente. Quindi calmati, torna dai tuoi amici, bevi un'altra birra o quello che vuoi.» Picchiettò sul petto di Nick e sogghignò mentre lui indietreggiava barcollando, sforzandosi di non perdere l'equilibrio. «Vaffanculo, lasciami in pace, non toccarmi, cazzo», ribatté Nick, raddrizzando la schiena, improvvisamente consapevole del proprio farfugliare. «La conosco, è tutto a posto. Sarà felice di vedermi. Ne sono sicuro. Ti sto dicendo di lasciarmi entrare. Ehi», avanzò di nuovo, irrigidendo le spalle, «non mi stai ascoltando, stronzo?» Poi indietreggiò di nuovo, rapidamente, quando il buttafuori si accostò alle labbra un dito ammonitore prima di spostare da una mano all'altra un pesante manganello nero. «Su, su, non vogliamo sentire parole del genere in un posto di classe come questo. Lei non vuole vederti, non vuole vedere nessuno che non abbia pagato. La prima volta te l'ho chiesto gentilmente, amico. Se devo chiedertelo di nuovo, la seconda volta non sarò così gentile. Quindi levati dai piedi, torna al bar, prenditi un drink e poi vai a casa. Altrimenti posso mettertela in questo modo. Il Charity Hospital, sulla Tulane Avenue, dista solo un paio di isolati. Là sono molto bravi a curare la gente. Persino gli stronzi come te.» Ibernile, Bienville, Conti, St. Louis, Toulouse, St. Ann, Dumaine, St. Philip. Contò i nomi delle vie traverse mentre seguiva la ragazza uscita dalla porta posteriore del bar. Lei avanzava rapidamente e senza paura tra i festaioli nottambuli che si aggiravano scomposti per le strade, bevendo da bottiglie infilate in sacchetti di carta marrone, inveendo l'uno contro l'altro e contro qualunque donna passasse. Ma, senza la maschera e vestita con un paio di jeans e una normalissima maglietta, lei non sembrava niente di speciale mentre camminava di buon passo davanti a lui. All'angolo tra Ursuline e Bourbon, girò a sinistra verso Royal Street e Nick la imitò, sentendo nell'improvviso silenzio il ticchettio prodotto dalle suole dei sandali
di lei sull'acciottolato. La ragazza svoltò di nuovo, frugandosi in tasca mentre si fermava davanti alla porta accanto a una vetrina che reclamizzava rimedi erboristici e cibi sani. Quando sollevò la mano, un mazzo di chiavi che catturava la luce di un'insegna al neon, lui gridò il suo nome. «Ehi, Róisín, sei tu, vero? Róisín Goulding, di Dublino.» Lei si voltò lentamente a guardarlo, l'espressione tutt'a un tratto ansiosa. «Róisín.» Nick si avvicinò. «Ciao, come stai? Ti ricordi di me?» Nei dieci anni trascorsi dall'ultima volta in cui l'aveva vista, praticamente non era cambiata. Il suo visino pallido era ancora come lui lo ricordava. La ragazza della porta accanto. Quella che non spiccicava quasi parola quando lo incontrava con indosso la divisa scolastica oppure veniva a trovare Marianne e sedeva nella loro cucina a bere caffè o restava distesa sul letto dell'amica sfogliando riviste. Avevano fatto da baby-sitter a Owen, lei e il fratello maggiore, nell'epoca precedente l'arrivo di Marianne. Chris e Róisín, che avrebbero potuto essere gemelli se non fosse stato per i due anni che li separavano. Il medesimo corpo snello e i medesimi capelli castano chiaro. Il medesimo modo di fissare il pavimento mentre parlavano. Di sviare la curiosità altrui, di tenere a distanza gli estranei. In realtà, se la memoria non lo ingannava, Róisín non parlava mai, se appena poteva evitarlo. Era sempre Chris a parlare per lei. Rispondendo a qualunque domanda potesse esserle indirizzata. Anticipando qualunque domanda che lei potesse voler fare. Un perfetto esempio di controllo da parte del fratello maggiore. «Róisín, ehi, ti ricordi di me? Nick Cassidy. Di Dublino. Ricordi?» Ma la mano della ragazza aveva già infilato la chiave nella serratura e l'aveva ruotata, aveva aperto la porta e, prima che lui potesse fermarla, l'aveva richiusa con forza, lasciandolo lì in strada, a premere il viso contro la piccola grata infissa nel legno massiccio, a chiamare la figura che era scomparsa rapidamente lungo il passaggio buio in fondo al quale brillava una vivida luce. Mentre lui picchiava il palmo della mano sulla porta, poi suonava a casaccio i campanelli allineati sopra la fila di cassette delle lettere fissate al muro esterno. Aspettando il cicalino che indicava l'apertura della serratura. Ma non ebbe risposta. Indietreggiò sul marciapiede e poi in mezzo alla strada. Ormai lì regnava la quiete, non c'era traffico. Le luci filtravano da imposte e tende, raggiungendo la via sottostante. Alzò gli occhi verso le lunghe finestre e il balcone di ferro battuto che sporgeva sopra il marciapiede. Vide una figura che, in piedi, lo guardava dall'alto, la sua silhouette che si stagliava contro il ba-
gliore di un giallo cremoso. Poi non vide più nulla quando i pesanti tendaggi vennero accostati e tutto ripiombò nell'oscurità. 5 Fuori, la luna era sospesa nel cielo nero. Di tanto in tanto nuvole scure ne smorzavano la luminosità. Dentro, Nick era sdraiato supino, a occhi aperti, osservando il disegno tracciato sul soffitto dallo scintillio dei lampioni stradali. Quando si era svegliato per la prima volta non aveva capito bene dove si trovava. Aveva sognato casa sua. Il sogno non aveva una forma precisa né una trama coerente. Lui non rammentava nulla di quanto era o non era successo. Ma si era trovato lì, in quella che un tempo era casa sua, e adesso, mentre i suoi occhi guizzavano per la stanza oscurata, la trovava sconosciuta e bizzarra. Le finestre erano nel posto sbagliato. Lo specchio a figura intera non era appeso alla parete davanti al letto. E dov'era Susan? Nel sogno sapeva che era raggomitolata al suo fianco. Riusciva ancora a sentirne le cosce che premevano sulle sue, il seno e il ventre morbidi contro la sua spina dorsale, la mano che stringeva la sua. Rimase immobile, in ascolto, per captare i suoni del mondo esterno. Che cosa avrebbe udito? Il richiamo mattutino di un tordo sassello o di una cinciallegra? I lenti rintocchi della prima campana della giornata e il tonfo sordo dell'uscio della signora Morrissey che lo chiudeva con violenza lasciando la casa due porte più in là per recarsi alla messa del mattino? In un punto imprecisato del fiume un rimorchiatore fischiò. Un suono basso e lugubre. Nick rimase immobile, aspettando un richiamo di risposta, e lo udì attraverso il segnale di una seconda imbarcazione, un paio di note più alto. Ascoltò le voci delle due barche al di sopra dell'acqua nera e increspata. E ripensò alla sirena antinebbia che suonava ogni inverno nella baia di Dublino. Un muggito insistente, un suono sgradevole. Clima novembrino. Nebbia al mattino e alla sera. Quiete e silenzio, oscurità in piena notte e una quasi totale assenza di sole persino a mezzogiorno. I falò di Halloween che ardevano per tenere lontane le tenebre. Il giorno in cui Owen era scomparso. Nebbia il pomeriggio e un freddo vento settentrionale. E quella notte e ogni altra notte di quel lungo mese di novembre, giacendo insonni, Susan supina accanto a lui, entrambi con gli occhi aperti, guardando l'orologio, drizzando le orecchie per sentire l'eventuale squillo del telefono e udendo solo il suono della sirena antinebbia che muggiva il suo brutto grido, regolare, affidabile, ogni venti secondi. Sentendo il freddo sul
viso, interrogandosi. Lui dov'era? Aveva fame, sete, era spaventato, ferito? Li stava chiamando? Stava aspettando che lo ritrovassero? Allungando una mano per prendere quella di Susan, accorgendosi che si era finalmente addormentata, il cuscino bagnato di lacrime. Sapendo che, non appena si fosse svegliata, sarebbe toccato a lui dormire. Così avrebbero evitato ancora una volta le parole che dovevano essere dette. Come hai potuto? Come hai potuto abbandonarlo in quel modo? Perché non hai controllato dov'era? Perché non ti sei assicurato che Marianne fosse con lui? E comunque, che cosa hai fatto per tutto il pomeriggio? Perché non vuoi dirmi la verità? Sapendo che la verità avrebbe messo la parola «fine» al loro rapporto. Mi ami? Se mi ami come dici, come hai potuto farlo? Non mi desideri più? È così, vero? Mentre restavano sdraiati vicini, senza toccarsi, ascoltando il sibilo del respiro dell'altro e il gemito della sirena antinebbia. Piangendo a turno, con il passare delle ore. Adesso lui si drizzò a sedere e accese la luce, non riuscendo più a sopportare le immagini che gli premevano contro le palpebre. La stanza prese forma. Angusta e rettangolare. Spoglie pareti bianche e pavimento di legno scuro. Un letto, una sedia, un armadio. Un ventilatore che ronzava lentamente sul soffitto. Si alzò e aprì la sacca posata nell'angolo, mezza piena. Frugò all'interno ed estrasse una grossa cartelletta di plastica. La svuotò. Aveva le mani piene di fotografie. Owen lo fissava, appena nato, cullato dalle braccia della madre, la pelle così perfetta e intatta. Le sfogliò rapidamente, osservando Owen che cresceva e prendeva forma davanti ai suoi occhi. Strisciando carponi, alzandosi in piedi, facendo i suoi primi passi esitanti. Correndo, prendendo a calci un pallone, pedalando sulla bicicletta, giocando con il suo amico Luke che viveva sul lato opposto della piazza. Il suo primo giorno di scuola. Mentre imparava a nuotare, durante le vacanze nel loro villaggio cretese preferito, con boccaglio e maschera da sub, in
piedi sul bordo della piscina, pronto a tuffarsi, mentre sullo sfondo Susan alzava gli occhi dal libro, il sole che le si rifletteva sulle lenti degli occhiali scuri. Sempre sorridente, mettendo a nudo la fessura tra gli incisivi, i folti capelli biondi ritti sulla testa. Una giornata invernale in giardino. La neve ammanta il prato, e Owen è con Marianne e gli altri. Chris e Róisín e quel loro amico, Ed. Non era così che si chiamava? Un ragazzo tranquillo, timido, affetto da una lieve balbuzie. E Owen che indicava le tracce nella neve, una fila regolare di piccole orme, il viso soffuso di gioia mentre le mostrava alla macchina fotografica. Guarda, babbo. Guarda chi è venuta qui stanotte. L'ho vista dalla finestra. E avevo ragione, non mi hai creduto, vero? Hai Pensato che me lo stessi inventando vero? Ma era qui. La volpe era qui nel nostro giardino. E questo lo di mostra. Lo dimostra, dimostra in eterno che Owen è esistito. Per otto anni è stato mio figlio, il mio bambino, il mio tesoro. E dopo quegli otto anni? Nick estrasse un'altra cartelletta dalla sacca e ne sparse il contenuto sul letto. Così tante foto di così tanti bambini. Ragazzi che avrebbero potuto avere l'età di Owen. Ragazzi che avrebbero potuto essere Owen. Stesso colore dei capelli, stesso colore degli occhi. Stessa corporatura. Stesso aspetto. Fotografie scattate a migliaia di chilometri di distanza dall'ultimo luogo in cui Owen era stato visto. Mesi, anni dopo. Mentre Nick si spostava, prima a Londra, poi a New York, poi a Toronto, poi a Boston, Washington, Chicago, Los Angeles. Poi in paesini disseminati come manciate di ciottoli in tutta l'America. Qua e là, avanti e indietro. Ovunque gli venisse il ghiribizzo di andare. E infine a New Orleans. Piena estate, troppo caldo per restare in città, avrebbe dovuto andarsene dopo il Mardi Gras. Avrebbe dovuto trovarsi ovunque tranne che lì. Ma fu lì che vide la ragazza con la maschera da volpe. E fu lì che, per la prima volta da anni, ebbe un contatto con tutto ciò che si era lasciato alle spalle. Eccettuata la sua collezione di fotografie. I suoi ritratti di Owen e dei ragazzi che Owen sarebbe potuto diventare. Estrasse un'ultima cartelletta della sua collezione. La serie di foto più recenti che aveva scattato. C'era uno studente che aveva frequentato le sue lezioni. Aveva la pelle color bronzo e, quando si piegava in avanti, Nick notava come le vertebre gli spuntassero attraverso la maglietta e sopra il colletto. Portava i capelli corti, che aderivano alla testa, formando alla base della nuca un triangolo si-
mile a una punta di freccia. Nick sapeva che aspetto avrebbe avuto se si fosse spogliato. Ci sarebbe stato un velo di peluria bionda su braccia e gambe e alla base della spina dorsale. Nick lo aveva osservato. Era stato tentato di avvicinarglisi. Il ragazzo aveva orecchie piccole e ben disegnate, e uno spazio tra gli incisivi superiori. Mentre restava seduto a disegnare, muoveva costantemente un piede, a scatti. E di quando in quando posava la matita per giocherellare con le ciocche di capelli ritte sul cocuzzolo della testa. Smettila, Owen. Non farai che peggiorare le cose. Lasciali stare e si appiattiranno da soli. E smettila di agitare continuamente il piede, mi distrai. Stai fermo, per l'amor del cielo, ti spiace? Il ragazzo si chiamava Ryan. Aveva diciotto anni. Viveva dall'altra parte del fiume, ad Algiers. Sua madre aveva un bar-negozietto di souvenir. Suo padre faceva il dentista. I genitori avevano divorziato quando aveva dieci anni. La madre si era risposata, poi si era separata di nuovo. C'erano due sorelline. Nick si era chinato sul suo cavalletto per osservare il disegno. Aveva sentito il profumo del dopobarba del ragazzo. Aromatico, speziato. Come se avesse bisogno di radersi, aveva pensato, notando la levigatezza delle guance. Aveva esaminato il disegno. Ryan era bravo. I suoi movimenti erano sicuri e agili. Aveva terminato lo studio della modella prima ancora che gli altri studenti della classe cominciassero a disegnare. E aveva decorato il margine del foglio con uccelli, animali, pesci, intrecciati in un'elaborata spirale. «Mi piace», aveva detto Nick. «Somiglia a qualcosa che si potrebbe trovare in uno di quegli antichi manoscritti celtici.» «Come il Libro di Kells», aveva suggerito il ragazzo. «Esatto. Lo conosci?» Ryan aveva annuito, temperando la matita con un coltellino e soffiando via i trucioli rimasti sul foglio. «Mia madre vende un sacco di oggetti nel suo negozio. Cartoline, strofinacci, poster, tutti decorati con immagini tratte da quel libro. La sua famiglia viene dall'Irlanda. Quando ero piccolo, ci siamo andati e siamo entrati in quel college per vederlo. Era carino. Volevo tornarci ogni giorno per vedere la pagina seguente, capisce.» Si era voltato a guardare Nick. «Quando ho detto a mia madre che lei è di Dublino, mi ha ribattuto che se passa davanti al negozio, dovrebbe entrare a salutarla.»
Le sue mani si erano messe a giocherellare con la matita e una morbida gomma gialla, continuando a disegnare e cancellare, spazzando via i minuscoli frammenti di gomma e grafite. La punta delle dita era macchiata e annerita. «Ricordi molte cose di Dublino? Ti è piaciuta?» Ma la lezione era finita e Ryan si era alzato, aveva riposto blocco da disegno e matite, si era allontanato, era uscito con gli altri ragazzi che lo stavano aspettando accanto alla porta. Improvvisamente imbarazzato da quella conversazione gratuita con l'insegnante. Quello strano tizio irlandese, Nick li aveva sentiti chiamarlo così. Aveva seguito Ryan che percorreva lentamente il corridoio, i jeans sformati che nascondevano le scarpe da ginnastica, il berretto da baseball portato al contrario. Lo aveva osservato mentre lui e gli amici scomparivano tra gli alberi, in direzione del parcheggio. Avrebbe voluto seguirli, scoprire dove andavano e cosa facevano, avrebbe voluto ascoltarne le chiacchiere, cercare di imparare il loro linguaggio, il linguaggio che anche Owen avrebbe usato. Ma aveva notato il modo in cui si allontanavano quando si avvicinava troppo. Avevano percepito il suo bisogno. Ne era sicuro. Si stese nuovamente sul letto, le fotografie sparpagliate accanto a sé, e intrecciò le mani dietro la testa. Per un certo periodo avevano sospettato di lui. Era colpa sua, lo sapeva. Non aveva voluto rivelare alla polizia dove si trovava quel pomeriggio. Era rimasto sul vago, aveva eluso la domanda e tergiversato, poi aveva mentito. Dicendo di essere rimasto in città per tutto il pomeriggio; di aver discusso di un nuovo progetto con un'editrice. Aveva detto qualunque cosa pur di non dover rivelare la verità. Aveva visto la fissità con cui il poliziotto a capo delle indagini, un sovrintendente di nome Matt O'Dwyer, lo aveva guardato. Aveva sentito O'Dwyer spiegare che volevano che li accompagnasse alla stazione di polizia per un interrogatorio ufficiale, che intendevano arrestarlo. Dopo tutto quel tempo, riusciva ancora ad avvertire la morsa allo stomaco causata dalla paura e il fiotto di bile per il disgusto di sé. «D'accordo, okay. Vi dirò dov'ero. Ho un alibi per il pomeriggio. Potete verificare, se volete.» «Così come abbiamo verificato gli altri, signor Cassidy?» «No, no, stavolta lei confermerà.» «Lei?» «Sì, bastardi. Lei. Siete soddisfatti, adesso?»
Era arrivato a conoscerli bene, i poliziotti che avevano assunto il controllo della loro vita. Uno di loro, una giovane donna che aveva raccontato a Susan di essere appena entrata nella polizia, si era trasferita in casa loro. Si chiamava Min Sweeney. Aveva ventidue anni. Era lei a occuparsi del telefono, filtrando il costante flusso di chiamate dei curiosi, degli insensibili, dei vendicativi. Gente che telefonava la sera tardi, vomitando oscenità contro di loro. Avanzando ipotesi su dove potesse essere Owen e su cosa potesse fare in quel momento. «Voi due vi trovate su una curva di apprendimento», aveva dichiarato. E aveva ragione. Avevano imparato così tanto durante i lunghi mesi in cui avevano atteso che succedesse qualcosa. Quanto potesse essere gentile e premurosa la gente e quante crudeltà si potessero infliggere agli sventurati. Giunsero a mettere in dubbio tutto ciò che un tempo avevano dato per scontato. I poliziotti avevano stilato una lista di sospettati. Vi figuravano tutti i loro vicini e qualunque persona con cui Owen fosse entrato in contatto. I suoi insegnanti, i suoi compagni di classe, i suoi amici e relativi genitori. I loro amici. La loro famiglia allargata. Tutti ricevettero una visita della polizia, tutti vennero interrogati. Tutti gli alibi vennero controllati e messi in dubbio. Loro due videro le pile di questionari compilati da chiunque vivesse nel raggio di un chilometro e mezzo dalla casa. Così tante informazioni. Orari, luoghi, viaggi, visite, visitatori. Chiunque fosse entrato o uscito dalla zona venne registrato. Si riuscirà sicuramente a trovare Owen, disponendo di così tante informazioni, si dissero a vicenda. Tutte le case della piazza vennero perquisite. Così come i relativi giardini. Solai, seminterrati, rimesse, sonde conficcate nelle bordure erbose e negli orti appena scavati. Apparecchi rilevatori di calore utilizzati per esaminare qualsiasi elemento sospetto sotto il livello del suolo. «Che cosa vuoi, cosa preferisci, Nicky?» gli aveva chiesto Susan una sera, qualche settimana più tardi, dopo che avevano terminato la seconda bottiglia di vino e lui aveva cominciato a versare il whiskey. «Un bambino morto o nessun bambino?» «Tu cosa vuoi?» Lui era in piedi di fronte alla moglie, la bottiglia in mano. «Bene.» Lei gli aveva teso il bicchiere. «Bene, i bambini morti non rappresentano una fonte di timore o mistero, per me. Li vedo ogni giorno. Sono rimasta accanto a loro mentre esalavano l'ultimo respiro. Ho lavato i lo-
ro corpicini devastati. Li ho avvolti nelle coperte. Li ho aperti per scoprire come mai erano morti. Li ho consegnati alle madri. Ho assistito alla loro sepoltura. Li ho pianti. Ho visto la pari quantità di sollievo e disperazione con cui è stata accolta la loro dipartita.» «Quindi è questa la tua risposta?» Nick le si era seduto accanto e le aveva preso la mano. «No, bastardo, non lo è. La mia risposta è che rivoglio mio figlio. Lo rivoglio vivo e illeso, e bellissimo e perfetto com'era la mattina in cui sono uscita per andare al lavoro e l'ho affidato a te. Rammenta, Nicky, rammenta. Ricorda che avevi promesso di badare a lui. Avevi promesso che io avrei ripreso a lavorare perché tu saresti rimasto qui a casa, assumendoti la responsabilità di Owen. Non Marianne né chiunque altro, ma tu. E invece cosa hai fatto? Hai costretto Marianne a badare a lui, vero? Lei mi aveva detto che voleva il pomeriggio libero e io le avevo risposto che andava bene. Ma tu non eri d'accordo. Non volevi essere responsa bile di Owen, quel pomeriggio. Volevi qualcos'altro. Così le hai detto che doveva occuparsi di lui, che era per quello che la pagavi. Però Marianne aveva già fatto altri programmi. Proprio come te. Ha seguito il tuo esempio. Sapeva co sa stavi combinando. Quindi avanti, dimmelo. Raccontami tutti i dettagli. È stato divertente quello che hai fatto con quella donna quel pomeriggio? Mentre la vita di mio figlio finiva, hai avuto un orgasmo? Ne hai avuto soltanto uno o più di uno? Dimmelo, dimmelo. Avanti, dimmelo.» Raccolse le fotografie e le risistemò accuratamente all'interno delle copertine di plastica. La luce dell'alba stava cominciando a filtrare dalle imposte. La osservò giocare sul soffitto. La temperatura era già tiepida. Ben presto il caldo sarebbe diventato insopportabile. Scese dal letto e raccolse una salvietta. Aprì la porta e percorse il corridoio che portava al bagno. Intorno a lui la casa era immersa nel silenzio. Entrò nel box doccia e aprì l'acqua fredda. Digrignò i denti e lasciò che gli si riversasse sulla testa e gli scorresse lungo il corpo. La ragazza, Róisín, aveva confezionato la maschera da sola?, si chiese. Tutti avevano creato delle maschere, quell'Halloween. Marianne e Chris, Róisín e Eddie. Maschere di animali e uccelli, fedelmente riprodotti con piume e cartapesta, dipinte e decorate con perline e ricami. Gli avevano chiesto aiuto e lui aveva disegnato le sagome, aveva spiegato loro come preparare la cartapesta, prestato tempere e pastelli. Marianne era un gatto, Chris una gazza, Róisín uno scoiattolo, Eddie un tasso. E Owen che cos'era? Era la volpe. Gli avevano persino confezionato
una coda, una grossa e folta spazzola rossa, da cucire dietro il cappotto. Avevano fischietti di latta da suonare e Owen un bodhrán, il tamburo celtico tradizionale, su cui picchiare. «E quando farà buio, andremo in processione dalla casa al falò», gli aveva spiegato Marianne. «Ascolta la melodia che abbiamo creato. Ti piace?» Lui era rimasto nel letto di Gina Harkin tutto il pomeriggio. Si respirava un odore familiare di colori a olio e la polverosa dolcezza di pastelli e gessetti. Di tanto in tanto era stato sicuro di sentire la musica, il tonfo sordo del tamburo. E saltuariamente un'esplosione improvvisa, quando uno dei ragazzi provava i fuochi d'artificio. Aveva posato il viso contro la morbidezza del seno di lei e respirato lentamente e a fondo, fino a addormentarsi. Al calduccio e appagato, tranquillo. Uscì dalla doccia e si asciugò con la salvietta. C'erano alcuni fili grigi tra la folta peluria sul suo petto e, quando si guardò allo specchio, la cianografia di un uomo anziano ricambiò la sua occhiata. Rughe sulla fronte e tra le sopracciglia, linee a tratteggio intorno agli occhi e profondi solchi ai lati di naso e bocca. Aveva trentacinque anni quando aveva perso Owen. Adesso ne aveva compiuti quarantacinque. Il più giovane di cinque figli. Suo padre morto da diversi anni, e ormai anche la madre. Tre anni prima. All'improvviso. Lui aveva ricevuto una sua lettera un paio di mesi prima della sua scomparsa. Come sempre, lei gli aveva chiesto, prima di tutto, quando sarebbe tornato a casa. Mi manchi, Nicky, aveva scritto, la sua calligrafia ancora perfettamente leggibile. Manchi a tutti noi. Parliamo sempre di te e ci chiediamo come stai. Dovresti tornare, lo sai. Il tuo posto è qui, con la tua famiglia. Lui sapeva cosa sua madre intendesse dire in realtà. Non avresti mai dovuto andartene. Sei scappato. Saresti dovuto rimanere e rifarti una vita qui, dove è davvero importante. Glielo aveva detto il giorno in cui Nick era andato a trovarla, a spiegarle che stava per partire. Era un pomeriggio freddo e lui si era inginocchiato ai suoi piedi per accendere il fuoco. Aveva spezzato qualche rametto, ricavando scintille da pezzetti di carbone, alimentando la fiamma bassa e sottile finché essa non aveva più avuto bisogno di aiuto. Osservato il modo in cui la corrente ascensionale la risucchiava verso lo spazio scuro del comignolo, l'improvvisa fiammata di gas, azzurro, verde, giallo contro l'arancione scuro dei tizzoni, finché il calore non si era fatto così intenso che Nick aveva appoggiato la schiena contro la sedia della madre, posandole la testa sul ginocchio.
«Stai commettendo un errore», gli aveva detto lei. «È inutile partire, non puoi allontanarti dai tuoi sentimenti. Ti seguiranno. Lo sai, vero?» Lui non aveva risposto. «E Susan? Cosa farà, adesso?» «Non se ne andrà, non lascerà la casa. Dice che deve rimanere lì, non si sa mai. Non si sa mai che cosa?, le ho chiesto. Ma non vuole ascoltarmi.» «Non si sa mai che cosa?» le aveva urlato Nick. «Chi vuoi prendere in giro? Non tornerà. Se n'è andato per sempre. Lo sai tu. Lo so io. Lo sa la polizia. Lo sanno tutti, cazzo.» «Lo sanno davvero?» Lei era rimasta seduta immobile, fissandolo dal basso. «Io non lo so. Sto aspettando mio figlio. Lo aspetterò in eterno, se necessario. E se tu lo amassi come dici di amarlo, lo aspetteresti anche tu, insieme a me.» Nick aveva visto i manifesti in tutto il Quartiere Francese. Foxy Lady, la chiamavano. Doveva avere come minimo ventotto anni, ormai. E Owen ne avrebbe avuti diciotto. Il palazzo al 1100 di Royal Street, ecco dove abitava la ragazza. Lui si fermò sulla strada di fronte e alzò lo sguardo verso le finestre con le imposte chiuse e il balcone di ferro battuto. Quale sentiero aveva imboccato Róisín?, si chiese, un sentiero che l'aveva condotta fin lì, a così tante migliaia di chilometri di distanza da quella tranquilla, accogliente via di Dublino? Quando, quella sera, fosse uscita di casa per andare al club, lo avrebbe trovato ad aspettarla. E stavolta avrebbe parlato con lui. E insieme sarebbero tornati indietro di tantissimi anni, fino a quel pomeriggio. Halloween, 1991. Il falò, le maschere, i costumi, il senso di aspettativa. E tutte quelle domande, formulate ma ancora senza rispo sta. Nick trasse un respiro profondo e si preparò al dolore del ricordo, ancora così opprimente da levargli il fiato. «Owen», sussurrò. «Owen, sto venendo a cercarti. Aspettami, ovunque tu sia. Perché ben presto sarò con te. Ricordatelo, figlio mio. Ricorda che ti amo ancora e ti rivoglio con me. Ricordatelo, Owen, perché sto arrivando.» 6 Era stata Susan a scegliere la casa. Al numero 26 di Victoria Square. Era andata a vederla un sabato, appena prima che Owen compisse due anni. Era sul mercato da mesi Aveva capito subito come mai: era sporca, trascurata. Una conigliera di monolocali ricavati da stanze un tempo imponenti,
con il soffitto alto. Ma era riuscita anche a distinguerne, al di là dei pannelli divisori gessati, le eleganti proporzioni originarie. Inoltre, alzando gli occhi, aveva visto che il bellissimo stucco decorato delle cornici era ancora intatto. Aveva telefonato subito a Nick. «La voglio. Dobbiamo lasciare quell'appartamento. Non possiamo continuare a vivere in città, con un bambino. So che non vuoi abitare in periferia, ma dovremo trasferirci, prima o poi. Quindi intendo fare un'offerta per la casa. Ha bisogno di parecchi lavori di ristrutturazione, ma possiamo farli insieme, piano piano. Possiamo prendercela comoda. Renderla perfetta Trasformarla in una vera casa. Dopotutto, lo faremo una volta sola, no?» Lui aveva borbottato una risposta vaga. E aveva riflettuto. E a me che si riferisce quando dice «noi», lei non ha mai tempo. Aveva sospirato e ribattuto: «D'accordo, se è quello che desideri, procedi pure» Ma doveva ammettere di essere rimasto compiaciuto quando la transazione venne conclusa. Victoria Square faceva parte dell'insieme di piazze, casette a schiera e giardini costruiti secondo lo schema del gioco «campana» tra le montagne di Dublino e il mare d'Irlanda. Tutte le abitazioni risalivano all'ultimo quarto del diciannovesimo secolo. Erano alte tre piani, con lunghi e stretti giardini posteriori che sbucavano su una ragnatela di vicoletti e di antiche scuderie, dove un tempo avevano vissuto gli staffieri e dove i cavalli erano stati tenuti in stalla. I Cassidy vi si trasferirono quando Owen aveva due anni e mezzo. Era aprile. Primavera. Temperatura tiepida e sole durante il giorno, ma freddo e umidità la notte. Si accamparono nella stanza sul davanti. Cucinavano su una stufa a cherosene e lavavano i piatti in una tinozza di latta davanti al fuoco ruggente che Nick accendeva e accudiva ogni sera, mentre l'oscurità li assediava. Susan ricordava sempre quei primi mesi. Si era sentita al settimo cielo. Owen era così facile da gestire. Giocava e sorrideva e parlottava senza sosta. Si arrampicava su e giù per la lunga scalinata senza mai cadere. Adorava il giardino sul retro. Si rotolava tra l'erba alta e rada. E restava a guardare, mentre Nick eliminava carta da parati e vernice. E abbatteva i pannelli divisori. E assillava idraulici ed elettricisti, carpentieri e imbianchini. Ogni giorno, quando lei tornava a casa dall'ospedale, le mostrava cosa era stato fatto mentre era rimasta lontana da loro due. E Owen le faceva fare un tour guidato. «Guarda, mammina, guarda cosa ha fatto il babbo», diceva tutto orgoglioso. E lei si fermava cingendoli con le braccia, li baciava e spiegava quanto li amava. Com'era felice in quella casa, la loro
nuova casa. E che avrebbero sempre vissuto lì, insieme. Loro tre. Nei secoli dei secoli. Amen. Adesso, quando apriva la porta dopo la lunga giornata di lavoro, Susan indugiava sulla soglia. Restava in ascolto. Aspettava. Aspettava il grido di benvenuto di Nick. Ciao, come stai? Sei tornata. Ho un sacco di cose da raccontarti. E lo scalpiccio di Owen che correva sull'assito nudo, sabbiato. Mammina, mammina, indovina cosa ho fatto oggi. Indovina cosa mi è successo. Era assurdo. Lo sapeva. Aveva tentato di smettere. Aveva tentato di fare quello che faceva chiunque altro quando entrava in una casa vuota. Accendere le luci. Disattivare il sistema d'allarme. Abbassare una mano per raccogliere la posta. Raggiungere rapidamente la cucina. Mettere il bollitore sul fuoco. Sedersi. E aspettare. Che cosa? Cosa diavolo stava aspettando? Forse questo. La lettera che giaceva sullo zerbino insieme al resto della corrispondenza. Una busta lunga, l'indirizzo scritto a mano. Il francobollo e il timbro postale americani. Niente nome del mittente nell'angolo in alto a sinistra né, notò voltando la busta, scribacchiato sul lembo. Che vigliaccheria, pensò mentre la gettava sul tavolo. Come se non sapessi chi la manda. Come se non potessi indovinare che l'unica persona capace di scrivermi da un qualunque punto dell'America è molto probabilmente lui. Come se non rammentassi tutte le altre missive. I biglietti di buon compleanno, i cartoncini natalizi, quelli con gli auguri di buon anniversario che ha spedito. Un tempo. Anni fa. Dopo essersene andato da qui. Dopo essere fuggito lontano da me e da Owen, e dalle sue responsabilità nei confronti di entrambi. Si sedette e guardò la lettera. Si versò un bicchiere di vino e andò nel bagno al piano di sopra. Aprì i rubinetti e chiuse le persiane. Fuori faceva buio. Si era agli inizi di ottobre, il mese che paventava. Quel giorno c'erano state nove ore e quindici minuti di luce solare tra l'alba e il tramonto. L'indomani sarebbero state meno. Il giorno successivo meno ancora. E l'ultimo giorno del mese, l'anniversario della scomparsa di suo figlio, sarebbero state meno che mai. La luce sarebbe scomparsa. L'oscurità avrebbe cominciato a sopraffare Susan. Si sdraiò nella vasca da bagno e chiuse gli occhi. La casa era immersa nella quiete. Un vero sollievo dopo il trambusto dell'ospedale. Lì non c'era nessuno che la assillasse con continue domande. Nessuno che esigesse risposte e spiegazioni. Nessuno che bramasse la sua attenzione, il suo tem-
po, la sua capacità di consolare. Lì non c'era nessuno e basta. Quella sera Paul non l'avrebbe raggiunta. Lavorava fino a tardi. Sarebbe passato la sera seguente, e avrebbero parlato di nuovo. «Perché non posso vivere qui con te?» le avrebbe chiesto. «Ti amo. So che mi ami. Lasciami condividere la tua vita. Se non vuoi abbandonare questa casa, permettimi di trasferirmi qui. Ti prego, Susan, funzionerebbe. Ne sono sicuro.» Raddrizzò la schiena, uscì dalla vasca e si avvolse in un asciugamano. Al piano di sotto, la missiva la stava aspettando. Si fermò davanti alla finestra della camera per osservare il cielo notturno. C'era la luna. Era nuova e sottile. La sua luce fioca e debole. Abbassò lo sguardo sul giardino. Aveva trascorso la domenica precedente a sistemarlo, preparandolo per l'ibernazione invernale. Aveva potato e tagliato. Aveva cominciato a dividere alcune delle piante perenni. Cicuta rossa e crisantemo. Campanula e rudbeckia. Aveva scavato fino a raggiungerne le radici carnose e separato la madre dalla prole. Era tempo di sparpagliare le nuove piantine nelle aiuole, di concedere loro lo spazio per crescere. Si vestì rapidamente. Jeans e un maglione pesante. Un paio di comodi stivali, il pellame morbido e consunto. Al piano di sotto s'infilò la giacca di montone e si avvolse una sciarpa intorno al collo. Prese una lunga candela di cera d'api e una scatola di fiammiferi dalla credenza. Aprì la porta sul retro. Sotto di lei c'era una rampa di scalini di legno che portava dalla cucina al giardino. In estate si sedeva sul gradino più alto per godersi il sole. Anche tutti i suoi vicini lo facevano. La nuova coppia lì sulla sinistra, i Whelan, trasferitisi nel luglio precedente. Si scambiavano convenevoli. Parlavano del più e del meno. I Whelan avevano tre figli. Due, un maschio e una femmina, erano adolescenti. Poi c'era il piccolino, il più giovane, di quattro anni. In procinto di iniziare la scuola. La stessa scuola un tempo frequentata da Owen. I genitori del bimbo si sentivano imbarazzati, a disagio con lei. Non volevano turbarla, ferire la sua sensibilità. Susan tentava di metterli a proprio agio, di dimostrare che era tutto a posto. Poteva parlare di bambini. Non aveva bisogno di protezione. Ma non funzionava. Vedeva chiaramente che i due la evitavano. Nello stesso modo in cui la evitava anche Chris Goulding, che viveva sul lato opposto. Era apparso nervoso e teso mentre le parlava della donna che aveva conosciuto e di cui si era innamorato. È bosniaca, aveva spiegato. Una profuga. Con due figli, aveva aggiunto. Verranno a vivere con me. Sarà bello avere di nuovo dei bambini nella piazza. E lei si era dichiarata d'accordo. Naturalmente, aveva conve-
nuto. Sperava che fossero felici. Se mai sorgessero dei problemi, problemi di salute, intendo, telefonami. E lui aveva annuito e sorriso, il viso sottile e avvenente che s'illuminava. Così come si era illuminato tanti anni prima, quando era venuto a chiamare Marianne. E poi quando le aveva spiegato che aveva una sorpresa. Stava montando un padiglione estivo in giardino. Era appartenuto a sua nonna. La vecchia casa della donna era stata venduta e lui stava per portarlo qui. In modo che i ragazzi potessero giocarci. Trasformarlo nel loro rifugio speciale. E Susan era stata felice di vedergli dimostrare compassione e premura verso quei bambini, non suoi. Ma quella sera non c'era nessuno, fuori nei giardini. Le nuvolette formate dal suo fiato le rimanevano sospese davanti al viso e i suoi passi lasciavano orme argentee nella rugiada sull'erba. Fece scorrere il chiavistello del cancello infisso nell'alto muro di granito e uscì nel vicoletto. Nessuna luce e quasi nessun segno di vita nelle case il cui retro si affacciava su di esso. Raggiunse rapidamente le strade bordate di alberi, le mani in tasca, stringendo fiammiferi e candela. Lì le abitazioni erano ampie e intervallate tra loro, situate al centro di vasti prati e giardini. I cani abbaiarono al suo passaggio e lei vide il balenio degli occhi iridescenti di un gatto appollaiato sull'alto ramo di un faggio. Era il primo giorno di ottobre. Un periodo carico di ricordi, di timore, di paura. Il periodo giusto per pensare a un'altra morte. Un'altra persona giovanissima. Una ragazza, stavolta. Nemmeno quindicenne. Una ragazza di nome Lizzie Anderson che era morta lì diciotto anni prima, in una rimessa fatiscente: strangolata, percossa, violentata. Camminò di buon passo per quindici minuti, poi si fermò per guardarsi intorno. Davanti a lei si stagliava un cancello. Era chiuso con un lucchetto, una massiccia catena che passava intorno e attraverso il chiavistello. Dietro di esso, nel buio, riuscì a intravedere il profilo dell'edificio. Abbassò lo sguardo sul terreno. Vi erano stati lasciati dei fiori. Alcuni erano appassiti, altri freschi. Si accovacciò e accese un fiammifero, la cui fiammella divampò e guizzò nell'aria notturna. Lo protesse con la mano messa a coppa e lo accostò allo stoppino della candela. La fiamma tremolò di nuovo, poi si stabilizzò, ardendo con un fioco bagliore cremoso. Susan si appoggiò nuovamente ai talloni e chiuse gli occhi. «Per te, Lizzie. Per tenere lontano il buio in questo orrendo periodo dell'anno. Per te, Lizzie, per tenere lontana la paura in questo orrendo periodo dell'anno. Per te, Lizzie, per dimostrarti che ti ricordiamo. Ora e sempre. Nei secoli dei secoli. Amen.» Un luogo in cui andare. Un luogo in cui piangere quando non aveva nes-
sun posto in cui piangere il figlio. Un minuscolo brandello di consolazione. Un senso di appartenenza. Di comunanza con altre persone afflitte dal dolore. Si dondolò sui talloni, a occhi chiusi, poi si alzò e si appoggiò al muro di granito. Sarebbe tornata l'indomani e ogni altro giorno, sino alla fine del mese. Era un suo dovere, una sua responsabilità, una sua abitudine. Ma ormai faceva freddo e lei aveva fame. Inoltre la lettera la stava aspettando. Si voltò, tornò sui suoi passi, raggiunse la fine della strada, dove il lampione proiettava il suo bagliore arancione lungo una fila di auto parcheggiate. S'infilò la mano in tasca ed estrasse la busta. La lacerò. L'elegante calligrafia di Nick copriva due fogli di sottile carta da lettere per posta aerea. Cominciò a leggere. Carissima Susan, è da tanto che non ti scrivo e ti chiedo scusa per questo. Mi ero riproposto di restare in stretto contatto con te, ma sono sicuro che immagini i motivi per cui non mi è stato facile farlo. Ti prego però di credermi quando dico che penso continuamente a te. In realtà, semmai, ti ho pensato sempre di più con il passare degli anni. E a volte, Susan, ho avuto l'impressione che tu fossi vicinissima, eppure appena al di fuori della mia portata. È una sensazione bizzarra e sconcertante, ma comunque assai reale. Lei alzò la testa e si guardò intorno, poi riabbassò gli occhi sulla lettera. Cerco spesso di immaginare la tua vita odierna a Dublino. Suppongo che tu lavori ancora all'ospedale e so che abiti ancora nella nostra casa. Spero che il dolore si sia parzialmente attenuato, che alcuni ricordi non siano più feroci come un tempo. Tuttavia, se l'esperienza della tua vita ha qualche somiglianza con la mia, presumo che il dolore sia ancora presente e atroce come sempre. E credo sia per questo che ti sto scrivendo questa lettera. Voglio tornare a casa. Voglio essere a casa per il decimo anniversario della scomparsa di Owen. Voglio trovarmi vicino al luogo in cui ha trascorso gli ultimi giorni di vita. Voglio respirare la stessa aria, sentire la stessa pioggia e lo stesso freddo, vedere le stesse case, le stesse facce, le stesse strade, lo stesso tratto di costa e di mare grigioverde. Vivere nello stesso mondo in cui lui ha vissuto negli ultimi giorni, prima di andarsene.
Riesci a capirlo, Susan? Spero di sì. Spero anche che tu possa farmi un favore. Vorrei rimanere lì in casa per un po'. Qualche settimana, un paio di mesi, giusto il tempo sufficiente perché possa succedere qualcosa, non so cosa. Non si tratterà di pace mentale o appagamento, e non spero né mi aspetto di risolvere il mistero o scoprire finalmente cosa sia accaduto così tanti anni fa. Ma forse ci sono domande che devono essere poste di nuovo, forse, approfittando della distanza temporale e spaziale. E, per qualche motivo che non riesco a capire fino in fondo, per me è arrivato il momento di tornare a farle. Perché proprio questo anniversario?, ti starai probabilmente chiedendo. Che cosa rende il decimo diverso dal quarto, dal sesto, dall'ottavo o dal nono? È tipico di quel bastardo melodrammatico, ti starai probabilmente dicendo, fare tanto chiasso per il numero dieci. E probabilmente hai ragione. Ma forse si tratta semplicemente del fatto che dieci anni sono tanti da passare lontano dal luogo che chiamo ancora casa. O forse è perché ultimamente ho visto una persona proveniente da quel mondo e, per qualche misterioso motivo, questo ha reso improvvisamente molto reale e viva Victoria Square ai miei occhi. Ricorderai sicuramente Róisín Goulding, vero? Be', una sera l'ho incontrata. Fa la ballerina in un bar qui in città. Non l'ho riconosciuta subito. Non è più la ragazzina timida che ci girava sempre per casa. Vedendola mi sono reso conto di quanto tempo sia passato, mi sono reso conto che adesso ho dieci anni in più e non ho a disposizione l'eternità per venire a patti con il modo in cui le nostre vite sono state distrutte dalla scomparsa di Owen. Tutto questo ha un senso, per te? Non sono nemmeno sicuro che lo abbia per me. Ma qualunque sia il motivo, da quando l'ho vista, non sono riuscito a pensare ad altro che a tornare a casa. Susan, fallo per me. Ti prego. Con affetto, Nick Lei rabbrividì, un tremito improvviso che le scendeva lungo la spina dorsale. Aveva cominciato a piovere, una dolce acquerugiola capace di inzuppare, e le pagine tra le sue dita erano umide e macchiate dalle gocce. Le ripiegò accuratamente, le rimise nella busta e se le infilò in tasca. Tornò verso l'indistinto profilo dei fiori. Si fermò lì accanto e abbassò di nuovo lo sguardo. La candela ai suoi piedi crepitò e la debole fiammella tremolò, quindi si spense. Susan si accovacciò di nuovo, la sollevò e la riaccese.
Con la mano riparò il bagliore dorato finché non cominciò ad avvampare. Avrebbe aspettato che la pioggia cessasse e poi avrebbe lasciato la candela accanto ai fiori. Un'immagine da conservare negli occhi della mente, in mezzo al buio che doveva ancora arrivare. 7 Stava piovendo anche quando il tassista depositò Nick e i suoi bagagli in fondo alla piazza. Lui rabbrividì nell'improvvisa brezza fredda che gli soffiava gocce di pioggia sul viso. Aveva dimenticato com'era il clima irlandese. Non era vestito in modo adatto per affrontarlo, con jeans, camicia dal colletto sbottonato e giacca di pelle. «Vuole che l'accompagni fino alla casa? Non è un problema.» Il tassista si sporse dal finestrino e lo guardò, accigliandosi per la preoccupazione. Ma Nick rispose di no, andava benissimo lì. Voleva respirare qualche boccata di aria fresca. Si sentiva piuttosto intontito, dopo il volo. «Ha esagerato un po' con l'alcol offerto dalla compagnia aerea, vero?» chiese il tassista, sorridendo con aria comprensiva mentre si frugava in tasca cercando il resto. E, nel restituirgli la manciata di monetine, Nick annuì, desiderando che fosse davvero così semplice. Ma non lo era. Rimase fermo sul marciapiede e aspettò che il taxi si allontanasse, le ruote che nell'attraversare una pozzanghera facevano schizzare verso l'alto un getto d'acqua sporca. Si guardò intorno. Durante il tragitto dall'aeroporto a lì il tassista gli aveva propinato quello che Nick sospettava fosse il suo discorsetto standard «Introduzione a Dublino». Stupefacente sviluppo economico, prezzi delle case saliti alle stelle, il più alto numero di automobili e cellulari pro capite di tutta l'Unione Europea. Tutta la familiare povertà e la depressione sostituite da una mentalità «Avido è bello», che portava con sé un aumento dei crimini violenti e un dilagante abuso di stupefacenti. «Certo», aveva detto Nick un paio di volte, aggiungendo poi: «Non mi dica» e «Sul serio?» L'ultima cosa al mondo che desiderava erano delle domande. Domande del tipo che inizia con «Da dove viene?» per poi spostarsi su «Dov'è stato finora?» e approdare infine ad «Allora, cosa la riporta qui?» Qualunque cosa pur di risparmiarsi la necessità di rispondere a interrogativi che, mentre restava lì a tremare, la pioggia che ormai gli colava lungo il polso e sgocciolava dall'impugnatura della sua valigia, sapeva di essersi già posto senza riuscire a trovare una risposta.
Aveva le chiavi in tasca. Le estrasse e le strinse nel superare lentamente la fila di case. Un tempo lui e Owen facevano un gioco. Lo chiamavano «Vicini impiccioni» oppure «Chi è a casa e chi no». Cercò di rigiocarlo mentre si sistemava la sacca sulla spalla. Il numero 2 un tempo ospitava la famiglia Butler al piano di sopra e Mickey e Joe Deenihan, i fratelli scapoli provenienti dal Kerry, nell'appartamento del seminterrato. Butler fuori, niente auto; Mickey e Joe in casa, tende ancora aperte sebbene fossero quasi le cinque del pomeriggio. Il numero 3, gli O'Grady. Fuori o in casa? Non riuscì a stabilirlo. Non c'era più il brusio della radio che usciva dalla loro ampia cucina nel seminterrato né una fila di biciclette incatenate alla cancellata anteriore. Il numero 4, suddiviso in cinque miniappartamenti, una fluttuante popolazione di studenti, un bidone della spazzatura da cui straripavano perennemente contenitori di cibo da asporto e lattine di birra. Ma non più. Nick si fermò a dare un'occhiata. Il trascurato giardinetto anteriore, tutto denti di leone ed erbacce, era stato trasformato nella perfetta replica di un elaborato giardino settecentesco. Siepi di ligustro, potate fino a sfoggiare una simmetria perfetta al millimetro, s'intersecavano ed erano circondate da una bordura di lavanda, le vestigia dei fiori dell'estate precedente ancora attaccate ai ricettacoli grigi che annuivano nel vento. Ecco a cosa si riferiva il tassista. Adesso Nick riusciva a notarlo ovunque, nelle scintillanti auto nuove che si contendevano un parcheggio accanto al cordolo, nelle linde facciate ridipinte di fresco delle case, negli interni arredati da mano esperta che intravedeva dietro i bovindi privi di tende. Dov'erano finite le reti sfondate e le imposte sudice, i gradini anteriori di granito sgretolati, le vecchie signore - le signore del seminterrato, le chiamava Owen - che vivevano immerse nell'umidità e nella tetraggine? Avevano l'abitudine di uscire a salutarli quando passavano, offrendo loro un biscotto al cioccolato o una fetta di torta fatta in casa con noci e uvetta. Persino il gatto rossiccio che soffiava e sputacchiava, resistendo a tutti i tentativi di Owen di fare amicizia, era svanito insieme alla popolazione di passerotti della piazza, che un tempo saltellavano davanti a loro sulle zampine rigide finché non venivano indotti a spiccare il volo da un urlo e dal mulinare di braccia di Owen. Indugiò davanti alla casa in cui aveva abitato Gina Harkin. Non c'era stato più alcun contatto tra loro due, dopo quei giorni di novembre. Sapeva che lei e il marito si erano riconciliati, in un modo o nell'altro. Si erano trasferiti altrove non appena la polizia li aveva tolti dalla lista dei sospettati. Non sapeva dove fossero andati, ma sapeva che non erano stati gli unici a
traslocare nei mesi successivi alla scomparsa di Owen. Ben presto sulla piazza non era rimasto praticamente nessuno che avesse conosciuto il bambino e i suoi genitori. Era stato un sollievo, in un certo senso. Almeno con gli sconosciuti non era necessaria nessuna finzione, nessun patetico tentativo di condurre una vita normale. Gli sconosciuti fissavano apertamente e mormoravano coprendosi la bocca con la mano quando passavano davanti alla casa. Gli sconosciuti rallentavano e si fermavano addirittura per guardare dentro dalle finestre prive di tende del seminterrato. Gli sconosciuti portavano lì anche gli amici, perché osservassero tutto a bocca aperta e davano loro una gomitata nelle costole quando incrociavano Nick nel negozio all'angolo. Talvolta lui si limitava a ricambiarne l'occhiata e si compiaceva della loro inquietudine e del loro imbarazzo. Perlopiù li ignorava. Finalmente raggiunse la loro casa. Si fermò a guardarla. Sembrava immutata. La porta era dipinta dello stesso giallo canarino, il colore che aveva scelto lui. Le finestre erano pulite, gli stipiti riverniciati di recente. La cancellata di ferro non mostrava tracce di ruggine e l'area antistante il seminterrato era ancora pavimentata ordinatamente con i ciottoli che lui aveva trovato in un cassone per le macerie e portato a casa, un carico alla volta, infilandoseli nello zaino sulle spalle. Ma dov'era il biancospino che aveva piantato in occasione del terzo compleanno di Owen? I biancospini portano fortuna, aveva spiegato a Susan. Evocano le fate. Il suo posto era stato preso dal bonsai di un acero giapponese, piantato in un vaso di terracotta. Le foglie scarlatte avevano cominciato a cadere. Formavano un cumulo soffice e brillante sulle pietre grigie. Posò la sacca sul marciapiede e si sistemò meglio sulla spalla la valigetta portacomputer. Raddrizzò la schiena. Alzò di nuovo gli occhi e stavolta lasciò che il suo sguardo si spostasse sulla destra, fino all'abitazione dei vicini. I Goulding. E notò un volto che sbirciava giù da sopra il davanzale della finestra al piano superiore, sopra la porta. Indietreggiò di circa mezzo metro per vedere meglio. Il viso apparteneva a un bambino, capì, con una cresta di capelli biondi. Lo fissò e il piccolo ricambiò l'occhiata. La sua espressione era fredda e indifferente. Sostenne lo sguardo di Nick senza sbattere le palpebre. Anche Nick lo fissò e sentì il pizzicore delle lacrime dietro le cavità oculari e i muscoli che cominciavano a essere assaliti dagli spasmi a causa dello sforzo. Poi il bambino si allontanò lentamente dalla finestra, un passo dopo l'altro, rivelando un corpo snello fasciato da un maglione blu e da un paio di jeans. Si fermò per un attimo, sempre guar-
dando giù, poi si voltò rapidamente e scomparve. E Nick sentì il tonfo di una porta che sbatteva in un punto imprecisato della casa, come se una raffica di vento si fosse improvvisamente insinuata all'interno, dal giardino. Aveva già visto parecchie volte dei visi affacciati a quella finestra. In estate il pannello superiore della finestra a ghigliottina veniva spinto verso l'alto e Nick ricordava il primo anno, quando lui e Susan e Owen si erano appena trasferiti, i piccoli Goulding che si sporgevano dal davanzale. Spesso trascorrevano l'intera giornata lì. E venivano raggiunti da altri bambini residenti nella piazza. Tiravano fuori il mangiacassette e suonavano ad alto volume l'ultimo successo destinato agli adolescenti, bevendo da bottiglie di Coca-Cola e 7-Up da un litro e sgranocchiando popcorn e patatine. Chris faceva dondolare le gambe dal davanzale, fischiando e gridando. Un teenager insolente, che testava la sua sempre più ampia riserva di parolacce. E Róisín che ridacchiava al suo fianco, bassa, pallida, la frangia diritta che le sfiorava le sopracciglia. Nessuna traccia di quella ragazzina nella donna con la maschera da volpe e il frustino, il corpo stupendo e i segni della ferocia incisi sulla pelle. «Non credi che sarà divertente quando lui arriverà a quell'età?» aveva chiesto a Susan, mentre osservavano Owen correre il più velocemente possibile da un capo del giardino all'altro. «Ci sono così tanti bambini qui intorno. Avrà sempre degli amici.» E il pensiero che aleggiava tra di loro, inespresso. Anche se non avrai un altro bambino. Anche se insisti nel dire che ne avrai solo uno. Che il tuo lavoro, la tua vita, il tuo dovere è quello di badare agli altri e non al tuo. Che stai facendo tutto questo solo per tuo marito. Sollevò di nuovo la sacca e posò il piede sinistro sul primo dei gradini di granito che, di fronte a lui, salivano fino alla loro porta d'ingresso. Li contò. Uno, due, tre, quattro, poi si fermò, diede la schiena alla casa e fissò la piazza antistante. La luce stava cominciando a svanire dal cielo e un vento freddo strattonava le poche foglie rimaste sui ciliegi piantati a intervalli regolari all'interno delle inferriate. In mezzo all'erba fangosa, la legna era ammassata in un cumulo disordinato. Di nuovo quel particolare periodo dell'anno. Prossimo all'anniversario della scomparsa di Owen. Un periodo in cui i falò venivano accesi in tutto il Paese, bandendo l'oscurità, tenendo l'inverno a distanza di braccio, almeno per una notte. Sollevò di nuovo lo sguardo verso la dimora dei Goulding e vide che il bambino era tornato alla finestra. Alzò la mano e lo salutò. Ma non ricevette risposta. Solo l'occhiata fredda, dura, l'espressione impassibile.
Cristo onnipotente. Alzò il viso verso il cielo plumbeo e sentì la pioggia che cominciava a colargli dentro il colletto. Perché era tornato in questo posto dimenticato da Dio? Perché si era reso nuovamente vulnerabile nei confronti di tutto ciò? Salì i cinque gradini rimasti. Il batacchio, la cassetta delle lettere e la serratura erano ben lucidati e brillanti. Mentre si piegava in avanti, vide il proprio viso riflesso nell'ovale di metallo che circondava il campanello. Distorto, gonfio, gli occhi sporgenti. Strinse il mazzo di chiavi nel palmo. Ne scelse una e la accostò alla toppa. Spinse, ma la chiave non entrò. Mentre sollevava la mano per suonare il campanello, la porta si aprì e comparve Susan. E dietro di lei la casa, e al suo interno i ricordi che lui aveva cercato di lasciarsi alle spalle. Fallendo miseramente. «Perché sei tornato?» chiese Susan. E in testa Nick sentì la propria voce, metallica ed echeggiante, che diceva: «Non lo so. Non so niente». Era buio quando si svegliò. Non aveva la minima idea di che ora potesse essere, ma sapeva che la mezzanotte era passata da un pezzo quando era riuscito a preparare il divano letto nel seminterrato con le lenzuola e il piumino che Susan gli aveva lasciato. «Hai un mese di tempo, non di più, Nick. Ti lascerò restare qui per un mese. Puoi sistemarti al piano di sotto, puoi fare quello che vuoi. Tutta la tua roba è ancora lì, e anche le cose di Owen. Le tue stavo giusto per buttarle via. Ma non toccare quelle di Owen. Capito?» Erano seduti in cucina. Lei non lo aveva invitato a entrare in salotto. Gli aveva versato un bicchiere di vino e aveva spinto la bottiglia verso di lui. Aveva tirato fuori pane integrale e formaggio Cheddar, gli aveva preparato un sandwich ma non gli aveva offerto nient'altro. Il suo tono era brusco, i modi freddi e circospetti. Non aveva fatto certo mistero di ciò che provava. «Senti, tu hai fatto una scelta e io anche. Ho scelto di rimanere qui. Questa è casa mia. Tu te ne sei andato. Non so cosa hai fatto finora e non m'interessa. Adesso ho una vita mia e, in tutta sincerità, Nick, tu non ne fai parte e io preferisco così.» Almeno la cucina non era cambiata. La credenza e i mobiletti coordinati costruiti da Nick erano ancora belli. Loro due sedevano al tavolo che avevano pagato cinque sterline a un'asta, sabbiato e mordenzato. Le posate facevano parte di un set che sua madre aveva regalato a entrambi, di acciaio inossidabile e prodotte da un designer nel nord dell'Inghilterra. E sulla parete spiccava un ritratto ad acquaforte di Owen da piccolo, che lui aveva incorniciato come regalo di Natale per Susan quando il bimbo aveva tre
anni. Ma sulla parete c'erano anche altre immagini. Fotografie delle vacanze fissate con puntine a un pannello di sughero. Susan, abbronzatissima, in calzoncini e top del bikini, e accanto a lei un uomo basso e bruno, gli occhiali da sole che gli celavano gli occhi, tagliandogli in due il viso. Il suo braccio cingeva le spalle di Susan, che gli si appoggiava contro. Stavano sorridendo, non al fotografo ma l'uno all'altra. Sembravano felici, spensierati e molto innamorati. «Chi è?» Nick aveva piegato di scatto la testa in direzione delle foto. «Si chiama Paul O'Hara.» «Ti dispiace?» Nick aveva preso la bottiglia e indicato il proprio bicchiere vuoto. «Fai pure, serviti.» Il silenzio era stato rotto dal gorgoglio del vino versato nel bicchiere. «Va avanti da molto?» «Pensi che siano affari tuoi?» «Probabilmente no, ma non capisco perché tu debba metterti così sulla difensiva. Non è una domanda trabocchetto.» «Okay, se proprio vuoi saperlo... Lo conosco da un anno e mezzo. Lavoriamo insieme. Fa il patologo in ospedale.» «Quindi si occupa di tutti i tuoi fallimenti, giusto?» «Non è così che descriverei la cosa, ma se vuoi metterla in questo modo, sei liberissimo di farlo.» Lei si era alzata e aveva preso dal tavolo il piatto di Nick. Si era avvicinata al lavandino, poi aveva aperto la lavastoviglie e sistemato accuratamente il piatto all'interno. L'aveva richiusa, spingendo lo sportello con il ginocchio. Aveva indicato la porta con il pannello di vetro e preso un mazzo di chiavi dalla credenza. «Ecco. Chiavi della porta posteriore e del seminterrato. Puoi accendere i termosifoni e riscaldare il locale, se vuoi. Ti ho lasciato delle lenzuola e un telo da bagno. Come ho già detto, Nick, hai un mese di tempo, dopo di che dovrai trovarti un altro posto in cui vivere. Non ti voglio qui in giro per più di un mese. Ora è tardi e stamattina mi sono alzata presto. Porta giù con te la bottiglia, se vuoi.» Si era diretta verso la porta che si apriva sull'ingresso e sulla scala. «Oh, un'ultima cosa. Non interferire nella mia vita. Restane fuori. Non immischiarti. Non cercare di fare il furbo. Ti sto facendo un favore, in memoria dei vecchi tempi o roba simile. Non approfittarne. Capito?» Nick rimase perfettamente immobile, sentendo l'aria fresca intorno alla
testa e al collo, ascoltando i fiochi suoni che filtravano attraverso il buio. Fuori, il vento soffiava creando piccole correnti che s'insinuavano, tremolanti, nelle fessure delle finestre a ghigliottina. Da qualche parte un uscio sbatté e, sopra la testa, lui sentì assi del pavimento che scricchiolavano e tubature dell'acqua che vibravano mentre un rubinetto veniva aperto e poi, pochi secondi dopo, richiuso. Alcune note musicali lo raggiunsero, seguite da un'esplosione di quello che riconobbe come un chiacchiericcio radiofonico. E, da un punto più lontano, verso il porto, i rintocchi regolari della campana della prima messa della giornata. Riuscì a sentire una voce, quella di Susan, e un'altra che si univa alla sua. Sentì una risata, la risata di lei. Ascoltando, rammentò il modo in cui Susan ansimava mentre la sua risata si affievoliva trasformandosi in un risolino, come si copriva la bocca con le mani e chiudeva gli occhi, con spalle e seno che sussultavano. Si avvolse nel piumino, cercando di tenere lontano il freddo, a mano a mano che i suoni provenienti dal piano di sopra si facevano più forti e invadenti. Dei piedi tracciarono ritmicamente un sentiero dalla stufa al tavolo, al lavandino, alla credenza. Probabilmente Susan stava cucinando. Amava la colazione, rammentò Nick. Era il suo pasto preferito. Spesso l'unico decente che consumasse in tutta la giornata. All'inizio, prima che avessero Owen, lui si alzava insieme a lei, anche se la mattina era il momento della giornata che meno gli piaceva. Restava seduto ingobbito, in vestaglia, mentre lei grigliava fettine di pancetta, friggeva uova, imburrava grosse fette di pane tostato, versava tazze di caffè. All'epoca avevano una gatta, una soriana dolcissima, che gli si appollaiava sulla spalla, sfregando i baffi sulla sua corta barba mattutina e facendo sonoramente le fusa. Poi, dopo che Susan usciva, dopo che il rumore dei suoi passi svaniva, lui tornava a letto, la gatta che lo precedeva di corsa, saltando sul piumino, acciambellandosi nello spazio lasciato vuoto da Susan, impastando lenzuola e piumino con gli artigli protesi e infine rannicchiandosi contro la schiena di Nick, mentre tutti e due scivolavano nel sonno. Era stato una mattina, di buon'ora, che Susan gli aveva annunciato di essere incinta. Aveva vomitato la colazione, sul viso una malsana tonalità di grigio, la fronte viscida di sudore, mentre lui le sedeva accanto sul bordo della vasca da bagno e le massaggiava le spalle. «Ho preferito non dirtelo prima di esserne sicura.» Si era appoggiata al marito. «Ma guarda questa, l'ho avuta ieri.» L'immagine in bianco e nero sembrava quella che un astronomo avrebbe potuto ottenere da un telesco-
pio per lo spazio profondo. Nick aveva accarezzato con i polpastrelli la carta lucida. «Riesci a vederlo?» aveva sussurrato lei. «È il nostro bambino.» Adesso i passi al piano di sopra suonarono più pesanti. Il timbro della voce sopra di lui era basso. Vibrava con una frequenza diversa dal tono lieve di Susan. Nick fissò il soffitto. L'uomo doveva essere arrivato durante la notte, mentre lui dormiva. Per dividere il letto con lei. E ora anche la colazione. Nick si rimise in ascolto. Rubinetti aperti e chiusi. Poi i passi leggeri e quelli pesanti, insieme nell'atrio sopra la sua testa, infine il tonfo sordo della porta d'ingresso che si chiudeva. Scostò lenzuola e coperte, e raggiunse furtivamente la finestra. Sbirciò fuori, nella penombra del primo mattino. Erano fermi fuori dal cancello. In abiti da lavoro. L'uomo stringeva una ventiquattrore e un cellulare. Lei si stava spazzolando i capelli, raccogliendoli sulla nuca, legandoli con un elastico. Rideva. Lui le cinse le spalle con un braccio e la attirò a sé. La baciò sulle guance e poi sulla bocca. Si voltò e raggiunse l'auto parcheggiata davanti al cancello del vicino, mentre lei raccoglieva la borsa e armeggiava con il comando a distanza della sua macchina. Susan si girò a guardare, solo per un attimo, verso le finestre del seminterrato. Incrociò lo sguardo di Nick. E sorrise. Infine distolse lo sguardo, raggiunse l'automobile, aprì la portiera, s'infilò all'interno, la richiuse con forza. Lui si staccò dalla finestra. Era infreddolito fino al midollo, stava tremando incontrollabilmente, la bocca asciutta e pervasa da un gusto orrendo. Susan non lo aveva mai guardato in quel modo, con quell'increspatura delle labbra, con quell'occhiata trionfante. Era sempre stata timida ed esitante, insicura della propria presenza fisica. Ma Nick aveva notato come protendeva il corpo verso l'uomo, di cui lui conosceva il nome senza però riuscire a pronunciarlo. Susan aveva raccolto e sollevato i capelli, e aveva proteso il petto verso di lui. Aveva fatto oscillare le anche come una scolaretta adolescente. E lui aveva riso e l'aveva baciata e accarezzata. E Nick si era sentito nauseato da quella scena. Róisín glielo aveva detto. Nick l'aveva aspettata nuovamente all'uscita del club e seguita fino alla casa di Royal Street. Stavolta era stato più veloce, più preparato. Invece di gridare il suo nome, aveva premuto energicamente la mano sul cancello ed era entrato dietro di lei. La ragazza non si mostrò affatto stupita. «Dai, forza, perché non entri?» chiese, con una voce di gola e lo stesso
lieve balbettio dell'infanzia. Poi si voltò e si allontanò lungo il passaggio fresco e buio diretta verso la scala di legno. Il suo appartamento al piano di sopra si rivelò ampio e spazioso. Soffitto alto, pavimento lucido, elegante mobilio moderno. Nick si sedette, non invitato, su un divano rivestito di lino color crema. Lei tornò dalla cucina con due bottigliette di birra, aperte. Gliene passò una. Lui piegò la testa all'indietro e bevve un lungo sorso. Lei si sedette su una sedia dallo schienale rigido e lo fissò. «Allora? A... a che cosa devo l'onore?» Lui si asciugò la bocca con il dorso della mano. La stanza era fresca, il ronzio del condizionatore piuttosto forte. Si sentì meno accaldato, il sudore sulla schiena improvvisamente freddo. Si strinse nelle spalle. «Ti ho visto nel bar. Un numero davvero notevole.» Lei sorrise. «Non dirmi che sei scioccato.» Sorseggiò la birra. «Scioccato? Sì. Non da ciò che fai, ma dal fatto che sei tu a farlo.» Nick s'interruppe e si guardò intorno. Le pareti bianche erano nude. «Non me lo sarei mai aspettato. Da te, tra tutte le persone possibili.» «No? E cosa ti saresti aspettato?» Nick fece nuovamente spallucce. «Non lo sai, vero? Non... non sai niente di me. Non l'hai mai saputo. Non ho mai contato granché nel tuo mondo, ai vecchi tempi, vero?» Lui abbassò lo sguardo sul pavimento. Cercò di ricordare. «Ero semplicemente la ragazza a cui chiedevi di fare da baby-sitter quando eri nei guai e non avevi nessun altro a disposizione. Ma non mi conoscevi affatto, vero? Né sapevi qualcosa di me.» «Senti, mi dispiace.» Nick posò a terra la bottiglia. «Non avrei dovuto irrompere qui in questo modo. È solo che, quando ti ho visto nel bar, quando ho capito chi c'era sotto quella maschera, be', non sono riuscito a pensare ad altro che a Owen. E a com'erano le cose. Prima.» «Prima?» «Lo sai, Róisín, sai di cosa sto parlando.» «Già, lo so. Prima... prima che tua moglie scoprisse che genere di persona eri in realtà.» Lei gli sorrise e il suo visino s'illuminò. «Povera Susan. Era una così brava persona. Così gentile con noi. E tu ti stavi scopando quella puttana in fondo alla piazza. Gina, non si chiamava così? Era un'artista, vero? Come te. Tutti noi sapevamo di voi due. Ti spiavamo quando eri con lei. Era così divertente. Persino Marianne, che era la tua fan più sfegatata e non ti credeva capace di una cosa simile, persino lei rimase di-
sdisgustata.» Accavallò le gambe e si piegò in avanti. «Ma adesso, Nick, sarai lieto di sapere che Susan è felice. L'ho saputo da una fonte sicura. Quindi ora puoi dormire sonni tranquilli. Perché lei lo fa.» Lui la fissò. «Tua moglie ha un fidanzato», continuò la ragazza, il labbro superiore che si arricciava scoprendo i piccoli denti bianchi. «Lo sapevi? Lo lascia abitare in casa. Nella tua casa.» S'interruppe e lo guardò dal basso. «Sembri stupito. Non immaginavi che si sarebbe sentita sola e avrebbe desiderato un altro uomo nella sua vita? Be'...» Sollevò il bicchiere per brindare alla sua salute. «... ora ce l'ha.» Nick si alzò. Si diresse verso la porta. «Oh, povera me.» Lei si appoggiò allo schienale della sedia. «Te ne vai già? Che peccato. Pensavo che tu volessi tornare... tornare ancora un po' con la memoria al passato. Ripensare al tuo bambino perduto. Interrogarmi di nuovo su quel giorno, quel pomeriggio. Invece non è così, vero? Peccato, un vero peccato. Non che io possa dirti qualcosa che tu non sappia già.» Nick si fermò e si voltò a guardarla. Róisín sollevò la bottiglia di birra e la fece oscillare verso di lui. «Hai fatto la cosa giusta. Andandotene, voglio dire. Inutile restare lì in giro. Ho seguito il tuo esempio e ho tagliato la corda anch'io. È questo il posto giusto in cui stare, vero? La terra delle opportunità, le strade lastricate d'oro.» Si alzò e gli si avvicinò. Allungò una mano e gliela posò sul petto, appena sopra il cuore. «Ma non sei obbligato ad andartene... andartene subito. Stasera sono sola. Perché non rimani qui con me?» Cominciò a sbottonargli la camicia. Lui sentì la fresca pelle di Róisín sulla sua, ma quando abbassò lo sguardo su di lei vide il volto di una bambina. Una bambina con occhi di un verde opaco e capelli color topo. Si ritrasse rapidamente. Non parlò. Cominciò a dirigersi verso la porta. Lei lo seguì. «Santo cielo.» Róisín piegò la testa con un'espressione di simulato rammarico. «Santo cielo, non sono il tuo tipo. Oh, be'...» Sollevò la bottiglia e brindò alla sua salute. «Ricordati soltanto questo, pezzi da otto, pezzi da otto.» Emise una sonora risata, rauca e incongrua. Lui si bloccò e si voltò. «Non ricordi, Nick, pezzi da otto? Non ricordi quel tuo vecchio libro? L'isola del tesoro o roba simile, vero? Long John Silver e il pappagallo sulla sua spalla. Tutti noi imitavamo il pappagallo.» Róisín piegò la testa di lato e agitò le braccia come se fossero ali, poi saltellò su un piede e sull'altro, strillando. «Pezzi da otto, pezzi da otto.» Nick le diede le spalle. Non sapeva cos'altro dire. Non trovava le parole
adatte. Aprì la porta e uscì sul pianerottolo. L'acqua gocciolava dolcemente dalla piccola fontana nel patio sottostante. Il suono era simile a quello dello xilofono giocattolo di un bambino. Scese i gradini due alla volta e raggiunse rapidamente l'umido tepore della strada. E quando alzò gli occhi verso le finestre, vide la silhouette bassa e snella della ragazza. Ancora caldo lì, nella città accanto al fiume. Caldo e umido, afoso, per tutto settembre e una parte di ottobre. Anche se le signore ritiravano le pellicce dal deposito. Eppure, percorrendo quelle strade, non sentì altro che il freddo di un autunno irlandese. Sentì la pioggia sul viso e il fruscio delle foglie morte sotto i piedi. E la luce del sole che raggiungeva la terra obliquamente formando un angolo acuto, a mano a mano che le sere divoravano una parte sempre più cospicua della giornata. Adesso aveva freddo, lì in quella stanza familiare, in quella casa che conosceva così bene. Era intirizzito fin nelle ossa e sopraffatto dalla sonnolenza. Gli occhi cominciavano a chiudersi, il corpo ad afflosciarsi. Tornò a letto e si tirò il piumino sulle spalle. Seppellì il viso nel cuscino. Il fiato gli sgorgò dalla bocca e il buio gli si richiuse sopra la testa. Si addormentò. 8 Era uno di quei casi che rifiutavano di svanire nell'oblio. Non importava quanti anni passavano, la gente se ne ricordava ancora. Il bambino di otto anni, i suoi genitori, una coppia così simpatica, vero? E cosa successe, cosa successe in realtà quel pomeriggio, il giorno di Halloween? Nel seminterrato del quartier generale della polizia della regione metropolitana di Dublino, a Harcourt Square, c'era una stanza riservata ai reperti di prova, un magazzino in realtà. Era lì che veniva conservato tutto ciò che era stato raccolto durante le indagini sulla scomparsa di Owen Cassidy. C'era parecchio materiale. Cinque schedari pieni di deposizioni e questionari. Fasci di fotografie scattate: di case, automobili, strade, vicoli, spazi aperti, aree dismesse, edifici pubblici, chiese. E un rapporto di un centinaio di pagine stilato dal sovrintendente Matt O'Dwyer, che esponeva minuziosamente qualunque cosa accaduta da quando Susan Cassidy aveva telefonato alla stazione di polizia alle 18.30 fino all'abbandono progressivo delle indagini, sei mesi dopo. Il rapporto includeva una descrizione delle quattro squadre in cui erano divisi gli agenti: la squadra questionari, la squadra ricerche, la squadra interrogatori e la squadra ufficio. Riferiva, in una prosa
asciutta, cos'era successo e quando. Diverse appendici fornivano informazioni supplementari: l'elenco di zone, scuole e posti di controllo in cui erano stati compilati i questionari; tutti i presunti avvistamenti con relativa data e ubicazione; il possibile coinvolgimento di sette, religiose e non. Poi c'erano i maghi, i chiaroveggenti, gli indovini, i rabdomanti e i sognatori, che avevano espresso anch'essi la loro opinione. Erano stati pregati di rilasciare una dichiarazione e ognuno era stato trattato in base ai suoi meriti. Complessivamente c'erano quattrocentoventi deposizioni. Tuttavia il rapporto concludeva che, nonostante le centinaia di ore-uomo e il considerevole livello di attenzione riservata al caso dai mass media, non esisteva alcun indizio concreto su ciò che era successo al bambino. Poi c'era l'elenco dei sospettati. Era allo stesso tempo lunghissimo e scarno. Includeva tutti e nessuno, dai genitori dello scomparso al postino in pensione che sorvegliava il passaggio pedonale della scuola. Se solo ci fosse stata una scena del crimine, tutto sarebbe stato molto più semplice. Talvolta sembrava che l'intera fascia costiera da Dublino a Bray, venticinque chilometri verso sud, rappresentasse la scena del crimine. Ma persino limitarla a quell'area immensa poteva essere giudicato un errore. Chissà dove poteva essere il bambino e, se era stato davvero commesso un crimine - ed era difficile pensare altrimenti - dove poteva aver avuto luogo. L'elenco dei sospettati? In cima c'erano gli uomini. Tutti gli uomini e i ragazzi nel raggio di un chilometro e mezzo dalla casa erano stati scelti come bersaglio. Nella sala reperti c'era una cartina arrotolata. Era enorme, due metri e quattro per un metro e due. Era la cartina stradale di Dún Laoghaire ingrandita. L'avevano fissata alla parete della sala operativa con il nastro adesivo. Elencava gli occupanti di ogni casa, con relativi sesso ed età. La polizia si era concentrata sugli uomini. Uno alla volta. Ben presto, per i membri della squadra, ognuno di loro era divenuto familiare come i rispettivi parenti. Tutti gli agenti ne conoscevano i punti di forza e pure i punti deboli. Avevano scoperto parecchie cose durante quelle settimane di domande incessanti. Chi se la intendeva con chi. Chi era gay e non l'aveva ancora confessato alla moglie. Chi era titolare di un'azienda che navigava in cattive acque. Chi stava facendo la cresta sui fondi gestiti e versava i soldi in un conto bancario separato. Un sacco di confessioni era stato vuotato da un sacco di gente che, apparentemente, non nascondeva segreti nella propria ordinata vita suburbana. Un membro della squadra, una recluta piena di entusiasmo, la stessa Min Sweeney trasferitasi a casa dei Cassidy, si era assunta il compito di tracciare una griglia. Aveva stilato un calenda-
rio degli avvenimenti di quel giorno e della settimana seguente, e vi aveva inserito ogni persona segnalata sulla cartina. Il risultato era stato davvero impressionante. Sembrava perfetto. Ma niente di tutto ciò era riuscito a fare luce su quanto era successo a Owen Cassidy. Altri due membri, stavolta uomini più maturi, avevano ricevuto il tutt'altro che invidiabile incarico di discutere con il marito di Gina Harkin la natura e la frequenza delle visite di Nick Cassidy a casa loro. Per un breve, felice istante avevano ipotizzato che la scomparsa del bambino fosse collegata alla relazione illecita. Forse rappresentava una sorta di vendetta, una ripicca. Ma non sembrava probabile. Il marito della donna era un attore. Spot televisivi e un ruolo in una popolare soap opera. Un forte bevitore, a giudicare dal suo aspetto. E un atteggiamento disinvolto nei confronti delle infedeltà della moglie. Tutt'altro che sorprendente, visto che anche lui l'aveva tradita più di una volta, aveva spiegato loro. Avevano scoperto inoltre che quella con Gina non era la prima delle relazioni extraconiugali di Cassidy. Com'era che lo descrivevano tutte le donne della zona? Min era stata mandata a parlare con loro. Era adorabile, dolce, aveva un fantastico senso dell'umorismo, era così sensibile. Era un padre magnifico per Owen. «Era proprio come una madre», aveva raccontato una donna. «Proprio come una di noi.» Ed era divertente il modo in cui partecipava a tutto. Faceva i turni per accompagnare i bambini a scuola, dava una mano durante la festa organizzata dalla scuola e durante gli eventi sportivi. Era sempre disponibile per badare a un bambino se una madre si ammalava o sorgeva un imprevisto. Era così simpatico, ecco cosa dicevano tutte. E alcune di loro, tre per la precisione, messe sotto pressione, avevano ammesso che sì, la loro relazione con Nick non era stata solo platonica. «Naturalmente, la situazione è un po' cambiata da quando Marianne si è trasferita dai Cassidy», avevano detto tutte. «Cambiata? In che senso? C'era qualcosa tra Cassidy e la ragazza? È questo che intende dire?» aveva chiesto Min Sweeney a ognuna di loro. Oh, no, non intendevano quello. No, lui aveva un atteggiamento molto paterno nei confronti di Marianne. No, non si trattava affatto di questo. Solo che, be', non lo si vedeva più spesso come un tempo. La ragazza accompagnava Owen a scuola al mattino e lo veniva a prendere nel pomeriggio. Era con lei che loro si accordavano riguardo a visite, notti passate a casa
degli amichetti e gite al mare. Non più con Nick. E sentivano la mancanza di tutto ciò. «Allora, chi era questa bambinaia? Come l'hanno trovata? Grazie a un annuncio sul giornale, a un'agenzia specializzata?» Oh, no, niente del genere. Secondo loro a proporre l'accordo era stata la madre di Marianne. Apparentemente la ragazza, diciottenne o poco più, aveva espresso il desiderio di venire a Dublino e si nutriva qualche timore sulla sua capacità di cavarsela da sola. «Perché sa, quando era più giovane, si era ammalata gravemente», avevano spiegato. «Leucemia o qualcosa del genere, ed era stata una paziente di Susan Cassidy per anni, davvero, sempre dentro e fuori dall'ospedale, ed erano diventati tutti grandi amici. I genitori venivano sempre a stare da Susan e Nick, quando lei era ricoverata. Tra loro c'era questo tipo di rapporto. Il padre era un pittore o uno scultore. Un artista, comunque.» «E mi dica», si era informata Min, «la madre del bambino non passava un po' di tempo a casa con lui? Era sempre così assorbita dal lavoro?» «Oh, certo», era stata la risposta che aveva ricevuto da chiunque. «Da che abbiamo memoria, Susan ha sempre anteposto il lavoro a qualunque altra cosa.» «E Nick mi ha raccontato che avevano stipulato un accordo», aveva dichiarato qualcun altro. «Sa, lui voleva disperatamente dei figli. Susan, però, non era altrettanto sicura. Ha un'aria davvero dolce e materna, ma in realtà è una donna molto dura. Be', chiunque vorrebbe esserlo, se stesse per dedicarsi a quel tipo di lavoro. E apparentemente, o almeno è questo che ha sostenuto Nick, lei sentiva di aver preso un impegno con i bambini ricoverati in ospedale e non era così sicura di desiderare dei figli suoi o di averne bisogno.» «Davvero?» In questo c'era qualcosa che avesse potuto condurli da qualche parte? «Oh, non mi fraintenda.» Un pizzico d'ansia nella voce, un certo nervosismo nel cipiglio improvviso. «Era... anzi, è una madre devota. Lo si vede chiaramente quando lei e Owen sono insieme, ma...» Un'alzata di spalle mentre la frase veniva lasciata in sospeso. «Allora come mai è nato Owen?» «Be', a quanto mi è dato di capire», c'era stata una pausa, intanto che veniva versato altro caffè, «Nick specificò che sarebbe stato pronto ad assumersi la maggior parte della responsabilità quotidiana di badare al bimbo, che poteva cavarsela benissimo da solo e che lei non avrebbe dovuto pre-
occuparsi. E così è stato.» Finché Marianne non si era trasferita da loro. E a proposito della ragazza? Altre deposizioni registrate. Min Sweeney richiamata in campo. Aveva sfogliato rapidamente il suo bloc-notes, rileggendo la propria stenografia. «È distrutta. Voleva bene al bambino. E lui voleva bene a lei. Andavano d'amore e d'accordo. Di solito era contenta di passare tutto il suo tempo con lui, ma quel giorno aveva preso accordi per trascorrere il pomeriggio con i ragazzi della porta accanto. Chris e Róisín Goulding e un altro amico. Cassidy, però, aveva insistito perché badasse a Owen. Le disse di avere un appuntamento con un'editrice o simili, ma lei sapeva che stava mentendo. E andò su tutte le furie. Così si sbarazzò del bambino - parole sue, non mie - gli diede dei soldi e gli disse di andare al diavolo con il suo amichetto. Poi si allontanò insieme agli altri.» «Si allontanò? Di molto?» «No, niente affatto. Andò nella casa accanto. Nel seminterrato. A quanto pare, i ragazzi Goulding lo usano come parco giochi privato - parole mie, non sue. Ascoltano musica, dispongono di un cucinotto in cui preparare da mangiare, hanno qualche vecchio materasso e un divano. Generalmente poltriscono lì con gli amici. I loro genitori erano via per il weekend. Così...» Si era interrotta e aveva guardato O'Dwyer da sopra il bloc-notes. «Non dirmelo, lasciami indovinare. Sesso, droga e rock 'n' roll?» La droga era resina di Cannabis. E c'era anche dell'acido. Apparentemente Chris ne aveva sempre una scorta pronta. Il sesso era vero amore, le aveva spiegato Marianne, e Chris il suo primo, vero boy-friend. «Allora, hanno un alibi oppure no?» Ognuno di loro era stato interrogato. Ognuno aveva confermato le dichiarazioni degli altri tre. All'inizio Chris Goulding si era messo sulla difensiva riguardo all'LSD. Aveva ammesso il possesso della Cannabis, ma i poliziotti avevano capito che non stava raccontando tutto. Qualche minaccia e lui aveva ceduto, si era offerto addirittura di fare il nome del suo fornitore abituale. Róisín Goulding aveva tentato di negare la parte sul sesso e la droga, poi era crollata, aveva detto che i genitori l'avrebbero uccisa se lo avessero scoperto, e aveva confermato quanto sostenevano Marianne e Chris. Così come aveva fatto Eddie Fallen, un ragazzo taciturno con lunghi capelli scuri e una gran brutta acne. I loro nomi e movimenti erano stati aggiunti alla griglia. «Sogna mai Owen Cassidy?» aveva chiesto Min Sweeney al suo capo
durante il terzo mese di indagini. «Perché io lo faccio, eccome.» «Sognarlo? Non credo, ma penso spesso a lui. E se vuoi chiedermi se penso a lui quando sto dormendo, be', immagino che lo si potrebbe definire sognare.» Tutti pensavano a lui quando dormivano e quando erano svegli. Mentre erano al lavoro e durante il tempo libero, persino sei mesi dopo, quando ormai le indagini stavano impiegando solo una minima parte del personale, e persino uno, due, tre anni più tardi, quando tutto ciò che restava era la sala prove a Harcourt Square e gli archivi di ritagli di giornale, video e audiocassette, e i ricordi della famiglia e degli amici del bambino... persino a quel punto, quelli che erano stati coinvolti sin dall'inizio si ponevano ancora delle domande e aspettavano che cambiasse qualcosa. Aspettavano che succedesse qualcosa. In seguito, quasi tutti avevano continuato a riunirsi per parecchio tempo. Una pinta e un panino all'ora di pranzo oppure anche più di una pinta nelle buie serate invernali. Erano noti per una certa diversità, bizzarria, brutta nomea o comunque la si volesse chiamare. «Si danno un sacco di fottute arie», sosteneva qualcuno. «Tutt'altro che giustificate», aggiungevano altri. «Dopotutto, non hanno cavato un ragno dal buco, giusto?» Quindi, era una macchia o un'aureola quella che si portavano dietro di stazione in stazione, di turno in turno, di caso in caso? Forse entrambe, pensava sempre Min. Lei non lo menzionava mai, non ne parlava mai. Non apprezzava la curiosità altrui, che però la seguiva comunque. E in occasione di ogni anniversario qualche furbone dichiarava sempre ad alta voce: «Ehi, dovresti parlare con Min. Lei sa tutto, al riguardo». Ma cosa sapeva? In definitiva, soltanto che il bambino era scomparso e non era mai stato ritrovato. Non sapeva niente di più e niente di meno del padre del ragazzo di cui, per la prima volta dopo anni, rivide il volto, improvvisamente familiare, che la fissava da dietro la porta a vetri che collegava la sala d'attesa riservata al pubblico all'ufficio in cui si trovava, lì nella stazione di polizia. «Cosa vuole?» chiese a Hennigan, il sergente di turno che era andato a chiamarla. Lui si strinse nelle spalle. «Cosa credi che voglia? Cosa vogliamo tutti?» «Ma non posso aiutarlo, non adesso.» Min si trasse in disparte, sperando che l'uomo non l'avesse vista. «Tu puoi benissimo pensarla così. E io pure, ma il capo dice che devi
parlare con lui. Si ricorda sicuramente di te. Puoi sbarazzartene in modo più rapido e indolore di chiunque altro di noi, giusto?» Le tenne aperta la porta e rimase indietro per lasciarla passare. Una macchia o un'aureola? Mentre guardava il viso di Nick Cassidy, capì quale delle due avrebbe scelto lui. Deglutì a fatica, gli si avvicinò rapidamente, gli tese la mano e parlò. «Buon pomeriggio, signor Cassidy. Mi hanno detto che voleva vedermi.» 9 Il lutto non si addice a nessuno, pensò Min, seduta alla scrivania, di fronte a Nick Cassidy. Ricordava com'era l'uomo quando lo aveva visto per la prima volta. Era stupendo. Persino i ragazzi erano rimasti impressionati. Alcuni erano palesemente gelosi. Non dipendeva semplicemente dalla sua avvenenza, benché questa fosse innegabile. Alto, snello, muscoloso, con gambe lunghe e fianchi stretti. Occhi di un azzurro brillante nel viso magro e scuro. Lunghi capelli ondulati, con la scriminatura centrale, che gli ricadevano sulle spalle. E un sorriso che ti rendeva impotente, incapace di fare alcunché se non di ricambiare con un fioco sorrisino. Erano anche i suoi modi a risultare speciali. Era un uomo davvero simpatico. Affascinante, naturalmente, anche se il suo fascino era stato cancellato dal dolore e da una sorta di folle frenesia che si era impadronita di lui durante i giorni e le settimane immediatamente successivi alla scomparsa del figlio. Tuttavia, una volta svanito il fascino, era rimasto qualcosa di addirittura preferibile. Profondità di sentimenti, calore, sincerità. Difficile farlo collimare con l'immagine dello scavezzacollo che aveva conquistato tutte quelle donne, apparentemente senza farsi il minimo scrupolo e senza mai pensare a sua moglie e ai loro mariti. Ma ormai non era più quell'uomo. Sembrava contuso e danneggiato. Non si trattava solo delle rughe sotto gli occhi e intorno alla bocca o della spruzzata di grigio nei capelli. Ormai era cambiato, lo si vedeva chiaramente. Così come sono cambiata io, pensò Min, mentre abbassava lo sguardo sulle proprie mani che giocherellavano con le pile di fogli posati sulla sua scrivania. Il lutto non si addice nemmeno a me. Alzò di nuovo gli occhi e vide che Cassidy la stava osservando attentamente. «Non mi sta ascoltando, vero?» La voce dell'uomo suonò all'improvviso imperiosa nell'angusto ufficio di Min. «Sa, per lei questo può anche non
significare granché e venire ordinatamente archiviato con la dicitura 'caso chiuso' o qualunque altra formula usiate. Ma per me è estremamente importante e mi aspetto, come minimo, un briciolo di cortesia nella sua risposta.» «Ehi, aspetti un attimo.» Punta sul vivo dall'accusa, Min si alzò parzialmente dalla sedia. «Si fermi, non aggiunga altro. Per sua informazione, il caso di suo figlio non è chiuso. Come qualunque altro caso in cui non si è arrivati a un processo e a una condanna, ufficialmente è ancora aperto. Il problema è che abbiamo esaurito tutti i possibili filoni d'indagine, come sa benissimo anche lei, e finché non scopriamo qualche nuova informazione, possiamo fare ben poco in proposito.» S'interruppe, reggendosi alla scrivania. Poi si risedette e si schiarì la gola. «Senta, ricordo cosa avete passato lei e sua moglie. Se ben rammenta, anch'io rimasi profondamente turbata dall'accaduto. Come dovrebbe ricordare, fui io a passare più tempo con voi due, durante quel periodo. So com'è andata e, mi creda, né io né gli altri agenti coinvolti nelle indagini abbiamo mai dimenticato la vicenda e tutti desideriamo ardentemente che si concluda. Non siamo certo orgogliosi di non aver mai trovato, almeno, il corpo di suo figlio e averne accertato la morte. Non ne siamo affatto fieri. E se potessimo fare qualcosa per modificare la situazione, non avremmo un attimo di esitazione.» «Quindi non riaprirete il caso?» «Come le ho appena spiegato, non è chiuso, le indagini sono semplicemente sospese e non possono essere riprese finché non vengano a galla nuove informazioni o una nuova prova, in base alle quali possiamo agire.» «Stronzate.» Lui si alzò. «Non ci credo. Non credo che non possiate riesaminare tutto il materiale raccolto all'epoca. Tutte le deposizioni che avete annotato, tutti i questionari che avete fatto compilare. Ricordo tutto il materiale che avevate a disposizione. Ricordo i dati che avete accumulato a proposito di quel giorno e dei successivi. Mi rifiuto di credere che da qualche parte, in mezzo a essi, non si celi la chiave della scomparsa di Owen. Cristo santo, ricordo com'era essere interrogati da quel viscido rompiballe di un sergente, com'è che si chiamava? Carroll, O'Carroll, Callaghan, qual era il nome? Se nel giro di mezz'ora poteva ridurre il sottoscritto a un relitto d'uomo ansioso di confessare, perché non poteva farlo con chiunque altro?» «Ci ha provato, ma senza riuscirci.» Min alzò la voce, esasperata. «Andy Carolan le ha tentate tutte, ha utilizzato qualunque trucco avesse in serbo, ma il guaio era che le uniche informazioni sputate fuori da lei e dagli altri
come lei riguardavano quelli che si potrebbero definire reati minori e illeciti secondari, di carattere morale ed etico. Non abbiamo ottenuto confessioni e ammissioni sostanziali né qualcosa che, secondo noi, potesse condurvi. Come ben ricorda, signor Cassidy, non abbiamo ottenuto niente di niente.» «Giusto.» L'uomo si sedette di nuovo e accavallò le gambe, tirando fuori un pacchetto di sigarette. «Che cosa avete intenzione di fare, al riguardo?» «In questo edificio è vietato fumare.» Lei indicò il cartello dietro la porta. «Oh, Cristo santo.» Nick si alzò di nuovo, rificcandosi in tasca il pacchetto. «Senta, glielo dico una volta per tutte. Qualcosa deve cambiare, qui, e se voi non volete fare in modo che succeda, me ne occuperò io.» La porta sbatté alle sue spalle e un silenzio improvviso calò nella stanza. Quel viscido rompiballe di un sergente, una tipica descrizione di Andy. I sospettati che interrogava non avevano mai una buona parola sul suo conto. Quando lo incontravano per la prima volta, se fossero stati interpellati lo avrebbero descritto come un tizio simpatico, ragionevole, comprensivo, con cui era facile andare d'accordo. Ma durante il colloquio si arrivava sempre al punto in cui la situazione sfuggiva di mano. Andy le aveva descritto il fenomeno parecchie volte. Arrivava il momento in cui lui alzava il tiro, cambiava marcia, applicava una continua pressione. Smetteva di essere Mr Simpatia e cominciava a dimostrarsi un'autentica testa di cazzo. «La cosa ti diverte. Avanti, ammettilo», gli aveva risposto lei. Lui le aveva rivolto un sorrisetto compiaciuto, gli angoli della bocca che s'incurvavano verso l'alto e le guance improvvisamente paonazze e tonde, come quelle di un bambino. «Già, Min, tesoro mio, ne adoro ogni minuto. È il massimo. Piacevole quasi come... be', lo sai.» Se si trattava di interrogare qualcuno, Andy era bravo, bravissimo, considerato uno dei migliori dell'intera forza di polizia. Dopo la sua morte, tutti sentirono la sua mancanza. Ma nemmeno la metà di quanto la sentiva lei. Min aveva esaurito ogni cliché. Il cuore a pezzi, il cuore di ghiaccio, il cuore di pietra. A dire il vero, non aveva a cuore più nulla, dopo la morte di Andy. O, almeno, non lo avrebbe avuto se non ci fossero stati i bambini a cui badare. L'ambo fortunato di Andy, ecco come li aveva definiti lui quando aveva preso in braccio i gemelli appena nati, tenendoli nell'incavo dei gomiti e osservandone i visini identici e grinzosi. «È una fortuna che ne abbiamo avuti due», aveva commentato. «Riesci a immaginare le discussioni per decidere se dovevamo usare il nome di tuo
padre o del mio? Almeno, in questo modo, possiamo accontentare tutti.» E lo avevano fatto. I bambini erano stati chiamati James Patrick, come il padre di Andy, e Joseph Malachy, come quello di lei. «Jim e Joe, ecco come li chiameremo, nomi brevi e carini», aveva annunciato Andy mentre sollevava la lattina di Guinness per brindare alla salute di Min, la sera in cui li avevano portati a casa. Ormai i gemelli avevano sei anni. Frequentavano l'ultimo anno di scuola materna. Ancora due anni prima che avessero la stessa età di Owen Cassidy quando era scomparso. Talvolta lei si chiedeva se avrebbe potuto trattare il caso Cassidy con maggiore perspicacia, se all'epoca fosse stata già madre. Ai tempi, dieci anni prima, aveva appena ottenuto il distintivo. Non capiva un fico secco del lavoro in polizia. Ogni giorno rappresentava una nuova avventura. Ogni situazione era nuova di zecca. Non aveva esperienza, nessun bagaglio di competenze a cui paragonare la situazione che viveva. Ma è proprio per questo che hai dei superiori, Min, si diceva in tono di rimprovero. Sei solo una minuscola rotellina nell'ingranaggio di quell'indagine. Sei una semplice galoppina, una compila-moduli, una sgobbona. L'unico motivo per cui sei arrivata così vicina all'azione è che sei una donna. E loro avevano bisogno, o pensavano di aver bisogno, di una donna, una femmina, la chiamavano, in grado di gestire l'intera faccenda. «Vai tu, Min», dicevano. «Torna a interrogare la madre. Le sarà più facile parlare con te.» Oppure: «Vai tu, Min. Vai a passare la notte da loro, perché gli squilibrati al telefono li stanno facendo impazzire. Vai a dormire in quella casa. Sarà tutto più facile se avranno vicino una donna, qualcuno che prepari il tè e risponda al campanello e si dimostri educato e gentile». E gli altri commenti inespressi. Sei giovane, sei molto carina con i corti e lucenti capelli neri, i grandi occhi castani e il corpo atletico che fa un figurone persino con addosso la più schifosa uniforme blu marina. Dio solo sa cosa lui potrebbe dirti se si sta sentendo male e in colpa, e ha bisogno di una spalla su cui piangere. Era stato sempre così, sin dall'inizio. «Vai alla sezione violenza domestica e segui l'addestramento per poter indagare sui casi di stupro. Ti occupi di tutte quelle incasinate situazioni familiari imperniate su incesto, percosse alla moglie, roba emotiva che ai ragazzi non piace.» «Ehi, un attimo», avrebbe voluto ribattere lei. «Non voglio quel tipo di incarichi. Cosa mi dite di furto, rapina, aggressione, omicidio, porca mise-
ria? E lo Special Branch antiterrorismo? E la squadra di pronto intervento? Perché non posso essere come chiunque altro? Perché non posso essere un vero poliziotto?» In seguito aveva avuto i gemelli, e persino allora era riuscita a cavarsela. Lei e Andy avevano turni diametralmente opposti. Lui faceva la sua parte, con i figli. Gli piaceva. Era in grado di parlare di pannolini, biberon, gas intestinali, coliche, notti insonni e dentizione senza essere secondo a nessuno. Riusciva a preparare un pasto tenendosi un bimbo appoggiato su ogni anca. Sapeva fare il bagnetto, stimolare il ruttino e baciare con la stessa abilità di Min. E poi era morto. Nessun preavviso. Nessuna malattia. Niente di niente. Soltanto il rumore dei bambini che cercavano di svegliare il babbo quando lei era tornata a casa dopo il turno di notte. Aprendo la porta del soggiorno, aveva notato che il televisore e tutte le luci erano ancora accesi. Andy era sdraiato sul divano, su un fianco. Una bottiglia di birra aperta sul tavolo davanti a lui e un panino al prosciutto, mangiato solo a metà, ancora stretto in mano. E Jim la stava guardando dal basso e stava dicendo: «Papi dorme sodo, dorme sodo». Invece non stava dormendo sodo. Era morto. Emorragia cerebrale, aveva decretato il patologo. Un'emorragia improvvisa e devastante. Niente da fare. E Min aveva saputo benissimo che cosa ognuno stesse dicendo agli altri, benché non osasse dirlo a lei: «Meno male che se n'è andato subito. Sarebbe stato soltanto un peso, se fosse sopravvissuto». Ma almeno, pensava, avrei potuto dirgli addio. Avrei potuto baciarlo e abbracciarlo, e dirgli quanto lo amavo. E il suo corpo sarebbe stato tiepido e reattivo. Non freddo e rigido al tatto, come quando l'ho trovato. Forse sarei riuscita a riportarlo in vita. Il mio amore per lui avrebbe potuto destarlo dal suo sonno. E quando lo avessi baciato, lui avrebbe aperto gli occhi e sarebbe stato di nuovo mio. Guardò l'orologio. L'ora di pranzo si stava avvicinando. Attualmente era fortunata con il lavoro. Gestire la vita di Matt O'Dwyer, occuparsi dei suoi appuntamenti e della sua agenda, anticipare la raffica di richieste che atterravano sulla scrivania del sovrintendente capo poteva anche non essere il modo più eccitante di passare le giornate, ma almeno le concedeva tempo e agio con i bambini. Anche se aveva sentito alcune voci, pettegolezzi da mensa, secondo cui ai piani alti si pensava che per lei fosse arrivato il momento di prendere una decisione. Voleva continuare a far parte della polizia oppure preferiva tornare alla vita civile? Avrebbe ottenuto un buon
posto come segretaria personale o capoufficio. Era in gamba, sapeva usare il computer. Capiva la natura delle grandi organizzazioni. Poteva lavorare in ambito statale o persino nell'industria privata. Lo stipendio poteva essere più alto. Anche lei aveva preso in considerazione l'ipotesi, ma nell'essere un poliziotto c'era qualcosa che amava. Quella era stata la vita di Andy. Se lei se ne fosse andata adesso, se lo sarebbe lasciato alle spalle. Non era pronta a farlo. Non ancora. E se le avessero annunciato che stavano per riassegnarla ai turni, per rimetterla di pattuglia, in uniforme, che cosa avrebbe fatto? Guardò di nuovo l'orologio. Se si sbrigava, poteva arrivare a casa in tempo per mangiare rapidamente un sandwich e bere una tazza di tè con i bambini e la ragazza alla pari. O forse non avrebbe avuto tempo per il sandwich, ma ne avrebbe avuto abbastanza per scoprire come se l'erano cavata a scuola, per assicurarsi che la tosse di Jim non fosse peggiorata e che Joe avesse dimenticato l'incubo della notte precedente. Giusto il tempo sufficiente per dire loro che li amava. Per accertarsi che fossero al sicuro. Giusto il tempo sufficiente per questo. 10 Le notti buie rappresentavano il momento migliore per osservare la volpe. Le notti senza luna e con una sottile coltre di nubi che faceva sembrare le stelle ancora più lontane e remote del solito. Se Susan spegneva le luci in casa e restava ferma ad aspettare accanto alla porta della cucina, ben presto vedeva comparire l'animale. Il lungo muso premuto sul terreno, annusando, risucchiando lombrichi, scarafaggi, lumache, bruchi, qualunque cosa riuscisse a trovare nell'erba e nelle aiuole invase dalla vegetazione. Poi, dopo essersi assicurata che nulla fosse sfuggito alla sua attenzione, la volpe faceva dietrofront e si dirigeva verso il muro posteriore, dove erano allineati i bidoni della spazzatura. Quello era il momento giusto per muoversi, aprire la porta e chiudersela silenziosamente alle spalle e, un passo alla volta, avanzare piano. Naturalmente quella volpe, la volpe femmina che bazzicava il giardino negli ultimi anni, era quasi addomesticata. Susan le dava regolarmente da mangiare. Avanzi di cucina. Ciotole di pane e latte per integrare la sua dieta. Talvolta si sentiva obbligata a prendersene cura per rispetto verso Owen. Ricordava come si era infuriato quando lei gli aveva detto che le volpi erano solo parassiti abituati a frugare tra i rifiuti. Che in campagna, dove lei era cresciuta, gli agricoltori salutavano con entusiasmo la battuta locale
di caccia. «È necessario impedire che diventino troppo numerose, Owen», aveva spiegato. «Altrimenti le galline e i pulcini verrebbero eliminati dalle volpi. Questi animali rappresentano una terribile seccatura. E sono incredibilmente feroci quando entrano in un pollaio. Non hai idea del caos che provocano. Piume e sangue dappertutto. Uccidono molte più galline di quelle che potrebbero mai mangiare. Perdono la testa.» Ma Owen non si era lasciato convincere dalla sua argomentazione. La volpe non poteva fare alcun male, secondo lui. Nick gliene aveva disegnata una bellissima, da appendere alla parete della cameretta. «E ha un nome?» aveva chiesto Susan, mentre prendeva un libro dallo scaffale del figlio. «Certo. Tutte le cose e le persone hanno un nome.» «Allora qual è il suo? Dimmelo.» Lui aveva fatto una pausa, la testa piegata di lato, un dito accostato alle labbra in una deliberata imitazione del padre. «Credo che la chiamerò Susan, come te. Perché a volte, mammina cara, quando sono illuminati dal sole i tuoi capelli sembrano quasi rossi e anche molto carini.» E lei si era chinata per dargli un bacio sulla testa, poi gli aveva rimboccato le coperte e si era appoggiata al cuscino, accanto a lui, mentre cominciava a leggere. «Ti piace questo libro? È Il figlio delle stelle. Quello con i disegni di papà. Te lo ricordi?» gli aveva chiesto. E Owen aveva annuito, in modo plateale, il piccolo mento rotondo e proteso che andava su e giù. «Certo. È la storia in cui il bambino arriva dal cielo e i taglialegna lo salvano e lo portano da una famiglia simpatica che si prende cura di lui.» «E ti piacciono le illustrazioni? Credi che il babbo sia bravo a disegnare figure come questa?» Di nuovo i cenni d'assenso esagerati. E il dito che indicava il disegno raffigurante il ragazzo. «Quello sono io. Il babbo ha preso la mia faccia e l'ha messa in un libro. Non è vero?» «Esatto», aveva risposto lei, poi lo aveva stretto a sé e aveva cominciato a leggere. «C'erano una volta due poveri taglialegna che stavano tornando a casa attraverso una grande foresta di pini...» Quella notte non c'era la luna. La scheggia d'argento che Susan aveva visto la sera prima era nascosta da dense nubi, così, quando lei scese i gradi-
ni che portavano in giardino, si aggrappò con attenzione al corrimano di legno e badò a dove metteva i piedi. Aspettava l'arrivo di Paul di lì a un'ora circa. Le aveva detto di voler passare nuovamente la notte da lei. Susan sapeva perché. Paul non approvava che avesse permesso a Nick di sistemarsi nel seminterrato. Quando gli aveva riferito il contenuto della lettera, lui si era limitato a un vago borbottio, mormorando che non spettava certo a lui obiettare ma... E quando lo aveva incalzato, si era stretto nelle spalle e aveva ammesso che non riusciva a capire come mai suo marito stesse tornando proprio adesso e, comunque, perché voleva alloggiare lì in casa? Non si sarebbe trovato meglio da una delle sue sorelle? «È altamente improbabile», aveva risposto lei. «Erano furibonde e sconvolte quando lui non è tornato a casa subito dopo la morte della madre. Te ne ho parlato, vero? Ti ho raccontato che hanno rimandato la sepoltura di una settimana, mentre tentavano di rintracciarlo; che hanno contattato l'ambasciatore irlandese a Washington e tutti i consolati sparsi per gli Stati Uniti. Sai, sono convinta che fino al momento in cui la fossa venne riempita di terriccio, loro abbiano pensato che si sarebbe fatto vedere.» «Anche tu l'hai pensato?» L'occhiata di Paul era stata molto diretta. Susan aveva distolto lo sguardo. Senza replicare. Certo che l'aveva pensato. Si era aspettata di vedere da un momento all'altro la figura alta e snella, e la massa di scuri capelli ondulati di Nick, che si apriva un varco tra gli astanti per raggiungerla. E adesso lui era di nuovo lì. Susan si voltò verso la casa. Nel seminterrato tutte le luci erano accese. Riusciva a vedere l'intero locale, da un'estremità all'altra. Nick era fermo accanto alla stufa. Stava mescolando qualcosa in una grossa pentola rossa. Il tavolo era apparecchiato e vi troneggiavano una bottiglia di vino aperta e un mazzo di fiori in un vasetto. Fiori di supermarket, pensò lei. Crisantemi color ruggine che, messi in acqua, sarebbero durati innaturalmente a lungo. Mentre lo osservava, lui si staccò dalla stufa e raggiunse il capo opposto della stanza a pianta aperta. Un'altra serie di pareti che aveva demolito all'epoca. Da solo, con un martello da fabbro. Accese una lampada e si appollaiò sul bordo di un alto sgabello. Il suo lungo corpo s'incurvò sopra il tavolo da disegno. Lei si avvicinò per vedere meglio. Nick stava lavorando. Tutt'intorno regnava il consueto caos. Grandi fogli di carta gettati sul pavimento e, accanto a lui, su un tavolino, un assortimento di pennini, pastelli, tempere, pennelli, inchiostri. Susan si avvicinò ulteriormente. La luce brillò sul bianco della carta e sul vasetto pieno d'acqua nel quale lui faceva roteare i pennelli. L'odore delle
tempere riaffiorò, impetuoso. Nick aveva sempre quell'odore addosso, pigmento conficcato sotto le unghie, a prescindere dalla meticolosità con cui si sfregava le mani. Lui si raddrizzò e osservò con gli occhi socchiusi il risultato dei suoi sforzi. Poi si alzò e si stiracchiò, allungando le braccia dietro la testa per togliersi il maglione e la maglietta che portava sotto. Si spogliò mentre si dirigeva verso l'angusto bagno di fronte alla cucina, lasciando cadere a terra i vestiti a mano a mano che camminava. La sua pelle era di un bronzo intenso, eccettuata la striscia bianca su inguine e natiche. Susan rimase scioccata nel vederlo nudo dopo così tanto tempo. Si portò involontariamente le mani agli occhi per coprirli. Poi lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi, raddrizzò la schiena e guardò. Alla fine si voltò. Il tempo passava. Doveva andare. Lizzie la stava aspettando. Era tardi quando Nick sentì il rumore proveniente dal giardino. Non riuscì subito a identificarlo. Forse era il frusciare dei rami nel vento o magari il raspare di artigli sul muro di granito. Lasciò il tavolo da disegno per raggiungere le porte a vetri. Le aprì e uscì. Ci fu un improvviso turbinio di movimento nell'angolo posteriore dove venivano tenuti i bidoni. La corsa di un animale in fuga. Forse un gatto, o magari la volpe. Ricordò che avevano dimensioni simili, la volpe molto più piccola di quanto si fosse aspettato. Ed era simile ai felini anche sotto altri punti di vista. Molto più somigliante a un gatto che a un cane. Abilissima nel saltare, arrampicarsi, inerpicarsi, scivolare, strisciare, infilarsi in varchi angusti. Sgusciare in buchi, cantucci e angolini di ogni genere. Lui attraversò rapidamente il prato, ma l'animale, di qualunque genere fosse, non c'era più. Restavano solo alcune lattine vuote sparpagliate e un sacchetto di plastica, strappato, con gli avanzi della cena della sera prima. Si chinò e li raccolse, rimettendoli nel bidone e sistemando con cura il coperchio di quest'ultimo. Si girò di nuovo verso la casa. Le luci erano accese nella cucina al piano di sopra e nello studiolo attiguo. Susan sedeva davanti a un computer. Portava gli occhiali. Quella era una novità. Non ne aveva mai avuto bisogno, prima. Le conferivano un'aria seriosa, da intellettuale; i capelli raccolti con una fascia sulla nuca e un'espressione profondamente accigliata sul viso. Lui immaginò che stesse lavorando. Tutti quei bambini con tutti quei bisogni. «Fingi di essere Dio, ecco cosa stai facendo», le aveva rinfacciato in più di un'occasione. «Perché non li lasci semplicemente morire? Con dignità e grazia. Sai che moriranno, prima o poi. Cosa ottengono da te, dai tuoi aghi, dalle tue medicine e dalle tue pozioni magiche?»
«Una chance di diventare grandi», gli aveva risposto bruscamente lei. «Qualche altro anno con la loro famiglia. Un'opportunità di trarre beneficio da tutte le nuove cure non appena sono disponibili.» «Già, certo. Cavie per i tuoi amici delle case farmaceutiche», aveva ribattuto sprezzantemente lui. «È questo che intendi, vero?» Si era subito pentito di averlo detto. Sapeva che la moglie aveva ragione. Sapeva che, se fosse stato Owen ad ammalarsi, lui avrebbe fatto di tutto per estrarre un altro giorno di vita dal cilindro delle cure di Susan. Lei sembrava stanca, le spalle curve. Nick decise di raggiungerla. Si sarebbe offerto di prepararle un tè o magari un drink. Si sarebbero seduti a parlare. Le avrebbe raccontato della sua vita in America, delle persone conosciute durante i suoi viaggi. Avrebbe tentato di spiegarle di nuovo perché se n'era andato. Le avrebbe parlato del dolore provato quando aveva saputo della morte della madre. Susan avrebbe capito. Riusciva sempre a capirlo. Sarebbero rimasti seduti insieme in quella stanzetta tranquilla, circondati dai suoi libri, allineati ordinatamente sugli scaffali che lui aveva costruito. Avrebbe allungato una mano per prendere quella di Susan. L'avrebbe baciata, prima sulla guancia e poi sulla bocca. Lei avrebbe accostato il viso al suo. Tutto sarebbe stato come un tempo. Lui avrebbe sentito la stessa ondata di emozione. Avrebbe fatto alzare Susan e l'avrebbe portata verso le scale, baciandola di nuovo, baciandola mentre salivano lentamente verso la camera. Sarebbe stato bello. Per entrambi. Ma, mentre guardava, vide aprirsi la porta. Vide entrare nella stanza l'uomo che lei aveva chiamato Paul. Vide il sorriso di benvenuto di Susan e il modo in cui tendeva le braccia verso il nuovo arrivato. Vide l'uomo fermarsi dietro di lei, posarle le mani sulle spalle e poi farle scivolare verso il basso per posargliele sul seno. Vide il modo in cui Susan si appoggiava all'indietro, contro di lui. Sorridendo. La vide alzarsi e girarsi verso Paul. Vide l'uomo che le sbottonava la camicetta. Lo osservò piegare la testa, levarle il reggiseno, baciarle la pelle, spingerle i seni verso l'alto e prenderli in bocca. Vide Susan che chiudeva gli occhi, lasciava cadere la testa all'indietro tanto che i capelli si sfilarono dalla fascia. La vide allungare una mano al di sopra della testa china dell'uomo, raggiungere le pesanti tende, chiuderle. Ma non prima che Nick vedesse Paul abbassarle la cerniera lampo della gonna e il modo in cui l'indumento cominciava a scivolarle lungo le cosce. Lui indietreggiò rapidamente, nel riparo offerto dagli alberi. Si voltò e raggiunse il cancello. Lo aprì e s'immerse nel buio del vicoletto. Se lo ri-
chiuse alle spalle e vi appoggiò contro la schiena. Aveva la nausea. Non avrebbe dovuto guardare. Non gli sarebbe servito a nulla. Si girò e si allontanò. Il cancello della casa dei Goulding era aperto. La cosa lo stupì. Ricordava che ai vecchi tempi Brian Goulding aveva manifestato un'autentica ossessione per la sicurezza. C'era stato del filo spinato sulla sommità del muro e un faretto che si accendeva automaticamente quando qualunque creatura, uomo o animale, passava davanti alla sua fotocellula. Il faretto c'era ancora, ma la lampadina era rotta, e il fil di ferro arrugginito e strappato penzolava fino all'intrico di erbacce che premevano contro la base del muro. Allungò una mano per chiudere il cancello. E, nel farlo, notò che c'era qualcosa di diverso nel giardino. Una piccola costruzione aveva preso il posto dell'orto di Hilary Goulding. Si diresse da quella parte. Era fatta di legno, con il tetto spiovente. Quadrata, con finestre su tre lati e, sul quarto, una porta a doppio battente lasciata aperta. La raggiunse e sbirciò all'interno. Un tanfo di putrefazione gli riempì le narici. Foglie morte, e forse anche qualcos'altro. Magari l'odore muschiato della volpe. Posò il piede sulla soglia e, quando il suo peso si spostò sul pavimento, quest'ultimo oscillò leggermente. Naturalmente sapeva di che cosa si trattava. Aveva avuto una vecchia zia che abitava in una grande casa a Blackrock. Una zia zitella. Una zia nubile, la definiva sua madre. C'era un padiglione estivo nel suo vasto e bellissimo giardino. Era fatto di legno annerito con il creosoto. Era montato su un perno. Sotto c'era una ruota. Lo si poteva far girare in modo che seguisse lo spostamento del sole in una calda giornata estiva. Lui ricordava di esserci entrato con la madre, per prendere il tè. Si erano seduti su sedie a sdraio di tela e, di tanto in tanto, Nick si era sentito chiedere di premere la spalla contro la porta e spingere. E la casetta si era mossa. «Basta, basta», esclamava sua zia. «Lasciala così, Nicholas. È perfetta.» Finché il sole non si era spostato di nuovo. E lui aveva spinto di nuovo. Spinse anche questa volta ma il padiglione non si mosse, limitandosi a dondolare da una parte e dall'altra. Vecchio, pensò, rotto, deve aver visto giorni migliori. Si allontanò. All'improvviso le luci si accesero. Prima nell'angusta camera in cima alla casa, poi sulle scale e sul pianerottolo. Il bambino che in precedenza aveva visto alla finestra era fermo a guardare il giardino, sul viso la stessa espressione distaccata. Accanto a lui c'era una donna alta e magra con corti capelli neri. Stringeva tra le braccia un altro bambino, più piccolo. Forse era una femmina, e stava piangendo. La donna cominciò a scendere le scale. Accese la luce in cucina, aprì il frigorifero ed estrasse un
cartone di latte. Raggiunse la credenza, la bimba che adesso le si aggrappava al fianco come una scimmietta. Posò una tazza sul tavolo e cominciò a versare. Il bambino si diresse da quella parte, allungò una mano e afferrò la tazza. Il latte si rovesciò sul pavimento. La donna gli si rivoltò contro. I suoi lineamenti contratti tradivano rabbia. Si chinò e gli tolse di mano la tazza. Lui cercò di afferrarla di nuovo, ma lei lo spinse con forza facendolo cadere. Ricominciò a versare il latte, stavolta tenendo la tazza bene in alto, al di fuori della portata del figlio. Si sedette su una sedia e accostò la tazza alla bocca della bimba, ma l'altro non si arrese. Stavolta si arrampicò sul tavolo e cominciò ad artigliare il viso della donna con le dita. E allora lei lo spinse più forte e lui cadde di nuovo, all'indietro e a testa in giù. Nick si fece piccino, sentendo il dolore nel proprio cranio, immaginando lo scricchiolio dell'istante in cui il bambino colpiva le piastrelle. Doveva fare qualcosa. Doveva intervenire. Quello non era un comportamento che andasse bene. Ma proprio mentre cominciava a dirigersi verso la casa, vide che adesso c'era un'altra figura nella stanza. Un giovanotto che riconobbe. Praticamente immutato, rispetto a così tanto tempo prima. Quando Marianne se n'era innamorata. Quando lui entrava e usciva continuamente da casa Cassidy insieme a lei. Tazze con fondi di caffè e portacenere pieni di mozziconi lasciati sul tavolo di cucina e sul pavimento del soggiorno. E la radio sintonizzata sulla stazione di musica rock preferita del momento. E la conversazione di Marianne che iniziava sempre con «Chris dice», «Chris pensa», «Chris vuole». «Non le farebbe certo male dipendere un po' meno da Chris Goulding», ricordava di aver detto una volta a Susan, che si era stretta nelle spalle e aveva risposto che era prevedibile che Marianne avesse bisogno di sostegno, cercasse rassicurazioni. «Dopotutto, nel corso della sua giovane vita ha sopportato più dolore, sofferenza e incertezza di quanto molta gente sia costretta ad affrontare in settant'anni. E non dimenticare, Nick, che i suoi genitori l'hanno viziata, l'hanno tenuta nella bambagia per anni, sin da quando è uscita dall'ospedale. Le ci vorrà un po' per riuscire a reggersi in piedi da sola. Dalle tempo.» Una figura bassa e snella. Capelli castano scuro che gli ricadevano sulla fronte e sugli occhiali dalla montatura nera. Una bocca che si allargò in un sorriso, mentre lui si chinava per prendere in braccio il bambino. Consolandolo, confortandolo, sollevandolo in aria e facendolo roteare, poi sistemandoselo sulle ginocchia, arruffandogli la cresta di capelli. Allungando
una mano per prendere quella della donna, poi passandole una sigaretta e accendendogliela. Versandole qualcosa da una bottiglia, forse vodka, sollevando un bicchiere, brindando alla sua salute. Poi alzandosi, con il bambino aggrappato alla spalla e lasciandosi precedere dalla donna con la bimba. Le luci spente in cucina e sulle scale, mentre tutti e quattro salivano lentamente al piano di sopra. Luci spente nella camera in cima alla casa. E intanto Nick restava fermo da solo nel buio e sentiva il freddo penetrargli nelle ossa. Più tardi si sedette davanti alla stufa, con un bicchiere di whiskey in mano. La bottiglia era posata accanto ai suoi piedi. Si mise in ascolto. Non giungeva alcun suono dalla casa soprastante. Nessun suono dalla strada. Solo il costante, fioco mormorio del traffico proveniente dalla città. «Owen», sussurrò, l'alito della parola tiepido sulle sue labbra. «Owen», ripeté, stavolta un po' più forte. «Owen, bambino mio, dove sei? Dimmelo, dimmelo adesso.» Rimase in ascolto. Ma non udì risposta. Solo il familiare, opprimente, plumbeo silenzio. 11 Non sarebbe mai stato drammatico. Sarebbe sempre stato meticoloso e lento. Solo gli avvenimenti oggetto delle indagini erano drammatici, spaventosi, anomali. E persino quelli diventavano banali e di routine, con il passare degli anni. Era così che ormai Min giudicava il proprio lavoro. All'inizio si era sentita eccitata, colma di aspettative, ma ormai vedeva tutto in modo così diverso. Andy aveva illustrato chiaramente la situazione al posto suo. «La chiave è l'attenzione per i dettagli», aveva ripetuto parecchie volte. «La chiave è saper esaminare una deposizione e leggere tra le righe. Saper suddividere una deposizione in incarichi. E poi suddividere tutti i conseguenti incarichi in altri incarichi. Così la rete di interesse si allarga sempre più finché, alla fine, non cattura solo pesciolini e spratti, granchi e molluschi, alghe e fanghiglia ma anche i pesci veri e propri, vivi, grossi. I pesci che ce l'hanno fatta. I pesci che possono essere esaminati, sfilettati, spellati e fritti.» La telefonata era arrivata nell'ufficio del sovrintendente capo. I pettegolezzi della mensa erano fondati. Volevano levarla dal suo comodo lavoro d'ufficio. Volevano che si trasferisse al quartier generale, che si sporcasse
di nuovo le mani. La ritenevano perfetta per quell'incarico. «Abbiamo bisogno di te», avevano spiegato. «Abbiamo bisogno di poliziotte come te in prima linea. Non hai idea di come il mondo sia cambiato negli ultimi anni. È colpa del fottuto World Wide Web. È sfuggito a ogni controllo oppure lo farà, se non riusciamo a trovarne il bandolo.» Min non aveva aperto bocca. Non voleva andarci. «Abbiamo bisogno di te», avevano ribadito. «È ora che tu passi ad altro.» «Ma perché lì? Perché non posso semplicemente tornare di pattuglia? Lavorerei sulle strade. Non mi dispiacerebbe. Perché questo?» «Oh, avanti, Min», avevano insistito loro. «Dov'è la tua ambizione, il tuo coraggio? Un tempo, prima che Andy morisse, eri un agente investigativo. Dovresti sfruttare le tue doti e la tua abilità.» Non c'erano state ulteriori discussioni. Le era stato ordinato di presentarsi per l'addestramento. «Per aggiornare le tue competenze informatiche», avevano specificato. «Ne avrai bisogno.» «Oh, per l'amor del cielo», aveva ribattuto lei. «So usare un computer. So come muovermi su Internet. Cosa pensate che abbia fatto finora nell'ufficio del sovrintendente, che mi sia laccata le unghie?» Il suo insegnante era giovane e di bell'aspetto. Si presentò. Conor Hickey, agente investigativo. Aveva corti capelli scuri, occhi grigi dalle palpebre pesanti e un orecchino d'oro. Lei notò che aveva la pelle liscia e pallida, zigomi alti e appuntiti, e una profonda fossetta sul mento. L'uomo le indicò una sedia accanto a sé. Distese le lunghe gambe sotto la scrivania. Dava l'impressione di occupare ogni centimetro di spazio disponibile. Min si sedette con circospezione e si guardò intorno. «Dove sono tutti gli altri?» chiese. Lui si strinse nelle spalle. «Impegnati, fuori, a fare il loro lavoro.» Lei annuì in direzione dello schermo di Conor. «Allora, dimmi, di cosa si tratta?» «Oh, solo una cosuccia su cui sto lavorando. Il capo mi ha detto di aggiornarti. Ha precisato che non ne avresti saputo granché, ma che avresti imparato in fretta.» «Già, bene.» Lei raddrizzò la schiena. «Adesso sono qui. Sono tutta orecchi. Anzi, sono tutta tua. Cosa stiamo aspettando?» Cercò di non darlo a vedere, ma ben presto si sentì smarrita. Conor parlava una lingua che non aveva molto senso. Lei capiva benissimo i principi
di base. Lavoro meticoloso e lento, attenzione per i dettagli. Trova il crimine, poi il criminale. Quello era piuttosto semplice. Il problema era l'ambiente in cui il crimine veniva commesso. «Devi proprio?» chiese quando lui si accese la quinta sigaretta di seguito. «Sì, devo. E con ciò?» Conor strinse le palpebre per guardarla in tralice, attraverso la foschia creata dal fumo. «Tieni.» Min frugò nella borsetta e lanciò un pacchetto di chewing-gum sulla tastiera del computer. «Prova con queste, prima che mi venga voglia di citarti per danni causati dal fumo passivo.» Un inizio poco promettente. «Rallenta, rallenta», si ritrovò lei a gridargli, spazientita per il modo in cui le dita di Conor svolazzavano sulla tastiera. Gruppi di discussione. Bacheche. Chat room su Internet. Linea diretta tra cliente e cliente. Fileserver. ListServ. Protocolli trasmissione file. «Spiegamelo, spiegami tutto.» Lui si limitò a ridere e a darle una pacca sulla schiena, scartò un chewing-gum e allo stesso tempo si accese un'altra sigaretta. Poi le spiegò: «Il file-server è un computer che invia file a quelli a esso collegati all'interno di una rete; mentre ListServ è un software che gestisce elenchi d'indirizzi di posta elettronica e permette di inviare automaticamente lo stesso messaggio a liste di indirizzi predefiniti». Quando Min arrivò a casa, i suoi abiti e i suoi capelli puzzavano di fumo. Si versò un abbondante gin tonic mentre preparava la cena. Fottuto stronzetto, chi si credeva di essere? Mangiarono sul tavolo di cucina. I ragazzi cercavano sempre di convincerla a lasciarli mangiare davanti alla TV, ma lei insisteva perché si sedessero a tavola tutti insieme. Cosa avrebbe fatto Andy?, si chiedeva sempre. Se ne sarebbe preoccupato? Avrebbe insistito per conferire un certo tipo di ordine e di struttura alle loro vite? Ma se Andy fosse stato lì, il problema non sarebbe mai sorto perché lui rappresentava il loro ordine e la loro struttura. La ragazza alla pari frequentava una scuola serale. Era una ragazza simpatica, russa. Si chiamava Vika Petrovna. Era bassa e magrissima, con capelli ossigenati e la pelle con lo stesso colore del latte scremato. Veniva da San Pietroburgo o, almeno, così sosteneva. Min si chiedeva se fosse vero, ma non faceva troppe domande. Non era in grado di gestire i bambini da sola. E le baby-sitter erano costose e difficili da trovare.
I bambini mangiavano bene. Stavolta gustarono costolette d'agnello, purè di patate, spinaci e carote. E, come dessert, fettine di banana con gelato. Litigarono come sempre. Litigavano per qualunque cosa. La loro non era semplice competizione, ma una vera e propria guerra. «Smettetela.» La voce di Min suonò brusca quando Jim rubò l'ultima cucchiaiata di dolce dal piatto di Joe e il fratello lo colpì, un doloroso pugno sul naso che provocò un pianto a dirotto. «Salite di sopra e spogliatevi. È l'ora del bagno.» Devi smetterla di farti domande, si disse in tono di rimprovero. Devi smetterla con gli «E se...» «Non giova a nessuno, men che meno a loro», dichiarò ad alta voce mentre si versava un altro drink abbondante e li seguiva in bagno. Almeno questo li diverte ancora, pensò mentre si sedeva sul coperchio del water e li osservava. Ben presto sarebbero diventati troppo grandi per poter entrare nella vasca insieme. Ci stavano già stretti. Aprì i rubinetti e la riempì di acqua calda. I gemelli avevano ancora i loro giocattoli preferiti. La rana che nuotava quando tiravi la cordicella che le usciva di bocca e il rimorchiatore che fischiava. Persino la vecchia papera di gomma che un tempo racchiudeva nella pancia una nidiata di anatroccoli. «Non dimenticate a cosa serve il sapone, d'accordo?» Si alzò. «Non dimenticate di lavarvi.» Due visetti bagnati si girarono verso di lei, entrambi sorridenti, le bocche aperte, i candidi dentini da latte che scintillavano. E, solo per un attimo, lei rivide quello che aveva visto quel pomeriggio sullo schermo del computer di Conor. Un bambino, grande come i suoi. Dentro una vasca da bagno, in un bagno che avrebbe potuto essere quello di Min. Aveva la bocca aperta, ma non stava sorridendo. Il suo viso era girato verso il corpo nudo di un uomo. L'uomo si stava inginocchiando nella vasca, accanto a lui. La sua mano stava stringendo il mento del bambino, attirandone la bocca verso di sé. Gli occhi del piccolo guardavano con uno sguardo folle verso la macchina fotografica. La sua espressione rivelava il panico e l'assoluto terrore. Ma non c'era modo di evitare ciò che stava per succedere. Conor aveva spostato il mouse e cliccato sulla freccia puntata verso il basso. L'immagine si era dipanata. Lei aveva visto che cosa succedeva dopo, e dopo, e dopo, e dopo. Aveva visto tutto. Lasciarono il quartier generale per pranzare. Conor voleva andare in mensa. Si diede qualche colpetto sullo stomaco con aria meditabonda mentre spegneva la sigaretta. «Hai ragione», disse mentre prendeva la giacca di jeans. «Sto pensando
alle patatine fritte.» Ma lei insistette perché andassero a mangiare altrove. «Non una fottuta paninoteca. Cristo, risparmiami», gemette lui, mentre Min si dirigeva verso Stephen's Green. Lei lo ignorò e svoltò in uno dei vicoli che collegavano Harcourt Street a Camden Street. Si ricordava di un caffè gestito da un coppia di gay provenienti da Cork. Cucina italiana con qualche concessione a quella locale. Ordinò minestrone, un'insalata caprese e grosse fette di pane casereccio. Lui prese lasagne e un piatto di patatine fritte. Min fu tentata di ordinare la mezza caraffa di vino rosso della casa, ma il pensiero del lungo pomeriggio che li aspettava la spinse a desistere. «Su, continua», disse mentre masticava un boccone di formaggio e pomodoro. «Parlamene. In inglese, stavolta. Persino in irlandese, se preferisci. Ma usa un tipo di linguaggio che io possa capire.» Conor non rispose subito. Continuò a infilarsi il cibo in bocca con la concentrazione di un orfanello mezzo morto di fame. Lei sorbì delicatamente il minestrone da un lato del cucchiaio. Lui infilzò una grossa patatina fritta e gliela offrì. Min scosse il capo e gli porse, in cambio, un pezzo di mozzarella. Lui rabbrividì. «Odio quella roba. Sembra chewing-gum al formaggio che devi inghiottire invece di sputare.» Posò la forchetta e guardò Min. «Così eri sposata con Andy Carolan, vero?» Lei annuì. «Lo conoscevi?» «No, non proprio. Sapevo chi era. Lo sapevamo tutti. Siamo rimasti profondamente addolorati dalla cosa. Dalla sua morte, voglio dire.» Sorrise e Min si ritrovò a ricambiare il sorriso. «Quello che è successo è una vera tragedia.» Lei annuì, con la familiare sensazione di avere le lacrime agli occhi e un groppo alla gola. «Circolano così tanti aneddoti su di lui, vero? Praticamente dev'essere stato coinvolto in ogni grosso caso di omicidio degli ultimi vent'anni.» «Trenta, in realtà.» «Già, giusto. Era un tipo in gamba. Lo dicono tutti.» Conor finì le patatine e si ripulì le dita con un grande fazzoletto bianco che estrasse dalla tasca dei pantaloni. «Sapevo che era sposato con una poliziotta. Avevo sentito parlare di te, ma, insomma sì, ti credevo... be', diversa.» «Vuoi dire più vecchia, vero?» «Be', sì.» Lui allungò una mano verso il pacchetto di sigarette, ma lo
sguardo di Min gli fece cambiare idea. «Insomma, lui doveva avere... come minimo, non saprei, almeno...» Esitò. La sua voce si affievolì. Smetti di scavare, Conor, pensò lei, guardandolo. Non peggiorare ulteriormente la situazione. «Almeno vent'anni più di me? È questo che volevi dire?» Lui si strinse nelle spalle, le dita che pieghettavano la tovaglia a quadretti. «In realtà, erano diciannove anni e sei mesi. Quando è morto, io avevo trentatré anni, mentre lui ne avrebbe compiuti cinquantatré di lì a due mesi, se proprio vogliamo essere precisi.» «Okay.» Conor annuì. «Bene, sono felice che abbiamo chiarito quel piccolo malinteso.» Si appoggiò allo schienale della sedia e la guardò. «Su una cosa avevano ragione.» «Ragione?» lo interruppe bruscamente lei. Non aveva nessuna voglia di sentire ciò che stava per sentire. «Su cosa?» «Quando hanno saputo che saresti venuta nella mia sezione, mi hanno avvisato. Hanno detto che sei molto diretta e non ti fai mettere i piedi in testa. Hanno detto che non dovevo lasciarmi ingannare dai tuoi grandi occhi castani e dal tuo sorriso. Hanno detto che sei una donna dura.» «Sul serio?» Lei spinse via la sua ciotola. «È una macchia terribile sulla reputazione di una donna. Non è un'espressione che userei, parlando di me stessa. Difficile, irritabile, eccentrica, irascibile: questi aggettivi rispecchiano maggiormente il mio stile. Impaziente è un'altra parola che userei. Quindi, forza, ordina un caffè per tutti e due e spiegami cosa sta davvero succedendo con tutta questa merda informatica, cosa la rende diversa da qualunque altra forma di attività criminosa.» «Parlami dei tuoi figli.» Conor la fissò attentamente. «Della loro età, dei loro interessi, della loro scuola, della loro vita quotidiana. Parlami dei loro insegnanti, dell'uomo che vende i lecca-lecca fuori dal cancello della scuola, dei loro amici, dei padri dei loro amici, dei fratelli maggiori dei loro amici, degli amici dei loro fratelli maggiori. Parlami degli zii, dei cugini, dei nonni dei tuoi figli. Parlami dell'uomo nel negozietto all'angolo, dell'uomo che consegna il latte, dell'uomo che ritira la spazzatura, del vecchio che abita nella casa accanto. Raccontami tutto e io ti dirò che cosa significa.» Min rimase seduta ad ascoltare. «Hai delle fotografie in casa? Foto dei bambini sulla spiaggia o mentre giocano a football. Foto dei bambini sulle altalene del parco. Foto in cui
sono nella vasca da bagno. Foto dei tuoi figli alla festa di compleanno di un amico o in gita allo zoo. Hai fotografie di ciascuno di questi tipi?» Lei annuì. «Bene, là fuori», spiegò lui, indicando con un'oscillazione della mano l'affollata strada oltre le vetrine appannate dal vapore, «ci sono persone, perlopiù uomini, che collezionano foto come le tue. Possiedono letteralmente centinaia di migliaia di immagini simili. Le conservano. Le archiviano. Le scambiano con altre. Per te sono perfettamente innocenti, sono souvenir da amare. Ma per loro sono qualcosa di diverso. Sono oggetti erotici. Sono una fonte di estrema gratificazione sessuale. Sono coadiuvanti per la masturbazione. Sono stimolanti. Sono il fulcro della vita stessa.» Infilò la mano nella tasca interna della giacca ed estrasse una cartelletta di plastica. «L'altro giorno abbiamo fatto irruzione in una casa di Galway. Il tizio aveva distribuito in giro alcune di queste. Su Internet, voglio dire. Erano state notate da un poliziotto dell'Oklahoma, un mio amico. Stava effettuando un controllo di routine su una serie di gruppi di discussione che notoriamente si occupano di pedofilia. Non sapeva da dove provenissero quelle foto, ma alla fine ha capito a che gioco stavano giocando gli interessati e mi ha spedito il materiale. Una cosa tira l'altra e abbiamo trovato un indirizzo e-mail del signor Connemara. Ecco, dai un'occhiata a quello che abbiamo sequestrato nel suo solaio.» Lei prese la cartelletta dal tavolo. Conteneva foto di ragazzi che giocavano a hockey irlandese. E degli stessi ragazzi negli spogliatoi. Ragazzi di dodici, tredici anni, non riuscì a stabilirlo con sicurezza. Più o meno vestiti. Mutande, calzoncini, giacche, calzini, magliette. Non erano nudi, benché ci fossero un paio di foto in cui erano avvolti in asciugamani. Erano ragazzi normali. Giovinetti irlandesi con il corpo bianco. Con lentiggini e brufoli. Con capelli color topo. Non erano belli. Erano semplicemente ragazzi. «Allora?» Lei si strinse nelle spalle. «E con ciò? Dov'è il crimine? Casa mia è piena di immagini come queste. Chiunque io conosca possiede fotografie simili.» «Davvero? Scatole su scatole piene di foto con lo stesso soggetto? Tutti ragazzi tra i dieci e i quattordici anni? E scatole su scatole di riviste, del tipo edito in Svezia e Danimarca negli anni '60? Prima che venissero applicate misure restrittive sulla pedopornografia e prima che pubblicarle diventasse pericoloso e poco redditizio. Hai anche quelle?» Min non rispose.
«Quel tizio aveva anche varie pile di dischetti da computer. Quando torniamo in ufficio, ti mostrerò cosa ho trovato al loro interno. Non stampiamo il materiale che contengono. Non facciamo copie per noi stessi o per altre forze di polizia perché, a nostro parere, questo significherebbe sfruttare nuovamente l'immagine. E non vogliamo renderci complici di una cosa simile.» Lei fissò le foto sul tavolo. «Non capisco», dichiarò. «Non capisco cosa c'è in ballo. Mi stai dicendo che queste, qualunque cosa siano... queste foto di famiglia vengono messe in vendita? È di questo che si tratta? E, in tal caso, chi è il distributore? Chi è il fornitore? Chi ci sta guadagnando? Dov'è il margine di profitto?» Lui le sorrise. «È buffo che tu lo chieda, perché fino a poco tempo fa avrei giurato che i soldi non contassero, che niente di tutto ciò venisse fatto a fini di lucro, che la maggior parte dei pedofili avesse una motivazione diversa. Amore, lo chiamerebbero loro. Eppure di recente tutto questo è cambiato. Per noi è un vantaggio, perché adesso abbiamo un altro modo per rintracciare le persone coinvolte. Sai, tutti i tizi che fanno cose simili adottano misure di sicurezza, utilizzano server per procura, sono tutti massicciamente protetti da password. È tanto la fortuna quanto l'abilità a poterti consentire di superare le loro difese. Quindi è una manna che usino le carte di credito. È molto più difficile nascondere una transazione che coinvolge una banca. Ma questo implica anche che, con la quantità di denaro che attualmente cambia di mano, ci troviamo a dover fronteggiare non solo un grosso giro d'affari ma anche degli autentici criminali, gente che ha le mani in pasta dappertutto, e questo è un guaio. La pedopornografia non è mai stata una fonte di guadagno come un tempo la pornografia adulta, ma tutto ciò sta per cambiare.» Lei rimase perfettamente immobile, fissando la tovaglia. Cominciò a raccogliere sul palmo della mano le briciole di pane, poi le rovesciò sul piatto. Infine parlò. «Amore, dici? Cosa intendi con 'amore'?» Conor si strinse nelle spalle. «Be', potresti chiamarlo 'ossessione' oppure definirlo 'nauseabondo' o 'malvagio'. Ma loro lo chiamano 'amore'. E temo, Min, che talvolta il fatto di vedere la cosa dal loro punto di vista agevoli il tuo operato come poliziotto. Solo allora puoi cominciare a capire contro chi stai lottando.» I suoi ragazzi seguivano una rigida routine, all'ora del bagno. Joe uscì per primo dalla vasca perché era il più giovane. Di sei minuti. Si sedette
sul ginocchio di Min che lo asciugò, lo abbracciò e gli mormorò qualche vezzeggiativo all'orecchio. Poi lo mandò in camera a prendere il pigiama. Jim si appoggiò all'indietro, la vasca tutta per lui, e si crogiolò nel proprio status di figlio maggiore. Fece dondolare le gambe da una parte all'altra e allungò le dita dei piedi verso i rubinetti. Parlò di questioni serie. Lo divertiva scoprire cosa aveva fatto la madre per tutto il giorno. Voleva sapere se aveva arrestato qualche «cattivo». «Lo hai fatto, Min?» chiese. «Ti sei guadagnata il pane, oggi?» Una tipica frase di Andy. «Non lo so. Non credo. Non proprio. Sai che sono stata trasferita. Sto lavorando in una sezione diversa. È un posto speciale.» «Oh.» Jim si sdraiò nell'acqua tiepida fino a immergersi quasi completamente. Il cerotto del suo alluce, la striscia adesiva allentata dall'ammollo, galleggiava appena sotto la superficie come un frammento di alga rosa. «È un incarico interessante? Fa paura?» «No, certo che no.» Lei si chinò sopra la vasca e fissò i tondi occhi azzurri del figlio. «Non fa assolutamente paura. Non c'è il minimo rischio, davvero. Forza, vieni qui.» Si allungò e gli prese le mani, alzandosi e aiutandolo a raddrizzarsi lentamente. «Ormai, caro il mio ometto, è ora di uscire.» Tornarono in ufficio a piedi. Min ascoltò mentre Conor parlava. Pensò che non sarebbe mai riuscita a zittirlo. Lui le raccontò tutto del suo lavoro sotto copertura. «On line, ecco dove vado. Niente appostamenti agli angoli di strada sotto la pioggia. Qui si tratta di chat room e gruppi di discussione. È quello il mio mondo.» «Ma aspetta un minuto, Conor», ribatté lei. «Niente di tutto ciò è una novità. La pornografia infantile è sempre esistita. Ricordo che quando ho lavorato qui, anni fa, sequestravamo materiale di ogni genere.» «Esatto», concordò lui. «E, se ben ricordo, perlopiù era roba vecchia già allora. Le leggi contro la pedopornografia approvate in Danimarca e in Olanda alla fine degli anni 70 misero fine a tutto.» Il collega le diede ragione. Era proprio così. Ma la cosa davvero interessante era quanto era successo al materiale contenuto in quei libri e in quelle riviste. «Oh, davvero?»
«Forza, avvicina la sedia. Ti faccio vedere.» Lei guardò l'orologio. Cominciava a farsi tardi. Avrebbe dovuto considerare l'eventualità di affrontare il traffico dell'ora di punta se voleva rincasare a un'ora decente, quella sera. Conor le spiegò che avevano archiviato qualcosa come ottantamila immagini. Stavano creando un database. «Cosa vuoi dire? Di cosa stai parlando?» «Ecco.» Le mani dell'uomo si mossero sulla tastiera. Lo schermo cominciò a riempirsi. Immagini in miniatura. Bambini e bambine, di ogni età. Appena nati, di pochi mesi, a due-tre anni, in età scolare, prepubescenti e ormai adolescenti, i corpi che cominciavano a mostrare tracce di maturità sessuale. Min fissò il monitor, la bocca asciutta, le mani umide. «Questi bambini non sono tutti diversi», disse. «Guarda le foto di questa fila, ritraggono tutte lo stesso piccino.» «È una serie, ecco come viene definita. A loro piace collezionarle. Come se fossero figurine del football o francobolli. Vedi questo bambino?» Il cursore si fermò sul viso di un piccolo che, secondo Min, doveva avere quattro o cinque anni. Era seduto a gambe incrociate su un tappetino di fronte a un caminetto. «Ora», aggiunse Conor, mentre la sua mano si muoveva rapidamente, «guarda queste.» Lo schermo si riempì con foto sempre più numerose dello stesso bambino. Suo malgrado, Min gemette. Fece leva sul bordo della scrivania per allontanarsene. Si coprì gli occhi. «Di lui ne abbiamo cinquecento, ma non possiamo escludere che ne esistano molte di più. Ora», il giovane fece una breve pausa, «osserviamole un po' più da vicino.» La sua mano si mosse di nuovo e stavolta l'immagine si allargò fino a riempire lo schermo gigante del computer. Nell'ingrandimento gli occhi azzurri del bambino apparvero velati, i suoi lineamenti sfocati. «Adesso guarda questo.» Conor mosse nuovamente il cursore, stavolta sullo sfondo della foto. «Cosa vedi?» Min spostò lo sguardo dal piccolo alla parete dietro di lui. Era rivestita di carta goffrata. «Non saprei, è carta da parati, di un tipo piuttosto comune», rispose. «Non saprei.» «Cos'altro vedi?» Lei si strinse nelle spalle. «Non saprei. Cos'altro c'è da vedere?»
Lui si girò parzialmente verso Min. «Mi stupisci. Ti credevo brava in questo genere di cose.» Min rimase in silenzio. «Avanti, non abbiamo tutto il giorno a disposizione. Usa gli occhi, Cristo santo. Cosa vedi?» Lei si strinse di nuovo nelle spalle. «Carta da parati, prese elettriche, moquette, c'è anche un quadro sulla parete. Un paesaggio. Montagne, mare.» «Esatto, brava, montagne, mare, palude. E le prese. Come sono? Forza, forza.» Lui fece schioccare le dita. «Prese per spine tripolari, con interruttore.» «Congratulazioni, ragazza. Hai fatto centro. Finalmente un po' di spirito d'osservazione. Un pizzico di valido lavoro investigativo.» «Allora?» «Allora, è tutto. Dobbiamo basarci su qualunque elemento compaia nella foto. Spina tripolare, quindi è inglese o irlandese. Quadro sul muro, a me sembra una scena del Connemara. Carta da parati, moquette. Tipicamente anni 70. E guarda il giocattolo con cui il bambino sta giocando. Scommetto che nessuno dei tuoi figli gioca con un pupazzetto come quello, vero? Ma forse lo facevano tuo fratello o tuo cugino, tanto tempo fa, quando è stata scattata questa serie di foto, che chiamiamo 'serie Billy'.» «Billy... perché avete scelto proprio questo nome?» «Ora te lo faccio vedere. Aspetta un attimo.» L'immagine cambiò. Una festa di compleanno. Una torta con sei candeline. E un nome scritto con la glassa rosa. BUON COMPLEANNO, BILLY, diceva la calligrafia sinuosa. Stavolta il bambino era nudo. Stavolta non era solo sul tappetino davanti al caminetto. E stavolta le lacrime gli rigavano le guance. Min fissò lo schermo. Cercò di trovare la voce. Deglutì a fatica. «Quindi, ogni foto è una scena del crimine e andrebbe analizzata come tale», disse a Conor. «Per esempio, prese per spine tripolari significano Inghilterra o Irlanda. Probabilmente il paesaggio del Connemara sulla parete restringe ulteriormente il campo. Solo qualche centinaio di migliaia di giocattoli come quello venduti. Tutto ciò ti permette di fare parecchia strada, vero? Direi che potrebbe sicuramente condurti a un'identificazione e a un risultato concreto, giusto? Un'altra piccola tacca sul tuo mouse, vero?» Lui la guardò, la luce emanata dallo schermo che gli si rifletteva negli occhi grigio scuro.
«Dipende da cosa intendi per 'risultato concreto'. In realtà, abbiamo identificato il bambino. Abbiamo svolto una ricerca di routine su quelli a rischio di età compresa tra i quattro e i dieci anni e su quelli morti non per cause naturali, sia qui sia in Inghilterra. E tombola. È saltato fuori Billy O'Reilly. Si è scoperto che la sua famiglia era irlandese, originaria della contea di Mayo ed emigrata a Manchester negli anni '60. Genitori separati. La madre era alcolizzata. Fu il padre a vedersi affidare i figli: Billy, la sorella maggiore e il fratello minore.» «Quindi avete preso quel bastardo?» Min indicò l'immagine sul monitor. «Chi era? Padre, zio, prete della parrocchia?» «Per rispondere alla tua prima domanda, no, non l'abbiamo preso. Perché non abbiamo trovato Billy. È morto, morto sin dal 1975. Morì a sei anni, poco dopo la sua festa di compleanno. È stato ucciso da un automobilista ubriaco mentre attraversava la strada per andare a comprare le patatine fritte. Senza Billy non avevamo nessun testimone, nessun accusatore. Né elementi sufficienti per procedere sulla base delle sole foto. Quindi cosa abbiamo? Non abbiamo una vittima viva, non abbiamo un colpevole. Abbiamo soltanto le foto. E quelle rimarranno. In eterno, finché esisteranno i computer, le fotografie di Billy resteranno là fuori. E bastardi come quello che gli ha fatto quelle cose continueranno a divertirsi guardandole.» Conor cominciò a chiudere i file, le mani che si muovevano rapide su tastiera e mouse. «Sono famose, quelle foto. Sono la Gioconda e la Cappella Sistina del mondo della pedopornografia. Sono il Penny Nero e il Sacro Graal. Sono le più ricercate, le più ambite. Per ottenerne delle copie, dovresti donare migliaia e migliaia di altre immagini al club. E sai perché?» Lei scosse il capo, incapace di parlare. «Perché Billy è morto e sepolto. Non crescerà mai. Non si trasformerà mai da un bambino speciale a un adolescente grosso, brutto, corpulento, peloso, pieno di brufoli e puzzolente. Per il pedofilo, la persona ossessionata dal corpo prepuberale, ciò lo rende estremamente desiderabile. E questi tizi sono disposti a tutto pur di mettere le mani su di lui.» Rimase seduta al buio a osservare i gemelli che dormivano. Usavano ancora una luce notturna. «Così, se mi sveglio, potrò vedere il babbo seduto in fondo al letto a proteggermi», le aveva spiegato Jim quando lei aveva proposto di spegnerla. «Potrebbe non riuscire a trovarci, se la nostra luce non fosse accesa. Po-
trebbe non ricordare in quale camera dormiamo.» «Hai ragione», aveva concordato lei. «È perfettamente logico. Tienila accesa finché vuoi.» Si sdraiò sul letto accanto a Joe e gli strinse la mano tra le sue. Fuori, dietro le tende e gli alberi in fondo al giardino, sentiva il brusio del traffico. Una raffica di vento fece tintinnare le finestre a ghigliottina. Quel giorno le strade erano state riempite dal vortice dorato delle foglie che cadevano. Ben presto quella brillantezza sarebbe scomparsa e l'inverno sarebbe arrivato. Lei sollevò la testa e guardò verso la luce notturna. Il paralume ruotava lentamente, proiettando graziose silhouette sul soffitto. Bambini che giocavano con mazze da baseball e palline. Un gatto che saltava, un cane che correva con la coda tesa dietro il corpo. Accanto a lei, Joe si mosse e piagnucolò, le mani che si serravano a pugno. Min gli carezzò i capelli e gli baciò la fronte. «Sstt», mormorò, le labbra posate sulla pelle serica del figlio. Bisbigliò le parole della canzone che sua madre le aveva sempre cantato. Le notti in cui il vento arrivava dal mare mugghiando e la casa tremava e dava l'impressione di potersi sollevare da un momento all'altro sopra le proprie fondamenta per poi salpare verso le stelle. V'la l'bon vent, v'la l'joli vent, V'la l'bon vent, m'amie m'appelle. La sua voce si affievolì riducendosi a un sussurro, mentre il ritmo del respiro di Joe rallentava e lui si girava su un fianco, una manina scivolata sotto la guancia. Min si alzò lentamente, un centimetro alla volta, e si diresse verso la porta. Se la chiuse alle spalle, tirando la maniglia finché la serratura non scattò. La porta accanto si affacciava sulla sua camera e sul suo letto. Era stanca. Doveva dormire. Ma non sopportava il pensiero dello spazio vuoto accanto a lei. Si appoggiò alla parete e chiuse gli occhi. «Ti prego, ritorna, Andy», sussurrò. «Ti prego, torna a badare a noi. Abbiamo bisogno di te, ora più che mai.» 12 Era un visino pallido quello che lo stava guardando attraverso le porte a vetri che davano sul giardino. Il viso di un bambino. Il volto del bimbo che Nick aveva visto nella casa accanto, quella dei Goulding. Il piccolo lo fis-
sò, poi aprì la bocca e buttò fuori il fiato con tale energia che una nebbiolina bianca appannò il vetro e lo rese quasi invisibile. Nick lasciò il tavolo da disegno e si avvicinò a lui. Si accovacciò per ritrovarsi al suo stesso livello. Poi anch'egli aprì la bocca e alitò. Si scostò dalla sezione di vetro appannata e sollevò un dito. Disegnò velocemente una faccina sorridente. Due occhi, un cerchietto come naso e un arco per la bocca. Rimase ad aspettare. La mano del piccolo si mosse. Poi toccò al suo indice. E anche lui disegnò. Due occhi, un cerchietto come naso e una bocca. Ma stavolta l'arco s'incurvava nella direzione opposta. Una faccina triste, invece che sorridente, guardò dentro verso Nick. Nick si alzò e aprì la porta. Fuori c'era il sole, ma faceva freddo. Il bambino portava un pigiama di un rosso sbiadito. Sul suo petto s'intravedevano vagamente i resti di una immagine di Topolino goffrata. I suoi piedini bianchi erano scalzi. Durante la notte era piovuto abbondantemente e l'erba era ancora bagnata. Il pigiama era fradicio fino alle ginocchia e lui sembrava molto intirizzito, l'esile corpicino squassato dai tremiti che lo percorrevano dalla testa ai piedi. «Vieni.» Nick si ritrasse dalla porta aperta e indicò la stanza dietro di sé. «Entra. Fa molto più caldo che là fuori.» Aspettò di vedergli compiere un movimento verso la porta, ma il piccolo si limitò a restare dov'era, fissandolo dal basso, serrando e rilassando le mani in modo stranamente adulto. «Forza.» Nick spalancò la porta e fece un profondo inchino. «Unisciti a me, avanti.» Il bambino continuò a restare immobile. «Okay, come vuoi.» Nick tornò in cucina, aprì il frigorifero ed estrasse un cartone di latte. Ne versò un po' in un pentolino che mise sul fuoco. Accese il bollitore elettrico e prese dalla credenza una confezione di caffè in polvere. Ne depositò qualche cucchiaiata in un bricco di vetro. Aprì di nuovo la credenza e stavolta trovò un pacchetto di biscotti. Strappò l'involucro e li dispose a ventaglio su un piatto. La loro superficie ricoperta di cioccolato scintillò. Lui canticchiò sonoramente mentre prendeva due tazze, versava l'acqua bollente sul caffè, annusando in modo enfatico, tenendo il viso sopra il vapore. «Uau, che profumino», disse abbassando lo stantuffo, poi si voltò per togliere dal fornello il pentolino del latte. «Ora, come lo preferisci? Con un bel po' di latte oppure soltanto un goccio?» Fece una pausa. «O forse sei troppo giovane per il caffè. Cosa ne dici? Latte e cacao, non sarebbe me-
glio?» Raggiunse di nuovo la credenza. Aveva comprato un po' di cacao il giorno prima. In memoria dei bei vecchi tempi, in realtà. Versò il latte nelle tazze e, in una, aggiunse due belle cucchiaiate di cacao. Parlò di nuovo, stavolta senza guardare verso il bambino. «Ricordo che quando mio figlio aveva più o meno la tua età, adorava il caffè, ma sua madre diceva sempre che non faceva bene ai bambini, così gli davo questo e noi lo chiamavamo 'caffè speciale, caffè di Owen'. Ci mettevo anche dello zucchero extra. Naturalmente», s'interruppe di nuovo, «sua madre diceva che lo zucchero non gli faceva bene. E neanche il cacao. Ma non badavamo mai a lei. Era un po' una scocciatrice, in realtà. Cercava sempre di guastarci il divertimento.» Annusò di nuovo. «Squisito, secondo me. Tu cosa ne dici?» Prese le due tazze, vi posò sopra il piatto di biscotti e tornò cautamente al tavolo da disegno. Si sedette sull'alto sgabello e depositò una tazza e il piatto sul pavimento. Spezzò un biscotto e lo inzuppò nel caffè. Succhiò i vari pezzi, poi masticò e deglutì. Si leccò le dita, bevve ancora un po'. Infine posò la tazza e tornò al suo disegno. Era uno scarabocchio, in realtà, niente di più. L'idea per un libro. Schizzi preliminari, tracciati con il carboncino su fogli di carta presi da una pila posata sulla scrivania. Tratti rapidi, senza troppi dettagli. Un cucciolo di volpe e un gattino, cresciuti insieme, la loro tana un nido di erba secca e foglie sotto un vecchio padiglione estivo di legno. E il bambino che li trova e si affeziona a loro. Contorni, niente di più in quella fase. Ma lo trovava interessante. Era passato parecchio tempo dall'ultima volta in cui aveva provato il desiderio di raccontare una storia. Allungò la mano verso la tazza di caffè e si chinò per prendere un altro biscotto. Il cioccolato aveva cominciato a sciogliersi. Lo sentì appiccicarglisi alle dita. Se le portò alla bocca e le leccò. Il cioccolato gli lasciò un gusto stranamente salato sulla lingua. Abbassò di nuovo lo sguardo sul disegno. Sfumò gli spessi tratti di carboncino, usando un brandello di straccio per variarne il tono. Fischiettò sommessamente, a denti stretti. E sentì uno scalpiccio, piedi nudi che si avvicinavano furtivamente. Posò lo straccio e prese il carboncino. Cominciò a disegnare. Un bambino con capelli corti che gli stavano ritti sulla testa, gambe e braccia lunghe e magre, e mani che si tendevano verso il volpacchiotto. Il carboncino scricchiolò mentre scivolava sulla carta e, quando lui applicò una maggior pressione, si spezzò con uno schiocco secco, una metà che rotolava sul pavimento. Guardò giù e la vide cadere accanto al bambino che adesso, accovacciato davanti al piatto, stava sollevando la tazza per bere lunghe sorsate, poi ar-
raffava i biscotti e se li infilava in bocca. Nick disegnò ancora un po', un'altra immagine. Un ragazzino seduto a gambe incrociate stringe delicatamente il volpacchiotto, le mani che accarezzano la testa del cucciolo, la bocca aperta mentre sussurra qualcosa nel suo orecchio appuntito. Accanto a lui il bambino grugnì fiocamente mentre mangiava. Le briciole gli si sparpagliarono sul pigiama e il cioccolato gli colò sul mento. Le mani di Nick si muovevano rapidamente sulla carta, riempiendola con immagini del ragazzo e degli animali. Non appena terminava un disegno, lo lasciava cadere a terra e ricominciava con un nuovo foglio. Accanto a lui il bambino si accosciò. Si pulì la bocca con la manica, il cioccolato che gli macchiava le guance. Il suo sguardo si spostò dal piatto vuoto ai fogli di carta. Le sue manine li disposero in cerchio intorno a lui. Nick lo osservò, osservò il modo in cui le sue dita toccavano i tratti di carboncino e ne seguivano i contorni, la sua espressione rapita. «Tieni», disse. Estrasse alcuni fogli dalla pila sullo scaffale e un paio di lunghi carboncini dalla scatola. Li posò sul pavimento. Si voltò e tornò al suo lavoro. Il bambino disegnò rapidamente. Figure estremamente stilizzate marciavano sulla carta. Uomini e donne, bambini, animali. C'erano automobili e biciclette, e case con frontoni molto spioventi, tetti aguzzi e comignoli. Spirali di fumo si levavano da essi, salendo nel cielo solcato da uccelli dal collo allungato. Nick lo osservò, la mano immobile. Il bambino s'inginocchiò, si accovacciò, si rialzò parzialmente, si stese a terra, cambiando posizione mentre disegnava sulle varie sezioni del foglio. Ben presto il carboncino fu ridotto a pezzetti. Il piccolo si pulì le mani sul petto e si alzò. «Magnifico, davvero un ottimo lavoro.» Nick lasciò lo sgabello e si chinò per guardare. Allungò una mano per prendere i fogli, ma il bambino li radunò rapidamente, riunendoli in un fascio, stringendoli a sé, il viso contorto, gli occhi stralunati. «D'accordo, va tutto bene.» Nick indietreggiò. «Non voglio prenderteli. Ecco, rimettili giù. È tutto a posto, te lo giuro.» Ma il bambino si era già voltato e si stava dirigendo verso il giardino, di corsa, i piedi nudi che schiaffeggiavano il pavimento di legno. Lottò con la maniglia, non riuscendo ad aprire la porta con entrambe le mani occupate, così sferrò calci contro il vetro, poi premette la spalla sullo stipite. «D'accordo, okay, se è questo che vuoi. Aspetta, aspetta. Ti apro io. Non c'è bisogno di farsi male in quel modo.» Nick lo raggiunse e abbassò la maniglia, mentre il bambino gli sfreccia-
va accanto, correndo sull'erba, verso i folti cespugli addossati al muro. Lo seguì, curioso di scoprire dove stesse andando. Vide i cespugli che vibravano quando il piccolo vi s'infilò faticosamente e poi, guardando oltre il muro, lo scorse dall'altra parte, ancora intento a stringere i fogli, ormai strappati e infangati, mentre puntava verso i gradini che portavano alla cucina. I suoi piedini scivolarono sul legno e per un attimo Nick temette che potesse cadere all'indietro e piombare sul terreno sottostante. Ma, proprio nel momento in cui il bambino arrivava in cima, la porta si aprì e la donna magra e bruna vista la sera prima dietro la finestra comparve sulla soglia. Inveì contro il figlio, parole incomprensibili, allungò una mano e lo prese per una spalla, scrollandolo, strappandogli di mano i fogli e poi spingendolo in casa. Si girò verso il giardino e vide Nick. Annuì nella sua direzione, poi seguì il bambino all'interno. La porta sbatté violentemente dietro di loro, poi calò il silenzio. Nick si allontanò dal muro e si diresse verso la macchia di cespugli. S'inginocchiò per strisciarvi sotto. Aveva piantato personalmente quella buddleia quando misurava solo una cinquantina di centimetri. Acquistata, inserita in un vaso di plastica, nel supermarket locale poco dopo che si erano trasferiti lì. Calcolò che ormai fosse alta circa quattro metri e mezzo e che i suoi rami fossero altrettanto lunghi. Un brutto arbusto, pensò, tranne che a metà estate quando i suoi racemi viola trasudavano miele e attiravano farfalle che vi si aggrappavano, aprendo e chiudendo le ali mentre affondavano la lingua nei fiori. Si mise carponi e s'infilò faticosamente sotto le fronde più basse. Lì c'era buio. Un rifugio segreto. Un nascondiglio. Per il corpo minuto di un bambino sarebbe stato piuttosto facile insinuarvisi. E nel punto in cui il muro posteriore incontrava quello di confine si apriva un varco. O forse c'era stato, un tempo. Celato su un lato dalla buddleia e sull'altro da una grande fucsia con i fiori rossi. Abbastanza ampio per consentire il passaggio di un gatto, un cagnolino, una volpe o un bimbo. I ragazzi Goulding da piccoli l'avevano usato. Anche Owen l'aveva usato. Così come il suo migliore amico, Luke, e gli altri bambini che erano venuti a giocare nel giardino. Nick avanzò lentamente e tastò il muro. Il varco era ancora lì. E adesso quel bambino l'aveva scoperto, lo stava usando, passando da un giardino a quello attiguo. Proprio come tutti gli altri. Si ritrasse lentamente da sotto i rami. Si rialzò. Era bagnato e infangato. E anche infreddolito. Tornò nel seminterrato e chiuse la porta. Frammenti di carboncino erano sparsi sul pavimento. Prese la scopa e cominciò a spazzare, gettandoli poi nel cestino. Owen aveva amato i carboncini. Gli
era piaciuto aprire una scatola nuova e scostare la carta velina, rivelando i bastoncini freschi, intatti, disposti l'uno accanto all'altro, simili a minuscole fascine di rametti. Aveva privilegiato il bianco e nero. Nick gli aveva offerto colori, pastelli, pastelli a cera, morbide matite con tutti i colori dell'arcobaleno. Ma Owen rifiutava sempre. Quello è colorare, diceva. Lo fanno le bambine. Io voglio fare dei veri disegni, come te, babbo. Quella è un'altra cosa. Si voltò verso gli scatoloni impilati contro la parete. Erano sigillati con largo nastro adesivo e legati con pezzi di grosso spago. Una specialità di Susan, impacchettare. Nick ricordava che, quando si erano trasferiti in quella casa dall'appartamento in cui avevano trascorso i primi anni di matrimonio, si era assunta il compito di impacchettare e organizzare il trasloco. «Forza, esci di qui», gli aveva detto, mentre lui osservava la pila di scatoloni vuoti al centro del loro minuscolo salotto. «Avanti. Vai a giocare a football oppure dai appuntamento ai ragazzi per bere una birra o fare qualunque cosa facciate quando io non sono nei paraggi. Tutto questo mi riesce più facile se me ne occupo da sola.» Quando lui aveva allungato le braccia, afferrandola per la vita e attirandola a sé, Susan era scoppiata a ridere e gli aveva dato qualche schiaffetto sulle mani, indicando la porta e dicendo: «Vattene, vecchio Nick». E quando lui era tornato a casa, cantando mentre varcava la soglia con passo malfermo, l'aveva trovata addormentata sul divano, il lavoro d'imballaggio completato, la loro nuova vita messa in ordine e suddivisa in categorie. All'improvviso rammentò di essersi sentito irritato anziché grato. Seccato anziché compiaciuto. Era andato in cucina, aveva aperto lo scatolone con la scritta ALCOLICI e trovato una bottiglia di whiskey che aveva versato in una tazza con il manico rotto, l'unica lasciata fuori, probabilmente per essere buttata via. Si era seduto a osservare la moglie che dormiva. E si era posto alcune domande. Poteva trascorrere il resto della vita con una donna che trasformava l'ordine in un feticcio? Lui, che lasciava cadere la cenere di sigaretta sulla camicia. L'aveva guardata muoversi e sospirare, le palpebre che tremolavano mentre sognava. E poi se n'era dispiaciuto, aveva provato amore e gratitudine per ciò che la rendeva diversa da lui, per il modo in cui si prendeva cura di lui e badava a lui e si assicurava che tenessero i piedi per terra quando l'unico desiderio di Nick era avere la testa fra le nuvole. O così diceva sempre Susan. E, finiti la sigaretta e il drink, l'aveva svegliata dolcemente, portata in camera quasi di peso,
stesa sul letto e presa tra le braccia, e aveva dormito anche lui, il profumo di sapone e di pulito della moglie l'ultima cosa di cui era stato consapevole. Adesso appurò che si era dimostrata altrettanto meticolosa con gli effetti personali di Owen. I suoi vestiti, i suoi libri, i suoi giocattoli. Quando Nick aveva lasciato la casa, la camera del figlio era intatta. Tutto era identico a com'era sempre stato. Veniva spolverata ogni settimana. Le finestre venivano lavate, la moquette pulita con l'aspirapolvere, venivano persino cambiate le lenzuola del letto. Ora, invece, ogni cosa era impacchettata in tutti quegli scatoloni con tanto di etichetta. Nick si avvicinò per leggere le scritte formate dalle nitide lettere maiuscole di Susan. E trovò quella che cercava. DIPINTI, DISEGNI, MATERIALE ARTISTICO, diceva. Estrasse lo scatolone dalla pila e lo trascinò al centro del pavimento. Raggiunse il tavolo da disegno, prese un coltellino ricurvo posato tra matite e pennelli, e lacerò il nastro adesivo, aprendo i lembi di cartone. Poi si allontanò per andare in cucina, tirando la bottiglia di whiskey fuori dalla credenza e versandosene una dose generosa nel caffè. In seguito, seduto per terra, affondò la mano nello scatolone come durante una pesca di fortuna. Afferrando fasci di fogli e album da disegno, spargendoli tutt'intorno. Inginocchiandosi per vedere cos'altro si poteva trovare. E si rese conto che c'era tutto, sin dal primo scarabocchio tracciato da un Owen ancora piccino, la matita stretta goffamente tra le dita paffute, incapace di controllare l'angolazione della punta acuminata. Il retro di ogni pezzo di carta recava una data. Opera di Susan, come lui ben sapeva. Tipico della sua mania di collezionare, archiviare. «Riordiniamo gli archivi», proponeva sempre. Al che seguiva una lista degli illeciti e delle mancanze di Nick. Lei si scostava i capelli dal viso e picchiettava l'indice della mano destra sulle dita della sinistra mentre li enumerava. E lui si stringeva nelle spalle, rideva e tentava di cambiare discorso. Ma era stato un buon padre. Non avrebbe permesso a nessuno di negarlo. La prova si trovava lì, nei lavori di Owen. Aveva dimenticato quanto fosse dotato. Alcuni di quei disegni rivelavano un talento autentico e maturo. Il bambino sapeva vedere e sapeva disegnare. Persino quando aveva solo cinque anni, i suoi disegni apparivano originali, la sua visione unica. Privilegiava i primi piani. Grandi visi riempivano le pagine. I loro lineamenti facilitavano l'identificazione. Nick vide se stesso, con gli ondulati capelli neri che avevano bisogno di essere spazzolati, le guance e il mento
che avevano bisogno di essere rasati, e una sigaretta in bocca. Vide Susan, le due linee parallele di un cipiglio tra le sopracciglia, e il telefono in mano. Vide Luke Reynolds, «il mio migliore amico al mondo», come lo definiva Owen, il viso tondo e grassoccio, in una guancia il rigonfiamento causato da un dolciume. Ed ecco Marianne. Immediatamente riconoscibile, gli occhi grandi e castani, un ampio sorriso sul volto e - Nick scoppiò in una sonora risata - una coroncina posata sulla testa scura. E c'era anche chiunque altro avesse svolto un ruolo importante nella breve vita di Owen. La sua insegnante preferita, la signorina Murphy, grandi lentiggini rosa sul naso camuso. E alcuni suoi compagni di classe, di cui ormai Nick aveva dimenticato il nome. Ed ecco Chris Goulding. Occhiali dalla massiccia montatura nera e un triangolo di peli castani sul mento. Una macchina fotografica al collo. Accanto a lui c'era Róisín o, almeno, Nick immaginò che si trattasse di lei. La figura in nero aveva lo stesso viso del presunto fratello, ma il corpo di una donna, con seno prosperoso e virino sottile. Che strano, pensò mentre si appoggiava ai talloni e riesaminava i disegni. Non aveva mai notato davvero Róisín, sicuramente non l'aveva mai vista così fino a quella sera nel club di New Orleans. Ma, chissà come, Owen l'aveva fatto e l'aveva ritratta in quel modo. Si alzò e versò dell'altro whiskey nella tazza. E sentì il piede frantumare qualcosa sul pavimento. Un altro pezzo di carboncino, che gli era sfuggito. Si chinò a raccogliere i frammenti, la punta delle dita annerita, le spirali e le creste delle sue impronte digitali che apparivano nitide mentre la sottile polvere nera vi aderiva. Raggiunse di nuovo il tavolo da disegno e posò i polpastrelli, a turno, su un foglio di carta bianca ancora intonso. Ve li premette accuratamente, ruotandoli da una parte all'altra, osservando il disegno distintivo della propria pelle che s'imprimeva sulla superficie liscia. La polizia gli aveva preso le impronte durante le indagini preliminari. Una procedura di routine, gli avevano assicurato. Avevano preso anche quelle di Susan. Lei non aveva protestato. Il rituale l'aveva resa muta e passiva. I poliziotti avevano richiesto un oggetto toccato da Owen per poter rilevare anche le sue impronte. Nick aveva consegnato loro il Game Boy del figlio. La sua superficie di plastica era l'ideale per raccogliere gli olii lasciati dalle mani. Avevano chiesto le sue cartelle dentistiche e mediche. Il numero di denti da latte rimastigli. Il numero di denti permanenti. Qualunque radiografia gli fosse stata fatta alle ossa o agli organi interni. Avevano chiesto se avesse cicatrici o segni particolari sul corpo. Nick se n'era ricordato. Il bambino era rimasto vittima di un incidente alla scuola materna, quando
aveva quasi quattro anni. Una grande casa per le bambole in legno era crollata, cadendogli sulla gamba. Benché contuso e indolenzito, Owen era sembrato perfettamente a posto. Ma in seguito, rammentò Nick, Susan aveva notato che zoppicava. Una radiografia aveva rivelato una classica frattura infantile parzialmente guarita, una curvatura più che una rottura in un giovane osso. Lui si era sentito così in colpa per non essersene accorto prima. Si trovava ancora lì quel segno sull'osso di Owen?, aveva chiesto a Susan, ottenendo un cenno d'assenso. Non c'era nient'altro. Qualche cicatrice sulle ginocchia perché era caduto dalla sua prima bicicletta. A parte questo, il suo corpo era perfetto, privo di segni. Ma lo riconoscerei, pensò Nick. Persino adesso, se lo vedessi, lo riconoscerei. Persino se il suo viso fosse irriconoscibile, so che lo riconoscerei. Grazie alla qualità della sua pelle, alla forma dei piedi, alla linea delle costole e delle scapole che gli spuntavano sulla schiena. Lo riconoscerei. «Babbo, raccontami di nuovo la storia del figlio delle stelle. Raccontami come venne trovato nella foresta, e come sua madre venne a cercarlo, ma era una mendicante ed era vestita di stracci. E lui era cattivo e dispettoso, e disse di non conoscerla. Disse che non la riconosceva, che lei non poteva essere sua madre perché era una mendicante. Così le diede le spalle e disse che avrebbe preferito baciare una vipera o un rospo piuttosto che lei. Ma raccontami cos'è successo dopo, babbo, non è stato trasformato in una creatura dispettosa e squamosa come una vipera o un rospo? E questo fu un bene, babbo, vero? Perché lui era cattivo e fu solo quando ridiventò buono che si ritrasformò in un bambino. Disegnami le figure, babbo. Metti la mia faccia sul corpo del figlio delle stelle. Ti prego, babbo, ti prego.» Erano tutti lì negli altri scatoloni. Gli schizzi, le brutte, le bozze per le illustrazioni definitive e complete del libro. Ma Nick non riuscì a costringersi a guardarli adesso. Preferì cercare consolazione in alcuni dei libri che aveva amato da bambino. La copia dell'Isola del tesoro un tempo appartenuta a suo padre, i William Books passatigli da suo zio John, I trentanove gradini che era un altro dei volumi amati nell'infanzia, e una selezione di racconti dedicati ai cavalli che sua madre aveva amato e gli aveva letto per farlo addormentare. Flicka, la cavallina di Ken, Maledizione e L'erba verde del Wyoming, tutti illustrati, tutti confortanti. Dovevano essere lì anche quelli, impacchettati, ma non riuscì a trovarli. Si sedette di nuovo sul pavimento e appoggiò la schiena al muro. E sentì
dei passi sopra la testa. Le assi di legno scricchiolarono e alcune porte si aprirono e si richiusero. Guardò verso il giardino e vide comparire Susan, che stringeva una cesta di vimini e si avvicinava lentamente al filo del bucato. La guardò prendere le lenzuola, ripiegarle ordinatamente, poi piegarle ancora e ancora. Riporle accuratamente nella cesta, i capelli che le cadevano sul viso. Nick si alzò. Raggiunse le porte a vetri e le aprì. Uscì. Lei non si voltò. Continuò a dedicarsi al proprio compito. Metodica e ordinata. Lui si avvicinò. Susan indossava un vecchio maglione Aran che si era sformato e ormai le pendeva floscio intorno ai fianchi. Nick lo riconobbe. Un tempo era stato suo. Un anno sua madre lo aveva lavorato ai ferri e gliel'aveva regalato per Natale. Susan se n'era appropriata durante la gravidanza e il maglione aveva cambiato forma insieme a lei. Adesso, mentre la moglie si piegava per poi allungarsi verso il filo, Nick riuscì ancora a distinguere il rigonfiamento e la curva lasciata dal suo ventre nella lana di un bianco sporco. Era uscito il sole e il giardino era pieno di luce. Uno stormo di cinciallegre sfrecciò verso la mangiatoia per uccelli piena di noccioline che penzolava dall'estremità di un ramo del vecchio melo, al centro del prato. Nick si fermò a guardarle, a osservare il modo in cui restavano sospese come aerei impegnati in un volo di parcheggio in un aeroporto affollato. Il modo in cui, quando ogni uccello finiva di mangiare, quello successivo prendeva prontamente il suo posto. Garbati, premurosi, ben organizzati nel loro approccio. Un giorno aveva osservato i passerotti insieme a Owen. Doveva essere successo in primavera. I piccoli erano appollaiati sui rami vicini e, sotto gli occhi dell'uomo e del bambino, i genitori offrivano loro il becco, lasciando che ne prelevassero il cibo. Ma la primavera era molto lontana, pensò, mentre una grossa nube grigia cancellava la luminosità e il giardino ripiombava nella penombra. «Susan», disse. Non ricevette una risposta immediata. Lei continuò a piegare i panni. «Susan», ripeté. Nemmeno stavolta la moglie mostrò di averlo sentito. «Susan, ti prego, vorrei parlarti.» «Oh, davvero? E di cosa, esattamente?» Lei non voltò la testa. «Senti, non è facile tornare qui così, dopo essere rimasto lontano tanto a lungo, sai. Non è per niente facile. Mi sento molto strano e spaesato.» «Sul serio? Be', in tal caso perché non torni là da dove sei venuto? Nessuno ti ha chiesto di tornare a casa. Nessuno ti voleva.» Si voltò a guardarlo, poi raccolse la cesta e cominciò a dirigersi verso l'abitazione. Sembrava
esausta. Aveva profonde borse scure sotto gli occhi e le spalle curve. «Aspetta.» Nick la raggiunse. «Lascia che ti aiuti.» Fece per prendere la cesta, ma Susan si scostò dalla sua strada. «Senti un po'.» Lei usò un tono di voce imperioso. «Non mi sono spiegata? Non voglio fare nessuna chiacchieratina intima con te. Nessuna rievocazione del passato. Voglio semplicemente essere lasciata in pace per poter proseguire la mia vita. Nello stesso modo in cui tu hai proseguito la tua.» Posò la cesta sul terreno, in mezzo a loro, e si raddrizzò. Il suo sguardo era freddo e diretto. «Sai, mi lasci davvero di stucco. Mi scrivi una lettera. Mi dici che vuoi tornare. E perché? Qualche assurdità a proposito di un anniversario. Qualche sciocchezza a proposito dell'incontro con Róisín Goulding in un bar. Qualche allusione a ciò che lei stava combinando là. Come se m'interessasse, Nick. Come se mi fregasse qualcosa di quello che stavi facendo allora o stai facendo adesso. Ti trovi laggiù nel seminterrato come se non te ne fossi mai andato. E per quale motivo? Vuoi dirmelo? Sguazzando nell'autocommiserazione, senza dubbio. Autoflagellandoti per quanto è successo. Assecondando la tua grottesca sopravvalutazione della tua importanza. È così, vero?» Lui non rispose. Le cinciallegre stavano strillando fragorosamente. Un gatto stava attraversando furtivamente il prato, diretto verso il melo. Teneva il corpo appiattito, rasente il terreno, la coda che oscillava da una parte all'altra. Nella voce di Susan c'era qualcosa che a Nick fece rizzare la peluria dietro il collo. All'improvviso si sentì profondamente consapevole delle finestre affacciate sul giardino. Alzò gli occhi. Vide qualcuno in piedi nella camera al piano di sopra. «Oh», disse, «si tratta di questo, vero? L'amichetto comincia a seccarsi.» Mosse la testa verso l'alto, di scatto. «Geloso, giusto?» Lei trattenne bruscamente il fiato. «Bastardo», rispose, livida in volto. «Come osi? Tu non conosci il significato della parola 'geloso'. Non hai la minima idea di ciò che mi hai fatto, vero? Sai una cosa, Nick? Non so perché ti ho detto che potevi tornare qui. Dovevo essere impazzita. Ma da tutto questo è scaturito qualcosa di positivo. Adesso so che voglio il divorzio. Per qualche strano motivo, prima non lo sapevo. Quando eri via e non ti vedevo da così tanto tempo, era tutto più facile. Probabilmente pensavo che tu avessi smesso di esistere. Un po' come Owen. Ti credevo svanito nel nulla. Ma purtroppo non sei sparito, vero? Sei vivo e vegeto, e il solito stronzo di sempre. E ora che ti vedo chiaramente per quello che sei, voglio farla finita per sempre. Sai, Nick, vorrei non averti mai conosciuto. Vorrei
non averti mai sposato. E, soprattutto, vorrei non avere mai avuto un figlio con te. Perché, in tal caso, non soffrirei così.» Lui si sentì infreddolito, nauseato, il gusto del whiskey acre in bocca. Si avvicinò nuovamente a Susan. «Non dici sul serio, lo so. Non è vero che preferiresti non avere avuto Owen insieme a me. Non dici sul serio, giusto?» «Sì, invece. Se non avessi sposato te, avrei sposato un uomo con un minimo di decenza, che non mi avrebbe tradito come hai fatto tu. Avrei avuto un figlio con un uomo che avrebbe messo il bambino al primo posto, non all'ultimo, come hai fatto tu. E non mi sarebbe successo nulla di tutto ciò.» La porta della cucina si aprì. Nick alzò gli occhi. Paul era fermo in cima ai gradini. «Dico sul serio, Nick. Stammi lontano. Non voglio avere niente a che fare con te. Pensavo di poter gestire il fatto di rivederti. Pensavo che ci fosse abbastanza tessuto cicatriziale per proteggermi dal dolore. Invece non c'è. La ferita è ancora aperta. La carne è ancora ipersensibile. Fa ancora decisamente troppo male. E non riesco a sopportarlo.» Lui aprì la bocca per parlare, ma non disse nulla. Lei si voltò, raccolse la cesta. I suoi passi risuonarono sui gradini di legno. La porta sbatté alle sue spalle. Il gatto si lanciò in avanti, gli artigli che affondavano nella ruvida corteccia del tronco dell'albero. Gli uccelli spiccarono il volo. Strillarono ed espressero il proprio malcontento con una serie di suoni secchi, descrivendo un cerchio prima di radunarsi sui rami più alti. Nick alzò gli occhi verso il cielo. Le nuvole erano stratificate, un enorme ammasso dietro l'altro. La luce rendeva argentei i loro bordi. Piccole chiazze di azzurro scuro facevano capolino tra le nubi, poi anch'esse svanirono, mentre il grigiore diventava totale. Lui sollevò lo sguardo verso le finestre. Erano scure, quasi opache. Spostò lo sguardo sulla casa accanto. E rivide il volto del bambino. Gli sorrise, poi fece una smorfia fingendosi strabico e mostrando la lingua. Il piccolo ricambiò l'occhiata, poi si chinò verso il vetro e alitò. E disegnò. Due occhi, un cerchiolino per il naso e l'arco di una bocca sorridente. Nick alzò la mano in un saluto, poi si voltò e tornò in casa. 13 Il libro si trovava dov'era sempre stato. Sull'ampio scaffale. Quello che un tempo aveva ospitato tutti i libri per bambini di Nick. Dopo che lui se n'era andato, Susan li aveva regalati. Solo Il figlio delle stelle aveva avuto
il permesso di restare. Adesso era circondato da riviste e testi medici. Testi che, quando ancora Owen si aggirava per casa, venivano tenuti nascosti, invisibili a occhi curiosi, irraggiungibili per dita curiose. Dipendeva dalle illustrazioni e dalle fotografie. Lei le trovava affascinanti, interessanti, addirittura belle, ma Nick aveva insistito. «Mi spaventano a morte. Dio solo sa che effetto potrebbero avere su un bambino.» Susan lo aveva contraddetto, aveva ribadito che non erano più inquietanti della collezione di Nick di fiabe di Hans Christian Andersen e dei fratelli Grimm. O della sua edizione dai colori brillanti di Pierino Porcospino, il sangue che sgorgava dai moncherini delle dita del bambino con i capelli ribelli, amputate dalle enormi forbici posate sul pavimento, le lame rosse e scintillanti. Ma il punto di vista di Nick aveva prevalso, come succedeva così spesso quando si trattava di Owen. Susan era ferma accanto alla finestra del salotto, il libro tra le mani. Lo sfogliò lentamente. Il viso di Owen da piccolo la fissò dal basso. Avvolto in una cappa di tessuto dorato decorato di stelle. Un raggio di luce lunare spuntò dalle basse nubi e le colpì le mani, intiepidendole. Lei alzò gli occhi. Due ragazzi stavano trascinando una carriola attraverso la piazza. Era piena di legna, scarti della ditta di materiali edili situata due strade più su. Li osservò mentre la lanciavano sopra la catasta. Stavano ridendo e gridando, facendo i pagliacci intanto che lavoravano. Sotto di sé sentì chiudersi la porta del seminterrato. Guardò fuori, in basso, e vide la sommità della testa scura di Nick, intento a percorrere il sentiero che portava alla strada. Lui si fermò per un attimo, giocherellando con le chiavi, controllando le tasche della giacca di pelle. Lei indietreggiò nell'ombra della stanza. Nick non alzò gli occhi. Susan chiuse il volume e raggiunse gli scaffali. Quando guardò di nuovo fuori, lui era scomparso. Nick aveva impiegato più del previsto per rintracciare Luke Reynolds. La sua famiglia non abitava più nell'ultima casa della piazza. In realtà, non era più una famiglia nel senso in cui lo era stata dieci anni prima. I genitori di Luke si erano separati e avevano da poco divorziato. La madre, Bridget, si era risposata e si era trasferita a Londra con il nuovo marito, il figlio di quest'ultimo e la figlia avuta dal primo marito, la sorella di Luke. Lui frequentava il secondo anno di università e aveva scelto di rimanere a Dublino con il padre e la fidanzata di questi, in un appartamento di Temple Bar. Nick si era ricordato che entrambi i Reynolds erano avvocati. Avevano
lavorato insieme: lui era specializzato in trasferimenti di proprietà e casi di lesioni personali; lei si occupava di diritto di famiglia, accordi di separazione quando il divorzio non era ancora stato legalizzato, richieste di custodia e prescrizioni, tutto il caotico e doloroso bagaglio che fa parte del gioco. Nick aveva cercato i loro nomi sull'elenco telefonico, ma solo dopo aver chiamato l'ordine degli avvocati scoprì che avevano smesso di praticare congiuntamente e che adesso Pat Reynolds lavorava presso uno dei maggiori studi legali della città. In realtà, era uno dei soci. «Faccio soldi a palate», ammise l'uomo quando Nick riuscì finalmente a mettersi in contatto telefonico con lui. Mai stato meglio. Avrebbe dovuto fare quel cambiamento anni prima. Nick non sapeva bene a quale dei cambiamenti della sua vita si riferisse. Lo scoprì quando uscì dall'ascensore ritrovandosi nell'atrio dell'attico di Pat. Il pavimento di legno d'acero raggiungeva la parete di vetrate che offriva un'ininterrotta visuale del fiume fino ai dock e al mare retrostante. Sdraiata scompostamente su un divano di pelle bianca, con un bicchiere in mano, c'era una donna o, meglio, una ragazza, tutta capelli biondi arruffati e vita nuda, che alzò a malapena gli occhi dal televisore a schermo panoramico collocato nell'angolo. Nick ricordava la Bridget di tanti anni prima. Non l'aveva mai vista con la pancia nuda. E lei non guardava mai MTV. «Jan, ti presento Nick, un mio vecchissimo amico. Nick, questa è Jan, la mia nuova compagna.» Pat s'illuminò di autocompiacimento mentre gli offriva una sedia e un drink. La fanciulla si mise bocconi e cambiò canale. Non c'era traccia di Luke. «Oh, è qui in casa.» Pat indicò la scala a chiocciola che saliva fino all'ammezzato. «Be', a dire il vero è lassù. Inchiodato davanti al computer. Se non sono giochini, è il dannato Internet. Ormai non riesco a capire una sola parola di quello che dice. Un linguaggio totalmente diverso. Jan capisce Luke meglio di me.» Nick resistette all'impulso di commentare la dichiarazione. «E sua madre come sta?» chiese. Un'atmosfera tetra allungò la sua mano morta nella stanza. «Gesù, non nominare quella carogna. Mi ha spremuto fino all'ultimo penny. Ha smesso di lavorare. Ha insistito per farsi mantenere. Ha ottenuto la casa, la macchina, il conto in banca. Anche i ragazzi. Poi ottiene il divorzio e, bang, si mette con questo nuovo tizio, si sposa, se la svigna a Londra e mi lascia sulle spalle il fardello di Luke. Dopo essersi assicurata
per anni che non avessimo quasi nessun contatto.» S'interruppe per lanciare un'occhiata colpevole verso Nick mentre beveva un lungo sorso dal bicchiere. «Senti, non fraintendermi. Gli voglio bene, davvero. Il guaio è che non lo conosco. Tutti quei sabato pomeriggio passati a mangiare pizza e a vedere qualunque stupido film per ragazzi venisse proiettato al Savoy non ti preparano esattamente a un valido rapporto padre-figlio. Ci provo.» Alzò le mani verso il soffitto in un gesto teatrale. «Faccio del mio meglio, vero, tesoro?» Non giunse la benché minima risposta verbale da parte di Jan, che rotolò su un fianco e cambiò nuovamente canale. «Ma sai com'è. Cristo, gli adolescenti non ti rendono certo la vita facile, giusto? Voglio dire che quando sua madre se l'è filata a Londra, ho pensato che forse Luke sarebbe potuto restare ad abitare nella piazza, magari con uno dei suoi amici. Invece non ha voluto. Ha insistito per venire a stare con me, con noi. E adesso, be'...» Il silenzio imbarazzato che seguì le sue parole venne infranto solo quando Pat si alzò faticosamente per lanciare un grido in direzione della scala. Lo sguardo di Nick si spostò sul panorama. Torrenti di luce solcavano il fiume, verso nord e verso sud, e scorrevano in una linea continua lungo i moli. E, sopra la città, i contorni illuminati delle gru spiccavano come precoci decorazioni natalizie. «Luke.» La voce di Pat suonava sempre più disperata. «Porta subito giù le chiappe. C'è qualcuno che vuole vederti.» «Ascolta», disse Nick, alzandosi parzialmente. «Non voglio causare problemi. Forse dovrei tornare un'altra volta.» «Niente affatto, resta dove sei. Vado a stanarlo. È sempre la stessa storia. Non appena torna a casa dal college, sale le scale e si chiude in camera. Non capisco quale sia il suo problema.» Nick ascoltò il suono del pugno di Pat che picchiava su una porta chiusa, poi il mormorio di due voci. Jan si sdraiò supina e incrociò le braccia dietro la testa. «Ha nostalgia di casa, ecco qual è il problema. Sente la mancanza della madre. Chi può biasimarlo?» Nick la guardò, stupito dalla dolcezza del suo tono. «Pat ci prova, ma non sa nemmeno da che parte cominciare. E il ragazzo mi odia. Anche in questo caso non posso biasimarlo. Non si può negare che l'intera situazione sia un gran casino.» «Che cosa è un casino, eh? Di cosa ti stai lamentando, tesoro mio?» Pat
scese rumorosamente la scala, ma il suo tono era gioviale. «Dovresti vedere il caos nella camera di Luke. Non saprei, ragazzi, sembra che stia inscenando una protesta con l'immondizia.» Si voltò per gesticolare verso il figlio, che lo seguiva senza fretta. «Ehi, guarda chi è venuto a trovarti, Luke. Ricordi il signor Cassidy, Nick, di Victoria Square? Te lo ricordi?» Il ragazzo non aprì bocca. Rimase in piedi a fissare il pavimento, l'aria imbronciata, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni sformati. Pat allungò le mani e prese quelle della ragazza, tirandola in piedi. «Ehi, andiamo, pulcina, usciamo e lasciamo questi due vecchi amici a rievocare il passato. Berrei volentieri una birra.» Cominciò a spingerla verso le porte dell'ascensore, un palmo posato sulle reni di Jan. «Nicky, amico mio, serviti pure dal frigo e non lasciarti prendere in giro da mio figlio. È tutto tuo.» Le porte si richiusero dietro di loro. L'audio del televisore risuonò improvvisamente assordante. Nick si alzò e afferrò il telecomando. Premette il pulsante che azzerava il volume. «Ecco, così va meglio», disse, mentre si sedeva sul divano su cui poco prima aveva visto adagiata pigramente Jan. Sollevò lo sguardo verso Luke che era ancora in piedi, gli occhi fissi su un grosso nodo nel liscio e scintillante legno d'acero. «Come stai, Luke? Mi fa piacere ritrovarti dopo tanti anni. Mi fa piacere vedere che ti sei trasformato in un giovanotto così attraente. Perché non vieni a sederti accanto a me? Ci sono un paio di cose che vorrei chiederti. Niente di difficile, niente di complicato. Voglio semplicemente parlare con te di Owen, di quel giorno. Non ti dispiace, vero? Sono sicuro di no.» Cosa ricordava del bambino di un tempo? Ricordava che aveva un anno e mezzo più di Owen, all'epoca, quasi dieci anni. Che era paffuto e grassoccio. Che aveva capelli di un biondo ramato, apparentemente tagliati con l'aiuto di una scodella. Che gli piaceva raccogliersi la saliva in bocca e poi lasciarla colare fuori, in modo che creasse sul pavimento chiazze schiumose simili a sputi di cuculo. Che era maleducato e insolente, rubava denaro dalla borsetta della madre e cercava di convincere Owen a fare altrettanto con il portafoglio di Nick. E che Owen lo adorava, trovava spassosa la sua cattiveria e voleva essere come lui. Adesso la sua paffutaggine si era trasformata in muscoli. I bicipiti gonfiavano le maniche della maglietta. Le gambe sembravano dure come marmo e, benché tenesse le spalle curve, non si poteva negare che fosse piuttosto alto. Ben più di un metro e ottanta, valutò Nick. Ha preso dalla
famiglia della madre. Anche lei era alta. E molto robusta. Non propriamente grassa, ma forte e massiccia. Il taglio di capelli fatto con la scodella era scomparso, sostituito adesso da una coda di cavallo, tuttora di un biondo ramato, e una corta e ispida barba rossiccia faceva scintillare mascella e collo. Quindi è così che cambiano, pensò Nick mentre i suoi occhi si spostavano verso i piedi del ragazzo, infilati in scarpe da ginnastica che apparentemente solo un gigante avrebbe potuto calzare. «Hai le stringhe slacciate», sottolineò. «Rischi d'inciampare, se non stai attento.» Riportò lo sguardo sul viso di Luke e notò l'espressione di palese disprezzo che aveva sostituito l'indifferenza. «Già, certo, come no.» Dalla bocca del ragazzo uscirono grugniti più che parole, mentre lui girava la testa verso il televisore. Nel muoversi, i tendini del collo si tesero e il suo corpo emanò un afrore lievemente speziato. Nick si appoggiò allo schienale del divano. Non disse nulla. Rimase in attesa. Luke spostò il peso del corpo da un piede all'altro. Nick distolse lo sguardo e poi lo riportò su di lui. «Ti voleva bene, sai, Luke? Ti ammirava. Voleva essere come te. Lo sapevi?» Non ci fu risposta. Il ragazzo prese il telecomando e premette il pulsante del volume. Il suono uscì impetuoso dagli amplificatori, passando dal chiacchiericcio alla musica, alle raffiche di spari, allo stridore di pneumatici d'auto in corsa, al boato del pubblico di una partita di football, mentre lui cambiava ripetutamente canale. Immagini e rumore colmarono il vuoto, tanto che non rimase spazio per nient'altro. Nessuno spazio per l'emozione, per il dolore, per il rimpianto, per tutto ciò che accompagnava le lacrime che Nick vide sgorgare a poco a poco dagli occhi di Luke, colargli lungo le guance per poi cadere sul pavimento ai suoi piedi. Era Halloween. Da settimane ormai tutti aspettavano il momento dell'accensione del falò nella piazza. Sarebbe successo più tardi. Prima, verso sera, loro due avrebbero fatto il giro delle case chiedendo: «Dolcetto o scherzetto?» Chiunque, sulla piazza, sapeva che Owen era la volpe e Luke il cavallo. Tutti volevano bene a Owen, precisò Luke, era il beniamino di tutti. Quindi, vedendo arrivare la volpe e il cavallo, si sarebbero preparati a donare un sacco di dolci e persino qualche soldo. Ma questo sarebbe dovuto succedere più tardi, molto più tardi. In realtà non successe mai. Era semplicemente il modo in cui sarebbero dovute andare le cose.
«Allora cosa successe? Cosa successe quel giorno? Dimmelo. Sei stato l'ultima persona a vederlo. L'ultima di cui siamo a conoscenza, almeno. Devi spiegarmi cosa accadde.» «Senta, gliel'ho già detto. Ho raccontato tutto ai poliziotti, all'epoca. L'ho raccontato ai miei genitori. L'ho raccontato a chiunque me l'abbia chiesto. Non voglio parlarne più.» Dopo le lacrime, versate e asciugate, i due lasciarono l'appartamento e passeggiarono. Attraversarono il fiume e percorsero O'Connell Street. Entrarono da McDonald's. Nick osservò Luke che mangiava. Un Big Mac con formaggio, due porzioni di patatine fritte, un frullato alla fragola e un dolcetto alle mele. Lui prese un caffè, acquoso, amaro e decisamente troppo caldo. Nel deglutire, sentì la pelle staccarglisi dal palato. Osservò il modo in cui il ragazzo divorava avidamente il cibo, stremato dopo le lacrime, riempiendosi saltuariamente i polmoni d'aria, le ampie spalle che tremavano come quelle di un bambino. Ripresero a camminare, addentrandosi ulteriormente in O'Connell Street. La via era affollata, brulicante d'attività. I pedoni li urtavano. Donne rumene con bimbi piccolissimi avvolti nello scialle assicurato sulla schiena chiedevano la carità agli angoli di strada, e uomini dal volto scuro gremivano gli androni dei negozi, le loro parole brandelli di lingue che Nick non aveva mai sentito prima. Sul basamento che un tempo reggeva la colonna di Nelson c'era la figura tanto familiare: la donna che cantava inni alla Santa Vergine, il viso trasfigurato dalla gioia. Si fermarono a guardarla e lei allargò le braccia e li incluse nelle sue richieste di misericordia e grazia. «Mio padre pensa che dovrebbero rinchiuderla», dichiarò Luke, mentre s'infilavano tra il traffico. «Dice che è il relitto di un'epoca ormai passata.» «E tu cosa pensi?» Luke si strinse nelle spalle. «Penso che se Fellini stesse girando dei film irlandesi, lei sarebbe una delle sue star.» Nick sorrise e gli diede una leggera spinta sulla schiena, intanto che un autobus sbandava per evitarli. «Ehi, Luke, immagino che ormai tu sia abbastanza vecchio per bere alcolici, vero?» Il ragazzo sogghignò. «Okay.» Nick lo prese per un braccio e svoltò con lui a destra, in Parnell Street. «Non sono più venuto qui da quando ho terminato gli studi. Era il locale preferito da me e dalla madre di Owen. Era economico e misericordiosamente privo di altri studenti.» Tenne aperta la porta del pub Blue
Lion. «Purché tu sia sicuro che nessuno mi accuserà di portarti sulla cattiva strada.» Il modo in cui Luke scolò metà della sua pinta in un unico sorso gli dimostrò chiaramente che non avrebbe avuto di che preoccuparsi. Aspettò di avere ordinato il bis e che il barman posasse i boccali davanti a loro, poi ricominciò. «Allora, dimmi. Che cosa successe?» «Devo proprio? Non ho forse raccontato a lei e a chiunque altro qualunque cosa riesca a ricordare? È accaduto dieci anni fa. Ero solo un bambino.» Nick lo guardò. «Un bambino molto sveglio, mi sembra di rammentare. Un bambino che combinava birichinate e guai di ogni genere. Un bambino fermamente deciso a riscrivere le regole del comportamento infantile, giusto?» «Eppure non le ero simpatico, vero?» Le grosse dita di Luke tamburellarono sul tavolo. «Ricordo che assumeva sempre un'aria di palese disapprovazione ogni volta che mi trovavo nei paraggi. Non era il solo, tutti si comportavano così con me. Invece adoravano Owen. Era il loro beniamino. Questo mi nauseava.» «Sul serio?» «Già.» Luke bevve di nuovo. «A scuola era il cocco della maestra. Gli assegnavano sempre incarichi speciali, incombenze che lo portavano fuori dall'aula. Recapitare messaggi al capo del collegio docenti, andare nel magazzino a prendere vari oggetti, materiale artistico e roba simile. Cosine stupide.» «A quanto pare, era un'autentica spina nel fianco.» «Per niente. A darmi sui nervi erano tutti gli altri e quello che pensavano di lui. Mia madre non faceva che lamentarsi, assillarmi e tormentarmi.» Il suo tono di voce si alzò e i suoi lineamenti assunsero un'espressione tirata mentre imitava la donna. «Perché non somigli di più a Owen Cassidy? Perché i tuoi compiti non sono lindi e ordinati come quelli di Owen Cassidy? Perché non dici 'per favore' e 'grazie', come fa Owen Cassidy? E io desideravo che qualcuno facesse schioccare le dita e che il fottuto Owen Cassidy scomparisse in una nuvoletta di fumo.» Il suo viso avvampò, pervaso da un rossore improvviso. «Scusi, scusi, non volevo. Davvero, non so come mai ho detto una cosa del genere.» «È tutto a posto, Luke.» Nick gli sorrise. «Non è vero. Non era colpa di Owen. Avrei potuto essere un amico mi-
gliore, per lui. Quel giorno non lo sono stato.» Nel bar regnava il silenzio. Il televisore era sintonizzato su un notiziario, con il volume al minimo. Alcuni uomini in abito scuro erano seduti in semicerchio, obliquamente rispetto a una donna con lisci capelli biondi e occhi di un azzurro brillante. Nick osservò i visi, mentre le inquadrature passavano dal campo lungo al primo piano. Cercò eventuali segni di tensione rivelatori. Il contrarsi della mascella, il serrarsi delle labbra, la mano difensiva dietro il collo. «Racconta», disse. Estrasse una matita dalla tasca e cominciò a scarabocchiare sul sottobicchiere. Ascoltò. Aveva cominciato a piovere mentre loro si trovavano nel pub. Adesso le strade erano deserte e una fredda umidità era calata su Dublino. Nick riaccompagnò Luke a Temple Bar e aspettò finché non lo vide chiudersi alle spalle la massiccia porta dell'edificio. Poi si voltò, rialzò il bavero della giacca di pelle accostandoselo al viso e affondò le mani in tasca. Si guardò intorno. Erano cambiate così tante cose durante gli anni in cui era rimasto lontano. Ovunque c'erano nuovi bar e ristoranti, e persone che si riversavano sulla strada con una gaiezza sfrenata, alimentata dal contenuto dei bicchieri che stringevano fra le mani. Si sentì solo e smarrito. E fuori posto. Sapeva però che, sotto la superficiale lucentezza, sotto la sfavillante nuova prosperità, quella era la città che aveva sempre amato, per lui familiare come le rughe sul suo stesso viso. In proposito lui e Susan avevano provato la stessa sensazione, quando ancora studiavano. Avevano camminato per le strade, tenendosi per mano, immersi nella conversazione. Il loro corteggiamento era stato una faccenda pubblica; si era svolto in pub e vicoli, nelle trascurate piazze cittadine e nelle zone portuali depresse. Avevano condiviso monolocali angusti e appartamenti malconci in case dallo stile georgiano con un impianto idraulico rudimentale e prive di riscaldamento. E di notte erano rimasti sdraiati, avvinghiati, ascoltando il lamento delle ambulanze e delle autopattuglie, le grida, le imprecazioni e la risata folle degli ubriachi, al sicuro nel bozzolo di quei sentimenti condivisi. Si rese conto che l'ospedale in cui Susan lavorava da parecchi anni si trovava poco lontano da lì. Sarebbe andato a trovarla, come faceva sempre un tempo. Sarebbe passato a prendere un tè con le infermiere del turno di notte, avrebbe aspettato che lei fosse pronta per tornare a casa. Le avrebbe
portato la ventiquattrore e permesso di appoggiare il corpo stanco al suo. Proprio come faceva sempre lei, prima. Così tanti anni prima. Quando la vita era colma di speranza e meraviglia. Percorse rapidamente le anguste stradine e i vicoletti secondari, i piedi che scivolavano sui ciottoli levigati dall'uso. Stephen's Green era immerso nel silenzio, gli alberi lungo il perimetro della piazza forme scure e affusolate, gli ampi marciapiedi deserti. Si tuffò in mezzo al traffico e cominciò a correre verso l'insegna luminosa che sormontava il portico di pietra e l'angelo scolpito nel marmo che allargava le ali sopra la strada sottostante. Si fermò, riprendendo fiato, e alzò gli occhi verso le file di finestre illuminate. L'edificio non era cambiato, contrariamente a una così gran parte della città. L'ospedale era ancora ubicato nelle fatiscenti e ristrutturate case in stile georgiano donate da un benefattore alla fine del secolo precedente. Spinse le porte a vento. Il portiere dietro la scrivania di mogano lucido sollevò lo sguardo dal giornale della sera. «Guarda un po' chi c'è.» Il suo sorriso fu immediato e cordiale. «Come sta? Sono secoli che non ci vediamo.» Si sporse, la mano protesa, il palmo tiepido e amichevole. «Sta cercando la signora? È su, nel reparto Purefoy. Ricorda la strada? Certo che la ricorda, certo, qui non è cambiato niente, niente di niente, nemmeno io.» Su quello aveva ragione. Nick salì i gradini due alla volta. Le pareti erano ancora color fungo e il linoleum sul pavimento appariva pieno di crepe e macchie. E l'odore, naturalmente, nulla poteva modificarlo. Disinfettante e sostanze chimiche, con giusto un pizzico di paura che andò a incunearsi nella sezione posteriore del naso. Sul primo pianerottolo spiccava una grossa statua della Vergine Maria. Un lumino rosso riluceva ai suoi piedi e un'aureola di stelle le brillava intorno alla testa. Accanto a lei, su una dura panca di legno, sedevano due giovani, vicinissimi. Avevano il viso tirato ed esausto. La ragazza stringeva un voluminoso orsacchiotto, premendoselo contro lo stomaco e canticchiando mentre si dondolava avanti e indietro. Il ragazzo le fece posare la testa sulla propria spalla e le baciò la guancia, una mano che le carezzava i capelli, l'altra che giocherellava con un pacchetto di sigarette. Nick si fermò a guardarli. Poi si voltò e si allontanò, le scarpe che stridevano sul pavimento lucido, mentre percorreva il lungo corridoio che terminava con delle porte a vetri. Adesso in quel posto regnava una quiete totale. Durante il giorno era un luogo brulicante d'attività e pieno di rumore. Bambini ovunque, dentro e
fuori dai rispettivi letti e culle. Pargoletti di due-tre anni nei box, bambini più grandi che passeggiavano su e giù, tirandosi dietro le fleboclisi appese a sostegni su rotelle. Persino i più malati sembravano avere l'energia per parlare o giocare. Riuscivano sempre a sbalordirlo con il modo in cui affrontavano la sofferenza e la paura. «Sono estremamente sinceri con se stessi, e anche noi siamo molto sinceri con loro e con i genitori», gli aveva spiegato Susan. «Riescono ad affrontare la consapevolezza molto meglio dell'ignoranza. Potremmo tutti imparare molto da questi bambini.» Ma adesso tutti i reparti erano immersi nella penombra. Una lampadina schermata proiettava un bagliore azzurrognolo sui piccoli pazienti addormentati e sui genitori, sdraiati accanto a loro sulle brandine. In fondo al corridoio una massiccia porta a doppio battente gli sbarrò la strada. Provò ad abbassare le maniglie, ma era chiusa a chiave. Si avvicinò ulteriormente e premette il bordo delle mani sul freddo vetro delle grandi finestre quadrate inserite in ogni battente. Si riparò gli occhi e guardò dentro. Susan era in piedi accanto a un alto letto di metallo. Indossava un camice verde, i capelli infilati in una cuffietta da sala operatoria, una mascherina sul viso. Era piegata in avanti per controllare il liquido che colava dalla sacca appesa a un trespolo metallico. Il denso liquido rosso scendeva, goccia dopo goccia, lungo un tubicino trasparente. Era midollo spinale. Nick lo sapeva. Un bambino era raggomitolato su un fianco. Difficile dire se fosse maschio o femmina, con il cranio calvo e lucido, la pelle più bianca del lenzuolo che copriva l'esile corpicino. Susan accostò una sedia al letto e vi prese posto. Abbassò il camice verde del bambino, rivelando il tubo infilato nel torace. Il piccolo aprì gli occhi e allungò una mano verso di lei. Susan raccolse la bambolina di plastica caduta sul pavimento. I capelli della Barbie erano stopposi, biondi e folti. La bambina la tenne sollevata, poi la baciò e la sistemò sul cuscino accanto alla propria testa calva. Susan rimase ferma. Le posò la mano sulla fronte. Nick riuscì a distinguere il movimento delle sue labbra dietro la mascherina, ma non sentì alcun suono attraversare la massiccia porta a vetri. La stanza era sommariamente ammobiliata, con ben poche tracce dell'armamentario tipico degli altri reparti. Era sterile. Doveva esserlo per forza. Lui sapeva che cosa aveva già passato la bambina. Il suo corpo era stato bombardato di radiazioni che le avevano distrutto il midollo spinale, lasciandola priva di difese, il sistema immunitario eliminato. Il denso liquido viscoso nella sacca rappresentava il rimpiazzo. La bambina, la sua famiglia, i medici e le infermiere avrebbero aspettato, trat-
tenuto il respiro per i sette giorni seguenti. Lei sarebbe rimasta in isolamento. Finché, grazie a tutto quanto la medicina moderna poteva fare per lei e a un po' di fortuna, il suo corpo non avesse cominciato a duplicare nel suo organismo il nuovo e incontaminato midollo spinale. «A volte funziona, a volte no, spesso non sappiamo come mai», aveva cercato di spiegare Susan. «E sovente non possiamo fare altro che guardarli mentre si spengono lentamente.» Lui si ritrasse dalla porta. Il suo riflesso gli si stagliava di fronte e, dietro, la figura di Susan si alzò, afferrò un blocco a molla e cominciò a prendere appunti su un diagramma. Il suo corpo, dai contorni indistinti perché fasciato dalla tenuta ospedaliera, entrava e usciva dal campo visivo di Nick. Lei cominciò a dirigersi verso di lui, che indietreggiò varcando un'altra porta, improvvisamente deciso a non farsi vedere. Alla sua sinistra c'era un cucinino e sul muro un tabellone coperto di fotografie. ULTIMO LUNEDÌ D'AGOSTO DEL 2000, L'ANNO DEL MILLENNIUM, diceva il titolo in lettere maiuscole. Un picnic, una gita di tipo imprecisato. Bambini in abiti estivi seduti su plaid e intenti a mangiare hamburger e salsicce. Un barbecue, una fila di adulti schierati dietro di esso, il fumo che celava i loro visi. Gruppetti di infermiere in uniforme e un altro gruppo, forse di medici perché includeva Susan che rideva, il braccio che cingeva una ragazza il cui volto gli parve tutt'a un tratto familiare. Occhi castani, con folte ciglia nere. Una bocca larga con il labbro superiore profondamente incavato. Capelli scuri così corti da lasciar intravedere il biancore dello scalpo. Ma lei, unica tra tutti i presenti, non stava sorridendo. La sua espressione appariva triste, meditabonda. Gli occhi velati. Nick ricordava quando l'aveva conosciuta. Era stata ricoverata in quell'ospedale. Aveva affrontato quello che la bambina nell'unità di isolamento stava passando. Ed era stata fortunata. Era sopravvissuta. Il midollo spinale del fratello le aveva salvato la vita, offerto una seconda possibilità. E, a diciotto anni, si era trasferita da loro. «Faremmo un enorme favore ai suoi genitori», aveva precisato Susan. «Non vogliono che venga a Dublino e rimanga da sola. Preferiscono che abbia degli amici, un posto sicuro in cui vivere. E pensaci, Nicky, per te sarà magnifico. Potrai ritagliarti un po' di tempo tutto per te. Lei sarà a disposizione di Owen ogni pomeriggio. Potrai combinare marachelle di ogni genere, giusto?» E benché lui avesse protestato dicendo di non desiderare un'altra persona lì in casa, di non avere bisogno di aiuto, di gradire la situazione così com'e-
ra, Susan aveva vinto le sue resistenze. Così lui si era ritrovato a tinteggiare il ripostiglio in cima alle scale, montando scaffali, collocandovi un letto e un armadio. Trovandole addirittura un televisore portatile e una radio con lettore CD incorporato. Facendola sentire la benvenuta. Notando il modo in cui lei si era inserita nella loro vita come se ne avesse sempre fatto parte. Così, sei mesi dopo, ogni mattina rimaneva a letto e, attraverso l'annebbiamento del dormiveglia, sentiva i passi della ragazza sulle scale, la sua voce che esortava Owen a infilarsi il cappotto, cercare la cartella e le scarpe da football. E, alzandosi, trovava la cucina pulitissima e in perfetto ordine, una pagnotta di pane integrale appena sfornato che si raffreddava sul tavolo; e sapeva che nel tardo pomeriggio, salendo dal suo studio, avrebbe trovato la cena nel forno, Owen che aveva finito i compiti, il fuoco acceso in salotto e una bottiglia di vino aperta con accanto il suo bicchiere. «Visto? Non avevo forse ragione su di lei?» gli aveva chiesto Susan quell'estate, mentre sedevano in giardino e osservavano Marianne e Owen sdraiati su un plaid, le teste accostate intanto che lei gli leggeva un libro. Nick allungò una mano e staccò la fotografia dal pannello. L'aveva incolpata di quanto era successo. E lei aveva incolpato lui. Avevano litigato furiosamente. Davanti a Susan. Ognuno straziato dal proprio senso di colpa. Ognuno disperatamente ansioso di liberarsene, in qualsiasi modo. E lui ricordava cosa aveva detto Susan. «Pensavo si trattasse di te, Marianne, che fosse innamorato di te. Pensavo che fosse con te che stava andando a letto. Non volevo crederci. Non pensavo che tu potessi essere così crudele. Eppure mi dispiace ammettere che pensavo fossi tu. E sono così felice... l'unica cosa positiva scaturita da tutto questo è che non si trattava di te.» Non era stato Nick a essere innamorato di Marianne. Era stato Owen. Ecco cosa gli aveva raccontato Luke nel pub. «Era amore, non infatuazione o una cotta o come lo si voglia chiamare. Owen era pazzo di lei. Voleva stare sempre con lei. E Marianne lo mandò fuori a giocare con me perché aveva un appuntamento con quel ragazzo, Chris, quello della porta accanto. Ma lui non voleva stare con me, così mi sono infuriato e gli ho detto quella cosa, gliel'ho detta.» Si era interrotto per bere qualche altro sorso di birra. Nick aveva aspettato, poi aveva chiesto: «Che cosa gli hai detto?» Gli occhi di Luke si erano riempiti nuovamente di lacrime. Nick era rimasto in attesa. «Eravamo andati al centro commerciale. Marianne ci aveva dato dei sol-
di. Volevo comprare qualche altro fuoco d'artificio, sapevamo che c'era un tizio che li vendeva nel seminterrato, ma non riuscimmo a trovarlo. Stavamo ciondolando in giro quando Owen disse che voleva farsi una foto nella cabina delle fototessera. Così ci andò. Ne fece una questione di stato. Entrò nella toilette a bagnarsi i capelli in modo che non stessero in piedi. E quando ebbe in mano le foto, mi disse di sceglierne una, la migliore. Spiegò che era per Marianne. Mi convinse a staccarla dalle altre. Risi di lui. Gli dissi che era uno stupido, un imbranato. E poi quell'altra cosa. Gli dissi che lei aveva una grossa fica. Avevo sentito i ragazzi più grandi parlare di ragazze e di fiche. In realtà, non sapevo che cosa significasse. Probabilmente pensavo che il termine indicasse le tette. Ma la cosa strana fu che Owen lo sapeva. Mi gridò che non dovevo dire una cosa del genere, che non sapevo niente di lei. Gli replicai che invece lo sapevo, che lei me l'aveva fatta vedere, che me l'aveva fatta toccare. A quel punto lui impazzì. Cominciò a prendermi a pugni e a calci. E sa che cosa feci io? Scappai via. Ero spaventato e fuggii. Pensavo che mi avrebbe seguito, che mi avrebbe perdonato e seguito. Ma quando mi voltai a guardare, vidi che era scomparso. Non c'era traccia di lui da nessuna parte. Avevamo il divieto di lasciare la piazza se non in compagnia di un adulto, ma lo facevamo di continuo. Io scappai via e quando mi voltai a guardare, non c'era traccia di Owen. Rimasi fermo sui nostri gradini e mi guardai intorno, ma lui non c'era più. Quella fu l'ultima volta in cui lo vidi. Quella fu l'ultima cosa che gli dissi. Gli ho mentito, ma lui mi ha creduto.» Nick guardò di nuovo la fotografia. Owen aveva ritratto Marianne come una bellissima principessa con una corona d'oro. Nella foto lei era ancora bellissima, ma i suoi occhi erano colmi di dolore. La figura in camice verde di Susan gli passò davanti. Si diresse di buon passo verso la giovane coppia sul pianerottolo. Si accovacciò davanti ai due, la testa piegata verso la loro. Nick riuscì a percepire l'urgenza nel suo tono. Susan si raddrizzò. Esortò i due ragazzi a seguirla. Lui si ritrasse finché non furono passati. E, all'improvviso, si sentì inadeguato, invadente, fuori posto. Prima che lei potesse vederlo, coglierlo in flagrante, puntò rapidamente verso le scale. «Non ne hai parlato alla polizia, vero, Luke?» «No, non ci sono riuscito, mi sentivo troppo in colpa. Ho detto soltanto che Owen era andato a cercare altre cose per il falò, ma io dovevo tornare a casa. Be', anche questo era vero. Avevamo in programma di andare a cercare roba per il falò. Dovevo tornare a casa. Era tutto vero.»
Vero ma incompleto. Come la sua prima versione degli avvenimenti di quel giorno. Il portiere non si trovava alla sua scrivania quando Nick sfrecciò nell'atrio e uscì nella strada buia. Non pioveva più, ma faceva freddo e regnava un'atmosfera malinconica. Guardò la foto che stringeva. La infilò nella tasca interna della giacca e tastò l'altra istantanea lì riposta. Luke gliel'aveva data mentre si salutavano, estraendola dal portafoglio. «L'ho conservata, ma ora può tenerla lei», aveva detto mettendogliela in mano. Il viso di Owen a otto anni lo aveva fissato. Con un ampio sorriso. Nick la prese e la osservò. Guardò l'orologio. Erano le undici passate. Se si sbrigava, aveva giusto il tempo di trovare un pub ancora aperto. Aveva un gran bisogno di un drink. Era stato un errore andare lì. Non apparteneva più a quel luogo. Non apparteneva più a nessun luogo. Si rialzò il bavero fin sopra le orecchie. Si voltò, accelerò il passo e si diresse verso le luci in lontananza. 14 Si svegliò. C'era buio. Si sentiva talmente anchilosato da potersi muovere a stento. Aveva la guancia posata sul velluto liso di un vecchio cuscino. L'odore di umidità gli riempiva le narici. Era sdraiato scompostamente sul pavimento davanti alla stufa. Sentiva le anche ammaccate dal contatto con l'assito nudo e i piedi freddi. Si mosse cautamente e sollevò la testa. Una serie di tonfi gli riempì le orecchie. Il sangue gli pulsò nelle tempie. Si raddrizzò lentamente fino a mettersi seduto. Il rumore continuò, fragoroso e ripetitivo. Si prese la testa fra le mani e si tappò le orecchie con le dita, ma nemmeno così riuscì a escluderlo. Aveva la bocca riarsa e pervasa da un gusto orrendo, e la lingua rivestita da uno strato di whiskey. Tentò di alzarsi in piedi, ma le gambe erano deboli e cedettero sotto di lui. Oscillò avanti e indietro. E i tonfi continuarono. Adesso si udì anche una voce. Una voce che lo chiamava. E il tintinnio dell'aletta della buca per le lettere che veniva sollevata e poi lasciata ricadere. Di nuovo la voce e la ripetizione del suo nome. «Signor Cassidy, è in casa? Sono io, Min Sweeney. Della polizia, signor Cassidy.» Nick cercò nuovamente di alzarsi, e stavolta si raddrizzò e si appoggiò alla parete per non cadere. Gli si rivoltò lo stomaco e lui chinò il capo e venne scosso da un conato di vomito.
Di nuovo i colpi sulla porta, di nuovo la voce, poi il rumore dei passi, sempre più flebile, sul sentierino di cemento. «Aspetti, aspetti un minuto. Sto arrivando, Cristo santo. Aspetti.» Cercò di ricordare. A che ora era tornato a casa? Che giorno era? Che ora era? Barcollando pericolosamente, raggiunse la porta e la aprì. Una raffica di vento gliela strappò di mano e la richiuse, imprigionandogli due dita nella serratura. «Merda.» Il dolore gli sfrecciò nel braccio, gli scese lungo la spalla e parve insediarsi in un punto imprecisato del cuore. Lui liberò le dita, incapace di parlare, e si piegò in due, stringendosi la mano ferita con l'altra. «Oh, mio Dio, deve farle un male cane.» Lui alzò gli occhi. Min Sweeney era in piedi sulla soglia. «Forza, lasci fare a me.» La donna posò il grosso sacchetto di plastica che reggeva e riportò Nick verso la luce. «Una brutta contusione, dolorosissima. È successo anche a me ed è una vera tortura. Metta le dita sotto l'acqua fredda, molto fredda. Dubito che siano rotte, ma non si sa mai. Forse sarebbe il caso di andare al pronto soccorso.» Min Sweeney non fece commenti sull'aspetto di Nick o sulle condizioni della stanza. Aprì il rubinetto del lavandino in cucina e, nonostante le proteste dell'uomo, gli tenne saldamente la mano sotto il getto di acqua fredda finché le dita non divennero lucide e i lividi scuri spiccarono sul pallore della pelle. Poi mise il bollitore sul fuoco e infilò una bustina di tè in ciascuna tazza. Estrasse dal frigorifero un cartone di latte e lo annusò con aria interrogativa prima di versarlo. Passò una tazza a Nick, che trasalì mentre la prendeva. Bevvero in silenzio. Lei notò il pallore sul viso dell'uomo, i suoi occhi arrossati, il suo bisogno di radersi e il puzzo di alcol che gli trasudava dai pori. Era magrissimo. Min pensò che aveva l'aspetto di un tempo, di tanti anni prima. L'aria sconfitta. Nick finì il tè e depositò la tazza nel lavandino, poi raggiunse l'estremità opposta della stanza. Sul pavimento, accanto al cuscino di velluto, era posato un pacchetto di sigarette. Si accovacciò e lo raccolse, scuotendolo per poi gettarlo, con espressione disgustata, in un cestino di vimini per l'immondizia. Lei lo seguì, mentre Nick si sedeva sul divano. Lui si appoggiò allo schienale e la fissò dal basso, stringendo delicatamente la mano contusa con l'altra. «Immagino che lei non fumi, vero?»
Min scosse il capo. Il pavimento era coperto di fogli. Si chinò per esaminarli. Alcuni erano ritratti di un bambino e di un volpacchiotto. Magnifici. Talmente verosimili che le figure davano l'impressione di poter passare dal foglio alla stanza. Gli altri disegni erano palesemente opera di un bambino, ma anch'essi molto carini. «Sono splendidi», disse, voltandosi a guardarlo al di sopra della spalla. «Immagino che li abbia fatti lei, giusto?» Nick non rispose. «Sa, a casa ho alcuni dei suoi libri. I miei figli li adorano.» Lui si strinse nelle spalle. «Sono rimasti molto impressionati quando ho spiegato che la conoscevo.» «Davvero?» «Ho raccontato di lei e di suo figlio.» «Sul serio?» «Mi hanno detto che dovrei fare tutto il possibile per aiutarla. Mi hanno detto che dovrei smuovere mari e monti per trovarlo.» «Smuovere mari e monti, gran bell'espressione.» «Sì, vero? È una delle preferite di mio padre. I miei ragazzi sono ottimi imitatori. Assolutamente geniali. Come ogni bambino della loro età. Assorbono tutto ciò che li circonda. Parole, espressioni, manierismi, tic. In loro vedo sempre affiorare persone che tutti e tre conosciamo. Ma lei sa benissimo di cosa sto parlando, vero, signor Cassidy? Ricorda sicuramente com'era suo figlio.» «Nick, la prego, mi chiami Nick. Sono sicuro che prima lo faceva. E non potremmo darci del tu?» Lei sorrise e si strinse nelle spalle. «Non vorrei sembrare sfacciata, non vorrei pestare i piedi a qualcuno.» «Davvero? Non è così che ricordo voi poliziotti. Mi sembra di rammentare che avete pestato un discreto numero di piedi. Senza la minima esitazione. Avete sicuramente pestato i miei più di una volta. Com'è che mi chiamava il tuo capo? Un adultero impenitente. Una vergogna come marito. Sospettato di avere ucciso il mio stesso figlio. I miei piedi, te lo assicuro, furono adeguatamente triturati.» Lei si spinse indietro, facendo leva sui talloni, e si alzò. Non fiatò. Raggiunse la porta d'ingresso. Nick sentì che l'apriva. Calò il silenzio. Lui si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi. Le dita e la mano gli pulsavano dolorosamente. Aveva la nausea. Sentì nuovamente la porta chiudersi e poi
i passi della donna che tornava nella stanza. Aprì gli occhi e la guardò. Min stringeva il grosso sacchetto di plastica che, mentre lei si muoveva, urtava goffamente contro le sue gambe; a Nick ricordò un bambino con la cartella pesante. Quando lo lasciò cadere sul pavimento, il sacchetto cadde di lato con un leggero tonfo. «Senti, qualunque sia la tua opinione, abbiamo svolto il nostro lavoro nel miglior modo possibile», disse lei. «Forse ti stupirebbe sapere che in tutto il Paese ci sono uomini e donne che non hanno mai smesso di pensare a tuo figlio e di chiedersi cosa gli sia successo. E non hanno mai smesso di rimproverarsi per quello che, all'epoca, avrebbero o non avrebbero potuto fare in modo diverso. E sì», annuì energicamente, rammentandogli di nuovo un bambino, un bravo bambino che cerca di fare del suo meglio, «sì, eri uno dei sospettati. Così come tua moglie, i tuoi vicini, la tua bambinaia, i tuoi amici, i tuoi conoscenti, la tua amante e suo marito. Eravate tutti sospettati, come succederebbe anche a me in una situazione analoga. E non è stato certo piacevole, non è stato certo cordiale, ma era assolutamente necessario.» Ci fu un'altra pausa di silenzio. «Okay.» Nick alzò le mani in un gesto conciliante. «Accetto le tue spiegazioni. Mi dispiace, scusa se sono stato sgarbato. Non mi sento molto bene.» «Già», ribatté lei, sorridendo, «l'eufemismo dell'anno, immagino. Cosa sta succedendo qui? Questo posto puzza come un pub il sabato sera all'ora di chiusura.» «Agh.» Lui si strinse nelle spalle. «Credo lo si definisca: 'Le vecchie abitudini sono dure a morire'. Oppure lo si chiama semplicemente: 'Affrontare il passato e non gradire ciò che si scopre'.» «Oh, davvero? Ti va di parlarmene?» Nick scosse il capo e sorrise, guardingo. Non voleva parlargliene. Non voleva ricordare. Sarebbe riuscito a ricordare? Aveva lasciato l'ospedale. Si era diretto verso il bar più vicino. Si era messo a parlare con un paio di tizi. Venditori d'auto, avevano detto di essere. Lo avevano portato in un club. Poi li aveva persi di vista, nelle fauci del frastuono e dell'alcol e di profonde ombre scure. Aveva trovato una donna. Le aveva offerto un drink. Lei lo aveva ascoltato, gli aveva lasciato posare la testa sulla sua spalla, lo aveva sorretto, mentre uscivano barcollando, all'alba. Aveva fermato un taxi e lo aveva accompagnato nel proprio appartamento. Nick chiuse gli occhi. Non voleva rammentare il resto. C'era molta luce e un bel
sole quando l'aveva lasciata, ma anche un vento freddo che gli aveva fatto smoccolare il naso e lacrimare gli occhi. Si era fermato a comprare una bottiglia di whiskey, tornando a casa. E l'aveva quasi finita prima di svenire sul cuscino posato sul pavimento. «Tieni», disse Min spingendo verso di lui il sacchetto, pieno di fascicoli beige. Andò a sederglisi accanto sul divano e ne estrasse alcuni, posandoglieli in grembo. «Attualmente lavoro al quartier generale della polizia», spiegò, «e ho occasione di scendere negli archivi; oggi, mentre ero lì, mi sono imbattuta in questi e ho pensato che forse avevi del tempo libero e avresti potuto occuparlo proficuamente dandoci un'occhiata.» Nick raddrizzò la schiena. «Ti hanno permesso di portare via tutta questa roba?» «Be', dubito che 'permesso' sia il termine più adatto», rispose lei con una scrollata di spalle. «Ma... occhio non vede, cuore non duole. Comunque», fece oscillare un dito e guardò Nick con simulata severità, «so di poter confidare nel fatto che non danneggerai in alcun modo questo materiale e non rivelerai ad anima viva cosa contiene. Non è forse così?» Lui annuì. «Certo. Puoi contare su di me.» Posò una mano su una liscia copertina beige. «Deposizioni, è questo che sono?» «Fotocopie di deposizioni, rapporti sulle ricerche, presunti avvistamenti di Owen, resoconti delle informazioni fornite da tizi con presunte facoltà paranormali, tutti i pazzi che si sono presentati spontaneamente. I questionari riempiti dai tuoi vicini. Praticamente tutto quello che potevo trasportare. Laggiù è rimasta una tonnellata di roba, ma ho preso qualunque cosa pensavo potesse esserti utile. Devo confessartelo, dubito che tu possa trovare qualcosa che a noi è sfuggito, ma chi può dirlo?» Gli sorrise. «Sguardo non condizionato e tutto il resto...» «È magnifico, davvero fantastico.» Lui ricambiò il sorriso, e Min rivide tutto, come per la prima volta: il fascino, il calore, gli occhi azzurri che fissavano direttamente i suoi. «Sai una cosa?» Nick spinse i dossier sul divano, accanto a lei. «Tutto ciò richiede una celebrazione. Una piccola dimostrazione di gratitudine e un tentativo di ricucire gli strappi. Non ho cioccolatini o fiori, ma cosa ne diresti di un drink? Qualcosa di gradevole, festivo, un whiskey caldo o un Irish coffee, magari.» «Oh, certo.» Min fece una smorfia. «Quello che vuoi, in realtà, è un bicchierino per attenuare i postumi della sbornia di ieri sera, vero?» «Accomodati pure, sfoga il tuo cinismo. Guarda in bocca al caval dona-
to.» Lui si alzò. «Fa' come credi, ma io lo preparo comunque.» «Okay, okay, non agitarti. Gradirei un whiskey caldo, ma solo se hai chiodi di garofano e zucchero di canna. Solo se intendi prepararlo a regola d'arte.» «Be', se sei così pignola, vieni con me. Puoi pensarci tu.» Nick le prese le mani, la tirò in piedi e la accompagnò in cucina. Aprì il mobiletto sopra il lavandino. «Ora, vediamo che cosa abbiamo qui. Zucchero, chiodi di garofano. E guarda.» Prese un limone da una ciotola che conteneva una banana nerissima e una mela rinsecchita. «Adesso puoi dargli quel tocco elegante conficcando i chiodi di garofano nella fettina di limone. Roba da bar molto chic. Tipicamente anni '70.» Lei scoppiò a ridere. Poi ribatté: «Silenzio. Tieni, riempi il bollitore. E dov'è l'alcol, l'ingrediente principe? Non dirmi che l'hai scolato tutto». Si sedettero al tavolo di cucina, con i bicchieri fumanti davanti a loro. «Che bello.» Min sorseggiò la bevanda, badando a non scottarsi. «Di solito a quest'ora sto pelando patate mentre bevo una tazza di tè e cerco d'impedire ai ragazzi di uccidersi a vicenda finché non abbiamo cenato.» «Quanti anni hanno?» «Sei. Sono gemelli. Due maschi.» «Quindi ti sei sposata, nel frattempo.» Nick le guardò la mano sinistra. «Ah, c'è un anello. Non l'avevo notato.» «Sì, nel frattempo. Sette anni fa.» Con il cucchiaino, lei ripescò dal bicchiere un chiodo di garofano che rimase sulla superficie metallica, simile a un minuscolo ossicino nero. «E lui che cosa fa?» «Faceva. È morto. Tre anni fa.» «Oddio, scusami. Non l'avevo capito.» Lei scosse il capo, mescolando i granelli di zucchero nel bicchiere. «Perché avresti dovuto? Non potevi saperlo.» Ci fu un attimo di silenzio. Lui sorseggiò cautamente il suo drink. «Si è ammalato? È stata una cosa improvvisa, un incidente?» «È stata una cosa improvvisa ma non un incidente. Emorragia cerebrale. Assolutamente inaspettata. Lui era in perfetta forma, sano come un pesce. Nemmeno un giorno di malattia in vita sua. E poi, bang. Come se niente fosse. Morto sul colpo.» Continuarono a bere in silenzio. Lei sembrava stanca, pensò Nick. Improvvisamente più giovane, vulnerabile. Le sue cicatrici scoperte.
«Dev'essere dura gestire il tuo lavoro, date le circostanze.» Min si strinse nelle spalle. «Ti arrangi. Fai tutto il necessario. Ma non ti rimane molto tempo per te stessa. Mia madre è appena venuta a stare da noi per una settimana. Va matta per i ragazzi. Praticamente mi butta fuori di casa, quando è qui. Non vede l'ora di mettere le sue grinfie di nonna su di loro.» Sorrise. «Dio solo sa cosa pensano di lei. È un vero mago in fatto di pulizia e religiosità.» «Una classica mamma irlandese, giusto? Una della vecchia scuola?» «No, niente affatto. In realtà è tutt'altro. Tanto per cominciare, è francese. Ecco da dove arriva il mio nome. Min, diminutivo di Mignonne.» «Oh, avevo pensato che ti chiamassi Minnie, come...» «Già, non ricordarmelo, ti prego. Minnie, la dannata fidanzata di Topolino. La rovina della mia infanzia.» Scoppiò a ridere. «Ma non è così.» «No», convenne lui. «Mignonne è un gran bel nome.» Si alzò dal tavolo e raggiunse il frigorifero. Si accovacciò, aprì lo sportello e scrutò all'interno. Il suo viso, colpito dalla luce fredda e nitida, sembrava esausto. Borse scure sotto gli occhi e la peluria ispida che gli punteggiava il viso. Si voltò a guardare la donna. «Hai fame? Io sì. Vediamo cosa riesco a trovare qui dentro.» Nick infilò una mano nel frigorifero e vi rovistò, poi si alzò. «Ora, cos'è questo? Ho del brie, del formaggio di capra e qualche altro stuzzichino. E queste olive nere non sono niente male.» Depose dei cracker su un piatto, mentre lei tagliava dei cubetti di formaggio, e glieli offrì. «Mia madre non approverebbe», dichiarò Min nel mordere un cracker, le briciole che si sparpagliavano sul tavolo. «No?» chiese Nick con la bocca piena. «No, in casa nostra non si tiene il formaggio in frigo e non lo si mangia con questi.» Fece oscillare le mani nell'aria. «Questi ridicoli pezzettini di questo o quell'altro tipo di formaggio. A casa si mangia la forma di formaggio solo con il pane fatto in casa, secondo la ricetta tramandata da tua nonna a tua madre e poi da tua madre a te.» «Certo, capisco. Niente pane in cassetta, per voi?» «Lavati la bocca con il sapone solo per averlo pensato.» «Quindi la tua non è la classica mamma irlandese, bensì la classica mamma francese, tutta gote rosee e grembiule a quadretti, baguette nel cestino della bici e cinquanta varietà diverse di foie gras?» Lei scoppiò a ridere e le si arrossarono le guance. «Sbagliato di nuovo,
ma non ti si può biasimare per aver provato.» «D'accordo, allora, lasciami fare un altro tentativo. È la quintessenza della donna parigina. Minuta, elegante, languida, linda e azzimata à la Coco Chanel. L'immancabile tocco di bianco intorno alla gola e ai polsi, n'est-ce-pas?» Min reclinò la testa all'indietro e rise, stavolta fragorosamente. «Da dove hai tirato fuori Coco Chanel? Non sembri certo un fedele seguace dell'alta moda.» «Grazie.» Lui assunse un'espressione di orgoglio ferito. «Grazie tante. Hai dimenticato, tu che sai così tante cose di me, che sono un illustratore? Anni fa, quando ancora studiavo, mi sono fatto le ossa disegnando per gli stilisti. Sono in grado di distinguere un modello di Chanel da uno di Givenchy, e uno di Schiaparelli da uno di Yves Saint Laurent.» «Davvero? Non mi dire. Quindi quei pantaloni arrivano direttamente dalle ultime collezioni di Milano o di Parigi, o magari da quelle di New York?» Indicò con il coltello i jeans macchiati di tempera di Nick. «Okay, okay, ti sei spiegata chiaramente. Sarò sincero, in realtà, era mia madre a dire sempre quella cosa di Chanel. E, sai, credo che avesse ragione. Deve dipendere dal modo in cui la luce si riflette sul bianco illuminando la pelle. Deve trattarsi di qualcosa di simile.» S'interruppe. La sua bocca assunse una piega triste. «Tua madre», disse Min. «Ho saputo che è morta. Qualche anno fa, vero?» Lui annuì. «Me la ricordo. Una vera bellezza. Ricordo anche la casa, assolutamente adorabile. E con un giardino stupendo.» Nick annuì di nuovo. «Che ne è stato della proprietà?» «Se ne sono occupate le mie sorelle maggiori. Hanno organizzato la vendita, si sono sbarazzate del mobilio e di tutto il resto. Ho lasciato che ci pensassero loro.» «Non sei tornato per farlo di persona? Non t'interessava?» Lui si strinse nelle spalle e fissò il pavimento. «Non lo so. Non ero in grado di affrontare la situazione. Così ho fatto ciò che facevo sempre quando si trattava della famiglia: mi sono comportato come il fratellino minore coccolato, il marmocchio viziato. Mi hanno spedito un assegno sostanzioso. Mi hanno esonerato da qualunque responsabilità.» Giocherellò di nuovo con il coltello, poi la guardò. «Un altro?»
Si alzò e tese la mano. Il drink stava andando giù bene. Lei si accorse di avere le guance arrossate e notò un'improvvisa gaiezza nella propria voce. Annuì. Nick le posò davanti il bicchiere fumante, che Min sollevò per brindare. «Comunque», disse, «non hai ancora indovinato che tipo è mia madre.» «Oh, d'accordo, mi arrendo. Non tenermi sulla corda.» Nick si sedette e accavallò le gambe. «Bene, un tempo faceva la cuoca su un peschereccio che approdò in un villaggio chiamato Slievemore, giù nel Cork occidentale. Avevano problemi al motore e c'era brutto tempo, così rimasero bloccati lì per qualche settimana et voilà, lei conobbe mio padre, se ne innamorò perdutamente e, quando tornò il bel tempo e il motore venne riparato, decise di restare lì e sposarlo. Anche lui è un pescatore e la sua famiglia possedeva un pub da parecchi anni. Così mia madre cominciò a lavorare nel bar, trasformò radicalmente l'atteggiamento degli abitanti del posto nei confronti del cibo, aprì un ristorantino specializzato in pesce - cosa inaudita all'epoca -, fece impazzire tutti con il suo perfezionismo ed ebbe un enorme successo. È un bel tipo, mia madre. Davvero un bel tipo.» «Andate d'accordo?» Min si strinse nelle spalle. «Sì, perlopiù. Voglio dire che è incredibilmente dispotica. Totalmente dogmatica. Disprezza gli irlandesi o, almeno, così sostiene, pur avendo vissuto qui per quasi quarant'anni. Secondo lei, nessuno è mai abbastanza bravo. Ma sotto sotto è un tesoro. Io sono l'unica femmina. E l'unico membro della famiglia a non abitare vicino ai genitori. L'unico che faccia questo lavoro pazzesco, così dice lei, e l'unico che le abbia dato dei nipoti.» «Quindi sei la sua beniamina, la sua preferita.» Lei sorrise, vuotò il bicchiere, guardò l'orologio. «Non lo sarò ancora per molto, se non torno a casa presto. Penserà sicuramente che io abbia combinato qualcosa di losco.» «Lo fai spesso? Combinare qualcosa di losco, intendo.» La donna ridacchiò. «Be', non ultimamente. Sono stata troppo indaffarata. Ma un tempo, quando ero nel fiore degli anni...» «Avanti, non prendermi in giro. Quando eri nel fiore degli anni... a chi la racconti? Se non sei nel fiore degli anni adesso, non riesco a immaginare che aspetto avrai quando ci sarai.» Min scoppiò in una fragorosa risata. «Con l'adulazione puoi ottenere qualunque cosa. Sempre.» Guardò di nuovo l'orologio. «Credo di potermi
fermare ancora un po'.» Lui vuotò il bicchiere. «Be', non saprei. Non voglio che tu finisca nei guai a causa mia. Forse sarebbe meglio rimandare a un'altra occasione.» Si alzò e le tese la mano. «Senti, mi dispiace per prima. Non volevo prendermela con te. Apprezzo quello che hai fatto. Significa molto per me. Spero che tu non abbia rischiato troppo per prendere quei documenti.» Lei sentì il sorriso irrigidirsi sulle labbra. Si alzò, improvvisamente stordita. Recuperò giacca e borsetta. «Be', l'ho fatto, ma chissà...» Si voltò e si avviò verso la porta d'ingresso. «Forse, alla lunga, da tutto ciò scaturirà qualcosa di positivo. Ti chiamo fra un paio di giorni.» Si fermò e si voltò a guardarlo. «Ti sei dato molto da fare da quando sei tornato a casa?» chiese. «Molto da fare?» «Sì, interrogando la gente, riesaminando l'accaduto. Il genere di attività che secondo te dovremmo svolgere noi.» «Be', a dire il vero...» Nick si chinò e raccolse uno dei disegni di Owen dal pavimento. «In realtà, ieri sono andato a trovare questo ragazzo. Lo riconosci?» Min gli tolse di mano il foglio per studiarlo. «È il ragazzo che era il suo migliore amico, vero? Quello che si trovava con lui quel giorno.» «Esatto. Abbiamo avuto una conversazione molto interessante su Owen. Mi ha detto qualcosa che non sapevo.» «Davvero?» «Mi ha detto che Owen era innamorato di Marianne O'Neill. Non so se credergli o no. Non so se un bambino di otto anni possa innamorarsi.» Lei gli restituì il disegno. «I miei figli s'innamorano. Prendono cotte violente e profonde per le persone. Possono diventare piuttosto ossessivi.» «Sì, ma l'amore è sicuramente una cosa diversa, giusto?» «Davvero? O forse il problema è semplicemente la nostra incapacità di accettare che quanto loro sperimentano sia amore. Lo definiamo 'cotta' perché non accettiamo che i bambini possano provare sentimenti così profondi. Perché, se lo facessero, molti nostri atteggiamenti e il nostro comportamento nei loro confronti non risulterebbero soltanto inaccettabili, ma anche crudeli e sbagliati.» Min aprì la porta d'ingresso e uscì nel buio. «Comunque è interessante che, dopo così tanti anni, lui usi il termine 'amore' per indicare i sentimenti di Owen. Dovevano essere piuttosto intensi, se li ricorda così.» «Sì.» Nick la seguì all'esterno. «Ma questo significa qualcosa? È rilevan-
te?» «Be', probabilmente no, però è un particolare che ignoravamo, un elemento nuovo. Tienilo presente quando esaminerai tutto il materiale che ti ho portato, okay?» Aprì la portiera dell'auto. La luce interna conferì un aspetto intimo e invitante all'abitacolo. Lei salì. Sbatté la portiera e la macchina ripiombò nell'oscurità. Lui raggiunse il marciapiede. Osservò Min che si allontanava, i fanali posteriori rossi e allegri, e l'arancione lampeggiante della freccia quando l'auto svoltò sulla strada principale. Alzò gli occhi verso le finestre della casa. Il salotto era illuminato. Vide il bagliore del fuoco nel caminetto e sentì della musica. Riconobbe il motivo. Era My Funny Valentine. Si avvicinò e piegò la testa di lato per ascoltare. Miles Davis alla tromba, Bill Evans al piano e Paul Chambers al basso. Il suo CD, forse addirittura il suo vecchio LP. Si voltò e tornò dentro. Si chiuse la porta alle spalle. Mentre lei tornava da Victoria Square verso il centro, cominciò a piovere. I tergicristalli eliminavano efficacemente l'acqua dal parabrezza, il loro fruscio un suono consueto e rassicurante. Si rese conto di provare una sconfinata pietà per Nick Cassidy. Sperava di non rimpiangere la decisione di avergli consegnato i dossier. Sapeva che era severamente vietato e non era affatto da lei dimostrarsi tanto avventata. Cosa avrebbe pensato Andy?, si chiese. Di tanto in tanto, nel corso degli anni, avevano parlato di Nick e di sua moglie. Lei gli aveva fatto la domanda da un milione di dollari. «Lo hai mai sospettato seriamente di avere avuto qualcosa a che fare con la sparizione?» «No, non proprio. Il suo problema era l'altro segreto, ecco cosa lo stava divorando. Continuava a cercare il modo di non doverlo rivelare. Per ottimi motivi. Non voleva ferire la moglie, non voleva aggiungere il danno alla beffa. Ma alla fine doveva venire a galla.» «E Susan? Cosa ne pensavi?» «Rappresentava un vero enigma. Se non avesse avuto un alibi cosi di ferro per l'intero lasso di tempo, mi sarei posto qualche domanda su di lei.» «Sul serio? Come mai?» «Non lo so. Aveva qualcosa di freddo e distaccato. Pianse molto meno del marito. E rimase talmente impassibile quando seppe della relazione extraconiugale... Ricordo quando gliene parlai. E lo feci in modo tutt'altro che gentile. Glielo sbattei in faccia. Le lessi la deposizione di Cassidy. Tutti i particolari che gli avevamo cavato di bocca. Orari, date, incontri. E
sentimenti. Ero andato a fondo dell'intera faccenda con lui, mi aveva raccontato tutto. Una volta iniziato, non riusciva più a fermarsi. Mi spiegò come il suo rapporto con la moglie si fosse raffreddato col passare degli anni. Come lei fosse completamente assorbita dal lavoro. Come lui apprezzasse l'amicizia instaurata con le donne residenti nella piazza. E come una cosa, inevitabilmente, avesse tirato l'altra.» «Non l'avrà detto sul serio, giusto? Non sarà davvero ricorso a questo dannato luogo comune per giustificarsi...» «Eh, già, mi spiace. So che ti è simpatico, però l'ha fatto.» «E quest'ultima donna, Gina. Era solo un'amante passeggera? Era come tutte le altre?» «Be', sospetto di sì, ma in un certo senso lui ha sostenuto il contrario. Credo non volesse ammettere davanti a me di essersi dimostrato un autentico stronzo. Ma quando ne ho parlato a Susan Cassidy, quando le ho letto la deposizione, lei si è limitata a guardarmi, a inarcare un sopracciglio e a dire qualcosa tipo: 'Non di nuovo questo'.» «Ma non hai sospettato davvero che fosse coinvolta nella scomparsa di Owen, giusto?» «No, sarebbe stato alquanto insolito. Non inaudito, naturalmente. Le donne sono capaci di uccidere i figli tanto guanto gli uomini.» «Forse, ma sicuramente hanno molte meno probabilità di farlo.» «Be', dal punto di vista statistico credo che tu abbia ragione, ma spero non vorrai scartare l'ipotesi. Non del tutto.» «Okay, non del tutto. Non la scarteremo completamente, ma la accantoneremo finché non ci servirà. Allora, a parte questo, perché non ci offri una teoria plausibile, non ci permetti di beneficiare di tutti gli anni che hai passato rovistando tra i segreti altrui?» Cosa avrebbe potuto rispondere Andy? Il bambino era morto, quello era chiaro. O quasi. Probabilmente era stato ucciso da qualcuno che lo conosceva. Altrimenti ci sarebbe stata una colluttazione, una scenata, un trambusto che qualcuno avrebbe inevitabilmente notato. Invece non era successo niente del genere. Quel pomeriggio nessuno aveva visto nulla che potesse suscitare commenti. Sotto ogni punto di vista era stata una giornata d'autunno perfettamente normale in un sobborgo perfettamente normale. «Non riesco ancora a credere che nessuno abbia visto niente», aveva ripetuto lei per l'ennesima volta. «È un particolare che continua a lasciarmi perplessa. Dopo tutto questo tempo non riesco a capacitarmi del fatto che, tra le centinaia di persone che abbiamo interrogato, nessuna abbia visto il
bambino, abbia visto dov'è andato dopo che si è separato dal suo amico. Non ha senso.» Cosa avrebbe pensato Andy della sua capatina nell'archivio e del fascio di dossier che aveva lasciato da Nick Cassidy? «Avanti, Andy, dimmelo.» La sua voce rimbombò all'interno dell'auto. Calò il silenzio. Era carico di disapprovazione? Min rimase in ascolto. Sentì il boato dei fuochi d'artificio e vide un'improvvisa esplosione di colore sospesa nel cielo notturno. Era di nuovo quel periodo dell'anno. Doveva ricordarsene. Una zucca, qualche sacchetto di noccioline, pacchetti di dolciumi, e cos'era che Joe desiderava? Una maschera da strega in plastica rigida. Rallentò per svoltare nel cul-de-sac in cui abitava. Si fermò davanti a casa e spense il motore. Le tende delle grandi finestre al pianoterra erano tirate. Un'improvvisa raffica di vento fece tintinnare le campanelle eoliche giapponesi che aveva appeso sopra la porta d'ingresso. All'interno era giunta l'ora di andare a letto. I ragazzi erano sicuramente al calduccio e rannicchiati sotto le trapunte coordinate. Stavano ovviamente aspettando il suo bacio della buonanotte, prima di abbandonarsi al sonno. Raggiunse la porta e infilò la chiave nella serratura. Si girò, solo per un attimo, a osservare il cielo notturno. Le lucine rosse di un aereo che virava prima di scendere verso l'aeroporto di Dublino lampeggiarono, poi guizzarono e si spensero mentre una nuvola passava loro davanti. Min si voltò, entrò in casa e chiuse la porta sul mondo esterno. Nick alzò gli occhi dallo schermo del suo computer portatile. Aveva cominciato a leggere la pila di dossier, prendendo appunti. Adesso regnava il silenzio. Dal piano di sopra non giungeva più la musica. La pioggia era cessata e il vento si era placato. Si alzò e si stiracchiò. Aveva bisogno di fare un po' di ginnastica. Una delle caratteristiche che apprezzava dell'America era che, ovunque andassi, trovavi piste da jogging. Si era abituato alla sua corsetta quotidiana. Cancellava le altre sue cattive abitudini. Prese piatti e bicchieri, e li portò nel lavandino. Li lavò e sciacquò accuratamente. Stava bevendo davvero troppo. Avrebbe dovuto stare più attento. Ripensò al passato. All'anno intercorso tra la scomparsa di Owen e la decisione di andarsene: non rammentava praticamente nulla di quel periodo. S'infilò la giacca e raggiunse la porta d'ingresso. Fuori c'era freddo e un alto tasso di umidità. Il marciapiede brillava di una sfavillante lucentezza
bagnata. Attraversò la strada raggiungendo la piazza e aprì il cancello di ferro battuto del parco. Cominciò a correre, zigzagando sull'erba, il respiro che gli risuonava nelle orecchie, girando intorno alla legna impilata per il falò di Halloween. Corse avanti e indietro, sentendo il sudore che cominciava a raccogliersi sulle reni e sul torace. Qualcuno aveva lasciato un pallone accanto a una delle panchine di legno. Gli sferrò un calcio e lo seguì, calciandolo di nuovo, poi colpendolo con il collo del piede e scagliandolo in aria, palleggiando avanti e indietro, impedendogli di toccare terra. E notò che non era più solo. Qualcuno gli si stava avvicinando di corsa. Calciò con forza il pallone e osservò come veniva colpito, inseguito, poi stoppato e infine inviato nuovamente verso di lui. Si lanciò verso di esso, lo intercettò con la punta del piede, lo fermò, poi gli fece descrivere un arco alto e ampio, e vide l'altra figura che correva, fermandosi sotto il pallone, il corpo inarcato all'indietro per colpirlo di testa e rilanciarlo. Quando il tizio si voltò, i lampioni stradali gli illuminarono il viso e Nick riconobbe i lineamenti spigolosi, i capelli scuri che ricadevano flosci sulla fronte, gli occhiali dalla montatura nera, il sorriso irregolare che faceva sembrare asimmetrico il volto. E un saluto e una voce che gli parlava attraverso la piazza. «Sei tornato. Ho saputo che stavi arrivando. Vedo che non hai perso il tuo tocco. Ti sfido, scommetto che non riesci a segnare un goal. Scommetto che non ci riesci.» E allora lui si tuffò di nuovo in avanti, l'esterno della scarpa che alzava il pallone, poi il suono della punta che colpiva il cuoio bagnato e la palla che sfrecciava nell'aria e atterrava, incastrandosi nella cancellata. «Cassidy uno, Goulding zero!» gridò Nick e sentì la risata di Chris mentre correva verso di lui, le braccia spalancate. 15 Susan era in piedi accanto alla finestra e li guardava. Li sentì ridere. Sentì il tonfo sordo del pallone. Osservò la loro agilità, la loro grazia, i loro movimenti fluidi mentre correvano, saltavano, inseguivano e calciavano. Da quella distanza era difficile capire che Nick era molto più vecchio di Chris, almeno per un osservatore casuale. Ma lei riusciva a notare la leggera rigidità delle sue ginocchia, il modo in cui doveva riprendere fiato mentre correva. Sapeva che il sudore gli stava colando lungo la schiena e raccogliendosi sotto i capelli, là dove ricadevano sul colletto della giacca. Sa-
peva tutto questo. E non solo. Li osservò, li vide allontanarsi dall'erba infangata della piazza, sempre calciando il pallone davanti a sé, mentre attraversavano la strada e scomparivano nel seminterrato. Si spostò nell'ingresso e si fermò accanto alla porta che un tempo aveva collegato il pianterreno della casa al seminterrato. Era chiusa a chiave e sigillata da anni, ma quando vi premette contro l'orecchio sentì chiaramente le loro voci. Sentì delle risate, udì della musica. Andò in cucina. Si versò del vino dalla bottiglia mezza vuota posata sul tavolo e cominciò a togliere i resti della cena. L'aveva cucinata Paul. Filetto con patate e un'insalata. Lui aveva finito la sua porzione. Lei aveva a malapena toccato la propria. Avrebbe tenuto da parte gli avanzi per poi portarli alla volpe. Più tardi. Quando sorgeva la luna. Sistemò piatti e posate nella lavastoviglie, poi si sedette, osservando il giardino attraverso la porta a vetri. Intorno a lei, la casa era immersa nel silenzio. Quando Paul se n'era andato, aveva sbattuto la porta d'ingresso talmente forte da far tintinnare le finestre. Susan riusciva ancora a sentirne l'eco. Lui le aveva gridato che non sarebbe tornato. Lei si sentiva male, un senso di vuoto alla bocca dello stomaco. Doveva telefonargli. Scusarsi. Dirgli che sapeva che lui aveva ragione. Eppure, per qualche strano motivo, non riusciva a costringersi ad alzarsi, a raggiungere il telefono. Paul aveva ragione. Certo che aveva ragione. Il cervello di Susan glielo diceva, ma il suo cuore si rifiutava di ammetterlo. Alzò il bicchiere. Anche la donna riflessa nella porta a vetri sollevò il proprio. Brindarono l'una all'altra. «Sei tutto quello che ho», dichiarò ad alta voce. «Soltanto tu. Sei tutto quello su cui posso contare.» Bevve qualche altro sorso di vino. Era esausta. Era tentata di posare la testa sul tavolo e dormire. Era tornata stanca dall'ospedale. La bambina in isolamento non stava bene. Impossibile dire se sarebbe sopravvissuta. Susan aveva rimandato il momento di lasciare il reparto, quindi era rincasata piuttosto tardi. Era corsa a prendere la candela e l'accendino. Stava giusto per uscire dalla cucina quando aveva sentito la voce di Paul nell'ingresso. «Sue, ci sei? Dove sei? Ho qualcosa per te.» Aveva fatto irruzione nella stanza, un enorme mazzo di gigli tra le braccia, una bottiglia di vino avvolta nella carta velina e un sacchetto del supermercato. «Che bello vederti. Siediti, ti verso un drink e poi preparo la cena. Che ne dici?» Ma il sorriso sul suo volto era svanito quando l'aveva vista, in piedi come un bambino colpevole accanto alla porta posteriore, le mani piene.
«No», aveva detto, «no, non di nuovo. Non puoi continuare a farlo. È pazzesco. A cosa diavolo serve? Ti stai solo torturando. Devi smetterla.» Lei non aveva aperto bocca, era indietreggiata, le dita che si tendevano già verso la maniglia. «Susan, ascoltami. Tuo figlio è morto. Ma piangere questa ragazza, che non conoscevi nemmeno, è assurdo. Serve soltanto a riportare a galla i sentimenti che ormai avresti dovuto lasciarti alle spalle. Qual è lo scopo di questo ridicolo rituale a cui ti dedichi ogni ottobre? Susan, ti prego. Ascoltami. So di cosa sto parlando. So che quello che sto dicendo è giusto.» Ma lei si era voltata per aprire e richiudere la porta, scendendo i gradini di corsa, attraversando il prato e sbucando nel vicoletto. Senza fermarsi a guardare dietro di sé. Senza permettersi di pensare alle parole di Paul. Aveva corso per le strade buie finché non aveva raggiunto la meta. S'era inginocchiata per accendere la candela, aspettando che la fiammella si stabilizzasse. Aveva visto i fiori e i bigliettini lasciati da qualcun altro e riconosciuto la calligrafia. Sapeva di chi si trattava. Si era alzata e aveva chiuso gli occhi. Rammentava la sera di cinque anni prima, quando aveva partecipato all'incontro organizzato nella sala parrocchiale locale. Glielo aveva consigliato il pastore della Chiesa d'Irlanda. Era andato a trovarla. Lei si era dimostrata sgarbata e sbrigativa. Lui era stato paziente. Le aveva raccontato di avere conosciuto suo padre. Ricordava un sermone che lui aveva tenuto il giorno di Pasqua, anni prima. Un sermone sul perdono. «Era un uomo adorabile, un brav'uomo, un uomo di Dio. Credeva nella riconciliazione», aveva affermato, le guance grassocce che si arrossavano. «Io non sono credente», aveva ribattuto bruscamente lei. «Non ho la fede. Ho smesso di credere in Dio a dodici anni. Dopo la morte c'è solo il buio. Tutto qui.» «Benissimo», aveva dichiarato il pastore. «Se è questo che desidera. Ma cosa mi dice dei vivi? Ha bisogno di aiuto. Ha bisogno di condividere il suo dolore con altre persone. Non è sola in tutto questo. Venga da noi, una sera. Provi a conoscere altre persone che stanno soffrendo come lei. Potrebbe giovarle.» Così c'era andata. Si era seduta su una dura sedia pieghevole. Si era guardata intorno, osservando i visi la cui sofferenza era esposta sotto l'aspra luce dei tubi al neon. E fu lì che conobbe Catherine Matthews. «Mi trovo qui perché la mia amica è morta», aveva spiegato la giovane donna. «Era la mia migliore amica. Era splendida. Carina, divertente e piena di talento. Mi fidavo ciecamente di lei. Ma non la conoscevo. Ha tradito
la mia fiducia. Si è innamorata di mio padre. Ha tradito la mia fiducia e quella di mia madre e del resto della famiglia. Quando Lizzie veniva da me, in realtà voleva sempre stare con lui. Quando Lizzie veniva in vacanza con noi, lui voleva stare con lei. E poi successe. Una notte. Erano insieme nella rimessa accanto a casa sua. Lei morì. Qualcuno la uccise. Qualcuno le mise le mani intorno al collo e strinse con forza finché Lizzie non riuscì più a respirare. I poliziotti pensarono che fosse stato mio padre. Lo arrestarono, lo accusarono dell'omicidio. Venne processato ma dichiarato non colpevole. Perché si era scoperto che lei aveva incontrato anche qualcun altro, quella notte. Un altro uomo. C'era un altro campione di sperma sul suo maglione. Non corrispondeva a quello di mio padre, così lui venne giudicato non colpevole. Ma non colpevole di cosa? Non colpevole di averle stretto la gola e di avere impedito all'aria di entrarle nei polmoni. Non colpevole di quello. Ma colpevole di tradimento, colpevole di aver sedotto un'innocente, di aver corrotto una ragazza così giovane da poter essere sua figlia, di aver distrutto mia madre e noi, i suoi figli. Colpevole di questi e di altri peccati.» Quella sera, dopo che tutti se ne erano andati, Susan aveva seguito Catherine Matthews per la strada. Aveva allungato una mano per toccarle il braccio. Si erano guardate. Non c'era stato bisogno di parole. Catherine l'aveva accompagnata nel luogo in cui Lizzie era morta. Era successo cinque anni prima. Da allora, ogni mese di ottobre, Susan vi era tornata tutte le sere per accendere una candela e ricordare. Paul si trovava in cucina quando era rincasata. Aveva il viso arrossato. Aveva bevuto. L'atmosfera era carica di disapprovazione. Lui aveva apparecchiato la tavola e lessato le patate. L'insalata era pronta. La padella stava fumando. Vi aveva depositato energicamente le bistecche. «Paul, ti prego, so che sotto parecchi punti di vista quello che dici è giusto, ma...» «Già, ma», l'aveva interrotta lui. «C'è sempre un 'ma' con te, vero? Non mi ascolti mai. Non ascolti mai quello che ti dico. È sempre 'sì, ma questo' e 'sì, ma quello'. Ti ho spiegato cosa provo nei suoi confronti.» Aveva pestato il piede sul pavimento. «E cosa mi hai risposto? 'Sì, naturalmente sono d'accordo con te, ma lui possiede ancora metà di questa casa. Era mio marito. Era il padre di Owen. Ha bisogno di fare tutto questo.'» Si era voltato verso di lei. «Ne ha bisogno? E io? E noi? E la nostra relazione, Susan? Il nostro futuro? Rispondi a queste domande.» Lei aveva cercato di mangiare, ma il cibo le s'incollava al palato. Aveva
cercato di parlare, ma le parole si rifiutavano di uscirle di bocca. Aveva allungato la mano per stringere quella di Paul, ma lui si era alzato, lasciando cadere coltello e forchetta sul piatto davanti a sé con un forte, disarmonico frastuono. «Ne ho abbastanza. Non posso sopportare oltre. Adesso tocca a te scegliere. Decidere.» Si era voltato, pulendosi le mani su uno strofinaccio e lasciandolo cadere a terra. Lei aveva abbassato gli occhi per evitare la furia del suo sguardo. Aveva sentito i suoi passi allontanarsi lungo il corridoio, la porta sbattere, il suono che si propagava in tutta la casa. Poi il silenzio. Dopo che la luna sorse sopra la casa, Susan prese il piatto con gli avanzi di carne e scese i gradini che portavano in giardino. Li avrebbe lasciati sotto la buddleia. La volpe li avrebbe trovati e portati via. Si chinò e posò la sua offerta sul terreno, poi si raddrizzò e si girò verso la casa. Nel seminterrato le luci erano accese. Nick e Chris erano seduti al tavolo. Stavano parlando, ridendo, i visi animati ed espressivi. Rimase ferma a guardarli. Li vide alzarsi e uscire. Tornò verso i gradini e li salì lentamente. Si sedette su quello davanti alla soglia e appoggiò la schiena al vetro freddo. Aspettò. Finché non vide il tremito dei rami più bassi del cespuglio, sentì l'annusare del muso allungato. Vide il rapido guizzo della coda. Infine si alzò ed entrò in casa. Ormai si sentiva infreddolita. E mortalmente stanca. Salì in camera. Lasciò cadere i vestiti sul pavimento e s'infilò sotto le coperte. Si cinse il corpo con le braccia. La luce della luna formava freddi riquadri brillanti sul pavimento. Sospirò, chiuse gli occhi e aspettò il sonno. 16 «Allora, ti capita di vederla?» «Chi?» «Marianne, naturalmente.» Erano seduti al tavolo a cui Nick si era seduto in precedenza con Min. Offrì del whiskey a Chris. Il giovane scosse il capo. «Non è la mia droga, non più», spiegò. «Ah.» Nick si versò un goccio. «Ricordo. Giusto. Preferivi altri stimolanti, vero? A causa loro hai rischiato di finire in grossi guai. Una certa riluttanza a vuotare il sacco con la polizia quando Owen è scomparso.» Per un attimo Chris abbassò gli occhi sul tavolo. «Già, segreti, tutti avevamo i nostri piccoli segreti.» Dalla tasca della
giacca estrasse un pacchetto di cartine da sigaretta e una busta di tabacco, insieme a un rettangolino di carta stagnola. «Non ti dispiace, vero? Preferisco questa invece del drink, se per te è lo stesso.» Aprì l'involto e cominciò a staccare pezzetti di hascish dall'appiccicoso e minuscolo panetto nero. Si chinò per annusarlo con aria di apprezzamento. Unì due cartine e le riempì di tabacco a cui poi mescolò la droga. Nick si piegò in avanti per godere di una visuale migliore. «Non vedevo roba del genere da anni», ammise. «Negli States fumano solo erba.» Chris rollò accuratamente le cartine, poi fece correre la lingua lungo il bordo adesivo, torse un'estremità e la accese. Inalò a fondo e passò lo spinello. Nick sentì l'effetto improvviso della droga mentre aspirava il fumo nei polmoni. Un'ondata di sensazioni gli attraversò il corpo. Sentì la testa farsi talmente leggera che sembrò fluttuare verso il soffitto, le dita invase da un formicolio. «Uau, com'è forte. Dove l'hai trovata?» Chris si strinse nelle spalle. Riprese lo spinello, inspirò a fondo e poi strinse gli occhi per evitare che vi entrasse il fumo. «Oh, lo sai. Qua e là. Vuoi che te ne procuri un po'?» Nick annuì. Sembrò che passassero interi minuti prima che parlasse di nuovo. «Che lavoro fai adesso? Mi sembra di ricordare, o forse Susan me l'ha detto anni fa, che insegnavi. Apparentemente non si accordano, la lavagna e la resina di Cannabis. O, almeno, ai miei tempi gli insegnanti non erano così.» «No, vero? Erano tutti bevitori e pedofili in segreto. Lerci, grandi Christian Brothers che si divertivano a spese di poveri ragazzini, e suore che amavano sferzare le nocche con il rosario. Adesso non è più così.» Chris buttò lentamente fuori il fumo. «Insegno in questa fantastica scuola femminile. Ragazze adorabili. Tutte. La Laurel Park. Te la ricordi? La bellissima grande villa in cima alla collina. Giardini formali, campi da tennis, piscina. Qualunque cosa il denaro possa comprare.» Si alzò e raggiunse il tavolo da disegno. Si sedette e tirò verso di sé il computer portatile di Nick. Le sue dita si posarono sulla tastiera. «Carino, quasi come il mio. Li adoro, e tu?» Nick si strinse nelle spalle. «'Adorare' non è il termine che userei. Sono utili, ecco cosa direi. Comodi per spedire il tuo lavoro in tutto il mondo, via e-mail. Rapidi e semplici, se vuoi fare qualcosa in fretta, ma non mi
danno il piacere che ricavo da matite, carta, carboncino, inchiostro e tempera. Neanche lontanamente.» Allungò la mano verso il giovanotto. «Ehi, che intenzioni hai con quello spinello? Vuoi tenertelo tutto per te? Un atteggiamento tutt'altro che fico, tutt'altro che tosto.» Chris si alzò e gli si avvicinò. Nick allungò una mano e gli sfilò lo spinello dalle dita molli. Inspirò a fondo. Nell'aria regnava il puzzo di bruciato. Trattenne il fiato il più a lungo possibile, poi lasciò che il fumo gli uscisse lentamente dalla bocca. «Già», disse quando riuscì nuovamente a parlare, «già, la scuola. Me la ricordo. E ricordo che tua nonna viveva nella casa accanto.» «Esatto. Dopo la sua morte, la scuola ha comprato l'abitazione, che adesso ospita dormitori e aule. Ho persino il mio piccolo studio lì, nel seminterrato. Molto intimo.» Il silenzio calò sulla stanza. Nick si appoggiò allo schienale della sedia e chiuse gli occhi. Il rumore di Chris che inalava ed espirava gli risuonava nelle orecchie. Sentiva il corpo pesante e appagato. Avrebbe potuto posare la testa sul tavolo e dormire. Era così stanco. Le sue membra davano l'impressione di non appartenergli più. Mosse lentamente i piedi, incrociando le gambe all'altezza delle caviglie e poi riportandole dov'erano prima. Sembravano lontani, lontanissimi. Un improvviso appetito gli fece brontolare lo stomaco. «Ehi.» Aprì gli occhi. «È pazzesco. Ho una fame chimica incredibile. Non mi sentivo così da anni. Avanti, andiamo a prenderci delle patatine fritte e magari un cheeseburger.» Sulla strada principale regnava il silenzio. L'ora di chiusura non era ancora arrivata. Di lì a mezz'ora i marciapiedi sarebbero stati gremiti di bevitori che tornavano a casa zigzagando e l'aria si sarebbe riempita di schiamazzi e grida ingiuriose. Si fermarono nel locale che vendeva patatine fritte. Chris spinse la porta a vetri e si piegò facendo un inchino elaborato. Si fermarono accanto al bancone principale. L'odore era fortissimo. La saliva riempì la bocca di Nick. Ordinarono. «Owen adorava questo posto», dichiarò Nick. «Te lo ricordi? Marianne lo portava qui nelle occasioni speciali. Susan preferiva che lui non mangiasse quelle che lei riteneva porcherie, ma a Marianne piacevano le patatine. Mi sembra di rammentare che amasse in particolar modo la salsina al curry che ti servivano per accompagnarle.» «E io amavo gli hamburger speziati, mentre Owen andava matto per le
salsicce rivestite di pastella e fritte. Venivamo sempre qui con lui. Le sere in cui nessuno di voi due era a casa, lo portavamo a cena qui. Si sedeva a uno dei tavoli e, come concessione al cibo sano, prendeva un grosso bicchiere di latte. Era convinto che il latte avesse un gusto diverso, qui.» Nick osservò come la robusta donna bruna in piedi accanto alla friggitrice gorgogliante mescolava le patatine con un mestolo bucherellato. Le patatine continuavano a girare in tondo come frammenti di rametti prigionieri di un mulinello. Era così affamato che avrebbe voluto immergere le mani nell'olio bollente, ripescarle e ficcarsele in bocca. Temeva che, in caso di un'attesa troppo lunga, le gambe avrebbero smesso di sorreggerlo. «Marianne», esordì, cercando un argomento capace di distrarlo. «Marianne. Dove si trova adesso? Lo sai? La vedi mai?» Chris non rispose. Si voltò e raggiunse il juke-box fissato alla parete. Estrasse alcune monetine dalla tasca e le infilò nell'apposita fessura, poi premette una serie di pulsanti. «Owen amava anche questa. Te la ricordi?» La voce di John Lennon riempì l'aria. Nick cominciò a cantare seguendo la melodia semplice, suadente. Barche, fiumi, cieli di marmellata, diamanti, un caleidoscopio di immagini. E mentalmente vide il bambino, la ragazza e l'adolescente seduti al tavolino con il piano rivestito di formica. Vide il bambino allungare una mano per prendere il bicchiere di latte e berne qualche sorso, la schiuma bianca che gli velava il labbro superiore, il ketchup vermiglio sul piatto, sulle patatine dorate, sulle sue dita minute. Vide il modo in cui sollevava la forchetta e la faceva oscillare in aria, dirigendo un'orchestra immaginaria di cantanti e musicisti. «Marianne? Vuoi sapere di Marianne?» Le patatine mulinarono nell'olio bollente. Caddero dal mestolo formando una montagnola scintillante. Nick vide il proprio viso riflesso nello specchio unto sopra la cassa. Appariva vecchio e stanco. Gocce di saliva gli si erano raccolte agli angoli della bocca. Deglutì. La donna depositò le patatine in un sacchetto di carta marrone. «Sale e aceto?» La sua voce suonò improvvisamente acuta. Lui annuì, incapace di parlare. Osservò la pioggia di minuscoli cristalli bianchi ricoprire le patatine clorate. L'odore dell'aceto gli ustionò le narici. Prese il sacchetto, percepì il calore del contenuto attraverso la spessa carta marrone. Contò il resto. Uscì nella sera umida. Le sue mani annasparono.
Sentì l'unto aderirgli alle dita. Mangiò. Assaporò. Si riempì la bocca di cibo. Deglutì. «Marianne, sì, parlami di lei», rispose. «Mi piacerebbe davvero rivederla.» Era stata dura dopo la partenza di Nick per l'America. Era stata dura anche prima di allora, ma in un certo senso Marianne era riuscita a mantenere il controllo mentre la vita mostrava una vaga somiglianza con quella di un tempo. Poi, quando Nick se n'era andato, il mondo come lei l'aveva conosciuto era scomparso. Era tornata a casa, a Galway. «Ma ci telefonavamo continuamente. E andavo a trovarla un weekend sì e uno no. Preferiva non tornare a Dublino. Preferiva non venire qui a trovarmi o cose simili. Voleva che mi trasferissi là, che m'iscrivessi al college vicino a casa sua. Però io non volevo andarmene. Questa è casa mia.» Camminarono fino al mare. In mezzo alla baia erano ancorate alcune navi portacontainer. Le loro luci andavano lentamente su e giù mentre le imbarcazioni cavalcavano l'onda lunga. Nick riuscì a sentire il movimento dell'acqua attraversargli il corpo. Chiuse gli occhi e si arrese alle onde. «Allora, che cosa è successo?» «Esistono un sacco di termini ricercati per definirlo. Probabilmente schizofrenia paranoide è il più usato. Ma io preferisco pensare che sia andata in tilt, è un'espressione che mi piace molto di più. Cos'è successo a Marianne O'Neill? È andata via. Dov'è andata? In tilt. Cos'è tilt? Tilt è il regno dell'ignoto, dell'inconsapevolezza. È anche un luogo che offre sicurezza e riparo.» «Vuoi dire che ha avuto un crollo nervoso, vero?» «No.» Chris si voltò a guardarlo, il viso contorto dalla rabbia. «No, non ha avuto un crollo nervoso. Non è crollata. Non è andata a pezzi. Non ha fatto nulla di patetico, sintomatico di debolezza o negativo. Ha fatto qualcosa di positivo. Ha perso il lume della ragione. Si è trasformata in un'altra persona. In una pazza. Parlava, scriveva, dipingeva, cantava, scriveva canzoni e versi. Viveva senza dormire né mangiare. Diventò bellissima invece che semplicemente carina. Ma non volevano lasciarla in pace. Non volevano lasciarla così. La presero, i suoi genitori, e la chiusero in un istituto. La imbottirono di sedativi. La imbottirono di medicinali. Le diedero schifezze di ogni genere, tanto che divenne una cosa invece di una persona. La resero grassa e brutta e stupida. E diversa da qualunque cosa io avessi mai visto. Me la portarono via.»
Le imbarcazioni s'impennavano e ricadevano. Nick ne osservò le luci. Non riusciva più a capire dove terminasse il mare e iniziasse il cielo. I minuscoli punti luminosi formavano dei disegni. Sollevò la testa per osservare le sagome di costellazioni lontane, lontanissime. «Non è strano che possiamo trovarci all'interno della Via Lattea e contemporaneamente riuscire a osservarla come dall'esterno?» domandò. «Non ho mai capito sino in fondo come possa essere possibile.» Si appoggiarono al muraglione. Nessuno dei due parlò. L'orologio sul municipio batté le ore. Era l'una. Nick si voltò e cominciò ad allontanarsi, poi si fermò e si girò a guardare Chris. «Dove si trova adesso? La vedi spesso?» «Perché t'interessa? Perché lo vuoi sapere? Sei l'ultima persona al mondo di cui Marianne abbia bisogno, dopo quello che le hai fatto.» «Non è giusto, Chris. Qualunque cosa sia successa non è stata intenzionale. Non volevo fare del male a nessuno.» «No, sei come tutti gli altri. Non vogliono mai fare del male. Eppure lo fanno.» Strascicò i piedi sul marciapiede. «Non sono la persona adatta a cui chiedere notizie di Marianne. Ormai non la vedo più. Ma a volte viene a trovare tua moglie. Si mantengono in contatto, sempre ammesso di poterlo definire così. Non si possono avere contatti con Marianne. Non la si può toccare. È come se la sua parte sensibile, la sua carne viva, fosse stata rivestita da uno spesso strato isolante. Niente riesce a penetrarlo. Niente. Né voci né parole. Né lettere né musica né canzoni. Nessuno degli stimoli che un tempo avrebbero eccitato le sue terminazioni nervose. Niente di niente. Ormai entra ed esce continuamente dall'ospedale. E, quando è fuori, a volte sta bene e altre volte dorme all'addiaccio oppure vive in un ostello in città. Chiedi a tua moglie, sa sicuramente dove trovarla.» «Quindi i medicinali non funzionano?» «No, non come tutti vorrebbero. Non riportano a galla la vecchia Marianne né consentono la comparsa di una nuova Marianne. La mantengono in una sorta di limbo in cui niente è reale e niente è irreale, dove esiste solo il nulla.» Camminarono affiancati nel buio, verso la piazza. Cumuli di foglie morte erano addossati ai muri di granito dei giardini e, nel bagliore dei lampioni, le castagne d'India cadute brillavano come ciottoli lucidati dall'acqua di mare. «Avevo dimenticato quanto amo questo posto», dichiarò Nick. Si fermarono davanti alla casa di Chris.
«Entra», gli propose lui. «Voglio presentarti Amra. Hai già conosciuto Emir, credo.» «È così che si chiama il bambino? È tuo figlio?» Chris scosse il capo. «No. Ha nove anni ed è figlio di Amra. E la bambina, Sanela, è sua figlia. Ne ha quasi cinque.» Lo precedette salendo i gradini, prese le chiavi dalla tasca e aprì la porta d'ingresso. «Vieni, fa freddo qua fuori.» Nell'ingresso spiccava una fila ordinata di pantofole. Chris si tolse le scarpe e gli indicò di fare altrettanto. «Amra è molto pignola. Non le piace il modo in cui noi irlandesi portiamo dentro casa la nostra sporcizia. Secondo lei, andrebbe lasciata fuori, al suo posto.» Scalzi, entrarono nella stanza sulla sinistra. Era immersa nel buio. Una donna sedeva accanto a un fuoco morente, la testa china, le mani serrate energicamente tra le ginocchia. Non alzò gli occhi. «Amra, c'è una persona che vorrebbe conoscerti.» Chris le si accovacciò accanto e la baciò delicatamente sulla guancia. Lei non reagì. Lui si alzò e le arruffò i corti capelli neri, poi v'infilò le dita, serrando il pugno in modo da tirare verso di sé la testa della donna. Nessuna reazione nemmeno stavolta. «Santo cielo.» Lui mollò la presa e lei si afflosciò di nuovo. Chris guardò verso Nick, che indugiava sulla soglia con aria incerta. «È vittima di una delle sue piccole paturnie. Forza, lasciamola stare.» La cucina era fredda. Dal lavandino spuntava un'alta pila di piatti. Gli avanzi di un pasto ingombravano la tavola. Fagioli al forno coagulati sui piatti e pezzetti di pane tostato. Un cesto pieno di abiti sporchi dava alla stanza un odore acre. «I tuoi genitori, che ne è stato di loro?» chiese Nick. «Non l'hai saputo? La rete di pettegolezzi non ha raggiunto il posto in cui ti eri rifugiato?» Nick scosse il capo. Era stanco. L'unica cosa che desiderava, adesso, era dormire. «Siediti. Preparo del tè, se riesco a trovare qualcosa in cui farlo.» «No, non disturbarti, non per me. Devo andare.» «Oh, capisco.» Chris assunse un'espressione risoluta e un tono di voce seccato. «Facciamo gli schizzinosi per un po' di disordine domestico, vero? Non è quello a cui siamo abituati, giusto?» Nick si strinse nelle spalle. «Non si tratta di questo, solo che domani ho
parecchio da fare.» «Oh, già, che intenzioni hai? Vuoi giocare all'investigatore dilettante, è per questo che sei tornato? Qualche indagine alla Miss Marple o forse all'Hercule Poirot.» Il suo accento divenne una parodia di quello belga: «Mettendo in moto le piccole cellule grigie. Cercando gli indizi e le prove in grado di riportare indietro il bambino». Nick infilò le mani nelle tasche della giacca e si girò verso la porta. «Scusami, scusami.» Chris serrò la mano destra a pugno e se la picchiò con forza sulla fronte. «Non intendevo dire una cosa del genere. Mi sto comportando da perfetto idiota. È colpa della dannata roba, sai. Non dovrei fumarne così tanta. Ma a volte non ce la faccio, semplicemente. Non sopporto di pensare a Owen e a tutta quella faccenda. Ti prego.» Allungò una mano. «Ti prego, rimani, ti chiedo scusa. Rimani mentre preparo un po' di tè.» Restarono seduti insieme, immersi in un silenzio carico d'imbarazzo. Il tè era forte e scuro. Non c'era latte. «Si è dimenticata di comprarlo. E anch'io. Dovrò uscire presto, domattina, prima che i bambini si sveglino.» «Chi è e cosa ci fa qui? State insieme? Insomma, formate una coppia?» «Sì, per quanto possa apparire improbabile. Amra è bosniaca. È arrivata qui nel 1995. Suo figlio era rimasto gravemente ferito durante uno di quei terribili attacchi a colpi di mortaio, a Sarajevo. Il governo irlandese fece il suo dovere e si offrì di ospitare un certo numero di famiglie. Lei fu davvero fortunata a lasciare la Bosnia in quel momento.» «Come l'hai conosciuta?» «Venni assunto per insegnare l'inglese a tutti loro. Divenni molto amico di Amra. E anche dei bambini, benché Emir sia un vero problema. Non parla, sai.» «Ah, capisco. Pensavo che non aprisse bocca solo con me.» «No, non solo con te. Con chiunque. È muto. Il suo non è un problema fisico. Non c'è niente che non vada nelle sue corde vocali o simili. E lui è estremamente brillante. Un quoziente intellettivo altissimo. Un vero fanatico del computer. Ma, per qualche strano motivo, ha deciso di non comunicare verbalmente. Questo rende tutto molto difficile per sua madre.» «Posso immaginarlo.» Nick sorseggiò cautamente il tè. «Di tanto in tanto viene a trovarmi, sai. Gli do carta e matite. Disegna. Non riuscivo a capire bene cosa volesse rappresentare, ma adesso mi è tutto più chiaro.» «Che cosa disegna?»
«Un sacco di edifici in rovina, case, palazzi per uffici. Un sacco di uomini con fucili. Un sacco di fuochi. I suoi disegni sono molto espressivi.» Chris estrasse di nuovo la busta del tabacco. «Non per me.» Nick sollevò una mano. «Ho fumato abbastanza.» L'altro cominciò a rollarsi uno spinello. «Devi avvisarmi se comincia a fare disegni che riguardano sua madre.» «Come mai?» Chris si concentrò sul proprio compito. «È stata violentata, sai. Emir era molto piccolo. Vivevano in un villaggio fuori Sarajevo. Un giorno arrivarono i soldati serbi. Portarono via suo marito. E stuprarono lei. Fecero tutto davanti a Emir. Lei scappò in città, poi scoprì di essere incinta. Non sa chi sia il padre di sua figlia. Avrebbe potuto abortire ma non era sicura di volerlo fare, così portò avanti la gravidanza. E adesso, ogni giorno, guarda la piccola e s'interroga.» «Ma il bambino non lo sa, vero? Non ricorda sicuramente quanto è successo, giusto?» Chris si strinse nelle spalle. «Chi può dirlo? All'epoca non possedeva abbastanza proprietà di linguaggio per esprimere i suoi sentimenti. Ma l'assistente sociale e gli psicologi che lo hanno esaminato sostengono che le emozioni sono tutte lì, solo che non hanno modo di uscire. Comunque, ti sarei grato se m'informassi, nel caso i suoi disegni mostrino un contenuto di carattere sessuale. Mi servirebbe saperlo.» Si tolse gli occhiali e li posò sul tavolo. Si sfregò gli occhi e si massaggiò il ponte del naso. Senza gli occhiali sembrava il teenager che Nick ricordava. Aveva lo sguardo velato mentre accostava un fiammifero all'estremità arrotolata dello spinello. Inalò a fondo. «Ne sei innamorato?» chiese Nick. «Devi amarla per forza, se sei disposto a sopportare tutto il dolore che accompagna i figli altrui.» Chris soffiò fuori il fumo, un lungo getto grigio. «Aveva bisogno di aiuto. Era molto sola. Era rimasta annientata da quanto le era successo. Volevo fare qualcosa per compensare...» Esitò e si staccò dal labbro un frammento di tabacco. «Per compensare la faccenda di Owen.» Nell'ingresso alle loro spalle si udì un suono. Nick si voltò a guardare da sopra la spalla. La donna era ferma sulla soglia e li stava fissando. «Vado a letto», annunciò in tono piatto. «Certo, tesoro. Ti raggiungo presto.» Chris fece oscillare lo spinello nella sua direzione. «Torno a casa.» Nick si alzò.
Chris si appoggiò allo schienale della sedia. Gli ammiccò. «La sensazione di essere l'uomo di casa è piacevole, vero? Non avrei mai immaginato di apprezzarla. Invece è così.» La sua bocca si distese in un sorriso. Nick non replicò. Cominciò a dirigersi verso la porta d'ingresso, poi si fermò e tornò verso la cucina. «Non hai risposto alla domanda sui tuoi genitori», disse. «Dove sono?» «Sono morti tutti e due. Erano in vacanza in Spagna. Si trovavano su un'auto a noleggio, sulla strada che collega Malaga a Siviglia. Si sono scontrati frontalmente con un autoarticolato. Sono morti sul colpo. Al volante c'era mia madre. Secondo la polizia, probabilmente ha dimenticato su quale lato della strada doveva rimanere.» «Dio, non lo sapevo. Mi dispiace.» Il viso di Chris s'irrigidì. Lui si rimise gli occhiali. «Non ne hai motivo», replicò. «Ti prego, niente ipocrisie. Ricordo che non ti erano simpatici. Non scoppiò una lite per della musica suonata ad alto volume durante la notte o roba simile? Bottiglie vuote abbandonate nel giardino anteriore o qualcosa del genere?» Un diverbio davanti all'ingresso. Nick in vestaglia, in preda ai postumi di una sbornia, la casa piena di bottiglie vuote e bicchieri sporchi. Owen che strillava nel suo lettino al piano di sopra. Il viso di Brian Goulding livido di rabbia. Chris continuò. «Non piacevano nemmeno a me. Sono morti e mi hanno lasciato questa casa. Adesso ho Amra e i bambini. Sono tutto ciò di cui ho bisogno. Tutto ciò che desidero. Ho una casa mia e una famiglia mia.» «E tua sorella? Cosa puoi dirmi di lei? Partecipa ancora alla vostra vita?» Chris diede un altro energico tiro allo spinello, poi alzò gli occhi verso Nick. «Oh, sì, mia sorella. L'hai incontrata, me l'ha detto. Mi ha detto che non approvavi.» Nick si strinse nelle spalle. «Ho pensato che era un peccato che stesse facendo quello che stava facendo. Tutto qui. Sono rimasto stupito. Non me lo sarei mai aspettato da lei.» «Oh, certo.» Chris ridacchiò. «Però l'hai fissata, vero? Proprio come il resto dei presenti. Non riuscivi a levarle gli occhi di dosso. Me l'ha detto. Ti aveva notato sin dall'inizio. Ha detto che non ne avevi mai abbastanza. Continuavi ad avvicinarti sempre di più al palcoscenico. Stavi sbavando, mi ha detto, morivi dalla voglia.» Sghignazzò, le spalle che sussultavano.
«Sbavando. Me l'ha detto lei. Mi ha telefonato e si è sganasciata dalle risate. E anch'io ho riso. E ho detto: 'Quello stronzo ha ricominciato. Non cambia mai'.» Si alzò, le gambe della sedia che grattavano sul pavimento. Passò accanto a Nick e raggiunse la porta d'ingresso. Si voltò a guardarlo. «Sai, quando penso a tutto ciò che avevi... Una moglie, un figlio, una casa, un'amante, è così che la definiresti? Una carriera, una discreta fama, un futuro. E adesso cos'hai, Nick? Dimmelo. Cos'hai? Poi guardo me stesso e penso che non avevo niente, mentre adesso ho tutto questo. Non male, vero? Davvero niente male.» Aprì la porta e appoggiò la schiena al muro. «Adesso salutiamoci, piccolo Nick. Oh.» Si girò verso di lui e gli posò una manp sulla spalla. «Un'altra cosa. Non dimenticare le scarpe. È una sporca nottata umida e non vorrei che tu prendessi freddo.» I disegni di Owen erano ancora sparsi sul pavimento, dove Nick li aveva lasciati. Si chinò e cominciò a radunarli. Il bambino aveva reso giustizia ai suoi soggetti. Chi gli aveva insegnato a vedere in quel modo? Nick si era vantato con Susan sostenendo che Owen aveva ereditato il talento dei Cassidy. «È una caratteristica di famiglia», aveva spiegato. «Tutti i Cassidy sanno disegnare e dipingere.» Susan aveva riso di lui e replicato: «Già, certo, tutti i Cassidy sono bravi a inventare, vero? Sognatori, dotati di una fervida immaginazione, abituati a seguire i rispettivi capricci, ecco cosa siete.» E lui aveva ribattuto, con non poco rancore: «Non intendi dire che siamo creativi? Dinamici, volubili, perspicaci, espressivi, non vincolati dai ceppi dell'empirismo come te?» Prese il ritratto di Marianne disegnato da Owen. Si sedette e cercò nella tasca interna la fotografia che aveva staccato dal tabellone in ospedale. Confrontò le due immagini. Owen aveva visto la ragazza come una principessa con una coroncina in testa. Lei stava sorridendo, la bocca aperta in un sorriso a forma di triangolo. Gli occhi erano rotondi e castani, e i capelli con la scriminatura centrale divisi in due grosse trecce che le cadevano sulle spalle. Owen aveva disegnato un grande fiocco rosso in fondo a ognuna. Le aveva dato un vestito color argento, con una lunga gonna da cui spuntavano i piedi della ragazza. Una creatura diversa lo fissò dalla lucida carta fotografica. I capelli erano cortissimi, quasi rasati a zero, tanto da vicino ombreggiavano le ossa del cranio. E non c'era alcun sorriso sul visino. Un tempo lo si sarebbe definito a forma di cuore. Un'espressione troppo usata,
pensava sempre lui. Quel volto era più simile a un triangolo equilatero, gli zigomi ben definiti, il mento appuntito, la fronte esposta dalla scarsità di capelli. Nick posò disegno e foto e raggiunse i dossier portati da Min. Li sfogliò fino a trovare quello che recava il nome di Marianne O'Neill. Tornò verso il divano e si sedette. Aprì il fascicolo. Cominciò a leggere. Deposizione rilasciata al sergente investigativo James Fitzgibbon, 2 novembre 1991 Mi chiamo Marianne Gemma O'Neill. Il mio indirizzo è 26 Victoria Square, Dún Laoghaire, Contea di Dublino. Ho diciannove anni. Lavoro come bambinaia per Nick e Susan Cassidy. Mercoledì 31 ottobre sono rimasta in casa con Owen Cassidy fino alle dodici e mezzo. Sia Nick che Susan erano fuori. Susan era al lavoro, al South Dublin Children Hospital. Nick mi aveva detto di avere un appuntamento a Ranelagh con la sua editrice per discutere di un nuovo libro che intendeva illustrare. Susan uscì per andare al lavoro alle sette del mattino, come sempre. Non la vidi prima che uscisse ma la sentii nel bagno che è attiguo alla mia stanza. Mi alzai alle nove. Di solito mi sveglio prima, ma visto che erano iniziate le vacanze di metà trimestre, Owen non doveva andare a scuola, così rimasi a letto fino a tardi. Lui entrò in camera mia alle otto e mezzo. S'infilò nel mio letto e mi chiese di leggergli qualcosa. Gli risposi di no perché so che è capacissimo di leggere da solo, ma alla fine mi arresi e gli lessi un paio di capitoli del suo libro. Sentii Nick muoversi nella cucina al piano di sotto. Quando Owen e io scendemmo scoprimmo che aveva preparato la colazione per tutti. Mangiammo uova strapazzate e pane tostato. Io bevvi del caffè e Owen del succo d'arancia. Dopo la colazione lavai i piatti e caricai la lavatrice. Owen era tornato di sopra a vestirsi. Io feci un bagno, poi mi vestii e scesi di nuovo al piano di sotto. Owen e Nick stavano discutendo. Nick gli aveva detto che doveva uscire e Owen era turbato perché voleva che il padre lo accompagnasse a cercare legna per il falò. Voleva anche che lo aiutasse a dare gli ultimi ritocchi al suo costume. Era un costume da volpe e lui non era molto soddisfatto del colore. Pensava che dovesse essere di un arancione più brillante e aveva chiesto a Nick se poteva usare alcune delle sue tempere per modificarlo. Nick si era arrabbiato e gli aveva risposto che quelle tempere erano molto costose e che non aveva nessuna intenzione di sprecarle su uno stupido vecchio costume per Halloween. Poi disse a Owen che doveva andare e che io lo avrei aiutato con qualunque cosa gli servisse,
ma gli ricordai che mi aveva detto che potevo prendermi il giorno libero. Volevo trascorrere un po' di tempo con il mio ragazzo, Chris Goulding, che abita nella casa accanto. Nick, però, mi rispose di non pensarci nemmeno, che era compito mio badare a Owen quando lui e Susan non erano in grado di farlo, che me l'avevano spiegato chiaramente quando mi avevano accolto in casa loro. Che in realtà mi stavano facendo un favore e che quello era il minimo che potessi fare. Protestai dicendo che avevo già preso accordi, ma lui s'infuriò e cominciò a urlare. Poi prese la sua ventiquattrore e disse che non sapeva a che ora sarebbe rincasato; mi chiese di assicurarmi che Owen pranzasse in modo adeguato, precisò che non dovevo portarlo nella bottega di patatine fritte ma cucinargli qualcosa. Infine se ne andò. Erano circa le undici, anche se non posso esserne sicura. Comunque ero piuttosto furiosa con lui. Così feci qualche lavoretto, stirai un po' e, verso mezzogiorno, diedi a Owen una scatoletta degli anellini di pasta che gli piacciono tanto e poi telefonai alla madre del suo amico, la signora Reynolds. Abitano sul lato opposto della piazza e Luke è il migliore amico di Owen. Le chiesi se Luke voleva venire a giocare con Owen. Luke arrivò circa un quarto d'ora dopo. Spiegai a tutti e due che dovevano uscire a cercare legna e, non solo, potevano andare in città a comprarsi qualche fuoco d'artificio. Dissi che c'era un sacco di gente che li vendeva nel centro commerciale. Sono consapevole che non avrei dovuto farlo perché so che sono illegali e anche pericolosi, ma volevo semplicemente convincere Owen ad andarsene e lasciarmi in pace. Così andai nello studio di Nick per prendere il vasetto dove lui tiene gli spiccioli. Lo capovolsi e presi circa dieci sterline in monetine, le diedi a Owen e dissi che poteva spenderle. Ma lui era arrabbiato con me. Disse che voleva passare la giornata con me, che avevo promesso di aiutarlo con il suo costume. Si arrabbiò e cominciò a urlare. E anch'io m'infuriai. Lo picchiai. So che non avrei dovuto farlo, ma mi stava seccando. Si stava dimostrando davvero appiccicoso e infantile. Continuava a cercare di abbracciarmi e di sedersi sulle mie ginocchia e io gli dissi di non fare il bambino. E lui chiese perché non poteva venire con me dai Goulding, disse che di solito glielo permettevo e che gli piaceva stare con noi. Ma ero decisa a non lasciarlo venire con me, stavolta. Così, verso l'una andai dai Goulding, alla porta accanto. Owen e Luke Reynolds uscirono alla stessa ora. Spiegai che sarei tornata verso le cinque e che se si sentivano stanchi o affamati o altro dovevano andare a casa di Luke. Così andai dai Goulding e passai il resto della giornata lì. C'era Róisín, la sorella di
Chris, e il suo ragazzo, Eddie Fallen. Chris aveva dell'acido e ne prendemmo tutti un po'. Per me era la prima volta e fu un'esperienza straordinaria. Mi sentii come mi ero sentita prima di ammalarmi, quando ero bambina. Era come se fossi tornata quella persona. Volevo rimanere così in eterno. Non volevo uscirne. Invece mi addormentai e quando mi svegliai non sapevo che ora fosse ma sapevo di dover tornare a casa Cassidy. Susan Cassidy era lì. Era tornata un po' prima del solito perché era Halloween e, quando mi chiese dov'era Owen, non fui in grado di risponderle adeguatamente. Ero ancora piuttosto sballata. Dissi che pensavo fosse dai Reynolds, anche se non ne ero sicura. Ma quando lei telefonò alla signora Reynolds quest'ultima le disse che non aveva visto Owen e che Luke era tornato a casa verso le tre senza più rivedere l'amico. Così aspettammo per un po' e poi arrivò Nick. Ormai era buio e loro cominciavano a preoccuparsi. Così uscii e feci il giro della piazza e poi m'infilai nei vicoli posteriori dove spesso i bambini andavano a giocare e continuai a chiedere alla gente, dappertutto, se avessero visto Owen perché lì nei paraggi lo conoscevano tutti. Era molto popolare. Ma nessuno sapeva dove fosse, così tornai a casa e poi, penso fossero le sette circa, quando ormai Nick e Susan cominciavano davvero a preoccuparsi decisero di chiamare la polizia. La firma aveva un che di sgraziato. Nick ricordò che Marianne aveva perso parecchi mesi di scuola quando era stata malata. Aveva trovato arduo inserirsi alle scuole superiori. Restava sempre indietro rispetto alle compagne. I suoi genitori avevano temuto che non riuscisse a cavarsela, che non sarebbe mai stata in grado di vivere autonomamente come adulto. Ma Susan aveva tentato di rassicurarli. Lui ricordò di averla sentita parlare al telefono. Sempre paziente, sempre gentile. Marianne non avrebbe avuto problemi. Era una ragazza in gamba. Le serviva solo un po' di fiducia. Ricordò la lite di quella mattina. Il modo in cui la ragazza gli aveva tenuto testa. Si era infuriato con lei. Era tutto programmato. Aveva un appuntamento con l'editrice, ma sarebbe durato al massimo mezz'ora. Poi sarebbe andato a comprare qualche regalino. Una bottiglia di buon vino. Pane appetitoso e formaggio. Da portare a Gina. Raggiunse il tavolo da disegno. Vi stese sopra un foglio di carta bianco. Frugò tra le scatole di pennelli. Il più pregiato pennello di martora, ecco cosa cercava. Svitò il tappo di un flaconcino di denso inchiostro nero. La storia di Marianne gli comparve davanti. In bianco e nero. Un fregio di
immagini. Quel giorno, così come lei l'aveva descritto. I fogli caddero a terra, uno dopo l'altro, accanto a lui. Quando finì di disegnare si chinò e li raccolse, poi li fissò con il nastro adesivo, in ordine cronologico, alla parete sopra il caminetto. Indietreggiò per osservarli. Infine si sdraiò sul divano e si coprì con una coperta. Chiuse gli occhi. Si addormentò. 17 Riconobbe la ragazza che gli si parò davanti sul molo e pronunciò il suo nome ad alta voce? Portava un berretto lavorato a maglia, strisce color arcobaleno, ben calcato sulla fronte tanto da coprirle quasi le sopracciglia. E, a dispetto della giornata di nuovo tiepida e soleggiata, indossava un lungo cappotto grigio il cui orlo le toccava la punta dei robusti stivali neri con i lacci. Si era svegliato con il sole che gli batteva sul viso. Aveva fatto una doccia e la colazione. Era tardi. Mezzogiorno passato. Quando uscì, il cielo era celeste, ripulito dalla pioggia della sera precedente. Il bambino sedeva sui gradini davanti alla porta della casa accanto. Nick si fermò e gli porse la mano. Il piccolo la prese. «Chiederemo a tua madre, d'accordo? Le chiederemo se puoi venire giù fino al mare con me.» Alzò gli occhi. Amra era in piedi sulla soglia. «Per lei va bene? Mi prenderò cura di lui. Gli serve soltanto una giacca.» La donna annuì. Scomparve dentro casa e tornò dopo un paio di minuti. Passò a Nick una giacca a vento di un rosso sbiadito, con il cappuccio. «Lui essere buono. Lui essere bravo bambino con te», promise. Avevano camminato fino al molo. Emir aveva lasciato andare la mano di Nick e lo aveva preceduto saltellando. C'erano gruppetti di uomini intenti a pescare dai muraglioni di granito. Il bambino si accovacciò, ispezionando le loro borse piene di esche. Nick si sedette su una bitta e girò il viso verso il sole. Poi sentì la voce della ragazza e vide il suo volto. «Nick, Nick, Nick, Nicky, Nicky, Nicky.» La ragazza ripeté il suo nome più e più volte, come se ne stesse assaporando il suono in bocca. Ai suoi piedi si accovacciò un cagnolino nero che poi lo fissò con lo stesso intenso
sguardo castano della padrona. «Nick, ho saputo che eri tornato. Me l'ha detto Susan. Volevo vederti. Sono venuta a trovarti. Sono andata alla casa, ma non c'era nessuno. Nemmeno una persona, neanche una. Nemmeno una persona in tutto il mondo. Poi ho riflettuto. Mi sono interrogata. Se io fossi Nick e fosse una giornata di sole e il mondo sembrasse bellissimo e io volessi vederlo e godermelo come facevo un tempo, dove andrei? E se volessi trovare il mio bambino e stare con lui come facevo un tempo, dove andrei? E, naturalmente, a quel punto è stato facilissimo. Una volta entrata nella tua testa, ho capito dove venire, cioè qui.» Allargò le braccia e ruotò su se stessa, e il molo e l'azzurro del mare e l'enorme traghetto bianco e i gabbiani nel cielo e la scialuppa di salvataggio che rollava all'ancora e le donne che portavano a spasso i figli nella carrozzina ruotarono insieme a lei. Un caleidoscopio di colore e desiderio e tepore e luminosità e felicità, tutti che si muovevano e cambiavano forma mentre lei si muoveva. E il cane le saltellò accanto, continuando ad abbaiare, la lunga lingua rosa che penzolava da un angolo dell'umida bocca nera. Ed Emir corse verso Nick e gli si aggrappò alle gambe, la bocca che si apriva e chiudeva ritmicamente senza emettere alcun suono, gli occhi serrati, le piccole dita magre che frugavano tra il tessuto dei jeans dell'uomo mentre si stringeva a lui. E Marianne abbassò lo sguardo sulla zazzera bionda del bambino e poi lo riportò sul viso di Nick, s'inginocchiò e tese una mano per toccare il piccolo, mormorando così sommessamente che Nick riuscì a stento ad afferrare le parole. «Sei tu, mio tesoro? Sei tu, bambino mio? Sei tu, mio padroncino? Sei tu, il mio Owen, la luce della mia vita, il mio sogno, la pupilla dei miei occhi, il canto del mio cuore?» Ma Emir allungò le mani verso il viso di lei, le dita trasformate in artigli, e le impresse dei graffi rossi sulle guance, tanto che la ragazza cadde all'indietro con un grido, perdendo l'equilibrio e piombando scompostamente sulle tiepide pietre di granito del molo. «Sstt, smettila, Emir, calmati. È tutto a posto, nessuno ti farà del male.» Nick si chinò e lo prese in braccio, stringendolo goffamente, tentando di immobilizzargli gambe e braccia per impedirgli di scalciare o cercare di graffiare o mordere. «È tutto a posto. Lei è un'amica, Emir, una persona simpatica, una persona buona. Non ti farà del male.» Aspettò che il cuore del bambino smettesse di battere in modo concitato e irregolare come quello di un uccello in preda al panico, poi lo depose con cautela a terra, allun-
gò una mano verso quello che sembrava un cumulo di abiti vecchi gettati a terra e trovò la mano minuta di Marianne e la strinse; infine le si accovacciò accanto, mormorando anche a lei parole consolatorie. «È tutto a posto, Marianne, si è semplicemente spaventato. Non parla inglese. Non parla affatto. Viene dalla Bosnia. Ha attraversato un gran brutto periodo. Ha visto cose terribili da piccolo. Ha bisogno di tanto amore e affetto. Ha bisogno d'aiuto.» Lei alzò il viso. I graffi erano profondi. Minuscole stille di sangue le formavano una linea tratteggiata sulla guancia. «Adesso alzati. Vuoi venire a casa con me? Devi bagnare quei graffi. Dubito che le unghie di Emir siano le più pulite del mondo. Sai come sono i bambini...» Alzò una mano per carezzarle la sommità del capo, poi la lasciò ricadere, tastò le ossa della spalla di Marianne, la magrezza della parte alta del braccio. Aspettò mentre lei si ricomponeva e si alzava, lentamente, avviluppandosi nel pesante cappotto, raddrizzandosi, le lacrime che sgorgavano ancora copiose. «Dov'è Timmy?» chiese, estraendo un pezzo di corda dalla tasca. «Andrebbe tenuto al guinzaglio. Qui non amano i cani che se ne vanno in giro da soli. Intralciano la gente, qui tutti si arrabbiano molto quando i cani sono liberi. Così li portano via e tu devi pagare un sacco di soldi per riaverli. E io non ho soldi, non abbastanza per pagare. Riesci a vederlo da qualche parte?» Il cagnolino non era andato lontano. Aveva fatto amicizia con un Labrador nero e stava saltellando sotto il podio per la banda. Nick lo raggiunse di corsa, gli afferrò il collare e vi legò un'estremità della corda. Emir osservò la scena, il pollice in bocca. «Vieni.» Nick gli tese la mano. «Andiamo a casa.» Accese il fuoco nella stufa, aspettando che prendesse e che dietro lo sportello di vetro comparisse un bagliore di un rosso opaco. Poi cominciò a cucinare. Il suo sugo per la pasta preferito. Marianne ed Emir erano seduti al tavolo di cucina e lo guardavano. Le due paia di occhi, castano scuro, verde chiaro, seguivano ogni suo movimento. Il cane era raggomitolato in un angolo, drizzando occasionalmente un orecchio. Tagliuzzò sottili striscioline di bacon e cominciò a friggerle nell'olio d'oliva. Aggiunse aglio, poi pomodori in scatola e fettine di peperoncino scarlatto. Aggiunse altro olio e lasciò sobbollire il tutto. Affettò un lungo filone di pane francese. Accese il bollitore e riempì d'acqua la pentola, poi vi
gettò manciate di pasta, penne, tubicini dalle aguzze estremità oblique. Le finestre della cucina si appannarono per il vapore. Il profumo del cibo fece venire l'acquolina in bocca a tutti e gli stomaci brontolarono per l'anticipazione. Nick canticchiò mentre lavorava. «Sei la mia luce del sole, la mia unica luce del sole, Mi rendi felice quando il cielo è grigio.» La voce di Marianne intonò i versi successivi. «Non saprai mai, tesoro, quanto ti amo Ti prego, non portarmi via il mio sole.» Nick si voltò a guardarla mentre mescolava il contenuto della pentola. Si era tolta il berretto. Il suo cranio appariva bianchissimo sotto la peluria scura della testa rasata. «Il cappotto, Marianne. Adesso puoi levarlo. Qui fa caldo.» Lei scosse il capo e se lo strinse ancor più intorno alle spalle magre. Ma stava sorridendo per la prima volta, mentre cantava, le parole che le sgorgavano dall'ampia bocca morbida, uno stivaletto che teneva il tempo sotto il tavolo. Al suo fianco, anche Emir teneva il tempo, con un cucchiaio di legno. Osservava attentamente la ragazza, la bocca che si apriva e si chiudeva imitando la sua. Nick ruotò su se stesso e raggiunse Marianne con qualche passo di valzer. Le tese la mano e la fece alzare per ballare, cantando ad alta voce. «L'altra notte, tesoro, mentre dormivo Ho sognato di tenerti tra le braccia Ma quando mi sono svegliato, tesoro, ho capito che mi sbagliavo Così ho chinato la testa e ho pianto.» Lei scoppiò in una sonora risata mentre piroettavano in giro per la stanza, evitando il divano, il tavolo da disegno, il tavolo e le sedie. Cantarono in coro. «Ti amerò per sempre e ti renderò felice
Se solo dirai la stessa cosa Ma se mi lasci per amare un altro Prima o poi te ne pentirai.» Nick sentì le dita di Marianne stringergli la sezione superiore delle braccia e la fece girare sempre più vorticosamente, ripetendo le parole della canzone mentre la stanza ruotava intorno a loro, bambino, cane, pentole gorgoglianti sui fornelli, bagliore scarlatto del fuoco nella stufa. Tutto tiepido e brillante, e le loro voci forti e intonate. Quando giunsero nuovamente in fondo al ritornello cantato in coro, lui lasciò cadere le mani e indietreggiò con un inchino, poi accompagnò Marianne al suo posto a tavola, scostando la sedia e aiutandola meticolosamente ad accomodarsi. Tornò ai fornelli, infilzò con la forchetta una penna e la sollevò, i denti che affondavano nella morbidezza del grano duro cotto, sentendo il calore sulla lingua e sulla delicata carne rosa all'interno della bocca. Il cane si drizzò a sedere, tutta l'attenzione concentrata sul cibo. Nick gli mostrò il pezzo di pasta e poi glielo lanciò. L'animale spiccò un balzo, le mascelle che si serravano sulla penna, inghiottendola in un solo boccone. «Sì, bravo», gridò Nick e Marianne batté le mani minute. E per un attimo lui sentì un empito di tutta quella vecchia, familiare felicità e soddisfazione. Poi udì dei passi nella cucina soprastante. Alzò gli occhi e anche Marianne li alzò, il sorriso che le svaniva dal volto nel percepire lo scricchiolio dell'assito. Gli occhi le si colmarono di lacrime e lasciò ciondolare la testa verso il cane, nuovamente accovacciato ai suoi piedi. Nick si voltò verso la cucina economica. Sollevò la pentola e cominciò a scolare la pasta. Dietro di lui, Emir si alzò dal tavolo. Nick girò la testa e osservò il bambino che, con un dito, cominciava a disegnare sulla finestra appannata dal vapore. Due cerchi per gli occhi, una macchia per il naso e infine la bocca, una curva convessa con gli angoli rivolti verso il basso. Poi Emir si voltò, posò la mano sulla spalla di Marianne e accostò il viso al suo. Aprì la bocca, spinse fuori la lingua e cominciò a leccarle le lacrime. Mangiarono, trovando tutto squisito. Nick stappò una bottiglia di vino rosso. Offrì un bicchiere alla ragazza, che annuì energicamente. Versò il vino. Bevvero. Versò di nuovo. S'infilarono in bocca l'arancione brillante della pasta al sugo. Il sole del tardo pomeriggio entrava obliquamente dalle porte a vetri. Il vapore scomparve lentamente, e con esso il visino disegnato sul vetro. Marianne ridacchiò e sorrise. Nick le raccontò alcune storie. I suoi viaggi in giro per l'America. I luoghi in cui aveva vissuto. Le persone
che aveva conosciuto. Le parlò delle lezioni che teneva, dei disegni che aveva fatto. «Però sei tornato», dichiarò lei. «Ho sempre saputo che saresti tornato. Sapevo che non avresti abbandonato Owen per sempre.» Lui non rispose. Spinse via il proprio piatto e si riempì il bicchiere. Si alzò. «Vieni qui, Marianne.» Le tese la mano. Il viso della ragazza si colmò di apprensione. «È tutto a posto, voglio solo mostrarti una cosa.» Si avvicinarono insieme alla parete sopra il caminetto. «Guarda. Cosa vedi?» «Quella sono io», rispose lei, indicando. «E là c'è il mio bambino. E ci sono quello della porta accanto e quella della porta accanto e il suo ragazzo, quel tale Fallen. E là l'angelo Susan e tu, e la donna cattiva con cui eri.» «E quello chi è, Marianne?» Nick picchiettò con il dito sulla carta. La sua unghia si posò appena sopra la testa di Luke Reynolds. «Lo riconosci?» «È un altro tipo cattivo. Raccontava bugie. Era malvagio. Era nocivo per Owen. Gli insegnava brutte cose. Gli faceva fare brutte cose. Owen fu sempre buono finché non conobbe Luke Reynolds, dopo di che le cose cominciarono ad andare male. Luke non era buono.» Marianne iniziò a piagnucolare, stringendosi nel cappotto e dondolandosi da una parte all'altra. «Non buono, non buono, era un bambino cattivo. Era un bambino cattivo. Non buono, non buono.» Il suo tono di voce cominciò ad alzarsi sempre più. Emir lasciò la sedia e le si avvicinò lentamente, in punta di piedi. Anche il cagnolino si era alzato ed era andato a strofinarsi contro la gamba del piccolo, la coda ritratta tra le zampe magre. «Perché non parla?» Marianne si rivolse al bambino. «Parlami, piccolo, raccontami la tua storia. Raccontami del tuo passato, da quando sei nato fino a oggi. Raccontami chi sei.» Gli s'inginocchiò di fronte e gli posò entrambe le mani sulle spalle. Accostò il viso a quello di Emir e premette il naso contro il suo. «Inalami dentro di te, piccolino, e ti proteggerò dal male. Ecco, voglio darti qualcosa che ti proteggerà da qualunque guaio.» Armeggiò sotto il cappotto per sfilarne un dischetto di pietra verde. Lo tenne sollevato e glielo mostrò.
«Lo vedi?» Lui non rispose. «Proviene dalle zone più remote della terra. È scaldato dal mio corpo e, quando te lo metterò al collo, porterà con sé il mio calore e riscalderà anche te. Porterà con sé il mio spirito e la mia anima e il mio sangue vitale e ti salverà nello stesso modo in cui io sono stata salvata dal sangue vitale di un altro. Ecco.» Glielo fece passare sopra la testa, poi gli allargò il colletto rotondo del maglioncino e infilò il cordoncino sotto la lana sbiadita. Gli premette il palmo della mano sul torace. «Lo senti? Ti dà una sensazione piacevole?» Emir la fissò, gli occhi verdi come la pietra, poi indietreggiò e si sedette sul pavimento. Appoggiò la schiena al muro ed estrasse il dischetto da sotto i vestiti. Se lo premette sulle labbra e se lo strofinò sul visino. «Tieni, Emir, è per te.» Nick prese un blocco di spessa carta da disegno, lo aprì su una pagina bianca e lo lanciò attraverso la stanza, facendolo roteare. «Anche questa.» Il blocco fu seguito da una grossa matita che fece capriole sopra l'assito. «Disegnami qualcosa. Qualcosa che ti piace.» Si sedette sul divano e, a gesti, invitò Marianne a raggiungerlo. Lei scosse il capo e rimase ferma davanti al fregio sulla parete. «Vedo quel giorno», dichiarò. «Vedo tutto.» «Che cosa vedi?» «Vedo il mattino, vedo il momento in cui ho salutato il bambino. Mi vedo in piedi davanti alla porta, mentre busso. Vedo Chris che m'invita a entrare.» Marianne s'interruppe. Sollevò le mani e le posò, piatte, sui disegni. «Dov'è quello che è successo dopo?» Lui si riempì di vino il bicchiere. «Dovrai raccontarmelo tu, Marianne. Tu sai cos'è successo. Io no.» Le offrì il proprio bicchiere e lei se lo accostò alle labbra e bevve avidamente. Il vino le colò giù per il mento e sgocciolò a terra. Marianne posò il bicchiere sulla mensola del caminetto e si tolse il cappotto. Sotto indossava un giacchino di seta trapuntata. Un tempo era stato di un turchese brillante e sulla schiena era ricamato un dragone rosso. Lui lo conosceva. Lo aveva comprato per Susan su una bancarella specializzata in abiti usati nel mercatino londinese di Portobello, tanto tempo prima. Prima che si sposassero. Ormai era sbiadito e lacero. Coperto di toppe e altre decorazioni. Perline di cristallo erano state cucite sulle maniche, stelle e cerchi ricamati lungo il colletto alto. Era abbinato a un paio di jeans molto attillati. Anch'essi erano
stati rattoppati, abbelliti, losanghe dai colori vivaci che conferivano a Marianne l'aspetto di un arlecchino. Lei riprese il bicchiere e lo porse a Nick, che lo riempì. Bevve. Cominciò a parlare. «Ecco come andò quel giorno. Mentre le foglie cadevano dagli alberi formando cascate dorate, mandai via il mio piccino con quel bambino cattivo, Luke. Diedi loro qualche soldo per i fuochi d'artificio. Il mio piccino pianse e io lo picchiai. Pianse ancora. Disse che mi odiava. Risi di lui. Dissi che anch'io lo odiavo. Andai alla casa accanto. Bussai. Chris venne ad aprire. Entrai e scesi le scale che portavano nel seminterrato. Lì c'era buio ma faceva caldo perché Chris aveva acceso un gran fuoco. La stanza era piena di calore. Il fuoco era molto rosso. Mi tolsi i vestiti. Anche lui si tolse i vestiti. C'erano Róisín e l'altro ragazzo, Eddie. Si spogliarono. Bevemmo vodka. Chris aveva preparato un sacco di spinelli. Fumammo e bevemmo. Eravamo così felici. Stavamo ridendo, tutti. C'era della musica. Stavamo ballando. Eravamo così buffi senza vestiti. Eravamo anche bellissimi. Soprattutto Chris. La sua pelle era liscia e bianchissima. Volevo baciarlo, volevo che mi baciasse. Poi lui disse che aveva qualcosa di speciale da darci. Aprì il pugno. C'erano delle pillole. Ci disse di non aver paura, che erano la cosa più buona del mondo. Io ne presi una e lo stesso fecero tutti gli altri.» Si interruppe. Nick aspettò. Guardò Emir, all'estremità opposta della stanza. Aveva la testa china sul blocco di carta. Una mano stava scarabocchiando, l'altra era contratta tra i suoi capelli. Marianne riprese a parlare. Iniziò a camminare descrivendo un quadrato, da un angolo all'altro. Posava accuratamente i piedi a terra, uno davanti all'altro. «Il mio corpo è inondato, inondato di piacere. Sono così felice. Lui ha cancellato le cicatrici del mio mondo. Non ho più cicatrici. Non ho più paura. Non ho paura che il cancro torni a corrodermi di nuovo. Paura che il midollo magico smetta di funzionare rendendomi fiacca e debole e inerme. Paura che davanti ai miei occhi non vi siano che buio e notte, freddo e dolore. Ci sdraiamo insieme davanti al fuoco. Lui fa parte del mio corpo. Ci stiamo trasformando in una creatura con due teste, quattro braccia, quattro gambe. Saremo come gemelli siamesi, inseparabili. Insieme. Non ci sarà mai più niente al di fuori di questa stanza, mai più. Poi succede qualcosa. Non so bene cosa. Apro gli occhi. Sono stesa sul materasso. Ho freddo. C'è polvere e sporcizia. Il sole non riesce a brillare attraverso le finestre perché sono sudice. Mi metto seduta. E vedo Chris. È in piedi sopra di me. Ha una
macchina fotografica. Sta fotografando il mio corpo. Mi spinge da una parte, dall'altra.» Si sdraiò sul pavimento, a gambe divaricate. Si girò e si stese bocconi, poi si mise carponi. Si accoccolò e si raggomitolò in posizione fetale. Piegò un braccio dietro la testa, il palmo rivolto verso l'esterno. «No, Chris, non farlo. Non mi piace. Non adesso. Non così. So che puoi vedere attraverso di me con la tua fredda lente di vetro. Puoi vedere il mio sangue. Puoi vedere cosa sta succedendo lì. Non voglio saperlo. Non voglio che tu me lo dica. Smetti di farmi una cosa del genere. Non così.» Si rialzò e si coprì gli occhi con le mani. «Chris, smettila. Non farlo. Ho freddo, Chris. Scaldami con il tuo calore. Abbracciami.» Allungò le braccia. «Sdraiati accanto a me, Chris. Stringimi.» Si stese nuovamente su un fianco. «Stai con me. Sii il mio amore. Il mio amato Chris. Ho tanta paura. C'è del sangue sulle pareti. Sangue sul pavimento. Qualcuno sta urlando. Sento delle urla. Sono così forti nelle mie orecchie. Qualcuno sta chiedendo aiuto. Qualcuno ha paura. E poi è come se uno specchio penzolasse dal soffitto e io vedo, all'improvviso vedo che sono io. Sento che sono io. È la mia voce. È il mio grido, il mio urlo, la mia paura. Sono io.» Si drizzò a sedere e cominciò a strillare. «Aiutatemi, aiutatemi. Vi prego, qualcuno mi aiuti. Sto morendo. Non voglio morire. Sono terrorizzata, sono impotente. Per favore, qualcuno metta fine a tutto questo e mi salvi. Qualcuno sistemi le cose.» I suoi occhi erano aperti, ma guardavano attraverso Nick, al di là di Nick. Suo malgrado, lui girò la testa per guardare, seguendo la direzione dello sguardo di lei. Poi tornò a fissare la ragazza. Le lacrime le stavano rigando il viso. «Cosa è successo a Owen, Marianne? Tu eri con Chris, Róisín e Eddie. Io ero con Gina. Susan era al lavoro. Luke era a casa con sua madre. Quindi dov'era Owen e cosa gli è successo?» Ma lei chinò il capo e cominciò a scrollarlo lentamente. Emir si trovava accanto a lei. S'inginocchiò e le cinse le spalle con le braccia. La strinse convulsamente, dondolandosi con lei. E anche il cane si accovacciò, una zampa posata sulla coscia di Marianne. Nick osservò la scena. Aspettò. Il pianto della ragazza cominciò ad attenuarsi. I suoi occhi si chiusero. Cominciò finalmente a respirare a fondo.
«Vieni qui.» Nick si alzò e andò a inginocchiarsi accanto a loro. Fece alzare Marianne sottraendola alla stretta del bambino e la indusse a sdraiarsi sul pavimento. La girò su un lato e la abbracciò. La consolò dolcemente con la voce e con la mano. Poi prese un plaid dal divano e la coprì accuratamente, dalla testa ai piedi. Lei rabbrividì, la bocca che si apriva per poi richiudersi. Un rivolo di saliva le colò lungo il mento. «Sstt», disse lui, e il bambino si accostò un dito alle labbra. «Sstt, stai buona», sussurrò, e il bambino annuì. Nick si alzò e si allontanò. Raggiunse la pila di dossier. Ne prese uno e lo sfogliò. Poi si sedette sul divano e lo aprì. Cominciò a leggere. Deposizione rilasciata al sergente investigativo James Fitzgibbon, 4 novembre 1991 Mi chiamo Christopher Andrew Goulding. Il mio indirizzo è 27 Victoria Square, Dún Laoghaire. Ho ventun anni. Sono iscritto all'University College di Dublino, dove studio inglese e filosofia. Il 31 ottobre 1991 mi ero preso la giornata libera perché quella sera era Halloween. Al mattino uscii di casa verso le dieci e mezzo per incontrare un amico chiamato Dermot O'Dwyer nella sua casa di Belgrave Square, a Monkstown. Dermot mi aveva procurato dell'LSD e della resina di Cannabis. Tornai a casa a piedi, lungo il litorale, poi entrai nel supermarket Quinsworth del centro commerciale e comprai una bottiglia di vodka da un litro, succo d'arancia e qualche lattina di Heineken. Comprai anche tabacco e cartine da sigaretta. Rincasai verso le dodici e mezzo. I miei genitori erano via, in vacanza in Spagna, quindi in casa c'eravamo solo io e mia sorella Róisín. Scesi nel seminterrato e accesi il fuoco. Arrivò mia sorella e dopo circa mezz'ora ci raggiunsero il suo ragazzo, Eddie, e la mia ragazza, Marianne O'Neill. Marianne era turbata perché aveva appena litigato con Owen Cassidy, il bambino a cui badava. Era furiosa perché aveva chiesto la giornata libera ma all'ultimo minuto Nick Cassidy, il suo datore di lavoro, aveva detto che doveva uscire e che quindi lei sarebbe dovuta restare in casa con il piccolo. Marianne sapeva che lui aveva una relazione con una donna che vive solo un paio di case più in là. Aveva l'impressione che si stesse abusando della sua lealtà. Aveva l'impressione di tradire la moglie di lui, Susan. Disse di volerle raccontare cosa stava succedendo. Comunque scendemmo tutti nel seminterrato e fumammo qualche spinello e bevemmo la vodka. Poi prendemmo l'acido. Io lo avevo già fatto un sacco di volte, ma per Marianne era la prima volta. Mi
preoccupavo un po' di come avrebbe reagito perché sapevo che era molto vulnerabile dopo essere stata così malata da bambina. Temevo che restasse traumatizzata dall'esperienza ma disse che stava bene. Così restammo lì nel seminterrato tutto il pomeriggio. Facemmo sesso tutti e quattro, e a un certo punto Marianne si agitò un po' e dovetti assicurarmi che si calmasse. Ero in pensiero per lei. Avevo sentito parlare di gente che aveva fatto dei brutti viaggi e pensai che forse avrei dovuto portarla in ospedale, ma le rimasi seduto accanto e la consolai e dopo un po' si riprese. Comunque, verso le cinque disse che le conveniva tornare a casa. Mi offrii di accompagnarla, ma rispose che stava bene e che avrebbe fatto meglio ad andare a prendere Owen. Pensava che lui fosse con il suo amico Luke Reynolds, sul lato opposto della piazza. Così ci salutammo e poi, dopo circa mezz'ora, lei mi telefonò per dire che erano tutti in preda al panico perché non sapevano dove fosse Owen e mi chiese se potevo andare ad aiutarli a cercarlo. Così lo feci. Perlustrai tutta la piazza e tutte le stradine posteriori. Lì ci sono parecchie vecchie scuderie e garage, alcuni quasi fatiscenti. Quando ero piccolo giocavo sempre lì dentro e sapevo che Owen ne entrava e usciva di continuo. Temevo che magari fosse caduto facendosi male. Così li esaminai attentamente, ma non trovai traccia di lui. E quando tornai dai Cassidy scoprii che avevano chiamato la polizia. All'inizio, quando venni interrogato, non fui completamente sincero su quanto era successo perché non volevo ammettere il possesso dell'erba e dell'acido. Ma è questo che accadde. Ecco cosa abbiamo fatto per tutto il giorno. Nick sollevò la testa dal foglio. Emir stava strisciando sul pavimento, verso il corpo addormentato di Marianne. Sollevò la coperta e vi s'infilò sotto, rannicchiandosi nella curva tra il ventre e il seno di lei. Guardò su verso Nick, si accostò il dito alle labbra e chiuse gli occhi. Nick si alzò e si riempì nuovamente il bicchiere. Raggiunse il tavolo da disegno e vi fissò un foglio di carta bianco. Passò in rassegna le matite, poi aprì una scatola di legno ed estrasse un pennello. Accarezzò le sottili setole di martora nera e frugò tra gli inchiostri allineati sullo scaffale. Intinse il pennello nel flaconcino prescelto e tracciò una linea sottile sul foglio. Indietreggiò per osservarla, poi si piegò in avanti e cominciò. Il tempo passò. All'esterno, la luce svanì gradualmente dal cielo. All'interno, la lampada sopra il suo scrittoio brillava. I corpi addormentati sul pavimento si spostavano, borbottavano, si giravano. Il cane si dimenava e
sussultava a scatti. Un fioco ringhio gli usciva dalla bocca e le labbra gli si ritraevano mettendo in mostra gli affilati denti bianchi. I fogli coperti di figure caddero sul pavimento accanto ai piedi di Nick, uno dopo l'altro. Una volta asciutti, lui li fissò al muro e indietreggiò per esaminarli. «E poi cosa accadde?» chiese ad alta voce. Subito dopo sentì trillare il campanello. Davanti alla porta c'era Amra, che teneva per mano la figlia. Nick le fece cenno di entrare e indicò le sagome addormentate. «Può lasciarlo qui ancora un po', se vuole», disse. «La mia vecchia amica Marianne O'Neill è venuta a trovarmi. Non sta molto bene. Era stanca, così si è sdraiata per fare un sonnellino e anche Emir era stanco. Non le sembrano comodissimi, stesi lì insieme?» Lei scosse il capo. «È tardi. Chris è a casa. Vuole la cena. È ora che Emir torna. Passa troppo tempo con te, a casa tua.» Si avvicinò al figlio e, afferratagli una spalla, lo scosse energicamente. Emir si tirò su, il viso rosso e con i segni delle pieghe. La guardò e cominciò a piangere. Lei lo costrinse ad alzarsi. Raccolse la giacca e iniziò a infilargliela senza troppi riguardi. Lui fece per protestare, ma Amra gli disse qualcosa, in tono aspro. Il bambino curvò le spalle e si lasciò rivestire, i piedi spinti con forza negli stivali di gomma. «Adesso noi andiamo. Diciamo grazie e arrivederci al gentile signor Nick. Gli diciamo a presto.» «Io dico grazie e arrivederci al signorino Emir. Dico che forse torniamo al molo. Magari la prossima volta andiamo a pesca.» Si accovacciò davanti al bambino e gli chiuse la cerniera lampo. «Magari prendiamo una balena. Cosa ne dici, Emir?» Si alzò e gli arruffò i capelli. Rimase seduto al buio. Attraverso gli alberi vide sorgere la luna. Aspettò che la luce inondasse il giardino. Sopra la sua testa, le assi del pavimento scricchiolarono ripetutamente. Fu raggiunto da un'ondata di musica. Riconobbe la melodia. Mozart. Una delle sinfonie, la n. 40 o la n. 41, non riusciva mai a distinguerle. E per tutto quel tempo la ragazza continuò a dormire. Le auto passarono lentamente lungo la piazza, i fanali che tracciavano un arco sui muri, illuminando il suo lavoro, le sagome delle figure che aveva disegnato con inchiostro nero sulla carta bianca. E poi cosa avrebbe disegnato?, si chiese. Cosa avrebbe scoperto? Fuori, in giardino, un'ombra si mosse tra i cespugli. Nick si alzò e si avvicinò silenziosamente alla porta. Il cagnolino era fermo accanto ai suoi piedi. Annusò l'aria e guaì, poi allungò una zampa per grattare sullo stipite.
«No», gli disse bruscamente. «Non è per te.» L'animale emise un uggiolio insistente. Nick lo spinse via con il piede. Il cane si accovacciò e premette il naso sul vetro. Fuori, la volpe avanzò baldanzosa sul prato. Alzò la testa e si guardò intorno, poi trotterellò rapidamente fino al muro e, con un rapido guizzo dei fianchi, lo scavalcò. E scomparve. Nick aprì la porta e il cane sfrecciò all'esterno e svanì nell'oscurità a chiazze. Sopra di loro la luna si librava alta nel cielo. «Seguimi, luna», disse mentre si allontanava dalla casa. Si voltò per guardare in alto e vide la luna muoversi insieme a lui. E Susan ferma dietro la finestra della camera e intenta a guardare giù. Nick alzò una mano e la salutò. Aspettò una risposta. Lei si ritrasse e chiuse le veneziane. Lui si voltò. Fischiò e aspettò. Fischiò di nuovo e cominciò a tornare verso la casa. Il cane lo superò correndo, la lunga coda che si agitava, il naso premuto sull'erba. Nick fece schioccare la lingua contro il palato, poi chiuse la doppia porta dietro di loro. Che cosa fu a svegliarlo? Un'improvvisa sensazione di freddo quando le coperte furono scostate. Il fatto di percepire della pelle morbida contro la sua, delle labbra sul collo, un palmo che gli scendeva lungo il ventre piatto. Sospirò e si voltò verso il tepore, sentendo la curva di un seno sotto la mano, la sericità di una coscia sotto la gamba. Udì la voce della ragazza nell'orecchio, che sussurrava il suo nome, il fiato di lei contro la bocca. Si svegliò. E si drizzò a sedere, spingendola via, rapidamente. Con violenza, tanto che lei gridò mentre colpiva il pavimento. «No», urlò Nick. «No, non questo. Non con te, Marianne. Mai con te.» «Ma ti prego, ti prego, Nick, mio Nick.» Lei strisciò verso di lui, le braccia protese. Si arrampicò sul corpo di Nick. Le sue dita gli grattarono il petto, ma quando lui cercò di allontanarle lei gli affondò le unghie nella pelle, tirando verso il basso, graffiandolo. Urlando. «Ti prego, Nick, mi hai detto che ti sentivi solo. Smarrito. Ti prego, Nick, ti ho sempre desiderato. Non lo sapevi? Non te n'eri accorto? Non l'avevi capito? E anche tu mi desideravi, vero?» Ma adesso lui era in piedi, si stava allontanando dalla ragazza. Ripetendo le frasi, ancora e ancora. A voce sempre più alta. «No, Marianne, non tu. Per me eri come una figlia. Per me eri una bambina allora e lo sei anche adesso. Ed era Owen che ti amava, non io. Questa cosa è sbagliata. Non ti si addice. Non farla.» Lei si alzò, le braccia incrociate sopra la sua nudità, la testa dai capelli
cortissimi china come quella di un penitente. Si piegò per radunare i vestiti, infilandoseli frettolosamente. Poi raccolse il cappotto, il berretto, la borsetta, chiamò il cane con un fischio e un grido. Le lacrime che le sgorgavano copiose dagli occhi. La porta d'ingresso sbatté dietro di lei. E Marianne scomparve. Non rimase altro che il suo viso che fissava Nick dal disegno attaccato alla parete. Un'occhiata interrogativa, un mezzo sorriso e uno sguardo che lo trapassava da parte a parte. 18 «Allora, cosa è successo? Cosa vuoi da me?» Nick era fermo con aria imbarazzata in cima ai gradini che portavano nella cucina di Susan. Lei era in piedi accanto alla stufa, con indosso un kimono legato stretto in vita, i piedi nudi, i capelli sciolti e scompigliati sulle spalle. «Posso entrare? Solo per un paio di minuti.» Susan si strinse nelle spalle e prese una tazza di caffè. «Se proprio devi», rispose. «Non sei andata a lavorare oggi? Non è da te. Un giorno libero a metà settimana?» «Non mi sento bene. Negli ultimi giorni ho avuto mal di gola e non posso rischiare di andare in ospedale in queste condizioni.» «Già, ricordo. Le esigenze del tuo lavoro. Perfezione fisica tanto quanto intellettuale, giusto?» Ma non era quello il motivo. Lo sapevano entrambi. Per un attimo lei lo fissò senza parlare. Il sole sbirciava dalle finestre e le brillava sul viso. Nick la osservò attentamente. Notò come fosse invecchiata durante i dieci anni di lontananza. La pelle del collo era più floscia e grinzosa. Gli zigomi non erano chiaramente definiti come un tempo. Le palpebre sembravano più pesanti, e tra le sopracciglia spiccavano rughe profonde. Era pallidissima. Sembrava esausta, pensò lui. Vulnerabile e fragile. Immaginò la telefonata di Susan all'ospedale. Doveva avere chiamato la sua segretaria, che aveva sicuramente riferito il messaggio alla caposala e all'assistente medico. «È di nuovo quel periodo dell'anno. È ottobre. Non la vedremo granché, fino a dopo Halloween.» E la risposta. «Poverina. Grazie a Dio c'è la posta elettronica. Ci limiteremo a mandar-
le tutto a casa.» «Mi dispiace», disse Nick. «Non voglio certo tenerti lontana dal letto, ma devo chiederti una cosa.» «Davvero?» «Sì. Riguarda Marianne. Mi stavo chiedendo se sai come rintracciarla.» Si era svegliato presto, con un'intensa sensazione di perdita. Per un attimo rimase bocconi e cercò di capire a cosa fosse dovuta. Una scintilla di luminosità catturò il suo sguardo e lui allungò una mano. Una minuscola perlina di vetro giaceva sul pavimento. Se ne ricordò. Era stata cucita sul giacchino trapuntato di Marianne. Una decorazione, una finitura sul polsino. Poi rammentò ogni cosa. Scese dal letto. Era nudo. Abbassò gli occhi sul proprio corpo e fu assalito dalla vergogna per quello che era quasi successo. Lo aveva desiderato. Aveva desiderato la ragazza. Per un buon mezzo minuto circa l'aveva desiderata più di qualunque altra cosa. Anni prima l'avrebbe presa. Senza pensarci due volte. In realtà, ricordò che l'idea gli aveva attraversato la mente in più di un'occasione, mentre Marianne viveva con loro. Sarebbe stato facile coltivare l'adorazione della ragazza. Si era concesso di flirtare scherzosamente con lei per un po'. Se non avesse già avuto una relazione con Gina forse si sarebbe spinto oltre. Anche se sarebbe stato incredibilmente rischioso, pericoloso, stupido. Andò in cucina. Faceva ancora buio, il giardino era immerso nell'ombra, una spruzzatina di stelle visibile nel cielo. Doveva trovare Marianne e chiederle scusa. Doveva assicurarsi che stesse bene. Non poteva lasciare le cose così com'erano. Se l'avesse ferita, Owen non glielo avrebbe mai perdonato. Entrò nella doccia e aprì l'acqua calda. Il getto gli si riversò sulla testa e gli scese lungo il corpo, e lui risentì la sericità della pelle di Marianne e trasalì. E trasalì anche quando le crosticine sui graffi che gli solcavano il ventre si ammorbidirono e ripresero a sanguinare. Spostò la manopola del miscelatore sul freddo e ansimò sonoramente, la pelle che si raggrinziva e si contraeva per il gelo improvviso. Cos'era che Chris Goulding aveva detto di Marianne? Che a volte dormiva all'addiaccio, altre volte negli ostelli? Gli avrebbe chiesto conferma più tardi, quando il giovane tornava dal lavoro. Cos'altro aveva detto di lei? Che era con Susan che si manteneva in contatto. Susan sapeva sicuramente dove trovarla.
«Sai dove posso trovarla? Ho bisogno di vederla.» Erano seduti al tavolo di cucina. Susan si reggeva la testa con una mano. Ascoltò mentre lui le riferiva l'accaduto. Poi ci fu una pausa di silenzio. «Mi stupisci», dichiarò alla fine. «Capace di resistere a un corpo caldo. Cosa ti è successo?» «Oh, Cristo santo.» Nick si alzò. «Dammi requie, ti prego.» Si voltò verso la porta. «Okay, okay.» Lei allungò una mano e gli afferrò il braccio. «Senti, mi dispiace. Non avrei dovuto dirlo. Forza, siediti e bevi un altro po' di caffè. Ce n'è un bricco pieno sulla stufa.» Lui riempì le tazze e prese il cartone del latte. Lei annuì e rimase a guardare mentre Nick gliene versava una dose generosa. «È giusto, vero? Il caffè ti è sempre piaciuto con parecchio latte.» Susan sorrise. «È ancora così, e immagino che tu lo beva ancora nero.» «Certe cose non cambiano mai.» «Altre invece sì, vero, Nicky?» La sua mano era posata accanto a quella di lui. «Ti darò un elenco di posti in cui guardare. Tutti, per la strada, conoscono Marianne.» «Davvero? Poverina. Che tristezza finire così.» «No, non capisci. Non è inerme come sembra. Né squilibrata come spesso appare. Gode di una rete di sostegni, alcuni istituzionali, molti personali.» «Vuoi dire che ha degli amici?» «Amici, protettori e famiglie sparsi in tutta la città e per i quali rappresenta una visitatrice piuttosto regolare e sempre gradita.» Il suo polso era talmente vicino a quello di Nick che lui riuscì quasi a sentirne il tepore. «Un tempo mi preoccupavo continuamente per lei. Un tempo mi sentivo responsabile per le sue condizioni.» «Be', sei stata proprio tu a curarla, a offrirle una seconda chance.» «Interpretando il ruolo di Dio. È questo che dicevi sempre, giusto?» Lui si strinse nelle spalle e sorseggiò il caffè. «Piuttosto severo da parte mia, non credi?» «Non lo so. Più ci penso e più sono d'accordo con te. Comunque, mi sentivo responsabile per lei. E in seguito, dopo che Owen scomparve e lei perse il lume della ragione, mi sentii ancora peggio. Ma con il passare del tempo cominciai a capire che Marianne, proprio come il resto di noi, ha fatto delle scelte. E ha scelto di vivere in questo modo.» «Non lo trovi un po' eccessivo? Sicuramente una persona come lei ha
una percezione attenuata del libero arbitrio.» «Be', una percezione non identica alla tua o alla mia, ma questo le è stato spiegato diverse volte. Sa che i suoi processi mentali sono diversi, che il modo in cui gestisce le informazioni non corrisponde al modo in cui lo fa il resto di noi. E sa che, se vuole avvicinarsi al nostro modo di pensare, deve prendere le sue medicine e sopportarne le conseguenze e gli effetti collaterali. Quindi può scegliere.» Nick bevve qualche altro sorso di caffè. «Presumo, tuttavia, che questo non sia un complesso di spiegazioni molto consolante per i suoi genitori. Ricordo cosa hanno passato quando lei era piccola e così malata. La sua sopravvivenza deve avere suscitato in loro grandi speranze per il futuro della figlia. Non desideravano sicuramente che finisse per diventare una vagabonda che si aggira per le strade con accanto un bastardino rognoso.» Susan lo guardò. «No, hai ragione. Non lo desideravano. Ma la prima regola dell'essere genitori non dice forse di accettare la differenza e lasciar perdere?» Per un attimo Nick guardò dietro di lei, fuori dalla finestra, poi riportò lo sguardo sul suo viso. «Noi non siamo arrivati così in là, vero? Non abbiamo mai avuto l'opportunità di mettere in pratica la teoria.» Susan sospirò. Mosse la mano. Nick sentì la pelle di lei che sfiorava la sua. «Non lo so. Credo che l'abbiamo fatto. Come Marianne, Owen sapeva molto di più di quanto pensassimo. Ne sono sicura. Lo vedo come qualcuno che quel giorno ha preso una decisione di qualche genere. Non so quale. Forse quella di salire in macchina con qualcuno che conosceva. Forse quella di non gridare aiuto. Forse quella di continuare a camminare quando invece sarebbe potuto tornare a casa, mentre cominciava a fare buio. Ma, comunque sia andata, non credo che Owen si sia rivelato impotente e patetico. Non lo credo più, ormai.» Una cinciallegra salì in volo fino alla finestra. Si librò lì accanto, dando rapidissime beccate che scovavano gli insetti intrappolati in una ragnatela. «Non dici sul serio. Non puoi dire sul serio.» «No?» Susan sorseggiò il suo caffè. «Non posso? Perché?» «Perché non puoi insinuare che un bambino di otto anni riesca a esercitare qualche controllo su quanto gli viene fatto da un adulto, vero? Non potresti mai sostenere che Owen voleva che qualcosa di tutto ciò accadesse a
lui o a noi. Oppure sì?» La cucina rimase immersa nel silenzio, poi il motorino del frigorifero cominciò a ronzare. Sonoramente, vibrando. «Ricordi, Nicky, quando Owen ha attraversato la fase in cui minacciava continuamente di scappare di casa? Te lo ricordi? Se veniva sfidato, ostacolato o punito correva al piano di sopra e ricompariva con un sacchetto di plastica con dentro il pigiama e il suo orsacchiotto. E ricordi che andasti a comprargli una valigetta, un grazioso e piccolo contenitore di cartone? E, la volta successiva in cui accadde, gli dicesti: 'Avanti, vai pure. Divertiti'. E lui montò su tutte le furie. Riempì la valigia e sbatté la porta e scese con passo pesante i gradini davanti all'ingresso. E noi aspettammo. Per quanto tempo rimase fuori?» «Almeno per un'ora abbondante. Tu volevi che andassi a cercarlo, dicevi che era una cosa stupida e pericolosa. Ma io risposi di no, che doveva imparare la lezione. E lo fece. Tornò a casa. Era bagnato fradicio e affamato, ma aveva qualcosa di diverso. Non minacciò mai più di scappare. Non si comportò più in quel modo. Ecco.» Nick si alzò e si appoggiò al frigorifero, spostandolo leggermente. L'elettrodomestico tremò violentemente e smise di vibrare. «E questo cosa dimostra?» «Non dimostra niente, ma mi dice che persino un bambino piccolo è in grado di prendere decisioni, di scegliere. Non so cosa abbia o non abbia fatto quel giorno, ma so che per me è estremamente importante non considerarlo una vittima pura e semplice. Non posso più farlo, tutto qui.» «Allora dove si trova? Perché non torna a casa da noi?» Le mani di Susan si mossero delicatamente, lentamente, toccandolo. Lui trattenne il fiato. Lei cambiò posizione sulla dura sedia della cucina e le pieghe del suo kimono si aprirono. «Credo che sappiamo entrambi dov'è, Nicky. È in pace. È al sicuro, al calduccio e amato da tutti noi. È amato da Dio e da suo Figlio e dai suoi angeli.» Accavallò le gambe, uno stinco affusolato che si avvolgeva sull'altro, un piede nudo che si arcuava sopra le piastrelle del pavimento. Lui si piegò per esserle più vicino, allargando le dita sul tavolo tanto da toccarle quasi il braccio. «Non puoi pensarlo davvero. Non hai mai creduto in Dio. Eri veemente nella tua mancanza di fede. Attiva nella tua mancanza di fede. Non hai voluto sposarti in chiesa né far battezzare Owen. Non hai voluto tenere conto del mio agnosticismo. Eri adamantina. Non ci sono prove, dicevi sempre.
Non ricordi le liti con mia madre a questo proposito?» «Oh, le ricordo benissimo, vividamente, e ricordo come prendevi le sue parti. Ma non essere così ipocrita. Ripensa per un attimo a cosa dicevo sempre. Non volevo sposarmi in una chiesa cattolica solo per la forma, per la cerimonia, per l'avvenimento, per i grandi cappelli e la giornata di festa e i regali e l'abito bianco e le damigelle d'onore e tutte quelle stronzate.» «Chi ha mai parlato di sposarsi in una chiesa cattolica? Voleva sposarci tuo padre. Non ricordi? È rimasto così ferito quando hai rifiutato la sua offerta. A me non sarebbe dispiaciuto. Lo ammiravo molto. Era gentile, perbene, un brav'uomo. Avrebbe dato un occhio della testa pur di poterci sposare. Però tu non hai voluto accettare neanche questo, vero? Tu e i tuoi dannati principi.» «Oh, certo, e da quando in qua tutto ciò ti preoccupa tanto? Erano i voti a essere importanti. Le promesse. Abbiamo fatto gli uni e le altre. Ce li siamo fatti reciprocamente. E sei stato tu a infrangerli, se ben ricordi. Non io. Non ero io quella interessata alla forma. Ero interessata al contenuto, al significato. Ed è stato dimostrato che avevo ragione, vero?» «Okay, ecco che ci risiamo.» Lui raddrizzò la schiena e la guardò. «È tipico di te, vero, Susan? Devi dimostrare che avevi ragione. Devi puntualizzarlo. Ti senti costretta a dimostrare una volta per tutte che tu eri la buona e io il cattivo, Vai a declamarlo sulla montagna. Gridalo dai tetti. Non permettermi di dimenticare nemmeno per un istante che ho commesso un errore.» La sua voce si alzò fino a diventare un urlo e lui picchiò la mano sul tavolo facendo sobbalzare le tazze di caffè. Un improvviso silenzio gelido calò sulla cucina. Susan sollevò le mani per scostarsi i capelli dal viso. Li arrotolò formando un nodo sulla nuca, li tenne stretti per un attimo e poi li lasciò andare, tanto che descrissero mollemente una spirale tornando a posarsi sulle sue spalle. E nel frattempo lui era riuscito a vedere all'interno delle ampie maniche della sua vestaglietta, la pelle bianca del braccio, l'ascella e la morbida pesantezza del seno. Gli si seccò la bocca. Deglutì, la gola contratta e serrata. Susan tossì e incrociò le braccia sul petto. «Dovresti essere a letto», disse Nick. «Qui fa troppo freddo per te, se non stai bene. Perché non sali in camera ad aspettare che ti porti altro caffè o qualcosa di simile? Ti andrebbe? Vuoi qualcosa da mangiare?» Lei gli sorrise e allungò di nuovo la mano, posandone il dorso su quella di lui. «Sei sempre stato un'infermiera coi fiocchi, vero, Nicky? Era una delle
tue caratteristiche più piacevoli. Eri sempre così gentile quando eravamo malati. In quelle occasioni davi il meglio di te. Tutte le tue doti e abilità pratiche. Ricordi quando ero incinta e davo continuamente di stomaco? C'era sempre un vago odore di vomito ovunque. Ma apparentemente questo non mi rendeva meno attraente ai tuoi occhi.» Lui le sorrise. «Come avrebbe potuto? Eri bellissima quando aspettavi Owen. Mi piacevi enormemente, così grossa e pesante. Mi ricordavi gli angeli di Stanley Spencer.» «Allora cosa fu a rendermi meno attraente? Successe quando tornai al lavoro? Quando smisi di essere la tua mungitrice? Quando non restavo più a letto con il seno sgocciolante? Si trattò di questo?» «Smettila, Susan, ti prego. Non so spiegartelo. Non posso spiegarti perché mi comportai a quel modo.» «Non puoi o non vuoi, Nicky?» La sua mano era posata su quella di lui. Susan si spostò di nuovo, e di nuovo il suo kimono si aprì. «Eri bellissimo da giovane», dichiarò. «Non semplicemente avvenente ma davvero bellissimo. I tuoi capelli erano così ondulati, folti e neri. E la tua pelle era sempre così liscia. Tua madre aveva una pelle del genere. Tutti i tuoi familiari, uomini e donne, ce l'hanno. Owen no. Aveva la mia pelle. Soggetta agli arrossamenti, a diventare paonazza d'inverno e a scottarsi d'estate. Non sarebbe diventato bello come te. Avrebbe somigliato di più a me. Biondo e paffuto, una volta che avesse superato la magrezza tipicamente infantile. Non avrebbe mai avuto le tue gambe lunghe, la tua vita sottile e i tuoi fianchi stretti. Fianchi da rockstar, vero? Jeans attillati e camicie sbottonate fino all'ombelico. Con abbinati cinture e stivali di pelle dalla punta stretta. Sai, ricordo che quando abbiamo cominciato a uscire insieme, quando ancora studiavamo, le mie amiche rimasero tutte di stucco. Come hai fatto ad accalappiarlo?, mi chiedevano sempre. E sapevo cosa stavano combinando alle mie spalle. Tentavano di sedurti, vero?» Sorrise. «Era una faticaccia tenere a bada tutte quelle donne e a un certo punto mi arresi. Decisi che dovevi cavartela da solo. Io avevo il mio lavoro e mio figlio. E per me era sufficiente. Mi riconciliai con l'idea che mi eri infedele.» Lui abbassò gli occhi sui piedi di Susan. Erano grossi, le dita forti e ben sviluppate. Sfoggiavano ancora, persino in ottobre, i segni bianchi lasciati dai sandali portati durante l'estate, mentre la pelle rimasta esposta sul collo del piede era abbronzata.
«Niente da dire? Nessuna scaltra giustificazione pronta all'uso?» Nick scosse il capo. «Mi vergogno per quello che ti ho fatto, Susan. Me ne vergogno da parecchio tempo. Ho avuto un sacco di opportunità per pensare a me stesso e al mio operato. E nessuno dei miei pensieri è gradevole. Ma, contrariamente a te, non riesco ad accettare l'idea che Owen non sia una vittima. Né riesco ad accettare l'idea che sia in pace. Non lo sarà finché non riuscirà a dirci cosa è successo. Che sia vivo o morto, ho bisogno di vederlo. Di abbracciarlo. Di sapere.» La mano di Susan si spinse nuovamente contro la sua e, nel movimento, Nick riuscì a sentirne le ossa. E sentì il duro e rigido cerchietto d'oro che lei portava ancora al dito. La pendola nell'atrio batté le ore. «Dov'è il tuo orologio?» Susan gli girò il polso. «Quello che ti ho regalato per il tuo compleanno. Lo hai perso?» «No, me lo sono tolto un paio di giorni fa. Il cinturino è molto logoro. Non volevo perderlo. Non sopporto l'idea che possa cadere e rompersi oppure rimanere semplicemente abbandonato da qualche parte.» Le toccò la mano con un dito. «Dopo tutto quello che abbiamo passato insieme non voglio assolutamente che succeda, così l'ho messo al sicuro in attesa di passare in una gioielleria per far cambiare il cinturino.» Lei gli sorrise. «Vieni con me», disse, e si alzò. «Ti preparo quell'elenco.» Nick la seguì lungo il corridoio, fino alla stanzetta adiacente al soggiorno. Susan si sedette alla scrivania. Prese una penna e cominciò a scrivere. Mentre restava china in avanti lui riuscì a distinguerne la spina dorsale sotto il cotone della vestaglietta. I capelli le ricadevano ai lati del collo. Nick ricordò che aveva un neo appena sopra la prima vertebra. Che aveva una piccola cicatrice appena sotto la scapola sinistra, là dove si era tagliata cadendo da un albero quando era bambina. Sapeva che si era rotta il braccio destro durante l'adolescenza. E che aveva una nitida cicatrice lasciata dall'appendicectomia subita a dodici anni. Sapeva come la pelle sul suo ventre si fosse raggrinzita dopo la nascita di Owen e che aveva smagliature argentee sul seno. «Conosci tutti i miei segreti, vero?» gli aveva chiesto lei una volta. «L'eloquente storia della mia vita che è scritta sul mio corpo e che chiunque altro ignora.» Lui le si avvicinò. Susan si scostò i capelli dal viso con una mano. Aveva le unghie corte. Le cuticole formavano lucide mezzelune. Non metteva
mai lo smalto. Nick sentì il sibilo del respiro che le entrava e usciva dal naso. Avrebbe voluto inalarlo per poi risoffiarglielo nei polmoni. Avrebbe voluto annusarle i capelli, assaggiarne la pelle, sentire le sue piante dei piedi contro la gamba. Avrebbe voluto percepire la spinta delle sue anche contro le proprie. Chiuse gli occhi e sentì il sudore pizzicargli le ascelle e inumidirgli la fronte. La sedia di Susan stridette bruscamente sul pavimento. «Ecco.» Lei si alzò e gli porse la lista. «Questo ti permetterà di cominciare.» Lui lanciò una rapida occhiata al foglio. Recava nomi, indirizzi, alcuni numeri di telefono. «Grazie.» Lo piegò e lo infilò nel taschino della camicia. «Vuoi che ti faccia sapere come me la cavo?» Lei si strinse nelle spalle. «Se vuoi. Probabilmente Marianne si farà presto viva all'ospedale. Le lasciamo portare dentro il cane quando viene a trovare i bambini più grandi» «Mi avviserai se la vedi?» «Be', le chiederò se è questo che vuole. È una persona adulta, dopo tutto.» «Ma...» cominciò a dire Nick, poi s'interruppe quando il telefono sulla scrivania prese a squillare. Lei abbassò una mano e sollevò il cordless. Lui si voltò e s'incamminò verso la porta. Sentì la voce di Susan, che sembrava stupita, compiaciuta. Lei lo seguì in corridoio e verso la cucina, tenendo il ricevitore accanto al viso. «Grazie», disse, «grazie di aver chiamato. Te ne sono grata. Soprattutto dopo... be', lo sai.» S'interruppe e ascoltò. «Sto benissimo, davvero. Mi piacerebbe vederti. Perché non passi di qui, più tardi? Sarebbe carino. Vuoi cucinare tu? Perfetto. Aspetta solo un attimo. Voglio dare un'occhiata per vedere cosa c'è in casa.» Si posò l'apparecchio sulla spalla. Nick aprì la porta sul retro e uscì. Alzò una mano per salutarla. Lei ricambiò il gesto, poi si voltò e si chinò per aprire il frigorifero. Lui riuscì a sentire la sua voce anche mentre raggiungeva il giardino. Si fermò, la mano appoggiata sul pilastrino intagliato in fondo alla ringhiera di legno. Un merlo era appollaiato sulla piracanta che copriva il muro posteriore della casa e lo fissò con il suo occhio cerchiato di giallo. Nick non si mosse. Aspettò e osservò l'uccello mentre piegava la testa e cominciava a tirare le bacche scarlatte che decoravano il fogliame verde scuro. Gli venne da pensare a un'illustrazione tratta dal Libro d'Ore
medievale ricevuto in dono da sua madre quando ancora studiava. I colori erano così nitidi e vividi, per nulla smorzati dal trascorrere degli anni. Colori simili a sentimenti, pensò. Lasciati intatti dal tempo. Un foglio bianco lo stava aspettando. Prese una matita e cominciò a disegnare. Figure estremamente stilizzate. Un'auto su una strada bordata di alberi le cui foglie erano cadute formando morbidi cumuli. Un uomo si sporge fuori. Un bambino si china verso l'abitacolo. Un'auto con a bordo un uomo e un bambino percorre una strada statale. Un'auto si ferma. Un bambino cerca di scendere. Un uomo solleva la mano stretta a pugno. Un bambino cammina davanti a una fila di case. Comincia a fare buio. I lampioni stradali brillano. In cielo c'è una falce di luna. C'è del fumo che esce dai comignoli. Un bambino entra in un negozio. Si ferma davanti al bancone. Tende la mano. Sul palmo ci sono alcune monete. Compra pacchetti di dolciumi. Un bambino è fermo sulla strada. C'è un uomo con alcuni fuochi d'artificio infilati in un sacchetto da cui spuntano petardi a forma di razzo. Il bambino li sta guardando. Porge del denaro, banconote stavolta. L'uomo le prende, gli dà i petardi. Un uomo brandisce un badile. Sta scavando. Dietro di lui si stagliano le montagne. Il cielo è buio. C'è un enorme cumulo di terriccio, e altro terriccio vola via dal suo badile. Alle sue spalle, sul terreno, è steso un bambino. I fuochi d'artificio giacciono accanto a lui. C'è una buca nel terreno e il bambino è sdraiato all'interno. Ha le braccia incrociate sul petto. Ha gli occhi chiusi. I fuochi d'artificio sono posati ai suoi piedi. C'è una buca nel terreno, ma il bambino risulta invisibile. È coperto di terriccio. Lì sopra si libra un angelo. Sta cantando. Sta sorridendo. Nella coltre di nubi si è aperto un varco e il bambino sta volando verso l'alto, tra un assembramento di angeli sempre più numerosi. Anche lui sta sorridendo. Ha la bocca aperta e sta ridendo. Nick sente la sua risata. Vede che è felice ed è in pace. Si appoggiò allo schienale per osservare il risultato dei suoi sforzi. Prese i fogli e li fissò alla parete. Poi si sedette di nuovo e ricominciò a disegnare. La matita si mosse più lentamente sulla carta. C'è il viso di un uomo. È il suo viso. Sta piangendo. Ha accanto una donna. È Susan. Lui ha teso la mano, ma lei si è voltata. Sta guardando la donna accovacciata in un angolo, I suoi capelli sono nerissimi e folti, raccolti in una lunga treccia disordinata che le cade sulla schiena. Il suo vesti-
to si apre rivelando seni pesanti. Con una mano si sta toccando un capezzolo. Glielo offre come farebbe una madre con il figlio che sta allattando. Ma non è latte il liquido che schizza fuori. È scuro e viscoso. È sangue. Nick era scosso dai singhiozzi mentre disegnava. Singulti soffocanti che gli si bloccarono in gola e gli fecero temere di poter vomitare da un momento all'altro. Il petto gli si sollevò convulsamente e lui si sentì mancare il fiato. Scagliò a terra la matita e, barcollando, raggiunse la porta e uscì in giardino. Vide il bambino, Emir, infilarsi tra i cespugli, un pallone in mano. Uomo e bambino si fronteggiarono. Poi Emir lasciò cadere la palla e lo raggiunse di corsa, aggrappandoglisi alle ginocchia e stringendo talmente forte che Nick ondeggiò quasi fino a perdere l'equilibrio. «Ehi, piccolo, è tutto okay. Va tutto bene. Vieni, entriamo per vedere se possiamo trovarti qualcosa di buono da mangiare. Ti piacerebbe?» Gli spinse all'indietro la testa e abbassò lo sguardo sui suoi occhi. Emir allungò le braccia verso l'alto, sollevandosi in punta di piedi. Nick scese al suo stesso livello, accovacciandosi. Il bambino si tirò la manica del maglione e, con il logoro polsino a coste, gli asciugò accuratamente le lacrime sulle guance. Avvicinò il viso a quello di Nick e spinse il naso contro il suo. Tirò la cordicella che aveva intorno al collo ed estrasse il dischetto di pietra verde donatogli da Marianne. Cominciò a farselo passare sopra la testa, ma Nick gli fermò la mano. «No, quello no», disse. «Lei lo ha dato a te, solo a te. Te l'ha regalato e voleva che tu lo tenessi. Te l'ha dato perché tu te ne prendessi cura. E lo tenessi al sicuro. Qui.» Lo rispinse al suo posto, sentendo la pelle del bambino tiepida sotto le dita mentre gli reinfilava il dischetto sotto i vestiti. «Adesso vieni, cosa ne dici di pranzare? Ho fame.» Andò in cucina e cominciò a preparare dei panini. Emir si aggirò per la stanza. Si sedette sul divano. Sollevò il coperchio del computer portatile. Premette il pulsante dell'accensione. Nick sentì il ronzio mentre l'apparecchio si avviava. «Ehi, Emir, non farlo.» Lo raggiunse. «Mi hanno detto che sai tutto sui computer, ma non oggi.» Spense il portatile e lo richiuse. Il piccolo lo fissò dal basso, il labbro inferiore proteso. «Ecco.» Nick si accosciò accanto a lui e gli toccò la guancia. «Ci sono un sacco di fogli e di matite. Serviti pure. Okay?» Tornò verso la cucina. Il bambino si mise carponi e raggiunse il tavolo da disegno. Allungò una mano verso l'alto e prese un blocco di carta e una scatola di matite. Si sdraiò sul pavimento, posandoli accanto a sé. Nick lo
osservò. Emir aveva la fronte aggrottata per la concentrazione. Di tanto in tanto si alzava e si aggirava per la stanza, talvolta fermandosi e gesticolando, facendo movimenti improvvisi e rapidi come se si stesse preparando a fuggire. Altre volte si sdraiava e si raggomitolava su se stesso, formando una palla piccola e compatta, accostando la testa alle ginocchia, ricordando a Nick i porcospini che un tempo vivevano nel giardino di sua madre. Mentre lo osservava, Nick si chiese cosa lo avesse ridotto così. E ripensò alle immagini che aveva visto della guerra in Iugoslavia. I profughi dispersi. Le donne e i bambini i cui mariti e padri erano stati portati via e massacrati. Osservò il modo in cui Emir stringeva con forza la matita tra le dita magre, il modo in cui sferzava la carta tanto che la punta aguzza creava fori acuminati. Il modo in cui scarabocchiava avanti e indietro sopra le immagini, creando un denso ammasso nero di linee. Il modo in cui scagliava il foglio lontano da sé, poi si alzava e lo calpestava ripetutamente, premendolo contro il pavimento con il tacco dello stivaletto di gomma. Non ha bisogno di parole, pensò. Il corpo gli fa da portavoce. Più eloquente delia maggior parte dei suoni che possono uscire da una bocca infantile. «Stai bene, piccolino? Il pranzo è pronto.» Stava giusto per sistemare piatti e bicchieri sul tavolo quando il campanello trillò. All'improvviso, sonoramente, cogliendolo alla sprovvista, tanto che trasalì e sorrise della propria sorpresa. «Dev'essere tua madre, signorino Emir. Vorrà che tu torni a casa.» Raggiunse la porta e la aprì. Due uomini erano fermi lì davanti, sul vialetto d'ingresso. «Sì?» Nick si piegò verso di loro. «Posso aiutarvi?» Il più vecchio dei due alzò gli occhi dal taccuino che stringeva. «Lei è Nicholas Cassidy?» Nick annuì. «Siamo della polizia, signor Cassidy. Possiamo entrare? Ci sono un paio di cose che vorremmo chiederle.» Lui non aprì bocca. Indietreggiò per lasciarli passare. Si presentarono. Agente investigativo Sean O'Rourke e agente investigativo Vincent Regan. O'Rourke, il più anziano, infilò una mano nella tasca della giacca ed estrasse una busta di carta. La aprì e sfilò una bustina di plastica trasparente. La tenne sollevata. «Può dirmi se queste carte di credito e questo libretto degli assegni sono suoi?» Nick tese una mano e prese la bustina. La lisciò e la capovolse. Annuì. «Sì, sembrano proprio i miei. Dove li avete trovati?»
«Non si è accorto di non averli più?» Lui scosse il capo. «Sono rimasto in casa tutto il giorno. Non ho avuto occasione di usarli. Aspettate un attimo, do un'occhiata pet controllare.» Infilò una mano nella tasca posteriore dei jeans ed estrasse il portafoglio. Lo aprì e ne esaminò rapidamente il contenuto. «Già, le carte di credito sono scomparse. E avevo dei contanti... non so bene quanti, una cinquantina di sterline e anche qualche dollaro.» «E il libretto degli assegni?» «Lo tengo altrove, di solito nella giacca. Solo un attimo.» Prese la giacca dallo schienale di una sedia e ne tastò le tasche. «Sì, anche quello è scomparso. Strano. Dove l'avete trovato?» Stavolta fu il più giovane dei due a parlare. «Il corpo di una giovane donna è stato rinvenuto nelle prime ore di stamattina sulla linea ferroviaria, subito dopo il villaggio di Dalkey. Sembra che sia stata uccisa da un treno. Le sue carte di credito e il suo libretto degli assegni sono stati trovati nella borsetta della vittima. Ci stavamo chiedendo se potesse aiutarci a identificarla.» Nick sentì il sangue defluirgli dal viso. «Cosa intendete con 'rinvenuto'? Cosa intendete con 'uccisa'?» «Be'...» Il poliziotto più giovane s'interruppe e fissò il pavimento. «A dire il vero, non siamo ancora del tutto sicuri dei dettagli. Bisognerà effettuare un'autopsia e stiamo aspettando che il capopatologo dello Stato sia disponibile. Attualmente è in ritardo sulla sua tabella di marcia. Perciò non possiamo stabilire con sicurezza cosa sia successo. Ma», guardò Nick, «quello che stiamo tentando di fare è accertare innanzi tutto l'identità della vittima, poi quali siano stati i suoi movimenti poco prima della morte. Quindi stiamo andando a trovare chiunque, a nostro parere, abbia avuto dei contatti con lei. Ora.» Si fermò, guardò nuovamente la bustina di cellofan trasparente. «Può darsi benissimo che le carte di credito le siano state rubate, ma pensiamo che magari potrebbe averle date lei alla ragazza, che potrebbe esserci stato qualche contatto tra voi due. Ecco perché siamo qui.» All'improvviso Nick si sentì come se stesse guardando la scena da un punto d'osservazione situato molto in alto. Il suo stomaco venne squassato da un conato di vomito e la bocca gli si riempì di saliva. Emir gli ghermì una mano, affondandogli le unghie nel palmo. Lui lo guardò. «Se non vi dispiace», disse, «vorrei riaccompagnarlo a casa. Abita nella villetta qui accanto. Mettetevi comodi. Tornerò fra un minuto.» «Perfetto. La aspetteremo.» O'Rourke si sedette sul divano e indicò a
Regan di fare altrettanto. Fuori c'era molta luce, il sole brillava in un cielo limpido e di un azzurro chiarissimo, come una macchia di acquarello su carta zigrinata. Nick portò rapidamente il bambino su per i gradini. Sollevò il batacchio e lo lasciò ricadere. Aspettò e, attraverso i pannelli di vetro ai lati della porta, vide Chris che si affrettava a rispondere. «A presto, piccolo.» Diede una spinta delicata sulle reni di Emir. «Non vuoi fermarti?» Il tono di Chris era sarcastico. Nick non rispose. Si voltò e vide che uno dei poliziotti lo aveva seguito all'esterno e lo stava aspettando lì sotto, nel giardinetto anteriore. Scese i gradini due alla volta e lo superò. Sbatté la porta dietro tutti e due. «Okay», dichiarò. «Perché non lasciate perdere le stronzate e non mi dite di cosa si tratta in realtà?» 19 Costeggiarono la linea ferroviaria dalla stazione di Dalkey, i piedi che scivolavano e sdrucciolavano sui pesanti sassi su cui poggiava il binario. Su entrambi i lati l'argine saliva fino alla strada. E ancora più su c'erano le finestre delle case affacciate sulla ferrovia. Di fronte si apriva l'ingresso del tunnel e, vagamente visibili nella penombra, si muovevano le figure indistinte dei tecnici della Scientifica, le tute bianche che conferivano un che di spettrale alla loro presenza. Una tenda di plastica era stata montata intorno al cadavere. Lì accanto era sdraiato un cagnolino nero. Acciambellato, la testa premuta contro il fianco, solo un orecchio dritto a dimostrare che, contrariamente alla sua padrona, era ancora vivo. Si avvicinarono senza fretta. Un lembo della tenda venne scostato. Si chinarono per vedere meglio. «Oh, mio Dio.» La voce di Min suonò innaturalmente acuta. Rimbalzò sull'arcuato soffitto di pietra del tunnel. «Povera ragazza. Com'è potuta succederle una cosa simile?» Aveva ricevuto la chiamata sul cellulare proprio mentre stava uscendo di casa. Era Conor Hickey, che le illustrò rapidamente la situazione. Era arrivata una richiesta da parte del Dipartimento d'investigazioni criminali. Potevano recarsi a Dalkey? Era morto qualcuno. In circostanze tutt'altro che chiare.
«Inoltre, Min, pensano che la faccenda ti interesserà. Pensano che si tratti di quella ragazza. Sai, la bambinaia del caso Cassidy. Hanno chiesto specificamente di te. Okay? Ci vediamo là. Fra quindici minuti. Oh.» Ci fu una pausa. Lei sentì il frastuono del traffico sgorgare dal cellulare di Hickey. «Spero che tu abbia già fatto colazione. Non avrai molta voglia di mangiare dopo aver visto la scena.» Era stato il primo treno di pendolari del mattino, quello che andava da Greystones al centro città, a investirla. Il macchinista aveva notato quello che sembrava un fagotto di abiti vecchi scaricato sul binario, all'interno del tunnel. E c'era un cane. Piccolo, nero, con le orecchie dritte e gli occhi che scintillavano di un rosso innaturale, si stava appiattendo contro la parete ricurva. Aveva fatto il possibile. Premuto sui freni, attivato il pulsante dell'allarme nella cabina, resistito alla tentazione di coprirsi gli occhi con le mani. Ma stava andando troppo forte. Un lieve tonfo fu tutto ciò che sentì prima che il convoglio rallentasse sino a fermarsi. A quel punto spense tutto e rimase dov'era, inchiodato al sedile, tentando di controllare il tremito delle mani, ascoltando i rapidi battiti del cuore nel suo petto, la vescica improvvisamente così piena che temette di comportarsi come un bambino di tre anni e lasciare che l'urina calda gli sgocciolasse lungo la gamba. Finché, alla fine, non riuscì più ad aspettare, scese dalla cabina e costeggiò rapidamente il binario, allontanandosi da ciò che adesso giaceva sotto le ruote del treno, armeggiando con la cerniera lampo nel buio, emettendo un sospiro di piacere non appena riuscì finalmente a liberarsi. Liberarsi, prima non aveva mai capito cosa significasse davvero la parola. Ma quella mattina lo capì. Era già tornato nella cabina quando arrivarono la polizia, gli uomini dell'ambulanza e i funzionari della società ferroviaria. «Rimanga dov'è», gli gridarono quando fece per saltare giù. Così lui rimase lì. Finché non gli ordinarono di manovrare il treno, lentamente, in modo che indietreggiasse e si allontanasse con cautela dal cadavere steso lì sotto. Poi lo interrogarono, in fretta, bruscamente, cavandogli di bocca le poche parole che riuscì a trovare per descrivere l'accaduto. «È essenziale che ci racconti qualunque cosa riesca a ricordare», continuavano a ripetere. «Qualunque cosa.» Ma lui lo sapeva già. Non era la prima volta che investiva qualcuno. Almeno di questa vittima non aveva visto il viso. Non come con l'anziana
signora che gli era saltata davanti circa un anno prima. Era successo tutto così rapidamente e allo stesso tempo così lentamente. Il viso della donna era rimasto sospeso davanti al parabrezza. In eterno, apparentemente. Lei lo aveva guardato dritto negli occhi e aveva aperto la bocca. Ma lui non l'aveva sentita urlare. L'unica cosa che aveva udito era stato il tonfo mentre il treno colpiva il corpo. E poi la propria voce. Che gridava, chiedendo aiuto. Tuttavia, non poteva certo dire loro granché riguardo a questa vittima. Rimase seduto nella cabina e affrontò le domande. Poi lo lasciarono andare. Il cane lo seguì lungo il binario, verso l'uscita del tunnel. L'uomo si voltò e cercò di scacciarlo. Urlò ai poliziotti di prenderlo. Una donna li aveva raggiunti. Era giovane e molto carina, con capelli neri tagliati alla maschietta, gambe lunghe e un sorriso simpatico. Il cane continuava a saltellare e a cercare di leccargli le mani. La donna lo prese per il collare e lo scostò. «Sono sicura che l'ultima cosa al mondo di cui ha bisogno sia questa bestiola a cui badare», commentò, con un sorriso comprensivo. Gli posò una mano sul braccio. «Senta, tutto questo è terribile per lei, vero? Non è stata colpa sua. La ragazza non avrebbe dovuto trovarsi lì. Non se ne faccia una colpa.» A quel punto l'uomo cominciò a piangere, l'inaspettato calore della donna poliziotto che scioglieva il freddo senso di irrealtà che si era impadronito di lui. «Tenga.» Lei gli passò alcuni fazzoletti di carta e un biglietto da visita. «Senta, mi chiamo Min Sweeney. Questo è il numero del mio cellulare.» Vi tamburellò sopra con l'unghia. «Ci telefoni se ha bisogno di qualcosa. Qualunque cosa, davvero.» Sorrise e sollevò il cane, infilandoselo sotto il braccio. «Uau.» Annuì in direzione dell'animale. «Qualcuno ha proprio bisogno di un bel bagno.» L'uomo allungò la mano per carezzargli la fronte stretta. «Penso che potrei prendermelo io. Credo che i miei ragazzi lo adorerebbero.» Tese le braccia. «Forza, me lo dia. Probabilmente sono in ogni caso in debito con lui.» Lei lo osservò dirigersi verso la luce, una figura allampanata. Per lui era davvero dura, pensò. Gravato da quel terribile senso di colpa. Si sarebbe sentito meglio quando lo avessero informato. E lo avrebbero fatto dopo aver ricevuto una conferma dall'autopsia. Ma era già piuttosto evidente per chiunque. Marianne O'Neill era già morta quando il treno l'aveva investita.
Altrimenti il suo sangue sarebbe schizzato su tutti i binari. Min si voltò a guardare verso il luogo in cui giaceva il corpo martoriato della ragazza. «Poverina», mormorò. «Che riposi in pace.» Era stato il suo ex capo, Matt O'Dwyer, il sovrintendente capo di Dún Laoghaire, a chiedere di lei. «Non so se sia rilevante o no, Min, ma tanto vale che tu ne sia informata. Il Bureau ha bisogno di tutto l'aiuto che riesce a ottenere. La tua sezione ti lascerà libera per il tempo necessario e ha offerto anche la collaborazione di Conor Hickey. Così ho detto a Jay O'Reilly, l'ispettore che intendo mettere a capo delle operazioni, che se tu volessi partecipare alle indagini, saresti la benvenuta. Che ne dici?» «Magnifico, grazie. Apprezzo l'offerta.» Lei sollevò la tazza in direzione dell'uomo. Si ricordava di O'Reilly. Era stato promosso di recente. Un tempo si era sentito attratto da Min e l'aveva invitata fuori un paio di volte, dopo la morte di Andy. Lei aveva rifiutato. Il sovrintendente le sorrise. «Come va con i bambini? È tutto okay?» Min proruppe in una risata fragorosa. «Meglio che alcune tra le agenti più femministe non le sentano dire una cosa del genere, capo. La considererebbero una violazione della privacy.» «Già, è vero.» Lui la fissò con un'espressione di simulato rammarico. «Non è strano? E pensare che sto solo cercando di essere cordiale.» Era passato parecchio tempo dall'ultima volta in cui Min aveva assistito a un'autopsia. Probabilmente anni. Ma nel frattempo non era cambiato nulla. Trovò tutto molto familiare. Gli odori, la vista, i suoni. Lo stridore della sega che affondava nel cranio. Il fragore di acciaio inossidabile contro acciaio inossidabile quando bisturi e coltelli venivano lasciati cadere nei vassoi. Il ticchettio dei tacchi sulle piastrelle del pavimento e l'aderenza appiccicosa dei guanti di lattice che venivano infilati e sfilati. Mentre lei e Conor raggiungevano l'obitorio in auto, si era chiesta cosa avrebbe provato. Lui era stranamente taciturno e pallido a mano a mano che formavano un semicerchio intorno al tavolo. Lei notò le stille di sudore che gli erano apparse sulla fronte nonostante il freddo che regnava nella stanza. E quando i teli verdi vennero scostati da ciò che restava del corpo di Marianne O'Neill, Conor ebbe un conato di vomito e si affrettò a scusarsi. «Okay, perfetto, uno in meno. Qualcun altro?» Johnny Harris, il patolo-
go, inarcò le sopracciglia grigie sopra la mascherina e si guardò intorno. Sorrise a Min, rughe profonde che s'irradiavano dagli angoli dei suoi occhi come i raggi di una ruota. «Come stai, Min? Non ci vediamo da secoli. Et ta maman, ça va?» «Bien, toujours bien», rispose lei, improvvisamente consapevole del fremito d'interesse in quanti la circondavano. Evidentemente ignoravano che lei e Johnny erano vecchi amici. Lo erano sin da quando lei era bambina. Lui era andato a Slievemore quando era un giovanotto, stabilendosi nel vicino ostello per la gioventù. Passava tutte le sere nel loro pub. Andava a pesca e in barca a vela con il padre di Min. Scambiava ricette con la madre di lei nel suo francese scolastico. Le parlava del suo lavoro, della sua passione per la patologia forense. Discuteva dei grandi atleti del passato che erano gli eroi di Min. Era stata la prima persona con cui lei si era confidata quando aveva deciso di entrare nella polizia. Le aveva offerto il suo sostegno allorché la madre di Min aveva inveito contro la sua scelta e le aveva detto che stava sprecando il suo talento, che avrebbe dovuto iscriversi all'università per diventare insegnante o avvocato. Ma la donna aveva ascoltato quando Johnny aveva sostenuto che era una scelta eccellente. Servire la propria comunità era una nobile vocazione. «E comunque, Noelle, sa benissimo che Min odia stare nei luoghi chiusi. Preferisce essere sempre in movimento, darsi da fare. La lasci provare. Si rivelerà bravissima, vedrà.» L'aveva consolata dopo la morte di Andy. Le aveva spiegato come era morto, come non ci fosse niente che lei o chiunque altro avrebbero potuto fare. Come non esistesse una spiegazione per l'emorragia verificatasi nel suo cervello. Che non dipendeva dall'età di Andy, dalle quaranta sigarette al giorno che fumava o dalle pinte di Guinness che beveva ogni sera. Che non aveva sofferto, non aveva capito cosa stava per succedergli. Riabbassò lo sguardo sul cadavere che aveva davanti. Si schiarì la voce. «Interessante, molto interessante. Il treno ha tranciato le gambe all'altezza del ginocchio. Quindi, come potete vedere, abbiamo un torso completo, sezione superiore del corpo e testa. In base al mio esame preliminare, penso di poter dichiarare con una certa sicurezza che questa giovane signora era già morta quando il treno l'ha travolta. La causa della morte è stata una frattura del cranio con conseguente emorragia interna, che ha provocato inizialmente una perdita di conoscenza seguita, dopo trenta minuti circa, dal decesso. Se osservate qui», indicò con la punta del bisturi il cervello che era stato messo in bella mostra, «potete vedere la causa.» Un piccolo grumo nero simile a una lumaca spiccava sul tessuto cerebrale grigio. «E
qui», Harris sollevò il capo della ragazza e lo girò, «potete vedere l'ampia ecchimosi, con lacerazione e lesione del cranio, a mio parere provocate dal fatto che la testa è stata sbattuta ripetutamente contro qualcosa di duro. Avrò ragione?» Min deglutì. C'era del sangue sulla parete del tunnel, una chiazza scura che brillava scarlatta quando i fasci delle loro torce la colpivano. «A parte questo, la vittima presenta altre ferite. Ha delle piaghe intorno ai polsi a dimostrazione che è stata tenuta stretta, contro la sua volontà, probabilmente mentre lottava per liberarsi. Ha dei lividi sul collo forse per come è stata trattenuta intanto che il suo cranio veniva fratturato. Presenta anche delle ampie ecchimosi sull'addome e lo stomaco, presumibilmente provocate da un pugno. E c'è motivo di credere che abbia avuto un rapporto sessuale non consensuale nel periodo immediatamente precedente la morte.» Seguì una pausa di silenzio. Min abbassò gli occhi su Marianne. Cercò di rammentare quando le aveva parlato per l'ultima volta. Non era successo tanto tempo prima. Durante l'estate. All'epoca la ragazza viveva all'addiaccio in uno dei parcheggi giù accanto al mare. Si era costruita una sorta di riparo con un grosso telo di plastica, drappeggiato sopra un paio di cespugli e tenuto fermo con mattoni e grandi sassi. Il tempo era bello. Ben presto un gruppo di altre persone si era unito a lei. Vagabondi del tipo tradizionale e del tipo New Age. Una coppia di ubriaconi locali passava a trovarli di tanto in tanto. La situazione era sfuggita di mano durante una nottata calda, con la luna piena. Erano giunte alcune denunce dal costoso complesso residenziale lì vicino. Si era parlato di ubriachezza, di assunzione di droghe e di coppie che facevano sesso sotto gli occhi dei loro vicini borghesi. Un'autopattuglia era stata inviata a mettere fine alla festa. La reazione era stata ostile e, nel conseguente caos, Marianne e i suoi amici erano stati arrestati. Portati alla stazione di polizia. Trattenuti per tutta la notte, finché non gli fosse passata la sbronza. Il mattino dopo, Min le aveva portato una tazza di tè e del pane tostato. Avevano parlato. Dei vecchi tempi. Min le aveva consigliato di tornare a casa per un po'. Di ricominciare a prendere le medicine. Di tentare di assumere il controllo della sua vita. «Ti sto dicendo, Marianne, che finirai in grossi guai se continui così. Oppure ti farai male.» Marianne era apparsa contrita. In lacrime. Aveva telefonato a Susan, che era venuta a prenderla per accompagnarla a casa. Ma la sua contrizione non era durata a lungo. La settimana dopo, era già tornata per la strada. E
Min aveva sentito dire che l'avevano vista chiedere l'elemosina e aggirarsi nella zona del canale e nelle aree intorno al centro città. Un tetro silenzio era calato sulla stanza. Fu Johnny Harris a spezzarlo. «Allora.» Il suo tono era vivace. «Ci sono domande?» Lei si schiarì la voce. «Sì, Min. Cosa posso fare per te?» «Mi stavo semplicemente chiedendo se vi siano tracce di DMA. Qualcosa che possa puntare il dito verso un sospettato.» Harris sollevò una bustina di plastica per i reperti. «Be', abbiamo trovato alcuni peli che non provengono dal corpo della vittima. E abbiamo recuperato il materiale sotto le sue unghie. Abbiamo prelevato dei campioni di fluidi corporei. Ci vorrà un po' di tempo per capire di quali elementi disponiamo.» Si strofinò la fronte con il dorso della mano guantata. Abbassò lo sguardo sulla ragazza, poi lo riportò sul viso di Min. «Ho un'ultima cosa da dire. È stata assassinata. Su questo non c'è alcun dubbio. Non so se sia stata piazzata deliberatamente sui binari nel tentativo di nascondere la cosa. O magari è stata uccisa lì perché è una zona tranquilla e lontana da occhi indiscreti. Comunque sia, questo non m'interessa granché. M'interessano invece i terribili maltrattamenti subiti da questa ragazza. Era da un po' che non vedevo niente di simile.» Fece un profondo sospiro, la sua mascherina che si gonfiava per poi riaderire alla bocca ampia e morbida. Per un attimo posò la mano sul braccio della defunta. Poi si voltò. Conor la stava aspettando fuori. Il suo colorito era migliorato. Era appoggiato alla macchina, una sigaretta in una mano, una copia del Sun nell'altra. «Uau, guarda questa ragazza.» Le fece oscillare la pagina davanti al naso. «Straordinaria, vero?» «Sì, davvero straordinaria.» Min gli tolse di mano il giornale. «Novanta per cento silicone e dieci per cento pia illusione, direi. Un abbinamento tutt'altro che gradevole. E uno spettacolo più nauseante di una povera ragazza morta e investita da un treno.» Piegò il quotidiano in quattro. «Ma è questa la differenza tra noi due, Conor. Non è vero?» E gli sorrise mentre gli affondava un dito nel petto. Percorsero la litoranea per tornare alla stazione di polizia di Dún Laoghaire, dove era stata allestita la sala operativa. Conor la informò sulle ultime novità. Uno degli abitanti delle case affacciate sulla linea ferroviaria aveva visto Marianne. Verso le tre del mattino. Apparentemente lei stava
cantando a squarciagola. Sembrava ubriaca. Poi, una decina di minuti più tardi, un uomo era stato notato nello stesso luogo. Bruno, altezza media, corporatura media. Probabilmente indossava jeans e una giacca. Nessun segno particolare. «Magnifico», commentò Min. «Questo restringe notevolmente il campo, giusto?» «Già. Comunque c'è qualcosa che lo restringe ulteriormente.» «Cosa?» «Nella borsetta della vittima sono state trovate alcune carte di credito, e un libretto degli assegni. Appartengono a Nick Cassidy, il tuo vecchio amico. A quanto pare, lei ha passato quasi tutta la giornata di ieri con lui, inclusa la maggior parte della serata e della notte. Cassidy sostiene che se n'è andata nelle prime ore del mattino. Dice che hanno litigato, che lei voleva fare sesso e lui no. Dice che è uscita di corsa, furibonda, e che da quel momento lui ha tentato di ritrovarla, che non sa nulla di quanto è successo dopo che se n'è andata. Allora, che ne pensi, eh?» Min non rispose. Si girò verso il mare e lasciò che il suo sguardo si posasse sui blu e sui verdi intensi che riempivano la baia, verso Howth. Quel giorno la zona brulicava di attività, una fila di navi portacontainer che aspettavano di entrare nel porto varcando la stretta foce del fiume, e tra di esse spiccava la distintiva vela rossa e quadrata di un peschereccio a un solo albero di Galway. Si chiese chi si trovasse al timone. Con il passare degli anni aveva conosciuto la maggior parte degli equipaggi dei pescherecci a un solo albero, nel pub di Slievemore. Suo padre era una sorta di esperto in fatto di barche a vela tradizionali. Condivideva quell'interesse con Johnny Harris. Ma Harris era un purista. Sulla sua imbarcazione per la pesca delle aringhe lunga dieci metri tutto era come un tempo. Solo di recente si era lasciato convincere di aver bisogno di un motore diesel. «Senza dubbio riusciranno a individuare del DNA sul corpo della ragazza, vero? Questo dimostrerà sicuramente cosa è successo. Trovo difficile credere che, se Marianne gli ha davvero fatto delle avance come Cassidy sostiene, lui non fosse interessato. Tu che ne dici?» Le dita di Conor tamburellarono sul volante. Min era andata in barca a vela con Harris diverse volte nella Roaringwater Bay e poi più lontano, oltre Cape Clear e fino allo scoglio del Fastnet. Lui doveva avere almeno cinquant'anni, pensò, ma era ancora in forma smagliante. Magro, instancabile, agile, forte. Riusciva a fare tutto, su quella barca. Correndo da prua a poppa, le lunghe gambe fasciate da calzoncini
di tela denim che lo mantenevano in equilibrio mentre l'imbarcazione s'impennava e si tuffava sotto di lui. Tirando le vele intanto che lei spingeva la barra del timone e gridava: «Viro!», la prua che ruotava, seguita dalla grande vela maestra color ruggine che bloccava i raggi del sole e proiettava una densa ombra fredda sul ponte. E l'uomo toglieva il fiocco, controllando e ricontrollando l'angolazione delle vele rispetto al vento quando il lungo bompresso di legno si sollevava e ricadeva, fendendo le onde lunghe dell'Atlantico. «Harris è un uomo adorabile», dichiarò. «Gli voglio un gran bene.» «Lo conosci da molto?» «Da abbastanza.» «Quindi sai parecchie cose di lui?» «Abbastanza.» «Quindi sai che tutti pensano che sia gay?» «Lo pensano, eh?» Min gli lanciò un'occhiata. Lui allungò una mano per estrarre una sigaretta dal pacchetto posato sul cruscotto. Se la lanciò verso le labbra e premette l'accendisigari dell'auto. «Sì», rispose. Lei si strinse nelle spalle. «Be', presumo che siano affari suoi. Né tuoi né miei. Né di nessun altro.» L'accendisigari rispuntò. Conor lo estrasse. La serpentina di un arancione opaco brillò. Lui lo accostò alla punta della sigaretta e aspirò a fondo. «Ne sei convinta, vero?» Un pennacchio di fumo gli uscì da un angolo della bocca. «Perché, tu no?» Min tenne premuto il pulsante sul pannello interno della portiera e il finestrino si abbassò. «Non sei d'accordo? Pensi che tu e chiunque altro abbiate il diritto non solo di conoscere i dettagli più intimi della vita di Johnny Harris ma anche quello di commentare e giudicare?» Lui non rispose. «Harris è un eccellente patologo forense. È riuscito, praticamente da solo, a procurarci le prove di cui avevamo bisogno non solo per poter formulare un'accusa che reggesse in tribunale ma anche per ottenere una condanna. Sarebbe in grado di scrivere un libro di testo su fibre, capelli, fluidi corporei. Ed è il migliore che io abbia mai conosciuto quando si tratta di analizzare le ferite alla testa. Le sue preferenze sessuali non hanno niente a che vedere con tutto ciò. Niente di niente.» Fissò di nuovo la baia. Adesso il peschereccio a un albero stava avanzando a ritmo costante, il frizzante vento orientale che lo spingeva verso l'orizzonte. Calò un silenzio carico di
imbarazzo. L'auto rallentò fin quasi a fermarsi. Davanti a loro si allungava un ingorgo stradale. «Allora, come mai hai problemi con i gay?» chiese Min, voltandosi nuovamente verso il collega. Conor non rispose. Allungò una mano davanti a lei. «Non ti dispiace, vero? Abbiamo respirato abbastanza aria fresca, per il momento.» Il finestrino si chiuse. Lui spense il mozzicone nel portacenere. «Chi dice che ho dei problemi?» «Be', è evidente. Lo dimostra il fatto stesso che tu stia sollevando l'argomento con me.» «Davvero? Non lo si può sollevare, affrontare nello stesso modo in cui si può discutere di un aspetto del carattere o di un'anomalia fisica? Sei un esempio dannatamente tipico, vero?» «Tipico di cosa?» «Di tutti i tizi politicamente corretti. Quell'uomo è omosessuale. Questo lo rende diverso. I suoi interessi sono diversi. Il suo stile di vita è diverso. I suoi desideri sono diversi. Perché non posso dirlo?» «Okay, dillo, se vuoi. Dillo ad alta voce e ripetilo finché vuoi. Ma non pensare che questo ti conceda il diritto di giudicarlo perché, se proprio vuoi saperlo, Johnny Harris ha una relazione che farebbe morire d'invidia praticamente ogni coppia eterosessuale di mia conoscenza.» «Sul serio?» Conor ridacchiò. «Pantofole e cioccolata calda, eh? E chiacchieratine intime e massaggi sulla schiena prima di passare alla roba pesante. Completi in pelle 'Lui' e 'Lui', giusto?» Lei non rispose. «Ti ho scioccato, vero?» Conor si appoggiò allo schienale, un braccio disteso mollemente sulla sommità del sedile di Min. Lei sospirò. «No, non scioccato. Deluso, tutto qui. E, secondo me, ti sbagli. Secondo me, passi troppo tempo davanti al computer. E quello che vedi non ti rende certo felice.» «Oh, quindi è questo che pensi. Pensi che dovrei uscire di più. Be', lasciati dire, Min, che qualunque cosa ci sia tra il tuo amico dottor Harris e la sua anima gemella, esiste una verità inconfutabile sulle relazioni gay. Sono fondamentalmente predatorie. Sono basate sul potere e lo sfruttamento. Includono un elemento di forza fisica che è innegabile. Se non mi credi, vai in uno qualsiasi dei bar o club gay della città in qualunque sera della settimana e dai un'occhiata di persona. Perché i Johnny Harris di quel mondo sono più unici che rari.»
Il suo tono era freddo ed estremamente ostile. Ma, quando Conor si voltò a guardarla, Min vide che nei suoi occhi scintillava un barlume innaturale e che il suo viso era arrossato. Il semaforo di fronte a loro passò al verde e l'auto cominciò ad avanzare lentamente. Conor allungò la mano verso il pacchetto di sigarette. «Ti dispiace?» chiese. Lei si strinse nelle spalle. «Accomodati. È il tuo tumore ai polmoni, non il mio.» «Be', se la metti così... Hai ancora del chewing-gum?» Min rovistò nella borsetta. Il suo cellulare squillò. Lo estrasse e guardò il display. «O'Reilly», disse, poi premette il pulsante. Ascoltò. «Okay, nessun problema. Ci vediamo là.» Si posò il telefonino in grembo. Prese un pacchetto di Polo dalla tasca della giacca. Arrotolò l'involucro di stagnola e glielo porse. «Grazie.» Lui armeggiò goffamente con le caramelle, tanto che gli si sparpagliarono sulle ginocchia. «Merda», borbottò, gli occhi fissi sulla strada. «Ti dispiacerebbe raccoglierle?» Min lo fece e ne scelse una da dargli. Conor la masticò rumorosamente, poi parlò. «Allora, dimmi, cosa succede?» «O'Reilly vuole che lo raggiungiamo a casa di Cassidy.» «Non intende arrestarlo?» «No. Si dice convinto di poter ottenere di più se mantiene il tutto su un piano informale, per il momento. Dice che vuole che io sia presente perché conosco Cassidy meglio di chiunque altro.» «E perché devo venire anch'io?» Lei sorrise. «Perché ha aggiunto, testuali parole: 'Porta quel tale Hickey con te. Ho sentito così tanti commenti entusiastici su di lui che voglio vedere se sono fondati'.» «Uau.» Conor chinò il capo con simulata umiltà. «Sono onorato. Niente meno che una lode da parte di una testa di cazzo come O'Reilly. Dove andremo a finire?» «Oh, avanti.» Min scoppiò a ridere. «Non è poi così male. Ma sai che appartiene alla vecchia guardia. Spero tu abbia portato il taccuino. Quello originale e regolamentare, fornito dal corpo di polizia. Niente agende personali organizer. Lui non approverebbe. Ti serve una penna?» Frugò di nuovo nella borsetta. «Ne ho qui alcune. Blu o nera? Scegli.» Gliele tese. «Nera, naturalmente. Nero, nero, nero è il colore dei capelli del mio ve-
ro amore», cantò ad alta voce. «Neri come i tuoi.» Si voltò a guardarla e sorrise, e l'auto acquistò velocità mentre il traffico ricominciava a muoversi. 20 Nick percorse la stessa strada che Marianne aveva percorso. Nelle prime ore di quel mattino. Quando regnavano silenzio, quiete e freddo. Il respiro tiepido della ragazza che si trasformava in goccioline di nebbia davanti al suo viso. La luna che le brillava ancora sopra la testa. Lui seguì il tragitto che immaginava avesse seguito Marianne. Lungo la sommità del terrapieno, cercando di scoprire in quale punto si era arrampicata e poi lasciata scivolare tra rovi e felci, scendendo fino ai binari. E lo scoprì. Un sentierino fangoso costellato di lattine di birra vuote e bottiglie di plastica per il sidro e, al centro, i resti anneriti di un fuoco. Continuò a camminare, oltrepassando la stazione di Dalkey e dirigendosi verso il tunnel in cui era stato rinvenuto il corpo. Subito prima di arrivarci vide che era facile raggiungere la linea ferroviaria. Dieci gradini di cemento che scendevano il pendio e un cancelletto metallico, dotato di lucchetto ma facile da scavalcare. Una sottostazione dell'energia elettrica lì accanto e, qualche metro più in là, la curva del tetto del tunnel di pietra chiaramente visibile. Il nastro da scena del crimine che fluttuava ancora e un poliziotto in uniforme appoggiato al muro. All'inizio non doveva esserci stato il minimo problema, immaginò. Marianne non doveva essersi preoccupata del buio o della solitudine, mentre costeggiava il binario. Aveva accanto il suo cane. Stava cantando, così affermavano. Sicuramente era animata dalla sua follia. Quindi chi era stato a raggiungerla alle spalle? Lei si era girata e lo aveva visto? Lo conosceva? Lo aveva accolto con gioia o con apprensione? Cosa aveva detto lui mentre le si avvicinava? I poliziotti gli avevano spiegato che era stata aggredita. Che era stata percossa e probabilmente violentata. Che le avevano spaccato la testa contro la parete del tunnel. Che non era morta subito ma era probabilmente sopravvissuta per circa un'ora, dopo l'aggressione. Nick chiuse gli occhi e cercò di rivedere Marianne con l'aspetto che aveva avuto da teenager. Quando Owen era ancora con loro. Con l'aspetto che aveva avuto quella sera, quando lui l'aveva fatta ballare in giro per la stanza, le aveva servito pasta al sugo di pomodoro, le aveva offerto qualche bicchiere di vino, l'aveva coperta con un plaid. E l'aveva cacciata fuori, in strada.
Si avvicinò ulteriormente. Il poliziotto di guardia lo scorse e fece per raggiungerlo. Nick si fermò. «Vietato l'accesso», gridò l'agente. «Area riservata.» Lui indietreggiò. Sorrise. «Certo», ribatté. «Nessun problema.» Risalì il pendio, verso la strada. Visto dall'alto, l'ingresso del tunnel sembrava ancora più buio e minaccioso. Si voltò, poi si fermò. Chinò il capo. «Perdonami, Marianne.» Il suo tono era sommesso, a malapena udibile. «Ti prego, perdonami per quello che ho fatto e per quello che non ho fatto.» Poi si girò e si allontanò. «Per quale motivo ci sei andato? Non capisco perché mai tu abbia voluto farlo.» L'atteggiamento di Susan era freddo e tutt'altro che amichevole. Nessuna nota di consolazione nelle sue parole. Nick indugiò sulla soglia. Al di sopra della spalla di lei, vide Paul O'Hara che lo fissava. «Credi sia colpa mia, vero?» chiese. «Ti stupisce?» ribatté Susan. «Se non l'avessi sbattuta fuori di casa alle tre del mattino, probabilmente sarebbe ancora viva. Come hai potuto farlo? Come hai potuto permettere che una persona vulnerabile come Marianne ti lasciasse in quel modo?» «Aspetta un attimo.» Lui le si avvicinò. «Sei tu quella che soltanto ieri mi ha arringato sul libero arbitrio e la capacità di Marianne di prendere decisioni, di vivere la propria vita. Mi sembra un po' eccessivo che adesso tu mi stia dicendo una cosa del genere, non credi?» «No, non lo credo affatto. Quello che credo è che tu abbia fatto ciò che fai sempre. I tuoi comodi. Ovviamente le hai dimostrato che le volevi bene e ti preoccupavi per lei, ma poi l'hai delusa. Non stupisce che la poverina sia scappata in quel modo.» Per un attimo Nick fissò il pavimento. Dalla cucina arrivava il profumo del caffè quasi pronto. Gli diede il voltastomaco. «Susan, ascoltami. Non trovi significativo che sia morta proprio adesso? Non pensi che questo dimostri qualcosa?» «Per esempio?» La voce della donna suonò brusca. «Ti riferisci a una situazione da assurdo romanzo poliziesco di Agatha Christie, a una teoria di complotti e controcomplotti? Roba del genere?» «Non saprei, ma non può trattarsi di un omicidio casuale. È semplicemente impossibile.»
«Forse. Forse è legato alla vita che lei ha vissuto negli ultimi anni, ma dubito sinceramente che abbia qualcosa a che vedere con Owen. È qui che vuoi andare a parare, vero? È a questo che ti riferisci.» «Sue.» O'Hara le posò una mano sulla spalla. «Il caffè è pronto. Vieni.» Lei indietreggiò in cucina. Le si colmarono gli occhi di lacrime. Allungò una mano per chiudere la porta. Nick si levò dalla sua strada. Sentiva la gola serrata. Un groppo compatto e duro che minacciava di soffocarlo. Si voltò e scese lentamente i gradini che portavano in giardino. Aveva ricevuto una telefonata dalla polizia, da Jay O'Reilly, l'ispettore. Volevano parlargli ancora, gli aveva spiegato l'uomo. Avevano qualche altra domanda da fargli. Sarebbero passati a casa sua. «Ne è sicuro?» aveva chiesto lui. «È sicuro di non preferire che venga io lì, alla stazione? È sicuro di non volermi arrestare?» E la risposta era consistita in una gioviale risata. Niente affatto. Solo una chiacchierata amichevole. Nulla di formale. Nulla di cui preoccuparsi. Ma Nick aveva i suoi dubbi. Si ricordava di quando era stato interrogato in precedenza. Ricordava come fosse importante non tradire alcuna esitazione nel rievocare l'accaduto. Essere coerente nelle risposte e nelle descrizioni. Non era il momento adatto per mostrarsi disinvolto o indifferente, indeciso o incline a interrompersi. Forse sarebbe stato saggio passare cinque minuti con una penna e un pezzo di carta, elencare gli avvenimenti in ordine cronologico. Annotare orari e fatti, anticipare qualunque cosa potesse indurre i poliziotti a sospettare un suo coinvolgimento nella morte di Marianne. Rimase stupito quando i tre si presentarono tutti insieme alla sua porta. O'Reilly, l'ispettore, accompagnato da Min Sweeney e da un altro giovanotto. Alto, massiccio, avvenente. Vestito in stile casual, con jeans e giacca a vento con il cappuccio. Gli venne presentato come Conor Hickey. Nick li invitò a entrare, offrì loro del tè e un piatto di biscotti. Poi prese posto sul divano e aspettò che terminassero i convenevoli. Non dovette attendere a lungo. Gli altri tre si sedettero e lo fissarono. Min sorrise, ma a lui sembrò di notarle negli occhi una cautela prima inesistente. Lei si mosse a disagio sulla sedia, accavallando le gambe e poi riportandole alla posizione precedente, la pelle degli alti stivali che scricchiolava a ogni suo movimento. Nick avrebbe voluto dirle che tutta quella faccenda era ridicola, che lui non c'entrava assolutamente nulla con la morte di Marianne, che ne era rimasto sconvolto. E non potevano semplicemente uscire e sistemare la cosa tra loro? Ma si rese conto che ormai avevano oltrepassato quella
fase. O'Reilly si schiarì la voce. «Volevamo vederla, signor Cassidy, perché ci sono un paio di questioni che non ci risultano del tutto chiare, se capisce cosa intendo.» «No, non capisco.» Nick lo fissò intensamente. «Le dispiacerebbe spiegarsi? Pensavo di aver detto tutto quello che sapevo ai due agenti che sono venuti a informarmi della morte di Marianne.» «A loro cosa hai spiegato, Nick?» Min si piegò in avanti, il taccuino posato sul ginocchio, la penna pronta a scrivere. «Ho spiegato che sì, Marianne è stata qui ieri notte. Aveva intenzione di fermarsi a dormire, ma poi abbiamo avuto una divergenza d'opinioni e lei si è infuriata e se n'è andata. Ho cercato di fermarla. Ho cercato di farla ragionare. Ma sapete benissimo o, almeno, credo, che ha... aveva dei gravi problemi emotivi e psicologici. E più tentavo di trattenerla, di controllarla, più diventava furibonda e violenta, e alla fine non ho potuto fare altro che lasciarla andare.» «Furibonda, violenta. Cosa intende esattamente con questo?» intervenne Conor Hickey. Nick lo guardò. Quando rispose, usò termini scelti con cura. «Furia, un'intensa emozione espressa energicamente. Un senso di rabbia, di ostilità. Violenza, la traslazione di quell'emozione in attività fisica. Pugni sulla carne, l'uso delle mani, schiaffi, calci. Ecco cosa intendo.» «Quindi sta ammettendo di essere stato violento con Marianne O'Neill?» Il tono di Conor fu diretto. «No, niente affatto. Lei fu violenta con me. Mi colpì, mi graffiò, mi prese addirittura a calci con i suoi dannati, enormi stivali. Ecco cosa è successo.» «Capisco, signor Cassidy.» Adesso fu il turno di O'Reilly. «Cosa fu a scatenare un simile comportamento violento?» «Sentite.» Nick si prese la testa fra le mani. «L'ho già detto ai due tizi che sono passati di qui per primi. Ho raccontato esattamente quello che è successo. Avevamo passato la giornata insieme. Avevo preparato la cena. Era stato tutto molto piacevole, molto carino, molto amichevole, molto intimo. Poi Marianne si è rattristata ripensando a mio figlio. I ricordi erano estremamente dolorosi per lei. Si è addormentata qui davanti alla stufa. Le ho preparato un letto. Poi sono andato a dormire anch'io, qui sul divano letto, ma in un momento imprecisato della notte mi sono svegliato e me la sono ritrovata accanto. Apparentemente voleva fare l'amore con me. Le ho
detto che era impossibile. Le ho spiegato che non avevo avuto quel tipo di rapporto con lei in passato e non volevo averlo nemmeno adesso o in futuro. Probabilmente, visto che mi aveva svegliato all'improvviso da un sonno profondo, non le ho dimostrato la premura o la sensibilità che avrei potuto riservarle in circostanze diverse.» Min abbassò gli occhi sul taccuino, poi li rialzò. «In precedenza hai affermato di averla buttata fuori dal letto. È questo che è successo, Nick?» La voce della donna sembrava aver perso parte del suo calore. Lui fece un'altra pausa e abbassò lo sguardo sui propri appunti. «Ho usato quell'espressione in senso metaforico. Non ho preso concretamente in braccio Marianne per poi buttarla fuori. Mi sono svegliato. Lei era accanto a me. Ho capito subito cosa voleva, mi sono ritratto. Ho tentato di alzarmi, ma si frapponeva tra me e il pavimento. Così le ho dato una spinta. È caduta dal letto, atterrando pesantemente. È rimasta scioccata, offesa. Anch'io sono rimasto scioccato. Ero semiaddormentato. Non capivo bene cosa stesse succedendo. Lei mi ha fatto nuovamente delle avance. L'ho spinta via di nuovo. È stato a quel punto che si è infuriata. Ha cominciato a mulinare le braccia. Io ho cercato di trattenerla. Le ho afferrato i polsi nel tentativo d'impedirle di colpirmi.» Sospirò. «Sentite, questo non mi mette certo in buona luce, lo so. Ma potreste semplicemente cercare di vedere la situazione dal mio punto di vista? Non intendevo farle del male, quella era l'ultima cosa al mondo che intendessi fare.» «Allora come mai se n'è andata in quel modo? Tua moglie l'ha sentita, sai? Ha sentito delle voci che urlavano. Ha sentito sbattere la porta d'ingresso. Ha sentito Marianne che gridava insulti. La ragazza deve aver fatto un discreto frastuono perché tua moglie, che si trovava all'ultimo piano della casa, sia riuscita a sentirla.» «Infatti. In realtà mi stupisce che l'intera piazza non l'abbia sentita.» «E qualche minuto dopo tua moglie ha sentito anche qualcos'altro: lo scalpiccio di un altro paio di piedi. Ha detto che sembravano quelli di un uomo.» Nick si strinse nelle spalle. «Cosa posso dire? Susan può benissimo aver sentito qualcosa, ma non ero io. Non ho seguito Marianne.» «Poi, mezz'ora più tardi, Marianne è stata vista sulla linea ferroviaria appena dopo la stazione di Glenageary. Una giovane donna che era sveglia per allattare il figlio l'ha vista chiaramente dalla finestra, stando a quanto ha dichiarato. E, quindici minuti dopo, ha notato un uomo sulla linea fer-
roviaria. Un uomo che corrisponde alla tua descrizione. Cosa puoi dirci in proposito?» Nick si sfregò il viso e si posò i polpastrelli sulle palpebre. Riuscì a sentire il proprio battito cardiaco attraverso la pelle sottile. Appoggiò le mani sulle ginocchia. «Cosa posso dire? Cosa posso dire che riesca a convincervi? Non ero io. Non l'ho seguita. Dopo che se n'è andata, sono tornato a letto e ho cercato di riprendere sonno. Non ho fatto nient'altro.» Ci fu una momentanea pausa di silenzio, poi Min si piegò in avanti. «Nick, so che se guardiamo l'accaduto dal tuo punto di vista appare tutto perfettamente plausibile.» Il suo tono di voce era sommesso e neutro. «E spiega indiscutibilmente alcune delle lesioni riscontrate sul corpo di Marianne. I segni intorno ai polsi, per esempio; forse alcune delle ecchimosi sulla schiena. E ci sarebbe davvero d'aiuto se tu ci fornissi alcuni campioni di capelli e peli, campioni di tessuto, un tampone dal quale rilevare il tuo DNA. A quel punto saremmo in grado di confrontarlo con qualunque cosa abbiamo rinvenuto sul cadavere ed eliminarti così dalle nostre indagini.» «Tuttavia, la sua versione dell'accaduto non spiega questo», la interruppe O'Reilly. Infilò una mano in tasca ed estrasse una bustina di cellofan del tipo riservato ai reperti di prova. «Lo riconosce, signor Cassidy?» Gli passò il reperto. Nick lo prese. «Questo?» chiese in tono stupito. «Dove diavolo l'avete trovato?» «Quindi lo riconosce?» «Naturalmente. È il mio orologio. Ma dove l'avete preso?» «Nick, il tuo orologio è stato rinvenuto a un paio di metri di distanza dal corpo di Marianne. Era a terra accanto al binario.» La voce di Min suonò gentile, pacata. Comprensiva. «Ma è ridicolo, assurdo. L'ultima volta in cui l'ho visto, me l'ero tolto perché il cinturino era molto logoro e dovevo cambiarlo. Possiedo quell'orologio da parecchio tempo. È stato un regalo di compleanno di mia moglie.» Capovolse la bustina di cellofan e la lisciò. Osservò l'iscrizione sul retro della cassa. A N.P.C. DA S.M.C. 30 GENNAIO 1985, diceva. Alzò di nuovo gli occhi verso i tre visi, che lo stavano fissando intensamente. «Me lo sono tolto qualche giorno fa. E l'ho messo qui.» Si alzò e si avvicinò al tavolo da disegno. «Qui, in questa scatola. Vi conservo oggetti assortiti di ogni genere. Ecco.» Sollevò un portamatite di legno. Un modello di foggia antiquata, con il tappo a vite. Lo aprì. Rovistò tra il contenuto con la punta
dell'indice. Min si alzò e lo raggiunse. «Non riesco a capire.» Nick le passò la scatola. «Giuro di averlo messo qui... oh, non ricordo bene quando, come minimo qualche giorno fa.» Si voltò di nuovo verso O'Reilly. «Senta, dev'esserci stato un errore. Mi sono tolto l'orologio perché il cinturino era logoro e volevo farlo sostituire. L'ho messo nella scatola per non perderlo. Guardate.» Sollevò la bustina trasparente davanti a loro. «Il cinturino è spezzato, ma non lo era quando mi sono tolto l'orologio. E guardate qui.» Fece una pausa. «Il vetro è rotto. Non lo era quando l'ho visto per l'ultima volta.» «Esatto.» La voce di O'Reilly echeggiò. «Non solo il vetro è rotto ma ne abbiamo trovate alcune schegge conficcate nella suola dello stivale sinistro di Marianne. Vede, Nick, lei ci ha fornito la sua spiegazione, per di più estremamente plausibile. Ma, se non le dispiace, vorrei illustrarle un altro possibile scenario. Perché non si rimette seduto e mi ascolta? Non le ruberemo troppo tempo.» Dopo che i tre se ne furono andati, Nick non poté fare altro che restare seduto a fissare il pavimento. Aveva accettato di presentarsi - per usare le loro parole, non le sue - alla stazione di polizia alle dieci del mattino seguente. Avrebbe fornito volontariamente alcuni campioni. Capelli e peli, tessuto, sangue, saliva. Gli avevano spiegato che poteva rifiutarsi di farlo. Ma lui sapeva che era inutile. Soprattutto dopo che O'Reilly gli aveva raccontato cosa, secondo loro, era successo la notte precedente. «Sa, è così che pensiamo sia andata, Nick. Pensiamo, sospettiamo, che sia stato lei a tentare di fare sesso con Marianne. Che sia stata Marianne a rifiutare. Che sia questo il motivo per cui è corsa fuori di qui alle tre del mattino ed è fuggita, urlando, nella notte. Se n'è andata da sola. Sospettiamo che lei si preoccupasse delle intenzioni della ragazza. Temeva che Marianne potesse raccontarlo a qualcuno. Poteva magari dirlo a sua moglie? Poteva andare alla polizia? Poteva accusarla di ogni genere di nefandezze, di un comportamento in netto contrasto con la sua condotta consueta? Forse poteva addirittura cominciare a lanciare accuse relative al passato. Sapeva qualcosa che finora non aveva rivelato? Non possiamo appurarlo perché è morta. Ma abbiamo una testimone oculare che ha notato un uomo sulla linea ferroviaria pochi minuti dopo aver visto Marianne. La descrizione le si adatta perfettamente, Nick. E abbiamo trovato il suo orologio a un paio di metri di distanza dal cadavere. Si potrebbe ipotizzare che il cinturino si sia rotto perché lei ha avuto una violenta colluttazione con la
ragazza. Il cinturino si è spezzato, l'orologio è finito per terra e Marianne, nel cadere, lo ha pestato, frantumando il vetro.» Ascoltando, Nick aveva scosso il capo per l'incredulità. Aveva tentato d'incrociare lo sguardo di Min, ma lei fissava risolutamente O'Reilly che parlava. Lui aveva continuato a scrollare la testa mentre ascoltava le parole dell'ispettore. «Era furioso con lei. L'ha afferrata per i polsi. L'ha spinta dentro il tunnel. L'ha costretta a fare sesso, poi le ha spaccato la testa contro la parete di pietra. L'ha lasciata lì sul binario. È tornato qui, si è ripulito. Ha aspettato il mattino, poi è andato a parlare con sua moglie, le ha raccontato la sua versione dell'accaduto e le ha chiesto aiuto per rintracciare Marianne. E questo è quanto.» Nick aveva provato l'impulso di ridere. Era tutto così ridicolo, così assurdo. Tuttavia, nell'ascoltare O'Reilly, era stato costretto a dargli ragione. Anche quella ricostruzione appariva estremamente plausibile. «Se vuole, possiamo procurarle un rappresentante legale, signor Cassidy.» O'Reilly si era alzato. Nick si era stretto nelle spalle. «Non saprei. Ci penserò su.» Aveva aperto la porta d'ingresso. I tre poliziotti gli erano passati davanti in fila indiana. Min aveva allungato una mano per toccargli il braccio, ma lui si era ritratto. «Ci vediamo domattina», si era congedato O'Reilly, girando la testa. «Alle dieci. Non se lo scordi.» Lui era rimasto fermo sulla soglia a osservarli raggiungere le rispettive auto. Poi aveva sentito il suono della voce di Chris Goulding e aveva risalito il vialetto che portava al cancello. Chris stava scendendo di corsa i gradini davanti alla propria porta, chiamando i poliziotti, gesticolando per attirarne l'attenzione. Nick si era fermato a guardare. Non era riuscito a sentire cosa il giovane stesse dicendo, ma i tre - O'Reilly, Min Sweeney e Hickey - si erano voltati ed erano tornati con Chris verso la casa. La massiccia porta aveva sbattuto alle loro spalle, il batacchio di ottone che si sollevava e ricadeva con un tintinnio quasi musicale. Nick aveva attraversato la strada e si era appoggiato alla cancellata. Si era guardato intorno nella piazza. Aveva visto ovunque finestre luminose e accoglienti. Un vento freddo gli aveva scompigliato i capelli. Il falò al centro dell'erba infangata si stava ingrandendo a ritmo costante. Ormai svettava sopra di lui. Si era voltato verso le case. Era riuscito a vedere Chris che, in piedi nella stanza sul davanti, stava parlando con i poliziotti. Gesti-
colava, tirando Amra accanto a sé, inserendola nella conversazione. Anche Emir era lì. Aveva la schiena appoggiata alle gambe di Chris, le cui mani giocherellarono con i capelli del bambino per poi posarglisi sulle spalle magre. Mentre osservava la scena, Nick aveva visto O'Reilly lasciare la stanza e poi la casa, superarlo degnandolo a stento di un'occhiata, salire in macchina e allontanarsi. E Min era uscita dalla stanza sul davanti, seguendo lentamente la donna. Intanto Chris e Hickey sedevano vicini, il bambino in piedi in mezzo a loro, il suo sguardo che si spostava da un viso all'altro. Poi Emir aveva raggiunto la finestra ed era rimasto lì a fissare Nick, finché Chris non si era alzato con un movimento brusco, aveva afferrato le tende e le aveva accostate rapidamente. Così, per entrambi, non era rimasto nulla da vedere. Nick si era voltato verso la propria casa. Susan e Paul erano chiaramente visibili in salotto. Lui, fermo accanto alla mensola del caminetto, un bicchiere di vino in mano. Lei, seduta sul divano. «Guardami», le aveva detto ad alta voce. «Gira la testa e guardami. Cerca di vedermi per quello che sono. Un uomo che si è dimostrato debole e pieno di difetti, ma che ti ama ancora. Guardami, Susan. Ti prego.» Lei però non si era mossa. Non aveva reagito. Lui rabbrividì. Il vento soffiava, sfrecciando tra gli alberi. Ormai la pioggia era imminente. Nick ne aveva il presentimento. Si era costretto a staccarsi dalla cancellata ed era tornato verso casa. Era entrato e aveva chiuso la porta. Si era seduto sul divano a fissare il pavimento. Infreddolito e nauseato. E, tutt'a un tratto, estremamente impaurito. 21 A Min non era mai piaciuta la casa dei Goulding. All'epoca, era entrata e uscita dall'abitazione parecchie volte. Era sempre pulitissima ma fredda. Era sempre silenziosa. Non c'era televisore nell'ampio soggiorno affacciato sulla piazza. Hilary Goulding aveva una radiolina a transistor in cucina, sistemata su una mensola accanto a vasetti di marmellata e composta di agrumi fatte in casa. Il volume era sempre al minimo. Apparentemente i due adolescenti passavano tutto il loro tempo nel seminterrato. Di loro non c'era traccia al piano di sopra. Persino le loro camere da letto all'ultimo piano davano l'impressione che nessuno disturbasse mai la liscia superficie dei copriletti stampati o prendesse qualcuno dei capi di vestiario ordinatamente piegati e impilati nei cassettoni coordinati.
Non le piacevano neanche i Goulding. Brian era basso e snello. Portava un pizzetto che spuntava dal mento e gli conferiva un'aria aggressiva. Hilary era persino più bassa di lui. All'epoca le era sembrata vecchia ma non lo era, ragionò Min mentre adesso stava seduta a guardare il figlio della donna. Doveva aver avuto solo quarantacinque anni. Eppure i suoi capelli stavano già ingrigendo, tagliati corti in una foggia mascolina che non le donava affatto. E i suoi vestiti sembravano provenire dal negozio di un ente benefico. Puliti ma sbiaditi, come se fossero stati lavati più e più volte. Cosa aveva pensato di Chris e della sorella?, si chiese Min. Della sorella non molto. Sembrava simile alla madre, un personaggio scialbo e incolore. Riservata, timida e nervosa. Piangeva parecchio e si mordicchiava le dita, strappandosi le pellicine e la pelle intorno alle unghie fino a farla sanguinare. Lasciava che fosse sempre Chris a parlare. In quello lui era davvero bravo. Contrariamente al resto della famiglia, lui aveva personalità. Era attraente, se non addirittura bello. Affascinante, divertente, i grandi occhi azzurri che brillavano dietro gli occhiali dalla montatura nera. Era riuscito, grazie alla sua parlantina, a far cadere l'accusa di «possesso a fini di spaccio» ed era stato condannato per il reato, assai meno grave, di «possesso per uso personale». Il suo caso era stato discusso nel tribunale del distretto. Lui era stato diffidato e multato. Rimproverato, punito con una bacchettata sulle nocche e spedito a casa a fare penitenza. Cosa che all'epoca - Min ne era sicura - non scarseggiava certo a casa Goulding. Ma ormai i genitori erano morti e la sorella lontana, ed era Chris a comandare. E lo faceva bene sotto ogni punto di vista. Il soggiorno in cui vennero invitati a entrare era accogliente. C'erano giocattoli sparsi sulla moquette, logora ma pulita. Dalla cucina in fondo al corridoio arrivava un profumo di cibo. Chris stringeva un drink. Vodka o forse gin. Qualcosa di incolore. Lui lanciò un richiamo verso il corridoio. «Amra, vieni qui. Ci sono alcune persone che vogliono parlarti.» La donna si fermò sulla soglia con aria esitante. Stringeva uno strofinaccio per i piatti in una mano e una sigaretta nell'altra. Un bambino indugiava dietro di lei. Chris la tirò in avanti, includendola nel gruppetto con un ampio gesto del braccio. «Questa è Amra», annunciò, «e questo è suo figlio, Emir.» Abbassò una mano per prendere quella del bambino e lo attirò a sé. Il piccolo gli appoggiò la schiena contro le gambe e lui gli arruffò i capelli. «La figlia di Amra, Sanela, sta dormendo al piano di sopra», aggiunse. La donna offrì un caffè agli ospiti.
«Posso darle una mano?» le chiese Min. L'altra scosse il capo, ma Min la seguì lungo il corridoio, fino alla cucina. Mentre, dietro di lei, Chris invitava Conor a sedersi. «Allora, che impressione ti ha fatto Goulding?» Min era seduta in macchina e rabbrividiva. Il freddo si era accentuato. Il vento aveva preso a soffiare verso est, portando pioggia e forse, pensò lei, addirittura neve. Conor guidò lentamente verso la strada principale. «Be', sarà un ottimo testimone. Sa tutto. Orari, identificazioni, ogni cosa. E lei?» Min si cinse energicamente il petto con le braccia e rabbrividì di nuovo. «Stava dormendo. Non ha sentito niente. Non ha visto niente. È andata a letto alle undici e mezzo. Prende dei sonniferi, mi ha detto. Ha spesso degli incubi. Si è svegliata alle sette e mezzo, quando la sveglia ha suonato. Tutto qui.» Ma in realtà non era tutto lì. Persino adesso, seduta in auto con accanto la sagoma di Conor, Min si sentiva preoccupata, nervosa, a disagio. Amra aveva cominciato a piangere non appena erano entrate in cucina. Le lacrime le erano sgorgate copiose dagli occhi, il suo corpo esile scosso dai tremiti. Aveva riempito il bollitore elettrico e inserito la spina, aperto i pensili, versato del caffè in un bricco. Aveva fatto tutto questo dandole le spalle. Min aveva aspettato che il caffè fosse pronto e la stanza venisse invasa dal suo aroma intenso, poi aveva allungato una mano per stringere quella di Amra. «Mi dispiace, evidentemente tutto questo è molto penoso per te», aveva mormorato. «Non sapevo che conoscessi Marianne O'Neill.» La donna aveva sollevato la testa e l'aveva guardata. Aveva gli occhi rossi e pieni di lacrime. Aveva estratto dalla manica alcuni fazzoletti di carta appallottolati e si era asciugata il naso. «No, non conoscevo questa ragazza», aveva ribattuto, con un forte accento straniero. «Ma conosco molte ragazze che sono morte, morti orrende, morti molto dolorose, morti molto solitarie, tristi. Morti in cui non hanno avuto il conforto della madre, del marito, del fratello, della sorella. Nessun conforto, nessuna mano da tenere, niente, se non paura e buio.» Aveva versato il caffè in piccole tazze. Era forte, aromatico. Min lo aveva sorseggiato cautamente. «Ti piace?» le aveva domandato Amra. «Alla maggior parte degli irlandesi non piace. Lo vogliono appena uscito dal barattolo. Istantaneo. Disgu-
stoso.» Min aveva sorriso. «Sì, è proprio così. Mia madre è francese e si lamenta continuamente per come viene preparato qui il caffè.» Per un attimo il viso di Amra si era illuminato. «È francese? Che bello. Mi sarebbe piaciuto andare in Francia. Ho studiato il francese a scuola. Ma poi scoppiò la guerra e noi non potevamo andare da nessuna parte e poi, quando Emir venne ferito, il governo irlandese si offrì di ospitare alcune famiglie di Sarajevo. Così noi siamo venuti qui.» «È stato ferito? Com'è successo?» «Un giorno eravamo al mercato. Sai, dobbiamo andarci anche se è così pericoloso. Non c'è nessuno a cui posso lasciare Emir. Lui non vuole restare senza di me. Strilla e piange ogni volta. Così siamo in fila. Sento che ci sono patate da comprare. E c'è un attacco. Io stavo bene. Ero stata semplicemente scagliata a terra, molto scioccata. Ma Emir stava male. Era stato colpito allo stomaco. Sangue dappertutto. Cercavo di fermare il sangue, ma la ferita era molto grande. Così lui va in ospedale, ma l'ospedale a Sarajevo non è come nessun altro ospedale del mondo. Niente elettricità, niente acqua, niente medicine. Niente antidolorifici. Fanno tutto il possibile per lui, ma mi dicono che molto probabilmente morirà. E sai, sono incinta. Ho così poco da mangiare mentre porto in grembo mia figlia. Penso che non può esserci un bambino nella mia pancia perché non c'è cibo per lui. E poi, come un miracolo, sono seduta accanto al letto di Emir. Lui piange e piange e un dottore entra e dice: adesso potete andare all'aeroporto. C'è un'ambulanza che aspetta. Potete andare via in Germania. E poi in un altro Paese. Così noi andiamo.» «Siete venuti qui. E avete conosciuto Chris, vero?» La donna aveva annuito. «Andiamo a lezione per imparare l'inglese. Chris è l'insegnante. Io gli sono simpatica e anche i miei figli. Mi chiede di venire a trovarlo qui a casa sua. Poi mi chiede di venire a vivere qui con lui. Dice che saremo la sua famiglia. Come la famiglia di prima, in Bosnia.» «Ed è davvero come prima?» Min l'aveva guardata. Amra aveva chinato il capo. «Secondo te?» aveva chiesto. Min non aveva risposto. Aveva finito il suo caffè. «Potresti tornare», aveva suggerito poi. «La guerra è finita.» Ma Amra aveva scosso il capo. «Non si può tornare. Ci sono troppi ricordi. Troppo tradimento. Non c'è più la fiducia.»
«Ti accompagno a casa», annunciò Conor. «Potresti prepararmi la cena.» «Questa sì che è un'idea.» Min si voltò a guardarlo. «Cena, mi piace il suono di questa parola. Il problema è che a casa nostra ci limitiamo a uno spuntino serale. Stasera sarà bastoncini di pesce e patatine cotte al forno, seguiti da gelato. E, se sono fortunata, nell'intervallo tra quando cucino e quando mangiamo, avrò il tempo di sedermi a guardare il notiziario della sera, magari con un bicchiere di vino in mano. Sempre che Vika non abbia un appuntamento.» «Vika?» «La mia ragazza alla pari russa. Riscuote un enorme successo tra i giovanotti del posto. Immagino che sia solo questione di tempo prima che annunci di essersi fidanzata. E poi ci sarà il bambino. O magari ci sarà prima il bambino e poi il fidanzamento. Comunque sia, lei potrà contare su un visto e io potrò contare su altre scocciature mentre cerco qualcuno che la sostituisca.» «Presumo che questo sia un garbato rifiuto.» «Be', è un rifiuto, ma non sono così sicura che 'garbato' sia l'aggettivo giusto per definirlo. In un certo senso, ho esaurito il garbo, ultimamente.» «Sarà per un'altra volta, allora?» «Sarà per un'altra volta.» Lei lo guardò. «Conor, hai guardato troppi film in TV. Non sto semplicemente rimandando, sto rifiutando categoricamente. Comunque sei giovane, single e libero; come mai non sei diretto in qualche localino alla moda giù in città pieno di ragazze tra i venti e i trenta, tutte Wonderbra e Bacardi? Sfrutta la situazione, per l'amor del cielo. Un giorno una ragazza carina memorizzerà il tuo numero PIN e ti convincerà che un conto corrente congiunto rappresenta la soluzione più moderna.» Lui sospirò. «Magari fossi così fortunato.» «Oh, avanti, non fare la lagna con me. Portami a casa e poi vai a divertirti un po'. Ma prima rispondi a una domanda. Cosa ti ha detto Chris Goulding? È sicuro che l'uomo che ha visto fosse Nick Cassidy?» Chris ne era sicurissimo. In quel momento stava leggendo a letto. Era tardi. Amra dormiva. Lui stava giusto per spegnere la luce quando aveva sentito delle voci concitate. Aveva sentito Marianne urlare. Sentito Nick urlare a sua volta. Sentito la porta che sbatteva, sentito dei passi. «Non ho resistito, mi sono comportato da classico vicino impiccione», aveva ammesso. «Sono sceso dal letto per sbirciare fuori da dietro le tende.
Ho visto Marianne che se ne andava. Avevo intenzione di raggiungerla e chiederle se voleva venire a dormire da noi, ma poi ci ho ripensato. Amra ha già parecchio da fare con Emir. Non ha certo bisogno di un'altra persona disturbata da gestire. Così sono tornato a letto. Ma continuavo a non avere sonno, così ho letto ancora per un po'. Poi, dopo circa cinque minuti, ho sentito di nuovo la porta. Mi sono alzato per controllare. Ho visto Nick Cassidy percorrere il vialetto. Andava di fretta. Si è allontanato nella stessa direzione presa da Marianne. Ho immaginato che volesse tentare di riportarla indietro.» «Ma poteva sapere dov'era diretta la ragazza? Lei avrebbe potuto allontanarsi in qualunque direzione, lasciando la piazza. Cassidy non poteva certo sapere che sarebbe andata verso la linea ferroviaria, giusto?» «Ah, eccoci al punto, è qui che si sbaglia. Lui poteva benissimo saperlo. Lo sapeva. Perché, vede», Chris aveva assunto un'aria trionfante, «tutti i ragazzi, da queste parti, attraversano una fase in cui ciondolano accanto alla linea ferroviaria. Rappresenta l'apice delle bravate. L'abbiamo fatto tutti, prima o poi. Sbevazzare giù accanto al binario, e poi entrare nei tunnel. È pericoloso ma divertente. E, vede, Nick sapeva tutto in proposito perché una volta ci fu un problema con Marianne. Un giorno lei portò con sé Owen, laggiù. E qualcuno, uno dei vicini, li vide e lo riferì ai Cassidy, che s'imbestialirono. Immagino che, se si fosse davvero sforzato di indovinare dove lei sarebbe potuta andare, avrebbe pensato alla linea ferroviaria e sarebbe stato praticamente sicuro di trovarla là. Praticamente sicuro.» «Questa è nuova.» Min si picchiettò l'indice sulla fronte. «Non avevo mai sentito parlare di linee ferroviarie e cose simili, prima d'ora. Credo che Goulding stia cercando di fregarci.» «Be', non saprei. A me l'insieme è parso convincente.» Conor scalò la marcia e rallentò avvicinandosi al semaforo. «E, se lo aggiungiamo a quanto abbiamo già in mano, direi che tutto punta in un'unica direzione, non trovi?» Lei non rispose. «Buffo, vero?» Conor si voltò a guardarla, le dita che tamburellavano sul volante. «Che cosa?» Min si girò nuovamente verso di lui. «Questa zona. Un posto grazioso in cui vivere. Un posto grazioso in cui allevare i figli. Borghese, agiato, perfettamente sicuro. Eppure...» Esitò mentre l'auto riprendeva velocità. «Eppure il tuo vecchio amico e pensiero assillante, Owen Cassidy, scompare dalla faccia della terra in pieno giorno.
Nessun movente, nessun indizio. Niente. E, dieci anni dopo, la ragazza che un tempo badava a lui viene aggredita, percossa e uccisa, la testa sbattuta contro un muro. A breve distanza da tutte quelle casette carine e simpatiche con dentro famigliole carine e simpatiche profondamente addormentate. È il genere di dramma che ti aspetteresti di veder succedere in centro, dove vive la gente selvaggia.» «La gente selvaggia, che bella definizione.» Min sorrise nel buio. «Mi ricorda quell'adorabile libro per bambini, Nel paese dei mostri selvaggi. Lo conosci?» Lui scosse il capo. «Nel posto in cui sono cresciuto, i libri per l'infanzia non andavano certo per la maggiore.» «Davvero?» «Oh, lascia perdere. Un'altra volta, magari.» L'auto rallentò e svoltò nel cul-de-sac in cui abitava Min. «È questo, vero? A che numero?» «Proprio qui, al 6. Grazie, Conor.» Lei si piegò in avanti per recuperare la borsetta. «Sai, è buffo ciò che dicevi su quella zona, sul suo aspetto grazioso e tutto il resto. La donna, Amra, ha detto qualcosa di simile.» Cominciò ad abbottonarsi la giacca e ad avvolgersi la sciarpa intorno al collo. «'Non mi piace questo posto, sai?' Ecco cosa mi ha detto. Ha spiegato: 'Durante il giorno sembra tutto così carino e così sicuro. Ma è come diventò Sarajevo. Là non sapevi mai cosa aspettarti. Non sapevi mai in quale edificio sarebbe stato il cecchino. Si spostavano, capisci. Quindi un giorno puoi camminare in una strada ed è sicura, ma il giorno dopo cammini nella stessa strada e una pallottola ti si conficca nel cranio. O magari sei ancora più sfortunato e c'è un cecchino con una particolare abilità. Spara solo alle donne. E mira solo alle loro parti intime. Gli spara nel basso ventre così non possono avere figli. Oppure colpisce al seno. Lo fa per ferire e mutilare, non per uccidere'. «'Capisco', le ho risposto, 'ma qui non è così. Questo è un posto sicuro.' «'No', ha insistito lei, 'non è vero. Sai, non lontano da questa piazza c'è un posto in cui ogni giorno vengono deposti fiori freschi e accese candele. Ci vado spesso con i bambini. È il posto dove è stata uccisa una ragazza. Ci fermiamo a guardare, portiamo anche dei fiori. La ragazza si chiamava Lizzie. Non hanno mai scoperto chi l'ha uccisa. Nessuno ha visto niente. Ma qualcuno deve sapere cosa le è successo. Qualcuno deve aver nascosto quella persona. Nello stesso modo in cui qualcuno fa entrare il cecchino nell'edificio. Qualcuno finge che è un idraulico o un elettricista. Quindi c'è qualcuno, forse non lontano da qui, che sa chi ha ucciso quella ragazza.'»
«Oh, certo.» Conor estrasse il pacchetto di sigarette e premette l'accendisigari dell'auto. «Fu un caso celebre. Anni prima che tu e io entrassimo nella polizia. Te lo ricordi?» Min guardò fuori dal finestrino, verso casa sua. Vide alcune ombre muoversi dietro le tende. «Sì. Lizzie Anderson. Erano i primi anni '80, credo. 1983 o 1984, più o meno. È un altro caso di cui si parla ancora oggi. Non è ancora chiaro se quel tizio, Matthews, avrebbe dovuto essere condannato o no. Alcuni sono convinti che l'abbia uccisa e sia stato semplicemente fortunato perché non c'erano a disposizione abbastanza prove per ottenere una condanna. Ma altri sono sicuri che l'assassino sia il secondo uomo che lei incontrò quella sera.» «Era il 1983, in realtà. Lo so per certo. E sai come mai?» Lui accostò l'accendisigari alla punta della sigaretta e aspirò. «C'è un sito web dedicato a quella ragazza. Foto di ogni genere. Foto di quando era piccola, foto di quando andava a scuola, qualunque cosa. E c'è un gruppo di discussione, simile a molti altri, interamente imperniato su fantasie collegate a Lizzie Anderson. È il peggio del peggio. La polizia ha cercato di farlo chiudere, ma continua a rispuntare. È come la maggior parte di quei siti. Inarrestabile.» «Inarrestabile? Il tuo è un atteggiamento molto disfattista.» Conor si strinse nelle spalle. «Sul serio? La pensi così? Be', io lo so per certo. È davvero inarrestabile.» Min aprì la portiera. Scese dall'auto. Si chinò. «Be', l'esperto sei tu, immagino.» Si raddrizzò, distolse lo sguardo e poi si girò nuovamente verso di lui. «Grazie», disse. «Di cosa?» «Be', secondo i miei calcoli, sono almeno quindici le sigarette che non hai fumato oggi, mentre ero con te. Quindi volevo solo farti sapere che l'ho notato e apprezzato.» Conor buttò fuori il fumo. «Già, be', adesso ho intenzione di recuperare. Ti conviene andartene in fretta, prima che il contenuto di ossigeno all'interno dell'auto scenda sotto il livello di guardia.» Min scoppiò a ridere e si allontanò, poi si voltò a salutarlo con la mano. Lui la guardò aprire la porta d'ingresso, vide comparire le due figure minute con le braccia alzate, vide il loro viso, l'amore nella loro espressione. Vide Min accovacciarsi e avvilupparli nel suo abbraccio. Vide la porta serrarsi dietro di lei. Chiudendo dentro loro tre. Chiudendo fuori lui. Ingranò
la marcia e si allontanò lentamente. 22 La procedura fu semplice e diretta. Fu anche dolorosa. Nick rimase seduto su uno sgabello mentre il tecnico di laboratorio - una donna - gli prelevava un campione di capelli e lo infilava in una bustina di plastica per reperti. Ne servivano almeno dieci-venti, gli avevano spiegato, perché il campione fosse rappresentativo. Poi gli venne chiesto di sganciarsi la cintura e aprire la cerniera lampo, abbassare gli slip e permettere alle mani guantate del tecnico di prelevargli lo stesso numero di peli dal pube. Lui trasalì e lasciò vagare lo sguardo sopra la testa bionda della donna, verso gli avvisi stampati appesi al muro. Mise a fuoco e cominciò a leggere. Era un elenco di campioni da prelevare in caso di stupro. I suoi occhi scorsero l'avviso. Uretrale, perianale, rettale, canale anale, unghie, urina, saliva, pelle, capelli, peli pubici, tampone vulvare, vaginale alto e basso. Ognuna delle parti più segrete e private del corpo umano scandagliata e penetrata. Un'ulteriore invasione, secondo lui. «Ora.» Il tecnico gli si rivolse di nuovo. «Apra la bocca, solo per un attimo.» Nick piegò la testa all'indietro e seguì le istruzioni. Lei gli strofinò sull'interno della guancia un tampone di cotone che poi infilò meticolosamente in un'altra bustina. «Magnifico, la parte divertente è terminata», dichiarò. «Le dispiacerebbe rimboccarsi la manica? Ci vorrà solo un attimo.» Lui non guardò. Sentì il laccio di gomma stringergli la parte alta del braccio, poi l'indice e il medio della donna che gli picchiettavano sulla vena all'interno del gomito. «Un respiro profondo», disse il tecnico, e lui ubbidì. Sentì la punta dell'ago penetrare nella pelle e ancora più giù. Espirò lentamente, poi inspirò di nuovo, contando silenziosamente. «Ecco fatto», aggiunse lei. «Può rilassarsi. Può aprire gli occhi.» Lui la guardò. Cosa pensa di me?, si chiese. Mi crede un assassino, uno stupratore, un seviziatore? La rendo nervosa? Mi sta già giudicando, prendendo una decisione, archiviandomi nella sezione CATTIVI della sua memoria? Non riuscì a stabilirlo. Gli occhi grigi della donna erano calmi e sereni, il suo sorriso cordiale ma neutro. «Tutto finito», annunciò lei, dandogli la schiena per girarsi verso il suo
banco da lavoro. «Può andare.» E sorrise di nuovo. Si era svegliato presto, con l'impressione di non aver quasi dormito. Per un po' era rimasto sdraiato al buio, fasciato da lenzuola e coperta, in ascolto. Poi sentì il suono della radio nella cucina al piano di sopra e i rapidi passi di Susan che andavano avanti e indietro. Evidentemente quel giorno sarebbe tornata al lavoro. Nick sperava che si sentisse meglio, ma ne dubitava. Sollevò il braccio sinistro dalla coperta per guardare l'orologio. Poi se ne ricordò. Intorno al suo polso spiccava un'ampia striscia bianca che indicava l'antica ubicazione del cinturino. La guardò. Cercò di ricordare. Quando aveva visto il suo orologio per l'ultima volta e dove? Per un terribile istante s'interrogò. Avevano ragione? Aveva fatto davvero ciò di cui lo accusavano? Aveva seguito Marianne fino alla linea ferroviaria, l'aveva raggiunta di soppiatto e l'aveva aggredita, le aveva sbattuto la testa contro la parete del tunnel per poi lasciarla lì a morire? Lei aveva allungato una mano e afferrato il suo orologio, lottando con lui, artigliandogli la mano tanto che il cinturino logoro si era rotto e l'orologio era caduto per terra? E, mentre barcollavano avanti e indietro, avvinghiati, lo stivale di Marianne aveva calpestato il quadrante, minuscole e ruvide schegge di vetro che si conficcavano nell'alta suola? Forse era a quel punto che lui doveva accettare la responsabilità, il castigo, rimediare a tutti i suoi peccati e crimini passati. Forse era arrivato il momento di farlo. Scostò lenzuola e coperta, e si alzò. Si preparò il tè e pulì la stufa, traendo consolazione dal familiare rituale di accendere il fuoco. Infilò le mani negli scatoloni pieni di carte impilati contro il muro ed estrasse manciate di suoi vecchi disegni. Li strappò in striscioline che poi arrotolò e annodò, ammonticchiandole sulla grata. Accese un fiammifero e le osservò prendere fuoco, la luminosità della fiamma più vivida di qualunque colore da lui utilizzato per creare quelle tavole. Si sedette sul pavimento, la tazza in una mano, e rimase a guardare la luce del fuoco. Intorno a lui erano sparpagliate altre immagini. Schizzi per il libro del Figlio delle stelle. «Perché vuoi scegliere proprio quello, tra tutti i racconti di Wilde?» gli aveva chiesto Susan. «Perché non quello del principe felice o del gigante egoista? Sono i più amati.» «Infatti.» Lui le aveva spiegato la propria scelta. «Ma sono tutti troppo buonisti. Il figlio delle stelle respinge la madre, perché lei gli appare sotto le spoglie di una mendicante. A causa di ciò, viene privato della sua bel-
lezza e disprezzato da tutti. Per potersi riscattare deve compiere una serie di imprese apparentemente impossibili, che sfociano tutte in una buona azione. E poi, alla fine della storia, si vede restituire la sua bellezza e può riabbracciare i genitori.» «Già, che per puro caso sono il re e la regina. Bella mossa, Oscar.» «Sì, okay, ma è una favola. È ambientata nel regno del fantastico, eppure racchiude un messaggio importante: la bontà conta più della bellezza.» Lei lo aveva guardato con un'espressione incredula. «È straordinario sentirlo dire da un uomo per il quale l'apparenza è tutto.» «Be', questo ti dimostra che non bisogna giudicare un libro dalla copertina.» «D'accordo, però non mi piace il finale. Cosa dice? Il figlio delle stelle, una volta sul trono, non regnò a lungo perché aveva sofferto troppo. E il suo successore fu un re malvagio. Cosa diavolo significa?» «Significa, credo, che ogni azione ha le sue conseguenze. Non c'è nulla di preciso e ordinato in questo mondo o persino nel mondo delle favole o delle storie per bambini. Ecco perché mi piace. È un'opportunità di dimostrare che nessuno può cavarsela impunemente.» Era stato felice laggiù nel suo studio, con il figlio ai suoi piedi mentre lavorava alle illustrazioni. Oppure pensava semplicemente di esserlo stato, ma ormai aveva dei dubbi. La memoria lo stava forse tradendo? Ricordava davvero tutto ciò che era successo quel giorno? Si alzò e raggiunse la pila di deposizioni fotocopiate che riempivano il sacchetto di plastica sul pavimento. Le sfogliò fino a trovare la sua. Si sedette di nuovo. Cominciò a leggere. Deposizione rilasciata al sergente Andy Carolan, 5 novembre 1991 Mi chiamo Nicholas Patrick Cassidy. Vivo al 26 di Victoria Square, Dún Laoghaire. Sono un illustratore e un grafico free-lance. Il 31 ottobre 1991 sono uscito di casa verso le dodici e mezzo. Prima di tutto sono andato al pub Goggins di Monkstown, dove avevo appuntamento con la mia editrice, Alison McHenry. Abbiamo bevuto un drink e discusso di un nuovo progetto a cui stavo per dedicarmi. Ho lasciato il pub all'una e trenta, poi sono entrato nel supermarket Quinsworth di Dún Laoghaire per comprare due bottiglie di vino. Sono tornato a piedi a Victoria Square, ma non avevo intenzione di rincasare. Ricordo che quando ho svoltato in Victoria Square dalla strada principale, verso le due, ho visto mio figlio, Owen Cassidy, attraversare la piazza con il suo amico Luke Re-
ynolds. Loro non mi hanno visto e io non ho cercato di attirare la loro attenzione. Ho immaginato che la nostra bambinaia, Marianne O'Neill, si trovasse nei paraggi e non volevo che Owen si accorgesse della mia presenza perché ero diretto all'appartamento di Gina Harkin, al 23 di Victoria Square. Avevo una relazione con lei da due mesi e la vedevo regolarmente, almeno tre volte alla settimana. La nostra relazione non era puramente platonica. Siamo andati a letto insieme per la maggior parte del tempo in cui ci siamo frequentati. Sono arrivato nell'appartamento di Gina verso le due e dieci, e l'ho lasciato verso le cinque e venti. Avevo intenzione di andarmene prima, ma avevo bevuto parecchio e mi ero addormentato alle quattro e un quarto circa. Quando sono arrivato a casa, mia moglie Susan era già lì. Era molto in ansia perché non sapeva dove fosse nostro figlio. Avevo pensato che Marianne O'Neill, la nostra bambinaia, stesse badando a lui. Ma quando Marianne è tornata, ha detto a Susan di averlo mandato fuori a giocare con il suo amico Luke; aveva immaginato che i due bambini avrebbero giocato nella piazza per poi andare a casa di Luke. Tuttavia, quando Susan ha telefonato alla signora Reynolds, quest'ultima le ha detto che Luke si trovava a casa sin dalle due e mezzo, e che nessuno di loro aveva idea di dove fosse Owen. Mia moglie era profondamente turbata e preoccupata, così sono uscito subito per vedere se riuscivo a trovarlo. Ho setacciato la piazza e le strade limitrofe, e ho chiesto in tutti i negozi della zona. Al mio ritorno sono passato da Chris Goulding, che vive nella casa accanto, e gli ho chiesto di aiutarmi. Altri vicini si sono uniti a noi e abbiamo perlustrato tutti i posti in cui, secondo noi, Owen sarebbe potuto andare. Mentre ero fuori, mia moglie ha deciso che doveva chiamare la polizia, ma, visto che era Halloween, gli agenti hanno impiegato un'ora ad arrivare. Durante questo lasso di tempo sono uscito di nuovo e ho esaminato qualunque luogo in cui pensavo che Owen potesse trovarsi. Ma ormai era buio fitto e, quando sono rincasato, la polizia era già arrivata e aveva deciso di organizzare una ricerca su vasta scala. Ho passato il resto della serata accanto al telefono nella speranza di ottenere sue notizie. Ma così non è stato. Non ho la minima idea di cosa sia successo a Owen quel giorno e in quelli seguenti. Mentre leggeva, fu assalito dalla vergogna. Aveva cercato di dimenticare il tradimento di quel giorno. Il modo in cui si era addossato furtivamente al muro ed era rimasto a guardare Owen e Luke che vagabondavano senza
meta sul prato. Il modo in cui i due si erano fermati a osservare il falò e Luke aveva raccolto alcuni pezzetti di legno che ne erano caduti, sparpagliandosi lì intorno. Li aveva lanciati con tutta la sua forza attraverso la piazza e Owen li aveva raggiunti di corsa e raccolti. Cullandoli tra le braccia come fossero un neonato e tornando indietro di corsa per rimetterli accuratamente al loro posto. Assicurandosi che non cadessero di nuovo prima di voltarsi e seguire Luke che si stava dirigendo lentamente verso la strada. E Nick aveva aspettato che entrambi scomparissero prima di riprendere ad attraversare la piazza, diretto all'appartamento di Gina. Reprimendo i tormentosi dubbi a proposito dei due bambini. Essendo sicuro che Marianne si trovasse lì nei paraggi e che comunque Bridget Reynolds sapesse ovviamente dove si trovavano. Ovvio, non avevano forse badato a Luke molte, moltissime volte? Lo avevano ospitato a casa loro all'ora del tè e durante la notte. Avevano tollerato le sue cattive maniere e i modi rozzi. Forse era giunto il momento che la donna si addossasse una parte del fardello. Eppure nutriva sin dall'inizio la consapevolezza di sbagliarsi. Di aver rinnegato il figlio. Di avergli voltato le spalle. Di averlo ignorato. Di aver fatto i propri comodi. E la consapevolezza che, alla fine, ne avrebbe pagato il fio. Uscì dalla stazione di polizia con il braccio dolorante. Nel parcheggio si sentì chiamare. Si voltò e vide Jay O'Reilly che gli si avvicinava, un fascio di dossier sotto il braccio, un telefono cellulare premuto contro l'orecchio. «Signor Cassidy, vorrei un minuto del suo tempo, se non le dispiace.» Un'oscillazione del braccio che si trasformò in un dito che lo invitava a raggiungerlo. Nick si fermò e aspettò. O'Reilly concluse la telefonata e s'infilò in tasca il cellulare. «Signor Cassidy, sono felice di averla incontrata. Stavo giusto per telefonarle. C'è stato un nuovo sviluppo nel caso.» «Davvero?» Il cuore di Nick fece una capriola. «E di cosa potrebbe mai trattarsi?» «Abbiamo un testimone che sostiene di averla vista uscire di casa pochi minuti dopo Marianne. Questo testimone dichiara di averla vista incamminarsi nella stessa direzione della ragazza. Temo che dovremo chiederle di venire alla stazione per rispondere a ulteriori domande. Non le dispiace, vero? Dobbiamo chiarire questo punto, in un modo o nell'altro.»
Nick non rispose. Era stanco. La vena nel braccio gli pulsava. «Quando?» chiese poi. «Sono appena stato a consegnare i campioni che mi avete chiesto. Finora ho collaborato. Ho fatto tutto ciò che mi avete domandato. Finora.» «Lo ha fatto, sì. Certo. E noi apprezziamo la sua collaborazione. Tuttavia va detto, signor Cassidy, che disponiamo già di parecchie prove contro di lei. Al mondo esistono alcune giurisdizioni, per esempio l'Inghilterra, dove probabilmente lei sarebbe già stato arrestato, a questo punto, con accusa ancora da stabilirsi. Ma qui abbiamo un atteggiamento un po' più rilassato. Quindi vediamo... non so bene quando ma la contatteremo. Non ha in programma nessun viaggio, vero? La chiamerò così potremo fissare un incontro. D'accordo?» Non voleva tornare a casa. Voleva trovarsi ovunque tranne che in quel seminterrato. Vagabondò lungo il litorale. Un vento orientale soffiava sulla baia. Da dove arriva il vento, babbo? Arriva dalla Russia, Owen. Da una zona addirittura più lontana della Russia. Da un posto chiamato Siberia, dove d'inverno la neve sul suolo forma cumuli alti tre metri e il terreno gela diventando talmente duro che nessuno può scavarvi una buca per mesi e mesi. E si scioglie mai, babbo? Certo. In primavera si trasforma in acqua e scende lungo i fianchi delle colline confluendo nei torrenti, e i torrenti sfociano nei fiumi e alla fine, dopo aver viaggiato per migliaia e migliaia di chilometri, i fiumi sboccano nei mari e poi sai cosa succede, Owen? Cosa succede, babbo? In mare l'acqua diventa salata e tutti i mari e gli oceani mescolano le loro acque, quindi sai cosa significa tutto questo, Owen, ragazzo mio? Significa, babbo, che la pioggia che è caduta in Siberia finisce nel mare in cui io posso remare, giusto? Non è questo che mi dici sempre, babbo? Si voltò e cominciò a risalire la collina, percorrendo le strade tranquille che conosceva così bene. E, mentre camminava ai margini della piazza, vide Susan ferma davanti a casa. Con lei c'erano un uomo e una donna. Avevano un'aria familiare. Li riconobbe. Erano i genitori di Marianne,
Jack e Maria O'Neill. Il loro viso appariva pallidissimo, scioccato. I loro occhi erano cerchiati di rosso. Sapeva dove erano stati. Rallentò il passo. Loro si voltarono. «Mi dispiace tanto», esordì. «Non so che cosa dire.» Le sue parole come pesi di piombo. «Cosa puoi dire?» Maria O'Neill si voltò a guardarlo. Gli stessi occhi della figlia fissarono quelli di Nick. «Puoi dire che ti dispiace che sia successo. Puoi dire che non volevi che succedesse. Puoi dire che vorresti non fosse successo. Puoi dire una qualunque di queste cose oppure dirle tutte.» «Maria.» Il marito la cinse con un braccio. Cercò di farla girare. Susan cominciò a salire i gradini che portavano in casa. «Sai cosa abbiamo appena fatto?» Maria O'Neill spinse via il braccio del marito. «Siamo appena stati all'obitorio. Abbiamo appena identificato il cadavere di nostra figlia. I resti, come li chiamano loro. E in questo caso il termine risulta singolarmente appropriato.» «Maria.» Nick fece un passo verso di lei. «Non chiamarmi 'Maria' con quel tono. Come osi?» La donna indietreggiò, cominciando a piangere. «Maria», ripeté lui. E, al di sopra della spalla di lei, vide Chris ed Emir che si stavano avvicinando; il bambino, saltellando, precedeva l'uomo che in ciascuna mano stringeva un sacchetto di generi alimentari. «Mi dispiace tanto», continuò. «Credetemi, non ho avuto niente a che fare con la morte di Marianne. Vi prego, dovete credermi. Non sono stato io a farle dal male. Forse non sono stato comprensivo con le sue esigenze ma, vi supplico di credermi, non le ho fatto alcun male. Capite sicuramente, dopo tutto ciò che abbiamo passato, che non vorrei mai far fare una simile esperienza a un'altra persona, a un altro genitore, a un'altra madre o padre. Lo capite, vero?» La donna si voltò a guardarlo. Aveva le labbra serrate. Il viso contratto dall'ira. «Non so nulla del genere. Tutto quello che so è che mia figlia è morta.» Alzò la voce. «È tutto quello che so. Tutto quello che mai saprò. Ora e sempre.» Il bambino la superò di corsa e si fermò davanti a Nick. Allungò una mano per prendere la sua. Maria O'Neill guardò dietro di sé e vide Chris. Gli tese le braccia. Si abbracciarono. Lei gli posò la testa sulla spalla e cominciò a singhiozzare. Chris le carezzò i capelli. Le mormorò qualcosa e i singulti cominciarono a placarsi.
«Su, andrà tutto bene», le disse lui. «Vedrà.» La spinse gentilmente verso il marito, guidandola, come se la stesse accompagnando verso la salvezza. Jack O'Neill la prese per un braccio e la attirò con delicatezza a sé. Salirono lentamente i gradini insieme. Susan tenne aperta la porta. Entrarono. L'uscio si chiuse dietro di loro. E tutto fu silenzio. Chris raccolse i sacchetti della spesa. «Vieni, Emir, è ora di andare.» Allungò una mano e strinse il polso del bambino, scostandolo bruscamente da Nick. Emir indietreggiò, piagnucolando. «Lascialo in pace, Chris», gli intimò Nick. «E, già che ci sei, lascia in pace anche me.» Il giovane lo guardò e gli rivolse un sorriso tirato. «Non capisco cosa vuoi dire.» «Davvero? Io invece credo di sì. Credo che tu sappia benissimo cosa voglio dire. Sei stato tu, vero?» «A fare cosa?» «A dire ai poliziotti che mi hai visto lasciare il seminterrato subito dopo Marianne. Ti ho visto, ho visto come li hai chiamati appena sono usciti da casa mia. Li ho visti entrare in casa insieme a te. So che sei stato tu. Ma rispondi a una domanda. Spiegami perché, ecco cosa voglio sapere. Perché hai mentito in quel modo? Qual è la tua motivazione, eh?» Allungò la mano e conficcò le dita nel petto di Chris. Sentì l'osso dello sterno, rigido e duro, e spinse di nuovo, ancora più energicamente, tanto che il giovane inciampò e barcollò. «Ehi, smettila. Lasciami in pace.» Chris alzò la voce. Mulinò un braccio e lo colpì sulla spalla. «Oh, dunque è così?» Assalito da una furia improvvisa, Nick gli diede un'altra spinta. «Perché l'hai fatto? Non immagini neanche quali danni hai provocato. Non ti capisco, Chris. Cosa ci guadagni?» Lo spinse per la terza volta, facendolo cadere all'indietro. Si chinò sopra di lui. Lo afferrò per il bavero della giacca e lo scosse tanto che la sua testa ciondolò su e giù, evitando per un pelo i gradini di pietra. Sentì la voce di Susan che urlava. «Cosa diavolo credi di fare? Come osi comportarti in quel modo? Proprio qui, fra tutti i posti possibili. Proprio adesso. Allontanati da lui, bastardo, lascialo stare.» Nick alzò gli occhi e la vide in piedi sulla soglia, e alla finestra vide la madre e il padre di Marianne. E sentì il bambino che piagnucolava accanto
a lui, le lacrime che gli scorrevano sul visino contratto e pallido mentre cominciava a piovere. Aspettò la telefonata di O'Reilly. Aspettò per tutto il pomeriggio. Si sedette davanti alla stufa e vi infilò le sue tavole. La stanza venne invasa dall'odore di carta consumata dal fuoco e di tempera bruciacchiata. La pioggia picchiettava contro le finestre e la luce cominciava a svanire dal cielo. Nick andò in cucina a prepararsi il tè. Si fermò a osservare il giardino. E vide i rami della buddleia accanto al muro posteriore che cominciavano a tremare, poi una figura minuta che, piegata quasi in due sopra l'erba, correva verso di lui. Vide il volto premuto sul vetro. Aprì la porta e fece entrare Emir. Lo sentì cingergli le gambe con le braccia e premergli il viso sporco sulle ginocchia. Si accovacciò, lo prese tra le braccia, lo strinse e lo baciò. Poi lo portò verso il divano e lo fece sdraiare, al calduccio. Gli diede della cioccolata calda e un biscotto, lo coprì con una coperta e ascoltò il respiro che gli entrava e usciva dalla bocca a ritmo regolare. E si addormentò anche lui, la testa che si posava sulla spalla del bambino. Si svegliò di soprassalto. La stanza era immersa nel buio, eccettuata la luminosità dello schermo del computer. Il piccino era seduto lì davanti. Una mano sulla tastiera, l'altra sul mouse. Nick si drizzò a sedere e sbadigliò. «Ehi, Emir, cosa succede? Cosa stai facendo?» Il bambino non rispose. La sua schiena era tesa e ben diritta. La mano sulla tastiera si staccò per tirare la cintola dei pantaloni. Nick si alzò e gli si avvicinò. «Vuoi qualche cosa, Emir? Hai fame? Vuoi andare in bagno?» Si piegò in avanti per osservare il monitor. E sentì il respiro bloccarglisi in gola. Sullo schermo c'era un bambino, più o meno dell'età di quello la cui mano stava manipolando la sua immagine. Era nudo. E non era solo. Una grossa mano maschile lo afferrò e, sotto gli occhi di Nick, cominciò a esplorare il corpicino, frugando, vezzeggiando, premendo, strizzando, ghermendo, palpeggiando, infine schiaffeggiando e picchiando. «Emir, cosa stai facendo?» Nick si avvicinò ulteriormente e lo prese per le spalle, costringendolo a voltarsi. Emir stava sorridendo, un'espressione di trionfo sul viso. La sua mano si mosse con baldanzosa sicurezza, spingendo il mouse da una parte e dall'altra, facendo comparire sempre più immagini, tutte diverse. Una parata di bambini sullo schermo. Un'esibizione di crudeltà, bramosia e lussuria.
«No, Emir, no», gli gridò Nick, cercando di strapparlo dalla sedia. «Non farlo. Smettila.» Lo spinse a terra e si sedette al suo posto, davanti allo schermo. Spostò il cursore su «Indietro», cliccò e osservò la sequenza di avvenimenti che procedeva a ritroso. Mentre il bambino si trasformava da una figura singhiozzante prostrata su un pavimento nudo a un piccolo che giocava con un camion giocattolo, seduto su un divano. E sentì la mano di Emir sulla coscia, le ditine che stringevano a mano a mano che si avvicinavano lentamente all'inguine. Abbassò lo sguardo su di lui. Il bambino era inginocchiato ai suoi piedi. Gli stava sorridendo. Un ampio sorriso che metteva in mostra tutti i denti. La sua lingua scivolò delicatamente sul labbro inferiore. Si piegò in avanti e posò la guancia sul ginocchio di Nick mentre la sua mano si muoveva. «No», gridò Nick, spingendolo via. «No, Emir, no. Questo no, mai. No.» Si alzò e picchiò il pugno sul tavolo, tanto che le immagini sullo schermo sussultarono e si frantumarono. E l'espressione del bambino si trasformò. In paura. Panico. Dolore. In un'aria stupefatta, di incomprensione. E intanto indietreggiava di corsa, come una creatura spaventata, attraversando rapidamente la stanza per raggiungere la doppia porta del giardino. Allungò una mano verso l'alto per ghermire la maniglia, la abbassò e scappò via. Nick lo seguì con gli occhi, poi si voltò lentamente per guardare verso lo schermo del computer, verso il piccolo che ricambiò il suo sguardo con un tacito terrore stampato sui lineamenti minuti e pallidi. 23 Silenzio al piano superiore e a quello di sotto. Passi sul pavimento soprastante, saltuariamente delle voci. Musica per pochi minuti. Poi il tonfo della porta d'ingresso che si apriva e si chiudeva. Voci all'esterno, l'automobile che si metteva in moto e si allontanava lentamente. E di nuovo il silenzio. Nick era sdraiato sul divano e fissava il cuore ardente della stufa. Adesso sapeva di aver bisogno d'aiuto. Si alzò e si aggirò per la stanza. Poi tirò giù dalla mensola l'elenco telefonico e lo sfogliò, cercando qualcosa. Prese una matita dal tavolo da disegno, scribacchiò un indirizzo su un pezzo di carta. Infine afferrò il cappotto appeso vicino alla porta e infilò i dossier della polizia nella valigetta portacomputer. Nel lasciare il seminterrato, chiuse a chiave la porta dietro di sé.
Passeggiò lungo il litorale, oltrepassando la stazione ferroviaria, puntando verso il vecchio Coal Harbour, superando le finestre illuminate dello yacht club in fondo al molo, poi sgusciando nell'ombra, là dove il sentiero era fiancheggiato su un lato dalla linea ferroviaria e sull'altro dal mare. Tenne la testa china mentre camminava, lo scricchiolio dei suoi passi sulla ghiaia e il fragore delle onde che s'infrangevano sul muraglione che gli risuonavano nelle orecchie, così forti da impedirgli di continuare a sentire le grida del bambino che fuggiva fuori dalla stanza, verso l'oscurità. C'era alta marea e la spuma, trasportata dal vento, sferzava il sentiero davanti a lui. Si passò la lingua sulle labbra e sentì il gusto del sale, amaro, astringente, che lo indusse a rabbrividire e a farsi piccino nel cappotto. Continuò ad avanzare, raggiungendo la strada per Blackrock, dove il sentiero lungo il mare s'interrompeva bruscamente, e superò case ben riparate dal freddo invernale, l'interno illuminato dietro le tende, qua e là il suono della musica o un televisore con il volume alto. Procedette verso la città, fermandosi in un negozietto a comprare le sigarette, un desiderio improvviso che lo guidava verso il tepore e la luminosità, e si ritrovò circondato da una folla di ragazzini che acquistavano dolciumi e lattine di Coca-Cola. I ragazzi spingevano e spintonavano gli amici e lui, nel tentativo di raggiungere il bancone per primi. Finché Nick, non riuscendo più a sopportare il chiasso e il contatto, tornò fuori nell'oscurità e si rimise in cammino, svoltando a destra e a sinistra, su strade una volta familiari ma ormai occupate da abitazioni là dove un tempo c'erano stati campi con bestiame e cavalli al pascolo, e i leggiadri rami arcuati di faggi rossi secolari. Si fermò sotto un lampione ed estrasse dalla tasca il pezzo di carta. Confrontò l'indirizzo che vi aveva annotato con la targa verde fissata al basso muro intonacato con ghiaietto. Oltrepassò la targa e svoltò nella prima stradina a destra, in un cul-de-sac, un arco che delimitava uno spazio verde, linde casette a due piani con giardini anteriori in comune e grandi finestre panoramiche. Alcune auto erano parcheggiate accanto al cordolo e, mentre lui percorreva lentamente il marciapiede, si levò un frastuono di latrati canini. Nick si fermò a raccogliere una bicicletta per bambini riversa su un lato, raddrizzando il manubrio e spingendola nel vialetto d'accesso più vicino. Infine raggiunse la porta d'ingresso, la mano che si tendeva verso il campanello, l'orecchio premuto sui pannelli di legno. Si scostò rapidamente non appena sentì, all'interno, un suono di voci adulte. Tornò sul marciapiede e ne seguì la curva fino a ritrovarsi proprio di fronte alla casa. Si appoggiò al tronco di un ciliegio non molto cresciuto e aspettò.
Le luci erano accese nelle camere al piano di sopra. Brillavano fioche dietro le tendine. Alcune ombre sfilarono avanti e indietro, poi le luci si spensero. Nick riuscì a immaginare quale fosse la situazione là dentro, quella sera. Denti spazzolati, visi lavati, favole lette e rilette. Boccucce corrugate per il bacio della buonanotte, braccine che si allungavano per un abbraccio. Richieste di bicchieri d'acqua, capatine in bagno, biscotti da mangiare, altri baci e abbracci. Poi, finalmente, l'ultimo «sstt», l'ultima «buonanotte» e il silenzio. Continuò ad aspettare. La porta d'ingresso si aprì e comparve una ragazza. Indugiò sulla soglia, controllando il contenuto della borsetta, poi si girò gridando qualcosa con un forte accento straniero. Lui vide Min che, in piedi nel corridoio illuminato, le passava le chiavi, ridendo insieme a lei, piegandosi per baciarla sulla guancia, guardandola incamminarsi lungo la strada prima di indietreggiare e richiudere la porta. Nick si staccò dall'appoggio dell'albero. Attraversò la strada e percorse il breve vialetto d'accesso. Premette il campanello. S'irrigidì. Aspettò. La porta si aprì. La luce gli cadde sul viso. «Oh, sei tu. Cosa vuoi?» «Ho bisogno di parlarti. Ho bisogno di qualche risposta. Francamente, ho bisogno d'aiuto.» «Senti, Nick, mi dispiace ma non posso. Ormai la situazione è cambiata. Sei indagato per l'omicidio di Marianne O'Neill. Non è opportuno che tu ti presenti a casa mia in questo modo. Devo chiederti di andartene.» Si ritrasse ulteriormente dentro casa, una mano sulla maniglia della porta, il suo peso che cominciava a spingerla per richiuderla. Ma Nick la seguì, si mosse insieme a lei, la sua spalla che apriva forzatamente la porta, tanto che Min cadde all'indietro contro le scale, con un'espressione scioccata e impaurita. «Vattene», gridò. «Vattene o chiamo aiuto.» La sua mano annaspò verso il telefono posato sul tavolinetto. «Non farlo», le intimò lui ad alta voce. «Basta che mi ascolti. Non voglio farti del male. Non voglio crearti problemi. Ma ho bisogno che tu mi ascolti.» Sollevò l'apparecchio e ne strappò il filo. Lo brandì come se fosse un'arma. «Cosa stai facendo?» urlò lei, la voce acuta e atterrita. «Cosa diavolo stai facendo? Esci di qui. Lasciami stare.» Sentì il lamento di un bimbo e poi vide un visino che spuntava dalla balaustra al piano di sopra. Si alzò in piedi e si rivolse al piccolo. «È tutto a posto, Joe, torna a letto. Va tutto be-
ne.» Ma ormai il bambino era stato raggiunto da una seconda figura, che fissò Nick con aria bellicosa, gli puntò il dito contro e gridò: «Vattene, lascia stare la mia mamma. Vattene, sei un uomo cattivo». Avanzando un passo dopo l'altro, un orsacchiotto malconcio proteso davanti a sé. «Sstt.» Min si alzò e tese le braccia verso il figlio. «È tutto a posto, Jim. È tutto a posto. Non succederà niente.» Nick indietreggiò. Posò il telefono. «Senti.» Gli tremava la voce. «Senti, mi dispiace, non volevo che accadesse niente del genere. Non voglio turbare te e i tuoi figli. Solo che... solo che non capisco più cosa sta succedendo.» Lei annuì e lo fissò, una mano che carezzava i capelli scuri del figlio. «Già, okay, credo che dovremmo calmarci tutti. Vai in soggiorno mentre io metto a letto questi due, poi parleremo.» La stanza era tiepida e accogliente: il caminetto acceso, abiti stesi ad asciugare sullo stenditoio e due pile ordinate di testi scolastici, con astucci coordinati, posate sopra due cartelle rosse. Nick si sedette su un'ampia poltrona e chiuse gli occhi. Il vento sospinse le gocce di pioggia contro le finestre, producendo un improvviso ritmo musicale in staccato. Lui sentì le voci al piano di sopra. L'acqua che scorreva, lo sciacquone azionato. Una protesta interrotta dal tono deciso di Min. La buonanotte augurata ad alta voce mentre lei tornava giù. Si alzò. «No.» La donna gli indicò di sedersi. «Rimani dove sei. Hai l'aria di stare comodo.» Prese posto di fronte a lui. «Ora ti conviene spiegarmi di cosa si tratta», aggiunse. Quando Nick finì di raccontare, Min si alzò e andò in cucina. Lui rimase seduto, con la testa fra le mani. Lei tornò con una bottiglia di vino aperta e due bicchieri. «Tieni.» Si sedette e cominciò a versare. «Grazie.» Lui deglutì avidamente, poi parlò. «Allora, cosa ne pensi?» «Penso che ti trovi in un grosso guaio. Penso che tu abbia bisogno di una valida assistenza legale. Conor Hickey è un esperto in fatto di pornografia su Internet. Probabilmente è più informato di chiunque altro nel Paese. Se viene a sapere di questa cosa, passerai dei gran brutti momenti.» «Ma non l'ho fatto. Non sono stato io.» «Si trova sull'hard disk del tuo computer. Questo è già un reato di per sé. Non importa come c'è finito. Se qualcuno lo trova, sei fritto. Ormai il fenomeno della pedopornografia ha assunto enormi proporzioni. E i mezzi
utilizzati per individuarla diventano sempre più sofisticati. Potresti ritrovarti implicato nelle indagini svolte in chissà quante giurisdizioni legali. Non esistono confini geografici per questa roba.» Min s'interruppe e sorseggiò il vino. «Sai, Nick, vorrei tanto crederti, ma mi riesce difficile. È praticamente impossibile immaginare che un bambino così piccolo sia in grado di fare, tutto da solo, quello che dici. Quanti anni ha? Otto, nove?» «Nove, in realtà, e non lasciarti ingannare dal suo apparente stato confusionale. Emir è un ragazzino in gamba. È un sopravvissuto. Non riesco a immaginare neanche lontanamente cosa abbiano passato lui e la madre in Bosnia, durante la guerra. Dopo quello, presumo che tutto sia possibile.» Bevve di nuovo, e lei allungò la bottiglia e gli riempì il bicchiere. «Ma ascoltami, Min, c'è dell'altro. La notte prima di morire, Marianne mi ha detto una cosa. Non riesco a smettere di pensarci. Ha detto di aver sentito delle urla. Non aveva menzionato questo dettaglio nella sua deposizione. Ho controllato tutte quelle che mi hai dato. Guarda.» Tese una mano verso la sua valigetta e ne estrasse i dossier. Li sfogliò, sparpagliandoli sul pavimento di fronte a lei. «Guarda: la sua deposizione, quella di Chris e quelle di Róisín e dell'altro ragazzo sono praticamente identiche, parola per parola. Nessuna delle quattro menziona delle urla. Eppure Marianne me l'ha detto, ha detto di averle sentite. Ha detto anche che c'era sangue sulle pareti, sangue sul pavimento.» «Per l'amor del cielo, Nick, Marianne era fuori di testa per colpa dell'acido. Non sapeva cosa sentiva, o vedeva, se è per questo. E quando te ne ha parlato era squilibrata, giusto? Soffriva di schizofrenia paranoide. Attraversava momenti di follia totale. Tu stesso ci hai detto che il suo comportamento è stato bizzarro e stravagante. E che la sua reazione, quando l'hai respinta, è stata assolutamente pazzesca. Non è su questo che si basa la tua difesa? Non è questa la tua spiegazione per i graffi che hai sul torace, per il fatto che si siano trovati frammenti della tua pelle sotto le sue unghie e alcuni tuoi capelli sul suo corpo? Non è questo che hai dichiarato? Hai detto che quella notte lei era fuori di sé, non è così?» Nick non rispose. «Non puoi tenere il piede in due scarpe, lo sai.» «No, non lo so. Quello che so è che sono stato fregato. Qualcuno mi sta incastrando di proposito. O'Reilly vuole interrogarmi di nuovo riguardo alla dichiarazione di questo testimone, questa persona che sostiene di avermi visto lasciare la casa subito dopo Marianne. Lo sapevi? A dire il vero, mi ha detto che sono fortunato a non trovarmi già sotto custodia. Non lo trovi
incredibile?» Lei bevve, poi fece un cenno di diniego. «Niente affatto. La prossima volta che ti interrogherà, userà le maniere forti. Ti arresterà e ti tratterrà nella stazione per sei ore, in stato di fermo rinnovabile per altre sei. Nella speranza di disporre, a quel punto, di abbastanza elementi per incriminarti.» «Quindi si tornerà alle tattiche da prepotente, vero? Si tornerà al vecchio come-si-chiama? Convocheranno anche lui per lasciargli fare un altro tentativo con me?» Min alzò lo sguardo verso le fotografie allineate sulla mensola del caminetto. «Ne dubito sinceramente.» Gli occhi di Nick seguirono la direzione del suo sguardo. Si abbassarono sul bicchiere che stringeva e poi fissarono il viso di Min, il tremolio delle fiamme riflesso nei suoi occhi scuri. «Mi dispiace. Non mi ero reso conto che era tuo marito.» Lei si strinse nelle spalle. «Perché avresti dovuto?» «Non avrei dovuto dire tutte quelle cose su di lui, non l'avrei fatto, se lo avessi saputo.» Min fece spallucce, impaziente. Il suo tono di voce era irritato, teso. «Non importa. Non sei stato l'unico a lamentarsi di Andy. Aveva l'abitudine di comportarsi... in modo non proprio riprovevole ma di certo non esemplare. Era fatto così. Era uno sbirro vecchio stile. La cosa aveva funzionato egregiamente per anni e lui non intendeva cambiare solo perché lo stile della polizia era mutato. Non credeva nella responsabilità e nella trasparenza. Credeva nell'istinto. In ciò che è giusto e in ciò che è sbagliato. Nel bene e nel male.» «Ma tu lo amavi, andavi d'accordo con lui?» Lei lo guardò. «Scusa.» Nick si appoggiò allo schienale della sedia. «Scusami, non sono affari miei. Non è educato farti una domanda così personale.» Min sorrise. «Non preoccuparti. Francamente trovo piacevole poter parlare di lui. Sai come succede. Diventa ben presto un argomento imbarazzante, che la maggior parte della gente cerca di evitare.» «Racconta, so benissimo cosa vuoi dire.» «Già.» Lei sospirò. «Lo sai per forza, vero?» Per un attimo abbassò lo sguardo sul pavimento, poi lo riportò su Nick. «Lo amavo», disse sommessamente. «L'ho amato sin dal primo momento in cui l'ho visto. Lui ha guardato me e io ho guardato lui, e questo è bastato.» Bevve qualche altro
sorso di vino. I tizzoni ardenti nel caminetto scoppiettarono e una fiamma azzurra divampò per un attimo e poi si spense. «I tuoi figli gli somigliano?» Min si strinse nuovamente nelle spalle. «Chi lo sa? A volte sono la sua immagine sputata, altre volte non penseresti mai che abbiano avuto un padre.» «E ricordano molti particolari di lui?» «Non riesco mai a capire sino in fondo se li ricordano per davvero oppure solo perché ne hanno sentito parlare più o meno direttamente. Prima che vadano a letto ci dedichiamo al rituale. Ricordate quando il babbo ha fatto questo e ha fatto quello? Ricordate quando il babbo vi ha portato fuori in barca e avete pescato una balena? Ricordate cosa gli piaceva mangiare a colazione, quali programmi televisivi preferiva? Ricordate che aspetto aveva? Ma, sinceramente, non so più se qualcosa di tutto questo è reale.» Lo fissò. «Dev'essere un po' così anche per te con tuo figlio, vero?» Nick non rispose. Vuotò il bicchiere e lo posò sul caminetto. «Meglio che vada», annunciò. «Senti, sono davvero spiacente per... sai, per prima. Non avrei dovuto presentarmi qui senza preavviso, ma temevo che, se ti avessi telefonato, non avresti accettato di vedermi. E mi dispiace, Min, ma non sapevo davvero a chi rivolgermi.» Si alzò e raccolse la sua valigetta. «Qui ci sono tutti i dossier. Ho pensato che li rivolessi. Probabilmente non è il caso che li tenga a casa mia, ormai. Inoltre immagino di averne ricavato tutto ciò che mi serve.» Si scostò dal fuoco. Anche lei si alzò. E annuì. «Ma ripenserai a quanto ti ho detto su Marianne, per favore? Ti ho raccontato quello che mi aveva confidato quel ragazzo, Luke. Non so perché, ma ho l'impressione che significhi qualcosa. Quindi fallo, ti prego, per me, per Owen, per quello che vuoi. Ti prego.» Min annuì e lo accompagnò alla porta. Lui uscì nel buio, poi si voltò. «Mi dispiace davvero per tuo marito. Se lo amavi, doveva essere un tipo a posto.» Le sorrise. Lei ricambiò il sorriso ma non disse nulla. Chiuse la porta. Tornò in soggiorno. Prese i bicchieri vuoti e andò in cucina. Nella stanza regnava il caos. Riempì il lavandino di acqua bollente e v'impilò tutto, poi guardò il giardino buio. Il suo viso le ricambiò l'occhiata. «Chi l'avrebbe mai immaginato?» le aveva detto lui. «Amore a prima vista per un vecchio come Andy Carolan.» «E lo è stato?» gli aveva chiesto lei. «Lo è stato davvero?»
«Sì», aveva risposto lui. «Quel giorno, il giorno dopo la scomparsa del piccolo Cassidy, ti ho guardato. Eri così bella. I tuoi lucenti capelli neri tagliati come quelli di un ragazzo, i tuoi grandi occhi castani pieni di vita e divertimento. E il tuo corpo, be'...» «Continua, cosa stavi per dire del mio corpo? Avanti, adulami.» Ma lui si era limitaro a scuotere la testa, prenderle la mano e ripetere: «Non appena ti ho visto, ho capito che eri la donna per me». Il vino che aveva bevuto con Min gli aveva fatto venire voglia di altro alcol. Non c'era certo carenza di pub nel tragitto tra la casa della donna e la sua, ma a ogni pinta che tracannava si sentiva più disperato, più solo, più sconfitto. Ovunque c'erano uomini che gli somigliavano. Uomini soli. Uomini con le spalle curve e il viso segnato. Uomini con la coscienza sporca, ansiosi di dimenticare più passato di quello che volevano ricordare. Si osservò nei riflessi che vedeva. Negli specchi macchiati dietro i banconi, nei bicchieri mezzi pieni di birra scura che teneva sollevati davanti al viso, nell'accendino metallico verso cui chinava il capo, nelle finestre buie che oltrepassò nel tornare svogliatamente verso Victoria Square. Ricordava il volto del padre. L'aspetto che aveva avuto a mano a mano che moriva lentamente di cancro. Era come se la pelle gli si fosse staccata dalle ossa durante quei mesi di malattia. Non era mai stato grasso, ma mentre restava sdraiato - inizialmente nel proprio letto nella camera in cui dormiva sin da quando si era sposato e poi nel letto del ricovero - il suo corpo aveva cominciato a consumarsi, a riportarlo all'essenza, a ridurlo a ciò che era stato all'inizio. L'embrione. La forma della colonna vertebrale, l'occhio, la testa. Così, alla fine, era rimasto solo quello e nient'altro. La forma della sua stessa testa, la cavità oculare, lo zigomo, la mascella. Ecco cosa vedeva Nick quando osservava tutti quei riflessi. E pensava a cosa avrebbe dovuto aspettarsi se avesse ritrovato Owen. La forma della testa, la cavità oculare, la mascella, i dentini, la clavicola e lo sterno, la gabbia toracica, l'ulna e il radio, le ossa dei polsi e delle mani. La colonna vertebrale e la pelvi, il femore, la tibia e il perone, e le piccole ossa ordinate della caviglia e del piede. Aveva interrogato Susan che ne stava memorizzando i nomi per un esame universitario. Ossa più numerose nel piede che in qualunque altra parte del corpo, aveva spiegato lei. Comincia tutto con il piede, il punto con cui l'essere umano si collega alla terra. Il punto in cui ci rendiamo conto che anche noi siamo carne e sangue, osso e tendine. Che non siamo solo coscienza, consapevolezza, una collezione di informa-
zioni sensoriali, ma parte del mondo fisico tanto quanto qualunque altra creatura. Frantumati, schiacciati, feriti e distrutti facilmente come la mosca o la formica, la larva o lo scarafaggio. L'orario di chiusura era arrivato. Si unì ai ritardatari che si riversavano lentamente sulla strada principale. Le loro conversazioni quasi urlate e aggressive. Fissò il marciapiede davanti a sé mentre camminava, evitando di incrociare qualche sguardo, di lasciarsi coinvolgere in qualunque tipo di contatto. Le zuffe scoppiavano con fin troppa facilità. Un commento casuale, un riferimento sprezzante a una squadra di football o a una donna. Uno scoppio d'ira, una testa sbattuta contro il cordolo, uno stivale che mirava ai testicoli o alle reni. Lo aveva già visto succedere troppe volte. Provò un certo sollievo quando svoltò verso Victoria Square e le retrostanti piazze collegate tra loro. Almeno sarebbe stato al sicuro nell'oscurità silenziosa in cui i bambini dormivano in letti dalle lenzuola rimboccate e i genitori chiudevano porte e finestre a doppia mandata e inserivano i sistemi d'allarme come protezione supplementare. Presto sarebbe arrivato a casa. Sarebbe strisciato sotto il piumino steso sul divano. Avrebbe dormito a lungo e si sarebbe svegliato rinfrancato. E poi avrebbe affrontato un altro giorno. Ma mentre la sua mano si allungava verso la porta, la chiave protesa verso la serratura, egli notò che l'uscio non era più chiuso a chiave e con una leggera spinta lo aprì. C'erano degli uomini nella stanza. Jay O'Reilly e Conor Hickey. In piedi accanto al tavolo, le teste vicine mentre lui entrava nell'alone di luce. O'Reilly si voltò a guardarlo. «Così si è deciso a tornare, vero? Stavamo giusto per sguinzagliare sulle sue tracce una squadra di ricerca.» «Cosa diavolo volete? Che ci fate qui?» «È stata sporta denuncia contro di lei, signor Cassidy. Una denuncia molto grave. Abbiamo un mandato e abbiamo appena perquisito il suo appartamento.» «Oh, e cosa avete mai trovato di minimamente interessante?» «Queste.» O'Reilly indietreggiò. Nick si fece avanti. Il tavolo era coperto di fotografie sparpagliate. Le sue foto. Le istantanee che aveva scattato nel corso degli anni, a ragazzi, a bambini, in gruppo e da soli. Ragazzi sulla spiaggia, ragazzi che giocavano, ragazzi che mangiavano un gelato, ragazzi e ragazze in parchi e campo giochi. Ragazzi con folte zazzere di capelli biondi e occhi azzurri e tondi. Ragazzi che sorridevano e piangevano.
Ragazzi in costume da bagno e calzoncini, e ragazzi nudi, che giocavano in mare e sulla spiaggia. «E anche questo.» L'ispettore indicò il computer. «Lo porteremo via per farlo analizzare. Oh.» O'Reilly si voltò nuovamente verso di lui. «E naturalmente porteremo via anche lei. La arresto in base al paragrafo 5 del Decreto del 1998 contro il traffico di minori e la pedopornografia. Forse vorrà essere così gentile da uscire e raggiungere l'auto. Se non le dispiace, signor Cassidy.» E mentre apriva la bocca per protestare, Nick sentì nuovamente la voce di O'Reilly. «Subito, esca subito, prima che io sia costretto a usare la forza con lei. Mi sono spiegato?» Min si svegliò. Il cuore le martellava dolorosamente nel petto. Il respiro le si bloccava in gola. Si mise seduta. Allungò una mano verso la sveglia. Erano le quattro e mezzo. Per un attimo rimase in ascolto, poi scese dal letto e prese la vestaglia. La luce sul pianerottolo era accesa. Aprì la porta della camera dei ragazzi e sbirciò all'interno. Entrambi stavano dormendo saporitamente. Chiuse la porta e raggiunse la stanza di Vika. La ragazza stava russando piano. I suoi abiti erano gettati alla rinfusa sul pavimento e nell'aria aleggiava un odore di alcol e profumo. Min si mosse verso la finestra sul pianerottolo. Sbirciò fuori attraverso la fessura tra le tendine. Pioveva ancora. Scese al pianoterra e controllò le serrature della porta d'ingresso. Mise la catenella di sicurezza. Controllò le finestre. Erano tutte ben chiuse, con la sicura inserita. Si spostò in cucina e provò la maniglia della porta scorrevole che dava sul giardino. La porta non si mosse. Tornò nell'atrio e si fermò accanto al pannello del sistema d'allarme. Premette il pulsante. La voce elettronica le parlò. «Il sistema è armato», disse in tono cantilenante. Armato, pensò lei mentre risaliva le scale, provando un vago disgusto per il termine. Eppure percepiva anche un senso di conforto. Armato per proteggere. Armato per difendere. Armato per tenere lontano qualsiasi terrore potesse esistere là fuori. Ritornò a letto e si avvolse strettamente nel piumino. Chiuse gli occhi, ma non riuscì a prendere sonno. Mormorò le parole dell'antica preghiera, ancora e ancora e ancora. Ora che mi accingo a dormire,
prego il Signore di proteggere la mia anima, se dovessi morire prima di svegliarmi, prego il Signore di prendere la mia anima. 24 «Che cosa è successo?» «È stata dura. Mi hanno interrogato. Ancora e ancora. Qualunque cosa dicessi non faceva che peggiorare la mia situazione, apparentemente. Mi hanno mostrato quello che hanno estratto dal mio computer. Roba incredibile. In vita mia non avevo mai immaginato che la gente fosse capace di una simile crudeltà. Sai, Susan, mi credevo piuttosto sofisticato, piuttosto informato. Mi credevo un uomo di mondo. Dopo tutti i viaggi che ho fatto, soprattutto negli Stati Uniti, pensavo di aver visto tutto quello che si può vedere. Invece mi sbagliavo. Non so niente di niente.» «E avevano qualche ipotesi su come tutto quel materiale sia finito sull'hard disk?» Lui scosse il capo. «L'unica cosa che sono riusciti a dire è che ero stato io. Persino quando ho dimostrato, o almeno ho cercato di dimostrare, che non avevo la minima idea di come funzionasse. Riesco a malapena a gestire la posta elettronica. Uso il dannato computer solo per una parte dei miei lavori di grafica. E per scrivere lettere, quel genere di cose.» «Ti hanno creduto?» Lui emise un profondo sospiro e affondò il viso tra le mani. «Be', non mi hanno accusato di niente. Ma non mi hanno lasciato dubbi. Se possono, lo faranno. Puoi scommetterci l'osso del collo. Se appena possono, m'incrimineranno.» «E la persona che ha sporto denuncia? Ti hanno detto chi è?» Lui scosse di nuovo il capo. «No. L'ho chiesto, ma hanno risposto di non potermelo dire. Però credo che lo sappiamo tutti e due, vero? Ho chiesto se avevano indagato sulla situazione domestica del bambino, se avevano parlato con sua madre e con Chris. Hanno risposto di sì. Hanno detto che il piccolo e la sorella avevano ricevuto la visita dell'assistente sociale locale specializzato in problemi dell'infanzia. Hanno detto che, dati i suoi problemi psicologici e il suo mutismo, disponevano di parecchie informazioni su Emir, nessuna delle quali faceva sospettare un qualsivoglia tipo di abuso o esposizione alla pornografia all'interno delle mura domestiche. In pratica è tutto qui.»
Metà pomeriggio. Erano seduti in cucina. Susan versò il tè. Aveva preparato uova strapazzate e pane tostato, ma lui riuscì a stento a mandare giù un boccone. «Avanti, Nick. Dovresti mangiare, lo sai. Ordini del dottore.» Susan allungò una mano al di sopra del tavolo per stringere la sua e gli sorrise. «Grazie», mormorò lui. «Non sapevo cosa avresti pensato. Non sapevo a chi avresti creduto.» Lei lo aveva visto dalle finestre sulla facciata mentre attraversava la piazza dopo essere stato rilasciato. Era uscita e lo aveva chiamato. Nick l'aveva guardata come se non sapesse chi era. Poi aveva sorriso, e Susan gli era andata incontro tendendogli la mano e accompagnandolo in casa. Erano seduti in cucina. La pioggia sferzava le finestre. Il bollitore fischiò. Susan preparò altro tè. «Raccontami degli O'Neill», disse lui. Lei sospirò e giocherellò con il cucchiaino. «È stato terribile. Non so come siano riusciti a sopravvivere alle procedure di identificazione. Mi sono offerta di effettuare il riconoscimento al posto loro, ma hanno rifiutato. Sono stati molto coraggiosi.» «Mi dispiace per come mi sono comportato davanti a loro», ammise Nick. «È stato imperdonabile da parte mia.» «Sì.» Lei lo guardò. «Imperdonabile.» «Posso rimediare in qualche modo, ai loro occhi?» «No, non credo. Almeno per un po'. Sto cercando di farmi consegnare il corpo di Marianne in modo che possano seppellirla. Ma il patologo intende trattenerlo finché non riceve i risultati degli esami sul DNA dal laboratorio inglese. E Dio solo sa quanto ci vorrà.» «In un caso del genere quegli esami avranno sicuramente la priorità, giusto? Non dovrebbe volerci poi tanto tempo.» «Non è così semplice, Nicky. Qui in Irlanda non esistono laboratori in grado di effettuarli. Bisogna mandare i campioni in Inghilterra. Gli esami sono estremamente costosi e probabilmente c'è già una lista d'attesa di altri casi. Quindi non sarà domani o dopodomani. Però sto facendo tutto il possibile. Conosco il patologo da parecchi anni. È un uomo fantastico. Mi aiuterà.» «Parteciperai al funerale?» Lei annuì. «E io dovrei venire?»
Susan distolse lo sguardo. «Non posso certo risponderti che dipende, vero?» Lui la fissò. «Credi davvero che ci siano dubbi in proposito, Susan? Puoi restare seduta lì e dirmi, tu che mi conosci da più tempo e meglio di chiunque altro... puoi credere onestamente che avrei potuto stuprare Marianne e spaccarle la testa contro la parete del tunnel?» Per un attimo regnò il silenzio. Fuori, il vento sfrecciava tra gli alberi. «Da più tempo? Meglio di chiunque altro? È davvero così?» Susan parlò sottovoce. Nick si piegò in avanti per sentirla. «Da più tempo di chiunque altro tranne mia sorella maggiore», ribatté lui. «Meglio di chiunque altro, comprese le mie sorelle. Era una delle cose che più detestavo del fatto di essere lontano. Ogni volta che conoscevo qualcuno, dovevo ricominciare da capo con la storia della mia vita. E persino a quel punto, Susan, niente garantiva che la donna in questione avrebbe capito. E che, una volta superata la fase delle informazioni superficiali, il dove, il cosa, il perché e il quando, ci sarebbe stato qualcos'altro da dire. Capisci cosa intendo?» Lei giocherellò con la tazza del tè. Annuì. «E che prima o poi avrei smesso di paragonarla a te e a ciò che un tempo noi due avevamo condiviso. Sapevo che alla fine sarei dovuto tornare, che non potevo andare avanti senza di te», aggiunse lui. «Allora...» Susan lo fissò con sguardo fermo. «Allora perché te ne sei andato? Perché mi hai detto che non mi amavi e che volevi allontanarti da me?» «Che cosa?» Il viso di Nick si raggrinzì per l'incredulità. «Non ho mai detto niente del genere. Mai.» «Sì, invece. Eri seduto proprio in questa cucina e hai detto: 'Non sopporto di restare qui con te. Non ce la faccio più. Non sopporto di vederti così. Non sopporto l'assenza, la mancanza, il lutto'. Hai detto che ero come un grande buco nero, uno spazio vuoto in cui Owen era scomparso e in cui saresti scomparso anche tu. Hai detto che non mi sopportavi, non sopportavi di starmi vicino. Non riscrivere la storia, Nick, non fingere che non sia successo. Sono io la donna che hai lasciato.» «Susan.» Nick ghermì il bordo del tavolo. Alzò la voce. «Susan, non ho mai detto una cosa simile. Oppure, se l'ho detta, non è questo che intendevo. Quello che intendevo è che non sopportavo la mia vergogna e il mio senso di colpa. Non sopportavo il fatto che, quando ti guardavo, vedevo la mia debolezza e il mio egoismo ricambiare l'occhiata. Quando ti guardavo,
vedevo l'assenza di Owen farsi carne. Ma non intendevo dire che non ti amavo e non ti desideravo e non volevo stare con te. Volevo che tu venissi via con me. Volevo che ricominciassimo da capo da qualche altra parte. Avremmo potuto farlo, vero?» Lei scosse il capo. «No, Nicky, non avremmo potuto. La nostra unica chance era qui. In questa casa. In questa via. In questo posto dove un tempo è vissuto nostro figlio. Il posto in cui, nella tua lettera, hai dichiarato di voler tornare.» «E questo, Susan, significa che la nostra unica chance è qui, adesso?» Si chinò sul tavolo e le prese la mano. Se la accostò alla guancia. La pelle di Susan aveva un profumo di pulito, quasi antisettico. Lui girò la testa verso il palmo e lo badò. Susan gli prese l'altra mano e se la posò sul viso. Nick sentì le sue palpebre sotto i polpastrelli e il suo mento contro il polso. «Sstt», sussurrò lei. Il suo alito era tiepido e umido. «Sstt, sstt.» Era già sceso il crepuscolo quando lasciarono la casa. Percorsero le strade in silenzio. Cumuli di foglie morte costellavano il loro tragitto, ormai inzuppati dalla violenta pioggia pomeridiana. Era buio allorché raggiunsero il tempietto dedicato a Lizzie Anderson. Susan si chinò per togliere il moccolo della candela del giorno prima. «Ecco», disse. Gliene passò una nuova e gli porse l'accendino. «Fallo tu.» Nick riparò la fiammella con la mano messa a coppa finché non si stabilizzò. Poi sistemò la candela nel contenitore di vetro. Si ritrasse a osservare e chinò il capo. Chiuse gli occhi. «Lei mi conforta», ammise sommessamente Susan. «Mi dà l'impressione di non essere sola. Non so niente di lei, del tipo di persona che era. So che aspetto aveva. So qualcosa di quello che ha sofferto la sera in cui è morta. Ma, per qualche misterioso motivo che non riesco a individuare, mi consola.» Si girarono e si allontanarono. Nick si voltò a guardare. La candela brillava nel buio. Un puntolino di luce. «Facciamo una passeggiata», propose. «Non torniamo subito a casa. Sempre che...» S'interruppe per fissare Susan. «Sempre che tu non stia aspettando qualcuno. Paul, per esempio.» «No.» Lei sorrise. «Non lo aspetto, stasera non ci vediamo.» Continuarono a camminare. Ormai faceva freddo. Il cielo era limpido. La luna era già sorta. Il Grande Carro si stagliava nel settore meridionale
del cielo. «Gina ha mai parlato di lei?» La voce di Susan risuonò improvvisamente acuta. «Gina?» «Gina Harkin, la tua Gina.» La voce non le tremò. Nick cercò di usare un tono neutro. «Ha mai parlato di chi?» «Di Lizzie Anderson.» «No. Avrebbe dovuto?» «Be', sai che le dava ripetizioni, vero?» «No, non lo sapevo. Come mai?» «Be', sai che Gina insegnava a Laurel Park quando Lizzie frequentava quella scuola. E pare che Lizzie andasse a lezione da lei due volte alla settimana. Gina sapeva della sua relazione con Brian Matthews e le permetteva di usare le ripetizioni come copertura per gli appuntamenti con lui.» Nick non fiatò. «E, in cambio, Lizzie posava per lei. Non ricordi il quadro che Gina aveva appeso nel suo appartamento, sopra il caminetto?» Lui se ne rammentò. Una tela enorme. Faceva sembrare angusta la stanza. Non era mai riuscito a decidere se gli piacesse o no. La ragazza era sdraiata, con i piedi rivolti verso l'osservatore. La sua testa penzolava dal bordo di un letto sfatto. Il busto era allungato, i seni appiattiti contro le costole. L'osso pubico sporgeva. «Il suo viso», disse. «Ricordo che il viso della ragazza era a malapena tratteggiato. Gina aveva riversato tutta la sua energia sul corpo. Il viso non esisteva quasi. Questo non mi piaceva. Avevo l'impressione che fosse alienante, che oggettivasse la sua umanità.» «Gina era d'accordo? Ti ha rivelato l'identità della modella?» «Non me ne ricordo. Sono sicuro che se lo avesse fatto, me ne ricorderei, ma so che difese il modo in cui l'aveva ritratta. Sosteneva che era un'astrazione, lo studio di un corpo, e che darle un viso le avrebbe dato anche una natura, cosa che preferiva evitare.» «Sei d'accordo?» «No. Nel corso degli anni ho lavorato molto con le modelle. Quando ero negli States, quando insegnavo, le ho usate spesso durante le lezioni di disegno dal vivo. Era sempre molto divertente vedere come reagivano gli studenti, se consideravano la modella un essere umano completo o una semplice collezione di parti corporee. E le modelle lo capivano sempre. Sapevano dirti chi le disprezzava e chi invece le ammirava.»
Continuarono a camminare, salendo sulla collina e allontanandosi dal mare. «Come fai a sapere di Gina e della ragazza?» Guardò verso Susan. «Sono diventata amica di Catherine Matthews, la figlia di Brian Matthews. L'ex migliore amica di Lizzie. Me l'ha raccontato lei. Lei e la madre andarono in tribunale ogni giorno, durante il processo a suo padre. Hanno sentito illustrare tutti gli elementi di prova.» «E Catherine pensava...» Nick esitò. «Pensava che fosse stato lui?» Susan infilò le mani nelle tasche del cappotto e ritrasse il collo all'interno del bavero. «Ha sostenuto di non saperlo. Sua madre difese il marito a spada tratta. Prima di tutto rifiutò di credere alla relazione e poi, quando lui ammise di essere andato a letto con Lizzie, diede la colpa alla ragazza. In seguito, quando divenne chiaro che Lizzie non era una sorta di Lolita vecchio stile e che era stato lui a organizzare l'intera faccenda, la donna rimase al suo fianco, attribuì il tutto a una sorta di andropausa, una crisi di mezza età. Si biasimò per non aver curato il proprio aspetto, per essere ingrassata ed essersi lasciata andare. Catherine mi ha raccontato che, quando lui venne rilasciato, lei lo riaccolse in casa a braccia aperte. E per un po' sembrò che sarebbero riusciti a lasciarsi tutto alle spalle e a ridiventare una famiglia, ma...» «Ma?» «Be', presumo che tu possa immaginarlo. Non era così semplice. Rimasero sempre dei dubbi, soprattutto perché la polizia non riuscì mai a incriminare nessun altro. Così alla fine lui se ne andò di casa, si trasferì in Inghilterra. E questo è quanto.» «Un altro uomo fuggito dal caos che lui stesso aveva creato. Giusto?» Lei non rispose. Aveva ricominciato a piovere, stavolta un'acquerugiola mista a nebbiolina. Fiochi aloni di luce rifratta erano sospesi intorno ai lampioni. Susan rabbrividì. «Dovremmo tornare a casa», suggerì. «Ci siamo spinti abbastanza lontano.» Nick si fermò. «Riesci a vedere dove siamo?» Indicò l'ampia villa con il parco davanti. «Vedi l'insegna? È la scuola, vero?» «Sì, esatto. Laurel Park. Molto esclusiva. È lì che adesso insegna Chris Goulding. E, ricordi, Nicky?» Lei gli diede le spalle. «Quella casa, quella accanto, adesso fa parte della scuola. Un tempo apparteneva alla nonna di Chris. Ricordi? Lui e Róisín accompagnavano spesso Owen qui. Aveva un magnifico giardino con un ruscello e un boschetto. E uno splendido padi-
glione estivo, quello che ora si trova nel giardino di Chris. L'hai visto? L'ha fatto trasportare lui nel suo giardino dopo la morte di sua nonna e la vendita della casa. L'ha fatto per i bambini di Amra.» «Oh, quindi è da lì che arriva. Me lo stavo giusto chiedendo. Ormai quelli di foggia antiquata e con la piattaforma girevole non sono più tanto diffusi.» Ricominciarono a camminare, adesso di buon passo perché la pioggia riprendeva forza. «Avevo dimenticato come fosse la pioggia irlandese.» Nick evitò una pozzanghera. «A New Orleans, quando pioveva, ti ci voleva una canoa, ma dieci minuti dopo usciva il sole e tutto finiva lì. Qui invece pensi che si tratti di una pioggerellina, eppure t'inzuppa i vestiti e ti penetra quasi sotto la pelle. Ed è così dannatamente fredda.» Fu scosso da brividi. «Quel che ti ci vuole è un bel bagno bollente.» Susan accelerò. «Avanti, sbrigati, prima di buscarti una polmonite.» Rimase sdraiato nella vasca da bagno con l'acqua che gli lambiva il mento. Chiuse gli occhi e sentì il tepore invadergli il corpo. Insieme a una sensazione di conforto, sicurezza e pace. Prese la saponetta dal portasapone. Se la accostò alle narici. Era inodore. Semplice e senza fronzoli, come la maggior parte delle cose di Susan. Sapeva, senza bisogno di guardare, che le mensole del bagno non erano piene di prodotti di bellezza. Lei non si truccava mai e non usava profumi. «Non ti piace il mio odore?» gli aveva chiesto anni e anni prima quando lui, un Natale, le aveva regalato un costoso flacone di profumo. Poi si era aperta la camicetta, gli aveva afferrato la testa e gli aveva premuto il viso sul proprio collo. «Ecco, annusalo. Di cosa sa?» aveva domandato. E Nick non aveva risposto. Si era limitato a inalare a fondo, prima di baciarle l'incavo tra le clavicole. Adesso lui si alzò e si avvolse in un asciugamano. La moglie aveva portato via i suoi vestiti per farli asciugare. Il kimono di Susan era appeso a un gancio fissato dietro la porta. Lo infilò e se lo avvolse intorno al corpo, annodando la cintura ben stretta, con un grosso fiocco. Si guardò allo specchio e sorrise. Scese al pianoterra, entrando in cucina. «Che ne dici?» chiese. Susan, ferma accanto alla stufa con un cucchiaio di legno in mano, si girò. Ridacchiò e gli passò un bicchiere di vino.
«È decisamente all'ultima moda, in fatto di look. Molto David Beckham, molto uomo nuovo.» Aveva preparato una zuppa di porri e patate. La mangiarono insieme a pezzettoni di pane. Fuori si era alzato il vento. Rimasero seduti al tavolo di cucina e osservarono i rami degli alberi che oscillavano da una parte all'altra. Le finestre tintinnavano e da un punto imprecisato della piazza giungeva il suono dell'allarme di una casa. «Susan?» «Sì?» «Chris. T'interroghi mai su di lui?» «In che senso?» «Cosa sta facendo con quella donna e quei bambini? Perché proprio loro?» «Perché non loro?» «Perché non qualcuno della sua età, della sua stessa razza? Qualcuno senza il tipo di 'bagaglio' che hanno quei tre?» «Be', in realtà non me lo sono mai chiesta. Lui ha fatto del bene ad Amra. E si sforza parecchio con Emir. È gentile con la bambina.» «Ma Amra come può fidarsi di Chris dopo tutto quello che ha passato? Cosa sa di lui, in realtà?» «Fiducia, questo sì che è un concetto interessante.» Lei posò il cucchiaio e lo guardò. «Cosa sa di lui? Sa che ha accolto in casa lei e i figli. Sa che mette il cibo sulla tavola per loro. Sa che quando lei va a dormire la sera, lui è lì al suo fianco, e quando si sveglia al mattino, lui è ancora lì. Ecco cosa sa. Ed ecco di cosa si fida.» Nick non rispose. Sentiva la gola serrata e dolorante. «Susan.» Spinse una mano verso di lei. Lei distolse lo sguardo per fissare il giardino. «Guarda», disse alzandosi. Lui la raggiunse. Una sagoma piccola e scura risultò chiaramente visibile mentre attraversava il prato, avvicinandosi al muro del giardino. Susan gli posò la mano sul braccio. «Guardala. Ormai è una habituée, qui. Questo è il suo terzo anno. Ha i cuccioli ogni primavera. Va a partorire sotto il padiglione estivo.» «Ricordi?» «Certo, certo.» Tornarono al tavolo. Lei sollevò la bottiglia. Era vuota. «Devo aprirne un'altra?»
Lui annuì. «Sì, ti prego», rispose. «Ti prego.» 25 Non sarebbe mai stato drammatico. Sarebbe sempre stato meticoloso e lento. Tedioso, banale, sistematico, di routine. Lei aveva partecipato agli interrogatori casa per casa, distribuendo i questionari da compilare e poi tornando a riprenderli. Parecchie persone avevano notato Marianne mentre costeggiava la linea ferroviaria. Ma fino a quel momento l'unica identificazione certa di Nick Cassidy era quella fatta da Chris Goulding. C'era la deposizione della donna di Glenageary che aveva notato un tizio che somigliava a Nick, ma la descrizione si adattava anche a molti altri uomini. E più la interrogavano meno la teste forniva risposte coerenti. Ma le prove forensi preliminari a suo carico erano notevoli. I capelli rinvenuti sul corpo di Marianne corrispondevano ai suoi. Anche il tessuto trovato sotto le unghie della ragazza corrispondeva al suo. Stavano aspettando i risultati dell'analisi del DNA effettuata sullo sperma rinvenuto nel canale vaginale. Ci sarebbe voluto più tempo di quello indicato a Min da Johnny Harris. Nel frattempo, tuttavia, Nick Cassidy era l'unico indiziato. In più c'era l'altra faccenda. Il materiale da pedofilo sul suo computer. Lei non riusciva a capacitarsene. E Conor Hickey le aveva telefonato, sollecitandola a raggiungerlo in ufficio, spiegando di poterle mostrare qualcosa che l'avrebbe sicuramente interessata. E rappresentava un pretesto, un pretesto qualsiasi, per interrompere la noia di quella faticaccia. Sulla doppia carreggiata di Stillorgan che portava in città c'era il consueto traffico. Veicoli in coda per chilometri. Sorprendentemente spiacevole, visto che non era nemmeno l'ora di punta. Poi Min vide la causa del rallentamento. Un tamponamento a catena fra tre auto sul raccordo di Foster Avenue. Una BMW, una Nissan Micra e una Volkswagen Golf finite in mezzo alla strada. Vetri rotti ovunque. Un'ambulanza con i portelloni aperti e i paramedici che si occupavano di una donna stesa su una barella. E due capannelli di persone, un'espressione scioccata sul viso, lacrime, rabbia, gesti di sfida, mentre un agente in motocicletta, taccuino e matita in mano, annotava i dettagli. Nel passare lei gli fece un cenno di saluto. Lo riconobbe. Aveva prestato servizio a Dún Laoghaire per anni. L'uomo sorrise e si appoggiò all'intelaiatura del suo finestrino aperto. «Gesù.» Si asciugò la fronte con un gesto plateale. «Questi tizi non han-
no sbagliato niente, gli altri hanno torto marcio. Quanto alle donne, intendono fare causa appellandosi alle leggi sulle pari opportunità. Una di loro sostiene di essere stata molestata sessualmente dal tizio sulla BMW mentre erano fermi al semaforo.» Fece oscillare il taccuino in direzione di Min. «Tutto questo potrebbe ispirare una sit-com dannatamente riuscita, lo sa?» Lei scoppiò a ridere. «Già, è la sua chance di sfuggire da questo casino, giusto?» Lui indietreggiò e le indicò di proseguire. Min lo osservò nello specchietto retrovisore. La pazienza di un santo e la saggezza di Salomone, ecco cosa serviva in quella situazione, pensò. Conor era seduto alla scrivania quando lei entrò in ufficio. La chiamò con palese impazienza. «Forza, vieni qui, prendi una sedia. Vieni a dare un'occhiata a quello che ho trovato.» Min lasciò cadere borsetta e cappotto, e gli si sedette accanto. Si piegò in avanti per guardare. «Chi è?» chiese. «Lo sai?» Conor scosse il capo. Cominciò a spiegare. Non sapevano chi fosse il bambino, ma conoscevano bene quelle foto. Erano in circolazione da parecchi anni. Decisamente insolite, disse. Mostravano il bambino disteso e ripreso da dietro. Braccia spalancate. Gambe divaricate. L'illuminazione era peculiare, molto sofisticata. Lo faceva brillare come se fosse trasparente, come se fosse fatto di un imprecisato materiale soprannaturale invece che di carne e sangue. Tutti dicevano la stessa cosa di lui. Era talmente perfetto da non sembrare vero. Le foto lo mostravano sempre in quella posa e illuminato da dietro, la luce che si allargava a ventaglio intorno ai margini del suo corpo nello stesso identico modo. E c'era un'altra caratteristica distintiva in quelle immagini. «Quale?» Min cercò di mantenere un tono neutro. «Non ci sono mai foto del suo viso. Mai. Ogni parte del suo corpo è stata studiata, sfruttata, goduta e passata di uomo in uomo, in tutto il mondo. Ma chiunque l'abbia fotografato si è assicurato di tenere il viso soltanto per sé.» La mano di Conor si mosse sul mouse e sulla tastiera, e lei rimase a guardare mentre le immagini scorrevano sullo schermo una dopo l'altra, dall'alto in basso e da sinistra a destra. In alcune il bambino era rivolto verso l'osservatore ma portava una maschera. A volte indossava un passamontagna lavorato a maglia, altre volte un berretto a punta che lo faceva sem-
brare un mago oppure un membro del Ku Klux Klan. Talvolta le maschere erano graziose, coperte di lustrini o piume. Di tanto in tanto s'intravedevano gli occhi. Opachi, vitrei, quasi come se fossero stati cancellati con una penna. «Alcuni degli esperti di grafica a cui ci rivolgiamo per analizzare questo materiale ritengono che le immagini siano state pesantemente modificate. Sostengono che parecchie sono state migliorate, si potrebbe dire abbellite. Per esempio questa.» Ingrandì la foto a pieno schermo. Min, suo malgrado, si portò una mano alla bocca e distolse lo sguardo, restia a ritrovarsi nel ruolo di spettatore dell'atto. Girò la testa e osservò, fuori dalla finestra, la chiazza purpurea formata dalle montagne di Dublino all'orizzonte. Quella mattina i ragazzi le avevano chiesto se avrebbe nevicato. Ricordavano vagamente di essere andati in toboga con il padre. Poco prima che morisse. Chiuse gli occhi per un attimo e sentì le lacrime premerle contro le palpebre. «E guarda qui, dai un'occhiata a questo. Qui nell'angolo. Vedi, sulla parete?» Min si avvicinò ulteriormente allo schermo. Conor spostò il mouse e ingrandì l'area indicata. C'era qualcosa di simile a un disegno, uno scarabocchio. Cliccò ripetutamente. Lei si accorse che il disegno sembrava familiare: era un bambino, ma con il viso di un rospo e il corpo coperto da piccole squame dalla forma perfetta. Simili a quelle di un pesce. «Uau.» Allungò una mano per toccare lo schermo. «Incredibile. Lo riconosco. Sai cos'è?» Lui scosse il capo e fece per prendere le sigarette, poi si bloccò. «Okay, okay, per rispetto nei tuoi confronti.» Aprì il cassetto della scrivania ed estrasse un pacchetto di chewing-gum. «Meglio?» Usò un tono sarcastico, ma sorrise mentre toglieva l'involucro argentato della gomma e cominciava a masticare vigorosamente. «Continua», la sollecitò a denti stretti, «dimmi.» «Be', prima di tutto dimmi una cosa tu. Dove hai preso questa roba?» Conor masticò rumorosamente, a bocca aperta. «Secondo te? Il tuo amico, il signor Cassidy, ha del materiale davvero interessante nel suo grazioso piccolo laptop.» Lei si appoggiò allo schienale della sedia. «Non posso crederci. Semplicemente non posso. Com'è finito lì il Figlio delle stelle?» «Figlio delle stelle? È così che lo chiami? È un bel nome anche per le foto. La serie Figlio delle stelle. Ecco come le chiameremo.» Toccò lo
schermo del computer con la punta della biro. «Ti battezzo Figlio delle stelle. La sventura colpisca chiunque cerchi di approfittare di te.» «No», si oppose lei, «non puoi farlo. È una bella storia. Le illustrazioni del libro sono davvero splendide. Ha vinto premi in tutto il mondo. Ha reso famoso Nick Cassidy come illustratore. È uno dei preferiti dei miei figli. Non puoi contaminarlo con questa...» Fece oscillare la mano verso lo schermo. «Con questa robaccia.» «Oh, non posso? Be', forse ti stupirà sapere che non sono stato io a contaminare questa storia, questo libro o qualunque altra cosa di cui tu stia cianciando. È stato lo stesso Cassidy a farlo.» Lei spinse indietro la sedia. «Ma il semplice fatto che il Figlio delle stelle compaia in queste foto non implica necessariamente che Cassidy abbia avuto qualcosa a che fare con esse, giusto? Chiunque potrebbe inserire l'immagine nel computer tramite uno scanner, vero? Non c'è niente di complicato nella cosa, giusto?» «Be', non è così semplice. Tanto per cominciare, potresti accedere a questo materiale solo se fossi socio di uno dei club pornografici più esclusivi. Potresti modificarle solo se occupassi un posto di altissimo livello nel gruppo di discussione da cui provengono. Non può alterarle il primo venuto. Ma, come ho già precisato, abbiamo trovato queste foto nell'hard disk del computer di Cassidy. Chiaro?» Strizzò gli occhi. «In un certo senso, tutto torna.» Per un attimo lei rimase in silenzio. «È un vero peccato. È un libro adorabile. I miei ragazzi ne vanno matti. E ogni volta che li porto in città, mostro loro dove abitava Oscar Wilde.» «Ah, è uno dei suoi, eh? Be', questo spiega parecchie cose.» Conor si appoggiò allo schienale e incrociò le braccia dietro la testa. «Che cosa intendi dire?» «Be', sai che tipo era Oscar Wilde, giusto?» Il suo tono suonò aspro. «No, non lo so. Dimmelo tu, che evidentemente lo sai.» «Era un pedofilo. Puro e semplice. Sfruttava i ragazzi che si prostituivano e abusava dei bambini. Al giorno d'oggi si beccherebbe quindici anni di galera per quello che faceva ai suoi tempi.» «Oh, avanti.» Lei alzò la voce. «Non ti sembra di essere un po' troppo severo? Wilde venne perseguitato per la sua sessualità. Dovette patire non poco e pagò un prezzo esorbitante. Ebbe la reputazione rovinata. Il suo matrimonio naufragò. Il suo rapporto con i figli fu rovinato per sempre.» «Già, e che mi dici dei ragazzini con cui faceva sesso? Riesci a immagi-
nare le loro condizioni all'epoca? Vai a vedere in che condizioni sono oggi. Vai a fare un giretto nel pronto soccorso di un qualunque ospedale della città. E sono gli uomini come Oscar Wilde - quelli che hanno in comune con lui il background, il ceto, la posizione sociale - a mettersi in fila, in auto, nel Phoenix Park per aspettare il prossimo pezzo di carne disponibile.» Il viso di Conor divenne improvvisamente paonazzo. «E, a quanto pare, possiamo vederne un altro esempio tipico in Cassidy. Un altro uomo colto, istruito e dal temperamento artistico. Eppure è identico a tutti gli altri. Abusa dei più deboli.» Si alzò, prese il cappotto e se lo infilò nervosamente. «Voglio uscire di qui. Vado a respirare un po' di aria fresca.» Uscendo sputò il chewing-gum nel cestino dell'immondizia ed esttasse le sigarette dalla tasca. Si fermò per accenderne una, poi scomparve. «Conor.» Min si alzò e lo inseguì di corsa in corridoio, ma le porte dell'ascensore si erano già richiuse. Tornò alla scrivania del collega e si sedette. Fece scorrere nuovamente sullo schermo le fotografie del Figlio delle stelle. Si piegò in avanti. Cominciò a studiarle. Era ora di pranzo. Il suo stomaco l'avvisò, benché Min non avesse molta voglia di mangiare. Aveva comunque bisogno di una pausa. La giornata era fredda ma luminosa. Chiamò Conor al cellulare, ma trovò la segreteria telefonica. Lasciò un messaggio. «Vado a pranzare nel locale che ti piace tanto, Conor», spiegò. «Sai, quello dove le lasagne sono buone quasi come le patatine fritte. Raggiungimi, se senti questo messaggio.» Ma fu Susan Cassidy a raggiungerla mentre sedeva davanti a una ciotola di zuppa, un'insalata e alcune grosse fette di pane casereccio. «Posso?» chiese la donna e poi, senza aspettare risposta, si lasciò cadere sulla sedia accanto al tavolino e ordinò spaghetti alla bolognese. «Sono così stanca», aggiunse, e Min pensò che la cosa era evidente. Susan aveva borse scure sotto gli occhi e la sua pelle sembrava grigia. «È colpa di questo periodo dell'anno, lo odio. Ogni giorno c'è meno luce, ogni giorno ci sono più cose che mi ricordano il passato. È il momento peggiore, per me.» La cameriera posò sul tavolo un piatto di pasta. Il vapore si levava dal sugo. Susan prese la forchetta e cominciò ad arrotolarvi intorno gli spaghetti. Poi la riappoggiò sul tavolo, come se trovasse eccessivo lo sforzo richiesto dal movimento. «Non riesco a mangiare», ammise. «Provo un continuo desiderio di farlo. Mi sento affamata, ma non appena mi trovo davanti il
cibo, provo solo un senso di nausea. Stavolta è peggio del solito.» «È perché suo marito è tornato a casa? E forse sembra tutto molto più reale.» Min la osservò attentamente, aspettando la sua reazione. Susan trasse un profondo sospiro. «Forse, forse sì. Non ne sono sicura. Forse dipende da quanto è successo, dal fatto che Marianne sia morta in quel modo. Mi trovavo con i suoi genitori quando sono andati a identificare il corpo. Quando la madre di Marianne l'ha vista, ha emesso un forte gemito, facendomi pensare a un animale che affronti la morte. Sa, ho sempre desiderato di poter vedere il corpo di Owen. Pensavo che, essendo un medico e avendo già assistito a così tante morti, sarei riuscita a gestire la cosa. Ma non ne sono più così sicura.» Min fissò il suo piatto. Cercò di non ricordare. «E non capisco», continuò Susan, «non capisco cosa sia successo quella notte. Non riesco a credere che Nick c'entri qualcosa. In tutti gli anni che abbiamo trascorso insieme, lui non ha mai dato segno di essere un uomo violento. Ma chi altri avrebbe dovuto desiderare di farle del male? Marianne era una creatura innocua, patetica. Era incapace di fare del male a chicchessia, se non a se stessa. Non capisco, tutto qui.» Riprovò con il cibo, ma la forchetta le rimase sospesa davanti alla bocca prima di ricadere nel piatto. «Le spiace se le chiedo una cosa?» Min si piegò verso di lei. «Ha sicuramente saputo di questa denuncia in merito a Nick e al bambino della porta accanto. Cosa ne pensa?» Susan scosse il capo. «Anche in questo caso non riesco assolutamente a capire. Conosco Nick. So che non è un tipo del genere.» «Ma cosa mi dice di tutte le fotografie trovate nella sua sacca? Per quale motivo le aveva?» «Perché stava cercando Owen. So cosa stava facendo. L'ho fatto anch'io. Non ho scattato le foto, ma ho guardato. Sono rimasta seduta sulle spiagge della Spagna e della Grecia a osservare i bambini. Ne ho seguiti alcuni fino a casa. Sono stata tentata di rapirne altri nei parcheggi dei supermercati e nei grandi magazzini. Non può immaginare, Min, quali effetti abbia su di te una cosa del genere. Non può immaginare come si perda il contatto con la realtà. Nick ha fatto ciò che fa sempre. Studia e archivia le persone. L'ha sempre fatto. Quando eravamo studenti, quando ci siamo conosciuti, aveva sempre un blocco di carta con sé e una matita in tasca. Restava seduto tutto il pomeriggio in Stephen's Green a disegnare volti. Persino quando uscivamo insieme, lui portava con sé quel dannato blocco. Diventavo matta ve-
dendo come guardava le altre ragazze. Ma non lo faceva per i soliti motivi... be', quasi mai, almeno. Voleva semplicemente scoprire com'erano costruiti i loro visi.» «Bene.» Min giocherellò con le fettine di pomodoro nel suo piatto. «Lei può anche vederla così, Susan, ma non è così che la vedono i tizi del quartier generale che si occupano di questa roba ogni giorno. Lo giudicano il classico caso di un pedofilo che raggiunge l'orgasmo collezionando foto di bambini. Lo vedono succedere di continuo. Combacia perfettamente con lo schema.» Susan spinse via il piatto. «Non lo schema di Nick. È un collezionista, certo, ma non un pornografo o un pedofilo. So che tipi sono quelli. Di tanto in tanto ne ho incontrati, all'ospedale. E non solo in relazione ai pazienti e alle loro famiglie. Abbiamo avuto membri del personale che rientravano nella categoria. E sì, può essere difficile distinguere tra uomini che amano sinceramente i bambini e uomini che amano solo se stessi. Ma sono pronta a giurare su tutto quello che ho che Nick non è una persona del genere.» Si pulì le dita su un tovagliolino di carta. «Sa, dopo che Nick se ne andò, scendevo spesso nel seminterrato, nel suo studio. La scusa che rifilavo a me stessa era che stavo riordinando il locale. Avevo considerato l'ipotesi di affittarlo. Di liberarlo dalla presenza di Nick, se capisce cosa intendo. Restavo seduta sul suo vecchio divano e bevevo il tè, una tazza dopo l'altra, come faceva lui. Aveva una collezione di CD che ascoltava senza sosta. Uno strano miscuglio. Talking Heads, Little Feat, tutte quelle band americane decisamente alternative degli anni 70. E un sacco di jazz. Andava matto per John Coltrane. Alzavo il volume al massimo e lasciavo che la musica rimbombasse. E passavo in rassegna tutti i suoi taccuini e blocchi. C'erano centinaia, letteralmente centinaia di ritratti di Owen. Dal suo primo giorno in ospedale fino a un paio di giorni prima della sua scomparsa. All'epoca questo mi fu di grande aiuto. Mi dimostrò che esistono diversi modi di restare aggrappati a qualcuno che ami. Puoi anche non averlo più vicino fisicamente, ma nelle cianfrusaglie della nostra vita rimane una così gran parte della sua essenza.» Si alzò. «Meglio che vada. C'è una bambina che mi preoccupa molto. Quando lavoro, sto meglio. Almeno sono costantemente distratta.» «Aspetti.» Min sollevò il conto e chiamò la cameriera con un gesto. «Vengo con lei.» Cominciava già a fare buio. Gli alti edifici intorno a loro impedivano alla luce di raggiungere la strada. Susan rabbrividì e si avvolse strettamente
la sciarpa intorno al collo. Si voltarono e s'incamminarono verso l'ospedale. «È il momento del cane e del lupo», dichiarò Min, infilando le mani in tasca. «Cane e lupo?» «È un modo di dire dei francesi. Entre chien et loup. Tra cane e lupo. Lo usano per descrivere questo particolare momento della giornata, l'imbrunire. È uno dei preferiti di mia madre, secondo cui gli inverni irlandesi sono un perenne stato di cane e lupo.» «Capisco cosa vuole dire.» Susan fece un debole sorriso. Si fermarono davanti all'ingresso dell'ospedale. Susan si voltò verso Min. «Grazie di avermi ascoltato. Naturalmente so che capisce. Nick mi ha detto di suo marito. Me lo ricordo. In realtà mi piaceva. Fu molto sincero con me, cosa che apprezzai. E ho saputo che ha anche dei figli. Maschi. È fortunata.» Le tese la mano. Min la prese, la strinse e poi si allontanò. Cianfrusaglie. Si fece rotolare la parola in bocca. Che cosa le restava di Andy?, si chiese. Non molto. La maggior parte dei suoi vestiti erano finiti nel negozio di un ente benefico. C'erano alcuni libri, qualche vecchio LP, la sua auto. Andy non amava molto gli oggetti. Quando si erano conosciuti, lui viveva in un appartamento ammobiliato e gran parte di ciò che aveva accumulato intorno a sé prima di morire erano regali di Min. A parte i suoi taccuini, pensò. Erano circa duecento. Era stato molto meticoloso in proposito: su ognuno aveva segnato la data e li conservava, rigorosamente in ordine cronologico, in una scatola sotto il letto. Li aveva anche utilizzati, facendovi riferimento. «Ti stupirebbe scoprire quante informazioni contengono», affermava. «Materiale di ogni genere che all'inizio potrebbe apparire irrilevante. Ma dagli tempo. In un certo senso fermenta, ribolle finché non è pronto a risalire in superficie.» Min li aveva ancora tutti. Intendeva darli ai ragazzi quando fossero stati abbastanza grandi per decifrare la pressoché illeggibile grafia di Andy. E cos'altro diceva sempre lui, al riguardo? «Rappresentano un archivio davvero unico. Abbinali ai taccuini di ogni altro poliziotto della stazione e scoprirai ogni singola cosa avvenuta in un particolare giorno in un determinato luogo.» Salì in macchina. Prese il cellulare. Digitò il numero. Aspettò la risposta.
«Dave Hennigan? Ciao, sono io, Min Sweeney. Ascolta, mi dispiace disturbarti. So che hai già abbastanza da fare, lì, ma c'è una cosa che voglio chiederti. So che è passato parecchio tempo, ma mi stavo chiedendo se potresti aiutarmi a rintracciare alcuni degli agenti che lavoravano lì dieci anni fa.» Ascoltò. Percepì l'irritazione nella voce dell'uomo. Spiegò che cosa desiderava. Attese la risposta del collega e, sentendola, sorrise. «Okay, okay, se è questo che vuoi. Okay, farò il possibile. Quando arrivi, avrò già pronta la lista da darti. Mi procurerò nomi, indirizzi, numeri di telefono. Dopo di che sono affari tuoi. Capito?» Min capiva. La sua era una scommessa azzardata. Ma, mentre era seduta a fissare il viso di Susan Cassidy, lo aveva capito: doveva esserci una risposta da qualche parte. «Andy», disse, «so che pensi che io stia facendo la cosa giusta, vero? Meticoloso e lento. Attenzione per i dettagli. Leggere tra le righe. È questo che dicevi sempre, vero? Adesso aiutami, Andy, ti prego, aiutami.» 26 Il bambino era seduto in cima al muro e guardava Nick dall'alto. La giornata era limpida e luminosa. Le foglie dorate che cadevano dai frassini in fondo al giardino scintillavano nella luce del primo mattino. Emir indossava il solito pigiama sbiadito. In una mano stringeva un pezzo di pane tostato smangiucchiato, con l'altra si aggrappava al cemento semisbriciolato che sormontava i blocchi di granito del muro. Nick gli si avvicinò lentamente e si fermò. Gli rivolse un sorriso esitante. Il piccolo guardò giù. La sua espressione era solenne e seria. Lasciò cadere il pane e si avvicinò entrambi gli indici alla bocca, sollevando gli angoli delle labbra e scoprendo i denti, spingendo fuori la lingua e dondolando la testa da una parte all'altra con movimenti esagerati. Poi si fermò di colpo e tese le braccia, aspettando che l'uomo sollevasse le sue per tirarlo giù. Ma Nick indietreggiò. «Mi dispiace, piccolino, ma non faremo quel gioco, oggi. Né in qualsiasi altro giorno. Non puoi più venire qui. Ti conviene tornare a casa. Fa troppo freddo per restare fuori senza giacca e berretto.» Il viso del bambino si raggrinzì. Lui continuò a tendere le braccia verso Nick, le manine che ruotavano e si torcevano, invitandolo ad avvicinarsi. Ma Nick rimase al suo posto, scosse il capo e infine si girò allontanandosi. Non si voltò a guardare dietro di sé. Non vide Emir che cominciava a
piangere, le lacrime che gli colmavano silenziosamente gli occhi e gli rigavano le guance sporche, la bocca che si spalancava per la cocente disperazione. Né le mani che si allungarono verso l'alto, dietro la sua schiena, per tirarlo bruscamente giù dal muro, trascinarlo via, torcere le dita tra i suoi folti capelli e fargli lo sgambetto, tanto che il piccolo cadde a terra e rimase disteso e raggomitolato su se stesso mentre violenti pugni gli tempestavano la schiena. Anche la luce del sole creava riquadri luminosi sulla scrivania di Dave Hennigan mentre Min, seduta al suo fianco, studiava l'elenco che lui le aveva scritto. «È tutto tuo, tesoro.» Porgendole il foglio, Hennigan le sorrise con aria solidale. «Adesso puoi divertirti follemente svolgendo un po' di autentico lavoro investigativo, giusto?» Le cinse le spalle con un braccio e le diede una rapida strizzatina. «Cavoli, Dave, hai davvero un cuore d'oro.» Lei lanciò un'occhiata fugace alla lista. «Stavolta hai superato te stesso. Nomi, indirizzi e numeri di telefono. Uau. Sono davvero impressionata.» «Già, già, fammi il piacere.» Lui si fermò a guardarla. «Stai bene? Hai l'aria un po' stanca. I ragazzi ti rendono la vita difficile?» Min scosse il capo. «No, non si tratta di questo. Solo che sono oberata di lavoro. Sai com'è.» «Quindi senti la nostra mancanza, vero? Ti mancano le tazze di tè e le chiacchierate.» «Oh, certo, non c'è nulla come il tuo tè, Dave. Nessuno al quartier generale può eguagliare la tua tecnica di infusione. Dipende da come immergi la bustina di tè nella tazza, da come la tieni con i polpastrelli e la fai roteare con il cucchiaino. È questo il tuo segreto, giusto?» Lui scoppiò a ridere. «Sì, esatto, piccola. Ora vattene, alcuni di noi hanno del lavoro da fare.» Seduto sul divano, in ascolto, Nick aspettò finché non sentì chiudersi la porta d'ingresso. Si alzò e guardò fuori dalla finestra. Vide Amra con i figli, la bimba nel passeggino ed Emir che le seguiva lentamente mentre attraversavano la piazza, diretti verso la strada principale. Si allontanò dalla finestra e uscì nel giardino posteriore. Raggiunse il muro e sollevò le mani, posandole sulla sommità. Aveva già scavalcato agevolmente quel muro, prima. Recuperato il pallone di Owen innumerevoli volte. Trasferì il peso sulle braccia, spiccando un salto, le dita dei piedi che cercavano un punto
d'appoggio tra le pietre. Per un attimo rimase fermo, guardando su verso la casa, sperando che nessuno lo stesse osservando. Poi si lasciò cadere dolcemente sull'erba sottostante. Un tempo lì c'era stato un vasto orto. Hilary Goulding aveva file ordinate di lamponi e di cespugli di uva spina, lattuga e zucchine con le foglie larghe e i fiori arancioni a forma di corno francese. E, in piena estate, le dalie che coltivava amorevolmente. «Solo per divertirmi», gli aveva spiegato, la sua minuta testa da topolino che spuntava sopra il muro. «Il mio vizio, il mio omaggio alla frivolezza.» Girando il capo per ammirare i colori stravaganti, i rossi e gli arancioni, i gialli con le striature scarlatte sui petali ripiegati. «Graziose, vero?» aveva chiesto, la voce venata di malinconia, e Nick aveva annuito, e si era meravigliato della passione della donna per fiori così in contrasto con la sobrietà del resto del giardino, con i due grandi bidoni per il compost, la bordura di lavanda accuratamente potata e il sobrio utilitarismo. Ma ormai, dove un tempo erano cresciuti gli ortaggi, c'era un prato spelacchiato con un'altalena di corda e, accanto, il padiglione estivo. Nick ci si avvicinò. La porticina con il pannello di vetro era aperta. Il cardine in basso era rotto e l'uscio si era inclinato e incuneato contro il carrello di legno. Salì sulla veranda. Una sedia a sdraio ripiegata era appoggiata alla balaustra, la tela a strisce sbiadita e lacera. Guardò all'interno. Le foglie formavano un cumulo contro la parete in fondo e nell'aria aleggiava un tanfo di putrefazione. Vecchi giornali erano stati stracciati e ridotti a striscioline. Ossicini rosicchiati e masticati erano sparsi sul sudicio pavimento di legno. E c'era una vasta gamma di piume, alcune nere, altre bianche e qualcuna del grigio opaco tipico dei piccioni, la cui piccionaia si trovava due strade più giù. Un intenso odore muschiato lo fece indietreggiare. Lo riconobbe subito. Era quello della volpe. Una vecchia scatoletta di latta per il tabacco, ammaccata e arrugginita, era posata sul davanzale. Sollevò il coperchio. Conteneva un mozzicone di candela e una scatola di fiammiferi. Pericoloso, pensò, con tutti quei materiali infiammabili. Ma sicuramente divertente per qualcuno. Si voltò e tornò sul prato. Guardò verso la casa. Le finestre erano buie e vuote. Non lasciavano trapelare nulla. Rimase fermo sull'erba e cercò di ricordare. Quel giorno, dieci anni prima. All'epoca che aspetto aveva l'abitazione? Rammentò che la porta del seminterrato non era mai chiusa a chiave, che i ragazzi entravano e uscivano a loro piacimento. Ricordò le volte che aveva scavalcato il muro, chiamando Owen.
È l'ora del te, Owen. È ora di andare a letto, Owen. È arrivata la mamma, Owen. Aprendo la porta, l'odore di umidità e di fumo di carbone. Il suono della musica, musica rock, ad alto volume. Il divano sfondato su cui era steso un copriletto indiano di cotone. Chris e Marianne che, seduti, si voltavano verso di lui. Owen rannicchiato in mezzo a loro. Róisín in piedi accanto al caminetto, con un pesante secchio di carbone. Tazze con il manico rotto e il bordo sbeccato. Portacenere stracolmi. E suo figlio che diceva: «Non voglio venire a casa, babbo. Mi sto divertendo. Ti prego, babbo». Nick che vinceva le sue resistenze. Lo prendeva in braccio anche se ormai era pesante, il corpo ormai privo della classica malleabilità da bimbo piccolo. Si avvicinò rapidamente alla porta del seminterrato e provò ad abbassarne la maniglia. Era chiusa a chiave. Indietreggiò e sollevò un piede. Sferrò un calcio violento contro il battente. L'uscio vibrò e alcune piccole schegge apparvero sullo stipite. Lui trasse un bel respiro e sferrò un altro calcio. Stavolta la serratura si ruppe e la porta si aprì verso l'interno. Nick si guardò nuovamente intorno, poi entrò e se la richiuse alle spalle. Inspirò a fondo. Il cuore gli si agitava nel petto con movimenti irregolari ed esitanti, tanto che il respiro gli si bloccò in gola. Allungò una mano per reggersi al muro, sentendolo freddo e umido. La ritrasse rapidamente e se la asciugò sui jeans. Poi cominciò a percorrere lentamente il corridoio che attraversava il seminterrato silenzioso. Il suo seminterrato era stato simile a questo, quando lui e Susan si erano trasferiti nella nuova casa. Una conigliera di stanzette, fredda, umida, triste. Alloggi per la servitù, cucina, retrocucina e lavanderia all'epoca in cui gli occupanti di quelle villette venivano serviti e riveriti dai meno fortunati. Aveva abbattuto le pareti interne, aprendo il locale alla luce. Ma quello in cui si trovava adesso era buio e tetro, dominato da un forte odore di umidità e marciume. Spinse la porta più vicina. Le finestre protette da sbarre erano sudice, sul vetro erano drappeggiate ragnatele costellate di mosche morte brillanti come lustrini. Si avvicinò al caminetto. La fuliggine era caduta giù dalla canna fumaria e giaceva sul pavimento. Piccole orme l'avevano sparsa ovunque. Un materasso era appoggiato al muro. Risultò umido sotto le sue dita. Il tanfo di urina gli riempì le narici. Una coperta era gettata in un angolo. La spostò con la punta del piede e vide, sotto, un pezzo di carta. Si chinò per raccoglierlo. Sapeva cos'era. Una mano infantile aveva disegnato le figure che lo coprivano. Tratti decisi che avevano sforacchiato la carta. Lo ripiegò e lo mise in tasca. Si sedette sul davanza-
le. Cosa gli aveva detto Marianne? Urla, sangue sulle pareti, sangue sul pavimento. Ma era stata in preda alle allucinazioni, vero? Si era rivelata quasi psicotica nella sua reazione alla droga. Era stata quasi sul punto di sprofondare in abissi dai quali non esiste redenzione. Non era forse così? Susan aveva detto che Marianne non doveva portare Owen con sé quando andava a trovare i giovani Goulding. «Non è giusto, Nicky», aveva spiegato. «È fuorviante. Per entrambi. Lei è la sua bambinaia, non la sua amica. Lui è un bambino, non un adolescente alle prime esperienze.» Ma Nick aveva liquidato le sue obiezioni con un gesto. Le aveva accantonate. Rispondendo che conoscevano i Goulding da anni. I ragazzi avevano fatto da baby-sitter a Owen, Cristo santo. Lui era entrato e uscito da casa loro di continuo. Cosa c'era di diverso, adesso? E aveva vinto. Come vinceva sempre. Ma quel giorno Owen non era stato lì. Ecco cosa dicevano tutti. Tutti e quattro i ragazzi. Owen non aveva accompagnato Marianne, quel giorno. Lei era andata lì da sola. Si alzò. Aveva bisogno di sapere. Sapere qualunque cosa quell'abitazione potesse rivelargli. Aveva bisogno di sapere tutto. Si voltò e uscì in corridoio. La seconda porta era chiusa a chiave. Sollevò di nuovo il piede e sferrò un altro calcio. Il legno si scheggiò, lui diede una spallata e la porta si spalancò. La stanza era immersa nel buio. Pesanti tendaggi coprivano le finestre affacciate sul giardinetto anteriore. Allungò la mano verso l'interruttore. Il tubo al neon sul soffitto crepitò, guizzò e poi si accese di scatto, la luce che si rifletteva sulle pareti imbiancate e sul pavimento di cemento dipinto dello stesso bianco brillante. La stanza era linda, immacolata e completamente vuota. Nick rimase fermo sotto la luce a guardarsi intorno, poi uscì camminando a ritroso. Fuori c'erano le scale che portavano ai piani superiori. Le salì lentamente, sentendo le assi scricchiolargli sotto i piedi. Si fermò nell'atrio e rimase in ascolto. Silenzio assoluto. Passò di stanza in stanza, aprendo credenze, tirando cassetti, guardando sotto sedie e letti. Senza trovare nulla. La casa appariva trascurata e sudicia. Ovunque c'erano cumuli di panni sporchi, e il lezzo di sudiciume e cibo stantio che impregnava l'aria gli diede il voltastomaco. In cima alle scale c'era una cameretta angusta, simile a quella in cui aveva dormito Owen. Ma lì non c'erano giocattoli. Solo un lettino con un telo plastificato steso sul materasso e, abbandonato sul pavimento, un orsacchiotto malconcio, l'imbottitura che gli spuntava dalla testa. Si chinò
a raccoglierlo. E all'improvviso, rimbombante nel silenzio della casa, udì il rumore della porta d'ingresso che si apriva. «Amra, ci sei? Sono tornato. Ho fame. C'è qualcosa da mangiare?» Nick s'immobilizzò. Tentò di trattenere il fiato. Avvertì le pulsazioni accelerare freneticamente e il battito cardiaco farsi più concitato. «Amra, non dirmi che sei ancora a letto. Alzati, lurida pigrona.» Passi sulle scale. Passi che correvano nella camera sul davanti della casa, poi tornavano indietro ed entravano in cucina. Un rubinetto aperto, acqua che scrosciava nel lavandino. La radio. Musica ad alto volume. E qualcuno che fischiettava. Nick cominciò a muoversi cautamente, un lento passo dopo l'altro, scendendo di piano in piano. Davanti a sé vide la porta d'ingresso ma, proprio mentre stava per incamminarsi in quella direzione, Chris uscì dalla cucina, una tazza fumante stretta in mano. Nick si appiattì contro la parete e aspettò, scorgendo a stento il giovane che passava oltre ed entrava nella stanza sul davanti. Serrò le mani a pugno e cercò di placare il panico nel suo petto. Aspettò un attimo, poi scese rapidamente il resto dei gradini due alla volta e svoltò per tornare nel seminterrato. Le assi di legno gli scricchiolarono rumorosamente sotto i piedi tanto che, quando arrivò in fondo alle scale, sentì la voce che chiamava di nuovo. «Chi è? C'è qualcuno?» La sentì farsi sempre più forte. «Emir, sei tu? Sei là sotto? Vieni su. Subito.» Rabbia. Impazienza. Nick si fece piccino e s'infilò nello spazio sotto le scale. Cercò di trattenere il fiato. Dei passi, adesso, proprio sopra la sua testa, talmente vicini che riuscì a distinguere il legno che cedeva sotto il peso del corpo di Chris. Indietreggiò, addossandosi il più possibile alla parete. E intanto udiva la voce di Chris, stridente, chiedere: «C'è qualcuno? Chi è?» Lo sentì raggiungere la porta che dava sull'esterno. Lo sentì imprecare quando la aprì e la serratura cadde sul pavimento, inutilizzabile. Lo sentì sbatterla e udì il suono dei chiavistelli che venivano tirati, sopra e sotto. Gli arrivò di nuovo quel rumore, comprese che Chris passava di stanza in stanza per sbirciare rapidamente all'interno mentre Nick si scostava, chiudendo gli occhi. Sollecitandolo mentalmente a non vederlo. Finché, finalmente, non ne colse lo scalpiccio sulle scale, il suono che si affievoliva a mano a mano che Chris tornava al piano di sopra. Esalò violentemente. Si piegò in avanti, la testa bassa, in preda alle vertigini, alla nausea. Sentì la porta d'ingresso che si apriva per poi richiudersi
violentemente, e un brusio di voci. Si affrettò a uscire dal suo nascondiglio, aprendo i chiavistelli e poi sgusciando in giardino. Appiattendosi contro il lato della casa nel dirigersi verso il muro divisorio. Scavalcandolo goffamente, senza mai voltarsi a guardare, lasciandosi cadere nella sicurezza del proprio giardino. Rientrando di soppiatto nel proprio seminterrato. Ansimando per riprendere fiato, intontito dal sollievo mentre si sedeva. Posò la testa sul tavolo della cucina, chiuse gli occhi, aspettò che il ritmo respiratorio rallentasse e che il cuore smettesse di martellare orribilmente. Aspettò che tornassero la calma e la quiete. Nell'ufficio regnava il silenzio. Una volta tanto, Min era sola. Chiamò le persone segnate sull'elenco. Dave era stato meticoloso. Tutti i venti nomi che le aveva fornito avevano il numero di telefono indicato. Dieci di loro erano in pensione, ormai. Appassionati golfisti e agricoltori part-time. Lasciò messaggi su segreterie telefoniche e alle mogli. Gli uomini ancora in servizio si dimostrarono pronti ad aiutarla, benché scettici riguardo all'incombenza che si era assunta. «Abbiamo esaminato tutto quel materiale anni fa, Min», dichiararono. «Abbiamo controllato qualunque cosa valesse la pena di essere controllata, lo sai. Certo, non hai forse preso parte all'indagine iniziale? E c'era anche tuo marito. Se ci fosse stato qualcosa da trovare, lui l'avrebbe sicuramente trovato.» Volevano tutti parlare di Andy. Raccontarle aneddoti che, in alcuni casi, avrebbe preferito non sentire. Telefonò a casa durante il pomeriggio. Era tutto a posto. La voce di Vika suonò insolitamente allegra e vivace. «Oggi qui va tutto bene, Minuschka. Ragazzi felici, sole brilla, anche Vika felice.» «E dimmi, ti sei divertita ieri sera?» «L'hai detto, Minuschka, un vero spasso.» «È magnifico, ma ascoltami, Vika, in futuro, quando torni a casa tardi, assicurati di mettere la catenella alla porta, d'accordo? E ricordati anche d'inserire l'allarme. Okay? Non si sa mai.» Non si sa mai che cosa?, si chiese, rispondendosi da sola. Non si sa mai. «Certo, certo, Min, come vuoi. Oh, senti, un uomo ti telefona giusto mezz'ora fa. Dice suo nome è Paddy O'Higgins. Lui amico di tuo marito. Dice tu telefoni casa sua. Dice tu lo richiami. Pensa di avere qualcosa per te. Lascia numero di cellulare. Hai una penna?»
Paddy O'Higgins. Aveva lavorato nella sezione traffico. Un poliziotto in motocicletta. Qualche anno prima era rimasto coinvolto in un grave incidente mentre inseguiva una banda che aveva appena svaligiato un ufficio postale. Era il giorno in cui andavano versati gli assegni per il mantenimento dei figli, il posto era pieno di donne e bambini. A cui si erano aggiunti due tizi con passamontagna e fucile a canne mozze. O'Higgins si era schiantato ad alta velocità sulla doppia carreggiata. Fratturandosi entrambe le gambe e la pelvi. Un vero casino. Adesso gestiva un bed and breakfast con la moglie Nancy. Da qualche parte nel Wexford. O'Higgins le rispose subito. In tono vivace. «Credo di avere qualcosa per te, Min. Ascolta la storia e, se pensi possa esserti utile, ti spedirò il taccuino per posta celere.» Lei ascoltò. Prese appunti. 31 ottobre 1991. 16.35. Incidente all'incrocio tra Marine Road e Sea Road. Pedone, donna, investita da un veicolo che viaggiava ad alta velocità. Il veicolo, una BMW (?), non si ferma. Ambulanza chiamata alle 16.40. Vittima: signora Annie Molloy, 82 anni, 16 Rollins Villas, Sallynoggin. Informazioni sull'auto pirata inoltrate alla polizia stradale. L'anziana donna colpita da attacco cardiaco. Assistenza fornita da William Metcalfe, 28 Moorview Avenue, Bradford, Yorkshire. Vittima trasportata all'ospedale St. Michael's alle 16.58. «Cos'è successo al guidatore dell'auto, Paddy? Chi era?» «Un ragazzo che abitava negli appartamenti di Dolphin House. Mick Burke, sedici anni, mentre il passeggero era un diciassettenne di nome Damien Smith. Rimasero entrambi uccisi circa un'ora più tardi. Collisione con un autoarticolato sulla Arklow Road.» «Quindi non c'era alcun legame diretto con i Cassidy?» «Nessuno, in caso contrario lo avremmo già controllato. Comunque non si può mai sapere. È una faccenda a cui non ripensavo da anni. Avvisami se fa affiorare qualche elemento utile, d'accordo?» Lei abbassò lo sguardo sul taccuino. Sospirò. Non si aspettava grossi risultati, ma era l'unico particolare minimamente interessante in cui si fosse imbattuta fino a quel momento. La porta dell'ufficio si spalancò e si richiuse con un tonfo. Min alzò gli occhi. Conor era in piedi davanti a lei. «Ehi, come stai?» Lei sorrise. «Bene, e tu?» Lui si tolse la giacca e si sedette. Ci fu un attimo di silenzio imbarazzato, poi cominciarono a parlare tutti e due contemporaneamente.
«Senti», cominciò a dire lei. «Ascolta», iniziò lui. Scoppiarono a ridere. «Prima le signore», dichiarò Conor, dondolandosi all'indietro sulla sedia. «Io stavo per dire: 'Prima la spazzatura da buttare', ma visto che la metti sul raffinato...» Esitò. «Volevo solo dire che mi dispiace di averti ferito, ieri.» «No.» Lui scosse il capo. «Dispiace a me di aver esagerato così. Non so come mai ho reagito in quel modo. Probabilmente hai ragione. Passo troppo tempo qui. Dovrei uscire di più.» «Già, be', comunque sia.» Min riabbassò gli occhi sull'elenco. «Senti, ti andrebbe di farmi un favore? Io devo andare, stasera i ragazzi partecipano a una parata di Halloween a scuola ed è richiesta la mia presenza. Quindi potresti controllare un paio di tizi? Probabilmente è del tutto inutile, ma non abbiamo niente da perdere.» Sottolineò i nomi sul suo taccuino e glielo passò. «Ci sto.» Conor posò le mani sulla tastiera del computer. «Le mie magiche dita sono a tua completa disposizione, Ti chiamo più tardi, se scopro qualcosa di interessante. Oh, e domani portami un sacchetto di dolciumi e noccioline, okay?» Min si alzò e si mise la borsetta a tracolla. «Contaci. Ti terrò da parte le leccornie migliori.» Si girò a guardarlo quando arrivò alla porta. Era chino sulla sua scrivania, le gambe avvolte intorno a quelle della poltroncina girevole. Stava canticchiando a bocca chiusa un motivetto monotono. Sollevò una mano e, senza guardare Min, la salutò e la congedò. Lei uscì. Era una bella giornata di sole, il 31 ottobre 1991. Stranamente calda. Le foglie cadevano dagli alberi creando un delicato motivo rosso, oro e arancione sui marciapiedi. Una giornata abbastanza bella perché l'ottantaduenne Annie Molloy prendesse l'autobus per scendere la collina fino a Dún Laoghaire e fare la spesa. Di solito sua nipote Stacy arrivava con la sua piccola auto rossa, prendeva la lista e andava al supermarket al posto suo. Ma Stacy non l'ascoltava mai quando Annie le spiegava che le piaceva il tè sciolto e non in bustine, e il latte intero invece di quella roba a basso contenuto di grassi. E dimenticava sempre di comprarle i pacchetti di pasticche alla menta che le ricordavano i vecchi tempi, quando in città circolavano ancora i tram e i taxi trainati da cavalli si allineavano accanto al molo
orientale aspettando i passeggeri scesi dal battello postale. Inoltre, voleva ritirare la pensione all'ufficio postale in fondo a Marine Road. Una chance per vedere chi andava ancora a incassarla di persona. Quel giorno fece molta attenzione nell'attraversare la strada. Aspettò al semaforo finché non comparve l'omino verde e iniziò a risuonare il bip, e solo a quel punto scese dal marciapiede. Non vide arrivare la macchina. Udì soltanto lo stridore dei freni mentre la vettura cercava di fermarsi e sentì l'impatto del colpo fulmineo che la fece piroettare su se stessa e piombare con l'anca sulla strada. Non sapeva bene cosa fosse successo in seguito. Ma c'era un poliziotto chino su di lei, un poliziotto con un casco da motociclista e una pesante giacca di pelle. Che le chiedeva nome e indirizzo. Che parlava nella ricetrasmittente. Che chiamava un'ambulanza. E un capannello di gente. Qualcuno si tolse il cappotto e lo ripiegò ricavandone un cuscino per la sua testa. E qualcun altro raccolse la sua borsetta e promise di tenerla d'occhio. Poi Annie cominciò a sentirsi malissimo. Un improvviso dolore lancinante al braccio sinistro e al petto. Senza fiato, spaventata. Tese una mano verso l'alto per stringere quella del poliziotto, vedendo macchie nere davanti agli occhi mentre quel dolore atroce le spaccava in due il torace. Quindi il panico. Il poliziotto le s'inginocchia accanto. Le afferra il polso. Controlla le pulsazioni. Tenta di metterla seduta. Cerca aiuto tra la folla circostante. Sente una voce. Un accento inglese. «Hai bisogno di una mano, amico? La signora sta bene?» Alza gli occhi. Un uomo si accovaccia accanto all'anziana donna. Le posa indice e medio sul collo. S'inginocchia e le preme l'orecchio sul petto. Riporta il peso sui talloni e le tiene aperta la bocca mentre le tappa il naso. «Ora», dice, «quando comincio a contare.» L'agente si piega sopra di lei. Aspetta. «Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, pausa.» Il poliziotto preme energicamente e ritmicamente sul cappotto invernale dell'anziana signora. L'uomo si china sopra di lei e le soffia aria nei polmoni. «Ora di nuovo: uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette. Pausa.» Lui soffia di nuovo, ancora e ancora, finché il viso della donna non riprende miracolosamente colore, i suoi occhi si aprono, lei ansima, si rianima. In seguito, quando l'ambulanza la porta via, l'agente si ritolge allo sconosciuto. «Ottimo lavoro, grazie, è stato magnifico», gli dice. Estrae il taccuino. «Come si chiama e da dove viene?»
«Metcalfe, William Metcalfe. Abito a Bradford, nello Yorkshire, al 28 di Moorview Avenue. Però senta, rischio di perdere il traghetto, devo andare.» «Aspetti.» Il poliziotto solleva la radiotrasmittente e pronuncia rapidamente qualche parola. «È tutto a posto, la aspetteranno. Chi semina raccoglie.» Sorride. Anche Metcalfe sorride e gli rivolge il saluto militare, le due dita accostate che si posano sull'immaginaria visiera di un berretto. Raccoglie la sua sacca da viaggio. «Non ho fatto niente di speciale, amico. Lo s'impara nei boy scout.» Si gira e s'incammina verso il terminal del traghetto. «Boy scout.» La voce di Conor suonò acida, al telefono. «Era un capo dei boy scout. E pure un fottuto bastardo. Sei mesi dopo, venne incriminato e giudicato colpevole di cinquantadue capi d'accusa di sodomia, stupro e atti osceni. Fu condannato a dieci anni di reclusione.» Era tardi quando lui la chiamò. Min stava giusto per andare a letto. C'erano stati lacrime e capricci quando aveva riportato a casa i ragazzi. Era stata sul punto di perdere la calma. I due fratelli avevano litigato su tutto. Joe aveva dichiarato iniqua la spartizione del bottino. Era stata necessaria tutta la sua abilità di negoziatrice per sottrarre a Jim i sacchetti di noccioline extra e dividerli in due parti. Adesso era seduta accanto al fuoco morente, con una tazza di tè. «Ripetimi tutto da capo, Conor. L'uomo che ha fatto la respirazione bocca a bocca all'anziana signora è stato condannato per sodomia, stupro e atti osceni. E rinchiuso in prigione. Lo stesso uomo che si trovava a Dún Laoghaire il giorno in cui Owen Cassidy è scomparso.» «Esatto. È questo che è successo.» «E noi non lo sapevamo? Com'è possibile?» «Be', perché avremmo dovuto? Non avevamo alcun motivo per collegare un incidente stradale di scarso rilievo avvenuto a Dún Laoghaire quel giorno con qualcuno che, dopo tutto, qui non è stato accusato di alcun reato né condannato per alcun crimine. Non avevamo motivo di saperlo.» «Allora cosa sappiamo, adesso? In quale prigione si trova? Secondo te, possiamo incontrarlo?» «Be', questo è un po' un problema. Era rinchiuso in un carcere appena fuori Manchester. Un carcere di massima sicurezza, con un sacco di reclusi condannati a lunghe pene. Ma non è più lì. È stato aggredito da un altro
detenuto ed è morto nel giugno del '98.» Min sorseggiò il tè. «Chi lo ha ucciso? È stato un omicidio puramente casuale?» «Be', nessuno ha mai appurato con sicurezza quale fosse il movente. Stasera ho parlato con il vicedirettore. Mi ha detto che sanno benissimo chi lo ha ucciso. È questa la cosa interessante. È stato un prigioniero irlandese, un certo Colm O Laoire, per usare lo spelling irlandese. Quel povero inglese non riusciva a pronunciarlo correttamente. Comunque non ci sono stati testimoni. Be', a quanto pare, era presente un tizio che però non ha voluto aprire bocca. Quindi non sono riusciti a ottenere un'incriminazione o una condanna.» «E questo O Laoire si trova ancora in prigione?» «Puoi starne certa. È stato condannato per l'omicidio della moglie. Ha ancora parecchi anni da scontare.» «Quindi cosa dovremmo fare? Andare a trovarlo?» La voce di Min era aumentata di volume per l'eccitazione. «Sì, credo che una visita sarebbe opportuna. Farò qualche altra ricerca per vedere cosa posso scoprire sul signor Metcalfe. Domattina, per prima cosa, chiama la prigione per sistemare i dettagli. Ti lascerò tutti i numeri sulla scrivania. E, ascolta, se vuoi, posso venire con te.» Fece un sonoro sbadiglio. «Sono distrutto. Nel frattempo, se hai bisogno di me, mi trovi sul cellulare. Okay?» «Certo.» «E, senti, Min, ottimo lavoro. Buonanotte.» Lei rimase seduta accanto al fuoco finché non cominciò a battere i denti. Poi salì in camera. Quelle erano le occasioni in cui trovava davvero penoso non avere nessuno con cui condividere l'eccitazione. «Andy», disse ad alta voce. «Cosa ne pensi? Secondo te, abbiamo scoperto qualcosa di importante? Credi che siamo sulla buona strada? Sei fiero di me? Andy, dimmelo.» Ma gli unici suoni che sentì furono il fruscio del vento tra gli alberi e l'acuto lamento dell'antifurto di un'auto, due strade più in là. 27 Nick si svegliò. C'era buio. Era sdraiato su un fianco, le mani infilate tra le cosce. Era nudo. Alcune parole gli stavano sfrecciando nella mente. Un tempo erano state accompagnate dalla musica, ma ora non più.
Il dolore per il peccato strazia dall'interno il cuore colpevole. Le cantava sua madre, che aveva fatto parte di un coro quando lui era adolescente. Un primo passo sulla strada che le avrebbe permesso di riappropriarsi della sua vita, consacrata a marito e figli, dichiarava lei. Aveva un disco. Kathleen Ferrier che cantava alcune arie di Bach. La Passione secondo san Matteo, la Passione secondo san Giovanni, la Messa in si minore. Lo ascoltava di continuo, e cantava. Cercando di padroneggiare il fraseggio, la tonalità, il timbro vocale. Chiedendo: «Ascolta, Nick, non è magnifico?», mentre lui si limitava a grugnire e a concentrare la sua attenzione sulla cena. Si spostò e mosse le gambe. Allungò una mano. Accanto a lui, il letto era vuoto. Ricordò. Avevano bevuto una seconda bottiglia di vino. Poi Susan aveva trovato una bottiglia di Calvados in un pensile. Avevano parlato e riso. Si erano sentiti felici. Lui l'aveva baciata. L'aveva fatta sedere sul proprio ginocchio. Lei gli aveva posato la testa sulla spalla. Lui aveva sentito il suo calore. Le aveva toccato il seno. Lei gli aveva infilato una mano sotto la camicia per carezzargli lo stomaco. Lo aveva abbracciato e poi avevano salito le scale insieme. Erano rimasti fermi uno di fronte all'altra, accanto al letto, e lui le aveva appoggiato le mani sulle spalle. Si erano baciati di nuovo. Lei aveva lo stesso gusto. La sua pelle era sempre la stessa. Lui l'aveva attirata a sé, premendosi contro il suo corpo. Si era sentito al sicuro, finalmente. Poi lei si era ritratta. Gli aveva inveito contro. Come poteva farle una cosa simile? Chi si credeva di essere? Per chi la prendeva? Pensava che un paio di bottiglie di vino in memoria dei bei vecchi tempi potessero sistemare tutto? Era indietreggiata, le mani strette a pugno, le lacrime che le scorrevano copiose sulle guance. Gli aveva gridato di andarsene e lasciarla in pace. Si era precipitata fuori dalla camera ed era corsa giù per le scale, spalancando la porta d'ingresso e richiudendosela con forza alle spalle. Per un po' lui era rimasto paralizzato. Incapace di muoversi. Poi era sceso in cucina. Aveva lavato e messo via i piatti. Pulito il tavolo. Spazzato il pavimento. Tratto una certa consolazione da quelle mansioni semplici, di routine. Aveva sentito la porta che si apriva. E visto Susan in piedi nell'atrio. Aveva il viso bianchissimo. Le mani fredde. Ma la sua voce era risuonata quieta e ferma.
«Rimani con me stanotte, Nick. Voglio che tu rimanga. Vieni di sopra con me, adesso. Ti voglio qui con me. Ho bisogno di te. Qualunque cosa sia successa in passato, adesso ho bisogno di te.» Si era addormentata non appena aveva chiuso gli occhi. Nick era rimasto sdraiato al suo fianco e aveva ascoltato il suono del suo respiro. Poi anche lui si era addormentato. E si era svegliato qualche tempo dopo. Susan gli aveva accostato la schiena al petto ed erano rimasti sdraiati così, a cucchiaio. Lui le aveva scostato i capelli e l'aveva baciata alla base della nuca. Lei gli aveva preso la mano e se l'era posata sul seno e aveva passato la pianta del piede destro sul collo del piede di lui. Poi avevano dormito ancora. Adesso la porta della camera si aprì. Nick si girò. «È ancora presto ma devo andare. Ti ho portato il tè.» Susan era in tenuta da lavoro. Nick si mise seduto e lei gli si sedette accanto. Gli passò la tazza. Lui sorseggiò con cautela. «Stasera tornerò verso le sei. Ti troverò qui?» Nick annuì. «Bene, così parleremo ancora.» Susan gli baciò una guancia. Odorava di dentifricio. Si alzò. Si lisciò la gonna. «Susan.» Lui la guardò. «Ti amo.» «Davvero?» Lei si allontanò e si voltò a guardarlo. Sorrise. Lui sentì i suoi passi sulle scale e la porta d'ingresso che si chiudeva. Scese dal letto e andò alla finestra. Tutt'attorno nella piazza le luci erano accese. I residenti stavano facendo colazione. I bambini si preparavano per la scuola, i genitori per il lavoro. Le porte d'ingresso si aprivano e si richiudevano con un tonfo al momento dei saluti. Le automobili si staccavano lentamente dal marciapiede per formare una lenta fiumana diretta verso la strada principale. Osservò alcuni dei ragazzi più grandi prendere una scorciatoia attraverso i giardini pubblici. Si fermarono a fissare il falò. Li guardò accendersi furtivamente una sigaretta, riparandosi la bocca a vicenda con le mani messe a coppa, mentre ciondolavano, chiamando la ragazza che stava uscendo dalla grande casa all'angolo. Era alta, con le gambe lunghe, molto carina con la gonna scozzese della scuola e l'informe impermeabile verde. Stava ridendo e flirtando con loro, sfilandosi la cintura e facendola schioccare verso gli altri due come un lungo frustino, scappando con simulato terrore dopo averli colpiti dietro le gambe. Mentre si dirigevano verso il cancello, Nick sentì un grido e vide Chris scendere i gradini di casa, chiamandoli per nome e correndo sul marciapiede per raggiunger-
li. Guardò come la fanciulla si voltava per salutarlo, come i ragazzi assumevano un atteggiamento deferente nei suoi confronti, come formavano un capannello per pochi istanti, le braccia di Chris protese, posate sulla spalla della ragazza e del più basso dei due ragazzi. Finché tutti non si voltarono e s'incamminarono, i ragazzi verso la loro scuola, Chris e la ragazza verso la scorciatoia tra le abitazioni per la strada più alta che portava a Laurel Park. Un tempo c'erano stati terreni boschivi che coprivano l'ampia vallata e si arrampicavano sulle dolci, basse colline sul versante meridionale delle montagne di Dublino. Un tempo c'erano state eleganti ville di campagna sparse tra i campi e circondate da ampi giardini, dove gli uomini avevano sgobbato estate e inverno per rifornire i loro datori di lavoro di fiori recisi, frutta e verdura. Un tempo c'erano stati campi da tennis, da croquet e da cricket. Adesso invece c'erano strade e centri commerciali, stazioni di servizio e edicole, fermate d'autobus e passaggi pedonali, scuole e abitazioni. E ovunque case, lunghe file sinuose che si allargavano a macchia d'olio, inghiottendo ogni spazio verde con i loro cortili interni e le rimesse, i garage e i fili per il bucato. Laddove un tempo c'erano stati boschetti di faggi e querce, frassini e olmi. C'era un sentiero che correva dietro la scuola. Poche persone lo conoscevano e ancor meno lo usavano, ormai. L'entrata era parzialmente ostruita da una sottostazione elettrica, recintata con filo spinato e cartelli. Era stato un viottolo pubblico, una scorciatoia tra un piccolo villaggio e quello successivo all'epoca in cui la gente si spostava a piedi e in bicicletta. Ormai era bloccato in diversi punti, brutte barricate di cemento coperte di graffiti e insozzate da escrementi e rifiuti scaricati con indifferenza al di sopra di muretti posteriori. Soltanto dietro la scuola mostrava ancora qualche traccia della quiete e della tranquillità dei tempi andati. Una siepe - in estate un intrico di caprifoglio, rose selvatiche e more di rovo ma ormai rinsecchita per colpa dell'inverno - lo separava dal parco giochi. Lungo il suo perimetro erano ancora visibili alcune vestigia del bosco. Un enorme faggio rosso protendeva i rami grigio argento formando un'ampia cupola e lì accanto spiccava una macchia di tigli, i nidi degli uccelli chiaramente visibili ma al momento vuoti fino all'estate. Un tempo Laurel Park aveva vantato un giardino formale, con siepi di bosso ornamentali accuratamente potate e ampi sentieri ghiaiosi e ordinati su cui si passava regolarmente il rastrello. Ormai era tutto macadam al ca-
trame. Negli ultimi anni la scuola si era ampliata e aveva fagocitato, come un'ameba, le case su entrambi i lati dell'edificio originario. Gli alti muri che avevano separato un giardino dall'altro erano spariti. Nick si alzò in punta di piedi e si guardò intorno. Gli antichi edifici annessi, probabilmente scuderie, erano stati trasformati in piccole aule. E su un lato spiccava un lungo e basso edificio con grandi finestre di vetro smerigliato. Immaginò che si trattasse di una piscina coperta. Sentiva lo sciabordio di gente che sguazzava e le voci delle ragazze che strillavano di piacere. Si era a metà mattinata e l'attività scolastica era in pieno svolgimento. Chris Goulding era chiaramente visibile. Fermo a un'estremità dell'aula, stringeva un libro in una mano e quello che sembrava un gessetto nell'altra. Si voltò per scrivere qualcosa sulla lavagna, poi cominciò ad aggirarsi per la stanza, fermandosi di tanto in tanto per rivolgersi a una o all'altra delle allieve. Sembrava animato, il suo viso magro espressivo, assorto. Le alunne davano l'impressione di pendere dalle sue labbra. Le mani si alzavano di scatto per offrire opinioni, le ragazze quasi in piedi. Chris stava ridendo, divertendosi. I suoi gesti apparivano stravaganti e teatrali. Si avvicinò alla finestra, si fermò e guardò fuori. E notò Nick in piedi nel vialetto, sotto gli alberi. Nick vide la sorpresa sul viso del giovane, l'espressione improvvisamente preoccupata, ansiosa. Vide il modo in cui l'altro indietreggiò, scostandosi dal vetro, come se in un certo senso non fosse più sicuro che esistesse una barriera tra se stesso e il mondo esterno. Vide, tutt'a un tratto, che Chris aveva paura. Alzò una mano e lo salutò. Rimase a guardare, in attesa. Poi si voltò e si allontanò rapidamente. Conor e Min erano fermi davanti alla prigione. Era primo pomeriggio. Un'ora e mezzo prima, appena arrivati da Dublino, si erano ritrovati bloccati nel traffico sulla strada dell'aeroporto. «Strano, vero?» Min si tolse la sciarpa. «L'impero britannico.» «Cosa intendi dire?» Conor la fissò. «Be', prendi questa, questa orrenda e gigantesca carcassa.» Indicò il massiccio cancello di legno del carcere e le due torrette di guardia in muratura. «È il ritratto sputato del penitenziario Mountjoy di Dublino. Non è difficile immaginare tutti quei funzionari statali seduti a Londra, a metà del diciannovesimo secolo, con i loro colletti dalle punte ripiegate e i loro completi gessati, intenti a disegnare i progetti per prigioni e tribunali, stazioni ferroviarie e palazzi municipali. Spedendoli poi in ogni angolo del mondo conosciuto, in tutte quelle grandi chiazze rosa che compaiono sugli
antichi atlanti geografici. Un progetto e un sistema. E, di riffa o di raffa, sarebbero riusciti a far apparire tutto perfettamente identico, da Nuova Delhi a Dublino.» «Già, be', non so l'esterno, ma l'interno di questa prigione non è sopravvissuto. È stato completamente ricostruito negli ultimi anni.» «Oh, sì, giusto. Hanno dovuto affrontare una sommossa, vero?» «Sul loro sito web la definiscono 'disordini'. Ricorda un po' la nostra abitudine di chiamare la seconda guerra mondiale 'l'emergenza'.» «Oppure 'problemi' la guerra civile su a nord. Gli eufemismi sono una gran cosa, vero?» E Min gli sorrise. «Allora, sei pronta?» chiese lui, facendo un passo in avanti. L'aveva ragguagliata su Metcalfe durante il volo. L'uomo era stato sposato, con due figli. Aveva lavorato come carpentiere. In proprio. Costruiva cucine componibili e mensole, ristrutturava piccole soffitte, quel genere di cose. Aveva viaggiato parecchio. Per un po' aveva vissuto in Belgio e nei Paesi Bassi. Aveva la fedina penale sporca ancor prima di compiere venticinque anni. Aveva cominciato con qualche amoreggiamento durante l'adolescenza, ragazzini più giovani e vulnerabili di lui. In seguito, però, le cose si erano fatte più serie. Alla fine, non molto tempo dopo la sua visita a Dublino, era stato arrestato per lo stupro di tre ragazzi. Erano solo la punta dell'iceberg. Un sacco di altri giovani si erano fatti avanti. E le fotografie di alcuni di loro erano state identificate su Internet. Facevano parte del bottino sequestrato a uno dei gruppi perseguiti in Inghilterra l'anno precedente. «Quindi puoi benissimo capire come mai io sia così interessato», aveva dichiarato Conor mentre spazzolava via il pranzo offerto sull'aereo. Si erano messi d'accordo. Min sarebbe andata a trovare Colm O Laoire e intanto lui avrebbe interrogato alcuni degli altri detenuti condannati per reati a sfondo sessuale, quelli con cui Metcalfe era stato maggiormente in contatto. «Per te va bene?» aveva chiesto Conor. «È perfetto», aveva risposto lei. «Divertiti.» Nel passare dalla zona reception al parlatorio, la guardia carceraria informò Min. «O'Leary», disse, enfatizzando l'anglicizzazione del cognome. «O'Leary, ecco come lo chiamiamo. Semplice e carino. Senza i vostri fantasiosi fronzoli gaelici. Colm O'Leary, cinquant'anni. Accusato di aver ucciso la mo-
glie dodici anni fa. Condannato all'ergastolo, con la raccomandazione che sconti non meno di vent'anni.» «Una pena severa. In Irlanda scontare più di dodici anni per un omicidio sarebbe insolito.» «Davvero?» La guardia la fissò. «Be', allora forse O'Leary avrebbe dovuto ucciderla in Irlanda, invece che a Londra. O forse non avrebbe dovuto farle quello che le ha fatto, dopo tutto. Forse, quando ha scoperto che lei se la intendeva con un altro, avrebbe dovuto chiudere lì la faccenda e tornarsene nell'imprecisata fogna da cui era venuto.» Min non replicò. Ma aveva letto la descrizione nel fascicolo di O Laoire. Lui aveva legato la moglie, l'aveva imprigionata al letto e poi le aveva dato fuoco. Dopo che era morta l'aveva slegata, aveva dichiarato che era stato un incidente, che una sigaretta era caduta sulle lenzuola. L'autopsia, però, aveva rivelato le abrasioni lasciate dalla corda sui polsi e le caviglie della vittima. E lui aveva usato il profumo della donna per rendere più rapido il tutto. L'odore che aleggiava nella prigione era fortissimo. Un misto di cavolo bollito e urina. Min sentì il cibo appena ingerito risalirle in gola. Deglutì a fatica e tenne gli occhi fissi sul linoleum decorato sotto i suoi piedi. «Allora, cos'è successo con Metcalfe?» Si fermarono mentre il secondino apriva l'ennesima serie di porte prima di indietreggiare per lasciarla passare. La folla di uomini in attesa sul lato opposto si allontanò con riluttanza. Lei riuscì a sentirne i commenti. La solita roba. Anni prima, per un certo periodo aveva scortato detenuti. Le prime due volte aveva trovato spaventosa la disperazione, ma ben presto tutto era diventato semplice routine. «Bene, vediamo. William Metcalfe. Altra canaglia. Non sappiamo esattamente cosa sia successo, ma sia Metcalfe che O'Leary si trovavano nell'ala infermeria. Era domenica, personale ridotto al minimo, e tutti stavano guardando una partita in TV. Manchester United contro Sunderland o roba simile. Comunque, all'improvviso c'è trambusto e un altro detenuto entra di corsa nella stanza dei secondini per dire che Metcalfe si è suicidato. Quando l'hanno trovato, Metcalfe aveva la gola tagliata e un pezzo di vetro in mano. Sangue dappertutto, un vero casino. E O'Leary era seduto sul suo letto, quello accanto, e stava leggendo un libro. Imperturbabile, non alzò nemmeno gli occhi, disse che non aveva visto niente, non sapeva niente, non aveva sentito niente. E questo è quanto. L'unico altro testimone era il tizio che aveva dato l'allarme ma che ormai era ridotto a un idiota farfu-
gliante e sosteneva di non sapere niente nemmeno lui. Però, sa, le probabilità che qualcuno si uccida tagliandosi la gola sono circa di una contro un milione. Non succede, semplicemente.» Di nuovo la pausa, mentre l'uomo apriva un'altra porta a sbarre. «Comunque, è tutto suo. Entri pure.» Le indicò la stanzetta in fondo al corridoio. «Vado a prenderlo e poi lo accompagno da lei. Dubito che avrà molto da dire. Non lo fa mai. È un tipo taciturno, il suo O'Leary.» Un ometto basso, taciturno, snello come un levriero, smilzo, sciupato. Il tipo che si può vedere su un peschereccio, impegnato a ritirare le reti in una burrascosa giornata novembrina, una sigaretta ficcata nell'angolo della bocca e gli occhi socchiusi per resistere al vento pungente. Si fermò appena dentro la stanza e guardò Min. Non aprì bocca. Lei si alzò e gli tese la mano. L'uomo non diede segno di volerla stringere. La guardia carceraria, dietro di lui, gli diede una spinta nelle reni. «Un po' di educazione, O'Leary. Stringi la mano della signora, da bravo. È venuta fin qui dall'Irlanda solo per parlare con te.» Lei estrasse un pacchetto di sigarette dalla borsa. «Le prenda. Omaggio dello Stato irlandese.» «Go raibh math agat.» L'uomo si chinò in avanti e le prese, poi si sedette e tolse il cellofan dal pacchetto. «Ná bach», rispose lei, mentre lo guardava ridurlo a una pallina elastica. Le unghie dell'uomo erano scanalate, ingiallite dalla nicotina. Vene azzurrine e gonfie gli spiccavano sul dorso delle mani. «Oh, molto furbo, parlare in gaelico.» Il secondino si grattò il mento, con un suono stridente. «Qui dentro non hai molte occasioni di fare pratica, vero, irlandese?» O Laoire estrasse una scatola di fiammiferi dalla tasca dei pantaloni. I suoi movimenti erano lenti e deliberati. Si chinò in avanti per accostare la punta della sigaretta alla fiammella. Min notò la cicatrice rosa chiaro, raggrinzita e sinuosa, che gli sfigurava la guancia sinistra. «Un piccolo guaio?» Cercò le parole irlandesi mentre indicava il viso dell'uomo. «Una discussione con un rasoio e il tizio che lo impugnava. Niente di che. Dovrebbe vedere come è ridotto lui.» O Laoire le rispose in modo rapido, fluente. «Oh, che bello. Stiamo facendo una chiacchieratina privata, giusto? Davvero educato.» La guardia osservò Min con la disapprovazione stampata sul viso arcigno.
«Lo ignori e se ne andrà, svanirà come la nebbia mattutina sul versante della collina.» O Laoire le sorrise da dietro il fumo di sigaretta. «È quello che faccio io, almeno.» Lei si appoggiò allo schienale della sedia e lo guardò. Era seduto perfettamente immobile, le braccia conserte, la sigaretta che gli penzolava dalle labbra. Stava fissando il muro dietro la testa di Min, gli occhi socchiusi. Lei si chiese cosa riuscisse a vedere. Si schiarì la voce. Parlò. La lingua irlandese le uscì fluida dalla bocca. C'era un che di piacevole nelle parole, nella costruzione delle frasi. Lui le rispose fluentemente, con facilità. Lei rammentò cosa diceva il suo fascicolo. O Laoire proveniva dall'isola di Cape Clear. Era madrelingua. Aveva trascorso i primi sedici anni di vita lottando contro il vento e il mare, immerso nella bellezza di quel luogo selvaggio. Mentre parlavano, Min si accorse che l'uomo lo portava ancora con sé. Quando chiudeva gli occhi, era Cape che vedeva. Il verde scuro dell'acqua nel South Harbour, il rosso ruggine delle felci sulle scogliere, il rosso scarlatto delle fucsie nelle siepi divisorie dei campi in estate e l'immensa distesa del cielo, le nubi che arrivavano a frotte dall'Atlantico, mutando incessantemente, di ora in ora. «Mi parli di William Metcalfe», gli chiese. Lui si strinse nelle spalle e accese un'altra sigaretta con il mozzicone della prima. «Cosa c'è da dire?» «Non le piaceva? L'ha conosciuto fuori di qui e non lo trovava simpatico. Non lo conosceva prima ma non lo trovava comunque simpatico. Quale di queste due ipotesi è esatta?» «Non lo conoscevo, non volevo conoscerlo. Era feccia. Non provavo il minimo interesse per lui, in un senso o nell'altro.» «Eppure mi pare di capire che lo ha ucciso. Gli ha tagliato la gola con un pezzo di vetro, poi si è messo comodo e lo ha guardato morire dissanguato.» L'uomo fece di nuovo spallucce e chiuse gli occhi. «Le conviene non credere a tutto quello che le raccontano queste teste di cazzo. Comunque, se ne fossero davvero convinte, sarei stato accusato di qualcosa. Invece non è andata così.» «Solo perché non c'erano testimoni, giusto?» «Niente impronte digitali, nessuna prova forense che mi collegasse a lui. E sì, sono rimasto seduto a leggere il mio libro mentre moriva, ma, per quel poco che so di giurisprudenza, questo non è un crimine. Il peso della responsabilità grava sul personale dell'infermeria della prigione, che in
quel momento stava guardando la televisione. Perché non va a parlare con loro? E comunque, come mai le interessa tanto? Metcalfe era un fottuto inglese.» «Un fottuto inglese che si dà il caso si trovasse a Dún Laoghaire il pomeriggio del 31 ottobre 1991, dieci anni fa. Il pomeriggio del giorno in cui un bambino di otto anni chiamato Owen Cassidy scomparve da casa sua. Un bambino che nessuno ha mai più rivisto. Nessuna traccia. Nessun corpo che i suoi genitori potessero seppellire. Nessuna possibilità di piangerlo. E Metcalfe, per quanto mi è dato di capire, aveva parecchi precedenti in fatto di abusi sessuali, su bambini e ragazzi, per la precisione. Una coincidenza interessante, secondo me. Ma naturalmente lei non sa niente di Metcalfe. Non provava il minimo interesse per lui. Non lo conosceva, non sapeva assolutamente niente di lui. Non è forse così?» O Laoire socchiuse gli occhi e guardò al di sopra della testa di Min. Cominciò a canticchiare a bocca chiusa. Lei ascoltò. Conosceva il motivo, conosceva le parole. Si trattava di The Rocks of Bawn, una canzone sull'esilio, sulla nostalgia di casa. «La canti», lo incitò. «È da tanto che non la ascolto.» Lui sgranò gli occhi e per un attimo la fissò, poi abbassò lo sguardo. Si dondolò avanti e indietro. La sua voce sfoggiava la sicurezza tipica di chi abbia cantato per anni senza accompagnamento, senza il sostegno o il conforto di uno strumento che suoni la melodia. «Le mie scarpe sono ormai consumate, i miei calzini sottili il mio cuore trema perennemente, temendo che io possa arrendermi, il mio cuore trema perennemente dalla limpida aurora fino allo spuntar del sole, temo che non riuscirò più ad arare il terreno sassoso di Bawn.» S'interruppe, riportò lo sguardo su Min e ve lo tenne mentre cantava. «Quindi alzati, dolce Sweeney, e dai un po' di fieno al tuo cavallo, e dagli dell'avena da mangiare prima di iniziare la giornata, non nutrirlo con rape crude, ragazzo, portalo giù nel mio prato verde, e a quel punto sarai forse in grado di arare il terreno sassoso di Bawn.» Min si guardò intorno, osservando le sporche pareti color crema della stanza, l'alta finestra protetta da sbarre, il linoleum grigio pieno di graffi e
tagli. E lo sguardo indifferente del secondino. Si unì all'uomo per cantare insieme a lui l'ultima strofa della canzone. «Vorrei che la regina d'Inghilterra mi convocasse, un giorno, e m'inserisse in un reggimento di soldati nel fiore degli anni come me, combatterei per la gloria dell'lrlanda dalla limpida aurora fino allo spuntar del sole e non tornerei più ad arare il terreno sassoso di Bawn.» «Forza, ragazzi, basta così.» La guardia carceraria si fece avanti. «Non stiamo dando una festa con concerto, giusto?» «Non ne sono sicura.» Min lo fissò dal basso. «Qual è il suo pezzo preferito? Cosa le piace cantare quando ha alzato un po' il gomito?» «Il qui presente signor Walker», raccontò O Laoire piegando la testa in direzione del secondino, «ha una vera passione per The Birdy Song, vero, signor Walker? L'ho vista giù in cortile con alcuni degli altri, quando pensava che nessuno la stesse guardando. Conosce anche tutte le mosse che accompagnano la canzone, vero?» Min trattenne il fiato, ma il secondino si limitò a ridere. «Già, giusto, The Birdy Song è quella che preferisco. È stupida quasi come le lamentose vecchie melodie che voi irlandesi rinchiusi qua dentro cantate non appena possibile.» «A ognuno il suo, non è questo che diciamo a casa?» Min spostò lo sguardo da un uomo all'altro. «A ognuno il suo. Senta, signor Walker, cosa ne direbbe di lasciarci soli per qualche minuto? Ci sono un paio di cose di cui vorrei parlare con il suo uomo, questioni legate alle indagini a cui sto partecipando a Dublino. Capisce, vero?» Gli rivolse quello che sperava fosse un sorriso accattivante. «Gliene sarei davvero grata.» Aspettò che la porta venisse chiusa a chiave dietro di lui, poi si piegò nuovamente in avanti. «Okay, O Laoire, basta giochetti. Le ho già spiegato cosa voglio sapere di William Metcalfe. Credo che per lei sia arrivato il momento di raccontarmi ciò che sa di lui.» L'uomo prese un'altra sigaretta e l'accese lentamente, soffiando un pennacchio di fumo verso il soffitto. «Quanto valgono per lei queste informazioni? Che vantaggio ne posso ricavare?» «Ha fatto domanda per un trasferimento. Spera di essere ritrasferito nella prigione di Limerick. Sua madre non sta bene. Un grave caso di artrite. Le
riesce difficile viaggiare. Trova già abbastanza arduo salire e scendere dal traghetto che collega Cape con la terraferma, e praticamente impossibile percorrere tutta la strada fino all'Inghilterra per venirla a trovare. Ma se lei fosse rinchiuso a Limerick... be', questo farebbe una bella differenza, giusto? Ha bisogno di tutto l'aiuto che può ottenere, O Laoire. È arrivato il momento per un piccolo scambio di favori, non crede?» L'uomo non aprì bocca. Per un attimo fissò il pavimento. Sfregò la punta della scarpa da ginnastica sul linoleum, avanti e indietro, poi sollevò lo sguardo su Min. «Sa che si dice che la cosa peggiore dei maiali sia il loro strillo? Tutto il resto, in questi animali, è raffinato ed elegante. Sono intelligenti, mangiano di tutto, sono puliti se li si tiene puliti, e sono interamente commestibili. Ma il suono che emettono quando li uccidi è la parte davvero sgradevole.» Riabbassò gli occhi sul pavimento e vi sfregò di nuovo sopra la punta della scarpa, avanti e indietro. «Be', il suo uomo, Metcalfe, era l'esatto contrario del maiale. Era sporco, pigro, stupido. Puzzava. Di marcio, di acido, intorno a lui aleggiava sempre il tanfo della corruzione. Ma, quando gli ho tagliato la gola con quel pezzo di vetro, non ha emesso un solo suono. È rimasto semplicemente sdraiato li a fissarmi e ha aperto la bocca, ma dalle sue labbra non è uscito nemmeno un lamento, nemmeno uno strillo. E, sa, è morto davvero in fretta. Nel giro di qualche secondo era tutto finito. Ma, Gesù, che casino. Quando uccidiamo il maiale, a casa, lo appendiamo e gli sistemiamo sotto un secchio per raccogliere il sangue. Qui invece è sgorgato semplicemente su tutto il pavimento. E, sa, aveva iniziato a coagularsi ancor prima che lui smettesse di respirare.» Ricominciò a canticchiare a bocca chiusa. Min aspettò. «Ma perché l'ha fatto, Colm? Per una ragione precisa?» Lui si appoggiò allo schienale della sedia. S'infilò una mano in tasca. Estrasse una bustina di plastica. Delicatamente, usando la punta delle dita, ne sfilò una piccola fotografia. La posò sul tavolo, in mezzo a loro. «L'ho fatto per lui. Per il ragazzo. Bill Metcalfe cianciava continuamente del ragazzo. Il ragazzo irlandese. Non ce la facevo più. E dopo averlo ucciso e prima che l'idiota nel letto accanto cominciasse a urlare come un dannato, gli ho preso questa. Non volevo che il ragazzo restasse ancora con Metcalfe. Non volevo che passasse altro tempo con quel puzzolente pezzo di merda. Così gliel'ho preso dalla tasca e da quel giorno ho sempre badato a lui.» Min si sporse in avanti e guardò giù. I rotondi occhi azzurri di Owen
Cassidy ricambiarono la sua occhiata. «Posso?» O Laoire annuì. Lei prese la foto e la capovolse. Fece correre un dito lungo il bordo superiore e quello inferiore, entrambi frastagliati. «Aveva otto anni», spiegò. «Ora ne avrebbe diciotto, se fosse ancora vivo.» S'interruppe. «Metcalfe raccontò che cosa gli era successo?» S'interruppe di nuovo. «No. Non lo sapeva. Disse che non aveva l'abitudine di spingersi così in là. Che era molto meglio tenerli in vita e mantenerli felici. Che riuscivi a ottenere molto di più da loro quando erano - qual era la parola che usava? malleabili, ecco. Era decisamente meglio quando erano malleabili.» Improvvisamente dal pianerottolo esterno giunsero alcune urla. E uno scalpiccio pesante. O Laoire si alzò. S'infilò in tasca il pacchetto di sigarette. Si voltò. «Adesso può tenerlo lei. Ho finito con quel ragazzo. Forse lei potrà fare qualcosa per lui. Più di quanto ho potuto fare io.» «Grazie, le sono davvero grata per il suo aiuto. E riguardo all'altra faccenda, il trasferimento, farò del mio meglio.» Lui si voltò a guardarla. «Ne sono sicuro.» Le sorrise. «Può dirmi una cosa, Colm?» Min esitò. «Quale?» «Perché ha ucciso sua moglie? Non avrebbe potuto appianare le vostre divergenze in qualche altro modo?» «In qualche altro modo? Quale altro modo esiste? Per ogni crimine c'è un castigo adeguato. Lei lo sa e io lo so. E anche mia moglie lo sapeva.» «Lo pensi anche tu, Conor?» «Che cosa?» Min alzò il bicchiere e fece ruotare la fettina di limone e i cubetti di ghiaccio, creando un vortice di bollicine. Era già tardi. Avevano cenato in albergo. Bistecca e patatine, con una bottiglia di Valpolicella. Adesso si trovavano nel bar. Era mezzo vuoto. Le luci erano basse. Lei riusciva a vedere i loro riflessi sulla parete di finestre affacciate sul parcheggio e sulla strada in lontananza. La voce di Frank Sinatra usciva sommessamente dagli altoparlanti incassati nel soffitto a piastrelle. «Che per ogni crimine esista un castigo adeguato.» Lui si strinse nelle spalle e finì la sua birra, alzando una mano per ordinare il bis.
«Un posto carino, vero?» Si appoggiò allo schienale dell'ampia poltrona in pelle e allungò le gambe. «Un bel cambiamento rispetto all'ufficio e a tutte le solite stronzate.» Incrociò le braccia dietro la testa ed emise un sospiro di piacere. «Anche la musica non è male. Adoro tutti quei vecchi classici americani. Irving Berlin, Rodgers e Hammerstein, Lerner e Lowe.» «Davvero?» Lei si protese momentaneamente in avanti. «Mi stupisci. Ti credevo un appassionato di Meatloaf, Deep Purple, musica heavy metal.» «Niente affatto.» Conor spinse una pila di monetine lungo il tavolo quando il cameriere vi posò un vassoio di drink. «Mia nonna, che mi ha cresciuto, andava matta per Frank e Bing, Dino e Sammy. Tutto quel genere di roba.» «Dino?» «Dino, certo, Dean Martin. Mia nonna era in rapporti intimi con tutti i ragazzi. Un'amica intima, ecco cos'era. Quanto a Frankie, be', Alta società era il suo film preferito. Mi ha trascinato a vederlo non so quante volte. Sono cresciuto cantando tutti quei motivi.» Prese il bicchiere e lo sollevò verso Min. «Allora, cosa ne dici? Brindiamo al romanticismo. Alla luna e a giugno e al rossetto rosso e ai soprabiti sportivi bianchi.» «Però non mi hai risposto, Conor. Pensi che esista un castigo adeguato per ogni crimine?» «Sì, Min. Altrimenti non mi prenderei la briga di fare questo lavoro. Sarei passato nel campo dell'informatica. A quest'ora starei guadagnando un patrimonio. Porterei completi di Armani e guiderei una Jaguar ultimo modello invece di una Honda Civic vecchia di dieci anni.» S'interruppe per bere. «Sai, secondo alcuni, fare il poliziotto è un po' come fare l'assistente sociale. Dovremmo essere là fuori a occuparci dei meno fortunati, degli emarginati, dei deboli. Tu non sei un po' così?» «Il tuo è un atteggiamento dannatamente tipico.» Lei raddrizzò la schiena. «Solo perché sono una donna, pensi che io abbia il cuore tenero e sia facilmente influenzabile.» «Be', non è forse vero?» «No. Però credo nel sistema penale. Credo nella regola della legge. Credo nei tribunali e nella magistratura. Ma credo anche nel castigo. Penso che le persone dovrebbero soffrire quando fanno del male agli altri. E non credo che sapere tutto significhi perdonare tutto. Neanche per sogno.» Si riappoggiò allo schienale. Era da parecchio tempo che non faceva nulla del genere. Si rese conto che si stava divertendo. Sorrise. «Qual è la battuta? È un'allusione per pochi oppure chiunque può parte-
cipare?» «Stavo semplicemente pensando a com'è piacevole passare la serata fuori, aver lasciato i ragazzi a casa. Non mi ero mai allontanata da loro in questo modo, dopo la morte di Andy. E sai una cosa? Domattina, quando mi sveglierò, mi prenderò una mezz'ora tutta per me. E so già come la passerò. Andrò a fare una nuotata. Riesci a immaginare il lusso di una cosa simile? Fare delle vere e proprie vasche invece di sguazzare nella piscina per bambini. Non vedo l'ora.» Conor alzò di nuovo il bicchiere verso di lei. «Be', ecco un altro brindisi. A un bravo poliziotto e a una brava persona. Non succede spesso di trovare le due cose insieme.» Min si svegliò durante la notte. Si drizzò a sedere per guardare l'orologio. Erano le quattro appena passate. Aveva dimenticato di accostare le tende e il bagliore arancione delle luci sulla strada statale illuminava la stanza. Cadeva sul viso del bambino ritratto nella piccola foto rettangolare che aveva lasciato appoggiata alla sua borsetta sul comodino. E sul viso dell'uomo sdraiato accanto a lei. Min gli aveva cantato The Rocks of Bawn mentre salivano con l'ascensore ad alta velocità. Lui le aveva cantato True Love intanto che si dirigevano verso le rispettive camere. E, in qualche modo, era successo. Lui l'aveva baciata e lei aveva risposto al bacio. E, per la prima volta in quasi quattro anni, aveva percepito il calore, la forza, la piacevolezza di un corpo maschile accanto al suo. E adesso era sdraiata con un braccio intorno a lui e pensava ai figli rimasti a casa, profondamente addormentati sotto la fotografia incorniciata del padre appesa al muro della loro camera. Si girò e guardò Conor, e allungò una mano e gli carezzò il viso, osservando il modo in cui lui sorrise nel sonno e si spostò verso la sua mano, così come un bambino si volta verso il contatto del seno sulla sua guancina. Poi pensò a Colm O Laoire e lo immaginò, sdraiato supino a fissare il soffitto, gli occhi sgranati, mentre osservava l'azzurro profondo e scuro dell'oceano Atlantico. 28 La fotografia faceva parte di una serie di quattro. Proveniva da una cabina per fototessere. Quel particolare era evidente, ma ben poco altro lo era. Min la tenne in mano e la guardò mentre il treno, procedendo a scossoni e sferragliando, lasciava la stazione di Oxford Street a Manchester. Di nuovo Owen Cassidy, dopo così tanto tempo. La sua folta zazzera di capelli bion-
di, i suoi tondi occhi azzurri, ma nessun sorriso sul suo volto ovale il giorno in cui era stata scattata la foto. Erano necessarie due ore di treno per andare da Manchester a Llandudno, la piccola cittadina costiera del Galles settentrionale dove, stando alle autorità carcerarie, la vedova di William Metcalfe viveva con i due figli. Min cercò di recuperare un po' di sonno perduto appoggiando la testa al finestrino, ma i postumi della sbornia erano troppo violenti. Si sentiva nauseata e insicura. Insicura quasi come era sembrato Conor quando le si era seduto accanto per fare colazione. Min non aveva saputo cosa dire. Lui aveva fatto per darle un bacio sulla guancia, ma lei si era ritratta goffamente, rovesciando un bricco di latte, combinando un bel guaio sulla tovaglia di un bianco perlaceo. Un vero casino, pensò. Proprio come il resto della faccenda. Glielo aveva detto esplicitamente. Rimpiangeva quanto era successo tra loro. Non avrebbe dovuto incoraggiarlo. Non poteva affrontare una relazione. Era troppo impegnata. E la cosa più importante, in quel momento, era andare a trovare la vedova di Metcalfe. «Quindi ho intenzione di prendere il treno stamattina stessa», aveva dichiarato, alzandosi. «Tanto vale che lo faccia subito. Perciò ci rivedremo quando ci rivedremo.» Lo aveva rivisto mentre lasciava l'albergo. Conor stava aspettando un taxi. Aveva l'aria stanca e abbattuta. Una sigaretta gli penzolava dalle dita. «Non è una tua responsabilità», si era detta ad alta voce. «È un adulto. Capacissimo di commettere i suoi errori.» Ma, seduta sul treno, ricordò la delicatezza del tocco di Conor. E come si era addormentato al suo fianco con un sorriso stampato in volto. Onde grigioverde s'infrangevano sulla digradante spiaggia di ciottoli. Un molo di legno si protendeva nel mare d'Irlanda. In alto si stagliava la terraferma, con una funicolare che la raggiungeva. Il lungomare vittoriano descriveva un arco, la prospettiva che lo riduceva a un puntolino scuro. Il tutto sembrava uscito da una cartolina illustrata. Min costeggiò la fila di casette a schiera. Erano tutte alberghetti, bed and breakfast. Pensioncine. Visi anziani, avvizziti e rugosi, al suo passaggio sbirciarono fra le tendine di pizzo, e uomini e donne attempati le camminavano davanti, a passo di lumaca, con bastoni da passeggio e deambulatori. Aveva sentito parlare di luoghi del genere, ma non ne aveva mai visto uno. Sentì un brivido lungo la schiena.
La via in cui abitava Jean Metcalfe era perpendicolare alla spiaggia. L'insegna del bed and breakfast appesa sopra il porticato era sbiadita, la pittura scrostata. Il nome JONES era scritto in ordinate lettere maiuscole sopra il campanello. Min controllò sul taccuino. Il posto che cercava era sicuramente quello. Premette il pulsante e aspettò. Un'adolescente aprì la porta. «Mi dispiace disturbare, ma sto cercando una signora che si chiama Jean Metcalfe. Mi è stato dato questo indirizzo, ma forse ho capito male.» La ragazza la fissò, impassibile, poi gridò in direzione del corridoio dietro di sé: «Mamma, è per te». «Quindi la casa è questa? Il nome è Metcalfe, vero?» La ragazza si strinse nelle spalle e si voltò. «Lo chieda direttamente a lei», ribatté mentre si allontanava. Jean Metcalfe era alta e grassoccia. Aveva una figura imponente, che riempì il vano della porta. Guardò Min in cagnesco, le sopracciglia scure che s'increspavano per il malcontento quando lei le spiegò il motivo della sua visita. «Sta sprecando il suo tempo e il mio», disse categoricamente. «Non so niente di quel bastardo. Ci siamo separati anni fa, quando i bambini erano ancora piccoli. Non lo vedevo da sei mesi quando è finito in prigione e, dopo aver saputo che era morto, sono uscita subito a comprare una bella bottiglia di scotch. E ho brindato al fatto che stia arrostendo all'inferno.» «La prego.» Min entrò in casa, un centimetro alla volta. «Può anche pensare di non sapere niente, ma dieci anni fa era ancora sposata con lui, giusto? Forse c'è qualcosa, un minuscolo dettaglio, qualcosa che per lei potrebbe non significare nulla. Se solo potessi entrare per qualche minuto... È molto importante. Per tutto questo tempo abbiamo cercato di scoprire cosa sia successo a un certo bambino, e questo è il primo spiraglio che abbiamo trovato. Sono sicura che, essendo lei stessa una madre, può immaginare cosa abbiano passato i genitori del piccolo.» La donna rimase impietrita. Le si riempirono gli occhi di lacrime. Si voltò e tornò dentro casa, e Min la seguì, chiudendosi risolutamente la porta alle spalle. La cucina era tiepida e ingombra. Un bollitore emetteva vapore sopra una stufa a gas e nell'aria aleggiava un profumo di dolci appena fatti. Jean Metcalfe prese un paio di guanti imbottiti e aprì lo sportello del forno. Estrasse con cautela un vassoio di focaccine. Min si accorse di avere l'acquolina in bocca.
«Mmm, hanno un aspetto magnifico.» «Ha fame, eh? È l'aria di mare. Aspetti che le capovolgo.» Imburrò le focaccine e vi spalmò sopra della marmellata di lamponi. Min mangiò avidamente. Il burro le colò sulle dita. «Tenga, prima di ungersi tutta.» Jean le passò un tovagliolo. «Si pulisca lì.» Indicò la guancia di Min. «Ha un grumo di marmellata sotto il naso.» «Dio.» Min scoppiò a ridere. «Non mi si può portare in società, vero?» Per qualche attimo rimasero entrambe sedute, immerse in un silenzio amichevole. Min finì il suo tè, poi parlò. «Ha divorziato da Metcalfe? Jones è il cognome del suo nuovo marito?» L'altra scosse il capo. «No, non credo nel divorzio. Su alcune questioni sono molto rigida. Jones era il cognome del mio primo marito. Ero vedova quando ho conosciuto William, e avevo già due figli.» «E presumo che non sospettasse nemmeno lontanamente che genere di uomo fosse.» La donna la guardò con un'espressione di stupito sdegno. «Che cosa crede, per l'amor del cielo? Non mi sarei mai lasciata coinvolgere da un uomo simile. Non avrei mai messo in pericolo i miei figli. No, quando lo conobbi lo giudicai un tizio perbene. Gran lavoratore, onesto, pilastro della comunità. Era un carpentiere, molto bravo. Andava in chiesa, era legato ai boy scout. In realtà è così che ci siamo conosciuti. Mio figlio Terry era un boy scout e una sera portò William a casa con sé.» Fece una pausa e riempì di nuovo la tazza. «E, prima che me lo chieda, no, non li ha molestati. A dire il vero, era buono con loro, e i miei figli lo trovavano simpatico. E, in tutta sincerità, piaceva anche a me. In realtà lo amavo. Sono rimasta sconvolta quando ho scoperto che la polizia gli dava la caccia.» Le lacrime le rigarono le guance paffute. Min infilò una mano nella borsetta ed estrasse un pacchetto di fazzoletti di carta. Li spinse sul tavolo. «Grazie.» Jean si asciugò gli occhi e si soffiò rumorosamente il naso. «Sciocco, non trova, dopo tutto questo tempo? Pensavo di aver superato la cosa. Pensavo che ormai non m'importasse più.» Si udì un rumore di passi in corridoio e la ragazza ricomparve. Jean alzò gli occhi verso di lei e tese una mano per attirarla a sé. «Ha già conosciuto la mia Jackie, vero? È il mio tesoro, non è vero, amore?» La tirò e la strinse con forza. Lo sguardo della ragazza, al di sopra della testa della madre, era gelido. «L'ha turbata», dichiarò. «Perché voi sbirri non la lasciate in pace? Non può evitare di averlo sposato. Non sapeva che tipo fosse. E neanche noi.»
«Non lo sospettavi nemmeno? Nel suo atteggiamento verso di te o tuo fratello non c'era nulla che vi facesse sentire strani o a disagio?» La ragazza scosse il capo. Si lasciò cadere sulle ampie ginocchia materne, la sua espressione improvvisamente infantile. «Temo che non si trattasse di Jackie ma della sua migliore amica, Carol. Fu lei che William prese di mira. Ma lo scoprimmo soltanto dopo che finì in prigione. Quando seppe che era stato rinchiuso, Carol confessò tutto alla madre. Fu a quel punto che dovemmo trasferirci. Vivevamo a Bradford, ma non potevamo restare lì. Mi sentivo responsabile. E la famiglia di Carol non voleva credere che non avessi mai capito cosa stava succedendo. Così traslocammo qui. La mia famiglia possedeva questa casa.» «Capisco.» Min fece una breve pausa. «Posso cercare di ricostruire con precisione la sequenza degli avvenimenti? All'epoca in cui sappiamo che William venne in Irlanda viveva ancora con voi? Era tutto come al solito?» Ci fu un attimo di silenzio. «Sì.» Jean abbassò lo sguardo sul tavolo. «Ma in seguito, ripensando al passato, mi resi conto che stava progettando di svignarsela. Non mi disse di essere stato in Irlanda. Spesso restava fuori casa per qualche giorno. Per questioni legate ai boy scout, sosteneva. E io gli credevo. Non avrei dovuto.» Ricominciò a piangere. «Ero così stupida. Credevo a ogni dannata cosa che mi diceva.» Sotto gli occhi di Min, madre e figlia si scambiarono i ruoli. Era la figlia adesso che stringeva la testa della madre sul proprio petto minuto, carezzandole i capelli e sussurrandole parole consolatorie all'orecchio. Min si alzò. «Preparo un altro po' di tè», annunciò. In seguito, quando tutt'e due si furono fatte un bel pianto, ripeté la domanda. «Quindi non sapete quale fosse il vero scopo di quel viaggio a Dublino.» Le due teste fecero segno di no. «E conserva ancora qualcuna delle cose di William? Rubrica, diario, lettere, conti, bollette del telefono, taccuini, roba del genere.» «No.» Jean la guardò, l'espressione nuovamente gelida. «No. Ho esaminato tutti i suoi effetti personali dopo che venne arrestato. Aveva una grossa valigia che teneva in soffitta. L'aveva portata con sé quando ci sposammo. Non gli chiesi mai cosa ci fosse dentro. Pensavo semplicemente che contenesse... sa, il genere di cose che la gente accumula nel corso della vita e ama conservare. Lettere, foto di famiglia, roba del genere. Ma quando la
aprii mi sentii morire. Era disgustoso. Spazzatura. Foto di bambini. Così bruciai tutto.» Jackie si alzò dal tavolo. Si voltò e uscì dalla stanza. Sua madre la seguì con lo sguardo. «Avevo il terrore che lei o suo fratello ne trovassero una parte. Era già abbastanza terribile che tutti parlassero di lui, ma poi il processo finì su tutti i giornali e persino in televisione. Avevamo i reporter appostati intorno alla casa. Fu un vero incubo. I ragazzi vennero perseguitati. E la roba che lessi, be', non c'era nulla che fosse legato al bambino di cui parla, nessun accenno a qualcosa che fosse connesso con l'Irlanda o con un irlandese. Niente del genere, davvero. Mi spiace di non averla potuta aiutare di più.» «No.» Min allungò una mano per toccare la sua. «Non si preoccupi. Davvero, è tutto a posto. Sto cercando di immaginare come dev'essere stato per lei. Anch'io ho dei figli. Sono vedova anch'io. Non avevo mai pensato che devo stare molto attenta a chi porto dentro casa, ma le assicuro che d'ora in poi lo farò.» Si alzò. Prese la borsetta. «Devo andare. Le ho già rubato abbastanza tempo.» Si girò verso la porta, poi si voltò. «Ma se dovesse tornarle in mente qualcosa...» «Sì, lo so.» Jean si alzò lentamente. «La chiamerò.» Prese il biglietto da visita che Min le porse e lo osservò. «Devo renderle merito di una cosa. Lei è molto più gentile degli sbirri inglesi che sono entrati e usciti da casa mia durante tutti quegli anni. Alcuni di loro erano degli autentici bastardi. E non li difenda. Non dica cose tipo che stavano solo facendo il loro lavoro. Perché non è vero.» Mentre parlava, i suoi occhi si spostarono da Min alla porta della cucina. «Dove diavolo l'hai presa, Jackie?» Min si voltò e vide la ragazza in piedi dietro di lei. Il suo viso era celato da una maschera che rappresentava la testa di un uccello. Piumata, bianca e nera, una gazza dal becco aguzzo. Quando parlò, la sua voce suonò smorzata. «Non ricordi, mamma? Me l'ha portata lui. E ne ha portata una anche per Terry. Quella di Terry era una specie di animale, una volpe o qualcosa del genere. Ha detto che un suo amico di Dublino le aveva confezionate per noi. Non ricordi? Disse che erano state fatte per Halloween. E che potevamo metterle per la notte di Guy Fawkes, potevamo mascherarci per il falò.» La volpe e la gazza. Il gatto e il tasso. Lo scoiattolo. Mentalmente, Min riuscì a vederle tutte. I disegni, gli schizzi preparatori fatti da Nick Cas-
sidy. Ricordò che erano fissati alla parete nello studio dell'uomo. E Marianne O'Neill, nella sua deposizione, aveva spiegato che ci avevano lavorato per settimane, in modo da poterle indossare quella sera, la sera di Halloween. Ci saremmo mascherati tutti. Avevamo già preparato i costumi. Owen doveva essere la volpe. Il suo era il più elaborato. Ma c'erano un costume e una maschera per ognuno di noi. «Posso?» Min allungò una mano. Jackie si tolse la maschera e gliela passò. «Me n'ero dimenticata.» Jean si fece avanti per esaminarla meglio. «Ora ricordo. All'epoca non mi piacquero molto e continuano a non piacermi. Le trovavo leggermente sinistre.» Min si rigirò la maschera tra le mani. Era fatta di cartapesta, coperta di piume e di pezzetti di vetro e conchiglie che le conferivano una scintillante iridescenza. Proprio come la patina lucente del piumaggio della gazza, pensò. Era molto verosimile, il becco affilato e appuntito. «Forza, se la provi.» Jackie l'accostò al viso di Min, facendole scivolare l'elastico dietro la testa. Min guardò fuori attraverso i piccoli fori per gli occhi. La sua visuale della cucina era limitata. Provò un senso di disagio, di oppressione. Per un attimo temette di soffocare, ebbe l'impressione che il respiro non le sarebbe mai più fluito dentro il corpo. I palmi delle mani cominciarono a pizzicare e a inumidirsi, e sentì accelerare le pulsazioni nel collo. Si strappò la maschera, tentando di usare un tono pacato quando parlò. «Non disse niente di più specifico sulla provenienza di questa maschera? Non menzionò un nome? Non vi disse qualcosa su come era stata confezionata o altro? No?» La ragazza scosse il capo. «Non che io ricordi. Ma è successo molto tempo fa. All'epoca ero solo una mocciosetta.» «E lei, Jean, ricorda qualche particolare? Lui le disse qualcosa in proposito?» La donna scosse il capo. «Non ricordo. Ricordo solo che specificò che erano fatte a mano, che erano opera di un suo amico e dovevano essere indossate per Halloween. Qualcosa del genere. Ma non ne sono sicura.» Quando se ne andò, Min aveva con sé la maschera che Jackie aveva infilato in una scatola da scarpe con il coperchio assicurato con il nastro adesivo. La tenne in mezzo ai piedi durante il volo da Manchester a Dublino. La tenne sulle ginocchia a bordo del taxi su cui era salita in aeroporto. A
casa, la sistemò accuratamente, fuori dalla portata dei bambini, sull'ultimo ripiano della credenza nell'atrio. Il giorno dopo l'avrebbe portata al quartier generale e consegnata agli esperti forensi. Forse sarebbero riusciti a trovare qualcosa nascosto sotto le sue piume. O forse no. Forse lei sapeva già tutto quello che c'era da sapere sulla maschera. Che era stata disegnata da Nick Cassidy. Era stata confezionata da Nick Cassidy. Era stata regalata a William Metcalfe da un uomo che lui definiva un amico. Metcalfe l'aveva portata con sé da Dún Laoghaire a Bradford. Nello stesso modo in cui aveva portato con sé la fotografia di Owen Cassidy. E chi gli aveva dato quella foto? La stessa persona che gli aveva regalato la maschera? La casa era immersa nel buio e nel silenzio. I ragazzi stavano dormendo. Vika stava dormendo. Min mise il bollitore sul fuoco. Versò del whiskey in un bicchiere e aggiunse zucchero di canna, chiodi di garofano e una fettina di limone. Aggiunse acqua bollente, facendola colare lungo il dorso bombato del cucchiaino. Si sedette sul divano e cominciò a sorseggiare. Chiuse gli occhi e appoggiò la testa su un cuscino. Fuori, il vento faceva frusciare i rami degli alberi e mormorava e sospirava mentre s'incanalava nel cul-de-sac. Era ora di andare a letto, ma si sentiva troppo esausta per muoversi. Il soggiorno era in disordine. Quella sera i bambini dovevano essersi spogliati davanti al caminetto. I loro abiti erano ammassati sul tappeto davanti al fuoco, insieme al consueto assortimento di libri e matite e giocattoli abbandonati. Allungò le mani e cominciò a rimetterli in ordine. Le sue dita scivolarono sulle copertine lucide dei libri. Abbassò lo sguardo su di essi. E vide il volume in brossura di grande formato, con la copertina dai colori brillanti e vividi. Se lo posò sul ginocchio. Il figlio delle stelle e altri racconti, diceva il titolo dai caratteri eleganti. Il nome dell'autore era inghirlandato da fiori dorati. E, sotto, quello dell'illustratore era decorato da uccelli e animali. Gazze e corvi, volpi e scoiattoli. Girò il volume e guardò la fotografia così familiare sul risvolto. Lesse il breve paragrafo. Nick Cassidy, illustratore pluripremiato, è nato a Dublino, dove ha studiato arte al National College of Art and Design. I suoi disegni, i suoi quadri e le sue illustrazioni per questo e molti altri libri di successo gli hanno procurato consensi in tutto il mondo. Gode di fama internazionale grazie alle sue interpretazioni delle opere di Oscar Wilde. Si sdraiò sul divano. Posò il libro sul petto. Vuotò il bicchiere e lo appoggiò cautamente sul pavimento. Si cinse il corpo con le braccia. Rimase
sdraiata con gli occhi aperti, fissando il soffitto. Era l'alba quando si addormentò. 29 Róisín era tornata. Nick era in piedi nella cucina di Susan e la guardava. La ragazza si trovava in giardino con Emir. Lo teneva per le mani e giocavano. Lo stava facendo roteare, sempre più veloce. Era piegata all'indietro, tanto che rischiava quasi di cadere. Nick osservò il viso del bambino. Non riusciva a decidere se fosse piacere o paura ciò che gli leggeva sui lineamenti. Era sicuramente aspettativa, ma di cosa? Poi il bambino cadde. Lasciò andare le mani di Róisín oppure fu lei a lasciar andare le sue? Cadde all'indietro. Rimase steso sull'erba bagnata, gambe e braccia in aria. E, mentre Nick osservava la scena, la ragazza si chinò sopra di lui e lo aiutò a rialzarsi, sussurrandogli qualcosa all'orecchio, poi prendendolo per mano e accompagnandolo verso il padiglione estivo. Quel giorno la piazza era piena di ragazzi. Vacanze di metà trimestre. La festa di Halloween. Erano in piedi intorno al falò. Alcuni stavano aggiungendo legna a quella già impilata. Un ragazzo alto e magro con corti capelli scuri calciò un pallone verso di loro, e tutti si divisero in due squadre e cominciarono a giocare. Nick rimase accanto alla finestra sulla facciata e li osservò. Si poteva trarre un certo piacere dai loro movimenti, dagli scarti improvvisi e dalle corse in avanti, dai calci e dagli scatti repentini. Dalla loro gaiezza, dalla loro grazia, dal loro divertimento. Ma mentre restava fermo a guardarli, risentì la voce di Conor Hickey. «Abbiamo identificato qualcun altro dei ragazzi di cui abbiamo trovato le foto sul suo hard disk. Erano vittime di un pedofilo, un certo William Metcalfe. Lo conosceva? Proveniva dal nord dell'Inghilterra, ma abbiamo motivo di credere che operasse anche a Dublino, nei primi anni '90. Il nome le suona familiare?» «No.» «Sicuro? Preferisce rifletterci sopra?» «Gliel'ho già detto, non l'ho mai sentito nominare. Non ho mai sentito quel nome.» «Be', Nick, non sono in molti a poter accedere a quel tipo di materiale. Proviene da un gruppo di discussione che è massicciamente protetto. È necessaria tutta una serie di password per potervi entrare. È necessario aver
riversato nella rete fino a diecimila nuove immagini prima di poter ricevere qualcosa in cambio. È necessario vantare una conoscenza molto approfondita del Web per avvicinarsi a esso. Non sono il genere di immagini in cui ci s'imbatte casualmente se solo s'inseriscono un paio di parole chiave su un motore di ricerca. Capisce cosa voglio dire, Nick?» Lui non aveva risposto. «Sono state trovate anche in un sito a pagamento negli Stati Uniti. Lei è rimasto a lungo in America, vero, Nick? Tutto questo sta fruttando una dannata valanga di soldi. Quindi le chiederemo di tornare alla stazione di polizia per rispondere a ulteriori domande.» «Perché? Volete arrestarmi? Stavolta intendete incriminarmi?» «Be', dipende.» «Da cosa?» «Dalla sua disponibilità a collaborare con noi. Dal numero di informazioni che ci rivela. Dal fatto che decidiamo o no di poterle credere. E dal fatto che lei ci parli o no di qualcuna delle altre persone coinvolte in questa faccenda.» «Cristo santo, non ve l'ho forse già detto? Non so niente di tutto ciò. Non ci sono altre persone. Non esiste nessuna organizzazione criminale, non è questa l'espressione che usate? Non ho già chiarito la mia posizione?» C'erano stati una pausa di silenzio e un sospiro, poi Hickey aveva parlato di nuovo. «Ecco che ricomincia a complicare le cose, Nick. Senta, ci pensi su. La chiamerò oggi pomeriggio, così potremo fissare un incontro per domani. Cosa ne dice?» Altra pausa di silenzio. «Ascolti, Nick, sappiamo che molto probabilmente non lascerà la città. Perché, se lo facesse, la troveremmo e non saremmo affatto contenti. E potremmo cominciare a fare supposizioni di ogni genere sulla sua colpevolezza e la sua innocenza. Quindi le consiglio di discuterne con sua moglie. Sembra una donna assennata. Esamini tutte le sue opzioni. E se ha bisogno di un consulente legale, be'... ce ne sono a bizzeffe. Che gliene pare? Lo trova ragionevole? Ci sentiamo più tardi. Per ora la saluto.» Nella piazza era comparso un altro ragazzo. Alto e massiccio. Robusto, solido. Capelli biondo scuro raccolti in una coda di cavallo. Jeans sformati che gli fluttuavano intorno alle caviglie mentre correva al centro della partita in corso. Nick lo osservò insieme agli altri. Poi chiuse gli occhi. Riuscì a vedere anche Owen, lì in mezzo. Che rideva inseguendo il pallone. Che lo alzava in aria con l'esterno del piede e poi piegava il busto all'indietro
per intercettarlo di testa. Quindi si allungava verso l'alto, i tendini del collo tesi nello sforzo di entrare in contatto con il pallone. Guardami, babbo. Guarda cosa so fare. Riaprì gli occhi. La partita si era interrotta. I ragazzi formavano un capannello intorno a Luke Reynolds. Uno di loro stringeva un giornale, sopra cui le loro teste formavano un cerchio ordinato. Luke alzò gli occhi e vide Nick. Gli rivolse un sorriso esitante, poi riabbassò lo sguardo. Nick si staccò dalla finestra e raggiunse l'atrio. Aprì la porta d'ingresso e scese i gradini. Quando s'incamminò verso di loro, i ragazzi riuniti strascicarono i piedi con aria imbarazzata e, avvicinandosi alla cancellata, lui vide Luke ghermire il quotidiano e tentare di nasconderlo dietro la schiena. «Ehi, Luke, come stai?» gridò varcando il cancelletto di ferro e attraversando il prato. «Lieto di rivederti.» Sul gruppetto calò un silenzio carico di tensione. I ragazzi lo guardarono, poi cominciarono ad allontanarsi alla spicciolata, lasciando solo Luke. «Cosa c'è? Qual è il problema?» Nick si avvicinò ulteriormente. Luke fece un passo indietro. Nick allungò una mano dietro la schiena del ragazzo. Le sue dita si serrarono sul giornale. Lo sfilò dalla stretta di Luke. «Cosa c'è? Cosa dice?» Il ragazzo assunse un'aria imbarazzata. Arrossì. Abbassò lo sguardo sulle proprie scarpe infangate, poi lo riportò su Nick, «È solo, sa... È un articolo su quello che è successo. Sono passati dieci anni esatti, sa come sono i giornali, vogliono rivangare tutto. E sa», fece un gesto circolare, «nessuno di questi ragazzi ricorda Owen come me. Sono tutti dannatamente curiosi al riguardo. Ma io», s'interruppe per un attimo, «io non volevo che lo vedesse perché sapevo che sarebbe rimasto turbato. Capisce cosa voglio dire?» Il quotidiano era accartocciato e spiegazzato. Nick si voltò e tornò verso casa. Lo lisciò e si ritrovò a fissare il viso di Owen a otto anni. Lì accanto c'era una foto della piazza. E un'istantanea sfuocata che mostrava lui e Susan, l'angoscia stampata sul volto, in piedi davanti alla stazione di polizia, abbracciati. Il titolo diceva MISTERI IRRISOLTI NEL TRANQUILLO SOBBORGO DI DUBLINO. In calce alla pagina, in un box a sé stante, spiccava un'altra fotografia. Una ragazza carina, con lunghi e ricciuti capelli scuri. E il titolino: «Le notti invernali portano con sé casi irrisolti». Si sedette sul gradino più alto e cominciò a leggere. Luke prese posto al suo fianco e si piegò al di sopra della sua spalla. L'articolo era semplice e
diretto. Un chiaro riepilogo dei fatti. «È tutto a posto, Luke. Qui non c'è nulla che possa ferirmi, ma ti ringrazio per la premura.» Luke fissò la pagina spiegazzata. «La conosceva?» Alzò gli occhi verso Nick. «Mi riferisco alla ragazza che è stata uccisa qui vicino.» Nick scosse il capo. «No, è successo prima che ci trasferissimo qui. Non ricordo di averne sentito parlare molto, all'epoca. Credo che alla gente non piacesse discuterne. Perché me lo chiedi?» Lo fissò. «Non puoi averla conosciuta. È morta che tu eri appena nato.» «Già, presumo di sì. Però il suo viso mi è molto familiare.» Un cipiglio raggrinzì la fronte di Luke. «È stato un caso famoso. Non l'avevo mai considerato da questo punto di vista, ma lei morì più o meno nello stesso periodo dell'anno in cui scomparve Owen. Non avevo mai abbinato le due date, prima, ma sono sicuro che altri l'hanno fatto.» Cinse le spalle di Luke con un braccio. «Allora, cosa ti porta qui oggi? Sei venuto a trovare me?» «No, non proprio. Sono iniziate le vacanze di metà trimestre, sa. Ho pensato di rilassarmi per un po'. Lasciare la città.» Si alzò. «Allontanarmi da papà e da tutte le sue stronzate. Meglio che vada.» Indicò gli amici, radunatisi nuovamente intorno al falò. «Andiamo tutti al cinema.» Nick infilò una mano in tasca ed estrasse qualche banconota. «Tieni, i popcorn li offro io. Se hai bisogno di qualcosa, ricorda che io sono qui. Okay?» Il ragazzo sorrise e scese i gradini due alla volta, la coda di cavallo che gli rimbalzava sulla giacca di lana. Arrivato a metà della piazza, si voltò a guardare Nick e sollevò la mano in un saluto a pugno chiuso. Nick si alzò e lo salutò con la mano. Poi sentì aprirsi la porta d'ingresso dei Goulding. Chris, Róisín ed Emir uscirono tutti insieme. Li fissò. Non aprirono bocca. Scesero i gradini, tenendosi per mano. Chris aveva una sacca sportiva in spalla. «Andate da qualche parte?» gridò Nick. Chris alzò gli occhi e sorrise senza alcun calore. Emir si scostò. Staccò la mano da quella di Róisín per salutarlo. Nick ricambiò il gesto. Li osservò mentre camminavano lungo la piazza, finché non scomparvero, poi si alzò e rientrò in casa. Posò il giornale sul tavolo di cucina. S'infilò il cappotto, aprì la porta sul retro e scese i gradini che portavano in giardino. Attraversò il prato e aprì il cancello sul vicolo posteriore. Se lo chiuse rapidamente alle spalle e si allontanò dalla casa.
Chris e Róisín e un bambino basso e biondo. Mano nella mano lungo la piazza. Dove sarebbero andati quando avessero raggiunto l'ultima delle casette a schiera? Avrebbero svoltato verso la strada principale e la città, oppure si sarebbero allontanati dal mare, puntando verso le montagne? Lui cercò di immaginarlo. Riusciva a distinguerli in lontananza. Il fratello e la sorella. Uno con i capelli lisci e scuri che gli ricadevano sul colletto del cappotto. L'altra con corti capelli biondi, che aderivano alla testa ben formata e minuta. E il bambino in mezzo a loro. Che stringeva una mano destra con la sinistra e una mano sinistra con la destra. Facendole oscillare, appoggiandovi tutto il peso mentre saltellava e danzava tra di loro. Oppure si stava divincolando? Stava tentando di liberare le mani da quelle dei due adulti, tirandole verso il basso invece di venire sollevato da esse? Restando indietro, cercando di sfilare i polsi dalla stretta delle dita degli altri due. E non correndo avanti e indietro, invece, fin dove glielo consentivano le loro braccia, per giocare? Nick non riuscì a stabilirlo mentre percorrevano quelle strade tranquille, gli alberi che perdevano le foglie formando alte pile marroni e dorate e rosse, le case rientrate rispetto al suo sguardo, le loro finestre vuote, i loro giardini puliti e ordinati. Nessun segno di vita da nessuna parte intanto che lui oltrepassava i mazzi di fiori, le candele, i messaggi scritti a mano per Lizzie Anderson. Gli altri non si fermarono a guardare o a fare commenti. Continuarono a camminare e lui li seguì rapidamente, tenendo d'occhio il terzetto che lo precedeva. Vacanze di metà trimestre. Le scuole chiuse per quattro giorni. La festa di Halloween. Chiamata samhain nella lingua antica. Un periodo in cui il giorno confluiva nella notte dolcemente e fluidamente come la linea grigia dell'orizzonte si fondeva con il grigio del cielo. E cosa stava dicendo la ragazza mentre si piegava per parlare nell'orecchio simile a una conchiglia del bambino? Erano parole di conforto e d'amore oppure parole che minacciavano e spaventavano? Nick osservò il modo in cui Emir si scostava da lei per un attimo e poi balzava di lato, catapultandosi contro le gambe di Róisín, che si fermò a parlare con Chris al di sopra della testa del piccolo. Scoppiarono a ridere e si piegarono l'uno verso l'altra, e si baciarono, le labbra che s'incontravano sopra la testa bionda del bambino. Non certo un bacio da fratello e sorella, pensò lui, intanto che i due si fondevano in un'unica silhouette, stagliandosi contro il basso sole invernale. Era verso la scuola che si stavano dirigendo. Adesso Nick lo capì. Rimase indietro e li guardò imboccare il lungo vialetto. Arrivati in fondo, svol-
tarono a sinistra, verso la casa un tempo appartenuta alla loro nonna. Si fermarono. Il camion di un'impresa edile era parcheggiato lì davanti. La porta d'ingresso era aperta. Un uomo in tuta da lavoro uscì, brandendo un pennello. Chris gli parlò brevemente, poi spinse Róisín e il bambino davanti a sé, dentro l'abitazione. Nick s'incamminò di buon passo lungo l'alto muro di pietra e il marciapiede che svoltavano nel viottolo retrostante. Iniziò a correre. Quando arrivò in fondo al viottolo s'infilò tra la siepe, entrando nel parco. Davanti a lui si stagliava la piscina coperta. Non riuscì a vedere nulla attraverso il vetro smerigliato delle finestre, ma sentì delle voci. Si avvicinò furtivamente. Sentì grida e urla. Erano espressioni di piacere, di divertimento? Quella era una risata? Sentì uno sciabordio. Premette il viso sul vetro freddo. Si sforzò di distinguere qualcosa, ma intravide solo schegge di luce e chiazze di oscurità. Si scostò dal muro e si accovacciò sul terreno. Aspettò. Il pomeriggio trascorreva lentamente. Ormai faceva freddo. La luce cominciava a scomparire, lì in giardino. Non giungeva alcun suono dal basso edificio di cemento. Nick si alzò e girò intorno alla piscina, raggiungendo la casa. Le finestre al pianoterra erano chiuse con un lucchetto e protette da inferriate. Notò la scala antincendio, a chiocciola. La salì rapidamente. In cima trovò una porta con un pannello di vetro. Abbassò la maniglia e la aprì. Entrò, ritrovandosi su un ampio pianerottolo. Teli macchiati di vernice coprivano la moquette. C'era un forte odore di trementina. Sentì della musica. Una radio accesa in una delle stanze al piano di sotto. Cominciò a scendere di corsa l'ampia scalinata. Un uomo era ritto su un'impalcatura alta sopra di lui. Abbassò gli occhi su Nick e lo salutò con un pennello. Nick si fermò e guardò su. «Come va? Tutto a posto?» «A meraviglia, nessun problema. Nessuna seccatura», rispose l'uomo. «Splendido.» Nick fece il resto dei gradini due alla volta. Sotto c'era l'atrio, la porta d'ingresso aperta. Si allontanò da essa, dirigendosi verso il giardino e la stretta scala che scendeva nel seminterrato. Laggiù regnavano freddo e silenzio. Piccole porte, ognuna corredata di cartellino, erano allineate su entrambi i lati. Lesse i nomi ad alta voce. Signorina Jennings, signorina Nelson, signorina Williams, signor Benson, signor Goulding. Provò ad abbassare la maniglia. Chiuso a chiave. Non ebbe esitazioni. Scalciò, scheggiò il legno e la porta si staccò dai cardini, cadendo all'indietro. Entrò rapidamente nella stanza immersa nel buio. Quando accese la luce, vide che era arredata con una serie di scaffali, una scrivania e una sedia. Uno
schedario era addossato alla parete. Si sedette alla scrivania. Un piccolo calendario di cartone era posato sul piano di legno graffiato. I giorni del mese erano stati cancellati con una crocetta, uno dopo l'altro. Lo prese e lo sfogliò fino alla pagina di novembre. Il giorno 6 era stato cerchiato con un evidenziatore rosso dal tratto ampio. Lo rimise al suo posto. Tentò di aprire i cassetti ma erano anch'essi chiusi a chiave. Tirò con forza le maniglie. Poi si alzò, sollevò la scrivania e la gettò a terra. Calpestò con forza i cassetti finché il legno non si scheggiò. Li estrasse. Uno di essi conteneva un computer portatile. Si sedette sul pavimento e lo accese. Aspettò mentre l'apparecchio emetteva un clic e un ronzio, il suo tono dolce e cordiale. Nick sfiorò con la mano destra il touch-pad e ben presto lo schermo si riempì di elenchi di file. Fece scendere il cursore lungo i titoli, aprendo i file a casaccio. Relazioni, compiti corretti, valutazioni, lettere inviate a genitori e alunne. Tutto materiale legato alla scuola e all'attività scolastica. Estrasse gli altri cassetti. Quaderni, penne e matite, fermagli per la carta, mezza tavoletta di cioccolato e alcune bustine di tè gli si sparpagliarono davanti. Si alzò e provò ad aprire lo schedario. I cassetti non erano chiusi a chiave e risultarono mezzi vuoti. Contenevano solo vecchi testi d'esame e fascicoli relativi alle allieve. Si fermò al centro della stanza e si guardò intorno. Avrebbe voluto distruggerla completamente, spaccare le assi del pavimento, staccare l'intonaco dai muri. Era stordito dalla rabbia. Il suo cuore picchiava contro la gabbia toracica. «Calmati», si disse ad alta voce. «Se qui c'è qualcosa, sarà facile trovarlo.» Raggiunse gli scaffali e piegò la testa di lato per leggere i titoli. Erano soprattutto classici. Jane Austen, le sorelle Bronté, Fielding, Trollope, Dickens. C'erano anche James Joyce, Beckett, Yeats e Synge. Materiale standard per un insegnante d'inglese. E, su uno scaffale abbastanza basso perché un bambino potesse arrivarvi, erano allineati alcuni libri per l'infanzia. Nick si accovacciò per esaminarli. Ecco dove erano finiti i suoi libri. Li estrasse uno alla volta. C'erano I trentanove gradini e tutti i William Books. C'erano Flicka, la cavallina di Ken, e Maledizione e L'erba verde del Wyoming, e anche la copia di suo padre dell'Isola del tesoro, la copertina beige con il ritratto di Long John Silver identica a come la ricordava. Separò accuratamente quest'ultimo volume dagli altri e lo strinse con delicatezza. Poi lo aprì, sfogliandolo. E vide che metà delle pagine era scomparsa e che al suo posto c'era una scatoletta di plastica. Posò il libro sul pavimento e tornò verso il computer. Aprì la scatola. Dentro c'erano due CD.
Li sollevò cautamente, stringendone i bordi argentati, e s'inginocchiò accanto al portatile. Ne infilò uno nell'apposita fessura. Cliccò sull'icona per aprire i file. Il computer emise un forte bip e mostrò una finestra di dialogo. PASSWORD PROTETTA, diceva. Il cursore lampeggiò lentamente. Lui digitò la parola OWEN. Il computer emise una nota musicale. Apparve il messaggio PASSWORD ERRATA. WORD NON PUÒ APRIRE QUESTO DOCUMENTO. Provò con CASSIDY, ottenendo la stessa risposta. Provò con MARIANNE. Sempre la stessa risposta.. Fece parecchi altri tentativi. CHRIS. RÓISÍN, VICTORIA. Inserendo qualunque nome e parola riuscisse a ricordare. Persino il suo nome. NICK, NICKY, NICHOLAS. Poi SUSAN, SUZY, SUE. Niente. Si picchiò il pugno sulla testa. Si sentiva nauseato dalla frustrazione. Era un'impresa disperata. La lista delle possibili password era illimitata. Si guardò intorno. Vide il libro sul pavimento. E ricordò. Ricordò quanto Owen lo avesse amato. Soprattutto il pappagallo. Lo aveva chiamato «il libro del pappagallo». «Leggimelo», strillava. E poi strillava ancora, con la voce dell'uccello: «Pezzi da otto, pezzi da otto». Pezzi da otto. Le dita di Nick si posarono sulla tastiera. Compitò le parole ad alta voce mentre le digitava e cliccava su OK. Sentì il ronzio e il mormorio del CD che iniziava a essere letto. Vide la lista dei contenuti. E gli allegati che li accompagnavano. Cliccò due volte su ognuna delle piccole icone. E vide le fotografie, le foto di Owen. Le foto di Marianne. Le foto di entrambi, insieme e da soli. E poi le altre foto. Di un bambino messo in posa e inquadrato. Le mani che tastavano il suo corpo. Le maschere che gli celavano il viso. Le luci che brillavano con tanta intensità da dare l'impressione di scintillare attraverso la trasparenza della sua pelle chiara. Finché non riuscì più a guardare, non riuscì a vedere nient'altro a causa delle lacrime che gli colmavano gli occhi e lo accecavano formando un'ondata pungente, salata. 30 C'era una volta un bambino. Aveva otto anni. Aveva folti capelli biondi che gli stavano ritti sulla testa. Aveva occhi di un azzurro brillante. Aveva gambe e braccia lunghe e magre. Non aveva paura del buio. Non aveva paura di niente, diceva. Tranne che in piena notte, quando si drizzava a sedere di scatto e gridava perché la madre andasse a consolarlo. E aveva la
bocca spalancata, da cui però non sgorgavano parole. Nessuna parola, soltanto suoni. Gemiti e grugniti e brevi grida acute. Lui affondava il viso nel tiepido corpo materno e piangeva. E lei gli si sdraiava accanto e lo stringeva finché il sonno non lo ghermiva di nuovo. Poi si staccava lentamente, molto lentamente, aspettando di essere sicura che il figlio non si muovesse. Quando tornava nel proprio letto diceva: «Ha qualcosa che non va, non riesco a capire perché abbia questi incubi». E suo marito ribatteva, assonnato: «Dipende dall'età. Ben presto supererà questa fase. Starà benissimo, vedrai». Ma adesso Nick aveva visto. E aveva visto anche dell'altro. Come le foto di Lizzie Anderson. Graziosa nella sua divisa scolastica. Mentre percorreva le stesse strade che adesso lui stava percorrendo. Portava la cartella. Rideva insieme alle amiche. Viva, felice, spensierata. E anche morta. Il suo viso gonfio e livido. Il bianco dei suoi occhi reso scarlatto dai vasi sanguigni rotti. Nick si era coperto gli occhi e aveva sbirciato attraverso le dita l'immagine sullo schermo. E anche tutte le altre. Ragazze e ragazzi, di ogni età, di ogni forma e dimensione. Tutti pronti e in attesa del tocco sulla tastiera e del clic con il mouse. Aveva tentato di cancellarli, di scacciarli, ma rifiutavano di andarsene. Continuavano a riapparire sullo schermo, a scintillare, a guardarlo. Finché non aveva potuto fare altro che sollevare il computer e scagliarlo sul pavimento. Plastica e vetro, metallo e fili elettrici da calpestare, il tacco del suo stivale che li riduceva a un ammasso di schegge e frammenti. Ma le immagini erano rimaste, intatte, dentro di lui. C'era una volta un uomo con una vita perfetta. Aveva una moglie e un figlio e una casa. Godeva di un'ottima reputazione. Era diventato famoso. Era un creatore di bellezza. Un artista. Era come il figlio delle stelle nella favola. Aveva tutto. Ma girò le spalle alla bontà. E divenne simile alla creatura con la faccia di un rospo e il corpo coperto di squame come quello di una vipera. Emarginato, disprezzato, perduto. Cominciò a correre, i piedi che strisciavano in mezzo a cumuli di foglie bagnate, il respiro che gli si bloccava in gola. C'era una volta un bambino. Ma adesso il bambino era morto. Nick ne era sicuro. Aveva visto la foto. Il bambino steso sul pavimento. Aveva gli occhi aperti ma il suo sguardo era fisso. E c'era un'altra fotografia. Il padiglione estivo. Nel giardino che ormai faceva parte della scuola. Róisín era seduta sul primo gradino. Stringeva un mazzo di fiori. Sorrideva. Varcò il cancello posteriore, correndo. Salì due alla volta i gradini che
portavano in cucina. Susan era seduta al tavolo. Sembrava pallida e stanca. Si alzò. Gli urlò qualcosa. «Dove sei stato? Ti ho cercato.» Nick le si fermò di fronte. Ansimò per riprendere fiato. «Il padiglione estivo. Qui accanto. Perché lui l'ha spostato?» «Di cosa stai parlando?» gridò lei. «Perché diavolo dovrebbe interessarti?» Nick fece un passo verso di lei. Susan indietreggiò. «Non osare avvicinarti», gli disse. «Come hai potuto? Come hai potuto farlo? Non ho mai creduto che avessi qualcosa a che fare con la scomparsa di Owen. Sapevo che altre persone lo pensavano. So che qualcuno ritiene che il padre sia sempre coinvolto. Ma non l'ho mai pensato di te. Mai.» «Che cosa? Cosa vuoi dire, Susan, qual è il problema? Perché mi stai dicendo tutto questo?» «Credevi davvero di farla franca, giusto? E sai, c'eri quasi riuscito. Se solo non fossi tornato. Perché sei tornato? Perché?» «Susan, dimmelo, dimmi cosa è successo.» Nick cercò di prenderle le mani, ma lei lo respinse. Cercò di abbracciarla, ma lei si divincolò. «Non toccarmi, non avvicinarti a me. La polizia ti sta aspettando. Mi hanno detto che dovevo avvisarli non appena tornavi. E lo farò, ti giuro che lo farò.» Si diresse verso il telefono fissato al muro, ma lui lo afferrò e lo scagliò a terra. Susan singhiozzò, il viso reso grigiastro dalla spossatezza. «Susan, dimmi cos'è successo. Non capisco perché ti stia comportando così. Non so cosa c'è che non va. Siediti. Non ti farò del male. Lo sai. Non ti farei mai del male. Non farei mai del male a nessuno. Ti prego, fidati di me. Dimmelo.» I poliziotti erano passati lì a casa un'ora prima. Susan era appena tornata dal lavoro. Le avevano spiegato di essere stati in Inghilterra. Avevano interrogato un uomo rinchiuso in un carcere laggiù. L'uomo aveva una fotografia di Owen. «Me l'hanno mostrata. Non l'avevo mai vista. Dev'essere stata scattata in una di quelle cabine automatiche, come quella che c'è al centro commerciale. A quanto pare, inizialmente la foto apparteneva a un altro detenuto, un uomo condannato per abusi sessuali su bambini. Comunque ormai è morto. Ma pare che si trovasse qui a Dublino il giorno in cui Owen è scomparso, e quando sono andati a trovare sua moglie, la sua ex moglie, lei ha dato loro qualcosa che l'uomo aveva portato con sé da Dublino.
Qualcosa che gli aveva regalato un suo amico di qui. E sai che cos'era, Nick?» Lei alzò gli occhi per incrociare quelli di lui. «Dimmelo», ribatté Nick. «Era una delle tue maschere. La maschera da gazza. E sembra che l'uomo avesse ricevuto in dono anche quella da volpe. La maschera da volpe di Owen. Sai, quella che gli facesti tu.» Lui la fissò, scioccato, l'incredulità stampata sul volto. «Ma come...» Le parole gli uscivano a fatica di bocca. «Come l'ha avuta?» Lei si strinse nelle spalle. «Dimmelo tu, Nick. Dimmelo tu» «Il suo nome, ti hanno rivelato il suo nome?» E quando Susan glielo disse, lui ripensò alla telefonata di Hickey. Metcalfe, il molestatore, e i ragazzi di cui avevano trovato le foto sul suo hard disk. Si prese la testa fra le mani e gemette di disperazione. «Allora, cos'hai da dire?» La voce di Susan suonò fredda, perfettamente controllata. Erano seduti nella macchina di Conor, davanti alla casa dei Cassidy. Min era felice del buio. Aveva evitato il più a lungo possibile di restare sola con lui, da quando era tornata da Llandudno. Ma non poteva più evitarlo. Riusciva a percepire la tensione e la rabbia di Conor, che guardava fisso davanti a sé, una mano posata sul volante e da cui penzolava una sigaretta, l'altra che strofinava l'attillato tessuto denim dei suoi jeans. Lei sollevò il coperchio della scatola da scarpe che aveva sulle ginocchia e abbassò lo sguardo sulla maschera. «Cosa ne pensi?» Il tono di voce di Conor suonò accuratamente neutro. «Credi che lei lo sapesse? È stata categorica nel negare qualunque coinvolgimento del marito nella vicenda. Le hai creduto?» «Creduto che non sapesse niente lei oppure lui?» «Entrambe le cose. Comunque sia.» Conor diede un tiro alla sigaretta, il viso illuminato dal bagliore rossastro. «Sono convinta che lei non sappia niente, il suo shock mi è sembrato reale. Quanto a lui... Prima che andassimo in Inghilterra, avrei giurato che non fosse minimamente coinvolto, ma da allora la mia sicurezza è svanita.» «Sul serio? Non è affatto da te.» Lui spostò il peso sul sedile. «Cosa vuoi dire?» «Be', di solito sei piuttosto sicura su tutto, non è vero, Min? Eri sicura di
voler andare a letto con me. E poi, il mattino dopo, sicura di non voler avere più nulla a che fare con me. Niente 'se', 'ma' o 'forse'. Solo la tua fottuta certezza.» Min si sentì assalire dalla nausea. Guardò fuori dal finestrino. «Niente da dire, nient'altro da aggiungere?» Il giovane si appoggiò allo schienale e si voltò parzialmente verso di lei. «Ho detto tutto quello che dovevo dire, Conor. È stato bello, cioè mi è piaciuto molto, ma considera la mia situazione. Tanto per cominciare sono più vecchia di te. In secondo luogo, ho due figli che hanno bisogno di tutta la mia attenzione.» «E terzo, non mi trovi attraente, non mi desideri, sicuramente non mi ami». Lui sputò le parole verso Min. «Oh, avanti, Conor, abbi pietà. Non vorrai dire che mi ami, vero? Dopo... dopo solo...» «Solo una scopata da ubriachi in un hotel cencioso, è questo che intendi? Troppo alcol, troppa eccitazione, troppo poco buonsenso. Giusto?» «Sì, d'accordo, se è così che vuoi metterla.» Min fu assalita da un'ondata di rabbia. «Sei uno stallone magnifico, Conor, ma poco altro.» Scese dall'auto e sbatté la portiera dietro di sé. Attraversò la strada, raggiungendo la cancellata. I ciliegi proiettavano lunghe ombre sull'erba. In un punto imprecisato, sul lato opposto della piazza, un petardo esplose con un forte bang e uno sprazzo di colore illuminò il cielo. Lei sentì la portiera che si apriva e si richiudeva. Sentì i passi di Conor. Lo sentì accanto a sé. «Senti, mi dispiace, non avrei dovuto.» Poi tacque. Lei si voltò a guardarlo. «No, non scusarti. Non è colpa tua. Non avrei dovuto farlo. Sai, Conor, queste ultime settimane mi hanno costretto a prendere parecchie decisioni. Sono andata avanti a forza di inerzia per troppo tempo. Devo decidere. Voglio tornare a essere un vero poliziotto oppure voglio essere una casalinga, una madre e una lavoratrice part-time? E sai una cosa? Stare con te, vedere come agisci, come lavori, quanto ami il tuo lavoro, mi ha mostrato la strada. E non posso rinunciare a tutto questo. Devo restargli fedele. Capisci?» Lui annuì. Min si voltò e si appoggiò alla cancellata. «Sai cosa penso? Penso che dovremmo tornare a trovare Susan Cassidy. Comincia a fare tardi. Ormai deve aver avuto notizie del marito.» Si allontanò. «Sei con me?» chiese.
Lui annuì. Allungò le braccia sopra la testa, afferrandosi un gomito con l'altra mano. «Certo», rispose. Nick si issò in cima al muro ed ebbe un attimo di esitazione, poi si lasciò cadere sull'erba sottostante. La porta del padiglione era aperta. Si voltò a guardare dietro di sé. Susan era ferma accanto alla porta della cucina. La salutò con la mano. Lei non si mosse. L'aveva supplicata. «Ascoltami, ti prego. Ascoltami. Devi credermi. L'ultima volta in cui ho visto le maschere è stato quel mattino. Sono entrato nella camera di Marianne, e lei e Owen erano seduti sul letto. Stavano incollando le piume sulle maschere, dando il tocco finale. Dopo di che non le ho più viste. Mai più. Non ho idea di dove siano finite. Neanche la più pallida idea. Susan, devi credermi. Concedimi solo un'ora. E ti prometto che a quel punto sarà tutto finito.» Lei non aveva replicato. «Tutto ciò che ti chiedo è un'ora. Poi potrai chiamare la polizia. E farò tutto quello che vogliono. Ti prego.» Gli era tornato in mente quel pomeriggio, quando aveva visto la foto di Lizzie Anderson. Qualcosa che Róisín aveva detto. Guardavamo te e quella puttana dalla strada. Vi guardavamo. La finestra dello studio di Gina era enorme. Lei e il marito avevano eliminato l'originaria finestra a ghigliottina rettangolare sostituendola con una grande vetrata quadrata. Hai bisogno di tende, le aveva detto lui. Ma Gina era scoppiata a ridere. Io con delle tende, che idea ridicola, aveva risposto. Avevano spiato anche Lizzie. Bellissima, giovane, nuda. Offerta al loro sguardo. Ne era sicuro. Si diresse verso il padiglione estivo. Entrò. Il pavimento scricchiolò sotto il suo peso. Si accovacciò e frugò tra le foglie morte e i brandelli di giornale. Le sue dita trovarono la scatola di latta per il tabacco. Sollevò il coperchio. Estrasse la candela. L'accese. Con la mano messa a coppa protesse la fiamma finché non acquistò forza. Poi fece colare della cera sul davanzale fino a formare una morbida e malleabile montagnola e vi piantò energicamente la candela. Infine si sedette sul pavimento, la schiena appoggiata al muro. Chiuse gli occhi. E aspettò. «Per quanto ancora dovremo aspettare il ritorno di suo marito, dottoressa Cassidy?» Il tono di Conor era freddo.
«Ve l'ho già detto. Ho provato a chiamare il suo cellulare, ma, a quanto pare, è spento.» La voce di Susan suonò altrettanto fredda. «Non sono il suo guardiano. Non cronometro a che ora entra ed esce. Forse, se avete qualcosa da dire, potreste dirla a me.» «Susan.» Min le si avvicinò ulteriormente. «Non sono sicura che lei comprenda la gravità della situazione. Sa che tra il materiale trovato da Conor sul computer portatile di Nick c'erano le foto di alcuni ragazzi che sono stati identificati come vittime di William Metcalfe? Lo stesso William Metcalfe la cui moglie mi ha dato la maschera da gazza.» Susan non fiatò. «Quindi, se non le dispiace, credo che lo aspetteremo qui.» Lei annuì. Si fece da parte e li accompagnò in soggiorno. «Rimanga con noi.» Il tono di Conor fu cordiale ma deciso. Susan annuì di nuovo. Mise altro carbone sul fuoco, poi si sedette, dando la schiena alla piazza. La casa era immersa nel silenzio. Fuori, fuochi d'artificio sempre più numerosi cominciarono a esplodere nel cielo notturno. «È un brutto periodo dell'anno, questo, per cani e gatti.» Conor si alzò e guardò fuori dalla finestra. «Il barboncino nano di mia nonna impazziva sempre, il giorno di Halloween.» Min sorrise. «Non è una prospettiva molto allettante quella di un barboncino nano che impazzisce, vero?» Susan non rispose. Sembrava esausta, tesa, terrorizzata. Min si piegò verso di lei. «Senta, sono sicura che esiste una spiegazione per tutto questo», disse. «E sono sicura che, quando lo troveremo, Nick sarà in grado di rivelarci cosa significa tutto ciò.» «Quando lo troverete?» chiese Susan con voce querula. «Quando lo troveremo.» Conor si sedette di nuovo. «Lo stiamo cercando. Abbiamo diramato la sua descrizione. Non può andare da nessuna parte. Se ne rende conto, vero?» Nick aprì gli occhi. Guardò verso la casa. In cucina c'era la luce accesa. Chris e Róisín erano in piedi sulla soglia. Li guardò scendere i gradini che portavano in giardino. Tastò la tasca interna del cappotto. Le sue dita scivolarono sui CD. Li posò sul pavimento. La luce proiettata dalla candela scintillò sulla loro superficie lucida. Alcuni arcobaleni danzarono e alcune strisce colorate guizzarono e svolazzarono da un'estremità sfavillante all'altra. Si chinò sopra di essi e li guardò. Il suo viso lo fissò. Insieme ai volti di tutte le altre persone le cui immagini erano intrappolate all'interno di
quei dischetti di metallo lucido. «Li hai trovati.» Chris si stagliò sulla soglia. «Mi chiedevo se ci saresti riuscito.» Entrò nel padiglione, seguito dalla sorella. Si sedettero, a gambe incrociate, vicini, e fronteggiarono Nick. «E adesso?» Il giovane cinse la sorella con un braccio e si posò la sua testa sulla spalla. Gli occhi verdi di Róisín erano fissi. Sembravano pietre, pensò Nick. Come quelle che trovi in fondo a un laghetto di rocce. Lucide quando bagnate, ma opache e senza vita quando si asciugavano. «E adesso?» Nick ripeté le parole. «E adesso vorrai sicuramente sapere. Perché e cosa e come e dove. Giusto?» Nick annuì. Chris si voltò verso la sorella. Lei sollevò il viso verso di lui, che la baciò dolcemente sulla bocca. «Glielo diciamo, tesoro? Gli raccontiamo tutte le cose intelligenti che abbiamo fatto?» «Cominciamo con il dove.» Nick spostò il peso del corpo. «Dove hai nascosto mio figlio? È qui da qualche parte? È sotto di noi? L'hai dovuto spostare, vero? Quando hanno costruito la piscina nel giardino di tua nonna, l'hai dovuto spostare. È così, vero?» Chris sorrise e strinse più forte Róisín. Le lisciò la lunga gonna scura sopra le gambe. Lei portava degli stivali, allacciati sul collo del piede. «Sei un ragazzo intelligente, vero? Molto intelligente. Come Owen. Era un bambino così intelligente. Ma non era furbo. Non capiva quando era il momento di lasciar perdere. Vero, Róisín? Era quello il suo problema, intelligente ma non furbo.» La ragazza non rispose. Prese la mano di Chris e se la posò sul viso. Si premette le sue dita sulla mascella, poi le fece scendere in modo che le cingessero la gola. I suoi opachi occhi verdi fissavano Nick. «Glielo diremo. Metteremo fine al suo tormento. D'accordo?» Lei chiuse gli occhi. «Chiudi gli occhi, Nick, e spalanca la mente, la fantasia. Sto per raccontarti una storia. E tu puoi fornire le illustrazioni. Sei pronto? Sei concentrato? C'era una volta. «C'era una volta un bambino. Aveva otto anni. Aveva folti capelli biondi che gli stavano ritti sulla testa. Aveva occhi di un azzurro brillante. Aveva gambe e braccia lunghe e magre. Viveva in una grande casa con il padre e la madre e la bambinaia. Ma lei non era solo la sua bambinaia. Era il suo
grande amore. Lui avrebbe fatto qualunque cosa lei desiderasse. Ma lei non l'amava nello stesso modo in cui l'amava lui. Era innamorata di un altro. E per lui avrebbe fatto qualunque cosa le venisse chiesta. In realtà, il loro era un triangolo. Ognuno dei tre dipendeva dal fatto che l'altro si comportasse in un certo modo. Poi il bambino diventò geloso degli altri due. E quel giorno, il 31 ottobre 1991, li vide insieme. La cosa non gli piacque. Era un bambino intelligente. Sapeva leggere benissimo, troppo bene per la sua età. Quel giorno lesse un giornale che aveva pubblicato la fotografia di una ragazza e un articolo sulla sua morte. E all'improvviso capì cosa doveva fare. Sapeva di aver visto quella foto da qualche altra parte. E sapeva chi l'aveva scattata. Arrivò nel seminterrato. Non avrebbe dovuto trovarsi lì. Gli era stato proibito di andarci. Ma lui era lì. E mi disse che avrebbe raccontato alla polizia delle foto che avevo scattato a Lizzie. Le aveva viste. Non tutte, ma un numero sufficiente. Era arrabbiato. Stava urlando e strepitando. Non riuscivo a farlo tacere.» «Così l'hai ucciso.» «No, non è stato lui. Sono stata io.» Róisín si tolse la mano di Chris dalla gola. Il suo sguardo era tranquillo e fermo. «L'ho ucciso io. Non potevo permettergli di fare qualcosa che avrebbe danneggiato Chris. Non potevo. Così l'ho preso per la gola. E ho stretto e stretto e stretto. Nello stesso modo in cui avevo visto Chris uccidere Lizzie. Tutto qui. Alla fine lui era morto. E Chris era salvo. Fu tutto così facile.» Sospirò. Si appoggiò al fratello e gli prese nuovamente la mano. Gli baciò il palmo. Nick deglutì. Cercò di parlare, ma aveva la bocca secca. La sua lingua rifiutava di muoversi. Le sue labbra rifiutavano di aprirsi. «Chris ha ucciso Lizzie.» Le parole sgorgarono in un fiotto improvviso. «Esatto. Il giorno in cui rise di me quando la raggiunsi nella rimessa. Il giorno in cui disse che non mi voleva, che stava benissimo senza di me.» Il giovane imitò la voce della ragazza. «Stava da Dio, disse, non voleva intorno nessun ragazzino. Ero troppo giovane per lei. Avevo solo tredici anni, mentre lei ne aveva quindici e aveva un vero uomo, disse. E mi disse di andare al diavolo. Di lasciarla in pace.» «Ma tu non l'hai fatto.» «No. Non poteva passarla liscia. L'avevo guardata per settimane mentre posava per il quadro. Lei sapeva che ero lì. Mi aveva visto. Mi aveva visto seguirla quando andava a incontrare 'il suo vero uomo'.» Imitò di nuovo la voce di lei. «Così feci quanto andava fatto.»
«E io lo vidi. Gli ero andata incontro. Vidi tutto. Restammo tutti e due così stupiti vedendo come era stato facile, vero?» Adesso gli occhi di Róisín brillavano. Erano di nuovo verdi come il mare. Il vento fece vibrare la struttura lignea del padiglione. La fiammella della candela tremolò. «Fu la sorpresa a renderlo così facile. Era l'ultima cosa al mondo che lei si sarebbe aspettata.» Chris sorrise. «L'ultima cosa al mondo che si sarebbe aspettata», ripeté Róisín. «Stava ridendo di Chris. Io la spinsi. E lei cadde.» «Era ubriaca, vero? Aveva bevuto della vodka con il vero uomo. E quando Róisín la spinse...» «Solo una spintarella, per niente forte.» «Solo una spintarella, per niente forte, ma lei cadde all'indietro, proprio come uno di quei bambolotti dei bimbi, quelli che non riescono a restare dritti.» «E poi Chris le saltò addosso, vero, Chris?» «Sì, le saltai addosso e la afferrai alla gola. Fu la sorpresa. Era l'ultima cosa al mondo che si sarebbe aspettata.» «E lei continuò semplicemente a ridere finché non riuscì più a farlo.» «E l'abbiamo fatta franca, vero, Róisín? Nessuno ha mai capito che eravamo stati noi. Nessuno ha mai sospettato che avessimo avuto qualcosa a che fare con la sua morte. Continuavamo a pensare che qualcuno avrebbe sospettato di noi, ma non successe mai. E in seguito capimmo di poter fare qualunque cosa con chiunque. Qualunque cosa.» «Ma Owen lo scoprì e decise di raccontarlo in giro.» Il tono di Nick era pacato. «Owen lo scoprì. Decise di raccontarlo in giro. Owen morì. Venne avvolto in una coperta e nascosto nel ripostiglio sotto le scale.» «Ma non...» Nick deglutì di nuovo. «Non prima che tu lo fotografassi. Ho visto la foto.» «Sì, lo abbiamo fotografato. Foto come quelle sono redditizie. Sono rare, molto ricercate. E io lo sapevo. E quando è arrivato il signor Metcalfe, gli ho spiegato che avrei avuto qualcosa di speciale per lui, di lì a pochi giorni. Gli ho regalato un paio di maschere e una fototessera di Owen che gli avevo trovato in tasca. E lui rimase soddisfatto.» «Metcalfe, l'uomo di cui i poliziotti vogliono parlarmi. Lo conoscevi?» «Oh, sì, lo conoscevo bene. Lo conoscevo da parecchio tempo. Era un amico di mio padre. Oh!» Chris assunse un'espressione divertita. «Non sa-
pevi di mio padre, vero? Era lui l'esperto. Fu lui a insegnarmi cosa fare. Non è vero, Róisín? È stata tutta un'idea di papà.» Lei gli sorrise e annuì. Un'improvvisa raffica di vento fece vibrare il padiglione. La candela tremolò. Nick si schiarì la voce. Si sentiva infreddolito e nauseato. Si sentiva estraniato, come se le parole che gli uscivano di bocca non fossero le sue. Aprì la bocca e parlò di nuovo. «Così lo avete ucciso. Lo avete fotografato. Lo avete avvolto in una coperta. Lo avete nascosto in un ripostiglio. E poi? Poi cosa avete fatto?» «Cosa ho fatto, Róisín? Te lo ricordi?» Lei annuì. «Sì. Lo hai nascosto in attesa del buio. E poi è scoppiato un pandemonio perché era scomparso. Tu hai detto che saresti andato a vedere se riuscivi a trovarlo. Non è stata una bugia. Solo, non hai precisato che sapevi dov'era. Così io l'ho trasportato fuori sulla macchina, parcheggiata nel viottolo sul retro. Poi, quando sei tornato, lo hai portato a casa della nonna. Lo hai nascosto nel bidone del compost. Il giorno dopo, siamo andati ad aiutarla con il giardino. Ti chiedeva sempre di zappare per lei, in autunno. Io sono rimasta in casa con lei e ho preparato il tè, e le ho mostrato il balletto che stavo imparando per il mio saggio di danza. E intanto tu hai scavato nel suo orto e l'hai sepolto. Tutto qui.» «Ma pensavo...» La voce di Chris s'intonò a quella della sorella. «Pensavo che, alla sua morte, la nonna avrebbe lasciato la casa a noi. Invece non fu così. La lasciò alla scuola, i cui amministratori decisero di costruire una piscina. Credo che tu possa immaginare cosa fui costretto a fare a quel punto.» Sospirò. «Perché mi stai raccontando tutto questo, Chris?» Nick raddrizzò la schiena. «Sei stato tu a uccidere Marianne, vero?» «Ah, qui ti sbagli. Su questo ti sbagli. È stato un incidente. Un autentico incidente. Be'...» Esitò e distolse lo sguardo per un attimo. «Forse non completamente. Non voleva fare sesso con me. Cercò di fermarmi, ma non volli saperne. Così la spinsi contro il muro e, per farla stare zitta, le feci sbattere la testa contro i mattoni, solo un paio di volte, solo perché smettesse di lottare. E poi, be', non riusciva a stare in piedi, così la stesi sul binario. E poi, e poi...» «Ma il mio orologio? Com'è finito là?» «Il tuo orologio. Ah, quello fu un vero colpo da maestro.» Chris si piegò in avanti per prendere i CD. Li passò a Róisín. «Sei troppo fiducioso, sai. Hai lasciato che il tuo amichetto Emir, il povero piccolo Emir senza voce, rovistasse fra le tue cose. Vide il tuo orologio e lo rubò. E io lo rubai a lui.
Avevo intenzione di restituirtelo, ma poi trovai un altro modo di utilizzarlo. Non è vero, Róisín?» Lei annuì. Prese la candela dal davanzale. Tenne sospesi i CD sopra la fiamma finché non divennero neri e bruciacchiati e deformati. Li rimise sul pavimento. «E gli hai insegnato tu cosa fare con il computer? Sei responsabile anche di questo? Cosa gli hai fatto per indurlo a mostrarmi le foto? Gli hai fatto del male?» Lui sorrise. «Fare del male a Emir? Neanche per sogno. L'ho corrotto, nient'altro. Qualche dolciume qui, un bacio e una coccola là. Emir vuole essere amato. Non ha un padre, così ne cerca costantemente uno. Gli assistenti sociali e gli strizzacervelli e la polizia lo definiscono grooming. Io lo chiamo divertirsi. È quello che nostro padre faceva con noi. Oh, non fraintendermi. Non la parte con il computer, quella è stata un po' dopo i suoi tempi. Ma prima dei computer c'erano libri e riviste e film, e poi fu la volta delle videocamere. Sono sicuro che ti sei fatto un'idea. Esistono generazioni di persone come me e mio padre. Prima di lui c'era stato suo padre, e probabilmente anche il padre di suo padre. Ma è per questo che abbiamo deciso di raccontarti tutto. Non è così, sorellina?» Lei annuì. «Adesso spiegagli perché lo stiamo facendo e cosa faremo in seguito.» Róisín girò la testa. Fissò Nick. «Ci stiamo liberando dei nostri fardelli, ecco cosa stiamo facendo. Abbiamo preso una decisione. Ne abbiamo abbastanza. Ce ne andiamo. E prima di partire vogliamo compiere una buona azione.» «E quale sarebbe, sorellina?» «Gli restituiamo il suo bambino perduto.» «E in cambio?» Nick si piegò in avanti. «Cosa volete da me?» «In cambio ci concederai un po' di tempo.» Chris si alzò e tirò in piedi la ragazza. «Adesso andiamo.» Si dondolò delicatamente da una parte all'altra. «Ho un'ultima cosa per te.» Uscì in giardino. «Vieni con me.» Nick esitò. «Avanti.» Chris ridacchiò. «Non ti farò del male, se è questo che stai pensando. Non ho alcun interesse a farti del male.» Lo invitò a seguirlo con un gesto e Nick uscì lentamente, nel buio. «Qui.» Il giovane girò intorno al padiglione. Un badile dal lungo manico era appoggiato al muro. Lo sollevò sopra la testa e lo riabbassò con forza. «Qui», ripeté. «Scava qui. Scava a fondo. E lo troverai.»
Min era in piedi nella cucina dei Cassidy, al buio. Si era offerta di preparare il tè. «So dove trovare tutto il necessario», disse. «Ci penso io.» Posò la mano sull'interruttore. Poi si bloccò. Si avvicinò alla finestra. Una fiammella guizzava nel giardino dei Goulding. Aprì la porta e si fermò sul primo gradino. Riuscì a distinguere una figura che si muoveva lì sotto e a sentire il rumore di un badile che scavava producendo tonfi ritmati, costanti. Scese rapidamente la scaletta e attraversò il prato, raggiungendo il muro. Spiccò un salto, affondando le dita negli interstizi tra le pietre di granito, i piedi che si sforzavano di trovare un punto d'appoggio. Si issò sulla sommità, poi si lasciò cadere con cautela dalla parte opposta. Una candela era appoggiata al primo gradino che portava nel padiglione estivo. Nell'alone di quella luce Min intravide il corpo di un uomo steso a terra. Aveva il viso imbrattato di sangue e altro sangue stava colando tra l'erba, formando una pozza scura sempre più ampia. Zolle di terriccio erano impilate accanto a lui, in un cumulo disordinato. E Nick, in ginocchio, stava frugando nella buca che aveva scavato. «Nick, che cosa hai fatto?» mormorò pacatamente lei. «Cosa stai facendo?» Lui la guardò. Stava piangendo. Stringeva qualcosa di piccolo e tondo tra le mani. «Non avvicinarti», disse. «Anche tu hai dei figli. Meglio che tu non veda questo.» Lei fece per saltare giù nella buca, al suo fianco. «Ti prego.» Nick la guardò dal basso. «Ti prego, vai a chiamare Susan. Ora lui ha bisogno di sua madre.» 31 Rappresentarono una strana scoperta, quel paio di calzature allineate con precisione sulla riva del lago superiore di Glendalough. La guardia forestale si chinò per osservarle meglio. Erano stivali da donna, del tipo che si allaccia ben stretto sul collo del piede. Numero trentanove, neri, con un bel tacco largo. Chi si suicida per annegamento si toglie sempre le scarpe. Talvolta si lascia dietro anche gli abiti. Ma non in quel caso. Il lago di Glendalough è profondo e freddo. Non svela facilmente i propri segreti.
Le ricerche vennero abbandonate dopo una settimana. Un giorno, pensò Min mentre osservava il gommone di un arancione brillante e il suo equipaggio di sommozzatori della polizia tornare verso riva, solcando l'acqua grigia e increspata, il corpo di Róisín Goulding, la seviziatrice di Lizzie Anderson, l'assassina di Owen Cassidy, sarebbe riaffiorato. Un giorno. E lei avrebbe raggiunto il fratello, Chris, e finalmente sarebbero stati inseparabili. Seppellirono Owen per la terza volta, accanto alla madre e al padre di Nick. Nick disegnò una semplice lapide. Liscia pietra calcarea con inciso il nome del figlio e la sua data di nascita e quella di morte. Lui e Susan visitavano costantemente la tomba. Portavano fiori in primavera e in estate. Formavano di nuovo una coppia. C'era voluto un po' di tempo. Ma entrambi sapevano che, qualunque cosa avessero dovuto affrontare in passato, il loro futuro era insieme. Di solito andavano a trovare Owen insieme. Mano nella mano. A braccetto. Ma, con il procedere della gravidanza di Susan, Nick ci andò da solo. Non si fermava a lungo. Solo il tempo sufficiente per raccontare al figlio le ultime notizie. Come stava sua madre. Con quanta ansia aspettavano la nascita del bambino. Come sapevano che non avrebbe mai sostituito Owen, ma che avrebbe dato loro speranza per il futuro. «La volpe ha lasciato il giardino», spiegò Nick al figlio. «C'erano troppi estranei a disturbare la quiete, minacciando la sua incolumità e quella dei cuccioli. E anche il padiglione estivo è scomparso. Ma non preoccuparti. Lei troverà un'altra tana per i piccoli dell'anno prossimo. Puoi starne certo.» A volte Min passa in auto per la piazza e oltrepassa la loro casa. Rallenta, ma senza fermarsi. Non entra. Ha visto l'annuncio della nascita sul giornale. È stata felice per entrambi. E suoi figli non leggono più la storia del figlio delle stelle. Sono passati oltre. E anche lei. Testimonierà al processo di Nick Cassidy per l'omicidio di Chris Goulding. Ci sono opinioni contrastanti sul possibile esito. Lei si aspetta una pena detentiva. E pensa che Nick se la caverà egregiamente. Sarà premiato per buona condotta. Offrirà i suoi servigi alla scuola del carcere. E verrà rilasciato nel giro di pochi anni. Dopo di che sarà tutto finito. Anche se talvolta, nell'ora del cane e del lupo, le sembra di vedere con la coda dell'occhio una figura familiare. Una ragazza dal corpo snello, con capelli biondo cenere e opachi occhi verdi. E s'interroga sugli stivali lasciati sulla riva del
lago. Fai attenzione, pensa, fai attenzione. RINGRAZIAMENTI Vorrei ringraziare in particolar modo i membri dell'An Garda Siochàna, che mi hanno parlato del loro lavoro e della loro vita; Gemma Holland del progetto COPINE; P.J. Lynch e Ursula Mattenburger che mi hanno entusiasmato con la loro competenza in fatto di carta, pennelli, pennini e inchiostri; Dave Wall per la sua conoscenza della volpe urbana; Selma Harrington e Nasiha Hravçic che mi hanno parlato della Bosnia prima e dopo la guerra; Paula O'Riordan e Renée English per le loro interessanti conversazioni sui bambini; Alison Dye per la sua fiducia, la speranza e l'immancabile senso dell'umorismo; Phil McCarthy, Cecilia McGovern, Renate Ahrens-Kramer, Sheila Barrett e Joan O'Neill per i commenti, le critiche e lo spasso; Maria Rejt per la sua perspicacia e Chantal Noel per il suo sostegno; mio marito John Caden per il suo amore. FINE