Terry Brooks IL PRIMO RE DI SHANNARA
Traduzione di Riccardo Valla. MONDADORI. COPYRIGHT BY TERRY BROOKS. PUBBLICATO D'I...
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Terry Brooks IL PRIMO RE DI SHANNARA
Traduzione di Riccardo Valla. MONDADORI. COPYRIGHT BY TERRY BROOKS. PUBBLICATO D'INTESA CON BALLANTINE BOOKS, A DIVISION OF RANDOM HOUSE, INC. 1996 ARNOLDO MONDADORI EDITORE S.P.A., MILANO. TITOLO DELL'OPERA ORIGINALE: FIRST KING OF SHANNARA. I EDIZIONE OTTOBRE 1996. II EDIZIONE NOVEMBRE 1996. A Melody, Kate, Lloyd, Abby e Russell. straordinari venditori di libri. Parte prima. LA CADUTA DI PARANOR.. 1 Il vecchio druido comparve all'improvviso, come scaturito dal nulla. Il cacciatore delle Terre di Frontiera stava seduto nella protezione dell'ombra di una grande quercia per non farsi avvistare dai nemici, e da molto tempo stava all'erta per vederlo arrivare, sulla vetta di un'altura da cui si dominavano le Pianure di Streleheim e i sentieri che le percorrevano. Ma anche se la distesa era chiaramente visibile per almeno dieci miglia alla luce del plenilunio, il cacciatore non l'aveva visto. Farsi cogliere così di sorpresa era fastidioso e vagamente umiliante, e il fatto che ciò si ripetesse a ogni loro incontro non glielo rendeva più accetto. Come faceva, il vecchio? L'uomo della Frontiera aveva trascorso quasi tutta la vita in quella regione ed era sopravvissuto grazie alla prontezza di spirito e a una lunga esperienza. Riusciva a vedere cose di cui gli altri uomini ignoravano perfino l'esistenza. Leggeva i movimenti degli animali nella scia del loro passaggio in mezzo all'erba alta. Sapeva dire di quante ore di cammino lo precedevano e a che andatura si allontanavano. Ma non era riuscito a scorgere il vecchio nella più chiara delle notti e nella più vasta delle pianure, pur essendo in attesa del suo arrivo. Il fatto che il vecchio non incontrasse difficoltà a trovarlo non gli era di grande consolazione. Lasciato volutamente il sentiero, il nuovo venuto si avvicinava adesso a passi lenti e misurati, la testa leggermente china, gli occhi che mandavano lampi dall'ombra del copricapo. Vestiva di nero, al pari di tutti i Druidi, e sopra la veste portava un mantello col cappuccio: se l'era avvolto strettamente e la sua sagoma finiva per essere una macchia ancor più scura dell'ombra in cui s'inoltrava. Non era un uomo imponente, né per statura né per ampiezza delle spalle, ma dava un'impressione di grande vigore e decisione. Gli occhi, che alla
luce del sole erano quasi verdi, a volte diventavano bianchi come l'osso: soprattutto in quel momento, ora che la notte aveva rapito tutti i colori sostituendoli con sfumature di grigio. Brillavano come quelli di un animale intrappolato in una macchia di luce: ferini, penetranti, magnetici. La luna illuminò per un attimo anche la faccia del vecchio, sottolineando le rughe profonde che la solcavano dalla fronte al mento, danzando sulle creste e le valli della sua pelle. I capelli e la barba, benché ancora grigi, erano ormai prossimi al bianco; ciuffi sottili e ritorti come nidi di ragno che spuntavano dal cappuccio. L'uomo della Frontiera rinunciò a seguire quel filo di pensieri e si mise lentamente in piedi. Era alto e largo di spalle, ma non massiccio. Aveva capelli scuri, che portava lunghi e legati sulla nuca, occhi castani acutissimi e sicuri di sé, volto magro, tutto piani e spigoli, ma non privo di una sua rude bellezza. Quando fu salito fino a lui, il vecchio gli sorrise. "Come stai, Kinson?" lo salutò. Al suono familiare di quella voce, l'irritazione di Kinson Ravenlock venne spazzata via, come la polvere dal vento. "Sto bene, Bremen" rispose, e gli tese la mano. Il vecchio gliela strinse con forza e la tenne per qualche istante nella sua; la pelle era secca e scabra per l'età, ma la mano era ben salda. "Sei qui da molto tempo?" "Tre settimane. Meno di quel che mi aspettavo" rispose Kinson. E aggiunse: "Mi hai colto di sorpresa. Ma, se è per questo, tu riesci sempre a cogliermi di sorpresa". Bremen rise. Si era separato dall'uomo della Frontiera sei mesi prima, con l'accordo di ritrovarsi la prima notte di luna piena della quarta stagione, a nord del Castello di Paranor, dove la foresta cedeva il posto alle Pianure di Streleheim. Il tempo e il luogo dell'incontro erano stati fissati, ma non come se fossero stati scolpiti nella pietra: i due uomini erano ben consapevoli degli imprevisti a cui poteva andare incontro il vecchio druido, il quale si proponeva di inoltrarsi nei territori proibiti del Nord. Entrambi sapevano che il momento e il luogo dell'incontro sarebbero stati stabiliti da eventi imprevedibili. Kinson non dava importanza al fatto di aver dovuto attendere per tre settimane. Avrebbero potuto benissimo essere tre mesi. Il druido gli rivolse un'occhiata penetrante, e i suoi occhi erano adesso completamente bianchi e privi di colore, alla luce della luna. "Hai scoperto molto, durante la mia assenza? Hai messo a frutto il tuo tempo?" L'uomo della Frontiera si strinse nelle spalle. "In parte. Siedi con me, riposa. Hai mangiato?" Offrì pane e birra al vecchio, poi si accomodarono sotto le fronde, curvi l'uno accanto all'altro, rivolti verso l'immensità delle Pianure. Il silenzio vi regnava sovrano: la distesa giaceva vuota e sembrava estendersi all'infinito sotto la cupola della notte rischiarata dalla luna. Il vecchio mangiò distrattamente, adagio, assorto in altri pensieri. L'uomo della Frontiera non aveva acceso il fuoco né quella notte né le precedenti, fin da quando era iniziata l'attesa. Un fuoco sarebbe stato troppo rischioso. "I Troll si muovono verso est" cominciò Kinson, dopo qualche istante. "Sono migliaia, ben più di quanti sia riuscito a contarne quando mi sono introdotto nel loro accampamento, una notte di luna nuova, parecchie settimane or sono, allorché erano da queste parti. Le loro fila continuano ad accrescersi, a mano a mano che altri vengono arruolati. Dominano l'intera regione a nord delle Streleheim, fin dove sono riuscito ad accertarmene." S'interruppe. "Hai scoperto che le cose
stanno diversamente?" Il druido scosse la testa. Spinse indietro il cappuccio e la sua testa apparve come una sagoma nera ritagliata nello sfondo del chiarore lunare. "No" rispose. "Ormai, tutta la nazione dei Troll appartiene a lui." Kinson aggrottò la fronte. "Allora..." "Che altro hai visto?" lo interruppe il vecchio. L'uomo della Frontiera sollevò l'otre della birra e bevve un sorso. "I capi dell'armata se ne stanno appartati, sempre chiusi nelle tende. Nessuno li vede mai. I Troll hanno paura perfino di pronunciare i loro nomi, ed è strano. In genere, i Troll delle Montagne non hanno paura di nulla. Tolti i loro attuali capi, a quanto pare." Si girò verso il druido. "Ma la notte, ogni tanto, mentre attendevo il tuo ritorno, ho visto strane ombre stagliarsi nel cielo, alla luce della luna e delle stelle. Grandi creature nere e alate, che volavano nell'aria più alta per predare, per esplorare o semplicemente per sorvegliare ciò che avevano già preso... non lo so e non lo voglio sapere. Avverto la loro presenza, anche adesso. Sono qui, si aggirano attorno a noi. Sento la loro vicinanza come una sorta di prurito fastidioso, anzi, come il brivido che ti percorre la schiena quando ti senti osservato con intenzioni malevole. Mi fanno accapponare la pelle. Ma loro non mi vedono. So che se mi vedessero sarei morto." Bremen annuì. "Messaggeri del Regno del Teschio, votati al suo servizio." "Allora, lui è ancora vivo?" Kinson non riuscì a trattenersi dal chiederlo nuovamente. "Ne sei sicuro? Te ne sei accertato?" Il druido posò la birra e il pane e lo fissò. Il suo sguardo, però, era assente, ancora pieno di minacciosi ricordi. "E' vivo, Kinson. Vivo al pari di noi. L'ho seguito fino alla sua tana, nell'ombra più profonda della Lama del Coltello, dove il Regno del Teschio affonda più saldamente le radici. All'inizio, come sai, non ne avevo la certezza. Lo sospettavo, ne ero convinto, ma mi mancavano testimonianze dirette che lo provassero. Così mi sono diretto a settentrione, come ci eravamo detti, mi sono lasciato alle spalle la pianura e mi sono addentrato nelle montagne. E lungo il cammino ho scorto anch'io i cacciatori alati, li ho visti uscire solo la notte: grandi uccelli rapaci che perlustravano la regione alla ricerca di esseri viventi.LO mi ero reso invisibile come l'aria in cui volavano: vedendo me, non vedevano nulla. Mi sono costantemente ammantato di magia, ma non così forte che riuscissero a notarla in presenza della loro. Sono passato a occidente dei Troll, ma ho visto che l'intero territorio era già stato conquistato. Chi ha opposto resistenza è stato passato per le armi. Chiunque fosse in grado di fuggire è fuggito. Gli altri sono stati arruolati nell'armata." Kinson annuì. Erano passati sei mesi da quando le bande di Troll erano scese dalle Montagne Charnal a est e s'erano date alla sistematica conquista della propria razza. Il loro esercito era numeroso e veloce, e in meno di tre mesi aveva spezzato ogni resistenza. L'intero Nord era ormai in pugno al comandante dell'esercito conquistatore: un individuo misterioso, di cui s'ignorava l'identità. Circolavano su di lui parecchie voci, ma nessuna confermata. Del resto, a sapere della sua esistenza erano ancora in pochi: la notizia dell'esercito e del suo capo era giunta, nel Sud, soltanto agli insediamenti di frontiera come Varfleet e Tyrsis, incerti avamposti della Razza dell'Uomo, benché fosse già nota nelle Terre dell'Est e dell'Ovest, tra i Nani e gli Elfi. Ma queste razze erano strettamente
legate ai Troll, mentre l'uomo era il reietto, il più recente nemico delle altre creature. Il ricordo della Prima Guerra delle Razze era ancora vivo, benché fossero passati tre secoli e mezzo: l'uomo viveva isolato, nelle sue lontane città del Sud, un coniglio in fuga, pavido e senza zanne, privo d'importanza nel grande disegno dell'universo, cibo per predatori o poco più. Ma non io, pensò Kinson, con ira. Mai. Non sono un coniglio. Sono sfuggito a quel destino. Sono diventato uno dei cacciatori. Accanto a lui, Bremen cambiò posizione per stare più comodo. "Mi sono inoltrato nelle montagne, in profondità, per cercare il nostro nemico" proseguì, nuovamente assorto nel proprio racconto. "E più m'inoltravo, più si rafforzava il mio convincimento. I Messaggeri del Teschio erano dovunque, e sentivo la presenza di altri esseri, creature evocate dal mondo degli spiriti, carne morta riportata in vita, male incarnato. Me ne sono tenuto accuratamente alla larga e non ho mai allentato la vigilanza, poiché sapevo che, se m'avessero scoperto, la mia magia non sarebbe stata sufficiente a salvarmi. In quella regione, la tenebra era soverchiante, una cappa greve e opprimente, imputridita dal fetore e dal sapore venefico della morte. Infine sono arrivato al Monte Teschio: una breve visita perché non potevo rischiare di più. Mi sono infilato segretamente nelle sue gallerie e ho trovato quello che cercavo." S'interruppe, corrugando la fronte. "E anche di più, Kinson. Molto di più, e nulla di buono." "Ma lui, c'era?" insistette l'uomo della Frontiera, con ansia. Sul suo volto di cacciatore si leggeva un grande allarme, i suoi occhi brillavano di preoccupazione. "Lui c'era" confermò il druido, a bassa voce. "Nascosto dietro la sua magia, mantenuto in vita dal Sonno Magico. Ma lo usa senza riguardo, Kinson. Si ritiene ormai al di là delle leggi naturali. Non capisce che tutti, nonostante la loro forza, devono pagare uno scotto per ciò che usurpano e assoggettano. O forse semplicemente non se ne preoccupa. E' caduto sotto il dominio dell'Ildalch e non potrà mai più liberarsene." "Il libro di magia rubato a Paranor?". "Quattrocento anni fa" confermò Bremen. "Quando era soltanto Brona, un druido, uno di noi, e non ancora il Signore degli Inganni." Kinson Ravenlock conosceva quella storia. Lo stesso Bremen gliel'aveva raccontata, anche se era ben nota tra le Razze e, a quell'epoca, l'uomo della Frontiera l'aveva già ascoltata un centinaio di volte. Era stato un elfo, Galaphile, a riunire il Primo Consiglio dei Druidi, cinque secoli prima, mille anni dopo l'olocausto delle Grandi Guerre. Il Consiglio si era riunito a Paranor e vi erano convenuti i più saggi di tutte le Razze, uomini e donne: coloro che ricordavano il mondo antico, che possedevano ancora qualche vecchio libro stracciato e rosicchiato dai topi, i depositari di una conoscenza sopravvissuta a un millennio di barbarie. Il Consiglio intendeva compiere un ultimo, disperato tentativo di strappare le Razze allo stato selvaggio in cui erano precipitate e di avviarle verso una nuova civiltà, superiore all'antica. Lavorando insieme, i Druidi s'erano accinti al faticoso compito di riunire le loro conoscenze frammentarie, di rimettere insieme quanto rimaneva in modo da poterlo usare per il bene comune. Si proponevano di migliorare la vita di tutte le genti, senza badare al passato. Tra loro c'erano Uomini, Gnomi, Nani, Elfi, Troll e una manciata di altri, i più coraggiosi e i più saggi delle nuove Razze sorte dalle ceneri delle antiche. Se le grandi conoscenze
del passato fossero state ancora in grado di dare qualche frutto, il nuovo raccolto sarebbe andato a beneficio di tutti. Ma il compito era lungo e arduo, e alcuni Druidi erano stati colti dall'impazienza. Uno di questi era Brona. Intelligente e ambizioso, ma indifferente alla propria e all'altrui sicurezza, s'era messo a sperimentare la magia. Il vecchio mondo non si serviva delle arti magiche, che erano pressoché scomparse con il declino del regno fatato di Faerie e l'ascesa dell'Uomo, ma Brona era convinto che quelle pratiche si dovessero riscoprire e utilizzare. Le antiche discipline scientifiche non erano riuscite a migliorare l'umanità, e la distruzione del vecchio mondo era la diretta conseguenza di quell'insuccesso, ma i Druidi avevano deciso di ignorare la lezione delle Grandi Guerre. La magia offriva un altro modo per dominare le forze naturali e i libri che la insegnavano erano più antichi e sperimentati di quelli di scienza. Il principale era l'Ildatch, un volume mostruoso e pericoloso, risalente all'alba della civiltà e sopravvissuto a tutte le catastrofi perché protetto da tenebrosi sortilegi e mosso da propri segreti calcoli. Brona aveva intravisto nelle sue antiche pagine le risposte che cercava, le soluzioni dei problemi che i Druidi intendevano affrontare. Perciò aveva deciso di impadronirsene, e il seguito era stato l'ineluttabile conseguenza della sua decisione. Alcuni Druidi lo avevano avvisato del pericolo: colleghi meno impetuosi di lui, meno sordi alle lezioni impartite dalla storia. Infatti, non c'era mai stata una forma di potere che non comportasse rischi, così come non c'era mai stata una spada che non rischiasse di ferire anche chi la brandiva. Attento, lo avevano avvisato. Non compiere imprudenze. Ma Brona e i suoi seguaci non si erano lasciati dissuadere e avevano finito per rompere con il Consiglio. Erano scomparsi, portando con sé l'Ildatch, mappa del nuovo mondo e chiave per aprirne le porte. In realtà, il libro aveva finito per sovvertirli. Una volta caduta sotto il suo dominio, la loro anima era stata cambiata per sempre. Avevano preso a desiderare il potere per se stesso e per scopi personali, scordando ogni altra considerazione e abbandonando ogni altro scopo. Come immediato effetto era scoppiata la Prima Guerra delle Razze. La Razza dell'Uomo era stata il loro strumento: con la magia l'avevano sottomessa alla loro volontà e forgiata in modo da trasformarla in un'arma d'offesa. Ma il tentativo era fallito di fronte alla saldezza del Consiglio dei Druidi e alla forza complessiva delle altre Razze unite. Gli aggressori erano stati sconfitti e la Razza dell'Uomo era stata cacciata nelle Terre del Sud, in solitario esilio. Brona e i suoi seguaci erano spariti, consumati dalla loro stessa magia, si diceva. "Che idiota" esclamò Bremen, all'improvviso. "Il Sonno Magico l'ha mantenuto in vita, ma gli ha rubato il cuore e l'anima, lasciando un guscio vuoto. Per tanti anni l'abbiamo creduto morto, e in un certo senso lo era davvero, perché sopravvive solo la sua parte malvagia, quella su cui la magia ha preso il sopravvento. La parte che cerca ancora di impadronirsi del mondo intero e di tutte le creature che vi abitano. La parte che brama soltanto il potere. Che importava a Brona del prezzo da pagare per l'uso così imprudente del Sonno? Che gli importava delle ulteriori trasformazioni indotte dal prolungamento di una vita già devastata? Brona era ormai diventato il Signore degli Inganni, e questi intendeva sopravvivere a ogni costo." Kinson non fece
commenti, ma lo preoccupava la facilità con cui Bremen condannava l'uso che del Sonno Magico faceva Brona senza accennare a se stesso, benché vi ricorresse allo stesso modo. Se gliel'avesse fatto notare, il druido avrebbe detto di usarlo in modo assai più equilibrato e controllato, e di essere consapevole dei guasti che poteva procurare al suo corpo. Avrebbe sostenuto di ricorrere al Sonno perché vi era costretto, perché voleva essere presente nel momento dell'inevitabile ritorno del Signore degli Inganni. Eppure, per quanto si sforzasse di operare ogni sorta di distinzioni fra sé e l'avversario, rimaneva un fatto innegabile: chiunque ricorreva al Sonno Magico subiva le medesime conseguenze, druido o Signore degli Inganni che fosse. Prima o poi, anche Bremen ne avrebbe pagato lo scotto. "Allora, l'hai visto?" chiese l'uomo della Frontiera, ansioso di conoscere il resto della storia. "L'hai visto in faccia?" Il vecchio sorrise. "Non ha più una faccia, Kinson, e neppure un corpo. E' solo una presenza, avvolta in un mantello e incappucciata. Come me stesso, penso alle volte, perché anch'io, ormai, sono poco più di una presenza vuota..." "Non è vero" si affrettò ad affermare Kinson. "Hai ragione" assentì il druido, con una fretta uguale alla sua. "Non è proprio così. Ho ancora il senso del bene e del male, non sono schiavo della magia. Ma tu hai paura che lo diventi, vero?" Kinson non rispose. "Spiegami come sei riuscito ad arrivare fino a lui" volle sapere. "Come hai fatto, perché non ti scoprissero?" Bremen distolse lo sguardo, come per mettere a fuoco un tempo e un luogo lontani. "Non è stato facile" rispose a bassa voce. "Il costo è stato enorme." Prese l'otre e bevve un lungo sorso di birra; sul suo volto comparve una stanchezza così profonda da parere incisa col ferro. "Sono stato costretto ad assumere le sembianze di uno di loro" spiegò, dopo un momento. "Mi sono dovuto ammantare nei loro pensieri e nei loro impulsi, nel male radicato dentro le loro anime. Ero circondato dall'invisibilità, in modo che la mia presenza fisica non venisse notata, e di me rimaneva solo l'anima. L'ho coperta di un'oscurità uguale a quella che copre le loro, e per farlo ho dovuto cercare, nel fondo del mio essere, la parte più buia di me stesso. Oh, vedo che non lo ritieni possibile. Credi a me, Kinson, la potenzialità per il male risiede in ciascuno di noi, me compreso. Noi la dominiamo, la seppelliamo in profondità, ma essa continua a vivere dentro di noi.LO sono stato costretto a portarla alla luce per crearmi una protezione, e la sua presenza, il suo contatto, l'averla così vicina e così viva, è stato terribile. Ma l'espediente è servito, ha impedito che il Signore degli Inganni e i suoi scherani mi scoprissero." Kinson aggrottò la fronte. "Ma hai subìto dei danni." "Solo transitori. Il viaggio di ritorno mi ha dato il tempo di guarire." Il vecchio gli sorrise di nuovo: una leggera increspatura delle labbra sottili. "Il guaio è che quando la togli dalla sua prigione, la nostra parte malvagia non vuole più stare rinchiusa. Picchia contro le sbarre. E' più ansiosa di fuggire. Più astuta e calcolatrice. E d'ora in poi, essendo stato a contatto con lei, sarò più vulnerabile al rischio di una sua fuga." Scosse la testa. "Finché c'è vita, gli esami non finiscono mai. Questo è uno dei tanti." Per qualche istante scese il silenzio, mentre i due uomini si fissavano. Nella cupola del cielo, la luna era calata fino a sfiorare l'orizzonte e si accingeva a sparire. Lontano dal suo chiarore, le stelle si accendevano progressivamente; il cielo privo di nuvole era
come un sipario di velluto nero che faceva da sfondo all'immenso e incontaminato silenzio. Kinson si schiarì la gola. "Come dicevi, hai fatto ciò che era necessario. Dovevi avvicinarti, per avere la conferma dei tuoi sospetti. Adesso ce l'abbiamo." S'interruppe. "Dimmi, hai visto anche il libro? L'Ildatch?" "Era nelle sue mani, lontano da me, altrimenti l'avrei preso e distrutto, anche a costo della vita" rispose il druido. Dunque il Signore degli Inganni e l'Ildatch si trovavano nel Regno del Teschio, e questa era una realtà, non una diceria o una leggenda. Kinson raddrizzò leggermente la schiena e scosse il capo. Ogni presentimento era risultato vero, come Bremen aveva temuto. Come entrambi avevano temuto. E adesso c'era anche l'armata dei Troll, scesa nelle Terre del Nord per conquistare tutta la regione. La storia si ripeteva e stava per ricominciare la Guerra delle Razze. Questa volta, però, c'era il rischio che nessuno fosse in grado di fermarla. "Vero, vero..." mormorò tristemente. "C'è dell'altro" riprese il druido, sollevando lo sguardo fino a incrociare quello del compagno. "Devi ascoltare l'intera storia. Gli alati cercano una Pietra Magica degli Elfi: una Pietra Nera. Il Signore degli Inganni ha saputo della sua esistenza grazie all'Ildatch, perché se ne parla in qualche pagina del libro maledetto. Non è una Pietra Magica come le altre che conosciamo. Non fa parte di un gruppo di tre - una per il cuore, una per la mente e una per il corpo di chi le usa - che sommano le loro magie quando le si evoca. La magia di quella pietra può generare mali terribili. Nella sua creazione c'è un mistero, perché si ignora quale fosse il suo scopo: è stato dimenticato col passare del tempo. Ma nell'Ildatch, a quanto pare, si parla espressamente del suo potere e io ho avuto la fortuna di venirne a conoscenza. Mentre ero nascosto fra le ombre del muro, in fondo alla grande sala dove gli alati ricevono gli ordini dal loro signore, ne ho sentito parlare." Si piegò verso l'uomo della Frontiera e abbassò la voce. "E' nascosta nelle Terre dell'Ovest, dentro un'antica fortezza, ed è protetta in modi che né tu né io riusciremmo mai a concepire, sia pur lontanamente. E' rimasta laggiù fin dai tempi di Faerie, smarrita dalla storia, dimenticata come la magia e la razza che un tempo la impiegavano. Adesso attende di essere scoperta e utilizzata di nuovo." "Utilizzata per che cosa?" volle sapere Kinson. "Ha il potere di sovvertire le altre magie, qualunque ne sia la forma, e di volgerle a vantaggio di chi la impiega. Per quanto sia potente o complessa la magia del tuo avversario, con la Pietra Nera degli Elfi la puoi dominare. I poteri magici del tuo nemico passano a te, e lui è ridotto all'impotenza." Kinson scosse la testa, disperato. "Come si può resistere a un simile talismano?" Il vecchio sorrise. "Via, via, Kinson" disse. "La cosa non è tanto semplice, vero? Ricordi le nostre lezioni, no? L'uso della magia comporta sempre un costo. C'è sempre qualche conseguenza, che è tanto più pesante quanto più potente è la magia. Ma rimandiamo questa discussione a un altro momento. L'importante è che il Signore degli Inganni non venga in possesso della Pietra Nera, perché non si curerebbe affatto delle conseguenze. Da lungo tempo, ormai è al di là di ogni appello alla ragione. Perciò dobbiamo trovare la Pietra prima di lui, e trovarla molto in fretta." "Sì, ma come riuscirci?" Il druido sbadigliò e si stiracchiò, stancamente; la stoffa nera della sua veste si mosse con un lieve fruscio. "A questa domanda non so come
rispondere, Kinson. Inoltre, abbiamo altri compiti da portare a termine, prima." "Intendi recarti a Paranor, al Consiglio dei Druidi?" "Devo." "Ma perché prenderti il disturbo? Non ti ascolteranno. Non si fidano di te. Una parte di loro addirittura ti teme." Il vecchio non poté che assentire. "Sì, ma non tutti. Alcuni mi ascolteranno. In qualsiasi caso, devo tentare. Incombe su di loro un grave pericolo. Il Signore degli Inganni ricorda come l'abbiano sconfitto nella Prima Guerra delle Razze. Non rischierà che intervengano una seconda volta, anche se ormai non costituiscono più una minaccia per lui." Kinson distolse lo sguardo dal druido. "Sarebbero sciocchi a non ascoltarti, Bremen, ma non ti daranno retta. Hanno perso ogni contatto con la realtà, chiusi entro la protezione delle loro mura. Dall'ultima volta che si sono avventurati nel mondo è passato tanto tempo da far loro perdere ogni capacità di giudizio. Hanno rinunciato alla loro identità. Si sono scordati del loro scopo." "Basta, adesso" lo interruppe Bremen, posandogli con fermezza la mano sulla spalla. "Inutile ripetere quello che già sappiamo. Faremo quel che potremo e poi ci metteremo in cammino." Gli strinse leggermente la spalla. "Sono molto stanco. Puoi stare di guardia per qualche ora, mentre dormo? Poi ce ne andremo." L'uomo della Frontiera gli rivolse un cenno d'assenso. "Starò di guardia" promise. Il vecchio si alzò e fece qualche passo verso il punto dove il buio era più fitto, sotto l'albero dalle ampie fronde, poi si avvolse nel mantello e si sdraiò sull'erba morbida. In pochi istanti si addormentò e il suo respiro divenne profondo e regolare. Kinson lo osservò. Anche se dormiva, i suoi occhi non erano del tutto chiusi. Attraverso la sottile fessura tra le palpebre, si scorgeva un riflesso di luce. Come un felino, pensò Kinson, distogliendo subito lo sguardo. Come un felino pericoloso. Trascorse qualche tempo, e il buio divenne ancor più fitto. La mezzanotte giunse e passò. La luna calò al di sotto dell'orizzonte e le stelle ruotarono in caleidoscopiche coreografie sullo sfondo nero del cielo. Per tutto il tempo, sulle Streleheim regnò un pesante e assoluto silenzio; dalle Pianure vuote non giungeva alcun movimento. Sotto l'albero, dove Kinson Ravenlock vegliava, si udiva solo il leggero respiro del vecchio. L'uomo della Frontiera tornò a guardare il compagno. Bremen era un isolato come lui, un uomo solo nelle sue convinzioni, messo al bando per avere creduto in verità che soltanto lui poteva accettare. Era uguale a lui, sotto quell'aspetto, rifletté, e tornò con la mente al giorno del loro primo incontro. Il vecchio era venuto a cercarlo in una locanda di Varfleet perché aveva bisogno dei suoi servizi. Kinson Ravenlock faceva l'esploratore, il cercatore di piste, la guida da quasi vent'anni, a partire da quando era quindicenne. Era cresciuto a Callahorn e aveva fatto la vita di frontiera, essendo nato in una delle poche famiglie rimaste in quella terra di nessuno allorché tutti gli altri si erano spostati assai più a sud, per mettere la maggior distanza possibile tra loro e il passato. Dopo la Prima Guerra delle Razze, i Druidi avevano suddiviso le terre in quattro regioni corrispondenti ai quattro punti cardinali con Paranor come centro, ma la Razza dell'Uomo aveva preferito lasciare una sorta di cuscinetto fra sé e le altre Razze. Così, anche se le Terre del Sud si spingevano fino ai Denti del Drago, gli Uomini avevano rinunciato a quasi tutti i loro insediamenti a nord del Lago Arcobaleno. Solo poche famiglie erano rimaste lassù perché convinte che
fosse la loro terra, e non avevano voluto trasferirsi nelle aree meridionali più popolose, dove era stato assegnato loro un nuovo possedimento. I Ravenlock erano una di quelle famiglie. Così, Kinson era cresciuto come un uomo della Frontiera, ai margini della civiltà, e s'era abituato a vivere con Elfi, Nani Gnomi e Troll oltre che con gli Uomini. Aveva viaggiato nelle loro terre, appreso i loro costumi e imparato la lingua. Conosceva bene la storia del passato e l'aveva sentità raccontare da così tanti punti di vista diversi da ritenere di avere ormai raccolto i più importanti insegnamenti che i secoli passati potevano offrirgli. Anche Bremen era uno studioso della storia e fin dall'inizio i due uomini avevano condiviso molti punti di vista. Uno di questi era che le Razze potessero mantenere la pace soltanto rafforzando i legami che le univano e non allontanandosi reciprocamente. Un altro era che il principale ostacolo alla riuscita del progetto di pace fosse costituito dal Signore degli Inganni. Già allora, cinque anni addietro, circolavano le prime voci sulla presenza di qualche entità malvagia nel Regno del Teschio, su un gruppo di mostri quale non s'era mai visto in precedenza. Si parlava di creature volanti, di mostri alati che la notte battevano l'intera regione alla ricerca di vittime da uccidere. Si parlava di gente che si era diretta al Nord e non aveva mai fatto ritorno. Gli stessi Troll si tenevano lontani dalla Lama del Coltello e dall'Acquitrino di Malg. Non si arrischiavano ad attraversare il Deserto di Kierlak, e se dovevano passare nelle vicinanze del Regno del Teschio, si organizzavano in gruppi numerosi e bene armati. In quella zona delle Terre del Nord non cresceva più nulla, non c'era pianta disposta a mettervi le radici. Col passare del tempo, tutta quella regione desolata si coprì di nubi e foschia, l'erosione la spogliò della poca terra fertile e la trasformò in una distesa di polvere e sassi. Nessuna creatura poteva viverci, si diceva. Nessuna creatura che fosse viva nel senso usuale del termine. In tanti, però, si rifiutavano di credere a quelle storie, e molti altri si stringevano nelle spalle. Dato che si trattava di una regione lontana, ben nota per la sua inospitalità, che importanza poteva avere cosa ci viveva o cosa non ci poteva vivere? Kinson aveva voluto recarsi nelle Terre del Nord per controllare di persona, e per poco non vi aveva lasciato la vita. Le creature alate l'avevano inseguito per cinque giorni, dopo averlo scoperto a spiare entro i margini del loro regno. Se era riuscito a salvarsi, doveva ringraziare la sua grande esperienza e una buona dose di fortuna. Perciò, quando Bremen si era rivolto a lui, Kinson era già convinto che la storia del druido fosse vera. Che il Signore degli Inganni esistesse. Che Brona e i suoi seguaci avessero trovato rifugio nel Regno del Teschio. Che le Quattro Terre ignorassero ancora il pericolo imminente. E che qualche sorte assai sgradevole si stesse lentamente preparando per loro. Aveva accettato di accompagnare il vecchio nei suoi viaggi, per fargli da secondo paio d'occhi quando occorreva, per aiutarlo come esploratore e messaggero, per proteggergli le spalle in caso di pericolo. Kinson l'aveva fatto per molte buone ragioni, ma soprattutto perché, per la prima volta, tutto ciò dava uno scopo alla sua vita. Era stanco di andare alla deriva, di vivere al solo scopo di tornare a vedere quello che aveva già visto molte volte e di essere pagato per questo privilegio. Era stanco e non aveva una meta. Cercava qualcosa che
costituisse una sfida. E Bremen gliel'aveva dato, certamente. Scosse la testa, pensoso. Era sorprendente che avessero fatto tanta strada insieme e che fossero diventati così amici. Ed era sorprendente anche il valore che attribuiva a entrambe le cose. All'improvviso, un accenno di movimento, nelle vuote distese delle Streleheim, richiamò la sua attenzione. Batté le palpebre per schiarirsi la vista e scrutò minuziosamente la distesa buia, ma non vide nulla. Poi colse di nuovo lo stesso movimento, una brevissima palpitazione del buio tra le ombre di un lungo solco scavato dalle piogge nel terreno. Era così lontano da non potergli rivelare la propria natura, ma aveva un forte sospetto su quale potesse essere. Sentì una morsa di gelo allo stomaco, perché aveva già visto quel genere di movimenti: sempre di notte, sempre nel vuoto di qualche luogo desolato ai confini delle Terre del Nord. Mantenendo un'assoluta immobilità, continuò a scrutare nel buio, augurandosi di essersi sbagliato. Il movimento si ripeté, questa volta più vicino. Qualcosa si sollevò da terra, rimase sospeso sul mosaico grigio della pianura ammantata dalla notte, poi tornò a tuffarsi verso terra. Poteva essere un grande uccello da preda alla ricerca di cibo, ma non lo era. Era un Messaggero del Teschio. Kinson attese ancora qualche istante, perché voleva accertarsi della direzione della creatura. Ancora una volta l'ombra si staccò da terra e s'innalzò alla luce delle stelle, seguendo il solco per poi allontanarsene, ma muovendosi costantemente in modo da avvicinarsi al punto dove si nascondevano il druido e l'uomo della Frontiera. Si abbassò di nuovo e scomparve fra le ombre del terreno. Con un tuffo al cuore, Kinson comprese cosa stava facendo il Messaggero del Teschio. Seguiva una traccia. Quella di Bremen. Si girò di scatto, ma il vecchio era già al suo fianco, e scrutava lontano, nella notte. "Stavo giusto..." "... per chiamarmi" terminò il druido. "Lo so." Kinson tornò a guardare le Pianure. Nulla si muoveva. "L'hai visto?" chiese sottovoce. "Sì" rispose il druido, in tono calmo ma vigile. "Uno di loro mi insegue." "Ne sei certo? Segue proprio la tua traccia, non quella di un altro?" "Temo di non essere stato abbastanza cauto, nell'attraversare le pianure" ammise Bremen, e i suoi occhi brillarono. "Il Messaggero sa che mi dirigevo da questa parte, e cerca di scoprire dove mi trovo. Non mi sono fatto scoprire da nessuno, mentre ero nel Regno del Teschio, perciò deve avermi visto per caso. Avrei dovuto essere più cauto nell'attraversare le pianure, ma credevo di essere ormai al sicuro." Continuarono a guardare e il Messaggero del Teschio uscì di nuovo dal buio, s'innalzò per qualche momento, si lasciò scivolare nell'aria senza rumore, poi si tuffò ancora una volta fra le ombre. "C'è ancora tempo, prima che ci raggiunga" sussurrò Bremen. "Ma penso che dovremmo metterci in marcia. Nasconderemo le tracce del nostro passaggio per confonderlo, se dovesse decidere di seguirci. Paranor e i Druidi ci attendono. Andiamo, Kinson." Insieme si alzarono e s'immersero nell'ombra degli alberi, per poi scendere lungo l'altro versante dell'altura. Scesero senza fare alcun rumore, con movimenti agili ed esperti, e le loro sagome scure sembravano sfiorare appena il terreno. In pochi secondi scomparvero alla vista. 2
Camminarono per tutto il resto della notte al riparo dei grandi alberi della foresta. Kinson apriva la strada, Bremen lo seguiva passo passo, come un'ombra. Nessuno dei due parlava perché erano abituati al silenzio e alla reciproca presenza. Non rividero il Messaggero del Teschio. Per celare le loro tracce, il druido si servì della magia, ma solo quanto bastava a nascondere il loro passaggio senza richiamare l'attenzione. Comunque, pareva che il cacciatore alato non intendesse scendere più a sud delle Streleheim nella sua ricerca: se l'avesse fatto, avrebbero sentito la sua presenza. Invece sentirono soltanto quella delle creature che vivevano nella foresta. Almeno per il momento, erano al sicuro. Kinson Ravenlock era instancabile, il suo passo reso sciolto dalle decine di anni in cui aveva viaggiato a piedi nelle Quattro Terre. Il cacciatore della Frontiera era alto e robusto: un uomo nel fiore dell'età, ancora in grado di affidarsi ai riflessi e allo scatto in caso di pericolo. Bremen lo osservava con ammirazione, ricordando la propria gioventù, pensando a quanta strada aveva percorso lungo il cammino della vita. Il Sonno Magico gli aveva concesso un'esistenza assai più lunga della media - più lunga di quella permessa dalle leggi di natura ma non era stato sufficiente. Sentiva le forze sfuggirgli di giorno in giorno, e se riusciva ancora a tenere il passo del compagno, quando viaggiavano, era perché ricorreva al sostegno della magia. Era costretto a impiegarla quasi senza interruzione, ormai, e si rendeva conto che il tempo che gli rimaneva da vivere si stava abbreviando sempre più. Comunque, aveva fiducia in sé. L'aveva sempre avuta, ed era stata questa fiducia, più della magia, a mantenerlo forte e attento. Era entrato fra i Druidi da giovane e il suo campo di specializzazione erano la storia e le lingue antiche. A quell'epoca le cose erano assai diverse, i Druidi si curavano ancora del progresso delle Razze, lavoravano in modo da riunirle in vista di una meta comune. Solo più tardi, meno di settant'anni prima, avevano cominciato a ritirarsi dall'azione per dedicarsi soltanto allo studio. Bremen era giunto a Paranor per imparare, e non aveva mai smesso di desiderare la conoscenza, di sentirne il bisogno. Ma per imparare occorreva assai di più dello studio isolato e della meditazione: erano necessari viaggi, incontri con altri esperti, discussioni su argomenti di interesse comune, quell'attenzione per le fluttuanti tendenze della vita che poteva venire solo dall'osservazione e la basilare consapevolezza che i metodi tradizionali non potessero offrire tutte le risposte. Perciò ben presto era giunto alla conclusione che dalla magia si potesse trarre un potere più maneggevole e duraturo di quello fornito dalla scienza che aveva preceduto le Grandi Guerre. Tutte le conoscenze raccolte in mezzo ai ricordi e ai documenti, dal tempo di Galaphile in poi non erano riuscite a ridare al mondo l'antica scienza. Erano troppo frammentarie e lontane dalla civiltà che avrebbero dovuto aiutare, troppo oscure nei loro obiettivi per spalancare le porte della comprensione. Ma la magia era diversa, perché era più antica della scienza e più facilmente accessibile. E gli Elfi, la cui civiltà risaliva a quell'epoca, la conoscevano ancora. Benché fossero vissuti nell'isolamento dei loro rifugi, possedevano libri e documenti assai più utilizzabili di quelli che parlavano di scienza. Certo, molte conoscenze erano ancora incomplete, e la grande magia di Faerie era scomparsa e non sarebbe stata recuperata facilmente. Ma era più facile ritrovare quelle
conoscenze che la scienza su cui continuava ad affannarsi il Consiglio dei Druidi. Il Consiglio si rammentava però dei danni che aveva patito in occasione della Prima Guerra delle Razze, quando aveva voluto usare la magia, e conosceva il destino toccato a Brona e ai suoi seguaci: di conseguenza, non intendeva più aprire quella porta. Lo studio della magia era permesso, ma scoraggiato. Era considerata una curiosità con pochi strumenti utili, e in nessuna circostanza ci si poteva accostare alla magia come a una via per il futuro. Su questo punto, Bremen aveva discusso all'infinito, ma invano. La maggioranza dei Druidi di Paranor era coriacea e chiusa alla possibilità di un cambiamento. Impara dai tuoi errori, ripetevano, non dimenticare quanto sia pericolosa la pratica della magia. Meglio che scordi questi tuoi capricciosi interessi e ti dedichi a qualche studio più serio. Naturalmente, Bremen non era disposto a farlo, o forse non poteva. Era contrario alla sua natura rinunciare a una possibilità soltanto perché in passato era andato incontro a un fallimento. Gli insuccessi del passato erano dovuti a una clamorosa incompetenza, ripeteva loro: una cosa che non si sarebbe certamente ripetuta una seconda volta. Alcuni erano d'accordo con le sue idee, ma alla fine, quando il Consiglio lo aveva espulso perché la sua insistenza era divenuta intollerabile, si era allontanato da solo. Allora si era diretto nella Terra dell'Ovest e per molti anni era vissuto con gli Elfi, studiando le loro arti, concentrandosi sui loro libri, cercando di ritrovare una parte di quello che avevano perso quando le creature di Faerie si erano ritirate di fronte agli uomini. Alcune conoscenze le possedeva già. Il segreto del Sonno Magico era già suo, anche se in forma rudimentale. Per apprenderne tutti i particolari e conoscerne bene le conseguenze occorreva tempo, e quando poté cominciare a impiegarlo in modo efficace era già in età avanzata. Gli Elfi accolsero Bremen come un fratello in spirito e misero a sua disposizione le loro conoscenze di magia spicciola e i loro libri, che più nessuno aveva letto. Col tempo, in mezzo a quel materiale dimenticato riuscì a trovare veri tesori. Più tardi si recò nelle altre terre, e venne a conoscenza di altre pratiche magiche, anche se meno raffinate, che talvolta erano sconosciute agli stessi che le usavano. Per tutto quel tempo continuò a cercare la conferma della sua convinzione che il Signore degli Inganni e i suoi Messaggeri del Teschio esistevano ed erano i Druidi ribelli fuggiti da Paranor tanti secoli prima per essere infine sconfitti nella Prima Guerra delle Razze. Ma la prova era elusiva come il profumo dei fiori portato sulle ali del vento, che un momento c'è e il momento successivo è scomparso. L'aveva seguita instancabilmente, attraverso i regni e dall'uno all'altro confine, nei villaggi vicini e in quelli lontani, da una leggenda all'altra. Alla fine era andato a cercarla nello stesso Regno del Teschio, nel cuore del territorio del Signore degli Inganni, nei cui sotterranei s'era confuso con i suoi neri servitori, in attesa dell'occasione favorevole per fuggire con la sua verità. Se fosse stato più robusto, sarebbe arrivato a quella verità già da tempo. Ma gli erano occorsi numerosi anni per procurarsi le conoscenze occorrenti per sopravvivere a un viaggio nel Nord. Anni di studio e di ricerche. Avrebbe impiegato meno tempo se il Consiglio lo avesse aiutato, se i Druidi avessero rinunciato alle paure e alle prevenzioni e preso in considerazione le altre possibilità come
aveva fatto lui, ma questo non era successo. Sospirò, ripensando all'accaduto. Quando riandava al passato, veniva sempre colto dalla tristezza. Tanto tempo sprecato. Tante occasioni perse. Forse era già troppo tardi, per i Druidi di Paranor. Come convincerli del pericolo che li sovrastava? Avrebbero creduto al racconto delle sue scoperte? Dalla sua ultima visita al castello erano passati più di due anni. Forse alcuni lo credevano morto. Altri avrebbero preferito che lo fosse davvero. Non sarebbe stato facile convincerli di essersi sbagliati a proposito del Signore degli Inganni, né indurli a riconsiderare il loro rapporto con le Razze e soprattutto il loro rifiuto di servirsi della magia. I due uomini uscirono dal fitto della foresta al sorgere dell'alba, e le radure da loro attraversate si rischiaravano, passando dall'argento all'oro, man mano che il sole saliva al di sopra dei Denti del Drago e filtrava attraverso gli alberi per dare il suo tepore alla terra umida. Intorno a loro, il bosco si diradava progressivamente, riducendosi a minuscole macchie e a isolate sentinelle vegetali. Infine davanti ai due viandanti, nella foschia del mattino, si stagliò la rocca di Paranor. Il castello dei Druidi era una massiccia cittadella di pietra, costruita su fondamenta di roccia che sporgevano dalla terra come un pugno levato. Le sue mura si alzavano per parecchie decine di braccia, fino a formare torri e camminamenti dipinti di un bianco immacolato. A ogni angolo della costruzione sventolavano stendardi, alcuni con gli emblemi dei Grandi Druidi che avevano retto il castello, altri con le insegne nazionali dei signori delle Quattro Terre. Qualche filo di nebbia scivolava ancora lungo le mura e stagnava nell'ombra, alla base del castello, dove il calore del sole non aveva ancora bruciato la notte. Era una visione impressionante, pensò Bremen. Anche ora, e anche per lui che ne era stato bandito. Kinson gli rivolse uno sguardo interrogativo da sopra la spalla, ma Bremen gli fece segno di proseguire. Ormai era inutile rimandare. Comunque, la dimensione stessa del castello lo costrinse a sostare per un attimo. Gli parve che il peso delle sue pietre gli fosse stato scaricato sulle spalle, ed era un gravame insopportabile. Una massa così grande e implacabile, pensò: in un certo senso rispecchiava l'ostinazione di coloro che vi abitavano. Rimpianse che le cose non fossero andate diversamente. Stava a lui cercare di cambiarle. Uscirono finalmente dagli alberi, dove il sole era un intruso e l'ombra era sovrana, e si avviarono lungo la strada che portava all'ingresso principale. Un manipolo di armati stava già uscendo a incontrarli: parte della forza multinazionale che costituiva la Guardia dei Druidi al servizio del Consiglio. Tutti indossavano l'uniforme grigia con l'emblema della torcia ricamato in rosso, sulla parte sinistra del petto. Bremen cercò tra loro una faccia nota, ma non ne trovò; del resto, si consolò, mancava da due anni. Se non altro, notò, la Guardia era composta di Elfi, che forse gli avrebbero dato retta. Il cacciatore della Frontiera si spostò di lato, con deferenza, e lasciò che il druido passasse avanti. Bremen raddrizzò la schiena e usò la magia per darsi un'aria più imponente, nascondere la stanchezza, i dubbi, la debolezza, poi si diresse con determinazione verso la porta, il mantello nero che sventolava dietro di lui e Kinson una semplice presenza a qualche passo di distanza. I soldati attesero, con la faccia priva di espressione. Quando giunse alla porta, vedendo che il suo
arrivo li aveva un po' sorpresi, disse semplicemente: "Buon giorno a tutti". "Buon giorno a te, Bremen" rispose uno di loro, facendo un passo avanti e accennando un inchino. "Allora mi hai riconosciuto?" L'altro annuì. "Ti conosco. Mi dispiace, ma non hai il permesso di passare." Con lo sguardo, indicò anche Kinson. Era educato, ma fermo. Un druido espulso dal castello non poteva più entrarvi. E neppure un membro della Razza dell'Uomo. Inutile discutere. Bremen sollevò gli occhi verso i camminamenti in cima alle mura come per riflettere. "Chi è il capitano della Guardia?" chiese poi. "Caerid Lock" rispose l'elfo. "Puoi chiedergli di scendere a parlare con me?" L'elfo esitò, valutando la richiesta. Infine annuì. "Aspetta qui, per favore" disse. S'infilò in una porta laterale ed entrò nel castello. Bremen e Kinson fissarono le Guardie rimaste nell'ombra ai piedi delle mura. Sarebbe stato facile entrare nella rocca e lasciarle dov'erano, a sorvegliare le loro vuote immagini, ma Bremen si era ripromesso di non usare la magia per entrare. La sua missione era troppo importante: non voleva irritare il Consiglio facendosi beffe della scarsa efficienza dei suoi difensori. I membri del Consiglio non amavano i trucchi, ma rispettavano la sincerità. Era un rischio che il vecchio druido era disposto a correre. Bremen si girò a guardare la foresta. Il sole era ormai entrato in tutte le radure, scacciando le ombre e illuminando i fragili steli dei fiori selvatici. Era primavera, si accorse con stupore. Aveva perso il conto del tempo durante il viaggio di andata e ritorno al Nord, concentrato solo sulla ricerca. Aspirò profondamente l'aria profumata, l'aroma dei fiori e del legno della foresta. Era passato molto tempo dall'ultima volta in cui aveva notato i fiori. Dietro di lui, dalla porta, giunse un rumore, e si voltò. Il soldato che l'aveva interrogato era di ritorno, accompagnato da Caerid Lock. "Bremen" lo salutò l'elfo, con gravità, e si avvicinò per tendergli la mano. Snello e di carnagione scura, Caerid Lock aveva uno sguardo inquieto e la faccia segnata dalle preoccupazioni. I lineamenti del viso erano quelli caratteristici degli Elfi: sopracciglia che ai lati si inarcavano verso l'alto, orecchie a punta, faccia così stretta da sembrare scarna. Vestiva di grigio come gli altri soldati, ma la torcia ricamata sul suo petto era impugnata da una mano e sulle spalle aveva delle barre rosse. Portava i capelli e la barba molto corti, e in entrambi si scorgeva qualche filo grigio. Era uno dei pochi che fossero rimasti amici di Bremen quando era stato bandito dal Consiglio. Comandava la Guardia da più di quindici anni, e non c'era persona più adatta di lui per quell'incarico. Proveniva dal corpo dei Cacciatori degli Elfi, aveva passato l'intera vita sotto le armi ed era un soldato di grande competenza: i Druidi avevano scelto bene, nell'affidargli la propria difesa. E soprattutto, dal punto di vista di Bremen, era un uomo a cui avrebbero dato ascolto, se avesse rivolto loro una richiesta. "Caerid, lieto di vederti" rispose Bremen, stringendogli la mano. "Stai bene?" "Come tutti. Sei invecchiato di qualche anno, da quando ci hai lasciati. Vedo nuove rughe sulla tua fronte." "E lo stesso vale per te, direi." "Forse. Sempre in giro per il mondo?" "Mi tiene buona compagnia il mio amico Kinson Ravenlock" rispose Bremen, presentandogli il compagno. L'elfo gli strinse la mano e lo squadrò dalla testa ai piedi, senza fare parola. Kinson mantenne altrettanto distacco. "Mi occorre il tuo aiuto, Caerid" riprese Bremen, con grande
serietà. "Devo parlare con Athabasca e con il Consiglio." Athabasca era il Grande Druido, una persona autoritaria, di salde convinzioni e di opinioni incrollabili, che non aveva mai nutrito molta simpatia per Bremen. Allorché questi era stato espulso, Athabasca era membro del Consiglio, ma non ancora Grande Druido: la carica era giunta in seguito, e solo grazie ai complessi maneggi politici che caratterizzavano l'attuale Consiglio e che Bremen aveva sempre odiato. Comunque, gli piacesse o no, Athabasca era a capo del castello, e per farsi ascoltare dai Druidi occorreva rivolgersi a lui. Caerid Lock gli sorrise tristemente. "Perché capitano sempre a me le richieste impossibili? Sai che Paranor e il Consiglio ti sono proibiti. Non puoi entrare nella rocca, tanto meno parlare al Grande Druido." "Posso farlo se lui lo vuole" rispose Bremen, con schiettezza. L'elfo annuì. Socchiuse le palpebre e lo fissò. "Capisco. vuoi che gli parli al posto tuo." Bremen annuì. Caerid non sorrise più. "Non gli sei mai piaciuto" fece notare, tranquillamente. "E durante la tua assenza non è cambiato." "Non devo piacergli, per comunicargli quello che devo dirgli. Si tratta di una cosa assai più importante dei sentimenti personali. Sarò breve. Una volta che mi avrà ascoltato, me ne andrò di nuovo." S'interruppe per un istante. "Non mi pare di chiedergli molto, vero?" Caerid Lock scosse la testa. "No." Guardò Kinson. "Farò il possibile." Rientrò nella rocca, lasciando il vecchio e l'uomo della Frontiera a contemplare le mura e le porte del castello. Le altre Guardie rimasero ferme al loro posto, bloccando tutte le entrate. Per un momento, Bremen le osservò corrugando la fronte, poi controllò l'altezza del sole. La giornata cominciava a riscaldarsi. Scambiò un'occhiata con Kinson, poi si spostò in un punto dove le mura offrivano un maggiore riparo e si sedette su una grossa pietra. Kinson lo seguì, ma non si sedette. Aveva un'aria impaziente. Avrebbe voluto che la sosta al castello finisse in fretta; era già pronto a ripartire. Bremen sorrise tra sé, perché Kinson era fatto così. Per lui, la soluzione di tutti i problemi consisteva nel recarsi in un altro posto. Si era sempre comportato così. Soltanto da quando si conoscevano cominciava a capire che le cose non si possono mai risolvere, se non le si prende di petto. Non che Kinson fosse incapace di affrontare la vita. Semplicemente, quando qualcosa gli dava fastidio, cercava di lasciarsela alle spalle, di prendere le distanze, e in effetti non era un comportamento sbagliato: le difficoltà si potevano affrontare anche così. Tuttavia le soluzioni ottenute in quel modo non erano mai durature. Certo, rispetto ai primi giorni Kinson era senza dubbio maturato. Sotto tanti aspetti, non immediatamente visibili, era un uomo assai più forte. Ma Bremen sapeva che le vecchie abitudini sono dure a morire, e in Kinson Ravenlock era sempre presente l'impulso di allontanarsi dalle situazioni sgradevoli e dalle difficoltà. "E' uno spreco di tempo" brontolò l'uomo della Frontiera, quasi a confermare le sue riflessioni. "Pazienza, Kinson" gli suggerì Bremen, a bassa voce. "Pazienza? Perché? Non ti lasceranno entrare. E anche se lo faranno, non ti daranno retta. Non vogliono ascoltare quello che devi dirgli. Non sono più i Druidi di un tempo, Bremen." Il druido annuì. In questo, Kinson aveva ragione. Ma non c'era niente da fare. I Druidi di oggi erano gli unici che esistessero, e alcuni erano veramente degni di quel nome. Sarebbero stati ottimi alleati, se Bremen fosse riuscito a
portarli a sé. Kinson avrebbe preferito basarsi unicamente sulle loro forze, ma il nemico da affrontare era troppo potente per essere vinto senza aiuto. Occorreva un'alleanza con i Druidi, i quali, anche se avevano rinunciato a intervenire direttamente nel destino delle Razze, erano ancora visti con deferenza e rispetto. Sarebbero stati assai utili nello sforzo di unire le Quattro Terre contro il comune nemico. La mattina si trascinò verso il mezzogiorno. Caerid Lock non faceva ritorno. Per qualche tempo, Kinson camminò avanti e indietro, poi si sedette accanto a Bremen, con un'aria di profonda frustrazione sulla faccia sottile. Se ne stava chiuso nel suo silenzio, la fronte aggrondata. Bremen sospirò tra sé. Kinson era con lui da molti anni. L'aveva scelto fra parecchi possibili candidati al compito di scoprire la verità sul Signore degli Inganni e la scelta si era rivelata buona. Era il miglior esploratore che il vecchio avesse mai incontrato. Era intelligente, coraggioso, acuto. Non si gettava mai a capofitto, ragionava sempre. Il legame esistente tra loro era così forte che Kinson era divenuto una sorta di figlio, per lui. E certamente era il suo migliore amico. Ma non poteva divenire l'unica cosa che Bremen avrebbe voluto. Non poteva essere il suo successore. Bremen era vecchio e stanco, anche se riusciva a nasconderlo a coloro che aveva vicino. Morto lui, nessuno avrebbe portato avanti lo studio della magia, così necessario per il progresso delle Razze, nessuno avrebbe spinto i recalcitranti Druidi di Paranor a interessarsi nuovamente delle Quattro Terre, nessuno si sarebbe opposto al Signore degli Inganni. Un tempo aveva sperato che Kinson Ravenlock potesse essere il suo erede, e forse poteva ancora esserlo, ma la cosa sembrava sempre meno probabile. A Kinson mancava la necessaria pazienza. Inoltre, sdegnava ogni forma di diplomazia. Non perdeva tempo con coloro che non riuscivano a capire verità che per lui risultavano ovvie. L'esperienza era la sola maestra che rispettasse. Era un iconoclasta e un solitario, caratteristiche negative per un druido, e a Bremen pareva impossibile che potesse cambiare. Si girò a guardare l'amico, e si rammaricò di essersi lasciato andare a quell'analisi. Era ingiusto mettersi a trinciare giudizi su Kinson. Era sufficiente che gli fosse così devoto, che fosse disposto ad aiutarlo fino alla morte, in caso di necessità. Kinson era il migliore degli amici e degli alleati, ed era sbagliato pretendere di più. Eppure, il suo bisogno di un successore era disperato! Bremen era vecchio, il tempo scivolava via troppo in fretta. Distolse lo sguardo da Kinson e lo fissò sugli alberi del bosco, come per misurare il poco tempo che gli rimaneva. Il sole era già salito al punto più alto e cominciava a scendere quando finalmente ricomparve Caerid Lock. Uscì dall'ombra della porta senza guardare le guardie o Kinson, e si rivolse direttamente a Bremen. Il druido, alzandosi in piedi per accoglierlo, si accorse di avere i muscoli e le articolazioni anchilosati. "Athabasca è disposto a parlarti" comunicò il capitano, con espressione accigliata. Bremen annuì. "Devi avere faticato molto, per convincerlo. Sono in debito con te, Caerid." L'elfo brontolò, senza compromettersi: "Non ne sarei così sicuro. Athabasca ha le sue buone ragioni per accettare l'incontro, secondo me". Poi si rivolse a Kinson: "Mi spiace, ma non sono riuscito ad avere il permesso, per te". L'uomo della Frontiera sollevò la testa, poi si strinse nelle spalle. "Starò meglio se aspetterò qui, penso"
rispose. "Lo penso anch'io" convenne l'elfo. "Ti farò mandare del cibo e dell'acqua. Bremen, sei pronto?" Il druido si voltò verso Kinson e gli rivolse un pallido sorriso. "Ritornerò il più presto possibile." "Buona fortuna" gli augurò l'amico a bassa voce. Poi il druido entrò con Caerid Lock nel castello e sparì nel buio dell'androne. Percorsero androni cavernosi e stretti corridoi tortuosi, immersi nel silenzio gelido e buio, accompagnati soltanto dall'eco dei loro passi sulle pesanti lastre di pietra del pavimento. Non incontrarono nessuno, come se Paranor fosse deserto, anche se Bremen sapeva benissimo che non era così. Molte volte gli parve di cogliere un frammento di conversazione o la parvenza di un movimento, a una certa distanza da dove passavano, ma non poté mai averne la certezza. Caerid lo faceva passare dai corridoi di servizio, usati solo quando si volevano tenere segreti i propri movimenti. La cosa era comprensibile. Prima di far sapere agli altri Druidi di avere concesso l'udienza, Athabasca voleva accertarsi dell'importanza del messaggio. A Bremen sarebbe stata concessa una breve udienza privata per esporre le sue richieste, poi sarebbe stato congedato o invitato a ripeterle davanti al Consiglio. In entrambi i casi, la decisione sarebbe stata presa subito. Incontrarono la prima di una lunga serie di rampe di scale che portavano alle parti più alte della rocca. Lo studio di Athabasca era in cima alla torre centrale, ed era probabile che il Grande Druido intendesse vedere Bremen lassù. Mentre salivano, il vecchio rifletté sulle parole di Caerid. Athabasca aveva certamente i suoi motivi per accordargli l'udienza, ma era poco probabile che glieli rivelasse. Il Grande Druido era in primo luogo un politico, e in secondo un amministratore, ma soprattutto un burocrate. Questo non per sminuirlo, ma semplicemente per inserire nella giusta cornice il suo modo di agire. La sua prima considerazione sarebbe stata sul rapporto causa-effetto, ossia sulle ripercussioni di un evento. Così lavorava la sua mente. Era un abile organizzatore, ma tendeva a fare il proprio interesse. Con lui, Bremen avrebbe dovuto scegliere con cura le parole. Stavano per uscire da un passaggio che collegava due corridoi quando una figura vestita di nero scaturì all'improvviso dall'ombra per fermarsi davanti a loro. Caerid Lock portò istintivamente la mano alla daga che gli pendeva dalla cintura, ma il nuovo venuto aveva già afferrato l'elfo per le braccia e gliele aveva inchiodate ai fianchi. Un istante più tardi, quasi a togliersi il pensiero, sollevò di peso Caerid e lo spostò di lato, come se fosse un ostacolo di nessun conto. "Calma, calma, capitano..." mormorò, con una voce in chiave di basso. "Non c'è bisogno di armi, tra amici. Voglio solo scambiare in fretta qualche parola col tuo accompagnatore, poi mi toglierò dai piedi." "Risca!" lo salutò Bremen, sorpreso di incontrarlo. "Lieto di vederti, vecchio mio!" "Mi farai un vero piacere se mi toglierai le mani di dosso, Risca" scattò Caerid Lock, irritato. "Ho cercato di prendere la spada perché mi sei saltato addosso senza preavviso!" "Scusa, capitano" rispose l'altro, allegramente. Staccò le mani dalle braccia dell'elfo e le sollevò tutt'e due, come per arrendersi. Poi guardò il druido: "Benvenuto a casa, Bremen di Paranor". Solo allora Risca venne avanti, alla luce, e abbracciò il vecchio. Era un nano barbuto, con la faccia tonda, spalle enormi e corpo tozzo e straordinariamente muscoloso. Braccia simili a tronchi d'albero, che terminavano con mani nodose e coperte di calli per
l'uso delle armi, Risca era come un ceppo profondamente radicato che nessuna forza avrebbe potuto estirpare, stagionato dal tempo e dalle intemperie, inattaccabile dagli anni. Era un druido guerriero, l'ultimo della sua disciplina, esperto nell'uso delle armi e nell'arte della guerra, grande conoscitore di tutte le battaglie combattute dal giorno in cui le nuove Razze si erano affacciate sul mondo. Bremen si era dedicato di persona al suo addestramento finché non era stato bandito dal castello, più di dieci anni prima. Nonostante il bando, però, Risca era rimasto suo amico. "Non faccio più parte di Paranor, Risca" gli fece notare Bremen. "Tuttavia, mi sembra davvero la mia casa. Come te la sei passata?" "Bene. Ma mi sono annoiato. Il mio talento serve a ben poco, entro queste mura. Tra i nuovi Druidi, ben pochi mostrano interesse per le arti militari. Per tenermi in forma, mi alleno con le Guardie. Caerid mi mette alla prova tutti i giorni." L'elfo sbuffò. "Tutti i giorni mi fai fuori, intendi dire. Che ci fai, qui? Come sei riuscito a trovarci?" Risca si staccò da Bremen e si guardò attorno con aria da cospiratore. "Queste mura hanno orecchi, per chi sa ascoltarle..." A dispetto di se stesso, Caerid Lock fu costretto a ridere. "Hai fatto la spia... una delle discipline che hai affilato come una lama nel tuo arsenale di arti militari!" Bremen sorrise al nano. "Sai perché sono venuto?" "So che hai un'udienza con Athabasca. Ma prima volevo parlare con te. No, Caerid, puoi rimanere. Per te non ho segreti." Il nano guardò Bremen con grande serietà. "Ci può essere una sola ragione per il tuo ritorno, e non si tratta certo di buone notizie, ma sia come sia. Avrai bisogno di alleati, e puoi contare su di me come portavoce al momento opportuno. Io ho un'anzianità, nel Consiglio, che pochi tuoi sostenitori possono metterti a disposizione. Comunque, devi sapere com'è la situazione qui dentro: non è favorevole al tuo ritorno." "Spero di convincere Athabasca: il pericolo che incombe su di noi ci impone di lasciare da parte le divergenze." Bremen aggrottò la fronte. "Non mi pare che sia tanto difficile accettare questa semplice verità." Risca scosse la testa. "Lo sarà. Sii forte, Bremen. Non piegarti davanti a lui. Ad Athabasca non piace quello che rappresenti, ossia una sfida alla sua autorità. Non puoi dire o fare nulla per cancellare questa sua prevenzione. Perciò, come arma, la paura ti sarà più utile della ragione. Fagli capire bene il pericolo." Si rivolse a Caerid. "Tu gli daresti un consiglio diverso?" L'elfo esitò per un istante, poi scosse la testa. "No." Risca afferrò di nuovo le mani del druido. "Ti parlerò più tardi." Si avviò per il corridoio e presto scomparve nell'ombra. Bremen sorrise, nonostante tutto. Saldo di corpo e di mente, inflessibile in tutto: questo era Risca. Non sarebbe mai cambiato. Ripresero il cammino, il capitano e il vecchio, per corridoi in penombra e scale a chiocciola, penetrando sempre più nella rocca, finché non giunsero a un pianerottolo e a una porticina rinforzata da borchie e fasce di ferro. Bremen l'aveva già vista molte volte, negli anni trascorsi al castello: era l'entrata posteriore dello studio del Grande Druido; Athabasca l'aspettava lì dentro. Trasse un profondo respiro. Caerid Lock bussò tre volte, attese un istante, bussò una quarta. Dall'interno una voce ben nota disse: "Avanti". Il capitano della Guardia dei Druidi aprì la porticina, poi si fece di lato. "Mi è stato ordinato di attendere qui" disse a bassa voce. Bremen annuì, divertito
dalla gravità che scorse sulla faccia dell'elfo. "Capisco" disse. "Grazie di nuovo, Caerid." Poi, chinandosi perché l'architrave era molto basso, entrò nello studio. Anche la stanza gli era nota. Era lo studio personale del Grande Druido, rifugio e luogo d'incontro del capo del Consiglio. Si trattava di un'ampia stanza dall'alto soffitto, con finestre di vetro piombato, scaffali pieni di carte, oggetti, diari, schedari e libri sparsi dappertutto. Sulla parete di fronte a lui c'era una grande porta a doppio battente, rinforzata da piastre di ferro. Nel centro esatto della stanza c'era una grande scrivania, in quel momento sgombra: sul ripiano di legno scuro e lucido si rifletteva la luce delle candele. Athabasca era in piedi, dietro la scrivania, e aspettava. Era un uomo alto e robusto, dall'aria imperiosa, con una folta capigliatura bianca e fluente e gelidi occhi azzurri profondamente infossati in una faccia florida. Indossava la veste blu della sua carica, legata alla vita e priva di insegne. Portava al collo l'Eilt Druin, il medaglione dei Grandi Druidi fin dai tempi di Galaphile. Era d'oro, in lega con una piccola percentuale di altri metalli per irrobustirlo, incastonato in una cornice d'argento sbalzato. Raffigurava una mano che stringeva una torcia accesa, simbolo dei Druidi fin dall'epoca della fondazione del loro ordine. Si diceva che il medaglione fosse magico, ma nessuno conosceva la natura della sua magia. La frase Eilt Druin era in lingua elfa e significava: "Dalla Conoscenza il Potere". Un tempo, il motto aveva un significato per i Druidi. Un'altra delle piccole ironie della vita, pensò Bremen, stancamente. "Lieto di vederti, Bremen" lo salutò Athabasca, con la sua voce profonda e sonora. Era il saluto tradizionale, ma il modo in cui lo pronunciò lo fece suonare vuoto e forzato. "Lieto di vederti, Athabasca" rispose Bremen. "Ti ringrazio di avermi accordato udienza." "Caerid Lock è stato molto convincente. Inoltre, non allontaniamo certo dalle nostre mura coloro che un tempo erano nostri fratelli." "Un tempo, ma non ora" intendeva dire. Bremen fece qualche passo avanti, fermandosi accanto alla grande scrivania, ed ebbe l'impressione che a separarlo da Athabasca ci fosse assai più di quel ripiano di legno lucido. Si chiese come riuscisse, il Grande Druido, a mettere gli altri in soggezione, quando erano davanti a lui, come se fossero altrettanti bambini. Anche se era più vecchio di Athabasca, Bremen aveva avuto l'impressione, per qualche momento, che l'altro gli fosse superiore per età ed esperienza. "Cosa mi volevi dire, Bremen?" gli chiese Athabasca. "Che le Quattro Terre sono gravemente minacciate. Che i Troll sono stati conquistati da un potere che trascende la vita fisica e la forza dei mortali. Che anche le altre Razze cadranno, se non interverremo a proteggerle. Che gli stessi Druidi rischiano la distruzione." Athabasca giocherellava con l'Eilt Druin, distrattamente. "E sotto che forma si presenta la minaccia? Quella della magia?" Bremen annuì. "Le voci che circolano sono vere, Athabasca Il Signore degli Inganni esiste realmente. Non solo: egli è la reincarnazione del druido ribelle Brona, che si credeva sconfitto e distrutto più di trecento anni fa. E' sopravvissuto e si è mantenuto in vita grazie all'impiego malvagio e illimitato del Sonno Magico e alla distruzione della sua anima. Ormai non ha più una forma concreta, è solo uno spirito. Eppure, resta il fatto che vive ed è all'origine della minaccia che ci sovrasta." "Tu l'hai visto? L'hai trovato nei tuoi
viaggi?" "Sì.". "Come sei riuscito a farlo? Te l'ha permesso lui? Certamente ti sarai travestito, per avvicinarlo." "Per parte del viaggio mi sono protetto con una magia che mi ha dato l'invisibilità. Poi mi sono avvolto in un'immagine tenebrosa, simile a quella dello stesso Signore degli Inganni, e neppure lui è stato in grado di riconoscermi sotto quel travestimento." "Ti sei reso simile a lui?" Athabasca si era portato le mani dietro la schiena e fissava con attenzione Bremen. "Per un breve tempo, mi sono dovuto rendere uguale a lui. Ho dovuto farlo per avvicinarmi fino ad avere la conferma dei miei sospetti." "E se il fatto di divenire come lui ti avesse in qualche modo corrotto, Bremen? Se l'uso della magia ti avesse fatto perdere la prospettiva e l'equilibrio? Come puoi essere certo che quello che hai visto non fosse frutto della tua immaginazione? E che la scoperta che ci vuoi riferire non sia qualcosa d'irreale?" Bremen si sforzò di mantenere la calma. "Se la magia mi avesse corrotto, lo saprei, Athabasca. Ho dedicato molti anni al suo studio, la conosco meglio di chiunque altro." Athabasca gli rivolse un sorriso gelido, carico di dubbi. "Ma proprio questo è il punto. Come possiamo valutare obiettivamente i poteri magici? Tu hai lasciato il Consiglio per intraprendere di tua iniziativa uno studio proibito, del cui pericolo eri stato avvisato. Hai seguito la stessa strada che era stata seguita in precedenza da un altro... dalla creatura che dici di voler combattere. La magia ha corrotto lui, Bremen. Come puoi essere certo che non abbia corrotto anche te? Oh, sono certo che tu pensi di essere impenetrabile al suo potere, ma questo lo pensavano anche Brona e i suoi seguaci. La magia è una forza insidiosa, un potere che oltrepassa la nostra capacità di comprensione e non dà affidamento. Abbiamo già considerato in precedenza il suo impiego e ne siamo stati traditi. La teniamo tuttora presente, ma procediamo con una cautela assai superiore a quella di un tempo: cautela, ripeto, perché il deprecabile caso di Brona e dei suoi compagni ci ha mostrato cosa può succedere. Ma tu, Bremen, che cautele hai adottato? La magia corrompe chi la usa, in un modo o nell'altro, e alla fine lo distrugge." Nel rispondere, Bremen cercò di mantenere ferma la voce. "Non ci sono certezze assolute sugli effetti del suo uso, Athabasca. La corruzione può sopraggiungere per gradi e in forme diverse, a seconda del modo in cui la magia viene impiegata, ma questo valeva anche per le antiche scienze. Tutte le applicazioni del potere corrompono. Questo, però, non significa che non si possano utilizzare per un bene superiore. So che non approvi il mio lavoro, ma anch'esso ha un suo valore. Neanch'io prendo alla leggera i pericoli della magia. Ma non sottovaluto neppure le sue possibilità, entro i loro limiti." Athabasca scosse la testa leonina. "Ti ritengo troppo immerso nell'oggetto del tuo studio per poterne dare un giudizio obiettivo. Era questo il tuo principale difetto, quando ci hai lasciati." "Può darsi" ammise Bremen, con serenità "ma non è di questo che dobbiamo occuparci adesso. Ciò che importa è la minaccia che incombe su di noi. Sui Druidi, Athabasca. Brona ricorda certamente chi lo sconfisse nella Prima Guerra delle Razze. Se intende di nuovo conquistare le Quattro Terre, come sembra, per prima cosa cercherà di eliminare coloro che costituiscono un pericolo per lui. I Druidi. Il Consiglio. Paranor." Per un momento Athabasca lo guardò con grande serietà, poi si girò e si diresse a una
delle finestre e alzò la testa verso i vetri multicolori. Bremen attese, poi continuò: "Sono venuto a chiederti il permesso di parlare al Consiglio. Concedimi la possibilità di dire agli altri quello che ho visto. Lascia valutare a loro l'importanza di ciò che sostengo". Il Grande Druido si girò, con il mento leggermente sollevato, in modo da dare l'impressione di voler guardare Bremen dall'alto in basso. "Noi siamo una comunità, all'interno di queste mura, Bremen. Siamo una famiglia, viviamo tra noi come se fossimo fratelli e sorelle, tutti impegnati nello stesso compito: conoscere il nostro mondo e i suoi meccanismi. Non ci sono tra noi favoritismi per uno o per un altro; noi trattiamo tutti da uguali. Questa è una verità che tu non hai mai voluto accettare." Bremen cercò di protestare, ma Athabasca sollevò la mano per farlo tacere. "Ci hai lasciati quando lo hai voluto tu. Hai deciso di abbandonare la tua famiglia e il tuo lavoro per seguire i tuoi interessi personali. Non potevi condividere con noi i tuoi studi, perché violavano i confini che avevamo stabilito. Non si può mai permettere al bene del singolo di nuocere al bene della collettività. In una famiglia deve regnare l'ordine. Ciascun membro della famiglia deve rispettare gli altri. Quando Ci hai lasciati, hai mostrato una grave mancanza di rispetto per le opinioni del Consiglio riguardo i tuoi studi. Hai ritenuto di conoscere la verità meglio di noi. Hai rinunciato al tuo posto nella comunità." Gli rivolse un'occhiata gelida. "E adesso vorresti tornare qui e comandare. Oh, non tentare di negarlo, Bremen! Che altro vorresti essere, se non il nostro capo? Arrivi con conoscenze che dici di possedere soltanto tu, con studi su poteri noti unicamente a te, e con un piano per salvare le Razze che soltanto tu puoi mettere in atto. Il Signore degli Inganni esiste. Il Signore degli Inganni è Brona. Il druido ribelle ha corrotto la magia per i propri fini e ha addomesticato i Troll. Tutti insieme marceranno contro le Quattro Terre, tu sei la nostra sola speranza. In seguito sarai costretto a consigliarci quello che dovremo fare, e poi ad assegnarci i compiti quando ci metteremo in moto per fermare questo imbroglio. Tu, che ci hai abbandonati per tanto tempo, dovrai adesso guidarci." Bremen scosse lentamente la testa. Sapeva già come sarebbe finita l'udienza, ma aveva il dovere di proseguire. "Non intendo guidare nessuno. Intendo parlare del pericolo che ho scoperto e niente di più. Quello che succederà in seguito sarete voi a deciderlo: tu in veste di Grande Druido e il Consiglio. Non sto cercando di rientrare nel Consiglio. Vi chiedo solo di ascoltarmi; poi rimandatemi pure per la mia strada." Athabasca sorrise. "Sempre assai sicuro di te, Bremen. Ne sono impressionato. Ti ammiro per la tua risolutezza, ma credo che t'inganni. Comunque, la mia è una voce singola, e non intendo essere il solo a prendere una decisione su questo caso. Attendi qui, con il capitano Lock. Riunirò i Consiglieri e chiederò loro di esaminare la tua richiesta. Sceglieranno di ascoltarti oppure no? Rimetto a loro la decisione." Batté rapido alcuni colpi sul tavolo e la porticina in fondo alla stanza si aprì. Caerid Lock entrò e gli rivolse il saluto. "Tieni compagnia al nostro ospite" ordinò Athabasca. "Fino al mio ritorno." Poi uscì dalla porta principale, senza guardarsi alle spalle. Athabasca non rientrò che dopo quattro ore o poco meno. Bremen rimase seduto su una panca, davanti a una delle finestre, e fissò lo sguardo nella luce velata del tardo
pomeriggio. Attese pazientemente, consapevole di non poter fare altro. Parlò con Caerid Lock per un poco, raccogliendo informazioni sui nuovi lavori del Consiglio, e venne a sapere che i progressi erano pressappoco gli stessi degli anni precedenti, che non era cambiato quasi niente, che non s'era fatto quasi nulla. Era deprimente, e presto Bremen smise di rivolgere quel tipo di domande. Si concentrò su quanto doveva dire al Consiglio e sulle possibili reazioni dei suoi membri, ma già sapeva in cuor suo che era inutile pensarci. Ora capiva perché Athabasca gli aveva concesso il colloquio. Il Grande Druido aveva preferito ascoltarlo che cacciarlo via su due piedi, mostrargli una parvenza di considerazione invece di non mostrargliene affatto. Ma la sua decisione era già presa. Non avrebbe ascoltato gli avvertimenti. Bremen era stato bandito e non avrebbe più avuto il permesso di tornarvi. Per nessun motivo, e per quanto potesse suonare convincente. Bremen era un uomo pericoloso, secondo Athabasca - e anche secondo altri, supponeva lui. Usava la magia senza cautela. Scherzava col fuoco. Non si poteva dare ascolto a un uomo simile. Né ora né mai. Che tristezza. Era venuto ad avvertire i Druidi, ma erano ormai irraggiungibili. Finalmente l'aveva capito. Adesso aspettava solo di averne la conferma. E la conferma arrivò presto, dopo le quattro ore di attesa. Athabasca rientrò nella stanza con l'aria di chi ha cose più importanti da fare. "Bremen" lo salutò e lo congedò nello stesso tempo. Non prestò attenzione a Caerid Lock, non gli chiese di rimanere o di andarsene. "Il Consiglio ha esaminato la tua richiesta e l'ha respinta. Se la presenterai di nuovo, questa volta in forma scritta, verrà trasmessa a una commissione apposita che effettuerà un secondo esame." Si sedette alla scrivania e cominciò a leggere con ostentazione alcuni documenti che aveva portato con sé. L'Eilt Druin luccicava vivacemente, dondolandogli sul petto. "Noi ci siamo impegnati a una politica di non intervento negli affari delle Razze, Bremen. Ciò che tu ci chiedi costituirebbe una violazione di questo principio. Dobbiamo tenerci lontano dalla politica e dai conflitti interrazziali. Le tue ipotesi sono troppo generiche e del tutto prive di conferma. Non possiamo dar loro credito." Alzò la testa. "Puoi provvederti di tutto l'occorrente per proseguire il viaggio. Buona fortuna. Capitano Lock, accompagna alla porta principale il nostro ospite." Abbassò di nuovo gli occhi. Bremen lo guardò senza fiatare. Nonostante se l'aspettasse, era stupito di un congedo così brusco. Quando capì che Athabasca avrebbe continuato a ignorare la sua presenza, gli disse piano: "Sei davvero un idiota". Poi girò le spalle e seguì Caerid che apriva la porticina e si avviava lungo i corridoi che li avevano portati fin lì. Quando fu uscito, sentì Athabasca chiudere la porta e tirare il chiavistello. 3 Caerid Lock e Bremen scesero in silenzio, accompagnati dalla solitaria cadenza dei loro passi lungo i corridoi tortuosi. Dietro di loro, il chiarore che ancora proveniva dal pianerottolo e dalla porticina dello studio del Grande Druido Athabasca lasciò progressivamente il posto all'oscurità. Bremen faticò a frenare l'amarezza che montava dentro di lui. Aveva dato dell'idiota ad Athabasca, ma forse il vero idiota era lui. Kinson aveva ragione. Visitare Paranor era stata una perdita di
tempo. I Druidi non intendevano ascoltare il loro ex fratello scacciato dall'ordine. Non erano interessati alle sue fantasie disordinate, al suo tentativo di tornare fra loro. Riusciva a immaginare senza difficoltà le occhiate divertite e ironiche che dovevano essersi scambiati, quando il Grande Druido li aveva informati della richiesta. Li vedeva scuotere la testa, offesi da tanto ardire. In verità, l'arroganza l'aveva reso cieco: gli aveva impedito di valutare l'immensità dell'ostacolo da superare per riavere la loro fiducia. Se riuscissi a parlare con loro, mi ascolterebbero, si era detto. Ma non gli era stata neppure data la possibilità di farlo. La sua sicurezza l'aveva tradito. L'orgoglio l'aveva ingannato. Aveva commesso un grave errore di calcolo. Eppure pensò, per salvare qualcosa dal fallimento - aveva fatto bene a provare. Almeno non sarebbe stato afflitto, in futuro, dal rimpianto e dal senso di colpa per non avere compiuto il tentativo. Né poteva dire che l'insuccesso fosse totale. Qualcosa di buono poteva ancora venire dalla sua venuta al castello, un piccolo cambiamento, nella disposizione di spirito dei Druidi o nelle loro azioni future, che sarebbe risultato visibile soltanto a distanza di molto tempo. Non era giusto condannare senza appello il tentativo. Forse Kinson aveva ragione a proposito del risultato, ma chi poteva dire che la visita fosse destinata a non dare alcun frutto? "Mi dispiace che non ti abbiano concesso di parlare, Bremen" disse Caerid a bassa voce, guardandolo da sopra la spalla. Bremen alzò gli occhi e si rese conto di avere un'aria profondamente depressa. Non era il momento di compatirsi. Aveva perso l'occasione di rivolgersi direttamente al Consiglio, ma c'erano altri compiti da svolgere prima di lasciare per sempre la rocca, e adesso doveva dedicarsi a quelli. "Caerid, pensi che abbia il tempo di andare a trovare Kahle Rese, prima di allontanarmi?" chiese. "Mi bastano pochi minuti." Si fermarono sulle scale e si scambiarono un'occhiata, il vecchio dall'aspetto fragile e l'elfo non più giovanissimo. "Athabasca ti ha detto di procurarti quello che ti occorreva per il viaggio" osservò Caerid "ma non ha specificato cosa poteva occorrerti. Penso che una breve visita possa rientrare fra le necessità a cui si riferiva." Bremen sorrise. "Non mi scorderò mai dei favori che mi hai fatto, Caerid. Mai." L'altro si strinse nelle spalle. "Cose da nulla, Bremen. Vieni." Raggiunsero un altro corridoio, passarono per alcune porte e scesero un'altra rampa di scale. Per tutto il tempo, il druido continuò a riflettere. Comunque fossero andate le cose, aveva dato l'avviso. Molti l'avrebbero ignorato, ma alcuni gli avrebbero prestato fede, e a questi si doveva permettere di sopravvivere alla sciocchezza degli altri. Inoltre, occorreva adottare qualche misura per proteggere la rocca. Non poteva fare molto, considerato il potere del Signore degli Inganni, ma doveva tentare. Avrebbe cominciato da Kahle Rese, il più vecchio e fedele dei suoi amici, pur sapendo che anche nel suo caso c'era da aspettarsi una delusione. Quando arrivarono alla porta che dava accesso al corridoio principale, a poca distanza dalla biblioteca dove Kahle Rese passava le giornate, Bremen si rivolse a Caerid. "Mi puoi fare ancora un favore?" chiese all'elfo. "Puoi cercare Risca e Tay Trefenwyd e dire loro che vengano a parlare con me? Falli aspettare qui nel passaggio finché non avrò finito con Kahle. Ti do la mia parola che non andrò in altri posti e che non violerò i limiti del permesso che mi
è stato dato." Caerid distolse lo sguardo. "La tua parola non è necessaria, Bremen. Non lo è mai stata. Va' a trovare Kahle.LO andrò a prendere gli altri due e ci vedremo qui." Si girò e salì ai piani superiori. Bremen si ripeté che era davvero fortunato ad avere un amico come Caerid Lock. Si ricordava di quando l'aveva conosciuto, giovane apprendista delle arti militari, già allora attento e posato come adesso. Caerid Lock era giunto da Arborlon in assegnazione temporanea, ma era rimasto a Paranor perché era divenuto un convinto sostenitore della causa dei Druidi. Era difficile che un non druido manifestasse un interesse di quel genere: Bremen si chiese se, potendo tornare indietro, Caerid avrebbe fatto la stessa scelta. Aprì la porta e girò a destra. Il corridoio aveva il soffitto a volta, sorretto da grosse travi che splendevano di cera. Alle pareti erano appesi quadri e arazzi, in piccole nicchie illuminate da candele erano conservati mobili antichi e vecchie armature. Il tempo pareva prigioniero di quelle pareti dove nulla cambiava, tranne le ore del giorno e la successione delle stagioni. Si provava un grande senso di stabilità, a Paranor, la più grande e antica fortezza delle Quattro Terre, protezione dei dispensatori di conoscenza, custode dei manufatti e dei volumi più preziosi. I pochi progressi compiuti dalle Razze dopo essere uscite dalla barbarie portata dalle Grandi Guerre erano venuti da quel castello. Ora tutto rischiava di finire, di scomparire per sempre, e il solo Bremen pareva preoccuparsene. Arrivato alla porta della biblioteca, l'aprì senza fare rumore ed entrò. La stanza era piccola, ma stipata di libri. Dopo la distruzione del vecchio mondo, i libri erano diventati rari, e gran parte di quelli disponibili era stata compilata dai Druidi, che li avevano faticosamente scritti a mano, attingendo ai ricordi dei pochi che ancora ricordavano le conoscenze del passato. Quasi tutti i libri erano conservati lì, in quella stanza e in un'altra, e il druido responsabile della loro conservazione era Kahle Rese. Tutti erano preziosi, ma lo erano soprattutto le Storie dei Druidi, in cui erano elencati tutti i tentativi del Consiglio di recuperare le conoscenze scientifiche e magiche provenienti dai secoli precedenti le Grandi Guerre e in seguito perdute. Quei libri contenevano tutti gli studi con cui si era cercato di scoprire i segreti che avevano donato all'antichità i suoi più grandi progressi; vi erano elencate le ipotesi sulle leggi scientifiche e sulla costruzione degli strumenti che dovevano applicarle, come pure sui talismani e sulle evocazioni: tutto materiale che forse un giorno avrebbe trovato spiegazione. Le Storie dei Druidi erano i libri più importanti, agli occhi di Bremen, che aveva deciso di salvarli. Kahle Rese era in cima a una scala, intento a rimettere in ordine una serie di volumi rilegati in cuoio e piuttosto squinternati, quando Bremen fece il suo ingresso. Il bibliotecario si girò e, quando lo riconobbe, trasalì per la sorpresa. Era un uomo minuto, di bassa statura, leggermente aggobbito dalla vecchiaia, ma ancora abbastanza agile per arrampicarsi sulle sue scalette. Aveva le mani impolverate e si era rimboccato le maniche della veste e le aveva fissate con delle spille. Batté un paio di volte gli occhi azzurri, poi sorrise, accentuando le rughe. Scese rapidamente a terra e raggiunse Bremen, per poi stringergli tutt'e due le mani. "Caro amico" lo salutò. La sua faccia affilata assomigliava alla testa di un uccello: occhi
acuti e brillanti, naso a becco, bocca simile a una linea sottile e per barba un corto ciuffo ricciuto, sul mento a punta. "Lieto di vederti, Kahle" gli rispose Bremen. "Mi sei mancato. Le nostre conversazioni, il nostro almanaccare sui misteri del mondo, le nostre valutazioni sulla vita. Anche i nostri tentativi di scherzare. Li ricorderai certo." "Li ricordo, Bremen, li ricordo" rispose il bibliotecario, sorridendo. "Bene, eccoti qua." "Solo per pochi minuti, temo. Hai sentito?" Kahle Rese annuì. Il sorriso gli scomparve dal volto. "Sei venuto a metterci in guardia sul Signore degli Inganni. Athabasca l'ha fatto per te. Hai chiesto di parlare al Consiglio. Athabasca ha parlato per te. Si è preso una grossa responsabilità, vero? Ma aveva i suoi motivi, come sappiamo entrambi. In ogni caso, il Consiglio ha votato contro di te. Alcuni ti hanno difeso in modo assai animato. Risca, per esempio. Tay Trefenwyd. Un paio d'altri." Scosse la testa. "Io confesso di essere rimasto zitto." "Perché il tuo intervento sarebbe stato inutile" disse Bremen, per venirgli incontro. Ma Kahle scosse la testa. "No, Bremen. Perché sono troppo vecchio e stanco per lottare. Mi trovo bene qui, in mezzo ai miei libri e desidero soltanto essere lasciato stare." Batté le palpebre e guardò Bremen con attenzione. "Credi veramente a quello che hai detto sul Signore degli Inganni? Esiste davvero? E' il druido ribelle Brona?" Bremen annuì. "E' quello che ho detto ad Athabasca, e costituisce una grave minaccia per Paranor e il Consiglio. Prima o poi verrà qui, Kahle. E quando verrà, distruggerà tutto." "Forse" ammise Kahle Rese, stringendosi nelle spalle. "O forse no. Le cose non succedono sempre nel modo previsto. Su questo eravamo d'accordo, un tempo." "Ma ora, temo, è assai improbabile che avvengano in modo diverso da quello che prevedo" replicò Bremen. "I Druidi passano troppo tempo fra queste mura. Non possono vedere obiettivamente quello che succede all'esterno. Il castello blocca loro la visione." Kahle sorrise. "Abbiamo anche noi occhi e orecchie, e sappiamo più di quanto tu non creda. Il nostro problema non è l'ignoranza, ma l'autocompiacimento. Siamo velocissimi ad accettare quello che conosciamo e lenti ad accogliere ciò che immaginiamo soltanto. Crediamo che la vita debba andare come vogliamo noi, e che soltanto la nostra voce abbia valore." Bremen posò la mano sull'esile spalla dell'amico. "Tra tutti, sei sempre stato colui che ragionava meglio. Saresti disposto a fare un breve viaggio con me?" "Vorresti salvarmi da quella che, secondo te, sarà la mia fine, vero?" rispose, ridendo. "Troppo tardi, Bremen. Il mio destino è legato a queste mura e ai pochi libri che riesco a scrivere. Sono troppo vecchio e troppo attaccato alle mie abitudini per rinunciare al lavoro di tutta la vita. Questo è ciò che so. Sono uno dei Druidi che ti ho descritto, caro amico, ostinati e moribondi fino all'ultimo. Il destino di Paranor è anche il mio." Bremen annuì. Aveva già supposto che Kahle Rese gli parlasse così, ma aveva dovuto chiederglielo. "Vorrei che ci ripensassi. Ci sono altre mura tra cui vivere, altre biblioteche da curare." "Davvero?" chiese Kahle, inarcando un sopracciglio. "Bene, aspetteranno qualcun altro, temo.LO appartengo a questa." Bremen sospirò. "Allora aiutami in un altro modo, Kahle. Mi auguro di essermi sbagliato nel giudicare il pericolo. Mi auguro di sbagliarmi nel prevedere ciò che accadrà. Ma se ho ragione, e se il Signore degli Inganni arriverà a Paranor, e se le porte dovessero cedere sotto il suo attacco, allora
qualcuno dovrà salvare le Storie dei Druidi." S'interruppe. "Sono ancora conservate separatamente, nella stanza accanto, dietro la libreria mobile?" "Ancora e sempre" rispose Kahle. Bremen s'infilò una mano nella veste e gli mostrò un piccolo sacchetto di pelle. "Qui dentro c'è una polvere speciale" disse all'amico. "Se il Signore degli Inganni dovesse penetrare fra queste mura, spargila sulle Storie dei Druidi, ed esse risulteranno inaccessibili. La polvere le nasconderà. La polvere le salverà." Consegnò il sacchetto a Kahle, che lo prese con riluttanza e lo soppesò per qualche momento, come per valutarne l'efficacia. "Magia degli Elfi?" chiese. Bremen annuì. "Qualche forma di polvere di fata, suppongo. Qualche stregoneria dei tempi andati." Sorrise come un bambino discolo. "Sai cosa mi succederebbe se Athabasca mi scoprisse con questo sacchetto?" "Lo so" rispose Bremen, con gravità. "Ma non lo troverà, vero?" Kahle guardò per un momento il sacchetto, pensosamente, poi lo fece sparire in una tasca. "No" rispose. "Non lo troverà." Aggrottò la fronte. "Ma non posso prometterti di usare la polvere, accada quello che accada. In questo soltanto io sono come Athabasca, Bremen. Sono contrario all'uso della magia nell'espletamento dei miei compiti. Mi dispiace veder usare la magia come strumento, qualunque sia lo scopo. Tu lo sai. Te l'ho già detto varie volte in passato, vero?" "Me l'hai detto." "Eppure mi chiedi ugualmente di farlo?" "Sono costretto. A chi potrei rivolgermi? Di chi potrei fidarmi? Mi affido al tuo giudizio, Kahle. Usa la polvere soltanto se la situazione sarà talmente grave da minacciare la vita di tutti, e se non rimarrà nessuno per occuparsi dei libri. Non permettere che cadano nelle mani di coloro che abuserebbero di quelle conoscenze. Sarebbe assai peggio di qualsiasi effetto negativo dell'impiego della magia." Kahle lo guardò con gravità, poi annuì. "Lo sarebbe davvero. Bene, terrò la polvere con me e la userò se dovesse succedere il peggio. Ma solo in quel caso." Nel silenzio che seguì, si guardarono ancora per qualche istante. Tutto era stato detto. "Dovresti ritornare sulla tua decisione di non venire con me" tentò Bremen, un'ultima volta. Kahle sorrise. Ossia, arricciò leggermente le labbra sottili. "Mi hai già chiesto una volta di venire con te, quando hai preferito lasciare Paranor per seguire altrove i tuoi studi di magia. Allora ti dissi che non avrei mai lasciato il castello, che questo è il mio posto. Nulla è cambiato." Bremen sentì insinuarsi nell'animo una grande, disperata amarezza, e si affrettò a sorridere per non tradire quella nuova emozione. "Allora addio, Kahle Rese, mio migliore amico, mio primo amico. Riguardati." Il bibliotecario lo abbracciò, stringendogli con forza per qualche momento le spalle scarne. "Addio, Bremen" sussurrò. "Per quest'unica volta, mi auguro che ti sbagli." Bremen annuì, senza parlare. Poi si diresse alla porta e uscì senza più girarsi. Si scoprì ad augurarsi che la situazione fosse diversa, pur sapendo che non poteva esserlo. Attraversò in fretta il corridoio per ritornare alla porta che dava sulla scala da cui era entrato, e mentre passava guardò gli arazzi e il mobilio come se non li avesse mai visti, o come se fosse certo di non rivederli più. Gli pareva che una parte di lui fosse scomparsa per sempre, come quando aveva lasciato Paranor la prima volta. Anche se non gli piaceva ammetterlo, quella era ancora la sua casa, più di qualsiasi altro luogo, e come succede per tutte le case, rivendicava i propri diritti su di lui, in tanti modi che non si
potevano giudicare o valutare con precisione. Aprì la porta e si trovò nella penombra della scala, faccia a faccia con Risca e Tay Trefenwyd. Tay si fece avanti subito, per abbracciarlo. "Benvenuto a casa, druido" lo salutò, battendogli la mano sulla schiena. Tay era un elfo molto più alto e robusto della media della sua razza, allampanato e dall'aria piuttosto goffa, come se rischiasse da un momento all'altro di inciampare nei suoi stessi piedi. Aveva il viso caratteristico degli Elfi, ma dava l'impressione che la sua testa fosse stata attaccata al corpo sbagliato. Era ancora giovane, nonostante i quindici anni trascorsi a Paranor, con la faccia liscia e ben rasata, i capelli biondi e gli occhi azzurri, ed era sempre pronto a sorridere a tutti. "Ti trovo in ottima forma, Tay" rispose il vecchio, sorridendo a sua volta. "La vita a Paranor sembra farti bene." "Rivederti mi fa ancora meglio" proclamò l'altro. "Quando partiamo?" "Partiamo?" "Non fare il finto tonto. Partiamo per dove stai andando tu.LO e Risca abbiamo deciso. Anche se non ci avessi chiesto di venire a incontrarti qui, saremmo venuti a cercarti prima che uscissi. Siamo stanchi di Athabasca e del Consiglio." "Non hai assistito allo spettacolo" sbuffò Risca, uscendo alla luce. "Una vera farsa. Hanno degnato la tua richiesta della stessa considerazione che avrebbero riservato a un invito a morire di peste. Non è stato consentito il dibattito e non sono state date spiegazioni! Athabasca ha presentato la tua richiesta in modo tale da far subito capire come la giudicava; e gli altri l'hanno appoggiato, tutti quei sicofanti.LO e Tay abbiamo fatto del nostro meglio per denunciare le sue macchinazioni, ma ci hanno costretti a tacere. Ne ho abbastanza dei loro maneggi e della loro miopia. Se tu dici che il Signore degli Inganni esiste, allora vuol dire che c'è. Se dici che verrà a Paranor, allora verrà di certo. Ma io non sarò qui a salutarlo. Cedo ben volentieri il mio posto agli altri. Maledizione, come possono essere così sciocchi?" Risca era tutto calore e azione, e Bremen sorrise a dispetto di se stesso. "Allora, avete dato buona prova di voi, nel prendere le mie difese?" "Eravamo un soffio contro una tromba d'aria" rispose Tay, ridendo. Sollevò le braccia, poi le lasciò ricadere, sconsolato. "Risca ha ragione. A Paranor regna la politica, da quando Athabasca è stato eletto Grande Druido. Avresti dovuto prendere tu quella carica, Bremen, non lui." "Saresti diventato Grande Druido, se l'avessi voluto" confermò Risca, con irritazione. "Avresti dovuto insistere." "No" rispose Bremen. "Non sarei stato adatto, amici. Non ho alcuna predisposizione per governare e amministrare.LO desideravo cercare e recuperare quello che è andato perso, e non avrei potuto farlo dall'alto della torre principale. Athabasca era più adatto di me." "Sciocchezze" ribatté Risca. "Quell'uomo non è mai stato adatto a niente. Ti odia ancor oggi. Sa che la sua carica poteva essere tua: bastava che la chiedessi. Non ti ha mai perdonato per questo. E neppure per averla rifiutata. La tua libertà minaccia la sua fiducia nell'ordine e nell'obbedienza. Vorrebbe metterci tutti bene in ordine in uno scaffale e tirarci fuori quando gli fa comodo. Vorrebbe dettare le nostre azioni come se fossimo bambini. Gli sei sfuggito di mano abbandonando Paranor, e non te lo perdonerà mai." Bremen si strinse nelle spalle. "Vecchie storie. Rimpiango solo che non abbia dato ascolto al mio avvertimento. Penso che il castello corra veramente pericolo. Il
Signore degli Inganni viene in questa direzione, Risca. Non si limiterà a passare accanto a Paranor e ai Druidi. Li schiaccerà sotto gli stivali dei suoi armati." "Che dobbiamo fare?" chiese Tay, guardandosi attorno come se temesse di essere ascoltato. "Abbiamo continuato ad addestrarci nelle arti magiche, Bremen. Tutt'e due, io e Risca, ciascuno a suo modo, servendoci delle nostre rispettive discipline. Sapevamo che un giorno saresti tornato a prenderei e che avremmo avuto bisogno della magia." Bremen annuì, soddisfatto. Aveva fatto affidamento soprattutto su quei due, perché qualcuno proseguisse gli studi sulle arti magiche. Non avevano né la sua competenza né la sua pratica, ma erano abbastanza esperti. Risca era il maestro d'armi, versato nelle arti della guerra e nella pratica militare. Tay Trefenwyd era uno studioso degli elementi, delle forze che creano e distruggono, dell'equilibrio di terra, aria, fuoco e acqua nell'evolversi della vita. Ciascuno, esattamente come lui, era un adepto della magia, capace di usarla per protezione e difesa. L'esercizio della magia era proibito entro le mura di Paranor, tranne che sotto stretto controllo. La magia veniva utilizzata soltanto in caso di necessità. La sperimentazione era scoraggiata e spesso, se scoperta, punita. I Druidi vivevano nell'ombra della loro storia, del cupo ricordo di Brona e dei suoi seguaci. L'indecisione e il senso di colpa ne avevano minato la voglia di vivere. E adesso non si rendevano conto che il loro atteggiamento distorto minacciava di portarli alla completa distruzione. "Le vostre supposizioni erano giuste" disse ai compagni. "Ero certo che non avreste rinunciato alla magia. E voglio che mi accompagniate. Nei giorni che verrànno, avrò bisogno della vostra forza e delle vostre abilità. Ditemi, ci sono altri a cui rivolgerci? Altri che sono convinti della necessità della magia?" Tay e Risca si scambiarono una rapida occhiata. "Nessuno" riferì il nano. "Dovrai accontentarti di noi." "Sarete sufficienti" rispose il druido, sforzandosi di sorridere. Soltanto quei due, oltre a lui e Kinson! Due contro tanti! Sospirò. Bene, avrebbe dovuto aspettarselo. "Mi spiace di dovervi chiedere una simile rinuncia" disse, con sincerità. Risca sbuffò. "Mi sentirei umiliato se non ci portassi con te Ne ho piene le bisacce di Paranor e dei suoi vecchi barbogi Nessuno s'interessa della mia arte. Nessuno segue i miei passi Agli occhi di tutti, io rappresento un anacronismo. E Tay la pensa esattamente come me. Ce ne saremmo andati via da tempo, se non ci fossimo accordati per aspettare il tuo ritorno." Tay annuì. "Non abbiamo nessun rimpianto, visto che ti occorrono compagni di viaggio, Bremen. Siamo pronti a partire subito." Bremen strinse loro le mani e li ringraziò. "Prendete quello che intendete portare con voi e troviamoci davanti alle porte principali, domattina. Al momento della partenza vi parlerò del nostro viaggio. Questa notte dormirò nella foresta col mio compagno, Kinson Ravenlock. E' con me da due anni e si è dimostrato prezioso. E' un cercatore di piste e un esploratore, un cacciatore della Frontiera, di grande coraggio e notevole intelligenza." "Se è con te, non occorrono altre raccomandazioni" disse Tay. "Adesso ti lasciamo. Caerid Lock ti aspetta sulla scala, qui sotto. Ha detto che devi scendere finché non lo incontri." S'interruppe e fissò Bremen con gravità: "Caerid sarebbe un buon acquisto per noi". Il vecchio annuì. "Lo so. Gli chiederò di venire. Riposate bene. Ci vedremo all'alba." Il nano e l'elfo
rientrarono nel corridoio principale e si chiusero la porta alle spalle, lasciando Bremen solo. Il druido attese qualche momento, riflettendo su ciò che gli rimaneva da fare. Nell'interno del castello regnava un profondo silenzio. Il tempo scivolava via. Non gliene occorreva molto, ma era meglio che si sbrigasse. E gli serviva la complicità di Caerid Lock. Scese in fretta, ripassando mentalmente il suo piano. L'odore di muffa dell'angusto passaggio finì per irritargli il naso, lo costrinse a fare una smorfia. Nelle altre parti del castello, nei corridoi principali e lungo le scale, l'aria era tiepida e pulita, perché saliva dai fuochi che per tutto l'anno riscaldavano la costruzione. Il flusso dell'aria era controllato da paratie e valvole di tiraggio, assenti nei passaggi segreti come quello in cui si trovava. Incontrò il capitano della Guardia due rampe più in basso. Era nascosto nell'ombra, e quando Bremen si avvicinò fece un passo verso di lui. La sua espressione era impassibile. "Ho pensato che da soli vi sareste sentiti più a vostro agio" disse. "Grazie" rispose Bremen, colpito da tanta premura. "Ma vorremmo che fossi dei nostri, Caerid. Partiamo all'alba. Vieni con noi?" Caerid gli rivolse un pallido sorriso. "Avevo l'impressione che questo fosse il vostro piano. Risca e Tay sono ansiosi di lasciare Paranor, lo sanno tutti." Scosse lentamente la testa. "Ma per quanto riguarda me, Bremen, il dovere mi impone di rimanere. Soprattutto se le tue convinzioni sono giuste. Qualcuno deve proteggere i Druidi di Paranor, anche da se stessi, e io sono il più adatto. La Guardia mi è fedele: uomini scelti a uno a uno, addestrati sotto il mio comando. Non sarebbe giusto abbandonarli." Bremen annuì. "Lo penso anch'io. Eppure, sarebbe bello averti con noi." Caerid gli rivolse un accenno di sorriso. "Sarebbe bello venire. Ma la mia decisione è presa." "Allora, custodisci bene queste mura, Caerid Lock" disse Bremen, fissandolo negli occhi. "Assicurati della fedeltà dei tuoi uomini. Ci sono Troll in mezzo a loro? Ce n'è qualcuno che potrebbe tradirti?" Il capitano della Guardia scosse la testa, con decisione. "Nessuno. Tutti mi seguirebbero fino alla morte. Anche i Troll. Sarei pronto a scommetterci la vita, Bremen." Il druido gli sorrise con gentilezza. "E sarà proprio così" commentò. Si guardò attorno, come se cercasse qualcuno. "Verrà, Caerid: il Signore degli Inganni, con i suoi servitori alati e i suoi soldati mortali, e forse con creature evocate da qualche abisso infernale. Calerà su Paranor e cercherà di schiacciarvi. Devi guardarti soprattutto le spalle, amico mio." Il vecchio soldato annuì. "Saremo pronti." Fissò Bremen negli occhi. "E' ormai tempo di accompagnarti alla porta. vuoi del cibo da portare via?" Bremen annuì. "Mi sarebbe utile." Poi ebbe un attimo di esitazione. "Stavo per dimenticarmene. Potrei dire un'ultima parola a Kahle Rese? Temo che ci siamo lasciati un po' burrascosamente, e preferirei fare la pace, prima di lasciarlo. Mi puoi concedere qualche altro minuto, Caerid? Tornerò subito." L'elfo rifletté per un momento, poi annuì. "Va bene. Ma fa' in fretta, ti prego. Ho già forzato al massimo le concessioni di Athabasca." Bremen gli rivolse un sorriso disarmante e salì di nuovo la scala. Si vergognava di aver dovuto mentire a Caerid Lock, ma non aveva scelta. Il capitano della Guardia non avrebbe mai approvato quello che stava per fare, per quanto gli fosse amico. Bremen salì due rampe, imboccò un passaggio secondario, lo percorse fino in fondo, aprì una porta e imboccò un'altra rampa, più
stretta e ripida della precedente. Salì senza fare rumore, con grande circospezione. Non poteva permettersi di essere scoperto. L'azione che intendeva compiere era proibita. Se l'avessero scoperto, Athabasca avrebbe avuto la scusa per sbatterlo nella cella più profonda e lasciarvelo fino alla consumazione dei tempi. In cima alla scala si fermò davanti a una pesante porta di legno, chiusa da massicci lucchetti e da catene grosse come il suo polso. Toccò con attenzione i lucchetti, uno dopo l'altro, e con un piccolo scatto si aprirono. Sfilò le catene dagli anelli, spinse la porta e con un misto di sollievo e di batticuore la vide aprirsi lentamente. Entrò e si trovò su una piattaforma posta a uno dei livelli più alti del castello. Sotto, le pareti scendevano a perpendicolo, fino a un abisso buio, che, a quanto si diceva, si spingeva fino al centro della terra. Nessuno che avesse provato a scendere era mai risalito a raccontare quello che aveva trovato. Nessuno era mai riuscito a illuminarlo a sufficienza per vedere cosa c'era. Il Pozzo dei Druidi, era chiamato. Era un luogo in cui erano stati gettati i rifiuti del tempo e del destino, della magia e della scienza, dei vivi e dei morti, di mortali e immortali. Esisteva fin dal tempo di Faerie. Come il Perno dell'Ade nella Valle d'Argilla, era una delle poche porte che collegassero il mondo dei vivi con l'oltretomba. La leggenda parlava di come fosse stato usato negli anni e delle terribili cose che aveva inghiottito. A Bremen non interessavano le leggende. Ciò che gli interessava l'aveva scoperto alcuni anni prima, quando aveva accertato che il pozzo era una sorta di condotto, il quale permetteva di attingere magia da regni mai visitati da anima viva: nell'oscurità che copriva i suoi segreti si trovavano poteri che nessuna creatura avrebbe osato sfidare. Fermo sulla piattaforma, sollevò le braccia e cominciò a intonare una complessa monodia, con voce ferma, sicuro di ogni parola da lui cantata. Non abbassò mai gli occhi, neppure quando udì giungere dal fondo sospiri e fruscii. Mosse lentamente le mani, tracciando simboli che imponevano obbedienza, e pronunciò le formule senza mai interrompersi, perché una piccola esitazione sarebbe stata sufficiente a rompere l'incantesimo e impedirne la riuscita. Quando ebbe terminato, si frugò nelle tasche e ne trasse un pizzico di polvere verde che gettò nel vuoto. La polvere scintillò malignamente, mentre si alzava sulle correnti d'aria, e parve crescere e moltiplicarsi, come se al posto di pochi granelli ce ne fossero migliaia. Per un momento rimasero sospesi sull'abisso, luccicanti sullo sfondo buio, poi si spensero tutti insieme e scomparvero. Bremen si affrettò a tirarsi indietro e ad appoggiarsi alla gelida pietra del castello. Respirava con affanno e sentiva dileguarsi il coraggio. Non aveva più la resistenza di un tempo. E neppure la decisione. Chiuse gli occhi e attese che i fruscii e i sospiri tacessero progressivamente. L'impiego della magia richiedeva uno sforzo così grande! Rimpianse di non essere più giovane. Rimpianse di non avere né il fisico né la decisione dei giovani. Ma era vecchio e fragile ed era inutile chiedere l'impossibile. Doveva accontentarsi della forza che aveva. Sotto di lui, qualcosa grattò contro le pareti di pietra: forse erano artigli, forse scaglie. Qualcosa si stava arrampicando, per vedere se colui che aveva lanciato l'incantesimo era ancora presente! Raccogliendo le forze, Bremen si affrettò a uscire e a chiudere accuratamente la porta. Il cuore gli batteva ancora a
precipizio e aveva la faccia coperta da un velo di sudore. Lascia questo posto, sussurrava una voce minacciosa, da dietro la porta, dal fondo del pozzo. Vattene subito! Con mani tremanti, Bremen tese le catene e chiuse i lucchetti. Poi scese in fretta la scala e attraversò i passaggi deserti del castello per ricongiungersi con Caerid Lock. 4 Bremen e Kinson Ravenlock passarono la notte nella foresta, a breve distanza da Paranor e dai Druidi. Trovarono una macchia di abeti che offriva un buon riparo, perché perfino lì temevano di essere visti dai cacciatori alati che battevano i cieli notturni. Mangiarono qualcosa di freddo - pane, formaggio, mele tardive - e lo accompagnarono con birra, poi discussero gli avvenimenti del giorno. Bremen parlò dell'inutile tentativo di rivolgersi al Consiglio e riferì le conversazioni da lui avute all'interno del castello. Kinson si limitò a qualche cenno del capo e a qualche mormorio di disapprovazione, ed ebbe l'accortezza, quando si arrivò all'incredulità mostrata da Athabasca, di non dire che l'aveva previsto. Poi si addormentarono, stanchi del lungo viaggio dalle Streleheim al castello e delle molte notti insonni che l'avevano preceduto. Montarono la guardia a turno, non fidandosi neppure della protezione offerta dalla vicinanza dei Druidi. Entrambi sapevano che per qualche tempo non ci sarebbe stato alcun nascondiglio sicuro: il Signore degli Inganni andava dovunque volesse, e grazie ai suoi cacciatori aveva occhi in ogni angolo delle Quattro Terre. Bremen, che fece il primo turno, a un certo punto credette di cogliere una presenza, che per un momento sfiorò le sue difese, a breve distanza da loro. Ma era mezzanotte, il suo turno stava per finire, il sonno si avvicinava, e la sensazione lo sfiorò appena. Dopo il primo istante non sentì più nulla, e il brivido che gli era corso lungo la schiena sparì con la stessa rapidità con cui era giunto. Dormì profondamente e senza sogni, ma si svegliò prima del sorgere del sole. Stava riflettendo sulle nuove mosse per opporsi alla minaccia del Signore degli Inganni, quando Kinson uscì dall'ombra senza fare rumore e s'inginocchiò accanto a lui. "C'è una giovane che ti vuole vedere" gli disse. Bremen annuì senza parlare e si mise a sedere. Nel cielo, la notte lasciava pian piano il posto al grigio, e lungo l'orizzonte si scorgeva già un alone argenteo. La foresta che li circondava sembrava vuota e abbandonata, un vasto labirinto buio di cespugli spinosi e fronde a baldacchino, chiuso e sigillato come una tomba "Chi è?" chiese il vecchio. Kinson scosse la testa. "Non me l'ha detto. Sembra uno dei Druidi: indossa la loro veste con lo stemma." "Bene, bene" mormorò Bremen alzandosi in piedi. I muscoli gli dolevano e aveva le giunture irrigidite. "Ha detto di essere disposta ad aspettare" continuò il cacciatore "ma io sapevo che eri già sveglio." Bremen sbadigliò. "Comincio a diventare un po' troppo prevedibile, e questo è un pericolo. Una giovane, hai detto? Non ci sono molte donne, tra i Druidi, soprattutto giovani." "Non sapevo che ce ne fossero" commentò Kinson. "In ogni caso, non mi sembra pericolosa, e pare molto ansiosa di parlarti." Kinson pareva indifferente all'esito di quella preghiera; questo significava che per lui era una perdita di tempo. Bremen si stirò le pieghe della veste. Era ora di lavarla. E lo
stesso valeva per lui. "Mentre eri di guardia, hai visto cacciatori alati?" Kinson scosse la testa. "Però ho sentito la loro presenza. Si aggirano in questi boschi, non dimenticarlo. Sei disposto a parlare con lei?" Bremen lo fissò per un istante. "La giovane? Oh, sì, certo. Dov'è?" Dall'ombra dell'abete, Kinson lo accompagnò fino a una piccola radura, a una ventina di passi di distanza. La giovane li attendeva laggiù: una presenza scura e silenziosa. Non sembrava molto robusta, era di statura un po' inferiore alla media e pareva avere le ossa minute; si era completamente avvolta nel mantello e il cappuccio le nascondeva la faccia. Quando Bremen uscì dagli alberi, la giovane non si mosse, ma aspettò che fosse lui ad avvicinarsi. Bremen rallentò il passo. Lo incuriosiva il fatto che li avesse trovati così facilmente. Si erano di proposito accampati nel folto del bosco perché nessuno potesse scoprirli mentre dormivano. Eppure lei c'era riuscita, di notte e alla poca luce della luna e delle stelle che riusciva a filtrare dallo spesso tetto di foglie. O era un'ottima cercatrice di piste, o sapeva usare la magia. "Lascia che le parli da solo" disse il druido a Kinson. Si portò fino a lei, zoppicando leggermente perché i suoi muscoli non si erano ancora riscaldati, e la donna si sfilò il cappuccio perché potesse vederla. Era molto giovane, ma non quanto pensava Kinson. Aveva capelli corvini, tagliati corti, grandissimi occhi neri, lineamenti delicati, viso senza rughe e sguardo schietto. Indossava la veste dei Druidi con il ricamo dell'Eilt Druin sul petto. "Mi chiamo Mareth" disse quando lui la raggiunse, e gli tese la mano. Bremen gliela strinse. La donna aveva la mano piccola ma robusta; il palmo era indurito dal lavoro. "Lieto di vederti, Mareth" la salutò. Lei tirò indietro la mano. Senza abbassare lo sguardo, con un tono di urgenza nella voce, spiegò: "Sono apprendista druido, non ancora accolta nell'ordine ma autorizzata a studiare nella rocca. Sono giunta dieci mesi fa, come guaritrice. Ho studiato per qualche tempo nella regione del Fiume Argento e poi per due anni a Storlock. Ho iniziato a studiare le pratiche di guarigione quando avevo tredici anni. La mia famiglia è delle Terre del Sud, dalle parti di Leah". Bremen annuì. Se le avevano permesso di studiare a Storlock, doveva davvero possedere talento. "E cosa desideri da me, Mareth?" le chiese con gentilezza. Gli occhi scuri scintillarono. "Desidero venire con voi." Il druido le sorrise. "Non sai neppure dove siamo diretti." Lei annuì. "Non importa. Conosco le vostre intenzioni. So che porterai con te i druidi Risca e Tay Trefenwyd, e desidero far parte del vostro gruppo. Aspetta, prima di dire di no, ascoltami. Me ne andrò da Paranor in qualsiasi caso, che mi vogliate o no. Qui non sono bene accetta, in particolare da Athabasca, perché ho scelto di studiare la magia nonostante mi fosse stato proibito. Devo limitarmi a fare la guaritrice, così è stato deciso. Devo servirmi soltanto dei talenti e delle dottrine che il Consiglio ritiene adatti." Adatti a una donna. Bremen pensò che avrebbe potuto aggiungere anche questa frase, sottintesa in quanto gli aveva detto. "Ormai ho imparato tutto quel che avevano da insegnarmi" proseguì la giovane. "Loro non lo ammetterebbero mai, ma è così. Ho bisogno di un nuovo maestro, ho bisogno di te. Tu conosci la magia meglio di chiunque altro. Ne capisci le sfumature e le esigenze, gli effetti del suo impiego, la difficoltà di integrarla nella vita di tutti i giorni. Nessuno ha un'esperienza pari alla tua, e vorrei studiare con
te." Il druido scosse lentamente la testa. "Mareth, nei luoghi dove intendo dirigermi non può recarsi nessuno che non abbia l'esperienza necessaria." "Ci sarà pericolo?" domandò lei. "Anche per me" confermò Bremen. "E certamente per Risca e per Tay, benché conoscano un po' la magia. Ma soprattutto per te." "No" rispose con semplicità la giovane donna, che pareva avere previsto quell'obiezione. "Per me non sarà pericoloso come credi. Non ti ho ancora rivelato un particolare che mi riguarda: una cosa che non conosce nessuno, a Paranor, anche se credo che Athabasca abbia dei sospetti. Non sono del tutto inesperta. Posso usare la magia in forme che non ho mai imparato a padroneggiare con lo studio. Ho la magia innata." Bremen la fissò con stupore: "Magia innata?". "Non mi credi" rispose subito lei. In effetti, era così. Di magia innata non si era mai sentito parlare. La magia si imparava con lo studio e la pratica, non era una dote che si ereditava. Almeno, non a quell'epoca. All'epoca di Faerie, invece, le cose stavano in modo diverso, perché allora la magia faceva parte dell'eredità delle creature esattamente come i tratti somatici e il sangue. Ma nelle Quattro Terre nessuno, a memoria d'uomo, era nato con la magia infusa. Nessun essere umano. Continuò a fissarla. "Il problema della mia magia" continuò Mareth "è che non riesco sempre a controllarla. Viene e va con gli scatti d'emozione, con la salita e la discesa della mia temperatura, con gli alti e bassi dell'umore e in un'altra decina di situazioni che non posso dominare bene. Riesco a chiamare a me la magia, ma a volte essa finisce per fare quello che vuole." S'interruppe e per la prima volta abbassò per un istante lo sguardo prima di sollevarlo di nuovo. Quando riprese a parlare, a Bremen parve di cogliere una sfumatura di disperazione nella sua voce. "Devo stare attenta a tutto quello che faccio. Devo nascondere di continuo parti della mia vita, badare a come mi comporto, controllare le mie reazioni, perfino le mie abitudini più innocenti." Strinse le labbra. "Non posso continuare a vivere in questo modo. Sono venuta a Paranor per avere aiuto. Non ne ho trovato. Adesso mi rivolgo a te." S'interruppe e poi terminò: "Per favore". In queste ultime parole c'era un'intensità che sorprese il druido. Per un momento, la giovane aveva perduto la padronanza di sé, l'aspetto deciso, ferreo, che si era data per proteggersi. Non era ancora certo di poterle credere, anche se propendeva per il sì; comunque era innegabile che il dramma della giovane, di qualunque natura fosse, era grave e reale. "Se mi porterete con voi, sarò utile al vostro gruppo" continuò Mareth, a bassa voce. "Sarò un alleato fedele. Farò il mio dovere. E se doveste lottare contro il Signore degli Inganni o i suoi servitori, sarei con voi." Si piegò verso di lui, con un movimento quasi impercettibile, come se si fosse limitata a inclinare la testa bruna. "La mia magia" gli confidò con un filo di voce "è molto potente." Bremen le prese la mano e la tenne tra le sue. "Se accetti di aspettare finché non sarà spuntato il sole, rifletterò su quanto mi hai detto" le promise. "Dovrò parlarne anche con gli altri, con Tay e Risca quando arriveranno." Lei annuì e, con un'occhiata, indicò la foresta. "E con il tuo amico?" "Sì, anche con Kinson." "Non ha alcun potere magico, vero? Diversamente dagli altri del vostro gruppo." "No, ma ha altre capacità. Lo puoi sentire in lui, vero? Che non ha poteri magici." "Certo." "Dimmi. Ti sei servita della magia per trovarci nel nostro nascondiglio?" La giovane donna scosse la testa.
"No, mi ha guidata l'istinto. Sentivo la vostra presenza. E' una cosa che sono sempre stata in grado di fare." Lo guardò, cercando di leggergli negli occhi la risposta. "E' una forma di magia, Bremen?" "Certo. Non è una magia che si possa definire esattamente come tante altre, ma rientra in quel tipo di poteri. Magia innata, potrei definirla... se non è una capacità acquisita." "Non ho capacità acquisite" rispose lei con semplicità, infilando le braccia sotto il mantello come se si fosse improvvisamente accorta di avere freddo. Bremen la studiò ancora per un istante, riflettendo. "Siediti laggiù, Mareth" le disse infine, indicando un punto dietro di lei. "Aspettiamo insieme gli altri." La giovane fece come le aveva detto. Raggiunse una piccola macchia d'erba, dove i grandi alberi non schermavano la luce del sole, poi piegò le gambe sotto di sé e si sedette, avvolta nel mantello, come una piccola statua scura. Bremen la guardò per un momento, poi tornò dall'altra parte della radura, dove Kinson lo aspettava. "Cosa voleva?" chiese il cacciatore della Frontiera, girandosi per percorrere al suo fianco l'ultimo tratto, fino agli alberi. "Mi ha chiesto di venire con noi" rispose Bremen. Kinson inarcò un sopracciglio, perplesso. "Per quale motivo?" Bremen si fermò e lo guardò in faccia. "Non me l'ha ancora detto" rispose. Si volse per un istante a guardare la giovane donna. "Mi ha fornito parecchie ragioni per la sua richiesta, ma ho l'impressione che mi nasconda la più importante." "Allora hai deciso di non prenderla?" Bremen sorrise. "Aspettiamo gli altri; ne parleremo con loro." L'attesa fu breve. Il sole si alzò al di sopra dei monti e lambì i margini della foresta qualche minuto più tardi, illuminando le forre ancora buie e disperdendo le ultime ombre. Il bosco riacquistò i suoi colori, tutte le sfumature del verde, del marrone e dell'oro, e gli uccelli ripresero a cantare per salutare il nuovo giorno. La nebbia si aggrappava ancora tenacemente ai punti più bui sotto gli alberi, e da una cortina che celava la vista delle mura di Paranor uscirono Risca e Tay Trefenwyd. Entrambi avevano rinunciato alla veste dei Druidi per indossare abiti da viaggio. Entrambi portavano un grosso zaino sulle spalle. Come armi, l'elfo aveva con sé un arco e un lungo coltello da caccia; il nano una pesante daga, una scure da battaglia infilata nella cintura e al fianco un coltello grosso come il suo braccio. Si diressero verso Bremen e Kinson, senza vedere Mareth. Quando furono accanto al druido, la giovane si alzò in attesa. Il primo a vederla fu Tay, che aveva colto il movimento inatteso con la coda dell'occhio e si era girato d'istinto. "Mareth" disse piano. Risca seguì la direzione del suo sguardo e brontolò tra sé. "Chiede di venire con noi" spiegò Bremen, lasciando da parte i preliminari. "Afferma di poterci essere utile." Risca brontolò di nuovo e si spostò di un passo, allontanandosi da lei. "E' una bambina" mormorò. "Non gode delle simpatie di Athabasca perché vuole studiare la magia" commentò Tay, girandosi a guardarla. Sulla sua faccia di elfo si disegnò un sorriso divertito. "Promette bene. Mi piace la sua determinazione. Athabasca non le ha mai fatto paura." Bremen si girò verso di lui. "Possiamo fidarci di lei?". Tay rise. "Che strana domanda. Fidarci di cosa? Fidarci che faccia che cosa? Come diceva qualcuno, posso fidarmi soltanto di me e di te, ma posso garantire solo per me." Si girò verso Kinson. "Buon giorno, cacciatore della Frontiera.LO sono Tay Trefenwyd." L'elfo gli strinse
la mano, poi fu la volta di Risca. Bremen si scusò per non averlo presentato, ma Kinson disse che ci aveva fatto l'abitudine e si strinse significativamente nelle spalle. "Allora, la nostra amica" disse l'elfo, riportando la conversazione al punto da cui era partita. "Mi è simpatica, ma Risca ha ragione. E' molto giovane. Non so se avrò voglia di passare il tempo a badare a lei." Bremen sporse il labbro. "Mareth non mi sembra molto convinta che tu debba farlo. Dice di poter usare la magia." Questa volta, Risca sbuffò apertamente. "E' solo un'apprendista. E' a Paranor da meno di tre stagioni. Come può avere imparato qualcosa?" Bremen lanciò uno sguardo a Kinson e vide che il cacciatore aveva già deciso. "Non può avere imparato molto, vero?" disse a Risca. "Be', facci sapere il tuo voto. Viene con noi o non viene?" "No" disse subito Risca. Kinson alzò le spalle e scosse la testa, d'accordo col nano. "Tay?" chiese Bremen. L'elfo sospirò, con riluttanza, poi disse: "No". Bremen rifletté per qualche momento sulle loro risposte, poi annuì. "Be', anche se voi votate contro, io penso che debba venire." Gli altri lo fissarono senza capire. Sul suo volto segnato dalle intemperie si fece strada un sorriso. "Dovreste vedere le vostre facce! D'accordo, lasciate che mi spieghi. Per prima cosa, c'è un particolare interessante, nella sua richiesta, che mi riservavo di dirvi. Vuole studiare con me, imparare la magia. E' disposta ad accettare qualsiasi condizione, pur di poterlo fare. Ne ho un disperato bisogno. Non mi ha pregato e non mi ha supplicato, ma la disperazione le si legge negli occhi..." "Bremen..." cominciò Risca. "Inoltre" proseguì il druido, alzando la mano per farlo tacere "afferma di avere la magia innata, e io penso che dica la verità. Se è così, faremmo bene a scoprirne la natura e a metterla a frutto. Dopo tutto, senza di lei siamo soltanto in quattro." "Non siamo disperati al punto di..." ricominciò il nano. "Oh, sì che lo siamo, Risca" lo interruppe di nuovo Bremen. "Siamo solo noi quattro contro il Signore degli Inganni, i suoi cacciatori alati, i suoi scherani del mondo infernale, l'intera nazione dei Troll... come si potrebbe essere più disperati di così? Nessun altro, qui a Paranor, si è offerto di aiutarci, tranne Mareth. A questo punto, ci penserei due volte, prima di rifiutare un aiuto." "Prima hai detto che ti nascondeva un segreto" osservò Kinson. "Non mi pare che questo possa ispirare la fiducia che cerchi." "Ciascuno di noi ha i suoi segreti, Kinson" gli ricordò Bremen, gentilmente. "Non ci vedo nulla di strano. Mareth mi ha appena conosciuto. Perché dovrebbe confidarmi tutti i suoi segreti fin dalla nostra prima conversazione? E' cauta, niente di più." "La cosa mi piace poco" ripeté Risca, con ostinazione. Spostò il massiccio coltello portandolo sulla coscia. "Può darsi che abbia a disposizione qualche pratica magica e può darsi che abbia anche la capacità di usarla. Ma questo non cambia il fatto che non sappiamo quasi niente di lei. In particolare, non sappiamo fino a che punto possiamo contare su di lei. Non mi piace rischiare la pelle così, Bremen." "Be', penso che le si debba concedere il beneficio del dubbio" ribatté allegramente Tay. "Avremo il tempo di chiarirci le idee su di lei, prima che sia necessario mettere alla prova il suo coraggio. Comunque, si possono già dire alcune cose. E' stata scelta per compiere l'apprendistato fra i Druidi, e questo depone certamente a suo favore. Inoltre è una guaritrice, Risca. Potremmo avere bisogno del suo talento." "Lasciamola
venire" acconsentì Kinson, benché a malincuore. "Tanto, Bremen ha già deciso." Risca aggrottò la fronte e gonfiò il petto. "Be', lui avrà preso la sua decisione, ma non ha necessariamente preso anche la mia." Si girò verso il druido e lo guardò per qualche istante senza parlare. Tay e Kinson attesero con un po' di ansia. Bremen non disse altro. Si limitò a incrociare lo sguardo con quello del nano. Alla fine, fu Risca a cedere. Scosse la testa, si strinse nelle spalle e si girò dall'altra parte. "Sei tu il capo, Bremen. Portala con noi, se ti va di farlo. Ma non aspettarti che l'aiuti a soffiarsi il naso." "Le dirò di non aspettarselo" lo rassicurò Bremen, strizzando l'occhio a Kinson, e fece segno alla giovane di unirsi a loro. Partirono poco più tardi, tutti e cinque in gruppo, con Bremen in testa, Risca e Tay Trefenwyd ai suoi fianchi, Kinson un passo dietro di loro e Mareth per ultima. Il sole era già alto in cima ai Denti del Drago e illuminava le valli boscose, il cielo era luminosissimo, di un profondo colore turchino e senza traccia di nubi. Il gruppo si diresse a sud, passando per sentieri poco battuti, costeggiando corsi d'acqua larghi e placidi, per poi inoltrarsi nelle basse colline coperte di cespugli che dalla foresta portavano al Passo di Kennon. Verso mezzogiorno erano quasi al Passo e l'aria era gelida e tagliente. Guardandosi alle spalle, potevano ancora vedere le mura massicce di Paranor ergersi sul loro promontorio roccioso, in mezzo all'antica foresta. L'intensa luce del sole dava alla pietra della rocca un aspetto severo e implacabile: in mezzo alla grande distesa di alberi, il castello era come il mozzo centrale di una grande ruota. Si girarono a guardarlo, uno dopo l'altro, immersi ciascuno nei propri pensieri, ripensando agli eventi di anni lontani. La sola Mareth non mostrava alcun interesse, teneva lo sguardo deliberatamente rivolto avanti e il suo viso minuto era una maschera impenetrabile. Poi entrarono nel Passo vero e proprio, le cui pareti dirupate si levavano quasi verticali attorno a loro: grandi lastre di pietra, qua e là scheggiate dalle lente oscillazioni della scure del tempo, che impedivano di vedere Paranor. Solo Bremen conosceva la loro destinazione, ma la tenne per sé finché non si accamparono, quella notte, sul Fiume Mermidon, dopo essere felicemente scesi dal Passo ed essere rientrati nella protezione della foresta sottostante. Kinson gli aveva chiesto la loro destinazione quando era rimasto solo con lui e Risca gliel'aveva chiesta davanti a tutti, ma Bremen aveva preferito non rispondere. La ragione la sapeva solo lui e la tenne per sé, senza dare spiegazioni ai compagni. Nessuno cercò di fargli cambiare idea. Ma quella notte, dopo che ebbero acceso il fuoco e cucinato la cena (il primo pasto caldo di Kinson da parecchie settimane), Bremen rivelò finalmente dove fossero diretti. "Adesso vi spiegherò dove stiamo andando" annunciò con tranquillità. "Dobbiamo raggiungere il Perno dell'Ade." Sedevano attorno al piccolo fuoco, avevano cenato e ciascuno era occupato in qualche cosa. Risca affilava la daga. Tay beveva birra da un otre e tracciava figure in terra. Kinson, con un punteruolo e una striscia di cuoio lunga e sottile, riparava gli stivali che s'erano scuciti. Mareth se ne stava a parte, isolata dal gruppo, e li osservava con quel suo sguardo strano, imperturbabile, che tutto coglieva e nulla restituiva. Quando Bremen ebbe terminato, scese il silenzio. Tutti lo fissarono. "Intendo parlare con gli spiriti dei morti per scoprire come proteggere le Razze.
Cercherò di sapere come dobbiamo procedere. Cercherò di scoprire il nostro destino." Tay Trefenwyd si schiarì piano la gola. "Il Perno dell'Ade è proibito ai mortali. Anche ai Druidi. Le sue acque sono velenose. Un sorso e sei morto." Guardò Bremen preoccupato, poi distolse gli occhi. "Ma tu lo sai già. Vero?" Bremen annuì. "E' pericoloso andare al Perno dell'Ade e ancor più pericoloso evocare i suoi morti. Ma io ho studiato la magia che protegge il mondo dell'oltretomba e i suoi punti di contatto con il nostro, ho percorso le strade esistenti tra i due e sono ritornato vivo." Sorrise all'elfo. "Ho fatto molta strada dall'ultima volta che ci siamo visti, Tay." Risca brontolò: "Non sono certo di voler sapere il mio destino". "Neanch'io" intervenne Kinson. "Prenderò quello che mi daranno" spiegò Bremen. "Decideranno gli spiriti quello che dobbiamo sapere." "Credi che gli spiriti ti parleranno sotto forma di frasi comprensibili?" chiese Risca, scuotendo la testa. "Non ho mai saputo che fosse così." "Non lo è, infatti" confermò Bremen. Si avvicinò al fuoco e tese le mani per coglierne il calore. La notte era gelida, nonostante fossero ai piedi delle montagne. "I morti, ammesso che consentano ad apparire, ci offrono visioni che parlano per loro. I morti non hanno voce. Nel mondo dell'oltretomba, almeno. Bisogna..." Parve riflettere su quanto stava per dire e, con un gesto della mano, lasciò perdere l'argomento. "Resta il fatto" continuò "che le visioni danno voce a quello che gli spiriti sono disposti a dirci... sempre che accettino di mostrarsi. A volte non compaiono. Ma noi dobbiamo andare laggiù a chiedere il loro aiuto." "Ci sei già stato altre volte" disse all'improvviso Mareth. Non era una domanda, bensì una constatazione. "Sì" confermò il vecchio druido. Sì, pensò Kinson Ravenlock, ricordando l'episodio. Era stato presente, l'ultima volta, una spaventevole notte di tuoni e di lampi, di nubi nere che coprivano il cielo e di pioggia torrenziale, di vapore che usciva sibilando dalla superficie del lago e di voci che gridavano dalle camere sotterranee della casa dei morti. Dai margini della Valle d'Argilla, aveva visto Bremen scendere fino alla riva del lago ed evocare gli spiriti dei morti, facendoli comparire in una tempesta che pareva sposarsi perfettamente al loro scopo arcano. Se c'erano state delle visioni, l'uomo della Frontiera non ne aveva avute. Ma Bremen sì, e non dovevano essere state piacevoli. Kinson gliel'aveva letto negli occhi, quando infine l'aveva visto risalire lungo il fianco della valle, all'alba. "Non correrò nessun rischio" li rassicurò Bremen. Sorrise ma nella penombra, tra le rughe del suo viso, quel sorriso era pallido e stanco. Quando si prepararono per la notte, Kinson si recò da Mareth e appoggiò un ginocchio a terra vicino a lei. "Tieni questo" le disse, porgendole il suo pesante mantello da viaggio. "Ti aiuterà a proteggerti dal freddo della notte." Lei lo fissò con quegli occhi grandi, penetranti, e scosse la testa. "Ne hai bisogno quanto me, cacciatore della Frontiera. Non ti chiedo attenzioni particolari." Per un momento, Kinson la fissò senza parlare. "Mi chiamo Kinson Ravenlock" disse poi, a bassa voce. Lei gli rivolse un cenno d'assenso. "Conosco il tuo nome." "Sono il primo a montare di guardia e non mi occorre il calore del mantello, mentre veglio. Non ti offro alcuna attenzione particolare." La giovane donna parve voler troncare il discorso. "Anch'io devo fare il mio turno" insistette. "Certo. Domani. Due di noi per notte." Cercò di non farsi prendere dall'irritazione. "Allora, lo
prendi il mantello?" Lei gli rivolse un'occhiata gelida, poi lo accettò. "Grazie" disse in tono neutro. Kinson le rivolse un cenno della testa, si alzò e si allontanò, pensando che sarebbe passato un bel pezzo, prima che cercasse nuovamente di farle un favore. La notte era profondamente silenziosa e bella da togliere il respiro, con il cielo di uno straordinario viola scuro, fittamente punteggiato di stelle e con una luna d'argento ormai calante. Vasta e in apparenza priva di profondità, sgombra di nubi e libera da altre luci che la offuscassero, la volta celeste pareva spazzata da un'immensa scopa, le stelle erano schegge di diamante gettate sulla sua superficie vellutata. Se ne scorgevano a migliaia: così tante, in certi punti, che parevano muoversi insieme, come una cascata di latte. Kinson continuò a fissare quello splendore; il tempo passò senza scosse, come se scivolasse su una lastra di vetro. Il cacciatore tese l'orecchio per cogliere i familiari rumori della vita nella foresta, ma pareva che tutti gli abitanti di quei boschi fossero affascinati quanto lui dalla bellezza della notte e non avessero tempo per le normali attività. Ripensò a quando era bambino e abitava nelle foreste della Frontiera, a nordest di Varfleet, all'ombra dei Denti del Drago. Anche allora la sua vita non era molto diversa. La notte, quando genitori e fratelli dormivano, rimaneva sveglio a guardare il cielo, meravigliandosi per la sua immensità, pensando a tutti i luoghi che il cielo poteva vedere e che lui non conosceva. A volte si fermava davanti alla finestra della sua camera, come se avvicinandosi di più al cielo fosse possibile vedere almeno una parte di quei luoghi lontani. Aveva sempre pensato di andarsene per il mondo, anche quando i fratelli avevano cominciato a prepararsi per una vita più sedentaria. Erano cresciuti, si erano sposati, avevano messo al mondo figli e si erano trasferiti in case proprie. Andavano a caccia, tendevano trappole, portavano al mercato le pelli e coltivavano la terra: il tutto nello stesso luogo dov'erano nati. Ma Kinson non aveva messo radici, aveva continuato a tenere un occhio su quel cielo lontano e a ripromettersi di giungere a conoscere, col tempo, tutte quelle terre. E ancor oggi, dopo trent'anni, continuava a cercare. Cercava ciò che non aveva visto e non conosceva. Non sarebbe mai cambiato; a meno di non diventare una persona completamente diversa. Giunse la mezzanotte, e con essa Mareth. La giovane donna uscì all'improvviso dal buio, avvolta nel mantello di Kinson, con un passo così leggero da risultare quasi impercettibile. Kinson si girò a salutarla, sorpreso perché si aspettava di vedere Bremen. "Ho chiesto a Bremen di lasciarmi il suo turno di guardia" spiegò, quando lo raggiunse. "Non volevo un trattamento diverso dagli altri." Kinson annuì, senza parlare. La giovane donna si tolse il mantello e glielo allungo. Senza di esso, sembrava piccola e fragile. "Penso che sia meglio ridartelo, per quando dormirai. Comincia a fare freddo. Il fuoco si è spento ed è preferibile non riaccenderlo" L'uomo accettò il mantello. "Grazie." "Hai visto qualcosa?" "No." "I Messaggeri del Teschio ci cercheranno, vero?" Quanto ne sapeva? si chiese Kinson. Quanto ne sapeva, dei pericoli cui andavano incontro? "Può darsi. Sei riuscita a dormire?" Lei scosse la testa. "Non riuscivo a smettere di pensare." Il suo sguardo si perse nel buio. "Aspettavo da molto tempo questa occasione." "Di accompagnarci in questo viaggio?" "No." Mareth lo guardò, sorpresa. "Di conoscere Bremen. Di imparare da lui, se vorrà
insegnarmi." Si girò in fretta dall'altra parte, come se avesse parlato troppo. "Faresti meglio a dormire, finché puoi. Farò la guardia fino al mattino. Buona notte." Kinson aspettò ancora per qualche istante, ma in realtà non c'era più niente da dire. Si alzò e raggiunse gli altri, che dormivano avvolti nei mantelli, attorno alle braci del fuoco. Si stese e chiuse gli occhi, sforzandosi di capire qualcosa di Mareth, e poi di non pensare più a lei. Ma non ci riuscì facilmente, e passò parecchio tempo prima che si addormentasse. 5 Si alzarono prima dell'alba e camminarono fino al tramonto, diretti a est. Attraversarono il territorio alla base dei Denti del Drago, procedendo parallelamente al Fiume Mermidon e tenendosi sempre sotto la protezione delle montagne. Bremen avvertì i compagni che anche lì erano in pericolo, perché ormai i Messaggeri del Teschio si sentivano abbastanza sicuri di sé da lasciare le Terre del Nord e spingersi così a sud. Il Signore degli Inganni muoveva con l'esercito in direzione del Passo di Jannisson, e questo significava che intendeva scendere nelle Terre dell'Est. Se erano così impudenti da invadere il territorio dei Nani, non avrebbero esitato a spingersi nelle Terre di Frontiera. Perciò continuarono a scrutare attentamente il cielo, le valli scure e i crepacci bui dove le ombre ammantavano la roccia di una notte perpetua, e non osarono mai sentirsi al sicuro, mentre proseguivano il loro viaggio. Ma i cacciatori alati non comparvero per tutta la giornata, e a parte alcuni viaggiatori intravisti da lontano, nelle foreste e nelle pianure più a sud, non videro nessuno. Si fermarono per riposare e mangiare, ma non fecero altre soste e finché fu giorno procedettero di buon passo. Al tramonto avevano raggiunto le prime alture della catena di monti che portava alla Valle d'Argilla e al Perno dell'Ade. Si accamparono in una rientranza che si affacciava sulle pianure del Sud e sul nastro azzurro e tortuoso del Mermidon, che nel suo decorso a est verso le Pianure di Raab si stringeva progressivamente, suddividendosi fra canali e laghetti, fino a sparire nell'aridità di quelle piane. Cucinarono le verdure che avevano raccolto durante il cammino e un coniglio ucciso da Tay, e cenarono prima che il sole passasse dal color oro al rosso sangue e scendesse al di sotto dell'orizzonte. Bremen li avvertì che sarebbero saliti sui monti dopo la mezzanotte e che lassù avrebbero atteso le lente ore prima dell'alba, le sole in cui gli spiriti dei morti si lasciassero evocare. Quando scese la notte, spensero il fuoco e si avvolsero nei mantelli per dormire qualche ora. "Non essere così preoccupato, Kinson" sussurrò il druido al cacciatore della Frontiera, quando gli passò davanti e scorse la sua espressione. Ma fu un consiglio inutile. Kinson Ravenlock era già stato al Perno dell'Ade e sapeva cosa aspettarsi. Era passata la mezzanotte quando Bremen li portò sulle colline di fronte ai Denti del Drago, da cui si scendeva alla Valle d'Argilla. Salirono sulle rocce in una notte così nera che riuscivano a malapena a scorgere la persona che li precedeva. Dopo il tramonto si era stesa sulla regione una cappa di nubi basse e minacciose, e ogni traccia di luna e di stelle era sparita. Bremen guidò molto cautamente i compagni, preoccupato per la loro incolumità anche se
il terreno su cui passavano gli era familiare come il palmo della mano. Durante il tragitto non parlò con gli altri, ma continuò a dedicare la sua attenzione al cammino e al compito che lo attendeva, per non rischiare errori. Un incontro con i morti richiedeva preparazione e cautela, coraggio a tutta prova e volontà inflessibile, in modo da non avere esitazioni né dubbi. Una volta effettuato il contatto, alla minima distrazione si rischiava la vita. Mancava ancora qualche ora all'alba quando giunsero a destinazione. Si fermarono sul ciglio della valle e posarono lo sguardo sulla conca bassa e larga. Il terreno era coperto di irregolari frammenti di roccia nera e vetrosa, che luccicavano perfino al buio, riflettendo la singolare luminosità del lago. Il Perno dell'Ade si trovava al centro della depressione ed era uno specchio d'acqua largo e opaco, dalla cui superficie immobile emanava una radiazione interna, come se nelle sue profondità pulsasse l'anima del lago. L'intera valle era immobile e priva di vita, di movimento, di suoni. Dava la sensazione di trovarsi ai bordi di un pozzo affacciato sul nulla, di un occhio che fissava il mondo dei morti. "Aspetteremo qui" disse Bremen, sedendosi su un masso e avvolgendosi nel mantello come se fosse un sudario. Gli altri annuirono, ma continuarono a fissare la valle, incapaci di staccare lo sguardo. Bremen non disse nulla: sapeva che i suoi compagni subivano il peso dell'opprimente silenzio che regnava nella valle. Il solo Kinson era stato laggiù in precedenza, ma neanche lui era riuscito a prepararsi alle sensazioni che provava in quel momento. Bremen le capiva: il Perno dell'Ade era lo specchio del destino che li attendeva tutti, uno sguardo nel futuro a cui non si poteva sfuggire, un'occhiata buia e spaventosa sulla fine della vita. Non comunicava con parole riconoscibili, ma solo con sussurri e brevi brontolii. Rivelava troppo poco perché fosse possibile capire, ma quel tanto che bastava per creare il dubbio. Il vecchio druido era stato laggiù due volte, e ogni volta ne era uscito trasformato. Da un incontro con i morti si ricavavano verità e si guadagnava in saggezza, ma c'era anche uno scotto da pagare. Non ci si spinge a forza nel futuro per poi uscirne indenni. Non si può contemplare il proibito senza subire un danno alla vista. Bremen ricordava quello che aveva provato nelle precedenti occasioni, il freddo che gli era penetrato nelle ossa e per settimane non l'aveva lasciato. Ricordava lo struggente desiderio di quanto aveva perso negli anni passati e gli era impossibile riavere. E anche questa volta era preoccupato dal rischio di smarrire lo stretto sentiero a lui concesso per quel contatto proibito: se l'avesse lasciato, sarebbe stato inghiottito dal vuoto di una sorta di limbo tra la vita e la morte, e non sarebbe mai più stato completamente vivo o completamente morto. Ma il bisogno di scoprire il modo di distruggere il Signore degli Inganni, di sapere le possibilità che gli erano ancora aperte nel tentativo di salvare le Razze, il bisogno di entrare nei segreti del passato e del futuro celati ai vivi ma rivelati ai morti, superavano di gran lunga le paure e i dubbi. Era spinto così spietatamente dalla necessità, da essere costretto a fare quel passo, anche a rischio della vita. Sì, in quel contatto c'erano grandi pericoli. Non ne sarebbe uscito indenne. Ma la cosa non aveva importanza, nello schema più vasto delle cose, perché anche la vita sarebbe stata un prezzo accettabile, se fosse riuscito a eliminare il suo implacabile nemico. Intanto, gli altri erano riusciti a
staccarsi dal ciglio della valle ed erano venuti a sedersi accanto a lui. Cercò di rivolgere loro un sorriso rassicurante, guardandoli a uno a uno e invitando perfino il recalcitrante Kinson ad avvicinarsi. "Un'ora prima dell'alba scenderò nella valle" disse loro con calma. "Quando sarò al lago, evocherò gli spiriti dei morti e chiederò loro di mostrarmi qualcosa del futuro. Chiederò di rivelarmi i segreti che possono aiutarci a distruggere il Signore degli Inganni. Chiederò di insegnarmi magie che ci possano aiutare. Dovrò agire in fretta, nel breve periodo prima che il sole sorga. Voi mi aspetterete qui. Non scendete nella valle, qualunque cosa succeda. Non agite in base a quello che vedete, anche se avete l'impressione di doverlo fare. Limitatevi ad aspettare." "Forse uno di noi dovrebbe accompagnarti" disse bruscamente Risca. "Il numero è sicurezza, anche di fronte ai morti. Se tu puoi parlare con gli spiriti, possiamo farlo anche noi. Tolto il cacciatore della Frontiera, tutti siamo Druidi." "Che siate Druidi non importa" replicò subito Bremen. "E' troppo pericoloso per voi. Si tratta di una cosa che devo fare da solo. Promettimelo, Risca." Il nano gli rivolse un'occhiata lunga e offesa, poi annuì. Bremen si rivolse agli altri. Uno dopo l'altro, anch'essi annuirono, benché con riluttanza. Mareth incrociò il suo sguardo e scambiò con lui un'occhiata piena di segreta comprensione. "Sei certo della necessità di quanto stai per fare?" insistette Kinson, a bassa voce. Il druido aggrottò la fronte e le rughe sul suo volto provato dal tempo si approfondirono leggermente. "Se mi venisse in mente qualcos'altro, qualcosa che ci possa aiutare, mi allontanerei subito da questo posto. Non sono un pazzo, Kinson, e neppure un eroe. So cosa comporta una visita a questo luogo. So che danni provoca." "Allora, forse..." "Ma i morti mi parlano come non possono fare i vivi" seguitò Bremen, interrompendolo. "Ci occorrono la loro saggezza e le loro intuizioni. Ci occorrono le loro visioni, anche se a volte sono incomplete e incomprensibili." Trasse un profondo respiro. "Dobbiamo vedere attraverso i loro occhi. Se devo dare qualcosa di me per ottenere quell'intuizione, così sia." Tutti tacquero, persi nei loro pensieri, e rifletterono sulle sue parole e sui presentimenti che facevano sorgere. Ma era inutile opporsi. Aveva dato loro le ultime istruzioni e non c'era più niente da dire. Forse avrebbero capito meglio alla fine. Perciò si limitarono a sedere nella notte buia e a lanciare qualche occhiata, di soppiatto, alla superficie scintillante del lago; con il volto lambito dalla pallida luce di quelle acque, tesero l'orecchio al silenzio e aspettarono che l'alba s'avvicinasse. Quando il cielo cominciò a rischiararsi, e fu il momento di avviarsi, Bremen si alzò, fissò i compagni con un pallido sorriso, poi passò davanti a tutti senza fare parola e scese nella Valle d'Argilla. Anche ora, procedette assai lentamente. Aveva già fatto quella strada, ma la familiarità del luogo non era affatto d'aiuto su un terreno così insidioso. La roccia su cui posava il piede era scivolosa e cedevole, aveva spigoli affilati e taglienti. Avanzò con grandissima cautela, saggiando il terreno a ogni passo. Sotto il suo piede, la pietra scricchiolava e si spezzava, e quel suono echeggiava nel profondo silenzio. Da occidente, dove le nubi erano più fitte, giunse il minaccioso rombo del tuono, che annunciava l'approssimarsi di un temporale. All'interno della valle non spirava un alito di vento, ma l'odore della pioggia permeava l'aria immota. Bremen
alzò gli occhi quando la linea spezzata di una folgore squarciò il cielo buio; un attimo più tardi, un'altra si disegnò più a nord, sullo sfondo delle montagne. Quel giorno, pensò, con l'alba si sarebbe levata anche la tempesta, e non soltanto il sole. Arrivato in fondo alla discesa poté camminare più in fretta, perché il suo passo era più sicuro sul terreno piano. Davanti a lui, il Perno dell'Ade brillava di un'argentea incandescenza che proveniva da qualche punto indeterminato, al di sotto della sua superficie piatta e immobile. Laggiù si poteva cogliere odore di morte: non solo quello inconfondibile e umido della muffa, ma anche quello di un disfacimento arido e fetido. Provò la tentazione di voltarsi a guardare i compagni, ma resistette perché sapeva di non potersi distrarre neppure per il tempo di una breve occhiata. Stava già ripetendo nella mente il rituale da seguire una volta giunto alla riva: le parole, i gesti, le evocazioni che avrebbero costretto i morti a parlare con lui. E si stava già preparando alla loro debilitante presenza. Poi, fin troppo presto, si trovò sul bordo del lago: una figura piccola e fragile in una vasta arena di roccia e cielo, tutta pelle rugosa e vecchie ossa, e la sua parte più forte era la risoluzione, la volontà ostinata. Dietro di lui si levò di nuovo il rombo della tempesta che si avvicinava. Sopra la sua testa, le nubi cominciarono a mulinare, mosse dai venti che recavano la pioggia imminente. Sotto i piedi, la terra cominciò a fremere: erano gli spiriti, che avevano sentito la sua presenza. Il druido parlò loro con calma, scandendo il suo nome, il suo passato, il motivo che l'aveva spinto a recarsi laggiù. Con le braccia e con le mani descrisse nell'aria i "passi": i gesti capaci di evocarli dal mondo dei morti a quello dei viventi. Quando vide che le acque, in risposta all'evocazione, s'increspavano leggermente, accelerò i movimenti. Era saldo, sicuro di sé, sapeva cosa aspettarsi. Per primo venne un sussurrare basso e lontano che saliva dalle profondità del lago, come una corrente invisibile di bolle d'aria. Poi grida, lunghe e profonde, che salirono progressivamente di volume e di numero, da poche a moltissime, sempre più stridule e infastidite. Le acque del Perno dell'Ade sibilarono di collera e di cupidigia: mosse da una propria imminente tempesta, presero a mulinare come le nubi nel cielo. Con un segno magico di comando, Bremen le costrinse a rispondere. La magia appresa con gli Elfi lo rafforzava e lo metteva in grado di farlo, come un letto di roccia su cui posasse saldamente la sua magia delle evocazioni. Rispondete, gridò ai morti. Apritemi il passaggio. Dal centro delle acque, che ora vorticavano rabbiosamente si levò uno spruzzo di schiuma che si sollevò come il getto di una fontana, si abbassò, si alzò di nuovo. Nel profondo della terra si levò un rombo, un brontolio di irritazione. Bremen sentì insinuarsi nel cuore la prima traccia di dubbio, e dovette fare uno sforzo per costringersi a ignorarla. Sentiva formarsi attorno a sé una sorta di vuoto, che si allargava a includere l'intera valle. Entro il suo perimetro avevano accesso soltanto i morti: i morti e colui che li aveva evocati. Poi gli spiriti presero ad affiorare dal lago: piccoli e bianchi filamenti di luce dotati di forma vagamente umana, corpi immersi in una luminescenza simile a quella delle lucciole, pulsanti sullo sfondo della notte coperta di nubi. Uscirono dalla nebbia e dalla schiuma con un movimento
simile a quello di un serpente che srotola le spire, salirono dall'aria buia e morta della loro casa d'oltretomba per visitare, per breve tempo, il mondo in cui erano un tempo vissuti. Bremen continuò a tenere le braccia levate in un gesto di protezione, con la sensazione di essere vulnerabile e privo di poteri, anche se era stato lui a compiere l'evocazione e a ridare vita agli spiriti. Si sentì scorrere nelle braccia sottili un'ondata di ghiaccio, acqua gelida nelle vene al posto del sangue. Resistette con fermezza alla paura che lo afferrava, ai sussurri che chiedevano, in tono d'accusa: Chi ci chiama? Chi osa? Allora una forma enorme scaturì dall'acqua, nel centro esatto del lago: una figura ammantata di nero, che giganteggiò fra le altre più minute e le costrinse a disperdersi, assorbì le loro fragili luci e le risucchiò nella propria scia, torcendole e facendole roteare come foglie al vento. La figura ammantata si alzò fino a ergersi completamente sulle nere acque mulinanti del Perno dell'Ade; benché fosse solo vagamente concreta - un semplice spettro, senza ossa né carne - era di una materia meno evanescente di quella degli spiriti più piccoli, su cui dominava. Bremen cercò di rimanere ben saldo, quando la figura scura mosse verso di lui. Era lo spirito che si proponeva di interrogare, lo spirito da lui evocato. Eppure, cominciava a chiedersi se aveva fatto la cosa giusta. La forma ammantata si fermò: ormai era così vicina da nascondere tutta quella parte di cielo e di valle. Quando poté guardare sotto il cappuccio, Bremen non scorse alcun volto, non scorse nulla all'interno della veste nera. Poi l'apparizione parlò, con una voce che era un brontolio di collera. Sai tu chi sono. Una voce piatta, priva di emozione e di risonanza, una domanda senza tono interrogativo, parole sospese nel silenzio, come un'eco che non volesse spegnersi. Bremen annuì lentamente e rispose, in un sussurro: "Lo so". Ai margini della valle, i quattro che erano rimasti ad attendere assistettero allo svolgersi del dramma. Videro il vecchio fermarsi sulla sponda del lago ed evocare gli spiriti dei morti. Videro gli spettri uscire dalle acque vorticanti, scorsero le sagome fosforescenti, le videro muovere braccia e gambe, contorcersi in una macabra danza per celebrare la momentanea libertà. Videro la forma gigantesca, ammantata di nero, salire in mezzo alle altre, avvolgerle nella propria scia, assorbire la loro luce. Videro la figura avanzare e fermarsi davanti a Bremen. Ma non riuscirono a udire nulla. Dentro la valle regnava il silenzio. I rumori prodotti dal lago e dagli spiriti erano sigillati al suo interno. Le voci del druido e della figura ammantata, ammesso che pronunciassero parole, non erano udibili. Si udiva solo il vento di tempesta che soffiava su loro e il tonfo delle prime gocce di pioggia sul pietrisco. L'attesa tempesta era scoppiata, veniva da occidente sotto forma di una massa di nubi nere, calava su di loro con cortine di pioggia. Li raggiunse nello stesso istante in cui la figura ammantata raggiunse Bremen, e in un attimo inghiottì ogni altra cosa. Il lago, gli spiriti la figura ammantata, Bremen, l'intera valle svanirono in un batter d'occhio. Risca brontolò per lo sgomento e lanciò una rapida occhiata ai compagni. Si erano coperti col mantello per proteggersi dal rovescio: aggobbiti sotto quel riparo, parevano vecchie streghe curve per l'età. "Riuscite a vedere qualcosa?" chiese con ansia. "Nulla" rispose subito Tay Trefenwyd. "Sono spariti." Per un momento nessuno si mosse: tutti erano
incerti sul da farsi. Kinson cercò di scrutare attraverso il velo della pioggia, cercò di mettere meglio a fuoco le sagome che credeva di intravedere. Ma tutto era nebuloso e irreale, e dal punto in cui si trovavano era impossibile capire qualcosa. "Potrebbe essere in pericolo" scattò Risca, in tono d'accusa. "Ci ha detto di aspettare qui" scattò Kinson, a fatica. Da un lato non voleva pensare agli ordini del vecchio druido, in un momento in cui temeva per la sua sorte, ma dall'altro non voleva ignorare la sua promessa. La pioggia li colpì sulla faccia, a rovesci, minacciando di soffocarli. "Sta bene!" gridò all'improvviso Mareth, agitando una mano come per allontanare la pioggia dal viso. La fissarono. "Riesci a vederlo?" domandò Risca. La giovane donna annuì, poi tornò ad abbassare la testa, per scrutare nel buio. "Sì." Ma non poteva essere vero. Kinson era il più vicino a lei e scorse quello che agli altri era sfuggito. Se riusciva a scorgere Bremen, non era certo con gli occhi, perché, notò con terrore, erano divenuti completamente bianchi. Nella Valle d'Argilla, però, non cadeva una goccia di pioggia, non soffiava alito di vento, non entrava la violenza della tempesta. Bremen non sentiva altre presenze che quella del lago e della figura scura che s'innalzava sulle acque, davanti a lui. Pronuncia il mio nome. Bremen trasse un profondo respiro, cercando di arrestare il tremito che lo scuoteva e il freddo che gli riempiva il petto. "Tu sei colui che fu Galaphile." Era una normale componente del rituale. Uno spirito non poteva fermarsi se il suo nome non veniva pronunciato dalla persona che l'aveva evocato. Ora poteva fermarsi per il tempo necessario a rispondere a tutte le domande di Bremen - ammesso che decidesse di farlo. L'ombra fremette, inquieta. Cosa vuoi sapere da me. Bremen non esitò. "Vorrei sapere tutto quello che puoi dirmi del druido ribelle Brona, colui che è divenuto il Signore degli Inganni." La voce aveva preso a tremargli al pari delle mani. "Vorrei sapere come distruggerlo. Vorrei sapere cosa succederà." Poi la voce lo tradì, riducendosi a un rantolo soffocato. Il lago sibilò e soffiò come un gatto, in risposta alle sue parole, e i gemiti dei morti si levarono in una stridula cacofonia. Bremen sentì di nuovo il gelo insinuarsi nel suo petto, come un serpente che si abbassa per prepararsi a colpire. Si sentì schiacciare dal cumulo di tutti i suoi anni. Sentì la debolezza del suo corpo ribellarsi alla forza della sua determinazione. E saresti tu disposto a distruggerlo a qualsiasi costo. "Sì." Saresti disposto a pagare qualsiasi prezzo. Bremen sentì il serpente che aveva nel petto piantare profondamente le zanne nel suo cuore. "Sì" mormorò, disperato. Lo spirito di Galaphile allargò le braccia come per avvolgere il vecchio druido, per dargli rifugio e protezione. Guarda. Sullo sfondo nero della sua forma ammantellata cominciarono ad apparire visioni; nel sudario del suo corpo presero forma immagini e figure. A una a una, si materializzarono dall'oscurità, vaghe e incorporee, fosforescenti come le acque del Perno dell'Ade all'arrivo degli spiriti. Bremen osservò attentamente le immagini che si succedevano davanti a lui, si sentì attirare verso di loro come verso una luce. Le visioni furono quattro. Nella prima si trovava all'interno dell'antica fortezza di Paranor, e intorno a lui c'erano soltanto morti. Non c'era più anima viva, nella rocca: tutti erano stati uccisi dal tradimento, dalla slealtà e dalla perfidia. Il castello dei Druidi era avvolto in un sudario di tenebra e
la tenebra, fra le sue ombre, si muoveva ancora, sotto forma di assassini in attesa, di una forza omicida. Dietro quella tenebra splendeva però, con la sicurezza dell'oro, il lucente medaglione dei Grandi Druidi. Il pendente aspettava lui, aveva bisogno del suo tocco: l'immagine della mano levata che stringeva una fiaccola accesa, il venerato Eilt Druin. La prima visione sparì, e Bremen ebbe l'impressione di volare sulla vasta distesa delle Terre dell'Ovest. Guardò in basso, sorpreso e incapace di capire quel volo. Di primo acchito non riuscì a stabilire dov'era. Poi riconobbe la rigogliosa valle del Sarandanon e più oltre l'azzurra distesa dell'Innisbore. Per un attimo la visione fu oscurata da una nuvola, che alterò ogni prospettiva. Poi scorse una catena di monti - erano i Kensrowe o i Breale line? Fra i loro massicci c'erano due cime gemelle, simili a due dita della stessa mano tese nel segno di una V. Il passo tra loro portava a un vasto ammasso di altre dita di roccia, schiacciate insieme e ridotte a un'unica massa. Entro l'ammasso c'era una fortezza, invisibile dall'esterno, antica al di là di qualsiasi immaginazione, un luogo risalente all'epoca di Faerie. Bremen scese in picchiata fra le sue ombre e trovò ad aspettarlo la morte, anche se non riuscì a spiarla in volto. E lì, tra le sue spire, c'era la Pietra Nera degli Elfi. Anche la seconda visione svanì e il druido si trovò su un campo di battaglia. Tutt'intorno a lui giacevano morti e moribondi: uomini di tutte le Razze e mostri che non appartenevano ad alcuna razza conosciuta. Il sangue scorreva sulla terra e le urla dei combattenti e il clangore delle armi s'innalzavano nella luce grigiastra del tardo pomeriggio. Davanti a lui c'era un uomo, ma gli volgeva le spalle. Era alto e biondo, senza dubbio un elfo. Stringeva nella destra una spada scintillante. A qualche passo di distanza c'era il Signore degli Inganni, ammantato di nero, terribile: una presenza indomabile che lanciava il guanto di sfida al mondo intero. Pareva attendere l'attacco dell'elfo: senza fretta, sicuro di sé, insolente. L'alto elfo avanzò, sollevò la spada, e Bremen scorse sotto la mano guantata che la impugnava la familiare figura dell'Eilt Druin. Un'ultima visione, cupa, coperta di nuvole e colma di grida luttuose e disperate. Bremen era ancora una volta nella Valle d'Argilla dinanzi alle acque del Perno dell'Ade. Dinanzi a lui s'ergeva di nuovo l'ombra di Galaphile, immobile e vigilante mentre gli spiriti di rango inferiore gli roteavano attorno come fumo. Accanto a Bremen c'era un giovane, alto, sottile e bruno, di una quindicina d'anni, ma così serio da dare quasi l'impressione che fosse in lutto. Il giovane si girò verso di lui e Bremen lo guardò negli occhi... quegli occhi... Le visioni sparirono. Lo spettro di Galaphile parve divenire più denso e concreto, e nascose le immagini, rubò loro la luce che per qualche breve istante avevano irradiato. Bremen continuò a fissarlo, battendo gli occhi, chiedendosi cosa aveva visto. "Tutto questo accadrà?" sussurrò allo spettro. "Accadrà davvero?" In parte è già accaduto. "I Druidi di Paranor..." Non chiedere altro. "Ma cosa posso fare per..." L'ombra fece un gesto di fastidio, troncando le domande del vecchio druido. Senza fiato, Bremen sentì una mano d'acciaio serrargli il petto. Poi la mano si aprì ed egli deglutì, per dominare la paura. Un'alta colonna di schiuma s'innalzò dal Perno dell'Ade, brillò come una cascata di diamanti sullo sfondo vellutato della notte. L'ombra di Galaphile cominciò a ritirarsi. Non
dimenticare. Bremen alzò la mano nell'inutile tentativo di impedire all'ombra di allontanarsi. Un prezzo per ciascuna. Il vecchio druido scosse la testa, confuso. Un prezzo per ciascuna? Ciascuna cosa? E chi doveva pagarlo? Ricorda. Il Perno dell'Ade tornò a ribollire, e lo spettro affondò lentamente nelle acque tumultuose, portando con sé tutti gli spiriti più piccoli e luminosi che l'avevano accompagnato. Finirono sotto la superficie in una grande esplosione di nebbia e schiuma, fra grida e gemiti dei morti, per tornare al mondo infero da cui erano usciti. L'acqua si sollevò in una massiccia colonna, quando tutti furono scomparsi, e il silenzio e l'immobilità dell'aria ne furono spezzati bruscamente, in uno scoppio spaventevole. Poi la tempesta si avventò sulla valle, con vento e pioggia, con tuoni e fulmini che travolsero il vecchio druido. Bremen crollò sotto l'assalto, abbattuto all'istante. Con gli occhi aperti e fissi nel vuoto, cadde privo di sensi sulla riva del lago. La prima a raggiungerlo fu Mareth. Gli uomini erano più alti e robusti, ma il piede della fanciulla era più sicuro sulle pietre bagnate e scivolose: parve volare sulla loro superficie lucida. S'inginocchiò e prese tra le braccia il vecchio. La pioggia cadeva senza interruzione, butterando la superficie nuovamente immobile e liscia del lago, dilavando il tappeto di pietre nere e lucenti della valle, rendendo vaga e velata la luce dell'alba. Intrise la veste di Mareth fino a scorrerle sulla pelle e a raggelarla, ma lei non se ne curò: il suo piccolo viso era una smorfia di concentrazione, levato al cielo, gli occhi chiusi. Gli altri rallentarono il cammino mentre si avvicinavano, perché non erano certi di capire quanto stava succedendo. La giovane donna serrò Bremen fra le braccia, poi rabbrividì violentemente e cadde in avanti; gli uomini corsero verso di lei per sorreggerla. Kinson la sollevò, staccandola da Bremen, mentre Tay prendeva il druido, e tutti insieme si fecero strada in mezzo ai rovesci e uscirono dalla Valle d'Argilla. Una volta fuori, si rifugiarono in una grotta che avevano incontrato all'andata. Posarono sul pavimento di roccia la fanciulla e il druido e li avvolsero nei loro mantelli. Non avevano legna per accendere un fuoco e, anche se erano bagnati e infreddoliti, furono costretti ad attendere che finisse di piovere. Kinson sentì il polso e il cuore dei due compagni svenuti e li trovò forti e regolari. Dopo qualche tempo il vecchio riprese i sensi e poi si rianimò anche la giovane donna. I tre uomini si affollarono attorno a Bremen per chiedergli cos'era successo, ma il vecchio scosse la testa e rispose che per il momento non aveva voglia di parlare. Con riluttanza, si staccarono da lui. Kinson si fermò accanto a Mareth, con l'intenzione di chiedere cosa aveva fatto a Bremen, perché era chiaro che gli aveva fatto qualcosa, ma lei lo guardò per un istante e girò la testa dall'altra parte, e il cacciatore rinunciò al tentativo. La giornata si schiarì un poco e la pioggia si allontanò. Kinson divise fra tutti il cibo che aveva con sé. Solo Bremen non ne volle. Il vecchio druido pareva essersi ritirato in qualche interiore profondità del suo spirito - o forse una parte di lui era ancora nella valle dei morti - e aveva lo sguardo perso nel vuoto, la faccia una maschera priva d'espressione. Kinson lo fissò per qualche istante, cercando un segno dei suoi pensieri, ma non riuscì a penetrarvi. Infine il vecchio alzò gli occhi come se soltanto in quel momento si fosse accorto della loro presenza e se ne chiedesse la
ragione, poi li invitò ad avvicinarsi. Quando si furono seduti attorno a lui, parlò del suo incontro con l'ombra di Galaphile e delle quattro visioni. "Non sono riuscito a capirne il significato" terminò, con voce roca e stanca. "Sono semplici profezie di avvenimenti futuri, e questo futuro è già deciso? Oppure sono le conseguenze che si avrebbero commettendo certe azioni? Perché lo spirito ha scelto proprio quelle visioni? Che cosa si aspetta da me? Tutte queste domande sono rimaste senza risposta." "Che prezzo ti ha chiesto di pagare, per prendere parte a questi avvenimenti?" mormorò Kinson, cupo. "Non dimenticare il prezzo." Bremen gli sorrise. "Sono stato io a chiedere di prenderne parte, Kinson" rispose. "Mi sono assunto il ruolo di protettore delle Razze e distruttore del Signore degli Inganni, e non ho il diritto di chiedere quanto mi costerà, se i miei sforzi avranno esito positivo." Sospirò. "Eppure credo di cominciare a capire cosa mi è stato chiesto. Ma mi occorrerà l'aiuto di tutti voi." Li fissò a uno a uno. "Temo che dovrete correre grandi pericoli." Risca sbuffò. "Grazie a Dio. Cominciavo a temere che questa avventura si risolvesse in una cosa da niente. Spiegaci quello che dobbiamo fare." "Sì, meglio iniziare subito il viaggio" fece eco Tay, accostandosi a lui con impazienza. Bremen annuì. I suoi occhi erano lucidi di gratitudine. "Siamo d'accordo che si deve fermare il Signore degli Inganni prima che conquisti tutte le Razze. Sappiamo ha già cercato una volta di farlo, andando incontro a un insuccesso, ma ora è più forte e pericoloso. Vi ho già detto la mia convinzione: per questo motivo tenterà di distruggere i Druidi di Paranor. La prima visione mi fa pensare che la supposizione fosse corretta." S'interruppe per un istante. "Anzi, temo che sia già successo." Scese il silenzio, mentre gli altri si scambiavano occhiate intimorite. "Pensi che i Druidi siano tutti morti?" chiese infine Tay a bassa voce. Bremen annuì. "Lo ritengo possibile. Spero di sbagliarmi. In ogni caso, vivi o morti che siano, devo recuperare l'Eilt Druin, secondo la prima visione. Prese tutte insieme, le visioni mostrano che il medaglione servirà a forgiare l'arma che distruggerà Brona. Una spada, una lama con un potere particolare, un'arma dotata di una magia che il Signore degli Inganni non possa sconfiggere." "Che magia?" chiese subito Kinson. "Non lo so ancora." Bremen sorrise di nuovo, scuotendo la testa. "So soltanto che occorre un'arma e che, a prestar fede alla visione, quell'arma è una spada." "Devi anche trovare l'uomo che la impugnerà" commentò Tay. "Un uomo che non hai visto in faccia." "Ma l'ultima visione, l'immagine del Perno dell'Ade e del giovinetto dagli occhi inquietanti..." cominciò Mareth, preoccupata. "Dovrà aspettare il suo momento" la interruppe Bremen, in tono gentile. La fissò in volto, come per cercarvi qualcosa. "Gli eventi si rivelano quando lo vogliono loro, Mareth. Non possiamo fargli fretta. E non possiamo farci prendere dalla preoccupazione per loro." "Allora, cosa ci chiedi di fare?" incalzò Tay. Bremen si girò verso di lui. "Dobbiamo separarci, Tay. Tu tornerai dagli Elfi e chiederai a Courtann Ballindarroch di allestire una spedizione per cercare la Pietra Nera. In qualche modo la Pietra è essenziale nel nostro tentativo di distruggere Brona. La visione lo dice. I cacciatori alati la stanno già cercando e non devono trovarla. Il re degli Elfi deve aiutarci in questo. Per aiutarci, abbiamo i particolari della visione. Usa quello che ci è stato mostrato e recupera la Pietra prima
del Signore degli Inganni." Si rivolse a Risca. "Tu devi raggiungere Raybur e i Nani di Culhaven. Le armate del Signore degli Inganni si dirigono a est, e io penso che presto colpiranno là. I Nani devono prepararsi a sostenere un attacco e resistere finché non si potrà inviare loro un aiuto. Tu devi servirti di tutti i tuoi poteri perché lo facciano. Tay parlerà con Ballindarroch per indurre gli Elfi a correre in aiuto dei Nani. Se si uniranno, saranno un buon avversario per l'esercito di Troll su cui fa affidamento Brona." Fece una pausa. "Ma soprattutto dobbiamo guadagnare tempo per forgiare la spada che distruggerà Brona. Io, Kinson e Mareth ritorneremo a Paranor e scopriremo se la visione della sua caduta è vera. Cercherò di impadronirmi dell'Eilt Druin." "Se è ancora vivo, Athabasca non sarà disposto a cedertelo" disse Risca. "Lo sai anche tu." "Probabilmente" rispose Bremen, con pacatezza. "In ogni caso, devo determinare come dev'essere forgiata la spada della visione, la magia che dovrà possedere, il potere di cui dovrà essere infusa. Scoprire come renderla indistruttibile. E infine trovare chi la impugnerà." "Devi fare dei veri miracoli, mi pare" commentò Tay Trefenwyd, ironicamente. "Dovremo farne tutti" rispose Bremen, a mezza voce. Si scambiarono una lunga occhiata nella scarsa luce. E tra loro prese forma un accordo che non aveva bisogno di parole. Davanti al rifugio, l'acqua continuava a gocciolare con regolare cadenza dalle rocce che sporgevano sull'ingresso. Si era a metà del mattino e la luce era diventata color dell'argento a mano a mano che il sole cercava di farsi strada tra le nubi di tempesta che ancora coprivano una parte del cielo. "Se i Druidi di Paranor sono morti, allora siamo i soli rimasti" osservò Tay. "Soltanto noi cinque." Bremen annuì. "Allora, cinque dovranno bastare." Si alzò e scrutò in direzione dell'imboccatura della grotta. "E sarà meglio affrettarsi." 6 Quella stessa notte, a nordovest dal luogo dove Bremen si preparava a evocare l'ombra di Galaphile, bene all'interno dell'anello di roccia dei Denti del Drago, Caerid Lock passò in rassegna i soldati che montavano di guardia a Paranor. Mancava poco a mezzanotte, quando attraversò un tratto di mura affacciato a sud e venne momentaneamente distratto dal lacerante bagliore di una folgore che squarciava il cielo lontano. Si fermò a guardare in quella direzione, tendendo l'orecchio nel silenzio della notte. Le nubi coprivano l'intero orizzonte, nascondevano la luna e le stelle, avvolgevano di tenebra il mondo. Il lampo guizzò una seconda volta, frantumando la notte come se fosse una coppa di vetro, poi svanì senza lasciare traccia. Il tuono giunse più tardi, come un lungo, profondo scroscio che rimbombò sulle cime dei monti. La tempesta pareva intenzionata a rimanere a sud di Paranor, ma l'aria sapeva di pioggia e il silenzio della notte era profondo e opprimente. Il capitano della Guardia dei Druidi attese ancora un momento, meditando, poi si diresse verso una porta e, da una delle torri, rientrò nella rocca. Ogni notte faceva quelle ispezioni, a dispetto del sonno: era un uomo d'ordine, le cui abitudini lavorative non cambiavano mai. I momenti più pericolosi, a parer suo, erano due: dopo la mezzanotte e prima dell'alba. Erano i periodi in cui la stanchezza e la mancanza di sonno
ottundevano i sensi e rendevano disattente le sentinelle. Se qualcuno intendeva attaccare, l'avrebbe fatto a quell'ora. Convinto che Bremen avesse le sue buone ragioni per dare l'avvertimento ed essendo cauto per natura, si era ripromesso di controllare le porte in modo più accurato del solito, almeno per alcune settimane. Aveva già aumentato il numero delle guardie delle varie ronde e aveva dato inizio al faticoso lavoro di rinforzare le varie porte d'ingresso. Aveva preso in considerazione l'eventualità di inviare pattuglie nei boschi, la notte, come ulteriore precauzione, ma aveva pensato che sarebbero state troppo vulnerabili, una volta uscite dalla protezione delle mura. Le sue guardie erano numerose, ma non erano un esercito. Potevano proteggere l'interno, ma non ingaggiare battaglia all'esterno. Giunto nella torre, scese fino al cortile principale e si diresse alla grande porta. Sei guardie stazionavano all'ingresso, ed erano responsabili dei battenti, della saracinesca e delle torri di guardia che dominavano la principale via d'accesso al castello. Al suo avvicinarsi scattarono sull'attenti. Il capitano parlò con il sottufficiale responsabile, gli confermò che tutto andava bene e proseguì l'ispezione. Attraversò di nuovo il cortile, ascoltò il tuono che rompeva ancora il profondo silenzio della notte, guardò verso sud per cogliere il lampo che lo accompagnava, e solo dopo un istante si rese conto che doveva già essere svanito da tempo. Era in allarme, ma non più di qualsiasi altra notte: la cautela faceva parte della sua natura come il senso di responsabilità. A volte pensava di essere rimasto a Paranor per troppo tempo. Faceva bene il suo lavoro, sapeva di essere ancora in piena forma per il suo incarico. Era orgoglioso dei suoi uomini; tutte le guardie in servizio erano state scelte e addestrate da lui. Erano un gruppo saldo, affidabile, e sapeva che era merito suo. Ma il tempo passava anche per lui, e il tempo portava un allentamento dei sensi che favoriva la trascuratezza. Lui non poteva permetterselo. Con la conquista delle Terre del Nord e le voci sul Signore degli Inganni, il momento era molto pericoloso. Le cose erano cambiate. Per le Quattro Terre si preparava una grave minaccia che avrebbe certamente spazzato via i Druidi. Stava per succedere qualcosa, e Caerid Lock temeva di non riuscire ad accorgersene finché non fosse stato troppo tardi. Si diresse verso una porta in fondo al cortile e percorse un corridoio che portava al muro a nord e alla sua porta. Il castello aveva quattro grandi ingressi: uno per ogni strada d'accesso. C'erano anche molte porte più piccole, ma erano fatte di pietra e lastre di ferro. In gran parte erano mimetizzate con cura. Era possibile trovarle esaminando le mura con attenzione, ma per fare questo occorreva fermarsi ai piedi dei bastioni e osservare con una buona luce, finendo sotto il tiro delle sentinelle che stavano sugli spalti. Comunque, Caerid metteva una guardia a ciascuna di quelle porte, nelle ore dal tramonto all'alba, perché non dava mai niente per scontato. Percorrendo il corridoio ricurvo, passò davanti a due di quelle porte, prima di arrivare alla porta occidentale: erano distanziate tra loro di una cinquantina di passi. Le due guardie lo videro e scattarono subito sull'attenti, come per dire che erano all'erta e pronte a intervenire. Caerid rivolse a ciascuna un cenno d'approvazione e proseguì. Quando si fu allontanato, aggrottò la fronte, riflettendo sul modo in cui erano state assegnate le porte. Alla prima porta c'era un troll del Kershalt,
un veterano, ma alla seconda c'era un giovane elfo, poco più di una recluta. Non approvava che le reclute montassero di guardia da sole e si ripromise di far cambiare l'assegnazione al successivo turno di guardia. Pensava a questo quando passò davanti a una scala di servizio che saliva alle camere da letto dei Druidi, e non si accorse dei movimenti furtivi dei tre uomini che vi si erano nascosti. I tre si schiacciarono il più possibile contro le pietre della parete, quando il capitano delle guardie passò sotto di loro senza notarli. Rimasero perfettamente immobili finché non si fu allontanato, poi si staccarono dal nascondiglio e continuarono a scendere. Erano Druidi, tutti e tre, ciascuno con più di dieci anni di appartenenza al Consiglio, ciascuno con la bruciante convinzione, tipica del fanatico, di essere destinato a grandi cose. Erano vissuti entro l'ordine dei Druidi mal sopportandone le leggi e gli obblighi, che ai loro occhi risultavano sciocchi, privi di scopo e incapaci di appagarli. Era necessario possedere il potere, se si voleva che la vita assumesse un significato. I risultati conseguiti da un uomo non avevano alcun valore, se non gli procuravano un beneficio personale. A che scopo perdere tempo nello studio, se non lo si poteva tradurre in qualcosa di pratico? Che senso aveva conoscere dei segreti della scienza e della magia se non si poteva metterli alla prova? Queste le domande che si erano rivolti i tre Druidi, dapprima separatamente, poi l'un l'altro quando s'erano accorti di condividere una convinzione comune. Non erano i soli insoddisfatti, naturalmente. Altri nutrivano le medesime convinzioni. Ma nessuno con altrettanto fervore, ossia al punto di lasciarsi corrompere. Per i tre non c'era speranza di passare inosservati: il Signore degli Inganni aveva cercato per molto tempo persone come loro per vendicarsi dei Druidi. Infine li aveva trovati e fatti suoi. C'era voluto tempo, ma un poco alla volta li aveva conquistati, così come aveva fatto con coloro che l'avevano seguito quando aveva lasciato la rocca, più di tre secoli prima. Di uomini come quelli ce n'erano sempre: aspettavano soltanto che qualcuno li chiamasse, che qualcuno li usasse. Brona era stato molto astuto nei suoi approcci, non si era rivelato, all'inizio, ma aveva fatto udire la sua voce come se fosse la loro, aveva fatto balenare dinanzi ai loro occhi infinite possibilità, il profumo del potere, la bellezza della magia. Aveva lasciato che si incatenassero a lui con le loro stesse mani, che si forgiassero catene fatte di attesa e avidità, che si rendessero suoi schiavi col cadere in balia di sogni illusori e desideri smodati. Alla fine, l'avrebbero supplicato di prenderli con sé, anche dopo avere scoperto la sua identità e il prezzo da pagare. Ora scivolarono lungo i corridoi di Paranor, con intenzioni malvage, votati a un'azione che li avrebbe condannati per sempre. Si staccarono in silenzio dalla scala e raggiunsero la porta dove montava di guardia il giovane elfo. Si tennero nell'ombra, dove non giungeva la luce delle torce, e usarono piccole formule magiche fornite dal loro Signore - un dolce assaggio del potere - per nascondersi agli occhi della sentinella. Poi le furono addosso, e uno dei tre la colpì alla testa per farle perdere i sensi. Gli altri due si occuparono in fretta e furia dei chiavistelli che bloccavano la porta di pietra, li aprirono a uno a uno, sollevarono la saracinesca di ferro, tolsero dagli incastri la pesante sbarra, e alla fine, al di là di ogni possibile pentimento, aprirono la porta, cosicché Paranor rimase aperto
alla notte e agli esseri che attendevano all'esterno. I Druidi fecero un passo indietro quando la prima mostruosità emerse alla luce, dondolando sui calcagni. Era un Messaggero del Teschio, gobbo e massiccio nel suo manto nero, gli artigli protesi innanzi a sé. Tutto spigoli e bordi taglienti, tutto muscoli e pelle coriacea, riempì il passaggio e parve risucchiarne tutta l'aria. I suoi occhi rossi e ardenti come brace si fissarono per qualche istante sulle tre figure che si ritraevano istintivamente da lui, e con disprezzo le spinse da parte per passare. Batté adagio le ali di pipistrello, poi, con un sibilo di soddisfazione, afferrò la giovane guardia elfa, le lacerò la gola e la scagliò a terra. I Druidi rabbrividirono quando vennero colpiti da un fiotto di sangue della vittima. Il Messaggero del Teschio fece un cenno all'esterno, e una fila di altre creature cominciò allora a riversarsi nel breve passaggio: forme abominevoli, irte di denti e di spine, storte, aggobbite e coperte solo da qualche chiazza di pelo arruffato, armate e pronte al massacro, che si muovevano occhiute e furtive nel silenzio del castello. Alcune erano vagamente riconoscibili: un tempo, probabilmente, erano Troll. Altre erano creature dei mondi infernali con niente di umano. Tutte erano rimaste in attesa fin dalle prime ore dopo il tramonto in una rientranza buia, sotto le mura, dove non risultavano visibili dagli spalti. Si erano nascoste laggiù perché sapevano che quei tre miserabili che ora le guardavano tremebondi erano stati sedotti dal loro Signore e avrebbero aperto il castello. Adesso erano dentro, smaniose di dare inizio al massacro promesso. Il Messaggero del Teschio ne mandò fuori una, nella notte, perché passasse la voce a quante ancora attendevano nella foresta. Ce n'erano parecchie centinaia, in attesa del segnale per farsi avanti. Dalle mura, i soldati le avrebbero viste, non appena fossero uscite dalla protezione degli alberi, ma l'allarme sarebbe giunto troppo tardi. Prima che i difensori di Paranor potessero raggiungerle, sarebbero già penetrate all'interno della rocca. Il Messaggero del Teschio si avviò lungo il corridoio, senza degnare di uno sguardo i tre Druidi. Per lui erano meno che nulla: rifiuti, avanzi. Spettava al suo Signore decidere cosa farne. Al cacciatore alato interessava solo l'imminente massacro. A mano a mano che entravano, gli assalitori si divisero in piccoli gruppi. Alcuni imboccarono la scala che saliva alle stanze da letto dei Druidi. Altri presero un corridoio laterale che portava all'interno del castello. Ma la maggioranza seguì il Messaggero del Teschio lungo il corridoio che conduceva alle porte principali. Poco più tardi si levarono le prime urla. Quando venne finalmente dato l'allarme, Caerid Lock lasciò di corsa la porta settentrionale e attraversò il cortile per tornare all'interno del castello. Prima erano giunte le urla, poi il suono di un corno da guerra. Il capitano capì subito cosa succedeva. La profezia di Bremen si avverava. Il Signore degli Inganni era all'interno di Paranor. Questa certezza lo raggelò fino alle ossa. Mentre correva, chiamò a sé i propri uomini, pensando che forse c'era ancora tempo. Entrarono a passo di carica nella rocca e imboccarono il corridoio che conduceva alla porta spalancata al nemico dai Druidi traditori. Ma quando svoltarono un angolo, scorsero l'intero corridoio davanti a loro invaso da forme nere e aggobbite che continuavano a entrare dalla porta, brulicanti come uno sciame di insetti. Troppe per attaccare battaglia, comprese Caerid Lock.
Si affrettò a riportare indietro i suoi uomini, e le bestie si lanciarono subito al loro inseguimento. Le guardie lasciarono quel piano e salirono a uno superiore, sbarrando le porte e abbassando le saracinesche, nel tentativo di bloccare l'accesso agli assalitori. Era un tentativo disperato, ma a Caerid Lock non venne in mente altro. Giunti al piano superiore, riuscirono a bloccare tutte le entrate e si prepararono a difendere le scale principali. A quel punto, il capitano poteva contare su cinquanta uomini, ma non sarebbero stati sufficienti. Ne mandò alcuni a chiamare i Druidi per farsi dare appoggio. Alcuni degli anziani conoscevano la magia, e per salvarsi occorreva fare appello a tutti i mezzi disponibili. Mentre riuniva i suoi uomini, la sua mente correva. Non erano entrati con la forza, ma grazie a un tradimento dall'interno. Avrebbe trovato i responsabili, giurò. E se ne sarebbe occupato di persona. In cima alla scalinata principale, la Guardia si preparò a resistere. C'erano Elfi, Nani, Troll e alcuni Gnomi, spalla contro spalla, schierati e pronti, tutti ugualmente risoluti. Caerid Lock era il primo, nel centro dello schieramento, la spada sguainata. Non cercò di ingannarsi, la sua era difesa delle posizioni, tutt'al più, ed era condannata prima o poi alla disfatta. Stava già pensando alla ritirata. Non poteva più fare nulla per le mura esterne, ormai perdute. Le mura interne e la rocca erano ancora loro, per il momento: gli ingressi bloccati, gli uomini schierati a difesa. Ma tutti quegli sforzi sarebbero riusciti solo a rallentare l'avanzata di un attaccante deciso, non certo a fermarlo. C'erano troppi passaggi nelle mura interne, ai livelli più alti come a quelli più bassi, perché gli uomini della Guardia potessero resistere a lungo. Presto o tardi i nemici li avrebbero assaliti alle spalle, e a quel punto li avrebbe salvati soltanto la fuga. Dal basso, ai comandi del Messaggero del Teschio, venne preparato un attacco, e una schiera di mostri dalle zampe ricurve risalì la scala, in un'unica massa di zanne, artigli e lame d'acciaio. Caerid guidò la sua Guardia in un contrattacco, e l'assalto venne respinto. I mostri tentarono una seconda carica, e anche questa volta la Guardia dei Druidi riuscì a ricacciarli indietro. Ma ormai una buona metà dei difensori era morta o ferita e nessun altro soldato si era più unito a loro. Caerid Lock si guardò attorno, disperato. Dov'erano i Druidi? Perché non rispondevano al segnale d'allarme? I mostri attaccarono una terza volta, in una massa irta di spine, di corpi striscianti e di arti che mulinavano, di urli striduli che si levavano da fauci spalancate. La Guardia dei Druidi contrattaccò ancora una volta, aprendo grandi squarci nello schieramento dei mostri, ricacciandoli indietro, giù per la scala, lasciandone una buona metà privi di vita sugli scalini resi scivolosi dal sangue. Disperato, Caerid mandò un uomo a cercare aiuto dovunque potesse trovarne. Mentre stava per allontanarsi, lo afferrò per la giubba e gli disse a bassa voce, perché nessun altro sentisse: "Cerca i Druidi e di' loro di fuggire finché sono ancora in tempo! Di' che Paranor è perduto. Corri subito a dirglielo! Poi fuggi anche tu!". L'uomo sbiancò in volto e corse via senza fare parola. Intanto, nelle tenebre sotto di loro, si stava preparando un altro assalto, tra grida gutturali e forme nere che si ammassavano. Poco dopo, in un punto più alto, nella zona riservata ai Druidi, si levò un grido straziante. Caerid Lock si sentì venir meno il
cuore. E' finita, pensò, senza provare paura o rimpianto, ma unicamente nausea. Qualche istante più tardi, i mostri del Signore degli Inganni si lanciarono ancora una volta su per la scala. Caerid Lock e il suo esiguo gruppo si prepararono ad affrontarli, armi in pugno. Ma questa volta ce n'erano troppi. Kahle Rese dormiva nella biblioteca dei Druidi quando venne destato dal clamore dell'attacco. Aveva lavorato fino a tardi catalogando le relazioni da lui stesso compilate nei cinque anni precedenti sulle variazioni climatiche e le loro ripercussioni sul raccolto, e alla fine si era addormentato al tavolo. Si destò con un sobbalzo, scosso dalle grida dei feriti, dal clangore delle armi, dal trepestio degli stivali. Sollevò la testa grigia e si guardò attorno, confuso, poi si alzò, si concesse un momento per riprendersi e si diresse alla porta. Osservò il corridoio, con circospezione. Le grida erano più forti, più terribili per la loro insistenza e atrocità. Alcuni uomini passarono di corsa davanti alla sua porta: soldati della Guardia. La rocca era stata assalita, capì. L'avvertimento di Bremen era arrivato ai sordi, e adesso pagavano lo scotto della loro sordità. Con sorpresa, si accorse di sapere già perfettamente cosa stava succedendo, e come sarebbe finita. Già sapeva che non sarebbe sopravvissuto a quella notte. Però esitò ancora, riluttante perfino in quella situazione ad accettare ciò che già sapeva. Ora il corridoio era vuoto, i suoni della battaglia provenivano dai piani inferiori. Pensò di uscire per controllare meglio la situazione, ma mentre stava valutando l'idea, una sagoma d'ombra si affacciò dalla scala posteriore. Il druido si affrettò a tirare indietro la testa e guardò dalla fessura della porta. Una fila di nere creature deformi uscì barcollando dalla scala, forme irriconoscibili, mostri usciti dal suo peggiore incubo. Trasse un respiro e poi trattenne il fiato. Entravano in una stanza dopo l'altra avvicinandosi alla biblioteca dove lui era nascosto. Accostò il battente senza fare rumore e lo chiuse con la sbarra. Per un momento restò fermo dietro la porta, incapace di muoversi. Un fiotto d'immagini gli tornò alla mente: ricordi dei suoi primi giorni di apprendistato, della sua successiva carica di druido scrivano, dei suoi continui sforzi per raccogliere e conservare gli scritti del vecchio mondo e di Faerie. Tante cose erano successe, ma in un tempo tanto breve. Scosse la testa per la meraviglia. Come poteva finire tutto così in fretta? Ormai le grida si avvicinavano: grida che venivano dalla porta accanto alla sua e dal corridoio dove si aggiravano i mostri in cerca di vittime. Non gli rimaneva molto tempo. Raggiunse in fretta la scrivania e prelevò il sacchetto di pelle affidatogli da Bremen. Forse avrebbe fatto meglio ad allontanarsi con il suo vecchio amico, pensò. Forse avrebbe dovuto salvarsi finché ne aveva il tempo. Ma chi avrebbe protetto le Storie dei Druidi, se fosse fuggito? Su chi altri avrebbe potuto fare affidamento Bremen? Inoltre, quello era il posto a cui apparteneva: ormai non conosceva più il mondo esterno, era passato troppo tempo dall'ultima volta che vi si era inoltrato. Al di fuori di quelle mura, lui non sarebbe servito a nessuno. Lì, se non altro, poteva ancora compiere qualcosa di utile. Raggiunse lo scaffale mobile che faceva da porta segreta per il nascondiglio delle Storie dei Druidi e fece scattare il meccanismo che lo apriva. Entrò e si guardò attorno. La stanza era piena di grossi libri rilegati in pergamena. Fila dopo fila, disposti in sequenza, ordinatamente numerati, quei volumi
erano i depositari di tutte le conoscenze e di tutte le leggende raccolte dai Druidi a partire dall'epoca del Primo Consiglio: conoscenze provenienti dall'epoca di Faerie, dai tempi dell'Uomo e da quello delle Grandi Guerre. Ogni pagina di quei libri era piena di informazioni debitamente raccolte e registrate: alcune avevano trovato spiegazione, altre rimanevano ancora un mistero, ma nel loro complesso costituivano tutte le conoscenze disponibili sulla scienza e sulla magia passate e presenti. Molto di quello che era contenuto in quei libri era stato scritto dallo stesso Kahle Rese: rapporti vergati con attenzione, riga dopo riga, per più di quarant'anni. Quelle registrazioni costituivano il principale motivo d'orgoglio del vecchio druido, il riassunto del lavoro di una vita, il risultato di cui si compiaceva. Si accostò al più vicino scaffale, trasse un profondo respiro e aprì i lacci del sacchetto di Bremen. Diffidava di tutta la magia, ma non aveva scelta. E poi, Bremen non l'avrebbe mai ingannato. Quella che interessava a entrambi era la salvezza delle Storie: esse dovevano sopravvivere a Kahle Rese, come previsto fin dal momento della loro stesura. Dovevano sopravvivere a tutti i Druidi. Prese una generosa manciata della luccicante polvere argentea che trovò nel sacchetto e la gettò su una parte dei libri. Immediatamente, l'intera scaffalatura prese a brillare come un miraggio nella calura estiva. Kahle esitò, poi gettò un'altra manciata di polvere nella cortina liquida. Libri e scaffali sparirono. Allora prese a muoversi più in fretta, gettando manciate di polvere su ciascuno scaffale, su ciascun gruppo di libri, e a uno a uno li vide brillare e sparire. Qualche momento più tardi, le Storie dei Druidi erano completamente sparite. Rimaneva soltanto una stanza con quattro pareti spoglie e un lungo tavolo di lettura al centro. Kahle Rese annuì soddisfatto. Adesso le Storie erano salve. Anche se la stanza fosse stata scoperta, il suo contenuto sarebbe rimasto nascosto. Era quanto di meglio si potesse sperare. Ritornò nell'altra stanza e tutt'a un tratto provò una profonda stanchezza. Sentì grattare alla porta: con artigli inadatti a quel compito, qualche creatura cercava di afferrare il pomo della porta e di girarlo. Kahle chiuse accuratamente lo scaffale mobile e s'infilò in tasca il sacchetto di pelle, ormai quasi vuoto. Tornò alla scrivania e si appoggiò ad essa. Non aveva armi. Non aveva un posto dove fuggire. Non poteva fare altro che attendere. Nel corridoio, corpi pesanti si lanciarono contro la porta, scheggiandola. Un momento più tardi, il legno si ruppe e con un forte tonfo il battente andò a fracassarsi contro la parete. Tre bestie dalla schiena curva entrarono ciondolando: quando scorsero il druido, i loro occhi stretti e iniettati di sangue si accesero d'odio. Senza battere ciglio, Kahle Rese le guardò avvicinarsi. La più vicina impugnava una corta picca. Qualcosa nel portamento dell'uomo davanti a lei la infuriò. Quando fu giunta dinanzi a Kahle Rese, gli piantò l'arma nel petto, uccidendolo all'istante. Allorché tutto fu finito, allorché tutti i membri superstiti della Guardia furono raggiunti e massacrati, i Druidi sopravvissuti vennero strappati ai loro nascondigli e spinti come animali imbelli nella sala di riunione del Consiglio, dove furono costretti a inginocchiarsi a terra, circondati dai mostri che li avevano sconfitti. Athabasca, che era tra quelli ancora vivi, venne riconosciuto e portato davanti al Messaggero del Teschio. La creatura fissò l'imponente figura del Grande
Druido dalla folta chioma bianca, poi gli ordinò di inchinarsi a lei e di riconoscerla come suo padrone. Quando Athabasca, orgoglioso e sprezzante anche nella sconfitta, si rifiutò di farlo, la creatura lo afferrò per il collo, puntò lo sguardo nei suoi occhi atterriti e glieli bruciò con una vampata di fuoco scaturitagli dalle orbite. Athabasca venne lasciato sulle pietre del pavimento, in preda a un tormento atroce, e nella grande sala del Consiglio scese bruscamente il silenzio. I sibili e le voci chiocce si spensero, cessò lo stridore degli artigli e il digrignare dei denti. Nell'assoluto, cupo e minaccioso silenzio, tutti gli occhi furono calamitati verso l'entrata della sala, la cui porta a doppio battente pendeva sfondata dai cardini. Là, nello squarcio, le ombre parvero coagularsi e prendere forma, sino a diventare un'alta figura, avvolta in un nero mantello, che invece di posare i piedi sul terreno come gli uomini era sospesa a mezz'aria, leggera e incorporea come fumo. Un soffio glaciale percorse l'intera sala al suo arrivo, un gelo che entrò nel midollo dei Druidi prigionieri. A uno a uno, i mostri che li avevano catturati s'inginocchiarono e chinarono la testa, mentre dalle loro bocche si levava un basso mormorio. Padrone. Padrone. Il Signore degli Inganni posò lo sguardo sui Druidi sconfitti e si compiacque alla loro vista. Erano suoi, adesso. Paranor era suo. Dopo tanti secoli poteva assaporare la vendetta. Permise alle sue creature di alzarsi in piedi, poi tese il braccio verso Athabasca. Incapace di opporsi, cieco e dolorante, il Grande Druido si sollevò in piedi di scatto, come tirato da fili invisibili. Si sollevò al di sopra degli altri Druidi, gridando per il terrore. Il Signore degli Inganni mosse ancora il braccio, e il Primo Druido tacque e s'immobilizzò sinistramente. Un altro movimento e Athabasca cominciò a cantilenare, con voce incrinata dal dolore: "Padrone. Padrone. Padrone".I Druidi raccolti attorno a lui abbassarono la testa per la vergogna e la collera. Alcuni piansero. Invece, la massa degli scherani del Signore degli Inganni fischiò di piacere, divertita dalla scena, e in omaggio al suo padrone levò in alto le braccia munite di artigli. Poi il Signore degli Inganni mosse la testa, e il Messaggero del Teschio colpì con una rapidità terribile, il cuore dal petto di Athabasca vivo. Il Grande Druido si inarcò e proruppe in un grido quando il suo petto fu squarciato, poi si afflosciò su se stesso e morì. Per alcuni, eterni momenti, il Signore degli Inganni lo tenne sollevato sopra i suoi compagni, come una bambola di pezza, mentre sotto di lui si allargava una macchia di sangue. Lo fece dondolare avanti e indietro, e infine lo lasciò cadere a terra, un mucchietto di carne lacerata e ossa rotte. Poi fece portare via tutti i Druidi e li fece spingere come bestie nelle più profonde segrete di Paranor, dove vennero murati vivi. Quando le loro grida lasciarono il posto al silenzio, si avviò lungo le scale e i corridoi della rocca, alla ricerca delle Storie dei Druidi. Aveva distrutto i Druidi, ora doveva distruggere il loro sapere. O portarne con sé la parte che gli poteva essere utile. Cercò di fare in fretta, perché qualcosa cominciava ad agitarsi nel pozzo senza fondo su cui sorgeva il castello; laggiù qualche antica magia si stava ridestando, in reazione alla sua presenza. Nel suo regno, il Signore degli Inganni non temeva nemici, ma lì, nel covo dei suoi più forti avversari, non sapeva che rischi poteva correre. Trovò la biblioteca e la esaminò da cima a
fondo. Scoprì lo scaffale mobile e la camera segreta, ma era vuota. Era stata messa in atto qualche magia, notò, ma non riuscì a scoprirne l'origine e lo scopo. Quanto alle Storie, non ce n'era traccia. Nelle profondità del Pozzo dei Druidi, le scosse divennero più intense. Qualcosa si era liberato per effetto della sua venuta, e adesso stava uscendo dal pozzo per cercarlo. La cosa gli diede alquanto fastidio: un potere di quella fatta, messo di sentinella per combatterlo! Non potevano essere stati quei miserabili mortali che aveva sconfitto così facilmente: non erano più capaci di invocare poteri simili. Piuttosto, doveva essere stato colui che di recente si era spinto nel suo territorio e di cui le sue creature avevano seguito la pista, il druido Bremen. Ritornò nella sala del Consiglio, desideroso, a quel punto, di allontanarsi il più in fretta possibile, perché il suo compito lì era terminato. Si fece portare i tre che avevano tradito Paranor. Non si rivolse loro con la voce, non ne erano degni, ma comunicò con il pensiero. I traditori si prostrarono davanti a lui tremebondi, sottomessi come pecore: tre miserabili che avevano preteso di innalzarsi al di sopra di ciò che erano. Padrone, piagnucolarono in tono abietto e servile. Padrone, noi obbediamo soltanto a te! Quanti Druidi sono sfuggiti, oltre a Bremen? Soltanto tre, Padrone. Un nano, Risca. Un elfo, Tay Trefenwyd. Una giovane donna del Sud, Mareth. Si sono allontanati con Bremen? Sì, con Bremen. Nessun altro è fuggito? No, Padrone, nessuno. Ritorneranno. verrànno a sapere della caduta di Paranor e vorranno accertarsene. Voi li aspetterete. Sarete voi a finire quello che io ho iniziato. Poi sarete come me. Sì, Padrone, sì! Alzatevi. Si alzarono in fretta, ansiosi di compiacerlo: tre spiriti spezzati, tre menti schiave del suo volere. Eppure non avevano la forza di compiere quanto era richiesto loro, e di conseguenza occorreva cambiarli. Li toccò con la sua magia, li avvolse in legami sottili come seta e robusti come acciaio, e rubò loro quanto ancora rimaneva di umano. Le grida dei tre Druidi echeggiarono nei corridoi vuoti, mentre li trasformava senza pietà in qualcosa di nuovo: i loro arti si agitarono disperatamente, le loro teste scattarono senza controllo e gli occhi parvero schizzare dalle orbite. Quando il Signore degli Inganni ebbe terminato, i tre non erano più riconoscibili. Li lasciò così, poi, seguito obbedientemente dagli altri suoi servitori, scomparve nella notte, abbandonando il castello dei Druidi agli agonizzanti e ai morti. 7 Bremen tese la mano a Risca, prima di separarsi da lui, e il nano la strinse a lungo nella sua. Si trovavano davanti alla grotta dove s'erano riparati dopo avere lasciato il Perno dell'Ade e i suoi spettri. Era quasi mezzogiorno, la pioggia si era ridotta a una fine acquerugiola e il cielo cominciava a rischiararsi a occidente, al di sopra delle vette scure dei Denti del Drago. "A quanto pare, non appena ci incontriamo dobbiamo nuovamente separarci" brontolò Risca. "Non so come riusciamo a rimanere amici. Non so perché ci preoccupiamo di esserlo." "Perché non abbiamo scelta" disse Tay Trefenwyd, che era accanto a loro. "Non c'è nessun altro che ci sopporti." "Vero" rispose il nano, sorridendo controvoglia. "Be', così metteremo a prova la nostra amicizia. Sparsi
dall'Est all'Ovest e chissà dove altro, senza sapere quando ci incontreremo di nuovo." Strinse forte la mano di Bremen. "Abbi cura di te." "Anche tu, mio caro amico" rispose il vecchio druido. "Tay Trefenwyd!" gridò il nano, girandosi verso di lui. Si stava già avviando lungo il sentiero. "Non scordarti della promessa! Riunisci gli Elfi e portali nell'Est! Venite a combattere con noi contro il Signore degli Inganni! Contiamo sul vostro aiuto!" "Arrivederci, Risca!" gridò Tay. Il nano agitò la mano in segno di saluto e si issò lo zaino sulle spalle robuste; la daga gli dondolava al fianco. "Buona fortuna, Orecchie a Punta. Fa' attenzione! Guardati le spalle!" Si divertivano sempre a canzonarsi, l'elfo e il nano, due vecchi amici che amavano quel tipo di battute, abituati a nascondere dietro le piccole punzecchiature le emozioni che non amavano esternare a parole. Kinson Ravenlock, in disparte, ascoltava quello scambio verbale e rimpiangeva di non avere avuto il tempo di conoscerli meglio. Ma occorreva rimandare al futuro quel genere di rapporti. Risca era partito e Tay li avrebbe lasciati al Passo di Kennon, dove loro avrebbero piegato a nord verso Paranor, mentre l'elfo avrebbe proseguito a ovest per raggiungere Arborlon. Il cacciatore della Frontiera scosse la testa. La separazione doveva essere molto dura per Bremen, che non vedeva Risca e Tay da due anni. Ne sarebbero passati altri due prima che li rivedesse? Quando Risca fu scomparso, Bremen e i suoi tre compagni presero un sentiero che li portò alla base dei monti e poi proseguirono a occidente, sulla sponda settentrionale del Mermidon, rifacendo in senso inverso il cammino che li aveva portati laggiù. Continuarono a camminare anche dopo il tramonto, per accamparsi infine all'ombra di una macchia di ontani, in un punto abbastanza isolato, dove il Mermidon si biforcava. Il cielo si era rasserenato e splendeva di migliaia di stelle, la cui luce si rifletteva in uno sfavmio multicolore sulla placida superficie del fiume. Il gruppo si raccolse sulla riva e cenò senza smettere di guardarsi attorno nel buio. Nessuno aveva molta voglia di parlare. Tay avvertì Bremen di fare molta attenzione, una volta all'interno di Paranor. Se quanto gli era stato mostrato nella visione era già successo e il castello dei Druidi era caduto, era probabile che il Signore degli Inganni o qualcuno dei suoi adepti fosse rimasto all'interno. Oppure, aggiunse l'elfo, che vi avesse lasciato trappole per catturare quei Druidi che, dopo essere sfuggiti al massacro, fossero stati così sciocchi da tornare. Lo disse in tono leggero, e Bremen gli rispose con un sorriso. Kinson notò che nessuno dei due metteva in dubbio la probabile distruzione di Paranor. Doveva essere stata una notizia molto amara per loro, ma nessuno dei due dava libero corso alle emozioni. Si erano imposti di non indugiare sul passato. Adesso, la sola cosa importante era il futuro. A questo scopo, Bremen parlò diffusamente a Tay della sua visione della Pietra Nera, soffermandosi sui particolari di quello che aveva visto e provato, e di ciò che ne aveva dedotto. Kinson lo ascoltò senza molto interesse, lanciando ogni tanto un'occhiata a Mareth che faceva come lui. Si chiese cosa pensasse la fanciulla, adesso che i Druidi di Paranor, assai probabilmente, erano stati distrutti. Si chiese se si rendesse conto di come era cambiata ora la sua posizione all'interno del gruppo. Mareth aveva a malapena detto qualche parola, da quando erano usciti dalla Valle d'Argilla, e durante
i discorsi tra Bremen, Risca e Tay si era tenuta in disparte, limitandosi a guardare e ad ascoltare. Un po' come lui, pensò Kinson. Infatti anche lei era un'estranea, ancora alla ricerca del proprio posto: non era un druido come gli altri, non era ancora stata messa alla prova, non era del tutto accettata come eguale. La osservò, cercando di valutare la sua resistenza, la sua volontà. Le sarebbero occorse entrambe, con quello che la aspettava. Più tardi, quando la giovane donna dormiva, Tay era disteso accanto a lei e Bremen stava di guardia, Kinson si tolse il mantello che gli serviva da coperta e andò a sedersi accanto al vecchio druido. Bremen non fece commenti quando si avvicinò, e continuò a scrutare nel buio. Kinson si sedette, incrociò davanti a sé le lunghe gambe e si drappeggiò comodamente sulle spalle il mantello. La notte era calda, più primaverile di quanto non lo fossero state le precedenti, e nell'aria c'era profumo di fiori, germogli ed erba. Dalle montagne scendeva una lieve brezza che faceva stormire le fronde e increspava l'acqua del fiume. I due uomini sedettero in silenzio per qualche minuto, tendendo l'orecchio ai rumori della notte, ciascuno perso nei propri pensieri. "Corri un grave rischio, ritornando al castello" osservò infine Kinson. "Un rischio necessario" puntualizzò Bremen. "Sei certo della caduta di Paranor, vero?" Per un momento, Bremen non rispose, ma s'immobilizzò come se fosse di pietra; poi, lentamente, mosse la testa in segno d'assenso. "Se è così, per te sarà molto pericoloso" continuò Kinson. "Brona ti dà già la caccia. Forse sa della tua visita a Paranor. Si aspetterà un tuo ritorno." Il vecchio druido si voltò verso il compagno; alla luce delle stelle, la sua faccia sembrava ancor più rugosa e indurita dal sole e dal vento, scavata da una vita di lotte e delusioni. "So già queste cose, Kinson. E tu sai che le so. Allora, perché me ne parli?" "Perché te ne ricordi" rispose con fermezza il cacciatore della Frontiera. "Perché tu sia ancor più cauto del solito. Le visioni sono un'ottima cosa, ma sono ingannevoli. Non mi fido di loro. Non dovresti fidartene neanche tu. Almeno, non del tutto." "Ti riferisci alla visione di Paranor, suppongo." Kinson annuì. "La rocca caduta e i Druidi uccisi fino all'ultimo. Tutto abbastanza chiaro. Ma la sensazione di qualcosa in attesa, qualcosa di pericoloso... questo è l'aspetto allarmante. Se è così, la minaccia non assumerà una delle forme che t'aspetti." Bremen si strinse nelle spalle. "No, suppongo di no. Ma non ha importanza. Devo assicurarmi che Paranor sia perduto davvero, non mi bastano i miei sospetti, per quanto forti. E devo recuperare l'Eilt Druin. Il medaglione dev'essere parte integrante del talismano che sconfiggerà il Signore degli Inganni. La visione era chiara su questo punto. Una spada, Kinson, che io devo costruire, che io devo forgiare, e in cui devo infondere una magia che Brona non possa vincere. Di tutto questo, l'Eilt Druin è la sola parte che mi sia stata mostrata: il medaglione era chiaramente visibile sul manico dell'arma. Comincerò da lì. Devo recuperare il medaglione e poi determinare che altro mi servirà." Kinson lo fissò per qualche istante senza parlare. "Hai già fatto un piano, vero?". "L'abbozzo di un piano" sorrise il vecchio. "Mi conosci bene, caro amico." "Ti conosco abbastanza bene per prevedere, di tanto in tanto, qualcuna delle tue mosse" rispose Kinson, sospirando e guardando oltre il fiume. "Non che la cosa mi serva molto, quando si tratta di spingerti a una maggiore cautela." "Oh, non ne sarei
tanto sicuro." Davvero? si chiese stancamente il cacciatore della Frontiera. Ma non mise in dubbio l'affermazione di Bremen, nella speranza che fosse almeno parzialmente vera, che il vecchio druido gli desse davvero retta, almeno quando si trattava della sua incolumità. Strano che Bremen, nel crepuscolo della vita, fosse assai più temerario di lui, che era tanto più giovane. Kinson era sempre vissuto in base al precetto della Frontiera che un solo passo falso costituisce la differenza tra la vita e la morte, che sapere quando agire e quando aspettare è indispensabile per rimanere sani e salvi. Bremen conosceva perfettamente queste regole, ma non sempre vi si atteneva. Bremen era assai più portato di Kinson a sfidare il destino. Probabilmente, la differenza tra loro era dovuta alla magia, pensò. Lui era più forte di Bremen e aveva i riflessi più rapidi, e il suo istinto era più sicuro, ma Bremen aveva la magia ad aiutarlo, e la magia funzionava sempre. Questa considerazione diede a Kinson una certa rassicurazione sul fatto che il vecchio druido godesse di una protezione in più. Ma avrebbe preferito che tale protezione fosse ancora maggiore. Stese le gambe per sgranchirle e incrociò le braccia. "Che è successo, laggiù con Mareth?" chiese poi all'improvviso. "Al Perno dell'Ade, quando sei svenuto e lei ti ha raggiunto per prima?" "E' una giovane interessante, la nostra Mareth" commentò il druido, con una sfumatura d'affetto nella voce. Si girò di nuovo verso Kinson, ma il suo sguardo era perso lontano. "Ricordi che ha detto di avere una sua forma di magia? Be', l'affermazione era corretta. E' possibile che mi sbagli, perché non sono del tutto certo della sua natura, ma credo di aver capito qualcosa. E' una forma di empatia, Kinson. Le sue capacità di guaritrice si basano su questo potere. Può prendere su di sé il dolore di un'altra persona e così farlo diminuire. Può assorbire i danni di un altro e accelerarne la guarigione. L'ha fatto con me al Perno dell'Ade. La scossa da me provata quando ho avuto le visioni e sono stato toccato dalle ombre dei morti mi ha fatto perdere i sensi. Ma lei mi ha sollevato - ho sentito le sue manie mi ha fatto risvegliare, di nuovo forte e guarito." Batté gli occhi. "E' stato molto chiaro. Tu hai visto l'effetto che ha avuto su di lei?" Kinson sporse il labbro, riflettendo. "Sembrava aver perso le forze, per un breve tempo, poi si è ripresa. Però i suoi occhi... Sull'altura, quando sei scomparso nella tempesta mentre parlavi con l'ombra di Galaphile, Mareth ha detto che poteva vederti, mentre nessun altro riusciva a scorgerti. Ebbene, i suoi occhi erano bianchi." "La sua magia sembra alquanto complessa, non credi?" "E' magia empatica, dici. E certo non piccola." "No. Non c'è niente di piccolo nella magia di Mareth. E' molto potente. Probabilmente è nata così e ha cercato di potenziare la sua abilità nel corso degli anni. Di sicuro l'ha fatto quando era presso gli Stor." S'interruppe. "Mi chiedo se Athabasca se n'è accorto. Anzi, se qualcuno di loro se n'è accorto." "Non è una persona che riveli molto di se stessa. Non vuole che nessuno le si accosti troppo" commentò Kinson, tornando a sporgere il labbro. "Però, sembra davvero nutrire una grande ammirazione per te. Mi ha detto che per lei era molto importante accompagnarti in questo viaggio." Bremen annuì. "Sì, dobbiamo ancora scoprire molti segreti che riguardano Mareth. Tra noi due, dovremo trovare il modo di portarli alla luce." Buona fortuna, avrebbe voluto augurargli Kinson, ma tenne per sé questa
considerazione ironica. Si rammentava della ritrosia di Mareth nell'accettare una piccola cortesia come l'offerta del mantello. Ci sarebbe voluta una serie di avvenimenti davvero speciali, per convincerla a dire qualcosa di se stessa, pensò. E il futuro non riserbava loro niente del genere, vero? Continuò a sedere accanto a Bremen sulla riva del Mermidon, senza parlare, senza muoversi, con lo sguardo perso lontano, al di là della riva opposta. Da qualche cupo recesso della memoria, senza bisogno di invitarle, continuarono ad affacciarsi nella sua mente le immagini di tutto ciò che temeva di incontrare. Si misero in moto all'alba e per tutto il giorno proseguirono il cammino ai piedi dei Denti del Drago, costeggiando il Mermidon. La giornata divenne più calda, la temperatura salì, l'umidità e la calura appesantirono l'aria. Tutti si tolsero i pesanti mantelli da viaggio e bevvero enormi quantità d'acqua. Nel pomeriggio si fermarono alcune volte per riposare, e quando arrivarono al Passo di Kennon era ancora chiaro. Laggiù Tay Trefenwyd li lasciò per proseguire attraverso la pianura fino alle foreste di Arborlon. "Quando troverai la Pietra Nera, Tay, non pensare di poterla usare" lo avvertì Bremen, nel separarsi da lui. "Non usarla per nessuna ragione. Neppure se sarete minacciati. La sua magia è abbastanza forte da poter compiere letteralmente qualsiasi cosa, ma è altrettanto pericolosa. Ogni magia richiede un prezzo per il suo impiego. Lo sai bene quanto me. E il prezzo per l'uso della Pietra Nera è troppo alto." "Potrebbe distruggermi" concluse Tay, precedendolo. "Siamo esseri mortali, tu e io" commentò pacatamente Bremen. "Dobbiamo camminare in punta di piedi, quando si tratta di magia. Il tuo compito consiste nel recuperare la Pietra Nera e portarla a me. Noi non cercheremo di usarla. Vogliamo soltanto impedire al Signore degli Inganni di servirsene. Rammentalo." "Me lo rammenterò, Bremen." "Avverti Courtann Ballindarroch del pericolo. Convincilo a mandare l'esercito in aiuto di Raybur e dei Nani. Non deludermi." "Sarà fado." Il druido degli Elfi gli strinse la mano, la lasciò e si allontanò agitando spavaldo il braccio. "Un'altra memorabile riunione, vero?" salutò. "Tienilo d'occhio, Kinson. Fa' attenzione, Mareth. Buona fortuna a tutti." Fischiettando allegramente, si girò per rivolgere loro un ultimo sorriso. Poi allungò il passo, s'infilò tra gli alberi e le rocce e non lo si vide più. Bremen si fermò ancora per qualche minuto per decidere, con Kinson e Mareth, se proseguire lungo il passo o aspettare il mattino. A quanto pareva, si stava avvicinando un'altra tempesta, ma ad aspettare che il tempo si rasserenasse c'era il rischio di perdere altri due giorni. Kinson vedeva che il vecchio druido era ansioso di proseguire per raggiungere Paranor e scoprire la verità. Erano riposati e pronti a ripartire, perciò propose di continuare. Mareth si associò a lui. Bremen sorrise loro con riconoscenza, e fece segno di proseguire. Giunsero in cima al passo mentre il sole calava dietro l'orizzonte e scivolava via dalla vista. Il cielo rimaneva chiaro, l'aria era tiepida, si camminava senza fatica e riuscirono a fare molta strada. A mezzanotte iniziarono la discesa nella valle settentrionale. Il vento si era alzato, e giungeva ululando da sudovest, senza interruzione, sollevando terra e foglie e formando mulinelli che riempivano l'aria di polvere. Dovettero camminare a testa bassa finché non furono al di sotto della cresta delle montagne e il
vento non perse forza. Davanti a loro, la sagoma scura della rocca dei Druidi era chiaramente visibile sullo sfondo del cielo stellato: torri spoglie e bastioni spezzati. Dalle finestre e dagli spalti non veniva alcuna luce. Né suoni né movimenti turbavano il silenzio del castello. Arrivati in fondo alla valle, la foresta li inghiottì. Luna e stelle rischiararono il loro cammino tra le ombre profonde, li guidarono verso la rocca. La strada era costeggiata da una doppia schiera di alberi antichi e massicci, che torreggiavano sopra di loro come le colonne di un tempio. Di tanto in tanto incontravano radure ammorbidite dall'erba fitta e stretti torrenti. Intorno a loro, la notte era immobile e sonnolenta, e il solo rumore era il fruscio del vento, che si era levato di nuovo e soffiava su di loro sotto forma di brusche folate, scuotendo i mantelli e i rami degli alberi come se fossero lenzuola stese ad asciugare. Bremen continuò a camminare in fretta, senza soste, con un passo che smentiva la sua età e costituiva una sfida per i suoi accompagnatori più giovani. Kinson e Mareth si scambiavano occhiate. Il druido doveva avere fatto appello a una riserva nascosta d'energia. Era diventato duro e resistente come l'acciaio. L'alba non era ancora sorta quando raggiunsero Paranor. Rallentarono il passo giungendo in vista del castello, che parve materializzarsi dai varchi tra gli alberi ed ergere fino alle stelle la sua massiccia sagoma scura. Nonostante la vicinanza, non videro alcuna luce. Bremen fece sostare la guaritrice e il cacciatore della Frontiera in un punto dove le ombre della foresta li nascondevano. In silenzio, con un'espressione impenetrabile, studiò le mura e gli spalti. Poi, procedendo al riparo degli alberi, si portò verso ovest, lungo il perimetro della fortezza. Il vento soffiava lugubre tra i merli e i pinnacoli, e in basso, tra gli alberi, quel suono pareva il respiro di un gigante che si avvicinava. Kinson era madido per la concentrazione, aveva i nervi a fior di pelle, il respiro affannoso. Arrivati alla porta principale, si fermarono di nuovo. I battenti erano aperti, la saracinesca alzata: il passaggio buio e spalancato ricordava vagamente una bocca immobilizzata in un grido d'orrore. A terra, accanto alla porta, c'erano alcuni corpi contorti e senza vita. Bremen sporse la testa in avanti, concentrandosi. Fissava la rocca senza vederla: la sua attenzione era attirata da qualcosa al suo interno. I capelli grigi gli sferzavano la fronte, arruffati come stami di granturco. Muoveva le labbra. Da sotto il mantello, Kinson estrasse la corta spada. Mareth aveva gli occhi dilatati, tutti i muscoli tesi e pronti a scattare. Poi Bremen fece qualche passo avanti; il gruppo attraversò lo spazio vuoto tra la foresta e le mura, lentamente, senza fretta e senza nascondersi. Kinson continuò a guardarsi attorno con apprensione, ma Bremen non pareva preoccupato. Giunti accanto ai morti, si chinarono a esaminarli. Erano guardie, e a giudicare dalle ferite sembrava che fossero state fatte a pezzi da animali feroci. Il terreno su cui giacevano era impregnato del loro sangue. Impugnavano ancora le armi, e molte erano spezzate. Dovevano aver combattuto duramente. Bremen entrò nel passaggio, oltrepassò le porte scardinate e la saracinesca e laggiù trovò Caerid Lock. Il capitano della Guardia era appoggiato con la schiena contro la porta della torre di guardia, aveva la faccia sporca di sangue raggrumato e secco, il corpo trafitto e squarciato da una decina di ferite. Era ancora vivo. Aprì le palpebre e mosse le
labbra. In fretta, Bremen si chinò ad ascoltarlo. Kinson non udì nulla: il vento sovrastava le parole del morente. Il vecchio druido sollevò la testa e chiamò a bassa voce: "Mareth". La fanciulla arrivò subito e si chinò su Caerid Lock. Non c'era bisogno di dirle cosa ci si aspettava da lei. Passò rapidamente le mani sul corpo del morente, cercando qualche modo di aiutarlo. Ma era troppo tardi, neppure la magia empatica poteva salvarlo. Bremen fece segno a Kinson di venirgli accanto, poi gli parlò quasi all'orecchio. Intorno a loro, il vento continuava a soffiare piano, girando attorno alle mura. "Caerid dice che Paranor è stato tradito dall'interno, di notte, mentre tutti dormivano. I responsabili sono tre Druidi. Sono morti tutti, meno quei tre. Il Signore degli Inganni li ha lasciati qui perché si occupassero di noi. Sono nel castello, da qualche parte. Caerid è riuscito a trascinarsi fin qui, ma non è riuscito ad andare oltre." "Non penserai di entrare?" si affrettò a chiedere il cacciatore della Frontiera. "Devo farlo. Devo prendere l'Eilt Druin" rispose Bremen, con durezza. Kinson non l'aveva mai visto così deciso e così in collera. "Tu e Mareth aspettatemi qui." Kinson scosse la testa, con ostinazione. Polvere e minuscoli frammenti gli colpirono la faccia quando una folata di vento s'insinuò nel passaggio. "E' una follia, Bremen! Avrai bisogno del nostro aiuto!" "Se dovesse capitarmi qualcosa, ho bisogno di voi per far sapere a tutti quanto è successo" rispose Bremen, che si rifiutava di cedere. "Fa' come ti dico, Kinson!" In un attimo si rimise in piedi e si allontanò: un fagotto di braccia magre e vesti svolazzanti, che attraversò il cortile per raggiungere la rocca interna. In pochi istanti s'infilò in una porta e scomparve. Kinson lo guardò allontanarsi, con un profondo senso di frustrazione. "Per tutte le ombre!" mormorò, irritato della propria indecisione. Lanciò un'occhiata a Mareth. La giovane donna stava chiudendo gli occhi a Caerid Lock. Il capitano era morto. Era un vero miracolo, pensò Kinson, che fosse sopravvissuto così a lungo. Sarebbe stata sufficiente una delle sue ferite per uccidere all'istante una persona normale. L'essere riuscito a sopravvivere tanto a lungo era una testimonianza della sua forte fibra e della sua volontà. Mareth si era alzata in piedi e fissava il cacciatore della Frontiera. "Vieni" disse. "Dobbiamo seguirlo." Kinson si affrettò ad alzarsi e obiettò: "Ma ha detto di...". "So quello che ha detto. Ma se dovesse capitare qualcosa a Bremen, che differenza vuoi che faccia, se non andiamo a riferirlo agli altri?" Kinson serrò le labbra. "Già, che differenza?" Insieme attraversarono di corsa il cortile vuoto e battuto dal vento, diretti alla rocca. All'interno del castello, Bremen percorse rapidamente i corridoi vuoti, silenzioso come una nuvola in cielo. E mentre passava, esplorò l'ambiente che lo circondava, cercando di cogliere i sapori, gli odori e i rumori di Paranor. Tese ogni senso e ogni istinto verso il misterioso pericolo di cui gli aveva parlato Caerid Lock, cercando di coglierne la presenza e le intenzioni. Ma non riuscì a trovarlo. Evidentemente, o era ben nascosto o non c'era più. Sii cauto, si disse. Sii attento. Tutti gli abitanti del castello erano morti: di questo era certo. Tutti i Druidi, tutte le guardie, tutti coloro che avevano lavorato e studiato laggiù per tanti anni, tutti coloro che si era lasciato alle spalle appena quattro giorni prima. La constatazione fu come un pugno allo stomaco; gli tolse il fiato e la forza, lo lasciò
stordito e incredulo. Tutti morti. Sapeva che poteva succedere, l'aveva giudicato possibile, ne aveva avuto perfino una visione. Ma la realtà era assai peggiore. Dappertutto si scorgevano cadaveri, contorti nell'agonia della morte. Alcuni erano morti di spada. Altri erano stati fatti a pezzi. Altri ancora, comprese, erano stati portati nei livelli più bassi della rocca e sepolti vivi laggiù. E nessuno era sopravvissuto. Nessun battito di cuore gli giunse all'orecchio. Nessuna voce lo chiamò. Nessuna creatura vivente si mosse. Paranor era un mattatoio. Paranor era una tomba. Si fece strada in corridoi dove si udiva soltanto l'eco dei suoi passi e raggiunse la sala del Consiglio. Là trovò Athabasca, con i lineamenti bloccati dalla morte in un'orribile smorfia, il corpo un triste mucchio di carne lacerata. Bremen si chinò a cercare l'Eilt Druin, ma non lo trovò. Si alzò e rifletté. Per la sorte del Grande Druido provava soltanto tristezza e rimpianto. Nel vederlo ora, nel vedere che tutti erano morti e che il castello era vuoto, rimpianse di non avere compiuto altri tentativi, di non essere stato più deciso, quando aveva cercato di convincerli del pericolo. Provò un lacerante senso di colpa. Non poté farne a meno. In un certo senso, la responsabilità dell'accaduto era sua. Lui aveva le conoscenze e i poteri occorrenti per difendere il castello, e non li aveva usati in modo convincente. Quel massacro ne era il risultato. Con il lembo della veste, coprì la faccia di Athabasca, poi si allontanò. Salì alla biblioteca; cauto e attento, nell'attraversare il castello vuoto tenne sempre la schiena alla parete e tese l'orecchio ai suoni che potevano rivelare un pericolo. Il nemico che gli era stato rivelato dalla visione e da Caerid Lock: i Druidi traditori, che lo aspettavano in qualche forma a lui sconosciuta. Certo, ma il Signore degli Inganni se n'era andato, portando con sé i suoi mostri. La magia che si era destata al loro arrivo, la trappola allestita da Bremen nel Pozzo dei Druidi, s'era scossa quanto bastava a impaurirli e convincerli ad abbreviare la permanenza. Concentrandosi, Bremen riusciva ancora a udirlo: il leggero sibilo della magia che era stata riassorbita nel pozzo, la stessa magia che dava vita alla rocca e conferiva potere a gran parte degli incantesimi dei Druidi. Vasta e imprevedibile, concedeva solo una parte di quanto prometteva, e quella parte era così piccola da risultare quasi impercettibile, di fronte al mostruoso potere di Brona. Eppure, quella volta era servita al suo scopo, perché aveva allontanato il druido ribelle. Bremen sospirò. Da una così piccola vittoria non c'era da trarre alcun piacere. Brona si era vendicato, e questo era tutto. Aveva distrutto coloro che l'avevano sconfitto un tempo e che potevano ancora sfidarlo, ne aveva razziato la cittadella. Adesso non c'era nessuno che potesse bloccarlo, tranne un vecchio e un pugno di compagni. Forse. Forse. Entrò nella biblioteca e scorse subito Kahle Rese. Nel vederlo, pianse silenziosamente, incapace di trattenersi. Coprì anche il volto del suo vecchio amico, perché non sarebbe riuscito a posare una seconda volta gli occhi su di lui, poi aprì la porta segreta ed entrò nella stanza dove erano nascoste le Storie dei Druidi. La stanza era vuota, a parte il tavolo di lettura e le sedie, e in terra si scorgeva la polvere che Bremen aveva fornito a Kahle come ultima risorsa: adesso era opaca e senza vita, a testimonianza del fatto che era stata utilizzata come previsto. Per un momento, Bremen cercò di immaginare gli ultimi momenti
di vita dell'amico, ma si accorse di non averne il coraggio. Era sufficiente sapere che le Storie erano al sicuro. Questa constatazione sarebbe servita da epitaffio al suo vecchio amico. In quel momento udì qualcosa: un suono proveniente da un livello molto più basso, e così debole che lo percepì con l'istinto, più che con l'udito. Si affrettò a uscire dalla stanza, perché sentiva che il tempo a sua disposizione all'interno di Paranor stava finendo. Doveva trovare l'Eilt Druin: non gli rimaneva altro. Athabasca non l'aveva al collo e c'era il rischio che gli fosse stato strappato via, ma Bremen non ci credeva. Caerid Lock gli aveva detto che erano stati assaliti di notte, e che non erano preparati. Athabasca doveva essere stato svegliato mentre dormiva: certo non aveva perso tempo a infilarsi il collare col pendente. Probabilmente, l'Eilt Druin era ancora nelle sue stanze. Bremen salì fino allo studio del Grande Druido, silenzioso e muto come uno spettro in mezzo a tutti quei morti. Gli pareva di non avere peso, né sostanza, né presenza, di essere un'entità staccata dal mondo, un pazzo che giocava col fuoco senza sapere come proteggersi dalle inevitabili bruciature. Era stanco, sordo ai suoi precedenti timori per la sorte del mondo. Si era assunto un compito disperato: inventare una magia, forgiare un talismano capace di contenerla, trovare un campione che lo brandisse. Ma che possibilità aveva? che speranze? La porta della stanza di Athabasca era aperta: Bremen entrò con circospezione. Guardò inutilmente negli scaffali e sulla scrivania, controllò anche negli armadietti e tra gli schedari. Poi, temendo di essere arrivato tardi anche per il medaglione, si affrettò a raggiungere la camera da letto del Grande Druido. E laggiù, posato su un tavolino da notte, dimenticato nella concitazione che aveva portato Athabasca dal sonno alla morte, c'era l'Eilt Druin. Bremen lo raccolse e lo esaminò per controllare che fosse reale e non un'immagine magica; il metallo lucido rifletté la luce. Passò le dita sulle figure in rilievo, la mano e la torcia fiammeggiante, poi se l'infilò in una tasca e uscì dalla stanza. Percorse in senso inverso i corridoi e le scale dell'andata, continuando a guardarsi intorno, ad ascoltare, a muoversi con cautela. Se era arrivato fino all'Eilt Druin senza incontrare nessuno, forse poteva evitare coloro che erano stati messi di guardia. Silenzioso come una nube, attraversò i corridoi bui del castello passando in mezzo ai morti, accanto alle ombre che si addensavano negli angoli e ai corpi spinti verso le porte e contro le pareti. Poi notò anche il chiarore che cominciava a diffondersi nel cielo di levante e che si poteva vedere distintamente attraverso i vetri piombati. L'alba era ormai vicina. Bremen inalò l'aria pesante che sapeva di muffa e desiderò il profumo e il sapore della foresta che si stendeva attorno alla rocca. Giunse finalmente allo scalone principale e cominciò a scendere. Era giunto a metà tra due piani, quando colse un movimento sul vasto pianerottolo sotto di lui. Rallentò fino a fermarsi, e attese. Il movimento si ripeté, si staccò dal buio, formò una nuova specie di ombra, una forma diversa. La creatura che apparve era soltanto vagamente umana. Braccia, gambe, torso e testa erano coperte di folto pelo nero, irto e pungente, contorto come rami di rovo, spesso e deforme. Aveva artigli e zanne seghettati che luccicavano come ossa spezzate e occhi in cui brillavano macchie rosse e verdi. La creatura gli sussurrava qualcosa, lo chiamava
e lo supplicava con una disperazione quasi tangibile. Breeemen. Breeemen. Breeemen. Il vecchio druido lanciò rapidamente un'occhiata al pianerottolo superiore, perfettamente visibile dalla sua posizione, e scorse un'altra di quelle creature, immagine speculare della prima, che usciva strisciando dal buio. Breeemen. Breeemen. Breeemen. Entrambe misero il piede sugli scalini: una per salire, l'altra per scendere. L'avevano intrappolato. Non c'erano porte da cui fuggire, occorreva salire o scendere, affrontare una delle due. Avevano aspettato che uscisse, comprese. Avevano lasciato che terminasse quello che doveva fare, che prendesse ciò che gli serviva, poi l'avevano attaccato. Era stato il Signore degli Inganni a preparare la trappola, perché voleva sapere cosa fosse tanto importante da spingerlo a tornare indietro, quale oggetto prezioso, quale formula magica potesse avere tanto valore. Scopritelo, aveva ordinato il Signore degli Inganni, poi strappatelo al suo cadavere e portatelo a me. Bremen guardò prima una e poi l'altra. Un tempo erano Druidi, e adesso mostruosità senza nome. Pazzi omicidi, spogliati della loro umanità e ricostruiti per svolgere un ultimo compito. Era difficile rattristarsi per la loro sorte. Un tempo erano esseri umani, quando avevano tradito la rocca e i suoi abitanti. In quel momento erano sufficientemente liberi da poter scegliere. Ma erano in tre, si rammentò all'improvviso. Dov'era la terza? Avvertito da un sesto senso, da un istinto affilato come un rasoio, guardò in alto proprio mentre il mostro si lanciava su lui, dal suo nascondiglio in una nicchia fra le pietre della parete. Bremen si gettò di lato, e la creatura finì contro gli scalini, con uno schianto secco di ossa spezzate. Però non rinunciò all'attacco. Si alzò in una confusione di zanne e di artigli, stridendo e soffiando, e si lanciò contro di lui. Bremen agì d'istinto, scagliando il Fuoco Magico che gli serviva di difesa, sotto forma di una grande fiamma azzurra che avviluppò la creatura. Neppure quella, però, fu sufficiente a fermare il mostro, che continuò ad avanzare, benché fosse avvolto nella fiamma, i peli che lo coprivano ardessero come una torcia, la pelle crepitasse e si staccasse dal corpo. Stupito che riuscisse ancora a muoversi, spaventato dalla sua vitalità, Bremen colpì di nuovo. Il mostro si lanciò contro di lui, e il druido dovette buttarsi di lato per evitare l'impatto. Cadde sullo scalino, scalciando disperato. Alla fine, anche la vitalità del mostro finì per esaurirsi. Non riuscì più a reggersi e rotolò lungo la scala, per finire nella tromba delle scale e scomparire alla vista. Ne rimase solo un chiarore proveniente dal fondo buio. Bremen si rialzò, dolorante per le scottature e per i graffi. Gli altri due assalitori continuarono ad avvicinarsi lentamente, a piccoli passi, come gatti col topo. Bremen cercò di evocare di nuovo la magia difensiva, ma per proteggersi dal primo assalitore aveva consumato tutte le sue energie. Sorpreso dalla sua ferocia, aveva usato più forza del necessario. Adesso non gliene rimaneva quasi più. Le due creature dovevano averlo capito. Accelerarono l'avanzata, ansimando soddisfatte. Bremen si appoggiò alla parete e le guardò avvicinarsi. In quello stesso momento, Kinson e Mareth scivolavano in silenzio lungo i corridoi della rocca, alla ricerca di Bremen. C'erano morti dappertutto, ma non c'era traccia del vecchio druido. Anche se tendevano l'orecchio e aguzzavano gli occhi, non riuscivano a trovarlo. Kinson cominciava a preoccuparsi. Se c'era
davvero qualche creatura demoniaca dentro la rocca, in attesa degli intrusi, c'era il rischio che li trovasse. Ossia che li trovasse prima di Bremen, e allora il druido sarebbe stato costretto a venire in loro aiuto. O Bremen era già caduto vittima dei suoi nemici, senza fare rumore? Che fosse già tardi? Non avrebbe dovuto permettere a Bremen di allontanarsi da solo! Passarono in mezzo ai corpi delle guardie che avevano tentato l'ultima resistenza lungo la scala principale e proseguirono verso i piani più alti. Non videro nulla. Le scale continuavano a salire, nella penombra, e parevano non avere mai fine. Mareth si teneva contro la parete per vedere meglio quello che le stava davanti, mentre Kinson si guardava alle spalle convinto che un eventuale attacco sarebbe arrivato da quella direzione. Aveva le mani e la faccia madidi di sudore. Dov'è Bremen? Poi, sopra di loro, qualcosa si mosse: una leggera variazione della luce, uno spostamento di ombre. Kinson e Mareth s'immobilizzarono. Uno strano gemito arrivò fino a loro. Breeemen. Breeemen. Breeemen. Si scambiarono un'occhiata, poi ripresero a salire. Qualcosa piombò sulle scale, sopra di loro: un corpo pesante, ancora troppo lontano perché si potesse vederlo, ma abbastanza vicino per immaginarlo. Un lampo di fuoco azzurro brillò nel buio. Echeggiò un gemito, seguito da un tonfo sordo. Qualche istante più tardi, una palla di fuoco precipitò nella tromba delle scale e passò davanti a loro: una creatura vivente, anche se ormai le rimaneva poco da vivere. Contorcendosi per il dolore, si schiantò sul pavimento, sotto di loro. Lasciando da parte ogni cautela, Mareth e Kinson si lanciarono per le scale e dopo qualche istante scorsero Bremen, sulla rampa più alta, intrappolato fra due orrende creature che si dirigevano verso di lui dall'alto e dal basso. Il vecchio druido era ustionato, insanguinato e chiaramente allo stremo delle forze. Il Fuoco Magico ardeva sulla punta delle sue dita, ma si rifiutava di accendersi. Le due creature che lo attaccavano se la prendevano comoda. Tutti e tre si voltarono con stupore nell'udire il cacciatore della Frontiera e la fanciulla avvicinarsi. "No, no! Tornate indietro!" gridò Bremen, nel vederli. Ma invece di ascoltarlo, Mareth raggiunse il pianerottolo più basso con uno scatto prodigioso, lasciando dietro di sé l'esterrefatto Kinson. Posò saldamente i piedi in terra e si abbassò, simile a una molla che si prepara a scattare. Sollevò le braccia e tese le mani, con il palmo verso l'alto come a chiedere aiuto al cielo. Kinson esalò il respiro, costernato, e cercò di raggiungerla. Cosa le era venuto in mente? Il mostro più vicino alla giovane donna soffiò minacciosamente, si girò su se stesso e si gettò su di lei, scendendo gli scalini con la velocità del pensiero, gli artigli pronti a colpire. Kinson gridò per la disperazione. Era troppo lontano! Poi Mareth parve esplodere. Ci fu uno schianto impressionante, che echeggiò nello spazio ristretto, e l'onda d'urto sbatté Kinson contro la parete. Non riuscì più a vedere Mareth, né Bremen, né i mostri. Dal punto dove si trovava la fanciulla partì una saetta, un fulmine azzurro incandescente che raggiunse la creatura più vicina e la fece a pezzi. Poi colpì la seconda, che stava ormai per raggiungere Bremen, e la spazzò via come una foglia trascinata dal vento. La creatura lanciò un grido di terrore e venne consumata dal fuoco, ma la fiamma non si spense ancora, e lambì le pietre delle pareti e delle scale, divorando l'aria e trasformandola in fumo. Kinson si
riparò gli occhi con una mano e si sforzò di alzarsi. Il fuoco si spense, sparì in un istante. Rimase solo il fumo: una spessa nube scura che invadeva l'intera scala. Kinson salì di corsa gli ultimi scalini e trovò Mareth svenuta sul pianerottolo. La sollevò e prese tra le braccia la sua forma inerte. Cosa le era successo? Cosa aveva fatto? Era leggera come una piuma, il suo piccolo viso era pallido e sporco di fuliggine, i suoi corti capelli neri erano una sorta di casco bagnato attorno alla sua faccia. Gli occhi erano semichiusi e fissi. Attraverso la fessura delle palpebre, vide che erano bianchi. Accostò la faccia alla sua e non riuscì a percepìre il respiro. Non riuscì a sentire neppure il battito del polso. Materializzandosi dalla foschia, scarmigliato e con gli occhi di un pazzo, Bremen comparve all'improvviso davanti a lui. "Portala via di qui!" gridò. "Ma non credo che sia in grado..." cercò di protestare il cacciatore della Frontiera. "Svelto, Kinson!" tagliò corto Bremen. "Subito, se vuoi che si salvi, portala fuori dal castello! Va'!" Kinson si volse, senza fare parola, e corse giù per le scale, con Mareth tra le braccia. Lo seguiva Bremen, in un turbinio di vesti stracciate. Scesero fino al cortile della rocca, incespicando, tossendo e soffocando per il fumo, con gli occhi che lacrimavano. Poi Bremen udì una sorta di basso brontolio nelle profondità della terra. Era il rumore di qualcosa che si svegliava, una cosa enorme e rabbiosa, talmente vasta da risultare inimmaginabile. "Corri!" incitò ancora una volta Bremen, anche se l'invito era superfluo. Insieme, l'uomo della Frontiera e il druido lasciarono il buio e il fumo della morta Paranor per raggiungere la luce del giorno e la vita. Parte seconda. LA RICERCA DELLA PIETRA NERA DEGLI ELFI. 8 Dopo avere lasciato Bremen, Tay Trefenwyd proseguì verso ovest lungo il Mermidon, attraversando i monti che costituivano il braccio meridionale dei Denti del Drago. Al tramonto si accampò al loro riparo, e allo spuntar del giorno riprese il viaggio. La nuova giornata prometteva di essere chiara e tiepida: nella notte, il vento aveva ripulito l'aria di ogni traccia di nuvole, il sole era abbagliante. L'elfo lasciò le ultime alture ai piedi dei monti, raggiunse le pianure erbose sotto le Streleheim e si preparò ad attraversarle. Davanti a sé riusciva già a scorgere le foreste della Terra dell'Ovest e, al di là di quelle, le Montagne dello Sperone Roccioso, con le vette coperte di bianco. Arborlon distava una giornata di marcia; Tay camminò senza affrettarsi, con i pensieri rivolti a quanto era successo dal ritorno di Bremen a Paranor. Tay Trefenwyd era amico del vecchio druido da quindici anni, addirittura da prima di Risca. L'aveva conosciuto a Paranor, quando ne faceva ancora parte e lui era appena arrivato da Arborlon come apprendista druido. Bremen era già vecchio a quel tempo, ma aveva un carattere più ostinato e una lingua assai più tagliente di oggi. A quell'epoca era una fiaccola che bruciava di verità evidenti per lui, ma incomprensibili per tutti gli altri. I Druidi di Paranor non gli davano retta e lo giudicavano un po' pazzo. Soltanto Kahle Rese e pochi altri attribuivano un grande valore alla sua amicizia e ascoltavano con
pazienza i suoi discorsi; gli altri, in generale, cercavano di evitarlo. Non Tay, però. Dal momento che l'aveva conosciuto, l'elfo ne era rimasto affascinato. Ecco una persona che giudicava importante, addirittura indispensabile, fare qualcosa di concreto per i problemi delle Quattro Terre, invece di limitarsi alle chiacchiere. Non bastava studiare e discutere, occorreva anche agire. Bremen pensava che l'originaria politica dei Druidi fosse la migliore, che il Primo Consiglio fosse nel giusto, quando si era votato al progresso delle Razze. Il disimpegno era un errore, destinato a costare caro a tutti. Tay capiva perfettamente queste posizioni e ne era convinto. Al pari di Bremen, studiava le antiche leggende, le conoscenze delle creature di Faerie, gli impieghi della magia nel mondo che aveva preceduto le Grandi Guerre. Al pari di Bremen era convinto che un potere corrotto fosse doppiamente mortale e che il druido ribelle Brona vivesse sotto un'altra forma e intendesse ritornare per sottomettere le Quattro Terre. Erano opinioni pericolose e impopolari, e alla fine erano costate a Bremen il posto fra i Druidi. Ma prima di essere bandito, aveva fatto di Tay un alleato. Tra i due si era subito stretto un forte legame e il vecchio aveva preso il giovane come allievo: per lui era stato un insegnante con un corpo di conoscenze così vasto da sfidare qualsiasi catalogazione. Tay eseguiva i compiti e completava gli studi assegnati a lui dal Consiglio e dagli anziani della sua Razza, ma il suo tempo libero e il suo entusiasmo li serbava quasi esclusivamente per Bremen. Benché in contatto fin dalla giovinezza con la storia e le leggende della loro razza, in genere gli Elfi di Paranor, quelli che erano entrati nell'ordine dei Druidi, non erano aperti come Tay alle possibilità suggerite da Bremen. Del resto, pochi di loro possedevano un talento altrettanto grande. Tay aveva cominciato a sviluppare le sue abilità magiche ancor prima di arrivare a Paranor, e sotto la guida di Bremen era progredito così rapidamente da superare tutti, tolto il suo mentore. Neppure Risca, dopo il suo arrivo, aveva raggiunto il livello di Tay, forse perché era troppo legato alle sue arti marziali per accettare fino in fondo l'idea che la magia fosse un'arma ancor più potente. I suoi primi cinque anni al castello erano stati i più ricchi di emozioni per il giovane elfo e il suo pensiero era stato irrevocabilmente plasmato da quanto aveva appreso allora. Aveva dovuto tenere segrete gran parte delle sue capacità e delle sue conoscenze, a causa del divieto dei Druidi di coltivare le arti magiche, tranne che come studio astratto. Per Bremen, quel divieto era una sciocchezza, un frutto dell'ignoranza, ma le sue idee erano sempre minoritarie; e tutto, a Paranor, era retto dalle decisioni del Consiglio. Di conseguenza, Tay aveva studiato per conto suo le pratiche che Bremen gli aveva insegnato, le aveva tenute in grande considerazione e non ne aveva parlato ad altri. Quando Bremen era stato esiliato e aveva deciso di recarsi tra gli Elfi per proseguire laggiù i suoi studi, Tay si era offerto di accompagnarlo, ma il druido non aveva accettato. Non gliel'aveva proibito, ma gli aveva chiesto di riflettere. Anche Risca avrebbe voluto accompagnarlo, ma Bremen aveva voluto affidare a entrambi un compito più importante. Restate a Paranor, siate i miei occhi e le mie orecchie. Perfezionate le vostre capacità magiche e cercate di convincere gli altri Druidi della realtà del pericolo. Quando sarà il momento di lasciare il castello, verrò a prendervi. E Bremen
aveva mantenuto la parola, cinque giorni addietro: Tay, Risca e la giovane Mareth erano riusciti a fuggire in tempo. Gli altri, tutti quelli che l'elfo e il nano avrebbero dovuto convincere, tutti quelli che avevano dubitato di Bremen e l'avevano disprezzato, con molta probabilità non s'erano salvati. Naturalmente, Tay non poteva saperlo con certezza, ma sentiva in cuor suo che la visione di Bremen riguardava fatti ormai accaduti. Sarebbero passati alcuni giorni prima che gli Elfi potessero accertarsene, ma Tay era convinto che tutti i Druidi fossero morti. In qualsiasi caso, la partenza con Bremen significava la fine della sua permanenza a Paranor. Vivi o morti che fossero gli occupanti della rocca, per il momento non vi sarebbe tornato. Il suo posto era fuori di lì, nel mondo, a svolgere i compiti assegnatigli da Bremen per la sopravvivenza delle Razze. Il Signore degli Inganni era uscito allo scoperto, si era rivelato a coloro che avevano occhi per vedere e istinti da ascoltare, e si dirigeva a sud. La Terra del Nord e i Troll erano già suoi, e adesso avrebbe cercato di sottomettere le altre Razze. Ciascuno di loro - Bremen, Risca, Mareth, Kinson Ravenlock e lui aveva la responsabilità di fermarlo. Ciascuno doveva resistere e lottare sul terreno assegnato. A lui era toccata la Terra dell'Ovest, la sua casa. Vi faceva ritorno per la prima volta dopo quasi cinque anni. In quel periodo i suoi genitori erano invecchiati. Il fratello più giovane si era sposato e si era trasferito nel Sarandanon. Alla sorella era nato un secondo figlio. Molte cose erano cambiate durante la sua assenza e avrebbe trovato un mondo diverso da quello che aveva lasciato. E, soprattutto, altri cambiamenti sarebbero venuti con le notizie da lui portate: cambiamenti assai superiori a quelli avvenuti in sua assenza, e molti non li avrebbero accolti con piacere. Non gli avrebbero certamente dato il benvenuto, una volta al corrente del motivo del suo ritorno. Avrebbe dovuto affrontare la situazione con cautela, scegliere bene gli amici e gli alleati. Ma Tay Trefenwyd era sempre stato abile in questo. Era una persona semplice e affabile, che sapeva comprendere i problemi degli altri e aveva sempre fatto del suo meglio per aiutare tutti. Non era polemico come Risca, né ostinato come Bremen. A Paranor era amato da tutti, nonostante il sodalizio con gli altri due. Tay era guidato da salde convinzioni e da una forte etica del lavoro, ma non si era mai proposto come un esempio da seguire. Accettava le persone com'erano, scoprendone i lati positivi e trovando il modo di usarli. Neppure Athabasca aveva mai litigato con lui: vedeva in lui ciò che sperava ci fosse anche nei suoi facinorosi amici. Tay aveva mani grandi, forti come il ferro, ma cuore gentile. Nessuno si era mai sognato di scambiare la sua gentilezza per debolezza, e lo stesso Tay faceva in modo che non ci fossero equivoci. Sapeva quando era il momento di resistere e quando era meglio cedere. Era sempre stato abilissimo nel conciliarsi le simpatie e nel trovare compromessi, e nei giorni seguenti avrebbe dovuto fare appello a queste sue capacità. Ripassò l'elenco di quello che doveva fare, riflettendo sulle sue varie incombenze, a una a una. Doveva convincere il re, Courtann Ballindarroch, a organizzare una spedizione per cercare la Pietra Nera degli Elfi. Doveva convincere il re a inviare l'esercito in soccorso dei Nani. Doveva fargli capire che la situazione era tale da stravolgere le Quattro Terre in modo irrevocabile. Continuò a camminare nella prateria pensando a quali potessero essere quei
cambiamenti, puntando a nordovest, verso le foreste che costituivano la frontiera della sua terra, sorridendo tra sé e fischiettando un motivetto. Non sapeva ancora come avrebbe fatto per ottenere quei risultati, ma la cosa non aveva importanza. Un modo l'avrebbe trovato. Bremen contava su di lui e Tay non intendeva deluderlo. Le ore del giorno trascorsero lente e il sole sparì dietro i lontani monti dell'Ovest. Tay lasciò il Mermidon quando giunse ai margini della foresta, ai piedi del Pykon: di lì si diresse a nord. Poiché era già buio e non riusciva a vedere lontano, si mantenne sotto la protezione degli alberi mentre proseguiva il cammino e si affidò alle sue capacità di druido. Tay era un esperto di forze elementari, uno studioso dei modi in cui la magia e la scienza interagivano nell'equilibrio delle quattro componenti del mondo naturale: terra, aria, fuoco e acqua. Comprendeva bene la loro simbiosi, il modo in cui operavano insieme per creare e promuovere la vita, o si proteggevano reciprocamente quando erano disturbate. Tay aveva studiato le regole per trasformare un elemento nell'altro, per annullarli o per crearli. Nel suo rapporto con le forze elementari era diventato estremamente specifico: nel modo in cui gli elementi risultavano disturbati, era in grado di leggere i moti degli oggetti e di scoprire la presenza delle persone. Riusciva anche a leggere nel pensiero. A grandi linee, riusciva a ricostruire la storia e a proiettarla nel futuro per ottenere previsioni, cosa alquanto diversa dalle visioni, perché non comportava alcun legame con il mondo dei morti o con il piano spirituale, ma dipendeva soltanto dalle leggi terrestri, dalle linee di forza che avvolgevano il mondo e legavano tra loro tutte le cose con rapporti di azione e reazione, causa ed effetto, scelte e conseguenze. Una pietra lanciata in uno stagno produce un'onda che si allarga a tutta la superficie e lo stesso effetto viene prodotto da qualunque evento che alteri gli equilibri del mondo. Per quanto l'evento sia piccolo, produce un cambiamento. Tay aveva imparato a leggere quei cambiamenti e a interpretarne il significato. Così ora, mentre attraversava la foresta ammantata dal buio della notte, osservando la direzione del vento, gli odori ancora presenti sulle foglie e le vibrazioni che increspavano la superficie della terra, sapeva che un nutrito gruppo di Gnomi era passato di lì e che adesso sostava in qualche punto della foresta, davanti a lui. Proseguendo nel cammino, la percezione della loro presenza divenne sempre più forte. S'infilò dove la vegetazione era più folta, tese i sensi per cogliere la loro presenza, e di tanto in tanto sondò la terra alla ricerca di una traccia di calore del loro corpo: nel farlo, la magia di cui si serviva prendeva la forma di sottili scie incorporee, simili a fumo o a piume leggerissime, che gli si formavano nel petto per uscirgli infine dalle punte delle dita. Poi rallentò il passo fino a fermarsi, perché aveva percepìto qualcosa di nuovo. In attesa di riconoscerne la natura, si mantenne perfettamente immobile. Sentì un gelo profondo, un inconfondibile avvertimento di ciò che si avvicinava, e pochi istanti più tardi lo vide comparire in volo sopra di sé, a malapena visibile tra il fogliame. Era un cacciatore alato, uno dei Messaggeri del Teschio che servivano il Signore degli Inganni. Volava lento e pesante sullo sfondo nero della notte, alla ricerca di qualcosa, anche se non di una preda in particolare. Tay si impose di rimanere fermo, di resistere all'impulso
di fuggire, e calmò le proprie emozioni perché la creatura non le scoprisse. Il Messaggero del Teschio descrisse un ampio cerchio, fece ritorno su Tay e la sua forma alata occultò nuovamente il chiarore delle stelle. Tay rallentò il respiro, il battito del cuore, i pensieri, in modo da scomparire nel buio e nell'immobilità della foresta. Infine il mostro alato si allontanò, diretto a nord. Per unirsi alle creature ai suoi ordini, pensò Tay. Non era un buon segno che i servitori del Signore degli Inganni si fossero spinti così a sud, fin quasi a sfiorare il regno degli Elfi. Faceva pensare che non considerassero più un pericolo la presenza dei Druidi e che fosse ormai imminente quell'invasione che Bremen prevedeva da anni. Trasse un profondo respiro e aspettò qualche istante prima di esalarlo. E se Bremen si fosse sbagliato, e l'invasione non fosse diretta contro i Nani, bensì contro gli Elfi? Rifletté su questa eventualità mentre proseguiva e continuava a cercare gli Gnomi. Li trovò venti minuti più tardi, accampati ai margini dei Boschi Grigi. Non c'erano fuochi ed erano state piazzate sentinelle ogni poche decine di passi. In alto il Messaggero del Teschio continuava a descrivere grandi cerchi. Sembrava che preparassero un'incursione, ma Tay non riusciva a immaginare contro chi. Non c'erano molti luoghi da assalire, così vicino alle pianure, a parte qualche fattoria isolata, e quegli intrusi non si sarebbero certo scomodati per così poco. Comunque, era assai preoccupante trovare Gnomi dell'Est, per di più accompagnati da un Messaggero del Teschio, così a occidente e così vicini ad Arborlon. Tay si avvicinò fino a poterli vedere chiaramente, e li spiò per qualche tempo per cercare di capire qualcosa, ma non riuscì a scoprire nulla, perciò li contò con cura e si allontanò. Rifece in senso inverso il cammino dell'andata finché non fu a distanza di sicurezza, trovò una macchia di abeti ben riparata, strisciò sotto i rami del più frondoso e si addormentò. Quando si svegliò era già mattino e gli Gnomi erano ripartiti. Dal suo nascondiglio, controllò accuratamente che non ne fossero rimasti, poi uscì e si diresse al loro accampamento. Le tracce si addentravano nei Boschi Grigi. Il Messaggero del Teschio era con loro. Si chiese se fosse il caso di seguirli, poi decise di no. In quel momento aveva già troppe incombenze, e non era il caso che ne aggiungesse un'altra. Inoltre, dove c'era un gruppo di armati potevano essercene altri ed era importante avvertire gli Elfi della loro presenza, il più rapidamente possibile. Così, Tay proseguì a nord, mantenendosi sotto la protezione degli alberi, e procedendo con lunghe falcate che divoravano le distanze. Prima di mezzogiorno raggiunse la Valle di Rhenn e piegò a ovest, lungo il suo ampio corridoio naturale. Quella valle era la porta che conduceva ad Arborlon e all'Occidente, e certo gli Elfi avevano disposto qualche pattuglia alla sua imboccatura. Nella parte più a est, il terreno era molto invitante, una dolce distesa d'erba fra due catene di basse colline, ma presto la valle si restringeva, il terreno saliva rapidamente, e le colline si alzavano fino a diventare alte rupi a strapiombo. Quando si arrivava all'estremità occidentale, si scopriva di trovarsi in mezzo a una morsa. La Valle di Rhenn offriva agli Elfi una difesa naturale contro un nemico proveniente dall'est. Poiché tanto a nord quanto a sud il terreno era montuoso e coperto di folte foreste, quella valle era la sola via che consentisse a un esercito di una certa consistenza di
entrare o uscire dalla Terra dell'Ovest. Naturalmente, era sempre ben controllata e Tay si aspettava che qualcuno lo intercettasse. Non dovette aspettare molto. Era a metà del corridoio verde della valle quando un drappello di Elfi a cavallo uscì al galoppo dal passo per dargli l'"alto là", ma tirarono le redini e lo salutarono a gran voce non appena lo riconobbero. Quei cavalieri erano suoi vecchi amici e lo accolsero con calore. Gli diedero un cavallo e lo accompagnarono al loro campo, sul passo; lassù, il comandante mandò un messaggero ad Arborlon per dare la notizia del suo arrivo. Tay riferì di aver visto gli Gnomi, ma non fece parola del Messaggero del Teschio, perché voleva dare l'informazione direttamente a Ballindarroch. Il comandante, che non aveva ricevuto alcun rapporto, mandò subito alcuni cavalieri a sud in perlustrazione. Poi fece portare da mangiare e da bere per Tay e gli tenne compagnia mentre consumava il pasto, rispondendo alle sue domande su Arborlon e aggiornandolo sugli avvenimenti di cui gli chiedeva notizia. Il comandante parlava con tranquillità, senza soffermarsi molto sui vari eventi. Sì, era giunta voce di qualche movimento dei Troll sulle Streleheim, ma niente di sicuro, e certo così a sud non se n'erano visti. Tay non gli parlò del Signore degli Inganni né di Paranor, e quando ebbe terminato il pasto chiese di proseguire il cammino. Il comandante gli offrì un cavallo e due uomini di scorta; lui accettò la prima offerta, declinò la seconda e ripartì subito. Nel tragitto fino ad Arborlon, rifletté su quanto aveva appreso. Voci, niente di concreto. Spettri e ombre. Il Signore degli Inganni era inafferrabile come il fumo, ma Tay aveva visto il Messaggero del Teschio e gli Gnomi, e Bremen aveva visto Brona nella sua fortezza del Nord, ed erano assai reali. Bremen pareva certo di quanto stava per succedere, e spettava a Tay convincere gli Elfi di questo. La strada da lui presa si snodava serpeggiando nelle foreste dell'Ovest, aggirava le macchie più fitte e gli alberi più grandi, evitava i laghetti e i ruscelli, saliva e scendeva a seconda della conformazione del terreno. Il sole illuminava a chiazze la foresta, colorando di strisce chiare i tronchi degli alberi e i prati fioriti, insinuando lunghe dita di luce in mezzo alle ombre. Come bandiere e stendardi, parevano voler salutare il ritorno di Tay Trefenwyd. In risposta, l'elfo si sfilò il mantello e sentì il sole scendergli come una calda coperta sulle ampie spalle. Lungo la strada incontrò altri viandanti, uomini e donne che si spostavano tra i vari villaggi, mercanti e artigiani che andavano al lavoro. Alcuni lo salutarono, altri si limitarono a guardarlo. Ma tutti erano Elfi, e ormai da molto tempo Tay non si trovava fra la propria razza. Gli faceva una strana impressione: tante persone simili a lui, e nessuna diversa. Era ormai nei pressi di Arborlon, nelle ore calme e lente di metà pomeriggio, e il calore della giornata primaverile cominciava a pesare su di lui anche sotto gli alberi della foresta, quando scorse davanti a sé un cavaliere. Il nuovo venuto uscì da una macchia di luce in cima a un'altura e si lanciò verso di lui al galoppo, con il mantello che frustava l'aria e i capelli al vento. Agitò vigorosamente un braccio in segno di saluto e lanciò un grido di benvenuto. Tay lo riconobbe subito, sorrise e sollevò il braccio per salutare a sua volta, spronando il cavallo. I due si incontrarono in mezzo a una nube di polvere, tirarono le redini e balzarono a terra per correre ad abbracciarsi. "Sei proprio
Tay Trefenwyd, quant'è vero che sono vivo!" Il nuovo venuto prese per le braccia l'alto e allampanato Tay e lo sollevò come un bambino, facendolo dondolare un paio di volte e posandolo poi a terra con un brontolio. "Per tutte le ombre!" esclamò. "Non fai altro che mangiare, quando sei via! Pesi come un cavallo!" Tay strinse la mano al suo migliore amico. "Non sono stato io a diventare pesante, ma tu a diventare fiacco! Perdigiorno!" L'altro gli strinse la mano ancora più forte. "Bentornato. Mi sei mancato!" Tay fece un passo indietro, per guardarlo bene. Come per tutti coloro che aveva lasciato ad Arborlon, erano passati cinque anni dall'ultima volta che l'aveva visto. E Jerle Shannara era la persona che gli era mancata maggiormente, ancor più dei suoi familiari. Era il suo più vecchio amico, il suo compagno inseparabile quando erano due ragazzi che crescevano insieme nelle Terre dell'Ovest, la sola persona a cui potesse raccontare tutto di sé, la sola a cui avrebbe affidato la propria vita. Il legame tra loro si era formato presto ed era sopravvissuto perfino agli anni di separazione, quando Tay era andato a Paranor e Jerle era rimasto ad Arborlon. Essendo cugino primo del re Courtann Ballindarroch, era destinato fin dalla nascita a servire il trono. Jerle Shannara era un guerriero nato. Di statura imponente per un elfo, robusto di corpo e di braccio, dotato di riflessi veloci come quelli di un gatto nonostante la taglia, con gli istinti del lottatore. Si addestrava alle armi fin da quando aveva mosso i primi passi, era innamorato della lotta, affascinato dalle emozioni e dalla sfida della battaglia. Ma in lui c'era assai più della forza bruta e del fisico imponente. Era intelligente. Era astuto. Era un avversario implacabile. La sua dedizione al lavoro era prodigiosa. Da se stesso pretendeva sempre il massimo, indipendentemente dall'importanza del compito e dalla presenza di testimoni. Ma, soprattutto, Jerle Shannara non sapeva cosa fosse la paura. Era qualcosa nel suo sangue, o nel modo in cui era cresciuto, o forse in entrambi, ma a memoria di Tay non era mai indietreggiato davanti a nulla. Formavano una strana coppia, rifletté ora Tay. Simili di statura e aspetto, tutt'e due più alti della media, biondi e snelli, cresciuti con grandi aspettative delle rispettive famiglie, erano però completamente diversi. Tay non si scaldava mai e cercava sempre di comporre le situazioni difficili; Jerle era pronto a montare in collera e a polemizzare con tutti, e - in un modo che poteva risultare assai irritante - non era mai disposto a cedere in una discussione. Tay era cerebrale, affascinato dai problemi complessi e dagli enigmi che sfidano e confondono l'intelligenza; Jerle era fisico e preferiva le gare e la lotta, si fidava della rapidità di decisione e dell'intuito. Tay aveva sempre pensato di andare a studiare presso i Druidi di Paranor; Jerle aveva sempre aspirato a diventare capitano della Guardia Reale, il gruppo scelto dei Cacciatori degli Elfi che proteggeva il re e la sua famiglia. Erano due personalità assai diverse, con interessi e aspirazioni lontanissimi tra loro, ma qualcosa, nella loro natura, li legava al pari di un vincolo di sangue o di un dettato del destino. "Così, sei tornato" commentò Jerle, lasciando Tay per fare un passo indietro. Con una mano massiccia si ravviò i capelli biondi e ondulati e rivolse all'amico un sorriso impertinente. "Hai messo finalmente un po' di buon senso? Quanto ti fermerai?" "Non lo so, ma certo non tornerò a Paranor. La situazione è cambiata." Jerle non
sorrise più. "Davvero? Raccontami tutto." "Ogni cosa a suo tempo, e lasciami fare a modo mio. Sono qui per uno scopo ben preciso. Mi manda Bremen." "Allora si tratta di qualcosa di serio." Jerle aveva conosciuto il vecchio druido ad Arborlon. S'interruppe per un istante, poi chiese: "Riguarda l'entità chiamata Signore degli Inganni?". "Sei sempre stato svelto. Sì, proprio quella. Sta marciando a sud con un esercito, per attaccare i Nani. Lo sapevi?" "Si parla di movimenti dei Troll nelle Streleheim. Pensavamo che potessero venire contro di noi." "Prima contro i Nani, poi contro di voi. Devo convincere Courtann a mandare l'esercito in appoggio ai Nani. Mi servirà il tuo aiuto, penso." Jerle Shannara tirò le redini. "Togliamoci dalla strada e mettiamoci all'ombra per parlare. Ti dispiace se non proseguiamo subito per la città?" "No. Anch'io preferisco parlare con te, prima." "Bene. Sai che, tutte le volte che ti vedo, assomigli sempre di più a tua sorella?" Scesero a terra e portarono i cavalli in mezzo agli alberi, legandoli a un giovane frassino. "Lo dicevo per farti un complimento." "Certo." Tay sorrise. "Come sta?" "Contenta, sistemata, felice della sua famiglia" rispose Jerle, guardandolo con una punta di rammarico. "Se l'è cavata bene anche senza di me, dopotutto." "Kira non era fatta per te. Lo sai anche tu. Pensa a come vivi tu, e poi chiediti che peso potresti avere nella sua vita. E lei, che peso potrebbe avere nella tua? Non avete niente in comune, tranne il fatto di essere cresciuti insieme." Jerle sbuffò irritato. "Questo vale anche per noi due, ma la nostra amicizia non è cambiata." "L'amicizia non è il matrimonio. Per noi è diverso." Tay si sedette sull'erba, incrociando le lunghe gambe. Jerle si accomodò su un ceppo consumato dal tempo e dalle intemperie e si fissò gli stivali come se non li avesse mai visti prima. Le sue mani abbronzate erano coperte da una fitta rete di cicatrici bianche e di piccole scalfitture rosse. A quanto ricordava Tay, erano sempre state così. "Sei sempre capitano della Guardia Reale?" chiese. Jerle scosse la testa. "Mi considerano troppo importante per quell'incarico. Adesso sono il consigliere di Courtann per le questioni militari. Di fatto il suo generale, quello che trova i difetti nelle proposte dei generali veri. Non che la cosa abbia molta importanza, visto che non siamo in guerra. Ma la situazione potrebbe cambiare, vero?" "Bremen pensa che il Signore degli Inganni tenterà di sottomettere tutte le Razze, a cominciare dai Nani. Il suo esercito di Troll è molto potente. Se le Razze non si uniscono per affrontarlo, saranno sopraffatte, una alla volta." "Ma i Druidi non lo permetteranno. Anche se la loro organizzazione è ormai morente - senza offesa per te, Tay - non se ne staranno certo con le mani in mano..." "Bremen pensa che Paranor sia caduto e che i Druidi siano stati distrutti." Jerle Shannara si irrigidì leggermente e serrò le labbra nell'apprendere la notizia. "Quando è successo? Non ne abbiamo saputo nulla." "Un paio di giorni fa, non di più. Bremen è tornato a Paranor per accertarsene, ma intanto ha mandato me ad Arborlon, perciò non sono sicuro dell'accaduto. Sarebbe utile che tu mandassi qualcuno a controllare, prima che io parli al re. Una persona di cui ci si possa fidare." "Lo farò." Jerle scosse lentamente la testa. "Tutti i Druidi sono morti? Tutti?" "Tutti tranne Bremen, me stesso, un nano chiamato Risca e una giovane donna di Storlock che era ancora apprendista. Abbiamo lasciato Paranor insieme, prima dell'attacco. Forse qualcun
altro è fuggito dopo di noi." Jerle gli rivolse un'occhiata penetrante. "E così, sei tornato per avvertirci, per informarci della caduta di Paranor e chiedere aiuto contro il Signore degli Inganni e il suo esercito di Troll?" "Sì, e per un'altra cosa. Una cosa molto importante. E' qui, soprattutto, che mi occorre il tuo aiuto, Jerle. C'è una Pietra Nera degli Elfi, un talismano di grande potere. Questa Pietra è più pericolosa di ogni altra, ed è nascosta nelle Terre di Confine fin dai tempi di Faerie. Bremen ha scoperto qualche indizio sul luogo dove la si può trovare, ma la cercano anche il Signore degli Inganni e le sue creature. Dobbiamo trovarla per primi. Intendo chiedere al re di organizzare una spedizione. Ma lui potrebbe essere più disposto a farlo se la richiesta venisse date." Jerle rise: una risata forte, sonora. "Ah, tu pensi questo? Che possa aiutarti? Se fossi in te, non mi farei vedere in mia compagnia! Ultimamente, ho pestato un paio di volte i piedi a Courtann, e non credo che mi abbia molto nelle sue simpatie, in questo periodo. Oh, il re ascolta i miei consigli sui movimenti delle truppe e sulle strategie difensive, ma non di più!" Smise di ridere e si asciugò gli occhi. "Be', farò quel che potrò." Ridacchiò. "Tu rendi interessante la vita, Tay. E' sempre stato così." Tay sorrise. "E' la vita a rendersi interessante da sola. Come te, io sono soltanto di passaggio." Jerle tese il braccio: i due amici si scambiarono un'altra stretta di mano, che questa volta si protrasse a lungo. Tay sentì la grande forza del compagno e gli parve di potervi attingere un po' della sua. Senza staccare la mano, si alzò in piedi costringendo anche Jerle ad alzarsi. "Meglio partire" disse. L'altro annuì, e gli sorrise con orgoglio e sicurezza, ma anche con una certa ironia. "Tu e io, Tay" gli disse. "Noi due, come una volta. Ci sarà da divertirsi." Naturalmente intendeva dire qualcosa di assai diverso, e Tay Trefenwyd l'aveva capito. 9 Quando fu giunto ad Arborlon, Tay trascorse qualche giorno in visita a parenti e amici, mentre aspettava con impazienza di ricevere da Jerle Shannara la conferma della caduta di Paranor. Nel separarsi da lui, l'amico gli aveva assicurato che un esploratore sarebbe partito subito, per andare a controllare la fondatezza dei sospetti di Bremen. Al suo ritorno, avrebbe fatto avere a Tay un'udienza con il re degli Elfi, Courtann Ballindarroch, e con il Gran Consiglio: in quell'occasione Tay avrebbe potuto chiedere aiuto per i Nani e per organizzare la ricerca della Pietra Nera. Jerle aveva promesso di appoggiare le sue richieste. Per il momento, comunque, nessuno dei due avrebbe parlato dell'accaduto o adottato altre misure. L'inattività era assai pesante per Tay, che ricordava perfettamente l'urgenza con cui Bremen gli aveva chiesto di rivolgersi a Ballindarroch per avere aiuto. Gli pareva di udire la voce del vecchio druido ogni volta che un ciottolo scricchiolava sotto i suoi stivali, o sentiva parlare qualche sconosciuto senza poterlo vedere, e perfino in sogno. Ma Bremen non comparve e non fece avere notizie, e Tay sapeva che era inutile parlare senza disporre di notizie certe sulla sorte di Paranor. L'annuncio ufficiale che Ballindarroch era lieto del suo ritorno arrivò quasi subito, ma non accompagnato dall'invito a
presentarsi al re o al Gran Consiglio. Agli occhi di tutti, tolto Jerle Shannara, Tay era tornato ad Arborlon per una semplice visita ai familiari e agli amici. Tay venne ospitato nella casa dei genitori, entrambi ormai vecchi e preoccupati soltanto del passare del tempo e della salute dei figli. Gli chiesero della sua vita a Paranor, ma si stancarono presto e non insistettero per avere molti particolari. Quanto al Signore degli Inganni e ai suoi Messaggeri del Teschio, non ne sapevano nulla. Sull'esercito di Troll avevano udito solo qualche voce. Abitavano in una piccola casa accanto ai Giardini della Vita, lungo il burrone di Carolan, e passavano la giornata lavorando in giardino e dedicandosi a piccole attività artigianali: il padre dipingeva paraventi, la madre tesseva. Parlavano con Tay mentre lavoravano, facendo a turno nel rivolgergli le domande, ma lo ascoltavano con metà della loro attenzione, perché con l'altra si occupavano del lavoro. Piccoli, fragili, sempre più vicini a svanire con il passare del tempo, ricordavano al figlio la fragilità della sua stessa vita, che fino a poco tempo prima gli era parsa tanto sicura. Il fratello di Tay era andato ad abitare nel Sarandanon, a sudest di Arborlon, a molte miglia di distanza; perciò, Tay dovette limitarsi alle notizie che ne ebbe dai genitori. Non era mai stato molto legato al fratello minore e non lo vedeva da più di otto anni, ma ascoltò doverosamente i racconti dei due vecchi e si rallegrò nel sapere che la sua attività di agricoltore prosperava. Quanto alla sorella Kira, la situazione era assai diversa. Abitava ad Arborlon; Tay andò da lei il giorno stesso del suo arrivo e la trovò intenta a vestire il figlio più piccolo. Aveva la faccia ancora giovane e fresca, era piena di energia e il suo sorriso era caldo e affascinante come il canto degli uccelli. Corse verso di lui ridendo e lo abbracciò con una tale forza che Tay temette di esplodere. Poi lo fece accomodare in cucina e gli servì birra fresca, lo fece sedere al vecchio tavolo su cavalletti, gli chiese di lui e gli parlò di sé, tutto nella stessa frase. Condivisero le preoccupazioni per i genitori, rievocarono momenti dell'infanzia e prima che se ne accorgessero era già buio. Si rividero il giorno seguente, e col marito di Kira e i bambini si recarono nei boschi, lungo il torrente Rill Song, per una scampagnata. Kira gli chiese se avesse già visto Jerle Shannara, poi non parlò più di lui. Le ore scivolarono via in fretta, e Tay riuscì quasi a dimenticare di essere tornato per ben altri motivi. I bambini giocarono con lui, poi si stancarono e andarono a sedere sulla riva, immergendo i piedi nell'acqua fredda e scalciando con forza, e gli adulti parlarono di come il mondo stesse cambiando. Il cognato di Tay era un fabbricante di articoli in cuoio e commerciava regolarmente con le altre Razze. Tuttavia non mandava più i suoi emissari nel Nord, da quando le varie nazioni dei Troll erano state sconfitte e unificate. Si parlava di creature malvage, disse, di mostri alati e di ombre nere, di bestie che assalivano Elfi e umani. Tay ascoltò e si limitò a qualche cenno affermativo della testa, dicendo che anche lui aveva sentito quelle voci. Nel dirlo, cercò di non guardare Kira. Non voleva farle leggere quello che aveva negli occhi. Rivide i suoi vecchi amici, alcuni dei quali erano poco più che adolescenti l'ultima volta che li aveva visti. Molti di loro, in passato, erano suoi amici intimi, ma avevano preso strade diverse dalla sua e ormai erano troppo lontani per tornare
indietro. O forse era lui che era andato troppo lontano. Erano estranei, non per l'aspetto o per la voce, che gli erano ancora familiari, ma per le scelte che avevano modellato la loro vita. Con loro poteva condividere soltanto i ricordi. Era triste, ma prevedibile. Il tempo rapisce le promesse e allenta i legami. L'amicizia si riduce a storie passate e a vaghe promesse per il futuro, nessuna così forte da ridare vita a quello che s'è perduto. Ma questa è la vita: porta ciascuno lungo la propria via, separata da quella degli altri, finché un giorno ci si scopre soli. Anche Arborlon gli sembrava estranea, ma non nel modo che si sarebbe aspettato. Fisicamente era la stessa, un villaggio cresciuto fino a diventare una città, piena di aspettative e di agitazione perché vi si incrociavano tutte le strade dell'Ovest. Vent'anni di crescita continua l'avevano resa la città più grande e importante della parte settentrionale del mondo conosciuto. Con la conclusione della Prima Guerra delle Razze e con il declino dell'influenza del Sud, il ruolo degli Elfi nel futuro delle Quattro Terre era cambiato in modo irrevocabile e Arborlon e la sua gente erano diventati sempre più importanti. Ma mentre la città e i suoi dintorni gli erano familiari nonostante la lunga assenza e le rare visite, Tay non riusciva a evitare l'impressione che quello non fosse il suo posto. Ormai non era più la sua casa, non lo era da quindici anni, ed era tardi per rimediare. Anche se Paranor era distrutto e i Druidi erano scomparsi, non era certo di poter tornare tra gli Elfi. Arborlon faceva parte del suo passato, e se l'era lasciata alle spalle. Era un estraneo, per quanto cercasse di convincersi del contrario, e quando cercava di inserirsi di nuovo nella vita cittadina sentiva di non farne più parte. Come tutto scivola via, quando non gli si presta attenzione, pensò più di una volta, nei primi giorni dopo il suo ritorno. Come cambia in fretta la vita. Il quarto giorno, Jerle Shannara lo venne a cercare nel tardo pomeriggio, accompagnato da Preia Starle. Tay non l'aveva ancora vista, anche se aveva pensato parecchie volte a lei. Era certamente la più bella donna che avesse mai visto, e se non fosse stata innamorata di Jerle fin da bambina e lo fosse stata invece di Tay, lui avrebbe probabilmente cambiato vita per lei. Era bellissima, con lineamenti minuti e perfetti, capelli e occhi color cannella, pelle leggermente ambrata che brillava come la superficie dell'acqua illuminata dal sole dell'alba, un corpo flessuoso che si muoveva con la grazia di un gatto. Questo a una prima occhiata, e non era certo sufficiente a descriverla. Preia era, a modo suo, un guerriero che stava alla pari con Jerle, addestrata come esploratore, e così abile nel suo lavoro da superare ogni altro Esploratore o Cacciatore che Tay avesse conosciuto; salda, instancabile e sicura come il sorgere del sole. Sarebbe riuscita a stanare un furetto in mezzo a una palude, a dire il numero e il sesso di un gruppo di capre che si arrampicava su un monte, a sopravvivere nel deserto per settimane, senza scorte, vivendo unicamente di quello che riusciva a cacciare. Rifiutava la solita vita delle donne elfe, aveva rinunciato alla comodità di una casa e alla compagnia di un marito e dei figli. Preia era assai lontana da tutto ciò Era soddisfatta della sua vita, aveva detto a Tay, in passato. Alla famiglia avrebbe pensato il giorno che Jerle fosse stato pronto al matrimonio. Fino a quel momento, poteva aspettare. E a Jerle, da parte sua, andava bene che lei fosse disposta
ad aspettare. Secondo Tay, l'amico era ancora indeciso su quello che provava per lei. A modo suo l'amava, ma il suo primo grande amore era sempre stato Kira: anche dopo tanti anni era incapace di dimenticarla. Preia lo sapeva certamente - era troppo intelligente per non essersene accorta - ma non aveva mai fatto commenti. Tay si aspettava che il loro rapporto fosse cambiato, dalla sua ultima visita, ma non sembrava. Parlando con lui, Jerle non aveva mai accennato alla donna. Preia era ancora all'esterno della cittadella di autosufficienza e indipendenza che Jerle Shannara aveva eretto intorno a sé: tuttora aspettava il permesso di entrare. La donna sorrise a Tay, che stava studiando alcune mappe della Terra dell'Ovest, stese su un tavolo nel giardino dei genitori. Lui si alzò nel vederla, e con un nodo alla gola si chinò per scambiare con lei un bacio e un abbraccio. "Ti trovo bene, Tay" lo salutò, facendo un passo indietro per osservarlo meglio e tenendolo per le braccia. "E sto ancora meglio adesso che ti vedo" rispose lui, sorpreso dalla sfrontatezza della risposta. Preia e Jerle lo accompagnarono fino al Carolan, dove potevano parlare in privato. Si sedettero ai margini dei Giardini della Vita e guardarono al di là del precipizio, verso le cime degli alberi sull'altra sponda del torrente. Jerle aveva scelto una panca circolare, che permetteva di vedersi in faccia senza farsi distrarre dai passanti. Non aveva parlato da quando era venuto a prendere Tay, era apparso distante e preoccupato. Ora, per la prima volta, si rivolse direttamente all'amico. "Bremen aveva ragione" disse. "Paranor è caduto. Tutti i Druidi sono morti. Se qualcuno è fuggito, oltre a quelli che sono venuti con te, ora si tiene nascosto." Tay lo fissò, mentre il peso della notizia si faceva strada in lui. Poi guardò Preia. Ma sul suo viso non c'era alcuna sorpresa: sapeva tutto. "Hai mandato Preia a Paranor?" chiese a Jerle. All'improvviso aveva capito perché era presente. "Chi meglio di lei?" ribatté Shannara, in tono pratico. Del resto, aveva ragione. Tay gli aveva chiesto di mandare una persona fidata, e nessuno era più fidato di Preia. Ma era una missione pericolosa, piena di rischi e Tay avrebbe certamente scelto qualcun altro. Da questo si capiva quanto fossero diversi i loro sentimenti nei riguardi della donna, pensò. Ma non era detto che i suoi fossero i più nobili. "Riferiscigli quello che hai visto" la invitò Jerle. Lei si girò verso Tay. I suoi occhi ramati erano dolci e rassicuranti. "Ho attraversato le Streleheim senza problemi. C'erano Troll, ma non ho trovato gli Gnomi e il Messaggero del Teschio che hai visto tu. Sono giunta ai Denti del Drago all'alba del secondo giorno e mi sono recata subito alla rocca. Le porte erano spalancate e all'interno non c'era traccia di vita. Nessuno si è opposto al mio ingresso. Tutte le guardie erano state massacrate, alcune avevano ferite di armi, altre di zanne e di artigli come se fossero state assalite da bestie feroci. I Druidi giacevano all'interno, tutti morti. Alcuni erano stati uccisi negli scontri, altri erano stati portati via dalla sala del Consiglio, condotti nei sotterranei e murati vivi. Sono riuscita a vedere le tracce del loro passaggio e a trovare le loro tombe." S'interruppe nel vedere l'angoscia e l'orrore sul viso di Tay al pensiero dei compagni. Posò la mano minuta sulla sua. "C'erano anche le tracce di una seconda lotta, combattuta sullo scalone principale. Queste erano più recenti: risalivano ad alcuni giorni dopo le prime. Alcune
creature erano state distrutte: creature che non sono riuscita a riconoscere. E' stata usata la magia. L'intera scala era annerita dal fuoco, come se fosse stata spazzata da una fiamma che aveva lasciato soltanto le ceneri dei morti." "Bremen?" chiese Tay. Lei scosse la testa. "Non lo so. Può darsi." Gli strinse la mano. "Mi dispiace." Tay annuì. "Anche se lo sapevo e pensavo di essere pronto ad accettarlo, mi è ancora difficile crederlo. Tutti morti. Tutti coloro con cui ho lavorato e vissuto per tanti anni. Forse anche Bremen. Sento un grande vuoto dentro di me." "Be', ormai è successo e non si può farci niente" concluse Jerle, già pronto ad allontanarsi. Si alzò. "Adesso dobbiamo parlare con il Consiglio. Andrò da Ballindarroch per preparare un incontro. Può darsi che protesti, ma troverò il modo di farmi ascoltare. Intanto, Preia può dirti quello che vuoi sapere. Sii forte, Tay. Vedrai che alla fine gliela faremo pagare." Si allontanò senza guardarsi indietro; come sempre, trovava la risposta nell'azione. Tay lo guardò allontanarsi, poi fissò Preia. "Com'è andata?" "Bene." Gli rivolse un'occhiata interrogativa. "Sei rimasto sorpreso che sia andata a Paranor, vero?" "Sì. E' stata una reazione egoistica." "Ma mi ha fatto piacere." Gli sorrise. "Sono lieta di vederti ancora qui, Tay. Sentivo la tua mancanza. Mi è sempre piaciuto parlare con te." Lui allungò le gambe e fissò, al di là del Carolan, un gruppo di Guardie Nere che veniva verso i Giardini. "Non ora, temo. Non so più cosa dire. Sono arrivato quattro giorni fa e sto già pensando di andar via. Mi sembra di essere privo di radici." "Be', sei stato via molto tempo. Per questo ti senti estraneo." "Mi sembra di non appartenere più a questo luogo, Preia. Forse non appartengo più ad alcun luogo, adesso che Paranor è stato distrutto." Lei rise piano. "Conosco questa sensazione. Soltanto Jerle non ha mai quel genere di dubbi, perché non si permette di averli. Appartiene al luogo a cui vuole appartenere; fa sempre in modo di crederlo.LO non ci riesco." Per qualche istante rimasero in silenzio. Tay cercò di non guardarla. "Tra pochi giorni partirai per l'Occidente, non appena il re ti darà il permesso di andare alla ricerca della Pietra Nera" disse infine la donna. "Forse ti sentirai meglio, allora." Tay sorrise. "Jerle te l'ha detto." "Jerle mi dice sempre tutto. Sono la compagna della sua vita, anche se non vuole ammetterlo." "E' stupido da parte sua." Preia annuì distrattamente. "Verrò con te, quando partirai." Tay la fissò negli occhi. "No." Lei sorrise nel vederlo a disagio. "Non puoi parlarmi così, Tay. Nessuno può farlo. Non lo permetto." "Preia..." "C'è troppo pericolo, è un viaggio troppo faticoso, è questo e quello." Sospirò, ma senza irritazione. "Ho già sentito queste obiezioni, Tay... anche se da parte di persone che pensavano meno di te al mio benessere." Lo guardò negli occhi. "Ma verrò con te." Tay scosse la testa ammirato e sorrise a dispetto di se stesso. "Certo. E Jerle non dirà niente, vero?" Il sorriso di Preia era abbagliante. Fissò Tay con grande soddisfazione. "No. Non lo sa ancora, naturalmente, ma quando lo saprà si stringerà nelle spalle come fa sempre e mi dirà di fare come voglio." S'interruppe. "Mi accetta come sono, più di te. Mi tratta da uguale. Capisci?" Tay si spostò sulla panca e si chiese se avesse davvero capito. "Penso che è molto fortunato ad avere te" rispose. Si schiarì la gola. "Parlami ancora di quello che hai trovato a Paranor, dimmi quello che potrebbe essere interessante per me, quello che, secondo te, dovrei
sapere." La donna piegò le gambe sotto la panca, come per prepararsi alle descrizioni sgradevoli che avrebbe dovuto fargli, e gli riferì tutto quello che aveva visto. Quando Preia lo lasciò, Tay rimase seduto ancora per qualche tempo, ripensando alle facce dei Druidi che non avrebbe più visto. Stranamente, il ricordo di alcuni di loro cominciava già a sbiadire. Succede così, si disse, anche per coloro a cui si è più legati. Si avvicinava la sera: si alzò e, camminando lungo il Carolan, osservò il tramonto, il cielo che si colorava d'oro e poi d'argento a mano a mano che la luce cedeva al buio. Attese che nella città, dietro di lui, si accendessero le prime torce, e solo allora si volse e fece ritorno alla casa dei genitori. Si sentiva estraneo, staccato da tutto. La distruzione di Paranor e la morte dei Druidi l'avevano strappato agli ormeggi, l'avevano mandato alla deriva. Il solo legame che gli rimanesse era il compito di cercare la Pietra Nera, ed era deciso a mantenere la parola data a Bremen. Poi avrebbe iniziato una nuova vita. Si chiese se davvero poteva. Si chiese da dove iniziare. Era quasi giunto a destinazione quando un messaggero del re uscì dall'ombra e gli disse che era desiderato subito. L'urgenza della convocazione era chiara, e Tay non mosse obiezioni. Lasciò la strada di casa e seguì il messaggero in direzione del Carolan e del palazzo dove abitavano il re e la sua numerosa famiglia. Courtann Ballindarroch era il quinto della sua dinastia, e la famiglia reale era aumentata a ogni incoronazione: ora il palazzo ospitava non soltanto il re e la regina, ma anche i loro cinque figli e le mogli, più di una decina di nipoti e svariati zii e cugini. Tra questi c'era Jerle Shannara, che però abitava quasi sempre nella guarnigione della Guardia Reale, dove si trovava decisamente più a suo agio. Giunsero in vista del palazzo, che brillava di luci sullo sfondo scuro dei Giardini della Vita. Tuttavia, quando furono nei pressi dell'ingresso principale, il messaggero prese a sinistra, lungo un sentiero che portava al padiglione d'estate, separato dal corpo principale della costruzione. Tay diede un'occhiata alla distesa ampia e buia del parco, cercando i soldati della Guardia Reale che stavano di sentinella. Sentiva la loro presenza e, servendosi della magia, sarebbe riuscito a contarli, ma non riusciva a scorgerli. All'interno del palazzo, proiettate sulle finestre illuminate, si muovevano ombre simili a spettri senza volto. Il messaggero non mostrò alcun interesse per quegli aspetti del palazzo reale e si limitò a portare Tay nel luogo dove Ballindarroch aveva deciso di incontrarlo. Tay si chiese il motivo di una convocazione così improvvisa. Era successo qualcosa di nuovo? C'era stata una nuova tragedia? Con uno sforzo, si costrinse a tenere a freno l'immaginazione e ad attendere la risposta. Il messaggero lo portò all'ingresso principale del padiglione e gli disse di entrare. Entrò da solo, oltrepassò il vestibolo e si trovò nel soggiorno, dove scorse Shannara. Jerle si strinse nelle spalle e sollevò le mani, in segno di impotenza. "Ne so quanto te. Mi hanno convocato e sono venuto." "Hai detto al re quello che sappiamo?" "Gli ho detto che avevi bisogno di un'udienza immediata del Gran Consiglio, che avevi notizie importanti. Nient'altro." Si fissarono per qualche istante, riflettendo sull'accaduto. Poi la porta si spalancò e comparve Courtann Ballindarroch. Tay si chiese da dove arrivava, se era sceso dal palazzo o se era stato ad aspettare dietro la porta, per ascoltare i loro
discorsi. Courtann era imprevedibile. Fisicamente era un uomo di altezza media e di corporatura normale, di una tranquilla mezz'età, leggermente claudicante, con qualche filo grigio alle tempie e nella barba, una serie di rughe profonde che cominciavano ad apparirgli sulla faccia e sul collo. Non c'era niente di eccezionale in Courtann, che a dire il vero aveva l'aspetto di una persona qualunque. Non aveva né la voce da oratore né il fascino del leader, ed era pronto ad ammettere la propria confusione quando ne era vittima. Era diventato re nella solita maniera, ossia perché era il primogenito del re precedente, e non cercava il potere né lo rifiutava. Di suo, quando era salito sul trono degli Elfi, aveva portato la reputazione di non avere abitudini imprevedibili o riprovevoli e di non amare i cambiamenti drammatici e precipitosi; e il suo popolo lo accettava come se fosse lo zio preferito. "Benvenuto a casa, Tay" lo salutò. Era sorridente e rilassato e pareva le mille miglia lontano da ogni preoccupazione, quando si avvicinò all'uomo per stringergli la mano. "Ho pensato che avremmo potuto discutere in privato le tue novità, prima che tu ne parlassi al Gran Consiglio." Si ravviò la folta capigliatura. "Preferisco evitare le sorprese, nella mia vita. E se ti servisse un alleato, forse potrei esserti utile. No, non guardare il tuo confidente... non mi ha detto una parola. E anche se l'avesse fatto, non gli avrei dato retta. Troppo inaffidabile. Jerle è qui soltanto perché so che non avete segreti l'uno per l'altro e quindi non è il caso di cominciare adesso." Fece segno di seguirlo. "Sediamoci qui, in queste poltrone bene imbottite. Da qualche tempo, la schiena mi duole. Capiterà anche a voi, quando avrete dei nipotini. E lasciamo da parte l'etichetta. Chiamatemi per nome. Ci conosciamo da troppo tempo per usare i titoli." Era vero, pensò Tay, sedendosi dirimpetto al re e accanto a Jerle. Courtann Ballindarroch aveva una ventina d'anni più di loro, ma erano sempre stati amici. Jerle era cresciuto a corte, ma anche Tay vi aveva passato molto tempo, e di conseguenza era stato più volte in compagnia di Courtann. Quando erano ragazzini, li portava spesso a pesca e a caccia, e in occasione di feste e celebrazioni amava stare con loro. Tay era stato presente alla sua incoronazione, trent'anni prima. Ognuno di loro sapeva che cosa aspettarsi dall'altro. "Ho nutrito un certo scetticismo, fin dal primo momento, sull'idea che fossi tornato senza una ragione più importante che quella di salutarci" disse il re, con un sospiro. "Sei sempre stato troppo pratico, non sei il tipo che spreca un viaggio per i soli piaceri di società. Spero che queste considerazioni non ti offendano." Appoggiò la schiena ai cuscini. "Allora, che notizie hai? Avanti, vogliamo saperle." "Ho molte cose da riferire" rispose Tay, sporgendosi verso il re per fissarlo negli occhi. "Mi manda Bremen. Si è presentato a Paranor circa due settimane fa e ha cercato di avvertire il Consiglio dei Druidi del pericolo che correva il castello. Si era spinto nel Nord e aveva avuto conferma dell'esistenza del Signore degli Inganni. Ha scoperto che è il druido ribelle Brona, ancora vivo dopo parecchie centinaia di anni, mantenuto in vita dalla magia che l'ha corrotto. E' stato Brona a unire i Troll e a sottometterli per farne il suo esercito. Prima di recarsi a Paranor, Bremen ha seguito le tracce di quell'esercito e ha visto che si dirige a sud, verso le Terre dell'Est." S'interruppe un istante, per scegliere bene le parole. "Il Consiglio dei Druidi non ha voluto ascoltarlo.
Athabasca l'ha mandato via, e alcuni di noi l'hanno seguito. Anche a Caerid Lock è stato proposto di seguirci, ma non ha voluto. E' rimasto al castello per proteggere da se stessi Athabasca e gli altri." "Una brava persona" commentò il re. "Molto coscienzioso." "Con Bremen a capo del nostro gruppo, siamo andati alla Valle d'Argilla. Laggiù, al Perno dell'Ade, Bremen ha parlato con gli spiriti dei morti.LO l'ho visto. Gli spiriti gli hanno detto molte cose. La prima era che Paranor e i Druidi sarebbero stati distrutti. La seconda che il Signore degli Inganni avrebbe invaso le Quattro Terre, e che occorre costruire un talismano capace di distruggerlo. Una terza riguardava il nascondiglio di una Pietra Nera degli Elfi, una pietra magica di cui il Signore degli Inganni vuole impossessarsi, ma che noi dobbiamo trovare prima di lui. Quando gli spiriti sono scomparsi, Bremen ha mandato il druido guerriero Risca ad avvertire i Nani del pericolo. Ha mandato me ad avvertire te e gli Elfi. Mi ha detto di convincerti a portare l'esercito a Est, attraverso le Terre di Frontiera, per aiutare i Nani. Soltanto unendo le nostre forze possiamo sconfiggere l'esercito del Signore degli Inganni. Mi ha anche detto di chiedere il tuo aiuto per organizzare la ricerca della Pietra Nera." Ballindarroch non sorrideva più. "Sei molto schietto" disse, senza preoccuparsi di nascondere la sorpresa. "Mi aspettavo una maggior sottigliezza da parte tua, nel chiedere il mio aiuto." Tay annuì. "E questa era la mia intenzione, infatti. L'avrei fatto se ti avessi parlato davanti al Gran Consiglio. Ma non sono davanti al Consiglio. Parlo a te. Ci siamo soltanto noi tre, e come hai detto tu stesso, ci conosciamo troppo bene per fingere." "E c'è anche una ragione più importante" intervenne Jerle. "Digliela." Tay incrociò le braccia, ma non abbassò gli occhi. "Ho aspettato a parlarti perché volevo avere la conferma dei sospetti di Bremen su Paranor e sui Druidi. Ho chiesto a Jerle di mandare qualcuno laggiù, perché vedesse quanto era successo, per averne la certezza. E Jerle l'ha fatto. Ha mandato Preia Starle, che è tornata oggi pomeriggio. Paranor è caduto. Tutti i Druidi e coloro che li proteggevano sono morti. Caerid Lock è morto. E così Athabasca. Non rimane nessuno... nessuno, Courtann, che abbia un potere sufficiente a opporsi a Brona." Courtann Ballindarroch lo fissò senza parlare, poi si alzò, raggiunse la finestra, guardò fuori, nella notte, tornò indietro, si sedette. "Sono notizie davvero preoccupanti" disse infine, a bassa voce. "Quando mi hai parlato della visione di Bremen, ho pensato che potesse trattarsi di un trucco, di un sotterfugio, di qualcosa che non corrisponde alla realtà. Tutti i Druidi sono morti, dici? E tanti di loro appartenevano alla nostra gente! Ma i Druidi ci sono sempre stati, fin dove risalgono i nostri documenti storici. E adesso sono spariti? Tutti? Non riesco a crederlo." "Eppure, sono stati distrutti" intervenne Jerle, il quale non voleva che il re si bloccasse su quel particolare. "Adesso dobbiamo agire in fretta, per evitare che succeda anche a noi la stessa cosa." Il re degli Elfi si accarezzò la barba. "Ma non dobbiamo agire in modo affrettato, Jerle. Riflettiamo per un momento sull'accaduto. Se facessi come ha chiesto Bremen e portassi l'esercito a est, lascerei senza difesa Arborlon e l'Occidente, e questo sarebbe pericoloso. Conosco la storia della Prima Guerra delle Razze quanto basta per evitare quegli antichi errori. Occorre cautela." "La cautela porta all'indugio, e non abbiamo tempo per indugiare!" sbottò
Jerle. Il re gli rivolse un'occhiata gelida. "Non farmi fretta, cugino." Tay non poteva rischiare un litigio tra i due. "Cosa suggeriresti, Courtann?" si affrettò a chiedere. Il re lo guardò. Si alzò, si avvicinò una seconda volta alla finestra, e volse loro la schiena. Jerle lanciò un'occhiata a Tay, ma questi finse di non accorgersene. La questione era adesso tra lui e il re. Attese che Courtann si girasse, attraversasse la stanza e tornasse a sedere. "Sono convinto che tutto ciò che mi hai detto corrisponda alla verità, Tay. Perciò non pensare che la mia risposta voglia contraddirti. Ho molta fiducia nelle parole di Bremen. Se dice che il Signore degli Inganni esiste ed è il druido ribelle Brona, allora è certamente così. Se dice che la magia è costretta a servire il male, anche questo è vero. Ma io conosco bene la storia, e so che Brona non è mai stato uno sciocco. Noi non dobbiamo dare per scontato che faccia quello che ci aspettiamo. Sa certamente che Bremen, se è ancora vivo, cercherà di fermarlo. Ha occhi e orecchi dappertutto. Può darsi che conosca già le nostre intenzioni, ancor prima che passiamo all'azione. Perciò dobbiamo essere ben sicuri di tutto, prima di agire." Scese per qualche istante il silenzio, mentre i due amici riflettevano su quelle parole. "Che pensi di fare, allora?" chiese infine Tay. Courtann sorrise con aria paterna. "Ti accompagnerò al Gran Consiglio e ti darò il mio aiuto, naturalmente. Il Consiglio deve capire la necessità di intervenire, in base alle informazioni che ci hai portato. E non dovrebbe essere difficile convincerlo. La perdita di Paranor e dei Druidi sarà una ragione sufficiente, penso. Quanto alla richiesta di partire alla ricerca della Pietra Nera, penso che sarà approvata subito. Non c'è motivo di rimandare l'azione, in quel caso. Naturalmente la tua ombra, ossia mio cugino, insisterà per accompagnarti e, come avrai capito, preferirei anch'io che lo facesse." Si alzò, e Tay e Jerle lo imitarono. "Quanto alla richiesta che il nostro esercito vada in aiuto dei Nani, devo riflettere ancora. Manderò gli Esploratori ad accertare la presenza del Signore degli Inganni nelle Quattro Terre. Quando faranno rapporto, e dopo che avrò chiarito la situazione e il Gran Consiglio ne avrà discusso, si prenderà una decisione." S'interruppe, in attesa della risposta di Tay, che disse subito: "Ti ringrazio, mio signore". In effetti, era più di quanto si aspettava. "Allora, dimostralo facendo bella figura in Consiglio." Il re appoggiò la mano sulla spalla di Tay. "Ci aspettano nella sala delle riunioni. Vorranno sapere se il tempo sottratto alle loro famiglie per venire a questa sessione fuori ruolo è stato speso bene." Guardò Jerle. "Cugino, tu puoi venire con noi, se pensi di poter tenere a freno la lingua. La tua opinione in materia militare è assai apprezzata, e può darsi che ci serva. D'accordo?" Jerle annuì. Uscirono dal padiglione e si diressero verso la sala delle riunioni. I soldati della Guardia Reale comparvero come dal nulla e si disposero di fronte e dietro al loro gruppo, simili a ombre nere sullo sfondo illuminato del palazzo. Il re parve non accorgersi della loro presenza, e per tutto il tragitto continuò a canticchiare tra sé e a guardare le stelle, con espressione affascinata. Tay era piacevolmente sorpreso che Ballindarroch avesse deciso così in fretta. Respirò l'aria della notte, in cui aleggiava la fragranza del gelsomino e del lillà, e si concentrò preparandosi alle prossime mosse. Stava già pensando al viaggio a occidente, all'equipaggiamento
necessario, alle strade che avrebbero scelto, al modo di procedere nella ricerca. In quanti dovevano essere? Una decina di persone sembrava il numero giusto: abbastanza per stare al sicuro, ma non tante da richiamare l'attenzione. Jerle camminava al suo fianco, impassibile, perso nei propri pensieri. Tay era lieto di avere con sé l'amico, così saldo e fidato. Gli ritornò in mente il tempo della loro fanciullezza, quando c'era sempre qualche avventura da vivere insieme, una missione per cui partire, una sfida da affrontare. Forse, erano proprio quelle le cose che gli erano mancate: era bello ritrovarle. Per la prima volta dal suo ritorno, ebbe davvero l'impressione di essere a casa. Quella sera parlò davanti al Gran Consiglio con una forza e una capacità di persuasione che non avrebbe mai creduto di possedere e riuscì a soddisfare tutte le richieste di Bremen. E fu proprio questi, benché assente, a far pendere la bilancia dalla sua parte. Ad Arborlon il vecchio druido era amato e rispettato: nel periodo da lui trascorso in città si era guadagnato molti amici con il suo lavoro, che mirava a riscoprire la storia e la magia degli Elfi. Se adesso gli occorreva il loro aiuto, soprattutto dopo la distruzione di Paranor e dei Druidi, il Consiglio glielo avrebbe dato. Venne anche dato il permesso di organizzare una spedizione per il recupero della Pietra Nera, affidata alla guida comune di Tay Trefenwyd e Jerle Shannara. Inoltre, il Consiglio promise di prendere subito in considerazione l'aiuto ai Nani, e anche l'adesione a questo progetto risultò forte ed entusiastica: più di quanto non avesse previsto Courtann Ballindarroch. Il re, vedendo come il Consiglio accogliesse le parole di Tay, appoggiò a sua volta l'iniziativa, facendo però notare come occorresse conoscere meglio la situazione, prima di poter mandare ai Nani un sostanzioso aiuto militare. Era ormai mezzanotte quando il Gran Consiglio aggiornò la riunione. Tay si fermò davanti alla porta e strinse le mani a Jerle per congratularsi con lui. Il re passò davanti a loro con un sorriso e sparì. In alto, il cielo era punteggiato di stelle e l'aria della sera era profumata e tiepida. Il successo era un vino che dava alla testa. Tutto era andato come aveva sperato, e Tay provò un forte rimpianto nel non poterlo dire a Bremen. Accanto a lui, Jerle parlava senza sosta, rosso in viso per l'emozione, entusiasta del viaggio che li attendeva, della nuova avventura da vivere, dell'evasione dalla tediosa routine della vita di corte. In quel momento di grande giubilo, nei due amici c'era la convinzione comune che tutto fosse possibile e che nessun ostacolo fosse in grado di fermarli. 10 Quando tutti se ne furono andati e rimasero soli, Tay e Jerle lasciarono la sala delle riunioni e si avviarono verso il palazzo reale. Camminavano lentamente, ancora euforici per il successo davanti al Gran Consiglio, e nessuno dei due era disposto ad andare a dormire. Nella notte non si muoveva foglia, il mondo era un luogo di sogni e di riposo. Accanto alle porte e agli incroci delle strade si scorgeva la luce delle torce, piccoli baluardi contro l'assalto delle tenebre rese ancor più profonde dalla scomparsa della luna sotto l'orizzonte. Le sagome delle case si stagliavano nell'oscurità come grandi animali acciambellati nel
sonno. Gli alberi della foresta fiancheggiavano le strade e circondavano le case degli Elfi, simili a sentinelle schierate spalla contro spalla, sull'attenti nel buio. Ispiravano a Tay, che lasciava correre oziosamente lo sguardo sugli spazi illuminati e dentro le ombre, uno strano senso di pace, l'impressione che qualcuno vegliasse su di lui per proteggerlo. Jerle non smetteva di parlare: passava da un argomento all'altro, valutando tutto ciò che li poteva attendere con ampi gesti delle braccia e di tanto in tanto rideva forte. Tay lo lasciava dire e si faceva trasportare sulla sua scia: era abbastanza distaccato per ascoltarlo e, nello stesso tempo, pensare a come il suo passato avesse finito per ricongiungersi al presente, e a come forse potesse riavere quello che aveva perso. "Ci occorreranno i cavalli, per attraversare il Sarandanon" rifletteva Jerle "ma nella foresta che porta laggiù e nelle Terre di Confine andremo più in fretta a piedi. Dovremo avere i due tipi di equipaggiamento, ciascuno per una parte del viaggio, e scorte diverse." Tay annuì, senza rispondere perché non ce n'era bisogno. "Come minimo ci occorrerà una decina di persone, ma forse sarà meglio averne il doppio perché se dovessimo essere costretti a combattere, saremmo troppo pochi." Jerle rise. "Non so perché mi preoccupo tanto. Se saremo insieme, chi mai oserà mettersi contro di noi?" Tay si strinse nelle spalle e guardò in fondo al viale, dove già si scorgevano, in mezzo agli alberi, le luci del palazzo. "Spero di non doverlo scoprire." "Be', ci muoveremo con cautela, puoi starne certo. Partiremo senza essere notati, ci sposteremo al riparo degli alberi, eviteremo i luoghi pericolosi. Ma..." S'interruppe e fissò negli occhi il compagno. "Non farti illusioni. Il Signore degli Inganni e i suoi servitori ci daranno la caccia. Sanno che anche se Bremen non fosse riuscito a fuggire dalla rocca dei Druidi, alcuni suoi amici si sono salvati. Probabilmente ormai sanno che è penetrato nella loro fortezza del Nord. Sanno che cercheremo la Pietra Nera." Tay rifletté su quelle parole. "Dobbiamo aspettarci il peggio. Così non avremo sorprese. Intendi dire questo?" Jerle Shannara annuì; all'improvviso la sua espressione si era fatta grave. "Proprio così." Ripresero il cammino. "Non ho sonno" si lamentò Jerle, fermandosi di nuovo. "Dove possiamo andare a bere un bicchiere di birra? Uno solo, per festeggiare." Tay si strinse nelle spalle. "A palazzo?" "No, non a palazzo! Lo odio! Tutti quei parenti e quei bambini che ti corrono attorno, gente dappertutto. No, non là. A casa tua?" "I miei dormono. Inoltre, laggiù mi sento un estraneo, proprio come te a palazzo. Che ne diresti della caserma delle Guardie?" Jerle sorrise, raggiante. "D'accordo! Un paio di bicchieri, poi a nanna. Abbiamo tantissime cose di cui parlare, Tay." Proseguirono e diedero un'occhiata al palazzo quando gli passarono davanti. Lo scalone era buio, il cortile vuoto. Non si scorgeva alcun movimento. In una delle camere dei piani superiori si vedeva una debole luce che filtrava attraverso le tende: una candela accesa nella stanza di qualche bambino per rassicurarlo che sarebbe sorta un'altra alba. Lontano, un uccello notturno lanciò una serie di richiami acuti, che echeggiarono lugubri prima di spegnersi. Jerle rallentò e si fermò, costringendo Tay a imitarlo. Fissò il palazzo. "Che c'è?" gli chiese Tay dopo un istante. "Non vedo le guardie." Tay diede a sua volta un'occhiata. "Dove dovrebbero essere? Pensavo che fosse loro compito non farsi vedere." Jerle scosse la testa. "Da te, ma non da me."
Tay continuò a guardare con lui, ma non riuscì a scorgere nulla sullo sfondo degli edifici o sotto gli alberi dei giardini reali. Nessuna figura sia pur vagamente umana. Cercò qualche movimento, e non ne trovò. I Cacciatori degli Elfi erano addestrati a confondersi con l'ambiente. Le Guardie Reali erano ancor più abili di loro. Ma Tay avrebbe dovuto scorgerle con la stessa facilità di Jerle. Allora usò la magia: una piccola emanazione che passò al setaccio l'intero palazzo, da un estremo all'altro, come un'infinità di mani curiose che frugassero dappertutto. E li scoprì, i movimenti: lesti, furtivi, estranei. "C'è qualcosa che non va" disse subito. Jerle Shannara corse avanti, senza fare parola, diretto al portone del palazzo reale, e prese velocità a mano a mano che correva. Tay lo seguì, provando un crescente senso d'orrore. Cercò di dargli una definizione, di scoprirne la fonte, ma questa gli sfuggiva, elusiva e beffarda. Tay cercò nell'ombra intorno a sé, e trovò che tutto era nero e chiuso in se stesso. Sollevò le mani, liberando dalle dita la magia dei Druidi, in modo da avere una rete più grande. Un attimo più tardi, sentì la rete chiudersi su una creatura che si divincolò, si sciolse dalla rete e corse via di scatto. "Gnomi!" esclamò. Jerle corse ancora più in fretta, portò la mano al fianco ed estrasse la corta spada: la lama, nell'uscire dal fodero, scintillò debolmente. Non usciva mai disarmato. Tay cercò di stargli dietro. Nessuno dei due parlò; quando stavano per raggiungere il portone, Jerle aspettò che Tay lo raggiungesse ed entrambi si guardarono attorno con attenzione, pronti a tutto. Il portone era aperto. All'interno non si scorgeva alcuna luce. Dal viale, questo particolare non era visibile. Jerle non rallentò il passo. Curvò la schiena ed entrò, tendendo innanzi a sé la spada. Tay lo seguì. Il corridoio si stendeva dinanzi a loro come una galleria buia. C'erano corpi dappertutto, sparsi come fagotti di biancheria sporca, immobili e insanguinati. Cacciatori degli Elfi, uccisi dal primo all'ultimo, ma anche qualche Cacciatore degli Gnomi. Il pavimento era scivoloso a causa del sangue versato. Jerle indicò a Tay di mettersi da un lato mentre lui si metteva dall'altro e insieme percorsero il corridoio verso le sale principali: le trovarono vuote e silenziose. Tornati indietro, i due compagni si diressero verso le scale che portavano ai piani superiori. Jerle non fece parola, neppure adesso. Non chiese a Tay se voleva un'arma. Non cercò di dirgli quello che doveva fare. Non era necessario: Tay era un druido e lo sapeva da sé. Salirono le scale come due spettri, tendendo l'orecchio nel silenzio, cercando di udire qualche suono rivelatore. Non ce ne furono. Raggiunsero il pianerottolo del primo piano e guardarono nei corridoi bui. C'erano i corpi di altre guardie. Tay era stupito. Non s'era udito alcun gemito! Come mai quei soldati, quei Cacciatori degli Elfi usciti da un lungo addestramento, erano morti senza dare l'allarme? Il corridoio si univa ad altri due, che portavano alle ali del palazzo dove dormiva la famiglia reale. Jerle si girò verso Tay, con gli occhi fiammeggianti e lo sguardo duro, e gli fece segno di andare a destra mentre lui andava a sinistra. Tay lo vide pronto a scattare come un felino, e si avviò nella direzione a lui assegnata. Proseguì serrando i pugni, e la magia si accumulò nelle sue mani come una pulsazione pronta a scattare. Dopo qualche passo, il timore lasciò il posto all'orrore. Si udiva qualche suono, ora: voci sommesse, singhiozzi e gemiti che si spegnevano subito,
e Tay corse verso quella direzione, senza pensare ad altro. Quando svoltò a un angolo, davanti a lui si mossero alcune ombre. Colse il luccichio sinistro delle armi e alcune forme basse e tozze si lanciarono contro di lui. Gnomi. Tay cessò di pensare e reagì automaticamente. Sollevò la mano destra e spalancò il pugno: la magia esplose contro gli assalitori, sollevandoli di peso e scagliandoli contro le pareti con una forza tale da spezzare loro le ossa. Poi se li lasciò alle spalle come se non esistessero e passò davanti a camere aperte, i cui occupanti erano riversi a terra morti - madri, padri e bambini, senza distinzione - per dirigersi verso le porte ancora chiuse, dove poteva esserci qualche speranza. Un gruppo di assalitori uscì allo scoperto mentre Tay passava. Si scagliarono su di lui e lo buttarono a terra. Le armi mulinarono con furia, affilate e mortali, ma lui era un druido e le sue difese erano già alzate: le lame gli scivolarono sul corpo come se fosse stato coperto da un'armatura mentre afferrava gli avversari e li scagliava lontano da sé. Era forte anche senza la magia, ma con essa ad aiutarlo, gli Gnomi non erano avversari di cui preoccuparsi. Si rialzò quasi subito, e il suo fuoco spazzò la zona attorno a lui, in un arco mortale, abbattendo i pochi rimasti in piedi. Dalle stanze giunsero nuovi gemiti, e Tay proseguì, inorridito da quanto stava succedendo. Un attacco, un colpo mortale sferrato all'intera famiglia reale degli Elfi. Capì che era lo stesso gruppo di Gnomi da lui incontrato nelle pianure a sud delle Streleheim e che non erano né esploratori né razziatori, ma assassini, e che il loro capo, il Messaggero del Teschio, non doveva essere lontano. Passò davanti a camere piene di Ballindarroch uccisi, grandi e piccoli, ammazzati nel sonno o al risveglio. Una volta eliminata la Guardia Reale, più niente aveva impedito agli Gnomi di portare a termine la loro missione di morte. Tay sibilò per la frustrazione. In quanto era successo, era stata usata la magia. Non c'era altro mezzo che permettesse agli assassini di entrare senza far scattare l'allarme. Ribolliva di collera. Arrivò davanti a un'altra porta e scorse alcuni Gnomi intenti a uccidere un uomo e una donna, dopo averli spinti con la schiena contro la parete. Tay scagliò la sua magia contro gli assalitori e li bruciò vivi. Adesso, come in risposta alla sua azione, si levarono alcune grida, che finalmente diedero l'allarme. Non provenivano dalla sua ala ma dall'altra, quella dove stava lottando Jerle Shannara. Lasciò l'uomo e la donna feriti e proseguì perché non poteva fermarsi ad aiutarli. In quell'ala rimanevano solo alcune porte e una di esse, rammentò all'improvviso, con una fitta di terrore, era quella della camera da letto di Courtann Ballindarroch. Entrò subito in quella, disperato, temendo di arrivare tardi. Passò davanti a una porta chiusa, alla sua sinistra, e a una aperta, alla sua destra. Da quella aperta uscì un paio di Gnomi: impugnavano armi insanguinate e i loro occhietti gialli scintillavano; nel vedere Tay, sulle loro facce da furetti comparve un'espressione stupita. Il druido mosse la mano nella loro direzione ed entrambi svanirono in un'esplosione di fiamma, morti ancor prima di capire cosa succedeva. Tay sentiva diminuire le proprie forze a causa dell'impiego dei poteri magici. Non aveva mai messo così alla prova, in passato, la sua resistenza e doveva procedere con cautela. Bremen l'aveva avvertito molte volte che l'uso della magia aveva un limite. Tay doveva conservare quella che gli rimaneva per un
momento di reale necessità. Solo allora si accorse che anche la porta della camera da letto del re era aperta. Era stata forzata e si scorgeva una lunga crepa nel legno. Tay non ebbe esitazioni. Si lanciò contro la porta, la spalancò e irruppe all'interno. Nella stanza non c'era alcuna lampada, ma dalle ampie finestre entrava luce dall'esterno, proiettava sulle tende e sulle pareti grandi ombre deformi e grottesche. Courtann Ballindarroch era stato scagliato contro una parete e giaceva a terra, la faccia e il petto sporchi di sangue, un braccio piegato in modo innaturale; aveva gli occhi aperti e batteva rapidamente le palpebre. Il Messaggero del Teschio era fermo ad alcuni passi da lui, incappucciato e seminascosto dalle ali. S'era impadronito della regina e in quel momento la stava sollevando dal letto, dopo aver ridotto a brandelli le coperte. Il corpo della donna era spezzato, privo di vita, gli occhi sbarrati e fissi. Quando scorse Tay, il mostro la gettò a terra, sprezzante, e si girò ad affrontare il druido, soffiando minaccioso. Dall'ombra uscirono alcuni Gnomi che si gettarono su Tay, il quale li cacciò via come se fossero insetti molesti e nello stesso tempo scagliò contro il loro capo tutta la forza della sua magia. Il Messaggero venne colto impreparato, forse perché l'aveva scambiato per un'altra guardia, un'altra vittima inerme. La magia di Tay esplose contro il mostro in una fiammata che gli portò via una buona metà della faccia. Il Messaggero gridò di rabbia e dolore, portandosi inutilmente alla ferita la mano munita di artigli, poi si gettò contro Tay. La sua velocità era stupefacente, e ora fu il druido a rimanere sorpreso. Il Messaggero lo colpì prima che potesse ripararsi, lo scagliò da una parte, infilò la porta e sparì. Tay si rimise in piedi a fatica, esitò un solo istante per guardare Courtann, poi si lanciò all'inseguimento. Nel corridoio buio evitò i cadaveri e le chiazze di sangue, e tese tutti i sensi per cogliere la presenza di altri assalitori. Davanti a lui, il Messaggero del Teschio era un'ombra vaga, che si muoveva pesante nel buio. Dall'esterno giungeva adesso un coro di grida, accompagnato da rumore di passi pesanti e dal clangore delle armi: era la Guardia Reale che arrivava dalla caserma in risposta all'allarme. Tay correva, e il cuore gli martellava nelle orecchie. Gettò via il mantello per muoversi più agevolmente. Quando giunse all'incrocio con il corridoio principale, il Messaggero del Teschio proseguì d'istinto verso l'altra ala, evitando il drappello di Cacciatori degli Elfi che saliva le scale. Quando Tay passò davanti a loro, gridò di seguirlo. E chiamò anche Jerle Shannara. Il Messaggero si guardò alle spalle. Alla luce delle torce, la sua faccia era una macchia di carne gonfia e sanguinolenta. Tay gli lanciò la sua sfida, con voce carica d'odio, ma il cacciatore alato non rallentò la sua corsa e imboccò una stretta rampa di scale che portava a un terrazzo. Il mostro era più veloce di lui e lo stava distanziando. Tay imprecò rabbiosamente. Poi, all'improvviso, una figura isolata comparve in fondo al corridoio, uscendo dal buio: una sagoma agile e felina che passava con sicurezza in mezzo ai cadaveri e si lanciava verso le scale, all'inseguimento del Messaggero. Era Jerle. Tay proseguì, costringendosi a correre più in fretta, anche se il suo respiro era ormai un rantolo rauco. Arrivò alla scala pochi istanti dopo l'amico. Nel buio inciampò e cadde, ma si alzò risolutamente e proseguì. Sul parapetto del terrazzo, Jerle lottava corpo a corpo col Messaggero. Doveva essere uno scontro
impari, perché il cacciatore alato era molto più forte dell'elfo, ma Jerle Shannara sembrava indemoniato. Combatteva come se vivere o morire non facesse differenza per lui, purché l'avversario non si salvasse. Si spostavano avanti e indietro lungo il terrazzo, finivano contro il parapetto, si contorcevano l'uno sull'altro, passavano dall'oscurità alla luce. Jerle serrava tra le braccia le ali del mostro, impedendogli di volar via. Il Messaggero del Teschio cercava di colpire con gli artigli l'elfo, ma Jerle gli stava alle spalle, fuori portata. Con un grido, Tay corse ad aiutare l'amico. Concentrò la magia sulla punta delle dita, evocandola come gli aveva insegnato Bremen e unendo la forza del suo corpo a quella degli elementi che gli avevano dato la vita, per stimolare il suo fuoco vitale. Il Messaggero del Teschio lo vide avvicinarsi e si voltò di scatto, ponendo Jerle tra sé e Tay, in modo che il druido non potesse usare la magia. Sotto di loro, nel cortile, i soldati alzarono gli occhi accorgendosi solo allora della lotta, e riconobbero Jerle. Incoccarono le frecce e tesero gli archi, pronti a colpire. Infine il mostro spezza la presa di Jerle, balzò sul parapetto e si lanciò in volo. Per un momento parve rimanere immobile nella luce, enorme e nero, orribile come un incubo, una bestia braccata alla ricerca di un rifugio. Tay la colpì con tutta la forza che aveva, scagliando il Fuoco Magico contro la sua forma odiosa. Sotto, gli arcieri scoccarono, e decine di frecce si piantarono nel corpo della creatura. Il Messaggero rabbrividì, perse colpi d'ala, poi riprese a volare, lasciando dietro di sé una scia di fiamme e fumo, come la coda di un aquilone. Era irto di frecce. Una seconda salva lo colpì, e questa volta perse il controllo di un'ala. Con uno sforzo disperato, cercò di gettarsi su una macchia di alberi. Ma ormai aveva perso le forze, il suo corpo non rispondeva più. Cadde a terra e continuò a battere le ali anche quando i soldati gli furono sopra con le spade. E anche allora, impiegò molto tempo a morire. Un'accurata perlustrazione dei giardini reali, della città e delle foreste adiacenti non portò alla scoperta di altri attaccanti. A quanto pareva, erano stati eliminati tutti. Forse sapevano di morire. Forse, nel venire ad Arborlon, già sapevano di far parte di una missione suicida. Ma la cosa non aveva importanza. Ciò che contava era che la loro missione era riuscita. Avevano spazzato via tutta la famiglia reale, uomini, donne e bambini. I Ballindarroch erano morti nel sonno: alcuni non si erano neppure destati, altri si erano destati per il tempo sufficiente a capire cosa succedeva e poi avevano perso la vita. La portata del disastro era stupefacente. Courtann Ballindarroch viveva ancora, ma era appeso a un filo: i guaritori avevano lavorato su di lui per tutta la notte, ma anche dopo aver fatto il possibile non c'erano molte speranze. Un solo figlio era rimasto in vita, il penultimo, Alyten, che era andato a caccia con gli amici e per puro caso non aveva condiviso il destino dei familiari. Erano sopravvissuti anche due nipoti del re, giovanissimi, che dormivano nella stanza dinanzi a cui era passato Tay per recarsi in quella del sovrano. Erano salvi perché gli Gnomi assassini non erano ancora arrivati fino a loro. Non si erano svegliati nel corso dell'attacco. Il maggiore aveva solo quattro anni, il più piccolo non ne aveva ancora due. Nel giro di poche ore la città si era trasformata in un accampamento. In tutti i quartieri montavano la guardia i Cacciatori. Lungo tutte le strade e nella Valle di Rhenn erano
state inviate pattuglie a dare l'allarme. Gli abitanti della città erano stati svegliati e avevano ricevuto l'ordine di prepararsi a sostenere un attacco su larga scala. Nessuno sapeva cosa sarebbe successo, tutti erano attoniti e terrorizzati dall'assassinio della famiglia reale nel proprio letto. Tutto sembrava possibile, e la gente era pronta a fronteggiare qualunque catastrofe stesse per abbattersi sulla città. All'alba il tempo cambiò, la temperatura scese, il cielo si coprì di nuvole, l'aria si fece pesante e immobile. Poco più tardi prese a cadere una pioggia leggera ma insistente, che riempì l'aria di foschia e portò via la luce del giorno. Tay sedeva accanto a Jerle Shannara nella rientranza di una finestra, in un'alcova all'ingresso del palazzo reale, e guardava la pioggia cadere. I cadaveri erano stati portati via. Tutte le stanze erano state ispezionate due volte, alla ricerca di eventuali assassini ancora nascosti. Il sangue versato nell'attacco era stato lavato, le camere da letto dov'era avvenuto il massacro erano state svuotate del mobilio e pulite. Tutto questo era stato fatto nella notte, prima dell'alba, come per nascondere il dramma e scordare l'orrore. Ora il palazzo era vuoto. Anche i due nipoti superstiti di Courtann Ballindarroch erano stati portati in altre case, in attesa di decidere a chi affidarli. "Sai perché l'hanno fatto, vero?" chiese Jerle, all'improvviso, rompendo un silenzio che durava già da qualche tempo. Tay lo guardò. "Il massacro?" Jerle annuì. "Per spezzare la nostra organizzazione. Per creare instabilità. Per impedirci di mobilitare l'esercito" disse con voce stanca. "In breve, per impedirci di aiutare i Nani. Morto Courtann, gli Elfi non faranno nulla finché non avranno un nuovo re. Il Signore degli Inganni lo sa. Per questo ha mandato ad Arborlon i suoi assassini, con l'incarico di uccidere tutti. Quando ci saremo riorganizzati a sufficienza per prendere una decisione, per i Nani sarà troppo tardi. La Terra dell'Est sarà ormai caduta." Tay trasse un profondo respiro. "Non possiamo permetterlo." Jerle sbuffò ironicamente. "Non possiamo farci niente, è già successo!" Agitò la mano, come per chiudere l'argomento. "Courtann Ballindarroch sarà fortunato se sopravvivrà ancora un giorno. Hai visto come l'hanno conciato. Non è mai stato molto robusto. Non so come faccia a essere ancora vivo." Jerle appoggiò la schiena alla parete e posò i piedi sulla panca davanti a lui: in quel momento sembrava un bambino costretto a rimanere in casa controvoglia. Aveva i vestiti strappati perché non si era ancora cambiato dopo la lotta. Aveva anche un brutto taglio sulla guancia; se l'era lavato e dimenticato. Sembrava uno straccione. Tay si guardò. Non era in condizioni migliori dell'amico. Entrambi avevano bisogno di un bagno e di una dormita. "Secondo te" chiese Jerle a bassa voce "cosa farà ancora, per fermarci?" Tay scosse la testa. "Non farà più niente, qui. Che altro vuoi che faccia? Ma penso che darà la caccia a Risca e a Bremen. Forse li sta già inseguendo." Si girò a guardare la pioggia, ascoltò il rumore delle gocce contro i vetri. "Mi dispiace di non poterli avvertire. Vorrei sapere dov'è Bremen." Pensò alla situazione degli Elfi dopo quella notte. La famiglia reale decimata, il loro senso di sicurezza infranto, la loro pace mentale perduta. Avevano perso molto, e Tay non era certo che potessero recuperarlo. Jerle aveva ragione. Finché il re non fosse guarito o non fosse stato incoronato il successore, il Gran Consiglio non avrebbe preso alcuna iniziativa per
aiutare i Nani. Nessuno si sarebbe preso la responsabilità di una simile decisione: anzi, non era chiaro chi potesse prenderla. Alyten forse avrebbe tentato di agire in nome del padre, ma era poco probabile. Non era come lui: era un giovane impulsivo, che non aveva mai avuto responsabilità. Era stato per lo più aiutante di campo del genitore, e aveva eseguito ordini. Sarebbe stato nominato re se Courtann fosse morto, ma i Consiglieri non avrebbero ratificato facilmente le sue decisioni. Né Alyten le avrebbe prese facilmente. Si sarebbe dimostrato prudente e indeciso, preoccupato di non commettere errori. Per lui era il momento meno adatto per diventare re. Il Signore degli Inganni non avrebbe perso tempo ad approfittarne. La dimensione e la complessità del dilemma erano deprimenti. Gli Elfi conoscevano il responsabile dell'attacco. Prima di essere fatto a pezzi, il Messaggero del Teschio era stato visto chiaramente, e anche i Cacciatori degli Gnomi erano stati riconosciuti. Entrambi i gruppi servivano il Signore degli Inganni. Ma Brona era una figura senza volto, una minaccia presente in ogni angolo delle Quattro Terre, una forza senza centro, una leggenda che sconfinava nel mito, e nessuno sapeva dove cercarlo. C'era e non c'era. Esisteva, ma dove? Come potevano muovere contro di lui? Ora che i Druidi di Paranor erano stati distrutti, non c'era nessuno a dire agli Elfi cosa fare, nessuno ad avvertirli, nessuno a consigliarli, nessuno che rispettassero a sufficienza da obbedirgli. Con due rapide mosse, il Signore degli Inganni aveva distrutto l'equilibrio dei poteri nelle Quattro Terre e immobilizzato la Razza più forte. "Non possiamo restare qui con le mani in mano" commentò Jerle, come se leggesse i pensieri di Tay. Tay annuì. Pensava che il tempo scivolava via, che correva il pericolo di non mantenere le promesse fatte a Bremen. Guardò fuori: la grigia foschia della pioggia rendeva confuso e indistinto il panorama. Fino a poco tempo prima era certo di tutto, adesso non c'era più niente di sicuro. "Se non possiamo fare niente per i Nani, dobbiamo almeno fare qualcosa per noi" disse piano, fissando Jerle. "Dobbiamo andare alla ricerca della Pietra Nera." L'amico lo studiò per un momento, poi annuì lentamente. "Si potrebbe, davvero. Courtann ha già dato l'assenso." Nei suoi occhi azzurri si accese un lampo di eccitazione. "Ci darà qualcosa da fare mentre aspettiamo che qui la situazione si risolva. E se troveremo la Pietra, avremo un'arma da usare contro il Signore degli Inganni." "O gliene toglieremo una che potrebbe usare contro di noi" disse Tay, ripensando agli avvertimenti di Bremen sul potere della Pietra Nera. Si raddrizzò e sentì svanire la depressione. Gli ritornò la determinazione. "Bene, bene. Vorrei che ti vedessi ora" osservò Jerle, con aria saputa. "Ti preferisco così." Tay si alzò, impaziente di lasciare la città. "Quando possiamo partire?" Sulle labbra di Jerle Shannara si affacciò un sorriso. "Quanto ti occorre, per prepararti?" 11 Partirono all'alba del giorno seguente: Tay, Jerle e i pochi che avevano scelto. Si allontanarono in silenzio, mentre i cittadini dormivano, e la loro partenza passò inosservata. Erano soltanto in quindici, e non fu difficile dileguarsi senza farsi vedere. Tay e Jerle avevano avvertito i compagni la sera prima: una segretezza dovuta soltanto alla cautela.
Meno gente sapeva della loro partenza o li vedeva allontanarsi, meno gente poteva parlarne. Anche le chiacchiere potevano arrivare alle orecchie sbagliate. Soltanto il Gran Consiglio era al corrente del loro piano. Alyten, che ancora non era tornato dalla caccia, l'avrebbe saputo dopo. Questo era sufficiente. Neppure i loro stretti familiari sapevano dov'erano diretti e lo scopo della spedizione. Dopo quello che era accaduto ai Ballindarroch, nessuno voleva correre rischi inutili. La situazione che si lasciavano alle spalle era quanto mai preoccupante. Courtann Ballindarroch era tra la vita e la morte e non era chiaro se fosse in grado di ristabilirsi. Il Gran Consiglio si sarebbe occupato degli affari di stato in sua assenza, come previsto dalla legge degli Elfi, ma praticamente avrebbe fatto poco, finché il destino del re non fosse deciso. Alyten, come unico figlio superstite, avrebbe regnato in nome del padre, ma soltanto nominalmente, finché non ci fosse stata l'incoronazione ufficiale. La vita sarebbe andata avanti, ma gli affari di governo si sarebbero rallentati fin quasi all'immobilità L'esercito sarebbe rimasto in allarme, gli ufficiali avrebbero fatto il necessario per proteggere la città e i suoi abitanti, e in grado minore anche gli Elfi delle zone rurali più vicine. Ma l'attività dell'esercito si sarebbe strettamente limitata alla difesa e nessuno avrebbe proposto di uscire all'esterno dei confini finché Courtann Ballindarroch non si fosse ristabilito o il figlio non ne avesse preso il posto. Questo significava che non sarebbe stato mandato alcun aiuto ai Nani: il Gran Consiglio era così fermo su questo punto che rifiutò perfino di informare i Nani di quanto era successo. Tay e Jerle, separatamente, supplicarono di farlo, ma ricevettero soltanto l'assicurazione che la loro richiesta sarebbe stata presa in esame. All'improvviso, segretezza era la parola d'ordine. Vedendo che non avrebbero ottenuto nulla, Tay e Jerle decisero di non rimandare ulteriormente la partenza. Che il re vivesse o no, che Alyten diventasse re o no, che il Gran Consiglio mandasse l'avvertimento ai Nani o preferisse tacere, tutto questo sarebbe stato deciso, prima o poi, e la loro presenza ad Arborlon non avrebbe influenzato le decisioni. Era meglio partire alla ricerca della Pietra Nera, dove la loro presenza poteva essere importante. Inoltre, c'erano nuove ragioni per partire. A causa dell'assassinio, si erano verificati due fatti imprevisti, uno riguardante Tay, l'altro Jerle, e tutti e due consigliavano di lasciare la città. Per quanto riguardava il primo, alcuni avevano cominciato a chiedersi perché l'attacco contro la famiglia reale fosse coinciso col ritorno di Tay da Paranor. I Druidi erano rispettati, ma erano anche guardati con sospetto. Coloro che ne diffidavano non erano molti, ma dopo un disastro così inatteso e spaventoso, la gente era più disposta a prestar loro orecchio. I Druidi disponevano di grandi poteri e le loro azioni erano misteriose: una combinazione preoccupante, soprattutto dopo la loro decisione di isolarsi alla fine della Guerra delle Razze. Non era possibile, dicevano ora quelle voci, che i Druidi fossero implicati in ciò che era successo ai Ballindarroch? Tay era andato a parlare con il re e il Gran Consiglio la notte stessa del massacro. Che ci fosse stata tra loro qualche discussione che aveva incollerito Tay nella sua veste di rappresentante dei Druidi? E non era stato il primo a entrare nella camera del re mentre avveniva il massacro? Era una semplice coincidenza? Qualcuno
aveva visto cos'era successo? Qualcuno aveva visto quello che aveva fatto Tay? Non aveva importanza il fatto che tali domande gli fossero già state rivolte in una riunione o nell'altra, da un ufficiale o da un altro, e che nessuno, nel Gran Consiglio e nell'esercito, nutrisse il minimo dubbio sul comportamento di Tay. Importava il fatto che non c'erano risposte precise e fatti indiscutibili, e in loro assenza erano destinate ad affacciarsi le ipotesi più assurde. Il secondo fatto era ancora più preoccupante. Poiché quasi tutta la famiglia Ballindarroch era stata spazzata via, qualcuno già sosteneva che, se Courtann fosse morto, si doveva dare la corona a Jerle Shannara. Era un ottimo principio rispettare le regole di successione, ma Alyten era debole e indeciso, e non molto amato dal popolo su cui avrebbe dovuto regnare. E se gli fosse successo qualcosa, il suo erede sarebbe stato un bambino di quattro anni, con la necessità di una reggenza che nessuno voleva. Inoltre erano tempi difficili, pericolosi, che richiedevano un sovrano forte. L'attacco contro la famiglia reale segnalava l'inizio di qualcosa di grave. Su questo, tutti erano d'accordo. Il Nord era già stato conquistato dal Signore degli Inganni con i suoi cacciatori alati e i suoi mostri. Forse le nuove vittime designate erano gli Elfi. Circolavano voci che le sue armate fossero già in movimento, dirette a sud. Jerle Shannara era cugino del re e primo nella linea di successione, se i Ballindarroch fossero stati spazzati via. Forse era meglio che regnasse subito, senza badare al discendente diretto di Courtann. Come ex capitano della Guardia Reale, stratega degli alti comandi dell'esercito, consulente del Gran Consiglio e della Corona, era la persona più adatta. Forse era meglio scegliere il nuovo re senza badare ai precedenti e al protocollo. E sceglierlo in fretta. Tay e Jerle vennero a conoscenza di queste voci abbastanza presto, videro dove potevano portare e compresero che il miglior modo di affrontarle stava nel togliersi di mezzo finché la situazione non si fosse normalizzata. Le chiacchiere, unite alla necessità di concludere in fretta la ricerca, li spinsero ad affrettare la partenza. In ventiquattr'ore organizzarono la spedizione, riunirono l'equipaggiamento, fecero i piani di viaggio e partirono. La città era avvolta nella nebbia: da parecchie ore cadeva una pioggia gelida che non dava segno di voler cessare. Le strade erano già intrise d'acqua e sui rami e sui tronchi degli alberi si allargavano grandi macchie nere. La foschia usciva dalla foresta, si levava dal terreno ancora caldo, riempiva di bizzarri movimenti le depressioni del terreno. Ogni cosa era avvolta nella penombra e nell'oscurità, e la compagnia si muoveva all'incerta luce dell'alba come una fila di spettri che inseguisse la notte. Per il primo tratto avevano scelto di procedere a piedi, portando con sé unicamente le armi e le provviste per un giorno. In seguito avrebbero lavato i vestiti e si sarebbero procurati il cibo cacciando, finché non avessero raggiunto il Sarandanon, dopo tre giorni circa. Laggiù avrebbero trovato cavalli, vestiti puliti e rifornimenti per il resto del viaggio, fino alle Terre di Confine. Erano un gruppo stranamente assortito. Eccettuato uno solo, tutti i suoi componenti erano stati scelti da Jerle Shannara, con l'approvazione di Tay, perché questi era rimasto lontano da Arborlon per troppo tempo e non sapeva chi fosse più adatto ad aiutarli. Occorrevano Cacciatori degli Elfi, soldati scelti: Jerle ne scelse dieci, portando così a
dodici il numero dei componenti. Sicura come sempre, Preia Starle aveva già affermato la sua intenzione di partire con loro, e Jerle e Tay non avevano perso tempo a opporsi. Jerle aveva scelto un altro esploratore, un veterano di nome Retten Kipp, il quale faceva parte della Guardia Reale da più di trent'anni. Infatti, per essere coperti anche alle spalle, e non soltanto davanti, era necessario più di un esploratore; inoltre, se fosse successo qualcosa a Preia, avrebbero avuto bisogno di un sostituto. Tay non avrebbe voluto ascoltare quei discorsi, ma non poté trovarvi nulla di sbagliato. Questo portò il numero a quattordici. Tay chiese ancora una persona. L'uomo che voleva era Vree Erreden. Sembrava una scelta stravagante, di primo acchito, e Jerle glielo disse subito. Vree Erreden non era tenuto in grande considerazione dagli Elfi: appartato, timido e un po' lunatico, non si occupava d'altro che del suo lavoro. E su questo le opinioni divergevano. Era un locat, un veggente specializzato nel trovare le persone scomparse e gli oggetti smarriti. La sua abilità era oggetto di molte contestazioni. Coloro che credevano in lui mostravano una fede incrollabile. Gli altri lo ritenevano un mezzo matto e un balordo. Era sopportato perché di tanto in tanto le sue ricerche avevano successo e perché, in generale, gli Elfi avevano una grande tolleranza per gli eccentrici, dopo essere stati oggetto di molti sospetti, nel corso degli anni, da parte delle altre Razze. Vree Erreden non parlava mai delle proprie capacità; erano gli altri a parlarne e a magnificarle, ma ciò non lo rendeva più accetto ai suoi detrattori. Tay non era fra questi: anzi, benché non l'avesse mai detto a nessuno, pensava di avere molte cose in comune con lui. In un certo senso, sentiva una sorta di fratellanza spirituale. Se l'avesse voluto, Vree sarebbe potuto entrare fra i Druidi. Le sue doti gliel'avrebbero permesso e Tay avrebbe appoggiato la sua richiesta. Entrambi possedevano un talento naturale che in seguito era stato addestrato da anni di pratica: Tay l'evocatore di elementi, Vree il locat. Il talento di Tay era quello più facilmente visibile e dimostrabile, perché utilizzava conoscenze magiche e scientifiche attinte alle energie della terra: manifestandosi, i suoi poteri davano sempre la prova di quanto stesse facendo. Il talento di Vree Erreden, invece, risiedeva completamente dentro di lui, aveva una natura passiva ed era difficile da verificare. I veggenti si basavano sulla prescienza, sull'intuito, sul lampo di genio, doti che possedevano con intensità assai maggiori rispetto agli uomini normali, ma difficili da vedere. I locat erano molto apprezzati all'epoca in cui gli Elfi e le altre creature di Faerie si servivano abitualmente dei loro poteri. Ora ne rimaneva una manciata, gli altri s'erano persi con la fine del vecchio mondo e il cambiamento di natura della magia. Ma Tay era uno studioso delle antiche usanze e capiva il potere di Vree, che per lui era reale al pari del suo. Era andato a trovare il locat il pomeriggio precedente alla partenza e l'aveva scorto nel cortile, curvo su un mucchio di carte geografiche e di appunti: la sua figura minuta era china sui fogli, le sue mani tracciavano linee e parole sulle carte. Aveva alzato gli occhi quando Tay aveva aperto il cancello della sua casa, piccola e anonima, poi l'aveva guardato stringendo gli occhi perché aveva il sole in faccia e perché aveva la vista corta. Ogni anno, si diceva, la vista gli peggiorava, ma a mano a mano che gli occhi diventavano più deboli, la sua intuizione diventava
più acuta. "Sono Tay Trefenwyd" aveva detto, avvicinandosi in modo che il sole gli illuminasse la faccia. Vree Erreden l'aveva guardato senza dar segni di riconoscimento. Tay era assente da cinque anni: era possibile che non si ricordasse di lui. Inoltre, non indossava la veste scura del suo ordine, perché era tornato agli abiti ampi e comodi degli Elfi, e forse il locat non aveva associato al nome il fatto che si trattava di un druido. "Mi occorre il tuo aiuto per cercare un oggetto" aveva continuato Tay, senza badarci. L'altro aveva sollevato leggermente la faccia. "Se mi aiuterai, potrai salvare molte vite, in gran parte di Elfi. Sarà la più importante ricerca della tua vita. Se riuscirai a trovare quell'oggetto, nessuno oserà più dubitare di te." Sulla faccia di Vree era comparsa un'espressione divertita. "E' un'affermazione molto impegnativa, Tay." Tay aveva sorriso. "Nella posizione in cui sono, devo fare affermazioni impegnative. Domani parto per il Sarandanon e per le Terre di Confine. Devo convincerti ad accompagnarmi. Non ho il tempo per cercare mezzi di persuasione più sottili." "Che cosa cerchi?" "Una Pietra Nera degli Elfi, perduta fin dal tempo di Faerie, migliaia di anni fa." Il locat l'aveva guardato. Non aveva chiesto a Tay perché fosse venuto o se davvero si fidava di lui. Aveva dato per scontato che Tay credesse nei suoi poteri, forse perché era un veggente, forse per quello che aveva fatto in passato. O forse perché non si era posto il problema. Ma l'aveva fissato con curiosità e con una sfumatura di dubbio sul viso. "Dammi le mani" gli aveva detto. Tay le aveva sollevate e Vree Erreden le aveva afferrate. La sua stretta era straordinariamente forte. Aveva guardato Tay negli occhi per un momento, poi aveva fissato un punto lontano, e lo sguardo gli si era sfocato. Era rimasto così per parecchi minuti, immobile come una statua, fissando qualcosa che Tay non poteva vedere. Infine aveva battuto le palpebre e lasciato le mani di Tay, e si era messo a sedere. Aveva sorriso. "Verrò con te" aveva detto. Nient'altro. Aveva chiesto dove si sarebbero trovati e che equipaggiamento portare, poi era tornato ai suoi scritti e alle sue carte, senza una parola, dimentico di tutto. Tay si era soffermato ancora per qualche istante, fino ad avere la certezza che non c'era motivo di fermarsi ulteriormente, poi se n'era andato. Così erano partiti in quindici da Arborlon, all'alba e con la pioggia: una fila di persone avvolte nel mantello e incappucciate, irriconoscibili nella penombra, che prendevano parte alla spedizione per ragioni di cui, dopo l'incontro iniziale, nessuno avrebbe più parlato. Scesero lungo il Carolan fino alle prime cateratte del Rill Song, attraversarono il fiume servendosi del traghetto a disposizione della cittadinanza e si avviarono verso ovest passando tra le ombre dell'antica foresta. Avanzarono per tutto il giorno nella pioggia, che non cessò mai di cadere, anche se occasionalmente diminuì d'intensità. Si fermarono solo una volta per mangiare e altre due quando incontrarono una fonte e riempirono d'acqua gli otri. Nessuno era stanco, neppure Vree Erreden. Erano Elfi, abituati a percorrere lunghe distanze, e tutti erano in grado di tenere il passo moderato di Jerle Shannara. I sentieri erano fangosi e scivolosi, e più volte furono costretti a superare tratti allagati a causa della pioggia. Nessuno si lamentò. Nessuno aveva voglia di parlare. Anche quando si fermarono per mangiare, si sedettero a una certa distanza l'uno dall'altro, ben avvolti nel mantello per ripararsi,
ciascuno immerso nei propri pensieri. Una volta Tay si avvicinò a Vree Erreden per dirgli che era lieto della sua decisione di unirsi al gruppo, e il locat lo guardò come se fosse matto, o come se avesse detto la più grande stupidaggine della storia. Tay sorrise e lasciò che passasse avanti; in seguito non gli parlò più. Per tutto il giorno continuarono ad allontanarsi da Arborlon e dai monti che la circondavano e ad avvicinarsi al Sarandanon. Scese la notte, e montarono l'accampamento. Non venne acceso il fuoco e la cena venne consumata fredda. Sotto gli alberi regnavano l'oscurità e il silenzio; il solo movimento era dato dalle gocce di pioggia che cadevano con regolarità. Per uscire dalla foresta e raggiungere la distesa aperta della valle era necessaria un'altra giornata; poi il panorama sarebbe cambiato drasticamente, perché avrebbero attraversato la regione agricola dove si producevano le derrate alimentari che nutrivano la nazione degli Elfi. Al di là di quella, dopo altri quattro giorni di viaggio, c'erano le Terre di Confine, che erano la loro destinazione. Dopo avere cenato, Tay continuò a sedere in disparte e a fissare la foresta buia. Era bagnato e infreddolito, perso nei suoi pensieri. Nella speranza di trovare qualche spunto che gli era sfuggito, riandò alla visione della Pietra Nera rivelata a Bremen al Perno dell'Ade. I particolari gli erano ormai familiari: a furia di riesaminarli, li aveva staccati l'uno dall'altro in modo da poterli studiare isolatamente. Al suo ritorno dall'evocazione dello spettro di Galaphile, Bremen gli aveva descritto il nascondiglio del talismano, e adesso occorreva soltanto trovare il luogo corrispondente alla descrizione. Questo poteva avvenire in vari modi. Preia Starle e Retten Kipp potevano scoprire la Pietra Nera mettendo insieme le tracce trovate nelle loro esplorazioni. Tay poteva scoprirla come esperto degli elementi, grazie alle interruzioni delle linee d'energia causate dalla magia del talismano. Oppure poteva scoprirla Vree Erreden con il suo talento di locat, cercando la Pietra come avrebbe fatto con un qualsiasi oggetto smarrito, servendosi della prescienza e dell'intuizione. Tay si voltò verso il locat, che si era già addormentato. Ormai anche molti degli altri dormivano, o stavano per addormentarsi. Lo stesso Jerle Shannara s'era avvolto nella coperta e steso a terra. Un solo cacciatore faceva il turno di guardia, girando attorno al perimetro dell'accampamento, ombra tra le ombre. Tay lo guardò per un attimo, distrattamente, poi tornò a osservare Vree Erreden. Il locat gli aveva letto nel pensiero la visione di Bremen, quando gli aveva preso le mani in occasione della sua visita. Adesso ne era certo, anche se al momento non gliene era venuto il sospetto. Era stata la visione a convincere il locat, quella breve occhiata su un luogo perso nel tempo, su una magia sopravvissuta a un mondo scomparso, su cose un tempo note e che potevano essere di nuovo rivelate. Il furto era stato commesso con grande destrezza, e Tay non poté nascondere una certa ammirazione per l'audacia del suo autore. Non era da tutti scassinare la serratura della mente di un druido. Dopo qualche minuto si alzò perché non riusciva a dormire e si portò nella zona percorsa dalla sentinella. Il cacciatore lo notò, ma non accennò ad avvicinarsi e continuò il proprio giro. Tay osservò gli alberi carichi di pioggia, e quando i suoi occhi si abituarono al buio cominciò a scorgere strane forme, strane figure nella pioggia, anche in assenza di luna e di
stelle. Vide passare un cervo, piccolo e delicato nella penombra: aveva gli occhi allarmati e le orecchie ritte. Vide gli uccelli notturni passare rapidi da un ramo all'altro, alla ricerca di cibo, e poi, quando lo trovavano, tuffarsi con stupefacente velocità verso terra e infine rialzarsi con qualche piccola creatura nel becco o tra gli artigli. In quelle vittime gli parve di vedere il popolo degli Elfi in caso di vittoria del Signore degli Inganni: un popolo inerme e indifeso, quando Brona avesse iniziato la caccia. Già in quel momento aveva l'impressione che qualcuno pensasse a loro come a una prossima preda. E anche se quella sensazione non gli piaceva, non pensava che potesse svanire facilmente, almeno per il momento. Stava ancora chiedendosi il significato di quella sensazione, quando Preia Starle comparve all'improvviso accanto a lui. Tay trasalì suo malgrado, poi si costrinse a calmarsi quando vide il sorriso della donna. Era stata via per tutto il giorno, dopo essere partita all'alba in avanscoperta con Retten Kipp. Nessuno sapeva quando sarebbero tornati, perché gli Esploratori erano liberi di fare ciò che giudicavano necessario e di seguire proprie tabelle di marcia. Quando vide la faccia preoccupata di Tay, Preia gli sorrise. Senza parlare, lo prese per il braccio e lo ricondusse nell'accampamento. Indossava vestiti da foresta ampi e comodi, guanti e stivali leggeri, e tutti i suoi abiti erano intrisi d'acqua. La pioggia le incollava sulla pelle i corti capelli ondulati color cannella e le scorreva sulle guance, ma lei pareva non accorgersene. Accompagnò Tay a qualche passo di distanza dal resto del gruppo, fino a una chiazza di erba asciutta, sotto una quercia. Si sfilò la cintura con i lunghi coltelli da caccia, posò la corta spada e l'arco, e si sedette. A Tay parve troppo fragile e giovane per portare tante armi. "Non riesci a dormire, Tay?" gli chiese a bassa voce, stringendogli il braccio. Lui incrociò le lunghe gambe, poi scosse la testa. "Dove sei stata?" "Qua e là." Si asciugò la pioggia dal viso e sorrise. "Non mi avevi vista, vero?" Lui la guardò con riprovazione. "Qual è la risposta, secondo te? Ti piace accorciare la vita alle persone spaventandole così? Se non riuscivo a dormire prima, come pensi che ci riesca adesso?" Lei si sforzò di non ridere. "Mi aspetto che tu ci riesca. Dopotutto sei un druido, e i Druidi riescono a fare qualsiasi cosa. Impara da Jerle. Lui dorme sempre come un neonato. Si rifiuta di rimanere sveglio, anche quando io preferirei che lo rimanesse." Batté le palpebre perché si era accorta di quello che si poteva intuire dalle sue parole, e si affrettò a guardare da un'altra parte. Dopo un attimo, riprese: "Kipp è andato fino al Sarandanon per assicurarsi che i cavalli e i rifornimenti siano pronti.LO sono tornata per avvertirvi dei Cacciatori degli Gnomi". Lui si girò di scatto a guardarla, in attesa di chiarimenti. "Due grosse squadre" proseguì lei. "Tutt'e due a nord. Potrebbero essercene altre. Ho trovato un mucchio di tracce. Non credo che sappiano di noi, almeno per ora. Ma dobbiamo fare molta attenzione." "Sai dirmi cosa ci fanno qui?" Lei scosse la testa. "Vanno a caccia, penso. Il tipo di tracce lo farebbe pensare. Si tengono vicino al Kensrowe, a nord della prateria. Ma potrebbero spostarsi, specialmente se si accorgessero di noi." Lui rimase in silenzio per un momento, riflettendo sulla notizia. Lei attese la sua risposta, studiando la sua faccia nella penombra. In mezzo a coloro che dormivano, qualcuno diede un colpo di tosse e cambiò
posizione. La pioggia cadeva con un lento tambureggiamento, un sottofondo continuo che giungeva dal buio. "Hai visto qualche Messaggero?" chiese infine Tay. Preia scosse di nuovo la testa. "No." "Qualche traccia insolita?" "No." Tay annuì, augurandosi che l'assenza fosse significativa. Forse il Signore degli Inganni aveva lasciato a casa i suoi mostri. Forse avrebbero dovuto affrontare soltanto i Cacciatori degli Gnomi. Accanto a lui, la donna si sollevò in ginocchio. "Riferisci a Jerle il mio rapporto, Tay.LO devo tornare laggiù." "Subito?" "Subito è meglio di poi, se vuoi che il lupo stia lontano da noi." Sorrise. "Ricordi il proverbio? Lo ripetevi sempre, quando dicevi di voler andare a Paranor per diventare un druido. E dicevi che ci avresti protetti: noi, i poveri amici casalinghi che ti lasciavi alle spalle." "Ricordo." Tay le prese il braccio. "Hai fame?" "Ho mangiato." "Perché non resti fino all'alba?" "Meglio di no." "Non vuoi fare rapporto a Jerle di persona?" Lei lo osservò per un momento, riflettendo tra sé. "Voglio che gli dia tu queste notizie. Lo farai?" Il suo tono di voce era cambiato. Non era più disposta a discutere. Lui annuì senza parlare e staccò la mano dal suo braccio. Preia si alzò, riprese i coltelli e la spada, sollevò l'arco e gli sorrise. "Pensa a quello che mi hai appena chiesto" gli disse. Scivolò di nuovo nell'ombra e, dopo un istante, sparì. Per qualche tempo Tay non si mosse, perché rifletteva sulle parole di Preia, poi si alzò per andare a svegliare Jerle. La pioggia continuò a cadere per tutto il giorno seguente, senza interruzione. La compagnia proseguì attraverso la foresta, con ogni senso all'erta per la presenza di Gnomi e pronta a tutto. Le ore trascorsero lente, dall'alba al tramonto, senza molte differenze, perché in tutta la giornata il solo chiarore fu la luce grigia che filtrava tra le nubi plumbee e le foglie cariche di pioggia. La marcia fu lenta e monotona. Nei boschi non incontrarono nessuno. Nell'umido grigiore nulla si muoveva. La notte giunse e passò, ma né Preia Starle né Retten Kipp fecero ritorno. All'alba del terzo giorno giunsero nelle vicinanze del Sarandanon. La pioggia era cessata e il cielo cominciava a schiarirsi. Il sole faceva capolino dalle nubi sotto forma di stretti raggi sullo sfondo turchino. L'aria si riscaldò e la terra cominciò ad asciugarsi. Poco più tardi, in una radura illuminata dal sole e rallegrata da fiori selvatici, s'imbatterono nell'arco di Preia Starle, spezzato e infangato. Non c'erano altre tracce della giovane donna. Ma le impronte degli Gnomi erano dappertutto. 12 Il sole tramontava e l'oscurità si affacciava dall'Anar, quando la retroguardia dell'imponente esercito del Signore degli Inganni uscì dal Passo di Jannisson per riversarsi nelle Pianure di Raab. C'era voluta tutta la giornata perché uscisse dalle Streleheim, dato che il Passo era stretto e serpeggiante e l'armata era rallentata da un convoglio di animali da soma, bagagli e carri lungo quasi due miglia. I combattenti si muovevano a velocità diverse: la cavalleria procedeva rapida e impaziente, ma la fanteria leggera, gli arcieri e i frombolieri erano più lenti, e la fanteria pesante era ancora più lenta. Ma nessuna delle varie componenti dell'esercito era lenta e impacciata come il convoglio
dei rifornimenti, che percorreva il Passo con una lentezza esasperante e ogni pochi minuti era ferma perché si era rotta una ruota o una stanga, i finimenti si erano allascati o gli animali avevano bisogno di acqua, c'era stata una collisione, uno scontro, un ingorgo. Lo spettacolo dava a Risca, che lo guardava da un nascondiglio nei Denti del Drago, mezzo miglio più a sud, un cupo senso di soddisfazione. Tutto ciò che intralciava l'avanzata del Signore degli Inganni era il benvenuto, continuava a dirsi. Tutto ciò che rallentava il suo odioso procedere verso sud, verso la sua terra. La maggior parte dell'esercito era costituita di Troll dall'aria stolida e dalla pelle più spessa del cuoio, virtualmente privi di connotati e più simili a bestie che a uomini. I più grossi e feroci erano i Troll delle Montagne, alti in media più di un metro e ottanta e pesanti in proporzione. Costituivano il nerbo dell'esercito, e la loro marcia precisa e disciplinata testimoniava della loro efficienza in battaglia. I Troll erano presenti anche nelle altre squadre, per colmare il divario. Nella cavalleria e nella fanteria leggera predominavano gli Gnomi: i piccoli e tenaci combattenti di una razza tribale simile a quella dei Troll, anche se meno abile e meno addestrata. Obbedivano al Signore degli Inganni per due ragioni: la prima, e la più importante, stava nel fatto che avevano un reverenziale timore per ogni sorta di magia, e quella di Brona superava ogni loro immaginazione. La seconda, assai importante anch'essa, nel fatto che avevano visto quello che era successo quando i Troll - che erano più robusti, più feroci e meglio armati - avevano cercato di resistere; così, avevano preso rapidamente la decisione di passare dalla parte del vincitore con le buone, prima di essere costretti a farlo con le cattive. Poi c'erano le creature senza nome, mostri usciti dai mondi inferi, esseri venuti dagli abissi dov'erano stati scagliati nei secoli precedenti, e adesso liberati con la magia dal Signore degli Inganni. Alla luce del giorno si nascondevano sotto larghi mantelli col cappuccio: in mezzo alla polvere sollevata dalla marcia erano forme nere e indistinte che si tenevano in disparte, reiette sia per la loro natura sia per l'unanime consenso. Ma quando il sole tramontava e le ombre si allungavano sulla prateria, si toglievano il mantello e si rivelavano: mostri spaventevoli e deformi, evitati da tutti. Tra loro c'erano i Messaggeri del Teschio, i cacciatori alati che facevano da braccio destro a Brona. Un tempo erano uomini: erano Druidi che per avere abusato della magia ne erano stati corrotti. Stavano volando anche adesso, approfittavano dell'ultima luce del giorno per cercare le prede con cui saziare la loro fame abietta E nel centro di tutto, in mezzo alle orde che la portavano inesorabilmente avanti, simile a una zattera su un mare squassato dalla tempesta, c'era la grande lettiga coperta di seta nera del Signore degli Inganni stesso. Era sorretta da una trentina di Troll, la sua copertura era impenetrabile anche alla luce più forte, i suoi sostegni di ferro erano irti di uncini e di lame affilate come rasoi, i suoi stendardi erano blasonati di teschi bianchi. Risca vide tutti coloro che la circondavano inchinarsi servilmente, e comprese che, anche se non potevano scorgerlo, il loro signore e padrone era perfettamente in grado di vederli. Con l'approssimarsi della notte, e dopo aver visto per intero l'esercito uscire dalle Terre del Nord, pronto a invadere l'Anar e a conquistare i
Nani, Risca si sedette scoraggiato nel crepaccio dove s'era nascosto e lasciò che le tenebre lo avvolgessero. Bremen aveva ragione, naturalmente: aveva previsto tutto. Brona era sopravvissuto alla Guerra delle Razze ed era rimasto nascosto per tutti quegli anni semplicemente per ritrovare le forze con cui colpire di nuovo. Adesso era tornato come Signore degli Inganni e i Troll e gli Gnomi erano con lui: dopo essere stati sconfitti, adesso servivano la sua causa. Se i Druidi erano stati distrutti come previsto da Bremen - e Risca ormai non aveva più dubbi nessuno sarebbe intervenuto a difendere le Razze ancora libere, nessuno in grado di opporsi alla magia. Sarebbero caduti a uno a uno: i Nani, gli Elfi e gli Uomini. A una a una, le Quattro Terre sarebbero diventate schiave. E sarebbe successo in breve tempo. In quel momento nessuno lo credeva possibile, e quando tutti se ne fossero accorti sarebbe stato troppo tardi. Risca aveva visto di persona quanto fosse vasto l'esercito del Signore degli Inganni. Gigantesco, inarrestabile, mostruoso. Soltanto con l'unione le tre Razze libere avevano una speranza di salvezza. Ma sarebbe occorso tempo per convincerle a unirsi. La politica avrebbe rallentato ogni decisione. L'egoismo avrebbe spinto a una inopportuna cautela. Le Razze avrebbero discusso e indagato, e prima ancora di capire cosa succedeva si sarebbero trovate in schiavitù. Bremen aveva previsto tutto questo, e ora spettava ai pochi che gli avevano dato retta agire in modo da fermare l'inevitabile. Risca frugò nella sacca, prese un pezzo di pane del giorno prima che aveva comprato in uno degli ultimi villaggi della Frontiera e cominciò a masticarlo distrattamente. Aveva lasciato Bremen e i compagni tre giorni addietro, nella Valle d'Argilla, e si era diretto a est, per avvertire i Nani dell'arrivo del Signore degli Inganni e convincerli a opporsi alla sua avanzata. Ma una volta arrivato alle Pianure di Raab, aveva pensato che il suo compito sarebbe stato facilitato se avesse potuto riferire di aver visto con i propri occhi l'esercito nemico: avrebbe potuto valutarne la dimensione e la forza, e dare maggiore efficacia alle proprie parole. Di conseguenza si era diretto a nord e aveva marciato per tutto il secondo giorno, fino a raggiungere il Passo di Jannisson. Laggiù, il terzo giorno, si era nascosto sulle alture ai piedi dei Denti del Drago e aveva visto sfilare, proveniente dalle Streleheim, l'esercito del Signore degli Inganni: sempre più grande, tanto da dare l'impressione che non avesse fine. Risca aveva contato le unità e gli ufficiali, gli animali e i carri, le insegne delle tribù e gli stendardi da battaglia, fino a farsi un'idea delle dimensioni. Pareva che l'intera nazione dei Troll fosse stata chiamata alle armi. Era il più grande esercito che Risca avesse mai visto. I Nani non avevano speranza di resistere. Potevano rallentarne l'avanzata, trattenerlo, ma non fermarlo. E anche se gli Elfi fossero venuti ad aiutarli, il nemico sarebbe stato enormemente superiore di numero. Inoltre, i Nani e gli Elfi non disponevano di magie simili a quelle di Brona, dei Messaggeri del Teschio e delle creature infernali. Avevano soltanto Bremen, Tay Trefenwyd e lui, gli ultimi Druidi. Risca scosse la testa e continuò a masticare il suo pane duro. Lo svantaggio era troppo grande. Occorreva trovare un modo per ridurlo. Terminò il pane e bevve un lungo sorso di birra dall'otre che portava a tracolla. Poi si alzò e tornò sul ciglio della rupe da cui poteva osservare dall'alto l'accampamento nemico.
Ormai era scesa la notte, erano stati accesi i fuochi, l'intera pianura ardeva di falò, l'aria era appesantita dal fumo. L'esercito occupava un'area di almeno un miglio, brulicante di attività, piena di chiasso e di movimento. I cuochi cucinavano il rancio, i soldati stendevano i giacigli, i carpentieri riparavano i carri e i generali preparavano i piani d'attacco. Risca continuò a osservare dalla sua altura, scoraggiato e incollerito. Se la forza di volontà e la collera fossero state sufficienti a fermare quella follia, le sue sarebbero bastate. Scorse due Messaggeri che volavano nel cielo color dell'inchiostro, al di là della zona illuminata dai fuochi, in cerca di spie, e si nascose ancor meglio tra le rocce, fino a divenire una cosa sola con le montagne, una delle tante macchie incolori di terreno scabro. I suoi occhi vagavano sull'intero campo, ma ogni volta tornavano alla lettiga coperta di seta nera che ospitava il Signore degli Inganni. Adesso l'avevano posata a terra ed era circondata da Troll e creature non umane: una piccola oasi di silenzio entro un formicolare di attività. Accanto ad essa non c'erano fuochi, nessuno si avvicinava dalla zona illuminata. L'oscurità pareva ammassarsi attorno ad essa, come acqua che affluisce in un lago, lasciandola isolata con un marchio di inviolabilità. Risca strinse le labbra. Tutti i guai hanno avuto inizio dal mostro che occupa quella lettiga, e con lui finiranno, pensava. Il Signore degli Inganni è la testa del mostro che ci minaccia. Taglia la testa e il mostro muore. Uccidi il Signore degli Inganni e il pericolo finisce. Uccidi il Signore degli Inganni... Era un impulso irrazionale, selvaggio, e non si concesse di seguirlo. Lo allontanò da sé e si costrinse a riflettere sulle proprie responsabilità. Bremen gli aveva affidato un compito. Doveva informare i Nani della presenza dell'armata, in modo che si preparassero all'invasione. Doveva convincere i Nani ad affrontare un esercito assai più grande del loro, in una battaglia impossibile a vincersi. Doveva convincere Raybur e gli Anziani del Consiglio che si stava preparando l'arma capace di distruggere il Signore degli Inganni e che i Nani dovevano, a prezzo delle loro vite, guadagnare il tempo occorrente. Era un ordine difficile da accettare: avrebbe richiesto un grande sacrificio. E il comando di quell'esercito sarebbe toccato a lui, al druido guerriero in grado di sconfiggere qualunque creatura mandata contro di loro dal Signore degli Inganni. Risca era nato per lottare. Era la cosa che sapeva fare meglio. Era vissuto fino alla maggiore età nelle Montagne del Corvo, in una famiglia che era sempre vissuta in quelle terre barbariche dell'Est. Il padre era esploratore e la madre cacciava con le trappole. Il padre aveva otto fratelli e la madre sette, e quasi tutti abitavano a poche miglia di distanza, cosicché Risca era stato allevato un po' da tutti: negli anni dell'infanzia, aveva passato più tempo con gli zii e i cugini che con i genitori. Prendersi cura dei giovani, nella sua famiglia, era una responsabilità che toccava a tutti. In quella regione, i Nani erano costantemente in guerra contro le tribù di Gnomi, e si rischiava la vita a ogni istante. Ma Risca era in grado di badare a se stesso. Fin da bambino gli era stato insegnato a combattere e cacciare, e aveva scoperto di essere molto abile. Sentiva cose che gli altri non sentivano, riusciva a individuare ciò che per gli altri era invisibile. Era svelto e agile, più forte della sua età. Conosceva per istinto
l'arte della sopravvivenza. Usciva vivo quando gli altri cadevano. A dodici anni era stato aggredito da un Koden e l'aveva ucciso. Ne aveva tredici quando, con un gruppo di venti Nani, era caduto in un'imboscata degli Gnomi. Lui solo era sopravvissuto. Poi la madre era stata uccisa mentre tendeva le trappole. Lui aveva solo quindici anni, ma aveva seguito le tracce dei colpevoli e li aveva uccisi tutti, da solo. Quando il padre era morto in un incidente di caccia, aveva portato il suo corpo nel cuore della terra degli Gnomi e l'aveva sepolto laggiù, perché il suo spirito potesse continuare la lotta contro i nemici tradizionali della sua razza. A quell'epoca, metà dei suoi fratelli erano morti, di malattia o in battaglia. Viveva in un mondo violento e inclemente, dove la vita era dura e incerta. Ma lui era sopravvissuto, e la gente diceva - quando lui non sentiva, perché era molto superstizioso - che non era stata ancora forgiata la spada in grado di ucciderlo. A vent'anni era sceso a Culhaven ed era entrato al servizio di Raybur, da poco incoronato re dei Nani e guerriero molto ammirato. Ma il sovrano l'aveva tenuto con sé per un breve periodo, poi l'aveva mandato presso i Druidi di Paranor. Riconoscendo il suo talento, Raybur aveva pensato di rendere un miglior servizio al popolo dei Nani facendo addestrare dai Druidi quel giovane con il cuore di guerriero e gli istinti del cacciatore. Anche lui, come Courtann Ballindarroch degli Elfi, conosceva Bremen e lo ammirava. Così, aveva mandato al vecchio druido una lettera in cui lo invitava a tenere in particolare considerazione Risca e a prenderlo come suo allievo. Con la lettera, il giovane era giunto a Paranor e vi era rimasto, per poi divenire un seguace di Bremen e un convinto sostenitore della magia. Con gli occhi fissi sulla tenda di seta nera, pensava a come impiegare la magia. La sua era la più forte dopo quella di Bremen almeno oggi, dato che era più giovane e resistente dell'altro - ossia lo era a parer suo, perché Tay Trefenwyd avrebbe messo certamente in dubbio l'asserzione. Al pari di Tay, Risca aveva studiato con assiduità le lezioni di Bremen, continuando ad addestrarsi anche dopo che il maestro era stato bandito e a mettere alla prova le sue capacità. Aveva studiato e si era allenato virtualmente da solo, perché nessun altro druido, neppure Tay Trefenwyd, si considerava un guerriero o cercava di apprendere come lui le arti marziali. Per Risca la magia poteva avere un solo scopo utile: proteggere chi la usava e i suoi amici e distruggere i nemici. Gli altri suoi rami guarigione, divinazione, prescienza, empatia, magia naturale, dominio delle forze elementari, evocazione dei morti e storia delle arti magiche - non rivestivano alcun interesse per lui. Era un guerriero: la sua unica passione era la forza delle armi. I ricordi si affacciarono e svanirono, e i suoi pensieri tornarono alla situazione del momento. Che doveva fare? Non poteva declinare le sue responsabilità, ma, d'altro canto, non poteva dimenticare di essere un guerriero. Sotto di lui, le pieghe di seta della tenda parevano agitarsi alla danza dei falò. Un solo colpo, pensò, non ne sarebbero occorsi di più. Con che facilità si sarebbero risolti tutti i problemi, se avesse potuto sferrare quel colpo! Trasse un profondo respiro e poi lo esalò lentamente. Non aveva paura di Brona. Sapeva quanto era pericoloso e potente, ma non aveva paura. Anche lui conosceva bene la magia; se l'avesse impiegata per un attacco mirato, nessuno sarebbe stato in grado di resistere, pensava. Chiuse gli occhi. Perché gli venivano in mente
quelle cose? Se avesse fallito, nessuno avrebbe avvertito i Nani del pericolo. Avrebbe perso la vita per niente! Ma se il colpo fosse riuscito... Ritornò in mezzo alle rocce, si sfilò il mantello e cominciò a togliersi le armi. Aveva deciso fin dal momento in cui gli era venuta in mente l'idea. Uccidere il Signore degli Inganni e porre fine a quella follia. E lui era il più adatto a quel compito. Era il momento ideale: l'esercito del Nord era ancora nei pressi della sua regione d'origine e Brona si sentiva al sicuro da attacchi nemici. Anche se Risca fosse morto, ne sarebbe valsa la pena. Lui era disposto a sacrificarsi. Un guerriero era sempre pronto a quel sacrificio. Quando rimase in calzoni, giubba e stivali, s'infilò un pugnale nella cintura, impugnò la scure da guerra e scese verso l'accampamento. Era quasi mezzanotte quando giunse ai piedi del monte e si avviò lungo la pianura. Sopra di lui, i Messaggeri circolavano ancora, ma Risca era dietro di loro e inoltre si era avvolto in una magia che lo nascondeva ai loro occhi. I cacciatori alati guardavano lontano per cercare nemici, e non l'avrebbero visto. Avanzò senza fretta e senza fare alcun rumore, immerso nel buio: la luce dei falò lo nascondeva a tutti coloro che avrebbero potuto notare il suo arrivo. La disposizione delle sentinelle era pietosamente inadeguata. C'era un perimetro di guardie, una mescolanza di Gnomi e Troll, ma troppo distanziate tra loro e troppo vicine ai falò per poter scorgere una persona che arrivasse dal buio. Il cielo era coperto di nuvole e l'aria della notte era velata dal fumo: anche in circostanze più favorevoli, sarebbero stati necessari occhi ben più acuti per scorgere qualche movimento nella pianura. Tuttavia, Risca non volle correre rischi. Si avvicinò tra l'erba alta e i cespugli e quando si diradarono proseguì a schiena curva e ginocchia piegate. Cercò con cura il punto da cui entrare, scegliendo come bersaglio uno degli Gnomi di guardia. Lasciò la scure in mezzo all'erba alta e proseguì con il solo pugnale. La sentinella non lo vide arrivare. Risca trascinò il corpo in mezzo all'erba alta, lo nascose, indossò il mantello del morto, si schermò la faccia col cappuccio, raccolse la scure e ripartì. Un altro ci avrebbe pensato due volte, prima di entrare nel campo nemico come se niente fosse. Risca non ci pensò affatto sapeva che un attacco diretto è sempre il migliore, quando si vuol cogliere qualcuno con la guardia abbassata. Infatti, si tende a dare meno importanza a ciò che si ha di fronte, e a darne di più a ciò che si coglie con la coda dell'occhio. Di solito nessuno prende in considerazione le assurdità, e l'idea che un solo nemico si dirigesse in tutta calma verso il centro di un accampamento fortemente presidiato era assolutamente incredibile. Tuttavia, Risca si tenne ai margini della zona illuminata dai falò, quando si mosse, con la faccia ben nascosta nel cappuccio. Non si mosse furtivamente e non abbassò la testa, perché avrebbe destato sospetti. Camminò come se facesse parte dell'accampamento e non rallentò il passo. Oltrepassò il perimetro esterno di fuochi e guardie e si diresse al centro del campo. Una nuvola di fumo gli passò davanti e la usò come schermo. Tutt'intorno a lui si levavano grida e risate, i soldati mangiavano e bevevano, si raccontavano barzellette e si scambiavano spacconate. Qua e là si sentivano tintinnare le armi e le corazze, gli animali da tiro scalpitavano e sbuffavano nel buio. Risca passò in mezzo a tutti senza rallentare e senza perdere di vista la sua destinazione: una massa di
pali e stendardi scuri che s'innalzavano al di sopra del brulichio del campo. Tenne bassa la scure, quasi contro le gambe, e si servì della magia per proiettare la propria immagine: quella di un soldato qualsiasi, uno dei tanti Cacciatori degli Gnomi che si dirigeva in un luogo senza importanza. Passò in mezzo al labirinto di falò e di uomini, evitando i carri e le cataste di rifornimenti, le file di animali da soma legati per la cavezza, i carpentieri che riparavano carri e attrezzature, i fasci di picche e di lance con le punte rivolte al cielo. Quando poté, si tenne nelle parti dell'accampamento occupate da Gnomi, ma di tanto in tanto fu costretto a passare in mezzo a gruppi di Troll, e in quei casi si comportò come un vero gnomo: intimidito e deferente, senza paura ma desideroso di non irritarli, si allontanava dal loro cammino quando venivano verso di lui e non guardava mai direttamente le loro facce rugose e anonime, i loro occhi induriti dalle battaglie. Sentiva i loro sguardi posarsi sulla sua figura e poi allontanarsi. Nessuno lo fermò o gli disse di tornare indietro. Nessuno lo smascherò. Aveva la schiena madida di sudore, e non perché la notte fosse calda. Ora l'accampamento si preparava a dormire, la gente si avvolgeva nei mantelli, davanti ai fuochi, e taceva. Risca procedette più in fretta. Aveva bisogno del chiasso e del trambusto per mimetizzarsi: se tutti si fossero addormentati, lui sarebbe stato notato. Comunque, ormai stava per giungere alla tenda del Signore degli Inganni: già la vedeva levarsi davanti a lui. Più s'avvicinava alla tenda nera, minore era il numero dei fuochi e anche il numero di soldati attorno ad essi. Nessuno aveva il permesso di avvicinarsi troppo alla tenda del Signore degli Inganni e nessuno aveva voglia di farlo. Risca si fermò accanto a un falò, dove una decina di soldati giacevano addormentati: erano tutti Troll, giganteschi, dai lineamenti a malapena abbozzati, e dormivano con le armi a portata di mano. Li ignorò, ed esaminò il tratto di terreno aperto tra lui e la tenda. Su ogni lato, tra la tenda nera e gli uomini c'erano almeno venti passi. Non si scorgevano sentinelle, ma Risca esitò. Perché non c'erano guardie? Si guardò attorno con attenzione, ma non ne vide. In quel momento, per poco non abbandonò il progetto. Sentiva che qualcosa non andava. Perché non c'erano guardie? Che aspettassero all'interno della tenda? O si erano nascoste dove era impossibile vederle? Per scoprirlo avrebbe dovuto attraversare il terreno aperto tra il falò e la tenda. C'era abbastanza luce da rivelare la sua presenza, perciò avrebbe dovuto usare la magia per non farsi vedere. Si sarebbe trovato completamente solo, senza alcun nascondiglio a disposizione. Rifletté in fretta. Poteva esserci qualche Messaggero del Teschio? Erano tutti a caccia o qualcuno era rimasto a proteggere il suo signore? C'erano altre creature di guardia? Le domande continuarono a bruciare dentro di lui, senza risposta. Esitò ancora un momento, guardandosi attorno, tendendo l'orecchio, saggiando l'aria. Poi strinse saldamente in pugno l'ascia da guerra e si avviò. Usò la magia per nascondersi, per confondersi nella notte, per diventare ombra tra le ombre Soltanto una pennellata superficiale, in modo da non farsi notare da chi avesse familiarità con le arti magiche. Si sentì prendere dalla smania di agire. Poteva farcela. Doveva. Attraversò il terreno aperto silenzioso come una nube che scivolasse nel cielo spazzato dal vento. Nessun rumore gli giunse all'orecchio. Nessun movimento attirò il suo
sguardo. Anche adesso che era vicino, non vide nessuno a proteggere la tenda nera. Infine le giunse accanto. L'aria era mortalmente immobile, suoni, odori e movimenti dell'esercito parevano svaniti nella distanza. Rimase fermo accanto alla tenda e attese che il suo istinto lo avvertisse di una trappola. Ma non ebbe alcun segnale, e allora appoggiò il filo della scure da guerra, affilata come un rasoio, contro il tessuto e lo tagliò fino in fondo. In quel momento udì un suono: un sospiro, forse, o un gemito molto fioco. S'infilò veloce nell'apertura. Nonostante l'oscurità che regnava all'interno, in pochi istanti i suoi occhi si abituarono. Nella tenda non c'era niente: persone, mobili, armi, un letto, un segno di vita... nulla di nulla! Risca guardava incredulo. Poi, nel silenzio si levò un soffio basso e roco che invadeva tutta la tenda e l'aria, davanti agli occhi del nano, si mosse. Il buio si addensò fino a formare una figura dove prima non c'era niente. Una forma ammantata di nero prese lentamente corpo. Risca comprese cos'era successo e venne scosso da un brivido di terrore. Il Signore degli Inganni era sempre stato presente, nel buio, invisibile, a vigilare e attendere. Forse aveva sempre saputo della presenza di Risca. Diversamente da quanto il nano aveva creduto, non era una creatura di carne e sangue, che si potesse uccidere con le normali armi. Mediante la magia aveva trasceso il suo guscio mortale e ormai poteva assumere qualsiasi forma... o nessuna. Non c'era da stupirsi che non ci fossero guardie. Non ce n'era bisogno. Il Signore degli Inganni alzò la mano per afferrarlo. Per un istante, Risca scoprì di non potersi muovere e pensò che sarebbe morto senza muovere un dito per salvarsi. Poi la forza della sua determinazione spezzò la paura e lo spinse ad agire. Lanciò un ruggito di sfida alla terribile figura nera, alla mano scheletrica che lo voleva afferrare, agli occhi rossi come il sangue, al proprio terrore, alle beffe del destino. Sollevò la scure percorsa da cima a fondo dalle fiamme della magia. Il Signore degli Inganni mosse la mano, e Risca si sentì stringere, come da strisce d'acciaio. Con uno sforzo immane, spezzò quell'incantesimo e scagliò la scure. L'arma colpì la forma avvolta nel mantello ed esplose in una fiammata. Risca non attese di vedere l'effetto del colpo. Sapeva per istinto che non era una lotta da cui potesse uscire vincitore. Le armi robuste e i guerrieri addestrati non erano sufficienti per sconfiggere quel nemico. Nello stesso istante in cui lanciò la scure, si gettò verso l'apertura della tenda, rotolò a terra per immediatamente rialzarsi, e corse via di gran carriera, per riguadagnare la libertà. Attorno ai falò si levavano già le prime grida, i soldati si destavano dal sonno. Il nano non si guardò alle spalle, ma sentì la presenza di Brona, una nube nera che cercava di afferrarlo e riportarlo indietro. Attraversò di corsa il terreno aperto e saltò sul fuoco più vicino, scalciando via le fiamme morenti e spargendo tutt'intorno una pioggia di faville e di braci. Afferrò la spada di un soldato che dormiva e si lanciò nella nube di fumo levatasi dal falò. In tutto l'accampamento si alzarono grida d'allarme. La mano del Signore degli Inganni cercò ancora di afferrarlo, stringendosi sul suo petto, ma diveniva sempre più debole con il crescere della distanza. Risca aveva perso la padronanza di sé, ma adesso cercò di recuperarla. Un Troll gli si parò davanti per bloccargli il passaggio, e gli piantò il pugnale in gola. Agì per istinto, ancora incapace di pensare
chiaramente Tutt'intorno a lui, i soldati correvano in ogni direzione, cercando la causa del trambusto, senza sapere che si trattava di lui. Si impose di rallentare il passo, di ignorare il battito tumultuoso del cuore e l'ansia che lo soffocava. Per tutte le ombre! C'era mancato poco! Ora prese a camminare in fretta ma senza correre, perché un uomo in corsa avrebbe richiamato l'attenzione. Evocò di nuovo la magia, abbandonata nel momento della fuga, e soltanto allora si accorse di averne perso quasi completamente il controllo, di essersi lasciato dominare dalla paura. Si avvolse nella magia e prese a sinistra, verso le praterie, scegliendo una strada diversa da quella dell'andata, una direzione in cui non avrebbero pensato di guardare. Se fosse stato scoperto e avesse dovuto farsi strada con le armi, l'avrebbero ucciso. Erano troppi. Troppi per chiunque, druido o non druido. Attraversò veloce l'accampamento, e l'agitazione dello scontro col Signore degli Inganni continuava a minacciare di soffocarlo. Si impose di respirare normalmente, di ignorare il trambusto, le grida, il trepestio delle squadre che venivano mandate in ogni direzione. Davanti a sé, vide stendersi il buio delle pianure, la distesa vuota che si allargava al di là del chiarore dei falò. Tutto il perimetro era sorvegliato dalle guardie, ma queste scrutavano nel buio, in attesa di un attacco proveniente da quella direzione. Provò un desiderio quasi irresistibile di guardarsi alle spalle, di controllare cosa succedeva, ma l'istinto gli diceva che così facendo si sarebbe tradito. Forse il Signore degli Inganni l'avrebbe guardato negli occhi e riconosciuto, nonostante la magia che lo nascondeva. O avrebbe riconosciuto la sua faccia. Perciò non si voltò. Proseguì verso i limiti del campo, rallentando per meglio scegliere il punto da cui uscire. "Tu e tu!" ordinò a un paio di Gnomi, passando in mezzo a loro senza rallentare per non farsi vedere in faccia e parlando nella loro lingua: una lingua che parlava correntemente fin da bambino. Fece cenno di seguirlo. "Venite con me." Non discussero il suo ordine. I soldati non lo fanno quasi mai. Risca aveva l'aspetto e il portamento di un ufficiale, e i due lo seguirono subito. Si diresse verso l'oscurità come se sapesse cosa stava facendo, come se avesse una missione da compiere. Li condusse fino a una certa distanza dall'accampamento, poi li mandò in direzioni opposte e si limitò a proseguire. Non cercò di recuperare le armi e l'equipaggiamento, perché sarebbe stato troppo pericoloso. Era fortunato a essere vivo e non voleva sfidare ulteriormente il destino. Respirò a fondo l'aria della notte per rallentare i battiti del cuore. Bremen conosceva davvero la natura del loro nemico? si chiese. Il vecchio druido si rendeva conto del potere del Signore degli Inganni? Forse sì, perché era stato nella tana del mostro e l'aveva spiato. Risca si pentì di non essersi informato meglio, quando ne aveva avuto la possibilità. Se l'avesse fatto, non avrebbe mai tentato di uccidere Brona. Avrebbe capito di non possedere le armi adatte. Ora comprendeva perché Bremen cercasse un talismano. E perché si fosse affidato alle visioni dei morti per trarne consiglio. Scrutò il cielo, alla ricerca di Messaggeri del Teschio, ma non ne vide. Tuttavia continuò ad avvolgersi nella magia per restare invisibile. Entrò nelle pianure di Raab e si diresse a sudest per raggiungere l'Anar. Prima che la luce del mattino lo tradisse, contava di essere al sicuro in mezzo agli alberi. Ne era uscito vivo per
affrontare nuove battaglie, e si considerava fortunato di poterlo dire. Ma quale genere di lotta si poteva condurre contro un nemico come il Signore degli Inganni? Che cosa doveva dire ai Nani per dare loro una speranza? Le risposte gli sfuggivano. Proseguì nella notte, continuando a cercarle. 13 Due giorni più tardi, l'esercito del Nord era accampato a meno di venti miglia da Storlock. Aveva attraversato le pianure senza incontrare ostacoli, piegando a est verso l'Anar e mantenendosi lontano dalle foreste che rischiavano di ritardarne il passo. Richiamava alla mente un enorme, torpido verme che, con pesante lentezza, si portasse sempre più vicino al rifugio dei Nani. I fuochi di guardia si stagliavano lontani, sullo sfondo del cielo crepuscolare: formavano una linea gialla e lucente che si stendeva per miglia attraverso la pianura. Kinson Ravenlock riusciva a vederne il chiarore benché si trovasse relativamente distante, sull'ultima propaggine dei Denti del Drago, al limitare della Valle d'Argilla. L'esercito aveva impiegato l'intero pomeriggio ad attraversare il Fiume Raab e si era accampato. All'alba dell'indomani avrebbe ripreso la marcia verso sud, e al tramonto avrebbe raggiunto un punto direttamente davanti al villaggio degli Stor. Questo significava, comprese il cacciatore della Frontiera, che lui e Mareth dovevano attraversare la pianura quella notte stessa, portandosi davanti all'esercito, se non volevano finire intrappolati nella parte sbagliata del territorio. Si era nascosto nell'ombra di un crepaccio tra le rocce, un po' in alto rispetto alla pianura, e rimpiangeva di non essere riuscito ad arrivare laggiù il giorno prima, in modo che non fosse necessaria una traversata notturna. Sapeva che al calar delle tenebre i cacciatori alati di Brona si sarebbero levati in volo e avrebbero setacciato il territorio scoperto che stava tra loro e la libertà. Non era un'idea piacevole. Si guardò alle spalle, verso il punto dove Mareth si era seduta e dove - dopo aver gettato gli stivali, senza tante cerimonie, a terra a far compagnia al mantello e alle loro poche scorte - si massaggiava i piedi doloranti per la marcia forzata di quel giorno. Ma sarebbe stato impossibile arrivare prima; Kinson lo sapeva. Per giungere laggiù, la giovane donna aveva dovuto fare appello a tutte le proprie forze. Era ancora indebolita dall'esperienza nel Castello dei Druidi; si stancava subito e aveva bisogno di riposare spesso. Ma non si era mai lamentata, neppure quando il cacciatore le aveva annunciato che avrebbero dovuto rinunciare al sonno finché non fossero giunti a Storlock. Aveva una grande forza di volontà, ammise lui con riluttanza. Avrebbe voluto capirla un po' meglio. Guardò di nuovo le pianure, i fuochi di guardia, l'oscurità che dilagava da est e che scendeva in strati sempre più fitti sul paesaggio. Allora, era per quella notte. Rimpianse di non conoscere una magia che li nascondesse, ma era come rimpiangere di non saper volare. Non poteva chiedere a Mareth di usare la sua, naturalmente, perché Bremen l'aveva proibito. E lo stesso Bremen era ancora assente; da lui non c'era da aspettarsi aiuto. "Vieni a mangiare qualcosa" lo chiamò lei. Si volse e scese dalle rocce. La giovane donna aveva tolto dallo zaino pane, formaggio e frutta e aveva
versato la birra in due tazze metalliche. Si erano procurati le provviste da un contadino, nei pressi di Varfleet, la sera precedente, e quelle erano le ultime. Kinson si sedette davanti a lei e cominciò a mangiare, senza guardarla. Avevano lasciato il vuoto Paranor due giorni prima, erano nuovamente scesi per il Passo di Kennon e si erano diretti a est costeggiando il Fiume Mermidon fino al luogo dov'erano adesso. Bremen li aveva mandati avanti, aveva ordinato di continuare senza di lui, di seguire il fiume fino alle Pianure di Raab e infine di raggiungere Storlock. Laggiù dovevano cercare notizie di un uomo che, secondo il vecchio druido, si trovava in qualche zona selvaggia della Terra dell'Est, a nord dell'Anar: un uomo che Kinson non aveva mai sentito nominare. Dovevano rintracciarlo e, fatto questo, attendere il suo ritorno. Il druido non aveva spiegato cosa intendeva fare nel frattempo. E neppure cosa voleva dallo sconosciuto. Si era limitato a dar loro gli ordini - o meglio, li aveva dati a Kinson perché Mareth in quel momento dormiva - e poi era scomparso in mezzo agli alberi. Secondo Kinson, era tornato nella rocca dei Druidi, e si chiese ancora una volta perché. Erano fuggiti da Paranor in mezzo a una tempesta di suoni e di furia, di magia che imperversava scatenata e che in parte era quella di Mareth e in parte proveniva dalla rocca stessa. Pareva che si fosse destata una bestia feroce intenzionata a divorarli; a Kinson era parso di sentire il suo fiato sul collo, di udire i suoi artigli raspare sulla pietra, dietro di loro. Ma erano riusciti a raggiungere la foresta e vi si erano nascosti, mentre già sorgeva l'alba e la furia della bestia si spegneva e moriva. Erano rimasti sotto la protezione degli alberi per tutto il giorno seguente e avevano lasciato che Mareth dormisse. Bremen si era preso cura di lei: dapprima era visibilmente preoccupato ma poi, quando la giovane donna si era destata abbastanza a lungo da bere una tazza d'acqua prima di riaddormentarsi, si era tranquillizzato. "La sua magia è troppo forte per lei" aveva spiegato a Kinson, mentre la vegliavano a turno, nelle ultime ore del mattino, dopo che lei si era svegliata e addormentata una seconda volta. Il sole era alto su di loro e i cupi ricordi della notte precedente cominciavano ad affievolirsi. Paranor era una presenza silenziosa, dietro la cortina di alberi, ed era tornata immobile come la morte, s'era svuotata di ogni vita. "E' ovvio che Mareth si era recata dai Druidi per trovare il modo di capire meglio il suo talento magico. Suppongo che non sia rimasta con loro abbastanza a lungo per farlo. Forse si è aggregata a noi nella convinzione che potessimo aiutarla." Aveva scosso la testa dai capelli grigi. "Hai visto? Ha evocato la sua magia per proteggermi dai mostri di Brona, e ha perso immediatamente il controllo! Sembra incapace di giudicare la quantità di magia occorrente. O forse non è affatto questione di giudicare, e la spiegazione è che la magia di Mareth, una volta evocata, assume la forma che vuole. Comunque sia, prorompe da lei come un'onda di marea! Nella rocca dei Druidi ha divorato quei mostri come se fossero stati moscerini. Era talmente forte da destare la magia protettiva della rocca, la magia della terra messa in opera dai primi Druidi. E' la magia che ho risvegliato al mio ritorno, per essere certo che difendesse il castello da un tentativo di distruzione. Non ho potuto salvare i Druidi dal Signore degli Inganni, ma ho potuto proteggere Paranor. La magia di Mareth è stata così travolgente, nel distruggere le creature di Brona,
da dare l'impressione che la rocca stessa fosse in pericolo: di conseguenza, s'è destata anche la magia della terra." "La magia di Mareth è innata, dicevi l'altro giorno" aveva osservato Kinson. "Che origine può avere, per essere così forte?" Il vecchio aveva sporto il labbro, riflettendo. "Un altro druido, forse. Un elfo che ha ancora nelle vene la magia del passato. Una creatura di Faerie, sopravvissuta al vecchio mondo. Una qualsiasi di queste fonti." Aveva inarcato un sopracciglio, perplesso. "Mi chiedo se lei lo sa." "E io mi chiedo se è disposta a dircelo, nel caso lo sappia" era stata la replica di Kinson. Fino a quel momento, lei non ne aveva parlato. Quando si era svegliata, Bremen li aveva ormai lasciati. Era stato Kinson a riferirle che non doveva usare la magia finché il druido non fosse tornato e non ne avesse parlato con lei. La giovane donna aveva accettato l'imposizione con poco più di un cenno del capo. Non aveva parlato di quanto era successo nella rocca: pareva essersi completamente dimenticata dell'accaduto. Terminato il pasto, il cacciatore della Frontiera sollevò lo sguardo. Lei lo stava osservando. "A che cosa pensi?" gli chiese. Lui si strinse nelle spalle. "All'uomo che dobbiamo cercare. Mi chiedevo perché Bremen lo considera così importante." Lei annuì lentamente. "Cogline." "Sai il suo nome?" Lei non rispose. Come se non lo avesse udito. "Forse uno dei tuoi amici di Storlock sarà in grado di aiutarci." "Non ho amici a Storlock." Lo sguardo di lei divenne inespressivo. Per qualche istante, Kinson la fissò senza capire. "Ma non hai detto a Bremen che tu...?" "Gli ho mentito." Mareth trasse un profondo respiro e distolse lo sguardo da lui. "Ho mentito a lui e a tutti i Druidi di Paranor prima di lui. Era il solo modo di entrare. Avevo la disperata necessità di studiare con i Druidi, e sapevo che non mi avrebbero accolta se non avessi dato loro una ragione. Perciò ho detto di avere studiato con gli Stor. Ho dato loro dei documenti per dimostrare ciò che affermavo, ma erano tutti falsi. Li ho ingannati deliberatamente." Sollevò gli occhi. "Ma adesso vorrei smetterla con le menzogne e dire la verità." L'oscurità era ormai completa, l'ultima luce del giorno era svanità. Sedevano nel loro nascondiglio ammantati dall'ombra della notte, a malapena in grado di vedersi. Poiché più tardi avrebbero attraversato la Pianura di Raab, Kinson non aveva acceso il fuoco. Ora rimpianse di non averlo fatto, perché avrebbe voluto vederla in faccia. "Penso" disse lentamente "che potrebbe essere il momento adatto per la verità. Ma come posso essere certo che non si tratta di un'altra bugia?" Lei sorrise tristemente. "Lo capirai." Kinson la fissò negli occhi. "Le menzogne riguardavano la tua magia, vero?" suggerì. "Sei un uomo sensibile, Kinson Ravenlock" rispose lei. "Mi piace questo tuo lato. Sì, le bugie erano necessarie a causa della mia magia. Ho un bisogno estremo di trovare il modo..." s'interruppe per cercare la parola giusta "... di vivere con me stessa. Da troppo tempo devo lottare contro il mio potere, e comincio a essere stanca e disperata. A volte ho pensato di uccidermi per quello che mi ha fatto." Tacque per qualche istante, fissando il buio. "Possiedo la magia fin dalla nascita. Magia innata, come ho detto a Bremen. Questo era vero. Non ho mai conosciuto mio padre. Mia madre è morta nel darmi alla luce. Sono stata allevata da persone che non appartenevano alla mia famiglia. Se ho parenti, non si sono mai fatti vivi. Quelle persone si sono prese cura di me per motivi che non ho mai capito. Erano gente dura
e taciturna, e non mi hanno mai parlato della mia origine. Penso che mi abbiano tenuta perché si sentivano obbligati, ma non mi hanno mai rivelato la natura dell'obbligo. A dodici anni mi hanno mandata via, cedendomi come apprendista a un vasaio. Dovevo trasportare i materiali, pulire, osservarlo al lavoro, se volevo, ma soprattutto fare quello che mi diceva lui. Possedevo la magia, certo, ma anch'essa, come me, era ancora immatura, era solo una vaga presenza che si manifestava in occasioni di poco conto. "Quando sono diventata donna, anche la magia è cresciuta dentro di me. Un giorno il vasaio ha cercato di battermi, e io mi sono difesa istintivamente, evocando la magia perché mi proteggesse. Per poco non l'ho ucciso. Allora me ne sono andata e mi sono recata nella Frontiera per trovare un nuovo posto in cui vivere. Per un certo periodo sono vissuta a Varfleet." Sorrise. "Può darsi che le nostre strade si siano incrociate, in quella occasione. O eri già lontano? Probabilmente eri già via." Si strinse nelle spalle. "Un anno più tardi, sono stata aggredita di nuovo. Erano parecchi uomini, e penso che avessero in mente qualcosa di più delle semplici percosse. Ho di nuovo fatto ricorso alla magia. Non sono riuscita a controllarla e ne ho uccisi due. Ho lasciato Varfleet e mi sono diretta a est." Sorrise in modo amaro, ironico. "In tutto questo comincerai a vedere una sorta di disegno ricorrente, vero? Presto cominciai a pensare di non poter vivere con nessuno perché non potevo fidarmi di me. Passavo da una comunità all'altra, da una fattoria all'altra, guadagnandomi la vita come potevo. Fu un periodo utile, perché scoprii nuovi lati della mia magia. Non era soltanto distruttiva, era anche in grado di curare. Ero un'empatica, scoprii. Con la mia magia potevo guarire le ferite. Me ne sono accorta per caso, quando un uomo che mi era amico si ferì in una caduta e corse il rischio di morire. Fu una rivelazione che mi diede speranza. La magia, impiegata in quel modo, era controllabile. Non capivo perché, ma sembrava obbedire al mio volere, quando la usavo per guarire e non per distruggere. Forse la collera è intimamente meno controllabile della simpatia. Non saprei. "In ogni caso, sono davvero andata dagli Stor, a chiedere che mi permettessero di studiare con loro, per imparare a usare il mio talento. Ma, non conoscendomi, non mi hanno accettata nel loro ordine. Sono Gnomi, e nessun membro di un'altra razza ha mai avuto il permesso di studiare con loro. Si sono rifiutati di fare un'eccezione per me. Ho cercato per mesi di convincerli a prendermi, rimanendo nel loro villaggio, guardandoli al lavoro, mangiando con loro quando me lo permettevano, chiedendo solo che mi dessero una probabilità. "Poi un giorno è giunto un uomo che veniva dalla foresta per fare visita agli Stor. Ha chiesto loro qualcosa, qualcosa delle loro tradizioni, e quelli non hanno avuto alcuna esitazione a darglielo.LO ero meravigliatissima. Dopo mesi in cui li imploravo di darmi le briciole, non ero riuscita a ottenere niente. Ed ecco che arriva quell'uomo, sbucato da chissà dove uno del Sud, non uno gnomo - e gli Stor lo accontentano immediatamente. Decisi di chiedergli perché." Con la punta dello stivale incise un solco in terra, come per scavarne fuori il passato. "Era un individuo dall'aspetto strano, alto e magro, tutto spigoli e ossa, con la faccia affilata e i capelli arruffati. Pareva perdersi continuamente nei propri pensieri, come se una normale conversazione fosse la cosa più difficile del mondo. Ma riuscii a farlo parlare. Lo costrinsi ad ascoltare la mia
storia e nel parlargli divenne chiaro che conosceva bene la magia. Così finii per dirgli tutto. Sentivo di potermi fidare. Mi disse che gli Stor non mi avrebbero presa, che era inutile per me rimanere nel villaggio. Vai a Paranor, dai Druidi, mi disse, e io risi. Gli feci notare che neanche loro mi avrebbero voluta. Ma lui disse di no. Mi spiegò cosa dire loro. Mi aiutò a inventare una storia, e scrisse i documenti che mi avrebbero fatta accogliere nell'ordine. Affermò di conoscere i Druidi perché era uno di loro, molto tempo addietro. Però, non avrei dovuto fare il suo nome. Non godeva delle loro simpatie, mi spiegò. "Allora gli chiesi il suo nome, e lui me lo disse: Cogline. Aggiunse che i Druidi non erano più quelli di una volta. Mi disse che con l'eccezione di Bremen non viaggiavano più per le Quattro Terre com'era loro abitudine. Che avrebbero accettato senza discussioni la mia storia se fossi riuscita a mostrare le mie capacità di guaritrice. Non si sarebbero presi la briga di svolgere ulteriori controlli perché erano fiduciosi in modo addirittura eccessivo. Aveva ragione. Feci come mi aveva detto e i Druidi mi presero." Sospirò. "Ora capisci perché ho chiesto a Bremen di prendermi con sé? Lo studio della magia non viene incoraggiato a Paranor, non in modo significativo. Solo alcuni, come Risca e Tay, la comprendono realmente. Non mi è stata data la possibilità di scoprire come controllare la mia. Se avessi rivelato la sua presenza, sarei stata subito espulsa. I Druidi hanno paura della magia. Anzi, avevano paura, perché adesso sono morti." "La tua magia è diventata più potente?" chiese Kinson quando lei ebbe terminato. "Più incontrollabile? E' stato così, quando l'hai evocata nella rocca?" "Sì" ammise lei, stringendo le labbra. Gli occhi le brillarono per le lacrime. "Hai visto. Mi ha completamente sopraffatta. E' stata come un'onda di piena che minacciava di sommergermi. Non potevo respirare!" "E così hai cercato Bremen perché ti aiutasse a dominarla. Questo perché Bremen è il solo druido che possa comprendere la tua magia." Lei lo fissò negli occhi. "Non intendo chiedere scusa per quello che ho fatto." Lui la guardò a lungo, prima di rispondere. "Non ho mai pensato, neppure per un momento, che dovessi farlo. Né ti giudico per la tua scelta. Non ho vissuto la tua vita. Ma penso che le bugie debbano finire. Quando rivedremo Bremen, racconta anche a lui quello che hai detto a me. Se ti aspetti il suo aiuto, devi essere onesta con lui." Lei annuì e, con irritazione, si asciugò le ciglia. "Avevo già deciso di farlo" asserì. Sembrava piccola e vulnerabile, ma la voce era dura. Non avrebbe fatto altre concessioni, intuì Kinson. Anche il poco che gli aveva detto, si rese conto, doveva essere stato un tormento per lei. "Di me vi potete fidare" disse all'improvviso, come se gli avesse letto nella mente. "Ma non della tua magia" corresse lui. "No, anche della magia. Puoi fidarti: non la userò fino al ritorno di Bremen." Lui la osservò senza parlare per alcuni istanti, poi annuì. "Abbastanza giusto." Tutt'a un tratto, con una certa sorpresa, si era accorto che erano molto simili. Entrambi avevano viaggiato a lungo per lasciarsi alle spalle il passato, e per nessuno dei due il viaggio era finito. Entrambi si erano legati a Bremen, avevano intrecciato indissolubilmente la loro vita alla sua ed entrambi comprendevano di non avere avuto scelta Guardò il cielo e si alzò. "E' ora di metterci in marcia." Si annerirono la faccia e le mani, fasciarono le armi e gli oggetti metallici perché non tintinnassero,
scesero dal loro nascondiglio tra le rocce e cominciarono la traversata del Raab. L'aria della notte era fresca e profumata perché dalle colline soffiava una leggera brezza che portava l'odore della salvia e del cedro. Nel cielo avanzavano delle nubi che nascondevano la luna e le stelle, visibili solo a tratti e come una vaga luce diffusa. I suoni arrivavano lontano, in una notte come quella, e Kinson e Mareth camminavano senza far rumore, con molta attenzione, nell'erba alta, evitando i tratti coperti di ciottoli che avrebbero potuto tradire la loro presenza. A nord, i fuochi dell'accampamento erano come un alone color zafferano che si stendeva dai Denti del Drago all'Anar. Ogni pochi minuti, Kinson si fermava e tendeva l'orecchio, attento ai tipici suoni della pianura e a quelli che non lo erano. Mareth lo seguiva a un passo di distanza e non parlava. Kinson sentiva la sua presenza senza bisogno di girarsi, era come un'ombra alle sue spalle. Le ore passavano e la pianura si stendeva dinanzi a loro, allungandosi a mano a mano che la attraversavano, cosicché, per un certo tempo, ebbero l'impressione di non aver fatto molta strada. Kinson continuava a tenere d'occhio il cielo coperto di nuvole, attento ai cacciatori alati che volavano nella notte, ma lo faceva per abitudine, più che per il timore di vedere quei mostri. Aveva imparato per esperienza che per prima cosa li avrebbe percepìti, e che in tal caso doveva nascondersi subito, perché se avesse aspettato di riuscire a distinguerli sarebbe stato troppo tardi. Ma il prurito sgradevole, l'ansia raggelante, il presagio di una minaccia non giunsero, così, seguito da Mareth, proseguì la marcia. Fecero una sola sosta per bere un sorso di birra dall'otre, accucciati sui talloni, nel letto asciutto e sinuoso di un torrente coperto di arbusti, al buio. Kinson si scoprì a chiedersi come fosse stata la vita per la giovane, priva di famiglia, isolata a causa della magia, senza casa perché le circostanze gliel'avevano tolta, ma anche per propria scelta. Dava prova di un notevole coraggio, pensò, a continuare la lotta, mentre sarebbe stato facile cedere. Nella scelta della sua strada, non era mai scesa a compromessi con sé o con altri. Si chiese fino a che punto Bremen si fosse reso conto della situazione, quando l'aveva presa con loro. Si chiese anche fino a che punto la giovane fosse riuscita a ingannare il vecchio druido. Meno di quanto lei credesse, pensò. Sapeva per esperienza che Bremen riusciva a leggere nell'anima di una persona come se fosse fatta di vetro, e a vederne le parti in movimento. Era una delle qualità che gli avevano permesso di rimanere in vita per tanti anni. Poco dopo mezzanotte, un Messaggero del Teschio tagliò loro la strada. Giunse dall'est, da dove loro erano diretti, e questo sorprese il cacciatore, che ne aspettava la venuta dal Nord. Sentì la sua presenza e si gettò subito a terra, a faccia in giù, in un cespuglio, portando con sé Mareth. Dall'espressione di lei, capì che sapeva perfettamente cosa stava succedendo. La attirò accanto a sé, nel nascondiglio. "Non alzare la testa" le sussurrò. "Non pensare alla creatura che vola sopra di noi. Sentirebbe la nostra presenza." Si schiacciarono contro il terreno mentre la creatura si avvicinava, e la paura salì dentro di loro fino a diventare una vampata, rovente come quella del sole a mezzogiorno. Kinson si costrinse a respirare normalmente e a pensare al passato, a quando era bambino e andava a caccia con i fratelli. Cercò di rimanere immobile, il corpo fermo, i
muscoli rilassati, gli occhi chiusi. Accanto a lui, Mareth respirava all'unisono con lui e cercava di mantenere una pari immobilità. Il Messaggero del Teschio passò sopra di loro, volando in cerchio. Il cacciatore della Frontiera sapeva in ogni momento quanto era vicino: questo grazie alla sua esperienza, ai mesi trascorsi a esplorare le Terre del Nord, quando i cacciatori alati setacciavano in lungo e in largo, ogni notte, il territorio su cui viaggiava. Bremen gli aveva insegnato a evitarli e a sopravvivere. Alle sensazioni suscitate dai mostri era impossibile sfuggire, ma le si poteva dominare. Le sensazioni, dopotutto, non fanno alcun male. Mareth l'aveva capito. Nella stretta delle sue braccia, non si mosse e non tremò, non tentò di alzarsi o di scappare dal nascondiglio. Rimase sdraiata come lui, con pazienza e decisione. Alla fine, il Messaggero volò via, si portò in un'altra zona delle pianure. Kinson e Mareth tremavano, ma finalmente tirarono un sospiro di sollievo. Era sempre così, pensò il cacciatore, rimettendosi in piedi. Odiava quel senso di paura, odiava la vergogna che provava nel doversi nascondere in modo così codardo. Ma era pur sempre preferibile quella vergogna alla morte. Rivolse a Mareth un sorriso rassicurante, poi ripresero il cammino nella notte. Arrivarono a Storlock poco prima dell'alba, bagnati fradici e infangati a causa di un improvviso acquazzone che li aveva colti a circa un miglio dal villaggio. Seri in volto e deferenti, alcuni Stor dalla tonaca bianca vennero ad accoglierli. Furono scambiate poche parole perché non erano necessarie. Gli Stor, a quanto parve, li riconobbero entrambi e non fecero domande. Forse si ricordavano delle loro visite passate, pensò il cacciatore, mentre lo accompagnavano all'asciutto. Mareth era vissuta con loro e lui li aveva visitati parecchie volte, in compagnia di Bremen. Quale che ne fosse la spiegazione, semplificò i loro rapporti. Anche se distaccati e presi dalle loro attività come sempre, gli Stor li accolsero con generosità e offrirono cibo e riparo. Come se fossero stati avvisati della loro venuta, diedero loro minestra calda, abiti asciutti e una camera ciascuno nella foresteria del grande edificio. Entro un'ora dal loro arrivo, Kinson e Mareth dormivano già. Al loro risveglio era quasi sera. La pioggia era cessata ed entrambi uscirono a guardarsi attorno. Il villaggio era silenzioso, la foresta sembrava priva di vita. Per la strada videro solo numerosi Stor, silenziosi come spettri, presi dalle loro incombenze; a malapena alzavano la testa per guardare i due stranieri. Nessuno si rivolse a loro. Nessuno parlò. Visitarono alcuni ospedali dove i Guaritori si prendevano cura di persone giunte da ogni parte delle Quattro Terre. Nessuno parve badare alla loro presenza. Nessuno chiese loro di allontanarsi. Mentre Mareth si soffermava a giocare con un paio di bambini Gnomi che si erano ustionati in un incidente di cucina, Kinson uscì e si fermò a guardare la foresta, ormai avvolta dal buio, e pensò ai pericoli cui poteva dar luogo la presenza dell'esercito del Nord nelle vicinanze. Quella sera, a cena, riferì a Mareth le sue preoccupazioni. L'esercito doveva ormai trovarsi assai vicino al villaggio. Se avessero avuto bisogno di cibo o di altre scorte, come sempre succedeva, i comandanti avrebbero inviato una squadra di esploratori ad approvvigionarsi, e Storlock avrebbe corso gravi pericoli. Tutti conoscevano gli Stor e il lavoro da essi svolto, e tutti rispettavano la loro riservatezza. Ma l'esercito di Brona obbediva
a un altro genere di condotta, a un'altra scala di valori, e non avrebbe assicurato al villaggio la protezione che normalmente gli veniva concessa. Che fine avrebbero fatto gli Stor se uno dei Messaggeri fosse venuto tra loro a caccia di prede? I Guaritori non avevano modo di proteggersi, non conoscevano le armi. Per la propria salvezza si affidavano unicamente alla neutralità e al disinteresse per la politica. Ma questo poteva essere sufficiente per i cacciatori alati? Mentre riflettevano su quel problema, chiesero notizie di Cogline e vennero a sapere subito dove trovarlo. A quanto pareva, non si trattava affatto di un segreto. Cogline aveva regolari contatti con gli Stor: per procurarsi i rifornimenti preferiva trattare con loro che con le stazioni commerciali che punteggiavano i margini della foresta dove s'era ritirato. L'ex druido era andato ad abitare nelle profondità dell'Anar, nella valle chiamata Pietra del Focolare situata nella regione poco frequentata di Terrabuia. Neanche Kinson aveva mai sentito quel nome, benché conoscesse la Terrabuia e la considerasse un luogo da evitare perché vi abitavano gli Gnomi Ragno: una tribù di esseri sparuti, a malapena umani, così selvaggi e primitivi da comunicare con gli spiriti e da fare sacrifici agli antichi dei. La Terrabuia era un mondo a sé, fossilizzato nel tempo, immutato dal giorno delle Grandi Guerre e Kinson aveva fatto una smorfia nel venire a sapere che probabilmente vi si sarebbero recati. Dopo cena gli Stor ritornarono al lavoro e Kinson rimase a sedere con la giovane donna su una panca dalla spalliera dura e scomoda, nel portico della mensa, e studiò il cielo sempre più scuro. Con crescente preoccupazione pensava che Bremen non era ancora arrivato. Forse era ancora a Paranor. Forse era rimasto intrappolato dall'altra parte delle Pianure di Raab, e tra lui e Storlock c'era l'esercito del Nord. L'incertezza lo metteva in agitazione. Non gli piaceva dover attendere il vecchio druido, rimanere in ozio in un momento in cui avrebbe preferito agire. Non che fosse incapace di attendere, se necessario, ma ora non vedeva la ragione di quegli indugi. Pensava che Bremen avrebbe dovuto mandarlo avanti, alla ricerca di Cogline, anche se questo comportava andare nella Terrabuia. Gli pareva che perdessero tempo. Dalla sala uscì una fila di Stor, avvolti nella lunga tunica e incappucciati, riservati e misteriosi. Scesero i gradini del portico, attraversarono la strada ed entrarono in un altro edificio. Le loro lunghe forme bianche svanirono lentamente nell'ombra grigia del crepuscolo, come una fila di spettri dopo il tramonto. Kinson pensò con perplessità alla loro monomania alla loro particolare mescolanza di dedizione al lavoro e indifferenza a tutto ciò che si estendeva al di là del loro piccolo villaggio. Lanciò un'occhiata a Mareth, cercando di immaginarla come una di loro, chiedendosi se rimpiangesse ancora di non essere stata ammessa nell'ordine. Che l'isolamento fosse più adatto a lei, considerando le preoccupazioni che le dava la sua magia, il rischio di una sua esplosione incontrollata? Si sarebbe sentità meno limitata che a Paranor? Il mistero della sua vita lo incuriosiva e lo spingeva a porsi su di lei domande che non si era mai posto per altre persone. Quella notte dormì male, perseguitato da sogni in cui si vedeva minacciato da mostri senza faccia, assetati del suo sangue. Quando si svegliò poco prima dell'alba, si trovò in piedi e con la spada in mano prima ancora di capire cosa stava facendo. Dall'esterno giungevano voci
roche e gutturali, il suono metallico delle armi e il clangore delle armature. Rinunciò a infilarsi gli stivali e, portando con sé solo la spada, uscì dalla camera da letto e scivolò lungo il corridoio, fino all'ingresso principale, dove una fila di finestre si affacciava sulla strada. Tenendosi nell'ombra, guardò fuori. Sulla strada c'era una numerosa squadra di razziatori dei Troll e, dinanzi a essa, sugli scalini dell'ospedale di fronte, un gruppo di Stor. I Troll era armati e minacciosi; dai loro gesti si capiva che volevano entrare. Gli Stor non si opponevano in modo aperto, ma non li lasciavano passare. Le voci incollerite erano dei Troll; gli Stor erano silenziosi e impassibili davanti alle minacce degli invasori. Kinson non capì cosa volevano, se cibo, rifornimenti o altro ancora. Ma era chiaro che non intendevano rinunciare alle loro richieste. Capivano benissimo che non c'era nessuno, in tutto il villaggio, in grado di opporsi. Kinson guardò rapidamente gli edifici bui, i marciapiedi in ombra, la foresta e la strada, e valutò le sue possibilità. Poteva stare dove si trovava e augurarsi che non succedesse niente. In tal caso avrebbe condannato gli Stor al destino riservato loro dai Troll, qualunque fosse. Poteva attaccare i Troll alle spalle e probabilmente ucciderne quattro o cinque prima che gli altri lo sopraffacessero. Non gli parve un grande risultato: morto lui - e l'avrebbero di certo ucciso - i Troll sarebbero stati liberi di fare agli Stor tutto quello che volevano. Oppure, poteva provare con una diversione, ma non aveva la sicurezza di riuscire ad allontanare tutti i Troll dal villaggio, né che non vi facessero ritorno. All'improvviso gli venne in mente Mareth. Lei aveva la forza necessaria per salvare quella gente. La sua magia era abbastanza potente per ridurre in cenere in un batter d'occhio l'intera squadra di Troll. Tuttavia le era stato proibito di usare la magia, e senza di essa era vulnerabile quanto gli Stor. Dall'altra parte della strada, uno dei Troll aveva cominciato a salire gli scalini che portavano all'ingresso, e aveva abbassato minacciosamente l'enorme picca. Gli Stor attesero che salisse, come pecore biancovestite davanti a un lupo. Kinson strinse con più forza la spada e si avvicinò alla porta, l'aprì lentamente. Qualunque cosa decidesse di fare, doveva farla in fretta. Era pronto a uscire dall'ombra quando dagli Stor assediati si levò un grido. Qualcuno usciva dall'edificio facendosi strada in mezzo a loro: una figura zoppicante e semisvestita, che barcollava e batteva le braccia come se fosse stata colpita da una forma di pazzia. Degli stracci le penzolavano addosso: erano le bende delle sue ferite, che ora si aprivano all'aria, rosse e purulente. La faccia dell'apparizione era distrutta da pustole e ulcerazioni, il corpo indebolito da una consunzione che aveva lasciato solo le ossa, sotto la pelle chiazzata di macchie bianche. Incespicando, la figura uscì dal gruppo degli Stor e si portò sugli scalini, gemendo disperata. I Troll sollevarono le armi, con esitazione, e il primo fece un passo indietro per la sorpresa. "Peste!" gridò la creatura devastata, e la parola echeggiò nel silenzio, aspra e terribile. Uno sciame di insetti si levò dalla schiena dell'apparizione, ronzando follemente. "Peste, dappertutto peste! Fuggite! Fuggite!" La creatura barcollò e finì in ginocchio. Dal corpo le si staccarono lembi di carne, dalle ferite aperte il sangue gocciolò sugli scalini di legno e dalle macchie si levò un filo di vapore che salì nell'aria gelida della notte. Kinson
rabbrividì, inorridito. A causa della malattia, cadeva letteralmente a pezzi! Nemmeno i Troll ressero. Soldati dalla testa ai piedi, erano coraggiosi di fronte a qualsiasi nemico visibile, ma temevano l'invisibile come il più pacifico bottegaio. Indietreggiarono in disordine, cercando di non mostrare paura, ma decisi a non rimanere un altro momento nelle vicinanze della disgraziata figura che era crollata sugli scalini dinanzi a loro. Con un gesto sprezzante e iroso, il capo della squadra fece segno di lasciare gli Stor e il villaggio, e l'intero drappello si affrettò ad allontanarsi in direzione del Raab, per poi sparire nella foresta. Quando se ne furono andati, Kinson uscì alla luce e abbassò la spada, mentre il cuore gli tornava a battere normalmente. Guardò gli Stor sugli scalini e li vide riuniti attorno alla strana apparizione, noncuranti del morbo che la distruggeva. Costringendosi a ignorare la paura, il cacciatore attraversò la strada per dare il suo aiuto. Quando li raggiunse, trovò Mareth in mezzo a loro. "Ho infranto la promessa" disse lei, con espressione ansiosa e preoccupata. "Mi dispiace, ma non potevo lasciare che li attaccassero." "Hai usato la magia!" comprese finalmente il cacciatore, stupito. "Soltanto una briciola. Soltanto la parte che mi serve per le guarigioni, quella che utilizzo per empatia. Posso invertirla per far sembrare malato quello che è sano." "Sembrare?" "Be', sì." S'interruppe. Lui notò la stanchezza, i cerchi neri attorno agli occhi, le ultime linee di dolore incise agli angoli della bocca. La giovane aveva la fonte madida di sudore, le dita contorte e rigide. "Capisci, Kinson, era necessario." "E pericoloso" aggiunse lui. Mareth batté le palpebre. Rischiava il collasso. "Adesso sto bene. Devo solo dormire. Mi aiuti a camminare?" Lui scosse la testa, sconsolato, la sollevò senza fare parola e la riportò nella sua stanza. Dopo essersi assicurato che la magia protettiva della rocca dei Druidi fosse ritornata al suo posto e che il castello non avesse subìto danni, era andato ancora una volta al Perno dell'Ade per parlare con gli spiriti dei trapassati. Sperava di apprendere qualche nuovo particolare sulle visioni ricevute nel corso dell'ultima visita, che gli venisse rivelato qualcosa di più; ma gli spiriti non gli avevano voluto parlare, non erano voluti apparire, e le acque del lago si erano levate con una tale furia, alla sua evocazione, da minacciare di sommergerlo, di trascinarlo nelle loro profondità per punirlo di un'intrusione così temeraria. Nel descrivere il modo in cui era stato trattato, la sua voce divenne tagliente. A quanto pareva, gli era stato dato tutto l'aiuto che poteva ricevere. Il suo destino, da quel momento in poi, dipendeva unicamente da lui. Quando gli chiesero di Cogline, il vecchio druido evitò di rispondere. Avrebbero avuto tempo di parlarne. Per il momento dovevano pazientare e lasciare che un povero vecchio riposasse un po'. Kinson e Mareth non mossero obiezioni. Perché Bremen riprendesse le forze erano necessari alcuni giorni. Ma l'indomani, prima che sorgesse il sole, il druido andò a prenderli nei loro letti e nel profondo silenzio dell'ora che precede l'alba, lasciarono il villaggio degli Stor ancora addormentati e si avviarono verso la Terrabuia. Il giorno seguente l'esercito del Nord smontò le tende e proseguì verso sud e l'indomani ricomparve Bremen. Mareth si era ripresa dagli effetti della magia e pareva di nuovo forte e sana, ma il vecchio druido dava l'impressione di aver preso il suo posto. Era stanco
e male in arnese, impolverato e infangato, e chiaramente in collera. Mangiò, si lavò, indossò abiti puliti e infine raccontò loro cosa l'aveva trattenuto. 14 Con l'assenza di Preia Starle e di Retten Kipp e con l'avvicinarsi del Sarandanon, Tay Trefenwyd si assunse la guida della piccola compagnia proveniente da Arborlon. Sulle prime Jerle Shannara mosse qualche obiezione, ma si arrese all'osservazione di Tay che i suoi talenti di druido erano i più adatti ad accorgersi di un'eventuale minaccia. Tay intessé una leggera rete di magia, fatta di fili sottili come terminazioni nervose, che l'avrebbe avvertito di ciò che gli stava davanti. Sfruttò la sua padronanza degli elementi per scoprire la presenza di intrusi. Non ne trovò. Dietro di lui, i compagni si allargarono a ventaglio, per sorvegliare a destra e a sinistra. La mattinata si riscaldò, l'umidità dei due giorni precedenti sparì, gli alberi dinanzi a loro si diradarono fino a rendere visibile il Sarandanon: un'ampia distesa che si estendeva in tutte le direzioni fino ai monti dell'Ovest, dove si perdeva nella foschia. Tay si concesse di pensare ad altro. Per la prima volta dal suo ritorno da Paranor, si sorprese a riflettere che cosa significasse per lui la perdita di Preia. Era una strana riflessione, perché in realtà non era mai stata sua, e di conseguenza non avrebbe potuto perderla. Nella misura in cui apparteneva a qualcuno, apparteneva a Jerle. Gli era sempre appartenuta e Tay l'aveva sempre saputo. Ma ora comprese di averla considerata come qualcosa di suo, e di averla sempre amata senza nutrire alcuna invidia per Jerle, accettando come dato di fatto il legame tra lei e il suo migliore amico, accontentandosi di conservarla come un ricordo, che poteva evocare e ammirare ma non possedere realmente. Tay era un druido, e i Druidi non si sposavano: dedicavano la vita alla ricerca della conoscenza e alla diffusione del sapere. Vivevano separati dal resto dell'umanità e morivano da soli. Ma i loro sentimenti erano uguali a quelli di tutti gli altri, e Tay si rendeva conto di aver sempre tratto un forte sostegno dal suo affetto per Preia. Cos'avrebbe significato per lui la sua perdita? La domanda bruciava come il fuoco e minacciava di consumarlo. Riusciva a malapena a formularla, non certo a trovare la risposta. E se fosse morta? Era pronto a perderla, ma in altri modi. Sapeva che un giorno si sarebbe sposata con Jerle. Sapeva che avrebbe avuto una famiglia e che sarebbe per sempre vissuta lontano da lui. Lo stesso Tay aveva rinunciato a ogni altra possibilità molto tempo addietro, quando era andato a vivere con i Druidi. Quello che provava per lei non poteva trovare espressione nella vita reale, era una fantasia chiusa nella sua immaginazione, perché nella vita reale potevano essere soltanto amici. Ma il pensiero che fosse morta, che la sua vita fosse finita, lo costrinse ad ammettere ciò che non aveva mai ammesso in precedenza: che aveva sempre nutrito una speranza, per quanto debole, che in qualche modo potesse accadere l'impossibile e Preia lasciasse Jerle per unirsi a lui. Questa consapevolezza lo colpì con tanta forza che per un momento perse la cognizione della situazione in cui si trovava. Si lasciò sfuggire i fili della magia con cui esplorava
il terreno, trascurò il controllo dei luoghi bui che li aspettavano e riuscì a pensare soltanto a quell'unica verità. Preia sua... aveva mantenuto in vita quel sogno, l'aveva accuratamente protetto nel più segreto angolo della sua mente. Preia sua, perché non riusciva a smettere di desiderarla. Oh, per tutte le ombre! L'istante successivo riprese la padronanza di sé, raccolse di nuovo i fili della magia e proseguì il cammino. Non poteva permettersi quel genere di pensieri, e non osò più pensare a Preia Starle. Gli tornarono alla mente le parole di Bremen, pesanti come un'armatura di ferro. Convincere gli Elfi ad andare in aiuto dei Nani. Trovare la Pietra Nera. La sua vita doveva essere dominata da quei due compiti. Null'altro aveva importanza. Molte vite - oltre alla sua e a quella di coloro che amava - dipendevano dalla sua perseveranza, diligenza e decisione. Fissò con risolutezza lo sguardo sulla foschia della valle dinanzi a lui e per pura forza di volontà si staccò dal passato per pensare all'avvenire. Verso mezzogiorno entrarono nel Sarandanon, dopo avere incontrato per ben due volte le tracce dei Cacciatori degli Gnomi senza però scorgere gli Gnomi. Gli Elfi erano sulle spine, ansiosi di trovare i cavalli promessi e di allontanarsi dalla zona. Se fossero stati sorpresi allo scoperto da forze superiori senza possibilità di fuggire, si sarebbero trovati veramente nei guai. Tay controllò la terra e l'aria alla ricerca di Gnomi e scoprì dappertutto le tracce del loro passaggio, ma non la loro presenza. Gli Gnomi, a quanto pareva, perlustravano quella parte della vallata alla loro ricerca. Se avevano trovato Preia, dovevano anche aver capito che non era sola. Un esploratore non poteva che far parte di un grosso gruppo, e doveva essere in perlustrazione. L'avevano scoperta? Pareva la conclusione inevitabile, dopo il ritrovamento del suo arco spezzato in mezzo a un mucchio di orme del nemico. E da questa conclusione si passava alla seconda domanda, quella che Tay cercava disperatamente di evitare. Jerle conosceva tutti gli avamposti della valle dove si tenevano i cavalli a disposizione dei Cacciatori degli Elfi, e si diresse verso il più vicino. Il territorio, leggermente ondulato, era lontano dalle zone coltivate e per questo coperto di erba alta. Si tennero sempre nella zona incolta e nelle depressioni fra i rilievi. Quando furono a meno di un miglio dalla loro destinazione, Tay sentì la presenza dei Cacciatori degli Gnomi e ordinò al gruppo di fermarsi. In qualche luogo delle vicinanze era stata tesa una trappola. Gli Gnomi li stavano aspettando. Lasciando gli altri ad aspettare il loro ritorno, Tay e Jerle proseguirono da soli, piegando prima a sud e poi a nord, per giungere da una direzione diversa da quella prevista dal nemico. La magia di Tay li protesse e fornì loro gli occhi con cui vedere. Quando furono nei pressi del piccolo gruppo di costruzioni che costituiva l'avamposto, Tay ebbe la certezza che la trappola era stata allestita laggiù. Il vento - poco più di una brezza leggera - soffiava verso di loro, ed entrambi sentirono l'odore del nemico, una sgradevole mescolanza, acre e densa, di terra e dell'olio con cui si ungevano la pelle. Non avevano fatto alcun tentativo di nasconderlo, e questo allarmò subito Tay, perché in genere gli Gnomi non erano così sbadati. Strisciando sul terreno, raggiunsero un punto da cui potevano scorgere la stalla e il recinto dei cavalli. Non c'era nessuno. Il recinto era vuoto. Nello spiazzo tra gli edifici niente si muoveva. Dalla casa non
giungeva alcun rumore. Eppure c'era qualcuno nascosto lì. Tay ne era certo. Né lui né Jerle volevano allontanarsi prima di aver accertato cos'era successo: senza avere il coraggio di dirlo, tutt'e due temevano che Preia fosse prigioniera. Perciò procedettero carponi, dentro un fosso al limitare di un campo di grano, da cui potevano vedere la facciata della casa e della stalla. Tay percepì, in entrambi gli edifici, movimenti inquieti e furtivi. Cacciatori degli Gnomi in agguato. Cercò di cogliere la presenza di qualche altra entità più pericolosa, ma non ne trovò. Respirando lentamente, con calma, seguì Jerle che avanzava in silenzio. Sentiva il fruscio degli steli di grano agitati dal vento e il profondo silenzio della prateria, e ripensò a ciò che aveva provato quando erano entrati nel palazzo reale, la notte del massacro: i presentimenti, la sensazione che qualcosa non andava. Infine raggiunsero il punto scelto da Jerle, riparato in mezzo al frumento, ma abbastanza vicino alle case perché si potesse scorgere bene la facciata. Jerle sollevò cauto la testa e l'abbassò subito, pallido come un cencio. Tay lo fissò per un momento, lo guardò negli occhi e sollevò a sua volta con circospezione il capo. Retten Kipp era crocefisso alla porta del granaio con grossi chiodi conficcati nelle mani e nei piedi. Il sangue sgorgava dalle ferite rigando il legno. Capelli e abiti pendevano come da uno spaventapasseri. Poi Kipp mosse leggermente la testa. Il vecchio esploratore, benché in fin di vita, non era ancora morto. Tay si lasciò scivolare a terra e chiuse gli occhi per qualche istante. Provò rabbia e paura, che cercarono di prendere il sopravvento sulla ragione. Allora capì perché gli Gnomi non si erano preoccupati di nascondere la loro presenza. Con Retten Kipp come esca, sapevano che gli Elfi sarebbero usciti allo scoperto. A fatica riprese il controllo delle proprie emozioni e fissò cupo Jerle Shannara. L'amico si curvò verso di lui. I suoi occhi azzurri erano gelidi e fermi. "Hanno anche Preia?" sussurrò. Tay non ripose. Non si fidava delle proprie emozioni. Invece di parlare, chiuse di nuovo gli occhi e inviò nella casa e nella stalla i fili della sua magia, per cercare la giovane elfa. Era rischioso, ma non c'era altro modo. Impiegò parecchio tempo, penetrando in profondità in ogni edificio per accertarsene. Alla fine riaprì gli occhi e mormorò: "No". Jerle annuì, senza lasciar trasparire ciò che provava Strinse le labbra. Parlò a voce bassissima, quasi impercettibile. "Non possiamo salvare Retten Kipp... ma non possiamo lasciarlo così." Fissò Tay, che annuì. Sapeva cosa voleva Jerle. "Capisco" rispose a bassa voce. Sarebbe stato pericoloso. Forse i Cacciatori degli Gnomi non erano in grado di accorgersi della sua magia, ma un Messaggero del Teschio l'avrebbe notata di certo. Quando aveva cercato Preia, non aveva scoperto cacciatori alati, ma era possibile che si fossero nascosti intenzionalmente. La trappola poteva essere stata preparata per lui, uno dei Druidi che cercavano, per spingerlo a tradirsi e poi scattare. Se era presente un Messaggero, facendo quello che gli si chiedeva non avrebbe avuto scampo. Tuttavia non gli rimaneva molta scelta. Non poteva lasciare che Kipp morisse in quel modo. Si avvolse nella propria magia come in un mantello buio e l'aria intorno a lui vibrò e nel petto si diffuse il calore della passione. Tenne gli occhi aperti, perché questa volta doveva dirigere la magia con precisione. Il viso gli si irrigidì in una maschera di morte. Vide Jerle ritrarsi istintivamente da lui,
sconvolto. Riconobbe la sua espressione. Poi sollevò la testa quanto bastava per scorgere la figura lacera e torturata di Retten Kipp, e tese verso di lui un filo di magia, sottile come un cavo di salvataggio. Procedette con cautela, saggiando a palmo a palmo l'etere in cui penetrava, attento a ciò che poteva nascondere. Ma non trovò nulla di minaccioso e proseguì. Arrivato al cuore di Retten Kipp, sentì il suo dolore e la sua pena e gli parve che il respiro affannoso dell'esploratore si sovrapponesse al suo. Allora portò via l'aria che entrava ancora nei polmoni del moribondo, ormai prossimi a fermarsi, e attese con pazienza che il suo respiro cessasse. Quando ebbe terminato, scivolò accanto a Jerle. Aveva la faccia lucida di sudore e le lacrime agli occhi. "Fatto" sussurrò. Jerle gli appoggiò la mano sulla spalla e gliela strinse piano, per consolarlo. "Era necessario, Tay. Soffriva e non potevamo lasciarlo là." Tay annuì in silenzio. Sapeva che l'amico aveva ragione, ma Jerle non avrebbe dovuto vivere con il ricordo della vita di Retten Kipp che pulsava fra le sue dita e poi si spegneva. Si sentiva freddo e vuoto. Si sentiva ferito e abbandonato. Jerle gli rivolse un cenno e tornarono indietro, lungo il fosso e attraverso i campi, lasciandosi alle spalle l'avamposto e i suoi occupanti, i vivi e i morti. Impiegarono quasi un'ora a riunirsi ai compagni. Si era ormai a metà pomeriggio e il sole calava verso le cime appuntite delle Terre di Confine. Camminarono in quella direzione, abbagliati dal sole quando dovevano uscire dall'ombra di qualche piccola altura per camminare allo scoperto. Tay continuò a guidare il gruppo, esplorando con la sua magia il terreno. Dopo essere tornato dall'avamposto, s'era ripetutamente guardato alle spalle, alla ricerca di inseguitori, ma non ne aveva trovati. Davanti a loro, però, si scorgevano quasi ovunque tracce di Gnomi. Non era in grado di dire quanto fossero numerosi i gruppi, ma ce n'era più di uno. Si erano chiesti se non convenisse aspettare il buio prima di continuare, ma avevano deciso che sarebbe stato meno pericoloso muoversi che rimanere fermi. Jerle rimase accanto a Tay per guidarlo verso un nuovo avamposto che distava poche miglia, augurandosi che non fosse stato scoperto. Nessuno dei due parlò. Accanto a loro, i compagni scrutavano i dintorni, alla ricerca di nemici. Poi, all'improvviso, Vree si portò accanto al druido e gli disse, con voce ansiosa: "Laggiù!". Indicò un punto alla loro sinistra. "Cavalli, dodici o tredici, nascosti in quella radura!" Tay e Jerle Shannara si fermarono e guardarono nella direzione indicata, ma videro solo alcuni campi coperti di germogli di grano. Il locat guardò prima l'uno e poi l'altro, impaziente. "Non perdete tempo a guardare! Di qui non si possono vedere!" "Allora, come lo sai?" chiese subito Jerle. "Intuito!" ribatté lui. "Che altro?" Il guerriero lo guardò dubbioso. "L'avamposto dove siamo diretti è proprio davanti a noi. Ci sono cavalli anche lì?" Vree gli rispose in tono brusco per la fretta: "Io so soltanto quello che mi dice il mio intuito! Ci sono dei cavalli, dietro quelle collinette, in una radura!". Per sottolineare le proprie parole, indicò di nuovo la direzione. Jerle Shannara aggrottò la fronte, irritato dall'insistenza dell'altro. "E se ti sbagli, locat? Quanto dista, quella radura che nessuno di noi può vedere?" Tay si affrettò ad alzare la mano per prevenire la risposta incollerita di Vree Erreden. Tacque per un istante, valutando le
possibilità, poi osservò ancora una volta i campi. "Sei certo di quei cavalli?" chiese con calma al veggente. L'altro lo guardò come se volesse incenerirlo. Tay fece una leggera smorfia, poi annuì. "Penso che dovremmo andare a vedere cosa c'è a sinistra." Nonostante i dubbi di Jerle, cambiarono direzione e si avviarono lungo la pianura. La parte centrale del Sarandanon si estendeva dinanzi a loro: i campi coltivati erano un mosaico di terra scura e di messi verdi. Adesso erano allo scoperto, chiaramente visibili a chiunque li cercasse. Era inevitabile. In qualunque direzione viaggiassero, a dire la verità, si sarebbero trovati allo scoperto, ma la cosa non dava molta consolazione a Tay, perché si allontanavano dall'avamposto e se Vree Erreden si fosse sbagliato le loro possibilità di sopravvivenza sarebbero diminuite notevolmente. Tay cercò di non preoccuparsi. Era per questo che aveva portato con loro il veggente: per la sua capacità di vedere quello che sfuggiva perfino alla magia dei Druidi. Il piccolo uomo non avrebbe detto nulla se la sua intuizione non fosse stata forte. Conosceva quanto Tay i rischi della loro situazione. La rete magica di Tay si allargò ancor di più alla ricerca dei nemici, e questa volta li trovò. Arrivavano rapidi da nord: una pattuglia di Gnomi a cavallo; erano ancora lontani, ma arrivavano al galoppo. Non poteva vederli, ma le loro intenzioni erano inequivocabili. Lanciò un grido d'avvertimento a Jerle e la piccola compagnia si mise a correre. Davanti a loro, i campi lasciavano il posto a una fila di basse colline. La radura doveva trovarsi dietro di esse, pensò Tay. E anche i cavalli, si augurò, perché erano troppo lontani dall'avamposto per poter sfuggire in altro modo. In quel momento comparvero altri Gnomi, un altro gruppo uscito dal suo nascondiglio nell'avamposto, che adesso era a malapena visibile dietro i campi. Il nuovo gruppo era appiedato, ma si lanciò di corsa verso gli Elfi, per rallentarli fino all'arrivo dei compagni a cavallo. Tay digrignò i denti, mentre correva. Dall'avamposto non c'era da sperare aiuto. La loro unica speranza era l'intuito di Vree. Jerle Shannara gli passò davanti senza sforzo, volando sui solchi. Anche qualche altro elfo lo superò, più veloce di lui. Ansimando e con una morsa al petto, il druido provò una fitta di panico. E se i cavalli visti da Vree fossero stati un'altra trappola? Se ci fossero stati altri Gnomi, in sella a quei cavalli, in attesa del loro arrivo? Freneticamente, cercò di gettare la sua rete di magia al di là della collina, per scoprire se la sua paura era giustificata, ma la sua forza stava scemando: non riuscì ad arrivare a quella distanza. Dagli Gnomi che li inseguivano si levò un coro di grida rauche e minacciose. Tay le ignorò. Qualche istante più tardi gli si affiancò Vree, che correva senza fatica, in forma fisica migliore di quanto Tay si aspettava. Tay gli gridò qualche parola di avvertimento, ma l'altro sembrò non udirlo. Lo superò e proseguì. Adesso Tay era l'ultimo. Si disse ironicamente: è il prezzo che si paga per la vita sedentaria. Jerle Shannara uscì dal campo e cominciò a salire la collina. In quell'istante risuonò un nitrito acuto, e da dietro l'altura si sentirono scalpitare numerosi cavalli. Nella limpida aria del pomeriggio si levò una nuvola di polvere. Jerle rallentò, incerto su ciò che avrebbero trovato, portò la mano alla spada e la estrasse dal fodero. I suoi Cacciatori corsero a proteggerlo. Le lame metalliche balenarono al sole: la luce danzò sulle superfici lucide con improvvisi
barbagli. L'istante successivo comparve una fila di cavalli che scendeva verso di loro, contro la luce abbagliante del sole, in un'esplosione improvvisa di suoni e colori. Ce n'erano dodici o più, legati insieme, e galoppavano come un miraggio portato in vita. Li guidava un solo cavaliere, curvo sul collo del primo animale. Tay Trefenwyd si fermò ai margini del campo, con il cuore che batteva selvaggiamente e il sangue che gli rombava nelle orecchie. Il cavaliere era Preia Starle. La donna passò accanto a Jerle senza rallentare e liberò alcuni cavalli gettandogli le redini. Proseguì, consegnando gli altri cavalli ai Cacciatori degli Elfi. Continuò poi in direzione di Tay e fece impennare il cavallo davanti a lui. "Salta su, Tay Trefenwyd, e scappiamo! Siamo circondati da Gnomi!" Aveva la faccia e il vestito sporchi di sangue. Tay le vide sul viso graffi e lividi. Spinse il cavallo verso di lui e per poco non lo gettò a terra. "Salta su!" gli gridò. Non c'era il tempo di pensare. Gli altri erano già in sella e si stavano allontanando. Tay infilò il piede nella staffa che Preia gli aveva lasciato libera e montò dietro di lei. "Tieniti a me!" gridò la donna. In un turbine di polvere e con un pesante scalpitio di zoccoli, si lanciarono al galoppo dietro gli altri. Fu una corsa folle. Gli Gnomi appiedati si erano sparsi nei campi dinanzi agli Elfi per impedire loro la fuga. Alcuni erano armati di fionde, altri di archi. Intanto, visibili per la prima volta, apparvero a nord i loro compagni a cavallo. Insieme, superavano gli Elfi nella proporzione di quattro a uno. Erano troppi per pensare di sconfiggerli in battaglia campale. Jerle Shannara prese la guida e si lanciò dritto contro gli Gnomi appiedati. La ragione era ovvia. Per gli Elfi, la sola speranza stava nel distanziare gli Gnomi a cavallo, e il solo modo per farlo era portarsi davanti a loro. Se avessero piegato a sinistra - come cercavano di spingerli a fare gli Gnomi appiedati sarebbero tornati fra le collinette, dove il terreno li avrebbe costretti a rallentare consentendo agli Gnomi a cavallo di intercettarli. Se si fossero diretti a destra, sarebbero finiti in mezzo agli inseguitori a cavallo. E, naturalmente, era inutile tornare indietro. Di conseguenza, potevano solo andare avanti, spezzare lo schieramento degli Gnomi appiedati e lanciarsi al galoppo verso ovest, perché tutti sapevano, gli Gnomi non meno degli Elfi, che lo gnomo capace di correre più di un elfo doveva ancora nascere. I Cacciatori di Jerle si lanciarono nel campo, allargandosi il più possibile per confondere i nemici armati di arco e così sfuggire alla trappola. Gli Gnomi correvano in tutte le direzioni, lanciandosi grida d'avvertimento, cercando di catturare la preda. Gli Elfi correvano piegati sulla sella per offrire un bersaglio minore. Solo Jerle sfidò la sorte, alzandosi sulle staffe e gridando come un folle agli Gnomi davanti a lui e mulinando la spada sopra la testa come una falce mortale. Dalla sua posizione, a sinistra, Tay riusciva a malapena a distinguerlo mentre si lanciava contro la linea degli Gnomi e il suo grande baio saltava tra i solchi seminati. Tay comprese le sue intenzioni: voleva attirare su di sé il massimo numero di nemici per dare ai compagni maggiori possibilità di fuga. Poi Preia gli gridò di stare giù, e lanciò il nervoso sauro in un basso argine, lasciando il campo dove cominciavano le alture. Tay sentì qualcosa fischiargli accanto alla testa. Si abbassò sulla schiena sottile di Preia, proteggendola come un mantello, stringendola alla
vita. La sentiva muoversi ora da un lato ora dall'altro, e il cavallo ogni volta cambiava direzione. Per qualche istante gli parve di vedere qualcuno correre verso di loro: un confuso movimento di gambe e braccia in mezzo al grano. Qualcosa di piccolo e duro gli colpì la spalla, rendendogli insensibile il braccio. Tay non riuscì più a stare aggrappato e sarebbe forse caduto se la donna non avesse teso la mano aiutandolo a tenersi in sella. Arrivarono alla fine del campo, superarono d'un balzo un canaletto e furono su un ampio tratto erboso. Adesso erano nella pianura. Tay azzardò un'occhiata alle proprie spalle: al limitare del campo, alcuni Gnomi, con un ginocchio a terra, scagliavano come forsennati pietre e frecce. Ma gli Elfi erano fuori tiro. Il druido guardò di nuovo dinanzi a sé. I compagni continuavano a galoppare al loro fianco; presto si lasciarono alle spalle l'avamposto e si addentrarono nella prateria. Tay cercò di contare i compagni, e in particolare di controllare se Jerle fosse salvo, ma la polvere e la foschia del tardo pomeriggio lo costrinsero a rinunciare e a concentrarsi sul compito di tenersi in sella. Gli Elfi si raggrupparono a poca distanza dall'avamposto e misero i cavalli al trotto perché erano affaticati. Miracolosamente, erano tutti salvi e quasi tutti illesi. Jerle Shannara aveva appena un graffio. Tay scoprì di essere stato colpito alla spalla da un sasso scagliato con la fionda: ora nel punto colpito c'era un grosso livido. Riusciva di nuovo a muovere il braccio, ma gli faceva male. Niente di rotto, si disse, e non ci pensò più. Gli Gnomi a cavallo li inseguirono, piegando a occidente nella prateria quando compresero che la preda era sfuggita alla trappola tesa nel campo. Ma i loro cavalli erano stanchi e non conoscevano il territorio come gli Elfi. Prendendo la guida ancora una volta, Jerle scelse il percorso più vantaggioso. Era la sua terra: dove il terreno si abbassava all'improvviso, conosceva il passaggio più in alto; sapeva tenersi alla larga da paludi od ostacoli; conosceva i punti in cui guadare i fiumi larghi e tumultuosi. La fuga proseguì, ma gli Gnomi vennero progressivamente distanziati e al tramonto non erano più visibili all'orizzonte. Tuttavia, anche dopo avere messo i cavalli al passo perché non si ferissero nell'oscurità della notte, proseguirono il cammino. Non volevano rischiare di essere scoperti casualmente da qualche altro gruppo di nemici. Jerle li portò verso nord lungo il letto di un ruscello, per non lasciare tracce della loro deviazione. Quando l'oscurità li avvolse, fu come ritrovare un caro amico. Il calore del giorno si dileguò e l'aria cominciò a rinfrescarsi. Per qualche tempo cadde una pioggia sottile, che presto finì. Continuarono ad avanzare nel più completo silenzio, interrotto soltanto dallo scalpiccio dei cavalli nell'acqua e, quando furono di nuovo all'asciutto, dal tonfo soffocato degli zoccoli sulla terra morbida. Quando si sentì al sicuro, Tay si accostò all'orecchio di Preia e le sussurrò: "Cosa vi è successo?". Lei si girò a guardarlo. I suoi occhi erano straordinariamente luminosi in mezzo ai graffi e ai lividi che aveva sulla faccia. "Una trappola!" sibilò a bassa voce, con ira. "Kipp era andato avanti per procurarsi i cavalli al primo avamposto.LO esploravo la zona per cercare gli Gnomi da noi scoperti nell'area. Ma ci stavano aspettando.LO sono stata fortunata, Kipp no." "L'abbiamo trovato, io e Jerle" le riferì, a bassa voce. Lei annuì, senza rispondere. Avrebbe voluto spiegarle quello che
aveva fatto e perché, ma non ne trovò il coraggio. "Come l'hanno scoperto?" domandò invece. Lei si strinse nelle spalle. "Non lo sapevano. Hanno tirato a indovinare. L'esistenza di quegli avamposti non è un segreto. Gli Gnomi sapevano che avremmo cercato la Pietra Nera e si sono limitati ad aspettarci. Penso che ci aspettino in tutti gli avamposti." S'interruppe, poi riprese: "Se avessero conosciuto con esattezza i nostri piani, se avessero saputo come trovarci, avrebbero preso anche me, e non solo Kipp. Ma io li ho trovati prima che trovassero me". "Ma hai dovuto lottare, per cavartela. Abbiamo trovato il tuo arco." Lei scosse la testa. "Temevo che lo trovaste. Non ho potuto farne a meno." "Abbiamo pensato che..." "L'ho lasciato cadere quando sono fuggita" lo interruppe Preia, prima che riuscisse a dire quello che avevano pensato. "Poi ho seguito Kipp. Fu allora che ebbe luogo la lotta. All'avamposto, poco dopo che l'avevano catturato. Ma erano troppi, e ho dovuto lasciarlo nelle loro mani." Lo disse con grande amarezza. Riferire quegli avvenimenti le costava molto. "Anche noi siamo stati costretti a lasciarlo" confessò Tay. Lei non si voltò. "Vivo?" Tay scosse lentamente la testa. Preia sospirò. "Non sono potuta tornare ad avvertirvi. C'erano troppi Gnomi fra me e voi. Sono dovuta correre avanti per assicurarmi i cavalli. Sapevo che senza cavalli non avremmo avuto scampo. Ho anche pensato che avrei potuto attirarne qualcuno dietro di me." Rise nervosamente. "Un'illusione, temo. Comunque, sono riuscita a rubargli un cavallo sotto il naso la notte scorsa, mentre dormivano, e sono corsa a sud, fino a un avamposto esterno alla valle che gli Gnomi non conoscevano, ho preso i cavalli su cui cavalchiamo ora, li ho portati qui e ho atteso che arrivaste." Tay la fissò con stupore. "Come sei riuscita a fare tutto in una giornata?" Lei si strinse nelle spalle. "Non è stato difficile come credi." Per qualche tempo, nessuno parlò e si udì solo lo scalpitio dei cavalli. "Meno difficile di quello che hai dovuto fare tu." Preia si girò e gli rivolse un sorriso triste. "Ti sei comportato bene, Tay." Lui si sforzò di ricambiare il sorriso. "Tu ti sei comportata meglio." "Mi dispiacerebbe perderti" disse lei all'improvviso, e si girò. Tay rimase in silenzio, incapace di trovare una risposta. Cavalcarono per tutta la notte e si accamparono poco prima dell'alba in una piccola forra fitta di giovani frassini e betulle. Dormirono poche ore, si svegliarono, mangiarono e proseguirono. Era tornata la pioggia, e con essa una nebbia che copriva di grigio la regione. La nebbia e la pioggia li nascondevano, perciò continuarono a cavalcare quel giorno e il seguente, e anche per buona parte della seconda notte, invisibili a coloro che li cercavano. Tay stava con Preia Starle, e si serviva della magia per scrutare nella nebbia, preoccupato non tanto di essere scoperto dagli Gnomi, quanto di incappare accidentalmente in loro. Per gran parte del tempo avanzarono a piedi, portando i cavalli alla briglia, per risparmiare le loro forze ed evitare che si azzoppassero nella terra impregnata di pioggia. Tay e Preia non parlarono, concentrati nel fare la guardia, lui con la magia e lei con gli occhi. Ma si tenevano molto vicini per proteggersi dalla pioggia, e questo per Tay era sufficiente. Si concesse di immaginare che significassero l'uno per l'altra più di quanto non fosse. Non serviva a molto, ma per qualche tempo ebbe l'impressione di aver trovato un proprio posto nel mondo, anche
all'esterno di Paranor. Forse, se si fosse sforzato, l'avrebbe trovato anche senza Preia. Lei non poteva seguirlo, ma forse poteva aiutarlo a trovare la strada. Tay continuò a tenerla per la vita, riparandola dalla pioggia, sentendo il calore del corpo di lei contro il suo. Ripensò a come fosse arrivato a ciò che era. Ripensò alle scelte fatte e si chiese se oggi sarebbero state diverse. Il terzo giorno dormirono fino all'alba, in un bosco di alti abeti, in una valle ai margini del Kensrowe. Erano quasi giunti in fondo alla valle, e davanti a loro c'erano la distesa scura dell'Innisbore e il passo attraverso il Baen Draw che li avrebbe portati alle Terre di Confine. Quel giorno Tay non aveva trovato tracce di Gnomi. Cominciava a pensare che li avessero distanziati, e che presto sarebbero riusciti a perdersi in mezzo ai monti. Tay si alzò presto e trovò Jerle Shannara già sveglio, ai limiti del campo, intento a guardare in direzione dell'alba. La giornata si annunciava cupa e scura come le precedenti, il tempo non era cambiato. Il guerriero si volse nel sentirlo arrivare. "Tay. Troppo breve questa notte, eh?" Tay si strinse nelle spalle. "Ho dormito abbastanza bene." "Non come eri abituato, però. Non è come a Paranor, dai Druidi, in un letto, in una stanza asciutta, con cibo caldo ad aspettarti al risveglio." Tay si avvicinò a lui, ma evitò il suo sguardo. "Non importa. I Druidi sono morti. Paranor è distrutta. Quella parte della mia vita è finita." L'amico lo studiò con attenzione. "C'è qualcosa che ti preoccupa. Ti conosco troppo bene per sbagliarmi. In questi ultimi giorni eri distratto. E' per Retten Kipp? E' per quello che hai dovuto fare per liberarlo dalle sofferenze?" "No" rispose Tay, senza mentire. "E' una cosa più complicata." Jerle attese un istante. "Devo indovinare o preferisci che lasci perdere?" Tay esitò: non sapeva se rispondere o no. "Riguarda il fatto di essere tornato dopo tanto tempo" spiegò alla fine, scegliendo con cura le parole. "Sono stato lontano dall'Ovest per quindici anni. Adesso sono di nuovo qui, ma mi sembra che non sia il mio posto. Non so dove andare e che fare. Se non fosse per questa ricerca, sarei completamente smarrito." "Forse la ricerca è sufficiente, per ora" suggerì l'amico, gentilmente. "Forse il resto verrà col tempo." Tay scosse la testa. "Non credo. Ho l'impressione di essere cambiato e di non poter più tornare quello di un tempo. Gli anni a Paranor mi hanno cambiato in modi che comincio a capire soltanto ora. Mi sento preso tra quello che ero e quello che sono. Non mi pare di essere né una cosa né l'altra." "Sei appena ritornato. All'inizio, non puoi pensare che tutto sia come una volta. E' naturale che ti sembri strano." Tay guardò l'amico. "Forse dovrei andare di nuovo via, una volta che tutto sarà finito." Jerle Shannara si passò la mano tra i capelli biondi. Sulla faccia gli brillavano goccioline di nebbia. "Mi dispiacerebbe molto, se succedesse" disse. "Ma ti capirei, Tay. E saremmo sempre amici." Gli posò una mano sulla spalla e Tay gli sorrise. "Saremo sempre amici" confermò. Ripresero il viaggio verso ovest, in mezzo alla foschia. Con il passare delle ore, la pioggia divenne più fitta. Quel giorno percorsero l'ultima parte del Sarandanon, avvolti nella penombra, quasi invisibili l'uno all'altro. Era come se il mondo da cui venivano e in cui si recavano fosse scomparso e rimanesse soltanto il piccolo tratto di terra su cui cavalcavano: un tratto che si materializzava davanti a loro e spariva alle loro spalle e durava i pochi istanti occorrenti per
attraversarlo. Giunsero al Baen Draw, che dal Kensrowe portava alle Terre di Confine, al crepuscolo, quando ormai la luce era sparita. Laggiù trovarono nuovamente gli Gnomi, che li avevano preceduti. Nella valle si era insediato un grosso contingente che bloccava il passaggio. Non era il gruppo che li aveva attaccati nella valle: questi erano lì da molto tempo. Preia Starle andò in esplorazione e trovò il loro accampamento: era ormai vecchio e stabile, riferì. Le sentinelle erano schierate attraverso l'imboccatura della valle e non c'era modo di passare. Gli Elfi potevano aggirare la valle, ma avrebbero allungato il viaggio di tre giorni e non potevano permetterselo. Dovevano trovare il modo di passare. Dopo qualche riflessione, scelsero un piano che si basava soprattutto sulla sorpresa. Attesero la mezzanotte, poi montarono a cavallo e si diressero verso il passaggio. Incappucciati e avvolti nel mantello, nascosti dalla notte e dalla pioggia, erano a malapena visibili tra loro, non certo per le sentinelle degli Gnomi. Avanzarono senza fretta, apparentemente calmi, dando l'impressione di essere nel posto giusto. Quando furono abbastanza vicini da essere avvistati dalle sentinelle, Tay, che a Paranor aveva imparato molte lingue, si rivolse agli Gnomi nella loro lingua, dicendo che erano attesi. Rinforzi, lasciò capire, e gli Elfi continuarono ad avanzare. Prima che gli Gnomi riuscissero a prendere una decisione, gli Elfi li sopraffecero, diedero di sprone e si lanciarono lungo la gola. Si diressero al galoppo verso il campo, disperdendo in tutte le direzioni gli Gnomi e i loro fuochi, gridando come se fossero un centinaio invece che una decina. La sorpresa fu completa. Gli Gnomi balzarono dai giacigli e si lanciarono all'inseguimento, ma gli Elfi erano già lontani. A quel punto, però, la loro fortuna finì. Come precauzione contro quel genere di attacco, gli Gnomi avevano allestito una seconda linea di difesa alla fine della gola: nell'udire le grida dei compagni, gli Gnomi della seconda linea attesero gli aggressori. Così quando si avvicinarono alla fine della valle, gli Elfi vennero bersagliati da un nutrito lancio di frecce, giavellotti e pietre. Non c'era il tempo di rallentare, di trovare un'altra strategia, di fare qualcosa di più che curvarsi al massimo e sperare di passare. Senza paura, Jerle Shannara si lanciò diritto contro il più nutrito gruppo di difensori. Tutte le armi volarono contro di lui per abbatterlo. Ma come sempre, il gigantesco guerriero pareva protetto da una magia: riuscì a rimanere in sella e il suo cavallo rimase in piedi. Insieme piombarono sugli Gnomi, e Tay Trefenwyd vide i loro corpi volare via come pezzi di legno. Un attimo più tardi, Jerle era oltre lo schieramento nemico. Anche Tay e Preia riuscirono a sfuggire: il loro robusto cavallo si fece strada in mezzo a un gruppo di Gnomi all'estremità sinistra dal passaggio, poi superò d'un balzo una corda tesa che doveva farlo inciampare. Le grida dei cacciatori e dei cacciati si mescolarono ai nitriti dei cavalli. I cavalieri continuarono correre, simili a forme incorporee che entravano e uscivano dalle tenebre. Disperato, Tay usò la magia per avvolgere gli Elfi rimanenti in uno schermo, in modo da nasconderli agli Gnomi. Ma quando si riunirono ad alcune miglia di distanza dal passo, sei mancavano. Adesso il loro numero si riduceva a otto, mentre le centinaia di Gnomi presenti nel Sarandanon si sarebbero dirette al Passo per seguirli nelle Terre di Confine. E laggiù non avrebbero smesso di seguirli finché non li
avessero trovati. 15 Al tramonto del giorno seguente, gli Elfi erano ormai penetrati in profondità nelle montagne. Avevano continuato a cavalcare per tutta la notte, dopo essere sfuggiti agli Gnomi al Passo di Baen, e si erano addentrati nella prima fascia pedemontana delle Catene di Confine fermandosi soltanto quando la luce dell'alba aveva cominciato a strisciare fuori dall'est e a riversarsi nella grande conca del Sarandanon. Si erano riposati per alcune ore, si erano rimessi in piedi, avevano mangiato ed erano ripartiti. La pioggia era cessata, ma il cielo rimaneva rannuvolato e grigio, la nebbia si stendeva sulle valli come una fitta coperta. Nell'aria gravava una densa umidità che puzzava di terra e legno marcio. Quando salirono di quota, le colline divennero rocciose e brulle, e l'odore sparì. Ora l'aria era gelida e chiara, e la nebbia si diradava progressivamente. Verso mezzogiorno si lasciarono alle spalle quelle alture e cominciarono a salire. Jerle Shannara aveva già avvertito i compagni che intendeva proseguire finché non facesse buio perché voleva distanziare i loro inseguitori e, prima di fermarsi, giungere su un terreno dove fosse impossibile trovare le loro tracce. Nessuno mosse obiezioni. Cavalcarono al buio, in silenzio, mentre la nebbia si diradava e le montagne si facevano più erte. La Catena del Confine era una parete di rocce spezzate, di monti che svettavano fino al cielo per sparire infine tra le nubi, di precipizi che strapiombavano per centinaia di braccia, di massicci affioramenti e di crepacci irregolari generati dalle pressioni interne della terra all'epoca in cui il mondo si stava ancora formando. Le montagne si spingevano verso il cielo come se volessero liberarsi dal mondo, simili a braccia di giganti tese verso l'alto e solidificate dal tempo. Fin dove l'occhio riusciva a spingersi, a nord e a sud, era visibile la Catena di Confine: una barriera impenetrabile, una fortezza chiusa a qualunque invasione. Gli Elfi fissarono in silenzio le montagne. Di fronte a una simile stabilità, provarono l'inquietante sensazione della loro mortalità. Al tramonto avevano ormai superato la prima catena; guardandosi alle spalle, non riuscivano più a scorgere le colline che avevano attraversato e la valle del Sarandanon. Si accamparono in un boschetto di abeti, in una stretta vallata chiusa tra due monti brulli su cui la neve formava un manto scintillante. Laggiù trovarono erba e acqua per i cavalli e legna per il fuoco. Non appena si furono sistemati ed ebbero mangiato, Preia Starle si allontanò per ripercorrere la strada fatta e controllare se qualcuno li inseguiva. Mentre attendevano il suo ritorno, Tay parlò con Jerle e Vree Erreden della visione che aveva rivelato la posizione della Pietra Nera. Ancora una volta, il druido fece l'elenco dei particolari che gli aveva comunicato Bremen, preoccupandosi di descrivere tutto. Jerle Shannara lo ascoltò con grande concentrazione, fissandolo attento. Vree Erreden, invece, pareva un po' distratto; di tanto in tanto si guardava attorno, nella notte, come per cercare qualcosa. "Non sono mai stato in questa parte della Terra dell'Ovest" osservò infine, quando Tay ebbe finito. "Non conosco la sua geografia. Se devo indovinare il posto che cerchiamo, prima devo arrivargli più
vicino." "Bell'aiuto" commentò Jerle, ironico. Si era accorto della distrazione con cui il veggente aveva ascoltato le parole di Tay e quel modo di comportarsi gli aveva dato fastidio. "Non sai fare di meglio?" Vree Erreden alzò le spalle. Ma Jerle era infervorato. "Forse potresti fare di più se ascoltassi le parole di Tay!" Il veggente lo guardò socchiudendo gli occhi, che scintillavano minacciosi. "Lasciami dire una cosa. Quando Tay Trefenwyd è venuto a chiedermi aiuto, ho letto nella sua mente. E' una cosa che posso fare, di tanto in tanto. Ho visto la visione di Bremen, quella che Tay ci ha descritto or ora, e il mio ricordo è molto chiaro, amico mio. Se non lo fosse, non sarei qui. Il posto esiste, ne sono certo, ma non posso trovarlo senza nuovi elementi!" "Jerle" li interruppe Tay, preoccupato di evitare uno scontro. "Tu hai fatto molti viaggi in questa zona. Hai riconosciuto qualcosa di familiare, nelle mie descrizioni?" L'amico scosse la testa, di malumore. "Perlopiù, i miei viaggi si sono limitati ai passi di Halys e di Worl, e al territorio vicino. Formazioni di monti, in particolare, con due cime che assomigliano a dita alzate, ne avrò viste dieci o dodici." "E non sapresti dire quale?" "Io cos'ho detto?" ribatté Jerle, irato. Il druido non capiva le ragioni di quella irritazione. Continuò: "Allora, da che parte consiglieresti di andare?". Jerle si alzò. "Cosa vuoi che ne sappia? Chiedi al nostro amico, il locat, di dirti la più probabile!" "Un momento" intervenne Vree Erreden, alzandosi a sua volta. Fissò Jerle negli occhi, piccolo e snello, senza lasciarsi intimidire dall'imponenza dell'altro. "Sei disposto a fare una prova? Potrei aiutarti a ricordare, se hai visto davvero quelle montagne." Anche il druido si affrettò ad alzarsi: aveva capito all'istante le intenzioni del veggente. "Puoi fare con Jerle quello che hai fatto con me?" chiese. "Puoi recuperare i ricordi di Jerle come hai fatto con la visione di Bremen?" "Che stai dicendo?" scattò Jerle, guardando prima l'uno e poi l'altro. "Può darsi" rispose il veggente. Poi squadrò Jerle Shannara. "L'ho già detto. A volte sono in grado di leggere nel pensiero. L'ho fatto con Tay e ho visto le visioni di Bremen. Posso provare con te, per vedere se nella tua memoria c'è il ricordo della formazione rocciosa che cerchiamo." Jerle arrossì. "Va' a provare le tue magie su qualcun altro!" Fece per allontanarsi, ma Tay lo afferrò per il braccio e lo costrinse a girarsi verso di loro. "Ma non c'è nessun altro, vero, Jerle? Abbiamo solo te. Hai paura?" Il guerriero lo fissò con un'espressione assai vicina alla collera, ma Tay non indietreggiò, soprattutto perché non aveva scelta. Il cielo si era schiarito e la sua grande volta era piena di stelle, di una luminosità accecante. Alla loro luce, sulla montagna, obbligato a un inatteso litigio col suo migliore amico, Tay si sentiva stranamente scoperto. Jerle staccò lentamente il braccio dalla presa di Tay. "Io non ho paura di niente, e lo sai" disse a bassa voce. Tay annuì. "Lo so. Adesso, per favore, lascia che Vree faccia il tentativo." Tornarono a sedere, vicini e in silenzio. Vree Erreden afferrò Jerle per i polsi e lo fissò negli occhi. Poi chiuse le palpebre. Tay li guardò preoccupato. Jerle era teso come un gatto che si prepari a saltare, pronto a scattare al primo accenno di pericolo. Il locat, invece, era calmo e distaccato, soprattutto in quel momento, come se si fosse calato in qualche profondità interiore per cercare ciò che gli serviva. Rimasero fermi in quella posizione per alcuni istanti,
l'uno stretto all'altro, una strana coppia che non rivelava nulla di quanto stava succedendo. Poi Vree Erreden si staccò da Shannara e rivolse un cenno a Tay. "L'ho trovato. Almeno, è un inizio. La tua memoria è molto buona. Le due cime gemelle che formano una V sono chiamate Le Pinze, almeno da te." "Ora ricordo" disse il guerriero a bassa voce. "Cinque o sei anni fa, quando cercavo un terzo passaggio verso le Pianure di Hoare. Nei monti a nord del Worl Run, dove la massa era più impenetrabile. Ma non c'era alcun passo, da quelle parti, e abbiamo lasciato perdere. Però ricordo quella formazione. Sì, adesso la ricordo!" Poi il suo entusiasmo parve spegnersi, sostituito nuovamente dall'irritazione. "Basta, adesso." Scosse la testa, più a beneficio di se stesso che degli altri, e si alzò. "Abbiamo il punto di partenza che cercavamo. Spero che tutti siano contenti, adesso. Forse, finalmente, potrò dormire." Volse loro la schiena e si allontanò. Tay e Vree Erreden 10 guardarono allontanarsi. "Di solito non è così" commentò Tay, dopo qualche tempo. Il veggente si alzò. "Ha appena perso sei uomini i quali, fidandosi di lui, sono finiti in un'imboscata che lui avrebbe dovuto prevedere." Tay lo fissò con stupore, e il locat si strinse nelle spalle. "E' il pensiero che lo ossessiona in questo momento. Non ha potuto nasconderlo, anche se avrebbe voluto farlo." "Ma la morte di quegli uomini non è colpa sua" protestò Tay. "Non è colpa di nessuno." 11 veggente gli lanciò un'occhiata. "Jerle Shannara non la vede così. Se tu fossi nei suoi panni, come la vedresti?" Poi si allontanò, lasciando Tay a riflettere sulla domanda. La compagnia ripartì all'alba, diretta a nord verso il Worl Run. Preia Starle era tornata durante la notte e aveva riferito che non c'era traccia di inseguitori nelle vicinanze. Con questo, nessuno s'illuse di essere al sicuro. Semplicemente, s'erano guadagnati un po' di respiro. Gli Gnomi li stavano ancora cercando, ma avrebbero avuto difficoltà a trovarli su quelle montagne, dove le tracce tendevano a scomparire in mezzo alle pietraie e ai passaggi tortuosi. Con un po' di fortuna, non sarebbero stati scoperti finché non avessero trovato ciò che cercavano. Era un'illusione, pensava Tay, ma era la loro unica speranza. Cavalcarono verso nord per il resto della giornata senza scorgere gli inseguitori, procedendo lungo una serie di profonde vallate che serpeggiavano fino al passo del Worl Run. Quella notte si accamparono su un alto pianoro da cui si scorgevano il passo e le valli che portavano al Sarandanon, e Jerle riferì che erano ormai vicini alla formazione a V da lui soprannominata Le Pinze. Quel giorno, il suo umore era un po' migliorato; era ancora silenzioso e chiuso in se stesso, ma non dava risposte brusche, forse perché aveva un'idea precisa della loro destinazione. Arrivò persino a scusarsi con Tay, benché in modo indiretto, commentando, a un certo punto, la facilità con cui, purtroppo, gli saltava la mosca al naso. Non disse niente a Vree Erreden, ma Tay non insistette. Preia Starle non pareva affatto turbata dal cambiamento d'umore di Jerle e passò il tempo a parlargli come se tutto andasse nel migliore dei modi. Evidentemente, si disse Tay, conosceva i suoi sbalzi d'umore, e si era abituata ad affrontarli. Provò una fitta di gelosia perché tra lui e la donna non c'era mai stato quel genere di intimità. Una volta di più, si rese conto di essere un estraneo, venuto da un mondo diverso e ancora privo del proprio posto. Non sapeva perché la cosa lo preoccupasse tanto: forse perché, conclusa
la sua vecchia vita a Paranor, la sua nuova vita pareva incentrarsi sull'ambiguità del suo rapporto con Jerle e Preia. Non poteva fingere che il suo rapporto con loro fosse limpido, perché nascondeva a tutt'e due i suoi sentimenti verso Preia. O forse li avevano capiti benissimo, e lui si ostinava a fare il gioco dei segreti quando i segreti erano ormai noti a tutti. Ripartirono all'alba e verso mezzogiorno arrivarono alle Pinze. Tay le riconobbe subito, basandosi sulla descrizione di Bremen. Le cime formavano una netta V sull'orizzonte, e tra l'una e l'altra si stendeva un ammasso di cime più basse, consumate dal tempo e dalle intemperie e quasi del tutto spoglie, a parte qualche macchia di abeti e di ontani e qualche pascolo coperto d'erba e fiori selvatici. Al di là della formazione, in mezzo alla spaccatura della V, si scorgeva una parete che la nebbia rendeva irriconoscibile. Jerle si fermò ai piedi di un passo che portava alle cime gemelle e smontò di sella. In alto, gli uccelli da preda volavano sullo sfondo del cielo turchino, descrivendo cerchi ampi ed eleganti. La giornata era chiara e luminosa, le nubi gravide di pioggia si erano spostate più a est, in direzione del Sarandanon. Tay sentiva sulla faccia i raggi del sole, caldi e rassicuranti, mentre guardava il grande ammasso di rupi e pietraie chiedendosi quali segreti nascondesse. "Lasceremo i cavalli qui" disse Jerle "e proseguiremo a piedi." Sorrise nel vedere l'espressione del druido. "In qualsiasi caso, non potremmo fare ancora molta strada a cavallo, Tay. Dovremmo lasciarli nel passo, visibili ai nostri inseguitori. Lasciandoli adesso, invece, possiamo nasconderli in mezzo agli alberi. Può darsi che dobbiamo fuggire di corsa, prima che tutto sia finito." Preia confermò le parole di Jerle e Tay capì che avevano ragione, anche se provava un certo fastidio a lasciare gli animali che li avevano portati per tanti giorni. Inoltre, non era stato facile procurarseli. Ma anche i loro inseguitori, se fossero arrivati fino a quel punto, sarebbero stati costretti a procedere a piedi, si consolò. Jerle incaricò uno dei Cacciatori, un veterano dai capelli grigi chiamato Obann, di rimanere a guardia dei cavalli. Gli disse di nascondere bene gli animali e poi di attendere il loro ritorno. Obann propose di raggiungerli dopo aver nascosto gli animali, ma Jerle gli fece notare che c'era il rischio di dover cambiare nascondiglio se gli Gnomi si fossero avvicinati troppo, e che forse Obann avrebbe dovuto portar loro i cavalli, in caso di attacco. Con riluttanza, Obann annuì, prese le redini degli animali e si allontanò dal passo. Poi Jerle portò i rimanenti - ridotti adesso a sette: lui, Tay, Preia, Vree Erreden e gli ultimi tre Cacciatori degli Elfi - lungo il sentiero tra le rocce che portava alla spaccatura tra le due Pinze. Si arrampicarono sulle rocce per il resto della giornata. Mentre si avvicinavano alla loro destinazione, Tay si chiedeva di nuovo come affrontare il compito che lo attendeva. Benché gli altri partecipassero al recupero della Pietra Nera, la responsabilità era sua. Inoltre, era il solo a conoscere la magia, quanto meno la magia che poteva proteggerli, il solo in grado di trovare e prendere la Pietra. Ricordava la parte della visione riguardante il pericolo che circondava la Pietra, i neri tentacoli che la difendevano dai ladri, l'inconfondibile aura di male. Trovare la Pietra era solo il primo passo: il secondo consisteva nell'impadronirsene, e non sarebbe stato né facile né privo di pericoli.
Se la Pietra era rimasta indisturbata per tanti secoli, doveva essere protetta molto bene. Vree Erreden e Preia Starle potevano aiutarlo a trovarla. Jerle e i suoi Cacciatori potevano aiutarlo a prenderla. Ma in definitiva il compito più gravoso sarebbe spettato a lui. E questo era giusto, rifletté. Si era preparato a quel tipo di impresa per quindici anni, per quasi tutta la sua vita di adulto. Il tempo passato a Paranor era servito a metterlo in condizione di compierla, sempre che servisse a qualcosa. Ma non c'era nulla, di quanto aveva fatto fino a quel giorno, che si potesse avvicinare a ciò che gli veniva richiesto ora. Come gli altri Druidi, aveva trascorso il tempo a Paranor immergendosi nello studio e dedicandosi alla ricerca della conoscenza, e l'aver continuato per tanti anni a sviluppare le sue capacità magiche non cambiava il fatto che avesse condotto una vita sedentaria. Per quindici anni era vissuto in una fortezza raccolta e isolata, senza occuparsi del mondo circostante, ma adesso la permanenza a Paranor era terminata e la sua vita sarebbe cambiata. La sua nuova vita cominciava lì, in quelle montagne, tra le rovine di un'epoca lontana, alla ricerca di un talismano che, da quando esisteva l'uomo, nessuno aveva mai visto. Non poteva fallire. Questo era l'aspetto più importante. L'insuccesso significava la fine della speranza di sconfiggere il Signore degli Inganni, di creare un'arma capace di distruggerlo, e probabilmente la fine della vita di Tay Trefenwyd. Non avrebbe avuto un'altra occasione, non avrebbe avuto la possibilità di riprovare. Quell'impresa era il coronamento dei tanti anni in cui aveva praticato la magia dei Druidi: il suo successo avrebbe giustificato il ruolo della magia e dei Druidi. Era la chiave di volta. Da lì nascevano le sue preoccupazioni. La compagnia era stanca di essere inseguita, di dover correre e nascondersi, di dover sfuggire alle imboscate, di perdere il sonno e delle lunghe ore di viaggio. Da più di una settimana non mangiavano regolarmente perché non erano loro giunti i previsti rifornimenti, ed erano stati costretti a nutrirsi di ciò che riuscivano a cacciare durante la fuga. Erano amareggiati dalla morte dei compagni e dal timore - che lentamente si faceva strada sotto l'apparente determinazione - che la ricerca non avesse esito positivo. Nessuno parlava di queste cose, ma erano perfettamente visibili sulle facce, negli occhi, nel modo di muoversi, visibili a chiunque le volesse riconoscere. Il tempo cominciava a mancare, secondo Tay Trefenwyd. Sfuggiva come acqua dalle mani tenute a coppa, e se non avessero fatto attenzione, tutt'a un tratto sarebbero rimasti senza. Al tramonto erano ancora nel passo e si accamparono in una piccola macchia di ontani ai piedi dei monti. Faceva freddo, lassù, ma non tanto da dare fastidio. Al tramonto giunsero all'imboccatura del passo e si accamparono in un rado boschetto di ontani. Era freddo, lassù, ma non tanto. La roccia pareva conservare il calore della giornata, forse perché di lì si scendeva in una valle che si stendeva da est a ovest. Mangiato qualche boccone, ma ancora con una buona riserva d'acqua, si avvolsero nelle coperte e dormirono senza essere disturbati. All'alba si rimisero in marcia. Il sole illuminò il loro cammino sollevando lunghi pennacchi di nebbia. Preia Starle li precedeva, esplorando il terreno a qualche centinaio di passi dal gruppo e avvertendoli degli ostacoli e dei sentieri praticabili. Tay scambiò qualche parola con Jerle, ma nessuno dei due aveva voglia di parlare.
Quando uscirono dalla valle e si lasciarono alle spalle le due cime gemelle, si trovarono bloccati da un massiccio che pareva formato di grandi strati di roccia frantumati e raccolti dalle mani di un gigante. Ancora più avanti si levava la Catena di Confine: le sue cime spezzate, unite a casaccio dalle stesse mani di gigante in base a un criterio incomprensibile, parevano attendere che qualcuno venisse a rimetterle in ordine. Preia si riunì al gruppo e lo portò a sinistra, ai piedi del massiccio, per quasi un miglio, fino a un sentiero che saliva in mezzo alle rocce. A quel punto, Jerle non poteva più fare appello ai ricordi delle passate esplorazioni: potevano soltanto andare avanti finché non avessero trovato qualche altro particolare corrispondente alla visione di Bremen. Si arrampicarono sulle rocce, evitando i crepacci che si aprivano improvvisi davanti a loro e cadevano a perpendicolo nell'ombra, e tenendosi lontani dal ciglio dei precipizi e dalle salite ripide, dove chi scivolava era perduto. Jerle aveva avuto ragione, pensò Tay, a lasciare i cavalli. Sarebbero risultati inutili. In cima al massiccio trovarono una stretta gola serpeggiante, a malapena distinguibile dal terreno circostante, che scendeva verso una nuova parete di roccia. La percorsero con cautela, preceduti da Preia che passava agilmente dalle macchie di luce a quelle d'ombra, e un attimo era visibile e l'attimo successivo spariva. Quando la raggiunsero, era ferma all'uscita della gola e fissava i monti davanti a lei. Si voltò verso i compagni, e la sua eccitazione era perfettamente visibile. Indicò dinanzi a sé, e Tay scorse i pinnacoli di roccia che s'innalzavano ad angoli assurdi, circondati alla base da un'ampia distesa di rocce sgretolate dal tempo. Simili a dita strette insieme, serrate a formare un'unica massa. Tay sorrise stancamente. Era il riferimento cercato, la parete di roccia che nascondeva al suo interno un castello dimenticato dal tempo di Faerie: il castello che, nella visione di Bremen, custodiva la Pietra Nera. Era stato più facile di quanto Tay si fosse aspettato: prima le due cime gemelle, poi le rocce che assomigliavano a dita strette insieme. Vree Erreden aveva recuperato un ricordo, Preia aveva esplorato il terreno, ed erano arrivati alla meta con una velocità e un'efficienza che sfidavano la logica. Se in vari punti lungo il percorso non si fossero intromessi i Cacciatori degli Gnomi, sarebbero arrivati senza problemi. Ma a quel punto sorse una grave difficoltà. Per due giorni cercarono inutilmente un passaggio che permettesse di accedere al castello. Nella massa di rocce, macigni e lastre di pietra si scorgevano decine di aperture, che però non portavano da nessuna parte. Lentamente, con scrupolo, esplorarono ogni passaggio, per trovare ogni volta una parete di roccia o un crepaccio che impediva di proseguire. La ricerca proseguì il terzo giorno e poi il quarto, ma gli Elfi non trovarono nulla. L'irritazione crebbe. Aver fatto tanta strada, a un costo così elevato, e trovarsi bloccati era insopportabile. Avevano la fastidiosa impressione che rimanesse poco tempo, che il pericolo si stesse avvicinando da est, con gli Gnomi che proseguivano la ricerca; la speranza perdeva attrattiva e subentrava la delusione. Jerle Shannara li teneva in movimento. Invece di diventare sempre più cupo e chiuso, come Tay si aspettava, o di lasciarsi andare ad accessi di collera com'era successo con Vree Erreden dopo la perdita di sei uomini a Baen, rimaneva deciso e calmo. Li spingeva avanti senza pietà, naturalmente: perfino
Tay. Insistette perché continuassero la ricerca. Li costrinse a ritornare sui loro passi, a guardare di nuovo in ogni apertura tra le rocce. Per semplice forza di volontà, si rifiutava di darsi per vinto. Era un capo davvero eccezionale, pensò Tay. Vree Erreden non fornì l'aiuto che Tay si aspettava da lui. Non ebbe visioni, né lampi o illuminazioni che rivelassero l'accesso al castello. Il veggente non pareva preoccupato da ciò, anzi, era fiducioso. Secondo Tay, doveva essere abituato al fallimento: doveva avere accettato che il suo talento non si metteva in moto a comando, ma si manifestava in momenti imprevedibili. Comunque, non se ne stava seduto in attesa dell'ispirazione. Come tutti gli altri, proseguì la ricerca esplorando le aperture tra le rocce, frugando in ogni angolo e in ogni crepaccio. Non fece alcun commento sull'incapacità di aiutarli con il suo talento e, va detto a suo onore, non ne fece neppure Jerle Shannara. Fu Preia Starle a scoprirlo. Anche se l'area era un vasto dedalo, dopo quattro giorni ne avevano setacciato gran parte e tutti avevano l'impressione che, se la visione non li aveva messi sulla strada sbagliata, il castello doveva essere nascosto in qualche modo che non avevano preso in considerazione. Il quinto giorno Preia si alzò prima dell'alba e andò a guardare le grandi rocce frastagliate: un po' per la frustrazione e un po' perché sentiva il bisogno di studiarle in una condizione diversa dalle precedenti. Si sedette sotto un'alta rupe affacciata verso ovest e osservò le rocce illuminarsi progressivamente a causa della luce che giungeva da dietro le sue spalle, il grigio della notte trasformarsi nell'argento e nell'oro del nuovo giorno. Guardò i raggi scendere lungo il fianco dei monti e delle rupi come una macchia di vernice su un pannello di legno, facendo risaltare ogni particolare di ogni monte. E a quel punto vide gli uccelli. Erano grandi, spigolosi, bianchi: uccelli marini, a molte miglia dal più vicino corso d'acqua, e uscivano da una spaccatura della roccia, parecchie decine di braccia al di sopra della sua testa. Gli uccelli comparvero tutti insieme, almeno quindici o venti, e si allontanarono verso est, incontro al nuovo giorno. Che cosa ci facevano, si chiese subito Preia, tanti uccelli di mare fra quei monti brulli? Andò subito a riferirlo agli altri. Descrisse quello che aveva visto e spiegò che valeva la pena di andare a vedere, e immediatamente Vree Erreden esclamò che sì, sì, era proprio quello che cercavano! Tutti passarono subito all'azione, e anche se erano stanchi per le fatiche dei giorni precedenti, e faticavano a muoversi dopo avere dormito sulla nuda pietra, affamati del cibo che non avevano e stanchi di mangiare quello che avevano, uscirono con grande decisione dal campo e si avviarono verso la montagna. Impiegarono alcune ore per raggiungere la spaccatura da cui erano usciti gli uccelli. Non c'era un percorso diretto e il sentiero che furono costretti a seguire si snodava faticosamente sulla parete di roccia, costringendoli a innumerevoli giravolte oltre che a prestare la massima attenzione a dove mettevano i piedi. Preia, che come sempre guidava la salita, arrivò per prima e sparì all'interno della montagna. Quando gli altri furono arrivati alla piccola sporgenza di roccia davanti all'apertura, lei era già di ritorno con la notizia che esisteva un passaggio. Entrarono uno alla volta. Poco dopo le pareti del passaggio cominciarono a stringersi, il calore del sole lasciò il posto all'ombra e all'umidità, la luce svanì. Presto
anche la volta cominciò ad abbassarsi e la poca luce rimasta era quella che penetrava dalle fessure che si aprivano nella roccia ogni pochi passi. I loro occhi si abituarono al buio e cominciarono a scoprire piume bianche, rametti e fili d'erba probabilmente trasportati dagli uccelli che volevano farsi il nido; i nidi stessi, naturalmente, dovevano trovarsi più avanti, dove c'era più luce e aria. Proseguirono. Dopo qualche tempo, la galleria si abbassò ulteriormente e tutti furono costretti a chinare la testa. Poi incontrarono una biforcazione. Preia disse loro di aspettare e si diresse a destra. Tornò dopo parecchi minuti e indicò ai compagni l'altro passaggio. Dopo un breve tratto, la volta si alzò e tutti poterono riprendere a camminare normalmente. Davanti a loro, apparve la luce: l'uscita era vicina. Dopo una cinquantina di passi si trovarono all'aperto, in riva a un ampio lago. La sua presenza era così inattesa che tutti si fermarono a guardarsi attorno. Erano in un ampio cratere, e la superficie del lago era assolutamente immobile: non si scorgeva la minima onda. In alto, il cielo era del tutto privo di nuvole e la luce del sole riscaldava l'interno del cratere. Le acque del lago riflettevano in tutti i particolari le pareti di roccia che le circondavano. Tay osservò le pareti del cratere e scorse i nidi degli uccelli, nascosti tra le rocce. Nessun uccello era visibile. Entro la barriera di montagne e sulla piatta superficie del lago, nulla si muoveva: il silenzio era assoluto e fragile come vetro. Dopo essersi consultata con Jerle, Preia Starle li condusse lungo la riva del lago. Il terreno era composto di frammenti di roccia e di grosse lastre di pietra, e lo scricchiolio dei loro stivali echeggiava sinistro nel silenzio. Con la sua magia, Tay esplorò il terreno, alla ricerca di pericoli nascosti, ma trovò linee di forza terrestre così forti e antiche da spezzare la sua fragile rete. Chiamò Jerle e lo avvertì: in quel luogo era attiva una potente magia, antica come il tempo e altrettanto radicata. Proteggeva il cratere e il suo contenuto. Tay non vi trovò una minaccia precisa, ma non riuscì a trovarne la fonte o a scoprirne lo scopo. Non pensava che costituisse un pericolo, ma era meglio procedere con cautela. Proseguirono lungo la sponda del lago, senza scorgere segni di vita e senza vedere altro che rocce e acqua. Né Tay con la sua magia dei Druidi né Vree Erreden con il suo talento di veggente riuscirono a scoprire ciò che cercavano. Il sole era salito al di sopra dei monti e splendeva a picco su di loro, bruciante in mezzo al cielo turchino. Non potevano alzare gli occhi senza rimanere abbagliati, ed erano costretti a guardare in terra. Fu allora, con l'avvicinarsi del mezzogiorno, che Tay notò l'ombra. Si era allontanato dalla riva ed era salito sulle rocce, per poter osservare la sponda opposta senza essere abbagliato dal riflesso del sole sull'acqua. Nel guardarsi attorno alla ricerca del punto d'osservazione più adatto, notò il modo in cui il sole proiettava l'ombra di una sporgenza rocciosa, attraverso tutto il lago, fino alla parete di fronte, a parecchie centinaia di passi da lui. L'ombra copriva tutta una striscia verticale di parete fino a una stretta apertura e lì si fermava. Qualcosa, al di sopra dell'apertura, attirò lo sguardo di Tay, che inviò la sua magia. Ciò che trovò, scolpita nella roccia, era un'iscrizione. Si affrettò a raggiungere Preia, e tutta la compagnia si diresse verso quel punto. Qualche minuto più tardi, tutti guardavano in silenzio le
parole incise in alto nella roccia. La scritta era antichissima, indecifrabile. I caratteri erano quelli degli Elfi, ma le parole erano sconosciute. La scritta, poi, era talmente consumata da risultare quasi illeggibile. In quel momento si fece avanti Vree Erreden, con la faccia ispirata, chiese a Tay e Jerle di sollevarlo sulle loro spalle e prese a passare le dita sulle parole. Per qualche istante chiuse gli occhi, ma continuò a passare adagio le mani sull'iscrizione. Infine si fece mettere a terra e come in trance, con lo sguardo fisso, prese un sasso appuntito e scrisse alcune parole su una pietra liscia. Tay si chinò a leggere. QUESTA E' LA FAUCE MAGNA. NOI VIVIAMO ANCORA. NON TOCCATE NULLA. NON RUBATE NULLA. LE NOSTRE RADICI SONO PROFONDE E ROBUSTE. ATTENTI! "Che significa?" chiese Jerle. Tay scosse la testa. "Che quanto troveremo oltre quest'apertura è protetto dalla magia. Che qualsiasi disturbo provocherà spiacevoli conseguenze." "Dice che sono ancora vivi" intervenne Vree Erreden, incredulo. "Ma è impossibile. Guardate la scritta! Risale all'epoca di Faerie!" Continuarono a fissare la scritta e l'apertura e a scambiarsi occhiate. Dietro di loro, Preia e i Cacciatori aspettavano ordini. Nessuno parlava. Sembrava che il tempo fosse svanito, che il passato e il presente si fossero uniti trascendendo la durata della vita umana e l'oblio della storia. Avevano l'impressione di trovarsi sul ciglio di un dirupo e che bastasse un passo falso per precipitare incontro a morte sicura. La presenza di una grande magia era così forte da far fremere Tay. Una magia antica, potente, inflessibile, risvegliatasi nel momento del bisogno: e adesso premeva contro tutti i suoi sensi minacciando di travolgerlo. "Non siamo venuti qui per tirarci indietro all'ultimo momento" osservò con calma Jerle Shannara, fissandolo. "Per nessun motivo." Tay annuì. Anche lui intendeva proseguire. Guardò Vree Erreden, Preia Starle, i Cacciatori dietro di lei e infine Jerle. Gli rivolse un sorriso tirato. Poi respirò a fondo ed entrò nell'apertura buia. 16 Dopo alcuni passi, l'apertura si allargò fino a divenire un corridoio, alto più di un uomo e largo a sufficienza perché vi si potesse camminare affiancati. Da questo si passava a una rampa di scale che scendeva verso un buio talmente fitto che neppure Tay riuscì a vedere dove portasse. Scesi i primi scalini, Tay si mosse a tastoni e sentì sotto le dita, sulla parete, una piastra di metallo. Quando la toccò, la piastra s'illuminò di una pallida luce fredda e giallastra. Il druido fissò con sorpresa la piastra: era una magia che non aveva mai incontrato. La luce rivelò un'altra piastra, a qualche scalino di distanza, proprio ai margini della zona illuminata. Tay la raggiunse, vi posò la mano e anch'essa s'illuminò. Stupefacente, pensò. Udiva alle proprie spalle i passi dei compagni e si chiese cosa pensassero. Ma nessuno parlò, e non si girò verso di loro. Continuò a toccare le piastre metalliche, una dopo l'altra, illuminando la scala. Continuarono a scendere per parecchi minuti. Tay perse il senso del tempo perché dedicava tutta la sua attenzione a scrutare gli scalini, mediante la magia dei Druidi, alla ricerca di trabocchetti. La presenza di quelle piastre metalliche
luminose rivelava una complessità che Tay non si sarebbe aspettato. La magia di Faerie non era ben conosciuta perché era stata dimenticata col passare del tempo, ma Tay aveva sempre pensato che si basasse sulle forze degli elementi naturali, e non sulla scienza e la tecnologia. E invece quelle piastre parevano suggerire che non era così, e questo lo preoccupava. Non dare niente per scontato, in questo luogo, si disse. Con la magia continuò a esplorare le correnti d'aria, le fessure tra le pietre, le particelle di polvere mosse dal loro passaggio e determinò con precisione i segreti del mondo in cui erano entrati. Non scoprì alcuna traccia di vita umana, anche se l'iscrizione al di sopra dell'ingresso faceva pensare che ce ne fosse. Non scorse tracce del passaggio di altre persone: almeno, non tracce recenti. Da secoli, forse da millenni, nessuno era entrato in quei corridoi. Tuttavia, nonostante questo, ebbe la netta impressione di essere sorvegliato e valutato, come se qualche entità paziente e inesorabile fosse in attesa del suo arrivo. La scala terminava davanti a una massiccia porta di ferro. Non si scorgevano catene o chiavistelli e non era custodita dalla magia. Sul suo architrave arrugginito si leggevano le parole FAUCE MAGNA, scolpite nella pietra: solo quelle due parole, non l'intera scritta che avevano letto sopra l'imboccatura del passaggio. I compagni si affollarono attorno a lui. Inginocchiata a terra, Preia Starle esaminò il pavimento davanti alla porta, poi si alzò e scosse la testa. Da molto tempo nessuno era passato per quella porta. Tay tastò la porta e la parete attorno a essa, ma non trovò nulla. Fece un passo avanti, afferrò la pesante maniglia di ferro e provò ad abbassarla. La maniglia ruotò senza difficoltà, la serratura scattò e la porta si aprì verso l'interno, perfettamente bilanciata. Dall'apertura filtrò una luce lattiginosa che vibrava in modo irreale, come se passasse attraverso un vetro bagnato dalla pioggia. Davanti a loro c'era un'imponente fortezza. I blocchi di pietra erano così antichi che gli angoli erano smussati e la superficie lucida e consumata, coperta di crepe e di ragnatele. Era una costruzione meravigliosa, con mura e torri, parapetti sporgenti e archi rampanti, ponti sottili e scale a chiocciola che facevano pensare a un arazzo intessuto al telaio. Il castello s'innalzava a perdita d'occhio, le sue parti più alte risultavano invisibili. Era circondato da montagne: i pochi tratti di cielo che si riuscivano a scorgere erano coperti di foschia. Sui monti cresceva una ricca vegetazione, con rami e liane sporgenti che parevano protendersi verso il castello: formavano una sorta di baldacchino di foglie, che filtrava la luce e le dava le caratteristiche liquide che avevano notato. Tay attraversò la porta e si trovò in un ampio cortile che si allargava ai lati e verso il corpo centrale del castello. Solo allora comprese di avere alle spalle il muro di cinta del castello, che ormai erano a ridosso delle pareti di roccia dei monti. Guardò le mura, stupito, e comprese che col passare del tempo le montagne si erano spostate, stringendosi attorno all'antica fortezza finché le sue pietre non avevano cominciato a cedere e a fessurarsi. Palmo a palmo, le montagne si riappropriavano del territorio su cui era stata costruita la fortezza, e un giorno sarebbero riuscite a schiacciarla definitivamente. Avanzarono tutti nel cortile, guardandosi attorno con circospezione. L'aria era pesante e fetida, e puzzava di palude e di fiori marci: uno strano odore, per un luogo situato
all'interno delle montagne. Ma Tay rifletté che avevano percorso un lungo tratto in discesa: forse erano vicini al livello del mare. Sollevò 10 sguardo verso la vegetazione che copriva la parete dei monti e sporgeva dal muro di cinta. L'umidità che stillava dalle foglie era quasi pioggia: sentì le goccioline colpirgli la faccia. Poi studiò le porte e le finestre del castello, che sembravano orbite vuote e scure. Rimanevano soltanto i serramenti di metallo, perché il legno si era polverizzato. L'umidità aveva aggredito anche la pietra e la calce, consumandole e sbriciolandole. Tay si avvicinò alla torre più vicina e passò la mano sulla pietra. La superficie si sgretolò come se fosse di sabbia. L'antica fortezza, Fauce Magna, dava la spiacevole impressione di poter crollare da un momento all'altro. Poi Tay scorse Vree Erreden. 11 locat si era inginocchiato al centro del cortile, aveva la testa bassa, si teneva abbracciato come fosse sull'orlo di un collasso e ansimava rauco. Tay si inginocchiò accanto a lui, e dopo un attimo venne raggiunto da Preia e da Jerle, che lo guardarono con ansia. "Cosa succede?" gli chiese Tay. "Stai male?" Il locat annuì, si strinse ancora di più le braccia attorno al corpo e si appoggiò a lui per non cadere. Tremava come una foglia. "Questo posto!" ansimò. "Per tutte le ombre, non lo senti?" Tay lo tenne stretto. "No. Non sento nulla. Tu cosa senti?" "Un simile potere! Maligno, ostile, come tanti artigli che mi graffiano! Non sentivo nulla, e poi, all'improvviso, era dappertutto! Mi ha schiacciato! Per qualche momento, non riuscivo neppure a respirare!" "Da dove proviene?" chiese Jerle, accostandosi a lui. Il veggente scosse la testa. "Non saprei dirlo! Non è qualcosa di familiare, non è qualcosa che ho già incontrato! Non era una visione, una premonizione o... qualcosa del genere. Era una macchia d'oscurità, seguita da un senso di..." Trasse un profondo respiro per riprendere la padronanza di sé, chiuse gli occhi e non si mosse più. Tay fece per sollevarlo, pensando che avesse perso i sensi, ma Preia lo toccò e scosse la testa. Vree Erreden stava solo prendendo fiato. Tay lasciò che si riprendesse. Continuò a sorreggerlo, e l'intera compagnia attese con lui. Infine il veggente riaprì gli occhi, respirò profondamente, si staccò da Tay e si alzò. Era di nuovo sicuro di sé, nel guardarli, ma gli tremavano ancora le mani. "La Pietra Nera" bisbigliò. "E' qui. Ecco cosa ho sentito. La radice del male." Batté le palpebre, poi fissò Tay. "Il suo potere è immenso!" "Sai dirmi dov'è?" chiese Tay, cercando di non agitarsi. Il locat scosse la testa e incrociò le braccia sul petto come a proteggersi. "Davanti a noi, nel castello." Avanzarono all'interno della fortezza vera e propria, guardandosi attorno con sospetto. Anche ora era Tay ad aprire la strada, esplorando con la sua magia, i sensi all'erta verso tutti i pericoli. Entrarono dalla porta centrale e si trovarono in un lungo corridoio. Tay si accorse di avere Jerle al fianco e Preia dietro. Lo volevano proteggere, pensò. Scosse la testa. Lo turbava ancora il fatto di non essersi accorto della vicinanza della Pietra Nera, mentre Vree Erreden ne aveva sentito così chiaramente la presenza. La magia dei Druidi l'aveva tradito. Forse perché era inutile nel castello? No, rispose a se stesso: aveva colto nettamente una presenza, quando era entrato; aveva avuto l'impressione di essere osservato da qualcuno che si teneva nascosto. Chi poteva essere? La Pietra Nera non poteva possedere un'intelligenza, ma c'era chiaramente un'entità che
viveva laggiù. La fortezza faceva pensare a una tomba. L'ombra gravava su ogni cosa, come una cappa di velluto odoroso di muschio. La polvere che si levava al loro passaggio formava una nube nell'aria. L'arredamento che in passato abbelliva il castello era in briciole. Rimaneva soltanto qualche scheggia di metallo e qualche pezzo di tessuto. Dalle pareti sporgevano i chiodi che un tempo reggevano arazzi e quadri. Un tempo, artisti e artigiani avevano lavorato qui, ma nessuno dei loro prodotti era sopravvissuto. Le stanze che si aprivano sui corridoi erano saloni vasti e regali oppure vani piccoli e raccolti, tutti privi di vita. Una parte del corridoio era occupata da file di panche; quando Tay posò la mano su una di esse, si ridusse in polvere. Nelle nicchie si scorgevano mucchi di frammenti di vetro. A terra c'erano armi spezzate e inutili, mucchietti di legno marcio e di metallo arrugginito. Il soffitto era nascosto dietro una fitta nube di oscurità, le finestre li fissavano come orbite cieche e vuote. Tutto taceva: il silenzio di una tomba. All'incrocio di alcuni ampi corridoi, Vree Erreden li fece fermare bruscamente. Si teneva la testa tra le mani e il suo viso era una smorfia di dolore. "A sinistra!" ansimò, indicando con mano tremante. Si diressero da quella parte. Preia Starle rimase indietro per prendere il locat sottobraccio e aiutarlo a reggersi. Aveva ripreso ad ansimare e batteva le palpebre come se qualcosa gli desse fastidio agli occhi. Tay si girò a osservarlo, poi guardò di nuovo avanti. Anche ora, non percepìva alcun pericolo. Si sentiva indifeso, come se la magia l'avesse abbandonato. Strinse i denti e si costrinse a proseguire, dicendosi risolutamente che la magia non l'avrebbe mai abbandonato. Mai. Incontrarono una rampa di scalini che scendeva a spirale attorno a quella che doveva essere una grande sala circolare. Per qualche tempo si udì soltanto il rumore smorzato dei loro piedi sul pavimento coperto di polvere, e Tay ebbe di nuovo l'impressione di essere osservato. La sensazione era assai più forte, questa volta, più precisa. L'entità che abitava nel castello era vicina. Giunti in fondo alla scala, scorsero un cortile illuminato da una luce diffusa, simile a quella di una giornata coperta; come Tay notò subito, le ombre erano bruscamente scomparse, e così l'odore di muffa e di aria stagnante. Sul pavimento del cortile sotterraneo non si scorgeva traccia di polvere. In mezzo al cortile c'era un giardino. Era ancora visibile il vialetto che gli girava attorno, pavimentato di pietre e piastrelle smaltate i cui colori parevano vibrare, tanto splendevano. Il giardino era di forma rettangolare. Nella parte più esterna c'erano soprattutto fiori multicolori, di una varietà che Tay non aveva mai visto, mentre la zona centrale era occupata da un boschetto di alberi alti e sottili, dal tronco curiosamente maculato e dalle foglie verdi e lucide, talmente coperti di rampicanti da costituire un unico, indissolubile intreccio. Un giardino! pensò Tay, meravigliato. Provò un curioso senso di esaltazione. Un giardino nei sotterranei di quell'antico castello, dove non poteva crescere nulla, dove non penetrava la luce del sole! Incredibile! Quasi senza pensare, scese gli ultimi scalini e si avviò verso il giardino. Aveva già fatto quattro o cinque passi, quando Jerle Shannara lo prese per il braccio e lo tirò indietro. "Non avere tanta fretta, Tay" lo avvertì. Stupito, il druido guardò l'amico, poi vide che Vree era di nuovo caduto in ginocchio e scuoteva lentamente la testa,
mentre Preia lo reggeva. Solo in quel momento comprese quanto fosse stato forte l'impulso di buttarsi avanti, come fosse trascinante l'ansia di esplorare. E si accorse di avere completamente allentato le difese. L'impazienza era stata così forte da fargli abbassare lo scudo difensivo di magia dei Druidi. Senza fare parola, tornò subito dove era inginocchiato Vree Erreden. Il locat sentì la sua presenza, più che vederlo, e lo afferrò subito attirandolo a sé. "La Pietra Nera..." sibilò fra i denti serrati per il dolore "è laggiù!" La sua mano tremante indicò il giardino. Preia sfiorò delicatamente il braccio di Tay perché si girasse verso di lei. Nei suoi occhi chiari si leggeva una forte preoccupazione. "E' crollato nello stesso momento in cui tu hai lasciato la scala. Qualcosa deve averlo attaccato. Cosa sta succedendo?" Tay scosse la testa. "Non capisco bene..." Prese Vree Erreden per i polsi e li strinse. Il veggente rabbrividì, poi s'immobilizzò. Tay evocò la magia per trasmettergli una parte della sua forza e aiutarlo a riprendersi. Vree Erreden sospirò e lasciò cadere la testa, immobile. Preia rivolse a Tay un'occhiata interrogativa, ma il druido le disse: "Puoi tenerlo?". Poi si alzò e si accostò a Jerle. "Secondo te" gli chiese "a che serve, in un posto così, questo giardino?" Il guerriero scosse la testa. "A niente di buono, se è il nascondiglio della Pietra Nera.LO non ci andrei, se fossi in te." Tay annuì. "Tuttavia non posso prendere la Pietra Nera senza entrarci." "Dubito che tu possa prenderla, anche entrando. La visione diceva che la Pietra è difesa. Forse la sua difesa è questo giardino. o qualcuno che vive al suo interno." Entrambi alzarono gli occhi verso l'intreccio di rami e liane, cercando di scoprire la natura del pericolo che percepìvano. Le foglie si agitarono per in istante, come mosse dal vento, ma non ci furono altri movimenti. Tay sollevò il braccio e lanciò verso il giardino un filo di magia dei Druidi, per esaminarne l'interno. Serpeggiando, il sottile tentacolo esplorò attentamente la vegetazione, ma trovò solo ciò che avevano già visto: gli alberi alti e sottili, le liane, le foglie verdi e lucide, il terreno su cui crescevano. Eppure, laggiù sentiva una sorta di entità, un'altra forma di vita, oltre a quella suggerita dalle piante, una presenza forte, antica e mortale. "Vieni con me" disse a Jerle, dopo qualche istante. Lasciarono la compagnia e iniziarono lentamente, con cautela, a esaminare il perimetro del giardino. Il vialetto lastricato era ampio e senza ostacoli, per cui erano in grado di guardarsi ai fianchi e alle spalle. Il giardino era largo più di un centinaio di passi e lungo trenta o poco più, e il suo aspetto non cambiava, da qualsiasi lato lo si guardasse: gli stessi fiori ai bordi, alberi e liane al centro. Non c'erano sentieri, non si scorgevano altre forme di vita. E non si vedeva la Pietra Nera. Quando furono di nuovo nel punto da cui erano partiti, Tay si fermò accanto a Vree Erreden. Il veggente aveva ripreso i sensi e sedeva in terra, accanto a Preia. Aveva gli occhi aperti e fissava il giardino, anche se dava l'impressione di vedere qualcosa di totalmente diverso. Tay s'inginocchiò accanto a lui. "Sei certo che la Pietra Nera sia qui?" gli chiese a bassa voce. Il locat annuì. "E' in qualche punto di quel labirinto" sussurrò, con la voce incrinata dalla paura. Fissò Tay. "Ma non devi andare laggiù! Non ne usciresti più, Tay Trefenwyd! Ciò che protegge la Pietra, ciò che vive in questo luogo, ti sta aspettando!" Sollevò la mano, la strinse a
pugno. "Dammi retta! Non puoi farcela contro di essa!" Tay si alzò e raggiunse Jerle. "Devi fare una cosa" gli disse, parlando a bassa voce perché Vree Erreden non lo udisse. "Chiama gli altri Cacciatori. Lascia soltanto Preia con il locat." Jerle lo fissò per un istante, poi fece un gesto ai suoi uomini. Quando furono attorno a lui, rivolse a Tay un'occhiata interrogativa. "Dovete tenermi per le braccia" disse loro. "Due per parte. Tenetemi stretto e, qualunque cosa io dica o faccia, continuate a tenermi. Non lasciatemi. Non date retta a ciò che vi dirò. Evitate di guardarmi, se potete. Siete in grado di farlo?" I Cacciatori si scambiarono un'occhiata e annuirono. "Che intendi fare?" gli chiese Jerle. "Servirmi della magia dei Druidi per scoprire cosa c'è nel giardino" rispose Tay. "Non mi succederà niente, se farete come vi ho detto." "Faremo come dici" promise Jerle. "Lo faremo tutti. Ma non mi piace." Tay sorrise, anche se aveva il cuore in tumulto. "Non piace neanche a me." Chiuse gli occhi ed eliminò dalla propria mente la presenza degli altri. Raccogliendo a sé la magia, scese all'interno del proprio essere. Laggiù, nel nucleo del suo spirito, creò un simulacro di se stesso, un'entità di spirito e non di sostanza, e lo proiettò davanti a sé in un lungo, lento respiro. Poi uscì dal proprio corpo, sotto forma di un fantasma invisibile, un pezzetto di etere entro la luce grigia dell'antica fortezza. Passò davanti a Jerle Shannara e ai Cacciatori degli Elfi, davanti a Preia Starle e a Vree Erreden, e si diresse verso il labirinto di alberi e liane in mezzo al giardino silenzioso. Come vi entrò, sentì sempre più chiaramente la magia che vi era sepolta: una magia antica, astuta e sicura di sé, radicata assai più in profondità degli alberi e delle liane che la nascondevano. Era l'entità in cui convergevano le linee di potere magico che proteggevano la fortezza. Spuntavano da essa come fili di seta e avvolgevano pietra e metallo, dal muro di cinta alle cime delle torri, dai più profondi sotterranei ai più alti bastioni. Si stendevano su tutta la montagna fino al cielo: una vasta concentrazione di pensiero e di sensazioni e di forza. Tay arrivò a contatto della rete e la attraversò con attenzione, badando accuratamente a non toccarla. Si trovò nel giardino e si fece strada in mezzo al labirinto di alberi e liane, fra la terra muschiosa e l'intreccio di foglie. In ogni punto, il giardino era uguale a se stesso, profondo, segreto, avvolgente. Tay volò avanti, incorporeo e immateriale, scansando le linee di potere che si estendevano dappertutto, evitando ogni movimento che rischiasse di svegliare l'entità che sorvegliava quei luoghi. Era penetrato così in profondità nel giardino da avere l'impressione di essere quasi arrivato dall'altra parte, quando s'imbatté in una massiccia concentrazione di linee di forza, in un punto dove la luce era più fioca e pareva cedere al dominio delle ombre. Laggiù alberi e liane scomparivano. Laggiù dominava il buio. Si scorgeva solo la terra nuda: in tutta l'area non cresceva nulla e la luce veniva assorbita come da una spugna. Laggiù c'era un'entità invisibile, che pulsava con l'intensità e la regolarità di un cuore, protetta da molteplici strati di magia, avvolta nello stesso potere che la nascondeva. Tay Trefenwyd si avvicinò, scrutando nelle tenebre soffocanti, scivolando oltre le linee protettive. Nascosto nel suo travestimento di magia, si immobilizzò e ridusse al silenzio anche il battito del polso, il sussurro del respiro, il tremito del cuore. Ritirò
tutto se stesso, tranne una piccolissima parte di coscienza, e divenne tutt'uno con le tenebre. E allora la vide. Su un antichissimo supporto di metallo, che recava incise rune e bizzarre creature, c'era una gemma nera come l'inchiostro, così impenetrabile che sulla sua superficie non si rifletteva alcuna luce. Opaca, priva di profondità, dotata di un potere che Tay Trefenwyd non avrebbe mai creduto possibile, laggiù la Pietra Nera degli Elfi aspettava. Aspettava lui. Oh, per tutte le ombre! Aspettava lui! Come una falena attirata da una fiamma, Tay cercò di afferrarla: lo fece d'impulso, senza pensare, incapace di resistere. Cercò di afferrarla con la disperazione e il bisogno di un uomo che si sente affogare, e questa volta non c'era Jerle Shannara a fermarlo. Tay era solo un'immagine, uno spettro privo di sostanza: non pensò a ciò che faceva. In quel momento aveva perso la ragione: l'unica cosa che contava era il suo bisogno. Il fatto di essere uno spettro e niente di più fu ciò che lo salvò. Nel momento in cui la sua mano si chiuse sulla Pietra Nera, venne riconosciuto. Sentì le linee di potere vibrare in reazione alla sua presenza, le sentì tendersi e ronzare prima che scattassero. Cercò di tirarsi indietro, di sfuggire al pericolo, ma non c'era possibilità di fuga. La sentinella che non era riuscito a identificare, l'entità che viveva nelle rovine di Fauce Magna, prese improvvisamente, orribilmente forma. Quando l'entità si svegliò, la terra ebbe un sussulto: le liane che crescevano in tutto il giardino - e che fino a un momento prima pendevano flaccide - scattarono verso di lui e divennero le spire mortali contro cui l'aveva messo in guardia l'ombra di Galaphile. S'infilarono come serpi negli spazi tra gli alberi, pronte a colpire. La magia le spingeva, le animava, e Tay Trefenwyd, anche nella sua forma spirituale, capì subito cosa fossero. Gli si avvinghiarono sulle gambe e sulle braccia, sul corpo e sulla testa, a decine, provenienti da tutte le direzioni. Si strinsero e cominciarono a stritolarlo. Tay non avrebbe dovuto sentire quella pressione: era puro spirito. Ma la magia del giardino aveva il potere di colpirlo anche come essere incorporeo. Una magia capace di afferrare una magia: una magia capace di distruggere perfino un druido. Tay ebbe l'impressione di essere fatto a pezzi. Gli sfuggì un grido: il dolore era reale, nel suo spirito. Raccolse tutta la coscienza nel nucleo del simulacro di se stesso, mentre questo veniva fatto a pezzi, ridusse a una briciola la parte che conteneva il suo essere, s'infilò in un piccolo varco tra le liane e fuggì verso la luce. Si ritrovò subito nel proprio corpo: si contorceva e urlava, si inarcava come se fosse stato colpito dal fulmine, lottava follemente per divincolarsi, a tal punto che Jerle Shannara e i Cacciatori dovettero fare appello a tutta la loro forza per tenerlo. Ansimò, rabbrividì e infine crollò tra le loro braccia, privo di forze. Era madido di sudore; nel tentativo di liberarsi si era stracciato le vesti. Davanti a lui, il giardino si agitava ancora freneticamente, come un oceano dalle intenzioni mortali, un banco di sabbie mobili cui era impossibile sfuggire. Eppure, lui c'era riuscito. Chiuse le palpebre, riducendo gli occhi a due fessure. "Per tutte le ombre!" mormorò, cercando di dimenticare quelle liane che saettavano su di lui per farlo a pezzi. "Tay?" chiese Jerle, disperato. Lo teneva fermo e tremava violentemente. "Tay, mi senti?" Tay Trefenwyd abbracciò l'amico e aprì gli occhi. Adesso era tutto a posto, disse a se stesso.
Adesso era al sicuro. Trasse un lungo respiro per riprendere la padronanza di sé. Era tornato nel mondo dei viventi: dell'orribile magia della Pietra Nera aveva scoperto quanto voleva sapere. Riferì ai compagni ciò che aveva visto. Li radunò tutti attorno a sé, perché non c'era ragione di nascondere loro la verità, e spiegò l'accaduto. Non mentì, ma tenne per sé i particolari più tenebrosi. Cercò di non lasciar capire quanto fosse impaurito, anche se, nel raccontare la sua esperienza, il terrore lo invase di nuovo come un fiume travolgente. Disse poche frasi, con voce calma. Terminata la spiegazione, chiese qualche minuto per riflettere sulla prossima mossa. Tutti si allontanarono da lui, tranne Vree Erreden. Il locat lo seguì e, non appena furono lontani dagli altri, lo prese per il braccio. "Non hai parlato del guardiano. Non hai detto chi è, ma devi conoscerne l'identità." Gli serrò sul braccio le dita sottili. "Ho sentito che ti aspettava... aspettava proprio te, come se tu avessi un'importanza particolare per lui. Dimmi cos'è, Tay Trefenwyd." Raggiunsero la scala da cui erano giunti e si sedettero sui gradini, nel silenzio della fortezza. Davanti a loro, il giardino era di nuovo immobile: era tornato a essere un giardino e niente più. Pareva che non fosse successo niente. Tay fissò per un istante il locat, poi distolse gli occhi. "Ti spiego tutto, ma deve rimanere tra noi. Nessun altro lo deve sapere." Vree Erreden annuì. "Si tratta del Signore degli Inganni?" chiese, con un filo di voce. Tay scosse la testa. "Il potere che regna qui è molto più antico. Ciò che vive nel giardino è composto di ciò che viveva nella fortezza. E' un conglomerato di vite, una mescolanza di creature di Faerie. Soprattutto Elfi, che nei passati millenni erano come me e te. Ma hanno bramato il potere della Pietra Nera con una tale intensità da non poter resistere. Hanno usato la Pietra, tutti insieme in qualche rito, o uno alla volta, e la Pietra li ha distrutti. Non so come sia successo, ma all'improvviso ho scoperto che conoscevo la loro storia, ho compreso il loro orrore e la loro follia. Si sono trasformati, sono divenuti la sostanza di questo giardino: una coscienza collettiva, un potere che deriva dalla cooperazione di tutti. La loro magia tiene insieme ciò che resta della fortezza, e sono riuniti quaggiù, dove ciò che rimane di loro ha messo radice, sotto forma di liane e alberi." "Esseri umani?" chiese il veggente, inorridito. "Una volta, ma adesso non più. Hanno perso la loro umanità quando hanno evocato il potere della Pietra Nera." Tay lo fissò inquieto. "Bremen mi ha avvertito del pericolo. Mi ha detto che qualunque cosa succeda non devo usare, per nessun motivo, la Pietra Nera. Evidentemente sa quello che mi costerebbe, se lo facessi." Vree Erreden abbassò la faccia e batté ripetutamente le palpebre. "Ho sentito che quell'entità ti aspettava: te l'ho detto. Ma perché ti aspetta? Cerca esseri della sua stessa specie, dotati di potere, capaci di usare la magia? O li teme? Che cosa la spinge? Ha scartato me, penso, perché la mia magia è debole e vaga. Infatti, la mia magia è visione e istinto, e non ha bisogno di definizione e di forza. Ma, per tutte le ombre, ho sentito perfettamente la sua malvagità!" Fissò di nuovo Tay. "Tu hai il potere dei Druidi, che è assai più forte del mio. Chiaramente, o teme la tua magia o desidera impadronirsene." Tay rifletté rapidamente su quelle parole. "Protegge la Pietra Nera degli Elfi perché è la fonte del suo potere e della sua
vita.LO ho minacciato questo stato di cose quando sono entrato nel giardino e ho interferito con le linee di potere magico che l'entità ha teso in tutto il castello. Ma sa che sono un druido? Non posso dirlo." "Sa che sei un nemico, questo è certo. Infatti ha cercato di distruggerti. Sa che non sei stato corrotto dalla magia." Il veggente esalò un lungo, faticoso respiro. "Si aspetta che tu provi di nuovo, Tay. Se ritorni in quel giardino, verrài divorato." Si fissarono negli occhi, senza parlare. Sa che sei un nemico, pensò Tay, ripetendo le parole di Vree Erreden. Sa che non sei stato corrotto dalla magia. All'improvviso gli tornò in mente qualcosa. Per un momento non riuscì a definirlo con esattezza, poi capì. Era il racconto di Bremen: il modo da lui seguito per entrare nella rocca del Signore degli Inganni. Bremen aveva cambiato il suo aspetto, la sua forma, il suo pensiero, per confondersi con i seguaci di Brona. Bremen si era trasformato fino a diventare tutt'uno con i mostri che vi abitavano. Poteva farlo anche lui? Sentì un nodo alla gola e si affrettò a girarsi perché Vree Erreden non gli leggesse negli occhi. Lui stesso non riusciva a credere a ciò che aveva pensato. Era inconcepibile. Era una pazzia! Ma che altra scelta aveva? Nessuna, lo sapeva. Osservò i compagni, raggruppati davanti al mortale giardino. Avevano fatto molta strada per arrivare alla Pietra Nera e nessuno di loro si sarebbe tirato indietro adesso. Inutile pensare ad altre ipotesi. La posta era troppo grande, il prezzo di un insuccesso troppo alto. Prima di fuggire, avrebbero scelto la morte. Eppure, doveva esserci un altro modo! La sua mente si arrovellava. Come poteva riuscire? Che possibilità aveva? Questa volta, se avesse fallito, non avrebbe avuto scampo. Sarebbe stato consumato... Divorato. Si alzò, come per allontanarsi dalla propria paura e fronteggiare la decisione presa. Lasciò la scala - e il veggente lo guardò senza capire - e si staccò anche dagli altri, da Jerle e da Preia e dai Cacciatori, per riprendere la padronanza di sé e valutare bene le sue possibilità. Si sentiva stanco e consunto come la pietra che lo circondava, vulnerabile al tempo come lo era il castello. Sapeva che cos'era: soprattutto un druido, ma uno degli ultimi, un appartenente a un ordine che si avviava probabilmente all'estinzione. Il mondo cambiava e alcune sue componenti dovevano finire. Forse sarebbe successo così a lui, a Bremen, a Risca. Ma loro non intendevano lasciarsi estinguere senza lottare, si disse con ira. Non volevano finire come spettri, che sparivano al sorgere del sole, privi di importanza e di credibilità. Non dobbiamo mai essere inferiori a quello che siamo. Rinfrancato da queste parole e armato delle proprie convinzioni, fece appello a tutto il suo coraggio e chiamò Jerle Shannara. 17 "Ho trovato il modo di raggiungere la Pietra Nera" disse Tay, con voce ferma a Jerle Shannara. "Ma posso farlo solo io, e devo farlo da solo." Erano a una certa distanza dagli altri. Tay si sforzava di sorridere, ma un nodo gli serrava la gola. La giornata si avviava al crepuscolo, e non voleva rimanere intrappolato lì al buio. Jerle lo guardò per un istante, senza parlare. "Ti servirai della magia dei Druidi, vero?" "Sì." Gli occhi perspicaci lo fissarono. "Un travestimento?" "Sì, in un certo
senso." Tay s'interruppe. "Non starò a spiegarti i particolari. Fidati di me. Lasciatemi solo, qualunque cosa succeda. Nessuno dovrà avvicinarsi a me finché non vi darò il permesso. Sarà dura, per voi, perché sentirete il bisogno di avvicinarvi." "Sarà pericoloso." Jerle lo disse come una constatazione. Tay annuì. "Devo entrare nel giardino. Se non dovessi più uscirne tu raduna la compagnia e ritorna ad Arborlon. No, aspetta che abbia finito" aggiunse, per prevenire le proteste dell'altro. "Se fossi ucciso, nessuno di voi sarebbe in grado di entrare. Tu sei coraggioso, Jerle, ma non conosci la magia, e senza di essa non si può sconfiggere l'entità del giardino. Devi tornare ad Arborlon e aspettare Bremen, che sarà in grado di aiutarti. Noi abbiamo trovato la Pietra Nera: ora basta scoprire il modo di recuperarla. Se non ci riuscirò io, ci riuscirà lui." Jerle Shannara si appoggiò le mani contro i fianchi e distolse lo sguardo. Era offeso. "Non sono capace di rimanere a guardare mentre un altro rischia la vita... specialmente se sei tu." Tay incrociò le braccia e abbassò la testa. "Lo so.LO mi sentirei allo stesso modo, se fossi nei tuoi panni. Aspettare è sempre sgradevole. Ma devo chiederti di farlo. Avrò bisogno della tua forza più tardi, quando la mia sarà esaurita. Ancora una cosa. Quando uscirò, quando mi rivedrai, anche se non sarai sicuro che si tratti di me, pronuncia il mio nome." "Tay Trefenwyd" disse il guerriero, come per obbedire alle sue parole. Si fissarono per qualche istante, ripensando ai tanti anni trascorsi insieme, ai progetti del passato e a ciò che stavano per fare. "Va bene" disse infine Jerle. "Va'. Fa' quello che devi fare." Dietro suggerimento di Tay, condusse gli altri membri della compagnia sui primi scalini, lontano dal giardino. Tay li guardò una sola volta, incrociando per un istante lo sguardo con quello di Preia Starle prima di voltarsi. Non aveva più pensato a lei da quando erano entrati in Fauce Magna, perché non poteva permettersi distrazioni. Ora lo fece di nuovo, concentrandosi sulla sua vita di druido, sugli anni dedicati allo studio della magia, alle discipline e alle abilità apprese. Pensò a Bremen, alla sua faccia affilata e coperta di rughe, agli occhi strani e imperiosi, alla determinazione che emanava da lui. Ripensò all'incarico che gli aveva affidato e che l'aveva spinto laggiù. Ora fissò il giardino, con il suo mortale intrico di liane, i recessi tenebrosi, l'invisibile forza che attendeva nelle sue profondità. Poi si calmò, rallentò il battito del cuore, fermò i pensieri, si avvolse in un manto di tranquillità. Cercò gli elementi che alimentavano la sua magia: aria, acqua, fuoco e terra, i suoi strumenti. Evocò quelli che poté trovare, li cercò attorno a sé e li recuperò, si circondò della loro esaltante fusione. Li inspirò, si infuse della loro natura e lentamente cominciò a cambiare. Iniziò con cautela il compito che si era imposto: a piccoli passi, invocò la magia dei Druidi, si trasformò senza fretta. Si spogliò della vecchia identità, strato dopo strato, eliminò le sue vecchie caratteristiche, cambiò la sua figura, e alla fine della sua vecchia apparenza fisica non rimase traccia. Poi entrò nel proprio corpo per cambiare anche quello che c'era all'interno. Riunì fedi e convinzioni, emozioni e pensieri, codici di comportamento e valori: tutto ciò che faceva di lui ciò che era. Li chiuse in un luogo segreto, da cui nulla e nessuno sarebbe stato capace di farli uscire, tranne il suo nome pronunciato da Jerle. Poi cominciò a ricostruirsi, e per farlo
attinse a piene mani alla vita del giardino. Prese ispirazione dalle creature un tempo umane ma adesso non più. Trovò l'essenza di ciò che erano, il nucleo di ciò che la Pietra Nera le aveva fatte diventare, e lasciò che fiorisse dentro di lui. Divenne come loro, cupo e perduto, vuoto e depredato, una copia della loro follia e della loro dannazione. Divenne come loro, a parte il fatto che conservò il fondamento del proprio essere, in modo da potersi muovere tra loro. Tra il suo destino e il loro c'era solo un passo, ma erano così vicini che quel passo costituiva la sola differenza. Gli Elfi che lo guardavano lo videro cambiare. Videro la sua figura, alta e leggermente curva, raggrinzirsi e piegarsi. Videro le braccia e le gambe, lunghe e dritte, diventare curve e nodose. Videro la malvagità strisciare sopra e dentro di lui finché non rimase altro. Sentirono l'odore di marcio e in bocca il sapore della corruzione. Era l'opposto di tutto ciò che è buono e lo stesso Jerle Shannara, benché sapesse cosa intendeva fare l'amico, si ritrasse istintivamente da lui. Nella mente di Tay Trefenwyd prese a scorrere una vena di follia, impetuosa e ossessionante. Subì tutti gli effetti distruttivi della magia del giardino, la degenerazione toccata a coloro che vi avevano infuso la loro vita e ne avevano fatto la loro casa. Per un momento, ebbe l'impressione di conoscere quella magia, di capire come fosse nata dall'impiego traviato della Pietra Nera, ma era una conoscenza che rischiava di travolgere le sue ultime vestigia di sanità mentale, il piccolo nucleo che lo legava al suo scopo, e fu costretto a tirarsi indietro. Entrò nel giardino come compagno delle creature che aveva assorbito. Entrò senza paura, perché era il solo modo di entrare che avesse senso. Entrò come uno di loro, ancora preso dalle incombenze che esse avevano abbandonato quando avevano cambiato forma, ancora vivente nel mondo che esse si erano lasciate alle spalle. Scivolò fra i tronchi sottili degli alberi e sfiorò le liane che pendevano flaccide come un serpente entrato nel rifugio dei serpenti. Era velenoso come loro, e nessuna delle loro caratteristiche era peggiore di quello che si rifletteva in lui. Avanzò verso il punto in cui le ombre erano più fitte, cercando il loro conforto, infilandosi sinuosamente nel loro abbraccio, senz'anima. Il giardino e le creature che gli davano vita reagirono come Tay aveva sperato. Gli diedero il benvenuto. Lo abbracciarono come uno di loro, lo accolsero come un familiare. E lui si immerse nella loro malvagità, nella loro corruzione, lasciando che i tentacoli della loro mente collettiva si insinuassero in lui per leggergli nei pensieri le sue intenzioni. Era il loro custode, videro. Era colui che si prendeva cura del giardino. Era venuto a portar loro un cambiamento che avrebbe dato soddisfazione a qualche desiderio inespresso. Era venuto a liberarle. Entrò in profondità nel giardino: così in profondità che si smarrì completamente in ciò che era divenuto. Tutto il resto svanì: se non fosse riuscito ad andarsene, Tay se lo sarebbe dimenticato per sempre. Si chiuse in un nodo da cui, una rossa goccia dopo l'altra, stillava via la sua vita. Era solo follia e desiderio: uno spettro lacero, che non conservava alcun ricordo della sua precedente identità. Era perso a tutto ciò che era stato fino a quel momento. Ma era anche dominato dal fine inalterabile e bruciante che si era imposto. Era venuto per la Pietra Nera, e anche nella sua follia era deciso a impadronirsene. Con un desiderio monomaniaco e inesorabile, si
avvicinò alla Pietra. Le linee di forza lo sfiorarono e si ritrassero, le liane rabbrividirono, ma di soddisfazione, non di collera. La vita del giardino gli permise di chinarsi sulla Pietra Nera, di prenderla in mano e di portarsela al petto. Era venuto a prendersi cura della Pietra. Era venuto a trarne nuove magie, magie che avrebbe condiviso con loro, che avrebbero nutrito e soddisfatto la loro fame. Questo era infatti il travestimento scelto da Tay. Le creature che componevano il giardino non potevano più evocare il potere che le aveva trasformate, non potevano più nutrirsene, erano bloccate nella condizione in cui la Pietra le aveva cambiate, intrappolate nelle liane e negli alberi e nei fiori di quel rettangolo di terra, nella profondità della fortezza che un tempo era la loro casa, radicate laggiù per sempre. Proteggevano il castello come avrebbero protetto il lucchetto delle loro catene, in attesa dell'arrivo della chiave che le aprisse. Tay portava loro quella chiave. Era la speranza concessa loro dalla follia. Un passo dopo l'altro, come all'andata, Tay attraversò a ritroso il giardino, tenendo fra le mani la Pietra Nera. Le linee di potere lo seguivano e gli facevano strada, le liane si ritiravano per farlo passare. Schiocchi soffocati segnavano il suo passaggio, e il giardino rabbrividiva per il dolore. Ma quel dolore si ripercuoteva su di lui, e il suo brivido era delizioso. Il dolore prometteva l'agonia, l'agonia della trasformazione. Una nuova volontà, sovrapposta alla sua, si era impadronita di Tay e lo spingeva a uscire: un nuovo potere che esaminava la sua forma contorta, lo sfiorava per saggiare le sue intenzioni, come il solletico di tante dita di seta. Era la magia della Pietra Nera, che si destava lentamente, impaziente di venire di nuovo scatenata, seducente nella promessa di potere. Accarezzò Tay Trefenwyd come un'amante. Solleticò la sua forma corrotta e lo riempì di gioia. Poteva tenere per sé tutto il potere, gli sussurrava. Bastava che ordinasse, e avrebbe avuto qualsiasi cosa. Tay uscì dall'ombra del giardino e si trovò alla luce, lontano dalle liane, dalle voci e dal contatto delle creature che vi abitavano. Era una creatura orribile e ributtante, non più umana, ma così bassa e vile da essere irriconoscibile. Strisciando e zoppicando, trasudando umori repellenti, giunse sulle piastrelle multicolori. Stringeva al petto la Pietra Nera, le linee di potere lo seguivano invisibili, legami che soltanto lui poteva vedere, fili che in un istante sarebbero stati in grado di riportarlo indietro. Davanti a lui, gli Elfi lo guardavano inorriditi. Nel vederlo emergere, portarono la mano alle armi e si prepararono a difendersi dal suo attacco. Lui li guardò senza riconoscerli. Li guardò e non si curò di loro. Poi Jerle alzò la mano per fermare i compagni. Si fece avanti da solo fissando l'oscena figura. Quando fu a pochi passi, si fermò e sussurrò nel silenzio del castello, con voce roca, disperata: "Tay Trefenwyd?". Al suono del suo nome pronunciato da Jerle Shannara, Tay ritrovò la sua vita. La magia dei Druidi, nascosta nel più profondo e impenetrabile nucleo del suo essere, salì ed esplose dentro di lui. Lo liberò dal travestimento, lo fece uscire dalle tenebre che l'avevano avvolto, dalle sabbie mobili in cui era affondato. Bruciò in un istante la maschera che si era dato. Bruciò la follia che s'era impossessata di lui. Lo ricostruì in un attimo, gli ridiede l'aspetto e l'identità, la ragione e le convinzioni di prima. Nello stesso tempo, bruciò le linee di potere che lo avvolgevano e diede a lui soltanto il possesso della
Pietra Nera Il giardino impazzì. Liane e alberi balzarono verso di lui con una tale forza da strapparsi quasi dal terreno. Cercarono di afferrare la Pietra Nera e Tay Trefenwyd, la prima per riprenderla, il secondo per distruggerlo. Ma Tay era protetto dal suo Fuoco Magico, la magia evocata al momento della sua liberazione, preparata da lui in anticipo per proteggersi dalla vendetta del giardino. Le liane lo sferzarono, si avvinghiarono a lui e cercarono di riportarlo all'interno, nelle profondità tenebrose. Ma il fuoco le fermò, le ridusse in cenere e protesse il druido. Jerle Shannara e gli altri corsero avanti, colpendo con le spade e i coltelli l'ondeggiante massa di liane. No! pensò Tay, cercando di fermarli. No, state lontano! Aveva ordinato loro di non avvicinarsi, aveva detto espressamente a Jerle di avvertirli! Ma gli Elfi non erano riusciti a trattenersi: l'avevano visto arrivare con la Pietra Nera, e ora credevano che fosse in pericolo. Perciò andarono all'attacco, temerariamente, con le armi in pugno, senza pensare alla dimensione del pericolo. Troppo tardi si accorsero dell'errore. Il giardino si lanciò contro di loro, veloce come il pensiero. Afferrò l'elfo più vicino, prima che riuscisse ad allontanarsi, lo strappò dai compagni e lo fece a pezzi. Freneticamente, Tay estese la protezione del Fuoco Magico ai compagni attaccati, anche se, così facendo, indeboliva la propria protezione. Poi si lanciò di corsa verso le scale, gridando di seguirlo. Tutti gli obbedirono. Eccetto uno: un altro dei Cacciatori, troppo lento per reagire, che, mentre si voltava per fuggire, fu preso per le spalle e trascinato verso la morte. Tay raggiunse le scale e cominciò a salire di corsa. Tutt'intorno a sé sentiva spezzarsi le linee di potere. La magia del giardino si stava consumando. Il furto della Pietra Nera degli Elfi aveva causato un danno irrimediabile nelle profondità della forza vitale di Fauce Magna: la rete che la teneva insieme si era strappata irreparabilmente. Sotto i piedi, sentiva la terra fremere. "Che succede?" gridò Jerle, accostandosi a lui. "Il castello sta crollando!" esclamò Tay. "Dobbiamo uscire!" Senza fermarsi, ripercorsero i passaggi bui, le sale e i corridoi vuoti, diretti alla stretta apertura per cui erano entrati. Tay provava una strana sensazione che era insieme di esaltazione e sconforto. Era libero, il suo trucco aveva avuto successo, e questa idea gli faceva scorrere più veloce il sangue nelle vene. Ma il costo che aveva dovuto pagare non gli era ancora chiaro. Non si sentiva a posto; nel giardino doveva avere subìto qualche danno che non sapeva ancora valutare. Abbassò gli occhi, come per controllare se era tutto intero. Ma non vide ferite. Il danno era dentro. Lungo le pareti della fortezza cominciarono ad apparire le prime crepe, che si aprivano e si allargavano davanti a loro. Molti blocchi di pietra, scossi con violenza, andavano in briciole. Tay aveva distrutto il potere di Fauce Magna, la magia accuratamente calibrata che teneva insieme il giardino e il castello, il quale era assai più fragile di quanto non apparisse. Fauce Magna stava crollando. I suoi giorni nel mondo, che per tanto tempo si erano prolungati, stavano finendo. Preia Starle lo sorpassò rapida e corse avanti, gridando qualcosa. Aveva ripreso il posto di esploratore e volava fra le pietre che sobbalzavano, i capelli color cannella che sventolavano. Tay la guardò allontanarsi, ma non riusciva a distinguerla bene. Non riusciva a mettere a fuoco e faticava a
respirare. Respirò a fondo alcune volte, ma non bastò a fargli riprendere fiato. Stava per incespicare, ma Jerle Shannara lo raggiunse, lo afferrò e lo trascinò avanti. Dietro di loro venivano Vree Erreden e l'ultimo Cacciatore. Quando uscirono dal castello e attraversarono il cortile per dirigersi verso il muro di cinta e la porta da cui erano entrati, pareti e soffitti cominciavano a crollare. Tay sentiva come un fuoco che gli bruciava nel petto. Una parte dell'immonda magia del giardino doveva ancora essere dentro di lui. Cercò di isolarla, di allontanarla dal resto del corpo usando la propria magia per soffocarla. Abbassò lo sguardo sul proprio petto, cercando di trarre rassicurazione da ciò che vedeva. Con suo orrore, la Pietra Nera pulsava debolmente contro il suo petto. Distolse subito lo sguardo e si affrettò a coprire la gemma nera in modo che gli altri non la vedessero. I cinque uscirono in fretta dal cortile e si affrettarono a salire la scala che portava al cratere e al lago. Il rombo che si levava alle loro spalle era più forte; adesso si udiva anche lo scricchiolio delle pietre che si spaccavano e scivolavano le une sulle altre. Il passaggio era pieno di polvere, riuscivano a malapena a respirare. Anche Vree Erreden incespicava, adesso, e il Cacciatore che correva accanto a lui lo aiutò. I quattro uomini continuarono ad avanzare a fatica, come vecchi, soffocando e tossendo, mentre Preia Starle li distanziava sempre più Dal profondo della montagna si udì un'esplosione e una grande nuvola di detriti li colpì da dietro, facendoli cadere sugli scalini. Scossi e storditi, si alzarono e proseguirono con determinazione. Tay sentiva scemare progressivamente le forze. Il dolore al petto si allargava. Sentiva le pulsazioni della Pietra Nera crescere d'intensità contro la sua pelle. La parte di magia del giardino ancora chiusa dentro di lui si alimentava dei poteri della Pietra. Si era mascherato troppo bene. Si era alterato troppo profondamente. Aveva creduto di poter tornare ciò che era, ma il male di cui si era coperto non si lasciava cacciare via così facilmente. Strinse i denti e continuò a correre. Era stato lui ad assumersi quel rischio. Adesso era inutile recriminare. Giunsero infine all'apertura e al declivio pietroso che scendeva fino al lago, all'interno del cratere. Preia Starle era ferma a pochi passi da loro, e sembrava paralizzata dalla sorpresa "Per tutte le ombre!" sibilò Jerle Shannara. Davanti a loro, disposti a semicerchio in modo da bloccare ogni via di scampo, c'erano decine di Gnomi. Al centro, ammantati di nero e curvi come spettri in attesa del tramonto, c'erano due spaventevoli Messaggeri del Teschio. I loro inseguitori erano riusciti a trovarli. Gli Elfi si fermarono bruscamente dietro Preia. Tay fece presto i conti. Erano in cinque contro un centinaio. Non avevano possibilità di scampo. Preia indietreggiò adagio, fino a portarsi accanto a Jerle. Non aveva estratto alcuna arma. "Li ho trovati qui ad aspettarci, quando sono uscita" spiegò con voce calma, senza traccia di paura. Lanciò un'occhiata a Tay, con espressione stranamente serena. "Sono troppi per noi." Jerle annuì. Guardò cupo Tay. Dietro di loro, dal passaggio, scaturì una nube di polvere, mentre una nuova serie di esplosioni scuoteva la montagna. La terra tremò sotto i loro piedi. Un'ultima reazione al crollo di Fauce Magna e alla fine della sua magia. "Dobbiamo tornare indietro" sussurrò Jerle. "Forse c'è un'altra uscita." Ma non ce n'erano: Tay lo sapeva. C'era solo quella che passava
attraverso i Messaggeri del Teschio e gli Gnomi. Ritornare nel passaggio era un suicidio. L'intera montagna stava crollando, e ogni creatura intrappolata nelle sue gallerie sarebbe rimasta schiacciata. Dietro di lui, l'ultimo Cacciatore degli Elfi si staccò da Vree Erreden e lasciò che si accasciasse a terra. Il locat era semisvenuto. Aveva la testa e la faccia insanguinate. Quando era stato ferito? si chiese Tay. Non se n'era accorto. Il Cacciatore degli Elfi si portò al suo fianco. La loro situazione era disperata, pensò Tay. Si staccò da Jerle, per controllare se era in grado di tenersi in piedi senza aiuto. Scoprì di poterlo fare. Si raddrizzò, poi fissò l'amico. Jerle lo guardò con sospetto, e Tay gli sorrise, anche se questo gli costò uno sforzo. Preia Starle lo guardava incuriosita. Nei suoi occhi si scorgeva una luce di sfida: forse aveva visto ciò che Jerle non era riuscito a vedere. "Aspettatemi qui" disse loro. "Che intendi fare?" gli chiese il guerriero, prendendolo per il braccio e cercando di fermarlo. Tay si liberò, con calma. "Tutto a posto" lo rassicurò. "Aspettatemi qui." Scese lungo il pendio, saggiando con cura i punti dove metteva i piedi sulla roccia liscia e friabile e percependo le vibrazioni della montagna mentre la distruzione di Fauce Magna proseguiva inesorabile. Alzò lo sguardo verso le cime dei monti per cogliere tutta la dimensione del cratere e del lago che vi era imprigionato, le pareti di roccia, il sole che tramontava, e lasciò che i suoi pensieri vagassero lontano. Pensò a Bremen e a Risca, che in quel momento, in qualche altra regione delle Quattro Terre, combattevano le loro battaglie. Cercò di immaginare dove fossero in quel momento. Pensò alla famiglia e alla casa di Arborlon, ai genitori e a Kira, al fratello e alla sua famiglia, ai vecchi amici, ai luoghi dov'era vissuto. Pensò alla rocca di Paranor, condannata alla morte, e ai Druidi. In pochi momenti rivisse il passato e il presente, li allargò davanti a sé e poi li chiuse di nuovo. Si fermò quando giunse a una decina di passi dai Messaggeri del Teschio. Si erano rizzati in piedi e lo guardavano con occhi rossi come la brace, il volto nascosto nel cappuccio. Tay sapeva di non avere la magia occorrente per vincerli. L'aveva consumata a Fauce Magna, ed era esausto e malato. Accettò con calma questa realtà. La ricerca della Pietra Nera era finita: ormai era sufficiente portarla ad Arborlon. I suoi compagni dovevano assolutamente poter tornare a casa. E toccava a lui, Tay, metterli in condizione di farlo. Un tempo sarebbe riuscito a difenderli tutti, ma adesso aveva a malapena la forza di proteggere se stesso. Eppure doveva farlo, i suoi compagni non avevano altra risorsa che lui. Abbassò lo sguardo sulla propria mano. In essa stringeva il potere della Pietra Nera. Bremen l'aveva avvertito di non usarla, e lui aveva promesso. Ma non sempre le cose vanno come si vuole. Sollevò bruscamente il pugno e sentì la Pietra Nera pulsare contro il suo palmo. Facendo appello a tutta la forza e alla determinazione che rimanevano in lui, scese fino al cuore della gemma e ne evocò il potere. I Messaggeri del Teschio stavano già entrando in azione. Accortisi del pericolo, avevano già attivato il loro fuoco mortale e un verde chiarore malvagio saettò contro di lui per ucciderlo. Ma non furono abbastanza svelti. La Pietra Nera era in attesa del comando di Tay, l'aveva previsto, si era legata a lui fin dal momento in cui l'aveva prelevata, in un rapporto di padrone-schiavo, ma con i ruoli ancora da definire. Pulsando d'impazienza, la magia della Pietra scaturì dalle dita di Tay
in una lama di non-luce, un vuoto nero che inghiottiva tutto ciò che trovava sul suo cammino. Distrusse il fuoco dei Messaggeri. Distrusse i Messaggeri stessi. Distrusse gli Gnomi dal primo all'ultimo, anche quelli che cercarono di fuggire in preda al terrore. Divorò tutto. Ridusse in cenere uomini e mostri, poi rubò le loro vite e le riversò in colui che la impugnava. Tay fremette e gridò, quando la magia della Pietra ritornò a lui, impregnata delle vite delle vittime. La malvagità dei Messaggeri e la forza del loro fuoco penetrò in profondità dentro di lui, insieme con le loro cupe finalità; le loro brame perverse si accumularono dentro di lui, straziandolo. In quell'istante, Tay comprese il segreto delle Pietra Nera degli Elfi: annullare il potere delle altre magie, rubarlo e farlo proprio. Ma il prezzo era orrendo, perché il potere rubato si trasferiva in chi usava la Pietra e ne cambiava per sempre la natura. In pochi istanti, tutto finì. Tutti i nemici che li minacciavano erano spariti. Nel cratere si scorgevano solo mucchietti di cenere, qualche arma, pezzi di stoffa e cuoio. Nell'aria gravava un forte odore di carne bruciata. Sulla superficie del lago si allargavano le onde causate dal calore della Pietra Nera. Tay s'inginocchiò, mentre la magia continuava a muoversi dentro di lui. Sentì che consumava il suo corpo e il suo spirito, li riduceva in polvere, ma non poteva far nulla contro di essa. La magia lo stava distruggendo e ricostruendo. La Pietra Nera gli sfuggì dalle dita e cadde tra i sassi. La sua non-luce era spenta, non pulsava più. Tay la fissò, cercando di concentrare la propria magia per fermare l'invasione del suo corpo. Chiuse le palpebre per il dolore. Non si sarebbe mai aspettato qualcosa di simile. Aveva disobbedito a Bremen, e quello era lo scotto. Jerle Shannara gli si avvicinò, lo sorresse e si chinò a dirgli qualcosa Con lui c'era anche Preia. Tay udiva le loro voci ma non capiva le parole. Chiuse gli occhi e continuò a lottare contro la magia della Pietra. Era rimasto per troppo tempo nel giardino. La magia era entrata in lui, aveva messo radici in attesa che cedesse alla tentazione di usarla. Tay non aveva previsto quella trappola. Aveva dovuto pensare a tanti altri particolari, erano successe tante cose. "Tay!" gridò Preia, accanto a lui. Una sorta di buio stava crescendo dentro il suo essere, un'entità invadente e incredibilmente malvagia. Tay veniva trasformato in una creatura diversa, per effetto della magia che si era riversata in lui e che conteneva l'immonda essenza dei Messaggeri del Teschio. Quella magia lo stava corrompendo, e lui non era in grado di opporsi perché troppo debole. "Preia!" mormorò. "Avverti Bremen..." Poi si sentì portar via, verso un altro tempo e un altro luogo. Ad Arborlon era estate e lui era bambino. Giocava con Jerle ed era caduto mentre cercava di salire su un muretto. Aveva battuto la testa ed era steso sull'erba. Jerle, vicino a lui, diceva: "Oh, non fare tanto il bambino! E' una caduta da nulla! Non ti sei fatto niente!". E lui cercava di alzarsi, anche se gli girava la testa ed era stordito e s'era graffiato i gomiti e la faccia. Ma Preia, che giocava con loro, l'aveva preso tra le braccia e gli aveva detto: "Non preoccuparti, Tay. Aspetta che ti passi lo stordimento. Non c'è nessuna fretta". Aprì gli occhi. Jerle Shannara lo teneva fra le braccia e il suo viso era affranto. Preia era inginocchiata accanto a lui, gli occhi pieni di lacrime e le gote che luccicavano. Trovò la mano di lei e la strinse. Poi, come aveva fatto con Retten Kipp, usò la poca magia che
gli rimaneva per fermare il cuore e i polmoni. Lentamente, sentì il cuore rallentare i battiti. Anche la distruzione del suo corpo rallentò, e venne bloccata. La sonnolenza si impadronì di lui. Era tutto ciò che gli rimaneva. Dormire. Una coltre di oscurità gli velò gli occhi e gli rubò la vista. Dopo un solo gemito, giunse rapida e pietosa la morte, che lo portò via con sé. Parte terza. LA FUSIONE DELLA SPADA. 18 Bremen, Mareth e Kinson Ravenlock impiegarono quasi una settimana a raggiungere la Pietra del Focolare. Percorsero a piedi l'intero tragitto, perché tanto il druido quanto il Cacciatore erano certi di risparmiare tempo andando a piedi anziché a cavallo. Era una regione ben nota a entrambi, perché l'avevano attraversata molte volte, e talune scorciatoie scoperte nel corso degli anni non si potevano percorrere in sella. Dopo un breve tratto in pianura si entrava in una regione dove era necessario rinunciare ai cavalli, perciò avevano risolto di fare l'intero percorso a piedi e non complicarsi la vita. Tutto bene per loro, aveva pensato Mareth. Entrambi erano abituati a compiere a piedi lunghissimi percorsi. Lei no, ma non aveva fatto commenti. Kinson era in testa e procedeva a un passo che, secondo lui, doveva essere agevole per tutti e tre. Sapeva che la giovane non era abituata a camminare come lui e Bremen, ma l'aveva giudicata abbastanza robusta. Per i primi due giorni camminarono in piano, su strade e sentieri ben tracciati. Si fermavano spesso perché Mareth riposasse e ogni volta le ricordavano la necessità di bere in abbondanza. La sera Kinson le controllava gli stivali e i piedi per assicurarsi che fossero a posto. Stranamente, lei non si opponeva. Dal giorno del ritorno di Bremen si era un po' isolata, e Kinson pensava che si preparasse a rivelare al druido la verità su se stessa. Attraversarono il passo delle Montagne del Wolfsktaag ed entrarono nella Terrabuia. Per gran parte del tempo avevano seguito il Fiume Raab, perché era un buon punto di riferimento e permetteva loro di rifornirsi d'acqua. Le giornate erano pigre e soleggiate, le notti tranquille. I fitti boschi li nascondevano e il viaggio proseguiva senza incidenti. La terza notte Mareth mantenne la promessa, rivelando a Bremen di avergli mentito sulla sua permanenza a Storlock. Non appartenendo agli Stor, non era stata accettata nell'ordine e non aveva studiato con loro le arti della guarigione. Le sue conoscenze le aveva apprese con la pratica, a volte con fatica e dolore. Aveva l'impressione che la sua magia operasse meglio quando la impiegava per guarire, di riuscire a tenerla più sotto controllo. Parlò anche di Cogline. Ammise che era stato lui a consigliarle di recarsi a Paranor, dove i Druidi potevano aiutarla a dominare la sua magia, e a procurarle i documenti falsi che l'avevano fatta accettare come apprendista. Con una certa sorpresa da parte di Kinson, Bremen non s'incollerì affatto. Ascoltò con attenzione la giovane donna, annuì alcune volte e non fece commenti. Sedevano tutti e tre attorno al fuoco, dopo cena. Le fiamme erano ormai ridotte a poche braci, la notte era illuminata dalla luna e dalle stelle. Bremen non guardò mai Kinson. Anzi, pareva essersi dimenticato
della sua esistenza. Quando la fanciulla terminò la narrazione, Bremen le sorrise incoraggiante. "Be', sei una giovane davvero intraprendente. E sono lieto della tua fiducia in Kinson e in me. Cercheremo di aiutarti, naturalmente. Quanto a Cogline, l'idea di mandarti a Paranor con documenti falsi e di incoraggiarti a mentire è proprio da lui. Cogline non ha alcuna simpatia per i Druidi ed è sempre disposto a giocargli un tiro. Ma sapeva anche, ritengo, che se tu fossi stata sufficientemente determinata nel cercare la verità sulla tua magia, prima o poi avresti trovato il modo di parlarmi." "Conosci bene Cogline?" gli chiese Mareth. "Come chiunque altro. Era un druido ben prima che io entrassi a Paranor, all'epoca della Guerra delle Razze. Ha conosciuto Brona e in una certa misura ha condiviso le sue idee. Pensava che tutte le strade della conoscenza dovessero venire esplorate e che nessuna forma di studio dovesse essere proibita: in questo, era anche lui una sorta di ribelle. Ma era anche un uomo serio e attento. Non avrebbe mai corso i rischi che ha corso Brona. "Ha lasciato l'ordine dei Druidi prima di Brona perché era profondamente deluso dai vincoli posti alle sue ricerche. Il suo principale interesse erano le scienze perdute, quelle utilizzate dal vecchio mondo prima della sua distruzione. Ma il Grande Druido e il Consiglio non approvavano il suo lavoro. A quell'epoca preferivano la magia, di cui invece Cogline non si fidava. Per loro, era meglio lasciare in pace le antiche scienze, che erano servite a molte cose, nel vecchio mondo, ma l'avevano anche distrutto. La scoperta dei loro segreti doveva avvenire lentamente, con cautela e solo per scopi limitati. Tutto questo, per Cogline, era una sciocchezza. La scienza non si lascia imporre limiti, sosteneva. Non si lascia svelare secondo le scadenze imposte dagli uomini, ma secondo le proprie." Bremen incrociò le braccia e sorrise al ricordo. In quella posizione, sembrava tutto ossa e spigoli. "Così Cogline se ne andò, infuriato per i torti che gli erano stati fatti e, suppongo, per i propri errori. Si stabilì nella Terrabuia e riprese gli studi per conto suo. Di tanto in tanto ci siamo incontrati, per caso, e abbiamo parlato, ci siamo scambiati informazioni e idee. Tutt'e due siamo degli esuli, in un certo senso. Ma Cogline si rifiuta di considerarsi un druido, mentre io rifiuto di considerarmi qualcosa di diverso." "E' vissuto molto più di te" commentò Kinson, chinandosi a riattizzare le braci con la punta di un bastone. Non guardò Bremen, nel dirlo. "Conosce il Sonno Magico, se ti riferisci a questo" rispose Bremen, tranquillo. "E' l'unica concessione alla magia che si sia mai permesso. Non si fida delle altre pratiche magiche." Guardò Mareth. "Ritiene la magia pericolosa e incontrollabile. Dev'essere rimasto molto soddisfatto, penso, nel sapere che anche tu l'avevi trovata tale. Mandandoti a Paranor, forse cercava di segnare un punto a proprio favore. Però tu hai nascosto troppo bene il tuo segreto, e i Druidi non hanno mai scoperto le tue capacità." Mareth annuì, ma non fece commenti e si limitò a fissare pensierosa le ombre che li circondavano. Kinson si stiracchiò. Era irritato con tutt'e due. La gente tendeva a complicarsi la vita inutilmente, e Bremen e Mareth ne costituivano un esempio. Fissò Bremen. "Visto che stiamo tirando fuori i nostri segreti e il nostro passato, spiegami una cosa. Perché andiamo alla Pietra del Focolare? A che ci serve Cogline?" Bremen lo guardò per un attimo, prima di parlare. "Come ho detto, Cogline ha
proseguito i suoi studi sulle antiche scienze. Conosce segreti che nessun altro ha mai svelato. Uno di questi potrebbe esserci utile." S'interruppe e sorrise. A quanto poteva capire Kinson, non aveva intenzione di dire altro. Probabilmente aveva le sue ragioni, oltre quella di irritare lui, ma Kinson non gliele chiese. Annuì e si alzò. "Faccio il primo turno di guardia" disse, allontanandosi. Continuò a riflettere su Bremen e su Cogline fino a mezzanotte, quando il druido venne a dargli il cambio. Il vecchio comparve dal nulla - nemmeno questa volta Kinson l'udì arrivare - e si sedette accanto a lui. Si tennero compagnia per qualche minuto, senza parlare, gli occhi persi nel buio della notte. Sedevano su un basso affioramento di roccia da cui si vedeva il fiume Raab snodarsi tra gli alberi, argenteo e placido alla luce della luna. Il bosco era tranquillo e silenzioso, l'aria profumava di ginepro e di abete. Il confine della Terrabuia era a ovest, poco lontano da dov'erano, e l'indomani vi sarebbero penetrati. Laggiù il terreno era assai più accidentato e la marcia sarebbe stata più lenta. "Quello che Cogline ci può fornire" disse improvvisamente il vecchio druido, a bassa voce "è la sua conoscenza dei metalli. Ricordi la visione? Riguardava un'arma magica capace di distruggere il Signore degli Inganni. Una spada. La impugnerà in battaglia un uomo che non conosciamo ancora. La spada ha bisogno di alcune caratteristiche per resistere al potere di Brona, e una di queste è una tempra che la renda robusta quanto le migliori spade del passato. Cogline può insegnarci la tecnica" Guardò Kinson e gli sorrise. "Pensavo che fosse meglio tenere per noi questa informazione." Kinson annuì, senza rispondere. Abbassò gli occhi, annuì una seconda volta e si alzò. "Buona notte, Bremen." Si voltò per allontanarsi. "Kinson?" Il cacciatore della Frontiera si girò. Bremen aveva di nuovo distolto lo sguardo, fissava il fiume e gli alberi. "Non sarei tanto sicuro che abbiamo tirato fuori tutti i segreti e le storie del passato. Mareth è una giovane molto cauta e decisa. Ha i propri motivi per agire così e li tiene per sé finché non ritiene prudente rivelarli." S'interruppe per un istante. "Come sai anche tu. Buona notte." Kinson rimase accanto a lui ancora per un istante, poi si allontanò. Proseguirono ancora per tre giorni in un territorio così accidentato che le sole piste erano quelle degli animali. Non videro altri esseri umani, non trovarono impronte. Il terreno era collinoso, spezzato da pietraie, affioramenti di rocce e letti asciutti di torrenti scavati dalle inondazioni primaverili del Fiume Raab: il tutto soffocato da sterpaglie ed erba alta fino alla cintola. In decine di punti il fiume era uscito dall'alveo e formava anse e paludi, e i tre viandanti non potevano più affidarsi al suo corso per orientarsi. Kinson li condusse lontano dal fiume e dalle sue tracimazioni per entrare nelle foreste, dove gli alberi riuscivano a bloccare la crescita degli arbusti del sottobosco e permettevano di avanzare più agevolmente che negli acquitrini del Raab. Il cielo rimase sereno, e il piccolo gruppo riuscì a percorrere un discreto tratto ogni giorno. Mentre camminavano, Bremen rimase accanto a Mareth per parlarle della sua magia e consigliarla. "Ci sono dei modi di controllarla" spiegò. "La difficoltà sta nel trovare quelli adatti a ciascuna forma. La magia innata è più complessa di quella acquisita, perché quest'ultima si impara gradualmente, attraverso tentativi ed errori. Scopri ciò che funziona e ciò che non funziona,
impari a prevedere gli effetti delle tue azioni e alla fine scopri anche la causa di ciò che fai. Ma con la magia innata è impossibile. Quella magia c'è già, nasce con te, fa parte della tua carne e del tuo sangue. Fa quello che vuole, quando lo vuole e nel modo che vuole, e a te non resta che cercare di capire come sia successo. "Inoltre il problema di controllare la magia innata è complicato da altri fattori che influiscono sul suo manifestarsi. Il tuo carattere può influire sulla magia. Le tue emozioni. Anche il tuo corpo: il tuo organismo si difende da tutto ciò che minaccia la tua salute, e questo può influire sulla magia. Anche le tue opinioni e il tuo modo di ragionare influiscono. La magia è come un camaleonte. A volte si limita ad arrendersi e a scomparire, senza infrangere le tue difese o gli ostacoli che metti sul suo cammino. A volte si accumula e preme per abbatterli, per aprirsi la strada nonostante tutto quello che fai per fermarla." "Perché si manifesta sempre con tanta intensità?" chiese Mareth. E Bremen rispose: "E' ciò che dobbiamo scoprire". Il sesto giorno arrivarono alla Pietra del Focolare. Era appena passato mezzogiorno, e avevano attraversato una serie di collinette scoscese che, procedendo, s'innalzavano fino a formare le Montagne del Corvo. Erano accaldati, avevano male ai piedi e da quando si erano lasciati alle spalle il Raab, cioè da due giorni, non si lavavano. Nessuno aveva molta voglia di parlare: dedicavano ogni energia a raggiungere la loro destinazione prima di notte, come promesso da Kinson. Nonostante la cattiva reputazione della Terrabuia, non avevano corso alcun pericolo, e cominciavano addirittura ad annoiarsi di un viaggio così monotono. Perciò videro con sollievo il pinnacolo isolato, vagamente a forma di camino luccicante ai raggi del sole, che sorgeva in fondo alla valle. Uscirono da una macchia di abeti dove l'ombra era così fitta da costringerli a farsi strada col bastone, e se lo trovarono dinanzi. Kinson lo indicò, ma Bremen e Mareth l'avevano già visto e sorridevano. Scesero lungo il pendio, in mezzo a macchie di fiori selvatici, fino a raggiungere l'ombra dei boschi che coprivano il fondo valle. In un completo silenzio, attraversarono alte macchie di querce, olmi, noci, betulle. C'erano gigantesche conifere, vecchie di centinaia d'anni, ma dominavano le querce. Chiusi fra un soffitto di fronde e una parete di tronchi, in breve persero di vista la Pietra del Focolare. Kinson avanzava cercando impronte ma senza trovarne, e cominciava a chiedersi il perché. Se Cogline abitava nella valle, non passava mai di lì? Non c'era traccia di esseri umani. C'erano uccelli e altri piccoli animali ma nient'altro. Attraversarono un ruscello, passando in mezzo alla nebbiolina proveniente da una cascatella. Kinson si passò la mano sulla faccia, chiuse gli occhi e si asciugò il sudore dalla fronte. Batté le palpebre per liberarsi gli occhi dall'umidità e guardò Bremen e Mareth, che lo seguivano a breve distanza. Provava una sorta d'inquietudine, ma non riusciva a capirne la fonte. L'istinto di cacciatore lo avvertiva che c'era qualcosa di stonato, ma nessuno dei suoi compagni pareva preoccuparsene. Indietreggiò di un passo per ricongiungersi a loro. "C'è qualcosa che non va..." mormorò. Mareth lo guardò senza capire, Bremen si strinse nelle spalle. Irritato, Kinson proseguì. Attraversarono una radura, raggiunsero un filare di abeti e si spinsero in mezzo alla cortina di rami. All'improvviso, Kinson sentì odore di fumo, rallentò e si voltò per avvertire gli altri. "Guarda
davanti a te" lo avvertì Bremen accennando a qualcosa che stava dietro Kinson, e in quell'istante vide Mareth rimanere a bocca aperta. Kinson si girò di scatto e si trovò faccia a faccia con il più grosso leone di palude che avesse mai visto. L'animale era a pochi passi di distanza e lo guardava. Gli occhi, luminosi come lanterne, erano gialli e il muso nero, ma il manto di un curioso marrone pezzato. Era difficile vedere felini di quella razza, e si diceva che comparissero davanti alle persone in punto di morte. In genere si tenevano lontani dall'uomo, nelle paludi dell'Est, ed erano difficili da scorgere perché si mimetizzavano con l'ambiente. In genere erano lunghi sei piedi e la loro testa arrivava al petto di un uomo, ma quello era più lungo della media e alto almeno una spanna più dei suoi simili. Riusciva quasi a fissare Kinson negli occhi. Se avesse voluto attaccarlo, l'avrebbe travolto in un batter d'occhio. "Bremen" disse sottovoce il cacciatore. Dietro di lui si levò uno strano cinguettio, e il leone piegò la testa come se lo riconoscesse. Il richiamo si ripeté e Kinson comprese che era Bremen a emetterlo. Il felino si leccò il muso, emise in risposta un richiamo simile e si allontanò. Bremen raggiunse l'attonito uomo della Frontiera e gli posò la mano sulla spalla, per rassicurarlo. "E' il leone di Cogline" gli spiegò. "Direi che siamo vicini al nostro uomo, non ti pare?" Uscirono dagli alberi, attraversarono un prato in cui scorreva un ruscello e girarono attorno a un'enorme quercia bianca. Il leone li precedeva, in silenzio, senza fretta ma senza rallentare, in apparenza disinteressato ma tenendoli sempre d'occhio. Kinson rivolse un'occhiata interrogativa a Mareth, ma lei scosse la testa. A quanto pareva, ne sapeva quanto lui. Infine raggiunsero un'ampia radura in cui si scorgeva una piccola capanna di tronchi. La costruzione era semplice e consumata dalle intemperie, e avrebbe avuto bisogno di riparazioni: le assi delle pareti si staccavano, gli scuri pendevano dai cardini, le doghe del piccolo porticato erano rotte e scheggiate. Il tetto era abbastanza robusto e il camino era intero, ma l'orto che cresceva davanti alla casa era trascurato da tempo e le erbacce si affollavano speranzose attorno alle fondamenta della casa. Un uomo li aspettava davanti alla porta, e Kinson, dalla descrizione di Mareth, riconobbe subito Cogline. Era alto e leggermente curvo, scarno e alquanto in disordine, con un vestito che era pressappoco nelle stesse condizioni della capanna. Aveva i capelli neri, con molte striature grigie, ritti come gli aculei di un porcospino. Dal mento gli spuntava una barbetta a punta, e dal labbro superiore gli pendeva un lungo paio di baffi. Aveva il viso coperto di rughe che segnalavano qualcosa di più del semplice trascorrere del tempo. Si portò le mani sui fianchi e aspettò che arrivassero a lui, mentre un ampio sorriso gli si disegnava sul volto. "Guarda, guarda!" esclamò allegramente. "La fanciulla di Storlock è venuta a trovarmi. Non pensavo di rivederti. Hai più fegato di quanto credessi. E hai trovato il maestro di magia, vero? Benvenuto, Bremen di Paranor!" "Felice di vederti, Cogline" rispose Bremen, tendendogli la mano. L'altro la strinse per qualche istante. "Hai mandato il tuo leone a salutarci. Come si chiama? Cambiacolore? Ha fatto fare un tale salto al mio amico, da togliergli almeno cinque anni di vita." "Ah, ma noi abbiamo il rimedio anche per quello, e se il tuo amico è Kinson Ravenlock probabilmente lo conosce già." Salutò il cacciatore della Frontiera con un cenno della
mano. "Il Sonno Magico ti ridarà quegli anni in men che non si dica!" Piegò la testa in direzione del leone. "Sai a che cosa mi serve, amico mio?" Quando l'uomo della Frontiera scosse la testa, spiegò: "Ad allontanare gli ospiti indesiderati, categoria che comprende quasi tutti. I soli che arrivano qui sono coloro che sanno parlargli. Bremen è uno di questi, vero, vecchio mio?". Bremen rise. "Vecchio mio? Senti chi parla!" "Allora, la fanciulla è riuscita a trovarti, eh? Ce ne ha messo di tempo. Mareth, vero?" Cogline le rivolse un piccolo inchino. "Un bel nome per una bella giovane. Spero che, turbati dal tuo fascino, quei Druidi abbiano fatto una brutta fine." Bremen fece un passo avanti. Non sorrideva più. "La brutta fine se la sono cercata da soli, temo. Meno di due settimane fa, Cogline. A Paranor sono morti tutti, tranne me e due altri. Non lo sapevi?" L'altro lo guardò come se fosse impazzito, poi scosse la testa. "Non sapevo nulla. Del resto, è parecchio tempo che non lascio la valle. Tutti morti, dici? Ne sei certo?" Bremen infilò la mano nella veste e ne trasse l'Eilt Druin. Lo tenne sollevato, facendolo dondolare alla luce. Cogline fece una smorfia. "Vero. Non potresti averlo se Athabasca fosse vivo. Morti, dici? Per tutte le ombre! Chi è stato? Lui?" Bremen annuì. Non c'era bisogno di pronunciare il nome. Cogline scosse di nuovo la testa, incrociò le braccia sul petto, rabbrividì. "Non avrei mai augurato loro una fine simile. Non pensavo che potesse succedere. Ma erano degli imbecilli, Bremen, e tu lo sai. Hanno innalzato un muro, hanno chiuso la porta e si sono scordati del loro scopo. Ci hanno cacciati via: noi, gli unici con un pizzico di buon senso, gli unici che capissero l'importanza delle cose. Galaphile si sarebbe vergognato di loro. Ma morti? Per tutte le ombre!" "Siamo venuti per parlare di questo" disse Bremen, con tono pacato. L'altro sollevò immediatamente gli occhi e lo fissò. "Oh, certo. Hai fatto tutta questa strada per raccontarmi la novità e parlarne con me. Davvero gentile. Be', noi ci conosciamo, vero? Uno è vecchio, e l'altro ancora di più. Uno è un rinnegato, l'altro un esiliato. E nessuno dei due ha mai amato le vie traverse, eh!" Cogline rise: una risata asciutta e priva di allegria. Guardò a terra per un istante, poi fissò Kinson. "Ehi, cacciatore, tu l'hai visto, l'altro, venendo qui, con la tua vista così acuta?" Kinson ebbe un attimo di esitazione. "L'altro cosa?" "Ah, lo supponevo! L'altro leone, ecco cosa! Non l'hai visto, vero?" Cogline sbuffò. "Be', la sola cosa che posso dire è che sei fortunato di godere dell'amicizia di Bremen, perché altrimenti saresti già in qualche pancia." Rise di nuovo, poi perse interesse e sollevò le braccia. "Be', venite, venite! Inutile fermarci qui. C'è una pentola sul fuoco. E suppongo che vorrete anche lavarvi. Altro lavoro per me, non che vi importi. Ma io sono un buon padrone di casa, vero? Venite!" Brontolando tra sé, si volse ed entrò nella capanna, seguito dagli ospiti. Si lavarono e lavarono i loro vestiti, si asciugarono alla meno peggio, si rivestirono e al tramonto erano seduti a cena. Il cielo era divenuto arancione e oro, poi rosso porpora e infine aveva assunto un colore tra l'indaco e l'ametista che aveva fatto rimanere a bocca aperta anche Kinson. La cena fu migliore di quanto l'uomo della Frontiera si aspettasse: zuppa di carne e verdure con pane, formaggio e birra fresca. Mangiarono in fondo alla capanna, e dalle finestre si scorgeva il cielo notturno con la sua caleidoscopica collezione di stelle. L'illuminazione
era fornita da alcune candele contenenti una sorta di incenso che, a detta di Cogline, teneva lontano gli insetti. Forse non era una vanteria, pensò Kinson, perché per tutta la durata del pasto non gli parve di vedere animaletti volanti. Quando fece buio, i leoni si unirono a loro, acciambellandosi per terra vicino al tavolo. Come aveva detto Cogline, ce n'erano due, fratello e sorella. Cambiacolore, il maschio, era il più grosso ed era quello che avevano incontrato, mentre la sorella, Filo di Fumo, era più piccola e snella. Cogline disse di averli trovati quando erano piccoli come gattini, abbandonati nella zona della Vecchia Palude e destinati a finire preda dei lupi. Erano affamati e terrorizzati, e così se li era portati a casa. Rise al ricordo. Erano due mucchietti di pelo, a quell'epoca, ma erano cresciuti abbastanza in fretta. Non aveva mai fatto niente per convincerli a rimanere: l'avevano deciso da sé. Probabilmente apprezzavano la sua compagnia, pensava. Il crepuscolo si addensò e lasciò il posto alla notte, fatta di silenzio e di brezze leggere. Dopo cena, seduti davanti a un boccale di birra, Bremen raccontò a Cogline cos'era successo ai Druidi di Paranor. Al termine del racconto, l'ex druido scosse la testa, disgustato. "Che imbecilli, dal primo all'ultimo" commentò. "Mi dispiace per loro, non gli avrei mai augurato una fine simile, ma sono stati pazzi, perché hanno sprecato le grandi occasioni che Galaphile e i suoi compagni avevano dato loro nel costituire il Primo Consiglio. Hanno perso di vista il loro scopo, la loro ragion d'essere. Non posso perdonarglielo." Si girò a sputare. Filo di Fumo lo guardò e batté gli occhi, stupita. Cambiacolore non si mosse. Kinson passò lo sguardo su tutti e tre: l'eremita dai capelli incolti e i suoi leoni addomesticati, e si chiese quali danni potesse subire la ragione da una lunga permanenza in quella capanna. "Dopo avere lasciato i Druidi" continuava intanto Bremen "sono andato al Perno dell'Ade e ho parlato con gli spiriti dei morti." Bevve un sorso di birra, mentre le rughe della sua fronte sembravano approfondirsi, a quel ricordo. "Galaphile stesso è uscito a parlarmi. Gli ho chiesto come distruggere Brona e lui mi ha mostrato quattro visioni." Le descrisse a una a una. "Quella che mi porta a te è la visione dell'uomo con la spada." Cogline aggrottò la fronte, e la sua faccia spigolosa parve chiudersi come un pugno. "E io dovrei aiutarti a trovare quell'uomo? E io dovrei conoscerlo?" Bremen scosse la testa. Alla luce delle candele, i suoi capelli grigi sembravano di seta. "Non è per l'uomo, ma per la spada che mi occorre il tuo aiuto. E' un talismano che devo fabbricare. Dalla visione ho saputo che l'Eilt Druin dev'essere incastonato nell'arma così forgiata, essa sarà in grado di sconfiggere il Signore degli Inganni. Al momento non conosco ancora tutti i particolari, ma conosco il tipo di arma. E so che occorre prestare molta attenzione alla sua tempra, perché sia abbastanza forte da vincere la magia di Brona." "E sei venuto fin qui per chiedermi informazioni?" domandò Cogline, come se si fosse alzato improvvisamente un velo e la verità gli fosse stata rivelata. "Nessuno conosce più di te la metallurgia. La fucinatura della spada dev'essere una fusione di scienza e magia, perché abbia successo.LO ho la magia - la mia e quella dell'Eilt Druin - che prenderà parte al processo. Ma ho bisogno delle tue conoscenze scientifiche. Mi occorre quello che mi può dare soltanto la scienza: le giuste proporzioni dei metalli, le temperature corrette
del forno a ogni passaggio, la durata esatta delle lavorazioni. Che tipo di tempra dovrò usare perché il metallo sia abbastanza forte da resistere a qualsiasi urto?" Cogline sollevò la mano per interromperlo. "Puoi fermarti qui. Hai già dimenticato il punto più importante. La magia e la scienza non si sposano mai. Lo sappiamo tutt'e due. Se vuoi una spada magica, usa la magia. Da me non ti occorre niente." Bremen scosse la testa. "Dobbiamo fare uno strappo alle regole. La magia non è sufficiente, questa volta. Occorre anche la scienza del mondo antico. Brona è un'entità creata dalla magia, e tutte le sue difese sono contro di essa. Non conosce la scienza, non le attribuisce valore, non se ne cura. Per lui, come per tanti altri, la scienza è morta e sepolta, è qualcosa del mondo antico. Ma noi sappiamo che non è così, vero? La scienza è semplicemente in letargo come un tempo lo era la magia. Oggi la magia è la favorita, ma questo non significa che la scienza non abbia posto nel nostro mondo. Potrebbe essere necessaria per forgiare questa spada. Se potrò usare le migliori tecniche del mondo antico, avrò una forza di più su cui contare. E quella forza mi occorre. Ci siamo soltanto io, Kinson, Mareth e altri due, uno dei quali è andato all'Est, l'altro all'Ovest. Tutto qui. La magia di cui disponiamo è solo una piccola parte di quella del nemico. Come vincere il Signore degli Inganni e i suoi servitori, senza un'arma contro cui non abbiano difesa?" Cogline sbuffò. "Non esiste un'arma simile. Inoltre, non c'è niente che ti assicuri che un'arma forgiata, in tutto o in parte, mediante la scienza sia superiore a un'altra forgiata mediante la magia. Alla stessa stregua si potrebbe sostenere che soltanto la magia può vincere la magia e che ogni forma di scienza è inutile." "Io non lo credo." "Credi quello che ti pare" replicò Cogline, ravviandosi con irritazione i capelli. Storse le labbra. "Mi sono lasciato alle spalle, molto tempo fa, il mondo e le sue credenze convenzionali. Non ne ho mai sentito la mancanza." "Ma entrambi ti raggiungeranno, prima o poi, come accade a tutti. Non spariranno e non si allontaneranno soltanto perché tu li rifiuti." Bremen lo fissò. "Un giorno, Brona verrà qui, dopo che avrà finito con coloro che non si sono nascosti. Lo sai." Cogline serrò la mascella. "E quel giorno se ne pentirà, te lo prometto!" Bremen attese. Non disse nulla, non mosse obiezioni a quelle parole. Kinson guardò Mareth; lei ricambiò lo sguardo e non abbassò gli occhi. Il cacciatore sapeva che la pensava come lui: la presa di posizione di Cogline era sciocca e vana, e le sue idee erano ridicole. Tuttavia, neanche Bremen aveva obiettato. Cogline cambiò posizione, a disagio. "Perché insisti tanto, Bremen? Che ti aspetti da me?LO non voglio interessarmi dei Druidi!" Bremen annuì, con calma. "E neanche loro di te. I Druidi sono morti. Di loro non resta più niente. Ci siamo soltanto noi due, Cogline, due vecchi che sono vissuti più del dovuto, due schiavi del Sonno Magico.LO comincio a essere stanco, ma non intendo fermarmi prima di aver fatto il possibile per coloro che non sono vissuti così a lungo: uomini, donne e bambini delle Razze. Sono loro ad aver bisogno del nostro aiuto. Dimmi. Pensi che non dobbiamo interessarci neanche di loro?" Cogline fece per rispondere, poi s'interruppe. Tutti sapevano già quello che stava per dire e quanto sarebbero suonate sciocche le sue parole. Serrò le mascelle, frustrato. Sul suo volto comparve il dubbio. "Che ti costa aiutarci?" insistette
Bremen, con calma. "Se davvero non vuoi aver nulla da spartire con i Druidi, pensa a quanto ti dico. I Druidi non mi avrebbero aiutato: anzi, hanno espressamente deciso di non farlo quando ne hanno avuto l'occasione. Sono stati loro a decidere che l'ordine rimanesse distaccato e lontano dalla politica delle Razze. E' stata questa scelta a distruggerli. Adesso la stessa scelta la offro a te. Ed è proprio la stessa scelta, Cogline, tienilo presente. Isolamento o coinvolgimento. Quale scegli?" Scese il silenzio: la notte avvolse nella sua calma i due vecchi, il cacciatore e la giovane donna. I leoni dormivano, e il suono del loro respiro era il sibilo leggero e regolare del fiato che usciva dalle narici umide. L'aria sapeva di fumo, di cibo e di foresta. Nella radura regnava una grande serenità. Era protetta dai boschi della Terrabuia e non era difficile, pensò Kinson Ravenlock, immaginare che il mondo esterno non potesse spingersi fin lì. Bremen si sporse verso Cogline. "Perché pensarci tanto, amico mio? Tutt'e due sappiamo da sempre qual è la risposta giusta." Cogline sbuffò in segno di derisione, si ravviò i capelli dalla fronte, guardò nel buio, poi disse irritato: "C'è un metallo forte come il ferro, ma assai più leggero e flessibile, meno fragile. In realtà è una lega che veniva usata nel vecchio mondo, ideata dall'antica scienza. In gran parte è ferro, temprato con il carbone a un'alta temperatura. Una spada di quella lega sarebbe davvero formidabile!" Fissò Bremen. "Ma la temperatura necessaria è molto più alta di quelle che possono raggiungere i nostri fabbri. Per creare temperature così alte occorrono macchine, e la conoscenza di quelle macchine è andata persa." "Conosci il procedimento?" chiese Bremen. Cogline annuì e si toccò la fronte. "Ce l'ho tutto qui. Te lo darò. Qualsiasi cosa, pur di mandarti per la tua strada e mettere fine a queste inutili prediche! Comunque, non vedo come possa esserti utile. Senza un forno che raggiunga la giusta temperatura..." Kinson tornò a guardare Mareth. La giovane donna lo fissava: i suoi grandi occhi scuri erano in ombra, sotto il casco di corti capelli neri la sua faccia era liscia e serena. In quell'istante ebbe l'impressione di poterla quasi capire, assai più di prima, e questo grazie alla sua espressione aperta e all'intensità del suo sguardo. Ma inaspettatamente la giovane sorrise, le sue labbra si arricciarono agli angoli e il suo sguardo si spostò, per fissare qualcosa che stava alle sue spalle. Quando si voltò da quella parte, Kinson scorse Cambiacolore che lo osservava. Il muso del leone era a pochi centimetri dalla sua faccia, gli occhi fosforescenti lo fissavano come se fosse la cosa più strana che l'animale avesse visto. Kinson deglutì. Sentiva sulla gota il calore del fiato dell'animale. Quando si era svegliato? Com'era arrivato così vicino senza che se ne accorgesse? Fissò ancora per un istante il grosso felino, poi respirò a fondo e si voltò. "Non penso che tu voglia venire con noi" diceva intanto Bremen al loro ospite. "Un viaggio di pochi giorni, il tempo indispensabile per forgiare il talismano?" Cogline scosse la testa. "Va' a giocare da un'altra parte, Bremen. Ti darò il procedimento e vi aggiungerò i miei auguri. Se riuscirai ad approfittare di entrambi, buon per te. Ma il mio posto è qui." Aveva scribacchiato qualcosa su un pezzo di pergamena che adesso passò al druido. "Il meglio che la scienza possa offrire" mormorò. "Prendilo." Bremen lo prese e lo fece sparire nella veste. Cogline raddrizzò la schiena, guardò prima
Kinson poi Mareth. "Tenete d'occhio questo vecchio" li avvertì. Gli si leggeva in volto una punta d'irritazione, come se avesse scoperto improvvisamente qualcosa che gli dava fastidio. "Occorre prendersene cura più di quanto non creda lui stesso. Tu, Cacciatore, hai a disposizione il suo orecchio, assicurati che ti dia retta quando ce n'è bisogno. E tu, fanciulla... Mareth, vero? Tu hai molto più del suo orecchio, non credi?" Nessuno parlò. Kinson volse lo sguardo su Mareth. Sul viso della giovane non si leggeva alcuna espressione, ma era improvvisamente impallidita. Cogline la studiò ancora per qualche istante, senza pietà. "Non fa niente. Basta che lo salvi da se stesso. E conservalo bene." Poi s'interruppe, come se si fosse accorto di aver parlato troppo. Mormorò qualcosa che non riuscirono a decifrare, poi si alzò: un mucchio d'ossa, la caricatura di se stesso. "Passate qui la notte, poi andatevene" mormorò in tono stanco. Li guardò con attenzione, come se si aspettasse di trovare qualcosa che non aveva notato in precedenza, o come se temesse che fossero qualcosa di diverso da quello che avevano detto. Poi si voltò e si allontanò. "Buona notte" lo salutarono, mentre si allontanava. Non rispose. Si allontanò da loro, con decisione, senza guardarsi indietro. 19 Le nubi sfioravano l'ultimo quarto di luna proiettando bizzarre sagome che volavano sul terreno come uccelli notturni davanti ai Nani che avanzavano. Era l'ora lenta e profonda che precede l'alba, allorché la morte sfiora più dappresso gli uomini e i sogni sono gli assoluti padroni del loro sonno. L'aria era calda e immobile, la notte immersa nel silenzio. Si aveva l'impressione che tutto rallentasse, che il tempo avesse perso qualche scatto nel suo meccanico incedere, che la vita si fosse staccata dall'inesorabile sentiero a lei prescritto e per qualche momento fosse riuscita a ingannare la morte. I Nani erano usciti dagli alberi dell'Anar in un'ondata di forme scure che dilagava come un fiume. Erano parecchie migliaia, scesi dai massicci del Wolfsktaag attraverso il Passo di Giada, dieci miglia più a nord della zona dov'era accampato l'esercito del Signore degli Inganni. L'armata dei Troll aveva lasciato Storlock due giorni prima, e i Nani, anche se ne avevano spiato attentamente l'avanzata, avevano deciso di rimandare a quel giorno l'attacco. Passarono dagli ultimi alberi al punto dove le Pianure di Raab formavano una lunga depressione, accanto a un piccolo fiume chiamato Nunne. Laggiù l'esercito del Nord aveva stupidamente montato l'accampamento. In effetti, laggiù avevano acqua, erba e spazio, ma lasciavano le alture a un eventuale nemico e i fianchi aperti a un attacco d'infilata. C'erano le sentinelle, ma facilmente eliminabili, e neanche la presenza dei Messaggeri del Teschio che volavano in cerca di preda era sufficiente a scoraggiare dei disperati. Risca li fece nascondere quando furono abbastanza vicini da doverlo fare, e inviò qualche fantasma di se stesso a sud, oltre il Nunne, per attirare i cacciatori alati. Poi, quando le nubi celarono del tutto la luna e le stelle, i Nani si mossero. Percorsero rapidi l'ultimo tratto che li separava dall'esercito addormentato, uccisero le sentinelle prima che potessero dare l'allarme, conquistarono le alture a nord e a est del
fiume e attaccarono. Schierati in cima all'altura per mezzo miglio in entrambe le direzioni, colpirono con archi e fionde Troll, Gnomi e mostri, salva dopo salva. Imprecando e urlando, l'esercito si destò, gli uomini corsero a infilarsi l'armatura e a prendere le armi, inciampando nei corpi dei morti e gettando a terra i feriti. Nella confusione venne allestita una carica di cavalleria, un contrattacco condannato in partenza che venne fatto a pezzi mentre si arrampicava sulla salita, non appena uscito dalla confusione del campo. Un Messaggero del Teschio uscì dal buio e si lanciò sui Nani per vendicarsi, snudando artigli e zanne: un predone silenzioso. Ma Risca lo aspettava ed era già pronto ad agire: quando il Messaggero comparve, lo lasciò scendere fin quasi a terra, poi lo colpì col Fuoco Magico e lo costrinse a fuggire, ustionato e urlante. L'attacco fu rapido e contenuto. Il danno inflitto era molto superficiale e privo di reali conseguenze per un esercito di quella dimensione, perciò i Nani non persero tempo. Il loro scopo era creare disordine e allontanare il nemico dalla sua linea di marcia. E in questo riuscirono perfettamente. Si rifugiarono di nuovo in mezzo agli alberi, scegliendo la strada più rapida, poi si diressero nuovamente a nord, verso il Passo di Giada. Il nemico organizzò subito l'inseguimento. La forza a cavallo che lasciò l'accampamento era imponente, perché non si era riusciti a stabilire la quantità degli attaccanti. All'alba gli inseguitori avevano quasi raggiunto i Nani che si avvicinavano al Passo di Giada. Tutto andava esattamente come nei piani di Risca. "Eccoli" disse Geften a bassa voce, indicando gli alberi dinanzi al Passo. Sotto di loro, gli ultimi Nani della forza d'attacco erano entrati nella valle e si stavano disperdendo tra le rocce sovrastanti, per prendere posizione accanto ai compagni già schierati, in numero di quattromila. Dietro di loro, a meno di un miglio, nelle profonde ombre della foresta, si scorgevano i primi movimenti degli inseguitori. Risca vide il movimento allargarsi, come le onde generate da un sasso lanciato in uno stagno. Era un grosso contingente, troppo grande per poter essere sconfitto in uno scontro frontale, anche se era presente una gran parte dell'esercito dei Nani. "Quanto manca?" chiese a Geften. L'esploratore si strinse nelle spalle: un movimento solo accennato, economico come tutti i suoi gesti e come lui stesso, taciturno e poco appariscente, a parte la testa stranamente oblunga e i capelli grigi scarmigliati. "Un'ora, se si fermano a discutere sull'opportunità di entrare nella gola senza avere un piano." Risca annuì. "Si fermeranno. Sono già stati scottati due volte, ormai." Sorrise all'esploratore, un veterano delle guerre contro gli Gnomi. "Tienili d'occhio.LO avverto il re." Lasciò la posizione e s'infilò tra le rocce, salendo a una quota superiore a quella da cui Geften sorvegliava i progressi degli inseguitori. Provava una forte eccitazione, alimentata dalla certezza che una nuova battaglia era vicina. Lo scontro delle ore precedenti gli aveva soltanto stuzzicato l'appetito. Aspirò l'aria del mattino e si sentì forte e pronto. Aveva atteso per tutta la vita quel genere di avvenimenti, si disse. Tutti gli anni passati a Paranor a esercitarsi nelle arti marziali, a studiare le tattiche e l'impiego delle armi. Tutto per un'occasione come quella, per la possibilità di affrontare un nemico in grado di sfidarlo come nessuno l'aveva mai sfidato a Paranor. Lo faceva sentire vivo in un modo che non poteva ignorare, e neanche la situazione
disperata riusciva a diminuire la sua eccitazione. Aveva raggiunto i Nani tre giorni prima e si era recato subito da Raybur. Già avvertito della presenza dell'esercito del Nord, già certo delle sue intenzioni, il re aveva ricevuto Risca senza perdere tempo. Il druido si era limitato a confermare ciò che il sovrano sapeva già e a dare nuovo impeto alla sua ansia di agire. Raybur era un re guerriero come Risca era un druido guerriero, un uomo che aveva trascorso l'intera vita in battaglia. Come Risca, aveva combattuto contro le tribù degli Gnomi quando era giovane: un episodio dell'eterna lotta dei Nani per evitare le incursioni degli Gnomi nelle terre dell'Anar meridionale e centrale che i Nani consideravano proprie fin dall'alba dei tempi. Divenuto re, Raybur aveva portato avanti la sua causa con un'ostinazione impressionante. Guidando l'esercito in profondità nell'interno, aveva respinto gli Gnomi ed esteso il suo territorio fino a raddoppiarlo, fino a cacciare gli Gnomi così lontano, a nord del Fiume Raab e a est del Fiume Argento, da non costituire più una minaccia. Per la prima volta da secoli, tutto il territorio tra i due fiumi era aperto agli insediamenti dei Nani. Ma adesso era comparso un altro nemico, questa volta sotto forma di un esercito in avvicinamento. Raybur aveva mobilitato i Nani in preparazione della battaglia imminente, quella che, lo sapevano tutti, non avrebbero potuto vincere senza alleati, ma che dovevano combattere per sopravvivere. Risca aveva detto loro che gli Elfi sarebbero venuti in aiuto. Bremen l'aveva promesso, e Tay Trefenwyd si era recato all'Ovest per convincerli. I Nani avevano il compito di bloccare l'esercito nemico finché non fossero arrivati. Raybur aveva capito. Conosceva Bremen e Courtann Ballindarroch, sapeva che erano uomini d'onore. Avrebbero fatto il possibile. Ma il tempo era prezioso, e non si poteva dare niente per certo. Raybur capiva anche quello. Perciò Culhaven era stata evacuata: sarebbe stata la prima città attaccata dall'esercito del Nord, e i Nani non erano in grado di proteggerla da una forza così preponderante. Donne, vecchi e bambini erano stati evacuati nelle profondità dell'Anar, dove potevano rimanere nascosti fino alla conclusione delle ostilità. Intanto, l'esercito dei Nani si era portato a nord attraverso il Wolfsktaag per affrontare il nemico. Raybur si voltò verso Risca, quando lo sentì arrivare, e distolse lo sguardo dai suoi consiglieri, da Wyrik e Fleer, i suoi due figli maggiori, dalle mappe del territorio e dai piani di guerra. "Arrivano?" chiese subito. Risca annuì. "Geften controlla la loro avanzata. Ritiene che abbiamo un'ora prima che attacchino." Raybur annuì e fece segno al druido di accompagnarlo. Il re era un uomo massiccio, non alto ma robusto e largo di spalle, con la testa grossa e il naso imponente, la faccia barbuta e piena di rughe. Il naso a becco e le folte sopracciglia gli davano un aspetto quasi ferino, ma sotto l'aspetto esteriore c'era un carattere amichevole, esuberante e facile al riso. Aveva quindici anni più di Risca, ma era forte quanto lui: in una lotta ad armi pari sarebbe stato un degno avversario. Tra i due c'era una forte amicizia, sotto certi aspetti il legame tra loro era più forte di quello con gli stessi familiari, perché venivano da esperienze comuni e fin dalla gioventù erano abituati a vivere duramente e a rischiare la vita. "Ripetimi il tuo piano" ordinò il re, posando il braccio sulla spalla di Risca e allontanandosi con lui dal gruppo. "Lo sai già" rispose
l'interpellato, sbuffando. Il piano era di tutt'e due, concepito da Risca e approvato dal re, e anche se ne avevano parlato a grandi linee con gli altri, i particolari li conoscevano soltanto loro. "Ripetimelo lo stesso" disse Raybur, con un'occhiata severa. "Obbedisci. Sono il tuo re." Risca annuì, sorridendo. "I Troll, gli Gnomi e quant'altro si dirigeranno verso il Passo. Noi cercheremo di bloccarli all'entrata. Fingeremo di combattere, poi indietreggeremo, apparentemente sconfitti. Rallenteremo la loro avanzata tra i monti per un giorno ancora, senza riuscire a fermarli. Intanto, il resto dell'esercito nemico muoverà a sud, verso il Fiume Argento. I Nani fuggiranno davanti a loro. Il nemico scoprirà che Culhaven è stata evacuata, che non c'è nessuno a contrastarlo. Penserà che l'intero esercito dei Nani combatta sul Wolfsktaag." "La qual cosa non è lontana dal vero" brontolò Raybur. Con una mano massiccia, si accarezzò la barba. "La qual cosa non è lontana dal vero" gli fece eco Risca. "Sicuri della vittoria, perché conoscono queste montagne, s'impadroniranno del Passo del Cappio e aspetteranno che i loro compagni ci respingano a sud, lungo le valli, fino a cadere nelle loro braccia. Gli Gnomi hanno assicurato loro che ci sono soltanto due vie per uscire dalle Montagne del Wolfsktaag: il Passo di Giada a nord e il Passo del Cappio a sud. Se l'esercito dei Nani venisse intrappolato fra i due, non avrebbe possibilità di fuga." Raybur annuì, succhiandosi pensieroso il labbro superiore e le punte dei baffi. "Ma se dovessero avanzare troppo o troppo in fretta..." "Non lo faranno" lo interruppe Risca. "Non glielo permetteremo. Inoltre, non saranno disposti a correre quel rischio. Saranno cauti. Avranno paura di essere aggirati da noi, se avanzassero troppo in fretta. E' più facile aspettare che siamo noi ad attaccarli. Aspetteranno finché non ci vedranno, e allora colpiranno." Giunsero a una sporgenza di roccia e si sedettero fianco a fianco, guardando lontano, verso l'interno della montagna. La giornata era luminosa, ma il Wolfsktaag, lontano dal passo e nelle valli, era ammantato di foschia. "E' un buon piano" disse Raybur, dopo qualche momento. "E' il migliore che siamo riusciti a immaginare" lo corresse Risca. "Bremen saprebbe trovare qualcosa di meglio, se fosse qui." "Arriverà presto" proclamò Raybur, con sicurezza. "E così gli Elfi. E l'invasore si troverà in una situazione che non gli piacerà affatto." Risca annuì senza parlare, ma ripensò al suo incontro con Brona, pochi giorni prima, e alla vastità dei poteri del Signore degli Inganni, ricordò come l'avesse paralizzato e come fosse quasi riuscito a prenderlo. Non sarebbe stato facile sconfiggere un simile mostro, indipendentemente dalla forza inviata contro di lui. Non era una semplice guerra di uomini e di armi, ma di magia, e i Nani, in quel genere di guerra, erano chiaramente svantaggiati, a meno che non si concretizzasse il talismano apparso a Bremen nella visione. Si chiese dove fosse in quel momento il vecchio druido. E quante, delle sue quattro visioni, si stessero realizzando. "I Messaggeri del Teschio cercheranno di spiare le nostre mosse" rifletté Raybur. Risca sporse il labbro e rifletté. "Cercheranno di farlo, ma il Wolfsktaag non è un terreno agevole per loro. La cosa, comunque, non farà differenza. Quando capiranno il nostro piano, per loro sarà troppo tardi." Il re cambiò posizione per fissare il druido. "verrànno a cercarti" gli disse. "Sanno che costituisci la principale minaccia per loro: la sola minaccia,
assieme a Bremen e Tay Trefenwyd. Se riuscissero a ucciderti, non avremmo alcuna magia a difenderci." Risca si strinse nelle spalle e gli sorrise. "Allora, mio re, cerca di proteggermi bene!" Per lanciare l'attacco, all'armata del Nord occorse più tempo di quanto ne aveva preventivato Geften, ma fu più violento del previsto. Il Passo di Giada era piuttosto ampio, nel punto in cui si apriva sull'Anar orientale, ma si stringeva bruscamente nel punto in cui si innalzavano le cime gemelle che davano accesso al Wolfsktaag. Prevedendo che i Nani avrebbero opposto una tenace resistenza, l'esercito del Signore degli Inganni gettò nel Passo l'intera sua forza, in modo da sfondare al primo attacco le linee nemiche. E il piano avrebbe avuto successo, contro difensori meno preparati. Ma i Nani avevano difeso i passi del Wolfsktaag per secoli contro le incursioni degli Gnomi, e in un così lungo periodo di tempo avevano imparato numerosi trucchi. La dimensione dell'esercito del Nord risultò inutile già in partenza, dato che il passo era stretto e il terreno accidentato. Invece di contrastare in campo aperto la carica dell'armata, i Nani la assalirono dalla protezione delle alture. Nel terreno erano stati scavati fossati e trabocchetti, dall'alto piovevano sassi e oggetti pieni di punte, oltre a una quantità di frecce e zagaglie. Al primo attacco morirono centinaia di invasori. I più decisi erano i Troll, alti e robusti, corazzati contro le frecce; ma erano lenti e pesanti, e molti finirono nelle buche o vennero schiacciati dai massi. Però, continuarono ad avanzare. Vennero infine arrestati all'altro capo del Passo. Raybur aveva fatto costruire un muro di tronchi dietro un fosso pieno di legna secca, e quando gli uomini del Nord si avvicinarono, le fece appiccare fuoco. Spinti avanti da coloro che li seguivano e troppo pesanti per arrampicarsi sui pendii, i Troll morirono tra le fiamme. Le urla e il puzzo di carne bruciata riempirono l'aria. L'attacco si arrestò. Il nuovo attacco venne lanciato verso mezzogiorno, con maggior cautela, ma anche questa volta i nemici vennero respinti. Attaccarono una terza volta al tramonto e ogni volta i Nani vennero ricacciati un po' più addentro nel Passo. La difesa era diretta da Raybur e dai suoi figli, che si erano posti sui due fianchi del passaggio e arretravano a malincuore ma oculatamente, in modo da non sprecare più forze del necessario. Raybur comandava il fianco sinistro della compagnia di Geften, mentre Wyrik e Fleer comandavano il destro. Risca sceglieva da sé il punto dove intervenire. I Nani combattevano con coraggio, contro forze almeno tre volte superiori, ed erano tutti veterani di innumerevoli scontri. Né i cacciatori alati né le creature dell'Abisso li attaccarono alla luce del giorno, e Risca non dovette sprecare la sua magia in difesa dei compagni. Dopotutto, il piano non prevedeva di vincere la battaglia, ma di perderla nel modo più lento possibile. La notte portò alla sospensione delle ostilità e al ritorno del silenzio tra le montagne. Con il lento spegnersi della luce, la nebbia scese dai monti su difensori e attaccanti. Il silenzio coprì l'intero campo di battaglia e dai monti scese una brezza umida che accarezzava e stuzzicava. Nel tocco di quella brezza c'erano esseri viventi, invisibili e privi di forma, ma immancabili come la notte. Erano le creature del Wolfsktaag, esseri di magia antichi come il tempo e anelanti come anime umane. I Nani li conoscevano e sapevano guardarsene, perché erano le avanguardie di altre creature, più grandi e
potenti, di cui non si doveva ascoltare la voce. Sussurravano menzogne e false promesse, sogni ingannevoli e visioni fallaci, e seguirle era come invitare la morte. I Nani lo sapevano e questo li proteggeva. Non era così per gli Gnomi accampati di fronte a loro, che erano terrorizzati da quelle montagne e dai loro spettrali abitanti. Superstiziosi e pagani, timorosi di ogni magia e soprattutto di quella che risiedeva laggiù, avrebbero preferito evitare del tutto il Wolfsktaag, sede di dèi che esigevano preghiere e di spiriti che pretendevano offerte. Quella terra era sacra. Ma il potere del Signore degli Inganni e dei suoi tenebrosi seguaci li terrorizzava ancora di più, perciò avevano stretto i ranghi con i Troll, più stolidi e meno impressionabili. Però, l'avevano fatto senza troppa convinzione, e i Nani si prepararono a sfruttare a proprio vantaggio quelle paure. Come previsto da Risca, l'esercito del Nord preparò un nuovo attacco nelle ore che precedevano l'alba, quando i movimenti della truppa si potevano nascondere nell'oscurità e nella bruma. Giunsero silenziosi, in forze, ammassandosi a fondovalle del passo e sulle alture, con l'intenzione di spazzare via i Nani con la sola potenza del numero. Ma Raybur aveva ritirato di un centinaio di passi il suo fronte difensivo, e tra il vecchio fronte e quello nuovo aveva disposto grandi cataste di legna verde e foglie, pronte a prendere fuoco. Sul fondovalle del passo, fra le cataste di legna, aveva preparato nuove trincee e nuove barricate, a intervalli regolari. Quando le avanguardie del Nord raggiunsero il previsto fronte, trovarono la posizione sguarnita. Che i Nani avessero abbandonato il Passo? Che fossero tornati indietro, protetti dal buio? Si fermarono, confusi ed esitanti, e continuarono a girare in tondo mentre i generali decidevano. Infine, ripresero l'avanzata. Ma ormai i Nani erano pronti. Risca usò la magia per accendere le cataste che punteggiavano i pendii e il fondovalle, e all'improvviso gli uomini del Nord si trovarono avvolti da una cortina di fumo che li accecava e li soffocava. Con gli occhi che lacrimavano e la gola gonfia, proseguirono ostinatamente. A quel punto, Risca mandò gli spettri. Alcuni li creò con la magia, altri li attirò dalla nebbia, e li mandò tutti nel fumo, a creare confusione. Esseri di zanne e artigli, di occhi neri e fauci rosse, di paure vere e immaginarie, gli spettri calarono sui boccheggianti, semiaccecati soldati del Nord. Gli Gnomi impazzirono e si misero a urlare per il terrore. Nulla e nessuno sarebbero riusciti a trattenerli. Ruppero i ranghi e fuggirono. A quel punto i Nani attaccarono con frecce, giavellotti e sassi, colpendo il cuore della forza che li assaliva e ricacciandola indietro. Gli invasori vennero bloccati e costretti a indietreggiare, lasciando il campo coperto di caduti. All'alba il passo era ancora in mano ai Nani. L'esercito del Nord attaccò di nuovo l'indomani, deciso a passare. Le sue perdite erano spaventose, ma anche i Nani perdevano uomini, e non avevano vite da sprecare. Nel primo pomeriggio, Raybur cominciò a preparare la ritirata. Resistere per due giorni contro un esercito così grande era sufficiente. Era tempo di ritirarsi un po', per indurre i nemici ad avanzare. Attesero fino al tramonto, finché l'oscurità non fu nuovamente scesa. Poi accesero un'ultima pira di legna verde, in modo che il fumo nascondesse i loro movimenti, e scivolarono via. Risca rimase alla retroguardia per assicurarsi che non li seguissero troppo da vicino. Con un piccolo
drappello di Cacciatori dei Nani difese da un attacco il punto più stretto del Passo prima di riunirsi agli altri. Una volta si mostrò un Messaggero del Teschio, e cercò di infilarsi sotto il fumo e la nebbia, ma il druido contrattaccò col Fuoco Magico e lo costrinse ad allontanarsi. Marciarono per tutta la notte, addentrandosi nelle montagne. Li guidava Geften, che conosceva tutti i canaloni e le pietraie, le cime e i dirupi, e sapeva dove andare e come arrivarci. Evitarono i passaggi bui e stretti dove abitavano i mostri, le entità sopravvissute dai tempi più antichi che davano esca alle superstizioni degli Gnomi. Ove possibile, si tennero nei luoghi alti e aperti, perché l'oscurità e la nebbia erano sufficienti a celarli agli inseguitori. Anche l'esercito del Nord aveva i suoi esploratori, ma erano Gnomi, che laggiù si sarebbero mossi con cautela. Gli uomini di Raybur, invece, marciavano in fretta e con decisione. Prima o poi l'esercito del Nord li avrebbe raggiunti, certo, ma su un terreno scelto da loro. Il giorno seguente, dopo che i Nani si furono fermati per riposare qualche ora dopo l'alba ed ebbero ripreso la marcia, vennero raggiunti da una staffetta proveniente dalla esigua forza che difendeva il Passo del Cappio, all'estremità sud delle montagne. Riferì che il resto dell'esercito del Signore degli Inganni era arrivato laggiù, aveva lasciato le Pianure di Raab per montare il campo. Al tramonto avrebbe certamente attaccato. I Nani potevano tenere il Passo almeno un giorno, prima di cedere. Raybur fissò Risca e sorrise. Un giorno era sufficiente. Si lasciarono raggiungere dall'armata del Nord che scendeva dal Passo di Giada quel pomeriggio, quando il sole era già calato dietro i monti e la nebbia cominciava a insinuarsi nel fondovalle dalle cime, come viticci alla ricerca di luce. Attesero in un canalone i cui argini si levavano a perpendicolo in mezzo a un dedalo di massi giganteschi e di crepacci insidiosi, e attaccarono quando il nemico iniziò a uscire da quella conca naturale. Tennero le posizioni per il tempo sufficiente a fermare l'avanzata, poi si ritirarono ancora una volta. Intanto era scesa l'oscurità e gli inseguitori furono costretti a fermarsi per la notte, senza poter restituire il colpo. All'alba, i Nani erano spariti. I soldati del Nord si lanciarono avanti, impazienti di metter fine a quel gioco del gatto e del topo. Ma i Nani li sorpresero ancora una volta, a mezzogiorno, attirandoli in una valle cieca e poi colpendoli ai fianchi, dov'erano indifesi, mentre cercavano di ritirarsi. Prima che l'esercito del Signore degli Inganni si fosse ripreso, i Nani erano di nuovo spariti. Per tutto il giorno continuò così, con una serie di mordi e fuggi, di attacchi e ritirate, e la forza più piccola continuò a stuzzicare e umiliare quella più grande. Ma il limitare meridionale delle montagne si stava avvicinando e i soldati del Nord, furiosi per non essere riusciti a costringere i Nani alla battaglia decisiva, cominciarono a rincuorarsi al pensiero che ben presto la loro preda sarebbe rimasta a corto di nascondigli. La lotta era diventata molto seria. Un solo passo falso, e per i Nani non ci sarebbe stato scampo. Le staffette correvano avanti e indietro tra coloro che attaccavano il nemico proveniente dal Nord e coloro che, a sud, difendevano il Passo del Cappio. La scelta del momento era importante. A sud, il nemico impegnava tutte le sue forze per impadronirsi del Passo del Cappio, ma i Nani reggevano bene. Quel Passo era più facile da difendere e più
difficile da conquistare, indipendentemente dalle forze in campo. Ma i Nani l'avrebbero abbandonato all'alba e si sarebbero ritirati pian piano, intenzionalmente, facendo credere all'esercito del Nord di avere vinto. I soldati del Signore degli Inganni si sarebbero impadroniti del passo e poi avrebbero atteso che i compagni spingessero contro le loro lance i Nani, numericamente inferiori e chiusi in quella specie di tenaglia. Giunse l'alba, e mentre una delle forze di Brona prendeva possesso del Passo del Cappio, l'altra proseguiva senza sosta verso sud. Ai Nani, presi tra le due, non rimaneva via di fuga. Per tutto il giorno l'armata di Raybur aveva lottato allo scopo di rallentare l'avanzata del nemico. Il re dei Nani aveva usato tutte le tattiche messe a punto in trent'anni di lotta contro gli Gnomi, colpendo gli invasori quando se ne presentava l'occasione, creandola quando non si presentava. Aveva diviso la sua forza in tre parti, affidando ai suoi generali il comando della più grande, perché fornisse al nemico un ovvio bersaglio da inseguire. Le due compagnie più piccole, una comandata da lui, l'altra dal suo primogenito Wyrik, erano divenute la tenaglia che aveva torturato senza sosta l'armata del Nord. Lavorando all'unisono, attiravano il nemico prima da un lato poi dall'altro. Quando l'uno costringeva il nemico a scoprirsi il fianco, l'altro era pronto ad attaccare. Inafferrabili e follemente irritanti, i Nani colpivano i nemici a proprio piacimento, senza lasciarsi mai attirare in campo aperto. Al cader della notte erano esausti. Peggio, i Nani provenienti da nord erano arrivati a ridosso di quelli che risalivano da sud. I due gruppi si unirono e si fusero, dopo essersi ritirati il più possibile, e all'improvviso non ebbero più spazio di manovra. La notte e la foschia li proteggevano a sufficienza da consigliare di rimandare al mattino seguente qualsiasi iniziativa, ma la caccia continuò, soprattutto perché i soldati del Nord erano troppo incolleriti e frustrati per attendere ancora. Il Passo del Cappio era a poche miglia di distanza. I Nani erano intrappolati, privi di vie di fuga, e adesso, finalmente, i soldati del Signore degli Inganni erano certi che la superiorità numerica avrebbe dato loro la vittoria per troppo tempo rimandata. Quando scese la notte e la foschia si addensò sul fondo della valle in cui i Nani si erano ritirati, Raybur inviò alcuni esploratori per segnalare l'avvicinarsi del nemico. Non c'era più tempo, si doveva agire in fretta. Venne chiamato Geften e i primi difensori si prepararono alla fuga che era stata programmata fin dall'inizio. Doveva aver luogo con il favore delle tenebre e per la mezzanotte essere finita. Costituiva l'apogeo del piano concepito dal re e da Risca non appena il druido era ritornato da Paranor, un piano basato su conoscenze possedute soltanto dai Nani. Infatti, sconosciuta a tutti tranne che a loro, c'era una terza via d'uscita dalle montagne. Nei pressi del luogo dove si trovavano, a poca distanza dal più accessibile Passo del Cappio, una tortuosa serie di gallerie, crepacci e cenge attraversava il Wolfsktaag e portava a est, nelle foreste dell'Anar centrale. Era stato Geften a scoprire quel passaggio nascosto, a esplorarlo con un manipolo di fidi e a riferirne a Raybur, circa otto anni prima. La sua esistenza era stata gelosamente custodita. Da allora, un limitato numero di Nani l'aveva percorso per controllare che fosse agibile e impararne la topografia, ma nessun altro ne era stato messo a conoscenza. Risca ne era stato informato da Raybur in occasione di una
visita, alcuni anni prima, perché il re dei Nani aveva voluto condividere il segreto con il solo dei suoi uomini che gli fosse caro come un figlio. Risca se n'era ricordato quando l'esercito nemico si era diretto a est, e aveva concepito il piano. Ora i Nani lo attuarono. Lentamente cominciarono a ridurre il proprio numero, allontanandosi in una lunga fila sul percorso meticolosamente predisposto da Geften. L'esercito del Nord si avvicinò e gli esploratori corsero a riferirlo. Tuttavia, restava da portare a compimento la parte più pericolosa del piano. Occorreva bloccare gli uomini di Brona finché i Nani non si fossero messi in salvo. Accompagnato da Risca, Raybur prese con sé un piccolo gruppo di venti volontàri e si diresse a nord. Si nascosero in un ammasso di rocce da cui si dominava il Passo e quando comparve l'avanguardia dell'esercito del Nord, attaccarono. Fu una breve scaramuccia, che mirava solo a confondere il nemico, perché i Nani erano estremamente inferiori di numero. Si servirono degli archi, dalla protezione delle rocce, e scoccarono il numero di frecce necessario a richiamare su di sé l'attenzione prima di fuggire. Eppure, anche così, la fuga non fu facile. I soldati del Nord li inseguirono come furie. Il terreno roccioso era ingannevole, al buio: era una distesa di pietre taglienti e profondi crepacci, e la luce era scarsa, come sempre nel Wolfsktaag. La nebbia scesa al tramonto ricopriva il fondovalle. I Nani avevano una maggiore familiarità con il terreno, perciò riuscirono ad attraversare in fretta quel labirinto, ma i soldati del Nord erano dappertutto, brulicavano in mezzo alle rocce. Alcuni dei difensori vennero raggiunti. Altri presero la direzione sbagliata. Gli uni e gli altri furono uccisi. La lotta fu feroce. Risca usò la magia, colpendo col Fuoco Magico gli inseguitori, e riuscì a ricacciarli indietro. Ma alcune delle mostruosità venute dai mondi sotterranei comparvero dietro di loro, e inseguirono i Nani in fuga, cosicché Risca fu costretto a fermarsi per respingerli. E per poco non riuscirono a prenderlo. I nemici si gettarono su di lui da tre direzioni, attirati dal chiarore del Fuoco Magico. Volarono armi, creature di tenebra si scagliarono contro di lui cercando di gettarlo a terra. Risca lottò con furia ed esaltazione, perché in quel momento si sentiva più vivo che mai, un guerriero nel suo elemento naturale. Era forte e veloce, per nulla disposto a farsi sopraffare. Ricacciò indietro gli assalitori, rintuzzò i loro colpi, usò la magia per celare i suoi movimenti, e sfuggì alla trappola. Poco dopo era giunto alla fine del labirinto e si trovava dietro gli ultimi Nani. Il loro numero si era dimezzato, e i superstiti erano esausti e insanguinati. Raybur aspettò che Risca lo raggiungesse: era serio in volto e coperto di sudore. Una lama della sua doppia ascia da battaglia si era spezzata. "Ci sarà da correre" commentò, avviandosi. "Li abbiamo addosso." Risca annuì. Dalle rocce sotto di loro arrivavano frecce e giavellotti. Si arrampicarono sul pendio, negli orecchi le grida dei soldati del Nord. Un altro nano cadde, con una freccia nella gola. Dei venti che erano partiti per la missione, ne rimanevano meno della metà. Risca avvertì un fruscio in alto e si girò a scagliare una palla di fuoco contro un Messaggero, che si affrettò ad allontanarsi. La nebbia stava infittendo. Se fossero riusciti a distanziare gli inseguitori ancora per qualche minuto, avrebbero fatto perdere le loro tracce. E così fu, anche se dovettero correre fino allo stremo e oltre,
quando a sorreggerli rimase solo la volontà. Otto in tutto, gli ultimi Nani raggiunsero il luogo di raduno convenuto, dove adesso rimaneva il solo Geften. Senza parlare, si affrettarono a seguire l'ansioso esploratore, che li guidò fra i monti retrostanti. Alle loro spalle, i soldati del Nord irruppero nella valle, spezzando i rami degli alberi e sradicando gli arbusti, gridando per la rabbia. Pensavano che i Nani fossero nascosti e intrappolati in qualche punto vicino a loro. Presto li avrebbero trovati. La caccia proseguì in direzione sud, verso il Passo del Cappio. Con un po' di fortuna, pensò Risca, le due parti dell'esercito del Signore degli Inganni sarebbero finite l'una contro l'altra, nella nebbia e nel buio, e ciascuna avrebbe creduto di aver stanato il nemico. Con un po' di fortuna, ciascuna avrebbe ucciso un buon numero degli appartenenti all'altra prima di accorgersi dell'errore. S'infilò tra i massi dove iniziava il passaggio. Lì i soldati del Nord non li avrebbero seguiti, soprattutto con quel buio, e all'alba i Nani avrebbero ormai oltrepassato il punto dove si potevano scoprire le loro tracce. Raybur aspettò che Risca lo raggiungesse, poi gli batté la mano sulla spalla a mo' di congratulazioni. Il druido gli sorrise, ma nei suoi pensieri non c'era né gioia né calore. Conosceva la forza dell'esercito che dava loro la caccia. Conosceva la natura dell'entità che lo comandava. Certo, questa volta i Nani erano riusciti a fuggire. Ingannando i soldati del Nord, li avevano spinti a una lunga e inutile caccia, che aveva ritardato la loro avanzata, ed erano sopravvissuti per combattere un altro giorno. Ma quel giorno ci sarebbe stata la resa dei conti. E, temeva Risca, sarebbe giunto troppo presto. 20 Ad Arborlon pioveva e la città era ammantata da una coltre di foschia e di grigio. Erano le prime ore del pomeriggio. La pioggia era iniziata all'alba e dopo nove ore non accennava a smettere. Jerle Shannara la osservava dall'interno del padiglione estivo del re, suo attuale rifugio, per non dire nascondiglio. La guardava cadere sui vetri, sui marciapiedi sulle centinaia di pozzanghere che si erano già formate. Colpiva gli alberi e li trasformava, facendone diventare neri i tronchi, lucide le foglie. Gli pareva, nel suo sconforto, che continuando a guardarla si sarebbe trasformato anche lui in qualcosa di diverso. Il suo umore era pessimo. Lo era fin dal suo ritorno in città, tre giorni prima. Era rientrato con i resti della spedizione: Preia Starle, Vree Erreden e i cacciatori Obann e Rusk. Aveva riportato la Pietra Nera e il corpo di Tay Trefenwyd. Non aveva portato gioia e non ne aveva trovata ad aspettarlo. Durate la sua assenza, Courtann Ballindarroch era morto per le ferite. Il figlio Alyten era salito al trono e il suo primo ordine era stato quello di organizzare una spedizione per cercare gli assassini del padre. Follia pura. Ma nessuno l'aveva fermato. Jerle era rimasto disgustato. Era stata l'azione di uno stupido, e temeva che agli Elfi fosse toccato in eredità uno stupido come re. O quello, o erano privi di sovrano. Infatti, Alyten Ballindarroch era partito da Arborlon una settimana addietro e da allora non aveva più fatto avere notizie. In silenzio continuò a fissare la pioggia, la distanza tra una goccia e l'altra, il grigiore, il nulla. Il suo sguardo era vuoto. Anche il
padiglione d'estate era vuoto: c'era soltanto lui, con i suoi pensieri. Una brutta compagnia per chiunque. I suoi pensieri lo ossessionavano. La perdita di Tay era sconvolgente, più dolorosa di quanto avrebbe mai immaginato, più profonda di quanto fosse disposto ad ammettere. Tay Trefenwyd era sempre stato il suo migliore amico: indipendentemente dalle scelte che avevano fatto, dalla loro separazione, dagli eventi che avevano trasformato la loro vita, quell'amicizia non era mai cessata. Che Tay fosse divenuto un druido e lui capitano delle Guardie Reali e poi consigliere del re non aveva cambiato la situazione. Quando Tay era tornato da Paranor e Jerle l'aveva visto sulla strada per Arborlon, gli era parso che fossero passati pochi istanti dall'ultima volta che si erano visti, come se il tempo fosse privo di significato. Ora Tay era morto, aveva dato la vita per salvare i compagni e per portare la Pietra Nera ad Arborlon. La Pietra Nera. L'arma omicida. Jerle Shannara venne preso dall'ira quando pensò al maledetto talismano. Il prezzo della Pietra era la vita del suo amico, e non aveva la minima idea del suo impiego. A che cosa serviva? E valeva la vita del suo amico? Non aveva risposte. Aveva fatto il suo dovere. Aveva portato la Pietra ad Arborlon impedendole di cadere nelle mani del Signore degli Inganni, e per tutto il viaggio aveva pensato che sarebbe stato meglio liberarsene gettandola nel più profondo crepaccio. Se fosse stato solo, Jerle Shannara l'avrebbe fatto, tanto forti erano la collera e la frustrazione per la perdita di Tay. Ma Preia e Vree Erreden erano con lui e la custodia della Pietra era stata affidata anche a loro. Perciò l'aveva portata ad Arborlon come Tay aveva chiesto, con l'intenzione di liberarsene al suo arrivo. Ma il destino l'aveva beffato anche in quello. Courtann Ballindarroch era morto e il suo successore era partito per un'impresa assurda. A chi consegnare, allora, la Pietra Nera? Non al Gran Consiglio, che era un mucchio di vecchi perditempo, incapaci di prendere decisioni e preoccupati soltanto di difendere le loro prerogative, adesso che Courtann era morto. Non ad Alyten, che del resto era assente: la Pietra Nera non era per lui. A Bremen, allora, ma il druido non era ancora arrivato ad Arborlon, ammesso e non concesso che mai vi arrivasse. Perciò, consigliato da Preia e con l'approvazione di Vree Erreden - i soli che poteva consultare sull'argomento - aveva nascosto la Pietra nelle profondità dei sotterranei del palazzo, dove nessuno avrebbe potuto recuperarla senza il suo consenso e dove sarebbe rimasta lontana da occhi indiscreti e dalle tentazioni di usarne i segreti. Tutt'e tre conoscevano di persona il pericolo che essa rappresentava, avevano visto la potenza della sua magia. In un batter d'occhio, aveva divorato decine di creature, umane e non. E Tay Trefenwyd, nonostante la protezione della magia dei Druidi, era stato distrutto dalla reazione. Un simile potere era una maledizione contro ogni forma di vita, era cieco e malvagio e doveva venire rigorosamente isolato. Spero che valesse la tua vita, Tay, pensò Jerle Shannara, cupo. Ma io non riesco a crederlo. La pioggia aveva raffreddato la temperatura, e Jerle andò ad aggiungere legna al fuoco del caminetto. Guardò le fiamme alzarsi e ripensò ai capricci del destino, a tutto quello che aveva perduto nelle poche settimane precedenti. Quelle perdite erano servite a qualcosa? Scosse la testa e si passò la mano fra i capelli biondi. Le riflessioni filosofiche finivano sempre per confonderlo: era un uomo d'azione, un
guerriero, e in simili occasioni sentiva la mancanza di un nemico da abbattere, di un posto dove colpire con la spada... Il giorno del suo ritorno si era recato dai genitori di Tay e da Kira ad annunciare la morte dell'amico. Non era disposto a lasciare ad altri quel compito. I genitori, vecchi e un po' leggeri di testa, avevano accettato stoicamente la notizia, con qualche lacrima perché, adesso che la loro fine era vicina, avevano ormai accettato l'idea che la morte fosse capricciosa nelle sue scelte, oltre che inevitabile. Ma Kira era rimasta sconvolta, era scoppiata in pianto e si era disperatamente stretta a Jerle, cercando la forza che lui non era in grado di darle. E Jerle nello stringerlo, singhiozzante e piangente, aveva capito di averla persa esattamente come il fratello: il dolore per Tay era il solo sentimento che potevano condividere. Si allontanò dal caminetto e tornò alla finestra. Il tempo passò, la giornata proseguì grigia e umida, senza portargli alcuna speranza. Poi qualcuno aprì la porta e la richiuse, si tolse il mantello e lo appese. Preia Starle entrò nella stanza. Aveva le mani e la faccia bagnati, sulla pelle abbronzata si scorgevano ancora i segni della spedizione. Si ravviò i capelli color cannella scuotendoli per liberarli dalla pioggia, e guardò Jerle. Gli occhi color miele scuro lo studiarono, sorpresi di ciò che vedevano. "Vogliono farti re" disse tranquillamente. Jerle la fissò stupito. "Chi?". "Tutti. Il Gran Consiglio, i consiglieri del re, la gente per strada, le Guardie Reali, l'esercito, tutti." Gli rivolse un debole sorriso. "Sei la loro unica speranza, dicono. Alyten è troppo inaffidabile, troppo irruento per regnare. Non ha esperienza. Non ha particolari capacità. Il fatto che sia già re non ha importanza, perché non lo vogliono." "Ci sono i due nipoti sopravvissuti! E loro?" "Due bambini, a malapena in grado di camminare. E poi la gente non vuole bambini sul trono. Vuole te!" Jerle scosse la testa, incredulo. "Non hanno il diritto di decidere. Nessuno ce l'ha." "Tu sì" rispose lei. Gli si avvicinò, flessuosa come un gatto, tutta grazia ed efficienza. Jerle si meravigliò per l'eleganza con cui si muoveva, per la sua calma. Era ammirato dalla grande forza che mostrava anche ora, con tutto quello che era successo. Per qualche momento, lei si massaggiò le mani, scaldandole al fuoco; poi rimase a fissare le fiamme. "Ho sentito la sua voce, oggi" disse. "In strada. La voce di Tay. Mi chiamava, pronunciava il mio nome. L'ho sentità con chiarezza. Mi sono girata, e desideravo tanto vederlo che mi sono scontrata con un uomo. L'ho spinto di lato, senza ascoltare le sue proteste, perché cercavo Tay." Scosse adagio la testa. "Non c'era. Mi ero immaginata tutto." Lo disse con un filo di voce. Non si girò verso Jerle. "Io non riesco ancora a rendermi conto che è morto" disse lui, dopo un momento. "Continuo a pensare che mi sono sbagliato, che è là fuori ed entrerà da un momento all'altro." Alzò la testa e fissò le ombre davanti alla porta. "Non voglio essere re. Voglio che Tay ritorni a vivere. Che tutto torni come prima." Preia annuì, senza parlare, e continuò per qualche momento a guardare il fuoco. Si udiva soltanto il tamburellare della pioggia contro il tetto e le finestre, e il sibilo del vento. Poi Preia si girò verso Jerle e lo raggiunse. Lo fissò, con uno sguardo carico di emozioni che lui non riuscì a interpretare bene. "Mi ami?" gli chiese, senza mezzi termini. Jerle rimase così sorpreso dalla domanda, che lo aveva colto con la guardia
abbassata, che non riuscì a darle una risposta. La fissò a bocca aperta. Preia sorrise. Poi, con gli occhi lucidi, riprese la parola. "Lo sapevi che Tay era innamorato di me?" Jerle scosse lentamente la testa, sorpreso. "No." "Lo è sempre stato" continuò Preia. S'interruppe, poi riprese: "Proprio come tu lo sei di Kira". Alzò una mano e gli appoggiò il dito sulle labbra per farlo tacere. "No, lasciami finire. Sono cose che vanno dette. Tay era innamorato di me, ma non avrebbe mai fatto niente per conquistarmi. Non ne parlava neppure. La sua amicizia per te era troppo forte. Sapeva che mi ero promessa a te, e anche se non era certo dei tuoi sentimenti, non voleva interferire. Pensava che tu mi amassi e che mi avresti sposata, e non voleva mettere a repentaglio la sua amicizia con tutti e due. Sapeva di Kira, ma sapeva che non era fatta per te... anche se tu non ci credevi". Ora piangeva, ma non si asciugò le lacrime. "Quello era un lato di Tay Trefenwyd che tu non hai mai visto. E non l'hai visto perché non guardavi. Tay aveva una personalità complessa, proprio come te. Nessuno di voi capiva l'altro così chiaramente come credeva, ciascuno era l'ombra dell'altro, ma sotto certi aspetti eravate diversissimi, come lo spirito lo è dalla carne. Io conoscevo quelle differenze. Le ho sempre conosciute." Deglutì. "Adesso devi affrontare anche tu la situazione. Devi imparare a vivere anche se la tua ombra è morta. Tay non c'è più, Jerle. Restiamo noi. Che cosa faremo? Dobbiamo deciderlo. Tay mi amava, ma è morto. Mi ami anche tu? Mi ami quanto mi amava lui? O tra noi ci sarà sempre Kira?" "Kira è sposata" disse Jerle piano, con la voce incrinata. "Kira è viva. La vita nutre la speranza. Se la desiderassi con sufficiente forza, forse potresti trovare il modo di averla. Ma non puoi averci tutt'e due.LO ho perso uno dei due uomini importanti della mia vita. L'ho perso senza avere il tempo di parlargli come adesso parlo a te. Non permetterò che succeda una seconda volta." S'interruppe, perché ciò che stava per dire la metteva a disagio, ma non distolse lo sguardo. "Ti voglio dire una cosa. Se Tay mi avesse chiesto di scegliere tra voi, forse avrei scelto lui." Scese un lungo silenzio, mentre continuavano a fissarsi negli occhi. Si udiva soltanto la pioggia battere e il fuoco scoppiettare. Con l'avvicinarsi della sera, nella stanza si stava facendo buio. "Non voglio perderti" disse piano Jerle. Preia non ripose. Voleva qualcosa di più. "Una volta ero innamorato di Kira" ammise lui. "E penso di volerle ancora bene. Ma non è come allora. So di averla perduta, e non piango più la sua perdita. Da anni, ormai. Penso ancora a lei con nostalgia, quando mi tornano in mente Tay e la nostra infanzia. Lei era parte di ciò e sarebbe sciocco negarlo." Trasse un profondo respiro. "Mi hai chiesto se ti amo. Sì, ti amo. Non ho mai riflettuto su questo aspetto del nostro rapporto... l'ho sempre accettato. Forse pensavo che tu ci saresti sempre stata, perciò non sono mai andato oltre, nelle mie riflessioni, perché non mi pareva necessario. Perché farsi domande su una cosa che è ovvia? Ma mi sbagliavo, e adesso lo capisco. Ti ho sempre data come acquisita, per me, anche se non me ne rendevo conto. Pensavo che la vita che facevamo insieme fosse sufficiente. Non pensavo che potesse cambiare. "Ma ho perso Tay e con lui una parte importante di me. Ho perso la guida e la direzione. Sono arrivato alla fine di una strada e non so da che parte girare. Quando mi chiedi se ti amo, mi domando se l'amore per te non sia la sola cosa che ho. Non è una cosa piccola, una
consolazione per il dolore. E' molto di più. E' la sola realtà, la sola verità che possiedo. E significa per me più di qualsiasi altra cosa. Tay me l'ha fatto capire con la sua morte. Ho dovuto pagare un prezzo molto alto per capirlo." Le appoggiò gentilmente le mani sulle spalle. "Ti amo, Preia." "Davvero?" chiese lei, piano. Queste parole creavano una grande distanza tra loro. Jerle la guardò, senza sapere cosa dire. "Sì, Preia" rispose infine. "Sei la persona che amo più di qualsiasi altra. Non so cosa aggiungere. Forse questo: spero che tu mi ami ancora." Preia non rispose, ma continuò a fissarlo negli occhi. Non piangeva più, ma aveva gli occhi gonfi e le gote umide. Poi gli rivolse un debole sorriso. "Non ho mai cessato di amarti" sussurrò. Fece un passo avanti, fra le sue braccia, e lasciò che la stringesse. Dopo qualche istante, lo abbracciò a sua volta. Sedevano accanto al fuoco quando Vree Erreden fece la sua comparsa, qualche ora più tardi. Era già buio, la pioggia si era ridotta d'intensità ma continuava a cadere sui boschi già intrisi d'acqua. Sulla città era sceso il silenzio. Qua e là, attraverso i rami appesantiti dalla pioggia, si scorgeva qualche luce, alla finestra delle case vicine. Il palazzo era al momento disabitato, in attesa che le riparazioni terminassero, e solo nel padiglione d'estate c'era un occupante. Tuttavia, la Guardia Reale vigilava su Jerle Shannara, che oltre a essere uno dei suoi, apparteneva alla famiglia reale e, a dare retta alle voci, era un possibile re. Le guardie fermarono Vree Erreden tre volte prima che riuscisse ad arrivare alla porta del padiglione, e lo lasciarono proseguire soltanto perché Jerle aveva ordinato di farlo passare in qualsiasi momento. Era strano come fosse cambiato il loro rapporto. Non avevano niente in comune, e la morte di Tay avrebbe potuto metter fine a ogni pretesa di amicizia tra loro, perché era stato il druido a unirli per la spedizione. Morto Tay, ciascuno avrebbe potuto riprendere la propria strada. Ma non era stato così. Forse avevano pensato di doverlo fare per Tay, forse erano stati i terribili eventi del viaggio a unirli. Tay si era sacrificato per loro, ed essi avevano lasciato da parte le loro divergenze. Durante il viaggio di ritorno avevano parlato di molte cose: di Tay e dell'importanza da lui attribuita alla missione che Bremen gli aveva affidato, dello spaventevole potere della Pietra Nera e della sua importanza, dell'ombra del Signore degli Inganni che incombeva su tutti. Con Preia Starle avevano parlato delle intenzioni di Tay e del loro dovere morale di realizzarle: far giungere a Bremen la Pietra Nera e portare l'esercito degli Elfi in aiuto ai Nani. Non avevano pensato a se stessi ma al loro mondo e ai pericoli che lo minacciavano. Durante il viaggio di ritorno, a due giorni da Arborlon, Jerle aveva chiesto al locat di comunicargli ogni visione che potesse risultare utile al loro compito di realizzare i desideri di Tay. Non gli era stato facile chiederlo, e Vree Erreden lo sapeva: dopo una breve riflessione, il veggente aveva acconsentito, anzi, si era detto disposto a offrire i suoi servigi a Jerle personalmente, se pensava di averne bisogno. Jerle aveva accettato. Si erano stretti la mano per solennizzare l'accordo e di lì era iniziata la loro amicizia. Così adesso il locat era venuto a trovarlo, bagnato come un pulcino e tremante di freddo. Preia lo aiutò a sfilarsi il mantello e lo fece accomodare davanti al caminetto perché si asciugasse. Jerle gli servì un bicchiere di birra forte. La donna gli diede anche una coperta.
Vree Erreden accettò ogni cosa con qualche parola di ringraziamento. Gli brillavano gli occhi a causa di ciò che doveva comunicare loro. "Ho una notizia per te" disse a Jerle non appena smise di rabbrividire. "Ho avuto una visione che ti riguarda." Jerle annuì. "Cos'hai visto?" Il locat si strofinò le mani e bevve qualche sorso di birra. Sembrava affaticato, come se non avesse dormito bene. Era così dal loro ritorno. Gli eventi di Fauce Magna avevano lasciato il segno su di lui. La fortezza e i suoi occupanti l'avevano attaccato spietatamente, avevano cercato di schiacciarlo perché non potesse aiutare Tay Trefenwyd, che volevano con sé. Non c'erano riusciti, ma il veggente soffriva ancora per l'attacco. "Quando Tay è venuto a chiedermi di accompagnarlo nella ricerca della Pietra Nera, gli ho letto nella mente." Si girò per fissare negli occhi Jerle. Il suo sguardo era serio. "L'ho fatto per scoprire in fretta tutto quello che voleva dirmi. Non l'ho avvertito di ciò che facevo, perché non volevo che mi nascondesse qualche pensiero. "Ciò che ho scoperto era assai più di quanto cercassi. Il druido Bremen gli aveva riferito quattro visioni. Una riguardava Fauce Magna e la Pietra Nera degli Elfi, ed era quella che cercavo. Ma ho visto anche le altre. Ho visto la distruzione di Paranor, con Bremen alla ricerca di un medaglione appeso a una catena. Ho visto il druido accanto a un lago dalle acque nere..." S'interruppe, agitando la mano come per far capire che la cosa non aveva importanza. "Lasciamo perdere. La visione che conta è l'ultima." Tacque per qualche istante, sembrò distrarsi. "Ho sentito delle voci. Vogliono farti re. Non vogliono né Alyten né i nipotini. Vogliono incoronare te." "Chiacchiere" si affrettò a dire Jerle. Vree Erreden si strinse la coperta sul petto. "Non credo." E lasciò che le parole rimanessero sospese nell'aria. Preia si avvicinò a lui. "Cos'hai visto, Vree? Alyten Ballindarroch è morto?" Il locat scosse la testa. "Non lo so. Non ho avuto quella visione. Ne ho avuto un'altra. E riguarda la questione del re degli Elfi." Trasse un profondo respiro. "Nella quarta visione di Bremen che ho letto nella mente di Tay c'era un uomo armato di spada, su un campo di battaglia. La spada era un talismano, una magia potentissima. Sull'impugnatura si scorgeva chiaramente l'immagine dell'Eilt Druin: una mano che stringeva una fiaccola accesa. Davanti all'uomo c'era uno spettro, incappucciato e avvolto in un mantello nero: di lui si scorgevano solo gli occhi, due fessure rosse come braci. L'uomo e lo spettro erano impegnati in un duello mortale." Bevve un altro sorso di birra e guardò il fuoco. "Quella visione mi apparve soltanto per un attimo e non le prestai molta attenzione. Al momento non mi parve importante. Confermava le parole di Tay sulla sua ricerca. Fino a oggi mi era passata di mente." Sollevò di nuovo gli occhi. "Oggi leggevo le mie mappe, davanti al fuoco. Il calore delle fiamme e il rumore della pioggia mi hanno fatto addormentare, e mentre dormivo ho avuto una visione. E' stata improvvisa, intensa e inattesa. Strano, perché in genere le mie visioni, le intuizioni che mi permettono di trovare gli oggetti perduti, sono più lente a concretizzarsi e meno imperiose. La visione era netta e precisa, e l'ho riconosciuta subito: era l'immagine apparsa a Bremen, dell'uomo e dello spettro sul campo di battaglia. Ma questa volta li ho riconosciuti. Lo spettro era il Signore degli Inganni. L'uomo eri tu, Jerle Shannara." Jerle per poco non scoppiò a ridere. Forse perché l'idea gli pareva
assurda, forse perché non poteva credere che Tay non l'avesse riconosciuto mentre Vree c'era riuscito. O forse come reazione a una sorta di dolorosa premonizione provata nell'ascoltare il locat. "C'è dell'altro" proseguì il veggente, senza dargli il tempo di pensare. "Sulla spada c'era lo stesso emblema che compariva sul medaglione cercato da Bremen nella visione di Paranor. Quel medaglione si chiamava Eil Druinned, è il simbolo della carica di Grande Druido. Ha una magia potentissima. La spada era l'arma appositamente forgiata per distruggere Brona, e il medaglione era fuso con l'arma. Nessuno mi ha raccontato questi particolari, sai. Ho semplicemente saputo che così stavano le cose. Allo stesso modo, nel vederti sul campo di battaglia, ho saputo che eri re degli Elfi." "No" disse Jerle, ostinato. "Ti devi essere sbagliato." Il locat lo fissò senza abbassare lo sguardo. "Mi hai visto in faccia?" chiese Jerle. "Non avevo bisogno di vederti in faccia" rispose Vree Erreden, a bassa voce. "Né di sentire la tua voce. Eri tu, ed eri il re." "Allora la visione è falsa!" Jerle guardò Preia in cerca di aiuto, ma lei lo fissava e taceva. "Non voglio averci niente a che fare!" Nessuno gli rispose. Tolto lo scoppiettio del fuoco, non si udiva alcun rumore; la notte taceva come per origliare meglio ciò che si stavano dicendo i tre Elfi. Jerle si alzò e andò alla finestra. Avrebbe voluto essere invisibile. "Se permettessi loro di incoronarmi..." Non terminò la frase. Preia si alzò e lo guardò attraversare la stanza. "Potresti terminare ciò che Tay Trefenwyd ha iniziato. Se tu fossi re, potresti convincere il Gran Consiglio a mandare l'esercito in aiuto ai Nani. Potresti liberarti della Pietra Nera senza doverne rispondere a nessuno. E, soprattutto, potresti distruggere il Signore degli Inganni." Jerle Shannara si girò di scatto. "Il Signore degli Inganni ha sterminato i Druidi. Che speranze avrei io contro un simile mostro?" "Speranze migliori di chiunque altro" rispose subito lei. "La visione è apparsa ormai due volte: la prima a Bremen, la seconda a Vree. Probabilmente è una profezia. Se lo è davvero, puoi fare ciò che neppure a Tay Trefenwyd sarebbe riuscito. Puoi salvarci tutti." Jerle la fissò. Preia credeva che dovesse diventare re. E gli chiedeva di dare il suo assenso. "Ha ragione" disse Vree Erreden. Il guerriero non lo ascoltò. Fissava Preia, pensando che già alcune ore prima gli aveva chiesto di prendere una grave decisione. Quanto sono importante per te? Adesso gli rivolgeva la stessa domanda, anche se in forma diversa. Quanto è importante il tuo popolo per te? Aveva l'impressione di doversi preparare a un grande cambiamento, sia nel suo rapporto con Preia, sia nella sua vita, un cambiamento portato in entrambi i casi dalla morte di Tay Trefenwyd. Eventi che non avrebbe mai creduto possibili si erano alleati per caricarlo di quelle responsabilità che aveva sempre cercato di evitare. Un destino autoritario l'aveva preso per il braccio. Responsabilità, incoronazione, salvezza della sua gente... tutto dipendeva dalle sue decisioni. Freneticamente, cercò qualche altra strada. Ma sapeva, con inquietante certezza, che qualunque scelta facesse avrebbe finito per pentirsene. "Devi affrontare questa situazione" gli disse Preia. "Devi deciderti." Jerle aveva l'impressione che il mondo fosse una trottola impazzita. Preia gli chiedeva troppo. Non c'era alcun bisogno di decidere su due piedi. Per ora, tutto era a livello di voci e illazioni. Nessuno gli aveva ancora parlato
ufficialmente della corona. Non si sapeva cosa fosse successo ad Alyten. Inoltre, c'erano i nipoti di Courtann Ballindarroch. Lo stesso Tay Trefenwyd li aveva salvati. E adesso volevano negare loro la successione? Jerle riusciva a malapena a pensare a tutta la situazione, e gli chiedevano di pronunciarsi immediatamente. Ma queste giustificazioni gli parevano inconsistenti, e dietro di esse vedeva soltanto lo spettro della propria disperazione. Si allontanò dai due che aspettavano la sua risposta e andò alla finestra a fissare il buio della notte. Ma neanche laggiù trovò la risposta. 21 Si avvicinava il crepuscolo e la città di Dechtera era immersa in una luce rossosangue. L'abitato riempiva l'intera conca tra due file di basse colline che lo chiudevano a nord e a sud, ed era un disordinato labirinto di muri e tetti che si stagliava contro l'orizzonte cremisi. L'oscurità avanzava dalle pianure erbose dell'est. Il sole, tramontando dietro un banco di nubi basse, aveva dato al cielo e alla terra una sfumatura prima arancione e poi rossa, come ultimo gesto di sfida di un giorno che non si rassegnava a morire. Dalla pianura, dove si trovava con Bremen e Mareth e dove l'ombra si era già impadronita delle pianure situate tra i rilievi, Kinson Ravenlock osservò senza fare commenti la loro destinazione, raggiunta dopo tanti giorni di cammino. Dechtera era una città industriale, facilmente raggiungibile dalle altre principali città del Sud e situata nei pressi delle miniere che le fornivano i minerali occorrenti. Era assai più grande delle città del Nord e di quelle della Frontiera, e anche di quelle dei Nani e degli Elfi. Era superata in dimensione soltanto da alcune città dei Troll. A Dechtera c'erano persone, case e negozi, ma soprattutto forni. Erano accesi senza interruzione, raggruppati in varie parti della città, riconoscibili di giorno dai pennacchi di fumo nero che si levavano dalle loro ciminiere, di notte dal chiarore dei focolari sempre aperti, che consumavano avidamente legno e carbone per estrarre il metallo dal minerale, fonderlo e lavorarlo. A tutte le ore del giorno e della notte i fabbri battevano sull'incudine il ferro rosso e ne cavavano piogge di scintille incandescenti, cosicché Dechtera era un inesauribile spettacolo di suoni e colori. L'aria era satura di fumo e ceneri che coprivano di una patina scura gli edifici e la gente. Tra le città della Terra del Sud, Dechtera era il membro fuligginoso di una famiglia che aveva bisogno di lei più che desiderarla, la sopportava più che abbracciarla, e non aveva mai pensato di guardarla con orgoglio o con speranza. Era una scelta improbabile per andare a fondervi il loro talismano, pensò ancora una volta Kinson, perché era una città che non dava alcuno spazio all'immaginazione, una città che sopravviveva con il lavoro, notoriamente inospitale per i Druidi e la magia. Eppure Bremen gli aveva detto alcuni giorni prima, quando glielo aveva fatto notare, che laggiù avrebbero trovato l'uomo che cercavano. Chiunque fosse, aggiunse Kinson tra sé, perché, anche se il druido aveva detto loro dov'erano diretti, non aveva rivelato l'identità della persona che dovevano incontrare. Avevano impiegato quasi due settimane per compiere il viaggio. Cogline aveva dato a Bremen la formula della lega da usare per la spada, ma
aveva continuato a mostrarsi scettico; quand'erano partiti li aveva salutati come se fosse sicuro di non rivederli più. Bremen e i suoi compagni avevano accettato rassegnati il suo commiato, e avevano lasciato la Pietra del Focolare per tornare a Storlock, ripercorrendo la Terrabuia. Quel tratto del loro viaggio aveva richiesto quasi una settimana. A Storlock si erano procurati dei cavalli e si erano diretti verso le pianure. In quel momento l'esercito del Signore degli Inganni si trovava più a sud ed era occupato a dare la caccia ai Nani nel Wolfsktaag, ma Bremen temeva di incontrare le loro forze ancora schierate all'esterno dell'Anar, perciò aveva portato i compagni fino alle Montagne di Runne e poi a sud, lungo il Lago Arcobaleno. Così lontano dall'Anar, pensava, era meno probabile incontrare i servitori di Brona. Avevano attraversato il Fiume Argento tenendosi lontani dalla Palude della Nebbia prima di passare nelle Pianure del Tumulo. Il loro procedere era stato lento e cauto, perché era terreno pericoloso anche senza la presenza dei mostri di Brona, e non era il caso di correre rischi inutili. Nelle pianure del Tumulo vivevano creature dell'antica magia, simili a quelle che infestavano il Wolfsktaag, e anche se Bremen sapeva come neutralizzarle, la cosa migliore restava evitarle. Si erano mantenuti fra le distese brulle del Tumulo, con le loro Sirene e i loro spettri, e le oscure profondità delle Querce Nere, con i loro branchi di lupi. Avevano viaggiato di giorno e fatto buona guardia di notte. Avevano sentito, più che vederle, le creature da evitare, del luogo e forestiere, dell'acqua, della terra e dell'aria, e molte volte erano stati consapevoli di essere osservati. Ma nessuna li aveva attaccati o aveva cercato di seguire le loro tracce, e presto si erano liberati dei pericoli delle Terre di Frontiera. E adesso, al tredicesimo giorno di viaggio, giungevano in vista dei fuochi di Dechtera, simile a un incubo industriale. "Sento già di odiare questa città" commentò Kinson, togliendosi la polvere dal vestito. Il terreno attorno a loro era brullo, privo di alberi e coperto solo di qualche ciuffo d'erba polverosa. In quella regione non doveva piovere con molta regolarità. "Io non riuscirei a vivere in un posto simile" convenne Mareth. "Non riesco a immaginare come si possa farlo." Bremen non disse nulla. Continuò a fissare Dechtera, ma il suo sguardo era più lontano. Poi chiuse gli occhi e rimase immobile. Kinson e Mareth si scambiarono un'occhiata, aspettando che ritornasse in sé. Davanti a loro si vedevano già brillare alcune fucine tra le ombre della sera. Le pennellate di rosso erano svanite nel cielo, il sole era sceso sotto l'orizzonte e il suo chiarore era solo un alone più chiaro in mezzo alle nuvole. Sulle pianure era sceso il silenzio e si poteva udire l'eco lontana dei colpi di maglio sull'incudine. "Siamo venuti qui" disse Bremen, all'improvviso, riaprendo gli occhi "perché a Dechtera ci sono i migliori fabbri delle Quattro Terre, tranne forse quelli dei Troll. Gli uomini del Sud non amano i Druidi, ma non credo che i Troll siano disposti a fornirci ciò che ci serve. Adesso, la sola cosa che ci occorre è l'uomo adatto, e sarà tuo compito trovarlo, Kinson. Tu puoi aggirarti per la città senza richiamare l'attenzione." "Mi sembra giusto" confermò Kinson, impaziente di mettersi all'opera. "Chi devo cercare?" "Questo dovrai deciderlo tu." "Io?" fece Kinson, stupefatto. "Abbiamo fatto tutta questa strada per cercare un uomo che non
conosciamo?" Bremen gli sorrise con indulgenza. "Abbi pazienza, Kinson. E fidati. Non siamo venuti qui alla cieca, o senza motivo. L'uomo che cerchiamo è qui, anche se non lo conosciamo di nome. Come ti dicevo, i migliori fabbri delle Quattro Terre sono a Dechtera. Ma dobbiamo scegliere tra loro, e scegliere bene. Ci vorrà qualche ricerca. La tua abilità di esploratore ti verrà utile." "Che caratteristiche devo cercare, in particolare?" insistette Kinson, irritato della propria insicurezza. "Quelle che cercheresti in chiunque, ma anche una grande abilità nel lavoro. Un mastro armaiolo." Bremen gli appoggiò la mano sulla spalla. "Ma avevi davvero bisogno di chiedermelo?" Kinson sorrise. Accanto a loro, Mareth sorrise a sua volta. "E cosa farò, quando avrò trovato il mastro armaiolo?" "Torna da noi. Andremo insieme da lui e cercheremo di conquistarlo alla nostra causa." Kinson diede un'altra occhiata alla città, al suo dedalo di edifici scuri e di fuochi, di ombre nere e di riflessi infuocati. Il turno di giorno aveva lasciato il posto a quello di notte, ma il lavoro non era diminuito e le fornaci non si erano spente. "Un fabbro che sappia mescolare i minerali per ottenere leghe più forti e che sappia temprare i metalli per raggiungere quella forza." Kinson scosse la testa. "Per non parlare del fatto che dev'essere disposto ad aiutare un druido a forgiare un'arma magica." Bremen gli posò la mano sulla spalla. "Non ti preoccupare troppo delle convinzioni del nostro fabbro. Cerca invece le altre qualità. Trova l'armaiolo adatto, del resto mi occuperò io." Kinson annuì. Guardò Mareth e vide che la giovane lo fissava. I suoi occhi sembravano più grandi del solito "E tu?" "Io e Mareth aspetteremo qui il tuo ritorno. Da solo ti muoverai meglio per la città." Bremen staccò la mano dalla sua spalla. "Ma fa' attenzione, Kinson. Questi uomini sono tuoi compatrioti, ma non sono necessariamente tuoi amici." Kinson posò lo zaino, controllò le armi e si drappeggiò con cura il mantello sulle spalle. "Lo so." Strinse la mano che il vecchio druido gli tendeva e la tenne nella sua per qualche istante. Ossa da uccellino, pensò, più fragili di quanto non gli fosse parso l'ultima volta. Si affrettò a lasciargli la mano. D'impulso si chinò su Mareth e, senza saperne bene la ragione, le diede un bacio sulla guancia. Poi si volse e si avviò giù per la collina ammantata nel buio della notte, diretto alla città. Il tragitto richiese più di un'ora. Camminò senza fretta, lungo la pianura che portava a Dechtera. Non c'era bisogno di correre e non voleva richiamare l'attenzione. Uscì dal buio ed entrò nella luce. Nell'avvicinarsi agli edifici sentì che la temperatura dell'aria aumentava mentre i rumori delle forge si facevano sempre più forti. Una cacofonia di voci segnalava la presenza di birrerie, taverne, osterie e postriboli in mezzo alle fornaci e ai magazzini. Fra i brontolii e le imprecazioni, i colpi di maglio e il rumore delle tramogge si levavano improvvisamente le risate, e la mescolanza di lavoro e piacere era onnipresente e imprevista. In quella città non c'era divisione tra quartieri del lavoro e del piacere, scoprì il cacciatore. Pensò a Mareth, alla serietà con cui lo guardava, come per studiarlo, valutarlo, in modi a lui incomprensibili. Strano a dirsi, questo non gli dava fastidio. Si sentiva rassicurato dal suo sguardo, confortato dal desiderio di lei di conoscerlo meglio. Non aveva mai provato sensazioni simili, nemmeno con Bremen. Mareth era diversa. Avevano fatto amicizia,
nelle due settimane precedenti, e avevano parlato a lungo: non del presente, ma del passato, della loro gioventù nella Frontiera, e avevano scoperto di avere avuto molte cose in comune, e non tanto esperienze quanto punti di vista. Avevano imparato le stesse lezioni giungendo a conclusioni analoghe. Uguale era il loro modo di vedere il mondo. Erano entrambi soddisfatti di se stessi e accettavano di essere diversi dagli altri; Ad entrambi piacevano la solitudine e i viaggi, andare a esplorare ciò che non conoscevano e scoprire cose nuove. Avevano reciso molto tempo addietro i legami familiari, occultato la scorza di civiltà sotto il mantello da vagabondi. Consideravano se stessi dei randagi per scelta, e ritenevano che andasse bene così. Ma, soprattutto, ciascuno accettava che l'altro avesse qualche segreto. Questo riguardava soprattutto Mareth, che dava più valore di lui alla sua sfera privata e che, secondo Kinson, nonostante le recenti rivelazioni, doveva aver taciuto parecchi particolari sui motivi che l'avevano spinta a unirsi a loro. Tuttavia, il cacciatore cominciava a pensare che non fossero importanti: in realtà, benché potesse lasciarli in qualsiasi momento, la giovane aveva preferito rimanere con loro. Aveva sempre corso gli stessi rischi dei compagni e, quanto a ciò che le stava più a cuore - la sua magia - Bremen non le aveva ancora dato alcun aiuto. In un certo senso, dalla confidenza instauratasi tra loro, ciascuno aveva imparato a conoscersi meglio, e questo piaceva al cacciatore. Rimaneva tuttavia tra loro una distanza assai difficile da accorciare: un distacco che non poteva essere colmato con parole o azioni. Era Mareth a non voler ridurre quella distanza, come se qualcosa, dentro di lei, le imponesse di isolarsi dagli altri. Qualche segreto, probabilmente, che lei non era pronta a confessare; anche se a volte pareva intenzionata a uscire da quella sorta di prigione, di fatto non ne trovava mai la forza. Kinson ora capiva perché gli fosse venuto in mente di darle quel bacio d'addio: per far breccia nelle sue difese. Per un momento era riuscito a coglierla di sorpresa: ricordava come la giovane avesse automaticamente sollevato le braccia per proteggersi. Sorrise tra sé. Dechtera era ormai vicina e si scorgevano i singoli edifici, la luce che filtrava dalle finestre e dalle porte, i vicoli infestati dai ratti e i marciapiedi occupati dai mendicanti, la gente che camminava per le vie sporche di fuliggine. Mise da parte il pensiero di Mareth perché il compito che lo attendeva richiedeva tutta la sua attenzione. C'era tempo per Mareth. Lasciò che gli occhi di lei indugiassero ancora un po' davanti ai suoi, poi li cancellò. Entrò in città da una delle strade principali e impiegò qualche tempo a studiare gli edifici e la gente che gli si affollava attorno. Era in un quartiere di grossi opifici, depositi e magazzini. Molti carri trainati da asini portavano alle fornaci i rottami da fondere. Gli edifici erano fatiscenti e trascurati; dopo una breve occhiata, Kinson se ne disinteressò e proseguì. Si addentrò in una zona di piccole fucine, con un singolo fabbro a battere il ferro per costruire semplici oggetti, e lasciò anche quella. Passò davanti a mucchi di scorie e rottami, a cataste di tronchi scortecciati, a file di baracche vuote. L'odore acido dei rifiuti ammorbava l'aria, e Kinson lasciò anche quella zona. Alla luce delle fornaci si vedevano guizzare le ombre di piccole creature che uscivano dai loro nascondigli e correvano a rifugiarsi in altri. Gli uomini che incrociava erano curvi e
stanchi, lavoravano per tutta la vita, trascinandosi da un giorno di paga all'altro finché la morte non si impadroniva di loro. Pochi si giravano a guardare Kinson che passava. Nessuno gli parlò. Arrivò nel centro della città quando era già notte. Diede un'occhiata dentro le birrerie e le taverne, chiedendosi se dovesse entrare. Alla fine ne scelse un paio adatte ai suoi scopi, vi rimaneva quanto bastava ad ascoltare i discorsi, a rivolgere qualche domanda, a bere un bicchiere di birra quando il taverniere si rivolgeva a lui, poi passava a un altro locale. Chi era il miglior armaiolo della città? chiedeva. Qual era il miglior fabbro? Ogni volta ricevette una risposta diversa, giustificata da varie considerazioni. Servendosi dei nomi che aveva sentito citare più di una volta, si fermò da alcuni fabbri per informarsi sul loro lavoro. Alcuni si strinsero nelle spalle, privi di interesse, altri gli diedero risposte prolisse, un paio rispose in modo interessante. Kinson li ascoltava, sorrideva e passava a un'altra officina. Mezzanotte passò. "Non tornerà prima di domani" disse Bremen, osservando la città, visibile in lontananza. Nonostante la temperatura mite, si era avvolto strettamente nel mantello. Mareth, vicina a lui, non fece commenti. Avevano continuato a guardare la figura del cacciatore della Frontiera finché non l'avevano visto sparire nell'oscurità. Poi avevano continuato a guardare in quella direzione, come due sentinelle che sorvegliassero il progredire della notte. In cielo si accesero le stelle e una sottile falce di luna, visibili dalle colline, ma non dalla città avvolta nel fumo dei suoi fuochi. Bremen si spostò di alcuni passi, per andare a sedersi su un piccolo fazzoletto di erba morbida. Gli sfuggì un sospiro di soddisfazione e pensò che col passare del tempo gli bastava sempre meno per essere contento. Per un momento fu tentato di mangiare, poi si accorse che non aveva fame. Alzò gli occhi nel vedere che Mareth si sedeva accanto a lui e continuava a tenere gli occhi fissi nel buio come se qualcuno la attendesse laggiù. "vuoi mangiare?" le chiese, ma la giovane scosse la testa. Era persa nei suoi pensieri, nel passato o nel futuro, si disse il vecchio druido che ormai aveva imparato a riconoscere quel particolare sguardo. La giovane aveva sempre la mente altrove; spirito inquieto e cuore insoddisfatto, ecco Mareth. Per qualche tempo Bremen non parlò, riflettendo sul modo migliore di affrontare la questione. Era una cosa delicata, e se lei si fosse sentità messa alle strette si sarebbe chiusa del tutto. Eppure occorreva un chiarimento, e subito. "In notti come questa, mi ritorna in mente la mia infanzia" disse infine, guardando non la giovane, ma la collina su cui stavano e il cielo. Sorrise. "Oh, suppongo che una persona con tutti i miei anni dia sempre l'impressione di non essere stata giovane. Ma lo sono stato anch'io. Abitavo nella regione delle colline sotto Leah, con mio nonno, che era un abile lavoratore dei metalli. Anche da vecchio, aveva mani salde e occhio acuto.LO lo guardavo per ore, stupito della sua abilità e della sua pazienza. Amava la nonna, e quando lei morì, disse che si era portata via per sempre un pezzo della sua anima, ma che sopportava la perdita pensando al tempo che avevano condiviso. Diceva che al suo posto gli ero stato mandato io. Era un brav'uomo." Guardando Mareth, vide che la giovane lo ascoltava con interesse. "I miei genitori, invece, erano diversi. Non erano mai riusciti a fermarsi abbastanza a lungo in un posto, mai nelle loro brevi vite, e non avevano
mai condiviso l'interesse di mio nonno per il lavoro. Erano sempre in movimento, cambiavano sempre vita, erano sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo e di diverso. Mi lasciarono col nonno poco dopo la mia nascita. Non avevano tempo per me." Aggrottò la fronte. "Per molti anni ho creduto di odiarli per questo, ma alla fine sono riuscito a capirli. E' sempre così, tra genitori e figli. Ciascuno è una delusione per l'altro, in tanti modi che non si possono definire, e occorre tempo per superare la delusione. E' stato così, nel mio caso, per la decisione dei miei genitori di lasciarmi ai nonni." "Ma tutti hanno il diritto di passare l'infanzia con i genitori" protestò Mareth. Bremen le sorrise. "Anch'io la pensavo così. Ma i bambini non capiscono la complessità delle scelte degli adulti. La miglior cosa per un bambino è che i genitori cerchino di fare quello che è meglio per lui, ma decidere cosa è meglio è difficile. I miei genitori sapevano che non sarei cresciuto bene, sempre in viaggio con loro, perché non avrebbero potuto darmi le attenzioni che mi occorrevano. Potevano a malapena prendersi cura l'uno dell'altra. Perciò mi lasciarono col nonno, che mi amava e si prendeva cura di me. Era la scelta giusta." La giovane rifletté per qualche istante. "Ma ha lasciato il segno su di te." Bremen annuì. "Per qualche tempo, ma non in modo durevole. Forse mi ha temprato il carattere, non lo so. Noi cresciamo come meglio possiamo, nella situazione in cui veniamo a trovarci. A che serve almanaccare come avrebbe potuto essere, anni dopo? Meglio limitarci a capire come siamo e servirci di questa conoscenza per migliorarci." Scese il silenzio. Per parecchi istanti, i due si fronteggiarono; alla luce delle stelle e della luna i loro volti erano perfettamente distinguibili. "Ti riferisci a me, vero?" commentò infine Mareth. "Ai miei genitori, alla mia famiglia." Bremen non cambiò espressione. "E' quanto mi aspettavo da te, Mareth" rispose con dolcezza. "La tua intuizione non ti mai ha tradita, vero?" I delicati tratti del viso si irrigidirono. "Io odio i miei genitori. Mi hanno abbandonata facendomi crescere tra estranei. Non è stata colpa di mia madre, che è morta nel mettermi al mondo. Non so chi sia mio padre. Forse non è stata neppure colpa sua." Scosse la testa. "Ma questo non cambia ciò che provo per loro. Non toglie niente al mio dolore per essere stata abbandonata." Bremen cambiò posizione, perché muscoli e articolazioni cominciavano a indolenzirsi. Quei dolori aumentavano col tempo, ed era sempre più difficile eliminarli. All'opposto della fame, pensò con ironia. La vecchiaia si vendicava di lui. Perfino il Sonno Magico perdeva la capacità di ridargli le forze. Guardò la giovane negli occhi. "Secondo me, hai altri motivi per essere in collera con i tuoi genitori, oltre a quelli che mi hai detto. La tua collera è un peso che hai sul cuore, una grossa pietra che non puoi spostare. Tempo fa ha fissato i confini della tua vita. Ti ha avviata a Paranor. Ti ha spinta a cercarmi." Attese che Mareth riflettesse sulle sue parole, che vedesse cosa c'era nei suoi occhi. Lui non era il nemico che lei cercava, lui desiderava essere suo amico, desiderava che gli rivelasse ciò che teneva tanto accuratamente nascosto. "Tu sai tutto" disse infine Mareth. Bremen scosse la testa. "No, sono riflessioni, niente di più." Le rivolse un sorriso stanco. "Ma vorrei saperne di più. E offrirti qualche consolazione, se posso." "Consolazione." Mareth pronunciò la parola in tono opaco, disperato. "Sei venuta da me per scoprire la verità su te
stessa" proseguì lui, gentilmente. "Può darsi che tu non l'abbia vista in questo modo, ma è ciò che hai fatto. Hai chiesto aiuto per la tua magia, un potere di cui non puoi sbarazzarti e non puoi fare a meno. E' un fardello terribile, ma non peggiore delle verità che nascondi. Ne sento il peso da qui, bambina. Sono come catene che ti avviluppano." "No, tu sai" ripeté Mareth, fissandolo a occhi sgranati. "Ascolta. I pesi che porti sono inestricabilmente legati insieme: la verità che nascondi e la magia che ti fa paura. L'ho capito viaggiando con te, osservandoti, ascoltando le tue preoccupazioni. Se vuoi liberarti del peso della magia, prima devi guardare in faccia la verità che hai nel cuore. La verità sui tuoi genitori. La tua nascita. Su chi e che cosa sei. Parlane, Mareth." Lei scosse la testa e distolse lo sguardo, stringendosi le braccia attorno al corpo come per difendersi dal freddo. "Dimmelo" insistette Bremen. La giovane deglutì per frenare le lacrime, tremò per un brivido e alzò la faccia verso le stelle. Poi lentamente, con trepidazione, cominciò a parlare. 22 "Non ho paura di te" esordì Mareth, parlando in fretta, come se attingesse a una riserva nascosta di energia. "Potresti pensarlo, dopo avere ascoltato ciò che devo dirti, ma ti sbaglieresti.LO non ho paura di nessuno." Bremen rimase sorpreso dall'affermazione, ma non lo diede a vedere. "Non ho preconcetti su di te, Mareth" disse. "Potrei essere perfino più forte di te" aggiunse la giovane, in tono di sfida. "La mia magia potrebbe essere più forte della tua, perciò non ho motivo di aver paura. Se tu dovessi mettermi alla prova, potresti pentirtene." Lui scosse la testa. "Non ho nessun motivo di metterti alla prova." "Quando avrai ascoltato ciò che devo dirti, potresti pensarla diversamente. Potresti decidere di farlo. Per proteggerti." Trasse un profondo respiro. "Non capisci? Tra noi, nulla è come sembra! Potremmo essere nemici mortali!" Bremen rifletté per qualche istante, poi disse: "Non credo. Comunque, di' quello che ritieni di dovermi dire. Non nascondere nulla". Mareth lo fissò, come per capire se fosse sincero. Il suo corpo sottile era raggomitolato. Nei grandi occhi scuri, il druido lesse agevolmente il tumulto delle emozioni. "I miei genitori sono sempre stati un mistero" disse infine la giovane. "Mia madre è morta quando sono nata, e mio padre era sparito ancor prima. Non li ho mai conosciuti, non li ho mai visti, non mi hanno lasciato alcun oggetto come ricordo. Quello che so di loro me l'hanno detto le persone con cui sono cresciuta: mi hanno fatto chiaramente capire che non ero figlia loro. Non mi hanno trattata male, ma erano gente dura e risoluta, che lavorava sodo. Si sono presi cura di me, ma non appartenevo a loro. "Ho saputo della morte di mia madre fin da piccola. Non me l'hanno mai nascosta, e quando sono stata abbastanza grande mi hanno anche parlato di lei: era bruna e minuta come me. Era graziosa. Amava i fiori e i cavalli. A quanto ho capito, la giudicavano una brava persona. Abitava nel villaggio, ma diversamente dagli altri aveva viaggiato nelle Terre del Sud e conosceva un po' il mondo. Non era nata nel villaggio, ma non so da dove venisse. Probabilmente non l'aveva mai detto a nessuno. Non so se avevo parenti nel Sud, non ne ho mai sentito parlare. E nemmeno le
persone che mi hanno allevata." S'interruppe, ma continuò a fissare il vecchio druido. "Nella famiglia dove sono cresciuta c'erano due bambini più vecchi di me. Li amavano e li portavano in visita, ai picnic e alle riunioni del villaggio. Con me, invece, non lo facevano: fin dall'inizio, mi era stato fatto capire che non ero come loro.LO dovevo rimanere a casa e aiutare nei lavori domestici. Crescendo, ho capito che i miei genitori adottivi provavano una sorta di imbarazzo per la mia presenza. C'era qualcosa, in me, che suscitava la loro diffidenza. Non mi permettevano di giocare con i miei fratellastri e io ubbidivo. Mi davano cibo, indumenti, un tetto, ma ero un'ospite, non una di loro." "Questa situazione deve averti amareggiato fin da allora" commentò Bremen. Mareth si strinse nelle spalle. "Ero una bambina. Non mi rendevo conto di quello che mi facevano. Accettavo la mia situazione e non me ne lamentavo. Non mi trattavano male. Penso che provassero una sorta di simpatia, di compassione per me, altrimenti non mi avrebbero presa. Non me l'hanno mai detto, ma credo che un po' d'affetto dovevano provarlo, se mi hanno presa." Sospirò. "Poi, a dodici anni, mi mandarono come apprendista da un vasaio. Sapevo che sarebbe successo, e lo accettai come una parte della vita a me destinata. Il fatto che i miei fratelli non venissero mandati a lavorare non mi preoccupò, dato che erano sempre stati trattati in modo diverso. Da allora, vidi raramente i miei genitori adottivi. Una volta mia madre venne a portarmi dei dolci, ma si sentiva a disagio e se ne andò subito. Un'altra volta li vidi entrambi passare per strada, davanti alla bottega, ma non mi guardarono. A quell'epoca avevo scoperto che il vasaio approfittava di ogni scusa per picchiarmi, e li odiavo perché mi avevano mandata da lui. In seguito, dopo avere lasciato il villaggio, non li ho più visti." "E i tuoi fratellastri?" chiese Bremen. Mareth scosse la testa. "Non ne sentivo la mancanza. Tutti i legami tra noi erano cessati con la mia uscita di casa. Quando penso a loro, provo solo amarezza." "Hai avuto un'infanzia difficile. Adesso che sei grande lo capisci meglio, vero?" Lei gli rivolse un sorriso gelido. "Capisco molte cose che da bambina non mi sono mai state dette. Quando avrò finito la mia storia, potrai giudicare da te. L'importante, a quel punto, stava nel fatto che poco prima di andare dal vasaio cominciai ad avere notizie di mio padre. Avevo undici anni e sapevo già che l'anno seguente sarei andata dal vasaio e avrei lasciato quella casa, e cominciai a pensare al mondo che mi circondava. Al villaggio venivano cacciatori, mercanti e calderai, perciò sapevo che c'erano molti altri villaggi come il mio. A volte mi chiedevo se mio padre fosse in uno di quelli. Mi chiedevo se sapeva di me. Già da tempo avevo capito che i miei veri genitori non erano sposati, che non vivevano insieme come marito e moglie. Quando ero nata, mio padre se n'era già andato per la sua strada. Dov'era, allora? Nessuno me lo disse mai.LO avrei voluto chiederlo, ma i miei genitori adottivi mi avevano fatto capire che non dovevo fare troppe domande. La mia vera madre aveva qualche colpa, che le era stata perdonata soltanto perché era morta. La colpa, però, in qualche modo ricadeva su di me. "Quando fui abbastanza grande per accorgermi di quei silenzi cercai di scoprire la verità. A undici anni ero già in grado di capire i sotterfugi e di farne. Cominciai a porre qualche domanda su mia madre, domande banali, che non destavano sospetti. Mi rivolgevo alla mia madre adottiva perché era la
meno taciturna dei due, e approfittavo dei momenti in cui eravamo sole. Alla sera lei riferiva le mie domande al marito, io origliavo alla porta della mia camera da letto e di tanto in tanto coglievo qualche parola. Mio padre era un forestiero, che era passato alcune volte per il villaggio, si era fermato per qualche tempo e poi era sparito. Tutti lo evitavano tranne mia madre, che forse era attratta da lui, forse sperava che la portasse con sé. Ma gli altri lo detestavano, forse lo temevano. Una parte di quell'avversione si era trasferita su di me " S'interruppe per qualche istante, raccogliendo i pensieri. Pareva piccola e vulnerabile, ma Bremen sapeva che si trattava solo di un'impressione; continuò a fissarla negli occhi, in attesa che proseguisse. "Già allora sapevo di essere diversa dagli altri. Conoscevo i miei poteri magici, anche se cominciavano a mostrarsi in forma limitata, e mi parve logico concludere che ciò che temevano e odiavano era la magia, e quella l'avevo ereditata da mio padre. La magia era vista con diffidenza al villaggio, era un'eredità indesiderata della Guerra delle Razze, quando gli uomini erano stati corrotti dal druido ribelle Brona per poi essere sconfitti ed esiliati al Sud. Era stata la magia a causare tutto ciò, ed era vista come una minaccia per chi vi entrasse in contatto. La gente del villaggio era superstiziosa e ignorante e chiamava in causa la magia per tutto ciò che non capiva. La famiglia che mi ha allevata temeva che la magia di mio padre affiorasse anche in me, e per questo mi considerava un'estranea. Ho cominciato a capire tutto questo a undici anni. "Il vasaio sapeva chi ero, anche se all'inizio non ne parlava. Non voleva ammettere di aver paura di una bambina, per quanto particolare, e si vantava di avermi presa come apprendista mentre nessun altro ne aveva avuto il coraggio. Me lo disse lui stesso, in seguito. Quando beveva gli si scioglieva la lingua." Scosse la testa tristemente e proseguì come se parlasse di cose ormai remote. "Lo lasciai tre anni più tardi. Aveva cercato di picchiarmi senza motivo una volta di troppo e io mi ero opposta. A quell'epoca la mia magia era ormai maturata ed era in grado di proteggermi. Però, fino a quel momento, non mi ero resa conto del suo vero potere. Per poco non lo uccisi. Così fuggii dal villaggio, da quella gente e dalla mia vita per non più ritornarvi. Quel giorno caprì una cosa che fino ad allora avevo soltanto sospettato. Caprì che ero davvero figlia di mio padre." S'interruppe; lo sguardo era fermo, ma il viso tradiva l'emozione. "Avevo scoperto la verità su mio padre, capisci? Il vasaio si era ubriacato per l'ennesima volta e me l'aveva rivelata. "Non sai chi sei? Non sai che cosa sei? La figlia di tuo padre! Una macchia nera sulla faccia della terra, la figlia di un demonio e della sua cagna! Hai gli stessi occhi, piccola strega! Hai lo stesso sangue! Sei inutile a tutti, tolto me, perciò è meglio che mi ascolti, quando ti do un ordine! Altrimenti non avrai nessun posto dove andare!" "Lo ripeteva tutte le volte, e poi mi picchiava.LO non mi preoccupavo dei colpi: sapevo come ripararmi e cosa dire per farlo smettere. Ma alla fine non ne ho potuto più di quelle umiliazioni. Quando me ne andai, avevo già deciso di fermarlo. Perciò, non appena insultò mio padre, io mi misi a ridere, a dirgli che era un bugiardo e un ubriacone. Che non sapeva niente di mio padre. Allora, lui perse del tutto il controllo. Mi insultò con parole irripetibili. Mi disse che mio padre era venuto dal Nord, dove abitavano quelli del suo ordine
infernale. Che era uno stregone e un ladro di anime. "Un demonio travestito da uomo! Con le sue vesti nere! I suoi occhi da lupo! Oh, sapevamo bene chi era! Sapevamo il suo segreto! E tu sei la sua immagine, silenziosa e attenta a tutto quello che succede! Credi che non ce ne siamo accorti? Lo sanno tutti, nel villaggio! Sai perché la famiglia che ti ha allevato non ti voleva più? Perché sapevano quello che sei! La figlia di un druido!"" Mareth trasse un profondo respiro e lo guardò, in attesa che parlasse. Voleva sentire la sua reazione, capì Bremen. Ne aveva bisogno, ma lui non fece commenti. "Penso che avesse ragione" proseguì allora la giovane, in tono di sfida inequivocabilmente indirizzato a lui. "E io stessa l'avevo già pensato. Avevo sentito parlare degli uomini dalla veste nera che si aggiravano nelle Quattro Terre e che abitavano al castello di Paranor. Maghi on nipotenti e onniscienti, creature più spirituali che umane, causa di molti dolori e sofferenze tra la gente del Sud. Di tanto in tanto si diceva che uno di loro era passato nelle vicinanze. "E una volta" dicevano, quando non si accorgevano della mia presenza "uno di loro si è fermato tra noi. Ha sedotto una donna ed è nata una figlia!" A quel punto alzavano la mano per fare gli scongiuri e tacevano. La persona di cui parlavano a bassa voce, con timore, era mio padre!" Mareth si protese verso di lui e Bremen si accorse che, così facendo, aveva spostato il nucleo della sua magia dall'interno del corpo alla punta delle dita, preparandosi a colpire. Un sospetto gli attraversò la mente, simile a una fitta dolorosa. Ma si impose di rimanere assolutamente calmo per darle il tempo di finire. "E sono giunta a credere" disse adagio Mareth, in tono deciso "che parlassero di te." La bottega stava per chiudere quando Kinson Ravenlock entrò per guardare meglio la spada. Era molto tardi e le strade cominciavano a svuotarsi. Kinson era stanco di cercare e stava meditando di trovarsi una locanda quando imboccò una strada con molte botteghe di armaioli e notò la spada. Era esposta in una piccola vetrina dai pannelli di vetro tenuti insieme da sbarre di ferro, ed era così lucida e brillante da richiamare la sua attenzione. Entrato nella bottega, continuò a fissare la spada, ammirato. Senza dubbio, era la più bella arma che avesse mai visto. Già dall'esterno, nemmeno il vetro fuligginoso e la scarsa luce erano riusciti a nascondere la lucentezza della lama e la precisione dell'affilatura. Era quasi uno spadone: sembrava troppo grande per una persona di normale statura. L'impugnatura era cesellata con grande perizia e raffigurava draghi e castelli su uno sfondo di alberi. C'erano altre lame più piccole, altrettanto pregevoli, che parevano fatte dalla stessa mano, ma Kinson aveva occhi solo per la spada. "Scusa, devo chiudere" gli disse l'armaiolo, che cominciava a spegnere le lanterne in fondo alla bottega. C'erano armi di ogni tipo, spade, daghe, stiletti, asce, lance e ogni altra sorta di lama, appese alle pareti e su ogni superficie libera, in rastrelliere e casse. Kinson diede un'occhiata in giro, ma tornò subito a guardare la spada. "Ti ruberò solo un attimo" rispose. "Mi serve un'informazione." L'armaiolo sospirò e si avvicinò. Era snello e robusto, con grandi spalle e mani forti, e dalla leggerezza con cui si muoveva dava l'impressione di saper maneggiare bene la sua merce, all'occorrenza. "Un'informazione sulla spada, vero?" Kinson sorrise. "Proprio così. Come l'hai capito?" L'uomo si strinse nelle spalle, poi si ravviò i capelli neri, che cominciavano
a diradarsi. "Ho visto la direzione del tuo sguardo, quando sei entrato. E poi, tutti mi chiedono della spada. Del resto, come dargli torto? Una delle più belle armi che si possano trovare nelle Quattro Terre. Di grande valore." "Ne sono certo" rispose Kinson. "E' per questo che non sei ancora riuscito a venderla?" L'armaiolo rise. "Oh, non è in vendita. E' solo per vetrina. Appartiene a me, e non la venderei per tutto l'oro del mondo. Una lavorazione di quel genere non si può comprare per denaro, e la si trova solo raramente." Kinson annuì. "E' una bella lama. Ma per maneggiarla ci vuole un uomo molto forte." "Come te?" chiese l'armaiolo, inarcando un sopracciglio. Kinson sporse le labbra, riflettendo. "Penso che sia troppo grande anche per me. Mi riferisco alla lunghezza." "Ah!" commentò l'armaiolo, divertito. "Lo pensano tutti! E' questa la meraviglia della lama. Ascolta, la giornata è stata lunga e io sono stanco. Ma ti mostrerò un piccolo segreto. E se ti piacerà quello che ti farò vedere, forse mi acquisterai un'arma e io guadagnerò qualcosa in cambio del mio tempo. D'accordo?" Kinson annuì. L'armaiolo si accostò alla vetrina, infilò la mano sotto il ripiano e fece scattare un lucchetto. Sfilò una catena avvolta abilmente sull'impugnatura per assicurare la spada al supporto, poi impugnò con attenzione l'arma. Si girò verso Kinson, gli sorrise e mosse la spada davanti a lui senza fatica, come se fosse leggerissima. Kinson lo guardò incredulo e l'armaiolo rise, poi gli passò la spada, ed il cacciatore della Frontiera, nell'impugnarla, rimase ancor più stupito. La spada era così leggera che si poteva brandirla con una sola mano. "Com'è possibile?" mormorò, osservando con attenzione la lama lucente, stupito sia della leggerezza sia della qualità della lavorazione. Poi guardò l'armaiolo: "Così leggera, non può avere nessuna forza!". "E' il metallo più robusto che tu possa trovare, caro amico" gli spiegò il mercante. "La lega e la tempra la rendono più forte del ferro, anche se pesa come una lama di stagno. Ma ora lascia che ti mostri un'altra cosa." Si fece restituire la spada da un Kinson sempre più ammirato e la rimise al suo posto, assicurandola di nuovo con la catena. Poi trasse dalla vetrina un coltello, con una lama lunga quasi due spanne, cesellato con gli stessi eleganti disegni della spada: evidentemente era opera della stessa mano. "Questa è la lama che fa per te" dichiarò piano il venditore, passandola a Kinson con un sorriso. "Questa te la posso vendere." Il coltello era meraviglioso come la spada, anche se meno impressionante come lunghezza. Kinson ne rimase subito affascinato. Leggero, perfettamente bilanciato, finemente cesellato, affilato come gli artigli di un gatto, era un'arma di una bellezza e una robustezza incredibili. Il cacciatore sorrise, come per riconoscere il valore dell'arma, e l'armaiolo gli restituì il sorriso. Kinson gli chiese il prezzo, e l'uomo glielo disse. Mercanteggiarono per qualche minuto e alla fine si misero d'accordo. Kinson spese quasi tutto il denaro che possedeva, che non era poco, ma non fu sfiorato neppure per un istante dalla tentazione di rinunciare all'acquisto. S'infilò alla cintura coltello e fodero e sentì che la lama poggiava bene sul fianco. "Grazie" disse. "E' stato un ottimo suggerimento." "E' il mio lavoro" si schermì l'armaiolo. "Ma devo ancora rivolgerti la domanda" disse Kinson, mentre l'altro faceva per accompagnarlo all'uscita. "Già, la domanda. Ma non ho già risposto? Pensavo che riguardasse la spada." "Riguarda la spada, certo" rispose
Kinson, con un'ultima occhiata all'arma. "Ma si tratta di farne un'altra. Un mio amico ha bisogno di un'arma come quella, ma dev'essere forgiata secondo le sue istruzioni. Il lavoro richiede un mastro armaiolo e l'uomo che ha fatto la tua spada mi sembra la persona giusta." Il venditore lo guardò come se fosse impazzito. Poi chiese: "vuoi farti fare una spada dal fabbro che ha fatto la mia?". Kinson annuì, poi si affrettò a chiedere: "Sei tu per caso?". L'uomo gli rivolse un pallido sorriso. "No. Ma tra chiederlo a me e chiederlo a colui che l'ha fatta c'è poca differenza, per quello che ti può servire." Kinson scosse la testa. "Non capisco." "Già, lo credo anch'io." L'uomo sospirò. "Ascolta allora, ti spiego come stanno le cose." La prima reazione di Bremen nell'udire le parole di Mareth fu di risponderle che era una supposizione ridicola. Ma l'espressione della giovane lo indusse a tacere. Doveva avere riflettuto a lungo, prima di arrivare a quella conclusione, e meritava di essere presa sul serio. "Mareth" le chiese gentilmente. "Che cosa ti fa pensare che sia tuo padre?" La notte intorno a loro profumava d'erba e fiori e la luce della luna e delle stelle spandeva sulle colline un colore argenteo che contrastava con la luce rossastra della città. Mareth distolse lo sguardo, come per cercare la risposta nella notte. "Mi ritieni una sciocca" commentò. "No, nient'affatto. Ma ti prego di dirmi come ci sei arrivata." Lei scosse la testa. "Da ben prima della mia nascita, i Druidi si sono chiusi a Paranor. Hanno lasciato le Razze e non vanno più tra la gente. Di tanto in tanto, uno torna a trovare la famiglia, ma nessun druido apparteneva al mio villaggio. In generale, pochi di loro si recano nella Terra del Sud. "Ma ce n'era uno che vi si recava regolarmente. Tu. Tu andavi nel Sud nonostante i sospetti contro i Druidi. Di tanto in tanto, qualcuno diceva di averti visto. La gente del mio villaggio sussurrava che eri tu il demone che aveva sedotto mia madre!" Tacque. Il suo respiro era affrettato. Lo sfidava a negare. La magia le crepitava sulla punta delle dita, sotto forma di scintille. Lo fissò con occhi roventi. "Ti cerco da sempre. La magia è come un peso che porto legato al collo, e ogni giorno mi ricorda la tua esistenza. Mia madre non ha potuto parlarmi di te: la sola cosa che avevo erano quelle dicerie. Ma sapevo che nei miei viaggi, prima o poi, ti avrei incontrato. Sono andata a Storlock per trovarti, ma non sei venuto. Cogline, però, mi ha permesso di entrare a Paranor, e laggiù, finalmente, ti ho visto." "Ecco perché sei venuta con noi" commentò Bremen. "Perché non me l'hai raccontato allora?" Lei scosse la testa. "Perché volevo conoscerti. Perché volevo sapere che tipo di uomo fosse mio padre." Bremen annuì, riflettendo. "E nel frattempo mi hai salvato due volte la vita. Una al Perno dell'Ade, un'altra a Paranor." Lei lo fissò, ma non fece commenti. "Io non sono tuo padre, Mareth" disse Bremen. "Oh, sapevo che avresti detto così!". "Se fossi tuo padre" continuò lui a voce bassa "sarei orgoglioso di ammetterlo. Ma non lo sono. All'epoca del tuo concepimento viaggiavo per le Quattro Terre, certo, e può darsi che sia stato nel villaggio di tua madre. Ma non ho figli: non ne posso avere. Ho moltissimi anni, perché mi ha mantenuto in vita il Sonno Magico. Ma quel Sonno mi ha tolto molte cose. Mi ha allungato la vita, ma mi impedisce di avere figli. Perciò non ho mai stretto rapporti con una donna, non ho mai avuto amanti. Sono stato
innamorato una volta, molto tempo fa, ma sono passati tanti anni che ricordo a malapena la faccia della donna che amavo. Fu prima che divenissi un druido, prima che scegliessi questa vita. Da allora, non ce n'è stata un'altra." "Non ti credo" replicò subito Mareth. Le rivolse un sorriso triste. "E invece mi credi. Tu sai che è la verità. Lo sai per istinto. Non sono tuo padre. Ma la verità potrebbe essere più sgradevole. Con la loro superstizione, gli abitanti del tuo villaggio hanno subito pensato a me, quando hanno visto uno straniero vestito di nero che praticava la magia. Però, ascolta, Mareth. Ci sono altre possibilità, e non ti piaceranno." Lei strinse le labbra. "In un certo senso, me l'aspettavo." "Nei giorni scorsi ho pensato alla natura della tua magia. La magia innata fa parte di te, come la carne e la pelle, ma è una dote rara. Era una caratteristica delle genti di Faerie, migliaia di anni fa, ma sono morti tutti tranne gli Elfi, i quali però l'hanno sostanzialmente persa. I Druidi, me compreso, non godono di alcuna forma di magia innata. Perciò, se tuo padre fosse stato un druido, da dove verrebbe la tua? Ma supponiamo che lo fosse. Quale druido ha quel tipo di potere? Un potere che ha richiesto l'uso della magia per ottenere il tuo concepimento?" "Oh, per tutte le ombre" mormorò la giovane, che cominciava a capire. "Aspetta, non fare commenti per ora" la invitò il vecchio druido. Le strinse le mani, e lei non le ritrasse. Aveva gli occhi spenti, l'espressione sconvolta. "Cerca di essere forte, Mareth. La gente del tuo villaggio ha descritto tuo padre come un demonio, uno spettro, una creatura delle tenebre che poteva cambiare aspetto. L'hai detto tu stessa. Non è il tipo di magia praticata dai Druidi, non la conoscono neppure. Ma ci sono altre creature che la praticano facilmente." "Menzogne" protestò Mareth, ma senza convinzione. "Il Signore degli Inganni ha al proprio servizio creature che assumono l'aspetto umano. Lo fanno per i più svariati motivi. Per corrompere le persone, per ingannarle, usarle. A volte lo fanno solamente per ritrovare una parte di quell'umanità che hanno perso quando sono passate al servizio del loro signore. La magia praticata da queste creature è diventata una parte così importante della loro natura e della loro identità che la usano senza pensare. Non si curano delle persone con cui entrano in contatto. Agiscono per puro istinto, appagando qualunque desiderio si impadronisca di loro in un dato momento." Mareth aveva le lacrime agli occhi. "Mio padre, allora?" Bremen annuì. "Spiegherebbe la tua magia. Magia innata, il dono che ti ha lasciato tuo padre. Non è una caratteristica dei Druidi, ma di una creatura per la quale la magia è divenuta la vita stessa. E' difficile da accettare, Mareth, ma è così." "E' vero" sospirò la giovane, con voce a malapena udibile. "Eppure, ero tanto sicura..." Abbassò la testa e pianse, stringendo le mani di Bremen. La sua magia si affievolì assieme al groviglio di rabbia che aveva dentro. Il druido le si avvicinò, le mise un braccio attorno alle spalle. "Ancora una cosa, bambina" le disse con dolcezza. "Io sarò ancora tuo padre, se lo vorrai. Ti farò da padre come se fossi mia figlia. Ho molta stima di te. Ti aiuterò a capire la natura della tua magia. E la prima cosa che devi tenere presente è che non sei tuo padre. Tu non sei affatto come lui, neppure in ciò che hai ereditato. La magia che possiedi è soltanto tua. Sei tu a doverne sopportare il potere, e si tratta di un peso molto gravoso. Ma anche se la magia ti è venuta da tuo
padre, non è essa a stabilire il tuo carattere e il tuo cuore. Tu sei una persona retta e forte, Mareth. Non hai nulla della malvagia creatura che ti ha generato." Mareth gli appoggiò la testa alla spalla. "Come puoi dirlo? Potrei essere proprio così." "No" la rassicurò. "Non sei come lui, figliola. Assolutamente." Le accarezzò i capelli, la tenne stretta e la lasciò piangere, lasciò che eliminasse il dolore di tanti anni. Quando si fosse ripresa, si sarebbe sentità vuota: occorreva darle la speranza e uno scopo. E Bremen pensava di sapere come. Passarono due intere giornate prima che Kinson Ravenlock ritornasse. Arrivò al tramonto, uscendo dallo sfondo delle luci rossastre dei fuochi di Dechtera. Era impaziente di raggiungerli, per comunicare le novità. Si tolse il mantello impolverato e li abbracciò con calore. "Ho trovato l'uomo che ci occorre" annunciò, sedendosi sull'erba e accettando l'otre di birra che Mareth gli porgeva. "Secondo me, è proprio l'uomo che cerchiamo." Sorrise loro, poi scosse la testa. "Purtroppo, però, non è d'accordo con me. Qualcuno dovrà convincerlo, e per questo sono tornato." Bremen annuì. "Bevi, mangia qualcosa e poi raccontaci tutto." Kinson reclinò la testa all'indietro e cominciò a bere. L'ultimo bagliore del sole spariva sotto l'orizzonte e la luce diminuiva in fretta. Nel balenare rapido di quel passaggio, a Kinson parve di cogliere una leggera preoccupazione nello sguardo del vecchio druido. Senza parlare, lanciò un'occhiata a Mareth, che lo guardò a sua volta con aria di sfida. Il cacciatore della Frontiera abbassò l'otre e studiò per qualche istante i compagni. "E' successo qualcosa, durante la mia assenza?" Per qualche istante scese il silenzio. Poi fu Bremen a rispondere. "Ci siamo raccontati delle vecchie storie" disse con un sorriso malinconico. Guardò Mareth e poi Kinson. "Ne vuoi ascoltare una?" Il cacciatore annuì, perplesso. "Se pensi che ci sia tempo." Bremen prese la mano di Mareth, che non la ritirò. La giovane aveva gli occhi lucidi. "Penso che dobbiamo trovarlo, per questa" disse il vecchio druido. E dal modo in cui lo disse, Kinson capì che era vero. 23 Urprox Screl sedeva sulla solita panca davanti alla bottega chiusa, con lo scalpello in una mano, il pezzo di legno nell'altra. Le sue mani si muovevano agili: con l'una girava il legno, con l'altra lo intagliava facendo volare via trucioli lunghi e sottili. Stava scolpendo qualcosa di bello e aggraziato, anche se per il momento non aveva ancora deciso di cosa si trattava. Il mistero era una componente del divertimento. Un pezzo di legno suggeriva sempre alcune possibili figure, quando lo si osservava con sufficiente attenzione. La scelta dell'immagine veniva da sé, con il proseguire del lavoro. In fondo, era la scultura stessa a decidere quello che voleva diventare. Su Dechtera scendeva la sera, e lontano dai forni la luce diventava sempre più grigia. Faceva molto caldo, ma Urprox Screl c'era abituato. Poteva starsene in casa, con Mina e i figli, sulla sedia a dondolo nel portico o all'ombra del vecchio noce. In casa, lontano dal centro della città, faceva fresco e regnava il silenzio. Purtroppo, era quello il problema. Sentiva la mancanza del caldo, del chiasso, dell'odore dei forni. Quando lavorava gli piaceva sentirli, e per tanti anni l'avevano accompagnato costantemente. E poi
quello era il suo luogo di lavoro. Vi si era recato ogni giorno, per quarant'anni. Era la bottega di suo padre e forse lo sarebbe stata per i suoi figli. Quando lavorava, gli piaceva trovarsi lì, dove la sua arte e il suo lavoro avevano inciso così profondamente la sua vita e quella degli altri. Era un'affermazione un po' troppo orgogliosa, forse. Ma lui era un uomo orgoglioso. Matto, secondo alcuni. Solo Mina lo capiva. Capiva sempre tutto, del marito, e questo era più di quanto si potesse dire delle mogli degli altri. Al pensiero della moglie sorrise. Prese a fischiettare tra sé. La gente passava per la strada, davanti alla bottega di Urprox Screl, come tanti castori presi dalle loro incombenze. Lui li osservava tutti con la coda dell'occhio, senza farsi scorgere. Alcuni erano amici: negozianti, artigiani, operai che conosceva da quando aveva cominciato a lavorare. In genere l'avevano ammirato: la sua abilità, le sue opere. Alcuni, in passato, avevano addirittura sostenuto che lui incarnava il cuore e lo spirito della città. Sospirò. Gli era passata la voglia di fischiare. Certo, li conosceva, ma da tempo avevano smesso di intrattenersi con lui. Se li fissava, si limitavano a un cenno del capo, senza fermarsi. Lo evitavano quasi tutti, come se fosse stato colpito da una disgrazia e temessero che la malasorte li contagiasse. Ancora una volta, si chiese perché non riuscissero ad accettare la sua decisione. Posò di nuovo gli occhi sulla scultura che stava intagliando. Un cane in corsa, con la testa alta e le zampe levate. Decise di donarlo ad Arken, il figlio della sua primogenita. In genere regalava le sue sculture, anche se avrebbe potuto venderle. Ma non aveva bisogno di denaro: ne aveva a sufficienza e in caso di bisogno poteva guadagnarne. Ciò che gli mancava erano la pace interiore e uno scopo nella vita. Purtroppo, anche dopo due anni dalla sua decisione, non era riuscito a trovarli. Si girò a guardare la costruzione dietro di lui, singolarmente buia e silenziosa in mezzo alla cacofonia della città. Il portone era chiuso: non aveva perso tempo ad aprirlo. A volte lo faceva, per avere l'impressione di lavorare davvero, ma ultimamente lo lasciava chiuso, perché lo deprimeva la visione dell'interno buio e silenzioso, e poi avrebbe richiamato l'attenzione dei passanti, i quali gli avrebbero chiesto se non avesse cambiato idea. Con la punta del piede spostò i trucioli. Era meglio che il passato rimanesse chiuso. Si alzò per andare ad accendere la lanterna appesa sopra un ingresso laterale che gli avrebbe permesso di continuare il lavoro. Sapeva che avrebbe fatto meglio a tornare a casa, ma si sentiva stranamente irrequieto, e non riusciva a separarsi dai rumori della città. Dechtera era una città molto particolare, che parlava con un linguaggio tutto suo. Lo si poteva capire oppure no, ma, se non lo si capiva, se non se ne sentiva il fascino, era meglio trasferirsi da qualche altra parte. Negli ultimi tempi, per la prima volta nella sua vita, aveva cominciato a pensare di avere ascoltato a sufficienza quel linguaggio. Rifletteva su quella nuova idea, e aveva smesso di scolpire il legno, quando vide arrivare tre forestieri. Non li vide subito, perché indossavano mantelli scuri con cappuccio, era già scesa la sera e la strada era affollata, ma li fissò con curiosità quando si diressero verso di lui. Nessuno era più venuto a trovarlo, negli ultimi mesi. Lo colpirono i cappucci: non faceva un po' troppo caldo per tenerli alzati? Che avessero qualcosa da nascondere? Il fabbro si alzò per salutarli. Era alto e magro, con
braccia massicce, petto ampio, mani enormi. Aveva il viso stranamente liscio per la sua età, abbronzato e dai tratti decisi. Portava una rada barbetta e i capelli neri si stavano ritirando dalla sommità del capo verso le orecchie e il collo. Posò la scultura e lo scalpello, e attese con le mani appoggiate sui fianchi. Quando i tre lo raggiunsero, il più alto si sfilò il cappuccio, e Urprox Screl lo riconobbe e lo salutò. Era il suo visitatore del giorno prima, l'uomo della Frontiera, venuto da Varfleet: un tipo tranquillo, serio, con molte più cose per la mente di quante non ne dicesse. Aveva comprato un coltello ed era venuto a complimentarsi per l'eccellenza del suo lavoro. Almeno, così aveva detto, e aveva promesso che sarebbe tornato. "Hai mantenuto la promessa" lo salutò. "Kinson Ravenlock" gli rammentò l'uomo. Urprox Screl annuì. "Ricordo." "Questi sono gli amici che volevo presentarti." I due si sfilarono il cappuccio: erano una giovane donna e un vecchio. "Mi chiedevo se potevamo parlarti per qualche minuto." Il fabbro li studiò, senza rispondere subito. Provò una vaga inquietudine, un senso di disagio. Chiaramente, quei tre avevano fatto molta strada e non si sarebbero arresi con facilità. L'uomo della Frontiera gli aveva chiesto il permesso per educazione, non perché intendesse lasciargli scelta. Sorrise. Nonostante i presentimenti, era incuriosito. "Di cosa volete parlarmi?" Fu il vecchio a farsi avanti, e il cacciatore della Frontiera si fece da parte. "Abbiamo bisogno della tua abilità di fabbro." Urprox Screl continuò a sorridere. "Ho cessato l'attività." "Kinson dice che sei il più abile e che il tuo lavoro è il migliore che abbia visto. Non lo direbbe se non fosse vero. Conosce bene le armi e gli armaioli. Kinson ha viaggiato molto nelle Quattro Terre." Il cacciatore assentì. "Ho ammirato la spada di quel venditore. Non ho mai visto una lavorazione simile. Hai un talento senza uguali." Urprox Screl sospirò. "Non perdete altro tempo. Ero bravo in quel lavoro, ma non lo faccio più. Non lavoro più il metallo, non accetto incarichi particolari. Adesso scolpisco il legno." Il vecchio annuì, senza scomporsi. Fissò la scultura che Urprox aveva posato sulla panca. "E' tua?" chiese. "Posso guardarla?" Urprox si strinse nelle spalle e gliela porse. Il vecchio la studiò con attenzione, ne seguì le linee col dito, sinceramente interessato. "E' molto bella" disse infine, passandola alla giovane, che la prese senza fare commenti. "Ma non come le armi che hai fatto. La tua vera abilità sta là. Nel lavorare il metallo. E' da molto tempo che scolpisci il legno?" "Fin da bambino" rispose Urprox, a disagio. "Cosa volete da me?" "Dovevi avere una ragione molto importante" continuò il vecchio, senza rispondergli "per tornare a scolpire il legno dopo un tale successo come armaiolo." Urprox si sentì saltare la mosca al naso. "Importantissima, e non ho intenzione di discuterne con voi." "Certo, ma temo che dovrai farlo. Abbiamo bisogno di te, e sono venuto qui per convincerti ad aiutarci." Urprox lo guardò stupefatto, non era abituato a tanta sincerità. "Be', almeno sei onesto. Ma adesso che so le tue intenzioni potrò respingere meglio i tuoi tentativi. Sprechi il tuo tempo." Il vecchio sorrise. "Le sapevi già. Avevi già capito che abbiamo fatto molta strada per venire da te e che perciò ti consideriamo molto importante. Dimmi, allora: perché hai smesso di lavorare il metallo, dopo tanto tempo?" Urprox Screl aggrottò la fronte. "Ero stufo." Non aggiunse altro, e dopo qualche istante il vecchio commentò: "Sono sicuro
che c'erano altri motivi". S'interruppe, e Urprox ebbe l'impressione che i suoi occhi fossero diventati bianchi, fissi e impenetrabili come quelli di una statua. Gli parve che il vecchio gli leggesse nel cuore. "Hai perso il coraggio" disse infatti, a bassa voce. "Sei un uomo gentile, con moglie e figli, e nonostante la tua forza fisica non ami la violenza. Ma le tue armi uccidevano e ferivano, e infine hai deciso di non fabbricarne altre. Potevi permettertelo e avevi un'altra attività. Perciò non hai più acceso il forno e ti sei dedicato ad altro. La sola che lo sa è tua moglie Mina. Nessuno degli amici ti ha capito. Ti giudicano pazzo. Ti evitano come se avessi una malattia contagiosa." Gli occhi ritornarono normali e lo fissarono. "Sei diventato uno straniero nella tua stessa città e non ne capisci la ragione. Ma la verità è che possiedi la benedizione di un talento senza pari, e chiunque conosca il tuo lavoro non accetta che tu lo sprechi così." Urprox Screl sentì un brivido. "Puoi pensare quello che vuoi . Ma adesso che me l'hai detto, non ho più voglia di parlare con te. Ti pregherei di andartene." Il vecchio si guardò attorno, ma non si mosse. La folla si era diradata, la notte avanzava, e all'improvviso Urprox Screl si sentì solo e indifeso. A portata di voce c'erano molti conoscenti che l'avrebbero aiutato, eppure si sentì completamente isolato. La giovane donna gli restituì la scultura. Nel prenderla, Urprox la guardò negli occhi e fu attratto da lei in modo inspiegabile. In qualche modo, capì che la giovane aveva compreso perfettamente la sua decisione. Era lo stesso sguardo di Mina, e il fabbro fu sorpreso di vederlo sul volto di una sconosciuta. "Chi siete?" chiese guardandoli tutti e tre. Anche ora, fu il vecchio a parlare. "Siamo tre persone a cui è stato affidato un incarico di vitale importanza. Abbiamo fatto molta strada per portarlo a termine. Tu sei importante per il nostro scopo, ma sei solo una delle tante componenti che ci occorrono. Ci serve una spada, Urprox Screl, una spada diversa da tutte le altre. Occorre la mano di un grande fabbro per forgiarla. Avrà doti straordinarie e non servirà per uccidere, ma per salvare. Sarà al tempo stesso il lavoro più difficile e più bello che tu o chiunque abbia mai fatto." Il fabbro sorrise nervosamente. "Grandi parole. Ma non so se posso crederci." "Non vuoi crederci perché non vuoi forgiare altre armi. Perché ti sei fatto una promessa e vuoi mantenerla." "Esatto. Quella parte della mia vita è finita. L'ho giurato e non tornerò indietro, nemmeno per voi." "E se ti dicessi" continuò il vecchio, in tono grave "che forgiando quella spada salverai migliaia di vite? Cambieresti idea?" "Sì, ma è impossibile" insistette Urprox, con ostinazione. "Nessuna arma può essere in grado di farlo." "E se tra le vite che puoi salvare ci fossero anche quelle di tua moglie e dei tuoi figli? E se il tuo rifiuto costasse loro la vita?" Il fabbro gonfiò il petto. "Adesso è in pericolo anche la mia famiglia? Devi essere davvero disperato, per arrivare a queste minacce!" "E se ti dicessi che queste cose succederanno entro pochi anni?" Urprox cominciò a vacillare. Il vecchio sembrava assai convinto. "Chi sei?" gli chiese di nuovo. Il vecchio gli si avvicinò. "Mi chiamo Bremen" gli rispose, fissandolo. "Mi conosci?" Urprox annuì lentamente. Per non arrendersi subito, dovette fare appello a tutte le sue forze. "Ho sentito parlare di te. Sei uno dei Druidi." Il vecchio sorrise. "E questo ti fa paura?" "No." "Hai paura di me?" Il fabbro non rispose. Si limitò a serrare la mascella. Bremen annuì. "Non
devi avere paura. Sono tuo amico, anche se puoi aver pensato il contrario. Non intendo minacciarti. Dico solo la verità. Ci occorre il tuo talento, ne abbiamo disperatamente bisogno. Il pericolo riguarda tutte le Terre. Noi combattiamo per salvare la vita a molte persone, tra cui ci sono di sicuro tua moglie e i tuoi figli. Non esagero nel dirti che soltanto noi possiamo salvarli." Urprox sentì di nuovo vacillare la sua determinazione. "Ma di cosa si tratta, esattamente?" Il vecchio fece un passo indietro. "Te lo mostrerò." Sollevò la mano e la passò davanti alla faccia del fabbro. Questi vide l'aria animarsi e brillare, assumere forma e colore. Vide le rovine di una città, gli edifici abbattuti, l'aria grigia per il fumo degli incendi. Era Dechtera. La gente giaceva per strada e nelle case, morta. Le uniche forme che si muovevano per curvarsi sui cadaveri non erano umane, ma mostruose e perverse. Era una visione... ma con tutte le parvenze della realtà. La visione svanì. Con un brivido, Urprox scorse di nuovo il vecchio. "Hai visto bene?" chiese il druido. Il fabbro annuì. "Era il futuro di questa città. Quando cadrà Dechtera, il Nord sarà già caduto, Elfi e Nani saranno stati distrutti. L'onda tenebrosa che li sta travolgendo sarà arrivata fin qui." "E' una menzogna!" protestò il fabbro. Angosciato, spaventato, non fu capace di ragionare. Negò la visione. Mina e i suoi figli morti? Morti tutti coloro che conosceva? No, non era possibile! "Una sgradevole verità" lo corresse Bremen. "Non una menzogna." "Non posso credere a una cosa simile! Non ti credo!" "Allora, guardami negli occhi" gli ordinò il vecchio. Incapace di opporsi, Urprox Screl fece come gli era stato ordinato. Fissò gli occhi di Bremen e anche ora li vide diventare bianchi. In qualche modo incomprensibile, gli parve che la sua essenza venisse aspirata verso di essi, e gli apparvero immagini di ciò che era già successo e di ciò che stava per succedere, immagini così sconvolgenti che gridò, disperato: "Basta! Non farmi vedere altro!" e chiuse gli occhi contro quell'assalto. Bremen abbassò lo sguardo e Urprox Screl sentì di nuovo lo stesso brivido gelido di prima, che ora gli percorse tutto il corpo. Il vecchio annuì. "Io ho finito con te. Da quello che hai visto, hai capito che ho detto la verità. Accetta la mia parola: la mia necessità è vera e autentica. Aiutami a fare ciò che devo." Urprox annuì. Sentiva una profonda oppressione al petto. "Ti ascolterò" concesse a malincuore. "Questo, almeno, posso farlo." Ma già sapeva che avrebbe fatto anche il resto. Urprox si sedette sulla panca e Bremen prese posto accanto a lui, come due vecchi amici che parlassero di lavoro. Il cacciatore della Frontiera e la giovane donna li ascoltavano, in piedi accanto a loro. Lungo la strada, la gente continuava a passare senza fermarsi. Forse non li vedeva, pensò Urprox Screl. Forse erano invisibili. Infatti, non appena Bremen ebbe cominciato a parlare, il fabbro si rese conto di quanta magia fosse coinvolta in quel lavoro. Per prima cosa, Bremen gli parlò del Signore degli Inganni e della conquista delle Terre del Nord. L'Est era stato invaso e poi sarebbe toccato all'Ovest. Il Sud sarebbe stato l'ultimo, e a quel punto, come nella visione apparsa al fabbro, non ci sarebbe stato scampo. Il Signore degli Inganni era una creatura di magia sopravvissuta al di là della sua vita mortale, che aveva chiamato a sé mostri dalla forza sovrannaturale. Le normali armi non erano in grado di colpirlo. Occorreva una spada di ferro e di magia, una lama in cui si unissero le
conoscenze dei Druidi e dei fabbri, magiche e scientifiche. "Dev'essere forte nei due campi" spiegò Bremen. "Deve resistere a qualsiasi arma le venga opposta, di ferro o di magia. Il metallo dovrà essere il più robusto che si possa creare, e occorreranno scienza e magia. Tu fornirai la prima, io la seconda. Ma il tuo lavoro sarà la parte più importante, perché se la spada fosse priva delle sue caratteristiche fisiche, la mia magia non farebbe presa." "Cosa sai della lavorazione dei metalli?" chiese Urprox che, suo malgrado, cominciava a provare interesse. "I metalli e le varie temperature devono essere questi, perché la lega acquisti la robustezza voluta" rispose Bremen, porgendogli le istruzioni di Cogline. Urprox lesse con attenzione la pergamena, annuendo di tanto in tanto. Sì, la lega era giusta, e così le prime temperature, poi si fermò, sorridendo. "Questo calore!" "Hai letto con attenzione? Nessuno ne ha più raggiunto di simili da quando è stato distrutto il vecchio mondo! Forni e formule sono spariti insieme. Non abbiamo il modo di raggiungere questi risultati." Bremen annuì, poi chiese: "A che temperatura resiste la tua forgia? A che calore può arrivare?". Il fabbro si strinse nelle spalle. "Qualsiasi calore si possa generare. Io stesso l'ho costruita, e la parete è di mattoni refrattari, incastrati fra loro senza calce. Non è il forno a preoccuparmi. Il problema è il fuoco. Non abbiamo un combustibile in grado di farci raggiungere la temperatura richiesta dalla formula. Dovresti saperlo." Bremen si fece ridare il foglio. "Ci basta arrivare per breve tempo alla temperatura più alta. E posso occuparmene io." Urprox annuì. Il druido intendeva usare la magia per alzare la temperatura della fusione. Ma era davvero possibile? Era una temperatura enorme. Gli rivolse un'occhiata dubbiosa "Sei disposto a farlo?" gli chiese Bremen. "Un'ultima accensione del forno, un'ultima fusione?" Il fabbro esitò per qualche istante, preso nel dilemma. Da una parte c'erano le sue promesse di due anni prima, dall'altra la sfida di costruire una simile arma, davvero unica, per salvare la famiglia e la città. Ammise che aveva dei buoni motivi per dire di sì. E anche per dire di no. "Abbiamo bisogno di te, Urprox" intervenne il cacciatore della Frontiera, e la giovane donna assentì senza parlare. Tutti attesero la sua riposta. Be', pensò, le sculture in legno non avevano la perfezione dei suoi lavori in metallo, lo sapeva anche lui. Erano una scusa. In fondo, era sciocco fingere che la sua decisione servisse a cambiare il mondo. Perciò poteva benissimo forgiare un'ultima spada, che avrebbe salvato innumerevoli vite. Il vecchio aveva detto la verità? Non poteva esserne certo, ma pensava che l'avesse detta. Per tutta la vita si era vantato di saper riconoscere gli uomini, oltre ai metalli. Quell'uomo, druido o meno, era onesto e leale, credeva nella propria causa. Così, finì per annuire e per stringersi nelle spalle, dicendo: "Be', se è l'unico modo per evitare ulteriori seccature da parte vostra, ti farò la spada che desideri tanto!". Discussero fino a tardi di quello che occorreva per forgiare la spada. Urprox doveva procurarsi i metalli da fondere e il carbone per accendere la fornace, e sarebbe occorso qualche giorno per far salire la temperatura al valore richiesto per l'inizio della lavorazione. La fusione in sé avrebbe richiesto poco tempo, se Bremen fosse stato in grado di alzare la temperatura nelle ultime fasi. La matrice era pronta da tempo e per darle le caratteristiche volute da Bremen sarebbe bastata qualche
modifica. Bremen gli mostrò il medaglione con l'immagine del pugno che stringeva la fiaccola, e gli disse che era l'Eilt Druin, e che occorreva incastonarlo nell'impugnatura dell'arma. Urprox scosse la testa, dicendo che il calore l'avrebbe fuso, ma Bremen gli disse di non preoccuparsi. L'Eilt Druin era stato creato con la magia e poteva essere distrutto solo dalla magia. Il fabbro non sapeva se credergli o no, ma non fece commenti. La cosa non lo riguardava, dopo tutto, lui doveva soltanto controllare che lega e temperature corrispondessero alle istruzioni. In tre giorni avrebbe fatto il lavoro. Però, c'erano altre considerazioni. Tutti sapevano che aveva smesso di lavorare, e di conseguenza avrebbero fatto domande, nel vedere che il forno era acceso. Il vecchio, però, gli disse di non preoccuparsi. Mentre Urprox Screl si occupava dei fuochi e dei metalli, lui e i suoi compagni si sarebbero occupati della curiosità dei concittadini. Quella notte si salutarono con una stretta di mano e il fabbro, nel tornare a casa, sentì crescere l'eccitazione per quel nuovo genere di lavoro. L'indomani mattina, mentre facevano colazione, parlò a Mina della sua decisione. Come sempre, non le nascose niente. La moglie gli chiese alcuni particolari, ma non cercò di fargli cambiare idea. Toccava a lui decidere, disse, perché solo lui poteva sapere cosa gli veniva chiesto e a quali conseguenze andava incontro. Secondo lei, aveva fatto bene ad accettare. Quanto ai tre forestieri, non doveva dare ascolto alle voci del popolino sui Druidi, ma giudicarli dalle loro azioni e dalla loro sincerità. Come sempre, Mina l'aveva capito meglio di chiunque altro. Quel pomeriggio arrivò il carbone, scavato nelle miniere dell'Est e portato con le chiatte fino a Dechtera, il portone fu spalancato e il forno venne acceso. Arrivarono anche i metalli scelti secondo le istruzioni di Cogline, e Urprox Screl cercò le matrici e le pulì. Lavorò da solo, rifiutando l'aiuto offerto dagli altri. Si era costruito lui stesso l'attrezzatura: con ingegnosi sistemi di carrucole e di manovelle gli bastava una sola mano per spostare ciò che gli serviva. Quanto ai curiosi, si limitarono a guardare, senza entrare e senza rivolgergli domande, come lui aveva temuto. Si diceva - anche se nessuno sapeva dire da dove venisse la voce - che Urprox Screl aveva acceso il forno non perché avesse intenzione di rimettersi in affari, ma perché stava trattando la cessione della bottega e l'acquirente voleva assicurarsi che il forno funzionasse come promesso. Era un uomo del Sud, si diceva, che si era fatto accompagnare dalla giovane moglie e dal padre, un uomo avanti negli anni. Di tanto in tanto li si poteva vedere accanto a Screl, nella bottega, o in qualche altra parte della città, a informarsi sulla convenienza dell'acquisto. Per Urprox il tempo passò in fretta. I suoi dubbi svanirono quando riprese il lavoro, entusiasta all'idea del compito che lo attendeva. A memoria d'uomo, nessun fabbro aveva mai lavorato con la magia, nelle Quattro Terre, e l'idea di farlo era eccitante. Sapeva in cuor suo quello che Kinson Ravenlock aveva affermato, ossia di essere il migliore armaiolo esistente. Adesso gli veniva chiesto di superare se stesso, di creare un'arma assolutamente straordinaria, ed era lusingato dalla fiducia che gli veniva dimostrata. Non sapeva se la spada potesse fare ciò che il vecchio druido si aspettava da essa, se potesse fermare il Signore degli Inganni. Ma lasciava a Bremen quel problema e pensava soltanto al lavoro che lo attendeva e che andava al di là della sua immaginazione. Era così preso
dai preparativi che soltanto due giorni dopo si ricordò di come nessuno avesse accennato al pagamento... ma dopo un istante capì che il pagamento, in ciò che stava facendo, era proprio l'aspetto meno importante. Constatò con piacere di non essersi dimenticato nulla, nei due anni di inattività. Accese il fuoco e controllò la temperatura del forno facendo fondere piccole quantità di metalli diversi. Di tanto in tanto comparivano il druido e i suoi due compagni per chiedergli se avesse bisogno di loro. Non sapeva dove andavano quando non erano con lui. Si domandava se il pericolo era veramente grave come gli aveva detto il vecchio e rifletteva sul proprio coinvolgimento. Ma a quel punto non avrebbe fatto differenza: ormai aveva preso l'aire e niente poteva fermarlo. Pensava solo al lavoro e si stupiva di essere riuscito a farne a meno per tanto tempo: l'acre odore del carbone, il suono del metallo gettato nel crogiolo, il calore della vampa sulla pelle, le ceneri e il fumo del camino erano come vecchi amici che venivano a salutare il suo ritorno. Era preoccupato dalla facilità con cui aveva ceduto e si chiedeva se sarebbe stato davvero in grado di smettere, una volta finito quel lavoro. Il terzo giorno, verso sera, i tre fecero ritorno. La forgia era pronta e sembravano saperlo anche se non gliel'aveva detto. I metalli erano già nel forno, crogioli, tenaglie e matrici aspettavano soltanto di essere usati. Urprox Screl conosceva la formula a memoria. Per qualche tempo sedettero sulla soglia della bottega, aspettando che la città e la sua gente andassero a riposare. Non parlarono, e pian piano, attorno a loro, i rumori cessarono: la popolazione della città era come un mare che si frangeva contro rocce sempre più lontane. Le taverne e le case si riempirono progressivamente, la gente sparì dalla strada. Il vecchio si alzò e prese per mano Urprox. "Questa notte dovrai fare la tua opera migliore" disse. "Dovrà essere così, se vogliamo essere certi del risultato." Il fabbro annuì. Si era spogliato fino alla cintola e i suoi muscoli luccicavano di sudore. "Io farò la mia parte. Tu cerca di fare la tua." Bremen sorrise alla battuta. "Non hai paura di ciò che stai per fare, vero?" "Paura? Del fuoco e del metallo? Di fare una spada dopo che ne ho fatte migliaia, anche se questa sarà forgiata dalla magia?" Scosse la testa. "Sarebbe come aver paura dell'aria che respiro. E' solo una variante di ciò che ho fatto per tutta la vita. Di cosa dovrei aver paura? Di sbagliare? Di non farcela?" "La magia è imprevedibile. Anche se ti comporterai come sempre, la magia potrebbe tradirci." Il fabbro studiò per qualche istante il druido, poi rise. "Tu non credi che possa succedere. Nel tuo campo, sei esperto quanto io lo sono nel mio. Moriresti piuttosto di sbagliare magia." I due si guardarono in silenzio mentre la vampa della fornace illuminava il loro volto. "Mi vuoi mettere alla prova un'ultima volta" disse il fabbro. "Non preoccuparti. Sono pronto." Ma il druido scosse la testa. "Cerco di valutare i possibili effetti su di te. Non puoi accostarti alla magia e uscirne senza alcun cambiamento. Dopo questa notte, la tua vita non sarà più la stessa. Devi saperlo." Urprox Screl lo guardò con ironia. "Io spero che sia così. Ti confesso una cosa. A parte Mina e i miei figli, sono stufo della mia vita attuale. L'ho capito soltanto dopo averti incontrato. Adesso che lo so, saluterei con gioia qualsiasi cambiamento." Sentì che lo sguardo del druido penetrava dentro di lui e si chiese se non avesse parlato
avventatamente. Poi Bremen annuì. "Bene. Cominciamo." Per anni, dopo quella notte, si parlò dell'accaduto; e le voci, passando di bocca in bocca, si rivestirono dei colori della leggenda. Venivano dalle fonti più disparate, ma tutte avevano preso le mosse da qualcuno che, passando, si era fermato a dare un'occhiata a quello che succedeva nella bottega di Urprox Screl. Il portone era aperto per il ricambio dell'aria, e coloro che si avvicinarono videro scene che sembravano frutto di follia. Quella notte Urprox Screl forgiò una spada, ma nessuno seppe dire con esattezza in che modo l'avesse fatto. L'unico particolare su cui concordarono tutti i testimoni fu la descrizione dei presenti, che si muovevano come spettri intorno alla fornace, per portare avanti e indietro l'occorrente per la fusione. C'era il fabbro, il più famoso armaiolo della città, colui che da due anni aveva lasciato il lavoro e che poi, senza parlarne con nessuno, vi era ritornato per una notte. C'era il vecchio vestito di nero, che a volte pareva quasi trasparente, a volte duro e impervio come la pietra. E c'erano l'uomo della Frontiera e la giovane donna. Ciascuno sembrava avere un proprio ruolo. Il fabbro e il vecchio lavoravano l'uno accanto all'altro per forgiare la spada. L'uomo della Frontiera li aiutava andando a prendere questo o quello, mettendo a disposizione la sua forza. La fanciulla stava accanto alla porta e si assicurava che nessuno entrasse o si fermasse troppo a lungo. Stranamente, fu lei a colpire maggiormente i visitatori. Alcuni riferirono che cambiava forma per allontanare i curiosi, e per un momento diventava una bestia dei mondi inferi o un leone di palude. Altri dissero che aveva danzato nuda davanti alla fornace, in un rito propiziatorio della tempra del metallo. Altri ancora sostennero che bastava una sua occhiata per precipitare un uomo nella follia. Tutti affermarono che era ben più di quello che sembrava. Sul fatto che quella notte si fosse usata la magia, tutti erano d'accordo. Il bagliore del fuoco era troppo intenso, il calore troppo alto, il crepitio, quando venne versato il metallo fuso, troppo acuto. Alcuni dissero di aver visto uscire dalle mani del vecchio una luce incandescente che aveva alimentato il fuoco della forgia, aveva contribuito a sollevare il crogiolo e poi, dopo la fusione, aveva lucidato la spada e le aveva dato il filo. Mentre il fabbro infilava nella fornace i vari metalli, mentre mescolava la lega e ne toglieva le scorie, il vecchio continuava a intonare una sua arcana salmodia. Il metallo entrò nel fuoco e ne uscì. La fusione venne versata nella matrice, temprata, martellata. E ogni volta si accese la magia del vecchio, per contribuire al procedimento. Oh, certo, nella fusione di quella spada s'era impiegata la magia: tutti i testimoni lo riferirono. Parlarono anche dell'immagine di una mano che stringeva una fiaccola. Nessuno ne conosceva il significato, ma era onnipresente. Alcuni la videro su un medaglione che il vecchio trasse di tasca. Altri la videro proiettata sulle pareti o sul soffitto dal riflesso delle fiamme. Altri ancora la videro levarsi dalle fiamme stesse, nel momento in cui il fuoco era più caldo, come uno spirito si leva dal corpo dopo la morte. Ma coloro che la videro per ultimi dissero che era incastonata nell'impugnatura della spada, fusa con il metallo: la mano pareva stringere l'impugnatura della spada e la fiamma della fiaccola sembrava percorrere la lama fino alla punta. Per fondere, temprare, modellare e affilare la spada occorse il resto della notte.
Quando la lama rovente venne tuffata nell'acqua perché prendesse la tempra, si udirono strani rumori, e non solo il fischio del vapore. Così, nel fuoco della fornace c'erano colori che nessuno aveva mai visto, un arcobaleno che trascendeva quello noto a qualsiasi fabbro in quella città di fabbri. Nell'aria si coglievano sapori e odori sconosciuti: coloro che passavano davanti alla fornace davano un'occhiata, si meravigliavano di quelle esplosioni di luce e poi, colti da una strana oppressione, si affrettavano ad allontanarsi. All'alba la spada era pronta e i tre forestieri erano spariti. Nessuno li vide allontanarsi. Nessuno seppe mai dove fossero andati. Anche la spada era scomparsa, e si disse che l'avessero presa i tre. Per tutto il giorno la bottega rimase vuota, mentre il forno si raffreddava. Prima che si raffreddasse del tutto sarebbero passati parecchi giorni. Alcuni che si avvicinarono all'ingresso per curiosare riferirono che il pavimento scintillava come per un fuoco fatuo. Magia, sussurravano. Senza dubbio. Urprox Screl andò a casa e non ritornò. La bottega, annunciò, era di nuovo chiusa. Parlò ai vicini e ai conoscenti in tono normalissimo e disse loro che non era successo niente di strano. Aveva forgiato una spada per un potenziale acquirente, il quale gli aveva chiesto qualche giorno per riflettere. Nel dirlo, sorrideva. Sembrava tranquillo, ma aveva lo sguardo lontano, distratto. Dopo meno di un mese, lasciò la città. Portò con sé la moglie, i figli e i nipoti, l'intera famiglia. A quell'epoca circolava già la voce che si fosse venduto anima e corpo agli stregoni del Nord. La gente lo evitava. Meglio che se ne fosse andato, dissero tutti. Nessuno sapeva dove fosse finito, anche se circolavano alcune voci. Le voci circolano sempre. Alcuni dicevano che era andato nelle Terre di Frontiera e che aveva cambiato nome per non farsi riconoscere. Un uomo raccontò, qualche anno dopo, di averlo visto. Era un mercante di gioielli, e viaggiava per tutte le Quattro Terre. In un piccolo villaggio sul Lago Arcobaleno, disse, aveva trovato Urprox Screl. Solo, non si chiamava più Screl. Ora si faceva chiamare Creel. 24 Vento e pioggia si scagliavano contro i bastioni della Rocca di Stedden, come per imitare la lotta furiosa che aveva luogo davanti al portone del castello. Due volte l'esercito del Nord aveva dato l'assalto alle mura e due volte era stato ricacciato indietro dai Nani. Ormai era notte e la luce era talmente scarsa che non si riusciva a vedere a più di qualche passo di distanza, tranne quando i lampi illuminavano l'intera catena del Corvo. Avrebbero perso anche quella cittadella, pensava Risca, mentre scendeva veloce la scala che dal muro di cinta portava al cortile per cercare Raybur. Del resto, nessuno aveva pensato di poterla tenere. Il fatto di essere riusciti a resistere fino a quel momento era un piccolo miracolo. E anche l'essere sopravvissuti a settimane di battaglie e ritirate. Ma il tempo e le risorse a loro disposizione si esaurivano progressivamente. Ormai non avrebbero più potuto fermare l'attacco. Dov'erano gli Elfi? Perché non arrivavano? Per settimane, dopo la fuga dal Wolfsktaag, i Nani erano riusciti a impegnare i soldati del Nord. L'esercito del Signore degli Inganni li aveva battuti ogni volta, ma avevano continuato a lottare. Nel Wolfsktaag erano stati
fortunati: erano riusciti a fuggire con un esiguo spargimento di sangue. Ma una simile fortuna non era durata. Da allora avevano combattuto una decina di scaramucce, e spesso gli avversari l'avevano avuta vinta, o per la perseveranza o grazie alla fortuna. I Nani caduti prigionieri erano stati passati per le armi. Avevano combattuto selvaggiamente e ucciso un grandissimo numero di attaccanti, ma questi sembravano indifferenti alle perdite. Inferiori per numero e costretti alla ritirata, i Nani non avevano possibilità di salvezza contro un esercito così potente. Erano coraggiosi e decisi, ma erano stati costretti a ripiegare ad ogni scontro. Adesso erano sulle Montagne del Corvo e correvano il rischio di dover lasciare anche quella protezione. Il Wolfsktaag e l'Anar centrale erano in mano al nemico, la città di Culhaven era stata una delle prime a cadere. Il Fiume Argento, dal Lago Arcobaleno al Cillidellan, era sotto il dominio degli uomini del Nord. Non c'era modo di sapere se avessero conquistato anche le Terre della Frontiera, ma era probabile. Quanto ai Nani, se si fossero dovuti ritirare dalle Montagne del Corvo, avrebbero potuto rifugiarsi soltanto nei Picchi e nella fortezza del Dun Fee Aran. Persi quelli, sarebbero rimaste solo le regioni ancor più a oriente, in gran parte inesplorate. Sarebbe finita così, supponeva Risca. Il castello sarebbe caduto l'indomani. I nemici avevano già superato il fossato e i trabocchetti sotto le mura, e stavano preparando le scale per salire sui bastioni. Né vento né pioggia li fermavano, perché c'era qualcosa che li spaventava più delle forze della natura: l'orrida creatura che li comandava. A spingerli era una magia nera e terribile, e forse, nelle loro attuali condizioni, persino la morte era preferibile alle conseguenze di un fallimento. Risca arrivò in fondo alla scala e si avviò attraverso il cortile. Il rumore della battaglia lo investì subito: una cacofonia che neppure il fragore della tempesta riusciva ad attutire. Un ariete continuava a colpire il portone con ottusa, regolare insistenza. Il legno rabbrividiva e cigolava, ma teneva. In cima alle mura, i Nani scagliavano frecce e lance contro gli assedianti, ammassati così fittamente che era impossibile mancarli. In basso, un tratto delle mura era ancora avvolto dalle fiamme: l'olio incendiato con cui era stato respinto un precedente attacco. I difensori correvano avanti e indietro, per riformare gli schieramenti ogni volta che cadeva qualcuno, ma non erano sufficienti a coprire tutto il perimetro. Raybur comparve all'improvviso, in mezzo al caos, e lo prese per il braccio. "Riusciremo a resistere finché non arriveranno con le scale" gridò avvicinando il viso a quello del giovane. Risca annuì. Era esausto e scoraggiato. Era stanco di fuggire, stanco di essere inseguito, e l'idea di dover presto riprendere la fuga lo faceva andare in collera. "La galleria è pronta" rispose a bassa voce. Era sceso a controllare che la via di fuga fosse libera. Lo stesso Geften era andato a esplorarla ed era tornato con la conferma. I Nani sarebbero fuggiti per una galleria scavata nella roccia; all'uscita si sarebbero trovati nelle fitte foreste del fondovalle e avrebbero fatto perdere le loro tracce. Raybur lo portò nella torre da cui Risca era appena uscito. Come furono al riparo, lo fissò con severità. "Cos'è successo agli Elfi?" chiese con ira trattenuta a stento. Risca scosse la testa. "Se Tay Trefenwyd avesse trovato il modo di farli venire subito, sarebbero già qui. Dev'essere
successo qualcosa, ma non abbiamo modo di saperlo." Raybur scosse la testa, disgustato. "Questa guerra diventa un po' sbilanciata, vero? Noi e nessun altro, contro un esercito di quella dimensione." Dall'alto delle mura giunse un grido, e alcuni difensori corsero a sostituire il nano colpito. "E quanto dovremo resistere? Ad ogni scontro perdiamo uomini, e non ne abbiamo molti da perdere!" La sua collera era comprensibile. Uno dei caduti era il suo primogenito Wyrik, ucciso quattro giorni prima da una freccia. Si stavano ritirando lungo l'Anar per raggiungere le Montagne del Corvo e Stedden. La freccia era penetrata nella gola e gli si era piantata nel cervello. Era morto all'istante. Raybur, che in quel momento era accanto a lui, l'aveva visto cadere e l'aveva preso fra le braccia. I due uomini si fissarono per qualche istante; entrambi pensavano alla morte del giovane: ciascuno lo lesse nello sguardo dell'altro. Raybur distolse gli occhi. "Se solo avessimo una parola, un'assicurazione che stanno arrivando..." Scosse di nuovo la testa. "Bremen non ci abbandonerà" asserì Risca. "Qualsiasi cosa succeda, lui verrà." Raybur aggrottò la fronte. "Se è ancora vivo." Le parole parvero echeggiare tra loro, taglienti nel silenzio, cariche d'accusa e di disperazione. Poi, la prospettiva della morte di Bremen venne improvvisamente cancellata da uno schianto terribile: il gemito delle lastre di metallo che cedevano e delle travi di legno che si spezzavano. Entrambi capirono subito cos'era successo, ma il primo a dirlo fu Raybur. "Il portone" Corsero nel cortile, mentre un lampo squarciava il buio della notte. Davanti a loro, il portone principale si era piegato sotto i colpi dell'ariete. La sbarra era rotta, i cardini erano usciti dal montante. I Nani lo puntellavano con travi, ma presto anche quelle avrebbero ceduto. Sulle mura, i difensori si preparavano ad abbandonare le postazioni. All'improvviso comparve Fleer, che si rivolse al padre: "Dobbiamo fuggire tutti!" gridava. Era pallido e sconvolto. "Da' l'ordine!" gli rispose secco Raybur. "Ritirarsi dalle mura, scendere nella galleria! Sono stufo di questo assedio!" Fleer corse via e Raybur, rosso di collera, si diresse verso il portone. Intuendo le sue intenzioni, Risca lo seguì e lo prese per il braccio. "No, Raybur" gli disse. "Tu porta via gli altri. Lo affronto io, l'attacco!" "Da solo?" ribatté il re, liberando il braccio. "E tu?" ribatté Risca. "Quanti uomini volevi far rimanere qui? Va', porta via gli uomini!" La pioggia colava nei loro occhi costringendoli a sbattere le ciglia. "E' una pazzia!" disse il re, a denti stretti. Risca scosse la testa. "Tu sei il re e devi salvarti. Che ne sarebbe dei Nani, se tu morissi? Inoltre, io sono protetto dalla magia dei Druidi, tu no. Va', Raybur!" Nel battente di destra del portone si aprì una grossa breccia: il legno si scheggiò, si sbriciolò e cadde a terra. Alcune forme scure si infilarono nell'apertura, si vedevano scintillare le loro armi. Risca alzò le mani per evocare la magia. Raybur esitò, poi corse via chiamando i generali e dando gli ordini per la ritirata. I Nani scesero dalle mura e raggiunsero la porta della torre da cui si accedeva alla galleria. Gli uomini che difendevano il portone erano già fuggiti. Risca rimase solo nel cortile, sotto la pioggia, e attese con calma. Era stata una decisione facile per lui: era stufo di correre, di essere inseguito. Voleva fermarsi e combattere. Quando la prima ondata di assalitori uscì dal varco, Risca scagliò il Fuoco Magico contro di loro bruciando tutto
ciò che gli stava davanti. Le fiamme colpirono le schegge di legno e distrussero le prime file di guerrieri del Nord, mentre gli altri indietreggiavano, incapaci di resistere al calore. Risca continuò ancora per qualche istante a scagliare il fuoco, poi lo lasciò morire. La magia scorreva dentro di lui come un fiume esaltante che spazzava dubbi e paure, stanchezza e dolore. Gli succedeva sempre così nelle battaglie, erano il sangue che gli dava la vita. L'ariete riprese a colpire; in breve cadde anche il secondo battente, allargando l'ingresso. Ma nessuno si avvicinò. Risca guardò in alto, e in mezzo alla cortina di pioggia vide gli ultimi Nani uscire dalle torri di guardia e allontanarsi dai bastioni. Entro pochi istanti, sarebbe rimasto solo. Sapeva che avrebbe fatto meglio a fuggire con gli altri, finché poteva. Rimanere era inutile. Eppure, non riusciva ad allontanarsi. Gli pareva di avere in mano le sorti della battaglia, come se rimanendo saldo in quella posizione potesse fermare la distruzione che incombeva su tutti loro. Poi, nell'ingresso annerito dal fuoco comparve un'enorme forma nera. Risca aspettò, curioso di vedere cosa fosse. La forma scura arrivò nel punto illuminato dalla debole luce del Fuoco Magico che si spegneva. Era una delle creature che Brona aveva evocato dall'inferno. Col favore delle tenebre era uscita dal suo nascondiglio: una creatura di mucillagini e sudiciume, spine e piastre ossee, corpo massiccio e braccia lunghe e muscolose. Si reggeva in piedi come gli uomini, ma sarebbe stato difficile definirla umana: camminava curva, come schiacciata dal peso della sua bruttezza; solo i suoi occhi gialli brillavano per il desiderio di uccidere. Quando scorse il druido, rallentò e si voltò verso di lui. Portava un'enorme clava, così pesante che per sollevarla le occorrevano entrambe le mani munite di artigli. "Be', ci siamo" mormorò Risca tra sé. La creatura rimase ferma per qualche istante nel varco, poi avanzò in mezzo ai resti del portone. Non era seguita da nessuno, anche se Risca udiva gli uomini del Nord muoversi, appoggiare le scale e farsi sotto nel buio per prepararsi all'attacco in massa che li avrebbe portati nella rocca. E intanto mandano questa creatura a sfidarmi, pensò Risca. Cosa credono, che non sia in grado di vincerla? O è una prova per accertarsi dei miei poteri? Qual è lo scopo di questa stupidaggine? Naturalmente, non sapeva le risposte. Il mostro si stava avvicinando, era già nel cortile, lo fissava con occhi simili a lanterne. Cercano di intrappolarmi, decise il druido. Pensano di impegnarmi con questo loro campione per arrivare in forze mentre noi combattiamo. L'arroganza di un simile piano lo spinse a sorridere. La creatura infernale arrivò davanti a lui con la clava levata, per colpire e parare i colpi. Risca avrebbe ancora potuto fuggire, ma non arretrò di un palmo. I soldati del Nord lo osservavano. Sapevano chi era e volevano vedere come reagiva. Be', in tal caso, avrebbe fornito loro qualcosa di memorabile! Quando il mostro arrivò a pochi passi da lui, Risca sollevò rapido la scure da guerra, impugnandola con entrambe le mani, girò su se stesso per darle slancio e la scagliò contro il nemico, che era quasi sopra di lui e stava per colpirlo. Il mostro non ebbe il tempo di parare il colpo. L'ascia gli si piantò nella fronte e gli spaccò la testa con uno scricchiolio di metallo sull'osso. Per la forza del colpo, la testa del mostro si piegò all'indietro. Il sangue gli colò sulla faccia: una fetida secrezione
nerastra che gli riempì la bocca spalancata. Il mostro cadde in ginocchio, morto, e ruzzolò in avanti. Risca si stava già allontanando in direzione della porta, quando scorse dei movimenti a destra e a sinistra, nel buio, e proiettò istintivamente una vampata di fuoco. A quel chiarore improvviso, scorse alcuni Messaggeri del Teschio che si spostavano furtivi fra le ombre, ali nere e occhi rossi come braci, per circondarlo. Il nano digrignò i denti. Avevano fatto più in fretta del previsto: erano scesi dalle mura mentre lui aspettava cavallerescamente il loro finto campione. Si lanciò a sinistra, contro il più vicino, e lo colpì con una fiammata di Fuoco Magico. Il cacciatore alato cadde all'indietro, soffiando con furia, e il suo fuoco esplose tra il nano e la torre verso la quale si dirigeva. Poi qualcosa urtò Risca e lo scagliò a terra: uno dei Messaggeri del Teschio, che cercava di colpirlo con gli artigli. Il druido rotolò su se stesso e si rimise in piedi. Dai punti colpiti dal fuoco si levava una nube di vapore, che andava a mescolarsi con la pioggia togliendo ancor più la visibilità. Dal portone della rocca giunsero le grida trionfali dei soldati del Nord che si precipitavano nel cortile senza incontrare opposizione. Un altro Messaggero attaccò, con uno scatto che Risca riuscì a malapena a evitare. Le prime frecce e i primi giavellotti cominciavano a cadere accanto a lui, e si diede dello stupido per aver perso tutto quel tempo. Scagliò una lingua di Fuoco Magico a destra, una a sinistra e si lanciò in mezzo ai Messaggeri per raggiungere la torre. Non si guardò alle spalle, nel timore di incontrare una magia che lo paralizzasse; allontanò un altro Messaggero che gli si era parato davanti per bloccarlo. Disperato, scagliò fuoco in tutte le direzioni, per farsi largo tra i nemici che convergevano su di lui, e percorse l'ultimo tratto correndo freneticamente, come se lui stesso fosse andato a fuoco; infine, si catapultò attraverso la porta. Rotolò nel buio, si rialzò subito e si lanciò avanti. All'interno del castello regnava il buio più profondo, tutte le torce erano spente, ma lui conosceva bene la strada e non aveva bisogno di luce per trovarla. Arrivò in fondo al primo corridoio e si girò per un istante: quanto bastava per lasciare dietro di sé una parete di fuoco. Li avrebbe fermati per poco, ma gli bastava. Un attimo dopo, entrò nella galleria, si chiuse alle spalle la porta massiccia rinforzata da barre di metallo e la sprangò. Ormai non sarebbero più riusciti a prenderlo. Almeno per quella notte. Ma c'era mancato poco, e forse, la prossima volta, non sarebbe stato così fortunato. Si asciugò il sangue che gli colava negli occhi e solo allora sentì il bruciore di una ferita sulla fronte. Niente di grave, comunque, se ne sarebbe occupato più tardi. Raybur e gli altri lo aspettavano in qualche punto della galleria. Risca conosceva troppo bene il re dei Nani, e sapeva che non l'avrebbe abbandonato. Degli amici ti puoi fidare. Deglutì perché all'improvviso sentì un nodo in gola. Se era davvero così, si chiese, perché Tay e gli Elfi non arrivavano? La notte era scesa da tempo anche su Arborlon e la città era avvolta in una coltre buia. Diversamente dall'Est, non pioveva. Jerle Shannara era fermo davanti a una finestra del padiglione estivo e aspettava l'alba. Quella notte non era riuscito a dormire, ancora tormentato dai dubbi che avevano cominciato ad assillarlo quando era morto Tay Trefenwyd. Era quasi arrivato in cima alla salita su cui si era incamminato qualche
settimana prima, e l'indomani, all'alba, avrebbe raggiunto la vetta, ma nel frattempo non poteva fare a meno di pensare a tutte le decisioni che era stato costretto a prendere perché non aveva scelta. "Ritorna qui, amore" gli disse Preia, dall'interno della stanza. "Stavo riflettendo" rispose lui, in tono assente. Lei lo raggiunse e lo abbracciò. "Da qualche tempo, rifletti un po' troppo." Era vero, pensò Jerle. Non era così, in passato, quando Tay era vivo, prima dell'arrivo del Signore degli Inganni e delle tragedie che avevano colpito gli Elfi. A quell'epoca si sentiva più libero, privo di responsabilità e di scelte obbligate. Il suo futuro gli apparteneva completamente, tutto il mondo gli era aperto. Com'era cambiata in fretta, la sua vita! Prese la mano della giovane donna. "Continuo a non provare alcun desiderio per la corona." Ma l'avrebbero incoronato l'indomani al sorgere del sole, secondo una tradizione che risaliva al tempo di Faerie. Ormai la decisione era presa: a imporre a Jerle quella scelta era stata la serie di eventi iniziata con la morte di Courtann Ballindarroch e conclusasi con la scomparsa del suo ultimo figlio. Per qualche settimana gli Elfi avevano sperato di veder tornare il principe dalla sua folle spedizione alla ricerca degli assassini del padre. Alyten era un giovane impulsivo, e avrebbe fatto meglio a non andare in cerca di guai. Gli uomini del Nord, che speravano in una simile mossa, lo aspettavano. Si erano fatti scoprire e inseguire da lui, l'avevano attirato in un'imboscata e ucciso. I pochi superstiti avevano riportato in città il suo corpo. Con lui moriva l'ultimo erede diretto dei Ballindarroch, e così la speranza di Jerle di evitare il trono. Naturalmente gli Elfi si erano subito rivolti a lui. Molti non avrebbero voluto comunque Alyten come re. Gli uomini del Nord dominavano le Pianure di Streleheim impedendo i contatti con le altre Razze e presto avrebbero cercato di invadere l'Ovest. Aspettavano solo che il Signore degli Inganni tornasse dopo aver sconfitto i Nani. Così avevano riferito gli esploratori. Il Gran Consiglio, però, non aveva preso decisioni perché aspettava il ritorno di Alyten e la sua incoronazione ufficiale. Adesso, però, tutti pensavano che Jerle Shannara, cugino del re e famoso in tutto l'Ovest come guerriero e stratega, fosse la sola speranza degli Elfi. Tuttavia, il dibattito sarebbe continuato a lungo se non si fosse verificata una situazione simile e se non fosse intervenuta Preia Starle. Si era recata da Jerle non appena avevano riportato il corpo di Alyten, quando nella popolazione si erano accese le discussioni, con il rischio di irreparabili divisioni tra gli Elfi. "Non puoi permetterlo" gli aveva detto. Anche quella volta era notte, una notte afosa come questa. "Sei l'unica speranza degli Elfi, e lo sai. Ci sarà da combattere, per sopravvivere. Gli uomini del Nord non ci risparmieranno. Al momento opportuno, soltanto tu potrai guidarci. Dovendo farlo in qualsiasi caso, guidaci come re." "Il mio diritto alla corona verrà costantemente messo in dubbio" aveva ribattuto Jerle, stanco di discutere. "Mi ami?" aveva chiesto lei, all'improvviso. "Lo sai che ti amo." "Ti amo anch'io. Perciò, dammi retta. Sposiamoci. Fa' in modo che sia per sempre la tua compagna e la tua consigliera. Lo sono già, e di conseguenza non sarà un passo difficile. Ma legati a me davanti a tutti gli Elfi. Di' al Gran Consiglio che accetti la corona, e che noi adotteremo i due piccoli Ballindarroch che hanno perso la famiglia e ne faremo i nostri figli.
Non hanno altri parenti, e possiamo prenderli noi. Questo farà cessare le discussioni. I bambini potranno salire al trono quando saranno adulti. Così si salderanno tutte le fratture verificatesi con la morte dei Ballindarroch e gli Elfi potranno pensare alla loro sopravvivenza!" E così era stato. Con la sua insistenza, Preia l'aveva convinto. In seguito, Jerle aveva pensato con ammirazione a quanto fosse semplice la soluzione proposta da lei. Lui l'avrebbe sposata in qualsiasi caso, perché l'amava. Gli Elfi preferivano che il loro re avesse eredi, e i Ballindarroch erano cari a tutti: così la gente aveva accolto con gioia la notizia dell'adozione e con entusiasmo quella dell'incoronazione di Jerle Shannara. Ora, mentre Preia lo abbracciava, Jerle ripensò a quegli avvenimenti. Tutto era successo molto in fretta. "Non vorresti avere figli, Preia?" le chiese. Lei rifletté per qualche istante sulla domanda... o forse sulla risposta. Jerle cercò di non guardarla. "Voglio vivere con te" ripose, alla fine. "Per il momento mi è difficile pensare ad altro. Quando gli Elfi saranno di nuovo al sicuro, quando il Signore degli Inganni sarà stato sconfitto..." S'interruppe e lo fissò negli occhi. "vuoi sapere se i legami di sangue faranno qualche differenza nella mia dedizione ai nostri figli adottivi? Certamente no. Se non avremo altri figli, i nostri figli saranno quelli. Proprio come se fossero nostri. Sei soddisfatto?" Jerle annuì, pensando a come si fosse trasformato il loro rapporto dopo la morte di Tay. Aveva pensato a lungo all'affermazione di Preia che forse avrebbe scelto Tay, se lui gliel'avesse chiesto. La cosa, però, non gli dava fastidio. Aveva voluto molto bene a Tay, e adesso che era morto non riusciva a provare rancore per lui. "Ti farò entrare nel Gran Consiglio" le disse. "E ci sarà anche Vree Erreden. Quando potrò farlo, lo nominerò primo ministro. Sei d'accordo?" Preia annuì. "Hai davvero cambiato opinione su di lui, vero?" Jerle si strinse nelle spalle. "Chiederò di mobilitare l'esercito per marciare verso est... anzi, lo ordinerò." Raddrizzò le spalle con decisione. "Farò ciò che voleva Tay. Non abbandonerò i Nani. E consegnerò la Pietra Nera a Bremen. Anche se dovessi fallire come re, non sarà per mancanza di coraggio o di volontà!" Era un'affermazione impulsiva, fatta per vincere i dubbi e le insicurezze che sentiva. Preia lo sapeva. Non poteva permettersi esitazioni. La linea di confine tra successo e fallimento, tra vita e morte, era troppo sottile. Si appoggiò a lui. "Farai il tuo dovere, e ciò che è giusto. Sarai re. E non avrai rimpianti. Guiderai il tuo popolo e lo salverai. E' il tuo destino, Jerle. Vree Erreden l'ha già letto nella visione. Devi fare in modo che si avveri." Lui tacque a lungo prima di rispondere. "Io vedo soprattutto che non ho scelta. E penso sempre a Tay." Per qualche minuto rimasero fermi davanti alla finestra, senza parlare. Poi Preia lo portò nell'altra stanza del padiglione, dove c'era il loro letto, e rimase abbracciata a lui fino al mattino. 25 Ansiosi di recuperare il tempo che intuivano d'avere perduto, Bremen e i suoi due compagni comprarono dei cavalli e si misero in viaggio verso settentrione, attraverso le Terre del Sud, diretti ai territori della Frontiera e al Fiume Argento. Mantennero un'andatura regolare,
fermandosi solo per rifocillarsi e riposare, e non parlarono molto. I loro pensieri erano dominati dai ricordi della forgiatura della spada, immagini così vivide da dare l'impressione, anche dopo giorni, che tutto fosse avvenuto solo qualche istante prima. Era innegabile che gli effetti della magia evocata avessero trasceso la pura e semplice forgiatura della spada. In qualche modo, forse diverso per ciascuno di loro, erano stati cambiati dalla creazione del talismano. Erano come neonati: la forgiatura li aveva rimodellati, e si domandavano cos'erano diventati. Fu Kinson Ravenlock a portare la spada. Appena fuori città, Bremen l'affidò a lui, spinto da una necessità che il druido non riuscì a nascondere del tutto all'amico: era come se non potesse sopportare il peso dell'arma, tollerarne il contatto. Fu un momento bizzarro e sconvolgente, ma Kinson prese la spada senza far parola, e se l'agganciò sulla schiena. Non era certo preoccupato per il peso, ma non poteva non tenere conto dell'importanza della spada per il futuro delle Quattro Razze. Tuttavia, non avendo avuto visioni sulla riva del Perno dell'Ade, non doveva sopportare, come Bremen, il peso di ciò che era connesso col potere della spada. La portava come avrebbe portato una qualsiasi altra arma, e se da una parte ripensava di continuo alla sua creazione, dall'altra non si preoccupava del passato, ma del presente. Di notte, a volte, sguainava la spada e la esaminava. Non l'avrebbe fatto, se la prima notte Mareth non glielo avesse chiesto, spinta da una curiosità più forte della trepidazione, perché le sue riflessioni su ciò che si era manifestato nella fucina alimentavano il bisogno di esaminare più attentamente il risultato delle loro azioni. Bremen non si era opposto, però si era alzato e si era allontanato nel buio, così Kinson non aveva avuto motivo per non accondiscendere alla richiesta di Mareth. Avevano tenuto la spada alla luce del fuoco e l'avevano esaminata. Era un'arma eccellente, perfettamente bilanciata, liscia e sottile e lucente, così leggera da poter essere usata con una mano sola, malgrado la sua lunghezza. L'Eilt Druin era fuso nell'impugnatura, all'altezza della guardia, e la fiamma della torcia nella mano stretta a pugno correva lungo la lama come per bruciarla fino alla punta. La spada non mostrava alcun difetto, cosa virtualmente impossibile in una forgiatura normale, ma giustificata dalla formula di Cogline e dalla magia di Bremen. A Kinson venne in mente, dopo alcuni giorni, che la sua mancanza di reverenza per l'importanza di quel talismano derivava in parte dal fatto che Bremen pareva non sapere ancora come dovesse agire. Indubbiamente era destinato a distruggere il Signore degli Inganni... ma in quale modo? La natura della magia di cui la spada era impregnata rimaneva un mistero perfino per il druido. La spada era destinata a un guerriero degli Elfi, questo, almeno, gli aveva rivelato la visione di Galaphile. Ma cosa doveva fare, il guerriero, con quella spada? Doveva usarla come un'arma normale? Data la natura del potere del Signore degli Inganni, non pareva probabile. Nella spada c'era di sicuro una magia che Brona non avrebbe potuto contrastare, una magia che avrebbe sopraffatto tutte le sue difese e l'avrebbe distrutto. Ma qual era, questa magia? C'era una certa magia nell'Eilt Druin, si diceva, ma Bremen non era mai riuscito a scoprire di quale si trattasse ed era sicuro che, qualunque fosse, nella sua lunga vita non era stata usata neppure una volta. Il vecchio druido l'aveva ammesso, sia con l'uomo della Frontiera sia con
la giovane donna, senza alcuna reticenza, ma con un misto di perplessità e curiosità. Il mistero della magia della spada non era un ostacolo per Bremen, ma una sfida che lui affrontava con la stessa decisione mostrata nella ricerca del fabbro che la forgiasse. In fin dei conti, non era ragionevole pensare che la semplice forgiatura bastasse a impregnare la spada della magia richiesta. Nemmeno l'inserimento dell'Eilt Druin pareva sufficiente. Occorreva dell'altro, e lui doveva scoprire cosa. Si sentiva rassicurato, confidò a Kinson a un certo punto, dal fatto che erano arrivati ad avere la spada. Proprio per questo era convinto di poter ottenere tutto ciò che cercavano. Secondo il suo modo di pensare, Kinson la riteneva una premessa alquanto dubbia; ma nel periodo in cui era stato insieme a lui, il vecchio druido aveva portato a termine un buon numero di imprese grazie alla pura e semplice forza della convinzione, quindi Kinson non aveva motivo per cominciare adesso a mettere in dubbio le sue parole. Se la spada possedeva una magia in grado di distruggere il Signore degli Inganni, Bremen avrebbe scoperto di quale magia si trattava. Se il destino prevedeva un confronto, Bremen avrebbe fatto sì che il risultato fosse favorevole alla loro causa. Così si addentrarono nelle Terre del Sud e tornarono nelle Pianure del Tumulo, puntando al Fiume Argento. La destinazione, disse ai compagni il vecchio druido, era il Perno dell'Ade. Avrebbe fatto un'altra visita agli spiriti dei morti, per accertare la futura linea d'azione. Lungo la strada avrebbero cercato di sapere che fine avevano fatto i Nani. Il tempo caldo e afoso li costringeva a soste frequenti per far riposare i cavalli. Le ore si trascinavano con lentezza. Non videro traccia del conflitto che sapevano in atto a settentrione, non trovarono segno della presenza dell'esercito del Nord, non udirono dai viandanti notizie di eventi fuori del normale. Tuttavia avevano il persistente, fastidioso sospetto d'essersi allontanati troppo dallo scopo iniziale del viaggio e la sensazione che al ritorno avrebbero scoperto d'aver perso troppe possibilità. Nel tardo pomeriggio del primo giorno nelle Pianure del Tumulo, Bremen diede l'alt anche se mancavano alcune ore al crepuscolo, e lasciò le terre basse per inoltrarsi tra le Querce Nere. Come all'andata, avevano seguito un precario percorso fra le due zone paludose, tenendosi alla larga dai pericoli di ciascuna. Ora Bremen abbandonò la prudenza e guidò i compagni direttamente nella foresta proibita. Kinson si allarmò, ma tenne a freno la lingua. Di sicuro Bremen aveva un buon motivo per fare quella deviazione. Si inoltrarono nelle Querce Nere solo per un centinaio di passi, tanto che potevano ancora scorgere fra gli alberi le praterie scolorite dal sole, pur avendo davanti le zone più buie della foresta, e smontarono di sella. Lasciata Mareth a badare ai cavalli, il druido condusse Kinson in un folto di robinie, esaminò pensierosamente gli alberi, infine trovò un ramo che gli pareva adatto e disse a Kinson di tagliarlo. L'uomo della Frontiera ubbidì senza fare commenti, usando il proprio coltello per intaccare il legno duro. Bremen gli disse di tagliar via i rametti secondari, poi prese il rozzo bastone e annuì. Tornarono ai cavalli, rimontarono in sella e uscirono dalla foresta. Kinson e Mareth si scambiarono occhiate perplesse, ma non domandarono spiegazioni. Si accamparono poco dopo in una valletta che non era molto di più di una depressione fra gli alberi. Bremen disse a Kinson di scortecciare il
ramo di robinia per farne un bastone. Kinson lavorò per quasi due ore, mentre gli altri due preparavano la cena e badavano ai cavalli. Quando Kinson ebbe fatto del suo meglio, lisciando le sporgenze e i nodi dei rametti secondari, Bremen riprese il bastone. Il giorno si stava riducendo a qualche debole striatura luminosa verso ponente e la notte seguiva dappresso le ombre sempre più lunghe e il cielo sempre più scuro. I tre si accomodarono intorno a un piccolo fuoco, vicino agli alberi delle Querce Nere, ben lontani dalle pianure. Poco distante, un torrentello usciva dalla foresta, scrosciava sopra una serie di rocce e scompariva serpeggiando nel buio. La notte era calma e vuota, priva d'intrusioni rumorose, di movimento, di sguardi indiscreti. Bremen si alzò e si accostò al fuoco, tenendo davanti a sé il bastone, in verticale, un'estremità saldamente appoggiata al terreno e l'altra puntata al cielo, le mani strette nel punto mediano. Il bastone era alto come un uomo, ancora ruvido per la scortecciatura eseguita da Kinson. "Rimanete seduti finché non avrò terminato" ordinò senza dare spiegazioni. Chiuse gli occhi e restò immobile. Dopo un momento, le sue mani cominciarono a risplendere di luce bianca. Lentamente la luce si diffuse lungo il bastone, verso l'alto e verso il basso. Quando il bastone ne fu completamente avvolto, la luce cominciò a pulsare. Kinson e Mareth guardavano in silenzio. La luce impregnò il legno, lo rese quasi trasparente. Serpeggiò su e giù secondo bizzarri disegni, con lentezza sulle prime, poi con maggiore rapidità. Per tutto il tempo Bremen rimase immobile come una statua, a occhi chiusi, concentrato. Poi la luce morì, tornando nelle mani del druido prima di svanire. Bremen aprì gli occhi. Trasse un lungo, lento respiro e mostrò il bastone. Il legno era diventato nero come la pece, liscio e lucido. Una traccia della luce che l'aveva avvolto si rifletteva nella sua intensa lucentezza, appena una scintilla che tremolava e spariva prima di ricomparire in un altro punto, elusiva come il riflesso nell'occhio di un gatto. Bremen sorrise e porse il bastone a Mareth. "E' per te." Lei lo prese e si stupì per la sensazione che provava. "E' ancora caldo!" "E resterà caldo" disse Bremen, tornando a sedersi, con una traccia di stanchezza nel viso pieno di rughe. "La magia che lo permea rimarrà nel bastone finché sarà intero." "E qual è lo scopo di questa magia? Perché dai il bastone proprio a me?" Il vecchio druido si sporse un poco e la luce del fuoco cambiò la trama di rughe che gli scolpiva il viso. "Il bastone è destinato ad aiutarti, Mareth. Hai cercato a lungo e a fatica un modo per controllare la tua magia, per impedire che si scateni, forse addirittura che ti consumi. Ho riflettuto parecchio su questo problema. Credo che il bastone sia la risposta. Funziona come un canale di scarico. Tienilo ben piantato nel terreno, e il bastone smaltirà l'eccesso della magia che vuoi usare." Esitò, scrutandola negli occhi. "Capisci cosa significa, vero? Sono convinto che dovrai usare di nuovo la magia, adesso che viaggiamo a settentrione. Ogni altra previsione sarebbe poco realistica. Il Signore degli Inganni ci cercherà, e verrà il momento in cui dovrai proteggere te stessa e forse anche altri. Potrei non essere presente per aiutarti. La tua magia è troppo importante, e devi essere in grado di fare affidamento su di essa. Mi auguro che il bastone ti permetta di usarla senza paura." Mareth annuì lentamente. "Anche se la magia è innata?" "Anche in questo caso. Ti
occorrerà del tempo per imparare a usare correttamente il bastone. Vorrei poterti promettere che avrai quel tempo, ma non posso. Devi ricordare lo scopo del bastone e, se hai la necessità di difenderti, regola i tuoi pensieri tenendo bene in mente il bastone." Mareth lo guardò in tralice. "Non devo agire avventatamente. Non devo usare la magia senza prima pensare al bastone. Non devo usare la magia senza prima sistemare il bastone e aprire un canale per far defluire l'eccesso." Bremen sorrise. "Sei svelta, Mareth. Se fossi tuo padre, sarei davvero orgoglioso di te." Lei ricambiò il sorriso. "Ti considero mio padre in ogni caso. Non come un tempo, ma sempre con affetto." "Sono lusingato. Ora il bastone è tuo, non dimenticare a cosa serve. Raggiunto il Fiume Argento, saremo di nuovo in territorio nemico e ricomincerà la battaglia contro il Signore degli Inganni." Quella notte dormirono bene e ripartirono all'alba. Cavalcarono adagio, facendo riposare spesso i cavalli nel caldo di mezza estate, procedendo sempre verso settentrione. Alla loro destra, le Pianure del Tumulo tremolavano sotto il sole, spoglie e deserte, prive di movimento. Alla loro sinistra, le Querce Nere erano una muraglia scura, silenziosa come le pianure, alta e impervia. Ancora una volta cavalcarono quasi sempre in silenzio: Kinson portava la spada, Mareth il bastone, Bremen il peso del loro futuro. Al calar della sera avevano evitato gli acquitrini della Palude della Nebbia ed erano giunti al Fiume Argento. Impaziente di arrivare alle alture che si trovavano subito dopo, in modo da poter controllare quel giorno stesso le Pianure di Raab e tutto il territorio settentrionale, Bremen decise di attraversare il fiume. Trovarono un tratto di secche, dove il fiume era basso a causa del periodo di siccità, e mentre il sole si tuffava esausto nel piatto luccichio del Lago Arcobaleno, risalirono una serie di alture fino a un promontorio. Lì, al riparo di un folto d'alberi, smontarono, impastoiarono i cavalli e procedettero a piedi. Ormai la luce del giorno era diventata un riflesso grigio argento e le ombre della sera si allungavano. L'aria, sempre soffocante, era velata di foschia e sapeva di polvere e d'erba secca. Uccelli notturni volavano nel buio in cerca di cibo: movimenti fulminei che comparivano e svanivano nel giro di un istante. Tutt'intorno gli insetti ronzavano, affamati. Giunsero al bordo del promontorio, mentre il sole arrossava le terre basse, e si fermarono. Sotto di loro si estendeva l'intero esercito del Nord. Era accampato parecchie miglia più a settentrione, nel cuore delle pianure, cosicché i particolari delle insegne da battaglia non si scorgevano con chiarezza, ma era troppo esteso e scuro per essere scambiato per qualcos'altro. I fuochi erano già accesi, piccoli guizzi di luce che punteggiavano come lucciole le praterie. Cavalli e carri si spostavano pigramente, con cigolio di ruote e di tirelle, mentre cavalieri e conducenti vociavano in tono aspro nel riordinare provviste e armi. Le tende, protette dalla massa dell'esercito, si gonfiavano nella calda brezza. Una di esse, di un nero impenetrabile, tutta spigoli e punte, si innalzava da sola al centro esatto dell'accampamento, circondata da un ampio tratto di terreno sgombro, simile a un fossato. Il druido, l'uomo della Frontiera e la giovane donna guardarono in silenzio la scena. "Cosa ci fa, qui, l'esercito del Nord?" domandò alla fine Kinson. Bremen scosse la testa. "Non saprei. Di sicuro è uscito dall'Anar, dove l'abbiamo visto l'ultima
volta, perciò forse ora va verso ponente..." Lasciò morire la frase senza precisare il resto. Se l'esercito del Signore degli Inganni si ritirava dalle Terre dell'Est, allora la battaglia contro i Nani era terminata e adesso, con ogni probabilità, sarebbe toccato agli Elfi. Ma che fine avevano fatto Raybur e il suo esercito? Che ne era di Risca? Kinson Ravenlock scosse la testa, scoraggiato. Erano trascorse settimane dall'invasione dell'Est. In quel tempo potevano essere accadute molte cose. In piedi, con la spada di Urprox Screl agganciata sulla schiena, si domandò all'improvviso se non fossero giunti troppo tardi con il talismano. Sganciò il fermaglio della cinghia, liberò la spada e la porse a Bremen. "Dobbiamo sapere cosa sta succedendo. E tocca a me cercare di scoprirlo." Depose anche la propria spada da guerra tenendone solo una più corta e il coltello da caccia. "Dovrei tornare all'alba." Bremen annuì, senza discutere: capiva benissimo cosa voleva dire l'uomo della Frontiera. Potevano scendere tutti e due a fare un sopralluogo, ma era il druido quello di cui non potevano fare a meno. Ora che avevano la spada, dovevano scoprire chi e come l'avrebbe usata. Bremen era l'unico in grado di farlo. "Vengo con te" disse all'improvviso Mareth, d'impulso. L'uomo della Frontiera sorrise. Non s'aspettava quella proposta. Rifletté un momento, poi le disse, non senza gentilezza: "In due si raddoppiano le difficoltà, se ci si deve muovere di nascosto. Aspetta qui con Bremen. Aiutalo a tenere d'occhio il mio ritorno. La prossima volta potrai andare tu al mio posto". Si agganciò il cinturone con le due armi rimastegli e iniziò a scendere il pendio, nella luce che si affievoliva. Sparito l'uomo della Frontiera, il vecchio druido e la giovane donna si spostarono fra gli alberi e si accamparono. Consumarono un pasto freddo, riluttanti ad accendere un fuoco a causa della vicinanza dell'esercito delle Terre del Nord e della più che probabile presenza di Messaggeri del Teschio in caccia. Il viaggio e il caldo avevano prosciugato le loro energie e si scambiarono solo qualche parola, prima che Bremen montasse di guardia e Mareth riposasse. Il tempo passò lentamente, la notte divenne più buia, in lontananza i fuochi dell'accampamento nemico si fecero più vividi, il cielo si aprì in un profluvio di stelle. Non c'era luna, quella notte: o era nuova, oppure così bassa a meridione da non superare lo schermo d'alberi alle spalle del promontorio. Bremen si accorse che la sua mente andava ad altri tempi e altri luoghi. Ripensò alla lunga storia di Paranor e si domandò se il Consiglio dei Druidi si sarebbe riunito ancora. Da dove sarebbero giunti nuovi Druidi, ora che i vecchi erano morti? Le conoscenze perdute con la loro morte erano insostituibili. Alcune erano state trascritte negli Annali, ma non tutte. Per quanto fossero sul punto di estinguersi e si tenessero in isolamento, i Druidi erano stati gli individui più brillanti di parecchie generazioni delle Quattro Terre. Chi avrebbe preso il loro posto? Era una domanda priva di senso, perché se lui avesse fallito nel tentativo di distruggere il Signore degli Inganni, non c'era motivo di credere che rimanesse vivo qualcuno per riunire un nuovo Consiglio di Druidi. Peggio ancora, questa considerazione lo induceva a riflettere di nuovo sul fatto che lui ancora non aveva trovato un successore. Lanciò un'occhiata a Mareth addormentata, e per un istante si domandò se lei avrebbe accettato: da quando avevano lasciato Paranor, si era avvicinata a lui e possedeva un
genuino talento. Era dotata di una magia di potenza incredibile e ne teneva in grande considerazione le possibilità. Ma niente garantiva che sarebbe riuscita a padroneggiare la sua micidiale magia: se non ci fosse riuscita, sarebbe stata inutile. I Druidi dovevano avere disciplina e controllo, prima di tutto. Mareth, al momento, lottava ancora per acquisirli. Riportò lo sguardo sulle Pianure di Raab, poi lasciò vagare la mano lungo il proprio fianco, fino a posarla sulla spada. Quell'arma era ancora un mistero, pensò sconsolato. Che cosa gli serviva per scoprire la soluzione? Sarebbe andato al Perno dell'Ade a chiedere aiuto ai Druidi, ma non aveva nessuna garanzia di ottenerlo. L'ultima volta si erano addirittura rifiutati di comparirgli davanti. Perché avrebbero dovuto cambiare idea adesso? La presenza della spada li avrebbe persuasi a uscire dal mondo delle ombre? Avrebbero deciso di rispondere alla sua evocazione perché anche loro un tempo erano stati esseri umani e potevano capirne le necessità? Chiuse gli occhi e se li massaggiò stancamente. Quando li riaprì, vide che un fuoco di guardia dei nemici si muoveva verso di lui. Batté le palpebre, incredulo, sicuro d'averlo immaginato. Ma il fuoco, un tremolante puntino luminoso nella vasta oscurità delle pianure, continuò ad avanzare, ad avvicinarsi serpeggiando. Pareva librato a mezz'aria. Bremen si alzò, suo malgrado, e cercò di decidere cosa fare. Stranamente, non si sentiva minacciato, solo incuriosito. Poi la luce si delineò e prese forma, e Bremen vide che era portata da un bambino dal viso liscio e dai penetranti occhi azzurro chiaro. Mentre si avvicinava, tenendo alta la luce, lo salutò con un sorriso. Bremen batté di nuovo le palpebre. Non aveva mai visto una luce come quella: non aveva fiamma, ma brillava in un contenitore di vetro e di metallo, come alimentata da una stella in miniatura. "Salve, Bremen" disse il bambino, a bassa voce. "Salve" rispose Bremen. "Sembri stanco. Il viaggio ha preteso molto, da te. Ma hai fatto molto, perciò forse il sacrificio è stato un prezzo equo." Negli occhi azzurri c'era uno scintmio . "Sono il Re del Fiume Argento. Hai sentito parlare di me?" Bremen annuì. Aveva sentito parlare di quella creatura dell'epoca di Faeria, l'ultima della sua specie. Si diceva risiedesse nei dintorni del Lago Arcobaleno e lungo il tratto di fiume da cui prendeva il nome. Si diceva che esistesse da migliaia d'anni, che fosse uno dei primi esseri creati dal Verbo. Si diceva che le sue visioni e la sua magia fossero in egual misura antiche e lungimiranti. Compariva di tanto in tanto ai viandanti in difficoltà, spesso in sembianze di bambino, a volte di vecchio. "Sei seduto nei miei giardini" disse il bambino, con un lento e ampio gesto. "Se guardi con attenzione, puoi vederli." Bremen guardò, e all'improvviso il promontorio e le pianure sbiadirono e si trovò seduto in giardini lussureggianti d'alberi in fiore e di rampicanti, l'aria era fragrante di profumi, il fruscio dei rami simile a un dolce canto contro il serico buio della notte. La visione svanì. "Sono venuto per farti riposare e rassicurarti" disse il bambino. "Stanotte, almeno, dormirai in pace. Non occorrerà far la guardia. Il tuo viaggio ti ha portato molto lontano da Paranor, ed è tutt'altro che terminato. Troverai sfide ad ogni piè sospinto, ma se camminerai con prudenza e darai retta al tuo intuito, sopravvivrai per distruggere il Signore degli Inganni." "Sai cosa devo fare?" domandò subito Bremen. "Puoi dirmelo?" Il bambino sorrise. "Devi fare ciò che ritieni meglio.
Così è fatto il futuro. Non ci viene dato già stabilito. Si compone di una serie di possibilità: noi dobbiamo scegliere quali ci piacciono di più e poi sforzarci di realizzarle. Tu ora stai andando al Perno dell'Ade. Porti la spada agli spiriti dei Druidi morti e scomparsi. Ti pare una scelta sbagliata?" Tutt'altro: Bremen la riteneva giusta. "Però ho qualche dubbio" confessò. "Fammi vedere la spada" chiese con gentilezza il bambino. Bremen la tenne sollevata per fargliela esaminare. Il bambino allungò la mano, come per prenderla, poi si bloccò, quando quasi la sfiorava, passò le dita lungo la lama e ritrasse la mano. "Saprai cosa dovrai fare quando sarai lì" disse. "Saprai cos'è richiesto." Con sua sorpresa, Bremen capì al volo. "Al Perno dell'Ade." "Lì, e poi ad Arborlon, dove tutto è cambiato e si forma un nuovo inizio. Al momento buono capirai." "Non puoi dirmi niente dei miei amici, di cos'è accaduto..." "I Ballindarroch sono stati uccisi e c'è un nuovo re degli Elfi. Cercalo, per avere risposta alle tue domande." "E Tay Trefenwyd? E la Pietra Nera?" Ma il bambino si era alzato, portando con sé la bizzarra fonte luminosa. "Dormi, Bremen. Il mattino non tarderà a spuntare." Il vecchio druido si sentì stanchissimo. Anche se avrebbe voluto, non riuscì ad alzarsi per seguire il bambino. Voleva fargli altre domande, ma non riusciva a pronunciare le parole. Si sentiva come premuto da un peso enorme e insistente. Scivolò a terra, avvolto nel mantello, con le palpebre pesanti, il respiro lento. Il bambino mosse la mano nell'aria. "Che tu possa trovare nel sonno la forza di continuare." Il bambino e la luce si allontanarono nel buio, divennero sempre più piccoli. Bremen cercò di seguire il loro movimento, ma non riusciva a stare sveglio. Il suo respiro divenne più profondo, i suoi occhi si chiusero. Quando il bambino e la luce scomparvero, Bremen dormiva. All'alba Kinson fece ritorno. Sbucò da una coltre di nebbia mattutina che si librava fitta e umida sulle Pianure di Raab, perché durante la notte l'aria si era rinfrescata. Dietro di lui, l'esercito del Nord cominciava a scuotersi, una pigra belva che si preparava a riprendere il cammino. Giunto accanto al vecchio druido e alla giovane donna, Kinson si stiracchiò stancamente, vedendo che erano svegli e lo aspettavano con l'aria di chi ha dormito sorprendentemente bene. Guardò l'uno e l'altra, stupito per la rinnovata determinazione che lesse nei loro occhi. Lasciò cadere a terra le armi e accettò la colazione fredda e la birra che gli offrirono, sedendosi con sollievo sotto i rami frondosi di un piccolo gruppo di querce. "I soldati del Nord marciano contro gli Elfi" riferì senza tanti preamboli. "Dicono che i Nani sono distrutti." "Ma tu non ne sei certo" obiettò con calma Bremen, seduto con Mareth di fronte a lui. Kinson scosse la testa. "Hanno respinto i Nani al di là delle Montagne del Corvo, sconfiggendoli a ogni scontro. Dicono d'averli schiacciati in un luogo chiamato Stedden, ma a quanto pare non hanno trovato fra i caduti né Raybur né Risca. E non sanno neppure con esattezza quanti Nani hanno ucciso." Inarcò il sopracciglio. "Non mi sembra una vittoria clamorosa." Bremen annuì, pensieroso. "Ma il Signore degli Inganni è inquieto per l'inseguimento. Non si sente minacciato dai Nani, ma teme gli Elfi. Così si sposta a occidente." "Come hai appreso queste notizie?" domandò Mareth a Kinson, chiaramente perplessa. "Come sei riuscito ad avvicinarti tanto? Di sicuro non ti sei fatto scorgere." "Be', mi hanno visto e non mi hanno visto" sorrise
l'uomo della Frontiera. "Ero così vicino da toccarli, ma non mi hanno guardato in faccia. Mi credevano uno di loro, capisci? Nella semioscurità, avvolto nel mantello e incappucciato, un po' ingobbito, puoi essere scambiato per uno di loro, perché non si aspettano che tu sia qualcosa di diverso. E' un vecchio trucco che conviene imparare alla perfezione, prima di metterlo in pratica." Le diede un'occhiata d'apprezzamento. "Si direbbe che hai dormito bene in mia assenza." "Per tutta la notte" ammise a malincuore Mareth. "Bremen mi ha lasciata dormire. Non mi ha svegliata per la guardia." "Non ce n'era bisogno" si affrettò a dire il vecchio druido, lasciando poi cadere l'argomento. "Ma pensiamo a oggi. Siamo giunti a un altro bivio, purtroppo. Dobbiamo separarci. Kinson, voglio che tu vada nell'Est a cercare Risca. Scopri come stanno realmente le cose. Se Raybur e i Nani sono ancora in grado di combattere, conducili a ponente in aiuto agli Elfi. Riferisci loro che abbiamo un talismano che distruggerà il Signore degli Inganni, ma che ci occorre il loro aiuto per mettere Brona con le spalle al muro." Kinson rifletté un momento, perplesso. "Farò del mio meglio, Bremen. Ma i Nani contavano sugli Elfi e a quanto pare gli Elfi non sono arrivati. Mi domando quanto siano disposti i Nani ad accorrere in aiuto degli Elfi." Bremen lo fissò con fermezza. "Tocca a te convincerli. E' indispensabile, Kinson. Informali che i Ballindarroch sono stati sterminati e che è stato scelto un nuovo re. Spiega che per questo gli Elfi sono stati trattenuti. Ricorda loro che la minaccia riguarda tutti noi, non una sola Razza." Lanciò un'occhiata a Mareth, seduta al suo fianco, poi tornò a guardare l'uomo della Frontiera. "Devo andare al Perno dell'Ade per parlare con gli spiriti dei morti a proposito della spada. Da lì andrò a ponente fra gli Elfi per trovare chi la userà. Ci incontreremo là." "E io dove vado?" domandò subito Mareth. Il vecchio druido esitò. "Kinson può avere bisogno di te." "Io non ho bisogno di nessuno" obiettò subito l'uomo della Frontiera. Incrociò lo sguardo di Mareth e abbassò in fretta gli occhi. Mareth rivolse a Bremen un'occhiata interrogativa. "Per te ho già fatto tutto ciò che potevo" disse lui piano. Mareth parve capire ciò che voleva dirle. Sorrise coraggiosamente e guardò Kinson. "Mi piacerebbe venire con te, Kinson. Il tuo sarà il viaggio più lungo e forse sarà utile farlo in due. Non hai paura di me, vero?" Kinson sbuffò. "Per niente. Ricorda solo ciò che Bremen ha detto a proposito del bastone. Così forse riuscirai a non darmi fuoco alla schiena." Si pentì di quelle parole prima di finire di pronunciarle. "Non volevo dirlo" si scusò. Lei scosse la testa, come per lasciar cadere la faccenda. "So cosa intendevi. Non hai niente di cui scusarti. Siamo amici, Kinson. Gli amici si capiscono." Gli sorrise, rassicurante, e soffermò lo sguardo su di lui; Kinson pensò in quel momento che forse aveva ragione, forse erano davvero amici. Ma si scoprì a domandarsi se lei non intendesse qualcosa di più. 26 Ormai solo, dopo che tutti coloro che erano partiti con lui da Paranor avevano preso destinazioni diverse, Bremen si diresse a settentrione verso il Perno dell'Ade. Scese nelle Pianure di Raab, procedendo con calma nella foschia di metà mattino, mentre il sole saliva nel cielo
sereno. Lasciò il cavallo al passo, deviando a levante per non incappare nell'esercito del Nord, attento a non imbattersi negli esploratori che precedevano le truppe e negli sbandati che si lasciavano dietro. Udiva in lontananza i rumori dell'esercito, un rombo di carri e macchine, un cigolio di tirelle, un ronzio d'attività che sbucava dalla bruma, incorporeo e senza una provenienza precisa. Si ammantò della magia dei Druidi in modo da non essere visto neppure per caso, passò in rassegna i diversi rumori per individuare quelli che potevano minacciarlo e tenne attentamente d'occhio tutto ciò che si muoveva nella foschia. Il tempo scivolò via e il sole cominciò a disperdere la foschia. I rumori dell'esercito in partenza si affievolirono, spostandosi verso ponente, lontano dal suo percorso, e Bremen allentò la vigilanza. Ora vedeva con maggiore chiarezza le pianure, la terra riarsa e l'erba bruciata, le polverose distese, dalle foreste dell'Anar alle montagne di Runne, calpestate dall'esercito del Nord, cosparse di rifiuti e sfregiate. Cavalcò fra gli scarti e i rifiuti dell'esercito, fra i detriti che ne segnavano il passaggio, e meditò sulle brutture e la futilità della guerra. Portava agganciata sulla schiena la spada di Urprox Screl, fardello che toccava a lui, ora che Kinson era andato via. La sentiva premere su di sé mentre cavalcava: un costante promemoria della sfida che aveva di fronte. Si stupì della propria ostinazione nell'assumersi una simile responsabilità. Tutto sarebbe stato più facile, se ne avesse fatto a meno. Non aveva particolari ragioni per assumersi quel fardello. Nessuno l'aveva obbligato. Nessuno era venuto a dirgli che doveva farlo. La scelta era stata sua e quel mattino, cavalcando verso i Denti del Drago e il confronto che lo aspettava, non poteva fare a meno di domandarsi quale bisogno perverso l'avesse spinto a farlo. Non trovò acqua nelle pianure e allora, anche se il mezzodì si avvicinava, andò avanti senza fare soste. Scese di sella e per un tratto portò il cavallo per la briglia, mettendosi il cappuccio per ripararsi dal caldo, perché il sole era un'ardente sfera bianca che bruciava con impietosa insistenza. Meditò su quanto fosse grave il pericolo che correvano le Quattro Terre. Come quel terreno riarso dal sole, parevano davvero impotenti. Troppo dipendeva da cose ignote: la magia della spada, colui che l'avrebbe usata, le diverse indagini dei vari componenti il loro piccolo gruppo, la concomitanza di tutto ciò nel luogo e nel tempo giusti. Eppure, il fallimento era impensabile. Giunta la sera, Bremen si accampò nelle pianure aperte, in una gola dove un rivolo d'acqua e un po' di rada erba consentivano al cavallo di rifocillarsi. Mangiò una piccola parte del pane che ancora aveva con sé e bevve qualche sorso di birra. Guardò il cielo notturno offrire il suo spettacolo di stelle e vide un quarto di luna in ascesa levarsi all'orizzonte meridionale. Si sedette, tenendo sulle ginocchia la spada, e meditò di nuovo sul suo uso. Passò le dita sull'Eilt Druin, come se in questo modo potesse scoprire il segreto della sua magia. Saprai che cosa occorrerà, aveva detto il Re del Fiume Argento. Le ore scivolarono via, mentre lui se ne stava seduto a riflettere nella notte silenziosa e tranquilla. L'esercito del Nord era adesso troppo lontano per udirne i rumori e anche i suoi fuochi non erano visibili. Quella notte il Raab era tutto per lui e gli dava l'impressione d'essere l'unica persona vivente in tutto il mondo. Riprese il viaggio all'alba, con un'andatura più
sollecita. Le nuvole coprivano il sole e ne diminuivano il calore. La polvere si alzava sotto gli zoccoli del cavallo in piccoli sbuffi che andavano alla deriva e si disperdevano nella tenue brezza di ponente. Più avanti il terreno cominciava a cambiare, a tornare verdeggiante nella zona dove il Mermidon si staccava dalle Montagne di Runne. Nelle pianure c'erano alberi, boschetti che custodivano sorgenti ed emissari del fiume. Nel tardo pomeriggio Bremen aveva già attraversato un'ampia secca del fiume e procedeva verso la muraglia dei Denti del Drago. Avrebbe potuto fare lì una sosta e riposare, ma preferì proseguire. Il tempo era un padrone severo e non lasciava spazio all'indulgenza verso se stessi. Al calar della sera aveva raggiunto le alture che portavano nella Valle d'Argilla. Smontò e impastoiò il cavallo nei pressi di una sorgente. Guardò il sole sprofondare dietro le Montagne di Runne e cenò, pensando a che cosa gli riservava l'indomani. Una lunga notte, per cominciare. Successo o fallimento, in secondo luogo. L'incertezza era sempre notevole. Per un poco lasciò vagare la mente e si scoprì a riesaminare frammenti della propria vita, come se in quel modo potesse trovare una certa rassicurazione sulle proprie capacità. Aveva ottenuto alcuni piccoli successi contro il Signore degli Inganni e da essi poteva trarre incoraggiamento. Ma sapeva che in quel gioco pericoloso un solo passo falso poteva dimostrasi fatale e rovinare tutto ciò che era già stato ottenuto. Gli pareva iniquo, ma sapeva che mai, nella storia del mondo, l'equità aveva determinato qualcosa che contasse davvero. A mezzanotte si alzò e s'inoltrò fra le montagne. Indossava la veste nera della sua carica, col simbolo dell'Eilt Druin ricamato sul petto, e aveva con sé la meravigliosa spada di Urprox Screl. Sorrise. La spada di Urprox Screl. Avrebbe fatto meglio a chiamarla in un altro modo, perché non apparteneva più al fabbro. Ma per il momento non poteva usare nessun altro nome, né poteva dargliene uno, finché non ne avesse scoperto il vero proprietario. Così mise da parte la questione del nome della spada e respirò l'aria della notte, fresca e pulita in quelle alture, tanto limpida da dargli l'impressione di vedere all'infinito. Attraversò le strettoie e le gole che portavano alla Valle d'Argilla e raggiunse la meta quando ancora mancavano alcune ore all'alba. Per un po' rimase in piedi sul bordo della valle e guardò in basso il lago, il Perno dell'Ade, immobile e piatto come uno specchio, che rifletteva il cielo punteggiato di stelle luminose. Guardò lo specchio delle placide acque e si trovò a domandarsi quali segreti nascondesse. Sarebbe riuscito a svelarne una piccola parte? Avrebbe trovato un modo per scoprire solo alcuni segreti, quelli che gli avrebbero dato una possibilità di continuare con successo la lotta? Lì, nelle profondità del lago, le risposte aspettavano, tesori accumulati e protetti dagli spiriti dei morti, forse perché era tutto ciò che rimaneva loro della vita da cui si erano separati, forse perché nella morte c'è ben poco di cui si possa vantare il possesso. Si sedette tra i sassi e continuò a fissare il lago e a meditarne i misteri. Come si diventava, quando si perdeva la vita e si assumeva la forma di spirito? Che cosa si provava, a vivere nelle acque del Perno dell'Ade? Si sentiva, nella morte, qualcosa di ciò che si era provato in vita? Si conservavano i ricordi? Si avevano gli stessi desideri, gli stessi bisogni? C'era uno scopo nell'esistenza, una volta perduto il corpo fisico? Quante incognite, pensò. Ma era vecchio, e quei
segreti gli sarebbero stati rivelati fin troppo presto. Un'ora prima dell'alba prese la spada e scese nella valle. Scelse con cura il percorso sui lucidi frammenti di ossidiana, per non mettere il piede in fallo, e cercò di non pensare a ciò che l'aspettava. Ritrovò la calma, ritirandosi profondamente in se stesso mentre camminava, raccogliendo i pensieri e dando forma alle proprie necessità. La notte era tranquilla e silenziosa, ma già sentiva qualcosa agitarsi dentro la terra. Giunse alla base del pendio, si diresse alla riva del Perno dell'Ade e si fermò. Rimase fermo per qualche istante, sentendo un brivido d'incertezza. Troppe cose dipendevano da ciò che sarebbe accaduto adesso e lui sapeva troppo poco di ciò che avrebbe dovuto fare. Posò la spada davanti a sé, al bordo dell'acqua, e si raddrizzò. Non poteva fare nient'altro. Il tempo scivolava via. Iniziò gli incantesimi e i gesti che avrebbero evocato gli spiriti dei morti. Eseguì il rituale con ferrea determinazione, scacciando il più possibile dubbi e incertezze, allontanando la paura. Sentì la terra rumoreggiare e il lago agitarsi in risposta al suo richiamo. Il cielo si oscurò come se fossero comparse nubi ad ammantarlo e le stelle scomparvero. L'acqua sibilò e ribollì, le voci dei morti cominciarono ad alzarsi in bisbigli che presto si mutarono in gemiti e grida. Bremen sentì la propria decisione rafforzarsi come per schermarlo in qualche modo da ciò che i morti avrebbero potuto fargli. Si rafforzò e s'irrigidì, tanto che gli unici movimenti provenivano dal rapido volo dei suoi pensieri. Aveva terminato l'evocazione: raccolse la spada e arretrò di qualche passo. Il lago ribolliva furiosamente, lanciando spruzzi in ogni direzione, e le voci erano diventate una cacofonia da far impazzire. Bremen rimase fermo al suo posto e attese ciò che doveva accadere. In quella valle era tagliato fuori dal mondo, isolato dai viventi, solo con i morti. Se qualcosa fosse andato storto, nessuno sarebbe accorso in suo aiuto. Qualsiasi cosa fosse accaduta quel giorno, avrebbe gravato solo sulle sue spalle. Ed ecco il centro del lago esplodere come un vulcano in eruzione e una colonna d'acqua, enorme e nera, alzarsi in aria. Bremen sgranò gli occhi: non aveva mai visto niente di simile. La colonna si alzò verso il cielo e l'acqua non ricadde, non si disperse. Tutt'intorno svolazzavano le spettrali sagome degli spiriti dei morti. Comparvero in sciami, emergendo non dal lago, ma dalla colonna, proiettati dalla massa d'acqua ribollente. Nuotavano nell'aria come se fossero ancora in acqua e le loro piccole forme creavano una fantasmagoria di colori contro il nero della notte. Mentre turbinavano, emettevano grida, con voci acute e pungenti, come se non avessero mai voluto altro che trovarsi in quel preciso momento del tempo. Rimbombi simili a colpi di tosse si levarono all'improvviso dalla parte centrale della colonna e Bremen arretrò suo malgrado, perché sotto i suoi piedi il terreno si sollevava per la forza di quel frastuono. Forse aveva oltrepassato i limiti, penso inorridito. Aveva sbagliato qualcosa. Ma era troppo tardi per apportare cambiamenti, anche se avesse saputo cosa fare, ed era troppo tardi per scappare. Fra le sue mani, la piastra dell'Eilt Druin incastonata nella spada iniziò a risplendere. Bremen trasalì come se si fosse scottato. Per tutte le ombre' Allora la colonna d'acqua s'infranse, si spezzò al centro come colpita dal fulmine. Dal suo interno scaturì una luce così vivida da costringere Bremen a ripararsi gli occhi. Alzò le braccia per
proteggersi, tenendo davanti a sé la spada come per rintuzzare una minaccia. La luce sfolgorò e nello stesso tempo cominciò a emergere da essa una fila di forme scure. Si materializzarono a una a una, avvolte nel mantello e incappucciate, nere come la notte, emettendo nuvolette di calore. Bremen cadde in ginocchio, incapace di restare ancora in piedi di fronte a ciò che accadeva, sempre cercando di coprirsi gli occhi e nello stesso tempo di guardare. A una a una le figure ammantate si avvicinarono e Bremen le riconobbe: erano gli spiriti dei Druidi defunti, le ombre di coloro che l'avevano preceduto, più imponenti in morte che non in vita, apparizioni prive di sostanza e tuttavia terribilmente presenti. Il vecchio druido si ritrasse da loro suo malgrado, tante ne erano giunte altre ancora sgorgavano, in una fila all'apparenza infinita che si librava a mezz'aria davanti a lui, accostandosi sopra le ribollenti acque del lago, inesorabili e tenebrose. Ora Bremen udì le loro parole, udì che chiamavano lui. Le loro voci superavano quelle delle figure più piccole che le accompagnavano, ripetevano in continuazione il suo nome. Bremen, Bremen. Davanti a tutti veniva Galaphile e la sua voce era la più forte. Bremen, Bremen. Il vecchio druido desiderò con tutto se stesso di fuggire, avrebbe dato qualsiasi cosa per poterlo fare. Sentì il proprio coraggio svanire, la propria determinazione sciogliersi come neve al sole. Quelle apparizioni venivano per lui, che già sentiva sul corpo il tocco delle loro mani spettrali. La follia gli ronzava nella testa, minacciava di sopraffarlo. E quelle vennero ancora avanti, sagome gigantesche che si aprivano la strada nel buio, apparizioni prive di volto, fantasmi emersi dal tempo e dalla storia. Bremen scoprì di non riuscire a frenare il tremito, di non essere in grado di pensare lucidamente. Voleva gridare di disperazione. Poi furono di fronte a lui, Galaphile per primo, e Bremen chinò la testa nell'incavo del braccio, impotente. ... Presenta la spada... Bremen ubbidì e protese davanti a sé la spada come avrebbe proteso un talismano. Galaphile sfiorò con le dita l'Eilt Druin e all'istante l'emblema avvampò di luce bianca. Galaphile si scostò e un altro druido si fece avanti, toccò l'emblema e si allontanò. A uno a uno, gli spiriti sfilarono e toccarono la spada, sfiorarono l'Eilt Druin e si allontanarono. Ogni volta l'emblema avvampò di luce. Da dietro il braccio con cui si schermava, Bremen guardò la cerimonia. Poteva sembrare una benedizione, un'approvazione, ma il vecchio druido capì che si trattava di qualcosa di più, di qualcosa di più oscuro e di più importante. Il tocco dei morti trasferiva qualcosa nella spada. Bremen lo sentiva. Sentiva che faceva presa. Era ciò per cui era venuto. Impossibile sbagliarsi. Era ciò che cercava. Eppure nemmeno allora, nemmeno nel momento in cui accadeva, riusciva a decifrarne il senso. Così rimase in ginocchio sulla riva del Perno dell'Ade, negli spruzzi e nel buio, sbigottito e confuso, ascoltando i suoni dei morti, testimone oculare del loro passaggio, domandandosi che cosa avvenisse. Quando i Druidi furono tutti passati, Bremen restò solo. Le voci degli spiriti svanirono e nel silenzio udì l'ansito del proprio respiro affannoso. Il sudore gli inzuppava il corpo, gli luccicava in viso. Aveva il braccio dolorante, ma non trovava la forza di ritrarre la spada protesa. Attese, sapendo che c'era dell'altro. ... Bremen... Il suo nome, detto da una voce che riconosceva. Alzò con prudenza la testa. Le ombre dei Druidi
erano sparite. La colonna d'acqua era scomparsa. Rimanevano solo il lago e il buio della notte e, proprio davanti a lui, lo spirito di Galaphile. Bremen si alzò e strinse a sé la spada, come per attingervi forza. Aveva lacrime sul viso e non sapeva da dove provenissero. Erano sue? Cercò di parlare, ma non ci riuscì. Parlò invece l'ombra di Galaphile. ... Ascolta bene. La spada ha ricevuto il potere. Ora portala a chi la impugnerà. Cercalo a ponente. Lo riconoscerai. La spada ora appartiene a lui... Bremen cercò parole che si rifiutavano di venire. Lo spettro puntò il braccio. ... Domanda pure... Il vecchio druido sentì che la mente gli si snebbiava e le sue parole suonarono aspre, piene di timore reverenziale. "Cos'avete fatto?" ... Abbiamo dato la parte di noi stessi che potevamo dare. La nostra vita è terminata. I nostri insegnamenti sono andati perduti. La nostra magia si è dissolta nel declino del tempo. Resta solo la nostra verità, tutto ciò che ci è appartenuto in vita, negli insegnamenti, nella magia, risoluto e affilato e forte nell'uccidere... La verità? Bremen fissò l'ombra, perplesso. Dov'era il potere della spada? Quale forma di magia proveniva dalla verità? Tutti i Druidi che erano passati davanti a lui, che avevano toccato la spada e l'avevano fatta avvampare con tanta vivezza... per quello? Lo spettro di Galaphile puntò di nuovo il braccio, in un gesto così autorevole che le domande morirono nella gola di Bremen mentre gli veniva chiesta attenzione. La figura scura davanti a lui spazzò via tutto, tranne la propria presenza, e all'intorno il silenzio fu totale. ... Ascolta, Bremen, ultimo di Paranor. Ti dirò ciò che dovresti sapere. Ascolta... E Bremen, catturato anima e cuore dal potere delle parole dello spettro, ascoltò. Quando tutto fu terminato e lo spirito di Galaphile scomparve, quando le acque del Perno dell'Ade tornarono immobili e l'alba d'argento e d'oro si fece avanti da oriente, il vecchio druido risalì la Valle d'Argilla e si stese sul letto di pietre nere per dormire. Il sole sorse e la luce del giorno divenne più intensa, ma il vecchio druido non si svegliò. Dormì di un sonno profondo, pieno di sogni, e le voci dei morti gli mormorarono parole che non poteva capire. Si svegliò al tramonto, tormentato dai sogni fatti, dall'incapacità di decifrarli, dal timore che gli nascondessero segreti che lui avrebbe dovuto svelare affinché le Razze potessero sopravvivere. Rimase seduto nel caldo e nelle ombre del crepuscolo sempre meno luminoso, trasse dalla sacca l'ultimo pezzo di pane e ne mangiò metà, in silenzio, con lo sguardo perso verso le montagne, verso l'alta e bizzarra catena dei Denti del Drago, dove le nuvole si strofinavano contro i picchi frastagliati, nel loro viaggio a levante fino alle pianure. Bevve qualche sorso di birra dall'otre ormai semivuoto, e rifletté su ciò che aveva appreso. Rifletté sul segreto della spada. Sulla natura della magia della spada. Poi si alzò e scese le alture ai piedi del monte, fino al punto dove la notte precedente aveva lasciato il cavallo. Scoprì che il cavallo era sparito. Qualcuno l'aveva preso: le impronte del ladro erano chiare nel terriccio, solo una serie, i passi di una persona che si era avvicinata e si era allontanata col cavallo. Non diede quasi nessun peso al furto e s'incamminò verso ponente, riluttante a ritardare ancora l'inizio del viaggio. A piedi avrebbe impiegato almeno quattro giorni, di più se avesse dovuto evitare l'esercito del Nord, cosa del resto molto probabile. Ma non poteva farci niente. Forse strada facendo avrebbe
trovato un altro cavallo. Scese la notte e si levò una falce di luna crescente che rischiarò il cielo; le nuvole veleggiavano in silenzioso corteo, proiettando su di essa ombre passeggere. Bremen camminò con andatura regolare, seguendo il nastro argenteo del Mermidon che serpeggiava verso ponente, e si tenne all'ombra dei Denti del Drago, dove il chiaro di luna non l'avrebbe esposto alla vista. Intanto rifletteva sulle proprie possibilità e continuava a esaminarle da tutti i punti di vista. Galaphile venne a lui, gli parlò e gli fece nuove rivelazioni. Gli spiriti dei Druidi sfilarono un'altra volta, spettri solenni e muti, e protesero la mano a toccare la spada, abbassarono le dita sull'Eilt Druin, lo sfiorarono e si allontanarono. Trasferivano nella spada le verità scoperte in vita. La impregnavano del potere che simili verità potevano dare. Le conferivano potere. Bremen inspirò profondamente l'aria della notte. Ora capiva davvero appieno il potere del talismano? Pensava di sì, eppure gli pareva una ben piccola magia su cui confidare contro un nemico così potente. Come convincere l'uomo cui era destinata la spada che quel potere bastava a prevalere? Quanto, di ciò che sapeva, avrebbe dovuto rivelare? Rivelando troppo poco, avrebbe rischiato di destinare a sicura sconfitta colui che l'avrebbe impugnata perché tenuto troppo all'oscuro. Rivelando troppo, avrebbe rischiato di perderlo perché troppo impaurito. In quale direzione gli sarebbe convenuto sbagliare? Avrebbe capito che si trattava dell'uomo giusto, quando l'avesse incontrato? Si sentiva andare alla deriva sull'incertezza. Troppe cose dipendevano da quell'arma, eppure era stato lasciato a lui solo il peso di decidere in quale modo adoperarla. A lui solo, perché quello era il fardello che si era assunto, il patto che aveva stretto. La notte passò lentamente e Bremen giunse dove il fiume si biforcava a meridione attraverso le Montagne di Runne. Il vento soffiava da sudovest e portava odore di morte. Nel sentire quel lezzo riempirgli le narici, Bremen si fermò. C'erano uccisioni a valle del Mermidon, e in gran numero. Rifletté sul da farsi, poi guadò il fiume. Più in basso c'era Varfleet, l'insediamento meridionale dove cinque anni prima lui aveva reclutato Kinson. Il puzzo di morte proveniva da lì. Giunse nella cittadina quando il mattino era ancora lontano e la notte era un sudario silenzioso e buio. Mentre si avvicinava, il puzzo si faceva più intenso e capì subito cos'era avvenuto. C'era del fumo, pigri riccioli di nastro grigio nel chiaro di luna. Tizzoni ancora accesi mandavano una luce rossastra. Tavole di legno sporgevano come lance dal terreno. Varfleet era stata incendiata e rasa al suolo, i suoi abitanti erano stati uccisi o costretti alla fuga. Uccisi a migliaia. Il vecchio druido scosse la testa, impotente, mentre percorreva le vie silenziose e deserte. Gli edifici erano stati abbattuti e saccheggiati. A ogni angolo, persone e animali giacevano privi di vita, distesi in mucchi grotteschi. Camminò fra le macerie, stupito da tanta ferocia. Scavalcò il cadavere di un vecchio con gli occhi sbarrati e ormai ciechi. Un ratto sgusciò da sotto il cadavere e si allontanò rapido. Arrivò al centro della cittadina e si fermò. Non pareva che ci fosse stata una vera e propria battaglia: in giro si vedevano poche armi. Molti avevano l'aria d'essere stati sorpresi nel sonno. Quanti familiari e amici di Kinson giacevano fra loro? Scosse tristemente la testa. L'attacco, calcolò, risaliva a un paio di giorni addietro. L'esercito invasore era
giunto dall'Est ed era passato a nord del Lago Arcobaleno per scontrarsi con gli Elfi. Varfleet aveva avuto la sventura di trovarsi sul suo cammino. Tutti i villaggi delle Terre del Sud, fra lì e le Pianure di Streleheim, avrebbero subito una sorte identica, pensò disperato. Sentì crescere dentro di sé un grande vuoto. Le parole per descrivere come si sentiva parevano davvero inadeguate. Si strinse nella veste scura, si mise in spalla la spada e uscì dalla cittadina, cercando di non guardare le vittime del massacro. Era quasi fuori, quando percepì un movimento. Un altro non se ne sarebbe accorto, ma lui era un druido. Non vedeva con gli occhi, ma con la mente. Qualcuno, ancora vivo, si teneva nascosto fra le macerie. Deviò a sinistra, procedendo con cautela, già protetto da una rete di magia. Non si sentiva minacciato, ma aveva il buon senso di fare attenzione. Avanzò fra una serie di case in rovina fino a una tettoia crollata. Lì, nel vano di un ingresso sbilenco, era acquattata una figura. Bremen si fermò. Era un fanciullo di dodici anni al massimo, con vesti lacere e macchiate, viso e mani sudici e sporchi di cenere. Il fanciullo si ritirò nell'ombra, come per chiedere riparo alla terra stessa. Reggeva davanti a sé un coltello, in posizione di difesa. Aveva capelli lisci e scuri, tagliati all'altezza delle spalle, che ricadevano flosci ai lati del viso smunto. "Esci pure, giovanotto" disse piano Bremen. "Non hai niente da temere." Il fanciullo non si spostò di un palmo. "Qui non c'è nessuno, a parte te e me. Gli autori di questa strage se ne sono andati. Su, vieni fuori." Il fanciullo rimase dov'era. Bremen guardò in lontananza, distratto dall'improvviso bagliore di una stella cadente. Trasse un profondo sospiro. Non poteva attardarsi e in ogni caso non poteva fare niente per il fanciullo. Stava perdendo tempo. "Ora me ne vado" disse stancamente. "Dovresti fare come me. Qui sono tutti morti. Va' in uno dei villaggi a meridione e chiedi aiuto. Buona fortuna." Si girò e si allontanò. Quanti sarebbero rimasti senza casa, distrutti nello spirito, prima della fine! Era un pensiero deprimente. Scosse la testa. Percorse un centinaio di passi e all'improvviso si fermò. Si girò e vide che il fanciullo era lì: la schiena contro una parete, il coltello in pugno, lo teneva d'occhio. Bremen esitò. "Hai fame?" Tolse dalla sacca l'ultimo pezzo di pane. Il fanciullo allungò la testa e mostrò il viso. Gli occhi gli brillarono. Quegli occhi... Bremen sentì un'improvvisa stretta alla gola. Conosceva quel fanciullo! Era nella quarta visione di Galaphile! Lo tradivano gli occhi, intensi, penetranti, che parevano strappare di dosso la pelle. Un semplice fanciullo, un orfano sopravvissuto a quel massacro... eppure aveva in sé qualcosa di profondo, d'affascinante... "Come ti chiami?" domandò piano Bremen. L'altro non rispose. Rimase immobile. Bremen esitò, poi mosse un passo. Subito il fanciullo si ritrasse nell'ombra. Il vecchio druido si fermò, posò a terra il pezzo di pane, si girò e si allontanò. Dopo cinquanta passi si fermò di nuovo. Il fanciullo lo seguiva, tenendolo d'occhio, e intanto sbocconcellava il pezzo di pane. Bremen gli rivolse varie domande, ma l'altro non rispose. Provò ad avvicinarsi, ma il fanciullo arretrò in fretta; cercò di convincerlo ad accostarsi, ma non gli diede retta. Alla fine il vecchio druido riprese il cammino. Non sapeva cosa fare. Non voleva che lo seguisse, ma la visione di Galaphile suggeriva l'esistenza di un collegamento di qualche sorta fra lui e il fanciullo. Forse, con la pazienza, avrebbe scoperto di che cosa si
trattava. Al sorgere del sole deviò di nuovo verso nord e riattraversò il Mermidon. Seguì la linea dei Denti del Drago fino al tramonto. Quando si accampò, vide che il fanciullo era lì, al limitare della radura dove aveva deciso di fermarsi: se ne stava nell'ombra degli alberi e lo teneva d'occhio. Bremen non aveva cibo, ma lasciò a poca distanza da sé una tazza di birra. Dormì fino a mezzanotte, poi si svegliò e riprese il cammino. Il fanciullo aspettava, e quando Bremen riprese il viaggio lo seguì. Continuarono così per tre giorni. Al termine del terzo giorno, il fanciullo si avvicinò e divise col druido un parco pasto a base di radici e bacche. Al mattino, svegliandosi, Bremen lo scoprì che dormiva accanto a lui. Si alzarono insieme e procedettero verso ponente. Quella sera, mentre arrivavano al limitare delle Pianure di Streleheim e si preparavano ad attraversarle, il fanciullo si decise a parlare. Si chiamava, disse al vecchio druido, Allanon. Parte quarta. LA BATTAGLIA DELLA VALLE DI RHENN. 27 Era tardo pomeriggio e c'era poca luce, grigia e brumosa, nello studio del padiglione estivo dei Ballindarroch, dove in quel momento Jerle Shannara esaminava le mappe aperte sul tavolo. Fuori continuava a piovere. Il re degli Elfi aveva l'impressione che piovesse da settimane, ma sapeva bene che quell'impressione era generata in gran parte dal suo attuale umore: appena pensava alle condizioni del tempo, pareva proprio che piovesse di nuovo. E quel giorno la pioggia era più intensa del solito, spinta da un vento di ponente che frustava i rami degli alberi e sparpagliava foglie come pezzi di carta. Alzò gli occhi dalle mappe che aveva accuratamente esaminato e sospirò. Trovava una certa consolazione nel fatto che, col maltempo, il Signore degli Inganni incontrasse maggiori difficoltà di lui a muovere l'esercito. Dei due, quello del Signore degli Inganni era il meno manovrabile: un grande, scomposto, lento bestione gravato di salmerie e di macchine d'assedio. Nelle migliori condizioni atmosferiche poteva percorrere forse venti miglia al giorno. Tre giorni prima era entrato nelle Pianure di Streleheim e solo adesso aveva completato l'attraversamento del Mermidon. Quindi avrebbe impiegato almeno altri due giorni per arrivare nella Valle di Rhenn. Gli Elfi erano già sul posto. Avvisati dagli esploratori, sapevano da più di una settimana dell'arrivo dell'esercito del Nord e avevano avuto tutto il tempo di prepararsi. Una volta individuato il nemico, era facile immaginare da quale parte avrebbe attaccato Arborlon e gli Elfi. La Valle di Rhenn era la via più praticabile e diretta per le Terre dell'Ovest. Un grosso esercito avrebbe avuto difficoltà a procedere su altri percorsi e poi si sarebbe trovato ad attaccare la città natia degli Elfi da uno dei lati meglio protetti. A nord, a sud e a ovest Arborlon aveva difese naturali: montagne, dirupi, il Fiume Rill Song. Solo da est era vulnerabile. E l'unica posizione strategica per i suoi difensori era la Valle di Rhenn. Se i passi di quella valle fossero caduti in mano al nemico, la via per Arborlon sarebbe stata spalancata. Le mappe, purtroppo, mostravano proprio questo. Jerle le aveva studiate attentamente per più di un'ora e non aveva scoperto niente di nuovo. Gli
Elfi avrebbero dovuto difendere la Valle di Rhenn, altrimenti sarebbero stati perduti. Non esisteva una seconda linea di difesa che valesse la pena considerare. Questo fatto semplificava le decisioni. Restava solo da decidere la tattica. Gli Elfi avrebbero dunque difeso la Valle di Rhenn, ma come? Quanto avrebbero dovuto estendere le proprie linee per rallentare l'attacco iniziale? Quali misure protettive dovevano prendere contro un attacco ai fianchi lanciato da contingenti minori in grado di penetrare nelle foreste? Quali formazioni dovevano impiegare contro un esercito cinque volte superiore che avrebbe usato macchine d'assedio costruite durante la marcia a occidente? Dalle mappe non ricavava certo le risposte a queste domande, ma studiandole riusciva a stabilire meglio che cosa occorresse. Guardò ancora una volta dalla finestra la pioggia. Preia sarebbe tornata presto e avrebbero cenato insieme, per l'ultima volta, prima di partire per la Valle di Rhenn. La maggior parte dell'esercito era già accampata nella valle. Il Gran Consiglio aveva proclamato lo stato d'emergenza e lui, da poco incoronato, aveva assunto il potere. Adesso aveva potere assoluto e incontrastato. Era stato incoronato due settimane prima, aveva preso in moglie Preia e adottato i due orfani Ballindarroch. Sistemata la faccenda della successione al trono, aveva rivolto l'attenzione al Gran Consiglio. Aveva nominato primo ministro Vree Erreden e incluso Preia fra i consiglieri. C'era stata qualche protesta, ma nessuna opposizione. Aveva chiesto il permesso di mobilitare l'esercito e di marciare a levante in aiuto dei Nani. C'erano state altre proteste e un accenno d'opposizione, ma prima che prendesse corpo, si era saputo che l'esercito del Nord si avvicinava e che gli Elfi non avrebbero avuto bisogno di marciare da nessuna parte. Riflettendo ora su quei particolari, Jerle scosse la testa. Non sapeva che fine avessero fatto i Nani. Nessuno lo sapeva. Aveva inviato alcuni cavalieri per scoprire se l'esercito dei Nani era stato distrutto, come correva voce, ma ancora non aveva avuto notizie precise. Poteva solo concludere che i Nani non erano in grado di aiutare nessuno e che gli Elfi dovevano cavarsela da soli. Scosse stancamente la testa. Gli Elfi erano rimasti senza alleati, senza magia, senza Druidi, senza una vera possibilità di vincere quella guerra, malgrado le visioni e le profezie e tutte le speranze. Riprese a studiare le mappe, come se la soluzione del problema si trovasse lì e gli fosse sfuggita. C'era stato un periodo, non molto tempo prima, in cui non si sarebbe mai permesso di fare una stima così onesta della situazione. Non avrebbe mai ammesso di poter perdere una battaglia contro un nemico più forte. Era molto cambiato, da allora. La perdita di Tay Trefenwyd e dei Ballindarroch, il rischio di perdere anche Preia, la corona di re degli Elfi in circostanze non proprio ideali, la scoperta di avere in se stesso pecche di cui non si era reso conto, gli avevano dato una prospettiva diversa. Non era un'esperienza debilitante, ma moderatrice. Immaginava che accadesse a tutti, maturando. Era il rito di passaggio che si sopporta quando ci si lascia alle spalle, una volta per tutte, la fanciullezza. Si ritrovò a esaminare le cicatrici che aveva sul dorso delle mani. Piccole mappe anch'esse, tracciavano l'evoluzione della sua vita. Guerriero fin dalla nascita, ora re degli Elfi, aveva percorso in breve tempo molta strada e le cicatrici fornivano, meglio delle parole, un accurato rendiconto del prezzo di quel viaggio. Quante altre se ne
sarebbe procurato nella battaglia contro il Signore degli Inganni? Era abbastanza forte per quel confronto? Abbastanza forte per sopravvivere? Portava in battaglia non solo il proprio futuro, ma anche quello del suo popolo. Quanto doveva essere forte, per questo? I battenti della porta che dava sulla terrazza si spalancarono con forza, sbattuti contro la parete dal vento, e le tende volteggiarono come impazzite. Nel veder entrare nella stanza due figure in mantello nero, zuppe di pioggia e un po' curve, Jerle Shannara allungò la mano verso la spada. Le mappe si sparpagliarono per terra, i lumi tremolarono e si spensero. "Trattieni la mano, re degli Elfi" ordinò il primo degli intrusi, mentre il secondo, più piccolo, si girava a chiudere la porta, lasciando fuori il vento e la pioggia. Nella stanza tornò il silenzio. Dagli intrusi gocciolava acqua che si raccoglieva in pozze e sporcava il pavimento. Il re si tenne sulla difensiva, la spada in parte sguainata, pronto a scattare. "Chi siete?" domandò. Il più alto degli intrusi tirò indietro il cappuccio e si mostrò nella luce incerta e grigia. Jerle Shannara trasse un lungo sospiro. Era il druido Bremen. "Non contavo più su di te" disse in un bisbiglio, lasciando trasparire l'emozione. "Nessuno ci sperava, ormai." Il vecchio druido gli rivolse un sorriso amaro. "Ne avevate motivo. C'è voluto molto tempo per raggiungerti, tanto quanto quello necessario per scoprire che eri tu colui che cercavo." Da sotto il mantello fradicio trasse un oggetto lungo e sottile, avvolto in stoffa scura. "Ti ho portato una cosa." Jerle Shannara annuì. "Lo so." Rimise nel fodero la sua spada. Un lampo di sorpresa si accese negli occhi del druido. Guardò il suo compagno. "Allanon" disse. Il fanciullo si tolse il cappuccio, mostrandosi. Occhi scuri e ardenti fissarono il re degli Elfi, ma il viso liscio, dai tratti spigolosi, non rivelò niente. "Togliti il mantello e aspetta fuori. Non far entrare nessuno, finché non avremo terminato. Di' che si tratta di un ordine del re." Il fanciullo annuì, si tolse il mantello, lo appese a un attaccapanni e uscì. Bremen e Jerle Shannara rimasero soli nello studio, con le mappe ancora sparpagliate per terra, e si guardarono negli occhi. "Ne è passato di tempo, Jerle." Il re sospirò. "E' vero. Cinque anni? Di più, forse?". "Quanto basta per non riconoscere i tratti del tuo viso. O forse sei semplicemente invecchiato, come tutti." Nel crepuscolo che s'insinuava nella stanza, il suo sorriso andava e veniva. "Dimmi cosa sapevi del mio arrivo." Jerle si rilassò, mentre guardava il druido togliersi il mantello e gettarlo stancamente da parte. "Mi hanno detto che mi porti una spada forgiata con la magia. Una spada che devo usare nella battaglia contro il Signore degli Inganni." Esitò. "E' vero? Hai portato un'arma del genere?" Il vecchio druido annuì. "Sì." Depose con cura sul tavolo l'oggetto avvolto in stoffa scura. "Ma non ero sicuro che fosse destinata a te finché non ti ho visto sguainare la spada, pronto a colpirmi. In quel momento ho capito che eri colui al quale la spada è destinata. Alcune settimane fa, al Perno dell'Ade, mi è stata mostrata una visione in cui impugnavi questa spada, ma non ti ho riconosciuto. Tay Trefenwyd ti ha parlato di quella visione?" "Sì. Ma neppure lui sapeva che la spada era destinata a me. E' stato il locat Vree Erreden ad avvisarmi. Anche lui ha avuto una visione, mi ha visto impugnare quella spada, una spada con un emblema incastonato nell'elsa, l'emblema di una mano che protende una torcia accesa. Mi ha detto che
quello era il simbolo dei Druidi." "Un locat?" si stupì Bremen, scuotendo la testa. "Pensavo che sarebbe stato Tay a..." "No. Tay Trefenwyd è morto, ucciso alcune settimane fa nella Catena di Confine." Parlò con voce rapida, dura, e le parole uscirono accavallate. "Ero con lui. Eravamo andati a recuperare la Pietra Nera, come ci avevi detto. Abbiamo trovato la Pietra, ma le creature del Signore degli Inganni hanno trovato noi. Eravamo in cinque contro un centinaio. C'erano Messaggeri del Teschio. Tay capì che eravamo condannati. La sua magia era svanità, consumata nella lotta per impossessarsi della Pietra, così lui..." Il re non trovò più parole. Sentiva le lacrime rigargli il viso, aveva un nodo in gola. Non riuscì a proseguire. "Ha usato la Pietra Nera ed essa l'ha ucciso" terminò per lui il vecchio druido, a voce così bassa da essere appena percettibile. "Anche se l'avevo messo in guardia. Anche se sapeva cosa sarebbe accaduto." Serrò con forza le mani, vecchie e nodose. "Perché doveva. Perché non poteva farne a meno." Rimasero in silenzio l'uno davanti all'altro, senza guardarsi. Poi Jerle si chinò a raccogliere alcune mappe e le rimise sul tavolo, accanto all'involto di tela. Il vecchio lo guardò per un momento, poi si chinò per aiutarlo. Quando le mappe furono tutte al loro posto, il vecchio prese fra le sue mani quelle del re. "Mi dispiace che sia morto, più di quanto non sappia esprimere a parole. Era un buon amico per entrambi." "Mi ha salvato la vita" disse piano Jerle, non sapendo cos'altro dire, e decidendo dopo un attimo che quelle parole bastavano. Bremen annuì. "Ero preoccupato per lui" mormorò, lasciando le mani del re e accostandosi a una sedia. "Possiamo sederci, mentre parliamo? Ho camminato tutta la notte e tutto il giorno, per raggiungerti. Il fanciullo mi ha accompagnato. E' un superstite dell'attacco a Varfleet. Mentre avanza, l'esercito del Nord devasta il paese e gli abitanti, distrugge qualsiasi cosa, uccide chiunque. Il Signore degli Inganni comincia a perdere la pazienza." Jerle Shannara si sedette di fronte a lui. Le mani del druido, stringendo le sue, gli avevano dato l'impressione di toccare foglie secche. Una sensazione di morte che non riusciva a togliersi di dosso. "Che fine hanno fatto i Nani?" domandò, nel tentativo di sviare i propri pensieri. "Non siamo riusciti ad avere loro notizie." "I Nani hanno contrastato l'invasione dell'esercito del Nord finché hanno potuto. Le voci su ciò che è accaduto in seguito sono diverse. Le ho sentite, ma ho ragione di credere che siano errate. Ho inviato degli amici a scoprire la verità e a portare in tuo aiuto i Nani, se saranno in grado di farlo." Il re scosse la testa, con aria scoraggiata. "Perché dovrebbero venire in nostro aiuto, quando noi non siamo accorsi da loro? Noi li abbiamo abbandonati, Bremen." "Avevi un motivo." "Può darsi. Non ne sono più tanto sicuro. Sei al corrente della morte di Courtann Ballindarroch? E della distruzione della sua famiglia?" "Mi hanno informato." "Abbiamo fatto il possibile, Tay e io. Ma il Gran Consiglio non voleva agire senza la guida di un re. Non c'era niente da fare. Così abbiamo rinunciato ai nostri sforzi per aiutare i Nani e ci siamo messi invece alla ricerca della Pietra Nera." Esitò. "Ora mi domando se sia stata una scelta saggia." Il druido si sporse verso di lui, con una luce intensa negli occhi. "La Pietra Nera è in tuo possesso?" Il re annuì. "Nascosta al sicuro, in attesa del tuo arrivo. Non voglio averci più niente a che fare. Ho visto di che cosa è capace. Ho visto quant'è pericolosa. Da
questa storia traggo un solo conforto: sapere che la Pietra sarà usata per distruggere il Signore degli Inganni e i suoi mostri." Bremen scosse la testa. "No, Jerle. La Pietra Nera non è destinata a questo scopo." Le parole furono secche e sorprendenti. Il re divenne rosso e protestò, rauco per la collera: "vuoi dire che Tay è morto per niente? E' questo, che dici?". "Non arrabbiarti con me. Non faccio io le regole di questo gioco. Anch'io sono soggetto ai dettami del fato. La Pietra Nera non è un'arma in grado di distruggere il Signore degli Inganni. Ti è difficile crederlo, lo so, ma è la verità. La Pietra è un'arma potente, ma stravolge chi la usa. Lo infetta con lo stesso potere che cerca di distruggere. Il Signore degli Inganni e un male così penetrante che ogni tentativo di rivolgere contro di lui la Pietra si risolverebbe nella distruzione di chi la usa." "Allora perché abbiamo rischiato la vita per recuperarla?" Livido in viso, il re non riusciva a nascondere la collera. Il vecchio druido rispose in tono calmo, convincente. "Perché non potevamo permettere che cadesse nelle mani di Brona. Perché in mano sua la Pietra diventerebbe un'arma micidiale. E perché, re degli Elfi, è necessaria per qualcosa di ancora più importante. Quando questa storia si sarà conclusa e il Signore degli Inganni non esisterà più, la Pietra consentirà ai Druidi di aiutare le Quattro Terre, anche dopo la mia morte. Consentirà la sopravvivenza della loro magia e del loro sapere." Il re fissò in silenzio il druido, senza capire. Un lieve bussare alla porta li distrasse. Il re batté le palpebre e domandò con irritazione: "Chi è?". La porta si aprì ed entrò Preia Starle. Parve indifferente alle brusche maniere di Jerle. Lanciò un'occhiata a Bremen, poi guardò di nuovo il re. "Vorrei portare il fanciullo nei quartieri delle Guardie Reali per farlo rifocillare e riposare. E' sfinito. Non è necessario che continui a stare di guardia. Ho provveduto a fare in modo che nessuno vi disturbi, mentre parlate." Si rivolse a Bremen. "Benvenuto ad Arborlon." Il vecchio si alzò e le rivolse un breve inchino. "Regina." Lei gli sorrise. "Sempre e solo Preia, per te." Tornò seria. "Allora sai cos'è accaduto?" "Che Jerle è re e che tu sei regina? E' stata la prima cosa che ho appreso, appena giunto in città. Tutti ne parlano. Siete tutt'e due benedetti, Preia. Sarete un sostegno l'uno per l'altra e per il vostro popolo. Sono lieto della notizia." "Sei molto gentile" rispose Preia, con occhi scintillanti. "Mi auguro che tu pure possa essere un sostegno per noi in ciò che ci attende. Ora ti prego di scusarmi. Porterò con me il fanciullo. Non stare in pensiero per lui. Abbiamo già fatto amicizia." Se ne andò e chiuse la porta. Bremen guardò il re. "Sei fortunato ad averla al fianco" disse a bassa voce. "Spero che te ne renda conto." Jerle Shannara in quel momento pensava a un altro tempo, non molto lontano, in cui si era trovato di fronte alla possibilità di perderla. Ancora lo tormentava, il pensiero che le sue congetture su di lei fossero state così errate. Tay e Preia, le due persone a lui più vicine al mondo: lui aveva frainteso l'uno e l'altra, non era riuscito a capirli come avrebbe dovuto, e aveva ricevuto una lezione che non avrebbe mai dimenticato. Nella stanza tornò il silenzio, mentre il crepuscolo riempiva di ombre gli angoli e la pioggia picchiettava piano all'esterno. Il re si alzò e riaccese le lampade spente dalla raffica di vento. L'oscurità diminuì. Il druido lo guardò, in silenzio, aspettando che terminasse. Il re tornò a sedersi, ancora a disagio. Guardò Bremen e
corrugò la fronte. "Pensavo a quanto sia importante non dare mai nulla per scontato. Avrei dovuto tenerlo a mente anche per quanto riguarda la Pietra Nera. Ma la perdita di Tay era insopportabile, se non pensavo che fosse morto per una buona causa. Presumevo erroneamente che la sua morte avrebbe garantito la distruzione del Signore degli Inganni. E' difficile accettare che sia morto per qualcosa d'altro." "E' difficile accettare che sia morto e basta" replicò piano Bremen. "Ma la sua morte è legata in ogni caso alla distruzione del Signore degli Inganni e non diventa inutile solo perché la Pietra ha un uso diverso da quello che tu credevi. Tay lo capirebbe, se fosse qui. In quanto re, devi fare come lui." Jerle ebbe un sorriso amaro, pieno di sofferenza. "Sono ancora inesperto. Questa storia d'essere re. Non è cosa che cercassi." "Me ne compiaccio" replicò il druido, con una scrollata di spalle. "L'ambizione non è una qualità che ti aiuterebbe, nel confronto col Signore degli Inganni." "Cosa mi aiuterà, allora? Parlami della spada, Bremen." L'impazienza ebbe la meglio sulla collera e sullo scoramento. "L'esercito del Nord marcia contro di noi. Entro due giorni arriverà nella Valle di Rhenn. O lo fermiamo lì, o siamo perduti Ma perché ci sia una reale possibilità, devo avere un'arma a cui il Signore degli Inganni non possa resistere. Dici di avermela portata. Parlami del suo segreto. Dimmi cosa posso fare." Rimase in attesa, rosso in viso e ansioso, fissando il druido. Bremen non si mosse, sostenne il suo sguardo, non aprì bocca. Poi si alzò, si accostò al tavolo, prese il fagotto e lo porse al re. "Ora è tua. Apri." Jerle Shannara ubbidì, slegò le cordicelle, svolse con cura la tela. Alla fine ebbe in mano una spada nel fodero. La spada era di lunghezza e formato insoliti, ma leggera e perfettamente forgiata. L'elsa, all'altezza della guardia, aveva un intarsio col disegno di una mano che protendeva una torcia ardente. Il re sguainò la spada e si meravigliò della lucentezza della lama, priva della minima macchia, e della sensazione che provò nell'impugnarla: come se fosse nel posto giusto, come se fosse realmente destinata a lui. Per qualche istante la studiò in silenzio. La fiamma della torcia si allungava verso la punta e nella penombra il re poteva quasi immaginare che guizzasse di luce propria. Protese davanti a sé la spada, saggiandone il peso e il bilanciamento. Il metallo brillò alla luce delle lampade, vivo ed esigente. Il re guardò Bremen e annuì lentamente. "Una lama meravigliosa" mormorò. "In essa c'è più di quanto tu non percepìsca, Jerle Shannara... e meno" replicò in fretta il vecchio druido. "Perciò ascolta con attenzione ciò che ti dirò. Queste informazioni sono esclusivamente per te. Solo Preia potrà venirle a sapere, e solo se lo riterrai indispensabile. Troppo potrebbe dipendere dal fatto di mantenere il segreto. Devi darmi la tua parola." Il re esitò, lanciò un'occhiata alla spada, poi annuì. "Hai la mia parola." Il druido gli si fece vicinissimo e parlò a bassa voce. "Accettando questa spada, la rendi tua. Ma devi conoscere la sua storia e il suo scopo, perché essa ti serva bene. Prima la sua storia." Esitò, scegliendo con cura le parole. "La spada è stata forgiata dal miglior fabbro delle Terre del Sud, secondo una formula che risale al mondo antico. E' stata temprata con il calore e la magia e la lega di cui è fatta la rende leggera e robusta. Non si spezzerà in battaglia, né colpita dal ferro né dalla magia. Supererà ogni prova a cui sia sottoposta. E' impregnata
della magia dei Druidi. Contiene in sé il potere di tutti i Druidi che sono esistiti, di tutti coloro che si radunarono a Paranor nel corso dei secoli e poi passarono da questo mondo all'altro. Dopo la forgiatura, l'ho portata al Perno dell'Ade e ho evocato gli spiriti. Sono comparsi tutti, e a uno a uno sono passati davanti a me e hanno toccato la lama. Durante la forgiatura, nell'elsa è stato incastonato l'Eilt Druin, il medaglione della carica di Grande Druido, il simbolo del loro potere. L'hai visto con i tuoi occhi: una mano che protende una torcia accesa. Proprio questo simbolo gli spiriti dei morti sono venuti a sottoscrivere e a impregnare dell'ultimo loro potere terreno, tutto ciò che poterono portare con sé dopo questa vita. "Veniamo ora allo scopo della spada. E' una lama ben costruita, un'arma di grande forza e resistenza, ma queste qualità, da sole, non bastano a metterla in grado di distruggere il Signore degli Inganni. Questa spada non è destinata a essere usata come un'arma qualsiasi. Può essere adoperata come un'arma normale, certo. Ma non è stata forgiata perché fosse affilata e resistente, bensì per dare corpo al potere della magia che risiede nel suo interno. Questa magia, re degli Elfi, sarà ciò che ti darà la vittoria, quando affronterai Brona." Riprese fiato, come se il lungo discorso l'avesse sfinito. Nella scarsa luce il suo viso segnato era stanco e pallido. "Il potere di questa spada, Jerle Shannara, è la verità. Verità, pura e semplice. Verità, totale e senza macchia. Verità, spogliata di tutti gli inganni, di tutte le menzogne, di tutte le false apparenze, capace di smascherare colui contro il quale la magia è diretta. E' un arma potentissima, alla quale Brona non può resistere, perché lui è ammantato di inganni e menzogne, false apparenze e occultamenti: questi sono le bardature del suo potere. Sopravvive nascondendo la verità. Costringilo ad affrontare la verità, e lui è finito. "Non compresi il segreto del potere della spada, quando mi fu esposto al Perno dell'Ade. Come può, la verità, avere la forza di distruggere una creatura mostruosa come il Signore degli Inganni? Dov'è, in questo, la magia dei Druidi? Ma dopo qualche tempo cominciai a capire. Le parole "Eilt Druin" significano "Dalla Verità, il Potere". Era il credo dei Druidi all'inizio, la meta che stabilirono per se stessi quando si radunarono a Paranor, il loro scopo fra le Razze, dal Primo Consiglio in poi. Fornire alla Razza dell'Uomo la verità. Verità che desse conoscenza e comprensione. Verità che facilitasse il progresso. Verità che offrisse speranza. In questo modo i Druidi avrebbero aiutato le Razze nella ricostruzione." Batté le palpebre; i suoi occhi scuri erano remoti e stanchi. "Ciò che furono in vita è ora incorporato nella spada che hai in mano; e tu devi trovare un modo perché il loro retaggio soddisfi le tue necessità. Non sarà facile. Non è così semplice come appare sulle prime. Porterai la spada in battaglia contro il Signore degli Inganni. Metterai Brona con le spalle al muro. Lo toccherai con la spada e la magia della lama lo distruggerà. Tutto questo è promesso. Ma solo se sarai più forte di lui, nella tua risolutezza, nel tuo spirito e nel tuo cuore." Il re degli Elfi scuoteva la testa. "Come posso esserlo? Anche se accettassi ciò che mi hai detto, e ancora non so se riuscirò ad accettarlo... è difficile da assimilare... come potrò essere più forte di una creatura in grado di distruggere perfino te?" Il vecchio druido prese la mano che stringeva la spada e l'alzò in modo che la lama si trovasse fra loro due.
"Rivolgendo per prima cosa il potere della spada contro te stesso!" Negli occhi del re degli Elfi comparve la paura. "Contro me stesso? La magia dei Druidi?" "Ascoltami, Jerle" proseguì l'altro, con voce pacata, stringendo la presa in modo che il braccio con la spada non ricadesse, in modo che la spada fosse un filo d'argento che li legava, lucido e scintillante. "Ciò che ti si chiede non è facile... te l'ho già detto. Ma è fattibile. Devi rivolgere contro te stesso il potere della spada. Devi lasciare che la magia ti riempia e ti riveli le verità della tua stessa vita. Devi lasciare che esse vengano svelate, esposte per ciò che sono, e affrontate. Alcune di esse saranno sgradevoli. Difficili da affrontare. Noi reinventiamo di continuo noi stessi e la nostra vita, per sopravvivere agli errori e ai fallimenti. Ed è proprio questo a renderci vulnerabili a un essere come Brona. Ma se sopporterai l'esame di te stesso che la spada esige, emergerai dall'esperienza più forte del tuo avversario e lo distruggerai. Perché, re degli Elfi, lui non può permettersi un simile esame della propria vita: al di là delle menzogne e delle mezze verità e degli inganni, lui non è niente!" Seguì un lungo silenzio, mentre i due si confrontavano, guardandosi negli occhi, ciascuno misurando l'altro. "La verità" disse infine il re degli Elfi, con voce a malapena udibile. "Che fragile arma!" "No!" obiettò subito Bremen. "La Verità non è mai fragile. E' l'arma più potente di tutte." "Davvero? Sono un guerriero, un combattente. Le armi sono tutto ciò che conosco... armi di ferro maneggiate da uomini di muscoli. Tu dici che niente di questo mi servirà, che dovrò abbandonare tutto. Tu dici che devo diventare qualcosa che non sono mai stato." Scosse adagio la testa. "Non so se sono in grado di farlo." Il vecchio druido lasciò la presa e la spada ricadde fra loro. Le mani secche come pergamena si posarono sulle robuste spalle del re, le strinsero. In quel corpo anziano c'era una forza insospettata. In quegli occhi, una determinazione feroce. "Devi ricordare chi sei" sussurrò il druido. "Devi ricordare come hai fatto a essere così. Non hai mai lasciato cadere una sfida. Non hai mai evitato una responsabilità. Non hai mai avuto paura. Sei sopravvissuto a esperienze che avrebbero ucciso pressoché chiunque altro. Ecco chi e che cosa sei." Aumentò la stretta. "Hai grande coraggio, Jerle. Hai un cuore valoroso. Ma dai troppa importanza alla morte di Tay e non ne dai a sufficienza alla tua stessa vita. No, non adirarti. Non è una critica a Tay, né un tentativo di sminuire ciò che la sua perdita significa per noi. E' un'osservazione sulla necessità che tu ricordi che sono sempre i viventi a contare. Sempre. Da' alla tua vita il valore che merita, re degli Elfi. Sii forte nei modi in cui devi essere forte. Non trascurare le tue possibilità contro il Signore degli Inganni, solo perché ti è poco familiare l'arma con cui ti è dato di combattere. E' poco familiare anche a lui. Brona conosce le lame fatte dall'uomo. Penserà che la tua sia solo una delle tante. Sorprendilo. Fagli assaggiare un metallo d'altro genere." Jerle Shannara si scostò, scuotendo la testa, guardando dubbioso la spada. "Ho abbastanza buon senso da non negare ciò che trovo difficile accettare" disse, fermandosi davanti alla finestra e guardando la pioggia. "Ma ora è diverso. Ora mi si chiede troppo." Strinse le labbra in una linea dura. "Perché sono stato scelto io? Non riesco a spiegarmelo. Molti altri sarebbero più adatti di me a un'arma di questo genere.LO capisco il ferro e la forza bruta. Questo... questo ingegnoso
artificio è troppo oscuro per me. La verità come arma ha senso solo in politica. Pare inutile su di un campo di battaglia." Si girò verso il druido. "Affronterei senza esitare il Signore degli Inganni se potessi impugnare questa spada come una semplice lama di metallo forgiata dall'abilità di un mastro armaiolo. L'accetterei come arma, senza riserve, se potessi usarla per quel che appare." Nei suoi occhi azzurri traspariva l'angoscia. "Ma questa? Sono l'uomo sbagliato, per questa spada." Il druido annuì lentamente, non tanto perché fosse d'accordo, ma perché capiva l'obiezione. "Però sei tutto ciò che abbiamo, Jerle. Non possiamo sapere perché sei stato scelto. Forse perché eri destinato a diventare re degli Elfi. O per ragioni che trascendono la nostra comprensione. I morti sanno cose che noi ignoriamo. Forse potrebbero rivelarcele, ma hanno deciso di non farlo. Dobbiamo accettare questo fatto e andare avanti. Tu sei colui che porterà questa spada, in battaglia. Così sta scritto. Non c'è scelta. Devi fare del tuo meglio." La sua voce si spense in un bisbiglio. Fuori, la pioggia continuava a cadere con un soffocato, costante tamburellare e ammantava di un tremolio argenteo il territorio boscoso. Era sceso il crepuscolo e il giorno se n'era andato con il sole. Arborlon era silenziosa e bagnata al riparo della foresta, una città che lentamente indossava le vesti da notte. C'era silenzio nello studio, nel padiglione: poteva non esserci altro essere vivente al mondo, a parte i due uomini che si fronteggiavano nella fioca luce delle candele. "Perché nessuno tranne me deve conoscere il segreto della spada?" domandò a bassa voce Jerle Shannara. Il vecchio druido sorrise tristemente. "Potresti rispondere tu stesso alla domanda, re degli Elfi. Nessuno deve conoscere il segreto perché nessuno lo crederebbe. Se i tuoi dubbi sul potere della spada sono così grandi, pensa quali dubbi avrebbe il tuo popolo. Perfino Preia, forse. Il potere della spada è la verità. Chi può credere che una cosa tanto semplice sia in grado di sconfiggere il potere del Signore degli Inganni?" Già, chi? pensò il re. "L'hai detto tu stesso. Una spada è un'arma da battaglia." Il sorriso di Bremen si mutò in un sospiro di stanchezza. "Lascia che gli Elfi si accontentino di questo. Mostra loro la spada che porti, l'arma che ti ho affidato, e di' solo che si rivelerà molto utile. Il tuo popolo non chiede altro." Jerle Shannara annuì in silenzio. No, pensò, non chiede altro. E' meglio che la fede non venga complicata dalla ragione. Avrebbe voluto, in quel triste, disperato momento di dubbio e di timore, di tacito consenso a un patto che non poteva né accettare né ricusare, che anche per lui la fede fosse qualcosa di così semplice. 28 A metà pomeriggio del giorno seguente Jerle Shannara si avvicinava alla Valle di Rhenn e al confronto predisposto per lui dal destino. Poco dopo il sorgere del sole si era messo in viaggio in compagnia di Preia, di Bremen, di un piccolo gruppo di consiglieri e di comandanti dell'esercito, portando con sé tre compagnie di Cacciatori, due a piedi e una a cavallo. Quattro compagnie erano già sul posto, all'imboccatura della valle, e altre due sarebbero giunte l'indomani. In città erano rimasti gli altri componenti il Gran Consiglio, sotto la guida del primo
ministro Vree Erreden, tre compagnie di riserva, gli abitanti della città e i profughi giunti dalle campagne per paura dell'invasione incombente. Il re degli Elfi non parlò a nessuno della sua conversazione col druido. Preferì non fare un pubblico annuncio riguardante la spada affidatagli. Ne parlò soltanto a Preia, ma si limitò a dirle che si trattava di un'arma alla quale il Signore degli Inganni non avrebbe potuto resistere. Mentre lo diceva, si sentiva contrarre lo stomaco e infiammare il viso, perché la sua stessa fede era fragile. Rosicchiava, come un cane l'osso, il concetto di verità come arma di battaglia. Continuava a ripetere tra sé la conversazione avuta col vecchio druido, mentre cavalcava a levante, così immerso nei propri pensieri, così distante dai compagni che varie volte, quando Preia, che gli cavalcava a fianco, gli rivolse la parola, non rispose. Indossava l'armatura ed era pronto alla battaglia. La spada, agganciata sulla schiena, gli pesava pochissimo a paragone della cotta di maglia di ferro e delle piastre, tanto da parere fatta di carta. Pensò spesso, durante il viaggio, alla sensazione che la spada gli dava: il suo peso era effimero come l'uso al quale era destinata. Non riusciva a vederlo come una possibilità, aveva bisogno che gli mostrassero come funzionava. Doveva sperimentarne di persona l'uso. Lui era fatto così. Ciò che vedeva e sentiva era reale. Il resto erano solo parole o poco più. Non rivelò a Bremen i propri dubbi. Quando il vecchio druido gli si avvicinava, manteneva sulle labbra un sorriso. Si mostrò fiducioso. Per se stesso, ma anche per il suo popolo. Il suo esercito avrebbe tratto da lui la fiducia. Se il re era sicuro del fatto suo, anche i suoi soldati lo sarebbero stati. Aveva sempre saputo che la vittoria in battaglia dipende anche da simili piccolezze e si era sempre comportato di conseguenza. Quell'esercito, come quel popolo, era ai suoi ordini... perché lui lo usasse, bene o male. Gli eventi dei prossimi giorni avrebbero messo tutti alla prova, in modi che non avevano mai sperimentato prima. Jerle intendeva fare la sua parte. "Sono ore che non dici una parola" osservò a un certo punto Preia, aspettando che lui guardasse dalla sua parte per essere sicura che l'ascoltasse. "Davvero?" replicò lui. Fu quasi sorpreso di vederla lì, tanto era concentrato sul suo dibattito interiore. Preia montava un robusto pomellato grigio, di nome Ashes, ed era armata fino ai denti. Naturalmente non c'era stata discussione sulla sua presenza. Avevano affidato ad altri i figli da poco adottati. Come Jerle, Preia Starle era nata per la battaglia. "Qualcosa ti preoccupa" dichiarò lei, guardandolo negli occhi. "Perché non mi dici di cosa si tratta?" Già, perché? Suo malgrado, Jerle sorrise. Lo conosceva troppo bene perché potesse convincerla di essere in errore. Tuttavia non poteva confidarle i suoi dubbi. perché era un problema che doveva risolvere da sé. Nessuno poteva aiutarlo. Non in quel momento, almeno... non prima che lui trovasse da solo un terreno solido su cui stare in piedi. "Non trovo le parole per esprimerlo" disse infine. "Ci sto ancora lavorando. Porta pazienza." "Forse ti sarebbe d'aiuto provare le parole su di me." Lui annuì, guardando, al di là della bellezza del viso e dell'intelligenza rispecchiata negli occhi chiari, il calore e l'interessamento che aveva nel cuore. In quei giorni si sentiva diverso nei suoi confronti. La distanza che aveva sempre mantenuto fra loro era svanità. Erano legati in maniera così inestricabile da essere sicuro che qualsiasi cosa
accadesse all'uno, fosse anche la morte, sarebbe accaduta anche all'altra. "Dammi un po' di tempo" le disse in tono gentile. "Allora parleremo." Lei gli prese la mano e la tenne un momento fra le proprie. "Ti amo" disse. Il pomeriggio li vide risalire la Valle di Rhenn e ancora Jerle non aveva parlato dei dubbi che lo turbavano e ancora Preia aspettava che gliene parlasse. Il giorno era luminoso e caldo, l'aria dolce per l'odore dell'erba e delle foglie ancora bagnate, la foresta all'intorno rigogliosa per le recenti piogge. Le nuvole si erano finalmente spostate, ma il terreno rimaneva morbido e la pista piena di solchi era fangosa dove gli Elfi l'avevano percorsa verso levante. Per tutto il giorno erano giunti rapporti dal punto dove il grosso delle truppe si era attestato a difesa, all'imboccatura della valle. L'esercito del Nord continuava lentamente ad avanzare attraverso le Pianure di Streleheim, da settentrione e da meridione, a diversa velocità a seconda della grandezza e della mobilità, fanti e cavalieri e salmerie. L'esercito del Signore degli Inganni era enorme e continuava a crescere. Già riempiva le piane all'imboccatura della valle, fin dove arrivava l'occhio. Gli Elfi erano inferiori in un rapporto di quattro a uno, sproporzione che aumentava con l'arrivo di altri reparti nemici. I rapporti erano trasmessi da messaggeri che parlavano con tono piatto, calmo, volutamente privo di ogni emozione, ma Jerle Shannara era addestrato a decifrare ciò che si nascondeva nelle piccole pause e nelle sfumature d'inflessione: cominciava a serpeggiare la paura. Doveva fare qualcosa, e in fretta, per impedire che la paura si diffondesse. La situazione era realmente grave. Alcuni cavalieri erano stati mandati a levante per chiedere aiuto ai Nani, ma pattuglie nemiche controllavano le piste e sarebbero occorsi giorni prima che un cavaliere le aggirasse. Nel frattempo gli Elfi potevano contare solo su se stessi. Nessuno sarebbe giunto in loro aiuto. I Troll erano un popolo soggiogato, i loro eserciti erano schiavi del Signore degli Inganni. Gli Gnomi erano disorganizzati già in condizioni normali, e comunque non avevano alcuna simpatia per gli Elfi. Gli Uomini si erano isolati nelle loro città-stato e non possedevano una forza militare comune. Rimanevano solo i Nani, se erano scampati. Ancora non si sapeva se Raybur e il suo esercito erano sfuggiti agli invasori. Quindi c'era una buona ragione per essere spaventati, pensò Jerle Shannara, mentre con i compagni risaliva dalle foreste all'ampio ingresso occidentale della Valle di Rhenn. C'era una buona ragione... ma in quel caso non bisognava lasciare che la ragione avesse il sopravvento. Si domandò cosa poteva fare per sconfiggere la paura. Bremen, che cavalcava con Allanon alcuni passi più indietro, fra i consiglieri del re e i comandanti dell'esercito, si poneva in quel momento la stessa domanda. Ma non era turbato per la paura degli Elfi: era turbato per la paura del re. Vedeva infatti che Jerle Shannara era spaventato, anche se non l'avrebbe mai confessato, ammesso che si rendesse conto d'esserlo. La sua paura non era palese, ma era presente: un cacciatore in agguato, subdolo e insidioso, acquattato in fondo alla mente del re, in attesa del momento buono per venire allo scoperto. Bremen l'aveva intuito il giorno precedente, quando aveva rivelato a Jerle il potere della spada: la paura era lì, dietro gli occhi del re, nel profondo della sua confusione e della sua incertezza, là dove sarebbe cresciuta e ingigantita fino a diventare la sua rovina.
Malgrado gli sforzi del vecchio druido e la sua fede nel potere del talismano, il re non ci credeva. Avrebbe voluto, ma non ci riusciva. Avrebbe cercato un modo, certo, ma niente garantiva che l'avrebbe trovato. Era una cosa che Bremen non aveva considerato nel corso degli ultimi avvenimenti. Doveva considerarla adesso. Doveva sistemare la faccenda. Cavalcò tutto il giorno tenendo d'occhio il re, notando il silenzio di cui si era ammantato, studiando la linea decisa della sua mascella e del collo, senza lasciarsi coinvolgere dai sorrisi e dalle dimostrazioni di fiducia dirette agli altri. La guerra che si combatteva nella mente di Jerle Shannara era lampante. Il re si sforzava di accettare ciò che gli era stato detto, ma non ci riusciva. Però era coraggioso e deciso, quindi avrebbe portato in battaglia quella spada e avrebbe affrontato il Signore degli Inganni, come gli era stato detto che doveva fare. Ma in quel momento sarebbe affiorata la sua mancanza di fede, il dubbio l'avrebbe tradito e lui sarebbe morto. Era inevitabile e terrificante. Bremen si disse che occorreva un'altra voce, più forte della sua. Si scoprì a desiderare che Tay Trefenwyd fosse ancora vivo. Tay era stato abbastanza intimo con Jerle e avrebbe trovato il modo di farsi ascoltare, di convincerlo, di fugare apprensioni e dubbi. Avrebbe affiancato il re contro il Signore degli Inganni, proprio come Bremen intendeva fare, ma quel gesto avrebbe avuto maggiore significato, compiuto da Tay. Forse avrebbe addirittura fatto la differenza. Ma Tay era morto, perciò la voce e la forza necessarie dovevano provenire da qualcun altro. Bisognava pensare anche ad Allanon. Di tanto in tanto il vecchio druido lanciava un'occhiata al fanciullo. Era ancora reticente, ma non si rifiutava più di parlare. Il merito era in parte di Preia Starle. Il fanciullo era attratto da lei, ascoltava i suoi consigli e aveva cominciato a confidarsi. La sua famiglia, aveva rivelato, era rimasta uccisa nell'incursione dei soldati del Nord. Lui era sfuggito alla morte perché, quando era iniziato l'attacco, si trovava da un'altra parte e si era tenuto nascosto mentre i soldati sciamavano davanti a lui. Aveva visto commettere atrocità enormi, ma preferiva non parlarne. Bremen non aveva insistito. Gli bastava che fosse sopravvissuto. Ma doveva considerare anche la visione di Galaphile, e questa era una faccenda più difficile da accantonare. Cosa significava? Lui, Bremen, in piedi col fanciullo al limitare del Perno dell'Ade in presenza dell'ombra di Galaphile; le vivide, evanescenti forme degli spiriti dei morti che turbinavano sopra le acque impetuose; l'aria scura e satura di gemiti; gli strani occhi del giovane fissi su di lui, immobili. Cosa fissavano? Il vecchio druido non sapeva decidersi. Inoltre, in primo luogo, come mai era nella Valle d'Argilla, sulla riva del Perno dell'Ade, a un'evocazione dei morti dove non era consentità la presenza di esseri umani, dove solo lui Bremen, osava andare? La visione lo tormentava. Stranamente, aveva paura per Allanon. Cercava di proteggerlo. Si scopriva attirato da lui in un modo che non sapeva spiegare bene. Forse era colpa della loro solitudine. Nessuno dei due aveva famiglia, popolo, casa. Nessuno dei due apparteneva realmente a qualche luogo. In entrambi c'era un innegabile distacco dal mondo, e si trattava sia di uno stato mentale sia di una condizione di vita. L'essere druido metteva Bremen in una posizione di distacco dal mondo che non avrebbe potuto modificare neppure se avesse voluto. Ma il
fanciullo era nelle sue stesse condizioni, in parte per l'intuizione dei pensieri altrui che chiaramente possedeva, un dono da pochi apprezzato, e in parte per una percezione straordinaria che rasentava la precognizione. Nei suoi strani occhi si rispecchiavano una mente acuta e una grande intelligenza, ma in essi si celavano altri doni. Ti guardava come se potesse leggerti nell'anima e il suo sguardo non era ingannatore. La sua capacità di rivelare la vera natura degli altri metteva paura. Bremen si domandò cosa doveva farne. Ma quello era un giorno di dilemmi e di domande senza risposta, e il vecchio druido sopportò in silenzio quel tormentoso fardello. La soluzione, si disse, si sarebbe presentata fin troppo presto. Quando giunsero alla Valle di Rhenn, Jerle Shannara lasciò gli altri e con Preia andò a ispezionare le difese, anche per far sapere ai Cacciatori che era arrivato. Dovunque fu accolto con calore e rispose con sorrisi e ampi gesti; disse agli uomini che tutto andava bene e che avevano in serbo un paio di belle sorprese per i soldati del Nord. Poi percorse la valle per dare un'occhiata all'accampamento nemico. Questa volta prese con sé una guida, perché il fondovalle era già disseminato di trappole, molte delle quali disposte da poco, e non voleva finire per errore in una di esse. Preia lo accompagnò: ormai la regina era per i soldati una presenza familiare quanto il re. Rimasero in silenzio, mentre seguivano la guida su alture erbose, giù per larghi pendii, attraverso tratti piani di terreno bruciato, e su fino a un promontorio fra le rupi a strapiombo che proteggevano il fianco destro, da dove si poteva osservare l'intera vallata. Un piccolo contingente di esploratori e portaordini era lì accampato e montava la guardia. Jerle salutò i soldati e andò sull'orlo del dirupo. Davanti a lui si estendeva la formicolante massa dell'esercito del Nord, una smisurata e pigra palude di uomini, animali, carri e macchine da guerra, ammantata di polvere e di caldo. Dappertutto c'era fermento: si selezionavano rifornimenti e armi, compagnie di soldati manovravano per prendere posizione sul fronte dello schieramento, si montavano macchine da assedio. L'esercito si era attestato a circa un miglio dall'estremità orientale della valle, in un punto da cui si poteva avvistare ogni attacco e dove c'era spazio per allargarsi e accogliere rinforzi. Jerle percepì il disagio degli uomini che l'accompagnavano. Avvertì nel silenzio di Preia una fredda valutazione delle possibilità a loro favore. Quell'esercito giunto a invadere la loro terra era una mostruosa e malefica potenza che non sarebbe stato facile scacciare. Dopo la prima occhiata, studiò a lungo l'esercito nemico. Prese nota di dov'erano sistemati i rifornimenti, le attrezzature, le armi. Contò le macchine d'assedio e le catapulte. Rintracciò i vessilli delle compagnie radunate per combatterlo e calcolò grosso modo il numero di fanti e cavalieri, leggeri e pesanti. Osservò l'arrivo di parecchi convogli di rifornimenti dalle Streleheim settentrionali e meridionali. Esaminò con attenzione le diverse possibilità. Poi rimontò in sella, tornò all'altra estremità della valle convocò un consiglio di guerra. Si riunirono in una tenda posta a buona distanza dal fronte degli Elfi, circondata da Guardie Reali per garantire riservatezza. Erano presenti Preia e Bremen, Kier Joplin che comandava la cavalleria, Rustin Apt e Cormorant Etrurian che comandavano la fanteria, i capitani Prekkian e Trewithen, a capo rispettivamente
della Guardia Nera e della Guardia Reale, e il guercio Arn Banda, comandante degli arcieri. Era il nucleo del suo stato maggiore, il gruppo di uomini su cui faceva più affidamento. Era loro che doveva convincere, se voleva avere una possibilità contro l'esercito attaccante. "Ben trovati, amici miei" li salutò, stando in piedi davanti a loro, calmo e rilassato, senza armatura. Occupavano scanni disposti in un ampio cerchio, in modo che lui potesse avvicinarsi a chiunque, all'occorrenza. "Sono stato all'altro capo della valle e ho visto l'esercito nemico. Penso che la nostra linea d'azione sia chiara. Dobbiamo attaccare." Ci fu un sussulto di sorpresa e costernazione, ovviamente, Jerle se l'era aspettato. "Di notte!" gridò, per superare l'improvviso clamore. "Subito!" Rustin Apt, anziano e robusto, tanto massiccio da dare l'impressione che niente potesse smuoverlo una volta in piedi, scattò dallo scanno. "Mio re, no! Attaccare? Di sicuro non sarai così..." "Calma, Rustin" lo interruppe il re, con un gesto secco. "Nella giusta situazione, sono e faccio qualsiasi cosa. Mi conosci bene. Ora ascolta un momento. L'esercito del Nord se la prende comoda davanti a noi, grasso e arrogante, ritenendosi troppo forte perché si scherzi con lui, convinto che ce ne stiamo al sicuro dietro le nostre difese. Però cresce di giorno in giorno, e i nostri Cacciatori lo vedono e si perdono d'animo. Non possiamo restare a guardare senza intervenire mentre diventa tanto grosso da inghiottirci in un solo boccone. Non possiamo aspettare l'inevitabile attacco. Dobbiamo colpirli al cuore adesso, secondo regole nostre, in un momento scelto da noi, quando noi siamo pronti e loro no." "Parole belle e giuste" disse con calma Kier Joplin. Era basso e tarchiato, e aveva mobili occhi scuri. "Ma quale parte dell'esercito userai per lanciare questo attacco? Il buio ci favorirà, ma i cavalieri saranno uditi da lontano e i fanti saranno fatti a pezzi prima di potersi ritirare al sicuro." Seguì un borbottio d'assenso. Jerle annuì. "Il tuo ragionamento segue il mio. Ma se il nemico non potesse trovarci? Se diventassimo invisibili proprio quando loro pensano d'averci in pugno? Se attaccassimo con una serie di colpi, uno qui e uno là, lasciando loro solo ombre con cui prendersela?" Ora ci fu silenzio. "Come faresti?" domandò infine Joplin. "Ve lo spiegherò. Ma prima voglio che siate d'accordo col mio ragionamento. Sono convinto che dobbiamo fare qualcosa, se vogliamo riattizzare la fiducia del nostro esercito. L'ho vista declinare. Dico bene?" Di nuovo silenzio. "Dici bene" ammise infine Joplin. "Kier, hai evidenziato il pericolo di un attacco. Ora voglio che tu consideri i possibili vantaggi. Se riusciamo a sbilanciarli, a disgregarli, a innervosirli, anche a causare delle perdite, guadagniamo tempo e fiducia. Se ce ne stiamo qui ad aspettare, non guadagniamo niente." "D'accordo" disse subito Cormorant Etrurian. Era un uomo dal viso sottile, scarno, con buona esperienza delle guerre di frontiera, ex aiutante di campo del vecchio Apt. "Però a questo punto una disfatta sarebbe disastrosa. Rischierebbe perfino di provocare un attacco anticipato contro di noi." "Potresti anche sbagliarti nel sostenere che non si aspettano un attacco" obiettò il suo anziano mentore con tono irascibile, alzandosi. "Non sappiamo cos'è accaduto ai Nani. Affrontiamo un esercito già provato in battaglia, che potrebbe conoscere più trucchi di noi." "Inoltre siamo in grande inferiorità numerica" aggiunse Etrurian con una smorfia. "Mio re, è una tattica
troppo pericolosa, ecco tutto." A ogni commento Jerle annuiva, prendendo tempo, aspettando, prima di parlare, che tutti avessero esposto le loro obiezioni. Diede un'occhiata a Preia, che lo osservava attentamente, e poi a Bremen, il cui viso impassibile non rivelava niente dei suoi pensieri. Guardò in viso tutti i presenti, nel tentativo di stabilire su quanti di loro potesse contare. Su Preia, naturalmente. Ma gli altri, Bremen compreso, ancora non avevano deciso, oppure erano contrari. Jerle, per quanto fosse il re, non voleva imporre il suo piano, ma era ben deciso a farlo approvare. Come convincerli, allora? Le obiezioni terminarono. Jerle Shannara si raddrizzò. "Qui siamo tutti amici" iniziò. "Lavoriamo per raggiungere la stessa meta. So bene quanto sia difficile il compito che ci attende. Siamo gli unici che si frappongono tra il Signore degli Inganni e la devastazione delle Quattro Terre. Forse siamo rimasti gli unici in grado di affrontarlo. La prudenza è necessaria, ma è necessario anche osare. Non può esserci vittoria senza rischio... di certo non qui, in questo posto e in questo momento, contro un simile nemico. In ogni battaglia c'è il fattore rischio, il fattore fortuna. Non possiamo ignorarlo. Ma possiamo ridurlo al minimo." Si avvicinò a Rustin Apt e si inginocchiò davanti a lui. Negli occhi duri dell'esperto capitano comparve una luce di stupore. "E se ti mostrassi un modo di attaccare il nemico di notte, un modo che ha ottime probabilità di successo, che mette a repentaglio solo pochi di noi, ma può disunire il nemico quanto basta a farci guadagnare tempo e fiducia?" L'anziano comandante parve incerto. "Puoi farlo?" brontolò. "Sarai dalla mia parte, in questo caso?" insistette il re, senza rispondere alla domanda. Lanciò un'occhiata a destra e a sinistra. "Sarete tutti dalla mia parte?" Ci furono mormorii d'approvazione. Jerle guardò tutti negli occhi, uno dopo l'altro, li costrinse a incrociare il suo sguardo, a dare il proprio assenso. Annuì a tutti, li attirò a sé con gli occhi e il sorriso, li legò con la loro tacita promessa, li rese parte del piano che aveva concepito. "Allora ascoltate attentamente" mormorò. E illustrò loro ciò che avrebbe fatto. L'attacco non ebbe luogo quella notte, ma la seguente. I preparativi e la scelta degli uomini richiesero ancora un giorno. Kier Joplin e i suoi cavalieri andarono a nord, Cormorant Etrurian e i suoi Cacciatori a sud; partirono al sorgere del sole tenendosi al riparo delle foreste e dei dirupi in modo da giungere alle rispettive destinazioni senza farsi vedere. I due gruppi erano ridotti, perché la sorpresa e la rapidità d'azione sarebbero state molto più utili del numero. Ciascun gruppo aveva precise istruzioni su cosa fare e su quando agire. Coordinare i vari elementi dell'assalto richiedeva un tempismo preciso. Se i colpi non avvenivano nella giusta sequenza, l'assalto sarebbe fallito. Jerle Shannara guidava il gruppo centrale, composto di arcieri e Guardie Reali. A quel gruppo sarebbe toccato il combattimento più duro, e Jerle non permise a nessuno di prendere il suo posto. Bremen s'infuriò. Approvò il piano. Applaudì l'innovazione e l'audacia del re. Ma ritenne follia che guidasse di persona l'attacco. "Rifletti, re degli Elfi! Se muori, tutto è perduto e non contano gli eventuali vantaggi!" Dopo l'uscita degli altri, aveva protestato con Jerle e con Preia. Aveva agitato in tutte le direzioni i capelli e la barba, con gesti rabbiosi. "Non puoi rischiare la tua vita in questa impresa! Devi restare vivo per confrontarti con Brona!" Erano rimasti
accanto nella penombra, perché il giorno era giunto al crepuscolo. Fuori della tenda erano già in corso i preparativi per l'attacco del giorno seguente. Jerle Shannara aveva convinto i suoi comandanti: la forza dei suoi argomenti e della sua logica aveva fatto cadere le opposizioni e convinto gli incerti. Uno alla volta avevano capitolato, prima Joplin, poi gli altri. Alla fine tutti erano entusiasti del piano quanto il re stesso. "Bremen ha ragione" aveva convenuto Preia Starle. "Dagli retta." "Bremen si sbaglia" aveva replicato Jerle, senza alzare la voce, con calma, zittendoli con la forza stessa della propria convinzione. "Per comandare, un re dev'essere d'esempio. Soprattutto qui, in questa situazione, dove c'è troppo in gioco. Non posso chiedere a un altro ciò che non farei io stesso. L'esercito mi guarda. Gli uomini sanno che sto davanti e non dietro di loro. In questa circostanza non si aspettano da me niente di meno, e non li deluderò." Si rifiutò di cedere. Non scese a compromessi. Così guidò i suoi uomini, come aveva annunciato, malgrado i timori del druido; e Preia, come sempre, era al suo fianco. Strisciarono nel buio a mezzanotte, scivolarono fuori dalla valle e attraversarono le pianure verso il campo nemico. Erano solo alcune centinaia, gli arcieri in numero doppio delle Guardie Reali. Un piccolo gruppo di soldati silenziosi come fantasmi precedette gli altri ed eliminò le sentinelle che pattugliavano il perimetro dell'accampamento. Presto il grosso della forza d'attacco fu a meno di cinquanta passi. Lì gli Elfi si acquattarono, armi in pugno, in attesa. Quando partì, l'attacco fu improvviso e inarrestabile. Iniziò a nord, da Kier Joplin. Il comandante degli Elfi aveva fasciato con stoffa pesante gli zoccoli dei cavalli e dopo il tramonto aveva fatto scendere dalla parte settentrionale delle Streleheim duecento cavalieri. Quando gli Elfi furono a meno di duecento passi dal perimetro settentrionale dell'accampamento, tolsero le coperture di stoffa, attesero un'ora dopo mezzanotte, montarono in sella e si lanciarono alla carica. Furono addosso ai soldati del Nord prima che fosse dato l'allarme. Colpirono i fianchi della maggiore carovana di rifornimenti, appena giunta e non ancora scaricata perché gli addetti aspettavano la luce del giorno. Senza smettere di galoppare, gli Elfi afferrarono tizzoni ardenti dai fuochi di guardia e appiccarono fuoco ai carri. Poi deviarono verso il deposito delle macchine d'assedio e appiccarono fuoco alle più vicine. Le fiamme si alzarono al cielo, mentre i cavalieri attraversavano al galoppo l'accampamento e scomparivano nella notte. Svanirono con tale rapidità che la controffensiva era ancora in fase d'organizzazione quando iniziò il secondo assalto. Provenne da sudovest, a opera di Cormorant Etrurian, che attese di vedere le fiamme del primo assalto e solo allora attaccò. Con cinquecento fanti già in posizione, si spinse a cuneo nel cuore dei recinti dei cavalli del nemico, uccidendo gli artieri, liberando gli animali e disperdendoli nella notte. Per qualche momento vi fu un feroce corpo a corpo, poi gli Elfi deviarono a ponente e colpirono d'infilata il perimetro dell'accampamento, mentre si ritiravano e si dileguavano velocissimi nel buio delle pianure. Questa volta la reazione dei soldati del Nord fu più rapida, ma confusa, perché l'attacco pareva giungere da tutte le parti. Massicci Troll delle Montagne, solo in parte protetti dalla corazza ma armati di grandi asce da guerra e di picche, spazzarono via qualsiasi cosa si trovasse sul loro cammino e tentarono d'impegnare
gli assalitori. Ma a nord bruciavano macchine d'assedio e rifornimenti, a sud si erano dispersi i cavalli e pareva che nessuno sapesse con certezza dov'erano i nemici. Bremen, nascosto insieme con il gruppo di Jerle Shannara, aveva usato la magia per rendere invisibili gli Elfi e creare l'illusione di attacchi in punti dove non c'era nessuno di loro. Il vecchio druido sarebbe riuscito a mantenere l'illusione solo per breve tempo, sufficiente però a confondere anche i mortali Messaggeri del Teschio. Intanto il gruppo di Jerle Shannara si era unito all'attacco. Affiancati e protetti dalle Guardie Reali, gli arcieri si disposero in file, di fronte al campo, tesero i lunghi archi da guerra e scagliarono sul nemico nugoli di frecce. Urla di dolore si levarono dai bersagli centrati. Raffiche su raffiche grandinarono sui soldati del Nord che cercavano di reagire e impugnare le armi. Jerle mantenne in azione i suoi uomini il più a lungo possibile, poi ordinò di sospendere il tiro. Una compagnia di Gnomi uscì a passo di carica dal campo, con selvaggia frenesia, nel tentativo di raggiungere gli arcieri, ma questi si limitarono ad abbassare la mira e colpirono d'infilata gli autori di quel disorganizzato contrattacco, fino a disperderli. Finalmente Jerle cominciò a far sganciare i suoi uomini, ritirandoli una linea per volta, in modo che ce ne fosse sempre una a coprire le altre. Gli Elfi agli ordini di Cormorant Etrurian erano già passati di corsa nella notte, vaghe ombre sulle pianure spazzate da nubi di fumo e di cenere degli incendi. Comparvero i Troll delle Montagne, massicci e impacciati giganti che emergevano dalla vivida luce dei fuochi, pronti a usare le asce da guerra e le picche. Contro di loro le frecce non servivano. Gli arcieri si ritirarono di corsa, oltrepassando la sottile linea di Guardie Reali che ancora teneva il campo. Jerle fece ritirare in fretta i suoi uomini: quella notte preferiva evitare uno scontro con i Troll delle Montagne. Non ci sarebbe stato un inseguimento della cavalleria, perché gli animali dei nemici erano stati catturati o dispersi. Bastava solo evitare i Troll. Ma i Troll avanzarono più velocemente di quanto Jerle avesse previsto. Ora la Guardia Reale era virtualmente sola nelle pianure, perché arcieri e Cacciatori erano corsi al riparo nella Valle di Rhenn e i cavalieri agli ordini di Kier Joplin erano tornati a settentrione. Dall'accampamento giunsero frecce scagliate dagli Gnomi, i cui arcieri si erano precipitati in prima linea. Alcune Guardie Reali caddero. Bremen, che partecipava per proteggere il re, passò davanti a tutti e scagliò Fuoco Magico contro i Troll in arrivo. Le praterie presero fuoco e per un attimo il contrattacco si spezzò. Le Guardie Reali ripresero la ritirata, circondando il re e il vecchio druido, assalite da tutti i lati mentre correvano a rifugiarsi nella valle. Nubi di fumo rotolavano sulle pianure, spinte dal vento levatosi all'improvviso, trasportando calore e cenere. Preia Starle corse avanti nel tentativo di trovare la strada nella foschia. Ma la confusione provocata dal fumo e le grida degli inseguitori ebbero la meglio. Il piccolo contingente di Guardie Reali si disperse: alcuni andarono con Bremen da una parte, altri rimasero col re. Jerle li chiamò a raccolta, udì il suo nome gridato in risposta, e all'improvviso ogni cosa svanì nel fumo. Poi qualcosa di gigantesco si avventò contro le Guardie in fuga col re, mandandole a ruzzolare nella notte, scagliando lontano i più vicini come se fossero pupazzi impagliati. Una sagoma enorme si
materializzò, un orrendo mostro al servizio del Signore degli Inganni, evocato dal mondo infero e sguinzagliato nella notte, tutto zanne, artigli, scaglie. Con un latrato si lanciò contro Jerle Shannara, che ebbe appena il tempo di sguainare la spada. La lama magica saettò verso l'alto, con riflessi infocati nel buio quasi totale. Ora! pensò il re, girandosi per colpire. Ora vedremo! Chiamò la magia della spada, contando sul suo grande potere per difendersi, mentre la mostruosa creatura attaccava. Ma non accadde niente. L'enorme essere mostruoso si protese verso di lui e Jerle, disperato, lo colpì come avrebbe colpito un normale avversario. Il fendente andò a segno e rallentò l'attacco, ma non ci furono effetti magici. Jerle Shannara si sentì afferrare lo stomaco dal morso della paura. Il mostro fu colpito ai fianchi da Guardie Reali tornate nella mischia, ma schiacciò i più vicini, spinse via gli altri e avanzò verso il re. In quel momento Jerle Shannara capì di non poter usare la magia della spada e si accorse d'aver perduto la speranza che potesse salvarlo. Aveva pensato, malgrado gli ammonimenti di Bremen, che nell'arma ci fosse un tipo di magia in grado di colpire un nemico... una palla di fuoco, un qualcosa con una innaturale capacità di uccidere. Ma la spada rivelava la verità, aveva insistito il vecchio, e ora pareva evidente che non poteva dare altro. Rischiò di restare paralizzato dalla paura, ma poi, con un grido feroce, si lanciò contro la mostruosa creatura. Impugnò a due mani la spada e si difese nell'unico modo che gli restava. La lucente lama balenò dall'alto in basso e inflisse alla creatura una profonda ferita dalla quale sgorgò sangue scuro. Ma la creatura non si fermò: spinse da parte la spada e scagliò a terra Jerle. Allora comparve Bremen, sbucato dal buio come uno spettro vendicatore, mani protese, bagnato di Fuoco Magico. Il fuoco scaturì dalla punta delle dita in un getto frenetico e colpì la mostruosa creatura nell'attimo in cui afferrava il re, la avviluppò, la consumò, la mutò in una torcia che si contorceva. Il mostro si rizzò sulle gambe, urlò di rabbia, si girò e corse via nella notte, lasciando dietro di sé una scia di fiamme. Bremen non aspettò di vedere quale fine facesse. Si chinò sul re, mentre ricomparivano Elfi e Guardie Reali, e lo aiutò a tirarsi in piedi. "La spada..." cominciò Jerle, con voce rotta, scuotendo la testa disperato. Ma Bremen lo interruppe con un'occhiata dura: "Ne parleremo più tardi, re degli Elfi, da soli quando sarà il momento. Sei vivo, hai combattuto bene e l'attacco ha avuto successo. E' sufficiente, per il lavoro di una notte. Ora vieni via, presto, prima che altre creature ci trovino". Ripresero la fuga nella notte, il re, il druido e il manipolo di Guardie Reali. Fumo e ceneri li inseguirono e si diffusero ancora più lontano, mentre le fiamme dei carri delle provviste e delle macchine d'assedio accendevano come fari l'intero orizzonte. Preia Starle riemerse dal buio, senza fiato, preoccupata, con occhi che rivelavano collera e timore. Infilò la spalla sotto il braccio di Jerle e lo sostenne mentre camminavano. Il re non si oppose. Incontrò lo sguardo di Preia e lo distolse. Aveva una smorfia decisa. La paura che covava negli angoli bui della sua coscienza era esplosa quella notte. Paura che in qualche modo la spada affidatagli non fosse adatta a lui e non rispondesse nel momento del bisogno. La paura era emersa a sfidarlo e lui non aveva raccolto la sfida. Se non fosse stato per Bremen, sarebbe morto. Distrutto da una creatura di minore
magia, di minor potere rispetto al Signore degli Inganni. Il dubbio incrinava la sua risolutezza. Tutto ciò che solo qualche ora prima aveva creduto possibile, era perduto. La magia della spada non andava bene per lui. La magia non rispondeva alla sua chiamata, aveva bisogno di qualcun altro, di qualcuno più adatto. Lui non era l'uomo giusto. Non lo era. Sentiva le parole echeggiare nel battito del proprio cuore, fredde e sicure. Cercò di chiudere la mente e le orecchie a quel suono, ma scoprì di non riuscirci. Disperato e impotente, continuò a correre. 29 Dopo la partenza di Bremen verso occidente per portare agli Elfi la spada magica, Kinson Ravenlock e Mareth si diressero a levante, seguendo il Fiume Argento, alla ricerca dei Nani. Quel primo giorno viaggiarono nella regione collinosa che formava contrafforti lungo la riva settentrionale del fiume e si avvicinarono sempre più alle foreste dell'Anar. La nebbia rimase tenacemente incollata alle montagne, ma cominciò a diradarsi mentre il sole saliva verso il mezzodì. Nel primo pomeriggio Kinson Ravenlock e Mareth avevano raggiunto l'Anar e si erano addentrati fra gli alberi. Lì il terreno era liscio e pianeggiante. I raggi di sole foravano il baldacchino di foglie e chiazzavano il tappeto di terriccio. Avevano cibo e acqua sufficienti solo per quel giorno; quando si fermarono a pranzare, li divisero con cura, mettendo da parte quanto bastava per la cena, nel caso non trovassero qualcosa di meglio. L'Anar risplendeva del verde degli alberi e dell'azzurro del fiume, dei raggi di sole dal cielo in gran parte sereno, del cinguettio degli uccelli e del chiacchiericcio degli animali che saettavano nel sottobosco. Ma la pista era calpestata e disseminata dei rifiuti dell'esercito del Nord; non c'era traccia di vita umana. Di tanto in tanto un debole odore di legno bruciato e di ceneri ormai fredde aleggiava nel vento e in quelle occasioni calava un momentaneo silenzio, improvviso e assoluto, tanto da costringere i due viandanti a guardarsi intorno con circospezione. Oltrepassarono piccole fattorie, alcune ancora in buono stato, altre distrutte dal fuoco, tutte deserte. Non comparvero Nani. Non incontrarono nessuno. "Dovevamo aspettarcelo" osservò Mareth a un certo punto, quando Kinson fece un commento su quella desolazione. "Il Signore degli Inganni si è appena ritirato dall'Est. Di sicuro i Nani se ne stanno ancora nascosti." Pareva una conclusione logica, tuttavia l'attraversamento di una regione così inverosimilmente deserta preoccupava Kinson. Il fatto che non ci fosse neppure un venditore ambulante lo turbava. Suggeriva che lì non ci fosse più motivo di andare, come se vivere in quelle foreste non avesse più senso. L'idea che un intero popolo svanisse come se non fosse mai esistito gli diede da pensare. Non aveva pietra di paragone per uno sradicamento di quelle proporzioni. E se i Nani fossero stati distrutti fino all'ultimo? Se avessero semplicemente cessato di esistere? Le Quattro Terre non si sarebbero mai riprese da una simile perdita. Non sarebbero state mai più le stesse. Mentre procedevano in silenzio, rimuginando ciascuno per proprio conto, l'uomo della Frontiera e l'apprendista druido non si scambiarono molte parole. Mareth camminava a testa alta, guardando avanti, e pareva fissare qualcosa al di là del
loro campo visivo. Kinson si ritrovò a domandarsi se stesse esaminando la possibilità del proprio retaggio alla luce di quanto aveva appreso da Bremen. Scoprire di non essere figlia del druido, dopo averlo a lungo pensato, era un duro colpo che avrebbe sconvolto chiunque. Il fatto di essere forse la figlia di una delle tenebrose creature al servizio del Signore degli Inganni era un colpo ancora peggiore. Kinson non sapeva come avrebbe reagito lui, a una simile rivelazione. Ma non pensava che l'avrebbe accettata facilmente. Secondo Bremen questo non avrebbe influito sulla vera natura di Mareth. Ma non si trattava solo di logica. Mareth era razionale e intelligente, tuttavia le vicissitudini della sua fanciullezza e le complessità della sua vita da adulta l'avevano resa vulnerabile, avevano minato le poche convinzioni a cui era riuscita ad aggrapparsi. Di tanto in tanto pensava di parlargliene. Pensava di dirle che lei era la persona che aveva sempre creduto di essere, che lui vedeva la bontà del suo animo, aveva assistito di persona alla forza di questa bontà, e lei non sarebbe mai stata tradita da un retaggio così tenue come quello del sangue. Ma non sapeva escogitare un modo di formulare le parole senza farle apparire accondiscendenti. Gli pareva che lei fosse contenta d'averlo al fianco; e malgrado si fosse lasciato andare a sgarbati commenti, quando Bremen aveva suggerito che lei lo accompagnasse, in cuor suo era felice che lei avesse accettato di buon grado la sua compagnia. Cominciava a sentirsi a proprio agio con lei, con la storia che condividevano, con le loro chiacchierate, con il modo in cui ciascuno sapeva cosa l'altro pensava in quel momento, con l'intimità che sentiva per lei in decine di piccoli modi che non gli riusciva facile definire. Intimità che derivava da semplici cose come il suono della voce di lei, il modo in cui lo guardava, il senso d'amicizia che trascendeva la semplice partecipazione allo stesso viaggio. Era sufficiente, decise alla fine, che lui fosse presente, se lei avesse sentito il bisogno di parlare. Mareth sapeva che l'identità di suo padre e le sue origini per lui non facevano differenza. Sapeva che a lui non importava niente di tutto ciò. Al tramonto, mentre la luce si affievoliva, l'aria si raffreddava e il lezzo di morte aleggiava acre e pungente sulle ombre, giunsero a Culhaven. La capitale dei Nani era stata rasa al suolo e la regione circostante devastata. Rimaneva solo terra bruciata, macerie, travi carbonizzate, ossa sparse. Molti cadaveri erano rimasti dov'erano caduti. Ormai non era possibile distinguere l'uno dall'altro, ma le dimensioni ridotte delle ossa rivelavano che alcuni erano cadaveri di bambini. L'uomo della Frontiera e l'apprendista druido sbucarono dagli alberi nella radura dove fino a poco tempo prima sorgeva la città, si fermarono a osservare tristemente la distruzione e si aggirarono sul luogo del massacro. L'attacco risaliva a qualche settimana prima, i fuochi si erano estinti da tempo, il terreno già cominciava a rigenerarsi dopo la distruzione e germogli verdeggianti sbucavano da sotto le ceneri. Ma Culhaven non conteneva segni di vita e sulle sue macerie annerite dagli incendi il silenzio gravava come una cortina d'indifferenza. Al centro della città trovarono un'ampia fossa in cui erano stati gettati e bruciati centinaia di Nani. "Perché non sono fuggiti?" domandò Mareth sottovoce. "Perché sono rimasti? Di sicuro sapevano. Di sicuro erano stati avvertiti." Kinson rimase in silenzio. Mareth conosceva quanto lui la risposta. La speranza a volte è
ingannevole. Guardò lontano, al di là della distesa di macerie. Dov'erano i Nani superstiti? Ecco la domanda alla quale bisognava trovare risposta. Continuarono a procedere tra le rovine, allungando il passo perché da vedere non c'era niente che non avessero già visto in abbondanza. La luce si affievoliva e volevano trovarsi ben lontano da lì quando si sarebbero accampati per la notte. Fra quelle rovine non avrebbero trovato cibo né acqua. Non avrebbero trovato riparo. Non avevano motivo di trattenersi. Continuarono il cammino, costeggiando il fiume fino al limitare degli alberi, dove serpeggiava pigramente fuori della foresta, verso est. Forse la situazione sarebbe stata migliore più avanti, si augurò Kinson. Forse più avanti avrebbero incontrato segni di vita. Qualcosa corse veloce tra le macerie, facendo trasalire l'uomo della Frontiera. Ratti. Kinson non ne aveva ancora visti, ma ritenne naturale la loro presenza. E quella di altri animali che si cibano di rifiuti, immaginò. Si sentì percorrere da un brivido, provocato da un ricordo della sua fanciullezza: si era addormentato nella caverna che stava esplorando e si era svegliato scoprendo dei ratti che gli zampettavano addosso. La morte gli era parsa stranamente vicina, in quei brevi attimi di terrore. "Kinson!" sibilò all'improvviso Mareth, fermandosi di colpo. Una figura avvolta nel mantello, immobile, era comparsa davanti a loro. Pareva un uomo... i particolari visibili erano sufficienti a determinare almeno questo. Da dove fosse giunto, era un mistero. Era semplicemente comparso, come evocato dall'aria stessa, ma di sicuro si era tenuto nascosto da qualche parte e li aveva aspettati. Si trovava a breve distanza dalla riva del fiume che stavano costeggiando, messo in ombra dalla sera e dai resti di un muro di pietra. Non era minaccioso, si limitava a stare lì, in attesa che si avvicinassero. Kinson e Mareth si scambiarono un'occhiata. Il viso dell'uomo era nascosto dal cappuccio, le braccia e le gambe erano coperte dalle pieghe del mantello. Non potevano stabilire chi fosse, né fare congetture sulla sua identità. "Salve" provò a dire piano Mareth. Teneva davanti a sé, come uno scudo, il bastone ricevuto da Bremen. Non ci fu risposta, né movimento. "Chi sei?" insistette Mareth. "Mareth" disse lo sconosciuto, con voce lenta e bassa. Kinson s'irrigidì. Quella voce gli dava la stessa impressione delle zampette dei ratti e gli suggeriva la presenza della morte. Si sentì di nuovo in quella grotta, ancora bambino. La voce gli irritava i nervi come metallo strusciato sulla pietra. "Mi conosci?" domandò Mareth, sorpresa. Non pareva turbata da quella voce. "Sì" rispose. "Ti conosciamo tutti, quelli di noi che sono la tua famiglia. Ti abbiamo atteso, Mareth. Ti abbiamo atteso per tanto tempo." "Di cosa parli?" replicò in fretta Mareth e Kinson notò l'incrinatura nella sua voce. "Chi sei?" "Forse sono colui che cerchi. Forse sono proprio quella persona. Penseresti male di me, se lo fossi? Ti arrabbieresti, se ti dicessi che sono..." "No!" esclamò Mareth, in tono acuto. "... tuo padre?" Il cappuccio scivolò indietro e mostrò il viso dello sconosciuto. Era un viso duro, forte, che rivelava più d'una somiglianza con quello di Bremen, pur essendo più giovane. Ma per Mareth la somiglianza era inconfondibile. L'uomo lasciò che la giovane donna lo guardasse per un momento, che lo esaminasse bene. Pareva ignaro della presenza di Kinson. Sorrise debolmente. "In me vedi te stessa, vero, bambina? Vedi come ci assomigliamo? Ti è così difficile accettarlo? Mi
trovi così ripugnante?" "C'è qualcosa che non quadra" mormorò Kinson, per metterla in guardia. Ma lei parve non udirlo. Fissava l'uomo che diceva d'essere suo padre, lo straniero dal mantello scuro comparso inaspettatamente davanti a loro. Come? Come aveva saputo dove cercarli? "Sei uno di loro!" replicò freddamente. "Uno dei servi del Signore degli Inganni!" L'uomo rimase impassibile. "Servo chi voglio, proprio come te. Ma tu ti sei messa al servizio dei Druidi per il desiderio di trovarmi, giusto? Te lo leggo negli occhi, bambina. Non hai veri legami con i Druidi. Chi sono, loro, per te?LO sono il tuo sangue e la tua carne, il tuo legame con me è evidente. Oh, capisco i tuoi dubbi. Non sono un druido. Sono impegnato in un'altra causa, una da te avversata. Per tutta la vita hai sentito dire che sono il male. Ma quanto sono malvagio, secondo te? Le storie sono tutte vere? O sono forse alterate da coloro che le raccontano per raggiungere i propri scopi? A quanto puoi credere, di ciò che sai?" Mareth scosse lentamente la testa. "A una buona parte, penso." Lo straniero sorrise. "Forse allora non sono tuo padre." Kinson vide che Mareth esitava. "Sei davvero mio padre?" "Non so. Non so se voglio esserlo. Se lo fossi, non mi piacerebbe che mi odiassi. Mi piacerebbe che mi capissi e mi sopportassi. Mi piacerebbe che tu ascoltassi tutto ciò che ti racconterei della mia vita e delle sue conseguenze su di te. Mi piacerebbe avere l'opportunità di spiegarti perché la causa che servo non è né malvagia né rovinosa, ma basata su verità che renderebbero liberi tutti noi." Fece una pausa. "Ricorda che tua madre mi amava. Possibile che il suo amore fosse così traviato? Possibile che la sua fiducia in me fosse così mal riposta?" Kinson avvertì un impercettibile mutamento... una corrente d'aria, una traccia di fumo, un'increspatura nella corrente del fiume... una cosa che non vedeva, ma che percepìva. Si sentì rizzare i capelli. Chi era quello straniero? Da dove era giunto? Se era il padre di Mareth, come li aveva trovati? Come faceva a conoscerla? "Mareth!" l'ammonì di nuovo. "E se i Druidi si fossero sbagliati in tutto ciò che hanno fatto?" domandò all'improvviso lo straniero. "E se tutto ciò in cui hai sempre creduto si basasse su menzogne e su mezze verità e travisamenti che risalgono all'inizio del tempo?" "Impossibile!" replicò subito Mareth. "E se coloro di cui ti fidavi t'avessero tradita?" insistette lo straniero. "Mareth, no!" sibilò Kinson con furia. Ma subito gli occhi dello straniero si fissarono su di lui e all'improvviso Kinson Ravenlock non riuscì più a muoversi né a parlare. Rimase impietrito sul posto, come tramutato in statua. Lo straniero riportò lo sguardo su Mareth. "Guardami, bambina. Guardami attentamente." Inorridito Kinson vide che Mareth guardava lo straniero. La giovane donna aveva un'espressione vacua, remota, come se vedesse una cosa del tutto diversa da quella che aveva davanti a sé. "Sei una di noi" proseguì in tono gentile lo straniero, con voce dolce, per blandirla. "Fai parte di noi. Hai il nostro potere. Hai le nostre passioni. Hai tutto ciò che è nostro, tranne una cosa. Ti manca la nostra causa. Devi abbracciarla, Mareth. Devi convincerti che siamo nel giusto in ciò che cerchiamo. Forza e lunga vita mediante l'uso della magia. Hai sentito quest'ultima rifluire in te. Ti sei domandata come renderla tua. Te lo mostrerò io. T'insegnerò io. Non devi sfuggire a ciò che fa parte di te. Non devi avere paura. Il segreto consiste nel dare retta a ciò che la magia ti
chiede, nel non tentare di reprimerla, nel non rifuggire dai suoi bisogni. Mi capisci?" Mareth annuì vagamente. Kinson vide un impercettibile cambiamento nel viso dello straniero: era un po' meno umano di prima, assomigliava un po' meno a Bremen e a Mareth. Stava diventando qualcosa d'altro. Lentamente, con grande dolore, l'uomo della Frontiera lottò contro le invisibili catene che gli serravano i muscoli. Con cautela mosse la mano lungo la coscia, dove teneva il fodero con il lungo coltello. "Padre?" esclamò all'improvviso Mareth. "Padre, perché mi hai lasciata?" Nella sera sempre più buia ci fu un lungo silenzio. Kinson chiuse le dita sull'impugnatura del coltello. I muscoli urlavano di dolore, la sua mente era confusa. Questa era una trappola dello stesso tipo di quella che il Signore degli Inganni aveva preparato per loro a Paranor! Lo straniero aveva atteso proprio loro o chiunque fosse passato da quelle parti? Sapeva che sarebbe giunta proprio Mareth? O si era augurato che giungesse Bremen? Serrò le dita sul coltello. Lo straniero estrasse dalle pieghe del mantello la mano e l'alzò per chiamare a sé la giovane donna. La mano era nodosa e le dita avevano unghie simili ad artigli. Mareth non parve notarlo. Mosse un piccolo passo avanti. "Sì, bambina, vieni a me" la incitò lo straniero, con occhi ora rossi come sangue, con zanne che sporgevano da un sorriso simile a un ghigno di serpente. "Lascia che ti spieghi ogni cosa. Prendi le mie mani, le mani di tuo padre, e ti dirò ciò che sei destinata a sapere. Allora capirai. Vedrai che dico cose giuste. Conoscerai la verità." Mareth avanzò di un altro passo. Abbassò un poco la mano che reggeva il bastone del druido. In quell'istante Kinson si liberò della magia che lo aveva irretito, ne gettò via le pastoie e sguainò il coltello. Con un unico, fluido movimento lanciò il coltello contro lo straniero. Mareth strillò di paura... se per sé o per il padre o per lui stesso, Kinson non avrebbe saputo dire. Ma in un batter d'occhio lo straniero si trasformò, e da creatura simile all'uomo divenne una creatura del tutto inumana. Mosse il braccio e scagliò una cortina di malefico fuoco verdastro che incenerì a mezz'aria il coltello. Davanti a loro, in una nebbiolina di fumo e di tremula luce, c'era adesso un Messaggero del Teschio. Una seconda esplosione di fuoco scaturì dalle dita adunche della creatura, ma Kinson si era già mosso, si era lanciato su Mareth e l'aveva portata al riparo in una sacca di macerie coperte di cenere. Subito fu di nuovo in piedi, senza aspettare di vedere se Mareth si fosse ripresa, e girò intorno ai resti di un muro, verso il Messaggero del Teschio. Doveva essere velocissimo, se voleva rimanere vivo. La creatura avanzava goffamente verso di loro, il fuoco che sprizzava dalla punta delle dita, gli occhi rossi che ardevano nell'ombra del cappuccio. Kinson saettò in uno spazio aperto e fu sfiorato dal fuoco mentre si gettava a terra e rotolava dietro lo scheletro di un alberello. Il Messaggero del Teschio si girò verso di lui, mormorando parole insidiose e odiose, parole piene di tenebrose promesse. Kinson sguainò la spada. Aveva perduto l'arco, che forse sarebbe stato un'arma migliore... anche se in realtà non possedeva un'arma che potesse fare la differenza. Movimenti furtivi e stratagemmi l'avevano protetto in passato, ma non poteva servirsene in questa circostanza. "Mareth!" gridò, disperato, poi si lanciò all'attacco del Messaggero. Il cacciatore alato cambiò posizione per contrattaccare, le
mani alzate, gli artigli che mandavano scintille. Kinson sapeva già di essere troppo lontano per venire a contatto con la mostruosa creatura prima di essere colpito dal fuoco. Schivò a sinistra, cercò un riparo. Non ne trovò. Il Messaggero del Teschio si erse davanti a lui, tenebroso e minaccioso. Kinson cercò di coprirsi la testa. Allora Mareth mandò un grido acuto: "Padre!". Il Messaggero del Teschio si girò, ma già il Fuoco Magico scaturiva dalla punta del bastone di Mareth. Il fuoco colpì il cacciatore alato e lo scagliò contro un muro. Kinson cadde in ginocchio, e cercò di ripararsi gli occhi. I tratti del viso di Mareth erano duri nella luce omicida e i suoi occhi parevano di pietra. Continuò a lanciare il Fuoco Magico contro il Messaggero: un torrente che ne bruciò le difese, la pelle indurita, il cuore. La creatura urlò di odio e di sofferenza, allargò le braccia come per levarsi in volo. Ma il Fuoco Magico la consumò riducendola in cenere. Mareth gettò via con rabbia il bastone e il Fuoco Magico si estinse. "Ecco, padre!" sibilò ai resti. "Ti ho dato le mie mani da stringere. Ora parlami delle verità e delle menzogne. Avanti, Padre, parlami!" Il suo piccolo viso era inondato di lacrime. La notte si chiuse di nuovo su Kinson e Mareth, tornò il silenzio. Kinson si mise lentamente in piedi, si accostò a Mareth, l'attirò a sé. "Non credo che abbia molto da dire sull'argomento, vero?" Mareth scosse in silenzio la testa contro il suo petto. "Che sciocca sono stata. Non riuscivo a reagire. Non riuscivo a smettere di ascoltarlo. Quasi gli credevo! Tutte quelle menzogne! Ma era così suadente! Come sapeva di mio padre? Come sapeva quali parole usare?" Kinson le accarezzò i capelli. "Non lo so. Le creature tenebrose a volte conoscono i nostri segreti. Scoprono le nostre paure e i nostri dubbi e li usano contro di noi. Me lo disse Bremen una volta." Abbassò il mento contro i capelli di lei. "Penso che quell'essere aspettasse l'arrivo di uno di noi... tu, io, Bremen, Tay, Risca... uno qualsiasi di coloro che minacciano il suo signore. Era una trappola simile a quella collocata a Paranor dal Signore degli Inganni, progettata per catturare chiunque vi cadesse. Però stavolta Brona si è servito di un Messaggero del Teschio, quindi ha molta paura di ciò che potremmo fare." "Per poco non ho ucciso te e me" mormorò Mareth. "Avevi ragione su di me." "No, mi sbagliavo" replicò subito Kinson. "Fossi stato da solo, senza di te, a quest'ora sarei morto. Mi hai salvato la vita. E l'hai fatto usando la tua magia. Guarda il terreno sotto i tuoi piedi, Mareth. Poi guardati." Mareth guardò. Il terreno era annerito e bruciato, ma lei era intatta. "Non capisci?" disse piano Kinson. "Il bastone ha incanalato l'eccesso della tua magia, proprio come diceva Bremen. Ha portato via la parte che ti avrebbe minacciata e ha tenuto solo quella necessaria. Alla fine hai acquisito il controllo della tua magia." Mareth lo fissò, calma, ma aveva negli occhi una tristezza palpabile. "Ormai non ha importanza, Kinson. Non voglio il controllo della magia. Non voglio averci niente a che fare. Ne sono nauseata. Sono nauseata di me stessa... di chi sono, di dove provengo, dei miei genitori, di tutto ciò che mi riguarda." "No" replicò piano lui, guardandola negli occhi. "Sì, invece. Volevo credere a quella creatura, altrimenti non mi sarei lasciata incantare. Se tu non avessi spezzato la sua presa su di me, saremmo morti tutt'e due. Per te ero inutile. Sono talmente presa in questa ricerca della verità su me stessa da mettere in pericolo chiunque mi stia intorno." Serrò le
labbra. "Mio padre, si è definito! Un Messaggero del Teschio. Menzogne stavolta, ma forse non la prossima. Forse è vero. Forse mio padre è un Messaggero del Teschio. Non voglio saperlo. Non voglio avere più niente a che fare con la magia e i Druidi e i cacciatori alati e i talismani." Aveva ripreso a piangere, parlava con un tremito nella voce. "Ho chiuso, con tutto questo. Fatti accompagnare da qualcun altro.LO me ne vado." Kinson lasciò vagare lo sguardo nel buio. "Non puoi piantare tutto, Mareth" replicò alla fine. "No, non dire niente, ascoltami. Non puoi perché sei una persona troppo buona per fare una cosa simile. Devi continuare. Sei necessaria per aiutare coloro che non possono aiutarsi da soli. Non è una responsabilità che tu abbia cercato, me ne rendo conto. Ma è il fardello che ti tocca portare, assegnato a te perché sei una dei pochi che possano portarlo. Tu, Bremen, Risca, Tay Trefenwyd... gli ultimi Druidi. Solo voi quattro, perché non ce ne sono altri e forse mai più ce ne saranno." "Non m'importa" mormorò Mareth, testarda. "Non me ne importa niente." "Sì, invece" insistette Kinson. "Importa a tutti voi. Se non ve ne importasse niente, la lotta contro il Signore degli Inganni sarebbe terminata da un sacco di tempo e saremmo tutti morti." Nel silenzio che seguì restarono a guardarsi come statue rimaste in piedi fra le macerie della città. Mareth si mosse contro di lui, alzò il viso verso il suo, lo baciò sulla bocca. Con le braccia gli circondò la vita e lo strinse a sé. Il bacio durò a lungo e fu qualcosa di più di una semplice manifestazione di amicizia e gratitudine. Kinson Ravenlock si sentì pervadere da una sensazione di calore mai provata. Ricambiò il bacio e abbracciò Mareth. Dopo, Mareth si tenne ancora un poco stretta a lui, con la testa abbassata contro il suo petto. Kinson sentiva il battito del cuore di lei, il suo respiro. Mareth indietreggiò e lo guardò senza parlare, con occhi colmi di meraviglia. Si chinò a raccogliere il bastone e riprese il cammino verso i boschi, seguendo a levante il Fiume Argento. Kinson rimase fermo a guardarla finché non fu che un'ombra, cercando di raccapezzarsi. Poi rinunciò e si affrettò a raggiungerla. Camminarono per due giorni senza incontrare nessuno. Tutti i villaggi, le fattorie, le case di campagna e le stazioni commerciali in cui s'imbatterono erano incendiati e deserti. Videro segni del passaggio dell'esercito del Nord e della fuga dei Nani, ma non trovarono anima viva. Nel cielo volavano uccelli, nel sottobosco saettavano piccoli animali, nei roveti ronzavano insetti, nelle acque del Fiume Argento guizzavano pesci, ma da nessuna parte c'erano esseri umani. Kinson e Mareth controllarono con scrupolo che non ci fossero altri Messaggeri del Teschio o qualcuno delle migliaia di esseri infernali al servizio del Signore degli Inganni, ma non ne videro. Trovarono acqua e cibo, quest'ultimo mai in abbondanza e sempre allo stato selvatico. Le giornate passavano lente e calde: solo di tanto in tanto uno sporadico acquazzone rinfrescava l'afa soffocante dell'Anar. Le notti erano chiare e profonde, stellate e luminose per il chiaro di luna. Il mondo era tranquillo, quieto, deserto. Pareva che tutti, amici e nemici, fossero svaniti nel firmamento. Mareth non parlò più delle proprie origini né della decisione di abbandonare la sua ricerca. Non accennò al proprio odio per la magia né alla paura per chi la possedeva. Procedette per lo più in silenzio; se aveva qualcosa da dire, riguardava la regione che attraversavano e le creature che l'abitavano. Pareva essersi lasciata
alle spalle gli eventi di Culhaven. Pareva anche decisa a restare con Kinson, per quanto non avesse espresso quella decisione. Spesso gli sorrideva. A volte si sedeva accanto a lui, prima di addormentarsi. E lui si scoprì a desiderare più d'una volta che lo baciasse di nuovo. "Non provo più rabbia" gli disse a un certo punto, guardando davanti a sé ed evitando con cura i suoi occhi. Stavano camminando fianco a fianco in un campo di fiori selvatici gialli. "Ho provato rabbia per troppo tempo" riprese dopo un attimo. "Verso mia madre, mio padre, Bremen, i Druidi, tutti. La collera mi dava forza, ma ora si limita a prosciugarmi. Ora mi sento solo stanca." "Capisco" rispose lui. "Sono in giro per il mondo da più di dieci anni... da quando riesco a ricordare... sempre alla ricerca di qualcosa. Ora vorrei solo fermarmi e guardarmi intorno per un poco. Vorrei avere una casa da qualche parte. Credi che sia un desiderio sciocco?" Lei gli sorrise, ma non rispose. Sul finire del terzo giorno da quando avevano lasciato Culhaven, arrivarono alle Montagne del Corvo. Quando il sole cominciò a sprofondare dietro l'orizzonte, si trovavano già alla base della catena montuosa e iniziavano a salire le alture pedemontane. Il cielo era un meraviglioso arcobaleno arancione, cremisi, violetto; i colori si riversavano su ogni cosa, chiazzavano il terreno, si protendevano negli angoli in ombra. Kinson e Mareth si erano fermati ad ammirare lo spettacolo alle loro spalle quando un nano comparve sul sentiero davanti a loro. "Chi siete?" domandò, brusco. Era solo e non aveva armi a parte un pesante randello, ma Kinson capì subito che c'erano altri Nani nelle vicinanze. Disse i loro nomi. "Stiamo cercando Risca" soggiunse. "Ci manda druido Bremen." Il nano non replicò, ma si girò e con un gesto li invitò a seguirlo. Camminarono per alcune ore lungo il sentiero che si arrampicava fino ai pendii più bassi delle montagne. La luce del giorno era svanità e la luna e le stelle, appena spuntate, illuminavano il cammino. L'aria si rinfrescò e il fiato cominciò a condensarsi in nuvolette davanti a loro. Mentre procedevano, Kinson cercò segni di altri Nani, ma vide sempre e solo quello che li precedeva. Alla fine entrarono in una valle dove ardevano decine di fuochi di guardia. Un numero di Nani dieci volte superiore a quello dei falò se ne stava raggruppato intorno alle fiamme. Alzarono la testa nel vedere i due stranieri e alcuni scattarono in piedi. Avevano sguardi duri, sospettosi, e si scambiarono qualche parola in tono volutamente basso. Avevano poche cose, ma tutti portavano armi agganciate alla cintura e sulla schiena. Kinson si domandò all'improvviso se lui e Mareth non fossero in pericolo. Si avvicinò a lei, con rapide occhiate a destra e a manca. Quel posto non gli sembrava sicuro. Pareva cupo e minaccioso. Si domandò se per caso quei Nani non fossero disertori. Si domandò se il loro esercito esistesse ancora. Poi comparve all'improvviso Risca, e attese che si avvicinassero: aveva lo stesso aspetto di quando l'avevano lasciato nei pressi del Perno dell'Ade, a parte una nuova serie di piccole ferite che gli segnavano il viso e le mani. E quando un sorriso gli comparve sul viso segnato dalla vita all'aria aperta e le mani si protesero in un gesto di benvenuto, Kinson Ravenlock capì che tutto era a posto. 30
Dieci giorni dopo l'incursione notturna di Jerle Shannara, l'armata del Signore degli Inganni attaccò. Gli Elfi non furono colti di sorpresa. Per tutta la notte c'era stata un'insolita attività nell'accampamento nemico. Erano stati accesi grandi fuochi di guardia, tanto che tutta la prateria pareva in fiamme. Le macchine d'assedio sfuggite all'incursione venivano fatte avanzare, robusti giganti stagliati contro il buio della notte: le torri tozze e squadrate ondeggiavano e cigolavano, i lunghi bracci ripiegati delle catapulte e dei trabocchi lanciavano ombre simili a quelle di grossi rami spezzati. Molto prima del sorgere del sole i vari reparti dell'esercito cominciarono a radunarsi e perfino dall'estremità del passo gli Elfi udirono i rumori di gente che indossava la corazza e le armi. Il pesante tonfo di stivali segnalò la formazione di unità di battaglia. I cavalli furono sellati e i cavalieri presero posizione ai fianchi per proteggere gli arcieri e i fanti. Impossibile fraintendere lo scopo di tutte quelle attività, e Jerle Shannara si sbrigò a prendere provvedimenti. Aveva sfruttato bene il tempo guadagnato grazie all'incursione. I soldati del Nord avevano impiegato, per riprendersi, più tempo di quanto lui si fosse augurato. I danni inflitti alle macchine d'assedio e ai carri delle provviste erano stati ingenti e avevano richiesto la costruzione di nuove macchine, la riparazione delle vecchie, l'arrivo dal settentrione di altre provviste. Alcuni dei cavalli messi in fuga erano stati ripresi, ma era stato necessario sostituirne un gran numero. L'esercito del Nord s'ingrossò all'arrivo di rinforzi, ma gli Elfi erano incoraggiati dalla facilità con cui avevano danneggiato forze tanto superiori. Era tornata la speranza e il re fu pronto ad approfittarne. Per prima cosa cambiò posizione al grosso dell'esercito e dall'estremità occidentale della valle lo spostò verso quella opposta, dalla stretta gola all'ampia apertura sul fondovalle. Il suo ragionamento era semplice: se da una parte era più facile difendere la stretta gola, dall'altra preferiva impegnare il nemico più all'interno e costringerlo a conquistare il terreno palmo a palmo. Naturalmente c'era il pericolo di assottigliare troppo le fila. Ma per ovviare a questo rischio, ordinò ai genieri di costruire una serie di trappole micidiali nell'ampio valico aperto sulle pianure dal quale i nemici erano obbligati a passare. Tenne consiglio di guerra per discutere la strategia, elaborando una complessa ma ampia serie di manovre di riserva che secondo lui avrebbero compensato la potenza dell'attacco nemico. L'esercito più numeroso avrebbe vinto, se avesse potuto mettere in campo la sua superiorità. Il trucco era semplice: evitare che ciò accadesse. Così, quando spuntò l'alba di quel decimo giorno e l'esercito del Nord comparve, gli Elfi erano pronti a riceverlo. Quattro compagnie di fanti e arcieri erano schierate attraverso l'ampia imboccatura orientale della valle, le armi in pugno. La cavalleria, al comando di Kier Joplin, si era già disposta a ventaglio ai lati della fanteria, lungo i bordi delle foreste che schermavano i dirupi e le montagne. Sulle alture avevano preso posizione tre compagnie di Cacciatori, protette da trincee e barricate, con archi, fionde e lance. Ma l'esercito nemico incuteva davvero paura. Superava le diecimila unità e occupava le pianure fin dove arrivava l'occhio. I giganteschi Troll delle Montagne si trovavano al centro e le grandi
picche sollevate parevano una foresta di legno e di ferro. Troll più piccoli e Gnomi li affiancavano e li precedevano. La cavalleria pesante, con le lance alla staffa in posizione d'attesa, era schierata più indietro. Una doppia serie di torri d'assedio affiancava lo schieramento, mentre catapulte e trabocchi erano sparsi fra i soldati. Nel bagliore del sole appena sorto, l'esercito del Nord pareva abbastanza potente da frantumare qualsiasi ostacolo incontrasse. Mentre il sole si staccava dall'orizzonte e il nuovo giorno iniziava, ci fu un silenzio carico d'aspettativa. I due eserciti si fronteggiavano ai due estremi della prateria, in un luccichio di corazze e di armi mentre gli stendardi garrivano nella brezza e il cielo era una bizzarra mistura d'azzurro sempre più vivo e di grigio sempre più sbiadito. Le nuvole veleggiavano in vaste e dense masse che minacciavano pioggia. Nell'aria aleggiava l'acre puzzo di terra bruciata, residuo dei fuochi di guardia spenti da poco. I cavalli raspavano nervosi il terreno e si agitavano fra le tirelle. Gli uomini sospiravano e cercavano di non pensare alla casa, alla famiglia, a tempi migliori. Quando l'esercito del Nord iniziò l'avanzata verso la valle, il terreno tremò. I tamburi rullavano con ritmo regolare e segnavano il tempo ai fanti in marcia. Le ruote delle catapulte e delle torri d'assedio rombavano. Stivali e zoccoli pestavano con tanta forza che le vibrazioni del terreno si sentivano fin dove erano schierati gli Elfi. La polvere cominciò a sollevarsi dalle piane riarse e il vento la mosse in nubi irregolari; l'esercito parve aumentare di grandezza, come se fosse alimentato dal polverone che sollevava. Il silenzio s'infranse e la luce mutò. Nell'aria intorbidita dalla polvere e nella tonante avanzata dell'esercito, la Morte alzò la testa con impaziente anticipazione e si guardò in giro. Jerle Shannara, in sella al cavallo da guerra, un baio con una macchia bianca sul muso chiamato Risk, guardò in silenzio il nemico avanzare. Non gli piacque l'effetto che l'avanzata provocava nei suoi uomini. Il puro e semplice numero dei nemici era scoraggiante, il fragore della loro avanzata assordante e temibile. Il re sentiva il terrore che l'avvicinarsi del nemico generava nei suoi soldati. L'impazienza per l'atteso evento cominciò a innervosirlo, a corrodere la sua stessa determinazione. Alla fine non riuscì più a sopportarlo. D'impulso spronò il cavallo verso la prima linea lasciando di stucco Preia, Bremen e la sua guardia personale. Lanciato alla carica, visibile da tutti, arrestò il cavallo e lo mise al passo, andò avanti e indietro lungo le prime file, arringando i Cacciatori che lo guardavano con sorpresa e piacere. "Calma, adesso" disse con sicurezza, sorridendo, rispondendo con un cenno ai saluti e guardando negli occhi ciascun soldato. "Il semplice numero non vuol dire molto. Questa è la nostra terra, la nostra casa, la nostra nazione per diritto di nascita. Non possiamo farci scacciare da un invasore senz'anima. Non possiamo essere sconfitti, se crediamo in noi stessi. Siate forti. Ricordate le sorprese che abbiamo in serbo per loro. Ricordate cosa bisogna fare. Saranno loro i primi a darsi alla fuga, ve lo prometto. Restate calmi. Non perdete la testa." Continuò così, avanti e indietro lungo lo schieramento, fermandosi per rivolgere qualche domanda di poco conto a qualcuno che conosceva, mostrando a tutti d'essere fiducioso, di sapere quanto coraggio avessero. Tenne le spalle girate all'esercito nemico. Di proposito si comportò come se non
esistesse. Quelli per noi non sono niente, lasciava intendere; sono già sconfitti. Quando il nemico fu a duecento passi, con un rumore così assordante da non lasciare spazio ad altri suoni, alzò la mano in un saluto ai suoi Cacciatori, girò il cavallo e tornò al suo posto fra i ranghi. Poi, quando i nemici furono a centocinquanta passi, diede il segnale di appiccare fuoco alle praterie. Gli arcieri avanzarono di corsa a prendere posizione in una lunga linea, piegarono il ginocchio a terra e accesero le frecce incendiarie. Alzarono e inclinarono verso il cielo archi alti come un uomo, tesero la corda e la rilasciarono. Le frecce volarono tra i soldati dell'esercito invasore e caddero nell'erba che durante la notte gli Elfi avevano inzuppato d'olio. Da tutte le parti scaturirono lingue di fiamma che si alzarono nell'aria fitta di polvere e divamparono fra le schiere compatte. Le fila nemiche rallentarono e si scompaginarono, mentre nell'aria si alzavano le grida atterrite di soldati e animali. Ma l'esercito non si ritirò, non si diede alla fuga. Caricò, invece, e le prime file si sottrassero così alle fiamme micidiali. Gli arcieri degli Gnomi scagliarono freneticamente salve di frecce, ma non possedevano i lunghi archi degli Elfi e i tiri risultarono corti. I soldati si lanciarono alla carica, con spade e lance, ululando con furia, ansiosi di venire a contatto con gli autori di quella sorpresa. Un buon migliaio, per la maggior parte Gnomi e piccoli Troll, poco disciplinati e impulsivi, si precipitò a testa bassa nella trappola. Jerle Shannara mantenne in posizione i suoi soldati, mentre gli arcieri si erano di nuovo ritirati fra i Cacciatori. Quando il nemico fu abbastanza vicino, alzò la spada e diede il segnale ai guastatori inframmezzati ai fanti. Questi tirarono grosse funi ingrassate nascoste nell'erba, e decine di barriere munite di punte acuminate si levarono a contrastare l'assalto. Gli attaccanti, troppo vicini per rallentare e incalzati da quelli che li seguivano, finirono contro le micidiali punte. Alcuni cercarono di recidere le funi, ma le lame scivolavano sulle corde coperte di grasso. Le grida d'attacco si mutarono in urla di dolore e di paura, mentre i soldati delle prime file morivano fra atroci sofferenze, impalati sulle barriere o calpestati dai compagni alla carica. A quel punto gli arcieri elfi scagliarono una seconda salva di frecce. I soldati del Nord, rallentati dalle barriere che sbarravano loro la strada, erano facili bersagli. Impossibilitàti a proteggersi, senza alcun posto dove nascondersi, caddero a decine. A causa delle fiamme alle loro spalle non avevano via di fuga. Il resto dell'esercito del Nord si era suddiviso nel tentativo di evitare quell'inferno e di correre in aiuto dei compagni intrappolati dalle fiamme. Ma i due gruppi avevano difficoltà ad avanzare, ostacolati dalle macchine d'assedio e dagli animali che le trainavano. Per di più, la cavalleria elfa li assalì su entrambi i fianchi con giavellotti e corte spade. Una delle torri prese fuoco e gli occupanti tentarono di spegnere le fiamme versando freneticamente secchi d'acqua presa dai serbatoi posti all'interno del guscio ligneo. Le catapulte scagliarono la loro micidiale grandinata di pietre e pezzi di metallo, ma la mira non era accurata a causa del fumo e della polvere. Allora Jerle Shannara ordinò di rilasciare le funi che avevano alzato le barriere e queste ricaddero. Gli Elfi marciarono all'attacco, lancieri e fanti disposti su linee scaglionate, a ranghi serrati in modo che lo scudo dell'uomo sulla
destra proteggesse il compagno di sinistra. Puntarono con decisione sulla prima linea nemica, già devastata. Sgomenti, i soldati presi in trappola fra gli Elfi e le fiamme gettarono le armi e tentarono la fuga. Ma la fuga era impossibile. I soldati del Nord furono circondati e rapidamente fatti a pezzi. Ma il fuoco, consumata l'erba, cominciò a estinguersi e una compagnia di Troll delle Montagne, il nucleo dell'esercito nemico, avanzò a picche abbassate. Mantennero la formazione e il passo, senza rallentare anche se calpestavano morti e moribondi, fossero amici o nemici. Chiunque capitò sulla loro strada fu ucciso. Jerle li vide sopraggiungere e ordinò la ritirata. Riportò nella posizione originaria le sue prime file e lì le attestò. Alla sua destra c'era Cormorant Etrurian, alla sua sinistra Rustin Apt. Arn Banda sistemò gli arcieri fra le due compagnie, a drappelli scaglionati tra i fanti, e ordinò di mirare ai Troll. Ma questi portavano la corazza e le frecce causavano danni trascurabili, perciò Jerle ordinò agli arcieri di ritirarsi. I Troll attraversarono il tratto d'erba bruciata ed emersero dal fumo: erano i migliori combattenti delle Quattro Terre, massicci di spalle e di fianchi, muscolosi, protetti dall'armatura, implacabili. Jerle Shannara fece ancora un segnale e una nuova serie di barriere chiodate si alzò a sbarrare loro la strada. Ma i Troll delle Montagne erano più disciplinati e meno impressionabili degli Gnomi e dei Troll più piccoli: subito si disposero in modo da togliere di mezzo le barriere chiodate. Alle loro spalle, fuori dalla foschia, sciamò il resto dell'esercito del Nord, all'apparenza sterminato, accompagnato da torri d'assedio e catapulte. La cavalleria lo fiancheggiava e teneva a bada il reparto di Kier Joplin. Jerle Shannara fece arretrare di altri cento passi i suoi uomini, all'interno dell'ampia imboccatura orientale della Valle di Rhenn. Fila dopo fila, gli Elfi arretrarono, con ordine e disciplina, ma si trattò pur sempre d'una ritirata. Alcuni, nell'esercito nemico, lanciarono grida d'entusiasmo, credendo che gli Elfi fossero in preda al panico. Di sicuro, pensavano, adesso avrebbero rotto le righe e si sarebbero dati alla fuga. Nessuno notò le file di bandierine fra le quali gli Elfi in ritirata si spostavano con prudenza, rimuovendo di nascosto, dopo essere passati quei segnali. Nessuno notò nemmeno che la ritirata avveniva troppo in buon ordine. Dietro i Troll, il fumo e le fiamme lanciarono gli ultimi guizzi e morirono, mentre il vento svaniva con l'avanzare del mattino. I cavalieri di Kier Joplin tornarono nella valle, precedendo il nemico che avanzava per non rimanere tagliati fuori. Superarono al galoppo i fanti e si girarono per rimettersi in formazione. Ora tutto l'esercito dell'Ovest era schierato in attesa attraverso l'imboccatura della valle. Non mostrava segni di panico né traccia d'incertezza. Era stata predisposta una seconda trappola e in quel momento il nemico vi entrava senza il minimo sospetto. Fu così che, quando le prime file di Troll delle Montagne arrivarono all'ingresso della valle, il terreno iniziò a cedere. Appesantiti dall'armatura, i Troll precipitarono senza scampo nelle fosse che gli Elfi avevano scavato e mimetizzato alcuni giorni prima, le stesse che avevano accuratamente evitato durante la ritirata. I ranghi dei Troll si frazionarono per evitare le fosse visibili, ma le trappole erano scaglionate a intervalli irregolari per un tratto di cinquanta passi e il terreno continuò a sprofondare, da qualsiasi parte si
muovessero. La confusione rallentò l'avanzata e l'attacco cominciò a vacillare. Gli Elfi contrattaccarono subito. Il re diede un segnale agli uomini nascosti tra i dirupi sulle pendici della valle: barili d'olio rotolarono lungo rampe mimetizzate e finirono sull'erboso tratto piano, fracassandosi sulle pietre sporgenti e versando nelle fosse il contenuto. Ancora una volta le frecce incendiarie solcarono il cielo e in un attimo l'intera parte orientale della valle fu inghiottita dalle fiamme. I Troll delle Montagne caduti nelle fosse morirono bruciati. Il resto dell'esercito nemico continuò l'avanzata, ma la compattezza dei ranghi dei Troll ormai era infranta. Peggio ancora, i Troll venivano travolti dagli inconsapevoli compagni che li seguivano. La confusione cominciò a diffondersi tra i soldati del Nord. Le fiamme si propagavano, frecce grandinavano da tutte le parti e ora gli Elfi venivano all'attacco, spingendo davanti a sé grossi arieti muniti di punte acuminate. Gli arieti aprirono varchi nelle file già decimate e dispersero i Troll. I Cacciatori avanzarono e a colpi di spada si lanciarono sui superstiti. I nemici intrappolati tra le fiamme e gli Elfi tennero duro e lottarono con coraggio, ma finirono anche loro per morire. Spinti dalla disperazione, i restanti soldati del Nord si lanciarono all'attacco tra i dirupi sulle pendici del passo, nel tentativo di stabilire una testa di ponte. Ma anche stavolta gli Elfi erano in attesa. Grossi massi rotolarono dall'alto e travolsero coloro che si arrampicavano mentre le frecce li decimavano. Dalla loro posizione più elevata, gli Elfi respinsero l'assalto quasi senza sforzo. Giù, nell'inferno del passo, il fronte d'attacco dell'esercito del Nord si aggirava qua e là, smarrito, impotente. L'attacco rimase in bilico e poi crollò. Soffocati dal fumo e dalla polvere, ustionati dall'erba in fiamme, feriti, i soldati del Signore degli Inganni cominciarono a ritirarsi di nuovo nelle Pianure di Streleheim. Agendo d'impulso, Jerle Shannara sguainò la spada affidatagli da Bremen, la spada la cui magia non poteva padroneggiare e in cui ancora non credeva, e la levò in aria. Tutt'intorno a lui gli Elfi alzarono al cielo le armi e lanciarono grida di vittoria. Quasi subito il re riconobbe l'ironia del proprio gesto. Si affrettò ad abbassare la spada, nelle sue mani amuleto d'uno sciocco, talismano d'un sempliciotto. Fece girare con rabbia il cavallo: la sua euforia era svanità, aveva lasciato posto alla vergogna. "Adesso è la Spada di Shannara, re degli Elfi" gli aveva detto Bremen quando, dopo l'incursione di mezzanotte, Jerle gli aveva rivelato di non essere riuscito a sfruttare la magia del talismano. "Non è più una spada dei Druidi, né mia." Ricordò ora quelle parole, mentre andava avanti e indietro lungo le fila del suo esercito, rincuorando i soldati in previsione del prossimo attacco che con ogni probabilità sarebbe giunto poco prima del tramonto. Aveva rimesso la Spada - incerta, enigmatica presenza - nel fodero allacciato alla cintura. Da un lato Bremen era stato molto rapido a darle il nome, ma dall'altro era stato assai lento a garantirgli che avrebbe potuto controllarne la magia. Anche adesso, con tutto ciò che aveva già appreso, Jerle non sentiva la Spada veramente sua. "Hai la possibilità di controllarne la magia, re degli Elfi" aveva mormorato il vecchio, quella notte. "Ma la forza per controllarla nasce dalla fede e la fede deve necessariamente giungere dal tuo intimo." Quella notte di dieci giorni prima si erano appartati
nel buio, fino a un'ora prima dell'alba, le facce sporche di fuliggine e di polvere e striate di sudore. Quella notte Jerle era andato vicino alla morte. Il mostro al servizio del Signore degli Inganni l'aveva quasi ucciso; Bremen era giunto in tempo per salvarlo, ma il re ricordava ancora vividamente e dolorosamente quanto fosse stata prossima la morte. Preia era nelle vicinanze, ma Jerle aveva preferito parlare col druido da solo e confessargli in privato il proprio fallimento, per esorcizzare i demoni che gli infuriavano dentro. Dove aveva sbagliato, quella notte, nel fare appello al potere del talismano? Come poteva essere sicuro di non ripetere l'errore? Soli nel buio, tanto vicini da udire solo il battito del cuore e il caldo respiro, avevano affrontato la questione. "Quella spada è un talismano previsto per un solo scopo, Jerle Shannara!" aveva detto, quasi con rabbia, il vecchio druido, in tono duro e spazientito. "Ha un solo uso e basta! Non puoi fare appello alla sua magia per difenderti da qualsiasi creatura ti minacci! La sua lama potrebbe forse salvarti la vita, la sua magia, no!" A quel rimprovero il re si era irrigidito. "Ma tu hai detto..." "So benissimo cos'ho detto!" l'aveva interrotto Bremen, in tono duro e pungente, spazzando via l'obiezione e zittendolo. "Non prestavi orecchio alle mie parole, re degli Elfi! Hai ascoltato ciò che volevi udire e nient'altro! Non negarlo! Ho visto, ti ho osservato! Stavolta stai più attento! Mi sono spiegato?" Jerle Shannara era riuscito ad assentire, a labbra serrate, furibondo, tenendo a freno la lingua solo perché sapeva che, se avesse fallito nell'impresa che gli veniva richiesta, sarebbe stato perduto. "La magia risponderà al tuo appello quando la userai contro il Signore degli Inganni! Ma solo contro il Signore degli Inganni e solo se la tua fede avrà sufficiente forza!" Con aria di rimprovero aveva scosso la testa canuta. "La verità viene dalla fede, ricordalo. La verità viene dal riconoscimento che essa è universale, tutto include, non fa eccezioni. Se non puoi accettare questo fatto nella tua stessa vita, non puoi imporlo nella vita degli altri. Devi assimilarlo, prima di poterlo usare! Devi farlo diventare la tua corazza!" "Ma la magia sarebbe servita proprio a questo, contro quell'essere!" aveva insistito il re, poco propenso ad ammettere il proprio errore di giudizio. "Perché non ha risposto?" "Perché non c'è alcun inganno in un simile mostro!" aveva replicato a denti stretti il druido. "Quello non combatte con menzogne e mezze verità. Non si corazza di falsità. Non inganna se stesso per indursi a credersi qualcosa che non è! Questo, re degli Elfi, è territorio esclusivo del Signore degli Inganni! Ed è per questo che la magia della Spada di Shannara può essere usata solo contro di lui!" Così avevano discusso, dibattendo con foga la questione, fin quasi all'alba, quando alla fine si erano riposati. In seguito il re aveva avuto il tempo di riflettere su ciò che gli era stato detto, per conciliare quelle parole con le sue aspettative. A poco a poco era giunto ad ammettere che ciò che Bremen credeva doveva essere vero. La magia della Spada era limitata a un unico uso e, per quanto lui lo rimpiangesse, non c'era niente da fare. Era destinata unicamente a Brona e a nessun altro. Lui doveva assimilare questa verità e trovare il modo di rendere propria quella magia, per quanto estranea e sconcertante. Alla fine era andato da Preia, come sapeva che prima o poi avrebbe fatto, perché così si comportava sempre, quando qualcosa lo turbava. I consiglieri erano
intorno a lui per dargli indicazioni a ogni piè sospinto e alcuni di loro, in particolare Vree Erreden, meritavano di essere ascoltati. Ma nessuno lo conosceva come Preia, e a dire il vero nessuno di loro poteva essere ritenuto altrettanto onesto. Così si era fatto forza e le aveva raccontato la verità, per quanto gli risultasse difficile ammettere di avere fallito e di temere un possibile, nuovo fallimento. Era avvenuto sul tardi, quello stesso giorno, con le parole di Bremen ancora fresche in mente e il ricordo della notte appena trascorsa ancora vivido. La Valle di Rhenn era silenziosa sotto un cielo rannuvolato e gli Elfi stavano in guardia per la possibile risposta del nemico all'incursione della notte precedente. Il pomeriggio era grigio e interminabile, il calore dell'estate impregnava la terra riarsa delle Streleheim e l'aria era umida e soffocante per l'approssimarsi di un temporale. "Troverai il modo di controllare quella magia" aveva detto subito Preia, non appena lui aveva terminato di parlare. Aveva voce ferma e insistente, sguardo deciso. "Ne sono convinta, Jerle. Ti conosco. Non ti sei mai arreso di fronte a una sfida e non ti arrenderai neppure di fronte a questa." "A volte" aveva risposto lui a bassa voce "penso che sarebbe meglio se Tay fosse qui al mio posto. Lui sarebbe forse un re migliore di me. Di certo sarebbe più adatto a usare questa spada e la sua magia." Preia aveva scosso subito la testa. "Non dire mai più una cosa del genere. Mai più." I suoi occhi chiari erano vivaci e penetranti. "Eri destinato a vivere e a diventare re degli Elfi. Il fato l'ha stabilito molto tempo fa. Tay era un caro amico e significava molto per tutt'e due, ma non era destinato a questo. Ascoltami, Jerle. La magia della Spada funzionerà per te. La verità non è estranea. Abbiamo iniziato la nostra vita come marito e moglie rivelandoci verità che un mese prima non avremmo mai ammesso. Ci siamo aperti l'una all'altro. Era difficile e doloroso, ma ora sai che si può fare. Lo sai." "Sì" aveva ammesso piano Jerle. "Ma la magia mi pare ancora..." si era interrotto. "Poco familiare" aveva terminato per lui Preia. "Ma può diventare tua. Hai accettato che la magia è parte della storia degli Elfi. La magia di Tay era reale. Hai scoperto di persona che poteva fare miracoli. Hai visto Tay dare la vita al suo servizio. Con essa ogni cosa è possibile. E la verità è una di queste cose, Jerle. E' un'arma terribile. Può rafforzare o distruggere. Bremen non è uno sciocco. Se dice che la verità è l'arma di cui hai bisogno, allora così dev'essere." Ma l'idea lo infastidiva ancora, gli ricordava i suoi dubbi, lo faceva tentennare. La verità pareva un'arma così insignificante! Quale verità poteva essere tanto potente da distruggere un essere in grado di evocare mostri dal mondo infero? Quale verità era sufficiente a controbattere una magia capace di mantenere in vita una creatura per mille anni? Pareva assurdo pensare che la verità da sola bastasse a tutto. Era necessario il fuoco. Il ferro, affilato e avvelenato in punta. Una forza in grado di spaccare le pietre. Niente di meno sarebbe bastato, continuava a pensare Jerle... anche mentre cercava di assimilare la magia offertagli da Bremen. Niente di meno. Ora, cavalcando sul campo di battaglia, con la Spada di Shannara appesa al fianco, fra i Cacciatori euforici per la vittoria, si stupì ancora una volta per l'enormità dell'impresa che gli era stata affidata. Presto o tardi avrebbe dovuto affrontare il Signore degli Inganni. Ma non sarebbe accaduto finché lui stesso non avesse provocato il confronto; e ciò non
sarebbe accaduto finché l'esercito del Nord non fosse stato minacciato. Come poteva sperare di far accadere una cosa simile? Gli Elfi avevano respinto un attacco, ma niente diceva che sarebbero stati in grado di respingerne un altro e un altro e un altro ancora, mentre l'esercito del Nord avanzava implacabile. E se in qualche modo gli Elfi fossero riusciti a resistere, come avrebbe potuto, lui, volgere a loro favore le sorti della battaglia in modo tale da passare all'offensiva? I nemici erano talmente numerosi, continuava a ripetersi. Tante vite da sacrificare e nessun pensiero da rivolgere a quello spreco. Non era così per lui... e non era così per gli Elfi che combattevano per lui. Quella era una guerra di logoramento, proprio il tipo di guerra che non poteva sperare di vincere. Eppure in qualche modo doveva vincerla. Perché non gli restava altro. Era l'unica possibilità concessagli. Doveva vincere, altrimenti gli Elfi sarebbero stati distrutti. Un'ora prima del tramonto, l'esercito del Nord tornò all'attacco: comparve dalle praterie bruciate, polverose e fumanti, simile a un'armata di spettri. I fanti marciavano dietro massicci scudi di legno ancora verde perché non potesse prendere fuoco. La cavalleria procedeva ai lati per fronteggiare attacchi dai dirupi settentrionali e meridionali. Emersero lentamente dalla foschia, perché ormai l'incendio si era spento, anche se l'aria ne conservava il sentore acre e pungente. Girarono alla larga dalle fosse annerite con i loro cadaveri raggrinziti, ma appena entrati nella valle cominciarono a sondare il terreno in cerca di nuove trappole. Forti di cinquemila uomini, se ne stavano ammassati dietro gli scudi, armati fino ai denti. I tamburi rullavano con cadenza costante e i soldati cantavano battendo forte i piedi e le lame di ferro, per segnare il tempo. Avevano con sé le torri d'assedio e le catapulte, che piazzarono all'ingresso della valle. Come una smisurata massa scura, si stagliavano contro la notte incipiente fino a dare l'impressione che bastassero a travolgere il mondo intero. Jerle Shannara aveva ritirato il suo esercito ben dentro la valle schierandolo all'incirca a mezza via. Aveva scelto un punto dove la valle cominciava a salire verso lo stretto passo occidentale, in modo che i Cacciatori si trovassero in posizione soprelevata. Ora però fu costretto a cambiare strategia, perché nella valle il vento era girato e soffiava contro i difensori: in quel punto il fuoco avrebbe solo aiutato gli attaccanti. Non aveva neppure ordinato di scavare fosse, in quella parte della valle, perché non c'era spazio sufficiente per manovrare e inoltre ormai il nemico sarebbe stato in guardia. Invece aveva fatto costruire decine di barriere munite di traversine appuntite alle estremità e legate a croce a un asse centrale, tanto da sembrare girandole cilindriche. Ciascuna era lunga sei braccia e abbastanza leggera da essere sistemata in modo che le punte rivolte in basso fossero conficcate nel terreno. Queste barriere erano state scaglionate in uno stretto nastro per tutta la larghezza della Valle di Rhenn, proprio davanti alle prime linee. Quando l'esercito del Signore degli Inganni si riversò nella valle e iniziò l'avanzata, per prima cosa incontrò quel labirinto di barriere irte di punte. Non appena le prime file vi giunsero, Jerle ordinò agli arcieri, disposti in gruppi di tre dietro ripari lungo i pendii, di lanciare salve di frecce. I nemici, rallentati dalle barriere che non potevano spostare, non avevano scampo. Presi in mezzo a un tiro incrociato, furono uccisi a decine mentre
cercavano di strisciare sopra, sotto o intorno ai pali appuntiti. La cavalleria cercò di eseguire una decisa carica contro gli Elfi appostati sulle alture, ma il pendio era troppo ripido per i cavalli e i cavalieri del Nord furono ricacciati nella valle. Si levarono i gemiti dei feriti a morte e l'attacco si esaurì. I soldati del Nord si tenevano al riparo dietro i larghi scudi, ma con quelli non potevano superare le barriere. Cercarono di distruggerle a colpi d'ascia, ma chi si lanciò a demolire quelle girandole irte di punte durò solo pochi istanti. Inoltre, per oltrepassare una sola barriera occorreva abbatterla in una decina di punti. La luce si attenuò, scese il crepuscolo che rese ogni cosa buia e incerta. I soldati del Nord appiccarono il fuoco alle barriere e riuscirono a incendiarne alcune, ma anche gli Elfi avevano usato legno ancora verde. L'erba prese fuoco, ma gli Elfi avevano scavato trincee nel tratto fra loro e le barriere, per cui il fuoco si esaurì senza arrivare alle loro linee Gli Elfi attesero che l'oscurità mascherasse ogni cosa, poi contrattaccarono dai pendii. Gli attaccanti, bloccati a fondovalle, erano bersagli sicuri anche nel buio sempre più fitto. Una compagnia dopo l'altra, scesero dalle alture, costringendo il nemico a girarsi prima da una parte e poi dall'altra per difendersi. Seguì un feroce combattimento corpo a corpo e la valle divenne un mattatoio. Ma il nemico ancora non si ritirava. I soldati del Nord morivano a centinaia, ma ce n'erano sempre altri in attesa d'entrare nella mischia, una massiccia forza che spingeva implacabile verso il centro della valle. Lentamente, inesorabilmente il nemico conquistava terreno. Al centro della valle le barriere tenevano lontani gli attaccanti, ma sui pendii gli Elfi agli ordini di Cormorant Etrurian a poco a poco venivano cacciati dalle posizioni difensive e costretti a ritirarsi. Un passo dopo l'altro, i soldati del Nord avanzavano e s'impadronivano delle alture, liberandosi dalla morsa in cui Jerle Shannara li aveva stretti. Al re giunse voce di quanto avveniva. Il cielo era coperto e cominciava a cadere la pioggia che rendeva il terreno scivoloso e infido. I rumori della battaglia echeggiavano contro i pendii della valle creando un vortice di confusione. L'oscurità riduceva al minimo la visibilità. Jerle Shannara impiegò solo qualche istante a prendere una decisione. Mandò subito dei portaordini a far ritirare gli uomini di Etrurian al riparo delle barriere preparate come ridotta più in alto sui pendii, in parallelo con le sue stesse linee. Lì avrebbero dovuto resistere e tenere la posizione. Altri portaordini richiamarono Arn Banda e gli arcieri. Poi radunò due compagnie agli ordini di Rustin Apt e le dispose in formazione d'attacco. Quando i soldati di Etrurian e gli arcieri si furono ritirati al sicuro, ordinò ai picchieri di avanzare diritti verso il cuore dei nemici. Impegnò i soldati del Nord proprio mentre si aprivano un varco nel fianco destro e li intrappolò contro le barriere. Fece accendere torce per segnalare la posizione del nemico agli arcieri tornati in trincea e ordinò di colpirli d'infilata dal pendio. Sotto la grandinata di frecce, i soldati del Nord si raccolsero intorno a un massiccio gruppo di Troll delle Montagne e contrattaccarono. Oltrepassate le barriere, si lanciarono contro i Cacciatori. Gigantesche sagome alate comparvero in mezzo al fumo: i Messaggeri del Teschio si alzavano in volo per fornire sostegno. La linea difensiva cominciò a cedere. Il brizzolato Rustin Apt cadde e fu portato via. Trewithen e le
Guardie Reali accorsero a rinforzare il punto debole della linea difensiva, ma i nemici erano troppo numerosi e tutto il fronte degli Elfi cominciò a cedere. Disperato, Jerle spronò il suo destriero e si lanciò nella mischia. Circondato da Guardie Reali, si aprì la strada nel fronte nemico, chiamando a sé i Cacciatori. Soldati nemici si lanciarono su di lui da tutti i lati. Cercarono di strapparlo di sella, di farlo cadere da cavallo, di rallentarlo in qualche modo. Dietro di lui, l'esercito degli Elfi, battuto e logorato, si riscosse e riprese coraggio. Grida di battaglia scaturirono dalla gola di feriti e moribondi, e gli Elfi si avventarono ancora una volta contro i nemici. Jerle combatté come se da solo potesse ricacciare il nemico nelle Terre del Nord; la sua spada rifletteva la luce delle torce e risuonava contro le armi e le corazze del nemico. Giganteschi Troll gli si pararono davanti, mostruose creature prive di volto, armate di asce da guerra. Ma il re si aprì la strada in mezzo a loro come se fossero di stracci, inarrestabile, all'apparenza invincibile. Distanziò perfino la propria guardia personale e i suoi soldati si lanciarono sui nemici nel tentativo di raggiungerlo. Un fulmine colpì un affioramento roccioso sul pendio più vicino al punto dove la battaglia infuriava: zolle infocate e schegge di roccia schizzarono in aria e si riversarono sul fondovalle. Per un istante il tempo parve fermarsi. Mentre i soldati del Nord esitavano, mutati per un attimo in statue, Jerle si rizzò sulle staffe e alzò al cielo la Spada di Shannara, in un gesto di sfida a tutto e a tutti. Grida di battaglia si levarono dai suoi uomini, che caricarono i nemici con tale ferocia da sopraffarli. I più lontani e ancora in grado di fuggire, si ritirarono dietro le barriere distrutte, nauseati dal combattimento. Per un momento mantennero la posizione nella foresta di frastagliate ossa di legno e di terra bruciata. Poi, cupi e sfiniti, ripiegarono verso il passo orientale della Valle di Rhenn. Ammassati contro le barriere, bagnati di pioggia, impolverati, sudati e insanguinati, Jerle Shannara e gli Elfi rimasero a guardare. Per quel giorno, la vittoria era loro. 31 L'alba spuntò nel cielo fosco e grigio per la forte pioggia della notte. Nella pallida luce, il fondovalle bruciato e pieno di solchi era annerito e fumante. Disposti in ordine di combattimento, armi in pugno, occhi che scrutavano con ansia nella scarsa luce, gli Elfi aspettavano l'attacco che sapevano sarebbe giunto. Ma nessun rumore proveniva dalla fitta nebbia che ammantava l'accampamento dell'esercito del Signore degli Inganni, in prossimità del passo orientale, e nulla si muoveva sul terreno bruciato e deserto davanti a loro. La luce si ravvivò col sorgere del sole, ma la nebbia non si diradò e ancora non ci fu segno d'attacco. Era impensabile che il grande esercito si fosse ritirato. Per tutta la notte si era grattato e tormentato come un animale ferito, con gemiti di dolore e d'angoscia che si levavano dalla nebbia e dalla pioggia, superando il rombo sempre più debole dei tuoni della tempesta che si allontanava. Per tutta quella notte l'esercito aveva badato a riprendersi e a riorganizzarsi. Occupava l'intero passo orientale, fondovalle e alture. Aveva portato avanti macchine d'assedio, provviste,
salmerie, sistemando il tutto nei confini dell'accampamento che occupava l'ampia imboccatura del passo. Il suo avanzare era forse lento e impacciato, ma quell'esercito era pur sempre una malefica potenza inesorabile e inarrestabile. "Sono là fuori" borbottò Arn Banda, alla sinistra di Bremen, con una smorfia di preoccupazione sul viso. Jerle Shannara annuì. "Ma cosa combinano?" Era la domanda giusta. Bremen si strinse nella veste scura per ripararsi dal freddo dell'alba. Non potevano vedere l'estremità della valle, non riuscivano a penetrare l'oscurità, eppure sentivano la presenza del nemico. La notte era stata piena di rumori e di tensione, mentre i soldati del Nord si preparavano di nuovo per la battaglia, e solo nell'ultima ora era calato un minaccioso silenzio. Il vecchio druido sospettava che quel giorno l'attacco avrebbe avuto una forma nuova. Il giorno precedente il Signore degli Inganni era stato respinto con gravi perdite e non avrebbe ripetuto l'esperienza. Perfino il suo potere aveva dei limiti e presto o tardi, se non ci fossero stati successi, la sua presa su coloro che combattevano per lui si sarebbe indebolita. Occorreva respingere gli Elfi, o sconfiggerli presto, altrimenti gli uomini del Nord avrebbero cominciato a mettere in dubbio l'invincibilità del loro Signore. Se quel castello di carte avesse cominciato a vacillare, non ci sarebbe stato modo d'impedirne il crollo. Bremen si accorse di un movimento furtivo alla sua destra. Si trattava di Allanon. L'osservò di nascosto. Il fanciullo fissava davanti a sé, teso, lo sguardo perso nel vuoto. Però scorgeva qualcosa... questo almeno era chiaro, a giudicare dalla sua espressione. Guardava, attraverso la nebbia e l'oscurità, qualcosa di più lontano: i suoi occhi inquietanti scorgevano ciò che a loro restava nascosto. Il vecchio druido seguì la direzione del suo sguardo. La nebbia turbinava, un mutevole manto steso su tutta l'estremità orientale della valle. "Cosa vedi?" domandò sottovoce. Ma il fanciullo si limitò a scuotere la testa. percepìva qualcosa, ma non riusciva ancora a identificarlo. Continuò a fissare la foschia, concentrato al massimo. Era bravo a concentrarsi, aveva scoperto Bremen. A dire il vero, più che bravo. La sua intensità faceva paura. Non era una capacità appresa crescendo, né sviluppata come conseguenza del trauma subito durante la distruzione di Varfleet. Era un dono innato... come gli occhi inquietanti e la mente acuta. Il fanciullo era duro e determinato come roccia, e possedeva un'intelligenza e una sete di sapere illimitate. Solo una settimana prima, dopo l'incursione notturna nell'accampamento nemico, si era presentato a Bremen e gli aveva chiesto d'insegnargli la magia dei Druidi. Così, con grande semplicità. Insegnami come usarla, aveva detto... come se chiunque potesse apprenderla, come se si potesse insegnare facilmente. "Occorrono anni per conoscere a fondo anche la minima parte" aveva replicato Bremen, troppo stupito per respingere subito la richiesta. "Lasciami tentare" aveva insistito il fanciullo. "Come mai t'è venuta questa voglia?" Il druido era genuinamente perplesso. "Cerchi vendetta? Pensi che la magia te la farebbe ottenere? Perché non impieghi il tempo imparando a usare le armi convenzionali? O imparando a cavalcare? O studiando l'arte della guerra?" "No" aveva replicato subito Allanon, rapido e deciso. "Non voglio niente di tutto questo. La vendetta non m'interessa. Voglio essere come te." Eccola lì, la ragione, esposta in una sola breve frase. Voleva diventare un druido.
Era attirato da Bremen, e Bremen era attirato da lui, perché erano più affini di quanto il vecchio avesse sospettato. La quarta visione di Galaphile era un'altra breve occhiata sul futuro, un ammonimento sui legami che univano il fanciullo al druido, la promessa di un destino comune. Ora Bremen lo sapeva. Allanon gli era stato mandato da un destino che ancora non capiva. Lì, forse, c'era il successore che per tanto tempo aveva cercato. Era strano che l'avesse trovato in quel modo, ma non del tutto inatteso. Non c'erano leggi per la scelta dei Druidi, e Bremen aveva tanto buon senso da non cominciare a farne adesso. Così aveva insegnato ad Allanon alcuni piccoli trucchi, cosucce che richiedevano soprattutto concentrazione e allenamento. Aveva pensato di tenerlo occupato più o meno per una settimana. Ma ad Allanon era bastato un solo giorno, poi era venuto a chiedere dell'altro. E così ogni giorno Bremen gli aveva dato alcune nuove briciole della dottrina druidica con cui lavorare, lasciandogli decidere da solo il modo di apprenderle, l'uso da farne. Impegnato nei preparativi per contrastare l'attacco degli uomini del Nord, non aveva avuto il tempo di chiedersi cosa il fanciullo era riuscito a fare. Tuttavia, guardandolo ora, esaminandolo alla debole luce dell'alba mentre scrutava l'estremità della valle, fu colpito ancora una volta dalla sua determinazione, chiaramente profonda e immutabile. "Eccoli!" gridò Allanon all'improvviso, spalancando gli occhi per la sorpresa. "Sono sopra di noi!" Bremen ne fu così scosso che per un momento rimase senza parole. Alcune teste si alzarono in risposta al grido del fanciullo, ma nessuno si mosse. Allora Bremen con un ampio gesto spazzò il cielo e inondò di luce magica le tenebre, creando un ampio arcobaleno e rivelando le sagome scure che roteavano in alto. Messaggeri del Teschio si ritrassero di scatto, allargando le ali mentre sparivano di nuovo nella foschia. In un istante Jerle fu vicino al druido. "Cosa stanno facendo?" domandò. Bremen rimase a fissare il cielo vuoto e la luce magica che si affievoliva. Tornò l'oscurità, compatta e dilagante. A un tratto il druido capì che qualcosa, nella luce, non andava: aveva un aspetto del tutto sbagliato. "Fanno un sopralluogo" mormorò. Poi si rivolse rapido ad Allanon e disse: "Guarda di nuovo in fondo alla valle. Con prudenza, stavolta. Non cercare qualcosa in particolare. Guarda nella foschia e nel buio. Osserva gli spostamenti della nebbia". Il fanciullo ubbidì, con una smorfia per lo sforzo. Fissò il vuoto con sguardo duro e intenso. Smise di respirare e rimase immobile. Poi spalancò la bocca e ansimò per la sorpresa. "Bravo, bravo" disse Bremen mettendogli un braccio sulle spalle. "Ora li vedo anch'io. Ma i tuoi occhi sono più acuti dei miei." Si girò verso il re. "Siamo assaliti dalle creature tenebrose al servizio del Signore degli Inganni, quelle che lui ha evocato dal mondo degli inferi. Oggi ha deciso di servirsi di loro, anziché dei soldati. Vengono verso di noi dalla parte opposta della valle. I Messaggeri del Teschio esplorano la via per loro. Il Signore degli Inganni usa la magia per nascondere la loro avanzata, cambia la luce e infittisce la nebbia. Non abbiamo molto tempo. Schiera i tuoi comandanti e ordina a tutti i soldati di essere saldi. Farò del mio meglio per controbattere questa magia." Jerle Shannara diede l'ordine e i comandanti raggiunsero i loro reparti, Cormorant Etrurian sul fianco sinistro e Rustin Apt, ferito ma in grado di muoversi, sul destro; la cavalleria di Kier Joplin era già in posizione, schierata
dietro i fanti, pronta ad accorrere. Arn Banda risalì di corsa il pendio meridionale per dare l'allarme agli arcieri lì appostati. Prekkian e la Guardia Nera e Trewithen e la maggior parte della Guardia Reale rimasero di riserva. "Vieni con me" disse Bremen al re. Si diressero all'estrema destra della prima linea, il re e il druido, Allanon e Preia Starle. Passarono rapidi fra gli stupiti Cacciatori fino alla prima linea. "Ordina ai più vicini di alzare le armi e di tenerle ferme" disse il druido. "Non devono avere paura." Il re diede l'ordine senza domandare spiegazioni, fidandosi del druido. Lance, spade e picche si alzarono in risposta. Bremen socchiuse gli occhi, unì davanti a sé le mani ed evocò il Fuoco Magico. Quando questo si fu trasformato in una vivida palla azzurrina nelle mani a coppa, Bremen lanciò frammenti infocati che rimbalzarono da punta di ferro a punta di ferro, finché tutte le armi non furono toccate. Gli attoniti soldati trasalirono all'arrivo del fuoco, ma il re ordinò di stare immobili e ubbidirono. Quando tutte le armi di un reparto furono trattate a quel modo, Bremen e gli altri passarono al reparto seguente e il druido ripeté il procedimento, camminando tra le file di soldati innervositi per impregnare della sua magia le armi, mentre il re rassicurava i suoi Elfi e intanto li ammoniva a tenersi pronti, perché l'attacco sarebbe giunto presto. Quando giunse, la magia druidica era a posto e il nucleo dell'esercito elfo protetto. Sagome scure saettarono dal buio, si lanciarono contro le file di Elfi ululando e stridendo come belve impazzite: esseri muniti di zanne e artigli affilati, irti di setole scure e di ruvide scaglie. Erano creature di altri mondi, di tenebra e di follia, la cui unica legge era quella della sopravvivenza. Combatterono con ferocia e con vigorosa energia. Alcune avanzavano su due gambe, altre su quattro zampe, tutte parevano generate da incubi immondi e fantasie contorte. Gli Elfi furono respinti, cedettero terreno soprattutto per il terrore di quelle belve che cercavano di dilaniarli. Alcuni morirono al primo impatto, perché l'orrore li raggelò al punto da paralizzarli e impedì loro di difendersi. Altri morirono combattendo, abbattuti prima di poter vibrare un colpo efficace. Ma altri ancora si fecero coraggio e scoprirono con stupore che le loro armi impregnate di magia potevano trapassare il corpo e gli arti di quei mostruosi assalitori, far sgorgare sangue e provocare urla di dolore. L'esercito vacillò, scosso dall'attacco iniziale, poi si riprese e oppose resistenza. Ma i mostri penetrarono nel fianco destro, nella scia di una creatura così enorme da torreggiare perfino sui propri compagni più alti. Era corazzata di pelle coriacea e di piastre metalliche applicate sulle parti vitali, e i suoi massicci artigli smembravano chi si trovava sul suo cammino. Rustin Apt guidò il contrattacco, ma fu spazzato via. Accortosi del pericolo, Bremen si precipitò a intercettare la mostruosa creatura. In assenza del druido, Jerle Shannara resse il centro e l'urto della folla di mostri. Gridando incoraggiamenti ai suoi uomini e lasciando perdere la promessa di riguardarsi sguainò la spada e si gettò nella mischia, con Preia al fianco, mentre la sua guardia personale cercava di proteggerli entrambi. Davanti alla prima linea erano acquattati enormi lupi che facevano finte e si ritiravano in attesa di un varco fra le picche e le spade che li tenevano a bada. Mentre Jerle Shannara arrivava, un'ombra scura calò dalla nebbia e frantumò la prima fila di Cacciatori. Un Messaggero del
Teschio si rialzò in volo, gli artigli rossi di sangue. Subito i lupi si lanciarono contro i resti della prima fila, azzannando e sbranando. Ma i difensori colpirono con foga e la magia dei Druidi penetrò nella pelle coriacea degli attaccanti. I più avanzati morirono sotto una grandine di colpi, gli altri si ritirarono ringhiando e mostrando le zanne in segno di sfida. Sul fianco destro Bremen raggiunse la folla di mostri che si era aperta un varco. Vedendolo, si lanciarono tutti insieme su di lui. Erano esseri a due gambe, col petto massiccio e con arti muscolosi in grado di fare a pezzi un uomo, con la testa incassata fra ampie spalle coperte da pieghe di pelle così fitte che solo gli occhi ferini erano visibili. Si precipitarono contro il vecchio, con ululati di gioia, ma Bremen lanciò il Fuoco Magico respingendoli. Tutt'intorno i Cacciatori si raccolsero per difendere il druido, avventandosi sui fianchi degli assalitori. I mostri si girarono e risposero ai colpi, ma le lame dei Cacciatori e il Fuoco Magico mieterono molte vittime. Allora la gigantesca creatura che per prima aveva spezzato la fila di Elfi si erse con aria di sfida davanti a Bremen, occhi ardenti, corpo luccicante di sangue. "Vecchio!" sibilò. E si lanciò su di lui. Dalle mani di Bremen esplose il Fuoco Magico, ma la creatura era tanto vicina che passò in mezzo alla micidiale fiamma e afferrò i polsi del vecchio. Bremen si coprì le braccia di un velo di Fuoco Magico, nel tentativo di liberarsi, perché la sua forza non era al livello di quella dell'avversario, ma quello rimase tenacemente avvinghiato a lui. Le mani munite di artigli si serrarono e le robuste braccia spinsero indietro il druido. A poco a poco Bremen perse terreno. Intorno a lui, i mostri si lanciarono all'attacco con fiducia rinnovata. Le fine era vicina. Ed ecco dal buio comparire Allanon, saltare sulla schiena indifesa della mostruosa creatura e afferrargli con le mani gli occhi giallastri. Ululando di rabbia, il fanciullo trovò in sé una riserva d'energia e la unì a quella piccola parte di magia che sapeva padroneggiare. Incontrollato, ingovernabile, sfrenato come vento di tempesta, dalle mani di Allanon il fuoco esplose in ogni direzione. Eruppe con tale forza da scaraventare a terra il fanciullo stesso, che giacque intontito. Ma esplose sul muso della mostruosa creatura, che subito lasciò andare Bremen, alzò le braccia in un impeto di rabbia e di dolore e arretrò barcollando. Bremen si rimise in piedi, senza badare alla debolezza che lo invadeva e alle ferite, e scagliò di nuovo il Fuoco Magico, che questa volta penetrò nella gola del mostro e gli scese fino al cuore, incenerendolo. Nel frattempo Jerle Shannara si era spostato sul fianco sinistro dell'esercito. Cormorant Etrurian giaceva scomposto sul terreno, circondato dai suoi uomini che lottavano per proteggerlo. Il re si lanciò nella mischia e guidò un rapido, decisivo contrattacco contro le ingobbite creature che saltavano lungo il fronte degli Elfi vibrando pesanti bipenni e micidiali coltellacci seghettati. Banda aveva dirottato lungo il pendio il tiro dei suoi arcieri e i lunghi archi colpivano d'infilata la nebbia e le creature in essa nascoste. Gli Elfi recuperarono Etrurian e lo portarono via; Kier Joplin lanciò avanti i cavalieri per chiudere il varco. Il re lasciò il comando a Joplin e tornò di corsa al centro dello schieramento, dove lo scontro era di nuovo violentissimo. Due volte ricevette un colpo che lo fece vacillare, ma si scrollò, sprezzante del dolore, e continuò a combattere. Accanto a
lui Preia, rapida e agile, vibrava colpi e parava fendenti con la corta spada, proteggendo il fianco sinistro del re. Le Guardie Reali combattevano attorno a loro e alcune morirono per difenderli. I mostri avevano infranto le linee in molti punti e gli Elfi subivano attacchi che parevano provenire da tutte le direzioni. Finalmente Bremen ricompattò il fianco sinistro quanto bastava a respingere gli attaccanti che vi erano penetrati. Duramente colpiti, i superstiti si diedero alla fuga e le loro sagome deformi svanirono nella nebbia, come se non fossero mai esistite. L'esercito si lanciò allora contro quelli che ancora combattevano al centro e anch'essi cedettero. A poco a poco, con tenacia, gli Elfi ripresero l'offensiva, avanzarono, e le creature del mondo degli inferi si ritirarono e scomparvero. Sul campo di battaglia grigio e brumoso l'esercito dell'Ovest, silenzioso per lo sfinimento, rimase a fissare il vuoto lasciato dai nemici in fuga. Gli uomini del Nord attaccarono di nuovo nel tardo pomeriggio con l'esercito regolare. La nebbia si era dissipata, il cielo si era schiarito e la luce era vivida e pura. La nuova posizione difensiva degli Elfi era più all'interno, nella valle, vicino al passo occidentale, protetta sia dal terreno più elevato sia da mura di pietra costruite da poco e irte di punte acuminate. Da lì osservarono il nemico percorrere la Valle di Rhenn semidistrutta. Erano pochi, laceri e insanguinati, prossimi allo sfinimento, ma non atterriti. Erano sopravvissuti a troppe disavventure per avere ancora paura. Mantennero con calma la posizione, in ranghi compatti, perché la valle si restringeva bruscamente nel punto dove aspettavano. Lì i pendii erano tanto erti che bastava un piccolo contingente di arcieri e di Cacciatori per difendere le alture. Il grosso dell'esercito era schierato sul fondovalle, da un pendio all'altro. Cormorant Etrurian, spalla e testa fasciate, una smorfia sinistra sul viso smagrito, era di nuovo in piedi. Con un ancora più debilitato Rustin Apt, comandava i reparti che avrebbero affrontato il nucleo centrale dei nemici. Banda era sul pendio settentrionale, con il grosso degli arcieri. Kier Joplin e la cavalleria si erano ritirati all'imboccatura del passo, perché non avevano spazio per manovrare. La Guardia Reale e la Guardia Nera erano ancora di riserva. Appena dietro le linee degli Elfi, in cima a un'altura da cui si dominava la battaglia, c'erano Bremen e Allanon. Il re e Preia Starle, in sella a Risk e ad Ashes, erano al centro della linea difensiva degli Elfi, circondati da Guardie Reali. Per tutta la larghezza delle pianure e lungo il corridoio della valle si udivano rimbombare tamburi, zoccoli, stivali. All'attacco avanzavano i fanti, tanto numerosi da coprire l'intero fondovalle. Dietro di loro venivano le macchine da guerra: torri d'assedio e catapulte, trainate da cavalli e squadre di uomini sudati. La cavalleria formava la retroguardia: file di uomini a cavallo, armati di lance e picche, con pennoni che garrivano al vento. Robusti Troll delle Montagne portavano il Signore degli Inganni e i suoi accoliti in portantine velate di seta nera e decorate con ossa sbiancate. E' la fine, si rese conto all'improvviso Bremen: il pensiero gli venne spontaneo, mentre guardava il nemico avanzare. Quel pensiero lo schiacciava, come una certezza inesorabile, una terrificante verità. Guardò i soldati riempire l'annerita conca di Rhenn, e nella sua mente divennero un'onda di marea che avrebbe sommerso e annegato gli Elfi.
Dopo due soli giorni di battaglia, il risultato era inevitabile. Se i Nani si fossero uniti agli Elfi, o se qualche città delle Terre del Sud avesse approntato un esercito, forse sarebbe stato diverso. Ma gli Elfi erano soli, senza nessuno che li aiutasse. Si erano già ridotti di un terzo e non importava che avessero inflitto al nemico perdite dieci volte superiori. Il nemico aveva molte vite da sacrificare, e avrebbe vinto grazie alla pura e semplice forza del numero. Bremen batté le palpebre, stanco, e si sfregò il mento. Non riusciva a sopportare il pensiero che tutto finisse così. Jerle Shannara non avrebbe avuto l'opportunità di mettere alla prova la sua spada contro il Signore degli Inganni. Non avrebbe avuto neppure l'occasione di affrontarlo. Sarebbe morto lì, in quella valle, con tutti i suoi uomini. Bremen conosceva bene il re, sapeva che avrebbe sacrificato la vita, anziché salvarsi. E se Jerle fosse morto, non ci sarebbe stata speranza per nessuno di loro. Allanon cambiò posizione, a disagio. Anche lui pensò Bremen, intuisce che il disastro è imminente. Allanon era coraggioso, l'aveva dimostrato proprio quel mattino salvandogli la vita. Aveva usato la magia senza preoccuparsi della propria incolumità, con un solo pensiero: salvargli la vita. Bremen scosse la testa. Il fanciullo era rimasto stordito e sconvolto, ma non era meno deciso prima. Avrebbe dato tutto se stesso, proprio come il re. Bremen lo capiva: il fanciullo già sceglieva il posto dove tentare l'ultima resistenza. Giunto a duecento passi, l'esercito del Nord si fermò con gran fragore. Le squadre addette al trasporto delle macchine belliche s'impegnarono con frenetica attività a mettere in posizione le catapulte e le torri. Bremen si sentì serrare la gola il Signore degli Inganni non avrebbe lanciato un attacco diretto Perché sprecare vite umane, se non era necessario? Avrebbe invece usato le catapulte e gli arcieri nascosti dentro le torri per colpire d'infilata le difese dei nemici, per assottigliare il loro numero, per logorarli finché non sarebbero stati troppo pochi per opporre anche solo una minima resistenza. Le macchine da guerra si allargarono per tutta l'ampiezza del fondovalle, fianco a fianco; i cucchiai delle catapulte erano già carichi di pietre e pezzi di ferro, le campate delle torri d'assedio mostravano arcieri a ogni feritoia. Tra le fila degli Elfi nessuno si mosse. Non c'era dove andare, dove nascondersi, non esisteva una migliore posizione difensiva dove ritirarsi. Perduta la valle, anche le Terre dell'Ovest sarebbero state perdute. I tamburi continuavano a rullare, e la loro costante cadenza accompagnava il rombo delle ruote delle macchine belliche e si riverberava nel petto di Bremen. Il vecchio druido guardò il cielo che si scuriva, ma calcolò che mancasse un'ora buona al tramonto: il buio sarebbe sceso troppo tardi per essere d'aiuto. "Dobbiamo fermare quelle macchine" mormorò, convinto di parlare tra sé. Allanon lo guardò in silenzio e attese. Non distolse mai lo sguardo. Bremen lo fissò negli occhi. "Come?" domandò piano il fanciullo. E all'improvviso Bremen seppe qual era la soluzione. La lesse negli occhi del fanciullo, nelle sue parole, nell'ispirazione che si fece strada in lui stesso. Gli giunse in un momento di terrificante lucidità, nato dalla sua stessa disperazione e dallo svanire della speranza. "C'è un modo" disse in fretta, con ansia. Nel suo viso le rughe divennero più marcate. "Ma mi occorre il tuo aiuto. Da solo non ho la forza necessaria." Esitò. "Sarà pericoloso, per te." Allanon annuì.
"Non ho paura." "Rischi di morire. Forse moriremo tutt'e due." "Dimmi cosa bisogna fare." Bremen si girò verso le macchine da guerra schierate e spostò davanti a sé il fanciullo. "Allora ascoltami attentamente. Devi darti tutto a me, Allanon. Non ribellarti a ciò che sentirai. Diventerai un tramite per me, per la mia magia, la magia che possiedo ma che non ho la forza di usare. La userò attraverso te. Prenderò da te la forza." Il fanciullo non lo guardò. "Lascerai che la tua magia si alimenti di me?" domandò sottovoce, quasi con reverenza. "Sì" rispose Bremen. Si chinò su di lui. "Ti difenderò con tutte le protezioni di cui dispongo. Se morirai, morirò con te. E' tutto ciò che posso offrirti." "Mi basta" replicò il fanciullo, distogliendo lo sguardo. "Fa' ciò che va fatto, Bremen. Ma subito, finché c'è ancora tempo." L'esercito del Nord era ammassato davanti a loro, preceduto dalle enormi macchine belliche, irto di armi. La polvere si alzava dal terreno bruciato della valle e riempiva l'aria di una nebbiolina granulosa che pareva nascondere completamente il resto del mondo, come se avesse smesso d'esistere. La luce si rifletteva su lame e punte metalliche, gli stendardi garrivano in un tripudio di colori, le grida degli assalitori esprimevano l'aspettativa della vittoria. Insieme, immobili sull'altura, il druido e il fanciullo guardavano la scena. Nessuno li vide, o, se li vide, non vi badò. Nemmeno gli Elfi li notarono, occupati a osservare l'esercito schierato davanti a loro. Bremen trasse un profondo respiro e pose le mani sulle esili spalle di Allanon. "Intreccia le dita e puntale contro le torri e le catapulte" disse. Si sentì stringere la gola. "Sii forte, Allanon." Il fanciullo congiunse le mani e intrecciò le dita, sollevò le braccia e le puntò verso l'esercito nemico. Bremen era dietro di lui, immobile, gli occhi chiusi. Dentro di sé evocò il Fuoco Magico, che scintillò e avvampò. Doveva fare attenzione nell'usarlo, rammentò a se stesso. L'equilibrio fra ciò che occorreva e ciò che poteva permettersi era delicato: doveva stare attento a non comprometterlo. Un errore, in un senso o nell'altro, avrebbe significato la fine per lui e per il bambino. Sul campo di battaglia si provvedeva a tirare indietro il braccio delle catapulte e gli arcieri nelle torri preparavano gli archi. Bremen riaprì gli occhi, ora bianchi come neve. Più in basso, quasi colpito da una premonizione, Jerle Shannara si girò di colpo e lo vide. Il Fuoco Magico si riversò lungo le braccia di Bremen e nel corpo di Allanon, saettò dalle mani del fanciullo chiuse a pugno, passando sulla testa degli Elfi in attesa, sulla prateria piena di solchi e di chiazze bruciate, fin nel mezzo delle macchine belliche nemiche, duecento passi più lontano. Colpì prima le torri, avviluppandole da cima a fondo e mutandole all'istante in torce. Da lì saettò sulle catapulte, riducendo in cenere gli addetti, spezzando le funi, rovinando le parti metalliche. Si mosse come una creatura vivente, scegliendo prima un bersaglio poi un altro, azzurro e così sfolgorante che i soldati di entrambi gli eserciti furono costretti a schermarsi gli occhi per proteggerli. Corse su e giù per la prima linea dell'esercito nemico inghiottendo tutto e tutti. Nel giro di qualche istante, le fiamme si levarono nell'aria per centinaia di braccia e balzarono verso il cielo in lingue mostruose, mentre nubi di fumo andavano gonfiandosi. Dal malefico esercito del Nord si levarono grida e urla di terrore, mentre il fuoco straziava i soldati. Tra i ranghi degli Elfi ci fu solo attonito silenzio. Bremen sentì la magia
affievolirsi, il Fuoco Magico estinguersi, ma nel giovane Allanon c'era ancora energia. Pareva anzi che Allanon, le esili braccia protese, le mani levate, s'irrobustisse. Bremen sentiva il suo corpo snello vibrare per la forza della determinazione. Il fuoco scaturiva ancora dalle sue mani, saettava oltre le macchine da guerra e colpiva l'attonito esercito nemico aprendovi un micidiale sentiero di fuoco. Basta così, pensò Bremen, intuendo un pericoloso spostamento nell'equilibrio delle cose. Ma non poteva spezzare il legame fra loro due, non poteva rallentare il torrente della magia de} fanciullo. Adesso era più forte di lui e lo prosciugava. I soldati del Nord indietreggiarono, non per ritirarsi semplicemente, ma per darsi alla fuga, del tutto demoralizzati. Perfino i Troll delle Montagne arretrarono, sottraendosi rapidi alla conflagrazione che consumava i loro commilitoni per cercare rifugio sui pendii della valle e più in là, nel passo di ponente. Perfino per loro, la battaglia quel giorno era terminata. Alla fine le forze vennero meno ad Allanon e il Fuoco Magico che gli saettava dalle mani si smorzò. Il fanciullo si accasciò ansimando contro Bremen, che a stento si reggeva in piedi. Il druido lo afferrò e lo tenne stretto, aspettando che il polso di entrambi tornasse regolare e il battito del cuore rallentasse. Simili a due spaventapasseri, rimasero aggrappati l'uno all'altro, mormorandosi parole di conforto, guardando le furiose fiamme che consumavano le macchine da guerra e illuminavano di riflessi color sangue le schiene dei soldati in rotta. Il sole calò sotto l'orizzonte e la notte scivolò cauta fuori del proprio nascondiglio per ammantare i caduti. Mentre l'oscurità si diffondeva su tutte le Quattro Terre e l'incendio nella Valle di Rhenn cominciava a estinguersi, Jerle Shannara si avvicinò a Bremen. Il vecchio cenava in compagnia di Allanon. Adesso c'era silenzio: l'esercito del Nord si era ritirato nel passo dell'altopiano orientale e gli Elfi, dalla parte opposta, tenevano la posizione sbarrando la strettoia occidentale. Tutti stavano cenando e i Cacciatori montavano a turno la guardia contro eventuali attacchi di sorpresa. In fondo all'accampamento ardevano fuochi e il profumo del cibo aleggiava nell'aria della sera. Mentre il re si avvicinava Bremen si alzò, vedendo nei suoi occhi una luce che non riconobbe. Il re salutò il druido e il fanciullo, poi chiese al primo di fare due passi con lui. Allanon riprese a mangiare e il re e il druido si allontanarono nel buio. Quando si furono allontanati quanto bastava perché nessuno udisse, il re si rivolse al vecchio druido. "Mi serve il tuo aiuto" cominciò a bassa voce. "Con le tue arti magiche devi marcare gli Elfi in un modo che consenta loro di riconoscersi in uno scontro nel buio, di non colpire per errore i compagni. Puoi fare una cosa del genere?" Bremen rifletté qualche istante, poi annuì. "Cosa intendi fare?" Il re era esausto, ma aveva negli occhi una gelida determinazione e sul viso una smorfia dura. "Voglio attaccare... adesso, stanotte, prima che si riorganizzino." Il vecchio druido lo fissò ammutolito. Il re serrò le labbra. "Stamattina i miei Esploratori mi hanno informato di una manovra d'aggiramento. Il nemico ha mandato due eserciti, meno numerosi di quello che abbiamo di fronte ma comunque consistenti, a nord e a sud del Rhenn per prenderei alle spalle. Considerata la loro attuale posizione, si sono messi in movimento almeno una settimana fa. Procedono con lentezza, ma si fanno sempre più vicini. Ancora qualche giorno e ci
taglieranno fuori da Arborlon. Se questo accadrà, saremo finiti." Lasciò vagare lo sguardo nel buio, come per cercare le parole. "Sono troppo numerosi, Bremen. Lo sapevamo dal principio. Il nostro unico vantaggio è la posizione. Se ce lo tolgono, non ci resta nulla." Tornò a guardare il vecchio. "Ho mandato Prekkian e la Guardia Nera ad avvertire Vree Erreden e il Consiglio di prepararsi a difendere la città. Ma la nostra sola speranza è che io faccia ciò che mi hai detto tu, che affronti il Signore degli Inganni e lo distrugga. Per riuscirci, devo prima disperdere l'esercito del Nord. Non avrò mai occasione migliore di questa. I nemici sono disorganizzati e stanchi, demoralizzati per la distruzione delle macchine da guerra, spaventati dalla magia dei Druidi. E' il momento di colpirli." Prima di rispondere, Bremen rifletté a lungo. Alla fine annuì lentamente. "Forse hai ragione." "Se attacchiamo adesso, li troviamo impreparati. Se colpiamo con forza, forse riusciamo ad aprirci un varco fino al nascondiglio del Signore degli Inganni. La confusione di un attacco notturno ci aiuterà, ma solo se saremo in grado di distinguere gli amici dai nemici." Il druido sospirò. "Se segno gli Elfi, anche i nemici li riconosceranno." "A questo non possiamo ovviare" ammise il re, con voce ferma. "Ma passerà un certo tempo prima che quelli capiscano il significato dei contrassegni. A quel punto, avremo già vinto o perso la battaglia." Bremen annuì in silenzio. Era un piano ardito, che avrebbe potuto condannare gli Elfi e risolversi nella loro completa distruzione. Ma la necessità di una simile tattica era evidente e il druido vedeva in quel re l'unico in grado d'impiegarla con successo. Infatti gli Elfi avrebbero seguito Jerle Shannara dovunque e la fiducia in lui li avrebbe sostenuti. "Però ho paura" mormorò a un tratto il re, avvicinandosi al druido "di non riuscire a evocare il potere della Spada, quando sarà necessario." Esitò, con lo sguardo fisso. "Se la Spada non mi risponderà, cosa farò?" Il druido prese fra le sue le mani del re e le strinse forte. "La magia non ti verrà meno, Jerle Shannara" replicò piano. "Hai un cuore troppo forte, troppo determinato, sei proprio il re di cui il tuo popolo ha bisogno. La magia comparirà quando la evocherai, perché questo è il tuo destino." Sorrise debolmente. "Devi crederci." Il re sospirò. "verrài con me?" domandò. "Certo" annuì il vecchio. A nord del Rhenn, dove le nuvole coprivano di ombre le praterie aperte e le pianure si estendevano all'orizzonte, deserte e silenziose, Kinson Ravenlock si allontanò senza far rumore dal vocio e dalla confusione dell'accampamento nemico e percorse a ritroso la via per la quale era giunto. Impiegò quasi un'ora, tenendosi al riparo in burroni e in letti asciutti di torrenti, evitando gli spazi aperti delle terre basse. Procedeva rapido, ansioso di raggiungere quelli in attesa, pensando che forse non erano giunti troppo tardi, dopo tutto. Più di dieci giorni erano trascorsi da quando lui e Mareth erano partiti dalle Terre dell'Est con i resti dell'esercito dei Nani. I Nani, che ammontavano ancora a circa quattromila, avevano tenuto una buona andatura. Tuttavia avevano scelto un percorso insolito. Avevano puntato a settentrione, alle Pianure di Raab, e da lì al Passo di Jannisson per entrare nelle Streleheim, dove avevano deviato, tenendosi nascosti nell'antica foresta che custodiva le rovine di Paranor. La decisione di seguire quel percorso era stata dibattuta a lungo e con forza da Raybur e dagli Anziani, non meno della decisione precedente, quella per
stabilire se i Nani dovessero o meno intervenire. Kinson era stato convincente nel presentare le argomentazioni di Bremen e Risca si era schierato con decisione al suo fianco. Una volta convinto Raybur, la faccenda si era risolta. Il dibattito per scegliere quel percorso era stato meno acceso, ma altrettanto agitato. Risca era convinto che avrebbero avuto una migliore opportunità di avvicinarsi non visti se fossero scesi da settentrione attraverso il territorio nemico, perché ormai l'armata del Nord si era spostata all'Ovest per assediare gli Elfi nella Valle di Rhenn, quindi i loro esploratori avrebbero tenuto d'occhio l'eventuale arrivo di aiuti dall'Est o dal Sud. Alla fine le sue argomentazioni avevano avuto il sopravvento. Il grosso dell'esercito dei Nani Si era attestato a nord, a mezza giornata dalle propaggini dei Denti del Drago. Risca, Kinson, Mareth e duecento altri erano andati avanti per valutare la situazione. Al tramonto, Kinson era partito da solo per dare un'occhiata da vicino. Adesso, appena tre ore dopo la partenza, l'uomo della Frontiera emerse dalle ombre della notte e si riunì ai compagni. "C'è stato un attacco nelle prime ore del giorno" comunicò senza fiato. Aveva fatto di corsa la maggior parte della strada, ansioso di comunicare le notizie. "L'attacco è fallito. I resti bruciati delle macchine da guerra del nemico sono disseminati nella Valle di Rhenn. Ma altre vengono costruite. Il nemico è accampato all'imboccatura orientale della valle. Si tratta di un grosso esercito, ma pare disorganizzato. Tutti vagano qua e là e non c'è segno delle creature tenebrose. Nemmeno i Messaggeri del Teschio stanotte sono in volo." "Sei arrivato fino agli Elfi?" domandò subito Risca. "Hai visto Bremen o Tay?" L'uomo della Frontiera bevve una lunga sorsata dall'otre di birra che Mareth gli porgeva e si pulì le labbra. "No. La valle è bloccata. Avrei potuto attraversarla, ma ho deciso di non correre il rischio. Ho preferito tornare subito qui." Lui e Risca si guardarono, poi guardarono le pianure. "Laggiù c'è un mucchio di morti" disse piano l'uomo della Frontiera. "Troppi, anche se solo un decimo di essi fossero Elfi." Risca annuì. "Avviserò Raybur di far avanzare l'esercito alle prime luci. Sceglierà lui da quale parte attaccare." Il suo viso schietto era teso, e aveva uno scintmio negli occhi. "Nel frattempo dovremo aspettare qui il suo arrivo." L'uomo della Frontiera e la giovane donna si scambiarono un'occhiata e scossero la testa. "Io non aspetto" dichiarò Kinson Ravenlock. "E io neppure" disse Mareth. Il nano soppesò l'ascia da guerra. "Ne ero sicuro. A quanto pare Raybur dovrà raggiungerci, eh? Andiamo." 32 Tre ore dopo il tramonto, all'appressarsi della mezzanotte, Jerle Shannara guidò gli Elfi alla battaglia conclusiva. Lasciò indietro i malati, i feriti e un piccolo contingente per difenderli e fare da retroguardia; prese con sé solo chi era in buone condizioni. Cacciatori, Guardie Reali, arcieri e altri fanti superavano di poco le duemila unità. I cavalleggeri erano circa quattrocento. Li radunò nella pianura all'imboccatura della valle, nei pressi del punto dove ancora fumavano i rottami delle macchine da guerra, e spiegò il suo piano. Mentre lui parlava, Bremen passava fra i ranghi di Elfi reggendo un vasetto
luminescente. Era una luminosità bluastra, fosforescente, che risaltava soprattutto nel buio, e non pareva né una crema né un liquido, ma semplice aria luminosa. Consisteva in gran parte di magia druidica, ma anche di altre sostanze, che nessuno però avrebbe saputo identificare. Mentre si accostava a ogni soldato, Bremen parlava con voce bassa e rassicurante; intingeva nella sostanza luminosa un logoro stecco e a ognuno tracciava un segno sulle spalle, quanto bastava a lasciare sulla veste una traccia della misteriosa sostanza. Quando si avviarono nel buio, diretti al cuore del Rhenn, ognuno aveva coperto con un pezzo di stoffa il segno luminoso per non rivelare al nemico la propria presenza. Scelti membri delle Guardie Reali precedettero il grosso dell'esercito, disposti a ventaglio; alcuni s'inerpicarono sulle pendici e da lì avanzarono per occupare le alture che guardavano il passo orientale. Lasciato alle Guardie il tempo necessario, Jerle Shannara guidò l'avanzata del grosso dell'esercito. Prese il comando del centro assieme a Preia Starle e Bremen, mise sul fianco sinistro Cormorant Etrurian e sul destro Rustin Apt. Schierati lungo tutto il fronte, proprio dietro la prima fila di Cacciatori, c'erano gli arcieri di Arn Banda. Dietro di loro, altri Cacciatori e molto più indietro, tenuta di riserva per quando i fanti sarebbero stati tutti impegnati, la cavalleria agli ordini di Kier Joplin. La strategia del re era semplice. Gli Elfi dovevano avanzare il più possibile, senza farsi scorgere, e poi colpire sbucando dal buio, sfruttando la sorpresa e la confusione per sopraffare il perimetro, con l'augurio che lo slancio li portasse nel cuore dell'accampamento nemico, rifugio del Signore degli Inganni. Allora Jerle Shannara avrebbe messo con le spalle al muro il druido ribelle e l'avrebbe ucciso. Tutto qui. In quel piano le cose che potevano andare storte erano davvero tante e non valeva la pena d'esaminarle tutte. L'intera strategia era basata sulla tempestività e sulla sorpresa. Decisione e coraggio avrebbero determinato il risultato. Quella notte, protetti dalla magia druidica e corazzati da una fede incrollabile, gli Elfi si diedero anima e corpo al loro re e al destino. Dubbi e paure svanirono con il primo passo, con la constatazione che l'attacco era in atto e non c'era possibilità di tornare indietro, con un travolgente impeto d'aspettativa che soppiantò ogni altro stato d'animo. Percorsero a buona andatura la strettoia della valle, senza il minimo rumore, come solo gli Elfi possono fare, evitando qualsiasi ostacolo grazie all'acutezza della vista, le orecchie tese per cogliere segnali di pericolo. Non c'era luce a guidarli, il cielo si era di nuovo rannuvolato e l'aria era pervasa ancora dal fumo dell'incendio del pomeriggio. Più avanti, i fuochi delle sentinelle nemiche fornivano una serie di fari isolati, puntolini giallastri che tremolavano nel buio. Mentre guidava il suo esercito, con la Spada di Shannara agganciata di traverso sulla schiena, Jerle non rivolse il minimo pensiero a un eventuale fallimento. Pensò solo a ciò che lo attendeva, scacciando ogni distrazione e mettendo da parte per altri momenti ogni considerazione che non riguardasse l'impresa di quella notte. Aveva a fianco Preia da una parte, Bremen dall'altra: grazie alla loro presenza si sentiva invincibile. Non immortale: sapeva benissimo che poteva anche morire. Ma in quel momento disperato aveva la sensazione che il fallimento fosse impensabile. Era circondato da gente che gli dava forza, anche se
dipendeva da lui. Una mistura bizzarra, ma ben nota ai sovrani. Gli Elfi avrebbero dato la vita per lui, ma lui doveva esser pronto a dare la propria per loro. Solo mantenendo fede a questo patto ognuno di loro poteva augurarsi di sopravvivere, di perseverare, di ottenere la vittoria. Il re spostò lo sguardo verso le ombre sulle alture, alla ricerca di sentinelle che potessero dare l'allarme. Non ne scorse: a quanto pareva, le Guardie Reali le avevano eliminate senza farsi scoprire. Alle sue spalle, nella conca della vallata, udiva un debole tintinnio di tirelle e un cigolio di finimenti di cuoio: la cavalleria li seguiva. Davanti, i fuochi di guardia divennero più visibili, ed entro il perimetro da essi segnato si scorgeva l'accampamento dell'esercito del Nord. La sua dimensione pareva smisurata, un esteso labirinto di tende e salmerie e uomini, una confusione di vita, quasi una piccola città. I nemici erano ancora molto numerosi, pensò il re. L'attacco degli Elfi doveva essere deciso e veloce. Portò i suoi uomini a una cinquantina di passi dall'accampamento e ordinò l'alt; tutti si acquattarono al limitare dei cerchi di luce dei fuochi. Le sentinelle, in piedi, scrutavano il buio, alcune lanciavano con indifferenza occhiate a ciò che avveniva nell'accampamento. Non mostravano la minima preoccupazione per ciò che poteva nascondersi nel buio: era chiaro che non s'aspettavano un attacco. Jerle Shannara sentì in petto una vampata di soddisfazione. A quanto pareva, aveva visto giusto. Pensò a un tratto a quanto aveva dovuto sopportare per giungere a quel punto e si scoprì a desiderare che Tay Trefenwyd fosse lì con lui. Insieme, avrebbero sconfitto qualsiasi opposizione. Senza Tay, pensò, per lui non sarebbe stata mai più la stessa vita. Mai più. Con un gesto segnalò agli Elfi di tenersi pronti. Allora Banda fece alzare i suoi arcieri, con la freccia già incoccata alla corda dei lunghi archi da guerra. Il re alzò la spada e le frecce volarono nell'aria in una mortale grandinata. Mentre ricadevano e colpivano i bersagli ancora ignari del pericolo, gli Elfi si lanciarono all'attacco. Furono rapidi e micidiali nell'avanzata. Nel giro di qualche istante avevano attraversato il terreno scoperto ed erano penetrati nell'accampamento. Le sentinelle giacevano tutte morte, trafitte da una freccia o da una lancia. I soldati del Nord che se ne stavano accoccolati intorno ai fuochi balzarono in piedi non appena gli Elfi sciamarono su di loro, impugnarono le armi e lanciarono l'allarme. Ma gli Elfi furono tra loro così rapidamente che per la maggior parte i nemici morirono senza potersi difendere. Jerle Shannara era in testa, e si apriva la strada fra le linee più esterne quasi senza fatica, affiancato dalle Guardie Reali. Preia era con lui. Bremen rimase indietro, troppo vecchio e lento per tenere il passo, gridando al re di andare avanti, di non aspettarlo. Sulle alture, i nemici erano impegnati in un corpo a corpo con le Guardie Reali che li avevano sorpresi nel sonno. Nel buio pieno di fumo solo gli Elfi potevano riconoscere i compagni, grazie al segno luminescente sulla spalla. L'intero accampamento era in subbuglio. All'improvviso il re si trovò nel mezzo di un reparto di Troll delle Montagne appena svegliati, gigantesche creature che balzavano dai giacigli, in risposta all'allarme, senza la protezione delle armature, ma con le armi in pugno. Jerle Shannara si lanciò verso il cuore dell'accampamento, cercando di non farsi rallentare, ma diversi Troll gli si pararono davanti e fu costretto a
fermarsi e a combattere. Venne in contatto col più vicino, vibrò in un arco lucente la Spada di Shannara e il Troll cadde. Altri si sforzarono di arrivare a lui, avendolo riconosciuto, e intanto lanciavano gutturali richiami ai compagni. Ma le Guardie Reali pararono il contrattacco e da ogni parte sciamarono sui Troll, facendone strage. Dal buio alle proprie spalle, il re udì il corno di Kier Joplin suonare la carica: con rombo di tuono, la cavalleria elfa si unì alla battaglia. Un'esplosione fece vibrare l'accampamento e una colonna di fuoco s'innalzò al cielo. Nel suo bagliore il re scorse Bremen, fermo al centro di un fuggifuggi di Gnomi e Troll minori, lacera sagoma con le braccia allargate davanti a sé, il giovane Allanon al fianco. Più avanti divennero visibili le tende con i drappi decorati da teschi del Signore degli Inganni e dei suoi servitori. Jerle Shannara si sentì pervadere dall'esaltazione e raddoppiò gli sforzi per aprirsi un varco fra i nemici. Ma dalla notte emerse una creatura mostruosa e il re fu costretto a fronteggiarla. Aveva l'aspetto di un lupo, ma con una testa vagamente umana, e fauci munite di file di denti acuminati. Assalì gli Elfi che cercavano di colpirlo e li disperse. Si avventò contro Preia Starle, ma lei schivò l'affondo e gli lasciò la spada conficcata nel collo. La mostruosa creatura continuò l'assalto, ferita ma non rallentata, le fauci pronte ad azzannare. Jerle Shannara fu sbattuto a terra, incapace di evitare l'assalto, e lottò invano per togliersi da sotto le sue zampe, mentre i Cacciatori menavano disperati fendenti contro il mostro. Poi, quando questo si rizzò sulle zampe posteriori per azzannarlo, con la Spada di Shannara il re gli trapassò il petto e il cuore e il mostro crollò privo di vita. Il re si affrettò a rialzarsi. "Le tende!" gridò a ogni elfo a portata di voce; con Preia al fianco, continuò la carica. Al di là dell'imboccatura del Rhenn, sul perimetro settentrionale dell'accampamento, Kinson, Mareth, Risca e i Nani si stavano dirigendo verso le alture orientali nel tentativo di trovare un varco fra le linee nemiche. Quando iniziò l'attacco degli Elfi si fermarono, non sapendo bene che cosa accadesse. Grida e urla provenivano dall'accampamento e ben presto ci fu il caos. Subito i Nani, esperti di battaglie, formarono un cuneo di difesa puntato verso l'accampamento assalito e osservarono i nemici più vicini alzarsi in fretta e furia, afferrare le armi e guardarsi intorno. "Cosa succede?" bisbigliò Mareth all'orecchio di Kinson Ravenlock. A quel punto udirono risuonare, al di sopra del clamore, il grido di battaglia degli Elfi, ben presto ripetuto. "Gli Elfi attaccano!" esclamò Risca, meravigliato. Dalle alture, nugoli di frecce si riversarono sull'accampamento, mietendo vittime fra i soldati lì radunati. Dall'ingresso della valle, sul lato frontale del perimetro, proveniva il clangore di armi. I Nani rimasero impietriti, mentre la battaglia si accendeva, ascoltando i rumori che crescevano e si avvicinavano. Gli Elfi erano penetrati nelle difese nemiche e puntavano al cuore dell'accampamento. "Cosa facciamo?" domandò Kinson, a nessuno in particolare, scrutando nel buio dove gruppi di nemici comparivano e scomparivano nella foschia del fumo dei fuochi di guardia. Proprio davanti a loro, un Messaggero del Teschio si levò in aria come uno spettro, ad ali distese e artigli contratti. Allontanandosi dai Nani, il predatore alato si diresse a est, sopra le pianure. Un attimo dopo fu seguito da un altro. "Scappano!" esclamò Mareth, incredula. Poi, proprio
al centro dell'accampamento, una colonna di fiamma esplose verso il cielo, alzandosi nell'oscurità come una lancia di fuoco scagliata contro le nuvole da una mano invisibile. Rimase sospesa per parecchi istanti contro il buio della notte, poi svanì in fumo. Risca soppesò la grande ascia da guerra e guardò gli altri. "Ho visto abbastanza" disse. "Gli Elfi hanno bisogno di noi. Non facciamoli aspettare." Il gruppo si mosse, guidato da Risca ai cui fianchi erano Kinson e Mareth. I Nani si disposero a ventaglio in formazione d'attacco. Risca li guidò un po' a levante delle alture, facendo attenzione agli arcieri lì nascosti, preoccupato che li scambiassero per nemici. Deviarono a sinistra, puntando alla parte posteriore dell'accampamento, dove gli Gnomi già s'affannavano a montare in sella. Quando si trovarono proprio sotto le file di picchetti, Risca lanciò il grido di guerra dei Nani e guidò all'attacco i suoi Cacciatori. Quasi subito i Nani furono impegnati in combattimento. Fosse frutto del caso o della rapida reazione dei difensori, in un attimo si trovarono circondati da un'intera compagnia di Troll delle Montagne, corazzati da capo a piedi e armati di picche. Nel primo minuto di battaglia caddero più di venti Nani, incapaci di resistere ai Troll assai più robusti di loro. Risca radunò i più vicini a lui, evocò il Fuoco Magico e con esso si aprì un varco, costringendo i nemici a indietreggiare. Seguì il contrattacco, vibrato da un branco di giganteschi lupi che Brona aveva chiamato dalle Querce Nere. Di nuovo i Nani furono respinti e questa volta il centro del loro schieramento cedette. Nella confusione, Kinson e Mareth rimasero separati da Risca. Il druido andò a sinistra, verso la parte posteriore dell'accampamento, mentre l'uomo della Frontiera e la giovane donna andarono a destra, seguendo un gruppo di Nani che volevano unirsi agli Elfi già impegnati al centro del campo. Risca, nella furia dello scontro, non si accorse subito della loro assenza. La veemenza della difesa, lì sul retro dell'accampamento, quando l'attacco principale degli Elfi proveniva dalla parte opposta, lo convinse che il Signore degli Inganni era a breve distanza. Avendo già visto due Messaggeri del Teschio darsi alla fuga, sospettò che l'attacco fosse più travolgente di quanto gli Elfi non immaginassero e che Brona si preparasse a fuggire. Poteva contare, per la propria difesa, su Troll delle Montagne e su creature infernali, perciò sarebbe fuggito di nascosto, assieme ai cacciatori alati, per ritirarsi a settentrione. Molti soldati del Nord già si dileguavano nella notte, abbandonando l'accampamento come serpi scacciate dalla tana. Gnomi e Troll minori cominciavano a fuggire lasciando altri a combattere al posto loro. La cavalleria si sparpagliava in tutte le direzioni, priva di comandante e in preda al panico. La spina dorsale dell'esercito del Nord era stata spezzata e non occorreva molta fantasia per dedurre che i comandanti - per i quali il tempo non contava niente intendessero rifugiarsi di nuovo nella loro roccaforte al di là delle montagne della Lama di Coltello, per riorganizzarsi e pianificare una nuova invasione. Ma Risca aveva fatto troppe brutte esperienze, per consentire che ciò accadesse. Era deciso a fermarli lì. Con una decina di Nani al seguito, si aprì la strada verso la ventina di Gnomi a cavallo ancora controllati da un Messaggero del Teschio. Infuriando fra di loro, orrido spettro con occhi ardenti e mantello svolazzante, il Messaggero cercava di rimettere in fila gli atterriti Gnomi, con il
chiaro intento di portarli con sé come reparto fiancheggiatore. Più in là, dove la notte era più buia e l'accampamento meno illuminato, c'era movimento fra le tende di seta nera. I cavalli nitrivano, mentre a frustrate venivano costretti a disporsi in convoglio, e grossi carri dipinti di scuro rotolavano nel buio e nel fumo, diretti alle pianure. Risca, ascia in pugno e Fuoco Magico ardente in petto, si mosse per intercettarli. Jerle Shannara continuò ad avanzare con ferocia implacabile. Era sempre in prima fila, ora ben dentro l'accampamento nemico, e si avvicinava allo scuro, frusciante baldacchino della tenda del Signore degli Inganni. Era entrato in una zona buia, un luogo dove la luce non penetrava. I fuochi di guardia, lungo il perimetro dell'accampamento, gettavano ombre irreali in quelle tenebre, ma c'era ben poco da vedere. Coloro che avevano tentato di fermarlo divennero rapidamente indistinguibili: alcuni erano Troll e Gnomi, altri erano esseri del tutto diversi. Jerle si spinse in mezzo a loro, senza badare alla loro natura, senz'altra preoccupazione che quella di farsi strada. Preia era al suo fianco, dura e feroce come lui. Le Guardie Reali li seguivano, cercando vanamente di raggiungerli. Tutt'intorno il campo era un caos di rumori e di movimento. Più avanti, da qualche parte nel buio, nelle vicinanze delle tende annerite, c'erano rumori di vetture e di carri in movimento, cigolii di tirelle, schiocchi di fruste, nitriti di cavalli in risposta alle pretese dei conducenti. Preia cadde a terra, sbilanciata da una sagoma scura balzata dal buio su quattro zampe. Fauci si spalancarono e denti luccicarono, mentre il corpo irsuto piombava sulla regina. Jerle si girò a difenderla, ma nello stesso istante fu colto alla sprovvista da un'altra di quelle sagome e mandato a gambe levate. Altre ne comparvero, lupi che sbucavano dalle tenebre e caricavano, azzannando gli Elfi che tentavano d'entrare in quel terreno proibito. Erano così numerosi che per un momento parvero inarrestabili. Preia era sparita in un groviglio di corpi. Jerle combatteva sulla schiena e sulle ginocchia, vibrando la Spada contro qualsiasi cosa venisse alla sua portata, sforzandosi di rimettersi in piedi. "Shannara! Shannara!" Al grido che chiamava a raccolta, Cacciatori e Guardie Reali accorsero. Poi esplose il Fuoco Magico, bruciando a metà del balzo i lupi più vicini, e Bremen entrò nella mischia, con le vesti a brandelli, con occhi ardenti come quelli delle creature che cercava di uccidere. I lupi si ritrassero, atterriti, zanne snudate. Un'altra belva svanì nella livida fiamma e i lupi rimasti si sparpagliarono, ululando di furia e di terrore. Jerle Shannara si tirò in piedi, si girò alla ricerca di Preia. Ma lei era già al suo fianco, col viso rigato di sudore e stravolto dalla sofferenza, un braccio tutto insanguinato nel punto in cui, malgrado la protezione di cuoio, la morbida carne era stata lacerata fino all'osso. In quel momento si legava la ferita, ma era cerea in viso, straziata. "Va' avanti!" gridò a Jerle. "Non aspettare! Sto arrivando!" Jerle esitò solo un istante, poi riprese la rapida avanzata, seguito da un gruppetto di Guardie Reali. I lupi erano le ultime creature poste a custodia del Signore degli Inganni, perciò la via era sgombra. Più avanti il terreno era una pozza nera, ma Jerle Shannara non rallentò. Una sola cosa gli importava: trovare il comandante nemico e metterlo con le spalle al muro. Attraversò di corsa il tratto non illuminato, senza badare a ciò in cui avrebbe potuto incappare, senza
preoccuparsi di cosa lo aspettasse, tutto preso dalla determinazione di porre termine a quella battaglia, a qualsiasi costo. Da un punto alle sue spalle provenne la voce di Bremen che gridava un avvertimento e lo chiamava inutilmente: il vecchio druido, sfinito dalla battaglia, prosciugato dalla magia, non ce la faceva a seguirlo. Jerle raggiunse la tenda del Signore degli Inganni in fuga, vibro un fendente, tranciò la stoffa scura, scagliò nella notte la collana di teschi e ossa appesa a un palo di sostegno. La parete della tenda si lacerò e un vento secco e gelido sfiorò la faccia del re che si lanciava nell'apertura. L'interno era così buio che non vide niente, e per proteggersi vibrò la Spada di Shannara in un ampio arco, tranciando tutto ciò che era alla sua portata. Ma la lama fischiò a vuoto nell'aria. Jerle si lanciò nel buio verso la parete opposta e tranciò la stoffa, aprendola alla notte. Fumo e rumore si precipitarono nello squarcio e il gelo lasciò il posto al caldo dell'estate e alla sensazione di sudore sulla pelle. Jerle girò rapido su se stesso e si acquattò in posizione di difesa. Ma la tenda era vuota. Nello stesso momento Risca e i suoi Nani assalirono i resti degli Gnomi a cavallo. Il Messaggero del Teschio che li teneva a bada arretrò sotto l'assalto del Fuoco Magico di Risca e gli atterriti Gnomi saettarono via nella notte. Per un istante nessuno si oppose ai Nani. Poi risuonò il clangore di ruote rivestite di ferro e dall'accampamento provenne una carovana di cavalieri dal mantello nero e di carri chiusi. Risca si lanciò all'inseguimento e scagliò il Fuoco Magico contro i cavalli di testa, facendoli scartare e inalberare e fermando i carri. Quasi subito una torma di belve sciamò da dietro i traballanti mezzi di trasporto e i cavalli imbizzarriti e si lanciò alla carica: una maligna e rabbiosa collezione di mostri infernali. L'attacco fu feroce e costrinse Risca e i Nani a ritirarsi. Zanne e artigli lacerarono le carni, braccia nerborute martellarono i soldati dell'Est. I Nani lottarono con torva determinazione, raggruppati intorno al loro capo. Risca scagliò contro gli attaccanti ondate su ondate di Fuoco Magico, lottando semplicemente per non perdere terreno. Ormai i cavalieri in mantello scuro giravano i carri e prendevano un'altra direzione, frustando i cavalli con urla di rabbia. Risca lottò per raggiungerli, per costringere di nuovo la carovana a fermarsi. Ma gli esseri infernali erano da tutte le parti e lui non riusciva a sfruttare bene il Fuoco Magico. La grande diversità numerica cominciava a farsi sentire. A uno a uno i compagni di Risca cadevano e morivano. Poi, all'improvviso, gli assalitori furono sparpagliati da ondate di soldati presi dal panico, che si riversavano dal campo di battaglia passando davanti ai Nani e svanendo nelle pianure buie. L'intero esercito nemico pareva in rotta, come se ogni soldato avesse deciso nello stesso istante d'averne abbastanza. Gnomi e Troll sciamarono dall'infuocato campo di battaglia e fuggirono nella notte. La marea era compatta e inarrestabile, e per un momento Risca e i Nani scomparvero in mezzo ad essa. Quando diminuì, Risca si guardò intorno. Era solo sul lato orientale dell'accampamento distrutto. I Nani che avevano combattuto al suo fianco erano morti tutti. I mostri del mondo infero erano scomparsi, fuggiti assieme ai soldati. Nell'accampamento lo scontro continuava senza requie, con gli Elfi che premevano contro chi era rimasto, entrambe le parti impegnate in una lotta furiosa e disperata. A settentrione, dove le Streleheim si
estendevano sotto il cielo plumbeo, la carovana del Signore degli Inganni si allontanava. Una foschia rossastra velò la vista del druido e un senso d'impotenza lo pervase. Si girò da ogni parte in cerca di un cavallo, ma nelle vicinanze non ne vide. I soldati in fuga gli giravano alla larga, scorgendo il tremolio di Fuoco Magico sulla punta delle dita della sua mano destra e il luccichio dell'ascia da guerra nella sinistra. Risca aveva il viso insanguinato e negli occhi una gelida furia. In lontananza, la carovana svanì nella notte. 33 All'alba l'esercito delle Terre del Nord era stato sbaragliato e gli Elfi cavalcavano all'inseguimento del Signore degli Inganni. La battaglia era infuriata per gran parte della notte, da un unico scontro si era mutata in decine di scontri più piccoli e violenti. Una parte dei guerrieri del Nord era fuggita ai primi assalti, ma molti erano rimasti. I reparti più uniti e meglio disciplinati non avevano ceduto fino alla fine. Il combattimento era stato sanguinoso e disperato, senza quartiere. Al termine, l'esercito del Nord era disperso in ogni direzione. Il numero di caduti su entrambi i fronti era sbalorditivo. Gli Elfi avevano perduto la metà di coloro che quella notte erano scesi in campo insieme con Jerle Shannara. Rustin Apt era morto all'imboccatura del passo e la sua unità era stata decimata. Arn Banda era morto sulle alture. Cormorant Etrurian aveva riportato una ferita tanto grave che avrebbe perduto un braccio. Solo Kier Joplin della cavalleria degli Elfi e Trewithen della Guardia Reale erano rimasti incolumi, ma fra tutti e due potevano disporre solo di ottocento soldati ancora in grado di combattere. Era una giornata fredda e asciutta, chiaro segno della fine dell'estate e dell'inizio dell'autunno. Il sole si levò, smorto e velato di foschia, contro i frastagliati picchi dei Denti del Drago, proprio a oriente del punto dove cavalcava il reparto di Jerle Shannara. Sulle praterie indugiavano banchi di nebbia, la brina copriva il terreno, argentea e bagnata nella luce crescente, nell'aria si condensava l'alito di soldati e cavalli. Falchi roteavano nel cielo, risalivano e planavano nel vento, muti spettatori della caccia in atto sotto di loro. Jerle Shannara non aveva esitato a inseguire Brona, convinto di non poter fare diversamente. Ormai non provava trepidazione né incertezza, non si curava della fatica e della fame, non voleva abbandonare la lotta. Sanguinava per le ferite riportate negli scontri, ma non sentiva dolore. Teneva agganciata sulla schiena la Spada di Shannara e non si chiedeva più se la magia avrebbe risposto al suo richiamo. Il momento delle decisioni era passato e rimaneva solo il fardello della responsabilità che gli avevano accollato. Dubbi e timori si agitavano sempre in fondo alla sua mente, ma il costante trascorrere del tempo li ricacciava sempre più lontano dalla sua consapevolezza. Sentiva soltanto il rombo del proprio sangue, il battito del cuore, la forza della determinazione. Preia Starle andò con lui, pur ferita al punto da avere bisogno d'aiuto per montare in sella. Aveva un braccio fasciato e appeso al collo; non perdeva più molto sangue, ma aveva il viso cereo e tirato, respirava a fatica. Tuttavia quando Jerle le aveva chiesto di fermarsi si era rifiutata. Era abbastanza forte da cavalcare,
aveva detto con insistenza, e l'avrebbe accompagnato. Voleva vedere la fine di quella storia nel modo in cui ne aveva visto l'inizio, cioè al suo fianco. Andarono con Jerle anche Bremen e il giovane Allanon, anche se ora il vecchio druido era indebolito come Preia, perché l'uso continuato della magia l'aveva prosciugato al punto che sarebbe stato di ben poco aiuto. Non l'aveva detto, ma la cosa risultava evidente a chiunque avesse occhi e buon senso. Però aveva promesso che sarebbe stato a fianco del re, al momento di usare la Spada, e non avrebbe mai mancato alla promessa. Anche Mareth, Kinson Ravenlock e Risca, più riposati e in forze, li accompagnarono. Per loro la battaglia doveva ancora venire: consapevoli dello sfinimento degli altri, si erano ripromessi di proteggerli come meglio potevano. Dietro di loro venivano Kier Joplin con la cavalleria e Trewithen con la Guardia Reale, insieme con un piccolo contingente di Nani scesi in compagnia di Risca. In tutto non arrivavano a novecento. Non si preoccupavano di considerare troppo attentamente se sarebbero bastati a tenere a bada il Signore degli Inganni. Nessuno sapeva quanti si fossero dati alla fuga con il druido ribelle, né quanti da allora si fossero uniti a lui. Di sicuro ci sarebbero stati Messaggeri del Teschio e creature infernali e lupi delle Querce Nere e Troll delle Montagne e altri delle Terre del Nord e dell'Est. Se avessero incontrato anche solo una piccola parte dell'esercito che aveva assediato la Valle di Rhenn, gli Elfi sarebbero stati nei guai. Tuttavia, da qualche parte più a nord, al limitare degli altipiani, Raybur avanzava con quattromila Nani. Se gli Elfi fossero riusciti a spingere da quella parte il Signore degli Inganni, avrebbero avuto una possibilità. Il sole si levò più alto in un cielo che era un bizzarro miscuglio di grigio e d'argento e la sua luce scacciò le ombre notturne e il freddo. Ma la nebbia si rifiutò di dissolversi, rimase tenacemente abbarbicata alle piane, addensata intorno alle ampie depressioni e alle forre poco profonde che le intersecavano. Formava pozze fra i tratti di terreno più elevati e dava alle praterie un aspetto vagamente paludoso. Niente si muoveva in lontananza, l'orizzonte era vuoto e immobile. In alto i falchi erano scomparsi. Il gruppo di Jerle Shannara cavalcava in silenzio, a labbra serrate, mantenendo un'andatura costante e regolare e tenendo d'occhio il territorio all'intorno. Verso la metà del pomeriggio raggiunsero finalmente il Signore degli Inganni. Fin da mezzodì avevano avuto ragione di credere d'avere progressivamente ridotto lo svantaggio, perché avevano iniziato a trovare carri abbandonati, danneggiati durante la fuga. Un'ora prima avevano intercettato la pista della preda, una confusione di solchi e impronte, di animali e di uomini, che rendeva difficile persino agli Esploratori stabilire quante persone viaggiassero col Signore degli Inganni. Preia, contro il parere del re, era smontata da cavallo per studiarle; poi, con la sua voce bassa e tranquilla, aveva riferito che il numero dei nemici non arrivava a mille. Ora, mentre sostavano in cima a un'altura, alcune centinaia di passi a meridione del punto dove i resti dell'esercito del Nord erano stati costretti a fermarsi, gli Elfi poterono vedere che la stima della regina era esatta. I carri neri erano fermi all'ombra di una serie di alture che salivano come terrazze verso i Denti del Drago. Le creature del Signore degli Inganni erano addossate ai carri: Troll delle Montagne e altri esseri di forma umana; creature
del mondo degli inferi ammantate e incappucciate; lupi grigi che se ne stavano acquattati o andavano avanti e indietro al limitare della nebbia; Messaggeri del Teschio, alcuni dei quali si libravano come scuri uccellacci sopra l'assembramento. Più in là, schierati in ordine di battaglia sulle alture, i Nani di Raybur bloccavano ogni via verso settentrione. Al Signore degli Inganni era stata impedita la fuga. Tuttavia la nebbia era ingannatrice, le sue immagini vaghe creavano illusioni. Parecchie delle creature ammassate sul terreno piano, avvolte da brandelli di grigiore turbinante, erano morte. Giacevano in posizioni innaturali, schiantate contro le rocce e impalate su armi. Braccia e gambe si protendevano verso il cielo come stecchi rotti. Scure sagome tremolavano nella foschia: erano i resti anneriti e bruciati degli esseri del mondo degli inferi. Quel giorno si era già svolta una battaglia. Il druido ribelle e i suoi sostenitori erano incappati negli abitanti delle Terre dell'Est e avevano tentato di aprirsi la strada fra le loro linee. Ma il tentativo era fallito. I Nani li avevano respinti. Allora il Signore degli Inganni aveva radunato i resti del proprio esercito e si era ritirato nell'attuale posizione. I Nani erano pronti a un altro assalto. Ambedue le parti aspettavano. Jerle Shannara rimase perplesso. Cosa aspettavano? Non impiegò molto a trovare la risposta. Aspettano me, pensò. Aspettano la Spada di Shannara. Capì allora che lì sarebbe avvenuta la conclusione, in quell'isolata regione delle Streleheim, su quel terreno già insanguinato. Avrebbe affrontato in combattimento il Signore degli Inganni e uno dei due sarebbe morto. Così era stato deciso da un remoto, perverso destino, molto tempo prima. Jerle Shannara guardò gli altri sorpreso di sentirsi così calmo. "Brona è in trappola. Non può fuggire. I Nani gli hanno impedito la fuga nel cuore delle Terre del Nord. Ora deve affrontarci." Risca soppesò l'ascia da guerra. "Non facciamolo aspettare." "Un momento." Era Bremen, vecchio e sfinito al punto da essere irriconoscibile nella luce sempre più fioca del pomeriggio, un consunto spettro umano senza più nulla a cui sostenersi se non la sua logorante determinazione. "Aspetta noi, è vero. Vuole che arriviamo. Questo dovrebbe darci un po' di respiro." Il Nano era duro e deciso. "Non ha scelta, può solo aspettare. Cosa ti preoccupa, Bremen?" "Rifletti, Risca. Vuole scontrarsi con noi perché, se vince, può ancora fuggire." Con lo sguardo li passò in rassegna. "Se ci distrugge tutti, gli ultimi Druidi rimasti e il re degli Elfi per soprammercato, elimina i massimi pericoli che lo minacciano e forse riesce a evitare la propria morte. Allora può nascondersi e riprendersi. Può aspettare l'occasione per fare ritorno." "A me non sfuggirà" borbottò Risca, torvo. "Non sottovalutarlo, Risca" ammonì il vecchio. "Non sottovalutare il potere della magia di cui dispone." Seguì un lungo silenzio. Risca ricordò quanto vicino fosse stato a morire, l'ultima volta che aveva tentato d'incrociare il ferro col Signore degli Inganni. Fissò il vecchio druido, poi spostò lo sguardo sulla pianura velata di foschia. "Cosa suggerisci? Di restare con le mani in mano?" "Di essere prudenti." "A che serve la prudenza?" replicò Risca, spazientito. "Sprechiamo solo tempo! Per quanto ancora dobbiamo stare qui?" "Brona aspetta me" disse a un tratto Jerle Shannara. "Sa che vengo per lui." Gli altri lo guardarono. "Si scontrerà con me, ora, perché ritiene che per lui sia la strada più facile. Non ha paura di me. E' convinto di
potermi distruggere." "Non lo affronterai da solo" si affrettò a replicare Preia Starle. "Saremo tutti con te." "Dal primo all'ultimo!" sbottò Risca, sfidando chiunque a contraddirlo. "Ma è pericoloso" ammonì di nuovo Bremen. "Tutti noi raggruppati. Siamo stanchi, esausti. Non siamo forti abbastanza." Mareth si fece avanti, l'espressione decisa. "Lo siamo a sufficienza, Bremen." Strinse con forza il bastone avuto da lui. "Non puoi aspettarti che ci limitiamo a guardare." "Abbiamo fatto molta strada per vedere la fine di questa storia" intervenne Kinson Ravenlock. "Questa battaglia è anche nostra." Fissarono il vecchio, tutti, aspettando che parlasse. Lui li guardò senza vederli, con occhi remoti, perduti. Pareva considerare qualcosa che non avrebbero potuto capire, qualcosa di molto distante da quel luogo e da quel momento, al di là del pericolo immediato. "Bremen" chiamò piano il re, e aspettò che il vecchio lo guardasse. "Io sono pronto. Non dubitare di me." Il druido lo scrutò a lungo, poi annuì, stanco e rassegnato. "Faremo come vuoi tu, re degli Elfi." Risca ordinò di issare su lance le bandierine di segnalazione, per far sapere a Raybur le loro intenzioni. Subito arrivò la risposta: i Nani si sarebbero mossi all'ordine degli Elfi. La strada verso nord sarebbe stata bloccata contro qualsiasi tentativo di fuga. Toccava a Jerle Shannara e agli Elfi chiudere la trappola. Il re chiamò Trewithen e una decina di Guardie Reali perché lo accompagnassero. Risca chiamò sei dei suoi Nani. Mentre si radunavano, Jerle Shannara tirò da parte Preia Starle. "Voglio che tu mi aspetti qui" le disse. Lei scosse la testa. "Non posso, e tu lo sai." "Sei ferita. Non hai la forza e la rapidità su cui puoi contare in condizioni normali. Come ti aspetti di compensarle?" "Non chiedermi di stare in disparte." "La tua presenza mi distrarrebbe, starei in pensiero per te!" Era rosso in viso, adirato. Ridusse la voce a un mormorio. "Ti amo, Preia." "Chiederesti a Tay di stare in disparte, se fosse qui?" replicò lei, piano. Gli diede un istante per riflettere, scrutandolo. Poi gli rivolse un pallido, fragile sorriso. "Anch'io ti amo. Perciò non aspettarti da me meno di quanto non mi aspetti io stessa." Nello stesso momento Kinson Ravenlock si rivolgeva a Mareth. "Sarai pronta quando inizierà la battaglia?" le domandò sottovoce. Lei lo guardò sorpresa. "Certo! Perché me lo domandi?" "Dovrai usare la magia. Non sarà facile. Hai rivelato chiaramente il disgusto che provi per essa." "E' vero" convenne Mareth, accostandosi a lui e sfiorandogli la spalla. "Ma farò il mio dovere, Kinson." Bremen si spostò in modo da fronteggiare il gruppo. "Vi proteggerò con magia sufficiente a deviare il primo colpo, ma non posso garantire altro. La mia forza è al limite. Risca e Mareth dovranno sostenere tutti noi. Ciascuno badi all'altro, ma soprattutto badate al re. Bisogna dargli un'opportunità di usare la Spada contro Brona. Tutto dipende da questo." "Avrà la sua occasione" promise Risca, fermo proprio di fronte al vecchio. "A Tay Trefenwyd dobbiamo almeno questo." Allora si avviarono, Jerle Shannara in testa con Preia Starle al fianco, alla loro destra Risca e alla sinistra Bremen. Allanon, Kinson Ravenlock e Mareth li seguivano a qualche passo di distanza. Guardie Reali e Cacciatori si allargarono ai lati. Più indietro veniva il resto dell'esercito. Dalle alture, i Nani guardavano la scena. Ormai la luce svaniva all'approssimarsi del tramonto, le ombre si allungavano e il freddo della sera imminente strisciava nell'aria. Davanti a loro, nelle
pianure, le creature nella nebbia si mossero, pronte all'assalto. I lupi grigi colpirono per primi, precipitandosi all'attacco in gruppi scuri, azzannando e dilaniando Elfi e Nani delle prime file, per poi ritirarsi rapidamente. Risca scagliò cortine di Fuoco Magico per respingere i più vicini e subito fu assalito da altri. Gigantesche creature degli inferi avanzarono pesantemente, spazzando via il fuoco e scostando le lame. Troll delle Montagne si unirono alla battaglia, in formazioni serrate, con le grandi picche abbassate a formare una fila di scintillanti punte metalliche. Il fumo del Fuoco Magico si mischiò con la nebbia e una foschia grigia avvolse l'intero campo di battaglia. Jerle Shannara continuò ad avanzare, incolume. Nessuno gli si avvicinò: tutti i suoi possibili assalitori lo scansavano. Il Signore degli Inganni ti aspetta, gli mormorò una voce in fondo alla mente. Il Signore degli Inganni ti vuole tutto per sé. I Troll delle Montagne impegnarono Kinson Ravenlock, lo ricacciarono indietro, e l'uomo della Frontiera scomparve in una confusione di robuste braccia e di gambe massicce. Il bastone di Mareth mandò scintille di livida fiamma, ma la giovane non poteva usare il fuoco, perché rischiava di colpire anche Kinson. Elfi Cacciatori si precipitarono in aiuto e colpirono i Troll, poi altre creature si unirono allo scontro e tutti furono inghiottiti nella mischia. Un Messaggero del Teschio comparve per affrontare Jerle Shannara, ma si spostò di lato e sfidò invece Bremen. "Vecchio!" sibilò, con torva anticipazione. Allanon si pose davanti a Bremen per proteggerlo, sapendo che il druido era sfinito e che la sua magia era quasi scomparsa. Ma intervenne Risca e col fuoco colpì il Messaggero scagliandolo lontano in un mucchio fumante. Il Nano si aprì la strada fin sul fronte dell'attacco, gli abiti a brandelli per lo scontro con i lupi grigi, il viso rigato di sangue. "Avanti!" ruggì, alzando l'ascia in segno di sfida. Kinson si rialzò, ferito e intontito, roteando la spada contro i Troll delle Montagne che tentavano di sopraffarlo. Guardie Reali e Cacciatori dei Nani si misero spalla a spalla con l'uomo della Frontiera e respinsero i nemici del Nord. Più avanti, gli scuri e serici teloni dei carri s'incresparono nel turbinio della nebbia, simili a sudari di morte. Jerle Shannara continuò ad avanzare. Adesso era solo, a parte Preia. Bremen e Allanon erano rimasti indietro, Risca era sparito nella mischia. Cacciatori degli Elfi e Guardie Reali saettavano nella nebbia, ma il re occupava uno spazio dove nessuno pareva osasse entrare. La foschia aveva aperto davanti a lui un corridoio, e Jerle vedeva una sagoma scura avvolta nel mantello, ferma in fondo alla evanescente galleria. Nell'ombra del cappuccio, due occhi rossi ardevano di rabbia e di sfida. La sagoma era il Signore degli Inganni. Un braccio coperto dalla veste si alzò e chiamò il re. Vieni a me, re degli Elfi. Vieni a me. Più indietro, Bremen si affannava per raggiungere il re. Allanon lo aiutava, gli forniva la spalla robusta a cui sorreggersi. Il vecchio aveva evocato di nuovo il Fuoco Magico, attingendo alla forza del fanciullo, ma era assai indebolito. Guardò il Signore degli Inganni materializzarsi dalla nebbia, lo vide chiamare col gesto Jerle Shannara, si sentì stringere la gola. Era in grado, il re, di sostenere quel confronto o gli sarebbe venuta meno la determinazione? Il druido non lo sapeva... non poteva saperlo. Il re capiva pochissimo dell'esigente magia della Spada e forse, di fronte al suo potere, avrebbe vacillato.
C'era grande forza, in Jerle Shannara, ma anche incertezza. Quale delle due avrebbe prevalso? Mareth aveva raggiunto Kinson e lo tirava fuori dalla mischia, usando intanto il Fuoco Magico per respingere i Troll delle Montagne. Spazzava il terreno davanti a sé e i guerrieri del Nord si ritraevano di fronte alla sua furia. Kinson barcollò, mentre lei cercava di reggerlo contro il proprio fianco: perdeva sangue da profonde ferite al fianco e alle gambe, aveva un braccio penzoloni. "Va' avanti!" le disse. "Proteggi il re!" Lo scontro era feroce. Urla feroci si alzavano nella luce morente, si mischiavano al clangore delle armi, alle esclamazioni degli uomini in lotta, ai gemiti dei moribondi. Macchie scure di sangue si allargavano sul terreno cosparso di cadaveri in pose innaturali. Un carro si rovesciò, e creature che parevano fatte di filo di metallo si riversarono dal pianale rotto, sibilando come serpi stuzzicate nel nido. Si lanciarono contro Bremen e Allanon e in un lampo si strinsero attorno a loro. Erano piene di bitorzoli e prive di tratti umani, il muso smussato e irregolare, come sagomato da una nascita mostruosa. Si aprirono la strada fra le Guardie Reali che tentavano di bloccarle e si lanciarono temerariamente all'attacco. Allanon cercò di evocare il Fuoco Magico, ma non ebbe successo. Bremen, in ginocchio, a testa bassa, era concentrato su Jerle Shannara e seguiva con l'occhio della mente il re che avanzava nella nebbia. Per i due sarebbe stata la fine, se non fosse intervenuto Kinson Ravenlock. Seguendo a fatica Mareth, indebolito dalle ferite, si accorse dell'attacco che convergeva sul vecchio e sul bambino. Reagì d'istinto: attinse alla fragile riserva di energie che gli restava e si lanciò a difenderli. Li raggiunse proprio mentre l'orda di filiformi creature superava l'opposizione della Guardia Reale. Mosse in un ampio arco la grande spada e abbatté tre di quelle creature. Poi caricò contro le rimanenti, scagliandole indietro, martellandole di colpi. Denti e artigli lo lacerarono e sentì aprirsi nuove ferite. Quelle creature erano troppe per lui: allora gridò a Bremen e al fanciullo di scappare. L'attimo dopo fu sopraffatto e gettato a terra. Comparendo in una vampata di Fuoco Magico, col bastone che mandava lampi furiosi, Mareth lo salvò un'altra volta. Le creature infernali si girarono ad affrontarla, ma il fuoco le ricacciò indietro come se fossero state vecchie e deboli. Contrattaccarono, mentre altri esseri si lanciavano contro Mareth e cercavano di farsi strada attraverso il suo scudo di fiamma. Kinson tentò di mettersi in piedi, ma fu ricacciato nella mischia. Comparvero gruppi di Guardie Reali, di Nani, di Troll delle Montagne e di creature mostruose: per un momento parve che tutti i soldati dei due eserciti convergessero su quel punto del campo di battaglia. Più avanti, nascosto da una muraglia di nebbia, Jerle Shannara avanzava contro il Signore degli Inganni. A ogni passo del re degli Elfi, Brona si era ingrandito e ora pareva enorme. La sua sagoma tenebrosa bloccava la luce in fondo alla galleria e i suoi occhi ardevano di disprezzo. Intorno a lui, nella nebbia, comparivano e scomparivano le creature che lo difendevano. Jerle sentì vacillare la propria fiducia. Vide qualcosa scaturire dalla nebbia e strappargli dal fianco Preia. Si girò di scatto per soccorrerla, ma Preia era già scomparsa, inghiottita dal buio. Jerle mandò un grido di paura e di rabbia, poi udì la voce di Preia mormorargli all'orecchio, pressante, e si sentì afferrare il braccio; capì allora che lei non l'aveva mai
lasciato: ciò che aveva visto era solo un'illusione. Risuonò la risata del Signore degli Inganni, maligna e sorniona. Vieni a me, re degli Elfi! Vieni a me! Preia inciampò e cadde. Jerle si chinò per sorreggerla, senza distogliere lo sguardo dalla tenebrosa figura più avanti, ma Preia lo respinse. "Lasciami" disse. "No!" replicò subito lui, rifiutandosi di ascoltarla. "Ti sono solo d'impaccio, Jerle. Ti rallento e basta." "Non ti lascio!" Preia allungò la mano verso il viso di Jerle, e lui sentì il sangue sulle mani di lei, tiepido e scivoloso. "Non mi reggo in piedi. Perdo troppo sangue per continuare. Devo fermarmi, Jerle. Devo aspettare qui il tuo ritorno. Ti prego. Lasciami." Lo guardò con fermezza, dritto negli occhi, il viso cereo alterato dalla sofferenza. Lentamente Jerle si raddrizzò e si staccò da lei, sforzandosi di trattenere le lacrime. "Tornerò a prenderti" promise. La lasciò distesa sul fianco, sollevata sul gomito, la corta spada nella mano libera. Mosse solo qualche passo, poi si girò a controllare che stesse bene. Lei gli fece cenno di proseguire. Quando Jerle si girò a guardare una seconda volta, Preia era scomparsa. Kinson Ravenlock era riuscito a rimettersi in piedi e cercava di usare la spada contro la folla di nemici che minacciava di travolgere Mareth, quando ricevette un colpo così terribile che cadde a terra ansimando. Mareth si girò verso di lui e in quel momento fu assalita da un lupo gigantesco. Il lupo le fu addosso prima che potesse usare il Fuoco Magico e la colpì con forza tale da farle perdere la presa sul bastone. Mareth cadde e il lupo spalancò le fauci. Kinson udì il suo grido e cercò disperatamente di accorrere in suo aiuto, ma le gambe non gli risposero. Rimase lì a sputare sangue, col respiro affannoso, sentendosi scivolare nell'incoscienza. Poi il Fuoco Magico esplose da Mareth e divampò in tutte le direzioni. Il lupo rimase incenerito. Chi si trovava nel raggio di dieci passi fu consumato. D'istinto Kinson si coprì la testa, ma il fuoco gli strinò il viso e le mani, gli risucchiò l'aria che cercava di respirare. L'uomo della Frontiera gridò disperato e per lui ogni cosa svanì in un'esplosione di fiamme. Nella galleria di nebbia che conduceva al Signore degli Inganni, Preia Starle vide un Messaggero del Teschio emergere dal buio e avanzare verso di lei. Jerle non era più visibile. Preia avrebbe potuto chiamarlo, ma non volle. Con grande sforzo si alzò sulle ginocchia, ma non riuscì ad andare oltre. Si sentì straziare dalla frustrazione. Eppure aveva scelto lei di venire. Guardò il mostro avvicinarsi e tenne davanti a sé la spada per difendersi. Avrebbe avuto una sola opportunità di colpire... e forse il colpo non sarebbe comunque bastato. Respirò a fondo, rimpiangendo di non avere la forza per reggersi in piedi. Il Messaggero del Teschio sibilò contro di lei e mosse le grandi ali coriacee, battendole piano contro la schiena gibbosa. "Piccolo elfo" bisbigliò di piacere, i rossi occhi luccicanti. Si protese ad afferrarla e lei alzò la spada per colpire. Jerle Shannara aveva ridotto a meno di dieci metri la distanza che lo separava dal Signore degli Inganni. Vide la sagoma scura avvolta nel mantello cambiare sotto i suoi occhi come se facesse parte della nebbia che turbinava intorno a loro. Nell'ombra del cappuccio gli occhi ardevano di feroce determinazione. Non si vedeva niente di ciò che era rimasto di Brona. Il Signore degli Inganni si librava al di sopra del terreno, come privo di peso... un guscio vuoto. La sua voce, strana e irresistibile,
continuava a chiamare il re degli Elfi. vieni a me. vieni a me. Jerle Shannara avanzò. Sollevò la Spada, il talismano che aveva portato per quel confronto, la magia che non sapeva come usare, e avanzò per dare battaglia. Un lampo scaturì dalla lama, danzò sulla levigata superficie, scomparve nel corpo del re degli Elfi. Jerle vacillò, mentre la luce penetrava in lui, pulsante d'energia. Fu avviluppato da una sensazione di calore che gli si diffuse dal petto agli arti. Sentì il calore tornare nella Spada portando con sé una parte di lui stesso e unendola a essa, in modo che lui fu tutt'uno con la lama. La fusione avvenne così rapidamente da concludersi prima che Jerle potesse pensare di fermarla. Guardò stupito la Spada, ora estensione di se stesso, e poi la scura sagoma che aveva davanti, e poi il mondo di nebbia e di ombre che lentamente iniziava a ritirarsi. Allora sprofondò in se stesso, risucchiato da una forza a cui non poteva resistere. Divenne minuscolo, mentre il mondo circostante s'ingigantiva, e presto si ridusse a un insignificante corpuscolo in un vasto universo brulicante di vita. Si vide com'era, quasi privo di sostanza, poco più di un granello di polvere. Era trasportato dal vento per tutto il mondo che era e che sarebbe stato, rivelato nella sua interezza in un vasto arazzo che si estendeva più in là di quanto lui avrebbe mai pensato di vedere o di percorrere. Quella era la sua essenza, capì. Quello era il suo valore nel più vasto disegno delle cose. Poi il mondo che sorvolava parve cambiare pelle e quanto prima era vivido e perfetto divenne scuro e difettoso. Tutti gli orrori e i tradimenti di tutte le creature dall'inizio del tempo sfolgorarono in minuscoli frammenti di rivelazione. Jerle si ritraeva dal dolore e dallo sgomento che sentiva per ognuno, ma non aveva modo di sfuggire. Quella era la verità delle cose: la verità che, come aveva appreso, la Spada gli avrebbe rivelato. Rabbrividì per la sua vastità, per la profondità e l'ampiezza delle sue permutazioni. Restò inorridito e vergognoso, spogliato delle proprie illusioni, costretto a vedere il mondo e le sue genti per ciò che erano. Capì in quell'istante che poteva fallire nel suo proposito. Ma le immagini si ritrassero, il mondo si ottenebrò, e per un momento lui fu di nuovo immerso nella nebbia, impietrito di fronte alla torreggiante sagoma del Signore degli Inganni, mentre la Spada di Shannara brillava di luce bianca. Aiutami, pregò Jerle, senza rivolgersi a nessuno, perché era solo. La luce lo riempì di nuovo e di nuovo il mondo di nebbia e ombre svanì. Di nuovo Jerle Shannara sprofondò in se stesso e stavolta si trovò a faccia a faccia con la verità della sua stessa vita. Con inesorabile determinazione la verità si dispiegò davanti a lui, immagine dopo immagine, un vasto mosaico di esperienze e di eventi. Ma le immagini non erano quelle delle cose che lui avrebbe voluto vedere; erano quelle di ciò che avrebbe volentieri dimenticato, sepolto nel proprio passato. Non c'era niente, in quelle immagini, di cui fosse orgoglioso, niente che si fosse augurato di rivedere. Menzogne, mezze verità e inganni si levarono come fantasmi. Lì c'era il vero Jerle Shannara, la creatura difettosa e imperfetta, debole e insicura, insensibile e piena di falso orgoglio. Vide il peggio di ciò che aveva fatto nella vita. Vide le delusioni che aveva inflitto, gli aiuti negati, le sofferenze causate. Quante volte non era riuscito a fare ciò che andava fatto! Quante volte era stato ingiusto! Cercò di guardare da
un'altra parte. Cercò di fermare lo scorrere delle immagini. Sarebbe fuggito da ciò che gli veniva mostrato, se avesse potuto impedire alla magia della Spada di manifestarsi. Quelle erano verità che non era in grado di affrontare, di un'asprezza tale da mettere a repentaglio la sua stessa sanità mentale. Forse emise un grido di disperazione... non avrebbe saputo dirlo. Si rese conto in quel momento del terribile potere della verità e capì perché Bremen fosse così preoccupato per lui. Non aveva la forza per sopportare quell'esperienza, non aveva la risolutezza necessaria. La Spada di Shannara non era per lui. Era stato un errore, tenerla. Tuttavia non cedette interamente di fronte a ciò che gli veniva mostrato, nemmeno quando le immagini riguardarono Tay Trefenwyd e Preia Starle rivelando la profondità della loro amicizia. Si costrinse a guardare, ad accettare la verità, a scusarsi per la propria gelosia. Così facendo, sentì aumentare la propria forza. Si scoprì a pensare che forse quella era davvero un'arma da usare contro il Signore degli Inganni, creatura che aveva basato sull'illusione tutta la propria vita. Quale prezzo avrebbe dovuto pagare, Brona, quando avesse scoperto di essere fatto delle paure degli uomini, un miraggio che poteva svanire con un semplice cambiamento della luce? Forse era tanto deforme che in lui non rimaneva niente della sua natura umana, della sua carne e del suo sangue, delle sue capacità emotive e razionali. Forse per lui la verità era un anatema. Le immagini si affievolirono e la luce morì. Jerle Shannara vide l'aria davanti a sé schiarirsi e la scura sagoma del Signore degli Inganni materializzarsi ancora una volta. Quanto tempo aveva impiegato la magia per rivelarglisi? Da quanto tempo era lì impietrito? Ora la sagoma coperta dal mantello avanzò, diminuendo implacabilmente la distanza che li separava. La voce del Signore degli Inganni sibilò. Ondate di nausea colpirono in rapida successione il re degli Elfi, martellarono la fermezza dei suoi propositi, oltrepassarono la barriera della sua forza fisica per prosciugargli dal cuore il coraggio. Vieni a me. Vieni a me. Jerle Shannara si vide come una nullità, inerme davanti al mostro che doveva affrontare. Il potere del Signore degli Inganni era enorme e terrificante, tanto che nessun uomo avrebbe potuto prevalere su di esso. Un potere così immutabile che nessuna magia avrebbe potuto sconfiggere. La voce bisbigliava con insistenza. Deponi la spada. Vieni a me. Non sei nessuno. Vieni a me. Ma il re degli Elfi si era già visto ridotto alla propria essenza, aveva visto la parte peggiore di se stesso, e mentre il Signore degli Inganni gli si avvicinava, nemmeno la terribile disperazione da cui era straziato bastò a sviarlo. Ora non aveva paura della verità. Alzò davanti a sé la Spada, un lucido filo d'argento nel buio, e gridò: "Shannara! Shannara!". Calò la Spada, schiantando le difese del Signore degli Inganni, distruggendo la sua magia, penetrando nella figura avvolta dal mantello. Il Signore degli Inganni rabbrividì, cercò disperatamente di parare il colpo. Ma ora la luce della Spada pulsava nelle tenebre avviluppate dentro quel mantello e la verità che rivelava le squarciava. Il Signore degli Inganni indietreggiò di un passo, poi di un altro. Jerle lo incalzò, contrastato dalla furia e dall'odio che emanavano dall'avversario, ma implacabile nella sua determinazione. Il Signore degli Inganni sarebbe morto quel giorno. Le braccia nascoste dalla veste si protesero verso di lui e una mano scheletrica puntò il
dito, con fredda risolutezza. Come puoi giudicarmi? L'hai lasciata morire! L'hai abbandonata per questo scontro! L'hai uccisa! Jerle Shannara sobbalzò e vide le crude immagini di Preia Starle, inerme, distesa sul terreno, sanguinante e ferita, mentre un Messaggero del Teschio protendeva verso di lei gli artigli snudati. Moribonda per colpa mia, pensò Jerle, inorridito. Perché l'ho abbandonata. La voce del Signore degli Inganni incalzò. E il tuo amico, re degli Elfi. Alla Fauce Magna. E' morto per te! Hai lasciato che morisse per te! Jerle Shannara urlò d'angoscia e di rabbia. Mulinando la Spada come avrebbe usato un'arma normale, vibrò un fendente contro il Signore degli Inganni, facendo appello a tutte le sue forze. La Spada tagliò dall'alto in basso le vesti scure, ma la luce che emanava dalla lama tremolò, come colpita. Il Signore degli Inganni si accartocciò, la sua voce piena di odio si ridusse a un bisbiglio di disperazione, le vesti scure caddero in un mucchio. Dietro di lui rimase una presenza vaga che fuggì all'istante nella nebbia. Il re degli Elfi s'irrigidì nel silenzio e fissò l'aria davanti a sé, poi le vesti vuote, con occhi pieni d'incertezza e di domande senza risposta. Mareth era in piedi, da sola, in un tratto di terreno bruciato e annerito dalla sua magia. Alla fine il Fuoco Magico si era consumato e lei riusciva di nuovo a tenere a freno il suo potere. Cadaveri giacevano da ogni parte e un silenzio irreale era sospeso come un drappo funebre sul campo di battaglia. Scrutò la foschia e vide che iniziava a diradarsi. Si udiva un lungo, basso gemito di angoscia, una cacofonia di voci disperate. Dalla nebbia si levarono spettri privi di sostanza, scure immagini messe in risalto dall'ultima luce del giorno, informi e vaganti. Erano gli spiriti dei morti? Si levarono nel rosso del tramonto e scomparvero come se non fossero mai esistiti. I corpi dei Messaggeri del Teschio si mutarono in cenere, le creature infernali svanirono e i lupi fuggirono ululando nelle pianure deserte. E' finita, pensò Mareth, sbalordita e incredula. La nebbia ribollì, diventò più luminosa, svanì. Il campo di battaglia apparve in piena vista, un mattatoio disseminato di morti e feriti, insanguinati e ustionati e massacrati. Al centro c'era il re degli Elfi, con la spada abbassata e gli occhi fissi nel vuoto. Mareth raccolse il bastone perduto nella lotta. Allora vide Risca, disteso in mezzo a un grappolo di cadaveri di nemici. Aveva ricevuto tante ferite da avere gli abiti inzuppati del suo stesso sangue. C'era un'espressione di stupore negli occhi sbarrati: pareva sorpreso che il destino così spesso sfidato l'avesse infine reclamato. Quando era caduto? Non se n'era accorta. Guardò altrove. Kinson Ravenlock giaceva qualche passo dietro di lei: il suo petto si alzava e si abbassava debolmente. Poco più in là erano accovacciati Bremen e il fanciullo. Mareth incrociò lo sguardo del druido e per un istante rimasero a fissarsi. Pensò per quanto tempo e con quanta fatica l'aveva cercato, quanto avesse sacrificato per divenire lei stessa un druido e quale prezzo aveva dovuto pagare. Lei e Bremen. Erano il passato e il presente, il druido al crepuscolo e il druido in divenire. Tay Trefenwyd era morto. Risca giaceva lì, morto anche lui. Bremen era vecchio. Presto lei sarebbe stata l'ultima del loro ordine, l'ultima dei Druidi. Distolse lo sguardo da Bremen e raccolse il bastone. Lo strinse come se fosse appesantito dalla responsabilità di ciò che lei era e il suo sguardo vagò con disperazione sopra il campo di battaglia. Aveva le
lacrime agli occhi. Finisca pure qui, si disse. Gettò lontano il bastone e si chinò a prendere fra le braccia Kinson. 34 Quel giorno, Jerle Shannara salvò la vita della sua regina: infatti, sconfiggendo il Signore degli Inganni, sconfisse anche i Messaggeri del Teschio, compreso quello che minacciava Preia. Non potendo più attingere al potere del Signore degli Inganni, l'assalitore di Preia svanì, semplicemente. Preia si riprese dalle ferite e tornò con Jerle nelle Terre dell'Ovest. Insieme regnarono sul popolo degli Elfi per molti anni. Non combatterono altre battaglie perché non se ne presentò più la necessità. Invece dedicarono le proprie energie a imparare come si governa un mondo sempre più complicato ed esigente. Grazie ai consigli di Vree Erreden, riuscirono a padroneggiare l'arte di governare. Ebbero tre figlie e quando, molti anni dopo, Jerle Shannara morì, gli successe il maggiore dei Ballindarroch che avevano adottato. La discendenza di Shannara si moltiplicò e durò per più di duecento anni. La Spada di Shannara fu portata dal re fino alla morte. Il suo successore la portò per un certo periodo, poi dispose che fosse inserita in un blocco di pietra, portata a Paranor e conservata nella Fortezza dei Druidi. Kinson Ravenlock sopravvisse alle ferite e si riprese dopo settimane di convalescenza nell'avamposto di Tyrsis, appena fondato. Mareth rimase al suo fianco e si prese cura di lui; quando Kinson si fu ristabilito, andarono insieme a ponente, lungo il Mermidon, e si fermarono in un'isola boscosa all'ombra dei Denti del Drago, dove stabilirono la loro casa. Vissero insieme e dopo un certo tempo si sposarono. Coltivarono la terra, poi aprirono una stazione commerciale inaugurando così una via mercantile lungo il fiume. Altri lasciarono le Terre di Frontiera per unirsi a loro e ben presto si trovarono al centro di una fiorente comunità. Col passare degli anni l'insediamento sarebbe divenuto la città di Kern. Mareth non usò più la magia per la causa dei Druidi. Dedicò invece il proprio talento alla cura delle malattie e fu molto ricercata in tutte le Quattro Terre. Dopo il matrimonio prese il nome di Kinson e il suo venne dimenticato. Kinson si preoccupò a lungo per lei, pensando che la sua magia si sarebbe di nuovo scatenata, che avrebbe sopraffatto il suo proposito, ma questo non avvenne. Kinson e Mareth ebbero numerosi figli e, molto tempo dopo la loro morte, un loro discendente avrebbe avuto una parte di rilievo in un'altra battaglia contro il Signore degli Inganni. Raybur sopravvisse e tornò a casa insieme con i Nani per iniziare l'impegnativa impresa di ricostruire Culhaven e le altre città distrutte dall'esercito del Nord. Portò con sé la salma di Risca e la seppellì nei rifatti Giardini di Vita, in alto su un promontorio da dove si ammirava il Fiume Argento scorrere per miglia nelle foreste dell'Anar. L'esercito del Nord fu praticamente annientato, quel giorno nelle Streleheim. I Troll e gli Gnomi che avevano fatto in tempo a fuggire dalla Valle di Rhenn tornarono in patria. Il potere del Signore degli Inganni era infranto e le Razze a nord e a est iniziarono la dolorosa ricostruzione della loro vita distrutta. Le nazioni dei Troll e degli Gnomi, tribali per natura, si tennero separate dalle altre Razze e per un certo periodo ebbero con esse scarsi contatti. Trascorse
più d'un centinaio d'anni prima che fra vincitori e vinti si stabilisse di nuovo una forma di uguaglianza e i commerci riprendessero su una base di parità. Bremen scomparve subito dopo la battaglia finale. Nessuno lo vide andar via. Nessuno sapeva dov'era andato. Salutò Mareth e, per suo tramite, Kinson, ancora privo di conoscenza. Disse alla giovane che non si sarebbero più rivisti. In seguito corse voce che fosse tornato a Paranor per trascorrervi gli ultimi anni di vita. Kinson pensò qualche volta di mettersi alla sua ricerca per scoprire la verità, ma ogni volta lasciò perdere. Jerle Shannara lo vide ancora una volta, meno di un mese dopo la battaglia della Valle di Rhenn, a tarda notte e solo per pochi minuti, quando il vecchio andò ad Arborlon per portar via in gran segreto la Pietra Nera. Parlarono sottovoce del talismano, come se le parole risultassero insopportabili e la semplice menzione della magia nera atterrisse la loro anima. Dopo quella volta, più nessuno vide Bremen. Anche Allanon scomparve. A poco a poco il mondo tornò com'era prima e il ricordo del Signore degli Inganni svanì. Trascorsero tre anni. In un giorno di fine estate, tiepido e luminoso, un vecchio e un giovane risalirono le prime alture dei Denti del Drago diretti alla Valle d'Argilla. Bremen era raggrinzito e curvo per gli anni, aveva perduto l'agilità di movimenti e l'acutezza di vista. Allanon aveva quindici anni, si era fatto più alto e robusto, aveva spalle ampie, braccia e gambe lunghe e snelle e forti. Già si avvicinava all'età virile, cominciava a mostrare in viso l'ombra scura della barba e la voce gli era diventata bassa e profonda. Ormai era quasi pari a Bremen, nell'uso della magia druidica. Ma nell'ultimo viaggio insieme era il vecchio a fare strada e il giovane lo seguiva. Per tre anni Allanon si era addestrato alla scuola di Bremen. Il vecchio aveva accettato che alla propria morte gli succedesse e fosse l'ultimo dei Druidi. Tay e Risca erano morti, Mareth aveva scelto un'altra strada. Allanon era giovane, ma ansioso d'imparare e fin dal principio era stato chiaro che possedeva la determinazione e la forza necessarie per diventare ciò che doveva. In quei tre anni Bremen lavorò con lui ogni giorno, insegnandogli tutto ciò che sapeva della magia dei Druidi e dei segreti del loro potere, dandogli la possibilità di fare esperimenti e scoperte. Allanon era deciso in questo come in tutte le altre cose, quasi fin troppo risoluto, smanioso di riuscire. Era intelligente e intuitivo, inoltre la sua precognizione non diminuiva con la crescita. Di frequente vedeva ciò che a Bremen restava nascosto e con la sua acutezza mentale afferrava possibilità di cui perfino il vecchio druido non si era accorto. Si trattenne con Bremen a Paranor, lontano dal mondo, a studiare gli Annali dei Druidi e a sperimentare le lezioni riportate dagli antichi volumi. Bremen usò la magia per nascondere a tutti la loro presenza nella Fortezza abbandonata. Nessuno venne a disturbarli. Nessuno cercò d'intromettersi. Bremen rifletté spesso sul Signore degli Inganni e sugli eventi che avevano portato alla sua sconfitta. Ne parlò col giovane, informandolo di tutto ciò che era successo: la distruzione dei Druidi, la ricerca della Pietra Nera, la fabbricazione della Spada di Shannara, la battaglia per il Rhenn. Espose oralmente i particolari ad Allanon e poi li trascrisse negli Annali dei Druidi. Nel suo intimo si preoccupava del futuro. Cominciava a perdere le forze, si approssimava al termine della vita. Non avrebbe visto il completamento
del proprio lavoro: sarebbe toccato ad Allanon e a coloro che gli sarebbero succeduti Ma pareva davvero insufficiente! Non gli bastava augurarsi che il giovane e i suoi successori tirassero avanti senza di lui. La responsabilità era sua e sua era la mano indispensabile per il completamento dell'opera. Così quattro giorni prima aveva chiamato a sé il giovane e gli aveva detto che le lezioni erano terminate. Avrebbero lasciato Paranor e sarebbero andati al Perno dell'Ade per un'ultima visita agli spiriti dei morti. Prepararono le provviste e all'alba lasciarono la Fortezza. Prima di partire, Bremen evocò la magia che proteggeva le mura di Paranor e sigillava la rocca. Dalle profondità del Pozzo dei Druidi si levò l'antica magia che lì viveva, e sgorgò in un turbine di malevola luce verdastra. Prima che il giovane e il vecchio si allontanassero al sicuro, Paranor già luccicava dell'umida lucentezza di un miraggio, si liquefaceva lentamente nella luce del sole, scompariva nell'aria. Da quel momento sarebbe ricomparsa a intervalli regolari, a volte nella luminosità del mezzogiorno, a volte nel cuore della notte, ma non sarebbe mai durata. Il giovane rimase in silenzio, mentre giravano le spalle a Paranor e s'inoltravano fra gli alberi, ma il vecchio gli lesse negli occhi che aveva capito cosa accadeva. Al tramonto si avvicinarono all'ingresso della Valle d'Argilla e si accamparono all'ombra dei Denti del Drago. Cenarono in silenzio, mentre il buio s'infittiva e le stelle si accendevano, luminose. Verso mezzanotte si alzarono, andarono al limitare della valle e guardarono in basso la nera conca di ossidiana. Il Perno dell'Ade luccicava al chiarore delle stelle, placido e indisturbato. Nessun rumore giungeva dalla valle. Niente si muoveva sul suo terreno irregolare. "Stanotte ti lascerò" disse infine il vecchio druido. Il giovane annuì, ma restò in silenzio. "Sarò qui, quando avrai di nuovo bisogno di me." Esitò. "Per qualche tempo non accadrà, penso. Ma quando accadrà, sarà questo il posto dove tu verrài." Il giovane lo guardò, incerto. Notando la confusione nei suoi occhi, Bremen sospirò. "Devo dirti ora una cosa che non ho mai detto a nessuno, neppure allo stesso Jerle Shannara. Siedi qui accanto a me e ascolta." Si sedettero sul tappeto di roccia frantumata, solitarie figure messe in rilievo dal lucore delle stelle. Il vecchio rimase in silenzio per qualche momento, con aria preoccupata, cercando le parole giuste. "Jerle Shannara ha fallito il tentativo di distruggere il Signore degli Inganni" disse infine. "Quando ha esitato nell'usare la Spada, quando si è lasciato distrarre dal dubbio e dalla recriminazione, ha consentito a Brona di sfuggirgli. So del suo fallimento perché, pur indebolito per avere usato la magia, con l'occhio della mente ho seguito il re e ho assistito allo scontro. L'ho visto esitare all'ultimo momento, poi ho visto il suo tentativo di usare il talismano come un'arma normale, dimenticandosi dei miei ammonimenti a fidarsi soltanto della magia. Ho visto ombre tenebrose levarsi dalla nebbia, mentre gli abiti del Signore degli Inganni cadevano in un mucchietto sotto il colpo finale della Spada, e ho capito subito cosa significava. La magia aveva privato della loro sostanza il Signore degli Inganni e i suoi Messaggeri, li aveva costretti a diventare di nuovo spiriti tenebrosi e a fuggire nell'etere... li ha sconfitti e cacciati, ma non distrutti." Scosse la testa. "Non c'è motivo di rivelarlo al re. Non servirebbe a niente. Jerle Shannara è un campione coraggioso e pieno
di risorse. Ha superato i propri dubbi e la propria paura per usare la magia dei Druidi contro il più formidabile nemico nella storia delle Quattro Terre. L'ha fatto pur trovandosi nelle peggiori condizioni e nelle più dolorose circostanze; in tutti i modi, tranne uno, ha avuto successo nel realizzare ciò che da lui ci si aspettava. E' sufficiente che abbia sconfitto il Signore degli Inganni e l'abbia scacciato dalle Quattro Terre. E' sufficiente che la magia della Spada di Shannara abbia diminuito il potere del druido ribelle al punto che trascorreranno secoli prima che possa riprendere forma. Nello schema delle cose c'è tempo sufficiente per prepararsi al momento in cui ciò avverrà. Jerle Shannara ha fatto del suo meglio, e penso che tu debba lasciare le cose come stanno." I suoi occhi invecchiati si posarono su Allanon. "Ma tu devi essere al corrente del suo fallimento, perché sei colui che deve stare attento alle conseguenze. Brona è ancora vivo e un giorno tornerà. Io non ci sarò per affrontarlo. Dovrai farlo tu al posto mio... se non tu, un altro come te, uno che tu sceglierai come io ho scelto te." Seguì un lungo silenzio, mentre si fissavano nella morbida oscurità che tutto avvolgeva. Bremen scosse la testa, con aria d'impotenza. "Se ci fosse un altro modo, lo sceglierei." Si sentiva a disagio, parlandone, come se cercasse una scusa per cambiare idea pur sapendo che non l'avrebbe cambiata. "Mi piacerebbe restare ancora con te, Allanon. Ma sono vecchio e mi accorgo di diventare ogni giorno più debole. Mi sono mantenuto integro finché ho potuto, ma il Sonno Magico non basta più. Devo assumere un'altra forma, per esserti utile. Capisci cos'ho detto?" Il giovane lo fissò. "Capisco" rispose. Esitò e cambiò espressione. "Sentirò la tua mancanza, padre." Il vecchio annuì. Ora il giovane lo chiamava così. Padre. Il giovane l'aveva adottato come padre e pareva giusto che l'avesse fatto. "Anch'io sentirò la tua mancanza" rispose piano. Continuarono a parlare di ciò che sarebbe accaduto, del passato e del futuro e dell'inestricabile legame che univa l'uno all'altro. Condivisero i ricordi del loro periodo insieme, ripeterono i giuramenti fatti, elencarono le lezioni che avrebbero avuto importanza negli anni a venire. Poi, mentre la notte si consumava e l'alba si avvicinava, entrarono insieme nella Valle d'Argilla. Col rinfrescarsi dell'aria si era formata una nebbiolina che ora copriva come un sudario la vallata, ammantandola di un'oscurità scintillante, schermando l'argentea luce delle stelle. I loro stivali facevano scricchiolare i sassi e i loro cuori battevano per l'eccitazione. Sentivano il calore emanato dai loro corpi, mentre faticavano per discendere il pendio della vallata e poi ne percorrevano il fondo, diretti al lago. Il Perno dell'Ade luccicava come ghiaccio nero, liscio e immobile. Neppure la più piccola increspatura segnava la superficie simile a specchio. Quando furono a tre passi dal bordo scuro, Bremen estrasse dalla veste la Pietra Nera e la diede al giovane. "Tienila al sicuro per quando tornerai alla Fortezza" lo ammoni. "Non dimenticare ciò che ti ho detto sul suo potere. Sii prudente." "Te lo prometto" gli assicurò Allanon. E' così giovane, pensò a un tratto il vecchio druido; gli chiedo di assumersi un compito enorme e lui è così giovane. Suo malgrado fissò Allanon, come per scoprire qualcosa che gli era sfuggito, qualche particolare del suo carattere che potesse rassicurarlo. Poi gli girò le spalle. Aveva fatto il possibile per prepararlo. Doveva bastare. Andò da solo al bordo del lago e fissò
le acque scure. Chiuse gli occhi, chiamò a raccolta le proprie energie per ciò che andava fatto e usò la magia dei Druidi per evocare gli spiriti dei morti. Gli spiriti giunsero in fretta, come se prevedessero la sua chiamata, come se l'avessero attesa. I loro gemiti si levarono nel silenzio, la terra tremò e l'acqua ribollì come in una caldaia posta sul fuoco. Il vapore sibilò e voci bisbigliarono e gemettero nelle buie profondità. A poco a poco gli spiriti spuntarono dalla nebbiolina e dagli spruzzi dal mulinello di tenebra, dal clamore di gemiti dolorosi. A uno a uno comparvero, prima le minuscole e argentee sagome degli spiriti minori, poi quella più grossa e scura di Galaphile. Allora Bremen si girò e guardò il punto dove Allanon aspettava. Vide in quell'istante i particolari della quarta visione di Galaphile, quella che per tanto tempo non aveva capito: se stesso fermo davanti alle acque del Perno dell'Ade; l'ombra di Galaphile che s'appressava tra la nebbia e il turbinio degli spiriti perduti; e Allanon che assisteva alla scena, con occhi colmi di tristezza. L'ombra avanzò con decisione: una presenza implacabile, più nera della notte in cui si muoveva. Camminò sopra le acque come su solido terreno, avanzò verso il punto dove Bremen aspettava. Il vecchio, irrigidito e consumato nel corpo, protese la mano per salutare lo spirito. "Sono pronto" disse piano. L'ombra lo prese fra le braccia e lo portò con sé sulle acque del Perno dell'Ade e poi giù, nelle profondità del lago. Allanon rimase solo sulla riva a guardare in silenzio. Non si mosse, mentre l'acqua tornava immobile. Rimase lì, anche quando il buio cominciò a svanire e il sole fece capolino dalle creste dei Denti del Drago. Sotto le vesti scure stringeva con forza la Pietra Nera. Il suo sguardo era duro e deciso. Quando il sole salì scacciando dalla valle le ultime ombre, girò le spalle al lago e si allontanò. Fine testo.