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PETER MAY IL QUARTO SACRIFICIO (The Fourth Sacrifice, 2000) a Carol Prologo Ormai sa che deve morire e si sente, in qualche modo, sollevato. Niente più lunghe notti solitarie e sogni tormentosi. Può liberarsi dei pensieri cupi che si è portato addosso per tutta la vita come un carico che lo costringeva a curvarsi, a vacillare, a piegare le ginocchia. La consapevolezza che la morte è quasi a portata di mano non è priva di paura, ma la paura si è ritratta per effetto della droga e ora se ne sta nascosta nell'inconscio. È solo vagamente consapevole di ciò che ha intorno e che gli è stato familiare negli ultimi mesi: le pareti spoglie e scrostate, l'intelaiatura delle finestre arrugginita, la biancheria stesa ad asciugare nella veranda, al di là della porta con la zanzariera. C'è ancora, nell'aria, un odore stantio di cucina e, ogni tanto, una zaffata acre di fogna che sale dagli scarichi nella strada, quattro piani più sotto, soprattutto quando piove, come adesso. Le gocce di pioggia battono contro i vetri, velano le luci accese negli appartamenti della casa di fronte, sembrano le lacrime che gli scendono, calde e salate, sulle guance. Solo adesso si lascia sopraffare e travolgere dalla tristezza. Ma è così inutile! La sua vita, la vita dei suoi genitori e, prima ancora, quella dei loro genitori: che significato hanno avuto? A che cosa sono servite? Ora sente mani rudi che lo costringono a mettersi in ginocchio, una corda gli viene passata sopra la testa. Intravede, in un flash, le lettere rosse sul cartello bianco che gli cala davanti agli occhi e gli resta appeso al collo. Gli legano le mani dietro la schiena, riconosce la consistenza della seta che gli stringe e illividisce i polsi. A dispetto della droga, la paura riaffiora, sale in gola come bile. Un lampo di luce nel buio mentre una mano gli spinge la testa in avanti e poi in basso. Inutile opporre resistenza. Tutto è inutile, anche il rimpianto. Ma la lama è lì; grande, spaventosa e proietta un'ombra sulla sua coscienza, cerca di farsi spazio insieme alla paura. Sa che c'è qualcuno alla sua destra e vede l'ombra della lama che si alza e si riflette sul linoleum chiaro. Deglutisce e si chiede se proverà dolore. È bravo il suo carnefice? Chissà se il cervello smette di funzionare nell'istan-
te in cui la testa si stacca dal corpo. Sente il sibilo della lama e prende l'ultima boccata d'aria. No, nessun dolore; se ne rende conto quando per un istante, prima del buio, la stanza gli gira intorno in un vortice e due spruzzi di sangue sgorgano, simultanei, dalla strana visione del suo corpo senza testa che crolla in avanti. Ma non potrà raccontarlo a nessuno. Sono tante le cose che non potrà mai raccontare. CAPITOLO PRIMO 1 Gocce di pioggia cadevano come lacrime dal cielo plumbeo di Pechino. "Ironia della sorte" pensò Margaret, visto che le sue lacrime si erano asciugate da molto tempo. Affacciata al balcone del sesto piano, vedeva, attraverso le cime degli alberi del parco di fronte, un piccolo padiglione riflettersi sulla superficie del lago. Al di sopra del fragore del traffico e delle voci dei venditori di pellicce della via sottostante, udì il lamento di un violino pizzicato e le malinconiche inflessioni di una voce femminile che cantava un'aria dell'Opera di Pechino. Rientrò in camera e s'infilò un soprabito leggero sopra la camicetta e i jeans. Aveva scelto quell'albergo perché era vicino all'ambasciata americana e non per via di quel parco al di là della strada. Così aveva detto a se stessa. Ma il parco Ritan era il suo ultimo legame con lui. Un luogo dove la morte di un uomo li aveva dapprima uniti e poi costretti a separarsi. Un'altra sconfitta, in una vita che le aveva riservato tante delusioni. Prese l'ombrello e si chiuse la porta alle spalle, decisa finalmente a mettere in atto un proposito che aveva rimandato troppo a lungo. Al quarto piano l'ascensore si fermò e salì una signora anziana, troppo truccata e con i capelli laccati, duri e lucidi come l'ottone. Margaret vide che sulla giacca del tailleur azzurro portava una targhetta con il nome: Dot McKinlay. Margaret ne fu sorpresa. Il Ritan Hotel, di solito, era frequentato non da americane, ma da russe, mogli di commercianti, ricche, non molto raffinate, ansiose di spendere i loro rubli prima che il tasso di cambio scendesse ancora. La signora con il tailleur azzurro accennò a un sorriso. «Lei da dove viene?» chiese con accento strascicato. «Dal sesto piano» rispose Margaret con gli occhi fissi sull'indicatore luminoso sopra le porte dell'ascensore, come se fosse possibile accelerare il
conto alla rovescia dei piani. Ma Dot rise di cuore, come se la battuta l'avesse divertita. «Mi piacciono le persone spiritose» disse. «Lei viene dal Nord, scommetto. Noi, invece, siamo del Sud, della Louisiana. Più a sud di noi c'è solo il Golfo del Messico.» Rise di nuovo, come per dimostrare che la gente del Sud sapeva essere spiritosa quanto quella del Nord. «Sono con un gruppo di amiche. Ci chiamano le "Nonne itineranti". Abbiamo viaggiato dappertutto. Ma che sfortuna capitare in Cina proprio durante la crisi del riso! Non le fanno venire la nausea questi spaghetti?» Si chinò verso Margaret e aggiunse in tono confidenziale: «Se avessi saputo che questo albergo era pieno di marmaglia russa, avrei prenotato da un'altra parte». Annuì con enfasi. «Però è bello sapere che abbiamo una connazionale a bordo. Anche se viene dal sesto piano!» Rise. «Perché non beviamo qualcosa tutte insieme, stasera?» «Purtroppo non posso. Parto domani.» Dot stava per esprimere il suo disappunto quando le porte dell'ascensore si aprirono al pianterreno e Margaret si affrettò a superare un gruppo di una dozzina di anziane signore, tutte con il nome scritto su un cartellino appuntato al vestito. Sentì che Dot le salutava con un: «Ehi, non indovinerete mai chi ho...». No, pensò Margaret mentre apriva la porta a vetri sulla strada bagnata dalla pioggia calda e appiccicosa, non lo avrebbero mai indovinato. Nemmeno in un milione di anni. Al cancello, le due guardie le rivolsero un'occhiata poco cordiale, mentre apriva l'ombrello. Fino a quindici giorni prima i giornalisti occidentali erano appostati vicino all'ingresso, in attesa di scattarle qualche foto o di farle un'intervista. Le guardie in uniforme scura assoldate dall'albergo erano state costrette a svolgere con serietà il loro compito, invece di starsene sedute tutto il giorno a fumare con aria di importanza, e per questo non provavano molta simpatia per lei. Fu costretta a passare in mezzo ai chioschi dei venditori di pellicce. Alcuni provarono ad attirare la sua attenzione nella speranza che fosse russa e volesse comprare uno dei loro capi appesi sotto le tettoie gocciolanti di pioggia. Ma i più ormai la conoscevano e, senza degnarla di uno sguardo, rimasero seduti sui loro sgabelli, con le braccia incrociate, sorseggiando tazze di tè verde, fumando sigarette dall'odore acre e lanciando ogni tanto qualche rumoroso sputo sul marciapiede. Ovunque, lì intorno, i nomi dei negozi e dei ristoranti erano scritti in cirillico. Solamente la presenza di tante facce cinesi indicava che non ci si trovava in uno squallido quartiere di Mosca. Qualcuno aveva acceso un
braciere per prepararsi in anticipo il pranzo e il fumo si mescolava alla foschia e alla pioggia. Margaret stava per imboccare una corsia riservata alle biciclette, ma una raffica di scampanellate la dissuase appena in tempo. Occhi orientali la fissarono, da sotto i cappucci delle mantelline lucide di pioggia. Lei si afferrò alla ringhiera che correva lungo il marciapiede, presa da una momentanea vertigine. Respirò profondamente e riacquistò l'equilibrio. Di lì a poco avrebbe dovuto affrontare un passo per lei molto difficile. Per ritardare il momento - anche se non avrebbe mai ammesso che stava temporeggiando - scelse la strada che attraversava il parco, ma fu un errore, che suscitò in lei ricordi e rimpianti. Passò accanto a gruppetti di ragazzi bagnati di pioggia che praticavano il tai ji quan sotto gli alberi e uscì dal cancello a sud. Di nuovo scelse un itinerario tortuoso, lungo la Guanghua e poi giù, per la Via della Seta, oltre l'ufficio visti dell'ambasciata americana. Alcune donne con la mascherina bianca e il grembiule azzurro spazzavano le foglie bagnate dai canali di scolo lungo il marciapiede. Venditori ambulanti dall'aria triste stavano seduti sotto gli alberi accanto alle loro bancarelle deserte, visto che la pioggia teneva lontani i turisti. Una ragazza con i capelli cortissimi si avvicinò speranzosa a Margaret. «Vuole un CD? Guardi, ho quelli appena usciti.» Margaret scosse la testa e affrettò il passo. Un uomo dalla corporatura minuta, con un vestito scuro e la camicia bianca, le chiese se volesse cambiare dei dollari. «No!» rispose lei bruscamente e si allontanò in fretta lungo la Xiushuibie. Basta, era inutile rimandare. Oltrepassò l'ufficio consolare dell'ambasciata bulgara, la sezione commerciale degli Stati Uniti e si fermò davanti al San Ban, il terzo edificio dell'ambasciata americana, la Cancelleria. Si affacciò sulla soglia della guardiola e incontrò subito lo sguardo diffidente di una guardia cinese. «Margaret Campbell» annunciò. «Ho un appuntamento con l'ambasciatore.» Un marine in alta uniforme la squadrò con sguardo impassibile da dietro il riquadro di vetro dell'ingresso principale della Cancelleria. Poi una giovane asiatica apparve sulla porta alla sua sinistra. «Si accomodi» la salutò con un sorriso, facendola entrare. Margaret sentì la porta elettronica richiudersi alle sue spalle, mentre la ragazza le porgeva la mano. «Buongiorno. Mi chiamo Sophie Daum. Mi occuperò io di lei.»
«Come, prego?» Margaret la guardò, dubbiosa. Minuta, con i capelli neri corti, gli occhi graziosamente a mandorla, i lineamenti marcati ma gradevoli, aveva l'aria di essere appena uscita dalle scuole superiori. «Che ne è stato del responsabile della sicurezza?» «Jon Dakers? È molto impegnato in questi giorni. Io sono la sua nuova assistente.» «Un nome piuttosto insolito per una sino-americana.» «Vietno-americana. Sono stata adottata da una famiglia californiana molto all'antica e di consolidata ricchezza.» Guidò Margaret su per una rampa di scale, dov'erano appesi i ritratti degli ambasciatori americani in Cina. «Forse lei pensa che sia troppo giovane per questo incarico. Lo pensano tutti.» Cercava di essere disinvolta, vivace, ma Margaret avvertì una punta d'insicurezza nella sua voce. «Niente affatto. Scommetto che ha già preso la licenza elementare.» Si pentì subito di averla presa in giro e aggiunse: «Le chiedo scusa. Mi trova in una giornata difficile». Sophie si fermò e si voltò verso di lei. «Dottoressa Campbell,» disse, senza più sorridere e con lo sguardo freddo e duro «non intendo essere maleducata, ma ho ventitré anni, una laurea in Criminologia e faccio parte del personale addetto alla sicurezza del segretario alla Difesa. Sono cintura nera di tae-kwon-do e potrei farla ruzzolare per le scale a calci. Non m'interessano le sue giornate difficili, ne ho a sufficienza delle mie.» «Ci credo, ci credo» si arrese Margaret. «A quanto pare ha abbastanza giornate difficili da riempire una settimana. La sindrome premestruale può essere una gran brutta bestia.» Margaret fu sorpresa di vedere il viso di Sophie aprirsi in un sorriso, suo malgrado. «Può darsi, in ogni caso sono qui da un mese e la gente non fa che ripetermi che ho l'aria di una che ha appena finito le scuole superiori. È già abbastanza sgradevole quando il commento viene dagli uomini, senza che ci si mettano anche le donne.» «E ha minacciato anche gli uomini di farli ruzzolare per le scale a calci?» «No. Solo lei.» «Lo prenderò come un complimento.» Sophie rise; ormai tra lei e Margaret si era stabilito un clima di complicità. Aprì la porta a vetri dell'ufficio antistante quello dell'ambasciatore. Alla loro destra, la segretaria del vice stava parlando al telefono. A sinistra, la scrivania della segretaria dell'ambasciatore era vuota e lei stava uscendo in
quel momento dall'ufficio del capo. «Prego,» disse, tenendo aperta la porta «l'ambasciatore vi aspetta.» Margaret seguì Sophie. Il rumore dei loro passi era attutito dalla moquette. La stanza era molto grande, con il soffitto alto, le finestre ampie, una scrivania spaziosa e lucida di fronte alla porta. Dietro la scrivania la bandiera degli Stati Uniti pendeva da un'asta. Margaret era stata spesso in quell'ufficio e ogni volta ne rimaneva affascinata. Alle pareti erano appese fotografie dell'ambasciatore con il presidente degli Stati Uniti e la sua famiglia. Si diceva che fossero amici da prima di entrare in politica. C'era anche una fotografia del presidente nel giorno in cui era stato eletto: sorrideva, lo sguardo rivolto al cielo, appagato dalla prospettiva del potere assoluto. Da assaporare e godere. A sinistra c'erano un divano e alcune poltroncine intorno a un tavolino basso e, alla parete, non fotografie, ma quadri presi in prestito da una galleria d'arte statunitense. Una fila di mobiletti cinesi sostituiva i comuni schedari da ufficio. Accanto all'ambasciatore, che era senza giacca, c'era un uomo più giovane, con un vestito blu dal taglio impeccabile, che si alzò per salutarle. «Margaret!» L'ambasciatore fece un rapido cenno di saluto con la testa. Era un uomo attraente con i capelli scuri. Per quasi vent'anni aveva ricoperto la carica di senatore ed era chiaro che preferiva l'atmosfera rarefatta dell'alta politica alla posizione che occupava in quel momento, a un livello più mondano e concreto. «Conosce il primo segretario, Stan Palmer, vero?» «Certo» rispose Margaret. Dopo lo scambio di strette di mano, si misero tutti a sedere. Il primo segretario versò nelle tazze il caffè che era appena stato portato su un vassoio. L'ambasciatore si appoggiò allo schienale e rivolse a Margaret uno sguardo incuriosito. Lei appariva stanca, più vecchia dei suoi trentadue anni, gli occhi azzurro chiaro erano affaticati e opachi, i capelli biondi le ricadevano sulle spalle in grandi onde senza vita. «E così ha deciso» disse l'ambasciatore. «Sì, voglio tornare a casa, signor ambasciatore.» «Quando?» «Domani.» «Così, all'improvviso?» «È da tanto che ci penso.» Il primo segretario si protese appena verso di lei e le chiese: «Lo ha det-
to ai cinesi?». Aveva un tono distaccato, sprezzante. Margaret esitò. «Speravo che l'avreste fatto voi.» L'ambasciatore aggrottò la fronte. «Perché? Ci sono difficoltà?» Margaret scosse la testa. «No, è che io... sono stanca. Voglio andare a casa.» «Avrebbe potuto partire dieci settimane fa, lo sa benissimo.» Il tono dell'ambasciatore era vagamente accusatorio. «Subito dopo che abbiamo ottenuto il suo rilascio.» «Sì, certo» convenne Margaret. «Invece ho scelto di rimanere e di collaborare con loro. In quel momento mi pareva la decisione più giusta. Non ho cambiato idea. Ma ho passato una notte dopo l'altra seduta da sola in una camera d'albergo a guardare la CNN e un giorno dopo l'altro a lasciare che m'interrogassero sempre sulla stessa vecchia storia.» S'interruppe perché, per la prima volta, le si era affacciato alla mente un dubbio terribile. «Sono libera di andarmene, vero?» «Per quanto mi riguarda, sì.» L'ambasciatore si piegò in avanti e, con fare rassicurante, le posò una mano sul braccio. «Margaret, lei ha fatto più di quanto le sarebbe spettato. Più di quanto loro avessero il diritto di chiederle.» Si girò verso il primo segretario. «Stan, parlerà con i cinesi, vero?» «Sì, signor ambasciatore.» Ma Stan non era affatto contento di quell'incarico, come ebbe modo poi di far capire, mentre scendevano le scale. Non gli piaceva fare il galoppino. Ignorando completamente Sophie, la cui presenza evidentemente riteneva del tutto irrilevante, si rivolse a Margaret. «Dunque...» disse «sono cadute tutte le accuse contro il suo poliziotto cinese.» Si passò una mano tra i capelli biondi, radi e perfettamente curati. «Ah, sì?» Margaret ostentò indifferenza. «Non lo sapeva?» Stan si finse sorpreso. «Innanzitutto, non è il mio poliziotto cinese» mise in chiaro Margaret, irritata. «E poi, non mi è stata fatta nessuna comunicazione ufficiale dalle autorità.» «Allora non ha più avuto nessun contatto con lui?» «Nessuno. E non intendo averne.» Suo malgrado, Margaret non riuscì a evitare che il dolore e la collera le alterassero la voce. Stan se ne accorse subito. «Davvero? Strano.» Sorrise. «Correva voce che foste molto... come dire... amici.» «Davvero? Mi sorprende che, nella sua posizione, lei perda tempo ad ascoltare simili pettegolezzi. E, quel che è peggio, a darvi credito.»
«Ah, è qui che si sbaglia, Margaret.» Il tono di Stan era piatto e uniforme. «Il pettegolezzo è la linfa vitale dell'ambasciata. Altrimenti, come potremmo sperare di essere informati su quanto accade intorno a noi? Diplomatici e politici non si dicono mai reciprocamente la verità, non è vero?» Le strinse la mano. «Le auguro un buon ritorno a casa» concluse, e scomparve nel silenzio ovattato dell'edificio. «Stronzo» mormorò Sophie. «Se n'è accorta anche lei?» chiese Margaret con una risatina amara. «Se avessi il suo talento per le arti marziali, ne avrei approfittato.» «Credo proprio che prima o poi seguirò il suo suggerimento.» Condivisero un momento di allegria giovanile e per Margaret fu un sollievo, una boccata d'aria fresca dopo settimane, mesi di mortale serietà. Il marine premette un pulsante e la porta si apri con uno scatto. Sophie uscì con Margaret sui gradini. «Cosa fai stasera?» le chiese, passando istintivamente al "tu". «Oltre a preparare le valigie e a guardare la CNN?» «Sì, oltre a questo.» «Non molto, ma dovrei controllare sulla mia agenda degli impegni mondani. Perché me lo chiedi?» «C'è un ricevimento alla residenza dell'ambasciatore in onore di Michael Zimmerman.» «Chi è?» Sophie fece una smorfia di incredulità. «Come? Non sai chi è Michael Zimmerman?» Margaret scosse la testa. «Dove sei vissuta negli ultimi cinque anni? Alla televisione guardi solo i notiziari?» «Veramente sì, da molto tempo.» Margaret non riusciva a ricordare quando fosse stata l'ultima volta che aveva visto qualcosa di diverso da un notiziario in una camera d'albergo cinese. «Allora, chi è Michael Zimmerman?» «L'uomo più sexy del mondo, almeno secondo un sondaggio tra le lettrici di "Cosmopolitan".» «Credevo fosse Mel Gibson.» «Sei rimasta un po' indietro.» Non pioveva più e si avviarono senza fretta verso l'uscita. «Michael Zimmerman è un archeologo.» «Un archeologo? Un archeologo sexy? Ma chi è? La controfigura di Indiana Jones?»
Sophie sorrise con aria sognante. «L'hai detto. Ha girato una serie di documentari per la NBC, illustrando grandi scoperte archeologiche in tutto il mondo. Ha ottenuto un indice di ascolto superiore ai polizieschi di successo.» Margaret era scettica. «Il grande pubblico americano finalmente scopre la cultura. Qual è il segreto?» «Ha un dono particolare... Non so come, ma riesce a dare vita a tutto quello che tocca.» S'interruppe e rimase pensierosa per un momento. «E poi ha un culo da urlo.» Margaret assentì, seria. «Quando si tratta di cultura, non è indispensabile, ma aiuta.» Entrò nella guardiola, ritirò la borsa e l'ombrello e uscì sul marciapiede. Sophie le camminava accanto. «Come mai l'ambasciatore dà un ricevimento per lui?» le chiese Margaret. «È un party promozionale. Domani cominciano le riprese nella zona delle tombe Ming, alle porte di Pechino. Una nuova serie di documentari su uno dei più venerati siti archeologici cinesi. Io non l'avevo mai sentito nominare, ma qui è famosissimo. I cinesi si stanno prodigando per facilitare le riprese ed è logico che l'ambasciatore faccia la sua parte.» «C'è Zimmerman dietro questi documentari?» «Sì, la casa di produzione è sua. Allora, vuoi venire? Posso farti recapitare l'invito in albergo.» Margaret ci pensò un momento. Non avrebbe impiegato molto tempo a preparare le valigie e non le si sarebbe spezzato il cuore a rinunciare al servizio in camera e alla CNN. «Va bene, perché no?» disse. «Verificherò se il sedere del signor Zimmerman è all'altezza della sua fama.» Margaret lasciò Sophie davanti agli uffici consolari, grata del fatto che non le avesse rivolto la domanda con cui tutti ultimamente la perseguitavano. Si inoltrò nella stradina del mercato, passò accanto a pezze di seta e a rastrelliere cariche di vestaglie, abiti e camicie e arrivò fino alle sei corsie della Jianguomenwei che si apriva nella parte centrorientale della città come un'enorme ferita. Qui, i futuristici grattacieli di vetro e marmo svettavano sopra il traffico ruggente nella nube di smog che gravava sui resti sgretolati di una città che stava per scomparire: gli hutong e i siheyuan dove la strada e la vita familiare si mescolavano; la vera Pechino, che rischiava di essere spazzata via dalla marea del successo finanziario, generato da una nuova devozione all'economia del libero mercato.
Non sapeva dove stesse andando e nemmeno che cosa desiderasse fare, era solo certa di non voler tornare in albergo. Provava il desiderio, il bisogno di assorbire dentro di sé, per l'ultima volta, il significato di quella città, di lasciarsene sommergere, di sentirne il vigore vitale. Si rese conto, con dolore, che le sarebbero mancati gli sguardi della gente, i paesaggi, i suoni, gli odori, nonostante l'inquinamento, il traffico, le grida, gli sputi. Ma sapeva che niente di tutto ciò avrebbe avuto senso senza l'uomo che gliel'aveva fatta conoscere e amare. Perché lui non l'aveva cercata? Soffriva e si sentiva piena di rabbia. Non le aveva telefonato, né aveva scritto una lettera. Sapeva che era stato rilasciato, anche se non aveva voluto ammetterlo con il primo segretario. Durante uno degli interminabili interrogatori, le era stato detto che lui era stato reintegrato. Si era aspettata che la cercasse e, per questo, non aveva fatto alcun tentativo di partecipare alla vita sociale che si svolgeva all'ambasciata, nonostante avesse ricevuto numerosi inviti. Era rimasta in albergo, una sera dopo l'altra, ad aspettare una telefonata che non era mai arrivata. Una volta aveva persino chiamato la Prima Sezione del Dipartimento di Investigazione criminale, in via Dongzhimen, e aveva chiesto, in inglese, di parlare con il vicecaposezione Li Yan. Le era sembrato che la richiesta avesse suscitato un po' di disorientamento all'altro capo del filo. Alla fine, qualcuno che parlava un inglese stentato le aveva chiesto il suo nome e poi aveva risposto che il vicecaposezione Li Yan in quel momento era occupato. L'autobus numero 4 apparve in mezzo alla foschia e Margaret si affrettò, con i cinesi in coda alla fermata, a salire e a dare i suoi cinque fen alla bigliettaia che le lanciò un'occhiata sospettosa. Gli yangguizi, i diavoli stranieri, non prendevano mai l'autobus. Margaret, aggrappata al corrimano in alto, finse di non vedere quelle facce che la guardavano con sfrontata curiosità. Era strano, pensò, sentirsi così soli in una città di undici milioni di abitanti. Scese vicino al Grand Hotel Pechino, dal quale i giornalisti occidentali avevano guardato i carri armati attaccare gli studenti durante le dimostrazioni in piazza Tien-An-Men, undici anni prima. Attraversò il sottopassaggio e si trovò sull'altro lato della Chang'an Est. Era una stupidaggine, lo sapeva, una cosa inutile, che poteva solo acuire la sua sofferenza, e tuttavia i suoi passi la portarono all'angolo della Zhengyi Daije. Prese il controviale alberato, lontano dal traffico della strada principale. Alla sua destra, il palazzo del ministero della Pubblica sicurezza, nascosto dietro un alto muro
di pietra, occupava la vecchia sede dell'ambasciata britannica. Più avanti, al di là degli alberi, di un verde ancora brillante all'inizio dell'autunno, c'erano le case destinate agli agenti di polizia di grado più alto. Non si sentiva bene, aveva un groppo in gola, come se avesse inghiottito un boccone che non riusciva a mandar giù. Riconobbe subito l'appartamento di Li Yan, al secondo piano, le tre stanze che aveva diviso con lo zio. Sorrise al ricordo della notte che avevano passato in quella casa, quando non avevano fatto l'amore perché lei aveva bevuto troppo. Si ricordò del vagone ferroviario freddo, umido, su un binario di raccordo, nel Nord, quando finalmente si erano confessati reciproco amore. Quando erano tornati a Pechino per spiegare il motivo dell'uccisione di tre uomini e liberare Li Yan dalle accuse mossegli da gente spaventata, lui le aveva detto di aspettarlo, ripetendole che l'amava. E lei lo aveva aspettato. E ancora aspettava. Si asciugò le lacrime e si rese conto che la guardia al cancello stava osservando con stupore quella yangguizi bionda e con gli occhi azzurri, che piangeva sul marciapiede, guardando un anonimo condominio. Si allontanò in fretta. Stava solo perdendo tempo. Sarebbe partita l'indomani mattina. Il suo passato era carico di dolore. Poteva solo guardare avanti. Un piccolo taxi rosso passava lentamente sull'altro lato della strada. Lei lo fermò con un cenno, attraversò e salì. «Ritan fandian» disse all'autista, e per un attimo si stupì che lui avesse capito subito. Poi fu invasa da una grande tristezza. C'era voluto molto tempo perché la Cina, la lingua, la gente le penetrassero nell'anima. E adesso tutto questo non serviva più. Mentre il taxi tornava verso la Chang'an Est, un cinese alto, con le spalle larghe e i capelli molto corti uscì in bicicletta dall'edificio davanti al quale Margaret si era fermata poco prima. Indossava una camicia bianca con il colletto aperto infilata dentro un paio di pantaloni scuri. Si fermò un momento e si frugò in tasca. Poi, rivolto alla guardia, chiese: «Ha una sigaretta, Feng?». La guardia parve imbarazzata. Gli altri agenti non gli rivolgevano mai la parola; anzi, non sapevano nemmeno come si chiamasse. «Sì, certo, vicecaposezione» rispose poi, estraendo dalla tasca un pacchetto quasi pieno. «Ecco, lo prenda, ne ho altri.» Li Yan accettò e sorrise. «Gliene porterò uno nuovo stasera, al mio rientro.» «Non importa.» Li Yan sorrise di nuovo. «Importa, eccome! Mio zio mi ha insegnato che
un debito è un peso che ci si porta sulle spalle. Arrivederci a stasera.» Accese una sigaretta e si allontanò pedalando, ignaro, sulla scia del taxi di Margaret. 2 Era quasi buio quando Margaret oltrepassò il cancello di sicurezza dell'Yi Ban, il primo edificio dell'ambasciata americana, sulla Guanghua, a ovest del parco Ritan. A destra c'erano l'amministrazione, l'ufficio stampa e il Dipartimento della Cultura. Sul tetto più basso, una grande antenna parabolica era orientata verso sud-ovest. Poco più avanti, al termine di un vialetto asfaltato, tra aiuole perfettamente curate e salici piangenti, si trovava la residenza dell'ambasciatore, una palazzina semplice, a due piani, con un tetto di tegole marroni. La bandiera a stelle e strisce sventolava nel vento leggero della sera. Mentre era ancora in strada, Margaret aveva sentito l'eco malinconica della musica tradizionale cinese; ora, avvicinandosi alla porta d'ingresso rossa a due battenti, poté vedere i musicisti: erano tre uomini e due donne e suonavano su una terrazza illuminata. L'ambasciatore le andò incontro accompagnato dalla moglie, una statuaria bellezza di mezza età. Margaret non la conosceva e l'ambasciatore fece le presentazioni. «Ah, sì» disse la donna, guardando Margaret con curiosità. «La signora del riso! Ho tanto sentito parlare di lei.» L'ambasciatore capì che Margaret era imbarazzata e, temendo l'imprevedibilità delle sue reazioni, si affrettò a condurla lungo un fresco corridoio dal pavimento di marmo, al termine del quale un'ampia scalinata con una passatoia verde portava al piano superiore, dove la famiglia aveva i propri appartamenti privati. A sinistra c'erano un guardaroba e una camera per gli ospiti. Sulla destra, al di là di un arco dalla linea moderna, si sentiva un brusio di voci rese più disinvolte dall'alcol, che aveva già sciolto l'inevitabile imbarazzo di inizio serata. Dal guardaroba, Margaret vide l'ambasciatore scambiare rapidamente qualche parola con la moglie. Forse la stava redarguendo per il comportamento assai poco diplomatico di prima. Qualunque cosa le avesse detto, lei parve non darvi troppa importanza e raggiunse gli ospiti nella sala centrale. Impassibile, l'ambasciatore offrì il braccio a Margaret e la guidò, lungo folti tappeti cinesi, fino a una sala lunga e stretta, dov'erano già raccolte molte persone. Da lì passarono in un'altra sala quadrata, con fastosi mobili
cinesi classici allineati lungo le pareti e un basso tavolo intarsiato al centro. «È la sala di ricevimento, espressamente riservata ai cinesi» spiegò l'ambasciatore. «Loro apprezzano questo genere di attenzioni.» La sala, illuminata con raffinata sapienza, aveva grandi finestre a tutta altezza e divani e poltrone disposti in gruppi ordinati. Alle pareti bianche erano appesi collage di carta e seta color pastello, dai quali pendevano dischi di colore e foggia diversi che rappresentavano antichi sigilli. L'ambasciatore seguì lo sguardo interessato di Margaret. «La carta è stata fatta a mano dai maestri cartai della provincia di Annhui» spiegò. «Opere di Robert Rauschenberg.» Sorrise, con una punta di rammarico. «Sono qui in prestito temporaneo, purtroppo, come quasi tutto quello che lei vede. Rientrano nel programma del ministero degli Esteri per la diffusione dell'arte nelle ambasciate.» Fece un cenno a un cameriere che passava con un vassoio. «Che cosa vuol bere?» «Vodka tonic con ghiaccio e limone» disse Margaret rivolta al cameriere, il quale fece un cenno di assenso con la testa e si allontanò rapidamente. Intanto, rispondendo a un segnale discreto dell'ambasciatore, Sophie era emersa sorridente dalla folla. «Sei riuscita a venire! Sono contenta.» «Lascerò che sia Sophie a presentarla agli altri» disse l'ambasciatore. «Non posso trascurare troppo a lungo i miei ospiti.» Margaret si sentì sollevata: c'era qualcosa in quell'uomo che la metteva leggermente a disagio, forse perché aveva la sensazione che anche lui si sentisse a disagio con lei. «Vieni con me» disse Sophie e la condusse nella sala da pranzo. Al centro di una studiata cornice di fotografie di vasi e oggetti d'arte, campeggiava un lungo buffet stracolmo di insalate e carni fredde e di vassoi con fumanti cibi cinesi. Tutto aveva l'aria di essere ottimo. Margaret, però, aveva poco appetito. Cercò con lo sguardo il cameriere a cui aveva chiesto la vodka. Un gruppo di ospiti si era riversato sulla terrazza dove il quintetto stava ancora suonando. «Chi è tutta questa gente?» chiese Margaret a Sophie. Cominciava a pentirsi di avere accettato l'invito. Non c'era nessuno che sembrasse corrispondere alla descrizione di Michael Zimmerman fattale da Sophie e lei non era in vena di chiacchiere insulse. «Oh, ci sono i dirigenti della casa di produzione, funzionari delle società che sponsorizzano la serie di documentari... Quei cinesi laggiù...» indicò un gruppetto di uomini a disagio negli abiti occidentali, con in mano un bicchiere di vino come se non sapessero che cosa farne «sono rappresentanti delle varie sezioni del governo che hanno reso possibili le riprese.»
«Mi scusi, credo che questa sia per lei.» Margaret si voltò e vide un uomo giovane, vestito di scuro, che le porgeva la sua vodka tonic. «Grazie» disse e prese il bicchiere. «Prego.» Il giovane s'inchinò a Sophie. «Credo che l'ambasciatore ti stia cercando, Sophie.» Sophie ebbe un breve scatto. «Oh, davvero?» Rivolse a Margaret un'occhiata di scusa. «Torno subito» e scappò via. Margaret bevve un lungo sorso di vodka, un po' sorpresa nel vedere che il giovane non se ne andava. «Non trova che questi ricevimenti siano insopportabilmente noiosi?» le disse, sistemandosi il colletto come se gli desse fastidio. «Sì, sono d'accordo» rispose Margaret, leggermente sorpresa. «Ma, per quanto mi riguarda, è una punizione che mi sono autoinflitta. Lei, almeno, è pagato per stare qui.» «Scusi...?» disse lui, lanciandole un'occhiata stupita. Margaret si sentì prendere dallo sgomento. «Ma... lei non è... Non mi ha...» Non ebbe il coraggio di finire la frase e scoppiò in un'improvvisa risata. «Credeva che fossi un cameriere?» chiese lui, divertito, fissandola con i suoi caldi occhi scuri. «Oh, Dio!» Margaret non riusciva a guardarlo. «Mi dispiace tanto» disse, ma si accorse che lui non era affatto offeso. Aveva due fossette ai lati di un ampio sorriso, le sopracciglia folte e i capelli castani pettinati all'indietro. Era più vecchio di quanto Margaret avesse immaginato a prima vista. Poteva avere trentacinque anni, forse qualcuno di più. «Il cameriere la stava cercando dall'altra parte della sala. Ha detto che era con Sophie e allora io gli ho preso di mano il bicchiere, pensando che se avessi trovato Sophie avrei trovato anche lei. E così è stato.» Margaret era ancora imbarazzata per la propria goffaggine. «Mi dispiace» ripeté, perché non sapeva che altro dire. «Non deve dispiacerle, è stata solo colpa mia. Ero così ansioso di conoscere la ragazza che voleva...» fece una pausa a effetto «"verificare se il mio sedere fosse all'altezza della sua fama" che mi sono perfino dimenticato di presentarmi.» Margaret si sentì arrossire. Lui le tese la mano. «Michael Zimmerman.» Margaret era senza parole. Gli strinse la mano dandosi dell'idiota. Come
aveva potuto scambiarlo per un cameriere? E perché Sophie gli aveva riferito della loro conversazione? Due circostanze, una più imbarazzante dell'altra. Ma non riusciva a staccarsi da quello sguardo sorridente. Ci sarebbe potuta annegare dentro, se non si fosse ripresa in tempo. «Lei e io lavoriamo nello stesso campo.» «Davvero?» «Sì, lei fa a pezzi i morti e io li riporto alla luce.» Margaret gli rivolse uno sguardo duro. «Mi pare ovvio che dietro il nostro incontro ci sia lo zampino di Sophie.» «È stata compagna di scuola di mia sorella minore. Ha un'infatuazione per me fin da quando aveva tre anni e io quindici.» Michael prese dal tavolo un bicchiere di vino rosso e ne bevve un sorso. «Mi ha detto che stasera lei aveva bisogno di essere consolata.» «Ma davvero?» Margaret non era sicura che le piacesse essere oggetto di pietà. «Non sia troppo severa con lei. Sophie è una brava ragazza. E anche intelligente.» Michael bevve un altro sorso di vino. «Non riusciva proprio a credere che non avesse mai sentito parlare di me.» «Mi pare che non riesca a crederlo neanche lei. Dev'essere un brutto colpo per l'amor proprio di una persona famosa scoprire che non tutti al mondo la conoscono.» «Ehi...» Michael rise «non la prenda così! Ho detto a Sophie che avrei partecipato a questo giochetto puerile se avessi scoperto in lei una bellezza mozzafiato.» Margaret non riuscì a non sorridere. «Ebbene?» «Be', l'ho vista arrivare e...» «E...» «E ho pensato che una donna così brutta aveva proprio bisogno di conforto.» Margaret si rese conto di trovarlo simpatico e s'innervosì. Possibile che anche lei fosse attratta dallo stereotipo maschile che piaceva alle lettrici di «Cosmopolitan»? L'idea le fece orrore. Poi si consolò pensando che le lettrici di «Cosmopolitan» non avevano mai visto Michael Zimmerman in carne e ossa. Lei non era affascinata dalla sua immagine, ma dalla sua persona. Non aveva avuto di lui l'idea preconcetta di un personaggio pubblico. L'aveva scambiato per un cameriere. Tuttavia, da molto tempo non si lasciava andare a una conversazione così frivola. «Avrei dovuto capirlo» disse infine. «I camerieri hanno molta più classe.»
«Ne sono convinto» rispose Michael. «È il difetto che mi attribuiscono i miei detrattori: non ho classe. Il genere di classe, per intenderci, esibito da quella ristretta cerchia di snob che presentano documentari di archeologia su qualche oscuro canale satellitare.» «Ahi!» esclamò Margaret. «Ho toccato una piccola ferita sottocutanea?» «No, una ferita profonda, e nient'affatto rimarginata» Michael rispose ridendo. «Recentemente ho subito la stroncatura del critico televisivo del "New York Times", che mi ha accusato di ridurre la Storia al livello di una soap opera.» «Ed è così?» «Be', probabilmente sì. Ma, vede, ciò che a quel critico è sfuggito è che una soap opera di successo è un buon modo per raccontare una storia, e la Storia è piena di belle storie da raccontare. Lei è un medico legale?» Margaret annuì. «Dunque, sa benissimo che ogni delitto ha la sua storia, determinata dalle cause più svariate: avidità, libidine, gelosia... Il suo lavoro è togliere uno a uno gli strati che rendono oscura una storia e ricomporre i singoli frammenti che alla fine porteranno alla verità.» «Descritto da lei, sembra un lavoro emozionante. Le assicuro che, per la maggior parte del tempo, è molto noioso.» «Sì, certo» ammise Michael serio, come se avesse in testa un pensiero la cui formulazione richiedeva una concentrazione assoluta. «È un procedimento penoso e scrupoloso che richiede una pazienza infinita. Ma come può essere noiosa la verità, quello straordinario intreccio di passioni, fragilità e circostanze, che porta a commettere un delitto? Capisce quello che intendo dire?» Margaret scosse la testa. «Non ne sono sicura.» «Il suo lavoro è simile al mio. Anche l'archeologo toglie, uno strato dopo l'altro, i depositi che appartengono alle varie epoche per scoprire una prova, un indizio lasciato dal passato, che lo aiuti a ricostruire la verità. Ma la verità della Storia può essere meravigliosa, irresistibile, avvincente, fatta della stessa miscela di passione, fragilità, morbosità che porta ai delitti sui quali lei indaga. Perché non dovrei raccontare tutto questo al pubblico? Una bella storia merita sempre di essere raccontata. E ci sarà sempre qualcuno disposto ad ascoltarla.» Michael s'interruppe all'improvviso, sorpreso dallo slancio con cui aveva parlato. Margaret si strinse nelle spalle. «Dunque il critico del "New York Times" può andare a quel paese?» Michael scoppiò in una risata, disinibita e contagiosa. «Perché non ci ho
pensato prima? Mi sarei risparmiato tutte queste parole inutili.» Ma in quelle "parole inutili" Margaret aveva già intravisto le ragioni del suo straordinario successo sul piccolo schermo: l'entusiasmo e la personalità che costringevano ad ascoltarlo, un'esuberanza che nella vita poteva risultare quasi eccessiva, anche se in Michael era compensata da un'inclinazione all'autoironia. Oltre che, naturalmente, da un culo magnifico. Michael finì di bere il suo vino e ne prese un altro bicchiere. «Usciamo? Qui comincia a mancare l'aria.» Passarono dalla sala da pranzo alla terrazza, al di là delle grandi portefinestre. Un vento leggero agitava i rami dei salici piangenti che, durante il giorno, offrivano un indispensabile riparo dai raggi del sole cocente. «Stasera ci sono due lune» osservò Michael e Margaret alzò gli occhi, ma non vide nient'altro che la cappa scura dell'inquinamento e delle nuvole. Lui si accorse che era disorientata e le indicò i musicisti del quintetto che, dalla parte opposta della terrazza, suonavano assorti. Poi si chinò verso di lei e le disse sottovoce: «Quei due strumenti, simili a chitarre, con la cassa di risonanza tonda, si chiamano anche ruan o, talvolta, "lune". Guardandoli, si capisce perché.» Margaret vide il legno chiaro degli strumenti perfettamente rotondi splendere al riflesso delle lampade alte sopra le loro teste: due lune danzanti a tempo di musica. Quell'analogia le piacque. Era rasserenante. Finì di bere la sua vodka tonic. «Ne vuole un'altra?» le chiese Michael. «No, non ho intenzione di ubriacarmi.» Poi aggiunse in fretta: «E poi i camerieri, qui, non la sanno fare». Michael sorrise, ma aveva colto nelle sue parole la nota di tristezza che lei aveva subito cercato di mascherare. «Ha passato dei mesi difficili» disse poi. Margaret gli lanciò un'occhiataccia, più diffidente che ostile. «Sa proprio tutto.» «No. Quello che so è che lei ha diffuso su Internet notizie allarmistiche riguardo alla contaminazione genetica del riso.» «Non erano "notizie allarmistiche"» lo corresse bruscamente Margaret. Michael alzò le mani come per giustificarsi. «Io non la conosco, è la prima volta che le parlo, ma la notizia che metà della popolazione mondiale è a rischio non le pare un tantino allarmistica?» Margaret si sforzò di rimanere calma e accennò un mezzo sorriso. «Abbiamo temuto il peggio. Dovrebbe essere contento che le cose siano andate diversamente. Non è, però, un problema da sottovalutare. E vero, il virus
non era presente in tutto il riso e, grazie al cielo, gran parte della popolazione è risultata esserne naturalmente immune, ma molte persone sono ancora in pericolo.» «Ho letto che è imminente la scoperta di una cura.» «Speriamo che sia così.» Ci fu un momento di silenzio, poi Michael disse: «Allora è con lei che dobbiamo prendercela per essere costretti a mangiare tonnellate di spaghetti». Margaret sorrise, imbarazzata. «Tra qualche settimana ci sarà il nuovo raccolto di riso. I cinesi sono tornati all'antico seme naturale. La crisi del riso è agli sgoccioli.» Restarono in silenzio ad ascoltare lo strano ritmo della musica cinese. Il lamento dell'erh hu, il violino cinese a due corde, il respiro tormentoso del flauto di bambù purpureo, le due lune danzanti, le vibrazioni del salterio. Margaret non sapeva che cosa dire. Aveva appena liquidato gli ultimi tre mesi della sua vita con una frase, prendendoli alla leggera, come se non fossero stati importanti. La vicinanza di Michael, alle sue spalle, le dava un sottile piacere fisico. Com'era possibile che si sentisse attratta da lui quando la sua storia con Li Yan l'aveva lasciata con le ossa rotte? Quel pensiero la spaventò. Ma poi le venne in mente una verità incontestabile: non c'è niente di più salutare per chi soffre per amore di una schermaglia amorosa fine a se stessa. «È meglio che vada.» «Ma se è appena arrivata!» «Questo è un ricevimento in suo onore. Non voglio monopolizzarla.» «Non chiedo di meglio.» Margaret lo guardò, aspettandosi di scorgere un sorriso sulle sue labbra, ma si sbagliava e provò un fremito di paura, come se una farfalla le fosse rimasta imprigionata nel petto. Poi, all'improvviso, si sentì di nuovo tranquilla. «Perché non viene anche lei, domani, agli scavi?» le propose Michael. «Stiamo organizzando macabri passatempi tra le tombe dei Ming. Distano solo un'ora da Pechino.» «Mi dispiace, non posso. Prendo un aereo domani mattina.» Michael aggrottò la fronte. «Dove va?» «A casa» rispose Margaret con semplicità. Michael parve turbato. «A casa? Dove?» «A Chicago.»
«Quando tornerà?» «Mai» rispose Margaret e quella parola la colpì come uno schiaffo, le ridiede il senso della realtà. «Devo andare, davvero.» «Allora, che cosa vi state raccontando?» Tutti e due si voltarono nell'udire la voce di Sophie, che stava uscendo in quel momento sulla terrazza. «Non mi hai detto che lei partiva domani.» C'era un'ombra di accusa nella voce di Michael. «Non siamo stati nemmeno adeguatamente presentati» aggiunse, rivolto a Margaret. «Forse è meglio: semplifica il momento del congedo. Grazie dell'invito, Sophie. È stata una bella serata. Io, però, devo ancora preparare le valigie.» Margaret fece un cenno di saluto, si sforzò di sorridere e si avviò attraverso la lunga sala di ricevimento, facendosi largo in mezzo alla folla degli invitati. Ritirò il soprabito dal guardaroba, uscì dalla porta rossa e scese i gradini, nel freddo della sera. In strada si fermò a riprendere fiato. La musica ormai era un tintinnio argentino in lontananza. Si appoggiò con la mano al muro per calmarsi. Quella sera aveva segnato il suo ritorno alla vita normale. Le aveva fatto girare la testa, come quando si accende una sigaretta dopo mesi di astinenza. Avrebbe dovuto procedere per gradi. 3 Sentiva Margaret che chiedeva aiuto con grida insistenti, ma non la vedeva. Un bagliore tremolante al di là delle tenebre lo avvolgeva come una ragnatela dalle maglie appiccicose e inesorabili. La sofferenza nella voce di lei era straziante, ma sapeva di non poterla raggiungere, né aiutare. Si mise a sedere sul letto, drizzò le spalle, improvvisamente sveglio, bagnato di sudore, impigliato nelle lenzuola. Lo trafisse lo squillo del telefono, in salotto. Saltò giù dal letto ed era a metà del corridoio, preoccupato di rispondere in fretta perché suo zio non si svegliasse, quando si ricordò che lo zio Yifu era morto. Fu come un colpo in pieno petto, un dolore che dava la nausea. Fu sul punto di mettersi a piangere. Entrò in salotto, scalzo e, nel buio, urtò il tavolino. Il telefono finì per terra e il ricevitore si staccò dal supporto. Udì nel buio una strana voce immateriale. «Pronto... pronto...» Nudo, annaspando sul pavimento al riflesso della luce che veniva dalla strada, finalmente trovò il telefono. «Sì, pronto. Li Yan.» «Vicecaposezione, sono l'agente di turno in Beixinqiao Santiao. C'è stato
un altro delitto.» Li era riuscito a recuperare il resto del telefono e aveva acceso una luce vicino al divano. Si mise a sedere e guardò l'ora. Le quattro del mattino. «La vittima è stata...?» «Sì, decapitata.» «Dove?» «In un appartamento al quarto piano in Tuan Jie Hu Dongli n. 7, nel distretto Chaoyang.» «Chi è andato sul posto?» «L'agente investigativo Qian è uscito pochi minuti fa. Vuole che le mandi un'automobile?» «No, faccio prima in bicicletta. Ci vado subito.» Li riattaccò e rimase seduto per un momento, con il cuore in tumulto e il respiro affannoso. Un altro delitto. Si chiese se si sarebbe mai abituato a vivere senza suo zio, a non udire più la sua voce bassa, calma e ragionevole che gli regalava tesori di intelligente saggezza. Si strofinò energicamente la faccia, per cancellare le ultime tracce di sonno e la tristezza che si impossessava di lui ogni qualvolta pensava a Yifu. Avrebbe voluto credere ai fantasmi, per potersi illudere che suo zio un giorno o l'altro sarebbe ricomparso. Sentiva l'obbligo di essere degno della sua memoria. Non era stato facile avere come modello un funzionario della polizia di Pechino ammirato e stimato da tutti, e per il quale ora, dopo la morte, tutti nutrivano un sentimento di profonda venerazione. Tornò in camera, s'infilò i pantaloni, le scarpe da ginnastica e una maglietta bianca. Prese dall'armadio la giacca di pelle nera e controllò che in tasca ci fossero le sigarette e il distintivo della polizia. Si accese una sigaretta, ma la spense subito, disgustato. Restò un momento incerto, poi, d'impulso, entrò nella camera dello zio. L'aveva lasciata come quando lui era vivo. Sul cassettone erano disposti, in ordine, alcuni oggetti personali; tra le fotografie appese al muro, ce n'era una di Yifu, giovane poliziotto, in partenza per il Tibet, nel 1950; un'altra con la moglie, la zia che Li non aveva mai conosciuto; Yifu al pranzo di addio prima della pensione, la faccia tonda, sorridente sotto una massa di capelli neri lo sguardo un po' annebbiato dalla troppa birra. Li sorrise e sfiorò con la mano la fotografia, come se con quella carezza potesse in qualche modo essere ancora vicino allo zio. Spense la luce e uscì di casa in fretta. La guardia che faceva il turno di notte gli fece un cenno di saluto. Li infilò la Zhengyi Dajie in direzione nord, verso la Chang'an Est. C'era poco
traffico a quell'ora, qualche automobile privata e una colonna di rumorosi autocarri che, dalle miniere a nord della città, trasportavano il carbone verso sud. Trovò la pista ciclabile vuota, tutta per sé, e pedalò con energia alla luce dei lampioni che filtrava tra le foglie degli alberi. Quasi tutte le luci al neon colorate che illuminavano la maggior parte dei nuovi edifici, erano spente. Era l'ora della notte in cui il buio è più fitto. Cercò di scacciare i pensieri cupi. Era il quarto delitto per decapitazione. A memoria d'uomo, non c'era mai stato un serial killer a Pechino: quattro omicidi in quattro settimane. La morte inflitta come un'esecuzione, con identico rito agghiacciante e minutamente premeditato. Li conosceva l'immagine che si sarebbe trovato davanti agli occhi. Nella sua vita aveva visto molte vittime di omicidi o di incidenti, ma non aveva mai visto niente di simile. Era incredibile la quantità di sangue che un corpo umano poteva contenere. La vista di tutto quel liquido rosso, ancora palpitante, era sconvolgente. Passò sotto il cavalcavia della seconda circonvallazione e puntò verso est, oltre il palazzo della CITIC, China International Trust & Investment Corporation, e il World Trade Centre cinese, poi svoltò di nuovo verso nord, sulla terza circonvallazione. Tra un paio d'ore la città si sarebbe risvegliata e molte persone, con gli occhi ancora velati di sonno, si sarebbero recate al lavoro percorrendo quelle stesse piste ciclabili. Il traffico sarebbe gradualmente aumentato e alle otto, su quasi tutte le grandi arterie, si sarebbero formati giganteschi ingorghi: gli automobilisti bloccati e rabbiosi avrebbero suonato il clacson, tenendo il motore acceso e inquinando con vapori mefitici l'atmosfera già avvelenata. Da molto tempo ormai, andare in bicicletta a Pechino non era più un piacere. Ma, per il momento, la terza circonvallazione era ancora deserta: Li Yan non vedeva né un'automobile, né una bicicletta. Avrebbe potuto credere di essere il solo abitante in tutta la città, finché non svoltò in Tuan Jie Hu Dongli, una strada alberata a tre corsie, di solito poco frequentata. Qualche centinaio di persone si accalcavano intorno a un gruppo di macchine della polizia e della scientifica, ferme sul marciapiede dello stabile n. 7. Era gente che abitava nella via e che era stata svegliata dalle sirene della polizia e dell'ambulanza. Tutti avevano l'aria di essersi vestiti in fretta, alcuni erano in pantofole, premevano intorno alle automobili, le facce gonfie di sonno sotto i capelli arruffati e cercavano di capire che cosa stesse succedendo. Parecchi agenti stavano già disponendo delle transenne provvisorie. Curiosi sbucavano in continuazione. Li Yan si fece largo a forza, ma un giovane
poliziotto dall'espressione ottusa non lo lasciò passare finché non notò il distintivo. Davanti all'ingresso della casa transennata c'era di sentinella un agente che Li conosceva. «Dov'è l'agente Qian?» gli chiese. «È già salito.» Il poliziotto gli indicò la scala alle sue spalle. «Quarto piano.» I muri, mai ridipinti da quando era stata costruita la casa, negli anni Settanta, erano scrostati e sporchi. C'erano odore di chiuso e tanfo di urina. Su ogni pianerottolo erano ammassate biciclette arrugginite; le porte degli appartamenti erano chiuse e protette da cancelli di ferro. Li salì i gradini due alla volta. Un gruppetto di poliziotti in divisa fumava sul pianerottolo del quarto piano, mentre due agenti della scientifica, riconoscibili dai guanti bianchi, stavano appoggiati alla ringhiera e lo seguivano con gli occhi. Una luce intensa usciva dall'appartamento. Li Yan fece un rapido cenno di saluto ed entrò. A sinistra c'era una piccola cucina, a destra il bagno. Davanti a uno sgabuzzino c'era un paio di leggeri sandali infradito, che dovevano essere serviti da pantofole. Più avanti una stanza piuttosto piccola, con armadi a muro sulla parete di fronte alla porta e un tavolo ingombro di giornali, sigarette, un portacenere troppo pieno, i piatti della cena non ancora lavati. A sinistra, una porta a vetri dava su una camera da letto illuminata dai lampioni della strada. A destra c'era un salottino con un divano, un televisore e una porta con la zanzariera che si apriva su una piccola veranda. Nell'aria aleggiava un odore stantio di sigarette e di cibo, cui si mescolava il vago, ma pungente sentore di una sostanza dolciastra che Li non riusciva a identificare. Il cadavere era nel salottino. Li avvertì l'odore del sangue prima ancora di vedere, a terra, la sagoma rannicchiata del corpo decapitato, la testa lontana, a più di mezzo metro, con gli occhi sbarrati che guardavano verso di lui. Il flash del fotografo della polizia accese l'immagine davanti agli occhi di Li, rendendo più vivido il colore della grande pozza rossa. Poi emerse il viso dell'agente Qian. «Come gli altri, capo. La stessa cosa.» Qian aveva dieci anni più di Li e molta più esperienza, ma meno intuito e meno immaginazione, cosa per cui Li, a trentatré anni, era suo superiore. Ma Qian non soffriva d'invidia, conosceva i propri limiti ed era un buon giudice delle qualità altrui. Era un compagno di lavoro assolutamente affidabile e Li si appoggiava a lui in tutto. All'occorrenza, sapeva parlare apertamente, senza ambiguità; per questo Li era sicuro che non ci sarebbero mai stati malintesi tra loro.
«Quando il fotografo avrà finito, sarà meglio che se ne vadano anche gli altri. Siamo in troppi.» «Sì, le fotografie ormai sono state fatte, il medico sta esaminando il cadavere.» Qian cominciò subito a far sgombrare la stanza. Il dottor Wang Xing, il medico in servizio al Centro per lo studio del crimine di Pao Jü Hutong, era chino sopra il cadavere. Una sigaretta spenta gli pendeva da un angolo della bocca e aveva i guanti sporchi di sangue. Si alzò e se li sfilò lentamente, mentre scavalcava con cautela una zona del pavimento dove un pezzo di linoleum e le assi di legno sottostanti erano stati sollevati. Evitò la grande pozza di sangue che si era formata in quel punto del pavimento e gli schizzi fuoriusciti dalle carotidi. Uscì in corridoio, si staccò lentamente la sigaretta dalle labbra e disse, con un mezzo sorriso: «"Se riuscirete a non perdere la testa quando tutti intorno a voi la perderanno e ve ne addosseranno la colpa..."». «Rudyard Kipling» disse Li. «Oh, abbiamo un letterato» si compiacque il medico. «Mio zio aveva una raccolta di poesie di Kipling.» «Già, certo...» Il medico lasciò cadere i guanti sporchi in un sacchetto di plastica e aggiunse con voce cantilenante: «Bisogna trovare l'assassino, altrimenti la prossima testa potrebbe essere la tua, Li». Estrasse dalla tasca un accendino. «No, non qui, per favore» si raccomandò Li. «Immagino che sia inutile chiederti le cause della morte.» Il dottor Wang si strinse nelle spalle e si rimise in tasca l'accendino. «È ovvio che qualcuno gli ha staccato la testa. Le altre volte il taglio era più netto, ma forse la lama comincia a essere meno affilata.» Li non raccolse la battuta. «In base alla quantità di sangue, credo di poter affermare che il cuore batteva ancora quando è stato inferto il colpo. Quindi mi sentirei di puntare qualcosa sulla decapitazione come causa della morte.» «Solo se il governo decidesse di legalizzare il gioco d'azzardo.» Il dottor Wang sorrise. Era nota la sua passione per le carte e il mahjong. «Parlavo in senso figurato, naturalmente.» «Ci ero arrivato.» Li non si sarebbe stupito se il medico avesse perso la scommessa quando a Pao Jü Hutong si fosse avuto il risultato dell'autopsia. «A che ora pensi sia avvenuta la morte?» «Ah, è come giocare alla lotteria.» «Be', tu che numeri giocheresti?» «Dunque... ci vogliono circa dodici ore perché il rigor mortis sia com-
pleto. E non lo è ancora.» Il medico guardò l'orologio. «Dovrebbero essere passate nove ore. Forse... otto, diciamo che la morte potrebbe risalire alle otto e mezzo di ieri sera, con due o tre ore di tolleranza.» Agitò davanti a Li la sigaretta che aveva in mano. «Se non hai altro da chiedermi, me ne andrei fuori a fumare.» Uscì sul pianerottolo. Li si spostò con cautela in vari punti del piccolo salotto, per osservare meglio la scena del delitto. Qian lo seguiva, standogli alle spalle. La vittima era crollata in avanti, da una posizione inginocchiata, e si era piegata sul fianco, assumendo una posizione quasi fetale. Le mani, però, erano legate dietro la schiena. Li Yan si accovacciò per esaminare la corda di seta, come per le altre vittime. Mentre si muoveva con cautela intorno al cadavere, vide gli occhi della testa recisa fissi su di lui. Ebbe l'impressione che lo seguissero dappertutto. Distolse lo sguardo e vide un cartello in parte affondato nella pozza di sangue più grande. La corda con cui era stato appeso al collo della vittima era stata recisa con un colpo netto ed era sporca di rosso scuro. Li Yan sollevò delicatamente un angolo del cartello. Apparve la parola «Talpa» scritta capovolta in inchiostro rosso e cancellata con una riga orizzontale. Sopra, c'erano tre segni orizzontali e paralleli. Il numero tre. Prevedibile. Li si alzò in piedi, si guardò intorno e si rese conto che qualcosa non andava. Un tavolo con una lampada; un piccolo televisore appoggiato su un armadietto, un divano vecchio, ma intonso, niente soprammobili, né oggetti personali, documenti, corrispondenza. Con estrema prudenza, Li passò intorno al cadavere e vide che il cestino della carta straccia, vicino al televisore, era vuoto. Aprì l'armadietto: vuoto anche quello. «Che significa, capo?» chiese Qian. Li passò nella stanza dove prima aveva visto il tavolo con i piatti sporchi. Apri gli armadi a muro. Trovò due giacche, un paio di pantaloni e un paio di scarpe. Gli armadi erano grandi, e con quelle poche cose sembravano ancora più vuoti. «Sappiamo già chi è?» chiese Li, spostandosi in cucina. «Ci stiamo lavorando, capo» rispose Qian. «L'appartamento è di proprietà privata e da tre mesi è stato affittato, ma i vicini non sanno chi sia l'inquilino. L'hanno visto pochissime volte.» «Che cosa dicono quelli del comitato di quartiere?» «Non sanno niente nemmeno loro. L'appartamento non era stato assegnato dal danwei, l'unità operativa.» Li maledisse la privatizzazione degli alloggi. Era un sistema che spezza-
va la struttura tradizionale della società cinese. Il possesso della casa da un lato e la disoccupazione dall'altro, stavano spostando varie masse di popolazione dalle loro sedi tradizionali, rendendole facile terreno di coltura per la criminalità. Li Yan aprì gli armadietti della cucina. Erano anch'essi praticamente vuoti, a parte pochi cibi in scatola e qualche pacchetto di spaghetti. «Chi ha dato l'allarme?» «Una coppia di coniugi che abita al piano di sotto.» Qian fece una smorfia di raccapriccio. «Lui si è svegliato perché si è accorto che il lenzuolo era bagnato. Per un attimo ha pensato di essersi pisciato addosso. Ha acceso la luce e ha visto una macchia rossa. Allora, si è messo a gridare, pensando che si trattasse del proprio sangue. La moglie si è svegliata e si è messa a urlare anche lei. Poi si è accorta che il sangue gocciolava dal soffitto. Sono entrambi un po'... impressionabili.» Qian seguì Li in camera da letto, lo vide scostare il copriletto per esaminare le lenzuola, dare un'occhiata dentro il comodino e inginocchiarsi a guardare sotto il letto. «Capo, che cosa cerchi?» Li si alzò e restò per un momento soprappensiero. «Qui non abitava nessuno, Qian» disse. «L'appartamento è stato usato solo per preparare un pasto ogni tanto o per passarci una notte. Ma, ripeto, qui non abitava nessuno. Non ci sono vestiti, niente di personale, cibo...» «Ma sulla veranda ci sono panni stesi ad asciugare...» «Andiamo a vedere.» Facendo attenzione a dove mettevano i piedi, tornarono in salotto e uscirono sulla veranda. Dal soffitto pendeva uno stendibiancheria circolare al quale erano appesi una camicia e due paia di calze. Li Yan trattenne Qian che stava per toccarli. Estrasse dalla tasca una piccola torcia elettrica e, puntando il fascio di luce verso il soffitto, sopra il gancio dello stendibiancheria, illuminò una fitta ragnatela. Un ragno grande, grasso e nero fuggì spaventato. Li spense la torcia. «Certamente qualcuno ha fatto un bucato,» concluse «ma parecchio tempo fa.» Guardò Qian, pensieroso. «Andiamo a parlare con gli inquilini del piano di sotto.» L'agente che stava seduto in compagnia del vecchio Hua fu contento di andarsene. L'appartamento aveva la stessa pianta di quello di sopra, ma il vecchio Hua e sua moglie l'avevano disposto in modo diverso. La stanza centrale fungeva da sala da pranzo, con uno scaffale per i piatti nascosto dietro una tenda a quadretti; la stanza piccola sul retro era la camera da let-
to e la stanza di fronte, affacciata sulla strada, il salotto. Il contrasto con l'appartamento del piano di sopra colpiva. Questa era una casa abitata, piena di mobili, con tutte le superfici ingombre. C'erano fotografie di famiglia appese al muro, un calendario, qualche vecchio poster degli anni Venti e Trenta con la pubblicità di un sapone o di una marca di sigarette. L'aria sapeva di vestiti sporchi, di corpi sudati e di cucina. L'odore della vita. «Volete una tazza di tè?» chiese il vecchio Hua. «L'acqua è ancora calda.» Li e Qian rifiutarono. Dal bagno arrivò un rumore di acqua che scorreva. «È la terza volta che fa la doccia» spiegò Hua. «Quella vecchia scema crede di avere ancora il sangue addosso. Gliel'ho detto che è pulita, ma non mi ascolta.» Era quasi completamente calvo e si era rasato fino alla radice i pochi capelli rimasti. Indossava un paio di calzoni di cotone blu e una camicia bianca un po' sporca, larga e sbottonata, a mostrare petto e ventre prominenti. Era scalzo e fumava una sigaretta arrotolata a mano. «Senta, io alla morte sono abituato, ma mi ha fatto paura l'idea che il sangue fosse mio. Il sangue degli altri m'interessa poco.» Li Yan prese una sedia e si mise a sedere. «Perché dice di essere abituato alla morte?» chiese. Anche lui si era trovato tante volte di fronte alla morte, ma non ci si era ancora abituato. Il vecchio Hua sorrise. «Lavoro alle pompe funebri» disse. «Sono trent'anni. Non è molto diverso dal vostro Dipartimento di polizia. La differenza è che voi vi occupate dei vivi e noi dei morti.» Qian aggrottò la fronte. «Quindi, lei lavora al crematorio?» «Non esattamente. Faccio il necroforo» precisò Hua, con una punta di orgoglio. «È da tanto che non vado più in giro con il carro a ritirare i morti dalle loro case. Adesso li vesto. Lo faccio per lo stipendio, è logico. Ho imparato da solo, sui libri, a vestirli, pettinarli, far loro la barba. Non è facile quando si tratta di vittime di incidenti. Se la faccia è maciullata, bisogna usare il cotone idrofilo, la cartapesta, lo stucco e altra roba del genere per rimetterla in sesto...» «Bene,» lo interruppe Li «adesso parliamo del morto che ci interessa in questo momento.» Il vecchio Hua fece un cenno con la testa per indicare il soffitto. «Quello lassù?» «Lo conosceva?»
«No, l'ho incontrato sulle scale solo un paio di volte. A vederlo non si sarebbe detto che avesse tanto sangue in corpo. Pallido, slavato. Che cosa gli hanno fatto quelli perché sanguinasse così?» «Quelli chi?» «Be', chiunque sia stato.» «Allora lei non ha visto nessuno andare o venire, ieri sera?» «Nessuno.» «E non ha sentito niente?» «Niente di niente. Siccome mia moglie è un po' sorda, dobbiamo tenere la televisione a volume altissimo e così non sentiamo altri rumori.» «A che ora siete andati a letto?» «Verso le nove. Io, di solito, lavoro fino alle sei.» Il vecchio Hua si grattò il ventre prominente e schiacciò nel portacenere il mozzicone della sigaretta. Dunque, non si era visto sangue fino alle nove. Li aveva l'impressione che l'intercapedine tra le assi del pavimento dell'appartamento di sopra e il soffitto di quello sottostante non fosse molto spessa. Il sangue doveva essere filtrato rapidamente. Forse il delitto era avvenuto circa due ore dopo rispetto alla stima del medico. «Quando vi siete svegliati?» Il vecchio Hua prese ad arrotolarsi un'altra sigaretta. «Non lo so con certezza. Forse le tre, le tre e mezzo del mattino.» Il che collocava l'ora del delitto entro un arco temporale di sei ore. «Da quanto tempo, più o meno, il sangue gocciolava sul letto?» «Mah! Di solito dormo come un bambino. Mia moglie prende un sonnifero, perciò non è facile svegliarla. Ma il sangue era appiccicoso, perciò doveva essere fresco.» Probabilmente era successo verso mezzanotte, quando la strada era deserta e tutti erano andati a dormire. Li indicò la camera da letto. «Le dispiace se dò un'occhiata?» «No, vada pure.» Hua finì di arrotolarsi la sigaretta e l'accese. Dalla soglia della camera da letto, Li e Qian videro la macchia sul soffitto e il sangue scuro sul letto sfatto. «Chi ci ripulirà questo schifo?» gridò il vecchio, da dietro le loro spalle. «Mi piacerebbe saperlo.» Li si voltò verso il corridoio proprio mentre la vecchia moglie di Hua usciva nuda dal bagno tenendosi stretta addosso un asciugamano. Con un gridolino, in un tremolio di carni flaccide, rientrò da dove era venuta e
sbatté la porta. Il vecchio Hua rise. «Non è un bello spettacolo, eh?» Li e Qian si scambiarono uno sguardo imbarazzato. «Grazie, signor Hua» disse Li. «Più tardi metteremo a verbale la sua deposizione e quella di sua moglie.» Si fermò sulla porta. «Un'altra domanda: sa chi è il proprietario dell'appartamento del piano di sopra?» «No. Il vecchio proprietario è morto circa un anno fa e lo ha lasciato a un parente che lo affitta. Come i vecchi padroni di casa di una volta. Abbiamo fatto una rivoluzione per liberarcene, ma a quanto pare si ricomincia.» Mentre Li e Qian rientravano nell'appartamento della vittima, al quarto piano, due assistenti del medico legale stavano mettendo il cadavere in un apposito sacco per portarlo a Pao Jü Hutong, dove sarebbe stata eseguita l'autopsia. «Quando gli agenti della scientifica avranno finito il loro lavoro, voglio che all'appartamento siano messi i sigilli» disse Li. «Nessuno deve entrare senza avvertirmi. E voglio anche il nome del proprietario. Chi se non il padrone di casa deve sapere chi è il nostro uomo?» Li fu distratto da un tramestio improvviso nella camera sul retro della casa. Uno degli assistenti chiese a voce alta: «È già andato via il vicecaposezione Li?». Li accorse. «Eccomi.» L'assistente gli porse un piccolo taccuino blu scuro. «Penzolava dalla tasca posteriore della vittima.» Li prese il taccuino per un angolo, con il pollice e l'indice, e il suo cuore ebbe un tuffo quando riconobbe sulla copertina il simbolo d'argento. Non era un taccuino, bensì un passaporto. Lo aprì e guardò la fotografia, poi guardò la testa staccata, con gli occhi rivolti verso di lui. Cercò il nome: Yuan Tao. «E adesso?» mormorò. «Che succede?» chiese ansioso Qian, dietro di lui. «Sembra un delitto identico agli altri, in ogni particolare. Ma non è così.» Li Yan mostrò il passaporto a Qian, che riconobbe subito l'aquila d'argento. «Questa volta la vittima è un cittadino americano.» 4 «Speriamo in bene!» Margaret attraversò di corsa l'atrio del Ritan Hotel,
dando un'occhiata all'orologio. Sophie la seguiva ansimando. «Ho solo due ore per fare le valigie e arrivare all'aeroporto.» Si fermò davanti alla porta a vetri e si voltò verso Sophie. «Non sai proprio di che cosa si tratti?» «Non mi hanno detto niente. Quello che so è che Jon Dakers è da due ore a colloquio con l'ambasciatore e ha cancellato tutti gli appuntamenti della giornata.» Scesero a precipizio i gradini. In strada, una limousine dell'ambasciata le aspettava, col motore al minimo, nell'aria umida del mattino. «Che bisogno c'era di mandare un'automobile?» protestò Margaret. «È qui a due passi.» «Hanno detto che era urgente.» Sophie aprì la portiera e salì dopo di lei. «Non è uno dei tuoi scherzi, vero?» chiese Margaret, improvvisamente insospettita. L'automobile si staccò dal marciapiede e uscì dal cancello, passando davanti allo sguardo inquisitorio delle guardie. «Assolutamente no» rispose Sophie, risentita. «Mi dispiace se la mia piccola trovata di ieri sera ti si è ritorta contro.» «Tutt'altro» si affrettò a risponderle Margaret, evitando di guardarla. «È una ben strana coincidenza, però, che tu sia stata compagna di scuola della sorella minore di Zimmerman.» «Non è solo per questo che lo conosco. Michael è venuto qui molto spesso, l'anno scorso, per le riprese dei suoi documentari. È stato lui a spingermi a fare domanda per questo incarico. La Cina aveva un fascino tanto esotico... E così, eccomi qui.» «Ed ecco qui anche lui... e per diversi mesi, visto che ha appena cominciato a girare. Immagino che questo non abbia niente a che vedere con la tua domanda di lavoro.» Sophie la guardò sorridendo. «È permesso sognare, vero? Ma sono sicura che lui preferisce parlare con te che con me. Ieri sera è rimasto male quando ti ha vista andar via così presto.» Margaret guardò di nuovo l'ora e cambiò argomento. «Spero che non mi trattengano troppo, Sophie, altrimenti dovranno rimborsarmi il biglietto dell'aereo». Sophie si strinse nelle spalle. «Ma... forse i cinesi ti hanno rifiutato il visto di uscita.» Margaret si girò verso di lei, esterrefatta. «Potrebbero veramente fare una cosa simile?» La segretaria le introdusse nell'ufficio. L'ambasciatore, in maniche di
camicia, stava vicino alla finestra, con le mani sui fianchi e guardava fuori. Stan Palmer, seduto al tavolino, coperto da un mucchio di carte sparse, beveva un caffè. Il suo aspetto, di solito compassato, impeccabile, era un po' meno composto del solito. Jon Dakers stava in piedi, appoggiato alla scrivania dell'ambasciatore e parlava al telefono. Pareva inquieto. «Dica loro che mi chiamino, non appena l'avranno. E che lo spediscano direttamente all'ambasciata, via fax.» L'ambasciatore si rivolse a Margaret e Sophie che erano appena entrate. «La ringrazio di essere venuta subito, Margaret.» «Di che si tratta, signor ambasciatore? Ho un aereo tra meno di due ore.» «E io ho un favore da chiederle, Margaret.» L'ambasciatore le venne incontro invitandola a sedersi. Lei ubbidì riluttante. Dopo un attimo di silenzio, le annunciò: «Un membro del personale dell'ambasciata, un sinoamericano che si chiamava Yuan Tao, è stato ucciso la notte scorsa. Decapitato». «Oh, Dio!» esclamò Margaret. «E c'è di peggio» intervenne Stan, inarcando le sopracciglia così sottili da sembrare depilate. «Peggio?» disse Margaret. «Sì, per noi, non per lui» intervenne Dakers, avvicinandosi all'ambasciatore. Era un ex agente di polizia robusto, con le spalle larghe, calvo, con una barbetta corta color grigio argento e un'espressione aggressiva. «Yuan Tao è stato ucciso in un appartamento che aveva preso in affitto nel distretto di Chaoyang.» Fece una pausa, come se la notizia dovesse avere un significato particolare. «E con questo?» chiese Margaret. Fu Stan a risponderle. «Il personale dell'ambasciata viene alloggiato in appartamenti entro complessi edilizi speciali. Nel caso di Yuan Tao, due stanze in uno stabile dietro il magazzino Friendship.» «Di fatto è andato contro il regolamento» spiegò Jon Dakers. «Sì, lo so» ammise Margaret, che aveva avuto un'amara esperienza personale. «Bisogna registrare il proprio indirizzo presso gli uffici della polizia, dove si incazzano non poco se qualcuno va a dormire da un'altra parte.» «E, infatti, i cinesi sono molto incazzati» confermò l'ambasciatore. «Più che altro, sono sconcertati» lo corresse Dakers. «Un cittadino americano è stato ucciso nel loro territorio. Stanno cercando in tutti i modi di passare ad altri la patata bollente».
«Un momento...» disse Margaret. Un sospetto le si era affacciato alla mente. «Quando lei ha detto che la vittima "faceva parte del personale dell'ambasciata", ha per caso usato una sorta di eufemismo?» «Non era una spia, se è questo che vuol dire» rispose l'ambasciatore con una risatina per niente allegra. «In caso contrario, lei me l'avrebbe detto, vero?» «No, ma le assicuro che non era una spia. Era un funzionario di basso livello, in Cina da circa sei mesi. Si occupava dei visti.» «Dunque, migliaia di persone avevano un movente per ammazzarlo» osservò Stan. «Stiamo aspettando il suo fascicolo dal ministero degli Esteri» disse Dakers. Ci fu un momento di silenzio. Margaret sentì su di sé gli sguardi di tutti come se si aspettassero qualcosa da lei. «Che c'entro io in tutta questa storia?» disse. L'ambasciatore si sedette sul divano. «La polizia cinese ritiene di avere a che tare con un serial killer. Yuan Tao sarebbe la quarta vittima. Le altre tre erano di nazionalità cinese. Ma Yuan Tao era americano. Per questo, vorremmo affidare a lei l'autopsia.» «A me?» chiese Margaret allibita. «Ha già lavorato con loro» disse Dakers. «Senta, io sono venuta qui la primavera scorsa per tenere un corso di sei settimane all'Accademia di polizia. Ho eseguito una sola autopsia per fare un favore e ho passato i tre mesi successivi a pentirmene. Non voglio lasciarmi coinvolgere una seconda volta.» «Margaret, la capisco perfettamente» l'ambasciatore si rivolse a lei con un'espressione seria. Stava facendo ricórso a tutta la sua sapienza di diplomatico. «È una questione urgente e non possiamo trovare un altro anatopatologo così su due piedi. E poi, i cinesi si fidano di lei.» «Si fidano di me?» ripeté Margaret incredula. «Vede, hanno accettato che sia lei a eseguire l'autopsia... o almeno ad assistervi.» «E se rifiutassi?» «Tutti noi abbiamo dei doveri verso il nostro paese, Margaret.» L'ambasciatore si appoggiò allo schienale del divano, dopo aver giocato la carta vincente: l'appello al patriottismo. Da studente Margaret si era sempre chiesta perché si dovesse giurare fedeltà alla bandiera e cantare l'inno nazionale. Adesso lo sapeva. «Dovrò
disdire il volo» sospirò. «Già fatto» le comunicò Stan, con aria soddisfatta. «Ah, è così?» Margaret gli lanciò un'occhiata ostile e si alzò. «E non è tutto» aggiunse Stan assaporando quanto stava per dire. «Il responsabile dell'indagine è il vicecaposezione Li, Yan, della polizia municipale di Pechino» le disse soddisfatto. «Credo che lei lo conosca.» CAPITOLO SECONDO 1 Da mezz'ora un gruppetto di agenti del quartier generale del Dipartimento di Investigazione criminale discuteva animatamente intorno a un tavolo. Il fumo delle sigarette diffondeva nella sala riunioni, una nuvola grigia come i pensieri dei colleghi della Prima Sezione convenuti per esaminare le prove raccolte nell'ultimo mese. Gli agenti della squadra omicidi erano preoccupati perché non erano riusciti a fare un passo avanti nelle indagini. Li Yan rifletteva, seduto con le spalle alla finestra. Era stato reintegrato, dopo il primo delitto, nel ruolo di vicecaposezione, ma non era riuscito a trovare un solo indizio significativo. Cominciava a sentir vacillare l'incrollabile fiducia in se stesso, che l'aveva sempre sorretto, e si chiedeva se la morte dello zio e gli avvenimenti degli ultimi tre mesi non l'avessero segnato più di quanto non volesse ammettere. Era consapevole di avere problemi di concentrazione. Durante qualche riunione gli era capitato di distrarsi e di pensare a Yifu. E a Margaret. Bastava il nome di Margaret per far riaffiorare i ricordi. Ripensò a quando avevano fatto l'amore, quell'unica volta, nel vagone letto abbandonato su un binario di raccordo, vicino a Datong, con il sole che filtrava attraverso i vetri sporchi del finestrino. «Capo...» Una voce interruppe i suoi pensieri. «Capo, ci stai ascoltando?» Alzò la testa e vide l'agente investigativo Wu, con gli occhiali da sole sulla fronte, che lo guardava, incuriosito, dall'altra parte del tavolo. «Sì, certo, chiedo scusa.» Li sfogliò distrattamente le carte che aveva davanti. «Mi era venuta un'idea...» «Non vuoi comunicarla anche a noi?» Li vide che era arrivato il caposezione Chen Anming.
«Non ne vale la pena» rispose in fretta. «Era un'idea che non portava da nessuna parte.» «Un po' come questa indagine.» Chen scostò una sedia dal tavolo, si mise a sedere, con le braccia incrociate sul petto e fissò sui suoi agenti uno sguardo glaciale. Era un uomo di mezza età, magro, muscoloso, con una testa di capelli folti ma prematuramente bianchi. Era noto per la sua riluttanza a sorridere, anche se capitava spesso che una scintilla nello sguardo tradisse la sua natura sensibile e generosa. Ma adesso non si vedevano scintille, mentre diceva, a voce molto alta: «Quattro vittime. E non siamo arrivati a niente. A niente». Rimase in silenzio per qualche secondo. «Sappiamo che l'ultimo a morire in quel modo è stato un americano,» riprese «cosa che conferisce al delitto una valenza politica.» Appoggiò le mani sul tavolo e si protese verso gli agenti che lo ascoltavano. «Poco fa, nel mio ufficio, ho ricevuto una telefonata dal viceministro della Pubblica sicurezza.» Seguì un momento di silenzio. «Non mi era mai successo ed è un'esperienza che non desidero ripetere.» Nella sala nessuno fiatava. «Voglio essere chiaro: non importa quanti altri agenti dovremo impiegare, né quante ore di lavoro straordinario saranno necessarie, ma dobbiamo trovare l'assassino.» Dopo una pausa a effetto, aggiunse: «Ci sono carriere a rischio». «Vuol dire che qualche testa potrebbe cadere?» disse Wu con un risolino e la battuta suscitò attorno al tavolo un'ilarità subito soffocata. Chen gli rivolse un'occhiata gelida. «Le assicuro, agente Wu, che la prima sarà la sua.» Wu smise di sorridere. «Era un tentativo di allentare la tensione, capo.» «Bene,» intervenne Li, prima che la tensione, al contrario, aumentasse «riassumiamo quello che è stato fatto finora per i colleghi che vengono dal quartier generale. Poi esamineremo nei particolari l'ultimo omicidio. Wu, cominciamo da te.» Wu scostò un po' la sedia dal tavolo, si spinse gli occhiali in alto sulla fronte e prese in mano il fascicolo. Sfoggiava il suo abbigliamento classico: jeans scoloriti, giubbotto di tela, occhiali da sole. E masticava un chewing-gum che doveva aver perso da molto il suo sapore. Era pronto per lo spettacolo a beneficio degli ultimi arrivati. «Cominciamo» disse. «Delitto numero uno. 20 agosto. Tian Jingfu, cinquantun anni. Tecnico della proiezione in un cinema del distretto di Xicheng. Non si presenta al lavoro. La moglie è in visita ad alcuni parenti nel Sud. I colleghi, insieme al comitato di quartiere, vanno a cercarlo a casa.
Bussano, nessuno risponde. La televisione è accesa. Allora chiamano un agente del comando di polizia di zona che butta giù la porta. La casa è piena di mosche. Lui, Tian Jingfu, è per terra, nel salotto, con la testa mozzata. Secondo il medico legale, è morto da due giorni. La porta non è stata forzata. La vittima ha bevuto vino rosso. Strano. Più strano ancora, dall'autopsia risulta che il vino è stato adulterato con una sostanza stupefacente, il flunitrazepam. Ha le mani legate dietro la schiena con una corda di seta e un cartello appeso al collo. La parola "Maialino" è scritta capovolta, in inchiostro rosso e cancellata con una riga orizzontale. Un soprannome, non so a che cos'altro pensare. Sul cartello c'è anche il numero sei. Dalla posizione del corpo sembra che abbiano fatto inginocchiare la vittima, con la testa piegata in avanti prima di decapitarla con una spada di bronzo o un'altra arma simile bene affilata. Un'enorme quantità di sangue, niente orme sospette, nessuna impronta digitale. La scientifica non è venuta a capo di nulla.» Wu appoggiò il fascicolo sul tavolo, spinse un po' avanti la sedia, e allargò le braccia, col palmo delle mani rivolto in su. «Non c'è altro. Ho parlato più o meno con tutti quelli che lo conoscevano. Colleghi, vicini di casa, amici, familiari. I genitori sono morti, c'è ancora una zia che vive in Qianmen Xidajie. Tutti dicono che fosse una brava persona e che facesse una vita tranquilla. Il movente dell'assassinio resta un mistero. Nessuno ha visto niente di inconsueto il giorno del delitto.» Si strinse nelle spalle. «Niente.» Col pollice e l'indice si lisciò la leggera peluria sul labbro superiore che gli piaceva credere fosse come un bel paio di baffi. Li si rivolse a Qian. «Qian?» Qian fece un profondo respiro e si preparò a parlare. «Passiamo al numero due. Bai Qiyu, cinquantun anni. La stessa età della prima vittima. Sposato, con due figli all'università. Un uomo d'affari, funzionario di una piccola società di import-export nel distretto di Xuanwu. La mattina del 31 agosto il personale arriva al lavoro e trova Bai Qiyu disteso a terra nel suo ufficio. Decapitato. Stessa scena. A proposito della corda di seta che gli lega i polsi dietro la schiena, la scientifica dice che è della stessa lunghezza di quella usata per la prima vittima. Lo stesso cartello intorno al collo. L'inchiostro dello stesso colore: rosso. Ma questa volta il soprannome è "Zero" e il numero è il cinque. Un conto alla rovescia. Il prelievo mediante nastro adesivo effettuato durante l'autopsia sulle vertebre recise stabilisce che l'arma ha una lama di bronzo, simile a quella usata per l'altro omicidio, se non addirittura la stessa. Anche Bai Qiyu aveva bevuto vino rosso dro-
gato con flunitrazepam. Sua moglie, come la moglie di Tian Jingfu, era andata a trovare alcuni parenti. I figli erano andati a letto senza preoccuparsi del fatto che il padre non fosse ancora rientrato. La scena del delitto è pulita, tranne un'impronta digitale insanguinata, sbavata, ma rilevabile, sul bordo della scrivania. Non è però comparabile con nessuna di quelle contenute nella banca dati del sistema automatizzato di identificazione delle impronte. Ho interrogato personalmente circa cinquanta persone» concluse Qian con un sospiro. «Come per la prima vittima, nessuno sa dire chi potesse volerlo morto. Sull'agenda non aveva segnato nessun appuntamento per quella sera. Era rimasto solo in ufficio, dopo che l'ultimo dipendente se n'era andato.» Gli agenti del quartier generale scrivevano tutto diligentemente, avevano preso una quantità di appunti e consultavano spesso i fascicoli che erano stati loro forniti. Gli altri li guardavano con una certa apprensione e in preda a sentimenti contrastanti. Sarebbe stato molto spiacevole se qualche furbastro del quartier generale fosse riuscito a scoprire il particolare che a loro era sfuggito. Li Yan si rendeva conto che nell'indagine si era insinuato un ulteriore motivo di tensione. Si rivolse a Zhao, il più giovane della sezione, con i suoi venticinque anni, ancora un po' insicuro, ma intelligente, serio e desideroso di ricevere una promozione. «Ora vorrei una descrizione del delitto numero tre, agente Zhao.» Zhao cominciò a parlare, arrossendo leggermente. «15 settembre. Yue Shi, professore di archeologia presso l'università di Pechino, si è messo d'accordo con suo zio per una partita a scacchi e un bicchiere di birra, a casa sua, nel distretto di Haidan, vicino all'università. Lo zio arriva e trova il nipote in salotto, morto. È stato decapitato, ha le mani legate dietro la schiena con una corda di seta. Accanto al cadavere c'è un cartello, mezzo inzuppato di sangue. Il numero è il quattro, il soprannome, "Scimmia", scritto capovolto con inchiostro rosso e cancellato con una riga orizzontale.» L'agente Zhao fece una breve pausa. «Partiamo dalle analogie con gli altri due casi. Dall'esame dello stomaco e dai campioni di sangue risulta che la vittima ha bevuto vino rosso drogato con flunitrazepam. Il prelievo mediante nastro adesivo effettuato sulle vertebre recise dimostra che l'arma usata era di bronzo, e questo fa pensare che fosse la stessa dei casi precedenti. Ma, a questo punto, troviamo una difformità. Sulla scena del delitto non c'è quasi traccia di sangue, anche se il corpo appare dissanguato.» «Dunque è stato ucciso da qualche altra parte e poi portato a casa» os-
servò uno dei nuovi arrivati. «Bravo, davvero geniale!» esclamò Wu. «Nessuno ci aveva pensato!» L'agente arrossì. «Procedi pure, Zhao» disse Li. Zhao si guardò intorno a disagio. «Come ha fatto notare il collega, il cadavere è stato rimosso. Da alcune fibre tessili recuperate in seguito, risulta che è stato avvolto in un involucro di lana grigia, probabilmente una coperta. Aveva una polvere farinosa, di colore nero-bluastro, sotto le scarpe e sull'orlo dei pantaloni. La scientifica ha fatto sapere che si tratta di particelle di argilla cotta, una specie di ceramica. Ma è un'argilla della provincia dello Shaanxi, che non si trova dalle parti di Pechino.» Si strinse nelle spalle. «Non sappiamo che cosa, in realtà, possa significare questo particolare. C'erano macchie di sangue in corridoio, ma nessuna orma o impronta digitale leggibile. Il medico legale ritiene che la vittima sia stata uccisa circa ventiquattr'ore prima del ritrovamento del cadavere.» «È stata fatta un'indagine presso l'università?» chiese un altro agente del quartier generale. «Sì, dappertutto» rispose Zhao. «Abbiamo esaminato l'ufficio della vittima, le aule e i laboratori. Se fosse stato ucciso in uno di questi ambienti, ne avremmo trovato le tracce. È impossibile pulire tutto quel sangue senza che ne resti almeno una macchia. I colleghi del professore erano sconvolti. E nessuno, anche in questo caso, è riuscito a fare un'ipotesi su quale potesse essere il movente del delitto. Il professore non era sposato, non aveva molti amici. Viveva per il suo lavoro e vi dedicava il novanta per cento del suo tempo.» «Quanti anni aveva?» chiese lo stesso agente che era intervenuto poco prima. «Cinquantadue. Poco più anziano delle altre due vittime.» L'agente si rivolse a Li. «E l'ultima, la quarta vittima, quanti anni aveva?» «La data di nascita sul passaporto dice: marzo 1949. Cinquantun anni. Scusami, collega, non conosco il tuo nome.» «Sang. Sang Chunlin.» «Sono d'accordo, Sang, l'età è un particolare degno di attenzione. Ma, prima di tutto, vediamo che cosa sappiamo della quarta vittima.» Li guardò uno dopo l'altro i volti concentrati dei colleghi. «Yuan Tao,» spiegò «era un sino-americano; lavorava all'ufficio visti dell'ambasciata degli Stati Uniti.» Poi illustrò all'uditorio la scena del delitto, passo dopo passo, come
l'avevano esaminata lui e Qian, dal vivo, cinque ore prima. Spiegò che Yuan aveva preso in affitto, illegalmente, un appartamento al numero 7 di Tuan Jie Hu Dongli, dove era stato trovato il cadavere, ma questo non significava che vivesse lì, o almeno che ci vivesse abitualmente. «Da quanto risulta, all'ambasciata americana non ne sapevano niente. Gli avevano procurato una sistemazione in un complesso edilizio dietro il magazzino Friendship.» S'interruppe per un momento. «Hanno permesso ai nostri agenti della scientifica di entrare nell'appartamento.» C'era una leggera nota polemica nella sua voce. «Ci hanno anche garantito l'accesso al fascicolo personale di Tao... Non appena a Washington lo troveranno ce lo manderanno via fax.» Si sentì qualche risatina intorno al tavolo. «Quindi, finché non arriverà e finché non avremo i risultati dell'autopsia, oggi, nella tarda mattinata, non c'è altro da aggiungere.» Li andò ad aprire una finestra alle sue spalle prima di accendere un'altra sigaretta. L'aria nella stanza era azzurra di fumo e cominciavano a bruciargli gli occhi. «In conclusione, per ora, che cosa sappiamo?» Guardò di nuovo le facce dei presenti. «Sappiamo che l'assassino ha usato un'arma con una lama di bronzo affilata, probabilmente una spada. Sappiamo che per le vittime non era uno sconosciuto. Hanno bevuto vino insieme e non avevano alcun motivo di diffidenza nei suoi confronti, altrimenti lui non avrebbe potuto drogare il vino. Inoltre, non dimentichiamo che conosceva i loro soprannomi. Inchiostro rosso su carta bianca: un antico modo cinese per significare la fine di un'amicizia o di un amore. Anche questo farebbe pensare che l'assassino e le sue vittime si conoscessero bene. I nomi con i caratteri capovolti e cancellati da una riga orizzontale... sappiamo ciò che significano. L'idea che alle vittime sia stato attribuito un numero, a partire da sei, con un conto alla rovescia, significa che dobbiamo aspettarci altri due delitti.» Era un pensiero scomodo, ma ineludibile e servì a ravvivare l'attenzione dei presenti. «Continuo a pensare alla coincidenza dell'età» disse Sang. «Parliamone.» Sang parve perplesso. Era giovane, forse non aveva nemmeno trent'anni, di bell'aspetto, ed era l'unico intorno a quel tavolo che non fumava. «Se tutti hanno la stessa età e l'assassino sa i loro soprannomi, non è sensato pensare che, a un certo punto della loro vita abbiano fatto parte, tutti insieme, della stessa organizzazione, o istituzione, o unità di lavoro?» «I primi tre erano andati a scuola insieme» rispose Zhao e tutti ammuto-
lirono stupefatti. Lui arrossì. «Come hai detto?» chiese Li con voce ferma e pacata. «Ho pensato che, di solito, i soprannomi si danno a scuola, e così, ieri, sono andato a controllare.» «E perché nessuno ci ha pensato prima?» tuonò Chen. La domanda era giusta, ma Li non sapeva che cosa rispondere. «Sono passati più di trent'anni da quando quei tre andavano a scuola insieme» disse Zhao, per giustificarsi. «Penso, quindi, che non è certo il primo controllo che viene in mente di fare.» «E perché non hai voluto renderci partecipi dei tuoi pensieri?» chiese Chen con ironia pungente. «Ho avuto la conferma solo stamattina, capo.» «In nome del cielo, Zhao, il nostro è un lavoro di squadra. Ci scambiamo le notizie, le supposizioni, insomma parliamo tra noi. Ecco a che cosa servono le riunioni» intervenne Li, ma poi si chiese se fosse giusto rimproverare Zhao, l'unico che avesse avuto un'intuizione originale. Gli agenti del quartier generale tacevano, contenti di essersi sgravati, in quell'occasione, di ogni responsabilità. Solo Sang continuava a sfogliare il suo fascicolo. «Di che scuola si tratta?» chiese. «Qui non è detto.» «Infatti non è indicata» rispose Zhao e si schiarì la voce, imbarazzato. «Ci ho messo un po' di tempo a trovarla. È la scuola superiore al n. 29 di Qianmen Xidajie.» Ci fu un momento di silenzio durante il quale si sentì solo la matita di Sang che frusciava sulla pagina del taccuino. Li si allontanò dalla finestra e tornò a sedersi. «Ci divideremo in quattro o cinque gruppi» disse con voce autorevole e, mentre parlava, prendeva appunti. «A capo dei gruppi saranno Wu, Qian, Zhao e... Sang.» Il viso di Sang s'illuminò di gioia. «Ogni gruppo riesaminerà le prove raccolte dopo i quattro delitti e verrà a discuterne qui, a questo tavolo. A ciascuno verranno assegnate determinate zone d'indagine. Zhao parlerà con i vecchi insegnanti delle vittime. Qian con i vecchi compagni di scuola. Può darsi che le prossime due vittime siano tra loro. Dobbiamo arrivare prima dell'assassino.» «Non stiamo traendo delle conclusioni troppo affrettate?» chiese Sang. «D'accordo, i primi tre erano compagni di scuola, ma l'americano, ovviamente, no.» «È un'osservazione giusta,» convenne Li «ma la coincidenza che vede i primi tre insieme da ragazzi è troppo importante per non approfondirla. Ed
è il primo spiraglio di luce che si apre per noi in questa indagine. Potrebbe allargarsi.» Dopo un breve silenzio proseguì: «Sang, il tuo gruppo è incaricato di identificare l'arma. Quello di Wu riesaminerà i risultati riportati dalla scientifica. Dev'esserci qualcosa che ci siamo lasciati sfuggire. Ci riconvocheremo quando avremo qualche ulteriore informazione su Yuan Tao». La riunione si sciolse ma gli agenti continuarono a scambiarsi supposizioni sugli ultimi sviluppi dell'indagine. Mentre Zhao stava per andarsene ancora tutto rosso in faccia, Li gli disse: «Bravo, molto bene», e l'apprezzamento lo confuse ulteriormente. La nuvola di fumo si spostò nel corridoio, insieme agli agenti. Chen girava intorno al tavolo, mentre Li raccoglieva i fascicoli. «Sono contento che lei abbia capito l'importanza del lavoro di squadra, vicecaposezione Li» disse, con un tono leggermente polemico. «Proprio mentre si parla di affidare ogni indagine a un solo investigatore» ribatté Li con lo stesso tono. Chen se ne accorse e ne fu infastidito. «Lei sa che non sono d'accordo.» «Era forse l'unico argomento che la trovava d'accordo con mio zio.» «Lei non la pensa così?» «Io credo che il vecchio metodo abbia i suoi pregi, capo, ma il mondo sta cambiando.» Li diede un'occhiata all'orologio. «Chiedo scusa, devo andare. L'autopsia comincia alle dieci.» «No, è stata rimandata,» lo informò Chen «e il commissario vuole vederla subito al quartier generale.» 2 I primi raggi di sole occhieggiavano tra le robinie del viale Dong Jiaominxiang, formando chiazze di luce sui marciapiedi. La cappa di inquinamento che persisteva da giorni, come capitava talvolta, si era alzata all'improvviso, liberando il cielo. La città pareva rallegrarsene e trarne energia. Anche l'uomo che riparava le biciclette, di fronte all'ingresso secondario degli uffici della polizia municipale, sempre di malumore, ora chiacchierava allegramente, raschiandosi la gola e sputacchiando con rinnovato vigore nel canale di scolo accanto al marciapiede. Li Yan inforcò la bicicletta, superò il palazzo della Corte Suprema e voltò a sinistra, dov'era l'ingresso posteriore del quartier generale della polizia. Soltanto lui sembrava non provare gioia per quel sole autunnale che
scaldava ancora piacevolmente la pelle. Mentre passava davanti alla sentinella sull'attenti ripensò a quando aveva incontrato Margaret, la prima volta proprio in quello stesso posto. Era su un'auto della polizia che aveva urtato la sua bicicletta... Li si era solo graffiato un braccio... ma lei era stata molto arrogante. Il ricordo lo fece sorridere e allo stesso tempo lo immalinconì. Lasciò la bicicletta al posteggio, mise il lucchetto ed entrò nell'edificio di mattoni rossi che ospitava il quartier generale del Dipartimento di Investigazione criminale. Era passato da casa per mettersi in uniforme: pantaloni verde scuro, ben stirati; camicia verde chiaro con le maniche corte, le spalline e il distintivo della polizia; berretto con la visiera verde scuro e i galloni d'oro. Entrando, si tolse il berretto passandosi una mano sui capelli neri tagliati a spazzola e respirò profondamente. Il commissario Hu Yisheng, capodivisione del Dipartimento di Investigazione criminale, era in piedi vicino alla finestra quando Li entrò. Dalle tapparelle abbassate filtravano sottili strisce di sole, che si riflettevano oblique sui bordi della scrivania e andavano a spegnersi in fasce lucenti sul rosso della bandiera cinese appesa al muro. Li si fermò sull'attenti, mentre il commissario si voltava verso di lui con uno sguardo gelido. Era un bell'uomo sui sessant'anni, con i capelli grigi e folti. Fissò Li per un tempo incredibilmente lungo, fino a farlo sentire a disagio. Quello sguardo era peggio di qualsiasi rimprovero espresso a parole. «Ho saputo della morte di suo zio: mi dispiace molto» disse infine Hu Yisheng. La frase aveva il peso di un'accusa, come se Li fosse personalmente responsabile di quella morte. Anche dalla tomba, lo zio continuava a proiettare su di lui la sua ombra. Il commissario si mise a sedere alla scrivania, lasciando Li in piedi. «Non sarebbe stato molto orgoglioso del suo modo di condurre questa indagine.» «Penso che mi avrebbe dato qualche buon consiglio, commissario Hu» ribatté Li. Hu si adombrò. «Le darò io un consiglio, Li» disse. «Risolva questa indagine in fretta e si attenga ai metodi tradizionali della polizia cinese. D'accordo? "Dove l'agricoltore è instancabile, la terra è fertile", diceva suo zio.» «Sì, commissario, ma diceva anche che "Il bue è lento e la terra è paziente".» Hu aggrottò la fronte. «Cosa significa, esattamente?» «Oh, forse che se si usa un bue per arare un campo, non ci si può aspet-
tare che faccia in fretta.» «Lei, se non sbaglio, è sempre stato un sostenitore della necessità di affidare ciascuna indagine a un solo investigatore» gli rinfacciò il commissario, con malanimo. «La delinquenza aumenta e dobbiamo trovare sistemi più efficienti per combatterla.» «Non è questo il momento di discuterne» tagliò corto il commissario. «La decisione verrà presa a livelli superiori.» Fece una pausa. «Così come la decisione di affidare l'autopsia dell'ultima vittima agli americani.» «Cosa?» chiese Li, stupito. «Si è convenuto che vi partecipi uno dei loro medici legali. Ciò significa che l'autopsia è in mano loro.» «Ma è assurdo!» protestò Li. «I loro medici non hanno assistito alle autopsie precedenti. È una decisione insensata.» «Perché non lo dice al ministro?» Li strinse le labbra e non rispose. Hu appoggiò i gomiti sul tavolo, congiunse le palme delle mani e fissò Li attentamente. «Ritengo che lei abbia recepito il senso dell'ammonizione del suo caposezione riguardo all'americana, Margaret Campbell.» Li annuì, con compunzione. «Sì, certo.» «Bene.» Hu si appoggiò allo schienale della sedia e fece un profondo respiro. «Perché sarà lei a effettuare l'autopsia.» Li lo guardò sbalordito. Uscì dall'edificio in uno stato di trance. Si tolse il berretto, alzò la testa verso il cielo e lasciò che i caldi raggi del sole gli scendessero sul viso come pioggia. Chiuse gli occhi e cercò di liberare la mente da tanti pensieri confusi, con l'assurda speranza che nel riaprirli avrebbe scoperto che tutto era cambiato e che le sue preoccupazioni non avevano più ragione di esistere. Ma sapeva che non sarebbe stato così. Aveva fatto di tutto per scacciare Margaret dai suoi pensieri, dal profondo della sua anima. Che cosa poteva pensare lei, se non di essere stata in qualche modo tradita? E, per un certo verso, lui l'aveva tradita davvero. Li Yan aprì gli occhi e si accorse che la bicicletta non era più dove l'aveva lasciata. Aggrottò la fronte perplesso e percorse con lo sguardo la fila di biciclette appoggiate al muro di mattoni rossi: la sua non c'era. Lanciò un'occhiata alla sentinella davanti al cancello che teneva lo sguardo fisso sulla strada. Cercò di nuovo la bicicletta: forse l'aveva lasciata da qualche altra parte o forse qualcuno l'aveva spostata.
Non riuscendo a darsi una spiegazione della sua sparizione, andò a parlare con la sentinella. «Ho lasciato la bicicletta lì mezz'ora fa. Lei mi ha visto entrare...» La sentinella si strinse nelle spalle. «C'è gente che va e viene in continuazione. Non me lo ricordo.» «Non si ricorda che io ho lasciato la mia bicicletta contro il muro e qualcun altro l'ha presa?» sbottò Li. «No, non me lo ricordo» rispose la sentinella seccamente. «Non sono il custode del parcheggio.» Li imprecò a bassa voce. Era un fatto incredibile: qualcuno aveva avuto la faccia tosta di rubare la sua bicicletta dal cortile interno della polizia municipale! Il ladro certo sapeva che nessuno avrebbe mai pensato di fare domande a chi usciva in bicicletta dal quartier generale del Dipartimento di Investigazione criminale. Scosse la testa: inutile denunciare il furto. Rubare biciclette a Pechino era un male endemico. Ce n'erano in giro venti milioni e la speranza di ritrovare la sua era pressoché nulla. Si calcò il berretto in testa, girò dietro l'angolo e percorse a piedi il breve tratto che lo separava da casa sua, in Zhengyi Dajie. Prese la posta dalla cassetta delle lettere e salì al secondo piano, facendo i gradini due per volta, entrò in casa di corsa, buttò la posta sul tavolo e il berretto su una poltrona, dall'altra parte della stanza. «Cazzo!» gridò al muro e si sentì un po' meglio. Andò in camera da letto, si tolse l'uniforme e si mise davanti allo specchio. Era alto più di un metro e ottanta e aveva un corpo asciutto e muscoloso. Si guardò negli occhi, cercando di vedersi come Margaret l'avrebbe visto di lì a poche ore, e tutto quello che lesse nel proprio sguardo fu la consapevolezza della sua colpa. Non voleva rivedere Margaret, né leggere nei suoi occhi l'accusa, la collera e il dolore. Aveva creduto che il peggio fosse ormai passato e, invece, il destino gli aveva preparato una nuova, difficile prova. Si accorse, infastidito, che stava scegliendo i vestiti da mettersi con maggiore attenzione del solito e così, irritato con se stesso, finì per infilarsi i soliti jeans e una camicia bianca con le maniche corte. Mise il portafoglio e il distintivo nella tasca posteriore dei pantaloni, le sigarette e l'accendino in quella della camicia, prese la bicicletta del vecchio Yiiu che stava in corridoio, se la caricò in spalla e scese le scale. Non si fermò a leggere la lettera con il timbro postale del Sichuan, che aveva buttato sul tavolo poco prima. Era arrivata solo con tre giorni di ritardo. Si avviò lungo la Chang'an Est, poi si diresse verso nord. Pedalava con
una concentrazione rabbiosa, suonando il campanello ai pedoni che gli attraversavano la strada, imprecando contro le automobili e i camion che si prendevano il diritto di occupare tutta la strada. Il sudore gli gocciolava dalla fronte e gli incollava la camicia alla schiena. Aveva voglia di urlare, di fracassare qualcosa, di prendere a calci qualcuno. Non si sarebbe mai liberato dei due fantasmi che aveva cercato di esorcizzare: il defunto zio, di cui stava usando la bicicletta, e la donna cui gli era stato imposto di rinunciare e che avrebbe dovuto rivedere di lì a poco. Grandi pentoloni di brodo ribollivano sui bracieri lungo i marciapiedi. Li sentì un odore di gnocchetti che friggevano nell'olio e vide le donne che arrotolavano gli spaghetti sulle assi di legno. La carbonella bruciava e fumava dentro i recipienti di metallo, pronta per gli spiedini di agnello e di pollo speziati allineati sulla griglia. La gente mangiava presto, per strada, e fin da un'ora prima del pranzo c'era un grande fermento tra chi cuoceva le vivande e chi si apprestava a consumarle. I ragazzini sciamavano fuori dalle scuole, con le loro tute blu e i berretti gialli da baseball, gli operai uscivano a frotte dalle fabbriche riversandosi sul marciapiede assolato. Per un tratto di strada Li si trovò dietro un giovane con i vestiti in disordine, che arrancava su un triciclo con un grosso carico di formelle di carbone. Finalmente riuscì a superarlo, infilandosi tra il triciclo e un autobus che arrivava dall'incrocio con la Dongsi Shitiao. Si lasciò alle spalle gli odori del cibo e percorse gli ultimi metri di strada all'ombra prima di raggiungere l'angolo con la Dongzhimennei, dove sperava di fare colazione con un tan bing. Li Yan si avvicinò a un piccolo chiosco con il tetto rosso a punta, dove Mei Yuan era affaccendata alla piastra rovente per preparare un paio di tan bing per due studentesse. Portava i capelli neri raccolti nella tradizionale treccia; il suo viso liscio e magro quel giorno aveva qualche ruga in più e sembrava un po' più stanco del solito. Mei Yuan nel vederlo sorrise, e le si formarono due fossette nelle guance. Subito i suoi begli occhi scuri a mandorla ripresero vita. Li sapeva che aveva un debole per lui. Erano uniti da una simpatia inespressa. In qualche modo, Li riempiva in lei il vuoto lasciato dal figlio che aveva perso e lei riempiva in lui quello lasciato dalla madre defunta, vittime entrambi della Rivoluzione culturale. Non si erano mai fatti domande. Il loro era un affetto nato e cresciuto nel silenzio. Mei Yuan versò l'impasto sulla piastra calda, lo guardò sfrigolare, poi vi aprì sopra un uovo. Li resistette a fatica alla tentazione di abbracciarla. La
settimana precedente, non vedendola per qualche giorno al solito angolo, era andato a cercarla a casa. L'aveva trovata a letto, sola e ammalata. Faceva parte della nuova categoria dei lavoratori autonomi e non aveva un'organizzazione sindacale che si occupasse della sua assistenza sanitaria. La sera della visita di Li si era preparata da sola la cena e gli aveva raccontato che, mentre era ammalata, aveva pagato una ragazza che le facesse la spesa e le tenesse in ordine la casa, ma che l'indomani sarebbe tornata a cuocere i suoi tan bing all'angolo della strada. Li, però, aveva notato che Mei Yuan non stava ancora bene. La vedeva affaticata, in difficoltà a riprendere la solita vita. Mei Yuan voltò le crêpes con una paletta, le spalmò di salsa piccante, vi sparse una manciata di erba cipollina e coriandolo, poi, al centro, fece cadere un po' di bianco d'uovo montato a neve e fritto, le piegò in quattro e le diede, avvolte in un foglietto di carta alle studentesse. «Due yuan» disse. «Hai mangiato?» chiese a Li. «Sì, ho mangiato.» Era la risposta d'obbligo al saluto tipico di Pechino. Poi aggiunse: «Scusami, ho saltato la prima colazione. Avevo troppo lavoro». «Non è una buona ragione» lo rimproverò Mei Yuan. «Un omone come te ha bisogno di nutrirsi.» Cominciò a preparare un altro tan bing. «Comincio a pensare che cerchi di evitarmi.» «E perché mai?» «Perché non sai rispondere al mio ultimo indovinello.» «Mi hai fatto un indovinello? Quando?» «Prima di ammalarmi.» «Non me lo ricordo.» «Belle scuse. Adesso te lo ripeto.» «Te ne prego.» Mei Yuan sorrise. «Se un uomo cammina per la strada senza mai voltare la testa, come può continuare a vedere tutto quello che si è lasciato alle spalle? Non ci sono di mezzo specchi, beninteso.» «Ah, si, adesso mi ricordo. È troppo facile.» «Davvero? Allora rispondi.» «Cammina a ritroso.» Mei Yuan sorrise di nuovo. «Troppo facile, hai ragione.» Finì di preparare il tan bing e glielo diede. Li Yan addentò la pasta morbida e saporita poi si tolse di tasca un biglietto da due yuan, ma lei respinse la sua mano. «Lascia perdere.»
«Non lascio perdere» insisté Li e allungò il braccio per mettere il denaro nella ciotola di latta. «Se a casa tua fossero venuti i ladri e mandassero me a fare un'indagine, diresti ai miei capi "Non pagatelo per questo lavoro, è un amico"?» «Che cos'è, un indovinello?» «No, nessun indovinello oggi. Non mi hai dato il tempo di prepararmi.» «Allora te ne faccio un altro io, stavolta più difficile.» Li annuì con la testa, senza smettere di mangiare il suo tan bing. «Tre uomini vanno in un albergo. Prendono una sola stanza per tutti e tre. L'albergatrice chiede loro trenta yuan.» «Un prezzo basso.» «Be', dipende da com'è l'albergo. In ogni caso, nell'indovinello il prezzo dev'essere di trenta yuan e i tre clienti devono pagarne dieci a testa.» «D'accordo.» «Dopo che sono saliti in camera, l'albergatrice pensa che avrebbe dovuto chiedere solo venticinque yuan.» «Sempre meno!» esclamò Li. Mei Yuan finse di non aver sentito. «La brava donna chiama il fattorino e gli dà cinque yuan da restituire ai tre clienti. Salendo le scale, il fattorino pensa che sarà difficile dividere cinque yuan in tre e decide di consegnarne solo tre e di tenersi gli altri due.» Li scosse la testa. «Che disonesto! Proprio come quelli con cui ho a che fare ogni giorno.» Di nuovo Mei Yuan finse di non aver sentito. «La domanda è questa: a ciascuno dei tre viene restituito uno yuan, quindi, a conti fatti, ogni cliente per la camera ne avrà pagati nove. Tre per nove fa ventisette. Il fattorino ha tenuto due yuan per sé. Totale: ventinove. E l'altro yuan dov'è finito?» Li smise di mangiare per rifare il calcolo. «Ventinove....» disse infine. «Ma non è possibile!» «Qui sta l'indovinello.» Li rifece il calcolo e scosse la testa. «Devo pensarci sopra, anche se sono sicuro che la risposta è semplice.» «Già.» Mei Yuan frugò nella sacca appesa alla bicicletta. «Oh, quasi me ne dimenticavo, ti ho portato questo. Credo che ti piacerà.» Gli mostrò un libro rilegato, con la copertina blu scuro, molto sciupato. «È Redgauntlet di Walter Scott.» «È un nome che ho già sentito. Credo che mio zio avesse qualche suo libro. Chi è?»
«Era un famoso scrittore scozzese. Recentemente ho visto il film Braveheart, la storia di William Wallace che lotta per la libertà della Scozia, e così mi sono messa a leggere Walter Scott. Penso proprio che possa piacere anche a te.» Li prese il libro. «Grazie, Mei Yuan. Non potrò restituirtelo presto, però, perché sto seguendo un'indagine che mi dà molto da fare.» «Non ti preoccupare, non è mai perso quello che si dà agli amici.» Arrivò un gruppetto di ragazzi che volevano i tan bing e lei si voltò verso la piastra per prepararli. Li si mise a guardare il traffico, riflettendo sulla tragedia di dodici anni di follia che avevano strappato una donna intelligente e colta alla sua vita, costringendola a cuocere crêpes all'angolo della strada per guadagnarsi da vivere. Ma quando Mei Yuan tornò a voltarsi verso di lui, il suo pensiero era già tornato all'incontro con Margaret che non aveva modo di evitare. Si accorse che Mei Yuan lo stava osservando. «Che cosa c'è che non va, Li Yan?» Come spiegarglielo? Era difficile anche soltanto cominciare. «Che cosa faresti,» le chiese «se il cuore ti dicesse una cosa e i tuoi superiori un'altra?» «È un indovinello?» «No, è una domanda.» Mei Yuan ci pensò un po'. «È un conflitto tra... vediamo... amore e dovere?» «Più o meno, anche se è meno semplice di quanto sembri.» «Sarebbe bello se nella vita tutto fosse semplice come la soluzione di un indovinello» disse Mei Yuan e gli posò affettuosamente una mano sul braccio. «Non c'è un modo per conciliare l'uno e l'altro? Amore e dovere? L'equilibrio è sempre la soluzione migliore.» Li scosse la testa. «In questo caso non credo sia possibile.» 3 Li oltrepassò il campo da gioco di cemento arroventato dal sole al di là di una recinzione. Un gruppo di studenti stava giocando a pallavolo, tra grida e risate. Li invidiò la loro giovinezza, libera dalle preoccupazioni del mondo reale che rimaneva fuori dai confini dell'università. Anche lui era stato come loro e provò nostalgia e rimpianto per l'innocenza ormai perdu-
ta. Lo aveva infastidito, tornando alla Prima Sezione, scoprire che gli americani avevano insistito perché l'autopsia venisse eseguita al laboratorio della scientifica presso l'Accademia di polizia, nella zona sudoccidentale di Pechino. La dottoressa Campbell, a quanto pareva, si era lamentata che al centro di Pao Jü Hutong le strutture fossero insufficienti. Li si ricordò che, quando l'aveva vista la prima volta, lei lo aveva irritato moltissimo e adesso, a distanza di tempo gli procurava la stessa irritazione. Vide la limousine parcheggiata davanti all'edificio del laboratorio, con la sigla del corpo diplomatico, seguita dal numero 224 delle automobili dell'ambasciata statunitense. Li sentì il cuore battergli forte, la bocca diventare secca e, per un momento, il nervosismo lasciò il posto a un'ansia profonda. Quando Li entrò nella sala anatomica l'agente Qian gli lanciò uno sguardo preoccupato. In piedi, in fondo alla sala c'era una donna asiatica, molto giovane con i capelli corti e scuri. Era pallidissima e visibilmente a disagio. Il dottor Wang aveva portato i suoi due assistenti da Pao Jü Hutong. Stavano esaminando, insieme a Margaret, le fotografie scattate sulla scena del delitto disposte su un tavolo coperto da un telo bianco, insieme al cartello trovato appeso al collo della vittima. L'atmosfera era carica di tensione. Appena Li Yan vide Margaret si sentì in netto svantaggio. I preparativi per l'autopsia erano quasi terminati e lei era pronta a cominciare, quasi irriconoscibile nel suo abbigliamento professionale: camicia e pantaloni verdi da chirurgo, un camice di cotone a maniche lunghe, un ampio grembiule di plastica. Aveva i capelli raccolti sotto una cuffia e il viso nascosto dalla mascherina e dagli occhiali di protezione. Le braccia, di cui lui ricordava la pelle liscia punteggiata di piccole lentiggini, erano coperte da mezze maniche di plastica, e le dita lunghe ed eleganti erano nascoste nei guanti di lattice. Tutte barriere che la sottraevano al suo sguardo. Lui, invece, in jeans e camicia con il colletto slacciato, si sentiva vulnerabile, trafitto dai suoi occhi che lo fissavano attraverso gli occhiali. Poi, la voce che conosceva così bene disse: «In ritardo come al solito, vicecaposezione». «Per la cronaca,» ribatté Li «desidero render noto che contesto il fatto che questa autopsia venga affidata a persona diversa dal nostro medico legale, il quale ha già eseguito le altre tre autopsie di questa indagine.» «Davvero?» Quel tono pungente gli era familiare. «Forse, se fosse intervenuto per tempo un vero professionista, non ci sarebbe stato bisogno di
una quarta autopsia.» Li vide la ragazza asiatica rimanere senza fiato per la sorpresa. Era stato uno schiaffo. Un insulto calcolato. Guardò Wang, non sapendo se fosse riuscito a seguire quel veloce scambio di battute in inglese, ma la mascherina e gli occhiali che gli nascondevano il viso non permisero di leggere la sua reazione a quell'offesa. Margaret fece un cenno ai due assistenti. «Adesso che il capo è finalmente arrivato, penso che sia il caso di cominciare.» Gli assistenti guardarono Wang, che assentì impercettibilmente, poi si allontanarono e tornarono spingendo il lettino a rotelle sul quale giaceva il cadavere, ancora completamente vestito. Lo sistemarono sotto un microfono che pendeva dal soffitto. Il corpo, supino, si inarcava nel punto in cui le braccia erano legate per i polsi dietro la schiena. La testa, appoggiata su un panno bianco intriso di sangue, era stata avvicinata al collo, ma stava piegata di lato, con gli occhi e la bocca aperti. Margaret approfittò del fatto che l'attenzione di tutti era concentrata sul cadavere, per osservare meglio Li, senza farsi notare. Era più magro di quando l'aveva visto l'ultima volta e aveva gli occhi cerchiati da ombre scure. Rimase colpita dai suoi tratti marcatamente cinesi. Ai tempi in cui stavano insieme, infatti, Li aveva smesso di sembrarle un cinese: era solo Li Yan, che la toccava con una dolcezza che non aveva mai trovato in nessun altro uomo e aveva gli occhi teneri e scuri, ironici e vivaci, irresistibili. Adesso era come se non lo avesse mai conosciuto e per lui riusciva a sentire solo rabbia. Si concentrò sul lavoro. Accese il microfono, ma rimase colpita dalla strana posizione del cadavere che dava la sensazione di un uomo costretto con la forza a morire, assai più che se fosse stato pugnalato o ucciso da una revolverata. C'era qualcosa che rivelava il terrore dell'uomo in attesa di essere decapitato. Avviò subito l'esame preliminare, registrando man mano le proprie osservazioni per poi trascriverle. «Il corpo è quello di un asiatico ben nutrito, all'apparenza poco più che cinquantenne, morto per decapitazione, come verrà descritto in seguito. Indossa pantaloni di colore grigio scuro, calze bianche, scarpe di pelle nera e una camicia bianca inzuppata di sangue nella parte anteriore e laterale del colletto e nella zona in corrispondenza del torace.» Gli assistenti girarono il cadavere, creando così la macabra illusione di un corpo che ruotava mentre la testa rimaneva ferma. Adesso era più diffi-
cile vederlo come un essere umano, sembrava piuttosto una statua di cera, divisa in varie parti scollegate tra loro. Margaret esaminò la corda di seta bianca che legava i polsi, prese la macchina fotografica con il flash che uno degli assistenti le porgeva e scattò qualche fotografia. L'altro assistente le diede uno spago lungo una cinquantina di centimetri. Lei ne legò i due capi alla corda di seta alla stessa distanza dal nodo, poi tagliò la corda di seta lasciandone intatto il nodo. Il dottor Wang la depose sul tavolo vicino. Margaret fotografò di nuovo i polsi. «Togliendo la corda di seta, è possibile osservare sui polsi contusioni rosa che verranno descritte in seguito.» Gli assistenti del dottor Wang tolsero con cautela gli abiti di Yuan Tao e li misero sul tavolo insieme alla corda di seta. Le tasche dei pantaloni erano vuote. Girarono di nuovo il corpo sulla schiena e Margaret cominciò a esaminarlo nei particolari. «Il cadavere è stato refrigerato e risulta freddo al tatto. Il rigor mortis è presente nella mascella e nelle estremità, ma non sul collo, a causa della decapitazione. Una costante lividezza post mortem è debolmente rilevabile solo nelle parti declivi posteriori.» Li intervenne. «È possibile avere un'idea approssimativa dell'ora della morte?» Margaret con un sospiro infastidito spense il microfono. «Perché la polizia fa sempre domande cui è impossibile rispondere con un minimo di esattezza?» Li ebbe l'impressione che il dottor Wang sorridesse, sotto la mascherina da chirurgo. «Poiché il cadavere è stato refrigerato,» spiegò «è inutile che io prenda la temperatura del fegato. Ritengo che il rigor mortis sia presente da qualche ora, quindi il momento della morte potrebbe risalire tra le dodici e le sedici ore fa.» Dunque, pensò Li, tra le dieci della sera prima e le due del mattino. Un po' più tardi di quanto aveva stimato Wang, ma l'ipotesi corrispondeva meglio ai movimenti degli inquilini del piano di sotto. «Posso continuare?» chiese Margaret. Esaminò la testa, voltandola disinvoltamente da una parte e dall'altra, a un certo punto l'afferrò addirittura per i capelli, lasciando cadere dei grumi di sangue rappreso sul tavolo. Descrisse al microfono gli occhi neri, sbarrati che rimanevano fissi mentre la testa veniva rigirata o scossa, la bocca che il rigor mortis manteneva aperta e quasi congelata nell'atto di emettere
un grido. «È presente una zona contusa di colore rosa di due centimetri, due centimetri e mezzo per quattro centimetri con un'abrasione dorata incartapecorita sopra la zona zigomatica della guancia destra e il margine orbitario laterale.» Erano le ferite prodottesi quando la testa era caduta e rotolata per terra. Margaret passò alla descrizione del trauma esaminando minuziosamente il collo. «La decapitazione, come già detto, è stata completa. Il bordo posteriore è più basso di tre centimetri rispetto a quello anteriore e il taglio risulta più netto sulla parte posterolaterale sinistra, sulla quale è visibile una sottile abrasione, mentre l'aspetto anteriore presenta un lembo di pelle di un centimetro per due e mezzo. Questo lembo di pelle posa sopra la superficie anteriore esterna del collo. Al margine della ferita è riscontrabile la traccia di una reazione vitale. La ferita attraversa la colonna nello spazio tra la quinta e la sesta vertebra. C'è una recisione completa di tutte le strutture di tessuto molle del collo: la trachea, all'altezza del terzo anello; la parte injeriore delle carotidi fino alla biforcazione. I margini del tessuto molle indicano l'inclinazione in avanti dello strumento che ha causato la morte.» «Che cosa significa esattamente?» chiese Li. Margaret gli rivolse uno sguardo quasi sprezzante. «Significa che ho rilevato un taglio più netto.» Fotografò il collo da varie angolazioni prima di esaminare lo scoloramento grigio-verdastro sulla superficie recisa della colonna vertebrale. Chiese un prelievo mediante nastro. Il patologo Wang tagliò una ventina di centimetri di un nastro adesivo trasparente. Tenendolo per le estremità, lo applicò sopra il tessuto fibrocartilaginoso esposto tra la quinta e la sesta vertebra e Margaret ve lo fece aderire. Poi Wang lo strappò via, prelevando così alcune microscopiche particelle di metallo o minerale lasciate dalla lama dell'arma del delitto e le conservò attaccando il nastro sul bordo di una capsula di Petri. Margaret si rivolse a Li. «Immagino che abbiate seguito lo stesso procedimento con le vittime precedenti.» «Sì.» «Ebbene?» «Le particelle sono state minuziosamente esaminate al microscopio elettronico. Gli elementi fondamentali individuati sono rame e stagno.»
«Cioè bronzo. Si può pensare a una spada di tipo ornamentale o cerimoniale? Forse addirittura un manufatto antico?» «Forse» ammise Li. «Be', non vedo altre soluzioni. Da quando è stato scoperto il ferro, nessuno fabbrica più spade di bronzo.» Margaret fece una pausa. «Che dite della firma?» chiese poi. Li aggrottò la fronte. «Non capisco.» Margaret assunse un tono spazientito, come se parlasse con un bambino. «Anche la lama più liscia ha intaccature o imperfezioni che lasciano sull'osso reciso microscopiche striature. In pratica, una sorta di firma. Immagino che siano state prelevate sezioni di vertebre dalle vittime precedenti.» Li lanciò un'occhiata a Wang, il quale assentì. «Bene» proseguì Margaret. «Allora, c'è una remota possibilità che, esaminando la superficie recisa dell'osso o del disco intervertebrale, mediante un microscopio di comparazione, si possano confrontare le striature e stabilire se per i quattro omicidi sia stata usata la stessa arma. Un esperto spadaccino tende a colpire sempre con lo stesso lato della lama: è quello che si potrebbe definire un "punto debole". E così potrebbe aver lasciato la stessa firma ogni volta. Rilevandola, si potrebbero attribuire i delitti alla stessa arma. Una specie di confronto balistico. Si chiama "esame del marchio di fabbrica".» «Questo è... un... procedimento che non abbiamo mai utilizzato» commentò il dottor Wang e Li si stupì di sentirlo parlare così bene in inglese. «Vorrei che lo utilizzaste adesso» disse Margaret. «Potrebbe essere importante. Se al vostro criminologo serve un consiglio sulla procedura, sarò felice di offrirglielo.» Ordinò a uno degli assistenti di tagliare una sezione della colonna vertebrale. Usando la stessa sega che gli sarebbe servita in seguito per rimuovere la parte superiore del cranio, l'assistente tagliò la colonna una decina di centimetri al disotto della ferita e mise la sezione di vertebra recisa nel contenitore di vetro pieno di formalina che il collega gli porgeva. Lo stridio della sega era lugubre come il lamento di una creatura che piange la propria morte. Sophie, che era rimasta in piedi in fondo alla stanza, grondante di sudore e pallida come la cera, si mise una mano sulla bocca, ma incrociando lo sguardo di Margaret capì che, in un modo o nell'altro, doveva farsi forza. Deglutì, fece un respiro profondo e cercò di immaginarsi altrove. Margaret lasciò il posto agli assistenti perché prelevassero i campioni di
sangue e di liquidi organici per l'esame tossicologico e ne approfittò per guardare Li che però teneva gli occhi ostinatamente fissi sul cadavere. Avrebbe voluto prenderlo per un braccio, scuoterlo e chiedergli perché si stesse comportando così, ma, sentendo le lacrime riempirle gli occhi, si affrettò a distogliere lo sguardo da Li proprio mentre l'ago, che l'assistente aveva inserito nell'occhio destro del morto per estrarne il liquido, provocava il collasso del bulbo. Tornò a concentrarsi sul lavoro. Il resto dell'autopsia avrebbe seguito la normale procedura, che avrebbe richiesto altri quarantacinque minuti. Gli assistenti sistemarono un blocco di legno sotto il cadavere, a metà del torace per facilitare l'incisione a "Y", che partiva da ciascuna delle spalle per congiungersi alla base dello sterno e proseguire oltre l'ombelico, fino all'osso pubico. Una volta aperta la cassa toracica e reso più facile l'accesso agli organi, Margaret esaminò sistematicamente il cuore e i polmoni, senza trovare niente di anormale, finché non arrivò allo stomaco. Bloccò l'esofago e lo tagliò trasversalmente, liberò lo stomaco dalle connessioni adipose e lo separò dal duodeno. Tutti restarono colpiti dal forte odore di alcol. Margaret annusò lo stomaco due o tre volte e aggrottò la fronte. «A me sembra vodka. Il defunto aveva i miei stessi gusti.» Tenendo sollevato lo stomaco vi praticò una piccola incisione e fece colare parte del contenuto in una provetta. L'odore invase la sala. Margaret aprì lo stomaco per esaminarlo. «L'esofago è caratterizzato da una mucosa grigio-rosa. Non sono presenti diverticoli o varici. Lo stomaco contiene 475 centimetri cubici di un liquido acquoso azzurro-bruno in cui sono visibili molteplici particelle azzurro chiaro, simili a residui di farmaco. Non si notano resti di cibo identificabili. È percepibile un odore simile all'etanolo. La mucosa gastrica presenta macchie azzurro chiaro, evidentemente lasciate dai contenuti gastrici. Le pliche gastriche sono normali.» Margaret spense il microfono. «Roofies. La classica droga "da stupro premeditato". Due o tre pastiglie da due milligrammi, meglio se prese con un po' di alcol. Ecco perché la vittima non si è ribellata all'esecuzione. Tranne che per i lividi intorno ai polsi, prodotti dalla corda di seta, non c'è nessuna traccia di trauma a indicare che ci sia stata una lotta.» «La sostanza trovata nello stomaco delle altre vittime,» disse il patologo Wang, «era il flunitrazepam...» «È la stessa cosa. Da noi, il nome gergale è roofies, quello commerciale
è Rohypnol, ed è un prodotto della Roche. Appena messo in commercio è finito subito nelle mani sbagliate perché, sciolto nell'acqua, è inodore, incolore, insapore; allora la Roche ha cambiato subito la formula e l'ha fatto diventare blu, cosicché è impossibile metterlo nel bicchiere di qualcuno senza che questi se ne accorga.» «Negli altri tre casi,» disse Wang «è stato mescolato al vino rosso.» «Può darsi» osservò Margaret, dopo un momento di riflessione. «Lo avrà reso, forse, un po' torbido, ma a meno di non essere un esperto conoscitore di vino sarebbe stato difficile accorgersene. In questo caso, però» aggiunse, indicando la carcassa aperta sul tavolo dell'autopsia «visto che si trattava di vodka, avrebbe dovuto sicuramente renderla blu.» «Ma, se è così, la vittima non l'avrebbe bevuta» intervenne Li. Margaret si strinse nelle spalle. «Chi lo sa? È incredibile quello che si può fare quando si ha un'arma puntata addosso.» Accennò al cartello macchiato di sangue che era stato lasciato sul tavolo di appoggio. «Immagino che gliel'abbiano attaccato al collo prima di mozzargli la testa.» «È quello che supponiamo anche noi» disse Li. Margaret lo guardò, aspettando che proseguisse, ma dal momento che Li non aggiungeva altro, gli chiese: «E che cosa c'è scritto?». Lui la guardò e disse con tono piatto: «Il carattere in alto rappresenta il numero tre». Margaret aggrottò la fronte. «Ma io credevo che Yuan Tao fosse la quarta vittima.» «È così, infatti, l'assassino è partito dal numero sei e, a quanto pare, sta facendo il conto alla rovescia.» «Allora ci sono altre due vittime nel suo elenco?» «Pare di sì. La parola cancellata con una riga orizzontale è un soprannome. Anche tutti gli altri ne avevano uno: Zero, Scimmia, Maialino. Erano compagni di classe alla scuola superiore.» «Ma non Yuan Tao vero?» chiese Margaret. «Finché non riceveremo il fascicolo dalla vostra ambasciata, non sapremo niente di lui. Ma visto che è americano, mi sembra improbabile. Il soprannome è Talpa e, come gli altri, è scritto capovolto.» «Perché? Ha un significato speciale?» «Durante il periodo della Rivoluzione culturale,» disse Li «i "revisionisti" o "controrivoluzionari" venivano fatti sfilare in pubblico con cartelli appesi al collo dove il loro nome era scritto capovolto e cancellato con un tratto orizzontale, a significare che erano considerati "nonpersone".»
Margaret si chiese che cosa si provasse a essere definiti "non-persona". Negli ultimi mesi aveva imparato sulla Rivoluzione culturale quanto bastava per sapere che tutti in quella stanza avrebbero potuto essere oggetto di persecuzione. L'umiliazione, la degradazione e qualche volta la morte inflitte a intellettuali, professionisti, esponenti del mondo della cultura, durante quegli anni oscuri, erano difficili da immaginare. E tutto questo era finito da una ventina d'anni. Troppo poco per sentirsi tranquilli. Riaccese il microfono e completò l'autopsia. Fegato, milza, pancreas, reni, intestino, vescica. Tutto filò via liscio. L'unico problema sorse quando uno degli assistenti incontrò qualche difficoltà nell'impedire che la testa mozzata gli scivolasse di mano mentre apriva il cranio con la sega. L'altro assistente, allora, intervenne a tenergliela ferma finché non ebbe estratto il cervello da consegnare a Margaret perché lo pesasse. Dopo che furono prelevati campioni da ogni organo, l'autopsia poté considerarsi conclusa. Gli assistenti cucirono la carcassa, attaccarono alla meglio la testa al collo e, infine, lavarono quel grottesco simulacro di essere umano. Lo ripulirono del sangue, strofinandolo forte, e lo asciugarono con la carta, poi lo infilarono in un sacco di plastica e lo riportarono nella cella frigorifera. Margaret si sfilò i guanti, si tolse il camice e il grembiule e li lasciò cadere per terra. Faceva freddo nella sala autopsie, ma lei era sudata. Si strappò via gli occhiali, la mascherina, la cuffia e scosse la testa, lasciando che i capelli le ricadessero liberi sulle spalle. Li, allora, riuscì a vederla bene: la pelle chiara spruzzata di lentiggini, le labbra piene, le sopracciglia dal disegno netto, gli occhi azzurri come schegge di ghiaccio. Avrebbe voluto prenderle il viso tra le mani e baciarla, ma non si mosse. Lei si voltò, sentendosi addosso il suo sguardo e provò la tentazione di dargli uno schiaffo, il più forte possibile. Invece, si avvicinò al tavolo d'appoggio e si mise a osservare gli oggetti prelevati dal corpo della vittima e le fotografie della scena del delitto. Li, il dottor Wang e Sophie, pallidissima, le si avvicinarono. Margaret si accorse che le mani di Sophie tremavano e pensò che, perlomeno, era riuscita a resistere senza vomitare, a differenza della maggior parte delle persone che assistevano per la prima volta a un'autopsia. Poi si concentrò sulle fotografie. «Che cos'è quel buco nel pavimento?» chiese a Li, mostrandogli una foto dove si vedeva chiaramente che alcune assi del pavimento erano state tolte.
«Non lo so» rispose Li. «Il linoleum era stato sollevato e le assi rimosse. Gran parte del sangue è colata nel buco ed è gocciolata nell'appartamento di sotto.» «Le assi erano inchiodate o solo incastrate?» «Tempo fa dovevano essere state inchiodate, ma in seguito i chiodi sono stati tolti. Le assi non aderivano perfettamente, scricchiolavano, si spostavano sotto i piedi.» «Erano, forse, una sorta di nascondiglio?» «Forse.» Margaret guardò più attentamente la fotografia. «Il linoleum risultava sollevato o strappato?» «Pare che sia stato strappato.» Margaret assentì, soprappensiero, e rimise la fotografia sul tavolo. «Il dottor Wang dice che le altre vittime avevano vino rosso nello stomaco.» L'improvviso salto logico lasciò Li un po' perplesso. «Sì,» disse «ma non vedo il nesso.» «No, certo» tagliò corto Margaret ed era chiaro che non aveva nessuna intenzione di spiegarsi meglio. «Possiamo supporre che le vittime conoscessero l'assassino, visto che hanno bevuto insieme a lui.» «È una supposizione che abbiamo già fatto.» La risposta di Li conteneva una nota acida. Ma Margaret non mostrò di essersene accorta. «Per mascherare il fatto che li stava drogando l'assassino ha messo il roofies nel vino rosso» rifletté Margaret a voce alta. «Ma, allora, perché a Yuan Tao ha dato una vodka tinta di blu? E perché, come ci siamo già chiesti, Yuan l'ha bevuta?» «Perché vi è stato costretto. Non è la tua ipotesi?» «Sì, ma è un cambiamento nello schema. I serial killer, di solito, sono prevedibili: una volta che hanno stabilito uno schema d'azione, lo seguono. Pedissequamente.» Margaret esaminò le altre fotografie scattate sulla scena del delitto: il cadavere fotografato da diverse angolazioni; la pozza di sangue più grande che defluiva nel buco del pavimento. Il sangue era schizzato dalle arterie carotidi in due direzioni divaricate di circa cinquanta gradi, finendo a duetre metri dal corpo. Quello che si definisce un delitto cruento. La pozza più grande si era formata quando il corpo era crollato a terra, poi il sangue aveva continuato a scorrere dalle carotidi. Margaret fu incuriosita da un'altra macchia di sangue, meno appariscente, che seguiva una linea ad angolo retto a destra del cadavere. Appoggiò la fotografia sul tavolo e fissò il mu-
ro di piastrelle bianche davanti a sé. «L'assassino è mancino» disse, infine. «Come fai a saperlo?» Era la prima volta che Sophie interveniva e tutti la guardarono stupiti. Per quanto intimidita sentì di dover dare una spiegazione. «Ho sempre letto che è quasi impossibile, in un delitto compiuto con una lama, stabilire quale mano abbia usato l'assassino.» «È vero» confermò Margaret. «Ma io non sto guardando l'angolazione con cui la lama è entrata nel corpo. Sto guardando la traccia che ha lasciato la spada. Ecco, vedi...» Indicò la fila di goccioline di sangue che stava esaminando. «Quando la lama passa attraverso il collo con un movimento dall'alto al basso, raccoglie nel suo percorso una certa quantità di sangue. Nella violenza dell'impatto questo sangue segue una propria strada. Ecco perché c'è questa fila di gocce ematiche a destra del cadavere.» «E questo dovrebbe spiegare con quale mano è stata maneggiata la spada?» Sophie sentiva di aver vinto la propria riservatezza. «Avete mai sentito parlare di tameshi giri?» Margaret si guardò intorno: nessuno ne aveva sentito parlare. «È un'arte marziale giapponese, l'arte di tagliare con la spada. Ci si esercita usando fascine di paglia legate molto strette. Credo che la sua origine sia cinese.» Li e Wang rimasero interdetti. Margaret sorrise. «Una volta ho eseguito l'autopsia su un suicida per harakiri. Era stato un cosiddetto suicidio "assistito" e, dopo che la vittima si era squarciata il ventre, il suo assistente di tameshi giri lo aveva decapitato.» «Aiuto!» rabbrividì Sophie. «C'è chi sceglie di morire facendosi tagliare la testa?» Margaret annuì. «Risparmia molte sofferenze, una volta che ti sei già aperto un buco nella pancia. Non è una pratica frequente, ma se ne conosce un certo numero di casi. Prima di quell'autopsia ho fatto una breve ricerca.» Margaret si rivolse a Li. «Chi è incaricato della decapitazione sta alle spalle della vittima, alla sua sinistra, se agisce con la mano destra.» Gli mostrò la fotografia. «Qui, come si può vedere, la traccia lasciata dalla spada si trova a destra di Yuan Tao. Quindi, chi l'ha colpito è mancino.» Li guardò a lungo la fotografia. «Stai dicendo che l'assassino è una specie di esperto di tameshi giri?» «No, ma non è un principiante. Sa come si maneggia una spada. Il taglio, però, non è netto. C'è un'evidente abrasione nel punto di ingresso della lama e un largo e irregolare lembo di pelle in quello di uscita. Quindi l'assassino non è un vero esperto.» «Il dottor Wang aveva pensato a una lama non più perfettamente affila-
ta» disse Li seccamente e Margaret sorrise di quella implicita critica. «Una ragione in più per ritenere che l'assassino non sia un esperto» commentò. «Se lo fosse stato, avrebbe tenuto la lama in condizioni perfette.» «Il taglio sul collo delle altre tre vittime era molto più netto» osservò Wang. «Ah!» Margaret si concentrò per esaminare mentalmente varie ipotesi. «Si possono vedere le fotografie della scena dei tre delitti precedenti?» chiese poi. Wang annuì e mandò un assistente a prenderle. «Vorrei le copie - con traduzione, per favore - dei referti delle autopsie delle altre vittime e inoltre vorrei avere accesso a tutte le altre prove.» «Questa è un'indagine della polizia cinese» rispose Li secco. «Ma sulla morte di un cittadino americano» ribatté Margaret. «E non possiamo aspettare due anni per avere il risultato.» «Due anni?» chiese Sophie. «Perché?» Margaret le rivolse un sorriso sdolcinato. «Il vicecaposezione Li mi ha detto, una volta, che qui ci vogliono due anni per risolvere un caso di omicidio. A quanto pare, questo è il ritmo di lavoro della polizia cinese.» «Si trattava di un caso particolare,» obiettò Li, trattenendo a stento la collera «e alla fine lo abbiamo risolto. Forse in America lo avrebbero già archiviato tra i casi irrisolti.» L'assistente tornò con tre grandi buste marroni. Margaret le prese e le tenne in mano per un momento. «Ho il permesso di guardarle?» chiese a Li con un tono acido. Li strinse le labbra e annuì. «Grazie.» Margaret tolse le fotografie dalle buste e le dispose sul tavolo. Si sentiva soffocare dalla delusione. «Non mi avevate detto che si trattava di un serial killer?» «È quello che pensiamo, infatti» rispose Li con una sicurezza di cui in realtà dubitava. «La terza vittima è stata spostata dalla scena del delitto. Qui il sangue è troppo poco.» «Questo lo sappiamo.» «Un'altra variazione dello schema» proseguì Margaret mentre esaminava le macchie di sangue che apparivano nelle fotografie dei primi due delitti. «E qui ce n'è un'altra ancora: le prime due vittime sono state uccise da qualcuno che maneggiava l'arma con la mano destra. Lo si vede facilmente. Le macchie sono a sinistra del cadavere.» Li osservò le fotografie. «È vero, ma non abbiamo la possibilità di con-
frontarle con quelle della terza vittima. E non è impossibile che l'assassino sia ambidestro.» Margaret lo contraddisse subito. «Improbabile.» Prese in mano le fotografie e si mise a esaminare i polsi di tutte le vittime, nell'ordine in cui erano state uccise. «Per favore, passami la corda di seta che abbiamo tolto dal cadavere» disse a Sophie. Sophie impallidì. Con estrema cautela sollevò tra due dita la corda di seta e la passò a Margaret attraverso il tavolo. Margaret la prese e la osservò molto da vicino. «Abbiamo già appurato che le corde utilizzate per legare le prime tre vittime erano tutte della medesima lunghezza» la informò Li. «Sono sicuro che sarà così anche questa volta.» Margaret scosse la testa con evidente scetticismo. «Perché, allora, per legare i polsi di Yuan Tao l'assassino avrebbe fatto un nodo diverso dagli altri?» Li guardò con attenzione prima il nodo, poi le fotografie. «A me sembrano uguali» concluse. «Sembrano tutti nodi piani, infatti» disse Margaret. «Ma i primi tre sono stati fatti da una persona che usava la mano destra: estremità destra su quella sinistra e poi, estremità sinistra su quella destra. Per il quarto è avvenuto esattamente il contrario. Il nodo è stato fatto da un mancino.» Li la guardò, cercando di capire quali potessero essere le implicazioni di quella scoperta. «Il punto è,» proseguì Margaret «che Yuan Tao è stato chiaramente ucciso da un'altra persona. Siamo di fronte a un delitto per imitazione.» CAPITOLO TERZO 1 All'aperto si sorpresero che il sole fosse caldo dopo il freddo della sala autopsie. Margaret si mise gli occhiali scuri. Li Yan si accese una sigaretta. Avevano lasciato Sophie nell'ufficio a telefonare al suo capo per ufficializzare il permesso di consegnare a Margaret i referti delle autopsie e le prove fotografiche. Rimasero in silenzio per un po'. Gli studenti giocavano ancora a pallavolo e i loro fischi, le loro grida rimbalzavano contro i muri dell'edificio adiacente. In un certo senso, il piacere vitale che provavano nel gioco faceva apparire ancora più squallida la dissezione di un cadavere.
«Non può essere stato un delitto per imitazione» disse Li interrompendo il silenzio. Margaret si strinse nelle spalle. «Pensala come vuoi, ma le prove parlano da sole.» «È impossibile» insisté Li. «Non siamo in America dove il resoconto dei delitti viene spiattellato su tutti i giornali e in televisione. In questo caso i particolari erano noti solo all'assassino e ai miei investigatori.» «Allora, forse, dovresti fare qualche controllo tra i tuoi investigatori.» Tanta impertinenza lo irritò, ma decise di non controbattere. Margaret non era dell'umore adatto. Dopo un momento lei si voltò a guardarlo dritto negli occhi. «Abbiamo finito?» gli chiese. «Con il lavoro, intendo.» «Direi di sì.» «Bene» disse Margaret e gli mollò uno schiaffo sulla guancia con tutta la forza di cui era capace. Li rimase sbalordito. La forza del colpo gli fece cadere la sigaretta di bocca. La guancia gli bruciava e gli occhi gli si erano riempiti, suo malgrado, di lacrime. Sbatté le palpebre più volte. «Perché?» le chiese. «Tu che cosa ne pensi, Li Yan?» disse Margaret e lui si pentì subito di aver parlato. «Perché, chiedi?» Li non riusciva a guardarla negli occhi. «In dieci settimane non hai cercato nemmeno una volta di vedermi. Hai evitato tutti i miei tentativi d'incontrarci.» Margaret lottava per trattenere le lacrime e controllare la voce. I toni accesi della conversazione richiamarono l'attenzione dell'autista dell'automobile dell'ambasciata, parcheggiata a pochi metri di distanza, che si girò a guardarli. Li gli voltò le spalle e abbassò la voce. «Mi hanno ordinato di non vederti, e di non mettermi in contatto con te.» Margaret lo fissò incredula. «E tu lasci che siano loro a dirti chi puoi o non puoi vedere?» «Sono un dipendente dello Stato, Margaret. È una posizione delicata, di privilegio che non può essere compromessa dalla relazione con una straniera.» «Oh, capisco. Il tuo lavoro è più importante della donna che ami, o meglio della donna che credevo tu amassi. Per fortuna ho capito che non l'amavi affatto, altrimenti mi sarei resa ridicola, facendo la stupidaggine di innamorarmi di te.» «Tu non capisci, vero?» si difese Li rabbioso. «Ora che mio zio è morto, non mi resta che il lavoro. E se mi mettessi contro i miei superiori, lo per-
derei. Rimarrei un ex poliziotto. Che cosa potrei fare, allora? Vendere CD ai turisti per la strada? Mettere su una bancarella e spacciare dischi vecchi per nuovi, contraffacendo l'etichetta? Se stessi con te, Margaret, non avrei futuro in Cina. Dovremmo andare negli Stati Uniti... E là, poi, che razza di futuro avrei?» La prese per un braccio e la costrinse a guardarlo. «Rispondimi!» disse, chiedendole disperatamente comprensione con gli occhi. Margaret non sapeva che cosa rispondergli. Provò a immaginarsi come sarebbe stato per lei lasciare tutto negli Stati Uniti - casa, famiglia, lavoro per trasferirsi a vivere in Cina, ma non ci riuscì. «Questo è il mio paese» disse Li. «E io mi identifico con il mio paese. Per quanto mi sia doloroso ammetterlo, non c'è futuro per te e per me insieme.» Margaret vedeva la sofferenza nei suoi occhi e sapeva che era sincera. Ma questo non la faceva soffrire meno. «Allora non ho sbagliato a decidere di rinunciare a te, Li Yan» disse. «Avrei preso un aereo questa mattina, se non mi avessero chiamato per l'autopsia.» «Ora che l'autopsia è stata fatta, puoi partire. Questa è un'indagine della polizia cinese, non c'è motivo che tu e io prolunghiamo la nostra sofferenza.» Semplice, pensò Margaret. Si sale su un aereo e si vola via, senza voltarsi indietro. Era venuta in Cina per sfuggire al fallimento della sua vita in patria, e adesso si apprestava a tornare in patria per sfuggire al fallimento della sua vita in Cina. Tutto quello che toccava diventava polvere. Anche Li. Allungò una mano e gli accarezzò la guancia, dove le sue dita avevano lasciato un'impronta rossa che ancora bruciava. «Mi dispiace di averti dato uno schiaffo» disse. Lui le coprì la mano con la sua e la strinse con dolcezza. Avrebbe voluto darle un bacio, ma se lo proibì. Margaret ritrasse lentamente la mano. Per un momento aveva pensato che lui l'avrebbe baciata, l'aveva desiderato con tutto il cuore, ma non si poteva tornare indietro e il futuro era senza speranza. «Tutto a posto» disse Sophie che li aveva raggiunti. «La traduzione dei referti delle autopsie e le copie delle prove fotografiche saranno consegnate all'ambasciata appena possibile.» Poi, notando i segni delle cinque dita sulla guancia di Li, s'interruppe. «Aspetterò in automobile» disse in fretta, dirigendosi verso la limousine. «Non è proprio il caso. Noi, qui, abbiamo finito» disse Margaret ritro-
vando il suo tono efficiente. E, passando accanto a Li fino a sfiorarlo, raggiunse Sophie. «Gli hai dato uno schiaffo!» esclamò Sophie, quando furono sedute sul sedile posteriore dell'automobile. Poi, scorgendo le lacrime sul viso di Margaret, distolse lo sguardo. «Scusami» disse. Li guardò l'automobile staccarsi dal marciapiede e si sentì improvvisamente svuotato. 2 Stavano in silenzio da un quarto d'ora, quando Sophie lanciò un'occhiata di sottecchi a Margaret e vide che le lacrime erano sparite. Fino a quel momento avevano guardato, ciascuna dal proprio finestrino, il traffico che scorreva lungo la seconda circonvallazione e i grattacieli che torreggiavano ovunque, proiettando lunghe ombre. «Era la prima volta che assistevo a un'autopsia» disse Sophie. «Ma, no! Non l'avrei mai detto!» rispose Margaret, senza distogliere gli occhi dal finestrino. «Si vedeva, eh?» Margaret si lasciò andare a un debole sorriso. «Ho visto di peggio.» Sophie fece una risatina e Margaret aggiunse: «Ma sarà meglio che ti ci abitui, perché senz'altro ti capiterà ancora». «Ma tu come hai fatto ad abituarti?» chiese Sophie. «Ti avranno pur fatto impressione tutti quei poveri morti sbattuti lì, come... come carne da macello. Come se non fossero mai stati vivi.» «Per quanto mi riguarda, trovo meno stressante occuparmi dei morti che dei vivi» rispose Margaret. «I morti, almeno, non pretendono che li si faccia stare meglio.» Si chiese se non fosse proprio questo il suo problema: lavorare con i morti, maneggiarne gli organi, sezionarne i cervelli e ispezionarne gli intestini, con distacco, competenza e sicurezza le sembrava del tutto naturale, mentre, a contatto con i vivi si sentiva, a seconda dei casi, inquieta, protettiva, indifesa, aggressiva. Per lei era sempre stato più facile attribuire agli altri la colpa del fallimento dei suoi rapporti affettivi, piuttosto che assumersene la responsabilità. Dopotutto, non era lei la disadattata che preferiva passare il proprio tempo con i morti invece che con i vivi? Questo pensiero la lasciò svuotata, depressa. Ad aspettarla, al ritorno negli Stati Uniti, c'erano altri anni di autopsie. Un'interminabile catena di tragedie.
Uno squallido futuro di piastrelle bianche e, come unica forma di sensibilità, il contatto con un cadavere appena uscito dalla cella frigorifera. Il cellulare di Sophie trillò un motivetto insulso. «Sophie Daum» rispose la ragazza quando l'ebbe recuperato dalla borsetta. «Oh, salve, Jonathan. Certo. Stiamo tornando in albergo.» Lanciò un'occhiata a Margaret. «Sì, credo... Ma certo. Sì, sì, d'accordo, arrivederci.» Terminata la conversazione si sporse in avanti per parlare con l'autista. «C'è un cambiamento di programma: andiamo all'ambasciata.» A Margaret annunciò: «L'ambasciatore vuole vederti». «L'ambasciatore può anche andare al diavolo!» rispose Margaret, lasciando Sophie esterrefatta. «Vada al Ritan Hotel» ordinò all'autista. Quindi, rivolgendosi a Sophie: «Prima di tutto, farò una doccia. Per quanto possa sembrare una bizzarria, preferisco il profumo Fabergé alla formaldeide. Solo dopo essermi messa addosso degli abiti puliti andrò dall'ambasciatore». L'autista voltò la testa e lanciò un'occhiata a Sophie, per sapere a chi dovesse dar retta. Sophie esitò per un attimo, poi gli fece un cenno di assenso. «Mi prenderò una lavata di capo» disse a Margaret. «E tu rispondigli per le rime: non è colpa tua se l'americana pazza non ha voluto obbedire!» Margaret rise. «Di' pure che non volevo sporcare di sangue il tappeto nuovo dell'ambasciatore.» L'automobile passò davanti al ristorante Mosca, a pochi metri dalla residenza dell'ambasciatore, superò le file degli ambulanti in Ritan Lu, i venditori di pellicce, curvi sugli sgabelli accanto alle pelli appese lungo le inferriate di fronte all'albergo. Il loro entusiasmo era diminuito col declino dell'economia russa e il drastico crollo del commercio delle pelli. Erano finiti i giorni in cui i mercanti russi calcolavano il numero delle pellicce da comprare in base a quante ne potevano stipare nel treno della notte per Mosca. Anche la mafia russa, che trattava esclusivamente in dollari, risentiva della crisi. Margaret scese davanti alla porta dell'albergo e disse a Sophie: «Vieni a prendermi tra un'ora». Guardò l'orologio. «Diciamo alle cinque e mezzo.» Sophie annuì. In camera, Margaret si liberò dei vestiti e li infilò nel sacco della lavanderia. La doccia, calda e corroborante, le diede il sollievo che aveva pregustato. Piegò indietro la testa, con gli occhi chiusi, e lasciò che l'acqua la colpisse sul viso e le scendesse in piccoli rivoli su tutto il corpo. Cercò di
allontanare il ricordo dell'autopsia e dell'incontro con Li. Due pensieri che sembravano legati in modo inestricabile, un'unica spiacevole esperienza. Prima di scrivere il referto dell'autopsia, avrebbe dovuto aspettare i risultati dell'esame tossicologico dei campioni. Ventiquattr'ore, quarantotto al massimo, poi sarebbe partita. Senza voltarsi indietro. Purtroppo non desiderava neanche guardare avanti. In piedi sul tappetino da bagno si asciugò energicamente con un grande telo di spugna morbido, avvolgendosi in un asciugamano più piccolo i capelli bagnati. Prese dall'armadio la vestaglia ricamata con i draghi rossi e oro che, in un pomeriggio di ozio, aveva comprato sulla Via della Seta. Provò una sensazione fisica straordinaria nel sentire sulla pelle nuda quella stoffa delicata. Si vide di sfuggita nello specchio: il viso era fresco e roseo, ma gli occhi erano infossati e segnati da ombre scure. A un tratto, inspiegabilmente, le lacrime le scesero, calde e salate, sulle guance. Distolse lo sguardo dallo specchio. Non sopportava di piangersi addosso. Sentendo bussare alla porta si asciugò in fretta le lacrime. «Un momento» disse e fece due profondi respiri per calmarsi. Un fattorino, sulla soglia, le porse un immenso mazzo di fiori. «Per lei, signora» disse e si allontanò prima che lei potesse anche solo pensare di dargli una mancia. Margaret richiuse la porta alle spalle con un piede e portò i fiori in camera da letto. Aveva sempre disprezzato le donne che smaniano per ricevere omaggi floreali. Gli uomini sapevano benissimo come conquistarle con un bouquet o anche solo con una rosa, ma lei non si sarebbe mai lasciata manipolare da nessuno. Eppure, nonostante tutto, provò un piacere inatteso. Il mazzo era molto bello: una composizione di profumi squisiti e colori smaglianti. Lo appoggiò delicatamente sul letto e prese il biglietto. Esitò per un momento. Non era sicura di voler sapere chi glielo aveva mandato e con quali parole. Ma la curiosità la spinse ad aprire la busta. Dentro c'era un cartoncino piegato a metà, con un disegno floreale. Lo aprì e vide una calligrafia che non conosceva. Il testo diceva: «Felice che lei sia ancora qui, passo a prenderla alle otto. Michael». Margaret si sentì sbiancare in viso, provò un senso di vertigine e si appoggiò al muro per non cadere. Michael era morto. Com'era possibile... Si fermò subito, a metà del pensiero. Ovviamente, non si trattava di... quel Michael. Ebbe bisogno di qualche secondo per ricordarsi di Michael Zimmerman, l'unico altro Michael che conoscesse, perlomeno in Cina. Si era completamente dimenticata di lui. Sorrise con tristezza al pensiero che, an-
che dalla tomba, l'uomo da lei sposato e con cui aveva vissuto sette anni potesse ancora raggiungerla ed emozionarla. Cercò di calmarsi. Michael Zimmerman. Ricordava i suoi occhi sorridenti e ricordava soprattutto che le era piaciuto. Era accaduto solo la sera prima ma le sembrava un secolo. "Passo a prenderla alle otto." Provò un brivido di piacere, come un lampo di luce nel buio. «L'ambasciatore era furente» disse Sophie. Sembrava molto inquieta. «Davvero?» Margaret non si scompose. Si accomodò accanto all'amica sul sedile posteriore della limousine e la macchina ripartì. «Non ha potuto aspettarti. Aveva un impegno che non poteva rimandare.» «Peccato! Perché andiamo all'ambasciata, allora?» chiese Margaret. «Perché ci sono Stan e Jonathan; Jonathan se l'è presa con me perché non ti ci ho portata subito.» «Oh, Cristo!» Margaret sentì che stava perdendo la calma. «Chi credono di essere? Sono io che gli sto facendo un favore! Non lavoro per il governo degli Stati Uniti. È vero che siamo nella Repubblica Popolare Cinese, ma io sono una cittadina americana, una persona libera, e faccio quel che mi pare.» Margaret fece una pausa e respirò a fondo, lasciando che la tensione si allentasse. Rimasero in silenzio per qualche minuto. «Come ha fatto Michael Zimmerman a sapere che ero ancora a Pechino?» domandò poi Margaret. Sophie fu colta di sorpresa. «Perché me lo chiedi?» «Perché mi ha mandato un mazzo di fiori con un biglietto in cui dice che verrà a prendermi stasera alle otto.» «Beata te!» C'era un'ombra di risentimento nella voce di Sophie. «Mi ha telefonato prima di pranzo. Credo di essermi lasciata sfuggire che avevi rimandato la partenza a causa dell'autopsia.» «E ti sei lasciata sfuggire anche il nome del mio albergo, vero?» Sophie si strinse nelle spalle. «Me l'ha chiesto.» Tacque per un momento, poi chiese: «Dove ti porterà?». «Non ne ho idea.» Fecero anticamera per dieci minuti all'ingresso della Cancelleria, sotto lo sguardo implacabile del marine, al di là del vetro. L'improvviso scatto della serratura annunciò l'arrivo del primo segretario. Rapido ed efficiente, entrò senza salutare. «Venite con me» disse, uscì e scese le scale. Margaret e Sophie si scambiarono un'occhiata e lo seguirono.
«Vuole dirmi dove stiamo andando, Stan?» chiese Margaret mentre giravano l'angolo dell'edificio. Il sole al tramonto stendeva una luce gialla su tutto il complesso dell'ambasciata. «A mangiare qualcosa. Non so lei, ma io non mangio da più di cinque ore e ho fame.» «Be', è proprio una buffa coincidenza: nemmeno io ho mangiato» rispose Margaret senza sorridere. «Da prima di iniziare l'autopsia, perlomeno. Si ricorda, vero? Parlo dell'autopsia che ho eseguito per voi. A proposito, ho molto gradito i vostri ringraziamenti, è belìo sentirsi apprezzati dai propri connazionali.» Stan si fermò e alzando gli occhi al cielo le disse: «Lei è una vera rompipalle, Margaret, lo sa?». «Come potrei non saperlo?» ribatté Margaret e Stan sorrise, suo malgrado. «Dopo aver fatto a pezzi un cadavere per due ore, avrò pure il diritto di farmi una doccia, o no?» aggiunse lei. «D'accordo, d'accordo!» Stan alzò le mani in segno di resa. «Ho capito. L'ambasciatore apprezza il suo impegno, Margaret, mi creda. Ma dobbiamo davvero parlare. Tutta questa storia rischia di prendere una brutta piega. Dal punto di vista politico.» Passarono accanto a una serie di tavolini, sotto un lungo tendone blu. Il personale dell'ambasciata cenava al fresco, chiacchierando animatamente. Di fronte c'era la mensa, un edificio a un piano solo. Stan si avviò all'ingresso. «Che significa "dal punto di vista politico"?» chiese Margaret. «Lo capirà leggendo il fascicolo che riguarda Yuan Tao» rispose Stan, mentre Margaret e Sophie lo seguivano all'interno; su di una grande lavagna bianca, con un pennarello blu, era scarabocchiato il menu. Dalle cucine sul retro proveniva un rumore di piatti. «Risulta che sia nato in Cina. Era andato negli Stati Uniti a diciassette anni, poco prima della Rivoluzione culturale e non era più tornato. Aveva fatto domanda per avere la cittadinanza americana.» Stan prese due foglietti e una matita da un tavolo davanti alla lavagna e li porse a Margaret. «Ecco, scrivete i piatti che volete, indicandoli col numero e il prezzo segnati sulla lavagna.» Compilò rapidamente il proprio foglietto. «Non dimenticate di mettere il vostro nome in fondo» aggiunse. Margaret lanciò un'occhiata in direzione del bar. «Preferirei qualcosa da bere.» Stan seguì il suo sguardo e sorrise. «Mi dispiace. Il bar è aperto solo il
venerdì pomeriggio. Può prendere una bibita analcolica dal frigorifero.» Margaret guardò la lavagna, con un sospiro, e scelse maiale in agrodolce, riso bollito e Coca-Cola. «E così Yuan Tao era nato qui» disse. «Basta questo a dare una sfumatura politica alla sua morte?» «C'è gente, in America, cui piace pensare che i cinesi siano capaci di tenere in serbo la vendetta per tutto il tempo necessario.» «Vendetta per che cosa?» «Qualcuno potrebbe considerare Yuan Tao un disertore che ha abbandonato il proprio paese e lo ha tradito chiedendo la cittadinanza degli Stati Uniti.» Margaret non era convinta. «E questo qualcuno avrebbe aspettato trent'anni che lui tornasse, per ammazzarlo? Non mi dica che lei crede a questa storia.» Stan scosse la testa. «Assolutamente no. Ma non dimentichi, Margaret che la destra americana, dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica, si sta inventando un altro spauracchio. E l'ha trovato nella Cina. La stampa è piena di propaganda anticinese. Spesso grossolana, talvolta, invece, molto sottile. Si producono film come Sette anni in Tibet o L'angolo rosso che suscitano l'indignazione del cittadino americano contro il sistema giudiziario cinese. L'angolo rosso è una bella storia, dove però la giustizia cinese è rappresentata in modo grottesco. Ridicolo. Peccato che le autorità cinesi non abbiano trovato la cosa divertente. Hanno vietato il film tirandosi addosso l'accusa di essere repressive.» Margaret lo seguì alla cassa. «Non sapevo che fosse un sostenitore della Cina, Stan.» «Non lo sono, ma chi vive negli Stati Uniti e ignora tutto di questo paese dovrebbe tenere la bocca chiusa, anche per non rendere più difficile il nostro lavoro.» Stan pagò la propria ordinazione, prese una bottiglia d'acqua dal frigorifero e si avviò verso il tavolo dove Jon Dakers li stava aspettando. Margaret capì che avrebbe dovuto pagarsi il pranzo. Prese la sua bibita e li raggiunse. Sophie si sedette accanto a Dakers. Non aveva ordinato niente da mangiare. Anche Dakers aveva già mangiato. Con qualche confusa parola di ringraziamento, passò a Margaret una cartelletta marroncina. «È il fascicolo di Tao» spiegò. «Stando a quello che mi ha riferito Sophie, lei ritiene che non sia stato ucciso dalla stessa persona che ha ucciso gli altri tre, vero?» «Proprio così.»
«Dunque lei pensa a un delitto per imitazione.» «Direi di sì.» Stan e Dakers si scambiarono un'occhiata. «Che cosa pensa dell'agente che ha condotto l'inchiesta?» chiese Dakers. «Che cosa dovrei dirle?» Margaret lo guardò con diffidenza. «Si fida di lui?» «Non è una questione di fiducia. È un buon poliziotto. Molto serio.» Una cameriera cinese portò i piatti che erano stati ordinati. Margaret aprì il fascicolo di Yuan Tao e diede una scorsa alle pagine fotocopiate. Qualche data, qualche annotazione, rapporti e statistiche. La vita di un uomo incolore. Facile da buttar via, com'era stato facile tagliargli la testa. Si chiese se fosse stato compagno di scuola delle altre vittime, ma nel fascicolo non riuscì a trovare alcuna indicazione utile in proposito. «La verità, Margaret, è che negli Stati Uniti la notizia è già finita in prima pagina.» Stan si chinò verso di lei, dopo che la cameriera se ne fu andata. «Con titoli del genere: "Sino-americano ucciso al ritorno nella terra degli avi". E via di questo passo. Anzi, peggio. Il gruppo anticinese si è impossessato di questa storia e cerca di sfruttarla al massimo. Il presidente della Repubblica Popolare Cinese sarà in visita a Washington il mese prossimo e vorremmo che tutto fosse chiarito il più presto possibile.» «Sì, ma non vedo che cosa c'entro io in tutta questa storia.» «Vorremmo che lei seguisse l'indagine» disse Dakers. Margaret rise. «Con il referto dell'autopsia il mio compito sarà esaurito. Perché non partecipa lei all'indagine, Jon? Un tempo faceva il poliziotto, no?» «I cinesi si rifiuterebbero di lavorare con un poliziotto americano, anche se fuori dai ranghi come me. Lei, invece, opera in un settore specifico, nel quale riconoscono che ne sappiamo più di loro. E poi non sarebbe la sua prima esperienza di lavoro con i cinesi.» Margaret scosse la testa. «Dopo quello che è successo l'ultima volta, non ne vorranno più sapere di me.» «Su questo punto si sbaglia, Margaret» la contraddisse Stan. «Come fa a esserne tanto sicuro?» «Perché glielo abbiamo già chiesto» rispose Dakers. 3 Dalla finestra dell'ufficio di Li, all'ultimo piano, si vedeva la città im-
mersa nella semioscurità della sera. Dappertutto erano state accese le luci stradali. C'era chi si fermava a mangiare ai chioschi lungo i marciapiedi e chi si affrettava a tornare a casa per prepararsi la cena. Nei negozi dei barbieri si lavorava a pieno ritmo. Il traffico era quasi fermo sulle circonvallazioni, nelle strade alberate e nei grandi viali. Nei cantieri edili, dove il lavoro sarebbe andato avanti tutta notte, erano accese grandi lampade ad arco e i muratori, a torso nudo, stavano arrampicati su impalcature di bambù alte venti piani. Gli alberi in Beixinqiao Santiao proiettavano ombre scure sulla strada. I dipendenti degli uffici nel palazzo antistante quello in cui si trovava Li erano andati a casa. Le macchine della polizia, alcune bianche e blu, altre prive di contrassegni, erano parcheggiate lungo il marciapiede. Gli agenti che avevano finito il turno salutavano i colleghi che arrivavano per il cambio. Li, in piedi accanto alla finestra, fumava, immerso in uno stato di apatia profonda. Sentì due bambini che ridevano, nella strada, prendendo a calci un pallone. Fuori, la gente aveva una vita vera: speranze, aspirazioni, futuro. Si chiese se la propria vita avesse ancora uno scopo. Aveva, rivisto Margaret, le aveva parlato, aveva sentito la sua collera, il suo dolore e le aveva detto che non ci sarebbe stato futuro per loro. Tutto era finito. Sentì bussare alla porta e vide Qian con una cartelletta in mano stagliarsi nel fascio di luce proveniente dalla stanza degli investigatori. «Non vuoi che ti accenda la luce, capo?» disse. «Non vedo niente.» «No, preferisco di no.» «Questo è il fascicolo di Yuan Tao che l'ambasciata americana ci ha mandato.» «Lascialo sulla scrivania.» Qian mise la cartelletta sulla scrivania e uscì. Li finì la sigaretta e buttò dalla finestra il mozzicone, che volò a terra in una pioggia di scintille. Si girò e prese il fascicolo che gli aveva lasciato Qian. C'era un mistero da risolvere. Tutte le prove indicavano in Yuan la quarta vittima di un serial killer, ma Margaret aveva concluso che era un delitto per imitazione e che l'assassino di Yuan era una diversa persona. Come poteva dubitare del suo giudizio? Margaret era una professionista intelligente e di grande esperienza. Eppure lui era sicuro che nessuno, tranne i suoi agenti e l'assassino, disponeva di tutti gli elementi che avrebbero permesso una riproduzione del delitto in tutti i minimi dettagli. Aveva fatto un rapporto preliminare sui risultati dell'autopsia in una riu-
nione degli agenti che lavoravano all'indagine. Alcuni avevano respinto le conclusioni cui era arrivata Margaret. Non ritenevano essenziale il fatto che l'assassino avesse usato la mano sinistra invece della destra e che il flunitrazepam fosse stato sciolto nella vodka anziché nel vino. Quando Li aveva fatto notare che il taglio della testa era meno netto, Sang aveva avanzato l'ipotesi che l'assassino avesse introdotto di proposito delle varianti nel suo modus operandi per confondere gli investigatori: il taglio meno netto si spiegava, dunque, con il fatto che aveva usato la mano sinistra, anziché la destra. Nessuno aveva giudicato determinanti le difformità rilevate da Margaret, se paragonate al numero di analogie che caratterizzavano i quattro delitti. Ma Li sapeva che per Margaret quei particolari erano importanti e che, nelle indagini, la risposta sta nei particolari, come aveva sempre sostenuto suo zio. Si sedette e accese la lampada da tavolo con il braccio regolabile, illuminando tutto il piano della scrivania. Guardò la cartelletta marroncina che aveva davanti. Là dentro era riassunta la vita di un uomo. E forse conteneva anche la ragione della sua morte. L'aprì. Trovò le fotocopie dei documenti ufficiali: referti medici; formazione scolastica negli Stati Uniti; un curriculum vitae scritto dallo stesso Yuan Tao; la domanda di cittadinanza americana; il rapporto ufficiale di un'agenzia governativa allegato a un resoconto sul suo passato politico; il giudizio sul suo esame orale per l'assunzione al ministero degli Esteri; i risultati dei controlli del servizio di sicurezza del ministero degli Esteri e un referto medico. Li continuò a sfogliare quei documenti per comporre pezzo a pezzo la vita di Yuan. Era nato nel 1949, il primo anno della Repubblica Popolare Cinese. L'anno del Bufalo. Lo stesso anno delle altre vittime. Erano tutti figli della Rivoluzione, progenie della Liberazione. Nel maggio del 1966, all'età di diciassette anni, aveva lasciato la Cina, meno di un mese prima dell'inizio della Rivoluzione culturale, il 13 giugno, giorno che nella mente di molti era rimasto legato alla sospensione delle lezioni nelle scuole e nelle università di tutto il paese. Se n'era andato appena in tempo con un visto per l'Egitto, dove avrebbe dovuto studiare fisica all'università del Cairo. Si era trattato solo di un pretesto, perché in realtà Yuan Tao era rimasto al Cairo meno di un mese e poi aveva preso un aereo per gli Stati Uniti, dove si era iscritto a un corso di laurea in Scienze politiche. In tutti questi spostamenti era stato aiutato da uno zio che, nel 1948, aveva lasciato la Cina e si era stabilito a San Francisco. Per pagarsi le tasse, Yuan aveva passato l'estate lavorando nel ristorante dello zio a
Chinatown e, in autunno, aveva cominciato a frequentare l'università della California, a Berkeley. Erano stati anni burrascosi quelli trascorsi a Berkeley, gli anni delle manifestazioni studentesche per i diritti civili e della protesta contro la guerra in Vietnam. Li cercò nel fascicolo il rapporto che l'FBI aveva certamente compilato su Yuan Tao a quell'epoca, pur sapendo che non l'avrebbe trovato. Così come non avrebbe trovato il rapporto sul presumibile tentativo della CIA di reclutarlo nelle proprie file. Yuan si era laureato in Scienze politiche nel 1972, ma era rimasto altri due anni all'università per un corso di specializzazione. Nel 1974, ottenuto il posto di assistente a Berkeley, aveva subito fatto domanda per la green card. La sua istanza era stata accolta e ciò gli aveva permesso di accettare l'incarico. Aveva preso in affitto un appartamento a Oakland, di fronte alla baia di San Francisco, vicino all'università. Nel 1978 era stato nominato professore associato e aveva ottenuto la cittadinanza. Poi, da cittadino americano, aveva sposato, nel 1979, una sino-americana. Il matrimonio era durato meno di due anni. Non aveva avuto figli. Nel 1983 era diventato professore ordinario e negli anni successivi si era lasciato scivolare nella mezza età, navigando nelle acque protette dell'università californiana. Nel 1995, all'età di quarantasei anni, in modo del tutto imprevedibile, aveva presentato domanda di assunzione presso il ministero degli Esteri, dove erano stati ben lieti di accogliere un professore di Scienze politiche nato in Cina, cittadino americano e in grado di parlare il cinese mandarino. Così, la vita di Yuan Tao aveva subito una svolta radicale. L'anno successivo si era trasferito a Washington, ma i documenti forniti dagli americani non facevano riferimento al tipo di incarico che gli era stato assegnato. Nel 1999 aveva stupito i suoi superiori presentando domanda di assunzione all'ambasciata degli Stati Uniti a Pechino, dove si era reso vacante un posto di modesto livello all'ufficio visti. Gli era stata indirizzata una lettera in cui gli si diceva che le sue qualità avrebbero potuto essere meglio utilizzate altrove. Non c'era copia della risposta, ma la domanda di trasferimento era stata accettata. Yuan Tao era finalmente arrivato in Cina e da sei mesi lavorava all'ufficio visti nel complesso edilizio in fondo alla Via della Seta. Li accese una sigaretta e guardò il fumo azzurro che saliva in una pigra spirale attraverso la luce della lampada da tavolo. Una serie di fatti, esposti in ordine cronologico, nessuno dei quali gli diceva la cosa più importante.
Chi era veramente Yuan Tao? Quali erano state le sue speranze e le sue paure? Chi amava, chi odiava e da chi era odiato? Perché non era mai rientrato in patria nei trent'anni seguiti alla Rivoluzione culturale, quando avrebbe potuto farlo senza correre alcun rischio? E perché, invece, dopo trentaquattro anni, aveva deciso di tornare? Li ripensò all'appartamento al n. 7 di Tuan Jie Hu Dongli. Perché Yuan l'aveva preso in affitto se l'ambasciata gli forniva gratuitamente un alloggio? Sotto le assi del pavimento aveva nascosto qualcosa che solo il suo assassino poteva aver preso. Ma che cosa? Le risposte non erano certamente contenute nel fascicolo. Si chiese quali fossero state le emozioni di Yuan nel rivedere il paese natale trentaquattro anni dopo averlo lasciato. La Cina doveva essergli apparsa irriconoscibile, un paese straniero. Aveva cercato di mettersi in contatto con i suoi familiari? Sfogliò il fascicolo e trovò un unico riferimento ai genitori di Yuan Tao. Il padre, un insegnante, era morto, a quanto pareva, nel 1967. La madre aveva lavorato in un asilo, ma non c'era nessun documento su di lei. E poi, c'erano i compagni di scuola. Negli ultimi sei mesi, Yuan doveva pur averne contattato qualcuno! Fu nel curriculum scritto da Yuan che Li finalmente trovò quello che cercava. Cominciò a scorrere con un dito l'elenco dei suoi titoli accademici, secondo un ordine cronologico decrescente e alla penultima voce sentì un brivido nella schiena. Yuan Tao si era diplomato alla scuola superiore al n. 29 di Qianmen Xidajie, nel maggio del 1966. Per qualche minuto rimase immobile, come ipnotizzato, dalla pagina del fascicolo. Le vittime avevano frequentato tutte la stessa scuola. La rivelazione gettava, per la prima volta, l'ombra del dubbio sulle conclusioni cui era arrivata Margaret dopo l'autopsia. La scuola era un legame che univa inequivocabilmente i quattro uomini. Erano stati drogati con la stessa sostanza, avevano le mani legate dietro la schiena con una corda di seta. Avevano appeso loro al collo un cartello con i loro soprannomi scritti capovolti e cancellati con una riga orizzontale. I cartelli erano stati numerati in ordine decrescente a partire dal sei. Tutti e quattro erano stati decapitati: i primi tre con una spada di bronzo. Li era sicuro che le analisi della scientifica avrebbero dato lo stesso risultato anche per il quarto. Eppure... alcuni dubbi persistevano. Si trattava di piccoli dubbi, ma Li non riusciva a scacciarli. Perché Yuan aveva bevuto la vodka colorata di blu? Perché l'assassino si era messo alla sua destra per sferrare il colpo mortale mentre non c'erano dubbi che avesse colpito almeno due degli altri
stando alla loro sinistra? Perché la corda con cui erano legati i polsi di Yuan era annodata in senso inverso rispetto agli altri tre? C'erano anche altri interrogativi. Perché la terza vittima era stata rimossa dal luogo dov'era avvenuta l'esecuzione? Doveva essere stata un'impresa molto rischiosa, con tutto quel sangue. E perché non erano stati in grado di trovare il luogo del delitto? Era un indovinello come quelli di Mei Yuan. Magari la soluzione fosse stata così semplice. Li ripensò all'ultimo, che lei gli aveva proposto quella mattina: la camera d'albergo da trenta yuan. Ma non era certo questo il momento di risolvere il quesito dello yuan mancante. Aveva un rompicapo ben più importante cui trovare una soluzione. Si appoggiò allo schienale della sedia e soffiò una boccata di fumo verso il soffitto. La porta si aprì. La figura di Chen si stagliava in controluce, ma la testa era fuori dal fascio luminoso proiettato dalla lampada da tavolo e quindi Li non vide subito l'espressione del suo viso. Chen, chiuse la porta e Li notò che indossava un completo scuro e la cravatta, fatto inconsueto per uno come lui, che di solito vestiva in modo casual, perfino trasandato, e girava per l'ufficio con pantaloni sformati, camicie con il colletto sbottonato e un vecchio giubbotto con la cerniera lampo. Si avvicinò alla scrivania. Li osservò una piega amara sulle sue labbra. «Non l'ho vista alla riunione» gli disse Li. «Ero al ministero.» Ecco spiegata quella insolita tenuta. Chen si mise a sedere. «Ha una sigaretta?» Li gliene offrì una e Chen l'accese, aspirò il fumo profondamente, poi, tenendo gli occhi socchiusi, lo fece uscire lentamente dalle narici. Si allentò la cravatta. «Mi sento maledettamente a disagio con questa roba addosso. Com'è possibile lavorare bene se non si sta comodi?» Li si rese conto che la domanda non richiedeva una risposta e aspettò con una certa apprensione che Chen proseguisse. Ma Chen non aveva fretta e aspirò ancora due o tre boccate prima di guardare Li negli occhi. «Hanno chiesto di tenere informati gli americani sugli sviluppi dell'indagine. Dovranno avere accesso a tutto.» Chen s'interruppe per un attimo, poi proseguì. «Hanno preteso e ottenuto - senza consultarmi, devo precisare - che il nostro comune punto di contatto sia la dottoressa Campbell.» Li rimase inebetito, come se avesse ricevuto un altro schiaffo. «Credevo che sarebbe partita per gli Stati Uniti.» La sua voce suonò debole, lontana. «Pare che l'abbiano convinta a restare.» Chen esitò. «So che sarà difficile per lei, Li...»
«Difficile?» lo interruppe Li, bruscamente. «Da una parte il commissario mi avverte di tenermi alla larga dalla Campbell, dall'altra, lei mi comunica che lavoreremo insieme.» Il tono di questa frase infastidì Chen. «Allora, d'ora in poi lei dovrà imparare a tenere la sua vita privata separata da quella professionale.» Fece una pausa guardando incuriosito Li. «Vedo che ha un segno rosso sulla guancia.» «È lo schiaffo che lei mi ha appena dato, caposezione Chen.» Li procedeva a zigzag in mezzo al traffico, con la testa confusa. La bicicletta di suo zio, come tutte le altre in circolazione, non aveva né fanale né catarifrangenti. Per non essere travolto poteva solo contare sulla buona vista degli automobilisti. Ma in quel momento questa era l'ultima delle sue preoccupazioni. Aveva sofferto nel rivedere Margaret, quella mattina, e avrebbe sofferto ancora di più l'indomani, il giorno dopo ancora e tutti i giorni a venire. Era come se lo avessero gettato in una prigione dove c'era solo dolore e nessuna via d'uscita. Come aveva potuto Margaret accettare una situazione simile? Sarebbe stato altrettanto penoso anche per lei? O forse aveva pensato a una specie di vendetta che le avrebbe consentito di rigirare il coltello nella piaga che lui si era autoinflitto? Al ponte Chaoyangmen voltò verso ovest, superò un fast food sulla sinistra e riprese la strada verso sud. Lasciò la bicicletta all'angolo della Dong'anmen e si unì alla folla accalcata davanti ai banchi del mercato serale esteso a perdita d'occhio. Con pochi yuan si poteva mangiare qualsiasi cosa: bruchi grossi come un pollice, scorpioni e uccellini allo spiedo. Ma a Li Yan non piacevano le stranezze. Comprò un paio di porzioni di patate fritte con le uova, in un cartoccio marrone, bevve una lattina di Coca-Cola e si mosse nella calca di famigliole e gruppetti di amici. Aveva cercato di non pensare a Margaret, ma gli tornava sempre in mente come un'ossessione. L'aveva portata in quel mercato la sera in cui lei gli aveva raccontato della morte di suo marito. Sentiva la presenza di lei in tutti i luoghi di Pechino dov'erano stati insieme. Finì di bere la Coca-Cola e si accorse che un uomo piccolo, cencioso, di un'età indefinita, lo seguiva, tenendo gli occhi fissi sulla lattina vuota che aveva in mano. Si voltò e stava per dargliela quando una vecchia, con una crocchia di capelli bianchi e un unico dente in bocca, gliela strappò allontanandosi in fretta. L'omino cencioso si mise a rincorrerla, imprecando. Tante lattine si portavano agli impianti di riciclaggio, altrettanti fen si gua-
dagnavano. Era la battaglia quotidiana di chi viveva scavando tra i rifiuti. Li riprese la bicicletta e si diresse di nuovo verso sud. A casa aveva una scorta di birra in frigorifero e in quel momento sentiva solo il bisogno di ubriacarsi. Le ruote slittavano nei tratti di ripavimentazione dove la pioggia aveva trasformato la Wangfujing in un pantano, schizzandogli di fango i pantaloni e le scarpe. Dalla Chang'an Est si vedevano i riflettori della piazza Tien-An-Men dove gli operai avevano già cominciato a preparare le imponenti decorazioni floreali per la festa nazionale che si sarebbe celebrata di lì a dodici giorni. Ma lui voleva solo scappare dalle luci e dalla folla. Entrare nell'oscurità della Zhengyi Dajie fu un sollievo. Vide che dagli alberi cominciavano a cadere le prime foglie. Ma non si poteva ancora dire che fosse cominciato l'autunno, era solo un annuncio. L'uomo di guardia allo stabile lo salutò con un cenno della testa mentre oltrepassava il cancello e legava la bicicletta del vecchio Yifu. Con le gambe di piombo salì i due piani di scale. Mentre girava la chiave nella toppa, un brivido lo percorse da capo a piedi, e di colpo sentì tutta la stanchezza svanire. La porta dell'appartamento non era chiusa a chiave, come lui l'aveva lasciata. Esitò per qualche secondo prima di spingere il battente ed entrare. Sentì un grido acuto, seguito da un rumore di passi in corridoio, e infine vide una bambina con i capelli neri tirati indietro e legati con due fiocchi che, vedendo Li, si bloccò, spaventata a morte. Comparve una donna giovane e graziosa, la bambina le si strinse a una gamba e nascose il viso perché Li non la guardasse. «Che cosa ci fate qui?» chiese Li stupefatto. «Davvero una bella accoglienza, dopo tanti anni!» esclamò la donna. «Non hai ricevuto la mia lettera?» Da vari giorni Li non leggeva la posta, che si era ammucchiata sul tavolo. «Mi dispiace» si scusò. «La mia vita non è molto organizzata.» Dopo un attimo di esitazione, si avvicinò alla donna e l'abbracciò, facendone quasi sparire l'esile figura. «Perché sei venuta?» le chiese. «Devo parlarti.» 4 Fuori era buio e Margaret stava bevendo la sua seconda vodka tonic al bar del Ritan Hotel quando arrivò Michael. Si era quasi dimenticata di lui,
concentrata com'era sul fantasma di Li e sulla prospettiva che tornasse a sconvolgere la sua vita quotidiana, finché non si fosse conclusa l'indagine. D'altra parte si rendeva anche conto che per Li, in quel momento, il fantasma che lo perseguitava era lei. Aveva riflettuto sulla possibilità di rifiutarsi di collaborare con l'ambasciata, con il pretesto che non voleva avere nient'altro a che fare con l'indagine, e di prendere il primo aereo per gli Stati Uniti, com'era già stato deciso. Non avrebbero potuto costringerla a rimanere. Invece, non aveva opposto un rifiuto netto e ora si chiedeva se non fosse stato per il timore del futuro che l'aspettava a casa piuttosto che dello sterile presente che stava vivendo in Cina. Era più facile lasciarsi trascinare dalla corrente. «Potrei avere lo stesso drink che beve la signora?» La voce di Michael la distolse dai suoi pensieri. Il barman si allontanò per preparare la vodka, e Michael si mise a sedere sullo sgabello accanto a lei. «Ne beve un'altra?» «Ah, ma allora lo sa anche lei?» «Che cosa?» «Tre vodka tonic e potrei fare qualunque cosa.» «Un'altra vodka tonic per la signora» disse Michael al barman. Margaret sorrise. «Naturalmente, non è vero.» «Peccato.» «Ce ne vogliono almeno quattro.» Margaret guardò l'orologio. «È in anticipo.» «Non faccio mai aspettare una signora.» «Mai?» Michael si strinse nelle spalle. «Be', dipende dalle circostanze. Ci sono casi in cui è meglio non avere fretta.» «Sono d'accordo.» Margaret finì la vodka che aveva nel bicchiere. «Era tanto tempo che non ricevevo fiori.» «Le sono piaciuti?» «Sono stupendi, anche se mi sfugge il loro significato. Gli uomini hanno sempre motivi reconditi per regalare fiori.» «Volevo solo esprimerle il piacere che mi ha dato la notizia che lei sarebbe rimasta a Pechino ancora per un paio di giorni. Ieri sera l'avevo appena incontrata quando lei è sparita, come Cenerentola.» «E lei si è chiesto se per caso mi fossi trasformata in una zucca?» Michael rise. «Non era la carrozza a trasformarsi in una zucca?» «Non so, non sono molto preparata sulle fiabe.» Il cameriere portò la vodka tonic. Margaret sollevò il bicchiere e fece un brindisi, sorridendo.
«Cenerentola scappa e perde una scarpetta, questo lo so. Il principe la trova e va in giro a farla provare a tutte le ragazze del regno. Un feticista del piede. Voglio dire, come faceva a non riconoscerla guardandola in faccia?» Margaret bevve un altro sorso di vodka. «Come Lois Lane e Superman. Lui si mette un vestito normale, un paio di occhiali e lei non lo riconosce più. È assurdo.» Guardò Michael, s'interruppe e rise. «È così riposante stare qui seduti a dire sciocchezze. E sentirsi capiti e non doversi preoccupare di offendere qualcuno, o di fare una figuraccia, o di non rispettare il protocollo... Dopo tre mesi, ne ho abbastanza. Lei non può immaginare...» «Credo di poterlo immaginare, invece» le rispose Michael sorridendo. «Amo molto la Cina e i cinesi, ma dopo sei mesi che vivo qui non vedo l'ora di tornare a casa, guardare un film, mangiare un hot dog, vedere una partita di baseball. E... sì, anche dire sciocchezze e avere intorno gente che capisce di che cosa sto parlando.» «Oh, Diiiooo!» esclamò una voce strascicata. Margaret e Michael si voltarono e videro Dot McKinlay che si avvicinava al bar con un gruppo delle sue Nonne itineranti. Rossa di emozione, quasi incapace di parlare, posò una mano sul braccio di Michael. «Ma è proprio lei?» «L'ultima volta che mi sono guardato nello specchio così mi è sembrato.» Dot si rivolse a Margaret. «È Michael Zimmerman. Lavora alla televisione.» «No, non è Michael Zimmerman» disse Margaret sprofondando Dot nella più amara delusione. «Come ha detto...?» chiese Dot. «È il suo gemello.» Margaret prese Michael sottobraccio. «La saluto, stavamo giusto andando via.» Michael si lasciò guidare fuori dal bar e salutò con un sorriso le Nonne itineranti, che lo guardarono come se fosse un alieno. Erano quasi sulla porta, quando Dot, ripresasi dalla frustrazione, chiamò Margaret. «Ma lei, signorina, non doveva partire oggi?» C'era un'ombra di accusa nelle sue parole. «Sono dovuta rimanere purtroppo,» rispose Margaret «per colpa di un uomo che ha perso la testa.» Fecero appena in tempo a uscire prima di scoppiare a ridere. «Ma è proooprio leeeiiii?» disse Michael, imitando la voce strascicata di Dot.
«Attento, ci stanno guardando» lo avvertì Margaret. Michael si voltò e vide che le Nonne itineranti di Dot McKinlay li stavano osservando dalla finestra del bar. Prese Margaret per mano e corse fuori dal cancello, sotto lo sguardo sospettoso delle guardie in divisa nocciola. Un tassista fermo lungo il marciapiede guardò nella loro direzione, speranzoso, e non appena vide Michael fargli un cenno, accese il motore e si avvicinò. «Ha già cenato?» chiese Michael. «Sì, in cambio dell'autopsia, sono stata invitata a una fastosa cena alla mensa dell'ambasciata. Me la sono dovuta anche pagare.» «Oh, all'ambasciata sanno davvero come si tratta una ragazza.» «Non sono gli unici.» «Allora, quanto rimarrà ancora qui?» chiese Michael dopo un momento. «Non lo so. Un giorno, una settimana, forse un mese.» Margaret vide che quella risposta gli taceva piacere. «Dove andiamo?» «In un posto molto speciale.» Michael aprì la portiera del taxi per farla salire e, scivolandole accanto sul sedile posteriore, disse al tassista qualche parola in cinese. Margaret ebbe l'impressione che lo parlasse molto bene e glielo disse. «Non è vero» rispose Michael. «In realtà, il tassista sa l'inglese e, prima di salire, mi sono raccomandato che fingesse di capire quello che dicevo.» «Sta scherzando?» Lui la guardò, con una espressione seria e sincera. «Ebbene sì, sto scherzando.» Rise. «Quando ho deciso di specializzarmi in storia dell'archeologia cinese alla Washington University, a Saint Louis, ho pensato che avrei dovuto imparare anche la lingua. C'erano più di venticinque studenti all'inizio del corso. Alla fine eravamo in sette e io ero l'unico non di origine cinese.» «Dicono tutti che è una lingua difficilissima.» «In teoria è abbastanza facile. La grammatica non potrebbe essere più semplice. I verbi, in pratica, si usano solo al presente. Oggi vado, domani vado, ieri vado. I guai cominciano quando si cerca di parlare.» «È tutta una questione di accenti, vero?» «Sì, una stessa parola può averne quattro e assumere quattro significati diversi. Per qualche tempo mi sono esercitato con una ragazza che lo parlava molto bene. Era una deliziosa bambolina e ho pensato che valesse la pena di sacrificarsi. Un giorno mi ha detto: "Vuoi fare l'amore?", lo non credevo alle mie orecchie, ma il modo in cui mi aveva rivolto l'invito ave-
va qualcosa di strano, anche perché nel frattempo stava sbucciando un'arancia.» Margaret scoppiò a ridere. «Così, le ho chiesto di ripetere la domanda e lei lo ha fatto: "Vuoi fare l'amore?". Stavo per risponderle di sì, quando ho pensato di chiederle di mettermelo per iscritto. E purtroppo il cinese scritto non lascia spazio ad ambiguità.» Michael sorrise tra sé. «Che cos'aveva scritto?» chiese Margaret. Michael scosse la testa. «Voleva solo sapere se ero religioso.» «E non ha mai fatto l'amore con lei?» «Ci sono cose che devono rimanere segrete. Non ho mai tradito la fiducia di una ragazza.» «Mi fa piacere sentirglielo dire.» Il taxi si diresse verso ovest e superò la Porta della Pace Celeste. Dalla sua gigantografia, Mao Tse-tung guardava la piazza Tien-An-Men dove un tempo centinaia di migliaia di Guardie Rosse lo avevano acclamato. Ora la piazza era piena di turisti e di operai che, alla luce dei riflettori, stavano erigendo grandi sculture floreali per la festa nazionale. Mentre Michael osservava la piazza, Margaret ne approfittò per osservare lui. Indossava un paio di jeans, stivali di cuoio marrone e un gilé nero sbottonato sopra una camicia bianca portata fuori dai pantaloni. Aveva la carnagione chiara, leggermente abbronzata, le mani grandi e curate, la mascella forte e ben disegnata. Poiché l'interno del taxi era piuttosto stretto, Margaret sentiva contro di sé il calore della sua gamba e la solidità dei suoi muscoli. Aveva un profumo molto particolare, che Margaret non riusciva a definire: agrodolce, muschiato, quasi pungente. «Che dopobarba usa?» Di ritorno dal pianeta dei suoi pensieri, Michael aggrottò la fronte. «Non uso dopobarba» rispose, poi capì. «Ah, il patchouli!» Rise. «Non sopporto il profumo dei dopobarba. Invadente di primo mattino. Preferisco mettermi una goccia di essenza di patchouli proprio qui sul collo: mi dà una sensazione di freschezza.» Fece una pausa. «Non le piace?» «Al contrario, mi piace molto. L'ho chiesto semplicemente perché è un profumo insolito.» «Spero che lei ami il jazz» disse Michael, di punto in bianco. «Il jazz?» «Stiamo andando a sentire il miglior jazz possibile da questo lato della Grande Muraglia.» Margaret avvertì una punta di delusione. Il taxi li lasciò davanti al giardino del Minzu Hotel sulla Fuxingmennei
Dajie. Scesero nel sottopassaggio, risalirono dall'altra parte della strada e s'inoltrarono tra gli alberi che separavano il marciapiede dalla pista ciclabile. Margaret cominciò a sentirsi a disagio. C'erano vecchi che giocavano a scacchi seduti sui muretti, mentre le donne chiacchieravano, riunite in gruppi, e i bambini gridavano e ridevano, facendo rimbalzare una palla sull'erba. Hutong strettissimi portavano a un intrico di cortili. Si ricordò di essere già stata in quel quartiere. Le luci della libreria Sanwei, sull'angolo, si riversavano nella strada buia. La musica jazz si disperdeva nel caldo della sera. Non appena entrarono, una ragazza si avvicinò per vendere loro i biglietti d'ingresso, che costavano trenta yuan. La libreria era al piano inferiore e alcuni commessi si aggiravano negli stretti corridoi tra uno scaffale e l'altro. «Non si lasci catturare dalla libreria» disse Michael. «Al piano di sopra c'è una meravigliosa sala da tè.» «Lo so» rispose Margaret e si fermò sul primo gradino, come per un pensiero improvviso. «È già stata qui?» Lei annuì. «Ma non in una serata di jazz.» Ricordava la quiete della sala da tè: i tavoli laccati con le sedie intorno; i vasi e le sculture disposti sulle mensole e sui mobiletti; i dipinti cinesi moderni e tradizionali appesi alle pareti; i paraventi che creavano séparé, in uno dei quali si era seduta con Li una sera, quando la sala era deserta e lei gli aveva aperto il suo cuore per la prima volta. «Si sente bene?» Michael aveva l'aria preoccupata. Lei stava per dirgli che non voleva salire, ma poi non ne ebbe il coraggio. «Sì, sì, sto bene» rispose. Michael esitò ancora un momento, poi le prese la mano e la guidò su per le scale. La jazz-band aveva appena smesso di suonare per prendersi una pausa, quando entrarono nella sala, e il pubblico stava ancora applaudendo. Un giovane uomo con gli occhiali, seduto dietro un tavolino, ritirò i biglietti. «Buonasera, signor Zimmerman, come sta?» Parlò in inglese, lentamente e facendo attenzione alla pronuncia. «Bene, Swanney, grazie. Come va il lavoro?» «C'è molta gente, stasera, signor Zimmerman.» Michael presentò Swanney a Margaret, che gli strinse la mano. «Swanney è medico e lavora nel reparto malattie infettive» disse Michael e Margaret sentì l'immediato bisogno di andare a lavarsi la mano che aveva toc-
cato quella di Swanney. «Lavora qui nelle serate jazz, perché gli piace la musica, ma anche perché così ha la possibilità di tenere in esercizio il suo inglese.» Margaret si guardò intorno. La sala era affollata: un misto di facce cinesi ed europee. Era un pubblico giovane, fatta eccezione per un uomo anziano, in jeans, maglietta e berrettino da baseball, impegnato a sedurre una ragazza cinese, palesemente infastidita dalle sue attenzioni, che per età avrebbe potuto essere sua nipote. L'atmosfera era molto diversa da quella della sera che lei e Li avevano trascorso in tranquilla solitudine in quel locale. I clienti, seduti in gruppi intorno ai tavoli a bere birra e tè, ridevano e parlavano a voce alta. Alla confusione, però, mancava qualcosa che Margaret subito individuò. «Nessuno fuma» fece notare a Michael. «Lo so» rispose Michael. «Un controsenso: il jazz senza sigarette. La proprietaria del locale è uno strano personaggio: praticamente vive lì dentro,» e indicò una porta in fondo a un corridoio a colonne «ma non si fa mai vedere. Detesta il fumo e lo ha vietato nelle serate jazz.» La invitò a sedersi all'unico tavolo libero in tutta la sala. «L'ho prenotato. Volevo essere sicuro che non dovessimo stare in piedi.». Una ragazza di circa vent'anni, con un grembiule bianco, un sorriso aperto e un viso grazioso, sbucò dalla folla. «Buonasera, signor Zimmerman, bentornato» disse, guardando Michael con un'adorazione quasi sfrontata. «Ciao, Plum» la salutò Michael con un sorriso. «Ti presento Margaret. Fa il medico.» Plum rivolse a Margaret uno sguardo di disarmante cordialità. «Buonasera, signorina Margaret» disse tendendole la mano. «Sono felice di conoscerla. Studio inglese all'università di Pechino. Che cosa posso portarvi da bere?» Ordinarono due birre. Margaret stava guardando i volti che la circondavano, quando, improvvisamente, il suo sguardo incontrò quello di un cinese alto, che passava vicino al loro tavolo. Era Li. Sentì il sangue salirle alle guance, mentre lui si fermava, non potendo fingere di non averla vista. Con lui c'era una ragazza cinese, giovane e bella. Per Margaret fu come se lui le avesse restituito lo schiaffo, dieci volte più forte. Ecco perché non c'era futuro per loro due: perché amava un'altra! Avrebbe voluto alzarsi e colpirlo di nuovo, ma più forte, questa volta, con un pugno, per fargli male davvero. Invece, rimase seduta e, cercando di controllare la voce, disse:
«Che sorpresa!». Sulle prime, Li rimase senza parole per l'imbarazzo, poi vide Michael e arrossì di collera. Ecco perché Margaret aveva deciso di non partire! Aveva il cuore spezzato, ma si era ripresa presto. «Sì, davvero, che sorpresa!» fu l'unica cosa che riuscì a dire. Michael scattò in piedi tendendo la mano. «Buonasera. Sono Michael Zimmerman.» La buona educazione obbligò Li a stringere la mano che gli veniva tesa. Margaret si alzò lentamente e lanciò un'occhiata alla ragazza che era con Li. «E lei chi è?» chiese in modo quasi aggressivo. Per nessuna ragione al mondo avrebbe permesso a Li di andarsene senza avergliela presentata. Li la guardò dritto negli occhi con una franchezza che la sconcertò. «È Xiao Ling» rispose. «Mia sorella.» Un altro schiaffo. Incerta tra imbarazzo e sollievo, Margaret si sentì una stupida. Cercò di sorridere e strinse la mano a Xiao Ling. «Felice di conoscerla» disse. Xiao Ling rispose con un piccolo, beneducato cenno della testa e i suoi occhi incontrarono solo per un attimo quelli di Margaret. «Buonasera» disse Michael, stringendole a sua volta la mano. «Volete sedervi con noi?» Margaret gli lanciò uno sguardo terrorizzato, ma Li, con molta freddezza, rifiutò l'invito. «Stavamo andando via» rispose. «Ci siamo sbagliati, non è una delle solite serate jazz.» «No,» confermò Michael «stasera c'è uno spettacolo fuori programma.» Li annuì e sospinse Xiao Ling verso l'uscita. «Buona serata» augurò loro, allontanandosi. Margaret e Michael si rimisero a sedere. «Accidenti!» commentò Michael. «Mi sento come se fossi appena uscito dal freezer.» Si guardò la punta delle dita. «Temo di avere un principio di congelamento.» Margaret si sforzò di sorridere. «Mi dispiace molto, Michael.» «Chi era quel tipo? O, forse, non dovrei chiederlo?» «No, può chiederlo benissimo» rispose Margaret. «È l'uomo più testardo, piantagrane e scortese che abbia mai conosciuto.» «L'avevo capito: non so quando né per quanto tempo, ma tra voi c'è stato un grande amore.» «È così evidente?» Michael sorrise. «Lei ce l'ha stampato in fronte» disse e Margaret gli ri-
spose con una risatina triste. «Ma chi è?» chiese ancora Michael. «Si chiama Li Yan, è il vicecapo della Prima Sezione della polizia municipale di Pechino.» «Un poliziotto?» «Purtroppo, nel mio lavoro è difficile evitarli.» «Che cos'è la Prima Sezione?» «È una sorta di squadra anticrimine che si occupa dei reati gravi: rapine a mano armata e omicidi.» Tutto apparve immediatamente chiaro a Michael. «Allora è con lui che ha lavorato per quell'inchiesta sul riso?» «Sì.» «E c'entra anche con l'autopsia che lei ha fatto per conto dell'ambasciata?» «Purtroppo, sì» rispose Margaret, e aggiunse, d'impulso: «Peccato che non fosse lui disteso su quel tavolo!». «Ahi, ahi, non vorrei trovarmi sotto il suo bisturi!» «C'è chi mi accusa di avere una lingua ancora più tagliente.» «Cercherò di evitare anche quella.» Arrivò Plum con le birre. Michael bevve un lungo sorso della sua e fissò Margaret pensieroso. «Allora a che cosa sta collaborando? A un'indagine su un delitto? Oppure è un segreto di Stato?» chiese. «No, non credo.» Margaret bevve, a sua volta, un sorso di birra, prima di proseguire. «Un tizio dell'ambasciata, un sino-americano, è stato decapitato da un serial killer. O, almeno, così pensano i cinesi.» «Decapitato! Una morte sgradevole. Nell'antica Cina l'esecuzione capitale avveniva per decapitazione.» «Davvero? Interessante.» «Una pratica usata per migliaia di anni, anzi fino a tempi abbastanza recenti. Quando i cinesi seppellivano i loro imperatori in grandi tombe sotterranee, decine di concubine e di cortigiani venivano sepolti con loro. Alcuni ancora vivi, altri, più fortunati, dopo che gli era stata tagliata la testa. Ci sono molti scheletri decapitati nelle tombe che abbiamo portato alla luce recentemente.» Margaret rabbrividì. «Far carriera a corte non era una prospettiva molto attraente.» «Era il prezzo da pagare per gli inimmaginabili privilegi di cui i cortigiani godevano fintanto che l'imperatore era in vita.» Michael bevve un altro sorso di birra. «Ma, se non ho capito male, lei non crede che il sino-
americano sia stato ucciso da un serial killer.» Margaret rispose con un gesto vago. Stava pensando a Li. «Non del tutto. Ci sono troppe incongruenze.» «Allora chi è stato?» «Non ne ho idea. E neanche i cinesi. Quando lo scopriranno, ammesso che ci riescano, sarò già in pensione.» Margaret alzò gli occhi su di lui e sorrise, scuotendo la testa. «Non è una storia interessante come sembra, anzi, è piuttosto noiosa.» Bevve un sorso di birra. «Com'è andato il suo lavoro, oggi?» «Piuttosto noioso, direi.» «Non avete cominciato a filmare?» «Sì, infatti, ma niente di particolarmente eccitante. Ci stiamo ancora organizzando, però, visto che c'era il sole, abbiamo fatto qualche ripresa dall'elicottero della tomba di Ding Ling.» Margaret rise. «Drin drin?» Michael sorrise della battuta sciocca. «No, Ding Ling è il sito della tomba di Zhu Yijun, tredicesimo imperatore della dinastia Ming, costruita dentro la collina Dayu, nel cuore delle Montagne della Longevità Celeste, a un'ora dalla città. Oggi è stato emozionante vederla finalmente con la luce del sole. Con l'elicottero siamo scesi a bassa quota sui monti e quando abbiamo oltrepassato l'ultima cima, la tomba si è aperta davanti ai nostri occhi in tutta la sua maestosità. Con i colori dell'autunno e il sole, abbiamo fatto delle riprese eccezionali.» «Non per fare la pignola, ma qualche bella immagine basterà a reggere tutta la serie televisiva? A essere sincera, non posso dire di sentirmi estasiata alla prospettiva di vedere un mucchio di tombe...» «La serie non si basa sulle tombe, Margaret,» rispose Michael, con un sorriso indulgente «ma sulla storia di un popolo e, in particolare, su un personaggio straordinario che si chiamava Hu Bo.» S'interruppe. «Ma forse a lei non interessa.» «No, no, m'interessa molto!» disse Margaret. «Continui, la prego.» Michael proseguì, un po' imbarazzato. «Hu Bo è stato un pioniere dell'archeologia nella Cina del Ventesimo secolo.» «Ehm, ripensandoci...» Michael rise. «D'accordo, capisco. Detto così, può non sembrare molto interessante. Ma se si pensa ai risultati che Hu Bo è riuscito a raggiungere, in circostanze difficili e in un contesto di guerra, rivoluzione e follia politica, la sua storia è straordinaria. Una storia cominciata quando, a dieci anni,
suo padre lo ha venduto a un gruppo di esploratori stranieri e finita con una sorta di testamento spirituale: la pubblicazione degli scavi di Ding Ling che lui e alcuni colleghi, con grandi sacrifici, hanno salvato dalla furia devastatrice della Rivoluzione culturale.» «Sembra la voce fuori campo che introduce una serie televisiva su un archeologo cinese» disse Margaret. «Già, più o meno è così» ridacchiò Michael. «In realtà, il testo scritto sarà meglio.» Le rivolse uno sguardo ammiccante. «Guarderà almeno la prima puntata?» Margaret fece un respiro, prima di rispondere. «Be', vede... io sono un po' incontentabile. Potrebbe interessarmi per un minuto o due e...» Michael si piegò in avanti verso di lei. Il suo entusiasmo era contagioso. «Se mi dedicherà un minuto, quel minuto diventerà un'ora e se mi dedicherà un'ora, guarderà tutta la serie. Glielo assicuro.» Nonostante la radicata convinzione che né l'archeologia, né gli archeologi potessero interessarla, Margaret si sentì incuriosita, anche se non capiva se ad affascinarla fosse la storia, o piuttosto chi la raccontava. Michael le prese una mano, quasi senza rendersene conto. «Venga sul set domani, la prego. Stiamo ricostruendo il momento in cui Hu Bo e la sua eterogenea squadra di archeologi e dilettanti entusiasti aprono la tomba dell'imperatore esattamente quattrocento anni dopo che era stata sigillata. Non sanno che cosa li aspetta, hanno sentito parlare di gas tossici, di balestre meccaniche predisposte per scagliare frecce avvelenate nel caso in cui le porte della sala sotterranea venissero aperte. Mentre tolgono i primi mattoni tutti sono letteralmente terrorizzati...» Michael s'interruppe e aspettò. «E allora, che cosa è successo?» chiese Margaret con impazienza. Michael sorrise e si appoggiò allo schienale della sedia. «Lo vede? Eccola conquistata. Se vuole saperne di più. venga domani. La manderò a prendere con un'automobile della produzione.» «Ma...» rispose Margaret titubante «devo pensarci.» La jazz-band cominciò a riunirsi di nuovo in fondo alla sala e lei ne fu delusa perché, proprio quando si stava appassionando alla conversazione, sarebbe diventato impossibile parlare. Michael le piaceva, era un tipo brillante e divertente. Ma il pensiero di Li tornò ad affacciarsi di nuovo alla sua mente e si chiese se sarebbe mai riuscita a liberarsene. Michael si spostò con la sedia in modo da vedere la band. «Sono piuttosto bravi. Rimangono in città solo due sere, per questo suonano stasera e non durante il weekend. In ogni caso il sassofonista non ha rivali al mon-
do.» Margaret rivolse la sua attenzione ai suonatori. Il batterista, il sassofonista e il bassista erano cinesi. Il tastierista, americano, presentò gli elementi della band in cinese e in inglese, poi li trascinò in un pezzo dal ritmo moderato, dominato da un riff senza fine della tastiera, con interventi e digressioni del sax. Erano molto bravi, senza dubbio, ma Margaret non si sentiva coinvolta emotivamente. Notò che Michael ascoltava con attenzione e capì che il jazz non era un loro comune interesse. Allora, si mise a osservare il pubblico, lasciando vagare lo sguardo nella sala. Il tizio con il berrettino da baseball non era andato molto avanti nel suo corteggiamento della ragazza cinese. Vicino al paravento era seduto un giovane che, con lo sguardo fisso sulla band, muoveva la testa al ritmo della musica, totalmente rapito. La bella ragazza; che era con lui, trascurata dal suo innamorato, si teneva sveglia creando meravigliosi origami da un fazzolettino di carta. Affascinata, Margaret vide apparire tra le sue mani un pavone con la coda a ventaglio e la testa dritta. Finito quel capolavoro, la ragazza scosse leggermente per un braccio il suo compagno per farglielo ammirare. Lui lo guardò appena, le fece un sorriso di condiscendenza e tornò a concentrarsi sulla musica. La ragazza alzò le spalle, con un colpetto disfece il pavone e cominciò a inventare qualcos'altro. La jazz-band finì il pezzo tra applausi scroscianti. Il tastierista parlò per qualche minuto in cinese e Margaret vide molte teste voltarsi verso il loro tavolo. Poi passando all'inglese disse: «Mi rivolgo ora a quelli di voi che non conoscono il cinese: stasera abbiamo con noi Michael Zimmerman!». Indicò Michael con un gesto della mano e altre teste si voltarono verso di loro. «Credo che quasi tutti voi, se non addirittura tutti, lo abbiate visto presentare alla televisione i suoi famosi documentari sulla storia della Cina, ma una cosa forse non sapete: Michael Zimmerman è anche un virtuoso del sax contralto.» Michael si girò verso Margaret. «Vorrei sprofondare.» «Non sapevo che lei fosse un musicista» disse lei, improvvisamente incuriosita da questa sua nuova, insospettata dimensione. Si rese conto che in realtà ignorava quasi tutto di Michael e della sua vita. «Michael, perché non viene a suonare un pezzo con noi? Un applauso per Michael Zimmerman!» Gli occhi di tutti in sala erano puntati sul loro tavolo. «Oh, Dio» mormorò Michael, senza accennare ad alzarsi. «Vada...» disse Margaret, spingendolo leggermente col gomito e si unì
all'applauso del pubblico. «Voglio sentirla suonare.» Era in trappola. Scuotendo la testa, Michael si alzò e si avviò lentamente verso la band. Margaret provò uno strano, inspiegabile orgoglio. Si rendeva conto che la gente in sala la guardava, chiedendosi chi fosse. Michael applicò il proprio bocchino a un sax contralto che il sassofonista cinese aveva estratto dalla custodia appoggiata per terra. I musicisti si scambiarono qualche parola, poi il batterista cominciò a segnare il tempo di un pezzo lento, sognante, fatto apposta per un sentimentale assolo di sax. Il piano elettrico attaccò una semplice melodia di controcanto, mentre il bassista faceva scivolare le dita su e giù lungo la tastiera, pizzicando le corde secondo il giro degli accordi. Michael rimase in piedi con gli occhi chiusi dondolandosi lentamente e lasciandosi trascinare dalla musica prima di accostare il sassofono alle labbra e iniziare con un soffio vellutato un morbido assolo che avvolse la sala, facendola vibrare. Margaret si sentì percorrere da uno strano brivido dalla nuca alle gambe. Non aveva mai dedicato molto tempo alla musica, ma qualche volta il suono di uno strumento le aveva dato, come in questo momento, una grande emozione. Pensò che Michael aveva un talento naturale, autentico, che andava al di là dell'esecuzione del brano. Guardò la sua espressione intensa e le sue dita che scivolavano sui tasti, mentre l'assolo raggiungeva il punto di massima intensità, una sorta di orgasmo. E quando il brano finì e Michael fece un passo indietro, con il viso rigato di sudore, tutta la sala scoppiò in un caloroso applauso. Perfino la ragazza degli origami, messo da parte il fazzoletto, applaudì con inatteso entusiasmo. A Margaret bruciavano le mani quando Michael la raggiunse di nuovo al tavolo. Si sedette e si asciugò il sudore con il fazzoletto che la ragazza degli origami gli aveva offerto mentre passava accanto al suo tavolo, lanciandogli un'occhiata sensuale e predatoria. «Mi scusi per tutta questa storia» disse a Margaret con sincero imbarazzo. «Porta sempre con sé il bocchino, nel caso le capitasse di suonare?» chiese Margaret. «Sempre» rispose lui, sorridendo. In quel momento Margaret decise che, in fondo, avrebbe potuto accettare la proposta di andarlo a trovare sul set l'indomani. 5
Mei Yuan era seduta sul divano con un braccio intorno alle spalle di Xinxin e un grande libro illustrato sulle ginocchia. Xinxin era così intenta a guardare le figure che quando la mamma e lo zio rientrarono li guardò solo per un attimo. Mei Yuan non aveva il teletono, ma, quando era stata malata, Li aveva conosciuto una sua vicina di casa che si era mostrata più che disponibile a trasmetterle qualche messaggio. E così, quando lui l'aveva mandata a chiamare, Mei Yuan era arrivata subito in bicicletta, felice e col fiato grosso. Aveva portato con sé tanti libri illustrati per bambini. Li si era chiesto dove mai fosse riuscita a trovarli, ma non le aveva fatto domande. A Mei Yuan piaceva stare con i bambini, anche se non le capitava spesso perché di tutti i suoi parenti le era rimasta solo una cugina con il marito e un figlio di trent'anni. Xinxin non sapeva ancora bene come comportarsi con quello zio così alto. Lo guardava timidamente, con i suoi occhi scuri e diffidenti. Non l'aveva più visto da quando aveva due anni e se l'era dimenticato. Per Mei Yuan, invece, aveva avuto un'immediata simpatia. Li e Xiao Ling, quindi, erano stati subito congedati con la raccomandazione di non preoccuparsi: Xinxin era in buone mani e non c'era bisogno che si affrettassero a tornare. Mei Yuan aveva capito che dovevano parlare in privato e aveva già pensato che, se fossero rincasati molto tardi, avrebbe dormito sul divano. Si meravigliò, quindi, di vederli rientrare dopo un'ora ed ebbe la sensazione che si portassero dietro una ventata d'aria fredda. A Xinxin dispiacque che Mei Yuan dovesse andar via così presto. Stava per mettersi a piangere, ma questa la rassicurò che sarebbe tornata presto e, intanto, le avrebbe lasciato i libri da guardare. Nell'andarsene, disse sottovoce a Li: «Se hai bisogno di me, sai dove trovarmi». Li le strinse la mano e annuì con gratitudine. Poi si mise a sedere sul divano e ascoltò Xiao Ling che, nella vecchia camera da letto di Yifu, cercava di convincere Xinxin che era venuto il momento di dormire. Dapprima la bambina protestò che non aveva sonno, ma poi, cullata dalla voce della mamma, si addormentò. Nella casa scese un gran silenzio, ma passò ancora qualche minuto prima che Xiao Ling tornasse. Si era tolta la giacca e Li si accorse, per la prima volta, che la sua gravidanza cominciava a essere visibile. Gli parve stanca, affaticata e invecchiata. La sua sorella minore non era più la ragazza dal viso fresco che gli veniva incontro quando lui, studente universitario, tornava a casa, nel Sichuan, per le vacanze. Quel ricordo ne richiamò un altro: proprio in occasione di
un suo ritorno a casa, aveva scoperto che lei si era fidanzata con un giovane che lui non aveva mai visto e che ben presto si accorse di non sopportare. Si chiamava Xiao Xu e possedeva una piccola fattoria vicino alla cittadina di Zigong, nella provincia del Sichuan, dove ora viveva con Xiao Ling, Xinxin e i propri genitori. Nella nuova Cina, le fattorie di proprietà privata prosperavano e Xiao Xu era relativamente ricco. Si era appena costruito una casa nuova, che Li non aveva ancora visto. Loro non lo avevano mai invitato e lui non aveva mai manifestato il desiderio che lo facessero. Giudicava Xiao Xu un contadino ignorante, non adatto a sua sorella. Non l'aveva mai trattata male - Li Yan lo avrebbe fatto a pezzi se ci avesse anche solo provato - ma non mostrava per lei né affetto, né rispetto. Xiao Ling era stata una bella ragazza e aveva portato anche una considerevole dote, ma Li aveva l'impressione che Xiao Xu avesse solo voluto una moglie che gli desse un figlio. E purtroppo sua sorella si era trovata al posto giusto nel momento sbagliato. Avrebbe meritato molto di più. E adesso si era aggiunto un nuovo problema. «Vuoi una tazza di tè?» gli chiese Xiao Ling. Li annuì, anche se avrebbe preferito una birra. Ma doveva tenere la mente lucida. Xiao Ling andò in cucina a mettere l'acqua sul fuoco. Gli aveva detto che non era ancora sicura di voler tenere il bambino. Era incinta solo di sedici settimane e per abortire poteva ancora aspettare fino alla ventottesima. Con la politica cinese del figlio unico, le sanzioni psicologiche e finanziarie che avrebbe dovuto pagare se avesse portato avanti la gravidanza, avendo già una figlia perfettamente sana, potevano essere molto severe: avrebbe perso il diritto all'istruzione gratuita per Xinxin e per l'altro figlio che le sarebbe nato, all'assistenza medica per tutta la famiglia, al mutuo a tasso agevolato per la casa, ad altri benefici fiscali e, inoltre, avrebbe dovuto addirittura pagare una grossa multa. Le pressioni psicologiche che, in alcuni casi, erano state esercitate dai comitati di villaggio e dai quadri del Partito avevano spinto alcune madri a togliersi la vita. E, tuttavia, Li non sopportava l'idea dell'aborto, del privare della vita un bambino prima ancora che nascesse. Era un'alternativa angosciosa, una strada senza uscita dove Xiao Ling non avrebbe dovuto avventurarsi, ma lui sapeva che sua sorella aveva voluto quel bambino: la figlia non le bastava, voleva il maschio, come tutte le mamme cinesi. L'idea di portarla alla sala da tè della libreria Sanwei per poter parlare con calma si era rivelata un disastro. Le serate jazz di solito si tenevano durante il weekend e la confusione che avevano trovato era stata del tutto
inattesa. Li ripensò a Margaret e alla propria sorpresa nell'incontrarla in quel locale, in compagnia di un bell'americano. Sapeva di non avere il diritto di essere geloso, ma, toccandosi la guancia che gli formicolava ancora per lo schiaffo ricevuto, si chiese se il gesto rabbioso di quel pomeriggio non fosse stato dettato più dal senso di colpa che dalla collera. Xiao Ling portò il tè su un vassoio e mise la teiera e le tazze col coperchio sul tavolino davanti al divano. Versò l'acqua calda e coprì le tazze perché le foglie verdi cedessero all'acqua il loro aroma amaro. Poi si sedette sul bordo del divano, vicino a Li, e rimase in attesa in un silenzio carico di tensione. «Allora, che cosa ti ha detto lo zio Yifu?» le chiese Li rendendola ancora più inquieta. Yifu, su richiesta del loro padre, era andato a Zigong per parlare con Xiao Ling della sua gravidanza. La notte in cui era rientrato a Pechino era stato ucciso. Xiao Ling congiunse le mani torcendosi le dita mentre parlava. «Dopo le pressioni cui tutti mi avevano sottoposta,» raccontò «il vecchio Yifu si è seduto accanto a me, mi ha preso la mano e mi ha detto che avrei dovuto decidere io del mio destino.» Aveva gli occhi pieni di lacrime. «Non ha dato giudizi, né ha accusato nessuno. Ha esaminato con me tutte le possibilità e le conseguenze. Mi ha chiesto di dirgli perché volevo un bambino. Non ha fatto commenti sulla mia risposta, ma mi ha aiutato a riflettere e a esprimere j miei sentimenti. Nessun altro si era curato di quello che pensavo io, né Xiao Xu né i suoi genitori, né nostro padre. Nessuno. Volevano solo che facessi quello che mi dicevano di fare. Lo zio Yifu, invece, voleva solo che facessi ciò che sembrava giusto a me.» Xiao Ling si voltò verso il fratello, con le guance rigate di lacrime. «Era così caro, così buono. Abbiamo parlato per ore. Io volevo che si trattenesse per qualche giorno, ma lui ha detto che doveva partire.» Si morse le labbra. «Se avessi insistito, se lo avessi costretto a restare, oggi sarebbe ancora vivo.» Il senso di colpa che aveva tenuto dentro di sé per tutto quel tempo trovò sfogo nei singhiozzi che ora le squassavano il petto. «Mi sento così responsabile!» Li le mise un braccio intorno alle spalle e l'avvicinò a sé. La sentì piccola e fragile. «Non hai nessuna colpa per la sua morte» le disse in un bisbiglio e con la voce arrochita dalla commozione. «Se c'è qualcuno che deve sentirsi in colpa, quello sono io. L'hanno ucciso per causa mia.» Quelle parole non iecero che accrescere la disperazione di Xiao Ling.
«Non so perché tu hai voluto fare il poliziotto, non so...» disse tra i singhiozzi. «Perché volevo essere come lui» rispose Li con il desiderio che lei riuscisse a capirlo. «Perché credevo nelle medesime cose in cui credeva lui: nella lealtà, nella giustizia, nel diritto di tutti alla propria vita e alle proprie cose.» «Scusami» disse Xiao Ling. «So che anche tu gli volevi bene.» Restarono vicini, finché non ebbero più lacrime. Xiao Ling si asciugò la faccia con il fazzoletto e bevve un sorso di tè ormai tiepido. Li andò a prendere una birra nel frigorifero. In piedi sulla soglia, ne bevve una lunga sorsata. La bevanda gelata alleviò l'arsura che gli bruciava la gola. Allora, finalmente, dopo aver aspettato tutta la sera, le chiese: «Perché sei venuta qui, Xiao Ling?». Lei evitò il suo sguardo. «C'è una clinica, a Pechino, dove fanno quella che viene chiamata ecografia» disse con voce roca. «Che esame sarebbe?» chiese Li. Erano cose che non conosceva e lo preoccupavano. «Ti mostrano su uno schermo l'immagine del feto.» «A quale scopo?» Xiao Ling ebbe un momento di esitazione prima di rispondere. «Qualche volta riescono a dirti di che sesso è.» Li capì che cosa aveva in mente la sorella e avvertì un colpo allo stomaco. «E se non ci riescono con l'ecografia, possono aspirarti un po' di liquido dall'utero e determinare il sesso con sicurezza.» Li rimase fermo a guardarla per molto tempo. Si sentiva pulsare le tempie. «E se fosse un'altra bambina?» Aspettò la risposta della sorella, ma Xiao Ling non disse niente, ostinandosi a non guardarlo negli occhi. Allora rispose lui al suo posto. «Se fosse una bambina abortiresti, vero?» Parlare di "bambina" anziché di "feto" faceva sembrare tutto più grave. Xiao Ling sembrava concentrata nell'esame delle proprie unghie. «Se faranno l'altro esame, prelevando il liquido dall'utero, ci vorranno quattro settimane per il risultato. Sarò ancora nei termini consentiti.» Li bevve un altro sorso di birra e si impedì di aggredirla a parole. Dopotutto, che diritto aveva di giudicarla? Si chiese che cosa avrebbe detto o fatto Yifu al suo posto: non lo sapeva. Capì quanto era diverso da suo zio, al cui modello aveva cercato inutilmente di adeguarsi per tanto tempo. «Questa clinica,» chiese infine «è privata?» Xiao Ling annuì. «Costosa?» Lei annuì di nuovo. «Come farai a pagarla?»
«Xiao Xu ha guadagnato molto in questi ultimi anni. Ho messo un po' di soldi da parte.» «E Xiao Xu è d'accordo?» Ci fu un lungo silenzio. «Non gliel'ho detto» rispose infine. «Crede che sia venuta a farti visita.» Li era sconvolto. «Non ha il diritto di sapere che cosa sta succedendo? Il figlio è anche suo, no?» Xiao Ling alzò finalmente gli occhi e lui vi lesse qualcosa di molto vicino all'odio. «Maschio o femmina, lui vuole che me ne liberi.» Si sentiva il veleno nella sua voce. «Sono andati da lui, l'hanno convinto, non so con quali minacce, ma improvvisamente lui non ha più voluto sentirne parlare. Ha detto che la colpa è mia, che il problema è mio, che tocca a me liberarmi del bambino.» Li si rese conto di quanto dovesse sentirsi sola sua sorella. Tutti erano contro di lei. Doveva fare una scelta e, guidata dall'istinto o forse trascinata dal peso spaventoso di una tradizione millenaria, voleva un figlio maschio. Un desiderio semplice da realizzare in qualunque altro paese della terra. «Se con questa... ecografia conoscerai il sesso del bambino...» Li aveva le labbra secche e faticava a trovare le parole «che cosa farai se è un maschio?» Questa volta lei lo guardò con fermezza negli occhi. «Se sarà un maschio lo terrò e darò Xinxin in adozione.» CAPITOLO QUARTO 1 Un grosso coltello da cucina calò due volte, in rapida successione, e le teste dei polli caddero dal piolo della scala e finirono dentro il fosso. Si verificò allora uno spettacolo impressionante: i due polli senza testa si misero a correre alla cieca con il sangue che sprizzava dal collo. Il contadino che aveva vibrato i colpi mortali, li guardava trattenendo il respiro. Dopo qualche istante caddero sul fianco e rimasero immobili sul terreno intriso di sangue. Una mano si posò con forza sulla spalla del contadino, che si voltò e si trovò davanti il volto sconcertato di Hu Bo. «Che diavolo stai facendo Wang Qifa?» chiese Hu. Wang Qifa raddrizzò le spalle e rispose con tono sicuro: «Signor Hu, è stato lei ad avvertirci dei pericoli delle armi segrete. I vecchi del villaggio
mi hanno spiegato che il sangue dei polli protegge da ogni male. "Se ucciderai due polli, le armi perderanno ogni potere". Così mi hanno detto.» «Bene. Stop! Controlla dall'inizio.» L'uomo che stava dietro a Margaret aveva parlato in un walkie-talkie e lei vide l'immagine sullo schermo tornare indietro rapidamente fino a un momento prima che calasse il coltello. Il dialogo tra Hu Bo e il contadino era già stato girato tre volte, con una scena d'insieme e tre primi piani. I polli erano stati portati solo quando si era stati certi che tutto il resto fosse ormai a posto, ma per Margaret vederli correre senza testa era stato qualcosa di più di uno spettacolo raccapricciante. «Che cosa diranno gli animalisti?» chiese. «I polli appartengono a due coniugi che abitano nel villaggio ed erano già stati destinati a finire in pentola» rispose l'uomo. «Noi ci siamo limitati a pagare il permesso di filmare la loro esecuzione. I polli saranno gli ospiti d'onore al banchetto di stasera, anzi ne saranno il piatto forte.» E si voltò a guardare la registrazione della scena appena girata. A Margaret quell'uomo era risultato subito simpatico. Nonostante la pressione cui era sottoposto per rispettare tempi e scadenze, era rilassato e disponibile anche quando tutti gli altri sul set erano tesi. Michael glielo aveva presentato appena era arrivata a Ding Ling. «Charles è il regista di tutte le mie serie televisive» le aveva detto. Charles le aveva stretto la mano. «Mi fa molto piacere conoscerla, Margaret. Devo chiarire, però, che il mio vero nome è Chuck, solo Mike mi chiama Charles.» «E tu sei l'unico a chiamarmi Mike.» «Vede?» aveva detto Chuck a Margaret, stringendosi nelle spalle. «Non è possibile lavorare con quest'uomo.» La sequenza registrata aveva finito di scorrere sul monitor e da un walkie-talkie arrivò una voce: «A posto». «Bene» disse Chuck. «Da' il via alla prossima sequenza, Dave. Cerchiamo di far presto, perché quelli stanno aspettando i polli.» Si rivolse a Margaret: «Io, per prudenza, includerò nel filmato sangue e budella solo se sarò sicuro di poter tagliare la scena nel caso in cui la trasmissione dovesse andare in onda in prima serata, mentre i telespettatori stanno mangiando pizza e patatine. Ma, nella realtà, le cose sono andate proprio come lei ha visto: la nostra è una TV verità». Si trovavano a bordo di un furgoncino attrezzato come centro di controllo video e che era stato calato con l'elicottero su un terrapieno alto dieci
metri sopra il set. I cavi uscivano dal portellone posteriore come le interiora di un animale morto e si snodavano lungo il corridoio di pietra che portava all'ingresso del palazzo funebre sotterraneo dell'imperatore Wanli. «Ancora non riesco a credere che vi abbiano permesso di girare quella scena proprio dentro la tomba» disse Margaret. «Veramente,» spiegò Chuck «Mike ci ha messo sei mesi a convincerli e ha staccato un assegno cospicuo. I cinesi in fondo in fondo sono dei capitalisti. Hanno calcolato con esattezza di quanto sarebbe aumentato il numero dei turisti grazie alla nostra trasmissione e hanno stabilito che l'operazione era conveniente per loro, anche se adesso devono vietare l'accesso ai visitatori per sei settimane, in modo da darci il tempo di allestire le scene, girare e andarcene. Per quanto ci riguarda, questa è la fase più importante del lavoro, quindi era giusto che la maggior parte del denaro a disposizione venisse spesa qui.» Margaret vide sul monitor che la macchina da presa era stata spostata più in basso e che i polli sgozzati si trovavano al centro dell'inquadratura. Per due volte, dopo una panoramica, la macchina da presa si alzò di circa tre metri e arretrò, in modo da riprendere tutto il passaggio lastricato che conduceva, tra due alti muri, ai gradini del padiglione della stele funeraria. Il movimento della telecamera era lento e uniforme. «Va bene, Jackie» disse Chuck, parlando nel walkie-talkie. «Dave, è pronto Mike? Vuol fare una prova?» La bassa voce irlandese di Dave arrivò con un crepitio di sottofondo attraverso le onde radio. «Michael è pronto, Chuck, e farebbe volentieri una prova registrata. Il discorso è lungo.» Chuck sorrise. «E va bene. Se tutti sono pronti...» Poi, rivolto a Margaret, spiegò: «Mike si vedrà, probabilmente, solo all'inizio e alla fine della trasmissione. Tra i due interventi inseriremo vari fotogrammi che non abbiamo ancora scattato. Quasi certamente dovremo tornare a registrare il parlato in doppiaggio, ma è bello avere come sottofondo i rumori degli esterni. Crea una suggestione di autenticità». Ricominciò a parlare nel walkie-talkie. «Jackie, dopo che hai inquadrato Mike a mezzo busto, ricordati di tenerlo così mentre il dolly arretra. Solo quando abbassi di nuovo la macchina da presa voglio vederlo entrare in primo piano. Appena sei pronto, Dave...» Margaret sentì la voce del primo assistente alla regia sovrastare il brusio generale per zittire tutti. «Fai partire il videotape per la registrazione.» Infine disse: «Azione!».
La cinepresa, che era vicino ai polli morti, venne arretrata e alzata. Chuck si avvicinò alle labbra il walkie-talkie e bisbigliò: «Parla, Mike». Si sentì la voce di Michael che diceva: «Intorno ai dispositivi di sicurezza predisposti dall'imperatore per la propria tomba sono note molte superstizioni. Tuttavia i timori degli archeologi e dei loro aiutanti locali traevano origine sia da testimonianze storiche sia dalle morti misteriose di molti ladri di tombe nel corso dei secoli. Il mondo di Indiana Jones, con le sue imprevedibili trappole e le sue armi segrete, non è dunque un prodotto di pura fantasia». Mentre veniva ripreso, Michael alzò un braccio per indicare con la mano un alto muro di mattoni che chiudeva l'ingresso alla tomba sul quale era nettamente visibile una "V" capovolta. «Quando, il 19 maggio 1957, dopo un anno di scavi, gli archeologi scoprirono "il muro di diamanti" che sigillava l'ingresso alla tomba, le voci riguardanti ciò che poteva trovarsi dietro quel muro si moltiplicarono e alimentarono forme di autentico terrore. Scienza e superstizione, cultura e ignoranza coesistevano nelle menti dei componenti della spedizione e degli scavatori ingaggiati sul posto. Si sentì parlare di balestre mosse da meccanismi nascosti che avrebbero scagliato frecce avvelenate contro chiunque avesse cercato di aprire la porta della tomba; di gas tossici che si sarebbero sprigionati per avvelenare gli intrusi; di sciabole pronte a cadere dalla volta del soffitto. Nessuno sarebbe sopravvissuto. Dieci giorni dopo la scoperta del "muro di diamanti", i timori aumentarono a causa dell'improvvisa apparizione di un misterioso vecchio...» «A questo punto,» spiegò Chuck a Margaret «si vedrà il vecchio mentre parla con i contadini del luogo.» «Indossava abiti laceri e un cappello di paglia e aveva una lunga barba bianca a ciuffi sottili e disordinati. Raccontò agli scavatori locali di essere in possesso di un antico documento trasmessogli dai suoi antenati. Tale documento, disse, faceva menzione di un corso d'acqua che scorreva attraverso il palazzo funebre sotterraneo. Per raggiungere la bara, essi avrebbero dovuto attraversare il corso d'acqua e, una volta arrivati sulla sponda opposta, avrebbero trovato un baratro profondo tremila metri, in fondo al quale c'era del filo spinato sormontato da una passerella di legno. Solo chi fosse nato in un giorno fausto particolare sarebbe riuscito a passare dall'altra parte. Gli altri avrebbero perso la vita. Questa rivelazione procurò al vecchio una ragguardevole somma di denaro pagata dagli scavatori in cambio della predizione di quale sarebbe sta-
to il destino di ciascuno di loro. Ma il giorno successivo, quando gli archeologi vennero informati dell'accaduto e cercarono di individuare la persona che aveva diffuso il panico tra i loro aiutanti, il vecchio era scomparso.» Il sorriso di sufficienza di Michael doveva riflettere lo scetticismo del pubblico televisivo nei confronti del vecchio. «Una storia ridicola? Voi e io possiamo pensarla così, ma Hu Bo e gli altri archeologi che lavoravano con lui ritenevano che nessun dettaglio dovesse essere trascurato, perché stavano studiando un antico testo relativo alla costruzione della tomba del primo imperatore della Cina, Shih Huang, avvenuta più di duemila anni prima. Shih Huang non solo aveva unificato la Cina, ma aveva fatto edificare la Grande Muraglia e costruire un esercito di Guerrieri di Terracotta, a grandezza naturale, a custodia del suo mausoleo.» «Abbiamo già fatto le riprese dei Guerrieri di Terracotta» precisò Chuck. «Ne abbiamo parecchie.» «Il resoconto della costruzione della sua tomba parlava di perle, giade e ogni genere di tesori. Vi si tenevano accese candele di grasso di dugongo. Per prevenire i furti, dentro la tomba era stato installato un sistema nascosto di balestre e frecce dotato di un meccanismo di propulsione automatica. La bara era circondata da fiumi di mercurio che un dispositivo speciale faceva scorrere ininterrottamente. Sopra la bara c'era un cielo con il sole, la luna e le stelle. Sotto, un paesaggio con fiumi e montagne.» Michael venne ripreso in primo piano. Aveva un aspetto molto professionale e, Margaret pensò, era anche molto fotogenico. Dal vivo era bello, ma sullo schermo risultava addirittura bellissimo. Evidentemente la macchina da presa era innamorata di lui. Margaret si sentì percorrere da un brivido. «Fiumi di mercurio?» riprese Michael. «Se fossero esistiti sarebbero stati certamente mortali per chiunque avesse cercato di entrare nella tomba di Shih Huang. Qualcuno ci provò? In realtà, nessuno. L'esercito dei Guerrieri di Terracotta è stato portato alla luce schierato in assetto da combattimento intorno alla tomba, nella quale, a tutt'oggi, nessuno ha ancora avuto il coraggio di entrare. Perché? Perché le analisi effettuate sul terreno hanno rivelato la presenza di pericolose concentrazioni di mercurio. C'è da stupirsi, allora, che Hu Bo e gli altri, guidati dal venerato Xia Nai, avessero il cuore pieno di paura mentre si avvicinavano all'ingresso del mausoleo dell'imperatore Wanli?» Michael si allontanò dalla macchina da presa. «Merda! Ho saltato il pez-
zo sulle pietre dipinte con il cinabro.» «Non importa, Mike» rispose Chuck. «Con te abbiamo finito. Possiamo inserire il pezzo in fase di doppiaggio, ma non credo che se ne sentirà la mancanza.» Michael tornò davanti alla telecamera. «Non si può eliminare quel pezzo. Voglio rifare tutto daccapo.» «Il solito perfezionista» mormorò Chuck. «D'accordo, ricominciamo daccapo.» Si rivolse a Margaret: «Le è piaciuta l'introduzione di Michael?». «Sì, mi è piaciuta.» «Anche a me.» Poi aggiunse, con un sospiro: «Ora bisognerà aspettare che completi l'intervento». Margaret si alzò. «Andrò a fare due passi. Ci vediamo più tardi, d'accordo?» «Certo.» Chuck sorrise. «Mi piacerebbe accompagnarla, se solo potessi.» Fuori, il sole di settembre era molto forte e il profilo delle montagne si stagliava in modo nitido contro il cielo. Gli abeti mandavano un dolce profumo silvestre. Margaret si allontanò dal furgoncino delle attrezzature e attraversò la zona ombrosa sotto gli alberi, fino alle mura merlate che circondavano la tomba: un'oasi protetta, in mezzo a un paesaggio brullo, arido, calcinato dal sole. Le colline pedemontane erano costellate di tombe degli antenati di Wanli, testimonianze del disperato tentativo dei ricchi e dei potenti della storia di mantenere la loro condizione egemonica anche nella morte. Un'inutile ricerca di immortalità. Ora, a distanza di secoli, servivano solo da passatempo a una generazione di videodipendenti. Margaret, con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni, avanzava lentamente lungo il camminamento lastricato in cima alle mura esterne, tirando davanti a sé col piede una pigna caduta da un albero. Era tutto interessante, Michael era bello e gentile, ma lei si sentiva ancora emotivamente vulnerabile e avrebbe fatto di tutto per evitare altri coinvolgimenti sentimentali. Il pensiero di Li la faceva ancora soffrire. Mentre si avvicinava al padiglione della stele funeraria, una ragazza cinese, la terza assistente alla regia, le fece cenno di fermarsi e di rimanere in silenzio. Alla sua destra, nella spaccatura profonda che attraversava la collina fino alla facciata di pietra dell'ingresso alla tomba, vide Michael che, sotto le forti luci montate intorno a lui, ripeteva l'introduzione davanti alla cinepresa. Il carrello mobile arretrò mentre lui si avvicinava alla rico-
struzione del muro di diamanti eseguita dalla sua squadra. L'eco della sua voce si ripercuoteva sui muri circostanti. «Se quei fiumi tossero esistiti sarebbero stati certamente letali per chiunque avesse cercato di entrare nella tomba di Shih Huang.» Più avanti, in cima a una scalinata di larghi gradini, il padiglione della stele funeraria sovrastava ogni cosa con i suoi tetti sovrapposti e i cornicioni dagli angoli piegati verso l'alto e sostenuti da travi di legno. La stele, una lastra verticale di pietra con antiche iscrizioni, era alta più di sei metri, incorniciata dagli archi che si aprivano su ciascuno dei quattro lati del padiglione dipinto di rosso. Trenta metri più sotto, in uno spiazzo ombroso, un gruppo di comparse in costume sedevano intorno a tavoli di pietra, su sgabelli intagliati a forma di elefante. Un lungo passaggio lastricato portava, attraverso tre terrazze di marmo, ai cancelli e, al di là di quelli, allo spiazzo dove erano parcheggiati all'ombra i veicoli della produzione e la Winnebago di Michael. Margaret sentì qualcuno gridare: «Stop!», poi la terza assistente alla regia si mise ad ascoltare attentamente una serie di istruzioni impartite attraverso il walkie-talkie, per poi ripeterle in cinese ad alcuni addetti che cominciarono a radunare le comparse. La ragazza le fece cenno che poteva proseguire e lei salì i gradini che portavano al padiglione con la stele. Da lì poteva seguire le attività che si svolgevano nello spiazzo sottostante e anche gli operai che sistemavano il muro di diamanti. Mesi di preparazione, pensò Margaret, decine di persone, ore di riprese, per pochi minuti di spettacolo sul teleschermo. Forse lei un lavoro come quello non l'avrebbe sopportato. Quando ritornò al furgoncino della regia, trovò Chuck molto più frenetico di qualche ora prima. Alto, allampanato, con una zazzera precocemente ingrigita, sembrava tutt'uno con il pannello dei comandi e intanto parlava rapidamente nel walkie-talkie. «Ragazzi, abbiamo usato anche la macchina da presa principale» stava dicendo. «Speriamo che vada bene, altrimenti passeremo il resto della giornata a rifare tutto.» Si accese una sigaretta e, rivolto a Margaret, disse come per scusarsi: «Mi dispiace, fumo solo quando sono stanco. Ogni volta che mi vedrà con una sigaretta in mano, sappia che sto per esplodere. Gli scenografi stanno lavorando da giorni, i costi sono altissimi e non voglio rifare la ripresa». «Quale scena state girando?» chiese Margaret. «Quella in cui tolgono i primi mattoni dal muro di diamanti e aprono la tomba. Ci sono effetti speciali fantastici.» Chuck s'interruppe, poi aggiun-
se: «Almeno spero». Rise e aspirò qualche boccata di fumo. «Ho usato tre macchine da presa, deve andar bene per forza.» Margaret vide sui due monitor le immagini ottenute con le altre due cineprese. La principale, con il grandangolo, inquadrava la scala che portava al vertice della "V" capovolta. Decine di comparse, vestite con le casacche blu "alla Mao", stavano alla base della "V", l'attore che interpretava la parte di Hu Bo era in cima alla scala, con in mano un attrezzo simile a una cazzuola, pronto a staccare i mattoni. Un'altra macchina da presa era puntata sul muro e riprendeva la scena con Hu Bo e i contadini con le facce rivolte all'insù. La terza macchina da presa inquadrava quelli che si affollavano ai piedi della scala. Sullo sfondo, Margaret notò una macchina da presa e una troupe. «Ma... è previsto che si vedano?» chiese a Chuck. Chuck rise. «Quella dovrebbe essere la troupe cinematografica che riprende la vera apertura della tomba. Sappiamo che era esattamente così. Inframmezzeremo la nostra ripresa con qualche spezzone originale.» Passarono altri tre quarti d'ora prima che tutto fosse pronto per il ciak. Hu Bo e il contadino Wang Qifa avevano riletto le loro battute più volte e ripetuta l'azione, fingendo di staccare il primo mattone. Il rumorista, gli operatori, il tecnico delle luci, tutti sembravano pronti. «Bene, Dave,» disse Chuck «quando sei pronto...» Dave, un giovane corpulento con i capelli rossi e un berrettino da baseball, diede il segnale di inizio riprese e si spostò per non essere inquadrato. Margaret lo sentì raccomandare a tutti il silenzio e poi ordinare: «Fai partire il videotape della registrazione. Azione!». Wang Qifa, con la cazzuola in mano, salì la scala per raggiungere Hu Bo. «Che cosa fai?» gli chiese Hu Bo. «Volevo togliere il primo mattone insieme a lei.» «No, potrebbero esserci armi nascoste e del sangue dei polli non sempre ci si può fidare. Aspetta in fondo alla scala e io ti passerò il mattone. Così, almeno, morirà solo uno di noi.» Ce n'era abbastanza per convincere Wang Qifa a restarsene ai piedi della scala. In un silenzio mortale Hu Bo cominciò a raschiare, con la cazzuola, il primo mattone per staccarlo. La telecamera puntata in alto riprese, in primo piano, l'estrema concentrazione del suo viso. Il mattone cominciò a cedere, Hu, con tutte e due le mani, lo smosse finché non riuscì a estrarlo. Si sentì un botto e un risucchio d'aria. Una voce gridò: «I gas tossici!». Un vapore denso e nero fuoriuscì dalla breccia che era stata aperta, accompa-
gnato da un rumore simile al ringhiare di un animale. Hu si mise una mano sulla bocca, lasciò il mattone e scese a precipizio i gradini, tossendo e ansimando. Gli operai si erano buttati a terra come se quella nube scura avesse tolto loro il respiro. L'aria risuonava di colpi di tosse. Guardando sul terzo monitor, Margaret vide emergere una figura in jeans e camicia bianca. A un segnale che lei non poté vedere, tutti smisero di tossire e sul set tornò il silenzio. Michael avanzò verso la macchina da presa, mentre sulla scena ormai vuota persistenti vapori gli si avvolgevano intorno alle gambe. «Non si trattava di gas velenosi,» spiegò «ma semplicemente delle emissioni gassose rilasciate da materie organiche in seguito all'ingresso di aria dopo un processo di decomposizione durato quasi trecentoquarant'anni. Sostanze certamente ripugnanti, ma non tossiche. Quanto alle armi nascoste, nessuno le ha ancora viste.» «Stop!» gridò Chuck. «Fantastico. Controlliamo che sia tutto a posto. Rumorista, hai bisogno di altri rumori di sottofondo?» La risposta arrivò da un punto imprecisato. «Sì, altri colpi di tosse e ansimi da soffocamento.» «Bene, li inseriremo dopo aver controllato la registrazione. Dave, ringrazia tutti. Di' agli scenografi che offrirò loro da bere.» Il palazzo sotterraneo era freddo e umido e Margaret rabbrividì nella sua camicetta di cotone. Michael le mise la propria giacca sulle spalle e lei non capì più se era solo il freddo a farla rabbrividire. Allontanò quel pensiero e si dedicò a osservare le grandi sale con il soffitto a volta. «Non avevo idea che potesse essere così imponente» disse. «È stato costruito con enormi blocchi di pietra, tagliati a mano e levigati» rispose Michael. «Il costo della tomba per poco non mandò il paese in bancarotta.» «E davvero non c'erano armi nascoste?» chiese, delusa, Margaret. «Temo proprio di no.» «Ma lei lo lascia credere al pubblico. In un certo senso è un inganno, no?» «No» rispose Michael, sinceramente. «Io voglio dare agli spettatori la stessa sensazione di un pericolo sconosciuto, nascosto, che hanno provato Hu Bo e gli altri. La tomba non conteneva trappole, ma loro non lo sapevano. Poi, una volta entrati, si sono trovati di fronte ad altri problemi. Non riuscivano ad aprire le grandi porte di marmo delle sale, compresa quella della tomba centrale.»
Margaret guardò le porte. Erano enormi e ciascuna doveva pesare parecchie tonnellate. «Erano chiuse a chiave, evidentemente dall'interno» spiegò Michael. «Vuol dire che si sono chiusi dentro e sono morti qui?» chiese Margaret, turbata. Michael sorrise. «È quello che gli archeologi hanno pensato per un certo tempo. Infine Hu ha scoperto una chiave segreta, a forma di uncino, che si poteva infilare tra i battenti della porta per azionare un chiavistello all'interno. Così sono riusciti ad aprire tutte le porte, una dopo l'altra, ma hanno scoperto che le sale erano vuote.» «Vuote? Allora, l'imperatore non è stato sepolto qui.» «Per qualche tempo hanno pensato che la tomba fosse stata saccheggiata nell'antichità. Hanno trovato tre troni di marmo, uno per l'imperatore e uno per ciascuna delle imperatrici. C'erano vari oggetti sacrificali, ma nessuna bara» rispose Michael. «Alla fine hanno aperto l'ultima camera e là, su un podio sopraelevato, hanno visto, ciascuna nella sua nicchia dorata, le bare dell'imperatore e delle due imperatrici, circondate da ventisei scrigni di legno laccato di rosso.» E adesso, davanti a loro, c'era il podio con le tre bare laccate di rosso e, intorno a ciascuna, i ventisei scrigni. «Sono autentici?» chiese Margaret. Michael scosse la testa. «No, sono riproduzioni. Non dobbiamo dimenticare in quale periodo sono state aperte queste tombe. La fine degli anni Cinquanta in Cina è stato un periodo di epurazioni politiche e di grandi sconvolgimenti sociali. Il sovrintendente ai lavori, qui, era un funzionario di nomina politica. Non conosceva la storia di Ding Ling e non gl'importava niente del contenuto delle tombe. Siccome le bare erano deteriorate dal tempo, sono state riprodotte in copia per essere esposte al pubblico e il sovrintendente ha fatto distruggere le originali.» «Sta scherzando!» Margaret era sbalordita. «Non è possibile!» «Gli archeologi hanno tentato di protestare, ma il sovrintendente ha fatto buttare le bare dall'alto delle mura, lasciando che si fracassassero sulle rocce sottostanti.» «Ma erano testimonianze storiche, vecchie di centinaia di anni!» «Purtroppo è successo di peggio agli oggetti dei corredi funebri. Manufatti meravigliosi, unici.» Michael mise un braccio intorno alle spalle di Margaret e lei sentì sulla pelle il calore della sua mano attraverso la giacca e la camicetta. «Qui fa troppo freddo. Il resto della storia può aspettare,
andiamo a mangiare.» Impiegarono un quarto d'ora per raggiungere il parcheggio. Solo allora Margaret sentì il calore del sole penetrarle nelle ossa irrigidite dal freddo. «Perché lei è così affascinato da Hu Bo?» gli chiese mentre camminavano. Michael sorrise, un po' tristemente. «Perché è stato una vittima per tutta la vita. Vittima delle circostanze e della storia. Ma ogni volta che il destino l'ha piegato, lui ha saputo risollevarsi. A dieci anni è stato venduto da suo padre e messo a lavorare nell'accampamento dell'esploratore svedese Sven Hedin, che aveva appena iniziato un viaggio nelle estreme regioni occidentali della Cina. Una vera catastrofe per un ragazzino di quell'età che si trovava a essere poco più di uno schiavo. Ha affrontato prove durissime, attraversando a piedi i grandi deserti occidentali e arrampicandosi su montagne inesplorate. Il gelo gli ha portato via tre dita. Ma ha anche imparato a cucirsi un vestito, a cucinare, a tagliare i capelli, a fare il pane, a cavalcare e a cacciare, e ha soprattutto appreso le tecniche del rilievo archeologico e i fondamentali principi dello scavo. Ha inoltre acquisito le conoscenze di base per il restauro e la conservazione dei reperti.» Gli occhi di Michael brillavano di ammirazione. «Gli sono capitate esperienze disastrose che lui ha saputo volgere a proprio vantaggio. A vent'anni, questo ragazzo venuto da chissà dove studiava archeologia all'università di Pechino.» Michael si accorse che stava stringendo troppo forte il braccio di Margaret e tolse immediatamente la mano. «Mi scusi,» disse «qualche volta mi lascio trascinare dalle mìe stesse parole.» Margaret pensò che il suo entusiasmo era infantile, addirittura immaturo, ma, tutto sommato, anche contagioso, trascinante. Sorridendo, si strofinò il braccio. «Stasera sarà pieno di lividi.» Camminarono in silenzio per qualche minuto. Dietro di loro le montagne brillavano in un alone azzurro e il doppio tetto del padiglione della stele s'innalzava al di sopra degli abeti. Il parcheggio era affollato. Tecnici, operatori, attori e comparse erano ammassati intorno al furgoncino della ristorazione. «È mai stata a Xi'an a vedere i Guerrieri di Terracotta?» le chiese Michael tutt'a un tratto. Margaret rise. «Non mi sono mai spinta oltre la periferia di Pechino!» «Deve assolutamente vederli! Non si può venire in Cina senza ammirare l'ottava meraviglia del mondo.» «Delle figure di terracotta?»
Michael rimase senza parole per lo sconcerto, infine disse: «Margaret, sono tanto maestosi da incutere timore! Migliaia di guerrieri antichi, alti come me e più grossi, modellati e ritiniti a mano, uno per uno. E ogni faccia è diversa dall'altra. Li hanno costruiti artisti di duemila e duecento anni fa. Stare in mezzo a loro, avvertirne la presenza, toccarli significa sentirsi partecipi della storia universale in un modo che mi è difficile descrivere». Di fronte alla nuova esplosione di quell'entusiasmo così contagioso, Margaret sorrise e scosse la testa. «Michael, lei spreca il suo tempo con me. Culturalmente, sono un'idiota.» «Mi ascolti: domani devo andare a Xi'an. Stiamo organizzando il trasporto via mare negli Stati Uniti di più di sessanta guerrieri che saranno esposti in una mostra che allestirò in coincidenza con la messa in onda della mia ultima serie di documentari. Si intitolerà L'arte della guerra e sarà la più grande mostra sui guerrieri di terracotta mai vista fuori dalla Cina. Venga con me.» «Ma...» Margaret si sentì presa alla sprovvista. Ma non c'era modo di contenere l'entusiasmo e l'efficienza organizzativa di Michael. «Partirò stasera in vagone letto, mi tratterrò a Xi'an tutto domani e ripartirò dopodomani mattina, in aereo. Non posso permettermi di lasciare la produzione più a lungo di così.» «Ma io sono impegnata nell'indagine su un delitto efferato...» «Si tratta di un giorno solo!» Michael le prese le mani tra le sue. «Il mio ufficio le prenoterà il viaggio e anche l'albergo. La porterò in mezzo a quei guerrieri, lei li toccherà, gli toglierà di dosso la polvere di duemila anni di storia. Sarà un'esperienza che pochi hanno vissuto.» Michael s'interruppe per riprendere fiato, poi aggiunse, passando senza accorgersene a un confidenziale "tu": «Dimmi di sì, Margaret, senza pensarci neppure un minuto. La vita è così breve!». Lei lo guardò negli occhi e, al contatto con quelle mani grandi che stringevano le sue, sentì mescolarsi dentro di sé dolore e piacere. 2 Sangue, corpi decapitati, teste mozzate, polsi legati con corde di seta turbinavano davanti ai suoi occhi. Le fotografie erano sparse sulla scrivania, come in un puzzle in cui i pezzi avessero tutti le stesse dimensioni e fossero privi di un disegno che indicasse come incastrare l'uno nell'altro. Li Yan aveva passato la mattinata a esaminare referti, fotografie, verbali di
interrogatori, dichiarazioni, ma la sua mente era occupata in pensieri che gli toglievano la lucidità necessaria. "Dovrà imparare a tenere la sua vita privata separata da quella professionale" gli aveva detto Chen la sera prima. Ma Li sapeva che sarebbe stato impossibile. Durante la pausa di metà mattina aveva preso un tan bing al chiosco di Mei Yuan e le aveva comunicato quello che sua sorella intendeva fare. Lei lo aveva ascoltato, seria e attenta, senza fare commenti e senza dare consigli, rendendosi conto che lui aveva solo bisogno di confidarsi con qualcuno, e gli aveva manifestato la sua solidarietà con una leggera stretta sul braccio. Li si era sentito più tranquillo e aveva ricordato che la sera prima lei gli aveva detto: "Se hai bisogno di me, sai dove trovarmi". Tornato in ufficio si era accorto che Mei Yuan non gli aveva chiesto la soluzione dell'indovinello dei trenta yuan. Meglio così: non avrebbe saputo che cosa risponderle, perché non aveva avuto tempo di pensarci. Uscendo di casa, quella mattina, aveva lasciato Xiao Ling intenta a prepararsi per andare alla clinica, dove le avrebbero fatto l'ecografia. Xinxin era ancora piena di sonno quando la madre l'aveva svegliata e, non ricordandosi di essere stata scontrosa con lo zio la sera prima, l'aveva abbracciato e baciato, prima che uscisse. Xiao Ling, invece, offesa dalla sua disapprovazione, non l'aveva nemmeno salutato. Nessuno dei due era riuscito a dormire quella notte. Adesso Li aveva quasi paura di tornare a casa perché, qualunque fosse stato il risultato dell'ecografia, non avrebbe potuto condividere la decisione di sua sorella. Chiuse gli occhi, tentando di allontanare quel pensiero e si trovò davanti l'immagine di Margaret, che lo fissava con palese aria di sfida. Fino a che punto sarebbe riuscito a lavorare con lei, senza lasciarsi influenzare dai sentimenti? "Dovrà imparare a tenere la sua vita privata separata da quella professionale." "Com'è possibile?" avrebbe voluto chiedere a Chen. E a Margaret: "Chi era l'uomo con te alla libreria Sanwei, ieri sera?". Riaprì gli occhi. Dalle foto sparpagliate sulla scrivania le quattro vittime lo fissavano, con uno sguardo d'accusa. Perché non aveva ancora trovato il loro assassino? Una segretaria del piano di sotto bussò alla porta ed entrò con una grossa busta marrone. «Ecco la traduzione dei referti sull'autopsia che lei ha richiesto» disse. «Ci sono anche le copie delle fotografie scattate sulla scena del delitto.» Posò la busta sulla scrivania.
«Non la metta lì!» ordinò Li, in modo così sgarbato che la segretaria si bloccò per la sorpresa. «È tutto materiale per la dottoressa Margaret Campbell. Lo faccia recapitare subito all'ambasciata americana.» «Sì» rispose la ragazza arrossendo. Mentre usciva, entrò Zhao. «Che cosa vuoi?» chiese Li infastidito. «Niente di speciale, ma sono riuscito a rintracciare uno degli insegnanti della scuola superiore di Quianmen negli anni Sessanta. Ha quasi ottant'anni.» «E gli altri?» Zhao si strinse nelle spalle. «Non lo so. Alcuni saranno morti, ormai. Molti registri della scuola sono stati distrutti durante la Rivoluzione culturale e non è facile rintracciare documenti. Neanche sulla famiglia di Yuan.» «E Qian, ha scoperto qualcosa di nuovo?» «Incontra le mie stesse difficoltà. Dobbiamo basarci solo su quanto ci viene detto a voce. Però Qian ha trovato i nomi di alcuni compagni di classe delle vittime. Per gli altri potrebbe essere solo questione di tempo.» «Di tempo,» disse Li «non ne abbiamo molto. L'intervallo tra l'uno e l'altro di questi delitti va dai tre ai quindici giorni. Se il progetto dell'assassino prevede altre due vittime, dobbiamo trovarle prima che lo faccia lui.» «Vuole che organizzi una serie di interrogatori?» Li ci pensò un momento. «Sì,» disse «ma facciamoli nella scuola. Domani mattina. Chiedi al preside che ci metta a disposizione due aule. Voglio vedere che sensazione mi darà quel posto.» Dalla stanza degli investigatori arrivò la voce di Wu. «Capo, puoi venire un momento?» Zhao si fece da parte e Li si affacciò sulla porta. «Che succede, Wu?» Wu era seduto alla scrivania e teneva il microfono del ricevitore del telefono coperto con una mano. «Quelli della scientifica sono nell'appartamento assegnato a Yuan Tao dall'ambasciata. Hanno trovato della roba interessante. Vuoi andarci?» «Sì, chiama una macchina.» «Veniamo subito» disse Wu al telefono. Li tornò alla scrivania. Qualcosa almeno si stava muovendo. Subito dopo, entrò Qian. Aveva un foglio in mano e negli occhi un lampo di compiacimento. «È arrivato un fax dal laboratorio della scientifica. Il risultato di quei test che la dottoressa Campbell ci aveva suggerito di fare sulla firma lasciata dall'arma del delitto...»
Li prese il foglio, fece scorrere lo sguardo sui nitidi caratteri a stampa e sentì un brivido percorrergli la schiena. Lo stabile in cui si trovava l'appartamento assegnato a Yuan Tao sorgeva dietro il magazzino Friendship, sulla Jianguomenwei. Wu parcheggiò la macchina blu della polizia sull'antistante pista ciclabile, Li scese e rimase a osservare il condominio relativamente nuovo. Un mendicante, con i capelli lunghi, senza gambe, era seduto per terra, appoggiato al muro dello stabile. Aveva il volto scarno coperto da una barba incolta. Alzò gli occhi, con un'espressione implorante, agitando un bicchiere di latta con qualche moneta. Accanto a sé teneva un triciclo provvisto di un elaborato meccanismo che gli permetteva di muoverlo con una manovella. Aveva la pelle rigata di sporcizia, i vestiti e i capelli scomposti. Quando si accorse che anche loro erano cinesi, la delusione gli si dipinse sul volto. Qualche metro più avanti, appoggiata a un albero, c'era una donna cieca, che tendeva la mano avvizzita. Altri mendicanti stazionavano in diversi punti del marciapiede. Quella vista diede a Li un senso di profonda depressione. Wu, invece, era chiaramente disgustato. «Che cosa fanno qui? Ce ne sarà una mezza dozzina.» Li si tolse di tasca un biglietto da dieci yuan e lo infilò nel bicchiere di latta del mendicante senza gambe. «Qui ci stanno gli stranieri,» disse «il personale dell'ambasciata e i turisti. Loro fanno conto sul senso di colpa di chi ha quando è messo di fronte a chi non ha.» Wu si scandalizzò per quel biglietto da dieci yuan che Li aveva dato al mendicante. «Capo, non potevi dargliene meno?» «La vita offre poche garanzie, Wu» disse Li. «Un giorno potrei essere io al suo posto. O tu. Ma il mio non è senso di colpa, è solo paura.» All'ingresso era di guardia un militare dallo sguardo vacuo. «Chi cercate?» chiese senza tante cerimonie. «Dipartimento di investigazione criminale, Prima Sezione» rispose Wu e gli mise il distintivo sotto il naso. «Lo riconosce?» chiese Li, mostrandogli la fotografia di Yuan Tao che era allegata al fascicolo. «Certo» rispose la guardia. Poi si schiarì la gola e sputò per terra. «Yuan Tao. Abitava al secondo piano. L'hanno ammazzato.» Indicò l'edificio con un cenno della testa. «Proprio adesso, nell'appartamento, ci sono i vostri colleghi.» Il furgone grigio della scientifica era parcheggiato nel cortile. «Lo conosceva bene?» chiese Wu.
«Come gli altri» rispose la guardia. «Cioè poco. Non hanno simpatia per noi.» «Perché?» chiese Li. «Pensano che li spiamo.» «Ed è così?» chiese ancora Li. La guardia gli lanciò un'occhiata per vedere se stesse scherzando, ma si rese conto che parlava sul serio. «Dobbiamo controllare chi entra e chi esce. Gli americani che ricevono la visita di un cinese devono venire a prenderlo all'ingresso e riaccompagnarlo quando se ne va.» «E agli americani la regola non piace, vero?» «Vero.» «Ma lei conosceva di vista Yuan Tao?» «Sì, come americano era strano: era di origine cinese.» «Ma c'era in lui qualcos'altro di strano? Qualcosa che lo rendesse diverso dagli altri?» La guardia scosse lentamente la testa. «No, per quanto ne so io, no.» Esitò per un momento. «L'unica cosa che mi viene in mente è che lo si vedeva poco. Non credo abbia mai ricevuto visite.» «Mai?» Wu era stupito. «Mi pare proprio di no. Ma dovreste chiederlo anche ai miei colleghi degli altri turni.» «Se una notte, o anche due, non fosse venuto a dormire nel suo appartamento, lei se ne sarebbe accorto?» «Non necessariamente. Quando prendo servizio, non so chi è in casa e chi è fuori.» «Non prendete nota dei movimenti di ciascuno?» «No.» Li mostrò alla guardia le fotografie delle altre vittime. «Ha mai visto uno di questi uomini?» Dopo un esame attento, la guardia scosse di nuovo la testa. «No.» Salirono al secondo piano. La porta era aperta. Era un appartamento molto piccolo: la stanza centrale serviva da salotto, sala da pranzo e cucina; su un piano da lavoro, contro la parete di fondo, erano collocati un fornello e un lavandino. Dietro una porta a vetri c'era un minuscolo bagno con doccia. Un'altra stanza conteneva a stento un letto, un comodino e un armadio a una sola anta con specchio. Si trattava, dunque, di un appartamento sostanzialmente diverso da quello che Yuan Tao aveva preso in affitto in Tuan Jie Hu Dongli, e non solo per le dimensioni. Molti libri erano alli-
neati su uno scaffale dai ripiani incurvati per il peso o accatastati sul pavimento di linoleum, sotto il davanzale della finestra. Pile di giornali cinesi erano sistemate sotto un tavolo a ribalta appoggiato contro il muro. Sopra il tavolo alcuni piatti conservavano avanzi di cibo, mentre altre stoviglie erano state messe a mollo nel lavello. Nell'aria c'era un odore di corpo umano, di cucina e di vestiti sporchi, mescolato a un vago sentore esotico che a Li parve di riconoscere. Gli armadietti della cucina erano strapieni di barattoli e di confezioni di cibo. Da una cesta di vimini, nella camera da letto, sbucava la biancheria sporca, in bagno c'erano indumenti stesi su una corda ad asciugare. Era, evidentemente, una casa in cui Yuan Tao aveva abitato, a differenza di quella in Tuan Jie Hu Dongli. Ci aveva lasciato il proprio odore, l'impronta della propria vita e, forse, qualche indizio per arrivare a chi aveva voluto ucciderlo. Due agenti della scientifica stavano rilevando le impronte. Quello di grado superiore, Fu Qiwei, era un piccoletto con la faccia rugosa. «Due minuti e sono da lei, vicecaposezione» annunciò rivolgendosi a Li. Li fece scorrere lo sguardo sui ripiani dei libri. Erano quasi tutti testi accademici, ma c'era anche qualche romanzo, perlopiù in inglese, con le pagine sciupate e il dorso malandato. «Se li sarà fatti spedire via mare» osservò Wu e Li si chiese, ancora una volta, perché mai un professore di Scienze politiche di un'importante università americana avesse rinunciato alla carriera per lavorare all'ufficio visti dell'ambasciata americana a Pechino. C'era qualcos'altro in tutta questa faccenda, oltre a quello che gli avevano raccontato? Forse Yuan Tao era una spia degli americani? O dei cinesi? Ma no, se ci fosse stato il minimo sospetto in questo senso, pensò, gli avrebbero tolto l'indagine già da un pezzo. Sopra lo scaffale dei libri, in mezzo alla polvere, si trovavano vari oggetti: un fermacarte, penne e matite, una gomma indurita, due taccuini nuovi, un gioco di domino comprato in qualche mercatino di anticaglie, un portacenere scheggiato e incrinato ma pulito, che conteneva qualche moneta cinese e sul quale era caduto, a faccia in giù, un portaritratti. Li prese un fazzoletto e spostò il portacenere in modo da poter girare il portaritratti. Conteneva un collage di vecchie istantanee in bianco e nero: un uomo e una donna sui trent'anni, con un ragazzino che sorrideva timidamente all'obiettivo; la fototessera di un adolescente; foto-ritratto dell'uomo e della donna, un po' più vecchi, con il berretto "alla Mao" e lo sguardo serio, che sem-
brava provenire da un passato lontano. Wu lanciò un'occhiata al portaritratti al di sopra della spalla di Li. «La sua famiglia?» «Pare di sì.» Li aveva sempre trovato deprimente quel genere di fotografie. Ne possedeva alcune anche lui. Sua sorella, i suoi genitori e lui, da bambino, gruppi di zie, zii e cugini, ricordi di un tempo in cui faceva ancora parte di una famiglia, felice e unita, prima che la storia intervenisse a disperderla. «Inseriamole nel fascicolo» disse e, con molta attenzione, tolse la parte posteriore del portaritratti, facendo cadere sul tavolo le vecchie istantanee con gli angoli accartocciati. Dietro ciascuna erano scritti la data e il luogo in cui erano state scattate: Ping Zhen, Ye e Tao, a Tien-An-Men, 1952; Tao a diciassette anni; Ping Zhen a Qianmen, 1964. Li guardò ancora il gruppo di famiglia sulla piazza Tien-An-Men nel 1952. Sullo sfondo, vide solo hutong e siheyuan dove adesso c'era la Grande Sala del Popolo. Allora si facevano volare gli aquiloni, proprio come adesso. Osservò ancora per un momento le facce di Ping Zhen e Ye, i genitori di Yuan, come se fosse possibile trovare una risposta nel loro sguardo fisso e opaco. Non sembravano felici con i berretti "alla Mao" e le casacche abbottonate. Non sembravano le stesse persone libere, sorridenti e spensierate che, dodici anni prima, si erano fatte fotografare con il loro bambino sulla piazza Tien-AnMen. In solo dodici anni, la vita aveva impresso sui loro volti un'infelicità che niente avrebbe mai potuto cancellare. E certamente, pensò Li, il peggio doveva ancora venire. Lasciò che Wu facesse scivolare le fotografie dentro una busta di plastica e si guardò di nuovo intorno nella stanza. C'era una sola poltrona, logora, certamente di seconda mano. Il cuscino e lo schienale portavano ancora l'impronta del corpo di Yuan Tao. Nella parte dove si appoggiava la testa erano rimasti attaccati dei capelli, corti e neri. C'era una sola sedia davanti al tavolo pieghevole. "Non credo abbia mai ricevuto visite" aveva detto la guardia dello stabile. Era chiaro che aveva arredato quel piccolo appartamento solo per se stesso. Le visite non erano previste. Entrarono nella stanza da bagno. Non c'era né una tenda né altro tipo di schermatura che coprisse il vetro della porta: un altro segno che Yuan Tao era vissuto in completa solitudine. Non era stato necessario tutelare la propria intimità. C'erano ciocche di capelli impigliate nello scarico della doccia. L'armadietto appeso al muro non conteneva niente di interessante: la schiuma da barba, un paio di saponette nuove, un tubetto di dentifricio,
una pomata per le emorroidi, qualche pacchetto di Adivil, uno psicofarmaco. Tutti prodotti americani. «Credi che queste cose le abbia portate dall'America?» chiese Wu. «Non lo so» rispose Li. Ormai era possibile comprare vari prodotti occidentali nei supermercati cinesi. Questi, però, erano un po' particolari. Sulla schiuma da barba c'era la scritta "senza profumo" e sull'involucro della saponetta "ipoallergenica". «Che cosa c'è?» gli chiese Wu. «A quanto pare, soffriva di allergia ai profumi» rispose Li. Guardò di nuovo dentro l'armadietto. «Non c'è un dopobarba e nemmeno un deodorante.» Mentre richiudeva l'armadietto Li si vide di sfuggita nello specchio dello sportello: aveva rughe e ombre scure intorno agli occhi. Distolse subito lo sguardo. Wu lo seguì nella camera da letto. Nell'aria c'era un acre odore di corpo umano e di biancheria sporca. Gli agenti della scientifica avevano appena finito di rilevare le impronte. «Che cosa volevate farmi vedere?» chiese Li. Fu Qiwei gli fece cenno di avvicinarsi all'armadio e lo aprì. Era pieno di vestiti: perlopiù abiti formali e camicie bianche. A una piccola sbarra di ottone, all'interno della porta, erano appese varie cravatte. Su un ripiano in alto c'erano un paio di jeans, qualche felpa e una pila di magliette. L'agente si accovacciò a terra e mostrò a Li una fila di scarpe, sul fondo dell'armadio. Erano, come i vestiti, molto formali, di pelle nera o marrone. C'era un solo paio di scarpe da tennis, bianche e blu, molto consumate. Con la mano protetta dal guanto, l'agente ne prese una e la sollevò e Li vide sulla suola e sul fondo dell'armadio, nel punto in cui la scarpa era stata appoggiata, della polvere nero-bluastra. Li commentò la nuova scoperta prima di tutto con un fischio: «È la stessa che abbiamo trovato sul cadavere di Yue Shi?». «Il professore di archeologia, sì» confermò Fu Qiwei. «Sembra proprio la stessa. Il colore e la consistenza sono uguali. Potremo esserne sicuri quando avremo dal laboratorio il risultato del campione.» Wu si avvicinò a Li, per guardare la polvere e aggrottò la fronte, confuso. «Che cosa significa, capo?» Li si strinse nelle spalle, altrettanto perplesso. «Non ne ho idea.» Ma tutti e tre ora sapevano che Tao e Yue Shi, il professore di archeologia dell'università di Pechino, erano stati insieme nello stesso posto, probabilmente, alla stessa ora. C'era qualcos'altro, dunque, che li univa oltre a essere morti
allo stesso modo e ad avere frequentato la stessa scuola. Una polvere nerobluastra, formata da particelle di argilla cotta, un indizio inconsistente come tutte le altre prove che erano riusciti a raccogliere. «Non è tutto» disse Fu Qiwei. Si alzò e Li lo seguì nella stanza centrale, insieme a Wu. L'agente della scientifica aprì l'armadietto sotto il lavello. Tra un secchio e qualche confezione di detersivo c'erano tre bottiglie di vino rosso della California, ancora intatte. Li sentì rizzarsi i capelli sulla nuca. Una reazione eccessiva, pensò. Dopotutto quella era la casa di un uomo che era vissuto più di trent'anni negli Stati Uniti: non sarebbe stata la cosa più naturale del mondo tenere qualche bottiglia di vino in cucina e berne un bicchiere o due, a cena? In Occidente per molti è un'abitudine. Si chinò a leggere l'etichetta. Erano tutte della stessa annata, il 1995: Cabernet sauvignon della Mondavi Reserve, Napa Valley. Li sapeva che non era un vino qualsiasi. Capiva inoltre che Yuan Tao non poteva averlo comprato in Cina e nemmeno averne portato con sé, in viaggio, una grossa quantità. Allora, perché, dopo sei mesi ne aveva ancora tre bottiglie? E, ancora più strano, perché teneva un vino pregiato insieme ai detersivi, sotto il lavello? «Ehi!» esclamò Wu, masticando furiosamente il chewing-gum e rigirando la stanghetta degli occhiali da sole tra il pollice e l'indice. «È possibile sapere se è lo stesso vino che hanno bevuto le prime tre vittime?» Fu Qiwei assentì. «Possiamo confrontarlo con il residuo trovato nei bicchieri sulla scena dei primi due delitti. Oggi pomeriggio avremo il risultato.» Ma Li sapeva che il risultato avrebbe solo confermato quello che gli suggeriva l'istinto e si sentì sprofondare ancora di più nel pantano in cui era già immerso. 3 Margaret aveva pensato che sarebbe stato interessante vedere dove aveva lavorato Yuan Tao ma, in realtà, l'ufficio visti era solo un'altra anonima sezione dell'ambasciata. La parte anteriore era stata ampliata perché le persone che andavano a richiedere il visto non dovessero più ingombrare la strada controllata dall'occhiuta polizia cinese di guardia al cancello. All'interno dell'edificio principale, recenti lavori di ristrutturazione avevano creato nuovi uffici nel dipartimento dei Servizi per i cittadini statuni-
tensi dove a Margaret era stata assegnata una piccola stanza. Sophie aprì la porta e salutò Margaret con un cenno della mano. «Ti hanno dato un ufficio tutto tuo» osservò. Margaret si guardò intorno senza entusiasmo. La finestra era piccola e tanto in alto che era impossibile guardare fuori. Un tubo al neon sul soffitto sopperiva alla scarsa luce naturale che riusciva a filtrare dall'esterno. C'era una sola scrivania con un telefono interno, un vecchio tampone di carta assorbente, una pila di voluminose buste a soffietto marroni e un computer collegato al server centrale. Completavano l'arredamento una sedia da ufficio dall'aria scomoda, uno schedario color grigio piombo, una yucca in un vaso e una carta geografica della Cina attaccata al muro. Il riflesso della luce fluorescente contro il candore delle pareti appena imbiancate era fastidioso. Nell'aria aleggiava l'odore di vernice e di moquette nuova. Margaret era sicura che prima di sera avrebbe incrociato, in corridoio, qualcuno sul cui viso avrebbe letto risentimento per averle dovuto cedere il proprio posto. «Non mi sembri entusiasta» disse Sophie. «Pensi che dovrei esserlo?» ribatté Margaret. Lo schedario era chiuso a chiave. Provò ad aprire i cassetti della scrivania. Chiusi anche quelli. «D'altra parte nessuno si aspetta che io resti qui per molto, è ovvio.» «Fino alla conclusione dell'indagine.» «Che, per quanto riguarda l'ambasciata deve concludersi il più presto possibile.» «Certo.» Sophie indicò le buste sulla scrivania. «È il materiale che avevi richiesto alla polizia cinese: copie delle fotografie scattate sulla scena dei delitti; traduzione dei referti delle autopsie...» «Che rapidità!» Margaret era stupita. «Come voi, anche i cinesi non vedono l'ora di sbarazzarsi di me!» Sophie rise. «Effettivamente si sono dati una mossa. Jonathan non ci voleva credere. Pare che di solito ci vogliano settimane per avere una documentazione come questa. La burocrazia cinese ha tempi molto lenti.» «Hanno dimostrato quello che sanno fare, quando vogliono» disse Margaret, sfogliando i documenti contenuti nelle buste. «Oh, bene!» esclamò davanti a un fascio di referti. «Ecco i risultati dell'esame tossicologico e la sbobinatura del nastro con il referto della mia autopsia.» Diede un'occhiata ai risultati dell'esame tossicologico. «Niente che non si sapesse già.» Guardò l'orologio. «Oh, non ho tempo di leggerli adesso!» Rimise in ordine i documenti e li infilò di nuovo nelle buste per portarli via.
«Te ne vai?» chiese Sophie stupita. «Devo mettere qualcosa in borsa e prendere un treno alle sei e cinquanta.» «Ma la polizia cinese ha organizzato un incontro con te alla Prima Sezione.» Margaret si interruppe. «A che ora?» «Alle cinque.» «Allora sarà un incontro breve.» Margaret prese le buste dalla scrivania e, passando davanti a Sophie, uscì in corridoio. Sophie la rincorse. «Ma dove vai?» «A Xi'an.» «A Xi'an? Che cosa c'è a Xi'an?» «Ci sono i Guerrieri di Terracotta, non lo sapevi? Pare che siano l'ottava meraviglia del mondo, sarebbe un peccato non vederli.» «Michael!» esclamò Sophie che all'improvviso vide tutto chiaro. «Ci vai con Michael.» «Sono stata invitata» rispose allegramente Margaret, mentre passava il controllo del marine all'uscita. «Che fortunata sei!» disse Sophie ridendo. «Michael non aspetta altro che portarti a letto, sai? È il suo chiodo fisso.» «Be', anche il mio, direi» rispose Margaret allegramente. «In ogni caso, si tratta di un giorno solo. Torneremo dopodomani.» «Non ti aspetterai, spero, che il governo americano ti paghi per andare in giro a spassartela con Zimmerman.» «Certo che mi pagherà» rispose Margaret, infilandosi le buste sotto il braccio. «Non vedi? Mi porto il lavoro!» Nella sala riunioni della Prima Sezione, all'ultimo piano, in Beixinqiao Santiao, la tensione era altissima. Margaret era entrata per prima e si era seduta al posto più importante di solito occupato da Li, con la finestra alle spalle. Li non parve aversene a male. Si mise a sedere di fronte a Margaret e dedicò tutta l'attenzione ai documenti che aveva portato con sé. Erano presenti Zhao, Wu, Qian e Sang. Invidiato da tutti, Sang era l'agente che parlava meglio l'inglese e Li lo aveva scelto perché facesse da interprete. Li chiese a Margaret: «Hai ricevuto le fotografie e le copie dei referti delle autopsie?». «Sì,» rispose Margaret «ma me li hanno appena consegnati e non ho ancora avuto il tempo di studiarli.» Un momento di pausa e poi scagliò la
prima freccia. «In ventiquattr'ore si può tare ben altro.» Li sentì la collera prendergli la gola ma cercò di controllarsi prima di parlare. «Ti sono dunque bastate per completare il referto dell'autopsia?» «Non vedo come avrei potuto completarlo senza i risultati dell'esame tossicologico e la sbobinatura del nastro che aspettavo da voi.» Sang cercò di tradurre la frase alla lettera. Li si appoggiò allo schienale della sedia con un sospiro. Si sentiva sconfitto. «A questo punto,» disse «non vedo motivo di continuare questa riunione.» «Devo, però, far presente,» disse Margaret estraendo dalla borsa un plico di fogli graffetta» «che appena ho ricevuto il materiale, oggi pomeriggio, ho prenotato a mie spese un computer nel centro informatico del mio albergo e ho scritto e stampato un referto preliminare che copre i punti essenziali.» Margaret allungò le copie del documento a Li. «Non ci sono sorprese.» Li prese i fascicoletti, ne diede uno a Sang, e cominciò a sfogliare quello che stava in cima al plico. «Ci sono stati consegnati gli esami che avevi richiesto sulle sezioni della colonna vertebrale,» disse, senza alzare lo sguardo «e li abbiamo confrontati con il segno lasciato dall'arma dell'assassino sulla colonna vertebrale di ciascuna vittima.» Li tacque per un momento. «E allora?» lo incalzò Margaret, presa dalla curiosità. «Nel primo e nel terzo delitto coincidono. La tua teoria del "punto debole" o del "marchio di fabbrica" sembra reggere solo in parte. Infatti non si è potuta trovare una corrispondenza negli altri due delitti.» Margaret stava per rispondere, ma Li la interruppe. «Abbiamo condotto un altro esame, con un microscopio elettronico, sui residui di bronzo lasciati dalla spada e raccolti con il prelievo mediante nastro adesivo. Il computer ci ha fornito le percentuali delle varie componenti. Sono esattamente le stesse. Questo significa che per tutti e quattro i delitti è stata usata la stessa arma.» Li tacque per un momento, aggrottando la fronte. Poi aggiunse: «Cade, così, la tua ipotesi che quello di Yuan Tao sia un omicidio per imitazione». Gli altri agenti, che avevano ascoltato attentamente la traduzione di Sang, erano curiosi di sentire che cosa avrebbe risposto Margaret. «Direi proprio di no» controbatté Margaret. «Il test prova soltanto che l'assassino ha avuto accesso all'arma usata nei primi tre delitti.» Gli agenti guardarono Li, che era rimasto impassibile. «È tutto qui quello che avevi da dirmi?» proseguì Margaret. «È questo il risultato di ventiquattr'ore di
indagine?» «No, certo.» Li appariva più calmo di quanto non si sentisse in realtà. Margaret non solo non era rimasta colpita da quanto le aveva rivelato sull'arma del delitto, ma gli aveva fornito una spiegazione così semplice da costringerlo a chiedersi come mai non ci fosse arrivato da solo. Aveva sempre ritenuto praticamente impossibile che Yuan Tao fosse stato ucciso per imitazione ma ora, si rese conto di aver commesso un grave errore, uno di quegli svarioni per cui suo zio lo avrebbe preso in giro a lungo. Infatti era partito da una semplice supposizione ed era andato cercando la prova che la confermasse. Yifu lo aveva sempre esortato a non supporre mai nulla, a non buttarsi su conclusioni affrettate, ma a percorrere il cammino inverso, lasciando che fossero le prove a condurlo alla soluzione. Margaret diede un'occhiata all'orologio, senza nascondere la propria impazienza. «E allora?» Li le disse della polvere nero-bluastra che era stata trovata nell'appartamento di Yuan e della conferma, avuta poche ore prima dal laboratorio, che era la stessa di cui erano sporchi i pantaloni e la suola delle scarpe del professor Yue. Questa volta Margaret si mostrò interessata. «Che specie di polvere è, esattamente?» Li le porse una bustina di plastica con un campione. «Sono particelle di argilla cotta. Una specie di polvere di ceramica. Comunque, troverai una spiegazione più particolareggiata nella documentazione che ti abbiamo mandato.» Margaret osservò attentamente la polvere blu scuro nel sacchetto. Poi chiese: «C'è dell'altro?». «Abbiamo trovato tre bottiglie di vino californiano d'annata in casa di Yuan Tao. Secondo le analisi effettuate oggi pomeriggio si tratta quasi certamente dello stesso vino che avevano bevuto le prime tre vittime, quello in cui l'assassino ha sciolto il flunitrazepam.» Ora l'interesse di Margaret era evidente. «Hai detto tre bottiglie?» «Sì.» «Dunque, una bottiglia per ciascuna delle vittime che ancora restavano da colpire.» «Le vittime sono già quattro» disse Li. «E il conto alla rovescia parte dal sei.» «Segui il mio ragionamento: supponiamo che Yuan Tao non avesse mai fatto parte dell'elenco...»
«Credi ancora che non sia stato ucciso dallo stesso assassino?» «Ne sono sicura. Non so dirti da chi e perché, ma la prova mi sembra chiara. E, se escludiamo Tao, ecco che restano ancora tre vittime, non due. Per questo ci sono tre bottiglie di vino.» «Ma perché il vino era in casa di Tao?» L'intervento di Sang prese tutti alla sprovvista e lui per primo si sentì molto imbarazzato. Aveva fatto la domanda in inglese, per cui i colleghi gli chiesero che cosa avesse detto e lui, arrossendo, glielo spiegò. Margaret sorrise. «Non lo so,» disse «ma la domanda è importante, indipendentemente dal fatto che si creda o meno che Tao fosse una delle vittime designate.» Si rivolse a Li. «C'era qualcos'altro nell'appartamento?» «No, niente di particolare: libri, vestiti, oggetti personali.» «E l'altro appartamento? Perché l'aveva preso in affitto? Lo sapete?» Li scosse la testa. «Qian ha rintracciato il proprietario. Lo abbiamo interrogato oggi. Ha detto che ignorava che Yuan lavorasse all'ambasciata, era cinese e aveva l'accento di Pechino. Gli aveva raccontato che stava tenendo un ciclo di conferenze all'università e che l'appartamento gli serviva solo per qualche mese. Si è mostrato disposto a pagare un prezzo superiore a quello di mercato e il proprietario non gli ha chiesto altro.» «Gli credi?» «Sì, perché non dovrei?» «Questo ci riporta alla questione del perché Yuan Tao avesse avuto bisogno di prendere in affitto un secondo appartamento. Forse aveva un'amante?» «No.» Li parve non avere dubbi. «Non c'erano tracce di una presenza femminile, in nessuna delle due case. Yuan Tao non era il tipo.» Accese una sigaretta e si chiese perché si sentisse così sicuro del fatto che Yuan non avesse un'amante e non frequentasse prostitute. Concluse che doveva trattarsi di una questione di intuito. «Se mi è consentito fare una supposizione, direi che il secondo appartamento gli serviva per poter andare e venire senza che nessuno lo vedesse o gli facesse domande. O anche per poter ricevere visite all'insaputa delle autorità.» «E nell'appartamento che gli aveva messo a disposizione l'ambasciata, questo sarebbe stato impossibile?» «C'è una guardia al cancello ventiquattr'ore su ventiquattro.» Margaret annuì pensierosa. «Se le cose stanno così, perché Yuan Tao voleva andare e venire senza farsi notare e perché voleva ricevere visite in segreto?»
Li soffiò uno sbuffo di fumo verso il ventilatore appeso al soffitto. «Se lo sapessimo, probabilmente non saremmo qui a discuterne.» All'improvviso, Margaret si irrigidì e guardò l'orologio. «Oddio! Sono in ritardo!» Si alzò e prese la borsa che aveva appoggiato sul tavolo. «È possibile chiamare un taxi?» Li e gli altri non se l'aspettavano: avevano pensato che la riunione sarebbe andata avanti ancora a lungo. «Dove devi andare?» chiese Li. «Alla stazione di Pechino Ovest» rispose Margaret. «Il mio treno parte alle sei e cinquanta.» Li guardò l'orologio. Erano le sei meno un quarto. Scosse la testa. «Non arriverai in tempo. Con il traffico che c'è a quest'ora, ci impiegherai un'ora e mezzo.» Margaret imprecò indispettita. Li si alzò e raccolse i suoi documenti. Gli altri fecero altrettanto. «Dove è diretto il tuo treno?» chiese Li con studiata indifferenza. «A Xi'an» rispose Margaret. «Vado a vedere i Guerrieri di Terracotta.» Li la guardò stupito. «Da sola?» «No.» Margaret esitò per un attimo. «In compagnia di Michael Zimmerman.» Li si accorse che stava arrossendo. Sentì Sang che traduceva per gli altri la risposta di Margaret e, rivolto al gruppo, disse: «La riunione è finita». Gli agenti salutarono Margaret con un rispettoso cenno della testa e uscirono. «Michael Zimmerman? L'uomo che era con te alla sala da tè della libreria Sanwei?» Il piacere di vedere arrossire Li alla sola menzione di Michael Zimmerman fece dimenticare per un momento a Margaret l'ansia di correre alla stazione. «Sì, proprio lui» rispose. «Mi chiami il taxi, o no?» Ma Li non aveva fretta. «Che cosa fa, esattamente?» «Credo che non siano esattamente fatti tuoi» tagliò corto Margaret. «Be', visto che mi appresto ad accendere i lampeggiatori e la sirena sulla macchina della polizia per portarti in tempo alla stazione, forse la mia domanda cortese ha diritto a una risposta cortese.» Sconfitta, Margaret sorrise. Li l'aveva incastrata. «È un archeologo televisivo» accondiscese a rispondere per non perdere il treno. «Un... che cosa?» «Fa documentari di argomento archeologico per la televisione. È uno studioso della Cina, in particolare. Negli Stati Uniti le sue trasmissioni sono famose.»
«E perché ti porta a Xi'an?» «Questa non è una domanda cortese. Allora, mi dai un passaggio, sì o no?» Il crepuscolo calò sulla città come polvere che ingrigiva a poco a poco la luce. Mentre la macchina della polizia entrava e usciva dalle piste ciclabili a gran velocità e con la sirena e il lampeggiatore in funzione, il sole li accecò con la sua luce morente. Poi, le strisce rosse nel cielo trascolorarono in varie tonalità di blu sempre più scure. Li zigzagava in mezzo agli autobus e ai taxi, come se stesse viaggiando su una superstrada a quattro corsie anziché su una circonvallazione a tre. Margaret lo osservava in silenzio, chino sul volante, suonare il clacson quando gli pareva che la sirena non bastasse, brontolando tra uno sbuffo di sigaretta e l'altro. Non le aveva ancora rivolto la parola da quando erano usciti dalla Prima Sezione. Margaret era talmente terrorizzata al vederlo guidare come un pazzo nel traffico dell'ora di punta, che l'idea di fare conversazione non la sfiorava nemmeno. Li guardò l'orologio e parve calmarsi un po'. Lanciò un'occhiata a Margaret. «Forse ce la facciamo» disse. «Mi fa piacere» rispose lei, con un tono leggermente acido. «Mi spiacerebbe essere invecchiata di dieci anni dalla paura e perdere il treno.» «E a me spiacerebbe se un'indagine su un semplice omicidio dovesse intralciare la tua vita privata» ribatté Li, guardando davanti a sé. «Sai qual è il tuo problema?» disse Margaret, trattenendosi dalla tentazione di mandarlo al diavolo. «Conosci troppo bene l'inglese. Tuo zio te l'ha insegnato perfettamente, ma avrebbe dovuto spiegarti che il sarcasmo è l'aspetto meno nobile dello spirito.» «Chi ha detto che facevo dello spirito?» «Be', certo non sono stata io!» Margaret gli lanciò un'occhiata e si calmò un po'. «In ogni modo,» aggiunse «visto che tieni tanto a saperlo, ti informo che il mio rapporto con Michael è assolutamente platonico. Sai che cosa significa, vero?» «Sì, è l'espressione che si usa per descrivere una relazione subito prima che si arrivi al sesso» rispose Li senza sorridere. Uscì dalla circonvallazione e imboccò un cavalcavia che portava al ponte Tianningsi. Margaret si sentì ferita da quelle parole, non solo perché erano pungenti, ma perché contenevano una verità. Si chiese perché avesse accettato di andare a Xi'an con Michael e si rese conto che non era per il desiderio di vedere i guerrieri di terracotta. Provò una stretta allo stomaco e quella particolare paura che si insinuava spesso nel suo cuore. Che cavolo stava fa-
cendo? Lo guardò di sottecchi: ecco che, di nuovo, non le sembrava più un cinese; era Li Yan e basta. Aveva visto il calore e la luce tornare nei suoi occhi quando avevano avuto quel piccolo battibecco nella sala riunioni e poi in automobile. Sapeva di amarlo ancora, anche se non osava lasciare che quel pensiero si cristallizzasse nella sua mente. E, del resto, che senso avrebbe avuto? Era un amore inutile, sciocco e impossibile, come quello di un adolescente per una rockstar. Li glielo aveva detto con chiarezza: non c'era futuro per loro. Li teneva lo sguardo concentrato sul traffico, mentre procedeva a zigzag tra i veicoli lungo la Lianhuachidong. «Ecco la stazione di Pechino Ovest» disse a un certo punto, indicando con la mano verso sinistra. Margaret guardò fuori dal finestrino e, nella luce incerta del crepuscolo, vide un'enorme struttura che si ergeva tra due ampi cavalcavia a est e ovest, profilata di luci al neon e abbagliante nel riflesso delle lampade ad arco colorate. Le torri laterali si innalzavano in perfetta simmetria con la colossale, elaborata costruzione centrale i cui tre tetti a pagoda, uno sopra l'altro, erano sorretti da colonne imponenti. «Caspita!» esclamò Margaret, senza fiato. «È immensa!» Non aveva mai visto niente di tanto grande. «È la più grande stazione ferroviaria del mondo» disse Li. Uscì dalla Lianhuachidong e imboccò una rampa che immetteva in una strada a scorrimento veloce parallela all'ingresso principale della stazione, affollato di gente che andava e veniva. Accostò l'automobile al marciapiede, scese in fretta, mentre la sirena si spegneva a poco a poco con un rauco borbottio, e accompagnò Margaret all'ingresso, portandole la borsa da viaggio. Margaret gliela prese di mano e guardò, quasi impaurita, l'enorme stazione. «E adesso come farò a trovare Michael?» chiese infine. Con suo grande disappunto, Li vide Michael farsi largo tra la folla verso di loro, con un'espressione ansiosa sul volto. «A quanto pare, è lui che ha trovato te» disse. Paonazzo e senza fiato, Michael li raggiunse e prese subito in consegna la borsa di Margaret. «Grazie al cielo sei qui! Per un momento ho temuto che non facessi in tempo.» «Grazie alla mia scorta personale, non corro rischi» rispose Margaret, lanciando un'occhiata a Li. Michael gli tese la mano. «Salve, Li.» Stupito che si ricordasse il suo nome, Li capì di essere stato argomento di conversazione tra lui e Margaret. «Salve, Zimmerman» rispose con un cortese cenno della testa. Si strinsero la mano con forza. Forse troppa. Li
sentiva inconsciamente che quell'uomo aveva qualcosa di familiare, anche se non avrebbe saputo dire che cosa. Niente di fisico, in ogni modo. La sensazione durò un attimo. Poi, la stretta di mano si sciolse, Michael guardò l'ora e disse a Margaret: «Dobbiamo sbrigarci». Poi, rivolto a Li, aggiunse: «Grazie per averla accompagnata qui in tempo». Li tenne a freno l'impulso di mollargli un pugno in faccia e si rivolse a Margaret. «Buon viaggio» le disse, ma le sue parole suonarono fredde e convenzionali. «Grazie» rispose Margaret prima di sparire con Michael in mezzo alla folla. Li rimase per un momento a guardarli. Poi sentì calare su di sé una nube di depressione, fitta come il buio ormai sceso sulla città. L'atrio della stazione ferroviaria di Pechino Ovest intimoriva per la sua vastità cavernosa e per la quantità di persone che si muovevano in tutte le direzioni seguendo la miriade di informazioni che comparivano sui tabelloni elettronici. Sull'incessante brusio di migliaia di passeggeri si imponeva la voce pacata di un'annunciatrice che ripeteva, con voce meccanica, gli orari degli arrivi e delle partenze dei treni in cinese e in inglese. Da un'immensa voragine fuoriuscivano le scale mobili che portavano ai vari livelli della stazione. Su entrambi i lati dell'atrio, tra i diversi sportelli della biglietteria, c'erano botteghe in cui si vendeva di tutto, dalle melagrane, ai calzini multicolori, agli spaghetti in salsa speziata confezionati in contenitori che sembravano di polistirolo, ma che invece, come Michael spiegò a Margaret, erano di paglia pressata. Biodegradabile. Il contributo della Cina all'ecologia mondiale. Lungo un ampio corridoio, in un colorato sfavillio di luci al neon, si aprivano le sale d'aspetto. Grandi televisori multischermo inserivano tra un video musicale e l'altro la pubblicità di prodotti concepiti per la salvaguardia dell'ambiente. Michael prese Margaret per mano e la guidò in mezzo alla folla, oltre le scale mobili, a sinistra, verso la sala d'aspetto di prima classe. Sulla porta, mostrarono a una ragazza con la divisa verde e un berretto a visiera troppo grande per lei i documenti e i biglietti ed ebbero così accesso all'atmosfera rarefatta ed elegante della sala d'aspetto destinata ai privilegiati che potevano permettersi il vagone letto. Grandi poltrone di pelle verde erano disposte intorno ai tavolini sotto un murale di colore rosso rame, che rappresentava vari episodi della storia cinese. Puntarono diretta-
mente verso l'uscita, dove Michael consegnò i biglietti a un controllore perché li forasse. Quindi, scesero una rampa di scale per raggiungere il binario sei. «E il tuo bagaglio?» chiese Margaret. Michael sorrise. «È già sul treno.» Margaret riconobbe subito l'odore di carbone della locomotiva a vapore che sbuffava, davanti a loro, nel buio. Michael corse con lei lungo il marciapiede fino alla carrozza sette. Salirono. Ai finestrini erano appese tendine di rete e, drappeggiate ai lati, tende più pesanti blu a disegni floreali. Una passatoia rossa bordata d'oro li guidò al loro scompartimento. Margaret aveva viaggiato una sola volta su un treno cinese: gli scompartimenti con i sedili di legno erano freddi, i viaggiatori erano pigiati gli uni agli altri e ogni tanto qualcuno sputava per terra. Su questo treno tutto era ben diverso. «Eccoci arrivati» disse Michael, invitandola a entrare. C'erano doppie tende ai finestrini, rivestimenti di pesante pizzo bianco sulle quattro cuccette e fodere sui poggiatesta. «Oh,» disse Margaret, stupita «non è una cabina singola.» Michael si scusò. «Mi dispiace, il mio ufficio non è riuscito ad avere di meglio, così, all'ultimo momento...» Margaret sorrise. «Per te e per me non importa, ma ci sono altre due persone.» «No,» rispose Michael «ho comprato anche gli altri due biglietti, così saremo soli.» Fu allora che Margaret si accorse che sul tavolino d'appoggio c'era un secchiello di ghiaccio da cui usciva il collo di una bottiglia di champagne e, sulla cuccetta in alto, un grosso cesto di vimini. Michael chiuse la porta scorrevole. «Ci aspettano quattordici ore di viaggio,» disse «e così ho pensato che del buon cibo, annaffiato da ottimo champagne, ci avrebbe aiutato a passare il tempo.» 4 Mentre Li pedalava verso casa sulla vecchia bicicletta dello zio, dopo aver lasciato la macchina di ordinanza al parcheggio della Prima Sezione, la sua depressione si trasformò in preoccupazione al pensiero di quello che gli avrebbe detto, di lì a poco, sua sorella. Se il risultato dell'ecografia era chiaro, Xiao Ling ora sapeva il sesso del bambino e forse aveva già preso
una decisione. In caso contrario, avrebbero dovuto prelevarle del liquido dall'utero e la decisione sarebbe slittata di quattro settimane. Non era nella sua natura rimandare le decisioni, ma in quel momento pregava i suoi antenati che il risultato non fosse ancora sicuro. In quattro settimane tante cose sarebbero potute cambiare. Parcheggiò la bicicletta e salì le due rampe di scale che portavano al suo appartamento. Da sotto aveva visto le finestre illuminate e quindi sapeva che Xiao Ling e Xinxin erano tornate a casa. Forse da ore. Li pensò alla nipotina di cinque anni che, sia pure insonnolita, gli aveva dato un bacio, quella mattina, tenera, affettuosa, carina, una buona bambina, intelligente e piena di vita. Come poteva sua sorella pensare di darla in adozione? Lei aveva cercato, accoratamente, di spiegargli che in Occidente c'erano migliaia di coppie senza figli che sarebbero state felici di adottare una bambina cinese. Xinxin avrebbe avuto una vita molto migliore di quella che avrebbe potuto offrirle sua madre. Prima ancora di aprire la porta, Li sentì il pianto di Xinxin. Quando fu in anticamera, chiamò Xiao Ling. «Ehi, come va?» Nessuno rispose e il lamento di Xinxin divenne, se possibile, più straziante. Il salotto era deserto. Li corse lungo il corridoio e in quella che era stata la camera dello zio, trovò la bambina seduta sul letto, sola e in preda ai singhiozzi. Aveva gli occhi gonfi e rossi, la voce rauca, la pettorina del grembiule inzuppata di lacrime. Li, sconvolto, chiamò di nuovo Xiao Ling affacciandosi sul corridoio. Non ricevette risposta. Si inginocchiò davanti al letto e attirò a sé la bambina. Lei gli si aggrappò al collo, stringendolo forte con le braccine esili. «Dov'è la mamma?» le chiese, ma Xinxin singhiozzava cosi forte che non riusciva a parlare. Poi Li vide sul tavolino accanto al letto una busta con il suo nome scritto a mano dalla sorella. Si liberò dalla stretta di Xinxin e l'aprì. «Li Yan,» diceva la lettera «perdonami, ti prego. So che provvederai a Xinxin nel modo migliore. Vado a casa di un'amica nella provincia di Annhui e là avrò il mio bambino: un maschietto. Nessuno lo sa, quindi non ci sono problemi. Con affetto, Xiao Ling.» CAPITOLO QUINTO 1 Ogni tanto, un grappolo di luci in lontananza interrompeva lo scorrere
ininterrotto del buio dietro i vetri del finestrino, mentre il treno attraversava il cuore della Cina verso la sua antica capitale, Xi'an. La bottiglia di champagne ondeggiava, vuota, nel ghiaccio semisciolto, battendo piccoli colpi sordi contro il bordo del secchiello. Sul tavolino, il Bordeaux si ossigenava nella bottiglia stappata, accanto a due bicchieri di cristallo. Quello che restava del loro antipasto - riccioli di foie gras con insalata e pane tostato - era stato rimesso nel cesto, dove una selezione di formaggi di tutto il mondo aspettava di essere gustata. Michael era sparito nella carrozza ristorante per ordinare il piatto forte della loro cena. Margaret era seduta accanto al finestrino, con la guancia arrossata dallo champagne appoggiata contro il vetro freddo. Sembrava che fosse passato un secolo da quando il treno era partito da Pechino. La porta scorrevole si aprì e Michael entrò sorridendo. «Ce l'ho fatta!» disse e si mise a sedere di fronte a lei, mentre una ragazza molto graziosa, in gonna blu, camicetta bianca a maniche corte e cravatta a farfalla blu lo seguiva portando un vassoio con due pesci su due piatti ovali. L'aroma di soia, zenzero e cipolla che saliva dalle pietanze fumanti invase lo scompartimento. La ragazza posò il vassoio sul tavolino e sorrise a Michael. Margaret aveva notato che tutte le ragazze gli sorridevano. Perfino quella con il viso arcigno che aveva controllato i loro documenti. A lei riservavano un cipiglio scorbutico e a lui uno sguardo scintillante. Michael aveva un modo speciale di fare con le donne, era disinvolto, affascinante e ironico. Quando parlava in cinese con loro, Margaret non capiva, ma le vedeva scoppiare in risatine ritrose, che esprimevano un piacere pari a quello che provava lui a intrattenersi con loro. Aveva immaginato che sarebbe stata bene accanto a un uomo che le altre donne trovavano affascinante e, infatti per ora era così, ma sapeva che questa felicità le avrebbe presto portato insicurezza e gelosia. Michael lasciò scivolare qualche yuan nella mano della ragazza e le disse qualcosa cui lei rispose con l'immancabile risatina, mentre usciva richiudendo la porta. Michael prese dal cesto le posate e le passò a Margaret, poi le versò il vino nel bicchiere. «Un rigoroso cultore della buona tavola obietterebbe che con il pesce si deve bere vino bianco,» osservò «ma io sono dell'idea che questi aromi cinesi vadano sostenuti con qualcosa di più robusto.» Alzò il bicchiere. «Al nostro viaggio.» Margaret avvicinò il proprio bicchiere al suo. «Non stai cercando di ubriacarmi, vero?» Michael rise. «No, altrimenti che gusto ci sarebbe? Dimmi se ti piace
questo pesce. Di solito è eccellente.» «Ti concedi spesso simili delizie?» «Ho fatto varie volte questo viaggio» rispose Michael. «Anche se questa è la prima volta che lo laccio in compagnia.» «Allora, dimmi, com'è Xi'an?» «Ah, non incoraggiarmi a parlare del mio argomento preferito, altrimenti staremo qui tutta la notte.» «Ci staremo in ogni caso, no?» Michael le lanciò una lunga occhiata. «Xi'an,» prese a dire «è la capitale della provincia dello Shaanxi. L'inizio e la fine della Via della Seta. Fondata prima della nascita di Cristo e capitale della Cina per più di undici secoli. Un tempo si chiamava Chang'an, la "Città della pace perenne", poi, più di seicento anni fa, è diventata Xi'an, la "Città della pace occidentale".» Gli occhi di Michael brillavano di una luce intensa, speciale. «Non c'è nulla nella vita, Margaret, che mi dia maggior piacere che toccare il passato, sentire fisicamente la storia, farmela scorrere tra le dita. Come la sabbia del deserto. A Xi'an posso farlo, in una unità di spazio e di tempo.» «Va bene,» disse Margaret «ma, perlomeno, c'è un McDonald's?» Per un momento pensò di aver sopravvalutato il suo senso dell'umorismo, ma Michael scoppiò a ridere. «Per quanto conosca bene Xi'an, questo è un particolare che mi è sfuggito. Però c'è sicuramente un Kentucky Fried Chicken.» «Meno male!» Margaret mise in bocca un pezzetto di pesce. «Questa pietanza è squisita, non credere che non la apprezzi.» Bevve un sorso di vino. «E della Via della Seta che cosa mi dici?» «Era una strada commerciale lunga migliaia di chilometri che attraversava alcuni dei territori più inospitali del mondo» rispose Michael, interrompendosi un attimo per versare altro vino nei bicchieri. «I popoli del Medio Oriente e dell'Asia centrale inviavano grandi carovane di mercanti a comprare la misteriosa seta che solo i cinesi sapevano produrre. La strada era molto frequentata all'epoca in cui l'impero cinese e quello romano avevano raggiunto il massimo della loro prosperità, anche se avevano notizie molto vaghe l'uno dell'altro. Prima che la Via della Seta arrivasse fino a Roma, i romani credevano che in Cina la seta crescesse sugli alberi e, poiché da loro tutto ciò che era di seta veniva detto sericus, i cinesi divennero i seres.» Michael parlava, ormai dimentico del pesce che aveva nel piatto. «La Via della Seta era importante perché portava fino in Cina cultura, letteratura e religione dal resto del mondo. Il buddismo cinese, che ha messo
le sue radici proprio a Xi'an, è arrivato dall'India con le antiche scritture. C'è stato un periodo in cui la città aveva più di due milioni di abitanti, compresi gli stranieri venuti dall'Arabia, dalla Mongolia, dall'India, dalla Malesia. Domani vedrai i tratti somatici di tutti questi popoli sui volti dei Guerrieri di Terracotta.» «Il tuo pesce sta diventando freddo» disse Margaret, indicando il piatto con un cenno della testa. «Ah, sì.» «Penso che sia dovuto al fatto che non sei sposato» osservò all'improvviso Margaret, e lui la guardò con la fronte aggrottata, senza capire. «Sì, è perché non sei sposato che metti tutta la tua passione nella storia e nell'archeologia.» «Non proprio tutta» precisò lui. «E, comunque, che cosa ti fa pensare che io non sia sposato?» «Non saprei, sei o non sei sposato?» «No» rispose Michael scuotendo la testa. «Ho vissuto con una ragazza per quasi dieci anni. Un'attrice.» «È nota?» «Non particolarmente. Ha fatto qualche film e qualche spettacolo per la televisione, ma ha lavorato soprattutto in teatro. Per qualche anno è stata molto impegnata. Ci vedevamo poco. Quando ha avuto meno da fare e abbiamo passato più tempo insieme, ci siamo accorti che non sapevamo niente l'uno dell'altra. Era stata, come dire... una relazione di comodo. Ma viene il momento in cui si cerca qualcosa di più.» «E lo hai trovato, adesso?» Michael si strinse nelle spalle. «Non lo so. Sto ancora cercando.» I loro sguardi s'incontrarono per un attimo, poi lei chinò la testa. «E tu?» chiese Michael. «Vedo che porti un anello.» Margaret, istintivamente, sfiorò con la mano l'anulare della sinistra dove portava ancora la fede nuziale. Non avrebbe saputo dire perché non l'avesse mai tolta. Forse pensava che la proteggesse. «Sono stata sposata per sette anni. Mio marito si chiamava Michael, come te.» «Oh...» Michael, sentendosi arrossire, chiese: «Dovrei attribuire alla cosa qualche significato particolare?». «Non direi. Non gli assomigli affatto.» «Sei divorziata?» «No, separata. Dalla morte» aggiunse. «Mi dispiace, Margaret, non lo sapevo.»
«Non deve dispiacerti. A me non dispiace. Fa parte della storia. E non desidero affatto parlarne.» Finirono la cena in silenzio, guardando fuori, nel buio, al di là delle loro figure riflesse nel vetro del finestrino. Lo champagne e il vino stavano facendole effetto. Si sentiva assonnata e triste e, quando Michael venne a sedersi accanto a lei, lasciò che l'attirasse contro la sua spalla e posasse una mano sulle sue. Ebbe l'impressione di un calore confortante e avvertì il sentore dolce e vagamente muschiato del patchouli. Quando sentì il respiro di Michael sfiorarle la fronte, piegò indietro la testa e si trovò con il viso vicino al suo. Nel suo sguardo serio e profondo lesse un coinvolgimento sincero e si sentì sicura nelle sue braccia, appagata come non era più stata da molto tempo. Lui si piegò su di lei e la baciò. Non fu un bacio appassionato, ma leggero e prolungato, pieno di tenera sollecitudine. Margaret ebbe paura del risveglio dei sensi che percepì dentro di sé e ripensò al corpo di Li contro il suo, in quell'altro vagone ferroviario, così lontano. Si ritrasse, rossa in viso e leggermente ansimante. «Scusami, Michael, ma credo di non essere pronta per questo.» Michael sorrise e le scostò i capelli dal viso. «Va bene, Margaret» disse. «Se c'è una virtù che l'archeologo possiede, è la pazienza. Sa che può essere necessario aspettare una vita intera prima di riuscire a trovare quello che sta cercando.» S'interruppe. «Sei stanca?» Margaret annuì. Michael si alzò, le sistemò i cuscini della cuccetta, le sollevò le gambe con delicatezza, in modo che potesse distendersi. Lei si accorse che le toglieva le scarpe, adagio, con cura. Provò di nuovo l'impulso di cedergli, ma era troppo tardi. Il momento era passato. Michael l'avvolse nella coperta fino al collo, facendola sentire calda e pigra, poi si chinò a sfiorarle le labbra. Nel dormiveglia, Margaret lo vide sistemare gli avanzi della cena, spogliarsi, stendersi nella sua cuccetta e spegnere la luce. La luce del sole batteva obliqua sulle cime dei monti, proiettando lunghi raggi attraverso il finestrino dello scompartimento, quando Margaret aprì gli occhi e trovò Michael seduto di fronte a lei intento a guardarla. «Buongiorno» disse. «Arriveremo tra meno di un'ora.» «Oh, mio Dio!» «Vuoi un caffè?»
«Credevo che i cinesi bevessero solo tè.» «Infatti, è così, ma io viaggio sempre attrezzato per ogni eventualità.» Prese dal cesto una caraffa di vetro, un filtro a imbuto e li mise sul tavolino. Aprì un barattolo a chiusura ermetica e a Margaret arrivò il profumo del caffè che non aveva più sentito da quando aveva lasciato gli Stati Uniti. Michael versò nel filtro una dose generosa di polvere, poi prese, da sotto il tavolino, un thermos d'argento e ne svitò il tappo. «L'acqua non è proprio bollente,» disse «ma servirà comunque a farci due buone tazze di caffè.» Margaret prese la sua trousse e andò alla toilette a sciacquarsi gli occhi assonnati, a lavarsi i denti e a mettersi il rossetto. Si guardò nello specchio. Era pallida e le lentiggini erano più vistose del solito. Ripensò alla sera prima ed ebbe la sensazione che la giornata che stava per cominciare sarebbe stata determinante per lei. Quando rientrò, l'aroma del caffè aveva invaso tutto lo scompartimento. «Che delizia!» esclamò. Fuori dal finestrino, campi di grano appena mietuto si stendevano a perdita d'occhio e le pendici delle colline, terrazzate e coltivate, portavano il segno del lavoro dell'uomo, che aveva domato la natura a prezzo di sangue, sudore e lacrime. Una spirale di fumo azzurro si alzava nel cielo del mattino da un falò di stoppie e un bue guidato da un contadino con il torace nudo tirava un aratro attraverso il terreno pietroso. Ogni tanto, mentre il treno sfrecciava, le capitava di intravedere grappoli di quelli che sembravano fiori di carta bianchi e rosa disposti ad anello. «Che cosa sono?» chiese Margaret. «Sembrano enormi ghirlande.» «Sono corone mortuarie» rispose Michael. «Si mettono sulle tombe in occasione di una sepoltura recente o della celebrazione di un anniversario.» «Credevo che in Cina si usasse la cremazione.» «Infatti, in teoria è così. Il governo cinese ritiene che la sepoltura dei morti sia uno spreco di terreno fertile. E forse è vero. Ma le vecchie abitudini sono dure a morire.» Michael le annunciò il programma per le prossime ore: avrebbero trovato un'automobile con autista ad attenderli alla stazione; sarebbero andati prima in albergo e poi al Museo dei guerrieri di terracotta, poco oltre la cittadina di Lintong, a un'ora circa da Xi'an. A quel punto, l'avrebbe lasciata sola per qualche tempo con i guerrieri, mentre lui avrebbe cercato di risolvere un problema rimasto in sospeso con il direttore del museo. A poco a poco i campi e le colline ondulate lasciarono il posto alla peri-
feria industriale di Xi'an, che si era formata dall'unione di tanti piccoli centri periurbani e, dopo un quarto d'ora, il treno entrò nella stazione. Spinti a gomitate dalla folla frettolosa e inseguiti dai venditori di guide turistiche, Margaret e Michael, attraversarono l'atrio caotico e vennero investiti dalla sfavillante luce del mattino. Il fattorino che aveva preso in consegna i loro bagagli si materializzò dal nulla accanto a loro con un carrello: si trattava di una ragazza che non doveva avere più di sedici anni e che a prima vista non pareva in grado di sollevare neppure una borsa. Invece era riuscita a caricare tutto il bagaglio da sola. «L'automobile è qui davanti» annunciò. «Vi accompagno.» Uscirono sulla piazza piena di autobus, circondata su un lato da svettanti edifici moderni, sull'altro dalle antiche mura merlate della città, alte dodici metri. Una limousine nera li aspettava, con il motore acceso. «Benvenuta a Xi'an» disse Michael e Margaret, nonostante tutto, sentì una viva curiosità per la giornata che l'attendeva. 2 Li guardava Xinxin mangiare le focaccine di semi di loto che lui le aveva cotto a vapore per colazione. Si era accorto che aveva una vera passione per il tè, che beveva a grandi sorsi dopo ogni boccone di dolce. Quel piccolo banchetto le aveva fatto dimenticare che sua madre l'aveva abbandonata, lasciandola in una casa che non era la sua con uno zio che non conosceva. La sera prima Li Yan aveva dovuto faticare non poco per calmare la nipotina e farla addormentare. Xiao Ling, infatti, non aveva fatto nemmeno lo sforzo di inventarsi una pietosa bugia per giustificare la propria sparizione, ma si era limitata a dire alla bambina che sarebbe dovuta rimanere lì ad aspettare il ritorno dello zio. Xinxin era rimasta sola per quasi tre ore prima che Li Yan rientrasse. Quella mattina, dopo la seconda notte insonne consecutiva, Li aveva raccontato a Xinxin che la mamma si era sentita male ed era dovuta andare in un ospedale lontano. Nel frattempo, loro due si sarebbero fatti compagnia. Xinxin aveva avuto un'altra crisi di pianto e aveva detto che voleva tornare a casa. E Li aveva deciso che non l'avrebbe tenuta con sé: in fondo il problema era del papà della bambina, non suo. Gli avrebbe scritto spiegandogli quanto era accaduto e pregandolo di venire a riprendersi Xinxin. L'operazione, comunque, avrebbe richiesto tempo: una settimana o forse di
più e intanto lui non sapeva cosa fare della bambina. Decise di andare a chiedere consiglio a Mei Yuan, portando Xinxin con sé. Mentre Li Yan pedalava, Xinxin, seduta sul portapacchi sopra la ruota posteriore con le gambine penzoloni, guardava con gli occhi spalancati la folla e il traffico di quella città sconfinata. Osservava i bambini che andavano a scuola, i ragazzi che procedevano a fatica lungo gli hutong con i tricicli carichi di carbone, la folla incredibile di persone che si muovevano a piedi, in bicicletta oppure salivano e scendevano dagli autobus. Angosciato dal peso della responsabilità per l'inconsueto fardello che si portava sul portapacchi, Li si sentì venire meno quando, fermandosi davanti al chiosco dei tan bing, all'angolo della Dongzhimennei, si accorse che, china sulla piastra rovente, c'era una donna che non conosceva. «Dov'è Mei Yuan?» chiese. «È andata all'ufficio della polizia per rinnovare la licenza» rispose la donna. «Mi ha chiesto se potevo fare io i tan bing stamattina.» «Quando tornerà?» «Non lo so, forse tra due o tre ore. Lei chi è?» «Sono Li Yan.» Il viso della donna si aprì in un sorriso. «Ah, Li Yan! Mei Yuan mi ha parlato di lei! Io sono Jiang Shimei, una cugina.» Gli strinse la mano. «So che è stato lei a prendersi cura di Mei Yuan, quando era malata.» Guardò Xinxin. «È sua figlia?» «No, è mia nipote.» «È molto bella.» Jiang Shimei si chinò ad accarezzare la guancia di Xinxin. «Come ti chiami, piccolina?» «Xinxin.» «Xinxin? Che bel nome!» «Mi sai fare i codini?» chiese, inaspettatamente, la bambina, infilando una mano nella tasca del suo grembiulino verde e tirandone fuori due elastici rosa cui era applicata una piccola testa di volpe di cartone. «Lo zio Li ha detto che non è capace.» «Ma certo!» rispose Jiang Shimei e, mentre Li si spostava per non intralciare l'operazione, fece a Xinxin due codini non proprio perfetti. La faccia di Xinxin s'illuminò di gioia. E Li pensò che era un amore di bambina con quella camicetta bianca bordata di rosso, che s'intonava con il rosso della calzamaglia che portava sotto il grembiulino verde, e quei sandaletti bianchi ai piedi. «Avverta, per favore Mei Yuan, che ho bisogno di chiederle un consi-
glio e che ripasserò più tardi» disse Li e sistemò Xinxin sul portapacchi. «Non volete un tan bing?» «Oggi non ho tempo!» Attraversò la strada, infilandosi in mezzo al flusso delle automobili, tra rabbiosi colpi di clacson. Imboccò una salita, oltrepassò le bancarelle della frutta e della verdura alla sua sinistra e un negozio di barbiere, già aperto, da dove usciva un odore di capelli bagnati e di olio profumato. Lasciò la bicicletta vicino all'ingresso principale della Prima Sezione, prese Xinxin per mano, la fece entrare dalla porta laterale e la portò con sé fino all'ultimo piano. Si fermò un attimo, incerto, davanti alla stanza degli investigatori e poi, facendo appello a tutto il suo coraggio, entrò con disinvoltura insieme alla piccola Xinxin, che gli trotterellava al fianco. Zhao aveva appena riagganciato il ricevitore del telefono, quando vide Li. «Capo,» disse «c'è una macchina giù che ci aspetta per portarci alla scuola...» Ma non finì la frase, perché nel frattempo si era accorto della bambina. Altri si voltarono a guardare. Il brusio di sottofondo si interruppe di colpo. Wu si spinse gli occhiali da sole indietro sulla testa. «Mmm... c'è qualcosa che ci ha tenuto nascosto, capo?» Li decise di prendere il toro per le corna. «Ragazzi, questa è la mia nipotina, Xinxin. La sua mamma sta poco bene e l'ha affidata a me. Fatela giocare un po' mentre io sono via.» Per un momento nessuno parlò, poi Qian, che era padre di una bambina di quasi dieci anni si alzò dalla scrivania, si avvicinò a Xinxin e le disse: «Che bei codini hai! Te li ha fatti lo zio Li?». Xinxin scosse la testa. «No, me li ha fatti una sua amica che lavora in strada. Lo zio non è capace.» «Ma certo, lo sappiamo anche noi che lo zio Li è incapace, vero, ragazzi?» E tutti risero. «Li Yan!» La voce era dura, autoritaria e ridusse tutti al silenzio. Sulla soglia c'era il caposezione Chen Anming. «Devo parlarle. L'aspetto nel suo ufficio.» Li fece una smorfia e si affrettò a raggiungere il capo. «Chiuda la porta» disse Chen. «Che succede, Li?» domandò poi. «Mi sono trovato in difficoltà, capo» rispose Li e raccontò che sua sorella aveva abbandonato la bambina sulla soglia di casa sua e che ci sarebbe voluta una settimana prima che suo padre venisse a prenderla. E, nel frattempo, lui non sapeva che cosa fare.
«Be', non si può trasformare un ufficio di polizia in un asilo infantile» sentenziò Chen. «In nome del cielo, Li, c'è un serial killer a piede libero!» Non sapeva che cosa dire. «Lo so» ammise tra i denti. Chen scosse la testa con aria comprensiva. «Dove abita il padre della bambina?» «Vicino a Zigong, nella provincia del Sichuan.» «Telefonerò al capo della polizia locale e gli dirò che si metta in contatto con suo cognato. Se prende subito un treno, potrebbe essere a Pechino stasera.» Li assentì, ma si sentiva a disagio. «Grazie, capo.» Proprio in quel momento, dalla stanza degli investigatori provenne l'eco di una fragorosa risata. «A quanto pare, la bambina sta riscuotendo un gran successo tra gli agenti!» commentò, imbarazzato. La scuola superiore al n. 29 aveva un aspetto modesto con l'ingresso di piastrelle bianche, all'angolo di un parcheggio di autobus, appena fuori da Qianmen Xidajie, sul lato sudoccidentale della piazza Tien-An-Men. Sopra il massiccio cancello di ferro dipinto di verde era collocato un pannello di legno con, la fotografia dell'originario portale in pietra lavorata. Non appena Zhao parcheggiò la macchina lungo il marciapiede, il custode della scuola sbucò dalla guardiola per farli entrare. Varcata la soglia, si trovarono in una sorprendente oasi di calma nel cuore della città. A destra e a sinistra sorgevano i corpi dell'edificio scolastico a due piani, di mattoni, circondati da alberi ben potati. Un passaggio coperto, fiancheggiato da bacheche di avvisi e frondose piante in vaso, portava a un cortile quadrato bordato di alberi con campi da volano e da pallacanestro. Tutt'intorno a questo spazio si affacciavano le aule. Il rombo del traffico arrivava attutito dalla lontananza. Li si guardò intorno, sorpreso. «Non avevo idea che esistesse un posto del genere» disse. «Una volta ospitava un'università» spiegò il custode. «Come? Un'università?» chiese Zhao. «Sì, l'università della Cina» rispose il custode con un sorriso. Li lo giudicò un po' ignorante. «Fu fondata da Sun Yat-sen nel 1912. In questi giorni è stata allestita una mostra, venite a vedere.» Li condusse in un'aula trasformata in sala da esposizioni. Alle pareti erano stati montati dei pannelli con le fotografie dei fondatori, degli insegnanti e di qualche cerimonia ufficiale del passato. Il custode non era affatto un
ignorante. L'edificio era stato effettivamente inaugurato dal presidente della prima Repubblica popolare cinese, Sun Yat-sen, come Università della Cina. Guardando con attenzione le foto, Li riconobbe i volti di personaggi che avevano fatto la storia: Sun Yat-sen, quasi calvo, con i baffi grigioargento ben tagliati; Li Da Zhao con i capelli cortissimi e i favoriti alla Stalin; un professore di economia degli anni Venti, che aveva tradotto per la prima volta in cinese le opere di Marx e poi era stato impiccato da Chiang Kai-shek nel 1928; il presidente onorario, generale Zhang Xüe Liang, che aveva consegnato Chiang Kai-shek ai comunisti nel 1936. In una teca di vetro era custodita la campanella che aveva chiamato i primi studenti alle lezioni, all'inizio del secolo, e che, all'epoca in cui era in funzione, stava appesa a un albero tuttora esistente nel cortile dei campi da gioco. Altri pannelli raccontavano la storia della scuola. Quando i comunisti erano andati al potere, nel 1949, l'università della Cina era diventata la scuola superiore "del nuovo inizio", finché, tre anni più tardi, aveva assunto il modesto nome di scuola superiore al n. 29. Un giovane in jeans, maglietta grigia e blusa con cerniera lampo entrò di corsa nell'aula. «Buongiorno» disse ansimando rivolto a Li e Zhao e strinse loro la mano. «Il preside mi ha incaricato di mettermi a vostra disposizione per tutta la mattina. Non ho lezione fino al pomeriggio.» «Lei è un insegnante?» chiese Li, stupito, perché ai suoi tempi gli insegnanti si vestivano in tutt'altro modo. «Sì, sono il maestro Huang.» «È una scuola ricca di storia questa.» «Certo! E noi siamo orgogliosi della nostra storia,» disse il maestro Huang «ma ora siamo solo una scuola superiore, con seicento studenti e circa centocinquanta insegnanti. Venite, posso mettervi a disposizione la mia aula per svolgere il vostro lavoro.» Nell'aula c'erano quattro file di sei banchi e due lavagne, una di fronte all'altra sui due lati brevi. Grandi finestre si affacciavano sul cortile. Li prese una sedia. «Non ci sono lezioni, stamattina?» «Certo che ci sono: è una mattinata molto piena» rispose il maestro Huang. «Se ne accorgerà al momento dell'intervallo, dal gran baccano che faranno gli studenti.» Sorrise e aggiunse: «Un nostro vecchio insegnante, Lao Sun Lian, vi sta aspettando in un'altra aula con qualche ex alunno. Quando volete parlare con loro, ditemelo». «Faccia pure venire il maestro Sun» rispose Li e, mentre Huang si av-
viava alla porta, chiese: «A proposito, che fine ha fatto il portale originario della scuola?». «È stato distrutto dalle Guardie Rosse.» «Le stesse Guardie Rosse che hanno distrutto gli archivi della scuola?» «Non lo so, può darsi. Vede, io ho solo ventotto anni e non posso ricordarmelo» rispose il maestro Huang e uscì. Li e Zhao misero in fila tre banchi e sistemarono due sedie per loro da una parte e una sedia soltanto dall'altra. L'odore tipico delle aule scolastiche - un misto di cibo stantio e di polvere di gesso - ricordò a Li gli anni in cui frequentava una scuola con le pareti di quello stesso colore verde pallido e crema dove tutto dava l'impressione di un ambiente istituzionalizzato, conformista e privo di fantasia. Non molto era cambiato nel corso degli anni. Faceva caldo. Li si avvicinò alla finestra più vicina e la spalancò. Si affacciò a guardare i campi da gioco e pensò che tutt'e quattro le vittime avevano studiato in questa scuola, avevano avuto le stesse esperienze, avevano patito le stesse incertezze e le stesse ingiustizie, avevano diviso le stesse speranze e le stesse aspirazioni. Quanto era successo in queste aule e in questi campi da gioco aveva prodotto semi avvelenati e qualcuno, tanti anni dopo, era venuto con una spada di bronzo a mietere il raccolto. In questa culla della storia accademica della Cina moderna si trovava il movente del delitto. Li ne era sicuro. Il maestro Sun aveva settantanove anni. I capelli grigi e radi, pettinati all'indietro, lasciavano intravedere la cute cosparsa delle macchie scure della vecchiaia. Portava la casacca e i pantaloni di tela blu "alla Mao", non per il loro significato politico, spiegò, ma per abitudine e poi perché erano freschi e comodi. Sembrava che ci fossero solo le ossa sotto quegli indumenti di cotone troppo larghi. Sun camminava appoggiandosi a un bastone e stava finendo di fumare una sigaretta arrotolata a mano. Si mise a sedere di fronte a Li e Zhao guardandoli con i suoi vecchi occhi scuri ancora brillanti. «Questo colloquio mi fa pensare a certi brutti giorni di tanti anni fa.» «Perché brutti?» chiese Li. «Mi hanno portato in un'aula come questa, mi hanno fatto sedere e mi hanno coperto di insulti, per ore. Poi hanno voluto che io facessi altrettanto con loro.» «Durante la Rivoluzione culturale?» chiese Li. Il vecchio annuì con un cenno del capo. «Ha sofferto?»
«Sì, anche se altri hanno sofferto molto più di me. Le chiamavano "sessioni di lotta".» Il maestro Sun ridacchiò tra sé. «Lottavano per farmi confessare e io lottavo per non confessare.» «Che cosa volevano che confessasse?» domandò Zhao. «Oh, dipendeva dall'accusa che avevano deciso di muovermi. Se non confessavo, ero un antirivoluzionario; se confessavo, nel migliore dei casi, venivo dileggiato e ingiuriato. Era come quando, in Europa, nel Medioevo, facevano i processi alle streghe: le buttavano nel fiume e, se sopravvivevano, erano streghe, se invece annegavano erano innocenti. In un modo o nell'altro erano sconfitte.» «Ma perché volevano accusare proprio i loro maestri?» chiese Zhao, sinceramente incuriosito. Li lo guardò e si rese conto che la Rivoluzione culturale era già finita quando Zhao aveva cominciato ad andare a scuola ed era passato molto tempo prima che si cominciasse a parlarne. Un'intera generazione non sapeva quello che era successo durante quei dodici, tragici anni. Ma il vecchio sorrise tristemente di fronte all'ignoranza di Zhao. «Se lei ci tosse stato, il perché l'avrebbe letto sui dazebao che le Guardie Rosse attaccavano dappertutto, là nella piazza; grandi manifesti di propaganda, scritti a mano, dove ci accusavano di revisionismo.» Sorrise di nuovo, scuotendo la testa. «Di solito erano i più stupidi a guidare gli attacchi. Copiavano i loro slogan dai giornali. Sembrava che, sebbene non avessero né bombe né coltelli, i maestri fossero nemici pericolosi, che riempivano la testa degli studenti di principi reazionari, facevano loro credere di essere superiori agli operai e ai contadini e alimentavano le ambizioni individuali incoraggiando la competizione. Secondo le autorità, nell'elevare il livello di preparazione dei nostri studenti, trasformavamo bravi e semplici socialisti in revisionisti corrotti. La verità è che un contadino ignorante rappresenta una minaccia inferiore rispetto a uno studioso intelligente. Per questo i nostri capi pensavano che gli immateriali coltelli maneggiati dai maestri fossero molto più pericolosi delle armi da fuoco o dei coltelli veri.» Li Yan si appoggiò allo schienale della sedia e si accese una sigaretta. «Lei sa perché siamo qui, maestro Sun?» chiese. «Mi sono arrivate delle voci.» «Quattro dei suoi ex alunni,» disse Li «sono stati uccisi.» Il maestro Sun annuì. «Vorrei sapere se si ricorda di loro.» Li snocciolò i quattro nomi. Mentre lo ascoltava, il vecchio alzò un sopracciglio e poi scosse la testa. «Che tristezza! Ricordo molto bene Yuan Tao. Era uno studente eccezio-
nale. Di gran lunga il migliore del suo corso. Un ragazzo simpatico, timido, molto semplice.» Ebbe un lampo negli occhi, come se gli fosse apparsa un'immagine in lontananza, subito spento da un'ombra. «Quanto agli altri... li ricordo per una ragione sola. Erano studenti insignificanti, tranne Yue Shi. Credo che sia diventato professore di archeologia. Era più intelligente degli altri due, ma c'era in lui qualcosa di sgradevole ed era molto influenzabile.» Il maestro Sun si soffermò un istante a ripensare a quel ragazzo che aveva definito sgradevole, poi, guardando Li in faccia, proseguì: «Appartenevano tutti a un gruppo di Guardie Rosse, che si autodefiniva Brigata della rivoluzione permanente e faceva parte della fazione ultrarossa. Ragazzi stupidi, brutali, manovrati da gente più sveglia e più importante di loro». Li Yan sentì il battito del suo cuore farsi più frequente. Ecco il collegamento che stavano cercando: le Guardie Rosse! Erano stati tutti nelle Guardie Rosse! «Sono stati loro ad abbattere il portale della scuola e a distruggerne gli archivi?» chiese. «Sì» rispose il maestro Sun. «Non frequentavano già più le lezioni. Erano per la maggior parte disoccupati e si servivano della Rivoluzione culturale come pretesto per non lavorare. Sono tornati qui, a scuola, per vendicarsi dei loro maestri. Hanno devastato gli archivi per distruggere le prove dei risultati scadenti dei loro esami. Hanno usato contro di noi i giudizi che avevamo scritto sottolineando la loro assenza d'impegno nello studio e la loro indisciplina. Ci hanno dichiarati responsabili dei loro risultati mediocri. Se erano pigri, sciocchi, incapaci o maleducati, non era colpa loro, ma nostra. Ci hanno messo in testa berretti d'asino e ci hanno costretti a sfilare nella piazza con cartelli appesi al collo. Sul mio c'era scritto Sun Lian "mostro reazionario". Ci facevano battere sui gong e gridare: "Sono un maestro reazionario. Sono un mostro reazionario". Ci prendevano a calci, ci frustavano con le cinture. Hanno distrutto la mia aula alla ricerca di materiale nero.» «Materiale nero? Che cos'è? domandò Zhao sconvolto da quanto stava ascoltando. «Il colore del Partito comunista era il rosso,» spiegò il maestro Sun «e poiché il nero è l'opposto del rosso, veniva usato per rappresentare qualsiasi cosa o persona facesse opposizione. Il presidente Mao aveva dichiarato che le "cinque categorie nere" erano il peggior nemico del popolo: proprietari terrieri, contadini ricchi, controrivoluzionari, criminali ed esponenti
della destra politica. Tutto ciò che veniva dall'estero era nero. Io ero professore di storia e, naturalmente, avevo molti libri e riviste stranieri e, soprattutto, molti libri di storia mondiale. Per la Brigata della rivoluzione permanente era materiale nero e così mi hanno obbligato a portare tutto libri, giornali, appunti - in mezzo alla piazza e a farne un grande falò.» Li guardò fuori dalla finestra e vide due studenti che giocavano a volano. Cercò d'immaginare l'aspetto del cortile a quell'epoca. Adolescenti dal volto congestionato che gridavano contro i loro maestri, li insultavano, li picchiavano; i maestri con in testa i berretti d'asino che battevano i gong e si autodenunciavano; il fumo che saliva dal falò dei libri dove ora due ragazzi stavano giocando. Si ricordò che il suo maestro della scuola elementare era stato bastonato a morte nella sala mensa. Si stupì nel vedere che il maestro Sun ridacchiava. «A un certo punto, si è messo a piovere abbastanza forte,» proseguì «e il falò dei miei libri si è spento. I ragazzi della Brigata erano agitati e uno di loro ha ordinato a un altro di andare a prendere il mio ombrello nell'aula. Lo ha chiamato yang-san. È intervenuto un terzo ragazzo, che lo ha accusato di diffondere una vecchia parolaccia. Lui non ha capito e allora l'altro, che credo fosse il capo, un ragazzo grosso, volgare, che tutti chiamavano Uccello, gli ha detto che yang significava "straniero" e quindi un yang-san era un "ombrello straniero", come quelli che, prima della Liberazione, venivano importati dall'estero. Ha aggiunto che ormai gli ombrelli si facevano in Cina e chi li chiamava ancora yang-san era uno xenofilo.» Il vecchio maestro scosse la testa. «Aveva imparato quella parola dai giornali, Io mi sono messo a ridere e gli ho detto che era un ignorante e che a scuola non aveva studiato abbastanza. È diventato viola per la collera e la vergogna. Gli ho spiegato che, prima di tutto yang non significava "straniero", ma "sole" e perciò uno yang-san era un ombrello per ripararsi dal sole, un parasole.» Il sorriso sparì lentamente dal viso del maestro Sun. «Gli altri sono rimasti zitti, non sapendo che cosa fare, e anche lui, il capo ha avuto un momento d'incertezza, poi è stato preso da una rabbia terribile, mi ha afferrato per il collo e mi ha trascinato nell'aula. I suoi compagni lo hanno seguito e lui gli ha ordinato di spaccare i vetri e di spargere i frammenti per terra. Gridava che ero uno xenofilo e che dovevo imparare la lezione. Mi ha costretto ad attraversare l'aula, da una parte all'altra, in ginocchio. I vetri rotti si scheggiavano sotto il mio peso, mi tagliavano i pantaloni e mi entravano nella carne.» Il maestro si chinò per rimboccarsi la gamba destra
dei pantaloni fin sopra il ginocchio e Li e Zhao videro un reticolo di piccole cicatrici, simile a un merletto. «Ci sono ancora schegge qua e là» disse. «E quando affiorano, il ginocchio sanguina.» Si rimise a posto i pantaloni e guardò i due poliziotti. «Me li ricordo, eccome, quei ragazzi! Non potrei dimenticarli.» «Appartenevano tutti alla Brigata della rivoluzione permanente?» chiese Li e ripeté i nomi. «Tian Jingfu, Bai Qiyu, Yue Shi, Yuan Tao?» Il maestro Sun assentì. «Tutti, tranne Yuan Tao, naturalmente. Ho saputo che era partito prima dell'inizio della Rivoluzione culturale. Frequentava un'università in America. Uno dei pochissimi fortunati.» 3 Una distesa di enormi vessilli ondeggiava nel fumo della battaglia mentre i soldati chiusi nelle loro armature, avanzavano, con le spade levate, tra il rimbombo degli zoccoli dei cavalli. Margaret si ritrasse istintivamente quando i guerrieri la circondarono e poi passarono oltre, in un cozzare di spade di bronzo e di orripilanti grida di dolore. Aggrappata al parapetto, sentì il calore del corpo di Michael contro il suo. La colonna sonora, come in un musical hollywoodiano, raggiunse toni esaltanti quando la battaglia raggiunse il punto culminante. Uno dopo l'altro, i vessilli le sventolarono davanti, mentre le bandiere dei paesi conquistati venivano deposte ai piedi dell'onnipotente primo imperatore della Cina, Shih Huang. «È uno spettacolo impressionante, vero?» commentò Michael. Lei annuì con un cenno della testa. Era la prima volta che assisteva a una proiezione con il sistema Dolby surround. La sala era completamente circondata da schermi, le immagini passavano dall'uno all'altro, dando allo spettatore l'impressione di partecipare all'azione. Le casse acustiche diffondevano il sonoro in tutte le direzioni e l'illusione era perfetta. «Uno spettacolo del genere deve costare una fortuna» commentò. «C'è un numero incredibile di comparse.» Michael sorrise. «I cinesi, se non altro, sono tanti.» Intorno a loro si muovevano migliaia di servi che portavano cesti di terra su pali di bambù. «Ecco che cominciano a lavorare alla tomba di Shih Huang» spiegò Michael. «Centoventimila tra artigiani, operai e prigionieri. Ci sono voluti quarant'anni. A quell'epoca la gente credeva che l'anima dei morti continuasse a vivere sottoterra, ecco perché Shih Huang aveva fatto costruire l'esercito dei guerrieri di terracotta e l'aveva fatto seppellire in tre camere
diverse intorno al mausoleo, a difesa del suo impero.» Sullo schermo, operai seminudi pestavano l'argilla con i piedi prima di ridurla in polvere con grossi bastoni e comprimerla negli stampi per plasmare guerrieri e cavalli. Poi le varie parti del corpo venivano assemblate e le statue prendevano forma, ognuna diversa dalle altre: una serie di pezzi unici. Ogni dettaglio era scrupolosamente curato, dall'acconciatura dei capelli alla suola degli stivali. Le statue dei guerrieri, divisi in generali, ufficiali, fanti, arcieri in ginocchio e aurighi venivano quindi sistemate in grandi fornaci per la cottura. Nel film si vedevano file di guerrieri che venivano dipinti in tutti i colori dell'iride. «Sono quelli veri?» bisbigliò Margaret. Michael rise. «No, sono le esatte riproduzioni fatte a mano con la stessa argilla degli originali e cotte alla stessa temperatura. Con una spesa di circa duemila dollari se ne può comprare una, a grandezza naturale, e spedirla in America per metterla in giardino. Pochi esperti sono in grado di riconoscere la differenza tra una copia e l'originale. Gli originali, però, erano dipinti. Guarda» disse Michael, indicando lo schermo. «In tutte le fotografie che ho visto,» disse Margaret «sembravano del colore dell'argilla.» «Sono rimasti sepolti per duemila anni e i colori non hanno resistito. Il colore dell'argilla è solo un rivestimento di terra secca e polverosa; i guerrieri sono, in realtà, di un colore nero-bluastro, com'erano quando li estraevano dalle fornaci.» Sullo schermo gli operai, lucidi di sudore, scavarono le camere sotterranee per metterci i guerrieri. Innalzarono grosse travature per sostenere il tetto, poi, tra le alte pareti di terra pressata, sistemarono le schiere di guerrieri in assetto di guerra con archi, lance e spade autentici. Costruirono sopra le loro teste un tetto fatto di grossi pali coperti di stuoie e poi seppellirono il tutto sotto tonnellate di terra. I guerrieri scomparvero, così, nell'oscurità. All'improvviso, sullo schermo si accese di nuovo la battaglia. La voce del commentatore si alzò sul crescendo dell'orchestra. «E adesso che cosa succede?» chiese Margaret. «Ci fu una sollevazione popolare, un anno dopo la morte di Shih Huang. I contadini saccheggiarono il palazzo, irruppero nelle tre camere contenenti i guerrieri e rubarono le armi per usarle contro l'esercito reale dei successori di Shih Huang.» L'oscurità si animò improvvisamente quando i contadini fecero irruzione
nelle sale sotterranee, brandendo torce che lanciavano lunghi guizzi di luce tra i guerrieri. Tolsero le spade e le lance ai loro nemici di terracotta e si diedero a scompigliare le loro file compatte. Il rumore della terracotta che si infrange era esasperante. La fatica, l'abilità artistica e gli anni impiegati per compiere quel capolavoro vennero spazzati via nel giro di pochi minuti da un folle vandalismo. Margaret guardava, a occhi spalancati, i contadini che davano fuoco alle camere, le travi in fiamme che cedevano e collassavano sull'esercito di terracotta. Dai toni drammatici l'orchestra passò alla tranquilla melodia dei violini per accompagnare la successiva immagine di un paesaggio bucolico, vasto e tranquillo, all'ombra di una collina che culminava in un picco centrale. «Questo è il tumulo del mausoleo di Shih Huang,» raccontò Michael «quello che non aprono per il timore di liberare fiumi di mercurio. È il 1974. La Cina è ancora nel pieno della Rivoluzione culturale.» Sullo schermo un gruppo di contadini, con la casacca e i pantaloni di tela blu "alla Mao", stava scavando un buco nel terreno, in un campo aperto. «Vedi, mentre scavavano un pozzo, quegli uomini hanno visto sbucare mani e teste di terracotta. I primi frammenti, la prima testimonianza di un grande esercito rimasto sepolto più di duemila anni.» «Sai che dovresti proprio fare un pensierino su cosa fare da grande?» disse Margaret. «Questo lavoro ti riesce davvero bene!» Michael rise e la prese sottobraccio. «Andiamo.» «Ma lo spettacolo non è ancora finito.» «Non importa, andiamo a vederlo dal vero.» Quando uscirono dalla sala cinematografica vennero accecati dalla luce del sole. Il grande atrio era affollato di turisti, venuti a vedere l'ottava meraviglia del mondo. Gruppi di occidentali in viaggi organizzati, scolaresche cinesi in gita, famiglie di ogni livello sociale provenienti da tutta la Cina erano venuti a vedere quegli straordinari guerrieri di terracotta esposti in tre grandi sale costruite sopra le camere dove erano stati trovati. Mentre attraversavano l'atrio, Michael disse: «Dopo la scoperta dei guerrieri, c'è stata una sorta di commedia degli errori. I funzionari e i quadri del centro culturale locale hanno ritenuto, a quanto pare, che non valesse la pena divulgare la notizia. E così hanno dissotterrato un po' di pezzi, li hanno portati nei locali del centro e hanno ricostruito tre statue da esporre in una sorta di mostra. Solo quando, un mese dopo, un giornalista li ha visti e ha scritto un articolo, le autorità sono state informate di tutta la faccenda. La zona è stata posta sotto la tutela dello Stato e, nel 1976, hanno costruito le
prime sale del museo sopra la camera sotterranea più grande, la n. 1». Michael alzò la testa verso la costruzione a cupola davanti a loro. Tenendo Margaret per un braccio, salì con lei i gradini che portavano all'entrata, ornata di imponenti colonne. Michael disse qualche parola a un inserviente, che subito scomparve. Mentre aspettavano, si accomodarono nel salone d'ingresso, illuminato dalla luce che pioveva dai lucernari e si rifletteva sul pavimento di marmo. «Ora vengono a prenderti,» disse Michael «e io me ne vado alla riunione.» Margaret sfogliò le pagine di un libro che aveva comprato fuori dalla sala cinematografica. C'erano molte fotografie delle tre camere sotterranee e un resoconto sui lavori di scavo redatto dall'archeologo che li aveva diretti, Yuan Zhongyi. «Credevo che le camere fossero tre» disse. «È così, infatti» rispose Michael. «Non secondo questo archeologo.» Margaret lesse: «"Gli scavi che abbiamo condotto hanno rivelato la presenza di una quarta camera, circa venti metri a nord di quella indicata con il n. 1"». «È vero» confermò Michael. «Ma la camera non conteneva niente, se non sabbia e detriti. Gli archeologi hanno pensato che non fosse stata completata perché gli operai erano andati a combattere i contadini in rivolta.» Margaret lesse ancora: «"Poiché non vi sono state rinvenute figure di terracotta, questa camera sotterranea non è stata inclusa tra quelle dell'esercito di terracotta. Generalmente si parla di tre camere." Chissà che rabbia!» osservò. «Tanto lavoro per non trovare niente.» «Il mestiere dell'archeologo è fatto così» le disse Michael. «Uno può passare anni a scavare e non trovare nulla e poi, magari, ricominciare tutto daccapo due o tre metri più in là e scoprire una nuova civiltà.» Un uomo piccolo e magro, con i capelli ispidi striati di grigio, arrivò sorridendo e tendendo loro la mano. Scambiò con Michael un caloroso saluto in cinese. Di età compresa tra i cinquanta e i sessant'anni, aveva il viso liscio, senza rughe, portava un paio di occhiali con la montatura di tartaruga e indossava una camicia bianca aperta sul collo sopra un paio di pantaloni scuri, larghi e comodi, e scarpe di tela blu con la suola di gomma. «Margaret,» disse Michael «ti presento il signor Lao Chuanfang. È uno degli archeologi più esperti, tra quelli che lavorano agli scavi.» La stretta di mano di Chuanfang era ferma e cordiale, lo sguardo brillante. «Molto piacere, signorina Margaret» la salutò, con un leggero inchino. «Lei è molto gentile a occuparsi di me,» lo ringraziò Margaret «ma non
vorrei disturbarla. Posso benissimo aspettare qui finché Michael non ritorna.» «Assolutamente no, è un grande piacere poterle fare da guida. Il signor Michael è un grande amico del popolo cinese.» «Be', diciamo di due o tre cinesi» corresse Michael, ridendo. Guardò l'orologio. «Devo andare, Margaret. Tornerò a prenderti dopo la riunione. Gliel'affido, signor Lao.» Fece un piccolo cenno d'intesa a Margaret e andò via in fretta. «Non avevo capito che gli scavi non fossero finiti» disse Margaret a Lao Chuanfang, mentre si avviavano verso la sala principale. Il signor Lao rise. «Passeranno molti, ma molti anni prima della conclusione degli scavi. Ci sono circa seimila guerrieri e cavalli qui sotto e noi ne abbiamo riportati alla luce più o meno un terzo.» Salirono su un'impalcatura che correva tutt'intorno alla camera sotterranea. Margaret non sapeva bene che cosa si fosse aspettata di vedere, ma sicuramente niente di simile. Un fitto intrico di ponteggi sosteneva un tetto a cupola sopra uno scavo che brillava a distanza in una luce azzurrognola. Immediatamente sotto i suoi piedi, tra due muri di terra pressata, c'erano i guerrieri, circa duemila, schierati per la battaglia. Negli spazi tra le file c'erano i cavalli, in posizione di riposo, equipaggiati con i finimenti per attaccarli ai carri che non esistevano più da molto tempo, perché, essendo di legno, erano marciti. La luce del sole cadeva in fasci obliqui attraverso le fenditure del tetto e si insinuava tra le file di soldati silenziosi, proiettando ombre sui loro volti antichi. Margaret si rese conto che gli occhi le bruciavano per le lacrime. Sbatté le palpebre, sorpresa della propria reazione. Non aveva pensato che si sarebbe emozionata a quel punto, ma senz'altro c'era qualcosa che toglieva il respiro in quelle figure a grandezza naturale, qualcosa di sconvolgente nella loro muta dignità, nella loro tranquilla attesa. Stavano ancora di guardia alla tomba del loro imperatore, con silente determinazione. L'aria intorno risuonava delle chiacchiere dei turisti e Margaret bruciava dalla voglia di imporre a tutti di tacere. Quello spettacolo meritava il silenzio, l'ammirazione rispettosa di chiunque vi posasse lo sguardo. Era un privilegio, la visione unica di un'eredità inestimabile, la possibilità di penetrare nella mente degli uomini, con le loro paure, le loro certezze, il loro incoercibile quanto vano tentativo di andare oltre la morte. E, in qualche modo, gli artefici di quelle creature, avevano raggiunto l'immortalità, perché i loro guerrieri erano ancora lì, a testimoniare l'esistenza di chi li aveva creati,
nel terzo secolo prima di Cristo. Margaret voltò la testa e vide che il signor Lao le sorrideva. «È rimasta molto colpita, vero?» «Mi è difficile spiegarle quello che provo» rispose Margaret. «Sono senza parole, davvero. È una visione...» esitò, alla ricerca di un aggettivo «...straordinaria.» «Venga con me» la invitò il signor Lao. «Le mostrerò qualcosa che i turisti non possono vedere.» Lo seguì lungo l'impalcatura, senza staccare gli occhi dalle figure dei guerrieri. Sentì un vocio, si voltò e vide che un addetto alla sicurezza, in divisa verde, strappava la macchina fotografica dalle mani di un cinese, che non voleva consegnargliela. Il turista e sua moglie gridavano, agitando le braccia, mentre l'addetto toglieva la pellicola dalla macchina e la esponeva alla luce. «È vietato fotografare gli scavi» spiegò il signor Lao e alzando gli occhi al cielo aggiunse: «Scene come questa sono all'ordine del giorno». Dall'altra parte del sito c'era una zona non ancora aperta al pubblico. Margaret vide centinaia di figure di terracotta ammassate l'una sull'altra. Alcuni archeologi erano intenti a ricostruire dai frammenti una figura completa. Su un grosso nastro trasportatore viaggiavano grandi quantità di terra di risulta convogliata verso l'esterno attraverso un'apertura sul retro. Più avanti, ai piedi di Margaret e del signor Lao, archeologi di tutte le età, in camice bianco, accovacciati in mezzo alla polvere, lavoravano intorno ad altre figure ancora in parte sepolte, che emergevano, a un centimetro per volta dalle loro antiche tombe, mentre spazzole e spatoline raschiavano e toglievano gli strati del tempo che le avevano coperte. Il signor Lao aprì un cancello e fece passare Margaret su una scala di ferro che portava a un'altra zona chiusa al pubblico dov'erano al lavoro tre archeologi, due uomini e una ragazza, forse più giovane di lei. Il signor Lao fece le presentazioni in cinese, gli archeologi le strinsero la mano sorridendo. Il signor Lao, allora, le diede un coltellino con la lama smussata, la cui impugnatura ricurva era fatta in modo da aderire perfettamente all'incavo della mano, tra il pollice e l'indice. «Adesso anche lei è un'archeologa» le disse sorridendo. «La signorina Zhang le mostrerà quello che deve fare.» La signorina Zhang sorrise, le porse una spazzola con le setole nere e la portò in mezzo a un mucchio di corpi di terracotta che sbucavano dalla ter-
ra nelle posizioni più strane. Alcuni erano incrinati o rotti all'altezza delle spalle, altri avevano la testa piegata di lato oppure ne erano del tutto privi: un'immagine, quest'ultima, che ricordò improvvisamente a Margaret la ragione per cui si trovava ancora in Cina. Erano guerrieri che indossavano corazze dalla complessa fattura, avevano i capelli raccolti in un nodo in cima alla testa e il collo avvolto in sciarpe di seta. La signorina Zhang si accovacciò vicino a due statue ancora sepolte nella terra fino alla vita. Una di esse era piegata in una posizione strana, con la testa appoggiata sulla spalla della statua vicina, come se avvertisse il peso di quei duemila anni di esistenza. I lineamenti erano ancora coperti di fango indurito. La signorina Zhang ne grattò via delicatamente un pezzetto con la sua spatolina, poi eliminò la polvere con la spazzola. Ancora sorridendo, invitò Margaret a fare lo stesso. Margaret si chinò vicino a lei e con grande apprensione, tolse la terra finché, a poco a poco, non apparvero i tratti decisi del guerriero: belle labbra piene; un paio di baffi rivolti all'insù, con la punta che arrivava agli zigomi; occhi a mandorla, sopracciglia folte. Margaret ripulì i frammenti di fango con la spazzola e guardò quel volto. Era bello. Passò le dita sulla superficie di terracotta, fresca e liscia, e si sentì percorrere da una strana corrente, come se avesse preso la scossa. Aveva tra le mani più di duemila anni di storia. Un uomo aveva modellato quei lineamenti in un'epoca in cui i romani dominavano l'Europa, quasi diciassette secoli prima della scoperta dell'America. Finalmente comprese la passione che Michael metteva nel suo lavoro. C'era più vita in quella creatura di terracotta che in uno qualsiasi dei corpi che lei si era trovata davanti sul tavolo dell'autopsia; carne gelida, morta, marcescente, che si sarebbe disfatta alle temperature che avevano riportato in vita quegli antichi guerrieri e li avevano conservati per due millenni. C'era ancora una tenue traccia dei colori originari e Margaret vide che, sotto lo strato di argilla ocra, le ligure erano di un nero-bluastro, lo stesso colore della polvere depositata sul terreno dalle statue in frammenti. 4 Chang Yichun sarebbe potuto essere un figlio della Rivoluzione comunista e invece era diventato un capitalista di successo dell'era postmaoista, come confessò non senza soddisfazione a Li e a Zhao. La campanella dell'intervallo era già suonata e, attraverso le finestre aperte, arrivavano le vo-
ci dei ragazzi che giocavano nel cortile. Chang era basso di statura, con la corporatura robusta, i capelli cortissimi e le mani grandi e callose. Si considerava migliore di tutti i suoi compagni degli anni Sessanta, che avevano avuto successo negli studi universitari. Ammetteva di aver ottenuto buoni risultati alla scuola superiore, ma si chiedeva a che cosa fossero serviti, visto che il destino lo aveva mandato a lavorare in campagna, negli anni della Rivoluzione culturale. Si accese una costosa sigaretta occidentale. «Ma, per ironia della sorte, è stato proprio lì che mi sono formato professionalmente» raccontò. «Ho imparato il mestiere del carpentiere e, quando sono tornato in città, nel 1972, ho avuto un posto nella squadra di operai edili addetti alla manutenzione del comitato di via Xichang.» Si grattò la testa e poi si spazzolò con la mano la forfora che gli era caduta sul bavero della giacca. «Eravamo una ventina di disoccupati, più sei donne. Aggiustavamo gli impianti di riscaldamento centrale, costruivamo i camini, facevamo vari lavoretti di riparazione nelle case. Una farsa. Nessuna professionalità. Erano le "scimmie" del comitato a procurarci i lavori, quelli che vanno tutto il giorno in giro per la strada a cercare buone occasioni. Stabilivano i turni di lavoro, prendevano compensi extra e si tenevano tutto quello che avanzava dopo aver pagato gli stipendi. In sette anni abbiamo messo insieme debiti per quasi novantamila yuan.» Chang si schiarì la voce e sputò disinvoltamente sul pavimento dell'aula. «Ma io sono riuscito a procurare altri lavori,» proseguì «e nel 1979 mi hanno nominato responsabile della gestione. La differenza era che io volevo che tutto funzionasse come in una vera impresa, con il controllo dell'amministrazione e del personale. Contratti regolari, struttura direttiva organizzata, retribuzioni giuste. Il primo anno abbiamo guadagnato settantaseimila yuan. Dopo quattro anni eravamo diventati un'impresa edilizia, legalmente riconosciuta, con una forza lavoro di più di duemila dipendenti, immobilizzi per tre milioni e una liquidità per più di sette milioni.» Si guardò intorno ridacchiando, soddisfatto del proprio successo, orgoglioso di potersene vantare e compiaciuto dell'ammirazione che suscitava. «Adesso i miei conti li faccio in dollari.» Si soffiò rumorosamente il naso e sputò di nuovo per terra. Poi si piegò in avanti e puntò un dito contro Li. «Dove cazzo sono adesso le Guardie Rosse? Ve lo dico io dove sono quelle teste di cazzo: sparite!» «Lei sa quante persone facevano parte della Brigata della rivoluzione permanente?» chiese Li.
«Certo. Il capo abitava nella mia stessa via. Si chiamava Ge Yan, una faccia da bastardo, un deficiente grasso come un maiale. Sempre all'ultimo banco, sempre a prendersi sgridate, ma non appena gli insegnanti voltavano le spalle picchiava a sangue i compagni. Ge Yan era il peggiore, ma non ha mai alzato un dito su di me, altrimenti gli avrei spaccato il cranio. E lui lo sapeva.» Dopo un attimo di silenzio aggiunse: «Che cosa mi aveva chiesto? Ah, sì, quanti erano? Erano sei.» Si passò una mano sul mento, mentre cercava di ricordare. «C'era Uccello...» «Uccello?» chiese Li. «Sì, era il soprannome di Ge Yan.» Chang si grattò di nuovo la testa e corrugò la fronte, come se stesse cercando di venire a capo di qualcosa che non gli tornava nei ricordi. «Strano, uno grosso e cattivo come lui, amava gli uccelli. Ne aveva a decine, di tutti i colori. Li teneva in gabbia, nel cortile di casa sua. Una volta ci sono stato e ho visto come li trattava. Mani come le sue, capaci di farti schizzare fuori il cervello con un colpo, diventavano improvvisamente delicate. Trattava quei volatili come se fossero la cosa più preziosa del mondo. Sembrava che avesse paura di sciuparli anche solo respirando. Li amava. Passava la giornata in cortile o al mercato degli uccelli.» «Ricorda qualcun altro di quei sei?» «Come no!» Chang si accese un'altra sigaretta. «Scimmia, Zero, Pezzente... Questa era l'unica ragazza del gruppo, ma a guardarla non lo si sarebbe capito. Era brutta come la peste. Poi c'era Tartaruga e... ma certo!... Maialino, come potrei dimenticarlo, grosso e grasso com'era?» «E Yuan Tao?» Chang guardò Li e Zhao come se fossero impazziti. «Yuan Tao? State scherzando?! Quello era un tipo a posto. Un po' troppo studioso, un po' secchione, forse, ma a posto. Non si sarebbe mai messo con gli altri mascalzoni e perdigiorno che si sentivano inferiori e se la prendevano con quelli più intelligenti, come se li ritenessero responsabili del fatto che loro erano nati stupidi.» «Yue Shi non era stupido» osservò Zhao. «No, ma era viscido, falso. In faccia ti diceva una cosa e dietro le spalle ne faceva un'altra.» «Come mai Yuan Tao era soprannominato Talpa?» chiese Li. Chang gli lanciò un'occhiata fulminante. «Ma chi vi dà queste informazioni? Nessuno ha mai chiamato Yuan Tao Talpa. Il suo soprannome era Gatto, anzi, in origine era Gatto fifone.»
Li aggrottò la fronte. «Ne è sicuro?» «Sicurissimo.» «Perché Gatto fifone?» chiese Zhao. «Perché i compagni lo tormentavano, lo prendevano in giro, lo picchiavano a sangue all'uscita da scuola e lui non reagiva mai. Mi dispiaceva vederlo così passivo, ma non potevo farci niente. Era lui che non voleva difendersi.» «Perché se la prendevano con lui? Perché era bravo a scuola?» «No, ce n'erano anche altri che erano bravi e nessuno ha mai torto loro un capello. Ma quando si ha un padre che insegna nella stessa scuola...» Chang si strinse nelle spalle. «Cosa volete farci, è inevitabile.» Li rimase per un attimo senza parole per lo stupore. «Il padre di Tao insegnava in questa scuola?» chiese poi. «Sì» rispose Chang. «Il vecchio Yuan era il nostro professore di inglese.» La stanza degli investigatori era in pieno fermento di attività quando Li e Zhao tornarono. Al brusio delle voci si sommavano gli squilli dei telefoni e il fruscio delle carte. Le finestre erano tutte aperte, ma l'atmosfera era satura di fumo. «Qian!» gridò Li, mentre entrava nel proprio ufficio. Qian si affacciò subito sulla soglia. «Sì, capo?» «È indispensabile che tu mi faccia subito un elenco di tutti i nominativi che riesci a trovare dei ragazzi che frequentavano quella scuola. Si è scoperto che le prime tre vittime facevano parte di un gruppo di Guardie Rosse che si autodefinivano la Brigata della rivoluzione permanente. In tutto erano sei, ne mancano tre. Concentra le ricerche soprattutto su di loro.» Li consultò il suo taccuino. «Uno si chiamava Ge Yan, detto Uccello. Appassionato di ornitologia. Pare che, da ragazzo, frequentasse il mercato degli uccelli. Poi c'era una ragazza, chiamata Pezzente, ma nessuno si ricorda il suo vero nome. Un altro...» sfogliò qualche pagina «...eccolo: Gau Huan, soprannominato Tartaruga, evidentemente perché era lento.» Li si batté una mano sulla fronte. «Qui! Forse era lento qui, nella testa. Magari era un po' ritardato.» Senza fermarsi a riprendere fiato, Li chiamò anche Wu. «Il padre di Yuan Tao,» disse, rivolgendosi a entrambi gli agenti, senza alzare gli occhi dal taccuino «insegnava inglese alla scuola superiore di Qianmen Xidajie. A quanto abbiamo saputo, è morto nel 1967. Non abbiamo ancora avuto
informazioni sulla madre. Sarebbe importantissimo trovare o lei o qualche altro parente. Questa parte dell'indagine deve avere priorità assoluta, d'accordo?» «Sì, capo.» Li alzò gli occhi e vide che Wu e Qian esitavano ad andarsene. «Che cosa c'è?» «Il caposezione Chen vuole vederti» rispose Qian, dopo uno scambio di occhiate con il collega. «Subito.» Il modo in cui lo disse ricordò a Li che si era del tutto scordato della piccola Xinxin. Nell'ufficio di Chen regnava il caos. Fogli e cartellette erano stati ammucchiati sul davanzale della finestra per far posto al puzzle di Xinxin, lasciato a metà. I libri della bambina erano sparsi sul pavimento, le sedie erano state radunate in mezzo alla stanza per schierarvi sopra una fila di animali di pezza: un panda, un coniglio, una tigre, un leone. Quando Li entrò, Chen teneva Xinxin sulle ginocchia e le leggeva un libro illustrato. Appena lo vide, chiuse il libro, lo diede a Xinxin e rimise la bambina a terra. «Ora, piccolina, devo parlare con lo zio Li» disse. «Tu,» le suggerì con molta delicatezza «vai nell'altra stanza e chiedi a Qian di finire di leggerti la storia.» «Sì, lui è bravo» rispose Xinxin e si allontanò con il libro in mano, senza nemmeno guardare Li. «Ho sentito parlare spesso della sindrome del piccolo imperatore: figli unici viziati da genitori adoranti» disse Chen. «E adesso mi ci metto anch'io. Chiuda la porta.» Li ubbidì e si sedette su una sedia, spostando il leone di pezza. «Da dove vengono questi giocattoli?» chiese. «Li ha comprati Qian,» rispose Chen. «Ha portato la bambina alle bancarelle sulla Ritan Lu. Gli agenti hanno fatto una colletta ed ecco qui il risultato» indicò gli animali di pezza. «È stato via un bel po', Li.» «Sì, ma ci si è aperto uno spiraglio, capo, almeno, così credo» disse Li e raccontò a Chen della Brigata della rivoluzione permanente, del padre di Yuan e del soprannome sbagliato che l'assassino di Yuan Tao, chiunque fosse, aveva scritto sul cartello appeso al collo del cadavere. «Ma Yuan Tao non era una Guardia Rossa. Non era nemmeno in Cina a quell'epoca.» «Sì, ma loro erano i suoi compagni di scuola ed erano stati allievi di suo padre» disse Li. «E forse c'è qualcos'altro, capo, qualcosa che ancora non
abbiamo visto. Ma stiamo andando nella direzione giusta e, se continueremo a cercare bene, riusciremo a scoprire di che cosa si tratta. Ne sono sicuro.» «D'accordo. Ma c'è una cosa ancora che devo dirle, e non ha niente a che fare con l'indagine.» Adesso il tono di Chen era cambiato, facendosi più mesto. «Ho telefonato al capo della polizia di Zigong, il quale ha parlato con il padre di Xinxin.» S'interruppe. «E allora? Che cos'ha detto?» incalzò Li. «Ha detto che sua moglie se n'è andata e ha portato con sé la bambina e, pertanto, lui non vuole avere più niente a che fare né con l'una, né con l'altra.» Li pedalava, nel calore del pomeriggio, destreggiandosi nel traffico della Dongzhimennei. Xinxin, imbronciata, stava seduta sul portapacchi posteriore, stringendo tra le braccia lo zainetto e il panda, come per difenderli da chiunque volesse portarglieli via. Era offesa con Li, che l'aveva sottratta al suo pubblico della Prima Sezione e sentiva sempre di più la mancanza della mamma. Aveva il labbro inferiore sporto in fuori in un piccolo broncio e gli occhi pieni di lacrime. Li stava male. Come poteva il padre di Xinxin pensare che lui fosse in grado di tenere con sé la bambina? Non era sposato e lavorava tutto il giorno per uno stipendio modesto. Avrebbe dovuto assumere qualcuno a tempo pieno che si occupasse della bambina finché non fosse riuscito a chiarire la situazione con il cognato. E sua sorella, chissà dov'era! Si ritenne vittima di un'ingiustizia. Con tutti i grattacapi che aveva, perché avrebbe dovuto accollarsi anche questa responsabilità? Mei Yuan lo vide attraversare la strada e sorrise di gioia quando si accorse che c'era anche Xinxin con lui. Xinxin, altrettanto felice di aver ritrovato la sua amica, saltò giù dalla bicicletta, corse a rifugiarsi tra le sue braccia e scoppiò in lacrime. «Lo zio Li non mi lascia giocare» singhiozzò. «La mia mamma è ammalata... Voglio andare a casa!» Mentre abbracciava la bambina, Mei Yuan alzò lo sguardo e vide l'espressione smarrita di Li. «Sapete che cosa ci vuole per tutti e due?» disse allora, scostando la bambina da sé e asciugandole le lacrime. «Ci vuole un tan bing!» «Che cos'è?» chiese Xinxin. «È una grande frittella» rispose Mei Yuan. «Senza peperoncino per lei,
vero?» chiese, rivolta a Li. Li sorrise. «Ricordati che viene dal Sichuan.» «Ah, già!» Mei Yuan prese la bambina per mano. «Vieni a vedere come si fa.» Xinxin per un momento dimenticò le lacrime, mentre guardava Mei Yuan spargere l'impasto liquido sulla piastra. «Mia cugina mi ha detto che sei passato stamattina» disse Mei Yuan a Li. «Sono in un pasticcio, Mei Yuan, ma non posso parlartene adesso.» «Sai il cantonese?» «Sono un po' fuori esercizio» rispose Li. Era stato sei mesi a Hong Kong, dove aveva imparato i rudimenti di quel dialetto, ma poi non aveva più avuto l'occasione di usarlo. Mei gli rispose in cantonese. «Anch'io sono fuori esercizio, ma possiamo cavarcela. Che cos'è successo alla mamma della bambina?» «È incinta. Ha fatto una... non so come si dica in cantonese... comunque, un esame con gli ultrasuoni e ha saputo che il bambino è un maschio. È andata a stare a casa di un'amica, da qualche parte, nel Sud, per far nascere là il bambino. Non so dove rintracciarla. E il marito di mia sorella non vuol più saperne né della moglie, né della figlia.» Mei Yuan finì di cuocere il tan bing, l'avvolse con cura in un tovagliolo di carta e lo diede a Xinxin. «Ecco qua, piccolina. Sta' attenta, perché scotta.» La bambina diede un morso al tan bing. «Mmm...» disse, illuminandosi tutta. «Che buono!» Poi, dopo il secondo boccone, alzò lo sguardo su Mei Yuan. «Perché non capisco quello che dite?» chiese perplessa. Mei Yuan sorrise. «Oh, facevamo una prova per vedere se ci ricordavamo un'altra lingua che assomiglia al cinese. Se vuoi venire a casa mia per due o tre giorni, te la insegno. Ti piacerebbe?» «Sì, sarebbe proprio bello!» rispose Xinxin, di nuovo raggiante. «Mia cugina si occuperà del chiosco dei tan bing per un paio di giorni» disse Mei Yuan, rivolta a Li. «Finché le cose non si sistemeranno.» Li le strinse la mano commosso. «Allora, hai risolto il mio indovinello?» gli chiese lei. «Non ho ancora avuto il tempo di pensarci» le rispose Li Yan. «Be', ti lascio ancora un giorno» gli disse fingendosi severa. «La soluzione è sotto i tuoi occhi, basta vederla!» CAPITOLO SESTO
Una brezza tiepida increspava l'acqua smeraldina dello Stagno dei Nove Draghi. Sullo sfondo, sopra il Padiglione dello Splendore del Tramonto, le funivie andavano e venivano dalla vetta della montagna ricoperta di vegetazione lussureggiante. «L'acqua,» spiegò Michael a Margaret «rimane tutto l'anno a una temperatura costante di quarantatré gradi.» Stavano camminando lentamente lungo il bordo dello stagno verso la statua di marmo di una donna seminuda al centro di una fontana. Alla loro sinistra s'innalzava su pilastri rosso ruggine un padiglione dal tetto verde. «In pieno inverno, quando il vento da sud soffia sull'acqua, ne trattiene il calore e scioglie il ghiaccio dal tetto del padiglione. Se splende il sole, l'aria tutt'intorno brilla e danza in un turbine di particelle luccicanti. Lo chiamano il Padiglione degli Uccelli di Ghiaccio.» Erano arrivati alle sorgenti termali dopo un breve tratto di strada a scorrimento veloce lungo la quale i contadini vendevano melagrane in grandi cesti di bambù. Margaret aveva passato più di un'ora con gli archeologi che lavoravano al recupero dei guerrieri, poi Michael l'aveva portata a vedere le altre due camere sotterranee. Lei aveva trovato quell'esperienza esaltante e Michael si era divertito nel vederla così entusiasta. «Sbaglio o eri tu quella che diceva di non essere estasiata alla prospettiva di vedere un mucchio di tombe?» le aveva ricordato lui. «Stai cercando di rendermi ridicola?» «Tutt'altro.» «E va bene, mi sono sbagliata!» Margaret aveva scosso la testa mestamente. «Forse è perché ho passato troppo tempo con i morti. Non immaginavo che l'archeologia fosse così... viva.» Aveva guardato Michael in viso. «Ti invidio, sai?» «Perché?» «Perché con il tuo lavoro fai rivivere la storia, la rianimi. Io non posso farlo con i corpi che finiscono sul mio tavolo. Mi limito a tagliarli per capire come sono morti. Non è una professione molto costruttiva, la mia.» Tornando in città Michael le aveva proposto una sosta alle sorgenti termali di Huaqing, il luogo di villeggiatura invernale degli imperatori, che avevano la loro residenza à Xi'an. Avrebbero trovato silenzio e tranquillità, le aveva detto, dopo la folla del museo, l'andirivieni dei turisti e il vociare dei venditori di souvenir tutt'intorno. C'era una gran calma, infatti, in quel luogo. Nelle settimane precedenti la festa per l'anniversario della Liberazione, i turisti erano pochi. I viali e le
terrazze dei secolari giardini che arrivavano fino alle pendici del monte Li, erano pressoché deserti. «Chi è quella tipa discinta?» chiese Margaret, indicando la statua della donna seminuda. Michael sorrise. «È Yang Guifei,» rispose «una delle Quattro Beltà della storia cinese e una delle milleseicento concubine dell'imperatore Gao Zong, della dinastia dei Tang. Lui l'amava. Appassionatamente. Ciecamente. Passavano l'inverno qui, riscaldando il loro amore al tepore delle sorgenti. L'unica cosa che Gao Zong voleva era trascorrere ogni ora del giorno e della notte con la donna che amava e, per soddisfare questa sua ossessione, ha cominciato a trascurare gli affari di stato. Quando il figlio adottivo di Yang Guifei si è messo a capo di una rivolta contro di lui, i suoi ministri gli hanno fatto sapere che l'esercito non lo avrebbe difeso se Yang Guifei non fosse stata condannata a morte.» «Ma l'imperatore non la condannò, vero?» esclamò Margaret. Michael fece segno di no con la testa e lei disse: «Per un attimo mi sono spaventata!». «Per non costringerlo a prendere quella decisione, Yang Guifei si è uccisa.» «Poverina! Mi rattristi sempre con le tue storie!» Michael rise. «Non me le invento mica! Probabilmente è il modo in cui le racconto...» Margaret si chiese se la storia di Yang Guifei fosse vera e decise che probabilmente lo era, anche se romanzata dal tempo trascorso e da narratori sentimentali come Michael. «Ma c'è anche un altro episodio avvenuto da queste parti,» disse Michael «che è assai meno drammatico, anche se sono convinto che Chiang Kaishek non sarebbe d'accordo con me.» Prese Margaret per mano e la condusse su un ponticello a schiena d'asino, poi attraverso un boschetto secolare, fino ai gradini che portavano a una terrazza. La mano di Michael era calda e forte. Margaret si accorse che le dava piacere sentirla stringere la sua. «Sai chi era Chiang Kai-shek?» le chiese. Lei rispose di no, mortificata. Si sentiva d'una ignoranza abissale. Michael proseguì. «Quando nel 1911 è stata rovesciata la dinastia Qing, è nata la prima Repubblica popolare cinese. Ma il suo fondatore, Sun Yatsen, non è vissuto a lungo; il paese è stato devastato dai "signori della guerra". Il suo successore è stato Chiang Kai-shek, un condottiero geniale e spietato che ha vinto i "signori della guerra" nel 1928 e ha passato i ven-
t'anni successivi impegnato in una guerra civile contro i comunisti.» Si fermarono e, appoggiati al parapetto, si affacciarono a guardare il sottostante intrico di scale e di terrazze e le prime foglie autunnali, color ambra, che galleggiavano sull'acqua. «Ti annoio?» chiese Michael. «Non preoccuparti: se mi annoi, te lo dico.» Michael si staccò dal parapetto e portò Margaret fino in fondo alla terrazza, da dove s'intravedeva una villa nascosta tra gli alberi. «Nel dicembre del 1936, Chiang Kai-shek viveva lì, in quella casa. I giapponesi avevano occupato gran parte del paese. Alcuni generali cinesi ritenevano che Chiang Kai-shek dedicasse troppe energie alla lotta contro i comunisti, mentre i veri nemici erano quei diavoli giapponesi. Volevano addirittura che si alleasse ai comunisti per combatterli. E così, con un manipolo di soldati, sono venuti qui e hanno tentato di rapirlo. C'è stato uno scontro a fuoco.» Adesso Michael e Margaret stavano percorrendo un tratto coperto della terrazza, che correva lungo un lato della villa. «Guarda, hanno messo una protezione trasparente per conservare i buchi dei proiettili nei vetri.» Margaret spiò dietro la plastica. «Proteggere i buchi originari! Ne valeva proprio la pena!» commentò. «Come sei cinica, Margaret» disse Michael, facendola sorridere, poi proseguì. «Comunque sia, hanno dovuto faticare per catturarlo. Al momento dell'attacco lui era a letto e quando, infine, sono riusciti a raggiungerlo, in un piccolo padiglione sul fianco di quella collina, era ancora in pigiama, con una sola scarpa e senza dentiera.» Margaret rise. «Che figura! E si è alleato con i comunisti?» «Sì, non poteva fare diversamente, ma quando i giapponesi sono stati sconfitti nel 1946 i due alleati hanno ricominciato a combattersi tra loro fino alla vittoria dei comunisti, nel 1949. Allora Chiang Kai-shek è andato a Taiwan e ha fondato lo Stato della Cina nazionalista.» «L'opposto della Repubblica popolare cinese.» «Esattamente.» «Oh, finalmente ho imparato un po' di Storia.» Guardò Michael e scoprì una strana intensità nei suoi occhi, che le fece provare una stretta allo stomaco. Lui l'avvicinò a sé, prendendole il viso tra le mani, poi ebbe un momento di esitazione, quasi volesse darle la possibilità di tirarsi indietro, per non correre il rischio di rendersi ridicolo o per paura di spingersi troppo su un terreno ancora sconosciuto. Ma lei non si tirò indietro. E lui la baciò. Si staccarono l'una dall'altro e, per un momento, lei rimase a occhi chiusi, sentendo il respiro di Michael ancora sul suo viso. Quando li riaprì, si
accorse che lui la stava guardando con l'espressione intensa di poco prima. Il suo sorriso divenne una risata. «Che cosa c'è da ridere?» chiese lui, stupito e quasi offeso. «Non lo so,» rispose Margaret «ci sono ragazze che diventano sentimentali sotto il cielo stellato quando un uomo dice loro che sono bellissime. Io sono stata conquistata dalla storia di Chiang Kai-shek e della sua dentiera.» A quel punto anche Michael scoppiò a ridere. Poi, facendosi serio, annunciò: «Va bene, allora stasera troveremo un cielo stellato e io ti dirò che sei bellissima e che muoio dalla voglia di fare l'amore con te». Le facce dei morti la guardavano dal letto. Quattro uomini decapitati con la stessa spada. Erano stati drogati con la stessa sostanza, ma solo tre di loro l'avevano assunta bevendo vino rosso. L'uomo che aveva ucciso quei tre aveva vibrato il colpo stando alla loro sinistra, dopo aver loro legato le mani dietro la schiena con una corda di seta fissata con il nodo piano convenzionale. L'assassino della quarta vittima l'aveva colpita stando alla sua destra e la corda di seta era stata fissata con un nodo piano inverso. La vittima non aveva bevuto vino rosso, ma vodka. La vodka mescolata alla droga era diventata blu. Impossibile non accorgersene. In tutti gli altri particolari, i delitti erano uguali. Margaret era certa che la conclusione cui era arrivata sin dall'inizio era esatta. Yuan Tao era stato ucciso da qualcuno che aveva tentato di farlo apparire vittima dell'assassino degli altri tre. Quei quattro morti avevano frequentato la stessa scuola, nelle loro vite c'era un elemento comune. Che cosa era sfuggito in quell'indagine a lei e agli altri? Ripensò alle tre bottiglie di vino scoperte in casa di Yuan Tao. Tre bottiglie pronte per altre tre vittime. Ma perché erano in casa sua? E la polvere nero-bluastra, uguale a quella trovata sulle scarpe e sui pantaloni di una delle vittime? Un altro elemento in comune. Ma qual era il nesso? E che cosa era stato nascosto sotto le assi del pavimento nella casa affittata illegalmente? Guardò un'altra volta le fotografie del cadavere di Yuan Tao, il sangue che colava nel buco dove il linoleum era stato sollevato per rimuovere le assi. Li aveva detto che il linoleum appariva strappato e questo faceva pensare che qualcuno fosse alla ricerca di qualcosa. Margaret aveva passato più di un'ora a leggere i referti delle autopsie e a studiare le fotografie. Si era sentita in colpa, quando era tornata in albergo con Michael nel tardo pomeriggio. Quattro uomini erano stati uccisi e for-
se il destino di altri tre dipendeva dal fatto che si riuscisse a scoprire in fretta l'assassino, e lei, intanto, che cosa faceva? Se ne stava a Xi'an, a centinaia di chilometri di distanza, a farsi baciare da un uomo che le diceva di trovarla bellissima, ma che era completamente estraneo al suo lavoro. Aveva provato a ripetersi che quella indagine non la riguardava direttamente, che era stata coinvolta contro la sua volontà. Ma si sentiva ugualmente in colpa. Avrebbe desiderato sapere se c'erano state novità quel giorno e per un momento aveva provato la tentazione di telefonare a Li per chiederglielo, ma aveva subito allontanato quel pensiero. Sapeva che Li sarebbe stato scostante, facendola sentire a disagio. Ebbe anche il dubbio che i suoi sensi di colpa non riguardassero tanto l'indagine quanto il legame che si era creato tra lei e Michael. Buttò sul letto il fascicolo con il referto dell'autopsia che teneva in mano e una delle fotografie scivolò fuori dalla cartelletta. Era quella del cartello sporco di sangue appeso al collo della seconda vittima. Mentre guardava i caratteri cinesi, per lei impenetrabili, ebbe una rivelazione improvvisa. Il cartello era scritto a mano! Certamente i cinesi avevano grafologi esperti in grado di stabilire se due cartelli erano stati scritti dalla stessa persona. Quella idea non le era venuta in mente prima perché di solito, nelle indagini, la prassi prevede che si confronti un campione di scrittura con la calligrafia di una persona sospetta e non che si mettano a confronto tra loro campioni di scrittura prelevati da scene del delitto diverse. Mise subito, una accanto all'altra, le fotografie dei quattro cartelli. C'erano solo due caratteri su ciascun cartello: un soprannome e un numero. E ciascuno diverso dall'altro. Il campione non era sufficiente per un confronto. E l'inchiostro? Forse sarebbe stato possibile stabilire se era stato usato sempre lo stesso. Ma che cosa ne avrebbe ricavato? Al massimo che l'assassino aveva potuto servirsi dello stesso inchiostro, così come si era servito della stessa arma del delitto. Ne sarebbero derivati più interrogativi che risposte. Tornò a pensare ai caratteri cinesi: se un grafologo fosse riuscito a stabilire che i cartelli erano stati scritti dalla stessa mano, che cosa poteva significare? Era una domanda cui non riusciva a rispondere. Si alzò dal letto spazientita e scoraggiata. Si guardò allo specchio dell'armadio e si stupì di vedere che era nuda. Non si era più rivestita dopo aver fatto la doccia. Fu la sua nudità a riportarle l'immagine di Michael insieme a quell'inquietudine fisica che spesso lui le comunicava. Si allontanò
dallo specchio e si rivestì con i jeans e la camicia bianca che aveva preparato sulla sedia. Cercò di concentrarsi su quei corpi insanguinati e senza testa. Sentiva di essere molto vicina a capire che cosa avrebbe potuto dare un senso a tutto ciò che c'era di diverso e di uguale in quei delitti. Era sul punto di darsi per vinta, quando, all'improvviso, capì, e la spiegazione le parve così ovvia che si chiese come mai non ci fosse arrivata prima. Estrasse dalla borsa l'agendina del telefono e cercò il numero della Prima Sezione. Esitò un momento, con il cuore in gola. Poi, prese il telefono e chiamò Pechino. Dopo tre lunghi suoni, molto staccati l'uno dall'altro, una telefonista le rispose in cinese. Lentamente, cercando di pronunciare il nome con chiarezza, Margaret disse: «Qing Li Yan». La risposta fu un farfugliare di parole incomprensibili. Tentò di nuovo. «Qing Li Yan.» Sentì un sospiro, un'altra gentile raffica di parole cinesi e molto, molto tempo dopo, una voce maschile. «Sì?» «Li Yian?» Dopo un momento di silenzio sentì la voce di Li: «Margaret?» e il suono del suo nome le diede un'emozione che non si aspettava. «Li Yan, ho pensato una cosa a proposito di chi ha ucciso Yuan Tao...» fece una pausa, aspettando la sua reazione. «Ebbene?» disse infine Li e questa volta l'impatto con la sua voce fu negativo. Li riusciva a mortificare una persona con una sola parola. «Tu hai detto,» riprese, «che nessuno, oltre all'assassino e agli agenti che conducono l'indagine poteva conoscere i particolari di come le vittime sono state uccise, vero?» Senza aspettare risposta, continuò: «Perché non supporre, allora, che l'assassino di Yuan Tao fosse un complice o almeno un testimone degli altri delitti? Così si spiegherebbe la sua conoscenza del modus operandi. E, se fosse stato mancino, si capirebbe anche l'unica differenza rispetto al procedimento seguito nei delitti precedenti». Dopo un lungo silenzio, Li si limitò a concludere: «Bene, grazie per questa tua riflessione. Inserirò un appunto nel fascicolo». Margaret era furibonda. «È tutto quello che hai da dirmi?» «Com'è Xi'an?» le chiese, e poiché lei non riusciva a rispondere, aggiunse: «Tu e Zimmerman siete ancora solo buoni amici?». «Non ti riguarda!» gridò Margaret e riagganciò il telefono. Con un gesto rabbioso buttò a terra i fascicoli e le fotografie che erano sul letto. Ma perché se la prendeva tanto? A Li non importava niente di lei. Non voleva che
si occupasse dell'indagine. Era un maschio cinese sciovinista e xenofobo. Si accorse che stava piangendo, cosa che la riempì di rabbia verso se stessa. Perché sprecava il suo tempo con quell'uomo? Sentì bussare alla porta e si asciugò in fretta le lacrime. «Sì?» «Sono io, Michael.» Margaret sbatté le palpebre, si ravviò i capelli davanti allo specchio e andò ad aprire. Il sorriso di Michael era caldo, aperto, affettuoso. Dopo la telefonata con Li desiderava solo che Michael la tenesse stretta tra le sue braccia. Invece si limitò a dire: «Come va? Entra, sono quasi pronta». Michael entrò e lei si accorse, imbarazzata, che guardava le fotografie e i fascicoli sparsi per terra. «Mi sono caduti, adesso li raccolgo» disse. «Aspetta, ti aiuto.» Michael si piegò appoggiando un ginocchio sul pavimento e si mise a raccogliere i fascicoli. «No, no, grazie, lascia stare» protestò Margaret, ma era troppo tardi. Michael stava già guardando la fotografia di un cadavere con la testa staccata dal tronco. «Oddio!» Distolse il viso, disgustato. Lei gli tolse di mano la fotografia. «Non dovresti guardare queste cose» disse Margaret. «Gli uomini di solito trovano che faccio un lavoro ripugnante.» Michael si alzò in piedi, era pallido, visibilmente turbato. «Cercherò di non pensarci, ma è stato un colpo vedere una persona che conoscevo con la testa tagliata.» «Una persona che conoscevi?» Margaret guardò la fotografia. Era quella di Yue Shi. «Ma certo! Yue Shi era professore di archeologia all'università di Pechino.» «È stato atroce venire a sapere quello che gli era successo» disse Michael. «Ma non avrei mai creduto di doverlo anche vedere.» Margaret era dispiaciuta. «Lo conoscevi bene?» «Non era un amico che frequentavo abitualmente, ma ci eravamo visti spesso mentre cercavo di documentarmi per la serie televisiva su Hu Bo. Yue era stato uno dei suoi allievi prediletti e gli aveva fatto da assistente durante gli scavi più importanti. Lo conosceva meglio di chiunque altro. È stato prezioso nel darmi un'immagine di Hu Bo come uomo, non solo come archeologo.» Margaret gettò i fascicoli sul letto. «Scusami» disse. Gli mise le braccia intorno alla vita e si alzò sulla punta dei piedi per baciarlo sulle labbra. «Niente deve rovinare la nostra serata.» Michael la rassicurò con un pallido sorriso. «Non preoccuparti: niente la
rovinerà.» Abbracciandola e restituendole il bacio disse: «Ora vorrei bere qualcosa, poi ti farò vedere Xi'an e andremo a cena». «E poi...» «Non lo so, Margaret, stiamo a vedere.» Margaret si sentì delusa, infelice e maledisse Li e la sua indagine. Qualunque cosa lei facesse, qualunque strada imboccasse, Li riusciva sempre a rovinarle tutto. Adesso, per colpa sua, si era creata una barriera tra lei e Michael, che si era trovato di fronte a tutta la crudezza del suo lavoro e all'immagine dell'atroce morte di un amico. Era come se Li avesse fatto di tutto perché il suo rapporto con Michael rimanesse come lei gliel'aveva descritto: platonico. Quando uscirono dall'Ana Chengbao Hotel, Margaret notò con stupore che quello che di giorno le era apparso un agglomerato urbano indistinto e polveroso si era trasformato in una città notturna piena di luce e di vita. Le mura merlate e la maestosa porta che si apriva proprio di fronte a loro, presentavano un profilo sottolineato da luci al neon gialle, come se qualcuno ne avesse segnato il contorno con un evidenziatore fosforescente sullo sfondo del cielo stellato. Lampadine multicolori splendevano sull'elegante tetto a pagoda dell'antico portale e sulle torrette di avvistamento che brillavano nell'oscurità. «Un po' disneyano, non trovi?» commentò Michael sorridendo. «Vieni.» La prese per mano e fece cenno a un taxi di fermarsi. L'auto seguì il percorso lungo il grande fossato che circondava la città, separato dalle mura da un parco pieno di vialetti silenziosi e di padiglioni tranquilli. I marciapiedi fuori dalle mura, sgombri durante il giorno, di notte si trasformavano in una distesa infinita di tavolini, sotto gli alberi illuminati da lampadine rosse. Famiglie e gruppi di amici mangiavano nell'aria profumata della sera autunnale. «È il popolo della notte» disse Michael. «Quando cala il sole, la città si anima.» «Dove andiamo?» chiese Margaret. «Al quartiere musulmano. È un'esperienza da non perdere. Conosco un piccolo ristorante dove fanno la vera cucina islamica.» «Musulmani? In Cina?» si stupì Margaret. «Pensavo che non ci fosse spazio per la religione.» «Hai ascoltato troppo la propaganda americana anticinese che parla di un paese senza Dio. In realtà, negli ultimi vent'anni, tutti sono stati di nuo-
vo liberi di adorare il Dio che preferivano. Però, dopo la Rivoluzione culturale è comprensibile che sia passato un po' di tempo prima che la gente tornasse ad aprirsi al concetto di divinità.» «Ma la religione non rappresenta una minaccia per il comunismo?» chiese Margaret. «Voglio dire, il comunismo si coniuga con l'ateismo, o no?» «La verità, Margaret,» rispose Michael «è che qui il comunismo è una specie di religione di Stato. Ha circa cinquanta milioni di adepti, anche se il numero può salire o scendere, quando i corrotti vengono depurati e condannati a morte e un nuovo gruppo di giovani tecnocrati urbani prende il loro posto. Ma, vedi, il "verbo" di Mao o anche di Deng Xiaoping non è più quello di un tempo. Oggi il Partito è come un grande club. La gente s'iscrive non perché ha visto la "luce", ma per le stesse ragioni per cui un uomo d'affari di Chicago s'iscrive al Rotary. Per avere contatti, legami utili. Per avere successo nella vita.» Margaret guardava Michael che parlava con passione, lo sguardo acceso dall'entusiasmo. Gli piaceva trasmettere agli altri le cose che sapeva. Era comprensibile che avesse tanto successo alla televisione, indipendentemente dall'argomento di cui parlava. Due whisky prima di uscire lo avevano aiutato a riprendersi dall'impressione che gli avevano fatto le fotografie sparse sul pavimento della camera in albergo. Era rimasto profondamente scosso da una realtà che per Margaret era routine. Tuttavia, nonostante la consuetudine con gli aspetti più drammatici dell'esistenza, lei sapeva di non essere insensibile agli schiaffi che la vita le aveva dato in pieno viso: un marito che l'aveva tradita ed era morto lasciandole in eredità tutte le colpe che aveva commesso; un amante appartenente a una cultura estranea che non l'avrebbe mai incondizionatamente accolta nella propria vita, né si sarebbe mai adattato a farsi accogliere nella sua. Si chiese se Michael fosse diverso. La spaventava il pensiero di cedere al richiamo dei sensi, non voleva soffrire ancora. Con lui, però, si sentiva tranquilla. Sicura. C'era qualcosa di meravigliosamente rassicurante nel modo in cui le stringeva le mani tra le sue. Era stata per tanti anni una donna indipendente, una professionista in carriera e ora si sentiva irresistibilmente attratta dall'idea di affidarsi a qualcun altro. Il taxi si diresse verso est, passando attraverso la porta occidentale lungo la Xi Dajie e fu superato da una motocicletta con un'intera famiglia: il bambino piccolo stava davanti, in piedi tra il padre e il manubrio, la sorel-
lina un po' più grande era invece stretta tra il padre e la madre su un unico sellino. In quattro su una motocicletta! Margaret era così stupita che le ci vollero alcuni minuti prima di rendersi conto che la vera anomalia era vedere una famiglia di quattro persone in un paese la cui struttura sociale era stata modificata dalla politica del figlio unico. Davanti a loro si innalzava un enorme edificio illuminato contro il cielo notturno. «È la torre campanaria» spiegò Michael, poi disse qualche parola all'autista che si fermò ai margini di una grande piazza, dove prati ben tenuti erano attraversati da sentieri lastricati. Una rampa di scale scendeva a un centro commerciale sotterraneo, sfavillante di luci. Mentre Michael pagava il tassista, Margaret cominciò a guardarsi intorno. Dall'altra parte della piazza c'era un ristorante, costruito nello stile tradizionale cinese. La piazza era affollata di famiglie a passeggio, di bambini riuniti intorno a un piccolo autoscontro costruito su una pista di cemento, di persone sedute su un muricciolo vicino a un laghetto e intente a leggere un giornale o un libro alla luce di una fontana illuminata. Una donna cercò di vendere a Margaret e Michael un gigantesco bruco di carta attaccato a un filo. Michael, sorridendo, rifiutò l'offerta. Mentre attraversavano la piazza, molti li guardarono incuriositi e qualcuno li salutò in inglese, con uno strano accento. Passarono sotto un'altra torre e poi imboccarono un vicoletto fiancheggiato da bancarelle di cianfrusaglie per turisti. Dall'altra parte del vicolo, a sinistra, spiegò Michael, c'era la Grande Moschea. Religione e commercio, a quanto pareva, potevano convivere. Nel tentativo di superare il fuoco incrociato dei venditori che cercavano di vendergli di tutto, dalle teiere alle spade ornamentali, Michael scambiò con loro qualche parola, suscitando una stupita ammirazione per il suo cinese. Alla fine, riuscirono a districarsi dalla folla, oltrepassarono la moschea ed entrarono in un hutong polveroso e dissestato, relativamente silenzioso. «Dev'essere bello saper parlare il cinese bene come te» disse Margaret. «Ti apre le porte di una cultura che pochi riescono a capire veramente.» Michael non parve del tutto convinto. «Può essere un'arma a doppio taglio» obiettò. «La Cina una volta mi è stata descritta come una cipolla, fatta di tanti strati, uno sull'altro. Di solito non si va oltre i primi due o tre strati. La gente, i luoghi, un po' di storia, un po' di cultura generale. Ma per arrivare al cuore della cipolla, al significato profondo della Cina, bisogna superarne ancora parecchi. È fuori dalla nostra portata, è quasi irraggiungi-
bile.» Michael si fermò un momento a pensare. «Quando ho cominciato a studiare il cinese,» proseguì «la gente, qui, è stata molto gratificante. I cinesi apprezzano molto se sei in grado di pronunciare una frase di cortesia, di dare correttamente un indirizzo, oppure di ordinare un pranzo in cinese mandarino. Ma dopo un po' di tempo, quando la tua padronanza della lingua è tale da consentirti di parlare di politica e di filosofia, ecco che si fanno più cauti. L'ammirazione finisce, perché ci si è avvicinati troppo all'anima della Cina, al significato profondo di ciò che è cinese e i diavoli stranieri, come te e me, devono tenersene lontani.» «Oh,» esclamò Margaret «ho sempre creduto che i cinesi fossero molto ospitali!» «E lo sono, infatti» confermò Michael. «A me piacciono molto, sono cordiali, affettuosi e straordinariamente leali. Basta non oltrepassare certi limiti, se non si è uno di loro.» Margaret pensò che forse per questo il suo legame con Li era destinato a fallire. Perché lei non era cinese e non poteva sperare di riuscire a capirlo fino in fondo. Giunti alla fine dell'hutong, si ritrovarono ai limiti del quartiere musulmano. Passarono sotto uno striscione teso da un capo all'altro della strada e si inoltrarono in una via dove le vetrine dei negozi e le bancarelle che vendevano generi alimentari erano illuminate. I tavoli con le lampadine rosse che Margaret ora aveva imparato a riconoscere formavano una macchia indistinta di luci e di persone. Mentre si avvicinavano a quel brulichio di avventori e di cuochi, passarono accanto a un carretto dov'erano ammucchiati fegati di bue coperti di mosche e a un altro, appena più avanti, carico di interiora maleodoranti. Altri odori si levarono ad accoglierli nell'aria calda della notte. Il puzzo di una fogna a cielo aperto, il tanfo di animali morti, l'acre odore delle pelli non conciate. Poi, a mano a mano che si inoltravano verso il cuore del quartiere, le sensazioni olfattive si fecero più gradevoli. Spezie indiane. Cumino, coriandolo, garam masalah. Cibi cotti. Agnello speziato e pollo arrosto. Nei bracieri, la carbonella scintillava, fumava e riempiva l'aria del profumo accattivante della carne alla griglia. Castagne aromatizzate e fagioli neri venivano arrostiti insieme in grandi padelle, pentoloni di semi di sesamo venivano portati ad alte temperature sulla fiamma per separare l'olio dal tahini. Dappertutto c'erano negozi di barbieri, empori di sementi, bancarelle di
dolciumi, chioschi di ferramenta. Un ragazzo arrotolava spaghetti su un banco allestito sul marciapiede, mentre una donna, dietro di lui, lavava i piatti in un grande acquaio di pietra. In una macelleria, i commessi, che indossavano una giacca di tela bianca, calavano enormi mannaie sulle carcasse degli animali, mentre un ragazzo ne raccoglieva i pezzi e li buttava dentro un furgone con il portellone posteriore aperto. Passarono davanti a bancarelle che vendevano cosce di pollo cotte al barbecue, frutta candita e noci. Alcuni vecchi, con i caratteristici copricapo bianchi e rotondi, stavano mangiando seduti intorno ai tavolini. Guardarono con curiosità Margaret e Michael, che passavano tenendosi per mano. Quello non era un itinerario turistico, si vedevano pochi visi con la pelle bianca. I bambini, aggrappati alla mano della mamma, azzardavano saluti e perfino piccole frasi di benvenuto, desiderosi di mettere in pratica l'inglese imparato a scuola. «Allora, che te ne pare di questa esperienza?» disse Michael. «Vedi, Michael, il tuo difetto è che non mi concedi mai un attimo di noia!» rispose Margaret, senza stancarsi di guardare tutto ciò che aveva intorno. «Seguimi!» la esortò Michael, portandola dentro un piccolo locale stretto e alto, aperto sulla strada. Lampadine pendenti dai fili appesi al soffitto riversavano una luce cruda sulle piastrelle bianche e solcate da crepe che rivestivano il pavimento e le pareti. C'erano vari tavolini pieghevoli, con il piano di resina, e tutt'intorno bassi sgabelli di legno. Una scala di pietra, senza ringhiera, sembrava non portare da nessuna parte. «Perché siamo venuti qui?» chiese Margaret, un po' allarmata. «Per mangiare.» «Stai scherzando?» disse lei, ricordando l'immagine delle interiora ricoperte di mosche. «Fidati» la rassicurò Michael, sorridendo. «I musulmani sanno preparare piatti di carne squisiti.» «Sì, me lo immagino!» disse Margaret, ripensando al ragazzo che gettava i pezzi di carne nel furgone. «Sempre che non si presenti un ispettore dell'ufficio d'igiene.» Michael si divertiva nel vederla così schizzinosa. «Stai tranquilla,» disse «io ho mangiato qui molto spesso e, come vedi, sono ancora vivo.» Si mise a sedere su uno sgabello e lei, lo imitò senza entusiasmo. Uno sciame di ragazze in bianco e rosa svolazzò goffamente intorno al loro tavolo deposi-
tandovi due ciotole di salsa di soia una al naturale e l'altra mista a peperoncino nelle quali intingere le pietanze. Non riuscivano a staccare gli occhi da Margaret. Una di loro bisbigliò qualche parola a Michael, il quale sorrise e disse a Margaret: «Chiedono se possono toccarti i capelli». «Sì... certo» rispose un po' irritata e le ragazze, timidamente, sfiorarono i suoi riccioli biondi e morbidi ritraendo subito le mani, come se avessero paura di scottarsi. Risero, eccitate, bisbigliando qualcosa a Michael. «Che vogliono ancora?» chiese Margaret, infastidita perché non capiva. «Volevano sapere se sono un attore.» «Ecco dove ti ho già visto!» esclamò Margaret. «Nel film, Il mostro della Laguna Nera. Non è che alla fine diventa scocciante essere tanto belli?» «Chiedono anche se vuoi un po' di zampe di gallina.» «No, grazie, mi bastano quelle che ho già.» Michael sospirò paziente. «Da mangiare, s'intende.» «E perché mai dovrei mangiare zampe di gallina?» «Secondo le donne cinesi fanno bene alla pelle. Ringiovaniscono.» «Ah, sì? Chiedigli quanti anni credono che abbia.» Michael rivolse la domanda alle ragazze che si misero a scrutare attentamente Margaret, discussero animatamente tra di loro e infine emisero il verdetto. «Ventidue» tradusse per lei Michael. Margaret scoppiò a ridere. «E invece ne ho trentuno. E se vogliono sapere perché sembro più giovane, spiega loro che il segreto sono gli hamburger di McDonald's. Centoventicinque grammi di carne, più ketchup e patate fritte.» Le ragazze portarono prima due ciotole fumanti con spaghetti e pezzetti di pollo ai funghi. Poi fu la volta degli involtini fritti ripieni di maiale, cipolline, germogli di fagioli e coriandolo. Margaret dovette ingaggiare una lotta con i bastoncini, ma lo fece volentieri perché quel cibo speziato immerso nella soia e nel peperoncino le piaceva moltissimo. «Che cosa vuoi bere?» le chiese Michael. «Qualcosa di fresco. Magari una birra.» «Mi dispiace. Niente alcol nel quartiere musulmano.» «È vero, avrei dovuto saperlo. Allora una Coca-Cola.» Michael riferì l'ordinazione e una delle ragazze corse dall'altra parte della strada, confabulò con una vecchia che aveva una cesta di bottiglie di plastica sul portapacchi della bicicletta e tornò con le bevande. Arrivò l'agnello sia cotto alla brace su lunghi spiedi di ferro, sia marina-
to nella salsa al peperoncino. Margaret guardò Michael sfilare i bocconi di carne dallo spiedo e prenderli dal piatto con i bastoncini. Lui si accorse di essere osservato e le chiese: «Ti diverti?». «Sì.» Le sarebbe piaciuto stargli ancora più vicina e farsi raccontare tante cose, su di lui, sulla sua vita, sui suoi sogni, ammesso che ne avesse. «Non mi avevi promesso di parlarmi di quello che hanno trovato nelle bare, al mausoleo di Ding Ling?» «Ti interessa davvero?» «Sì, mi hai detto che la distruzione delle bare non fu il disastro peggiore.» Michael allungò un braccio attraverso il tavolo per prenderle una mano, e Margaret ritrovò nel suo sguardo quella luce intensa che si accendeva quando parlava di archeologia. «Nelle bare hanno trovato le cose più belle del mondo, Margaret. Meravigliosi vasi Ming, testi buddisti e decine di pezzi di giada, cui i cinesi antichi attribuivano il potere di impedire la decomposizione dei cadaveri. E poi una serie di stupende sete e coperte ricamate a mano. Nella bara di una delle imperatrici è stato rinvenuto un giacchino il cui ricamo rappresentava minuziosamente centinaia di bambini intenti ai loro giochi. Nella bara dell'altra imperatrice, il ricamo sulla veste funebre era una composizione di draghi, pipistrelli e svastiche. Gli abiti erano in condizioni perfette.» «Svastiche?» chiese Margaret stupita. «Nazisti anche nell'Oriente antico?» «No, fu Hitler a prendere in prestito un antico carattere cinese, che simboleggia la lunga vita. Ma riuscì perfino a riprodurlo sbagliato.» Michael tacque per un momento, poi riprese. «Tutti quei ricami meravigliosi, le coperte, i vestiti, i broccati erano rimasti per centinaia di anni a una temperatura costante e mai esposti all'aria. Nessuno sapeva quali sarebbero state le conseguenze del contatto con l'ossigeno e con diversi livelli di umidità. Hu Bo e gli altri erano ancora dei pionieri. Non conoscevano le tecniche per conservare materiali tanto preziosi.» «E allora?» «E allora ci si è messa di mezzo la politica. Nel 1958 il governo ha ordinato l'interruzione degli scavi che, per sei mesi, sono rimasti fermi. I broccati che, nel tentativo di conservarli, erano stati messi sotto lastre di plexiglas, si sono induriti, rinsecchiti e sbiaditi. I meravigliosi ricami si sono trasformati in grandi macchie nere che hanno cominciato a deteriorarsi. Hu Bo e il suo maestro, Xia Nai, che erano stati convocati a Pechino per par-
tecipare a una manifestazione politica, quando hanno capito che cosa stava succedendo sono tornati sugli scavi e hanno scoperto che il magazzino dove erano custoditi i loro tesori puzzava di muffa. Quando hanno preso in mano i tessuti, gli si sono sbriciolati tra le dita. Persi per sempre. Ora rimane solo qualche schizzo e qualche fotografia scattata al momento dell'apertura delle bare.» «Gli si sarà spezzato il cuore.» «Sì, ma il peggio doveva ancora venire.» «Oddio!» sospirò Margaret. «Non hai qualche storia a lieto fine?» «No. Esiste forse il lieto fine, nella vita? Ci possono essere percorsi felici, più o meno sereni, ma il viaggio si conclude sempre con la morte. Nessuno più di te dovrebbe saperlo!» Margaret pensò a suo marito, alle vittime decapitate di cui aveva guardato le foto poco prima, alla fila di cadaveri che, come su un nastro trasportatore, erano passati davanti a lei sul tavolo dell'autopsia. Michael aveva ragione, ma quel pensiero era davvero molto deprimente. «Nessuno di noi intraprenderebbe mai il viaggio, se pensassimo troppo a come è destinato a concludersi.» «Per questo sono stati inventati gli dei.» «Sei ateo?» «No.» «Allora credi in Dio?» «Non lo so. Credo nello spirito indomabile dell'uomo, nella sua volontà di sopravvivere, nella sua capacità di creare e nella sua naturale propensione a distruggere.» Michael sorrise. «Stiamo facendo discorsi troppo seri.» «Perché hai detto che per il povero Hu Bo il peggio doveva ancora venire?» «Povero, vecchio Hu Bo! Aveva appena ottenuto il permesso di riprendere i lavori quando un importante membro del governo si è recato, con la moglie e il tiglio, a visitare gli scavi. Disgrazia ha voluto che, proprio in quel momento, Hu e altri stessero spargendo dappertutto una miscela di alcol e formalina per evitare che si formasse altra muffa. La moglie del funzionario ha cominciato a tossire e a lacrimare e il ragazzo ha accusato Hu di aver tentato di avvelenarli. In meno di una settimana, il poveretto è stato accusato di diffondere gas tossici e di godere di privilegi immeritati. Si è scoperto, inoltre, che da ragazzo aveva fatto parte della lega giovanile del Kuomintang, il partito di Chiang Kai-shek e così l'hanno spedito in campagna per la "rieducazione".»
«Che ne è stato della tomba che stava scavando?» «È diventata un museo, anche se quel che ne è rimasto dopo la Rivoluzione culturale è ben poco.» «Per amor di Dio, Michael, che altro è successo?» «Il museo è stato preso d'assalto dalle Guardie Rosse, che hanno trascinato fuori i resti dell'imperatore e delle imperatrici portandoli sullo spiazzo davanti al padiglione con la stele funeraria, li hanno distrutti, vi hanno ammucchiato sopra tutto quello che sono riusciti a trovare e hanno appiccato il fuoco. Domani abbiamo in programma il filmato della ricostruzione di questa scena. Dovresti venire.» «Sì, mi piacerebbe molto.» Margaret si accorse che Michael le teneva ancora la mano. «Tutto sarebbe andato distrutto se non fosse stato per il coraggio dei custodi del museo. Li Yajuan era solo una casalinga, madre di quattro bambini, eppure ha sfidato le Guardie Rosse e si è rifiutata di consegnare i reperti custoditi nel magazzino. L'hanno picchiata e presa a calci fino a farla sanguinare, ma lei è riuscita a chiudersi dentro a chiave insieme a ciò che si era salvato dalla furia distruttrice e ha vissuto lì quasi tre anni. Ecco, io credo nelle persone come lei. È questo ciò che io definisco "spirito indomabile".» Margaret, molto toccata dal racconto, gli strinse la mano. Michael, commosso a sua volta, disse trattenendo le lacrime: «Scusa, sono uno stupido. Sarà meglio che ce ne andiamo». Uscirono dal quartiere musulmano e si diressero verso la Nan Dajie. I negozi erano ancora aperti e la via affollata. Un Kentucky Fried Chicken era incuneato tra un supermercato e un grande magazzino. Michael mise un braccio intorno alle spalle di Margaret e la strinse a sé. Poi entrarono nel fast food, si sedettero a un tavolino vicino alla vetrina e ordinarono due gelati. «Come è iniziato il tuo lavoro alla televisione?» chiese Margaret. «Per caso. Non rientrava assolutamente nei miei progetti.» Michael giocherellava con il cucchiaino di plastica, spingendo verso i bordi del bicchiere l'insipido gelato rosa. «Avevo preparato un video per un esame, quando ero all'università. Un amico lo ha mostrato a un tale che aveva avuto qualche soldo da una piccola emittente per realizzare un documentario di argomento archeologico. Hanno offerto a me di farlo e, non chiedermi perché, ha avuto successo, al punto che lo hanno venduto in giro per gli Stati Uniti. Sono usciti alcuni articoli anche su "Cosmopolitan", come se
improvvisamente l'archeologia fosse diventata sexy. Gli indici di ascolto sono saliti e ho avuto un contratto con la NBC. Adesso di me sai quasi tutto, mentre io non so niente di te.» «Non vorrei deluderti.» «In realtà non vuoi dirmi niente.» «In fondo, è la stessa cosa.» «Non è giusto, Margaret.» «Può darsi, ma è così.» «Qualche volta gli animali si raggomitolano su se stessi quando hanno paura che gli si faccia del male. È così anche per te?» «Può darsi. Io non sono come te, Michael. Tu sei te stesso, franco, sincero, come se nessuno ti avesse mai fatto del male. Io, non appena mi lascio andare, trovo subito qualcuno che mi dà una coltellata. E rigira anche il coltello nella piaga.» «Ma io non ho coltelli.» «Lo spero bene». Una marea di bandiere bianche, rosa e verde pastello pendeva dalla balaustra in vetro del settimo piano affacciata sull'atrio marmoreo dell'Ana Chengbao Hotel. Vedendo le riproduzioni in bronzo, a grandezza naturale, di due guerrieri poste all'ingresso, subito al di là delle porte scorrevoli, Margaret ripensò a quanto l'avesse emozionata, quella mattina, togliere, con mano leggera, la polvere della storia dal volto di un antico condottiero. Era come se quell'episodio fosse già avvolto nella magia del passato. Salirono all'ultimo piano e si fermarono davanti alla porta della camera di Margaret. Mentre erano ritornati a piedi all'albergo avevano chiacchierato del più e del meno. Ora, quella conversazione leggera, inconsistente si era interrotta. Si scambiarono un "buonanotte" stentato, goffo. «Stiamo a vedere!» le aveva detto Michael, ancora sconvolto per aver visto la fotografia del suo amico morto decapitato. «Partiremo presto, domani mattina?» disse Margaret. «Sì, dobbiamo essere all'aeroporto alle sette.» «Spero di svegliarmi» aggiunse Margaret, ma sapeva che non avrebbe dormito. «Meglio che tu metta la sveglia.» «Non mi fido: non suona mai al momento giusto.» «Allora ti chiamerò io» disse Michael, ma non si mosse e Margaret capì che aspettava che lei aprisse la porta.
Entrarono. Lei si sentiva la bocca asciutta. Le tende erano aperte sulla portafinestra che dava sul balcone. Fuori si vedeva il profilo illuminato delle mura e della porta meridionale. Margaret fece per accendere la luce, ma Michael le trattenne la mano. Poi si chinò su di lei e la baciò. «Ti voglio, Margaret.» E, a poco a poco, lei sentì dileguarsi il ricordo di Li. CAPITOLO SETTIMO 1 Li, scalzo prese una bottiglietta di birra dal frigorifero e, immerso nella nebbia dello sconforto, si lasciò sprofondare in una poltrona del salotto. Aveva la camicia sbottonata, fuori dai pantaloni. Appoggiò una gamba sul bracciolo della poltrona e bevve un lungo sorso di birra, fresca e frizzante. La luce di un lampione, in strada, proiettava la sagoma della finestra sul pavimento. Non voleva accendere la luce per non vedere la giacchettina di Xinxin appoggiata su una sedia, ben sapendo che la generosità di Mei Yuan rappresentava solo una soluzione temporanea. Accese una sigaretta, appoggiò la testa sullo schienale e soffiò il fumo verso il soffitto. «Non ti riguarda» aveva detto Margaret al telefono. Ed era giusto. Non aveva il diritto di essere geloso, di soffrire e di farla soffrire. Perché l'aveva trattata in quel modo? Era chiaro che lei stava pensando all'indagine, a quell'intrico di prove contraddittorie, e l'aveva chiamato perché illuminata da un'intuizione nuova. Un'intuizione importante. Se l'assassino di Yuan Tao aveva agito per imitazione poteva darsi che avesse assistito ai primi tre delitti e che quindi sapesse esattamente come far sì che il quarto ricalcasse lo stesso schema. Un'ipotesi che rimetteva tutto in gioco. Chi era l'altro assassino? Nessuno dei quattro delitti aveva un movente chiaro. Le prime tre vittime avevano fatto parte delle Guardie Rosse, ma Yuan non era in Cina a quell'epoca e nemmeno nei trent'anni successivi. Li non era ancora convinto che il quarto delitto rientrasse nella categoria dei cosiddetti delitti per imitazione. L'agente Sang aveva ipotizzato che l'assassino, nell'eseguire il quarto delitto, si fosse messo di proposito nella posizione di un mancino per confondere gli investigatori. Poteva darsi che avesse ragione, anche se a Margaret questa ipotesi sembrava inverosimile. Scolò tutta la bottiglietta di birra e andò a prenderne un'altra. Cercò di pensare ad altro e così gli tornò in mente l'indovinello di Mei Yuan. Dov'e-
ra finito il trentesimo yuan? Li provò a ragionarci ancora per un po' mentre beveva un sorsata di birra. Che cosa gli aveva detto Mei Yuan quel pomeriggio? Che la risposta era davanti ai suoi occhi e che bastava vederla. Provò a ricominciare daccapo: ciascuno dei tre uomini aveva dato dieci yuan e ne aveva ricevuto uno di resto. Il che significava che ne avevano pagati nove per ciascuno e quindi, in totale, ventisette yuan. Li si girò e rigirò le cifre nella testa e infine capì: ma certo! Lo yuan che ciascun uomo aveva ricevuto indietro andava sottratto non dai trenta yuan iniziali, ma dai ventotto rimasti dopo che il fattorino se n'era tenuti due. E così, i tre uomini avevano pagato venticinque yuan, che sommati ai tre che erano stati loro restituiti facevano ventotto yuan. Più i due intascati dal fattorino, trenta. Mei Yuan aveva ragione. Lui aveva commesso l'errore di prendere per buono il conto presentato da lei, infilandosi così in un paradosso. Adesso, invece, tutto risultava perfettamente logico. A quel punto, fu folgorato da un pensiero che lo paralizzò. Non stava accadendo esattamente la stessa cosa con gli omicidi su cui lavorava? Tutte le prove raccolte suggerivano elementi che non quadravano tra loro, portandolo a fare supposizioni inconciliabili. E pensare che proprio il giorno prima si era ricordato che suo zio gli ripeteva sempre di non partire mai da semplici supposizioni e di non saltare subito alle conclusioni, ma di lasciare che fossero le prove a condurlo alla soluzione. Ciò nonostante, aveva continuato a sbagliare. Si accese una sigaretta e uscì sulla veranda in preda alla inquietudine. Una foglia ingiallita volò sul marciapiede di sotto. Che stupido era stato! A forza di pensare a Margaret, a Xiao Ling, a Xinxin aveva perso la concentrazione. Quali erano i dati importanti? Che cosa trascurava nel tentativo di far collimare le prove con lo schema che si era costruito? Un particolare minimo, insignificante. Ma quale? Cercò di mettere insieme i frammenti grandi e piccoli, dopo averli vagliati attentamente uno per uno. I cartelli, i soprannomi, i numeri, la spada di bronzo, la corda di seta. Che altro? L'appartamento preso in affitto illegalmente da Yuan Tao. Perché? Provò a ricostruire mentalmente quel luogo, così come lo aveva visto la notte in cui era stato scoperto il cadavere di Yuan Tao. Rivide la testa e il corpo, la pozza di sangue che colava nel buco nel pavimento. Si fermò. Il buco nel pavimento. Le assi sollevate. Un nascondiglio. Per metterci che cosa? Improvvisamente si ricordò della domanda fatta da Margaret durante
l'autopsia: "Il linoleum risultava sollevato o strappato?". Lui le aveva risposto strappato. Ma lei, perché l'aveva chiesto? Li ci rifletté: uno che avesse nascosto qualcosa sotto le assi del pavimento avrebbe fatto molta attenzione al linoleum che le ricopriva. Uno strappo era qualcosa che avrebbe attirato l'attenzione. Dunque, non era stato Yuan Tao ad aprire il proprio nascondiglio in quel modo rozzo. Era stato qualcun altro, che aveva frugato in quella casa senza preoccuparsi che si vedesse lo strappo nel linoleum. Qualcuno era a conoscenza del fatto che Yuan Tao aveva preso in affitto quell'appartamento. Che cosa cercava? E che cosa aveva trovato? Li ripercorse la sequenza dei suoi pensieri dall'inizio. Se l'assassino sapeva di quell'appartamento, allora doveva anche sapere che a Tao ne era stato assegnato un altro dall'ambasciata. Era andato a frugare anche in quello? Diede un tiro alla sigaretta e ripensò all'appartamento ufficiale, dietro il magazzino Friendship. Lui e Wu lo avevano controllato minuziosamente. La scientifica lo aveva rivoltato da cima a fondo. Non c'erano tracce visibili del fatto che qualcuno vi avesse frugato. Cercò di ricordarsi com'era il pavimento. Rivide una distesa di linoleum grigio, anonimo. Era quasi certo che fosse nelle stesse condizioni di quando era stato posato. Non c'erano strappi. Eppure in quell'alloggio c'era qualcos'altro, qualcosa di inafferrabile che si era annidato nella sua memoria. Cercò di ripetere mentalmente il percorso che aveva seguito con Wu. Il salotto con vecchi oggetti insignificanti, le fotografie dei genitori di Yuan, i libri... Il bagno, l'armadietto con il dentifricio, la schiuma da barba, un paio di saponette... E improvvisamente a Li tornò in mente che la schiuma da barba e le saponette erano ipoallergeniche, senza profumo. E, inoltre, non c'era né dopobarba, né deodorante. Eppure lui si ricordava di aver sentito, sospeso nell'aria, un leggero profumo esotico, come quello di certi dopobarba. L'aveva notato perché non gli era familiare. Quindi non apparteneva né a Wu né agli agenti della scientifica. Ma nemmeno a Yuan Tao che, a quanto pareva, non usava niente di profumato. Naturalmente poteva averlo lasciato qualcuno mandato dall'ambasciata, magari un loro agente addetto alla sicurezza. Agli americani piacciono i dopobarba. Ma quella non poteva essere una spiegazione sufficiente. Se qualcuno aveva frugato nell'appartamento messo a disposizione dall'ambasciata, aveva trovato quello che cercava? Bevve l'ultimo sorso di birra, si mise le scarpe e si abbottonò la camicia, infilandosela nei pantaloni, mentre si avviava alla porta. Non sarebbe rimasto un istante di più seduto in
poltrona a piangere su se stesso. Se Yuan Tao aveva un nascondiglio nell'appartamento affittato illegalmente, forse ne aveva uno anche in quello ufficiale. L'ipotesi poteva essere campata in aria, ma valeva la pena di verificarla. Guardò l'ora: mezzanotte meno un quarto. Non importava, c'era sempre una guardia all'ingresso dello stabile dove si trovavano gli appartamenti dell'ambasciata. 2 Li entrò nel cortile e alzò gli occhi verso le finestre dello stabile. Erano quasi tutte accese: i funzionari dell'ambasciata lavoravano fino a tardi e le loro famiglie passavano la serata a guardare la televisione. «Dove crede di andare?» La guardia sbucò dalla garitta dove stava fumando una sigaretta. Era giovane e arrogante. Schiacciò il mozzicone sotto il tacco della scarpa e si avvicinò. Non era la stessa guardia in servizio quando Li aveva eseguito il sopralluogo nell'appartamento. «A trovare un amico.» «Non può farlo, se io non le dò il permesso.» Li gli mostrò il distintivo. «Sono un funzionario della polizia municipale di Pechino. Lei si rivolge così agli stranieri?» «No, signore.» «Allora, se fossi uno straniero che viene a trovare un amico, che cosa farebbe?» «Controllerei chi è il suo amico e poi la farei passare.» «Ma il mio amico non deve venire a prendermi qui?» «La regola vale solo per i visitatori cinesi.» La guardia abbassò la testa, senza il coraggio di guardare Li negli occhi. Dunque, pensò Li, per un cinese era difficile entrare in quello stabile, mentre per un non cinese non lo era. «Ascoltami bene, ragazzo» disse Li. La guardia alzò la testa riluttante. «Non vali di più solo perché porti la divisa. Tratta gli altri come vuoi che gli altri trattino te.» Rimise via il distintivo ed entrò nello stabile. La porta dell'appartamento era sigillata da un nastro adesivo giallo con la scritta nera: «Luogo del delitto: vietato l'accesso». Li staccò il nastro e aprì la porta. Fu subito colpito dall'odore, che conosceva bene, di corpo umano e di cucina, ma non c'era traccia del profumo che aveva sentito la prima volta. Dunque, chi l'aveva lasciato era stato lì poco prima che lui vi
mettesse piede la prima volta. Un americano, probabilmente. La luce in anticamera non funzionava, cercò a tastoni nel buio un interruttore nella stanza centrale che faceva anche da salotto. Si accese un tubo al neon attaccato al soffitto e la stanza s'illuminò di una luce fredda. Il locale sembrava triste e vuoto. Un luogo malinconico dove un uomo passava ore e ore da solo, con i libri come unica compagnia. Perché mai era tornato in Cina? Che vita faceva? Di giorno in mezzo a documenti d'ufficio privi di interesse, di notte a casa, a leggere. Ma non era solo quella la sua vita. Ne doveva avere un'altra, una vita segreta. Perché aveva avuto bisogno di un altro appartamento? Secondo i vicini non ci andava quasi mai. Non riceveva visite perché, altrimenti, se ne sarebbero accorti. Ma qualcuno una visita gliel'aveva fatta. Era entrato di notte, quando nessuno avrebbe potuto vederlo. Li esaminò il linoleum nel salotto. Contro una parete c'era lo scaffale con i libri; lungo un'altra erano impilati giornali e riviste. Sollevare il linoleum sarebbe stato impossibile senza prima sgombrare la stanza quasi completamente. Non c'erano crepe né strappi visibili a occhio nudo. Li provò una certa delusione. Passò nella camera da letto, tolse coperte e lenzuola e controllò il materasso e la rete. Niente. Andò, poi, a esaminare l'armadio, tastandolo in ogni punto per vedere se ci fossero pannelli nascosti. Niente anche lì: era un mobile semplice, pratico e nient'altro. Sotto, il linoleum appariva intatto. Entrò, infine, nel bagno. Era troppo piccolo per nascondere qualcosa. Muri intonacati, pavimento di cemento, un unico mobiletto appeso alla parete. Svitò il tappo della vaschetta dello sciacquone vi guardò dentro: il galleggiante di plastica parve strizzargli l'occhio in mezzo all'acqua limpida. Allora, si chinò sullo scarico della doccia, ne tolse i capelli rimasti impigliati e cercò di aprirlo, ma non ci riuscì perché era fissato al pavimento. Si lavò le mani e tornò nel salotto. Controllò la poltrona, togliendone i cuscini, inclinandola di lato e tirando via la sottostante fodera di tela per mettere a nudo le molle e l'intelaiatura. Si guardò intorno avvilito. Rimanevano solo i libri. Si abbassò a terra e cominciò a toglierli dai ripiani, a gruppi di sei o otto per volta, ammucchiandoli sul pavimento. C'erano decine di testi di politica, libri sulla storia e lo sviluppo del Partito comunista in Cina, una traduzione delle opere di Marx, una serie di pubblicazioni sullo sviluppo democratico a Taiwan, un voluminoso tomo sui cambiamenti politici a Hong Kong dopo il ritorno alla sovranità cinese. C'era una storia del Kuomintang e dell'eredità di
Chiang Kai-shek e un libro sui servizi segreti cinesi, scritto da due giornalisti francesi. Un ripiano era dedicato quasi interamente agli scontri cruenti avvenuti in piazza Tien-An-Men, nel 1989: La lunga marcia verso il 4 giugno; Un grido di dolore per la democrazia; Voci dalla piazza Tien-AnMen; Morte a Pechino. Un altro ripiano, invece, era dedicato alla Rivoluzione culturale. Li prese un volume. Come la maggior parte degli altri, era in inglese: Storia della Rivoluzione culturale. Lo aprì e vide che era stato pubblicato in Cina verso la fine degli anni Ottanta, ma era uscito, tradotto, anche in America a metà degli anni Novanta. C'era un segnalibro infilato nelle ultime pagine e Li si chiese se Yuan stesse leggendo questo volume nei giorni che avevano preceduto la sua morte. Provò a sfogliarlo e il segnalibro cadde a terra. Non trovò niente di significativo tra le pagine del libro. Nel raccogliere il segnalibro si accorse che in realtà era un foglietto ingiallito e ripiegato due volte. Lo aprì. Si trattava di una lettera, scritta in fretta in caratteri cinesi e indirizzata a Yuan Tao presso l'università della California, a Berkeley. C'era anche l'indirizzo del mittente: Guang'anmen, nella zona sudoccidentale di Pechino. Li guardò in fondo alla pagina e lesse la firma: «il tuo affezionato cugino Yang Shouqian». Si sentiva la bocca secca mentre si sedeva in poltrona per leggere la lettera. Era datata 15 maggio 1995. «Caro cugino Tao, ho scritto al cugino Liu, a San Francisco, per avere il tuo indirizzo, ma mi ha risposto che, dopo la morte di suo padre, non aveva più avuto tue notizie. Era quasi certo, però, che insegnassi ancora a Berkeley, cosa di cui sono riuscito a trovare conferma su Internet. Così, ora ti scrivo questa lettera. Tu non sai, credo, che mia madre è morta sei settimane fa. Aveva quasi novant'anni. È vissuta bene e si è spenta serenamente. È stato solo la settimana scorsa che, rimettendo a posto le sue cose, ho trovato il diario che ti accludo. Insieme al diario c'era una lettera di tua madre, datata 1970, che ho tenuto io. Nella lettera chiedeva a sua sorella che il diario ti venisse consegnato. Riguarda gli anni successivi alla tua partenza per l'America. In un primo momento non ho capito perché mia madre non avesse provveduto subito a soddisfare la richiesta di sua sorella, finché non ho cominciato a leggere il diario. Mi scuso con te per averlo fatto, non era mia intenzione invadere la tua vita privata. Come vedrai, è stato scritto per darti
un resoconto di alcuni avvenimenti. Immagino che mia madre volesse proteggerti, lasciarti tranquillo, tuttavia ritengo che sarebbe stato suo dovere inviarti il diario. Può anche darsi che, a quell'epoca, abbia temuto che non ti sarebbe mai arrivato e che, successivamente, le sia sembrato meglio lasciare le cose come stavano. Ma ora tutto sembra molto lontano e personalmente ritengo che tu abbia il diritto di sapere quanto è successo. Eccoti, quindi, il diario. Ti prego di scrivermi e di darmi tue notizie. Ti sei sposato? Hai figli? Io ho una figlia che è già all'università. Se mai dovessi tornare a Pechino, mi piacerebbe molto riabbracciarti, dopo tanti anni. L'ultima volta che ci siamo visti tu eri un adolescente e io avevo solo pochi anni di più. I migliori auguri dal tuo affezionato cugino, Yang Shouqian» Li si accorse che gli tremavano le mani. Dunque, lì davanti, c'era la porta che conduceva alla verità e lui aveva tra le mani, se non proprio la chiave, perlomeno la prova della sua esistenza. Ma dov'era il diario che accompagnava la lettera? E, poi, com'era: grande, piccolo, nero, rosso, blu...? Appoggiò con cura la lettera sul tavolo e svuotò i ripiani, sfogliando tutti i libri e togliendo anche le sovracoperte da quelli rilegati, nel caso in cui il diario fosse stato nascosto all'interno di un volume. Esaminò con la stessa attenzione i libri e le riviste che erano sotto il davanzale della finestra. Non c'era niente che somigliasse a un diario. In piedi al centro della stanza, guardò, disperato, tutto quel disordine. Dove altro poteva cercare? Tornando al tavolo per riprendere la lettera, avvertì uno scricchiolio quasi impercettibile. Fece un passo indietro e premette il piede per terra, muovendolo appena appena. Niente. Si era sbagliato? Si sa che i pavimenti scricchiolano. Seguì con lo sguardo il bordo del linoleum tutt'intorno alla stanza. Se Yuan Tao avesse occultato il diario lì sotto, certo avrebbe fatto in modo che non fosse facile trovarlo. Li si sentì stimolato a perseverare nella ricerca. Impiegò venti minuti a spostare tutti i mobili e i libri su un lato della stanza per sollevare il linoleum, che era incollato lungo le pareti. Lo staccò e cominciò ad arrotolarlo. Sotto trovò uno strato di giornali vecchi di cui controllò le date: risalivano a sei mesi prima, proprio quando Yuan Tao aveva preso possesso dell'appartamento. Sollevò anche i giornali e cercò il punto in cui aveva sentito lo scricchiolìo. Individuò un'asse che era stata
sollevata nel punto di congiunzione con un'altra, segata per una trentina di centimetri e poi ricongiunta e inchiodata. Li non era in grado di dire se fosse stato Yuan a tagliarla oppure un operaio, per accedere a un tubo o a un cavo elettrico. In ogni caso, non aveva idea di come schiodarla. Trovò una piccola cassetta degli attrezzi nell'armadietto sotto il lavello della zona cucina; prese un cacciavite e lo infilò tra le assi, provando a far leva. Il legno si scheggiò, ma trenta centimetri di asse saltarono via, ricadendo un po' più in là, sul pavimento. Li si trovò davanti un buco nero. Si spostò di lato per vedere meglio e scorse qualcosa avvolto nella plastica. Estrasse dalla tasca un fazzoletto per prendere in mano l'oggetto: un libretto rosso impacchettato in plastica trasparente. Rimase per un momento in ginocchio come ipnotizzato con il respiro affannoso e un rivolo di sudore che gli scendeva sulla fronte. L'agente di turno alla Prima Sezione si stupì nel vedere Li Yan avanzare lungo il corridoio dell'ultimo piano. Guardò l'ora: erano le due di notte. Aveva appena riempito la borraccia di acqua calda e stava per farsi una tazza di tè verde. Seguì Li nella stanza degli investigatori, un paio dei quali erano ancora seduti alle loro scrivanie. «Capo», osservò l'agente di turno «è molto in anticipo o è molto in ritardo?» «Non voglio essere disturbato per nessuna ragione» si limitò a dire Li entrando nel suo ufficio e chiudendosi la porta alle spalle con un colpo secco. 3 17 luglio 1966. Un ragazzo, che ho riconosciuto come un tuo vecchio compagno di scuola, stamattina è venuto a casa nostra. Si chiama Tian Jingfu, è piccolo e grasso: se non sbaglio lo chiamavate Maialino. Anche tuo padre si ricorda di lui, perché era stato un suo allievo. Non molto bravo, pare. Comunque sia, ora porta una fascia rossa al braccio. È un hung wei ping, un attivista delle Guardie Rosse che propagandano gli insegnamenti del presidente Mao. Ci ha detto che tutti i maestri dovevano presentarsi alla sede della scuola superiore. Tuo padre non ci andava da quando erano finite le lezioni, in giugno. Non so perché abbiano mandato Tian Jingfu, che ormai non frequenta più la scuola.
Quando tuo padre è tornato a casa, mi ha raccontato che dappertutto erano stati affissi dazebao, nei quali si esortavano gli studenti a mettersi contro i loro insegnanti e che, quando lui era arrivato la con i suoi colleghi, i ragazzi, che stavano scrivendo slogan, avevano smesso per paura di essere puniti, ma poi si erano resi conto che i maestri non contavano più niente e avevano cominciato a insultarli, chiamandoli "reazionari" e "controrivoluzionari". C'erano molti dazebao che parlavano di tuo padre. Tu probabilmente non ti ricordi che nel 1958 è stato denunciato come reazionario e mandato a lavorare i campi per sei mesi. Noi credevamo che fosse tutto passato. Lo abbiamo creduto fino a oggi. C'è stata una riunione nel cortile e un quadro del Partito si è rivolto a tutti, dicendo che ora il dovere di ogni studente e di ogni insegnante era quello di partecipare alla campagna contro i "quattro vecchi": le vecchie idee, le vecchie abitudini, i vecchi costumi, la vecchia cultura. I peggiori rappresentanti dei "quattro vecchi" erano le persone che si avvalevano della loro autorità per imboccare la strada del capitalismo. Poi ha mandato tutti a casa. Tuo padre ritiene di non aver nulla da temere perché è già stato punito come reazionario e può sostenere di essere stato rieducato grazie al lavoro contadino. Lui è sempre ottimista, io no. Mi consola soltanto il pensiero che tu non sia coinvolto in tutto questo. Sei lontano, ma almeno posso comunicare con te attraverso questo diario. Cercherò di tenerlo sempre aggiornato perché tu possa avere una testimonianza della vita della tua famiglia, come un album di fotografie. Ma ho paura, Tao. Non tanto per me, quanto per tuo padre. Li, senza sfilarsi i guanti che aveva indossato per non lasciare impronte, si strofinò gli occhi, irritati dal riflesso della luce sulle pagine bianche. Si appoggiò allo schienale della sedia, accese una sigaretta e soffiò il fumo nel buio, oltre il cerchio di luce. Poi riprese a sfogliare il diario, adagio, attento a non cancellare eventuali indizi. Era una lettura deprimente, che lo riportava alla sua infanzia e alle esperienze condivise da milioni di cinesi. Quella prima pagina era datata 1966. Si era solo all'inizio. Non si mise a leggere in modo sistematico, ma soltanto qua e là. Il destino dei genitori di Yuan Tao appariva di giorno in giorno più straziante. 15 settembre 1966. Tuo padre e io, oggi, abbiamo visto dalla finestra il signor Cai, che abi-
ta sul nostro stesso pianerottolo, aggredito in strada dalle Guardie Rosse. Gli hanno tolto le scarpe, lo hanno fatto accovacciare su uno sgabello e gli hanno rasato i capelli. Non so perché. Si ha sempre di più l'impressione che possano fare quello che vogliono, con un pretesto qualsiasi. Tuo padre non è potuto andare a scuola per quasi due settimane. Adesso gli attacchi di angina sono meno frequenti. Ha imparato che, quando li sente venire, deve stare seduto, tranquillo, ad aspettare che il dolore passi. Mi sembra mostruoso, se ci penso, ma sono contenta che sia malato, perché così può restare a casa. Ogni volta che va a scuola, temo per la sua vita. 21 ottobre 1966. Oggi sono venuti a casa. Erano in sei. Tutti ex alunni di tuo padre. Cercavano "materiale nero", così hanno detto. Chiamano così qualsiasi cosa ritengano contraria al Partito comunista. Il capo è un ragazzo che abita nella nostra strada, si chiama Ge Yan. Credo che tu lo conosca. È quello che tiene tutti quegli uccelli in cortile. È strano pensare che uno che ama creature così delicate possa essere un violento carico di odio. Si è messo a urlare con me, quando mi sono rifiutata di fargli incontrare tuo padre. Era tutto rosso in faccia, gli pulsavano le vene sulle tempie. Mi sono spaventata, ma tuo padre non era stato bene e in quel momento era a letto. Sentendo quelle urla, si e alzato ed è venuto, in vestaglia, a vedere che cosa stesse succedendo. Ha chiesto a quei ragazzi che cosa volessero e si è arrabbiato con loro perché mi avevano trattata male. Mi è parso che fossero presi alla sprovvista e non sapessero che cosa fare. Era stato il loro maestro e forse metteva loro ancora un po' di soggezione. La più vecchia era una ragazza chiamata Pezzente. Ha detto a tuo padre che, come insegnante d'inglese, aveva dato prova di amare gli stranieri e gli stranieri erano contrari alla Grande Rivoluzione culturale del proletariato. Perciò doveva rinunciare a tutto il "materiale nero" che aveva in casa. Credo che, in realtà, non sapessero esattamente che cosa fosse questo "materiale nero", ma tuo padre si è comportato in modo molto intelligente. Ha risposto che avrebbe consegnato ciò che di "nero" potevano trovare, perché voleva fare tutto quanto fosse in suo potere per aiutare la causa della rivoluzione. È andato in salotto, ha preso tutte le vecchie riviste inglesi e americane che collezionava da anni e gliele ha consegnate, dicendo che senza dubbio erano "nere", perché erano scritte in inglese. Il ragazzo che chiamavano Zero, ma tuo padre si ricordava che il suo
vero nome era Bai Qiyu, si è portato via la tua bicicletta. Ha detto che avevi tradito la rivoluzione andando a studiare all'estero e che la tua bicicletta doveva essere confiscata. Ho cercato di impedirglielo, ma è stato impossibile. Tuo padre mi ha ordinato di lasciarli fare. Quando siamo rimasti soli, gli ho chiesto se non gli si era spezzato il cuore a dover rinunciare alla sua raccolta di riviste, ma lui mi ha risposto che erano solo carta e inchiostro e che carne e sangue valevano di più. Mi dispiace tanto per la tua bicicletta. 2 febbraio 1967. Tao, ti ricordi della signora Gu, della mia amica Gu Yi, la maestra d'asilo? È morta. Aveva perso il marito e, trascorso il periodo di lutto, aveva cercato di risposarsi perché era madre di due bambini e all'asilo la pagavano poco. Si vestiva bene, si truccava per sembrare più carina e attirare un marito, invece ha attirato la furia degli hung wei ping. La settimana scorsa sono venuti da lei in processione, con tamburi, gong e striscioni rossi. Le hanno attaccato un dazebao sulla porta dov'era scritto che era una puttana capitalista. L'hanno trascinata in strada, l'hanno costretta a confessare e a promettere che si sarebbe ravveduta. Le hanno appeso al collo due scarpe rotte, in segno di immoralità, le hanno fatto lavare la faccia in pubblico e togliersi il suo borghese vestito "nero". Ieri notte si è impiccata. 15 aprile 1967. Le condizioni di salute di tuo padre continuano a peggiorare. Ha passato vari giorni a letto. Nonostante tutto, sono contenta che rimanga a casa, invece di andare a scuola. Si raccontano storte atroci. Il tuo vecchio preside e alcuni tra gli insegnanti con la maggiore anzianità di servizio sono stati messi a sbrigare lavori manuali, controllati dalle Guardie Rosse della Brigata della rivoluzione permanente che sono tutti ex alunni della scuola. Abbiamo saputo che il preside Jiang e altri sono stati costretti a demolire il vecchio portale della scuola, così bello, con martelli da fabbro che sono stati forniti loro dagli operai di un cantiere. Poi hanno dovuto marciare intorno al cortile con in testa berretti d'asino, come i proprietari terrieri durante la riforma agraria del 1951. Cartelli appesi al collo li marchiavano come "fantasmi di teste di vacca" o "spiriti di serpi". Gli studenti, a quanto pare, ridevano e li chiamavano "mostri".
A me era sembrato impossibile che avessero trattato così anche il preside Jiang, visto che era membro del Partito comunista, ma tuo padre mi ha detto che anche altri membri del Partito hanno subito la stessa sorte, perché giudicati colpevoli di approfittare della loro autorità e di aver preso perciò la via del capitalismo. Tuo padre è contento di non essere mai stato iscritto al Partito. 29 aprile 1967. Oggi sono tornati. Oh, Tao, ho tanta paura. Hanno scoperto che, prima della Liberazione, ero iscritta all'università americana di Pechino e che mio padre possedeva un piccolo appezzamento di terreno nel Nord. Questi ragazzi hanno il viso alterato dalla rabbia e dall'odio. Sono entrati in casa nostra urlando, hanno detto a Gau Huan, quello un po' ritardato, che chiamano Tartaruga, di strappare il nostro album con le fotografie di famiglia. Io credo che lui ormai non sappia neanche quello che fa, è diventato un demonio affamato di distruzione. Quando ho cercato di fermarlo, la ragazza, quella che chiamano la Pezzente, mi ha dato uno schiaffo così forte che la vista mi si è offuscata. Un altro, un ragazzo che era sempre stato bravo, intelligente, mi ha gridato che avevo una posizione socialmente scorretta, perché ero figlia di un proprietario terriero e che se non ero responsabile del mio passato potevo, almeno, decidere per il mio futuro, e denunciare la mia famiglia, distruggendo la sua storia "nera". Mi hanno chiesto di te, Tao. Volevano sapere quando il "moccioso nero" sarebbe tornato a casa. Gli ho gridato che non saresti tornato mai, perché non eri come loro e la ragazza mi ha dato un altro schiaffo. Sentendo le loro voci e i miei singhiozzi, tuo padre è uscito dalla camera da letto. Aveva il viso terreo e teneva in mano il grosso bastone da passeggio di tuo nonno con cui ha minacciato di picchiarli, se avessero alzato di nuovo le mani su di me. Forse, spaventati dalla sua collera, se ne sono andati, ma hanno detto che sarebbero tornati. Io, poi, ho pianto per un'ora, mentre tuo padre è rimasto seduto vicino alla finestra a guardare fuori, in silenzio. Non sono riuscita a fargli dire una parola per il resto della giornata. Oh, Tao, per quanto muoia dalla voglia di rivederti, ti scongiuro di non tornare qui mai più. Primo maggio 1967.
Oggi sono andata in piazza a vedere il presidente Mao. C'erano centinaia di migliaia di studenti, per la maggior parte Guardie Rosse. Non avevo mai visto tanta gente sulla piazza Tien-An-Men. Sul guan bo, da dove ci si rivolge al pubblico, hanno recitato Il Timoniere, Le otto Raccomandazioni e L'Oriente è Rosso prima che quell'uomo straordinario apparisse sul palco, davanti alla Città Proibita. Poi tutti hanno cantato Lunga vita al presidente Mao. L'atmosfera era simile a quella di una riunione di fanatici religiosi, impressionante. Io non so che cosa pensare. È difficile non lasciarsi trasportare dall'emozione in circostanze come questa, ma in realtà avevo solo bisogno di piangere. Credo che nessuno si sia accorto delle mie lacrime. 5 giugno 7 967. È successo quello che temevo. Yue Shi è venuto a casa nostra questa mattina e, ridacchiando, ha detto che tuo padre doveva presentarsi a scuola. Gli ho risposto che era malato, ma lui ha minacciato di trascinarlo a scuola con la forza. Oh, Tao, sono contenta che tu non sia qui a vedere quello che sta succedendo. Ma mi manchi tanto. Sei così intelligente, sono sicura che tu sapresti qual è la cosa migliore da fare. Vorrei poterti parlare e tenere la tua mano tra le mie, per consolarmi. Li s'interruppe. C'erano tre piccole macchie tonde sulla carta, gialle e in rilievo e una quarta che aveva in parte cancellato il nome di Tao. Lacrime, pensò, vecchie di trent'anni, testimonianza della disperazione della madre di Tao che piangeva per suo figlio, sapendo che non l'avrebbe rivisto mai più. Ma forse quelle lacrime erano di Tao, quando aveva letto il diario, tanti anni dopo. Lacrime di un figlio che piangeva di dolore e di rimorso. Riprese la lettura. Faceva caldo, ma tuo padre aveva i brividi. L'ho fatto vestire con abiti pesanti per fare la strada fino a scuola. Si appoggiava con la destra al bastone del nonno, con la sinistra a me. Ogni dieci metri ci fermavamo perché gli mancava il respiro. Soffrivo molto nel vedere l'uomo forte e giovane che avevo sposato ridotto così. Quando siamo arrivati a scuola, in cortile c'era una folla, riunita intorno a un piccolo palco di legno eretto vicino alla rete del campo da pallacanestro. Il maestro Gu, l'insegnante di geografia, stava in piedi su quel
palco, carponi, con le mani e le ginocchia a terra e la testa bassa. Aveva un cartello appeso al collo con il suo nome scritto capovolto, in rosso, e cancellato con un tratto orizzontale. Gli studenti e le Guardie Rosse gridavano, eccitati: "Abbasso il maestro Gu!". Se cercava di rialzare la testa, una Guardia Rossa gliela ricacciava giù. Gli facevano domande, ma non lo lasciavano parlare e urlavano che si era rifiutato di rispondere. Quando ci hanno visti arrivare, alcune Guardie Rosse, cioè Pezzente, Yue Shi, Maialino e Tartaruga, hanno afferrato tuo padre, gli hanno attaccato al collo un cartello come quello del maestro Gu e lo hanno spinto sul palco, in mezzo alla folla che lo scherniva. Io ho cercato di seguirlo, ma i ragazzi mi si sono fatti intorno come uno sciame di api, dicendo che ero "figlia di un proprietario terriero" e madre di un "moccioso nero". Tuo padre faceva fatica a salire sul palco, allora quel ragazzo grosso, Ge Yan, gli ha dato un colpo sulla nuca con una canna, facendolo cadere in ginocchio. Infine lo hanno trascinato sul palco e il maestro Gu è stato spinto da parte. Tuo padre è diventato il centro dell'attenzione. Io vedevo i suoi occhi tristi e scuri, pieni di lacrime, ma non potevo far niente. Una ragazza, che era venuta tante volte a casa nostra per prendere lezioni private, mi ha portata in un'aula. Aveva la fascia rossa al braccio, ma io credo che fingesse soltanto di essere una di loro. Mi ha dato un bicchiere d'acqua e mi ha detto che non dovevo guardare. Ma io non potevo lasciare mio marito da solo. Sono andata sulla soglia dell'aula e l'ho visto in ginocchio sul palco, con la testa bassa e il cartello appeso al collo. "Abbasso il maestro Yuan!" gli gridavano. Gli chiedevano perché avesse trascurato i suoi studenti, perche si fosse rifiutato di lavorare. Credeva forse di essere troppo bravo per servire il popolo? Ma lui, anche se fosse stato in grado di parlare, che cosa poteva rispondere? Era malato, molto malato. Ogni volta che non rispondeva, loro, a turno, lo picchiavano con la canna sulla schiena e sul collo. Sentivo il rumore dei colpi. E, a ogni colpo, sentivo anch'io il dolore che provava lui. Ge Yan gli ha tirato indietro la testa tenendolo per i capelli e quello che chiamavano Zero lo ha costretto a bere da un calamaio pieno d'inchiostro. Lui tossiva, vomitava, ma loro glielo cacciavano in gola. Ho gridato loro di smetterla, ma c'era tanto rumore che nessuno mi ha sentita. Ho cercato di avvicinarmi al palco, ma la ragazza che mi aveva
portato nell'aula me l'ha impedito. Mentre scrivo, ho ancora i lividi che le sue dita mi hanno lasciato sulle braccia. Si vendicavano di quando li aveva minacciati con il bastone di tuo nonno perché mi avevano picchiata. Era colpa mia, Tao. Se non avessi cercato di fermarli mentre strappavano l'album di fotografie, se avessi capito che non c'era niente da fare, forse l'avrebbero lasciato in pace. Quando è caduto in avanti hanno cercato di rimetterlo in ginocchio, ma aveva peno conoscenza e credo che l'abbiano creduto morto. Improvvisamente nel cortile si è fatto un gran silenzio, come se il gioco fosse finito male. Sono ragazzi. Non capivano quello che stavano facendo. Sono corsa sul palco e loro si sono fatti da parte per lasciarmi passare. Nessuno mi ha fermata quando ho tolto il cartello dal collo di tuo padre. Aveva la bocca e il volto macchiati d'inchiostro, la giacca sporca di vomito. Ma era vivo, sentivo il suo respiro esile, spezzato. Mi sono inginocchiata, l'ho preso tra le braccia, ma era troppo pesante, non riuscivo a sollevarlo. Ho gridato che mi aiutassero. Ma nessuno si è mosso. Infine Ge Yan, quello degli uccelli, ha ordinato che mi dessero una mano a portar via il "revisionista nero". L'ho portato a casa, l'ho messo a letto e sono andata a chiamare il dottore, ma lui, quando ha sentilo che cos'era successo, si è rifiutato di venire e adesso sono qui, da ore, seduta accanto a tuo padre, gli metto impacchi freddi sulla fronte e ogni tanto gli sollevo la testa per farlo bere. È notte. Non so che ora sia. Credo le due passate. Fuori c'è silenzio, la casa è tranquilla, eppure fatico a sentire il respiro di tuo padre. Non so che cosa abbia fatto per meritare quello che ha subito. Tu lo sai com'è sempre stato serio e sensibile. Tao, sono distrutta. 6 giugno 1967. Tao, tuo padre è morto. Stamattina, dopo le quattro, mi ero addormentata sulla sedia vicino al letto e quando mi sono svegliata ho sentito che era freddo. È morto solo, mentre io dormivo. Non credo che riuscirò mai a perdonarmelo. Mi dispiace tanto, figlio mio. Ti prego di credere al mio amore per te. Spero che tu abbia una vita migliore della nostra. Il diario finiva lì, anche se c'erano ancora molte pagine bianche. Li, seduto alla scrivania, con gli occhi pieni di lacrime, vide apparire il primo grigiore dell'alba. Da ragazzo era stato dilaniato dal dolore per la
morte in prigione di sua madre e aveva sofferto nel vedere suo padre ridotto l'ombra di se stesso. Cercò di immaginare che cosa poteva aver provato Yuan Tao, al pensiero dell'umiliazione mortale, subita dal padre. Immaginò le lacrime, la collera e infine capì che quelle pagine di diario avevano deposto nell'animo di Yuan Tao il seme della vendetta. E capì anche chi era stato a uccidere Zero, Scimmia, Maialino. E perché. Si voltò sulla sedia girevole verso la finestra e per molto tempo rimase a guardare il cielo grigio striato di rosa. Provava un'indicibile tristezza, pensando al grande vuoto della vita di Yuan Tao, devastata dall'odio e dal desiderio di vendetta. Un matrimonio fallito. Niente figli. Una carriera accademica spezzata. Chissà quante volte aveva rimpianto di aver lasciato la Cina, per affrontare il destino di chi rimane straniero in terra straniera. Leggendo quel diario, aveva torse provato rimorso al pensiero che la sua fuga era costata, almeno in parte, la vita di suo padre? Mentre lui era lontano, al sicuro, nel campus di un'università americana, i suoi vecchi compagni di scuola l'avevano perseguitato fino a farlo morire. E così l'odio aveva riempito il vuoto emotivo della sua esistenza e la vendetta era diventata il suo scopo. Per cinque anni aveva messo a punto il suo progetto. Aveva predisposto il ritorno a Pechino e organizzato metodicamente l'esecuzione dei torturatori di suo padre secondo un rito che ripetesse l'umiliazione estrema che gli era stata inflitta. Anche se il diario non rappresentava la testimonianza conclusiva, Li non aveva dubbi. Ma c'era ancora una domanda cui non sapeva rispondere. Chi aveva ucciso Yuan e perché? Sentì bussare e vide Qian affacciarsi alla porta. «Mi hanno detto che eri nel tuo ufficio...» disse, con l'aria incredula. «Sei venuto presto, stamattina.» Si accorse che la stanza era piena di fumo e che Li aveva delle ombre scure intorno agli occhi. «Non sarai rimasto qui tutta la notte?» Li annuì con un cenno del capo, infilò il diario nella sua custodia di plastica e lo diede a Qian. «Fa' controllare le impronte. Poi fanne una copia per ciascun agente della squadra.» Qian prese il diario e lo guardò, incuriosito. «Che cos'è, capo?» «Il movente per un omicidio.» 4 Yang Shouqian abitava in una vecchia casa fatiscente, poco più a sud
della stazione ferroviaria di Guang'anmen. Di età compresa tra i cinquanta e i sessant'anni, aveva i capelli radi e un viso lungo dall'espressione lugubre. La moglie, una donnina con la faccia tonda e un sorriso simpatico, invitò Li a entrare in cucina, spiegando che stavano facendo colazione prima che il marito uscisse per andare a lavorare. Stava cuocendo della pasta di loto e delle focaccine di fagioli rossi, che si affrettò a offrirgli. Li accettò e si sedette con loro a tavola. A intervalli di pochi minuti sotto le finestre sul retro della casa passava, sferragliando, un treno della linea sud. Li ringraziò la moglie di Yang Shouqian per la tazza di tè verde e le focacce dolci, che gli tolsero parte della stanchezza di una notte insonne. Ma si sentiva schiacciato dal peso di quello che aveva scoperto. Yang lo guardò, incuriosito. «Mia moglie mi ha detto che lei ha notizie di mio cugino Tao.» Li annuì e chiese: «Lo ha visto negli ultimi mesi?» «Mi chiede se l'ho visto?» Yang era stupito. «Vuol dire che è a Pechino?» «Da circa sei mesi.» Yang adesso sembrava confuso e quasi offeso. «No» disse. «Non l'ho visto. Con noi non si è fatto vivo.» Preoccupata, sua moglie gli prese una mano, poi guardò Li e capì subito che c'era qualcosa che non andava. Altrimenti che ragione avrebbe avuto di venire da loro? «Che cos'è successo?» chiese. «Temo che sia stato ucciso» rispose Li. Yang diventò pallidissimo e sua moglie gli strinse la mano. «Non capisco...» disse Yang. «Ucciso? Qui? A Pechino?» Era incredulo. «Chi è stato?» «Non lo sappiamo» rispose Li. «Era in contatto con lui? Aveva avuto sue notizie in questi ultimi anni?» Yang scosse la testa. «No, non ho più saputo niente di lui in tutto questo tempo. Era un adolescente con i brufoli quando l'ho visto l'ultima volta, prima che partisse per l'America.» «Ma lei gli ha scritto.» Yang lo guardò, sorpreso. «Come fa a saperlo?» «Ho la lettera che lei gli ha inviato nel 1995.» «Hai scritto a tuo cugino Tao?» intervenne la moglie di Yang, rivolgendosi al marito. Lui annuì. «Non ti ricordi che gli avevo mandato il diario?»
«Ah, sì!» Poi guardò Li e aggiunse, con tristezza: «Che tragedia!». «Lo ha letto?» le chiese Li. «Non tutto. Shouqian me l'ha mostrato, prima di spedirlo.» Li si rivolse a Yang: «Lei ha scritto a suo cugino di aver tenuto la lettera che la madre di Tao aveva scritto alla sua. Perché?». «Perché, appunto, era indirizzata a mia madre. Apparteneva a me, non a Tao. E poi...» si guardò la punta delle dita, in silenzio «...è meglio che lui non l'abbia vista.» «Perché?» «Dopo il diario, sarebbe stato troppo.» «Posso vederla?» chiese Li. Yang gli lanciò una rapida occhiata e Li lesse nei suoi occhi una sorta di vergogna. Yang si alzò, si diresse verso una credenza in fondo alla stanza, aprì un cassetto e si mise a scartabellare un plico di fogli. «Conosceva qualcuno dei ragazzi che hanno perseguitato il padre di Tao?» chiese Li. «No, erano tutti più giovani di me, frequentavamo scuole diverse.» «In quest'ultimo mese ne sono stati uccisi tre.» La moglie di Yang rimase senza fiato. Yang si voltò verso di lei e Li notò che nei suoi occhi la vergogna di poco prima si era trasformata in qualcosa di diverso, che lì per lì non avrebbe saputo definire. «Oh, Dio!» esclamò Yang. «Li ha uccisi Tao, vero?» E Li capì che quello che aveva letto nei suoi occhi era paura. «Lo ritengo possibile» rispose. La moglie vide Yang vacillare, gli si avvicinò e lo sostenne per un braccio. Quando si riprese, tornò al tavolo tenendo in mano una vecchia busta ingiallita e crollò pesantemente sulla sedia. «Visto che sono stato io a mandargli il diario,» disse, e a quel punto la paura diventò senso di colpa «potrei anche essere stato io a ucciderli.» Venne colpito da un pensiero ancora più terribile e alzò gli occhi su Li. «È per questo che il cugino Tao è stato assassinato?» «Non lo so» rispose Li stringendosi nelle spalle, sconfortato. Yang abbassò la testa. «Non avrei mai dovuto mandargli quel diario, ma ho pensato che, dopo tanti anni, avesse il diritto di sapere. Neanche per un momento ho sospettato che...» S'interruppe, con la voce rotta dall'emozione. Sua moglie lo abbracciò. «Come potevi sapere?» gli disse. «E questa la lettera?» chiese tendendo la mano.
Yang gliela consegnò. Era priva di francobollo e di indirizzo; c'era solo il nome della madre di Yang, scritto in caratteri chiari, ben delineati. Li sfilò il foglio dalla busta. Era sottile, consunto. Lo aprì con cautela. Era datato luglio 1970. «Mia carissima sorella Xi-wen, ho ricevuto oggi la notizia che mio figlio Tao si è laureato in Scienze politiche all'università della California, a Berkeley, dove resterà ancora due anni per preparare il dottorato. Sono così contenta per lui! La sua carriera è assicurata e non avrà bisogno di tornare qui. Dopo la morte del mio amato marito, ho vissuto per mio figlio Tao, ma mi è ancora difficile pensare che viva dall'altra parte del mondo, che veda sorgere e tramontare lo stesso sole, la stessa luna che io vedo apparire nel cielo di Pechino nelle notti limpide, ma che non possiamo né parlarci, né toccarci. Ricordo ancora la sensazione di quando stava rannicchiato dentro il mio ventre. Ma adesso è lontano, così come è lontano mio marito. La Grande Rivoluzione culturale del proletariato sembra entrata in una fase di follia, con le diverse fazioni in lotta tra loro. Io sono ancora in disgrazia per la posizione di nostro padre e per l'istruzione che ho ricevuto. Da due anni non mi permettono di riprendere il mio lavoro all'asilo. Sono esausta e mi chiedo quando tutto ciò finirà. Ho passato ore e ore a riguardare vecchi ricordi del nostro passato, prima che succedesse tutto questo. È rimasto poco, qualche fotografia, le lettere che ci siamo scambiati mio marito e io prima di sposarci, una lettera di Tao arrivata per miracolo, quando era da poco giunto in America. E poi c'è il diario. Ho cominciato a scriverlo per Tao, quando è partito. Doveva essere per lui una cronaca degli avvenimenti che non aveva vissuto perché gli fosse più facile ambientarsi qui, al suo ritorno. Non ho avuto la forza di continuarlo dopo la morte di suo padre, ma vorrei che lui lo avesse. Deve sapere che cos'è successo alla sua famiglia. Lo affido a te, perché so che lo terrai con cura e farai in modo che Tao lo abbia, quando le circostanze lo permetteranno. Ti prego di dirgli che gli voglio molto bene. Scusami per il disturbo che ti do. La tua affezionata sorella, Ping Zhen» Li alzò lo sguardo dal foglio e vide che Yang lo stava osservando. Nei
suoi occhi c'era di nuovo quell'espressione simile alla vergogna. «Per noi è stata una catastrofe» disse Yang. «Il presidente Mao avrebbe poi parlato di "alienazione dal popolo". Un eufemismo, visto quello che abbiamo patito.» Aggiunse con un sospiro. «Non abbiamo potuto avere una stanza privata al crematorio, non ci è stato permesso di portare la fascia del lutto al braccio, né di suonare la musica al funerale. Tutta la famiglia è stata sottoposta alla stessa vergogna.» E Li vide che, dopo tanti anni, quella vergogna lui la provava ancora. «Che cos'è successo?» chiese. Yang scosse la testa. Faceva fatica a trovare le parole per rievocare quell'orrore. «Ping Zhen si è buttata dalla finestra ed è rimasta infilzata sulle punte della cancellata sottostante. Nessuno le si è avvicinato. Credo che abbia impiegato ore a morire.» Guardò Li negli occhi. «Tao non l'ha mai saputo.» CAPITOLO OTTAVO 1 Il piacere di Margaret era intriso di senso di colpa. La felicità della notte era offuscata dall'imbarazzo del mattino dopo. Il fatto di sentirsi così bene, così appagata, dopo una notte di sesso che aveva soddisfatto in pieno le sue aspettative, la infastidiva. Michael si era rivelato un amante sensibile e attento e lei gli si era completamente abbandonata. Erano rimasti a lungo abbracciati e avevano parlato di loro e della loro vita. Lui non le aveva fatto domande sul Michael appartenente al suo passato e lei si era sentita tranquilla e rilassata, finché non si era addormentata, cullata dai baci del suo amante. Ma, quando era suonata la sveglia, all'alba, Margaret si era sentita a disagio, trovandosi nello stesso letto con Michael. La luce del giorno aveva dato alla realtà un'evidenza diversa. Michael, però, era stato di nuovo premuroso e gentile. Se si era accorto delle sue inquietudini, non lo aveva dato a vedere. Ora, mentre l'aereo, dopo un volo di settanta minuti, stava atterrando all'aeroporto di Pechino, Margaret provava un'ansia che aumentava a mano a mano che cresceva in lei la consapevolezza di essere fuggita, per trentasei ore, alla propria vita. Era stata una persona diversa, in un luogo diverso, e ora la realtà le veniva incontro alla velocità stessa dell'aereo. Si sentì tra-
volta dalla durezza del presente: Li, i quattro omicidi, le indagini e le venne spontaneo paragonare quel brusco atterraggio alla ripresa di contatto con la vita. Quando raggiunsero la sala degli arrivi, videro Sophie che scrutava ansiosa tra la folla. Margaret, istintivamente, sfilò la mano da quella di Michael, come una scolaretta colta in fallo. Michael sorrise: «Ti vergogni?». «Ma certo, sono una ragazza perbene, io» gli rispose Margaret, irritata con se stessa. Sophie li vide e si fece largo tra la folla. Era inquieta, rossa in viso. «Fuori c'è un'auto che vi aspetta» disse a Margaret. Lanciò un'occhiata a Michael e aggiunse: «Ci sono stati nuovi sviluppi». Poi sospinse Margaret da parte e abbassò la voce. «Il tuo amico, il vicecaposezione Li, ritiene, a quanto pare, che sia stato Yuan Tao a uccidere i primi tre.» «Che cosa?» Margaret fu presa alla sprovvista. «E ritiene anche che si sia tagliato la testa da solo?» chiese, quando si fu un po' ripresa dalla notizia. «Non credo proprio» rispose Sophie, asciutta. «Il problema è che un cittadino americano è accusato di avere ucciso tre cinesi.» «Si starà rivoltando nella tomba» osservò Margaret. «E io che cosa devo fare?» «I cinesi hanno convocato una riunione alla sede della polizia municipale tra...» Sophie guardò l'orologio «...quarantacinque minuti. Non c'è tempo da perdere.» «Dammi un minuto solo.» E Margaret si avvicinò a Michael, che stava parlando al cellulare e intanto guardava l'orologio. «D'accordo, Charles, tra mezz'ora.» Vide Margaret che si avvicinava. «Aspetta un momento» disse coprendo il microfono del telefono con la mano. «Michael, mi dispiace, devo andare a una riunione alla polizia. Non credo di poter venire sul set.» Michael si strinse nelle spalle, deluso. «Immagino che tu non possa proprio evitarla, vero? Che cos'è successo?» «Pare che la quarta vittima abbia ucciso le altre tre.» Michael aggrottò la fronte e lei rise. «Non pensarci. Ci sentiamo più tardi?» «Sì, ti chiamo stasera» rispose Michael e le diede un lungo bacio appassionato. Margaret sentiva lo sguardo di Sophie alle loro spalle. «A presto.» In automobile, Margaret si accorse che Sophie la osservava con curiosità. Si voltò per guardarla negli occhi. «Sei andata a letto con lui.» Era un'affermazione, non una domanda.
«Non è cosa che ti riguardi.» Sophie scosse la testa, ridendo. «La solita stronza fortunata! Lo sai che la metà delle donne americane t'invidieranno? E pensare che sono stata io a presentartelo!» «Su un particolare avevi proprio ragione.» «Cioè?» «Ha davvero un culo stupendo.» 2 Il commissario Hu Yisheng, capodivisione del Dipartimento di Investigazione Criminale, si alzò e strinse la mano a Margaret. Indossava l'uniforme: giacca verde scuro con due galloni d'oro sulle maniche, camicia verde chiaro con gemelli d'oro ai polsini, cravatta blu. Il distintivo del ministero della Pubblica sicurezza, sulla manica sinistra, in alto, sembrava troppo grande, così come la sua testa rispetto al corpo minuto. Ma era un bell'uomo per la sua età, pensò Margaret, con i capelli brizzolati pettinati all'indietro che lasciavano scoperta la fronte ampia e liscia. Invitò Margaret ad accomodarsi con un cenno della mano e un sorriso teso. «Desidero ringraziarla, dottoressa Campbell, per il lavoro svolto a favore del popolo cinese» disse, in tono rigido e formale. Margaret stava per rispondergli che se si trovava lì era solo per adempiere all'impegno preso verso il popolo americano, ma Sophie, avvertendo il rischio di una violazione dell'etichetta, intervenne. «La dottoressa Campbell è felice di poter collaborare.» A Margaret non sfuggì l'espressione perplessa del commissario per quell'intervento in sua vece. Erano presenti anche Jonathan Dakers e il caposezione Chen Anming. Il gelo tra lui e Margaret, di nuovo l'uno di fronte all'altra, era palpabile. Margaret ricordava perfettamente che era stato lui per primo, in giugno, a coinvolgerla in un'indagine per conto della polizia cinese. Era stato un perfetto esempio di guanxi: poiché le aveva fatto un bellissimo regalo quando era stato suo allievo a un corso di investigazione criminale, da lei tenuto a Chicago l'anno precedente, aveva pensato di essere in credito di un favore. Ma quell'indagine era andata oltre le previsioni di entrambi e Margaret sapeva che lui si era pentito di essersi rivolto a lei. E adesso era evidente dal suo atteggiamento che non voleva coinvolgerla nella nuova indagine. Margaret pensò che fosse stato proprio lui a intimare a Li di starle lontano. Sophie aveva preso posto a sedere tra Margaret e Chen, come se fosse
consapevole della tensione che c'era tra loro, e si era messa a chiacchierare con il caposezione, mentre Dakers parlava con il commissario Hu. Margaret si sentiva stupida e inutile e non vedeva l'ora di andarsene, ma in quel momento entrò Li Yan. Aveva un'aria preoccupata. Indossava l'uniforme, proprio come quando Margaret lo aveva conosciuto. Al solo vederlo si sentì a disagio. Lui salutò l'ispettore, si scuso per il ritardo, si tolse il berretto e si mise a sedere. Estrasse un plico di fogli da una cartella che aveva con sé e il commissario Hu gli disse: «Ora che ci siamo tutti, perché non ci illustra la situazione?». Li si schiarì la voce e lanciò un'occhiata imbarazzata a Margaret. Lei colse una vena di tristezza nello sguardo di lui ed ebbe l'impressione che Li sapesse ciò che era accaduto con Michael. Arrossì, come se anche tutti gli altri fossero al corrente del fatto che fino a poche ore prima lei si trovava a letto a fare l'amore con il suo amante. «Ieri notte,» cominciò Li «ho scoperto un diario nascosto sotto il pavimento nell'appartamento che l'ambasciata aveva assegnato a Yuan Tao. È stato scritto dalla madre di Yuan e copre un periodo che va dal luglio 1966, data della partenza di Yuan per gli Stati Uniti, al giugno 1967, data della morte di suo padre.» Fece una pausa per distribuire ai presenti alcuni fogli fotocopiati. «Sono i passi più rilevanti. Descrivono i maltrattamenti subiti dai genitori di Yuan da parte di un gruppo di suoi ex compagni di scuola, sei dei quali erano Guardie Rosse, appartenenti alla Brigata della rivoluzione permanente e, in particolare, alla fazione ultrarossa, che si era formata durante la Rivoluzione culturale.» S'interruppe e diede un'occhiata intorno al tavolo. «A questo punto devo rendere noto che le prime tre vittime militavano tutti nella Brigata della rivoluzione permanente.» Era una notizia che Margaret, Sophie e Dakers non conoscevano e di cui colsero immediatamente la portata. «Stiamo facendo tradurre il diario» disse Li. Margaret ascoltò in silenzio la descrizione delle torture e delle umiliazioni subite dal padre di Yuan, tra gli sberleffi della folla nel cortile della scuola, e culminate con la sua morte. «Il cartello appeso al collo del padre con il nome capovolto scritto in rosso e poi cancellato con una riga orizzontale,» spiegò Li «la posizione inginocchiata, il colpo alla nuca inflitto con una canna e perfino l'obbligo di bere l'inchiostro sono tutti particolari presenti nel modus operandi che abbiamo visto ripetersi nei delitti. L'inchiostro è stato sostituito con il vino rosso. Il flunitrazepam ha reso certamente più facile far inginocchiare le vittime. Il colpo alla nuca, inferto con la spada anziché con la canna, ha
portato alla morte per decapitazione. Tutte e tre le vittime avevano appeso al collo un cartello con il loro soprannome scritto in rosso, a caratteri capovolti, e cancellato da un tratto orizzontale. Non va inoltre dimenticato che la decapitazione era, in Cina, una forma di esecuzione capitale. L'assassino si considerava un giustiziere.» «Ma se le tue supposizioni sono vere,» intervenne Margaret «si è trattato non di giustizia, ma di vendetta.» «È vero,» convenne Li «ma che cos'è la pena capitale se non la vendetta collettiva della società contro chi ha commesso un crimine nei suoi confronti? La storia è piena di vendette personali da parte di individui che si sono sentiti abbandonati dalla società.» «L'ipotesi è interessante,» ammise Margaret «anche se contrasta con i metodi tradizionali usati dalla polizia cinese e applicati di solito dal nostro vicecaposezione.» Sentì il gelo calare nella stanza, ma proseguì. «Per quanto ne so, infatti, è solo dopo la raccolta sistematica delle prove che si dovrebbe cominciare a tracciare un quadro del delitto e della figura di chi l'ha commesso. In base a quali prove il vicecaposezione collega Yuan Tao alle varie scene del delitto?» Li non si scompose. «Le particelle di polvere nero-bluastra, trovate nell'appartamento di Yuan, corrispondono esattamente a quelle trovate sul corpo di Yue Shi.» «Vorresti dire che Yue Shi è stato assassinato in casa di Yuan Tao?» «No.» «Allora non vedo il collegamento diretto.» «Be', c'è il vino» replicò Li. Era deciso a non lasciarsi innervosire dalle obiezioni di Margaret. «Il vino rosso che era sotto il lavello nella cucina di Yuan Tao era lo stesso che gli altri tre avevano bevuto prima di essere uccisi.» «Questo, però, non basta ancora a collegare Yuan con nessuna delle tre scene del delitto, vero?» «Vero» ammise Li. «E noi sappiamo che Yuan è stato ucciso con la stessa spada usata per gli altri tre.» «Stai forse insinuando che Yuan si è tagliato la testa da solo?» chiese Li con una punta di scherno. Margaret rise. «A dire il vero mi sembrava che fossi proprio tu a insinuarlo. Anche se credo che Yuan avrebbe potuto avere qualche difficoltà a liberarsi dell'arma del delitto, non trovi?» Ma la sua battuta non fu raccolta
da nessuno. «Non sei stata tu a ipotizzare che Yuan potrebbe essere stato ucciso da qualcuno che era stato testimone degli altri delitti?» chiese Li. «Sì, è così, ma l'avevo ipotizzato prima che saltasse fuori un movente. Un testimone avrebbe dovuto essere un complice. Ma se, come tu suggerisci, Yuan si fosse imbarcato in una serie di delitti mosso dalla sete di vendetta, un complice avrebbe dovuto condividere il suo stesso movente. Rimane da capire che motivo avrebbe avuto di uccidere Yuan?» «Sono ragionamenti interessanti, Margaret,» intervenne Dakers «ma ora non siamo qui per esaminare punto per punto le prove. Lo scopo di questa riunione è uno scambio di informazioni.» «Ho capito bene?» esclamò Margaret con uno scatto verso Dakers. «Dovremmo starcene qui seduti ad ascoltare, senza fare domande?» «Ma no,» rispose Dakers conciliante «noi vogliamo, senza dubbio, partecipare all'esame delle prove. Per questo abbiamo chiesto agli amici del ministero della Pubblica sicurezza di concederle la possibilità di seguire a tempo pieno l'indagine, almeno finché non sia esclusa, come speriamo, qualsiasi responsabilità da parte di Yuan Tao. So che,» proseguì Dakers rivolgendosi non più a lei, ma al commissario Hu «l'ambasciatore americano ha già presentato la richiesta alle alte sfere.» Hu avvampò stringendo a pugno le mani sul tavolo. Margaret notò che le nocche erano diventate bianche. Evidentemente non gradiva che altri usurpassero il suo ruolo. «È la prassi» rispose. «Ho parlato io stesso con il ministro, meno di mezz'ora fa. Il vostro ambasciatore è già stato informato: la richiesta è stata accettata.» Una volta tanto Margaret restò senza parole. Guardò Li e vide che, impassibile, fissava il pavimento. Un sole sbiadito stendeva una luce anemica sul polveroso cortile del Dipartimento di Investigazione Criminale. Margaret faticava a tenere il passo di Li, che si stava dirigendo verso l'auto della polizia parcheggiata all'ombra degli alberi. «Tu lo sapevi, vero?» gli chiese Margaret. «Che importanza ha?» rispose Li, senza voltare la testa. «Era una decisione che non spettava a me. Altrimenti sai bene che cosa avrei deciso.» Aprì la portiera e buttò dentro la cartella. «Eh già! Tu di certo non hai bisogno di chiedere aiuto!» disse Margaret. Li si voltò verso di lei, livido di rabbia. Gli occhi erano nascosti dalla vi-
siera del cappello e Margaret non poteva vederli. «Non mi piace essere chiamato a discutere della mia indagine davanti al caposezione e al capodivisione del Dipartimento di Investigazione Criminale.» «Ah!» Margaret alzò gli occhi al cielo. «È logico. Non vuoi rischiare di perdere la faccia davanti a un superiore, vero? Al diavolo le prove, l'importante è salvare la faccia. Non è così, forse? Molto cinese.» Li riuscì a controllarsi, nonostante la collera. «Qui si parla della prova più importante che abbiamo trovato,» disse «e tu... la liquidi come se niente fosse.» «Non ho liquidato un bel nulla.» «Però hai fatto capire molto chiaramente di non credere che Yuan Tao sia responsabile degli altri omicidi.» «Ma certo che lo è. Il diario ci fornisce il movente. È chiaro che è stato lui.» Li era sbalordito. Margaret proseguì tutto d'un fiato: «Aveva il movente e l'occasione. Il vino e la polvere bluastra sono due buone prove indiziarie. Ma quello che volevo sottolineare è che non abbiamo uno straccio di prova che lo colleghi alle varie scene del delitto. È una prova quello di cui noi abbiamo bisogno». «Noi?» «Ti piaccia o no, siamo legati a filo doppio finché non risolveremo il caso.» Poi aggiunse: «Perciò, prima troveremo il colpevole, prima saremo reciprocamente liberi». «E prima tu potrai tornare dal tuo archeologo.» Le parole gli erano sfuggite di bocca prima che potesse rendersene conto. E adesso Li avrebbe voluto tagliarsi la lingua. «Ah, ecco qual è la ragione di tanta ostilità!» esclamò Margaret. «È il mio rapporto con Michael, vero?» Li si mise subito sulla difensiva. «Perché mai dovrei preoccuparmi del tuo rapporto con Michael, visto che è "assolutamente platonico"? Sono parole tue.» «Sì, e tu mi hai fatto notare che è l'espressione che si usa per descrivere una relazione subito prima che si arrivi al sesso.» Li sussultò, come quando lei gli aveva dato uno schiaffo dopo l'autopsia. Ma questo non era uno schiaffo, era una pugnalata al cuore e Margaret se ne pentì subito. Ma ormai era troppo tardi. Rimasero a guardarsi in silenzio, finché Margaret non resse più e si incamminò verso l'edificio della polizia, dall'altra parte del cortile. Li la seguì.
«È un peccato che il vostro sistema automatizzato per l'identificazione delle impronte non abbia consentito di trovare una corrispondenza per l'impronta rinvenuta sulla scena del secondo delitto» disse Margaret, tanto per parlare. «Che cosa?» chiese Li, immerso in ben altri pensieri. «Dicevo,» riprese Margaret «che se si fosse scoperto che quell'impronta insanguinata apparteneva a Yuan Tao, avremmo potuto collegarlo alla scena di uno dei delitti.» Solo allora Li si ricordò dell'impronta trovata sul bordo della scrivania nell'ufficio di Bai Qiyu. Se n'era dimenticato. Margaret no. Ma non riusciva lo stesso a capire la questione da lei sollevata. «Come avrebbe potuto il sistema fornire una corrispondenza con Yuan Tao, dal momento che le sue impronte non sono state inserite nella banca dati?» «Non è possibile!» Margaret era scandalizzata. «Vuoi dire che non immettete nel sistema le impronte delle vittime, oltre a quelle dei criminali? Negli Stati Uniti è una procedura obbligatoria.» In altre circostanze Li avrebbe tenuto un atteggiamento difensivo, ma in quel momento la sua mente era altrove. «Il sistema è nuovo, non ancora completamente operativo» si limitò a rispondere. «Così, nessuno ha fatto un controllo incrociato per vedere se esiste una corrispondenza?» insisté Margaret. Li scosse la testa. «E non pensi che sarebbe il caso di farlo?» «Oh, fa piacere vedere che voi due l'abbiate presa per il verso giusto!» Li e Margaret si voltarono e videro Sophie e Dakers che si avvicinavano attraverso il cortile. Più in là, Chen stava salendo su un'auto di ordinanza. Dakers era tutto sorrisi e facezie. «Dobbiamo mettere in chiaro alcune regole di base,» disse a Li «ma sono sicuro che andremo perfettamente d'accordo. Ci chieda pure tutto quello di cui dovesse aver bisogno e, se possiamo darle una mano, lo faremo senz'altro.» Li annuì seccamente. Dakers sfiorò il braccio di Margaret. «Noi ci vediamo più tardi.» Stava per andarsene con Sophie, quando Li disse: «Qualcuno di voi è stato nell'appartamento di Yuan, quello assegnatogli dall'ambasciata, prima che arrivasse la scientifica?». «Sì» rispose Dakers. «Ci sono andato io, tanto per controllare che non ci fosse un altro cadavere di cui non eravamo a conoscenza.» Sorrise, gli altri no. «Nessun altro, oltre a lei?»
Dakers adesso sembrava un po' meno ilare. «Nessuno... Solo io.» Tacque per un momento. «Mi sono lasciato sfuggire qualcosa, forse?» «No» rispose Li, poi, all'improvviso, chiese: «Lei ha sempre portato la barba?». Dakers si toccò, istintivamente, i baffi e la barbetta ben curata, sorpreso della domanda. «Sì» disse. «Mi è sempre cresciuta molto in fretta, tant'è che ho cominciato a radermi a quindici anni per non sembrare troppo vecchio. Poi, non appena finita la scuola superiore, ho deciso di lasciarmela crescere.» Fece un'altra pausa. «È sicuro che non mi stia sfuggendo qualcosa?» Li gli rivolse un sorriso che doveva essere rassicurante. «La mia era solo curiosità» rispose, ma in realtà stava pensando che chi non si fa la barba non usa nemmeno il dopobarba e quindi non era stato Dakers a lasciare quel profumo nell'appartamento di Yuan. Dakers lo guardò un po' stupito. «Be', se è così, la saluto» disse e si allontanò con Sophie verso la limousine dell'ambasciata parcheggiata all'ombra. «Perché gli hai fatto quella domanda?» gli chiese Margaret sapendo che Li non faceva mai domande senza una buona ragione. Ma lui si strinse nelle spalle. «Così.» Salì sull'auto e prese il radiotelefono della polizia. «Sarà meglio che faccia inserire le impronte di Tao nel sistema automatizzato» disse. Margaret lo guardò mentre parlava rapidamente in cinese e dall'altra parte gli rispondeva una strana voce gracchiante. Avrebbe voluto mettergli una mano sul braccio e dirgli che le dispiaceva. Non di essere andata a letto con Michael, ma di averglielo lasciato capire. Era stata crudele e sleale. Li concluse la comunicazione via radio e si rivolse a Margaret. «L'agente Wu ci ha preceduti. Ha già richiesto il controllo incrociato delle impronte digitali.» «Bene, almeno c'è qualcuno che si dà da fare nella tua squadra» commentò lei. Li ignorò la frecciata. «Il risultato potrebbe essere superfluo, perché, a quanto pare, abbiamo trovato il mercante che gli ha venduto la spada.» 3 L'auto di Li s'infilò in Xidamochang Jie, dirigendosi verso est. Il percorso era affollato di pedoni e ciclisti, di venditori ambulanti con i loro carret-
ti, di furgoncini, di ragazzi impegnati nella consegna di mattonelle di carbone. Sui marciapiedi c'erano dei piccoli luoghi di ristoro, tavolini e sedie dove gli uomini cucinavano carne e pollo sulla carbonella ardente e le donne, sedute in gruppo su bassi sgabelli, preparavano involtini di pasta sfoglia o, semplicemente, chiacchieravano. «Dove stiamo andando?» chiese Margaret. «Nella Città Sotterranea.» «Che cos'è?» «Negli anni Sessanta, Mao, dopo aver rotto i rapporti con Stalin, temette che i russi potessero sganciare la bomba atomica su Pechino. E così invitò la popolazione a scavare gallerie e rifugi sotto la città. Per più di dieci anni, lavorando nel tempo libero e con qualunque arnese trovassero, i cinesi hanno costruito centinaia di chilometri di gallerie e decine di rifugi. Proprio qui sotto ci sono trentadue chilometri di gallerie che si diramano in tutte le direzioni, ma non sono abbastanza profonde come rifugi antiaerei. Per fortuna i russi non ci hanno bombardati, altrimenti tutto questo sarebbe stato inutile.» «Perché la chiamate la Città Sotterranea?» «Perché i cinesi hanno uno straordinario senso pratico,» Li sterzò bruscamente per evitare un ragazzo in bicicletta che era uscito all'improvviso da una strada laterale «e hanno pensato che valesse la pena utilizzare tutto questo spazio, dopo che si erano dati tanto da fare per scavarlo. Adesso ci sono negozi, magazzini, perfino un albergo con cento stanze. Il panorama non è eccezionale, ma i prezzi sono bassi ed è un modo per togliersi dal traffico.» Li suonò il clacson per evitare un furgone che bloccava il passaggio. «Il mercante di riproduzioni di oggetti d'arte ha un negozio lì sotto.» Si fermarono davanti a un edificio di piastrelle bianche con un passaggio che portava al cortile di una scuola. Sul lato occidentale dell'edificio, accanto a una vecchia casa a un piano, con l'intonaco di cemento grezzo, c'era un portale polveroso, costruito nello stile tradizionale, con colonne e travi che sostenevano un tetto spiovente di tegole di ceramica verde. Tutt'intorno erano parcheggiate decine di biciclette. «Questo è l'ingresso alla Città Sotterranea?» chiese Margaret, mentre scendevano dall'auto. «Uno dei tanti» rispose Li. «Una volta, mio zio mi raccontò che in questo quartiere, in particolare, ci sono circa novanta ingressi. Si può entrare nel sotterraneo anche attraverso negozi, case... Ci sono gallerie e accessi di
cui le autorità ignorano l'esistenza.» Mentre si avvicinavano all'ingresso, l'agente Sang gli venne incontro. Scambiò rapidamente qualche parola in cinese con Li, poi salutò con gentilezza Margaret. «Da questa parte, prego.» Entrarono in un locale anonimo, con le pareti scrostate di un colore verde chiaro. Al loro passaggio, un giovane alzò appena gli occhi dai fogli che stava leggendo. Non era affatto insolito vedere stranieri da quelle parti: ogni giorno passavano di lì almeno cinquecento turisti, in visita alla Città Sotterranea. Una scala con un corrimano rosso e l'intonaco che si staccava dalle pareti portava nelle gallerie sotterranee. L'aria era impregnata di umidità e Margaret ne sentì il tocco viscido e freddo sui vestiti e sulla pelle. Le gallerie avevano le volte a botte intonacate di gesso bianco chiazzato di sporcizia e di umidità. A un unico cavo elettrico, che percorreva tutta la lunghezza del soffitto, erano fissati tubi al neon. Su una sporgenza di cemento erano esposti, come pezzi da museo, gli attrezzi e gli oggetti d'uso quotidiano degli operai che avevano scavato la galleria: un piccone con il manico rotto, un coltello con l'impugnatura di legno, un badile, tre scodelle di latta, un pentolino col coperchio, che forse era servito a contenere un pasto. In lontananza, al di là di vari archi di sostegno, videro, appesa al muro, una mappa rossa delle gallerie, bene illuminata, sotto una scritta verde che diceva «Rifugio antiaereo di Pechino». Un gruppo di studenti scandinavi, quanto di più estraneo all'ambiente si potesse immaginare, ascoltava da una guida cinese dall'aria annoiata la storia della Città Sotterranea. Sang guidò Li e Margaret lungo una parte di gallerie dove gli archi erano stati dipinti di fresco in un rosso brillante e alle pareti c'erano dei murales. Inserito in una nicchia e illuminato da due faretti c'era un busto bianco di Mao Tse-tung su sfondo rosso. A brevissima distanza, paradossalmente, un altare buddista. Alcune sculture di donne a cavallo di leoni ornavano l'ultimo tratto della galleria che portava a un enorme, luminosissimo emporio di oggetti ricordo per turisti: Buddha di giada, tuniche di seta, rotoli di carta di riso dipinti, imitazioni di vasi Ming. I commessi alzarono la testa sentendoli passare, ma vedendo l'uniforme di Li persero ogni interesse per loro. Entrarono in un'altra galleria e si trovarono all'improvviso in una cupa foschia. Margaret rabbrividì a quell'alito freddo, dopo il relativo tepore della zona dei negozi. Vide un cartello con una freccia che indicava, in ci-
nese e in inglese la stazione e pensò che non aveva nessuna voglia di avventurarsi in quella rete di gallerie abbandonate, scavate sotto la città. Si sentì molto sollevata quando si rese conto che Sang li stava portando in un negozio lungo e stretto, che esponeva in vetrinette e scaffali ogni sorta di riproduzioni di oggetti d'arte. Le parve un posto straordinario. Furono accolti da un ometto con la faccia tonda e lustra, il riporto di capelli che andava da un orecchio all'altro. Dopo uno scambio di parole in cinese, Li disse a Margaret: «Il signor Ling parla inglese». «Solo qualche parola,» si schermì il signor Ling, inchinandosi a Margaret «non ho molte occasioni per tenermi in esercizio.» Si strinse nelle spalle con un gesto di scusa un po' affettato. «Da quanto mi ha riferito l'agente Sang, lei ha venduto, circa tre mesi fa, la riproduzione di una spada in bronzo a un cliente che le ha chiesto un modello molto particolare.» «Sì» rispose il signor Ling. «Di solito vendiamo spade che vengono usate nelle cerimonie o per il wu shu. Ma quel cliente voleva una vera spada di bronzo, fatta a mano. Io non ho mai avuto spade di quel tipo, ma gli dissi che avrei potuto procurargliela. Naturalmente ci sarebbe voluto del tempo e sarebbe costata molto.» «Gli ha chiesto per caso a che cosa sarebbe servita la spada?» «Sì, per una mostra.» «Le ha dato le dimensioni?» domandò Li. «Sì, ma adesso non me le ricordo. Però, il signor Mao, a Xi'an, ha ancora la matrice.», «Il signor Mao?» «Sì, il signor Mao Ming Fu. Ha una fabbrica di oggetti di artigianato artistico a Xi'an ed è un uomo molto in gamba. Ha restaurato i carri di bronzo trovati con i Guerrieri di Terracotta.» Li si rivolse a Margaret, con un tono incolore: «Li hai visti, immagino, quando sei andata a Xi'an?». «Certo» rispose Margaret, poi Li chiese al signor Ling: «Che tipo di dati ha fornito il suo cliente per la spada?». «Lunghezza normale, un metro o forse un po' meno. Il manico, invece, lo voleva di una dimensione particolare, di legno e di un certo peso.» Fece un gesto con la mano, come se stesse soppesando una spada. «Soprattutto ha preteso che la spada fosse nello stile del periodo degli Stati guerrieri. Il signor Mao ha fatto un ottimo lavoro e per un prezzo davvero onesto.» Il
signor Ling aggiunse con un sorriso: «Naturalmente io ho guadagnato la mia piccola percentuale». Li estrasse dalla tasca della giacca una fotografia di Yuan e gliela mostrò. «È lui?» Il signor Ling si mise gli occhiali e la guardò. «Ma sì, certo, è lui!» Poi mosse la testa, pensieroso. «Sapete, non capita proprio tutti i giorni che qualcuno ordini una spada così! Tuttavia, ricordo questo cliente anche per altre due ragioni.» «Davvero?» Li si rimise in tasca la fotografia. «Quali?» «Pur essendo cinese e parlando con il tipico accento di Pechino, non si comportava come un cinese. Non so come spiegarlo... ma avevo l'impressione di non parlare con un cinese.» «E l'altra ragione?» chiese Margaret. La faccia del signor Ling s'illuminò. «Oh sì, mi era stato raccomandato da un mio buon amico, il famoso archeologo americano Zimmerman.» Sang si tenne a una discreta distanza, facendo finta di non ascoltare. Per la strada molte teste si voltarono e un gruppo di bambini, all'ingresso del cortile della scuola, guardò a bocca aperta la yangguizi che gridava al poliziotto: «È ridicolo! Come puoi anche solo pensare che Michael abbia qualcosa a che fare con tutta questa storia? È assurdo!». «E chi ha detto che lo penso?» domandò Li con una calma esasperante. Si stava dirigendo verso la macchina e Margaret lo seguiva come un cane che volesse mordergli i talloni. «E allora, perché vuoi interrogarlo?» «Per escluderlo dall'indagine. Perché, se no?» rispose, mentre apriva la portiera. «Ma non pare strano anche a te che conoscesse la vittima tanto bene da consigliargli dove comprare una spada? E, per di più, la spada che, con tutta probabilità, è l'arma del delitto?» «Sarà una coincidenza» commentò Margaret. «Yuan lavorava all'ambasciata e Michael l'ha frequentata spesso, negli ultimi sei mesi. È una piccola comunità. Insomma, in tutto ciò non vedo niente di più sinistro del fatto che Michael conoscesse il professore di archeologia dell'università di Pechino!» Li la guardò. «Ti riferisci a Yue Shi? Zimmerman conosceva il professor Yue Shi?» Margaret si morse la lingua. Stupidamente gli aveva fornito un'arma in più con cui combattere. «Si» rispose, cercando di alleggerire il peso della
propria affermazione. «Michael è un archeologo, specializzato in storia della Cina, e Yue Shi era stato allievo di Hu Bo, il tizio su cui Michael sta girando un documentario. So che Michael è rimasto sconvolto dalla notizia dell'assassinio del professore: non capita tutti i giorni che un tuo conoscente venga decapitato.» Li si accese una sigaretta, mentre Margaret faceva una pausa per riprendere fiato. Chinò la testa come inseguendo un suo pensiero, poi alzò lo sguardo su di lei. «Come mai Zimmerman sa in che modo è stato assassinato il professor Yue?» le chiese a bruciapelo. «Che cosa vuoi dire?» «Voglio dire: come mai Zimmerman è a conoscenza del fatto che il professore sia stato decapitato? Notizie del genere non finiscono di certo sui giornali, qui in Cina. Pochissime persone sono a conoscenza dei particolari di omicidi cosi efferati.» Margaret alzò le braccia al cielo. «Che cosa vuoi che ti dica? Michael conosce un mucchio di gente all'università.» Fece un respiro profondo. «Ti diverti, vero?» aggiunse, sforzandosi di stare calma, mentre lui la guardava stupito. «Non fingere di non sapere di che cosa sto parlando. Sei geloso, arrabbiato e adesso ecco che ti piove dal cielo l'occasione di vendicarti.» Impassibile, Li diede un tiro alla sigaretta. «Non capisco di che cosa dovrei essere geloso» disse. «Ma, quand'anche lo fossi, non permetterei mai ai miei sentimenti di interferire nella mia capacità di giudizio in ambito professionale.» Fece una pausa a effetto. «A differenza di altri.» Margaret era furiosa, ma sapeva che la posizione di Li era inattaccabile. E lui approfittò del proprio vantaggio. «Perché non andiamo a fare al signor Zimmerman tutte quelle domande cui né tu, né io sappiamo rispondere?» 4 Una mano che impugnava un grande pennello, imbrattò di vernice rossa i due caratteri del nome "Ding Ling", poi la macchina da presa indietreggiò e sullo schermo comparve un giovane contadino che, con il barattolo di colore in mano, scese la scaletta traballante appoggiata alla grande stele. Chuck si passò una mano tra i capelli grigi, soddisfatto, senza distogliere gli occhi dal monitor. Margaret sbirciò attraverso la portiera aperta del furgoncino della regia e vide la piattaforma dell'enorme gru, sulla quale stavano l'operatore e la
macchina da presa che si allontanava dal padiglione della stele funeraria e cominciava ad abbassarsi. Margaret allora tornò a guardare lo schermo: nell'inquadratura non c'era più il padiglione, ma Michael ripreso mentre scendeva i gradini della scalinata che portava allo spiazzo antistante. «Dopo aver distrutto il piccolo ponte di pietra che porta allo spiazzo, hanno sfregiato l'iscrizione in rilievo sulla lastra litica che, nei secoli, ha fatto da sentinella ai sepolcri imperiali. Quando i contadini si sono radunati nello spiazzo, sono stati incitati dalle Guardie Rosse a sferrare l'attacco finale. Un'azione che avrebbe tormentato la giovane donna a capo delle Guardie Rosse per il resto della sua vita, perché notte dopo notte l'imperatore e le sue imperatrici le sarebbero apparsi in sogno, minacciandola con una spada.» La macchina da presa si fermò e Michael uscì dalla scena. «Stop!» gridò Chuck nel suo walkie-talkie. «Perfetto.» Si rivolse a Li Yan e a Margaret. «In controcampo lo seguiremo fino alla piazza. Naturalmente, a quel punto, ci saranno millecinquecento comparse assetate di sangue.» «Che cos'è successo?» chiese Li. «Nella realtà, intendo dire.» «Non te l'hanno insegnato a scuola?» chiese Margaret. «Non mi dire che la Rivoluzione culturale non era nel programma scolastico.» «Ti sbagli. Quando andavo a scuola io, la Rivoluzione culturale era il programma scolastico.» Chuck approfittò del momento di silenzio che seguì a questo battibecco, per inserirsi nella conversazione. «Hanno fatto a pezzi gli scheletri degli imperatori e delle due imperatrici» spiegò, accendendosi una sigaretta. «Poi,» concluse Margaret «dei resti imperiali hanno fatto un enorme falò.» «Ma si è messo a piovere,» sospirò Chuck «e tutto è stato spazzato via dal fango. Per sempre. Più tardi dovremo cercare di ricreare la pioggia, ma questa bella giornata non ci aiuta.» Indicò il cielo azzurro e terso con le montagne sullo sfondo che brillavano, tremolando nel riflesso dell'aria calda. «A quanto pare, sai parecchie cose sull'argomento» osservò Li. «Eppure so che la Rivoluzione culturale non era nel tuo programma scolastico.» «È stato Michael a raccontarmi tutto: ne sa più lui della maggior parte dei cinesi.» Chuck, a disagio per la tensione che avvertiva tra i due, disse: «Se volete parlare con Mike, avete venti minuti, mentre prepariamo la prossima sce-
na». Con grande disagio di Li, Michael si chinò a baciare Margaret sulla guancia, prima di rivolgersi a lui, tendendogli la mano. Anche Margaret si sentì imbarazzata da quel gesto affettuoso. Solo Michael parve trovarlo del tutto naturale. Di nuovo, come alla stazione di Pechino Ovest, Li ebbe l'impressione che ci fosse in Michael qualcosa di familiare, ma non riuscì a capire che cosa fosse. «È fantastico che siate riusciti a venire! Non credevo che ce l'avreste fatta!» Sembrava davvero contento di vederli. «Neanch'io lo credevo» rispose Margaret imbarazzata. Michael intercettò il suo sguardo e rimase perplesso. «C'è qualcosa che non va?» chiese, guardando prima l'uno e poi l'altra. «Perché non facciamo due passi?» propose Li e si avviarono dove le mura facevano una curva e l'ombra dei pini formava a terra un complicato disegno. Bastò allontanarsi di poco perché venissero circondati dal cinguettio degli uccelli e dal fruscio delle piccole creature del sottobosco, invece che dalle voci delle comparse radunate sullo spiazzo e della troupe che si preparava alla scena successiva. «Allora, che cosa c'è di nuovo?» chiese Michael, rivolgendosi a Margaret. Lei alzò le mani come per difendersi. «Mi dispiace, non è un'idea mia.» Li la guardò irritato. «Abbiamo saputo,» disse «che lei conosceva un certo Yuan Tao, impiegato all'ufficio visti dell'ambasciata degli Stati Uniti, e anche il professor Yue Shi, della facoltà di Archeologia dell'università di Pechino.» Margaret vide un'ombra scendere sul viso di Michael. Nel suo sguardo si leggeva un'offesa e un'accusa come in quello di un cane che sia stato preso a calci dal padrone di cui si fidava. «È esatto» confermò Michael rivolto a Li. «Conoscevo molto bene il professor Yue, ma pochissimo Yuan Tao.» «Evidentemente, però, lo conosceva abbastanza bene da consigliargli dove comprare la riproduzione di una spada antica» osservò Li. «È stato lui a chiedermelo ed è stata l'unica volta che gli ho parlato. Qualcuno, all'ambasciata, gli aveva fatto il mio nome, lui mi ha cercato e io l'ho indirizzato da un mercante nella Città Sotterranea. Ma è stato mesi fa. Da allora non l'ho più rivisto.» «E così non ha idea se abbia trovato la spada che cercava.» «No.»
«Ma sa che è stato ucciso e che la sua è una delle morti sulle quali stiamo indagando?» «Sì, lo so.» «Come mai lo sa?» Michael lanciò un'occhiata a Margaret. «Me l'ha detto Sophie.» «Sophie... chi?» chiese Li. «Sophie Daum» rispose Margaret. «Lavora all'ambasciata, è l'assistente del responsabile regionale della sicurezza. Le abbiamo parlato stamattina.» «Ah, sì?» disse Li. Dal walkie-talkie che Michael portava in cintura, una voce chiese: «Ci sei?». Michael prese in mano l'apparecchio e se lo accostò alle labbra. «Sì, Dave.» «È il tuo turno per il trucco.» «Un minuto e arrivo.» Riattaccò il walkie-talkie alla cintura. «C'è altro?» si informò rivolto a Li. «Sì» rispose Li, ma lasciò passare qualche secondo prima di formulare la domanda. «Sa in che modo è stato ucciso il professor Yue?» chiese alla fine. «Sì» disse Michael con un tono asciutto e risentito che lasciava intendere la sua intenzione di non aggiungere niente di più. «Bene. Le dispiacerebbe dirlo anche a me?» chiese Li, rimanendo impassibile. «È stato decapitato.» «Come fa a saperlo?» «Gesù!» esclamò Michael esasperato. «Tutti alla facoltà sanno che cosa gli è successo. L'università era piena di poliziotti. La notizia si è diffusa immediatamente.» S'interruppe e guardò Margaret. «E poi, ho visto le fotografie.» «Le fotografie?» Li era sbalordito e Margaret pure. «Quali fotografie?» «Quelle che Margaret aveva con sé, a Xi'an.» Li strinse i denti e le lanciò un'occhiata glaciale; Margaret non osò alzare lo sguardo su di lui. «Mi dica,» chiese a Michael «dov'era e che cosa stava facendo la notte in cui Yuan Tao è stato ucciso.» «Li, per l'amor del cielo!» protestò Margaret. Michael le fece cenno di tacere. «Perché non lo chiede a Margaret?» ribatté. Margaret rimase per un momento disorientata, poi si illuminò in volto.
«Ma certo!» esclamò, visibilmente sollevata. «Eravamo ospiti dell'ambasciatore al ricevimento organizzato a scopo promozionale prima dell'inizio delle riprese del documentario.» «Sei andata via verso le dieci, mi pare» disse Michael. «La festa è durata fino alle undici e mezzo circa, poi un gruppo di noi si è spostato al Mexican Wave, dove siamo rimasti più o meno fino alle due. Ritengo le sue domande inopportune, agente Li.» Poi, rivolto a Margaret, aggiunse: «Mi meraviglio che tu possa anche solo pensare a un mio rapporto con questa storia». «Ma io non lo penso» rispose Margaret, con voce incolore. «Forse dovremmo andare» propose a Li. Il walkie-talkie riprese a gracchiare. «Michael?!» La voce suonò insistente. «Arrivo subito» rispose lui e, con un cenno di saluto, si avviò lungo le mura. Li e Margaret rimasero a lungo in silenzio, poi lei si appoggiò alle mura merlate e guardò con occhi assenti la valle bruciata dal sole. «Hai permesso che vedesse documenti fotografici riservati» disse Li a voce bassa ma piena di rabbia. Margaret chiuse gli occhi e strinse i denti. Aveva sbagliato e fu costretta ad ammetterlo. «Non avevo intenzione di fargliele vedere.» «Oh, capisco, allora le ha viste per sbaglio?» «Proprio così. Stavo riesaminando la documentazione nella mia camera in albergo e avevo sparpagliato tutto il materiale sul letto. Se ti ricordi, ti ho anche telefonato e tu mi hai risposto più o meno con un vaffanculo. Poi Michael è venuto a chiamarmi perché dovevamo uscire a cena. I fogli e le fotografie mi sono caduti per terra, lui mi ha aiutato a raccoglierli. È stato allora che ha visto la foto e ne è rimasto sconvolto.» «Ma non tanto da rinunciare alla cena fuori...» Margaret si trattenne a stento dal mollargli un altro schiaffo. «Che bastardo!» esclamò. «Tutte quelle stronzate sul fatto di non lasciare che le questioni personali interferiscano con la vita professionale solo per assolverti dall'avermi liquidata come una scarpa vecchia. Be', complimenti! Hai rovinato il mio rapporto con Michael. E perché? Per avere la conferma di quello che abbiamo sempre saputo: lui non c'entra niente con questa storia.» Margaret se ne andò e Li rimase per un attimo immobile, stordito dalle sue parole. Si rendeva conto, ovviamente, che lei aveva ragione e che il
collegamento tra Zimmerman e i delitti era quanto meno labile. Poi si chiese perché avesse voluto venire a cercarlo e a incalzarlo con quelle domande su Yuan e sul professor Yue. Era stato veramente mosso dalla gelosia? Margaret si era fatta strada tra la folla delle comparse ed era già a metà dello spiazzo quando Li la raggiunse e la seguì mentre attraversava il piccolo ponte di pietra che le Guardie Rosse avevano distrutto tanti anni prima. «E adesso che facciamo?» le chiese. La risposta di Margaret arrivò dopo un lungo silenzio. «Adesso è giunto il momento di parlare con chi poteva avere un movente per uccidere Yuan Tao.» «E cioè?» «Prova un po' a pensarci» gli disse, con un tono sprezzante. Era chiaro che non voleva condividere le sue riflessioni con lui e Li non aveva elementi per risponderle. La scoperta del diario, il colloquio con il mercante che aveva venduto la spada, l'ipotesi di un coinvolgimento di Zimmerman gli avevano impedito di concentrarsi sull'interrogativo che proprio il diario aveva portato alla ribalta, facendo apparire Yuan come l'autore dei delitti: chi aveva ucciso Yuan? E mentre Li formulava quel pensiero, la risposta gli apparve subito ovvia: «I rimanenti membri della Brigata della rivoluzione permanente». «Congratulazioni!» disse Margaret. «Hai vinto una vacanza per due in Florida.» E si rimise a camminare a passo svelto. Li la rincorse. «Ma come hanno fatto a sapere che gli altri tre erano stati assassinati?» «Per amor del cielo,» esclamò Margaret con un sospiro «non ricominciare con la storia che i giornali non parlano dei delitti. Sappiamo tutti e due che in Cina il tamtam funziona benissimo. Non è possibile che quei tre non sapessero che i loro vecchi compagni della Guardie Rosse erano stati tolti di mezzo e in che modo. E non ci vuole un genio per capire chi sarebbe stato il prossimo.» 5 Margaret era seduta davanti allo schermo del computer, oggetto di infinite occhiate curiose. La maggior parte delle ragazze che lavoravano in quell'ufficio non aveva mai visto così da vicino una yangguizi e lei era un perfetto esemplare della specie: capelli biondi mossi, grandi occhi azzurri,
pelle diafana e leggermente lentigginosa. Si era creato uno strano silenzio nella stanza, interrotto solo dal ticchettio delle tastiere e da qualche sporadica risatina. Al piano superiore, Li aveva convocato una riunione con i suoi agenti. In virtù della sua collaborazione all'indagine, avrebbe dovuto parteciparvi anche Margaret, ma, poiché nessuno degli agenti parlava inglese, lei aveva preferito richiedere un computer con accesso a Internet per lavorare da sola. Li, dopo il ritorno da Ding Ling, era stato freddo e formale con lei. Con un sorrisino sulle labbra aveva chiesto a una ragazza dell'ufficio di metterle a disposizione un computer e Margaret non aveva tardato a capire il motivo di quel sorrisino: i software erano in cinese, un succedersi incomprensibile di ideogrammi! A forza di tentativi, riuscì infine a trovare l'icona di Explorer e ad accedere all'assai più rassicurante prima pagina del motore di ricerca Alta Vista. Digitò tameshi giri e meno di mezzo minuto dopo la ricerca le portò un numero esorbitante di pagine di risultati, con i relativi link. Si sentì disarmata: avrebbe impiegato ore ad analizzarle tutte. Dopo averci pensato un attimo, decise di lanciare una nuova ricerca digitando "Yuan Tao" nell'apposita finestra. La risposta fu sconcertante: quasi centosessantamila pagine web! Margaret esaminò i primi dieci link che apparvero sullo schermo. A quanto pareva, in tutti i casi le parole yuan e tao erano invertite: c'era un link a una località chiamata Tao Yuan a Taiwan, un altro a una pagina web di una università americana, altri ancora a pagine riguardanti un antico poeta cinese di nome Tao Yuan-ming. Alla fine, però, individuò l'unico risultato che corrispondeva perfettamente alla ricerca che aveva lanciato: Yuan Tao. Si trattava del link a un bollettino sulle arti marziali giapponesi con uso della spada. «Ci siamo!» gridò in preda all'entusiasmo. Molte teste si voltarono verso di lei. Margaret, sorrise, imbarazzata, e tornò a concentrarsi sullo schermo. Cliccò sul link e aspettò che si aprissero le pagine della «North California Review of Japanese Sword Arts», dove avrebbe dovuto esserci il riferimento a Yuan Tao. Fece scorrere le pagine a video e si imbatté nella pubblicità di autentiche e affilatissime spade giapponesi; nella cronaca di una gara di tameshi giri a Kyoto, durante il capodanno giapponese del 1997; nell'elenco dei vincitori del Trentaquattresimo Vancouver Kendo Taikai... Fu a quel punto che l'occhio le cadde sul nome che stava cercando: Yuan Tao, secondo classificato alla pari nella categoria degli ultraquarantenni. In
fondo all'elenco c'erano brevi note biografiche sui vincitori. Yuan Tao, secondo quanto lui stesso aveva dichiarato, si era iscritto al club di kendo di San Francisco affiliato alla Pacific North West Kendo Federation, nel 1995, passando successivamente a un club di Washington. Aveva partecipato a diverse competizioni, ottenendo in breve tempo risultati eccezionali. Il giudice di una gara lo aveva definito «il concorrente dotato della maggiore capacità di concentrazione che si sia visto negli ultimi tempi». Margaret si appoggiò allo schienale della sedia, chiedendosi su quali pensieri si concentrasse con tanta intensità la mente di Yuan Tao. Pensava forse al suo ruolo di giustiziere delle Guardie Rosse che avevano causato la prematura morte di suo padre? Quali immagini aveva nella mente mentre si esercitava al tameshi giri sui covoni di paglia? Era stupita della tenacia con la quale si era preparato alla vendetta per l'assassinio del padre, perché era evidente che tale lui lo considerava. Aveva organizzato l'azione a sangue freddo, scrupolosamente: si era esercitato nell'applicazione di metodi di esecuzione capitale, fino a raggiungere un altissimo livello di preparazione, aveva cambiato il corso della propria vita, intraprendendo una nuova carriera che lo avrebbe riportato nella sua città natale, nell'anonimato. Come Margaret aveva sempre sentito dire, la vendetta è un piatto che va consumato freddo. Evidentemente, Yuan Tao aveva conservato la sua nel congelatore e se l'era portata da un capo all'altro del mondo: quando fosse giunto il momento di consumarla, gli effetti sarebbero stati sconvolgenti. Ma il suo piano di vendetta era stato interrotto. Qualcuno aveva fatto a Yuan quello che lui stava facendo agli altri. Nello stesso, identico modo. Chi? Uno della vecchia Brigata della rivoluzione permanente? Ne rimanevano tre e avevano un movente, ma nessuno di loro poteva conoscere nei particolari il rituale con il quale gli altri erano stati uccisi. «Hai finito?» L'arrivo di Li interruppe i suoi ragionamenti. «Solo un momento.» Margaret lanciò una stampa in duplice copia del documento e andò a prelevare le pagine dalla stampante all'altro capo dell'ufficio. Li si avvicinò. «Che cos'è?» «La cronaca di un incontro di arti marziali con la spada, a Vancouver, due anni fa» rispose, allungando a Li una copia della stampata. «Yuan Tao è arrivato secondo della sua categoria. Evidentemente ha cominciato a praticare l'arte marziale giapponese del kendo dopo aver letto il diario di sua
madre nel 1995. Quando è arrivato a Pechino aveva già una buona esperienza alle spalle. Non c'è dubbio che sia Yuan Tao l'uomo che cerchiamo.» «Infatti, non c'è alcun dubbio. Anche l'impronta digitale insanguinata nell'ufficio di Bai Qiyu è sua.» «Ah, ecco! Allora abbiamo il movente, l'occasione e molte prove indiziarie: la polvere nero-bluastra, le bottiglie di vino, l'abilità nel manovrare la spada e ora anche l'impronta che rivela la sua presenza sulla scena di uno dei delitti. Ce ne sarebbe abbastanza per una condanna da parte di qualsiasi tribunale.» «Peccato che qualcuno ci abbia battuti sul tempo, emettendo una sentenza per conto proprio. Prendi» le passò una cartelletta floscia e pesante e si avviò alla porta. Margaret lo seguì, facendo attenzione a non lasciar cadere i fogli per terra. «Che cos'è?» Li s'incamminò lungo il corridoio e voltò appena la testa per risponderle. «Sono gli aggiornamenti della documentazione che ti è stata fornita. Troverai le trascrizioni di tutti gli interrogatori che abbiamo fatto agli insegnanti e agli ex allievi della scuola di Yuan, la traduzione del diario, una descrizione dei tre ex membri delle Guardie Rosse ancora vivi.» «Perché non hai mandato tutto all'ambasciata?» Li era già arrivato alla scala. C'era, nella sua voce, un compiacimento che irritò profondamente Margaret. «Volevo consegnarti personalmente l'incartamento completo, perché nessuno potesse accusarmi di non tenerti informata» disse e cominciò a scendere. «Ma tu dove vai?» Qualche foglio scivolò dalla cartelletta e svolazzò giù per i gradini. La voce di Li risuonò per le scale. «Dove andiamo, vorrai dire. Io e te.» Margaret raccolse i fogli e gli corse dietro. «Va bene, allora dimmi dove andiamo.» Lo raggiunse in fondo alle scale, senza fiato, con la cartelletta stretta al petto. Lui si fermò e infilò la copia della stampata che lei gli aveva dato in cima ai fogli della cartelletta. «Andiamo dalla Pezzente.» «Chi è?» Ma Li sembrava immerso nei propri pensieri. «Tanto vale che tu lo sappia,» le disse infine, cercando di catturare il suo sguardo «ho fatto control-
lare gli spostamenti di Zimmerman durante i primi tre omicidi.» «Oh, Cristo!» «Il lavoro delia polizia cinese è fatto di una meticolosa attenzione ai dettagli, dottoressa Campbell.» S'interruppe, ma prima che lei potesse dirgli quello che pensava del lavoro della polizia cinese, aggiunse: «Ti farà piacere sapere che all'epoca dei primi due delitti non si trovava in Cina». Usci nella luce accecante del sole pomeridiano. Di nuovo lei dovette allungare il passo per stargli dietro tino all'automobile. Quel breve percorso servì a calmarla, almeno quanto bastava per iar prevalere il buonsenso. Non c'era ragione di insistere su quell'argomento. Era superato. «Chi è la Pezzente?» chiese, per la seconda volta. «Una delle Guardie Rosse.» Li apri la portiera, si sedette al volante e rimase a guardare Margaret che cercava di salire in macchina senza iar cadere i fogli dalla cartelletta. «Mi raccomando, non disturbarti ad aiutarmi!» Riuscì finalmente a sedersi e buttò la cartelletta sul sedile posteriore. «Allora, secondo te, è stata la Pezzente ad ammazzarli?» «Lo escludo.» «Perché?» «È cieca.» CAPITOLO NONO 1 Lo hutong dove abitava la Pezzente si snodava attraverso un silenzioso labirinto di siheyuan, le vecchie case intorno a un cortile, in una zona verde a nord del parco Behai. Li lasciò l'auto in fondo alla stradina, poi s'inoltrò con Margaret in mezzo a muri di mattoni fatiscenti, scansando un triciclo con un letto attaccato dietro. Massicce cancellate di legno, si aprivano su cortili seminascosti dove, nella maggioranza dei casi, quattro famiglie si dividevano lo spazio, una per lato. Negli anditi bui, Margaret intravide biciclette e vasi di piante, spazzoloni, secchi e tutte le povere vecchie cose che si accumulavano nella vita del siheyuan. Davanti a loro, un gruppo di turisti, con insulsi berrettini da baseball, era riunito intorno a una guida cinese, che teneva una bandiera rossa in una mano e un megafono nell'altra. Aveva un tono di voce monotono e metallico mentre illustrava le caratteristiche del siheyuan.
Dopo una ventina di metri, oltre la vetrina di un negozietto che vendeva sigarette e bibite, svoltarono, passarono attraverso un portone aperto, superarono una staccionata di legno ed entrarono nel cortile della Pezzente. Contro un muro c'era un cumulo di mattonelle di carbone. Una sedia rotta giaceva in un angolo delle scale e poco più in là erano ammassate varie biciclette. Piante in vaso erano sistemate un po' dappertutto. Due canarini cantavano in una gabbia di bambù appesa a un albero che sembrava sbucare da una crepa nel cemento. L'atmosfera era stranamente silenziosa, rarefatta. La città sembrava essersi dissolta in un cupo sogno confuso. Margaret notò sguardi sospettosi che spiavano i loro movimenti dalle finestre dall'altro lato del cortile. Anche Li se ne accorse. «Sto cercando la Pezzente cieca!» disse Li ad alta voce e una donna indicò una porta alla loro sinistra. «Vieni con me.» E si avviò seguito da Margaret. Oltrepassarono una porta che immetteva in una minuscola cucina in disordine, con un fornello a due fuochi e una cappa annerita. Un forno a microonde troneggiava, in stridente contrasto con il resto dell'arredamento, su un mobiletto di plastica marrone, di fronte a una vecchia vasca da bagno e a un bollitore elettrico. Li si fermò sulla soglia dell'appartamento e stava per bussare, quando una voce di donna gridò: «Chi cerca la Pezzente cieca?». «La polizia» rispose Li. Entrò e Margaret lo seguì. La Pezzente stava lavorando a maglia, seduta su un divanetto a due posti, davanti a un televisore inserito in un mobile bianco a muro. C'era un tavolino con un portacenere, uno scaffale per i libri, un ventilatore elettrico. Al di là di una porta a vetri, s'intravedeva una cameretta con un letto singolo, spoglia come una cella. Tutto era perfettamente in ordine e pulito. Margaret notò che non c'erano quadri alle pareti. «Chi è la donna?» chiese la Pezzente. Appariva vecchia e rinsecchita, con i capelli grigi pettinati all'indietro e stretti in uno chignon. Indossava la divisa blu alla Mao e calzava pantofoline nere sui piedi minuscoli. Margaret le avrebbe dato settant'anni, ma sapeva che doveva avere la stessa età degli altri: cinquantun anni. Portava occhiali tondi neri, che le davano un aspetto vagamente sinistro. «Come sa che c'è una donna con me?» le chiese Li. «Lo sento dall'odore.» La Pezzente piegò le labbra in un'espressione di disgusto. «Un profumo occidentale.» «È americana.»
«Ah, una yangguizi.» La Pezzente sputò fuori quella parola come un grumo di muco. «Immagino che lei non parli inglese» disse Li. «Che cosa glielo fa pensare?» ribatté la Pezzente in un perfetto inglese che sbalordì Margaret tanto quanto il tono acido della risposta. «Pensa che sia stupida perché vengo da una famiglia povera e non ero brava a scuola?» «No,» rispose Li pacatamente «ma so che, negli anni Sessanta, in molte scuole l'inglese non veniva insegnato.» «Io l'ho studiato per leggere i testi in Braille. Non ce ne sono molti in cinese per nutrire una mente senza occhi.» S'interruppe un momento. «È venuto per i delitti?» «Sì.» Li prese un libro da un ripiano e cominciò a sfogliarlo, facendo scorrere le dita sui puntini in rilievo. «Lei ne sa qualcosa?» «Per favore, non tocchi i miei libri. Per me sono preziosi.» Li rimase stupito. «Ho un udito fine» proseguì lei. Lei sarà anche un poliziotto, ma questo non le dà il diritto di toccare la mia roba. Chi è l'americana?» «Sono un medico» rispose Margaret. «Collaboro all'indagine.» «E da quando i cinesi hanno bisogno degli americani?» chiese la Pezzente con tono sprezzante. «Non abbiamo bisogno del loro aiuto,» intervenne Li «ma una delle vittime era un americano.» «Un americano?» ripeté, con genuino stupore. «Ma non è possibile! Ho saputo della Scimmia, di Zero, del Maialino... Che cosa c'entra un americano?» «Un americano di origine cinese» precisò Li. «Era nato qui. Avete frequentato la stessa scuola: si chiamava Yuan Tao.» La Pezzente impallidì. «Il Gatto!» esclamò e un lampo di memoria attraversò il suo viso spento. «Li ha uccisi lui» disse e si portò una mano alla bocca. «Sapevamo che qualcuno ci dava la caccia. Uno dopo l'altro... Ma non avremmo mai pensato che potesse essere il Gatto!» «Quando usa il plurale "noi" a chi si riferisce?» «A me e all'Uccello: siamo gli unici rimasti.» «E della Tartaruga che cosa ne è stato? Non siamo riusciti a rintracciarlo.» «Avreste dovuto cercarlo all'inferno per trovarlo. È morto più di dieci anni fa. Uno scemo. Diciamo, un ingenuo. È sceso in piazza Tien-An-Men, la prima sera dei disordini, per vedere che cosa stava succedendo ed è ri-
masto schiacciato da un carro armato.» La Pezzente si fermò, come folgorata da un altro pensiero. «Ma... chi ha ucciso il Gatto?» «Credevamo che lei lo sapesse.» «Chi? Io?» disse lei con una risata triste, poi si morse le labbra e strinse gli occhi, come se finalmente avesse capito. «Ah, ecco! Voi pensate che sia stato uno di noi!» Rise ancora. «Magari proprio io.» «E perché non l'Uccello?» «L'Uccello?» La Pezzente, presa da un'incontenibile ilarità, scoppiò in una risata rauca. «L'Uccello? Sta scherzando, vero? L'ha mai visto?» «Ancora no.» «L'Uccello non potrebbe uccidere nessuno. È un vecchio patetico e innocuo.» «Credevo che fosse il capo della Brigata della rivoluzione permanente,» disse Li «quello che aveva guidato l'aggressione contro gli insegnanti e che aveva ordinato di distruggere il portale della scuola.» «Questo è successo più di trent'anni fa. Allora era forte, coraggioso. Io lo stimavo. Ma quando la Fazione Ultrarossa si è spaccata, se la sono presa con lui e la ruota della fortuna si è messa a girare in senso inverso. L'hanno picchiato, tenuto prigioniero per quasi due anni in una stanza, costringendolo a scrivere la propria autocritica e trascinandolo fuori solo per le "sessioni di lotta". Hanno ucciso tutti i suoi uccelli e infine lo hanno mandato ai lavori forzati nella Mongolia interna a costruire fortificazioni lungo il confine. L'ho rivisto un po' di anni dopo ed era un'altra persona. Ma anch'io ero un'altra persona. Avevo perso la vista.» «Com'è successo?» chiese Margaret. La Pezzente voltò la testa verso di lei e annusò l'aria, come per esprimere un giudizio olfattivo. «A scuola credevano che fossi stupida, perché leggevo male. Io continuavo a ripetere che avevo mal di testa, ma loro pensavano che fosse una scusa per non studiare. Ho detto che avevo una macchia nera davanti agli occhi e che non riuscivo più a vedere la lavagna... Sono passati due anni prima che mio padre mi portasse all'ospedale. Lì hanno scoperto che avevo un tumore maligno all'occhio sinistro e che dovevano asportarmelo completamente.» Di nuovo la risata amara, con le labbra tirate a scoprire i denti gialli. «Allora mi hanno creduto.» Margaret notò che le tremava il labbro inferiore. «Io riuscivo solo a pensare a come sarei stata brutta senza un occhio. Ma loro mi hanno detto che me ne avrebbero messo uno di vetro e che nessuno si sarebbe accorto di niente.» «Era ancora nella Brigata della rivoluzione permanente, a quell'epoca?»
chiese Li. «No, l'Uccello era stato arrestato e ognuno se n'era andato per la propria strada.» «E... all'altro occhio, che cosa è successo?» le chiese Margaret. «Lei è un medico, eh?» disse la Pezzente con un tono sarcastico. «Perché non prova a indovinare?» «Non è il mio ramo.» «Ah, i medici! Non sanno niente!» La Pezzente strinse con le mani minuscole i ferri da calza. «Dopo sei mesi circa i mal di testa sono tornati. All'inizio ho pensato che la causa fosse l'occhio di vetro perché, quando me lo toglievo, stavo un po' meglio. Ma poi le cose sono peggiorate e alla fine mi è stato diagnosticato un tumore anche all'altro occhio. Avrebbero dovuto togliermi anche quello. Mio padre non ha voluto. Io non avevo neanche vent'anni. Che cos'avevo visto della vita? Del mio paese?» Di nuovo il labbro inferiore ebbe un tremito e Margaret pensò che, se non fossero stati di vetro, quegli occhi avrebbero pianto. «Mio padre faceva l'operaio imballatore in una fabbrica. Mia madre era morta. Eravamo molto poveri. Lui ha chiesto un prestito agii altri operai: seicento yuan. Una bella somma a quell'epoca. Ha detto ai dottori che dovevano aspettare due mesi a togliermi l'occhio, perché prima dovevo vedere il mio paese. Abbiamo preso il treno e siamo andati a Xi'an e a Chongqing, poi siamo scesi lungo il fiume Yangtze fino a Nanchino e Shanghai. Mi ha portato a Qingdao, la sua città, dove anch'io ero nata; ha voluto che salissimo in cima a una collina perché vedessi il sole sorgere a oriente, oltre il mar Giallo. Ma il mare non era giallo, era rosso, color sangue e Qingdao sembrava in fiamme. Non la dimenticherò mai, mi si è impressa nella mente nell'incendio dell'alba e non potrò mai immaginarla in nessun altro modo.» La Pezzente tacque per riprender fiato. Margaret si accorse che non teneva più le mani strette sui ferri. «Quando abbiamo ripreso il treno per tornare a casa, io vedevo solo ombre indistinte, biancastre, come se sul mondo fosse calata una foschia. Mi hanno tolto l'altro occhio e ho dovuto imparare a vedere con le orecchie, col naso, con le dita. Qualche volta mi pare di vedere meglio così, senza gli occhi.» Fece un cenno con la mano davanti a sé. «Ecco perché ho il televisore. Vedo con le orecchie. Dal suono di una voce capisco l'espressione di un viso. Non ho più bisogno degli occhi.» Rimasero in silenzio per un attimo che sembrò lunghissimo. Poi Li dis-
se: «Perché le hanno dato quel soprannome?». «Pezzente?» La sua risata suonò meno amara. «Lei che cosa ne pensa, eh? Mio padre riusciva a malapena a procurarmi i vestiti. Mia madre era morta e lui non sapeva cucire, né rammendare, così i miei abiti cadevano a pezzi. Anche gli altri bambini erano poveri, ma la loro povertà era meno appariscente. Mi chiamavano la Pezzente per prendermi in giro e poi il soprannome mi è rimasto, accompagnandomi per tutta la vita. Solo che adesso sono la Pezzente cieca.» Li si passò una mano sul mento, pensieroso. «Ha mai sentito il soprannome Talpa?» le chiese poi. Lei aggrottò la fronte. «Talpa? No, non l'ho mai sentito. Chi è?» «Credevamo che fosse Yuan Tao.» «No, lui è sempre stato il Gatto. Il Gatto fifone.» Le labbra della Pezzente si piegarono nella consueta espressione sprezzante. «Sono contenta che qualcuno lo abbia ucciso. Che diritto aveva di fare una vita migliore della nostra? E che diritto aveva di vendicarsi?» Sentirono avvicinarsi la voce della guida turistica con il megafono. La Pezzente posò il lavoro a maglia e si alzò faticosamente in piedi. «Come può guadagnarsi da vivere un cieco, al giorno d'oggi?» disse. «Sono diventata un'attrazione per i turisti, che vengono portati qui a vedere come vive una vecchia cinese cieca. Mi danno più di quanto prendesse mio padre alla fabbrica e non devo neanche fare la fatica di guardarli in faccia.» Li e Margaret si avviarono alla porta. «Vede spesso l'Uccello?» chiese Li. «Non lo vedo più da quando mi hanno tolto gli occhi,» rispose la Pezzente «ma lui viene spesso a trovarmi e i suoi uccellini mi tengono compagnia. Cantano meravigliosamente bene.» «Anche lui ha saputo che la Scimmia, lo Zero e il Maialino sono stati uccisi?» «Certo, e ci siamo chiesti spesso chi sarebbe stato il prossimo.» La guida era ormai sulla porta. «Solo sei alla volta, per favore. Sei alla volta. Questa è la tipica abitazione siheyuan. Molto piccola dentro.» Lanciò un'occhiata infastidita a Li e a Margaret. Li disse alla Pezzente: «Abbiamo l'indirizzo dell'Uccello. Abita ancora nella Dengshikou?». «Sì, ma a quest'ora non lo troverete. Ha un banco al mercato degli uccelli Guanyuan. La sua vita è lì, dov'è sempre stata: in mezzo agli uccelli.»
Mentre Li e Margaret spingevano per uscire, i turisti spingevano per entrare, in un allegro schiamazzo, eccitati alla prospettiva di invadere la vita privata di una vecchia signora. 2 Li guidava lentamente in mezzo al traffico, diretto verso occidente. Nella penombra degli alberi, le biciclette zigzagavano instabili tra carretti a triciclo, autobus e taxi, su e giù per le strette stradine. I marciapiedi fervevano di una intensa attività commerciale. Davanti alle vetrine dei negozi di computer, impianti stereo e lettori DVD, c'erano bancarelle di frutta e verdura e grandi cesti di noci. In lontananza, attraverso una leggera foschia, si intravedeva il cavalcavia del raccordo con la seconda circonvallazione. Gli automobilisti suonavano il clacson più per noia che per impazienza. Li si appoggiò al volante in preda alla frustrazione. Presto, pensò, il traffico di Pechino sarebbe diventato un inestricabile ingorgo permanente e di nuovo tutti avrebbero ripreso a usare le biciclette, come il mezzo più rapido per spostarsi e, forse, l'unico praticabile. «Vuoi parlarmi del soprannome?» La voce di Margaret irruppe nei suoi pensieri e lui vi colse immediatamente un tono di accusa. «Saprai tutto quando leggerai le deposizioni che abbiamo raccolto alla scuola,» rispose e aggiunse, non senza intenzione, «mentre tu eri a Xi'an». Sentì Margaret sospirare, ma non distolse gli occhi dal traffico davanti a sé. «Prima o poi le leggerò,» gli rispose Margaret con quel tono aspro che Li aveva imparato a conoscere «ma adesso potremmo guadagnare tempo, se tu mi dessi qualche semplice spiegazione.» «Come ha detto la Pezzente, il soprannome di Yuan era Gatto, non Talpa.» «E tutti quelli che lo avevano conosciuto a scuola lo sapevano, vero?» Li annuì. «Il che, in un certo senso, apre una falla nella tua teoria secondo cui l'assassino è una delle rimanenti Guardie Rosse.» Li si voltò a guardarla, ma Margaret era immersa nei suoi pensieri. «In effetti la mia è un'ipotesi sempre meno plausibile» ammise Margaret infine. «Uno di loro è morto e un'altra è cieca. In pratica, rimane solo l'Uccello. E lui conosceva senz'altro il soprannome di Yuan. A meno che...» «Sì?» «A meno che non abbia usato un soprannome diverso per confondere la polizia.»
«Non credo.» «Perché no?» «Perché per pensare una cosa del genere bisogna essere molto svegli e, da quello che abbiamo saputo, non è proprio il caso dell'Uccello.» «Allora perché stiamo andando da lui?» Ma prima che Li potesse parlare, Margaret si rispose da sola: «Aspetta, non dirmelo... lo so: "Perché il lavoro della polizia cinese è fatto di una meticolosa attenzione ai dettagli"». Margaret sospirò e guardò il traffico, sempre bloccato: «Il lavoro della polizia è fatto anche di grande pazienza, visto il tempo che ci vuole solo per spostarsi da un punto all'altro». Ma la pazienza di Li si era già esaurita. Aprì il finestrino, sistemò il lampeggiatore rosso sul tetto, fece partire la sirena e, tagliando la strada alle macchine che sopraggiungevano in senso inverso, s'infilò in una stradina laterale. Parcheggiò l'auto e uscì. «Proseguiremo a piedi. Non è lontano.» Passarono attraverso i banchi di un mercato del pesce e camminarono fino alla stazione della metropolitana di Chegongzhuang. Sul marciapiede di Xizhimen Sud, al di là di una pista ciclabile bordata di alberi, videro i primi gruppi di vecchi riuniti intorno alle gabbie di uccelli. Centinaia di biciclette erano parcheggiate ai due lati dell'ingresso al mercato. Uomini con uccelli predatori legati ai manubri dei tricicli, esibivano pappagalli, canarini, falchi, parrocchetti in gabbie di bambù. Il cinguettio di diecimila uccelli sovrastava perfino il boato del traffico sulla seconda circonvallazione. Li e Margaret passarono sotto un'insegna rossa ed entrarono in un cortile coperto dov'erano accatastate migliaia di gabbie di uccelli multicolori. Vecchi e ragazzi contrattavano ad alta voce, scambiando uccelli e piccoli animali con oggetti di ogni sorta. Li si fermò a una bancarella di cose vecchie incastrata tra le file di gabbie appese tutt'intorno e dovette alzare la voce per chiedere a una vecchia dove potevano trovare l'Uccello. Lei indicò una bancarella in fondo alla fila, ma aggiunse: «Adesso non c'è. Viene solo la mattina. A quest'ora è al Parco del Bambù Viola». Ci volle un'altra mezz'ora per raggiungere il parco nel traffico del tardo pomeriggio, che si andava intensificando con l'avvicinarsi dell'ora di punta. Margaret riconobbe l'ingresso, con le sue file di tetti di bambù ricurvi,
le siepi potate a forma di elefante e le assurde statuette di gusto europeo in mezzo a una profusione di fiori. Passava di lì ogni giorno, quando, appena arrivata a Pechino, andava in bicicletta dal Friendship Hotel all'Accademia di polizia. Al cancello, Li parlò con il custode, il quale conosceva bene l'Uccello dal momento che lo vedeva tutti i giorni. Raccontò che gli uccelli erano la sua sola e costante compagnia e così lui lo lasciava passare con il triciclo che serviva a trasportare le gabbie. Si sistemava sotto un padiglione di bambù, sulla riva orientale del lago, dove si esercitava nel wu shu. Li e Margaret camminarono in silenzio, nell'ombra scura della sera incombente, lungo i fitti cespugli di bambù viola che dava il nome al parco. Al di là dei salici piangenti, sul bordo del lago, il cielo aveva riflessi rosa mentre il sole si ritirava poco a poco lasciando il posto alla notte. Uscirono dal viale principale e seguirono un sentiero in salita che conduceva a un padiglione affacciato su uno stagno di acqua salmastra torbida. Appese al tetto, sorretto da tozze colonnine laccate, c'era una dozzina di gabbie di uccelli cinguettanti. Lì sotto, un uomo in tuta nera e ciabattine di tela si esercitava nell'antica arte marziale del wu shu, trafiggendo l'aria densa e calda della sera con la sua spada d'argento. Era alto, macilento, con radi ciuffi di capelli sottili e scuri e una barba irregolare che gli copriva in parte le guance incavate e finiva a punta sul mento. Prima che lui li vedesse, Li e Margaret si fermarono un attimo a guardarlo roteare la spada con una sicurezza e un'audacia che contrastavano con il suo aspetto dimesso. Fu il canto degli uccelli, fattosi improvvisamente più intenso, ad avvertirlo della loro presenza. Si bloccò con la spada a mezz'aria e li guardò. Margaret lesse la paura nei suoi occhi scuri. Poi sembrò tranquillizzarsi a mano a mano che li vide avvicinarsi al padiglione, ma la compostezza e la sicurezza che aveva mostrato nel maneggiare la spada erano sparite. Li gli mostrò il distintivo della polizia. «Parla inglese?» gli chiese. L'Uccello fece segno di no con la testa. «Sa perché siamo qui?» L'Uccello fece di nuovo segno di no. Li gli prese la spada di mano e la osservò. Era un oggetto da pochi soldi, leggero, con la lama retrattile, facile da trasportare. «Lei maneggia bene la spada. Si esercita molto?» «Ogni giorno» rispose l'Uccello. «Mi distende i nervi.» «Mi può dire qual è il suo nome completo, per favore?» «Ge Yan» rispose l'Uccello. «Ma nessuno mi chiama così.» «Che cosa sa di quello che è successo alla Scimmia, a Zero e al Maiali-
no?» L'Uccello impallidì e si mise a sedere sulla stretta panca di legno che girava tutt'intorno al padiglione. «Non conosce una parola d'inglese, vero?» intervenne Margaret, spazientita. Li le lanciò un'occhiata. «Pare di no. Peccato che tu non sappia il cinese.» Margaret pensò che si fosse meritata quella risposta e si ritirò in fondo al padiglione per osservare da lontano. L'Uccello le lanciò un'occhiata preoccupata. «Non faccia caso alla signora e risponda alla mia domanda» disse Li. «Sono stati assassinati» disse l'Uccello, in un bisbiglio. «Sa dirmi da chi?» «No, ma so che adesso tocca a noi.» «A chi?» «A me e alla Pezzente.» «Come lo sa?» «La Pezzente ha detto che qualcuno sta cercando di ucciderci tutti. Tutti noi che eravamo nella Brigata della rivoluzione permanente.» «Perché?» «Non lo so.» Li tacque per riflettere un momento. Aveva ancora in mano la spada. Dopo aver fatto rientrare la lama, gliela lanciò all'improvviso. «La prenda!» L'Uccello l'afferrò prontamente con la mano sinistra. Li guardò Margaret cui non era sfuggita la ragione di quella messinscena. «Mancino» disse Li. L'Uccello si strinse nelle spalle. «E allora?» «Niente, niente.» Li si accese una sigaretta e osservò il fumo azzurro alzarsi a spirale nell'aria immobile della sera. La luce stava calando. «Che cosa ti ha detto?» chiese Margaret. «La stessa cosa che ci ha detto la Pezzente. Pensa che i prossimi saranno loro due.» «Sa anche di Yuan Tao?» «Non gliel'ho ancora chiesto.» L'Uccello parve spaventato da quello scambio di battute in inglese. «Che cosa state dicendo?» chiese a Li con i nervi scoperti. «Stavamo parlando di un altro dei suoi ex compagni di scuola: Yuan Ta-
o.» L'Uccello spalancò gli occhi. «Il Gatto?» «Lo abbiamo trovato morto in un appartamento nella zona orientale della città. Decapitato. Come gli altri.» Per un attimo l'Uccello lo guardò, poi, inaspettatamente, si mise a piangere, lasciando Li esterrefatto. Margaret si avvicinò. «Che cosa gli hai detto?» chiese. «Gli ho parlato di Yuan.» L'Uccello si mise una mano sulla bocca, per trattenere i singhiozzi che lo squassavano. Respirava a fatica e a un tratto emise un profondo gemito animalesco, mentre le lacrime gli rigavano le guance bagnandogli la barba. Guardò Li con occhi disperati. «Mi dispiace,» disse «mi dispiace tanto.» Li rimase impassibile. «Lo ha ucciso lei?» gli chiese. L'Uccello scosse la testa in segno di diniego. «No, non l'ho ucciso io» spiegò poi, quando fu in grado di parlare. «Ma gli abbiamo tolto la vita tanti anni la, durante la Rivoluzione culturale.» I singhiozzi gli facevano sussultare il petto. «Abbiamo ucciso suo padre... Nel cortile della scuola... E sua madre era lì che guardava.» Cercò con lo sguardo angosciato una comprensione che, lo sapeva, non avrebbe trovato. «Non avevamo intenzione di ucciderlo, eravamo solo ragazzi.» Ebbe un altro momento di totale sconforto, si prese la faccia tra le mani, continuando a piangere. Li e Margaret aspettarono che i singulti cessassero. Era sconvolgente vedere un adulto piangere senza ritegno. Alla fine, riuscì a riprendere il controllo di sé. «Ho passato la vita a pentirmi di tutto quello che abbiamo fatto allora» disse. «La Cina era impazzita e ci ha trascinati nella sua follia. Adesso si è ripresa, ma non può ridarci le vite perdute, né togliere il dolore delle ferite.» Si asciugò le lacrime con il palmo delle mani. «Da allora soffro di nervi e questo mi impedisce di lavorare, se non con gli uccelli. Loro non hanno né passato, né futuro. Non sanno niente di quello che ho fatto.» Dopo un momento, aggiunse: «Povero Gatto». «Gatti e uccelli non vanno d'accordo, eh?» disse Li, per nulla commosso dal dolore di quell'uomo. Il racconto letto nel diario gli procurava ancora una dolorosa indignazione. L'Uccello era disorientato. «Che cosa vuol dire?» «È stato il Gatto a uccidere gli altri. Ha vendicato la morte di suo padre. Se non fosse stato fermato, avrebbe ucciso anche lei e la Pezzente.»
«Continua a credere che l'abbia ucciso io?» L'Uccello lo guardò incredulo. «Uccidere per non essere uccisi.» «Ma io non sapevo nemmeno che era stato lui» disse l'Uccello. «E anche se l'avessi saputo, non gli avrei mai tolto la vita un'altra volta!» Si passò le mani tra i capelli radi. «Avrei voluto essere il primo della sua lista. Così almeno non dovrei continuare a vivere con il peso delle mie colpe.» «Dov'era lunedì notte?» chiese Li. L'Uccello lo guardò stordito dalla paura. «Non lo so. Lunedì? A casa, forse.» «Vive da solo?» «Sì.» «Allora non ha nessuno che possa confermare il suo alibi.» «No... Sì... La ragazza dell'ascensore... lei deve avermi visto arrivare.» «A che ora?» «Saranno state le sette.» «A che ora la ragazza dell'ascensore finisce il turno serale?» «Di solito, alle dieci.» «Perciò, se lei fosse uscito dopo le dieci non lo saprebbe nessuno.» «Non sono uscito dopo le dieci!» La voce dell'Uccello era stridula, spaventata. «Che cosa sta succedendo?» chiese Margaret. «Non ha un alibi per lunedì sera» disse Li. «Un momento!» Gli occhi dell'Uccello si illuminarono all'improvviso. «Lunedì sera...» disse, concitato, mentre un singhiozzo gli squassava il petto «lunedì sera ho giocato a dama, giù a Xidan, con il mio amico Luna. Di solito giochiamo il martedì, ma lui aveva un altro impegno e così abbiamo anticipato a lunedì. Siamo rimasti seduti a fumare e a parlare fino a mezzanotte. Poi sono andato a casa sua a bere una birra prima di tornare a casa.» «E questo suo amico può confermarlo, se glielo chiediamo?» Li era deluso. Per quanto quell'uomo fosse ormai diventato un essere patetico, le atrocità che aveva commesso rimanevano indelebili e Li, a quel punto, aveva finito per desiderare che fosse stato lui a uccidere il suo ex compagno di scuola. «Ma certo! Il vecchio Luna lo confermerà senz'altro!» esclamò eccitato. Poi si calmò e, fissando il pavimento di pietra del padiglione, disse di nuovo: «Povero Gatto».
3 Era buio quando risalirono in macchina e si diressero lungo la Chang'an Ovest. Più avanti, i lampioni sistemati sulla piazza Tien-An-Men per la festa nazionale mandavano un riflesso caliginoso nell'aria umida della sera. Una lunga fila di luci si snodava in lontananza. Li e Margaret erano rimasti quasi sempre in silenzio da quando erano usciti dal parco. Lui le aveva chiesto dove volesse andare e lei gli aveva risposto che voleva tornare in albergo. Poi non avevano più parlato. «Allora, che cosa pensi che avesse nascosto Yuan Tao sotto le assi del pavimento?» chiese lei a un tratto. Lui la guardò, stupito del fatto che la sua mente fosse così concentrata sull'indagine. «Forse la spada. Non era un oggetto facile da portare avanti e indietro dalla residenza dell'ambasciata.» Margaret tacque di nuovo. Mentre passavano per la piazza Tien-An-Men pensò a Michael. Voleva cercarlo per scusarsi, facendogli capire che era stato Li a insistere per interrogarlo su quegli omicidi e indagare sui suoi movimenti la notte in cui Yuan era stato assassinato. Cercò di richiamare alla memoria la sua reazione emotiva quando aveva saputo che Michael aveva raccomandato Yuan Tao al mercante nella Città Sotterranea: era rimasta sorpresa, certo, ma per un attimo aveva avuto anche paura. Perché? Sicuramente non era perché credeva che Michael fosse in qualche modo implicato in quei delitti. Eppure era proprio quello che Li aveva creduto. O voleva credere. O voleva che lei credesse. Quando aveva saputo che Michael aveva conosciuto il professor Yue, si era impadronito di quell'idea e non l'aveva più lasciata. Lei sapeva che all'origine di tutto c'era la gelosia di Li, eppure si era sentita sollevata quando Michael le aveva ricordato che loro si erano conosciuti proprio la sera della morte di Yuan al ricevimento dell'ambasciatore. Li notò che Margaret si era fatta triste e si sentì prendere da una profonda depressione. L'aveva amata, aveva sofferto senza di lei e adesso viveva in una specie di limbo, dove non poteva più possederla, ma nemmeno sfuggirla. Suonò il radiotelefono e Li staccò il ricevitore per rispondere. Margaret sentì il tono della sua voce trascolorare dal fastidio alla riluttante accettazione. Riagganciò e ripiombò nel silenzio dei suoi pensieri, visibilmente
inquieto. «Brutte notizie?» gli chiese dopo un po'. «Ti ricordi di mia sorella? L'hai conosciuta quella sera alla sala da tè Sanwei.» «Sì, certo.» «Per una serie di motivi, mi ha affidato la sua bambina, Xinxin.» «E tu?» «Mi faccio aiutare da Mei Yuan, la venditrice di tan bing, l'hai conosciuta no?» «Sì, certo.» «Adesso però la cugina che la sostituiva al chiosco per permetterle di occuparsi di Xinxin non è più disponibile, perché ha il marito all'ospedale e deve portargli da mangiare.» «Ma l'ospedale non provvede ai pasti degli ammalati?» «In Cina il cibo dell'ospedale non piace a nessuno. In conclusione, appena ti avrò lasciata in albergo andrò da Mei Yuan a prendere Xinxin.» «Ti accompagno» disse Margaret. Il siheyuan di Mei Yuan aveva sul davanti una piccola striscia di giardino - cosa piuttosto insolita - con l'erba ben tagliata, i cespugli fioriti e qualche albero, dietro un recinto basso. Quando Li e Margaret arrivarono, Mei Yuan era seduta davanti a un tavolo a preparare ravioli cinesi con Xinxin. Fu felice di vedere Margaret e l'abbracciò. Si scusò con Li per il contrattempo, ma gli assicurò che il marito di sua cugina sarebbe rimasto in ospedale solo due giorni e poi lei avrebbe potuto di nuovo occuparsi della bambina. «Xinxin, ti presento Margaret» disse Li. «È americana.» Pensò che forse la bambina non sapeva nemmeno che esistessero gli americani. Era cresciuta a Zigong, nella provincia del Sichuan, nel cuore della Cina rurale e non erano molti gli stranieri che si avventuravano fin lì. Forse non aveva nemmeno mai visto un programma della televisione occidentale. Margaret tese la mano a Xinxin. «È un vero piacere conoscerti, Xinxin.» La bambina spalancò gli occhi e indietreggiò, lanciando a Li uno sguardo quasi impaurito. «Parla in un modo che non capisco» disse, quindi chiese: «Posso toccarle i capelli?». Li guardò Margaret. «Vuole toccarti i capelli.» «Ma certo.» Margaret si ricordò, con un certo disagio, che quando era
andata con Michael a cena nel quartiere musulmano di Xi'an, le cameriere le avevano fatto la stessa richiesta. Xinxin fece scorrere timidamente le dita tra i riccioli biondi di Margaret. «Sono veri?» «Certo che sono veri» rispose Li. «Come si chiama?» «Margaret.» «Mar-ga-ret può aiutarmi a fare i ravioli?» Li era perplesso. «Non abbiamo tempo, Xinxin. Dobbiamo andare a casa a fare la nanna.» «Per favore!» Xinxin spalancò gli occhi per essere più convincente. «Vuole che l'aiuti a fare i ravioli» disse Li a Margaret. Margaret sorrise incantata. «Sì, mi piacerebbe provare.» Per una ventina di minuti Xinxin insegnò a Margaret a mettere con il cucchiaio un po' di ripieno al centro del tondo di pasta, a piegarlo in due e poi a premere i bordi per sigillarlo, formando una specie di conchiglia. I ravioli di Margaret riuscirono quasi perfetti. «Rimanete qui a mangiarli» disse Mei Yuan. «In dieci minuti saranno pronti.» «Grazie, Mei Yuan, sarà per un'altra volta» rispose Li, sentendosi sulle spine. «Devo portare a casa Xinxin e non voglio trattenere troppo Margaret.» «Viene anche Margaret a casa?» chiese la bambina. «No, piccola, Margaret torna in albergo» «Allora io sto qui» disse Xinxin. Margaret leggendo sul viso di Li un'espressione contrariata gli chiese che cosa avesse detto la bambina. «È la sindrome del piccolo imperatore: ordina che tu venga con noi.» «Per me va bene» disse Margaret. Il visino di Xinxin era tranquillo e bello nel riposo del sonno. Margaret, seduta sul letto, le scostò i capelli dalle guance, contemplando la sua innocenza. Provava una profonda pietà per quella bambina e anche per Li che, senza averlo chiesto, si era trovato a essere responsabile della vita di una persona tanto piccola e indifesa. Istintivamente, in fondo al suo cuore, Margaret sentì che desiderava condividere quella responsabilità. Sentì un nodo stringerle la gola. Quando alzò gli occhi, vide Li che, sulla soglia della camera, la guardava. Sbatté le palpebre per mandar via le la-
crime, raccolse un libro illustrato che era rimasto sul letto e, per nascondere l'imbarazzo, chiese: «Si legge veramente da destra a sinistra?». Li prese il libro con calma e lo rimise sul letto. Lei sentì il suo braccio circondarle la vita e, istintivamente, alzò il viso, ma al contatto con le sue labbra si scostò. «È meglio che prenda un taxi» disse. Andò in salotto, afferrò la cartelletta con i fascicoli dell'indagine e scese di corsa le scale. Li sentì sbattere la porta d'ingresso. 4 Dopo che il taxi l'ebbe lasciata davanti al suo albergo, Margaret attraversò in fretta l'atrio e si diresse agli ascensori. A quel punto, una voce la chiamò. «Margaret!» Lei si girò, poco prima che la porta dell'ascensore si aprisse. «Michael, che cosa fai qui?» Lui la raggiunse. Aveva l'aria molto triste. «Ti stavo aspettando. Da due ore... Evidentemente, lavorate fino a tardi.» Si oscurò in viso. «Volevo parlarti di stamattina, Margaret.» «Anch'io volevo parlarti. Non so come scusarmi. Li è geloso, è stato un modo di vendicarsi.» «Credevo che fosse una storia finita.» «Lo credevo anch'io.» Michael sembrava imbarazzato. «La verità, Margaret, è che se cominciasse a circolare la voce che sono sulla lista dei sospetti in un'indagine per omicidio, tutti i rapporti di amicizia che ho qui in Cina ne risulterebbero compromessi.» Margaret non poté tare a meno di ridere. «Michael, nessuno sospetta di te! Li ha fatto solo qualche stupida congettura su indizi inconsistenti. Tu eri con me la notte in cui è stato ucciso Yuan e non eri neppure in Cina quando sono stati commessi due degli altri delitti.» Fece una breve pausa, poi, sospirando, concluse: «Che cos'altro posso dirti? Non pensarci più. Non è neanche il caso di parlarne». Visibilmente sollevato, Michael sorrise. «Hai già mangiato?» Margaret scosse la testa. «Bene ho prenotato un tavolo in un posticino che conosco.» Guardò l'orologio. «Dovrebbe essere ancora aperto.» «Devo prima cambiarmi, ma mi basta un quarto d'ora. Promesso.» «Va bene, un quarto d'ora a partire da...» Michael guardò l'orologio che
aveva al polso e fece scattare il cronometro. «...adesso!» Lei premette il pulsante dell'ascensore e salirono insieme. Mentre Michael le teneva aperta la porta della camera, Margaret entrò di corsa e buttò la cartelletta sul letto, facendo uscire i fascicoli che si sparpagliarono tutt'intorno e caddero per terra. «Lascia stare,» gli disse «li raccolgo io dopo.» Prese un cambio di biancheria da un cassetto, un paio di jeans e una maglietta giallo limone dall'armadio. «Una rapida doccia e sono subito da te.» Michael sorrise. «Il cronometro sta correndo.» Margaret entrò in bagno, si spogliò e si infilò sotto il getto piacevolmente caldo. «Escluso me, chi c'è, allora, in cima alla lista dei sospetti?» chiese Michael dalla camera da letto. «È una lunga storia.» «Be', allora sarà meglio che tu la riassuma: hai appena dieci minuti.» Margaret rise, mentre si massaggiava con una grande spugna morbida. «Il padre di Yuan è stato ucciso negli anni Sessanta da un gruppo di sei Guardie Rosse, durante la Rivoluzione culturale.» Spinse indietro la testa e si fece scorrere l'acqua sulla faccia. «Yuan era all'università, in America, e non ne ha saputo niente finché non ha letto il diario di sua madre, trent'anni dopo. Pare che sia tornato per vendicarsi.» Michael disse qualche cosa, che lei però non riuscì a sentire. «Che cosa hai detto?» «Allora, chi ha ucciso Yuan?» ripeté Michael a voce più alta. «L'ipotesi più plausibile è che sia stato un tipo che chiamano l'Uccello. Lavora al mercato dei volatili.» «Ma perché avrebbe dovuto uccidere Yuan?» «Perché è l'ultimo sopravvissuto di quel gruppo di Guardie Rosse che ha causato la morte del padre di Yuan ed era sicuro di essere sulla lista nera di Yuan.» Margaret si sciacquò lo shampoo dai capelli. «Ho detto che è una ipotesi plausibile, ma non ci conterei troppo. È un emarginato. Vive da solo con i suoi uccelli. È malato di nervi, non può lavorare... e c'è tutta una serie di altre ragioni che è inutile raccontare.» Margaret uscì dalla cabina della doccia con gli occhi chiusi, in cerca di un asciugamano. Si sentì toccare e aprì gli occhi con un gridolino di sorpresa. Michael era davanti a lei, sorridente, nel bagno pieno di vapore e le porgeva l'asciugamano. «Mi hai spaventata.» Lui le fece scivolare le braccia intorno alla vita e l'avvicinò a sé.
«Ti bagnerai!» «Oh, che guaio!» Si piegò su di lei e la baciò sul collo. Margaret sentì il piacere invaderla, mentre il profumo del patchouli si mescolava a quello del bagnoschiuma. Avvicinò la testa di Michael alla sua, lo baciò, ma improvvisamente le vennero in mente Li, le sue labbra e il modo in cui era fuggita da casa sua. Si scostò da Michael con un sorriso forzato. «Sarà meglio che mi sbrighi,» disse «se devo battere l'orologio sul tempo.» Il ristorante Ya Mei Wei si nascondeva nel poco invitante hutong Dong Wang, dietro la Kuan. Nello scendere dal taxi, Margaret evitò per un pelo di essere travolta da una fila di ciclisti che correvano senza fanali, liberi finalmente dal traffico diurno. Mentre i campanelli le risuonavano nelle orecchie, raggiunse il marciapiede e si guardò intorno. «Mangiamo da queste parti?» chiese. E quando Michael annuì con un cenno del capo, aggiunse: «È un altro posto come quello dove mi hai portato a Xi'an?» «No,» rispose Michael «tutto diverso.» Cinquanta metri più avanti, due solitarie lanterne rosse pendevano davanti a un portone di legno sbarrato. Michael bussò. «È questo il ristorante?» disse Margaret. «Aspetta. Mai giudicare il libro dalla copertina.» Una bella donna sui quarant'anni, in pantaloni e casacca di seta rosa, aprì la porta. Quando vide Michael s'illuminò e gli porse la mano per salutarlo. «Che piacere rivederla, signor Zimmerman! Ormai pensavo che non sarebbe venuto stasera.» «Mi dispiace molto, Zhao Yi. È troppo tardi?» «Ma no,» rispose la donna con un sorriso radioso «non è mai tardi per un buon amico.» Michael le presentò Margaret e Zhao Yi li fece accomodare. Il contrasto con il quartiere che stava fuori non avrebbe potuto essere più stridente. Pareva di essere entrati in un altro mondo. Il cortile centrale era la riproduzione di un tradizionale cortile interno della vecchia Pechino, con i tetti di tegole di ceramica verde spioventi e con un ponticello sopra un rivolo d'acqua. Su un lato si aprivano le porte della sala da pranzo. Sul lato opposto, altre porte davano su uno stretto corridoio che portava alle salette riservate. Zhao Yi li guidò attraverso il cortile in quella riservata a loro, allestita per una cena a due, con le candele accese e una classica musica cinese in sottofondo. Erano quasi le dieci, molto tardi per una cena a Pechino.
Alcune ragazze in abiti di seta dai colori armoniosi sciamarono come api disponendo sul tavolo antipasti caldi e freddi, agnello piccante, arachidi tostate al peperoncino, pesce in salsa agrodolce. Il vino, scelto da Michael, era un Rioja del 1993. Lui alzò il bicchiere per fare un brindisi con Margaret. «A noi due» disse. «A noi due» rispose Margaret e si sentì invadere da un sottile senso di colpa. Bevve un sorso di vino, decisa a non permettere a Li di rovinarle la serata. «C'è una cosa che non ho capito» esordì Michael. «Anzi, in realtà, ce ne sono due. Cominciamo dalla prima: quell'individuo, l'Uccello... Se le Guardie Rosse erano sei e ne sono state uccise tre, perché dici che è l'unico sopravvissuto?» Margaret rise. «È deformazione professionale, no? Non ti sfugge nulla. Ogni dettaglio è importante.» «Il mestiere dell'archeologo non è molto diverso da quello del poliziotto: un lento, scrupoloso lavoro di scavo nel passato, per scoprire e ricostruire un avvenimento o un luogo.» «Dovresti fare il poliziotto in Cina: qui amano molto i dettagli, come te.» Bevve un sorso di vino. «Il fatto è che, forse, ho riassunto un po' troppo la storia. L'Uccello non è l'unico sopravvissuto, ce n'è un altro: è una donna, ma è cieca. Quanto al terzo membro dei sei originari, è rimasto ucciso in piazza Tien-An-Men.» Margaret mangiò un boccone di pesce e bevve un altro sorso di vino. «Qual è l'altra cosa che non hai capito?» Michael appoggiò le mani sul tavolo e si piegò verso di lei, senza smettere di guardarla. «Se la storia fra te e Li è finita, perché lui è geloso di me?» Margaret avrebbe desiderato con tutto il cuore che Michael non parlasse di Li, ma pensò che la sincerità è sempre la politica più saggia. «La storia, come la chiami tu, è finita perché i suoi superiori gli hanno detto che era... diciamo così... incompatibile con un funzionario di polizia del suo grado.» «In altre parole, o te o la carriera.» Margaret annuì. «E lui ha scelto la carriera.» «Non è così semplice.» «Niente è semplice.» «Credo che a Li costi molto accettare la scelta che ha fatto.» «E a te?»
«Ho sofferto, lo ammetto. Non era quello che volevo. Ma adesso guardo avanti.» Michael le sorrise e le strinse la mano. «Sono contento di sentirtelo dire.» Le ragazze tornarono e versarono in piccole ciotole un brodo piccante e bollente che riempì il tavolo di vapore. Poi disposero davanti a loro piatti di carne cruda. «Che meraviglia!» esclamò Margaret e, imitando Michael, intinse nel brodo e poi nella salsa di soia piccante la carne, il pesce e la verza. Finirono il vino e Michael ne ordinò un'altra bottiglia. Un po' stordita dall'alcol Margaret rise di gusto al racconto che Michael le lece di una serie di situazioni da commedia degli equivoci in cui si era trovato durante una spedizione archeologica in Egitto. A un certo punto, si accorse che lui aveva smesso di parlare e la guardava. «So che è troppo presto per dirti che ti amo,» le disse «ma te lo dico lo stesso.» Improvvisamente lo stordimento passò e Margaret tornò lucida e padrona di sé. Michael estrasse di tasca una scatoletta e l'aprì. Dentro c'era un anello d'oro con un brillante. «Se qualcuno me l'avesse chiesto una settimana la, avrei detto che non avevo nessuna intenzione di sposarmi. Ma non avevo ancora incontrato te. Per questo ti ho ha fatto tutte quelle domande su Li. Desidero sposarti, Margaret.» Lei lo guardò in silenzio, per un tempo che parve lunghissimo. «È una proposta di matrimonio?» chiese poi, ridendo sbalordita e scuotendo la testa. «Sembrerebbe di sì.» «Allora devo risponderti di no.» Michael arrossì. «Perché?» «Perché non ti conosco quasi, Michael. Ci siamo incontrati per la prima volta pochi giorni fa.» Lui sostenne a lungo il suo sguardo, prima di richiudere la scatoletta. «Come potevo pensare che mi avresti risposto così?» «Ma è la verità.» «Se il solo ostacolo è che ci conosciamo poco, possiamo aspettare e intanto stare assieme tutto il tempo.» Il suo sguardo era diventato molto serio. «Anch'io dico la verità, Margaret, quando ti confesso di non aver mai
provato questo sentimento prima d'ora... E adesso tu mi fai sentire come un adolescente rifiutato dal suo primo amore.» «Michael,» Margaret posò una mano sulla sua «per ora non posso prendere decisioni. Ho bisogno di tempo, per superare quello che c'è stato tra me e Li e per capire che cosa provo per te.» S'interruppe. «Ieri notte sono stata felice, ma ho imparato che non basta. Ho buttato via sette anni della mia vita in un matrimonio sbagliato, non voglio ripetere lo stesso errore.» Michael annuì. «Capisco, capisco. Metterò l'anello in ghiaccio insieme alla tua risposta. Sì, perché non ho intenzione di rinunciare a te, Margaret. Non ti lascerò andare via facilmente. Se vuoi chiudere con il passato, sono pronto a darti una mano.» CAPITOLO DECIMO 1 Li convinse Xinxin ad aspettarlo in macchina. Il poliziotto cinese di guardia al cancello dell'ambasciata si divertì ad applicare alla lettera il regolamento, costringendo il suo superiore di grado ad attendere Sophie nel cortile. In territorio americano, il vicecaposezione Li non aveva alcun potere. «Ci siamo conosciuti l'altro giorno al Dipartimento di Investigazione Criminale» gli disse Sophie guardandolo con curiosità. «Ricordo perfettamente.» Li si rese conto che probabilmente non solo Sophie, ma tutti all'ambasciata sapevano della sua relazione con Margaret. Passarono oltre l'edificio della Cancelleria per raggiungere la mensa. «È da molto tempo in Cina?» chiese Li. «No, da circa un mese.» «Lei parla cinese mandarino?» chiese Li in mandarino. «Sono vietnamita,» rispose lei, con un sorriso «ma non parlo bene neanche la mia lingua.» «Ha vissuto a lungo in America?» «Sono nata e cresciuta negli Stati Uniti. Altrimenti, non sarei mai diventata assistente alla sicurezza della regione in un'ambasciata americana.» Dakers li aspettava a un tavolo della mensa affollata di impiegati dell'ambasciata. Si alzò e strinse la mano a Li. «Mi fa piacere rivederla, signor Li. Una tazza di caffè?» Li scosse la testa. «Si accomodi, prego. Che cosa
posso fare per lei?» «Vorrei chiederle il permesso di interrogare qualcuno dell'ambasciata sugli spostamenti di Michael Zimmerman lo scorso lunedì sera.» «Perché?» chiese Sophie, prima che Dakers potesse rispondere. «Non c'è un motivo particolare» rispose Li con grande calma. «È la procedura. Stiamo cercando di ricostruire i movimenti di tutti quelli che conoscevano Yuan Tao, la notte della sua morte.» «Non mi pare che la visita di un vicecaposezione rientri nella procedura» osservò Dakers. Li non esitò a fare appello all'adulazione. «Non mi sembrava il caso di mandare un agente qualsiasi a conferire con il responsabile della sicurezza della regione presso l'ambasciata americana.» «Giusto.» Dakers rifletté un attimo. «Credo non ci siano obiezioni. Che ne dici, Sophie?» «No, assolutamente. Ma non è necessario che il signor Li interroghi il personale perché io stessa posso dire con sicurezza dov'è stato Michael Zimmerman lunedì sera, almeno fino alle due.» «Anche lei era al ricevimento?» chiese Li. «Sì, ho presentato io Zimmerman alla dottoressa Campbell.» Li la osservò per capire se fosse consapevole di toccare un punto dolente, ma il viso di Sophie era impenetrabile. «E dopo il ricevimento?» «Dodici di noi sono andati al Mexican Wave.» «E Zimmerman è rimasto lì fino alle due?» «Io sono andata via alle due. Lui non so.» 2 L'ingresso occidentale dell'università di Pechino presentava un tradizionale portale cinese con ampia tettoia di piastrelle su travi dipinte e pilastri color ruggine. Li parcheggiò l'automobile all'ombra degli alberi. Mostrò il tesserino di riconoscimento alla guardia ed entrarono passando tra i due leoni di pietra che facevano da sentinelle all'entrata. La piccola Xinxin camminava accanto a Margaret, tenendola per mano, un po' intimidita. Il campus, all'interno di alti muri grigi, tra giardini dall'architettura elaborata, sembrava lontano chilometri dal frastuono frenetico della città.
Studenti e professori, a piedi o in bicicletta, passavano lungo i viali che si snodavano tra una vegetazione lussureggiante e antichi ponticelli, sospesi su corsi d'acqua verdi fioriti di ninfee. Seminascosti tra gli alberi e le rocce piccoli padiglioni erano a disposizione degli studenti che desideravano studiare indisturbati. Le varie facoltà erano in grandi edifici bianchi con tetti a pagoda sorretti da imponenti colonne. Margaret si guardava intorno incantata. «Che posto stupendo per studiare!» esclamò. «Che senso di pace. Così... cinese.» «Veramente,» la corresse Li «è cosi... americano.» «Ma che cosa dici?» «Questa era la sede dell'università Americana Metodista di Yengching. L'università di Pechino si è trasferita qui solo nel 1952. Tutti questi edifici e padiglioni sono stati progettati, in stile cinese, da un architetto americano. Forse, a quel tempo, gli americani pensavano di avere qualcosa da imparare da noi.» La facoltà di Archeologia era in un lungo padiglione a due piani in fondo a una distesa di prati all'inglese di un verde brillante. Il pianterreno ospitava il Museo Arthur M. Sackler di Arte e Archeologia. Al piano superiore si trovavano l'amministrazione e le aule. In fondo all'atrio, ai lati di una porta, c'erano calchi di due Guerrieri di Terracotta. Margaret si ricordò la sua esperienza archeologica a Xi'an. Un guardiano, calvo, con le guance avvizzite piene di macchie marroni, li indirizzò all'ufficio del preside della facoltà. Salirono e bussarono alla porta. «Il professor Chang in questo momento non c'è» li informò con tono sgarbato un giovane in camicia bianca e pantaloni scuri dall'aria presuntuosa che si era affacciato sulla porta. Aveva una folta massa di capelli neri, le unghie sporche e sembrava assorbito nella consultazione di uno schedario. «Saprebbe dirmi dov'è?» chiese Li. «In questo momento sono occupato» rispose il giovane, infastidito dalla interruzione. Li gli mostrò il tesserino della Pubblica Sicurezza. «Mi dica il suo nome.» Il giovane guardò Li come un coniglio spaventato. «Mi scusi, agente, io...» «Il suo nome» ripeté Li, con durezza. «Wang Jiahong.» «Che cosa fa qui?»
«Sono assistente alla facoltà di Archeologia.» «Parla sempre in questo modo con chi le chiede del professor Chang?» «No, agente.» «Mi fa piacere. Allora forse vorrà dirmi dove posso trovarlo.» «Al laboratorio di conservazione e restauro.» «Mi spieghi come ci si arriva.» «È all'istituto d'Arte. Tutti i laboratori sono lì» disse l'assistente e, per rimediare alla scortesia di poco prima, aggiunse: «Se vuole, l'accompagno». L'istituto d'Arte era una costruzione di mattoni grigi più vecchia e meno elegante della facoltà di Archeologia. Nello spiazzo antistante erano parcheggiate decine di biciclette. L'interno era squallido e dai bagni veniva cattivo odore. Wang Jiahong li fece entrare nel laboratorio di conservazione e restauro e se ne andò. Li e Margaret si trovarono alla presenza del professor Chang, in uno stanzone ingombro di mobili e di oggetti di ogni genere. Addossati alle pareti c'erano scaffali e armadietti; al centro, su un bancone di legno, erano sparsi, in disordine, attrezzi di vario genere e flaconi di liquido detergente, due pugnali e una spada di bronzo stretta nelle ganasce di una morsa. Il pavimento era disseminato di segatura, trucioli di legno e schegge di ceramica. Le pareti, dipinte di verde, erano scrostate e cosparse di manifesti e di promemoria che risalivano a cinquant'anni prima. La luce del giorno filtrava attraverso le stecche delle persiane accostate. Il professor Chang, con le mani protette da guanti di gomma, era impegnato nella pulitura della spada di bronzo. Indossava un grembiulone bianco, tutto sporco. Quando Li e Margaret entrarono, fece un breve cenno di saluto. «Le chiedo scusa per il disordine» disse in inglese, dopo che Li gli ebbe presentato Margaret. La guardò al di sopra degli occhiali a mezzaluna. «Da decenni qui si restaurano gli antichi tesori della Cina e non abbiamo l'abitudine di rimettere tutto a posto ogni sera.» Xinxin, incuriosita, aveva dimenticato la timidezza e girellava per il laboratorio. «Quante persone frequentano la facoltà di Archeologia?» chiese Li. «Ci sono duecento studenti, sessantasette assistenti, dodici professori di ruolo e diciannove associati.» «Di tutte queste persone quante, secondo lei, conoscono le circostanze
della morte del professor Yue?» Chang si concentrò su una crosta di verderame. «Oh, tutti, probabilmente» disse. A Li non sfuggì lo sguardo compiaciuto di Margaret, ma non si lasciò scoraggiare. «Davo per scontato,» insisté «che solo i membri più importanti del corpo accademico conoscessero i dettagli di quando è successo.» «Sì, in teoria è così, ma poi sa come succede. La gente ama gli scandali, le storie truculente, e gli archeologi non fanno eccezione. Nel giro di tre ore tutta la facoltà era a conoscenza dell'accaduto. E, probabilmente, anche le altre.» Li prese in mano uno dei pugnali e lo osservò, e, sempre evitando lo sguardo di Margaret chiese: «Lei conosce l'archeologo americano Michael Zimmerman?». Il professor Chang appoggiò al bancone i suoi strumenti e si tolse gli occhiali bifocali. «Che cos'ha a che fare Zimmerman con tutta questa storia?» «Niente» rispose Li. «Mi chiedevo solo se lei lo conoscesse.» «Oh sì, lo conosco. Era venuto da noi per cercare informazioni per il suo documentario su Hu Bo. Il professor Yue era stato allievo di Hu Bo e così lui e Zimmerman sono diventati molto amici.» C'era qualcosa nel tono di voce di Chang che indusse Li a osservare: «Ho l'impressione che a lei non piacesse molto questa amicizia». «Michael Zimmerman non mi è simpatico» disse il professor Chang con franchezza e Margaret arrossì come se le avessero dato uno schiaffo. «Perché?» chiese Li al professore. «Perché il signor Zimmerman, sotto quella sua apparente affabilità, è un uomo che agisce sulla base di un impulso incoercibile. Non so quale. Forse l'ambizione. Forse l'avidità. Si serve degli altri, manipolandoli per i suoi scopi personali.» «Ha manipolato anche il professor Yue?» Chang disse come parlando a se stesso: «Yue aveva ceduto al suo fascino. Erano diventati molto amici. Troppo. E questo non mi piaceva, non mi sembrava naturale». Li e Margaret si congedarono dal professor Chang. Li vide che Margaret era ancora rossa in viso e guardava fisso davanti a sé. «Avevi detto che lui non c'entrava in questa storia, ricordi? Mi hai perfino accusato di aver rovinato la vostra amicizia» le disse. Margaret lo guardò quasi con odio. «Come puoi fidarti del giudizio di una sola persona?» disse. Il professor Chang aveva descritto un Michael
che lei non conosceva, e lei ne aveva sofferto. «Ora hai la conferma,» proseguì Margaret «che tutti erano a conoscenza dell'accaduto. Michael compreso. Hai avuto anche la soddisfazione di sapere che a Chang non è simpatico. Non sei contento?» Xinxin li guardava con apprensione, ma senza fare domande. Si sentì il segnale di chiamata del radiotelefono. Li staccò il ricevitore. Margaret girò la testa verso il finestrino e ricacciò indietro le lacrime. Non voleva piangere davanti a Li. Non riusciva a credere che si potesse parlare male di Michael. Possibile che fosse lei a sbagliarsi? E gli altri? No, il giudizio del professor Chang era il prodotto di una mente contorta. Va' a sapere che cosa c'era dietro. Li riagganciò il ricevitore. «Era l'agente Sang» le disse con grande pacatezza. «Pare che l'alibi dell'Uccello non stia in piedi. Non era a giocare a dama la notte in cui Yuan è stato ucciso. Chiederemo alla procura un mandato d'arresto.» 3 L'Uccello era smarrito senza le creature cui doveva il soprannome. Lontano da loro, sembrava un essere del tutto indifeso. A Li fece l'impressione di un guscio vuoto, di un uomo senz'anima. Stava seduto sul bordo della sedia e si guardava intorno con occhi impauriti. Aveva la faccia ancora rigata dalle lacrime versate quando gli avevano proibito di portare con sé gli uccelli. Indossava la divisa blu di Mao spiegazzata e sporca. La stanza, calda e senza aria, era piena di fumo. Sulle pareti color avorio scrostate erano graffiti i nomi e i pensieri di migliaia di persone, innocenti o colpevoli, che avevano affrontato in quello squallore ore e ore di interrogatori. Il sole entrava, obliquo, da una feritoia in alto e attraversava con un fascio giallo ocra una parete. Sul tavolo, il registratore emetteva un leggero ronzio. Dall'esterno arrivava il rumore lontano del traffico sulla Dongzhimennei e il chiasso dei bambini che giocavano nell'hutong. L'agente Sang aveva espresso il desiderio di partecipare all'interrogatorio e Li glielo aveva interamente affidato, sperando di essere, così, più sereno e obiettivo. Sang era già esasperato dalle risposte confuse dell'Uccello, che non sapeva dire dove fosse stato veramente quel lunedì sera. Era certo, come aveva detto, di aver giocato a dama con Luna, ma se Luna sosteneva di no, allora doveva aver fatto qualcos'altro. Che cosa? Non se lo ricorda-
va. Di solito passava le serate a casa, da solo. Qualche volta guardava la televisione, ma non si ricordava proprio che cosa aveva visto. Andava a letto presto, quando i suoi uccelli mettevano la testa sotto l'ala. La mattina si alzava presto e andava al parco e poi al mercato degli uccelli. «Allora,» disse infine Sang «lei non ha un alibi. È d'accordo su questo?» «Ma che bisogno ho di un alibi,» chiese l'Uccello «se non ho fatto niente di male?» «Vuol farci credere che non sapeva niente di quei delitti?» «No, lo sapevo. Ve l'ho detto: io e la Pezzente ne abbiamo parlato.» «Dunque avevate saputo che tre ex componenti della Brigata della rivoluzione permanente erano stati assassinati?» «Si, l'avevamo sentito dire.» «E avevate anche sentito dire come erano stati uccisi?» L'Uccello socchiuse gli occhi. «Avevamo sentito dire che erano stati... giustiziati.» «Che cosa intende con "giustiziati"?» L'Uccello esitò, prima di rispondere. «Che... gli hanno tagliato la testa.» «Come l'ha saputo?» «Mah... lo dicevano in giro.» «Chi?» «La gente. Per esempio una donna che lavora nella stessa fabbrica di Zero.» «Chi è questa donna?» «Non lo so. Forse quella che l'ha trovato morto. Chiedetelo alla Pezzente, lei è più informata di me. Parla con la gente, ascolta.» «Dunque, lei e la Pezzente sapevate che qualcuno andava in giro a uccidere quelli che avevano fatto parte delle Brigate della rivoluzione permanente e che quindi, prima o poi, sarebbe venuto anche da voi.» «Sì, l'ha pensato la Pezzente.» «La Pezzente pensa sempre anche per lei? È stata un'idea della Pezzente quella di uccidere Yuan Tao prima che lui uccidesse voi?» L'Uccello si dondolava avanti e indietro sulla sedia. «Non abbiamo ucciso il Gatto!» disse quasi gridando, con una dolorosa aria di sfida. «Non sapevamo nemmeno che fosse a Pechino.» «È inutile raccontare bugie,» disse Sang, in tono paternalistico «perché, prima o poi, la verità la scopriremo.» L'Uccello lo fissava in silenzio. Sang si sentiva sulla buona strada e voleva approfittarne per fare bella figura con Li. «Ha avuto paura, eh?» insisté. «Ha capito subito che il Gatto
aveva intenzione di uccidere anche lei.» «No!» «Che cos'ha fatto? Lo ha seguito? È così che ha scoperto l'appartamento in Tuan Jie Hü Dongli?» «Quale appartamento?» «Quello dove lei è andato per ucciderlo. Come sapeva di dover guardare sotto le assi del pavimento?» Sang non aspettò la risposta. «Certo, appena ha visto la spada, avrà pensato che il destino le dava una mano a uccidere il Gatto come lui aveva ucciso gli altri, nello stesso modo! E come avrebbe ucciso anche lei.» «No! No!» La voce dell'Uccello era un gemito, i suoi occhi erano pieni di lacrime. «Che cos'altro ha trovato sotto le assi del pavimento? L'elenco delle vittime? Le corde di seta che erano servite a legare loro i polsi e che sarebbero servite anche per lei? Che cosa le ha detto Tao quando lei lo ha accusato? Ha confessato?» Sang si sporse verso l'Uccello, parlando a voce bassissima. «Perché l'ha ucciso? Poteva andare alla polizia. Che cos'è successo? Un attacco d'ira? Tao le ha sputato in faccia? O il senso di colpa? Il bisogno di cancellare il passato? Quel giorno del 1967, quando avete umiliato, picchiato, perseguitato il padre del Gatto fino a farlo morire, nel cortile della scuola, davanti a tutti, davanti a sua moglie? Un vecchio, malato di cuore. Lei dev'essere stato molto fiero di sé.» L'Uccello aveva smesso di torcersi le mani, che ora lasciava pendere inerti ai lati della sedia, mentre si dondolava avanti e indietro, singhiozzando. Li temette che morisse soffocato. L'Uccello guardava i suoi inquisitori senza vederli, devastato dal rimorso. «È per questo che ha dovuto uccidere il Gatto, vero? Lo ha costretto a inginocchiarsi, ha alzato la spada sopra la sua testa e gliel'ha mozzata con un solo colpo.» L'Uccello emise un grido simile a un latrato animale. «Non volevo!» Li e Sang si scambiarono uno sguardo. «Non voleva che cosa?» intervenne Li. «Uccidere il maestro Yuan.» L'Uccello si graffiò la faccia con le unghie nel tentativo di asciugare le lacrime. «Non volevo, credetemi, vi scongiuro! Non volevo!» «Adesso stavamo parlando del Gatto» disse Li a voce bassa, con calma. Aspettò un momento e chiese: «Come sapeva quello che avevano fatto agli
altri tre?». Ma l'Uccello seguitava a scuotere la testa e a dondolarsi sulla sedia. «Non lo so, non lo so» ripeteva. «Il cartello intorno al collo, come sapeva di doverlo fare proprio così, con il nome scritto all'incontrano e cancellato con un segno rosso?» L'Uccello smise di dondolarsi e fissò Li attraverso le lacrime. Improvvisamente diede un pugno sul tavolo, esasperato. «Quante volte devo pagare per quello che abbiamo fatto durante la Rivoluzione culturale?» urlò. «Quante volte devo morire? Eravamo dei bambini. Non capivamo quello che facevamo. Sapevamo solo quello che ci diceva il presidente Mao. Lui era il sole rosso dei nostri cuori.» Salirono le scale in silenzio fino all'ultimo piano. Sang guardava Li preoccupato. «Capo,» disse infine «non mi sembra molto soddisfatto per aver concluso l'indagine.» «Non abbiamo concluso un bel niente» ribatté Li. «Ma ha confessato.» «No, assolutamente no. Era confuso. Non distingueva più Yuan da suo padre.» «Ma, capo, aveva il movente e ha avuto l'occasione. Ha ammesso di sapere degli altri delitti, non ha un alibi, anzi ne ha fornito uno falso.» Sang doveva camminare in fretta per tenere il passo con Li. «La risposta sta sempre in un dettaglio, Sang» disse Li, facendo proprie le parole di suo zio. «E c'è un dettaglio che non ha spiegazione. Dove si è procurato il flunitrazepam l'Uccello? Come sapeva del cartello intorno al collo e delle mani legate con la corda di seta?» Sang si strinse nelle spalle. «Coercizione. Forse ha costretto Yuan a dirglielo. Forse il flunitrazepam era sotto le assi del pavimento insieme al resto.» Li si fermò all'improvviso e si voltò a guardare Sang. «Allora ti farò una domanda: ti pare che l'Uccello sia in grado di minacciare qualcuno?» Sang parve incerto. «E, ammesso che abbia costretto Yuan a rivelare tutte quelle cose, perché sul cartello avrebbe scritto "Talpa" e non "Gatto"? Come avrebbe potuto sbagliare il soprannome?» Sang non seppe rispondere. Li entrò nell'ufficio degli agenti. «Qian!» Qian balzò in piedi. «Sì, capo?» «Procurati un mandato di perquisizione per la casa dell'Uccello.»
«Perché, se non è stato lui?» chiese Sang finendo addosso a Li che si era voltato di scatto. «Procedure di polizia, Sang. Non ve le hanno insegnate all'università di Pubblica Sicurezza? Non mi aspetto di trovare prove incriminanti in casa dell'Uccello, voglio solo eliminarlo dall'inchiesta.» 4 Cinque macchine della polizia portarono Li, Margaret, Qian, Wu, Zhao e Sang, insieme a sei agenti in divisa, al vicolo che sbucava dalla Dengshikou, dove si trovava la casa dell'Uccello, al nono piano di uno stabile anni Settanta già molto degradato. Era nel cuore della zona commerciale di Pechino dove un massiccio piano di ristrutturazione prevedeva la costruzione di lussuosi alberghi e grandi centri commerciali. Qualche residuo del passato, tuttavia, sopravviveva. La stradina era sporca e piena di buche. C'erano donne sedute dietro miseri chioschi che vendevano spaghetti tiepidi immersi in una brodaglia. Un ragazzo brufoloso commerciava le sigarette e le bibite che teneva in un buco nel muro. L'arrivo della polizia aveva creato un po' di trambusto e si era già radunata una piccola folla di poveracci in cerca di qualche distrazione dallo squallore della vita quotidiana. Li e gli altri entrarono in un cortile dove, protette da una tettoia, c'erano tante biciclette disposte in file ordinate. Le immondizie erano ammucchiate vicino ai gradini che portavano all'interno. La ragazza, addetta all'ascensore, nel vedere arrivare la polizia, si spaventò. Stava rannicchiata su una panca, con un fascio di riviste sulle ginocchia e una radiolina a transistor che gracchiava musica pop. In terra teneva un contenitore di tè verde e dietro, sul muro, era appeso un cappottino di pelliccia. Li, Margaret, Wu e Qian le si avvicinarono, mentre gli altri salirono le scale a piedi. «Conosce il signor Ge?» le chiese Li. La ragazza parve stupita. «No,» rispose «non lo conosco.» «Vive al nono piano. Tiene in casa degli uccelli.» «Ah, l'uomo degli uccelli!» esclamò la ragazza con una smorfia di disgusto. «Lo odio. Va sempre in giro con le sue bestiacce puzzolenti. Lui ci è abituato, ma io, dopo che è passato di qui, sento quella puzza per ore e ore.» «Ci porti a casa sua, per favore.»
La ragazza li fece entrare in ascensore e premette il pulsante del nono piano: l'ascensore, cigolando, cominciò a salire. «Si ricorda, per caso, a che ora è tornato a casa lunedì sera?» chiese Li. Lei rise. «Lo sa quanti inquilini abitano in questa casa? Io non bado a chi entra e a chi esce.» «Ma quando passa l'uomo degli uccelli se ne accorge, no? Per l'odore.» «Va e viene continuamente e poi non saprei distinguere un giorno dall'altro. Per me sono tutti uguali. Vuole fare il mio lavoro? Prego, le cedo il posto volentieri.» «Allora non saprebbe neanche dirmi se, di recente, qualcuno è venuto a trovarlo?» «Cosa vuole che ne sappia io?» Passato un primo guizzo d'interesse, era chiaro che la ragazza non aveva nessuna voglia di collaborare. Margaret ascoltava senza curiosità. Li le aveva chiesto di accompagnarlo e lei non sapeva bene perché avesse accettato. Era stanca della giostra di emozioni che la spingeva da Li a Michael e viceversa. Era come andare a tutta velocità verso il nulla. Non le interessava nemmeno più sapere chi avesse ucciso Yuan. Una vendetta vecchia di trent'anni, che apparteneva a una cultura che lei non avrebbe mai capito. L'ascensore si fermò con uno scossone al nono piano. Scesero e si avviarono lungo un corridoio con le pareti bianche e le finestre dipinte di verde chiaro. Li faceva strada al gruppo. Passarono da una porta con le ante a vetri e svoltarono in un corridoio più piccolo e buio. Margaret vide il numero 905 su una porta a due battenti chiusa con un lucchetto. Li si fece da parte e lasciò che Qian l'aprisse con le chiavi che l'Uccello aveva consegnato loro. Dopo qualche momento di insistenza, Quian disse: «Il lucchetto è saltato, non c'è bisogno delle chiavi» concluse e spinse indietro il catenaccio. «Che cosa ti aspetti di trovare qui dentro?» chiese Margaret a Li. «Niente» rispose Li. «Se fosse stato lui,» disse Margaret «potremmo trovare una prova. Sangue, capelli... Forse qualcosa di più, un cartone bianco e dell'inchiostro rosso.» «Se fosse stato lui...» «Tu non credi che sia stato lui?» «No, sono sicuro di no.» Sang, Zhao e gli agenti in divisa arrivarono senza fiato dopo nove piani
di scale. Prima di entrare ciascuno s'infilò un paio di guanti bianchi. «Mettete tutti i vestiti nei sacchi,» disse Li «puliti o sporchi che siano. Anche le scarpe. Lasciate tutto il resto così com'è. Voglio esaminare ogni minimo dettaglio.» Fece cenno a Qian di aprire la porta. Furono investiti immediatamente dal puzzo e dal frastuono degli uccelli. «Ma che roba è questa?» Qian con il fazzoletto si coprì il naso e cercò a tastoni un interruttore. Un tubo al neon, fissato al soffitto del corridoio, lampeggiò con un leggero ronzio prima che una luce fredda illuminasse le vecchie pareti, che nessuno aveva ridipinto da almeno vent'anni. «Oddio!» Margaret guardava costernata le gabbie di bambù che pendevano a decine dal soffitto, agganciate a una specie di carrucola che doveva permettere all'Uccello di alzarle e abbassarle tutte contemporaneamente. Ogni gabbia era piena di uccelli che strillavano e battevano le ali in preda al panico. Il rumore era assordante. A sinistra c'era una piccola cucina, incrostata di unto. Sul ripiano di un vecchio credenzino di legno erano ammassate, tra pile di piatti sporchi, delle bottiglie di salsa di riso collosa. Un wok annerito dal fumo e un paio di pentole luride erano impilate su un fornello a gas. In un gabinetto fetido, lungo il corridoio, era appeso il bucato. Il pavimento era disseminato di panni sporchi. Un frigorifero e una lavatrice che si caricava dall'alto rendevano difficile raggiungere la camera da letto. Wu si fece strada e aprì la porta. Altre gabbie erano appese al soffitto e altre ancora erano appoggiate su una scrivania, un armadio e un cassettone. Di fronte alla camera da letto c'era un piccolo soggiorno, con altre gabbie di uccelli. Qui, alcuni volavano liberi e gli agenti dovettero chinarsi per evitare il frenetico battito di ali sopra le loro teste. C'erano escrementi dappertutto. Sulla veranda l'intrecciarsi di voli nascondeva la luce del giorno. Con rami secchi e pezzi di vecchi mobili l'Uccello aveva cercato di creare un ambiente naturale. «Solo un pazzo può vivere qui!» gridò Margaret, per farsi sentire nel frastuono incessante degli uccelli. «Sì, è vero» disse Li. Stava pensando anche lui che l'Uccello aveva perso ogni contatto con la realtà, ogni capacità di confrontarsi con il mondo, con la gente. L'amore per gli uccelli era diventato per lui un pensiero totalizzante, la sua vita. Che cosa lo affascinava tanto in quelle creature? L'immagine di libertà che veniva dal vederli volare? No, perché li teneva in gabbia o nello spazio ristretto della veranda. Forse pensava che imprigionandoli avrebbe potuto carpire un po' di libertà per se stesso. L'Uccello
immaginava di tenere per sé un po' della libertà che sottraeva ai suoi animali. Gli agenti ammucchiavano vestiti e scarpe in grandi sacchi di plastica, frugavano nei cassetti e negli armadi, sollevavano il linoleum grigio e indurito per controllare le assi sottostanti. «Vado sul pianerottolo,» disse Margaret «qui non si respira.» Era sulla porta quando sentì un grido d'entusiasmo provenire dalla camera da letto. Mentre gli altri si facevano da parte per lasciar passare Li, vide Wu che, con le mani guantate, reggeva una spada di bronzo a mo' di trofeo. «Era nascosta in fondo all'armadio, capo» disse a Li. Era lunga circa un metro, con un'impugnatura di legno lucido, intarsiato di madreperla. Non c'erano tracce di sangue visibili. Era pulita e affilata. Sang guardò Li, trionfante: «Mi sembra un particolare di qualche rilevanza, capo». E Li colse nelle sue parole una sfumatura arrogante. Il neon che si rifletteva sulle piastrelle bianche illuminava di una luce cruda il lungo corridoio della sezione scientifica. Sui due lati si aprivano vari laboratori, apparentemente tutti uguali. Margaret pensò che erano simili a quelli di tutte le stazioni di polizia del mondo. Come a molti tecnici della scientifica, al signor Qi non dispiaceva il contatto quotidiano con il macabro. Era piccolo, con i capelli radi e la faccia da cuorcontento. Dal taschino del suo camice, sporco e troppo grande per lui, spuntavano penne, matite e righelli. La carta magnetica che teneva nella tasca posteriore dei pantaloni attivò la serratura e, con uno scatto sordo, la porta si aprì. «Mi sono organizzato così per quando ho le braccia ingombre. Benvenuti nel mio laboratorio.» Era contento di avere la possibilità di esercitarsi a parlare inglese. Margaret, Li e gli agenti lo seguirono. All'ingresso della sezione avevano indossato tutti e quattro un camice bianco. Si erano puliti le scarpe prima su una grata, poi su tappetini per evitare di lasciare tracce di sporco sui pavimenti immacolati dei laboratori. Il microscopio era l'unico oggetto sul tavolo. Le sezioni delle vertebre tagliate dal collo di ciascuna delle vittime erano immerse in vasi di formalina. L'assistente del signor Qi le prese una per una e le lavò in modo che i vapori della sostanza non irritassero il naso e gli occhi del suo diretto superiore mentre le scrutava al microscopio. Nel frattempo, il signor Qi aveva fissato la spada di bronzo trovata in casa dell'Uccello su un sostegno rotante. Era già stata sottoposta all'esame minu-
zioso della scientifica, ma non aveva rivelato né impronte né sangue. Ogni traccia del suo proprietario era stata accuratamente rimossa. Era risultato che la lama era affilata solo da un lato. Il signor Qi abbassò rumorosamente le persiane avvolgibili delle finestre nel corridoio e spense le luci. La stanza era al buio, solo la luce del monitor e delle lampade del microscopio illuminava i camici bianchi del piccolo gruppo di investigatori. L'assistente tagliò la prima sezione di vertebre con un seghetto da gioielliere e la collocò sul ripiano di sinistra. Il signor Qi dispose la lama della spada in modo che restasse sul ripiano di destra per circa due terzi della sua lunghezza, all'incirca nella zona del "punto debole", come Margaret, durante l'autopsia, aveva definito il tratto di lama con il quale si colpivano le vittime. "Una sorta di firma", così l'aveva chiamato. Qi guardò dentro gli oculari e cominciò a mettere a fuoco l'immagine che sul monitor appariva ancora confusa. Il signor Qi spostò, centimetro per centimetro, il ripiano sul quale giaceva la spada, concentrandosi sulle piccole striature che emergevano dall'ingrandimento, confrontandole con le minuscole tracce lasciate sulla cartilagine della prima sezione di collo. «Ah!» esclamò Qi all'improvviso e tutti trasalirono. «Qui corrisponde!» Rimise a fuoco la lente. Una accanto all'altra, le immagini enormemente ingrandite della lama e della cartilagine del collo rivelarono una trama identica di segni verticali di varia altezza e larghezza. Il signor Qi sorrise, soddisfatto. «Questa spada ha tagliato questa testa» disse. Prese un pennarello rosso che aveva in tasca, segnò la sezione di lama che corrispondeva al tratto di collo e lo classificò con un numero. «La prossima» ordinò. Confrontò una a una le sezioni di lama con gli altri tre campioni di vertebre. Le prime tre sezioni debordavano di poco dal margine fissato o a destra o a sinistra. La quarta, invece, era di oltre due centimetri più vicina all'attacco dell'impugnatura. Il signor Qi segnò ciascuna corrispondenza con un pennarello di colore diverso. Yuan Tao aveva ucciso con abilità da professionista: il "punto debole" del colpo di spada era stato ogni volta di una esattezza maniacale. Il suo assassino non aveva mostrato altrettanta sicurezza. Ma, senza ombra di dubbio, quella era l'arma del delitto. Li fissava cercando di capire i segni di pennarello sulla lama: uno rosso, uno giallo, uno verde, uno blu. «Pensa ancora che l'Uccello non sia il nostro uomo, capo?» chiese Sang tutto allegro.
CAPITOLO UNDICESIMO 1 Mentre Margaret saliva sulla collina panoramica, gli ultimi gruppi di turisti lasciavano il parco di Jingshan. Ora era sola, seduta sui gradini del padiglione alla sommità della collina, in un mondo al di sopra delle nuvole, con Pechino ai suoi piedi. A occidente, l'immensa sfera del sole calava dietro le montagne viola. L'aria era impregnata del profumo dei pini e gli uccelli intonavano il canto della sera. Tre mesi prima Li Yuan l'aveva portata su quella collina e le aveva detto che era l'unico posto dove si poteva stare soli, a pensare, nel cuore di una città di undici milioni di abitanti. Anche lei ora voleva pensare e prendere una decisione per il suo futuro. Prima del suo incontro con Michael le era sembrato che tutto fosse chiaro e Michael, un uomo intelligente, sensibile e colto, le aveva chiesto di sposarlo. Si chiese che cosa provasse veramente per lui. Certo non era la straordinaria passione che l'aveva legata a Li e che lui aveva deciso di spegnere. La città era inondata della luce rossa del sole che tramonta. Margaret vide un lampo, subito seguito dal fragore del tuono. Grandi nuvole viola orlate di rosa intenso avanzavano da oriente. Sentì odore di pioggia nel vento che precede il temporale e capì che era ora di lasciare la collina. 2 La spada era sul tavolo. L'Uccello la guardava senza capire. «Non è mia» disse. «Oh, sappiamo di chi è» ribatté Sang. «Quello che ci deve spiegare è perché era in casa sua.» «No, in casa mia no.» «Era nell'armadio. L'abbiamo trovata noi oggi pomeriggio.» L'Uccello distolse gli occhi dalla spada e guardò Li che rimase colpito dalla sua espressione interrogativa, come se l'Uccello avesse intuito i suoi dubbi e si affidasse a lui. «No» ripeté l'Uccello e, rivolto in particolare a Li, aggiunse: «Voglio andare a casa. Devo dare da mangiare ai miei uccellini».
Li ripensò a quella casa piena di gabbie, alla puzza di escrementi, ai sacchi di semi in un angolo del soggiorno. Si chiese che cosa sarebbe stato di tutti quegli animali se avesse trattenuto l'Uccello per sottoporlo agli spietati interrogatori dei professionisti della Settima Sezione. «Temo che non sia possibile» rispose. Sang era ben deciso a non farsi sviare. Si alzò in piedi e afferrò la spada. «Con questa,» disse «il Gatto ha tagliato la testa alla Scimmia, a Zero e al Porcellino. E con questa lei ha tagliato la testa al Gatto.» «No!» «Perché si ostina a negare? Sappiamo tutto. Perché non confessa e si toglie questo peso dal cuore? Sono trentatré anni che soffre per quello che avete fatto al maestro Yuan. Vuole portarsi dietro per tutta la vita la colpa di avere ucciso il Gatto? Può dire al giudice che è stata legittima difesa. Dopotutto, sappiamo tutti che il Gatto voleva uccidere anche lei.» Sang rimise la spada sul tavolo e si avvicinò all'Uccello, con la faccia a pochi centimetri dalla sua. «Ci racconti com'è andata. Poi si sentirà meglio.» L'Uccello era di nuovo in lacrime, ma questa volta non singhiozzava. Guardava nel vuoto, come se Sang non ci fosse, sembrava che inseguisse un ricordo in gran parte dimenticato. "È la politica del partito essere clementi con chi confessa e severi con chi si ostina a tacere", così gli avevano detto e quando non aveva confessato lo avevano preso a calci, a pugni e a schiaffi finché non era svenuto. "Per quanto tempo credi che possiamo stare qui a guardarti in faccia. Parla!" «Le masse rivoluzionarie esprimono la loro devozione al presidente Mao in tutti i modi, perché nutrono sentimenti profondi per il loro capo» disse a Sang, che, da investigatore ancora inesperto, lo guardò senza capire. «Uccello, di che cosa sta parlando?» «Tu sei viscido come il cazzo di un cane lercio!» gridò l'Uccello, poi si coprì la faccia con le mani e cominciò a singhiozzare, dondolandosi avanti e indietro. Li si alzò in piedi e allontanò Sang dal tavolo. «Basta così» gli disse. Si sentiva molto triste davanti a quell'uomo in lacrime, l'immagine di una generazione che aveva perso la giovinezza e talvolta la vita in dodici anni di violenza e di follia. L'Uccello aveva perso anche l'anima, risucchiata dal vuoto che aveva dentro di sé. Carnefice e vittima. Nel suo ufficio Li ripensò all'aspetto patetico che aveva l'Uccello mentre lo portavano in cella nel seminterrato. Non poteva convincersi che avesse
avuto la presenza di spirito e l'intelligenza necessarie a rintracciare Yuan e ripetere minuziosamente il rito dei precedenti omicidi, perché Yuan Tao potesse sembrare la quarta vittima. C'erano troppe domande ancora senza risposta: il blu della vodka, le bottiglie di vino sotto il lavandino, la polvere di terracotta nero-bluastra, il soprannome sbagliato. O l'Uccello stava prendendo tutti in giro, pensò Li, con una messinscena molto convincente, oppure il vero assassino aveva nascosto intenzionalmente l'arma in casa sua. Ma anche questo, si disse, era inconcepibile, perché l'assassino avrebbe dovuto sapere che l'Uccello era il principale indiziato, cosa che, tranne gli agenti della Prima Sezione, non sapeva nessuno. Un lampo illuminò per un attimo il cielo, poi arrivò il boato del tuono. Li vide Margaret sulla soglia. «Parto lunedì» gli annunciò. 3 Li si alzò dal letto. Non riusciva a dormire. Andò a cercare una birra in frigorifero, ma le aveva finite tutte. Si infilò i pantaloni della tuta, andò a sedersi in salotto, al buio, e accese una sigaretta. Guardò fuori e vide che aveva smesso di piovere, ma le foglie degli alberi erano ancora lucide di pioggia alla luce dei lampioni. Si impedì di pensare a Margaret. Per causa sua non aveva chiuso occhio tutta la notte, era troppo facile crogiolarsi nell'autocommiserazione. Uscì sul balcone e costrinse i suoi pensieri a prendere una direzione diversa. Immaginò l'Uccello chiuso in cella, triste, piegato su se stesso, come un feto, sulle assi rigide della branda. Poi gli tornò in mente l'immagine di una sagoma avvolta nell'ombra, che strisciava nell'appartamento dell'Uccello, al buio, per andare a nascondere la spada in fondo all'armadio. Gli parve di sentire stridere gli uccelli, disturbati nel sonno, spaventati dai movimenti di qualcuno che non riuscivano a vedere. E, improvvisamente, si ricordò di Qian che trafficava con il lucchetto della porta. «Il lucchetto è saltato,» aveva detto «non c'è bisogno delle chiavi.» Li Yan imprecò contro se stesso: non si era nemmeno preoccupato di controllare quel lucchetto! Qualcuno l'aveva forzato o era semplicemente rotto? Accese un'altra sigaretta e si passò una mano tra i capelli. Non aveva pensato a quella eventualità perché era troppo sicuro che nessuno potesse vedere nell'Uccello un possibile indiziato. Adesso, invece, non c'erano più
dubbi. Guardò l'ora: l'una e mezzo di notte. Tornò in camera da letto, si infilò una maglietta e un paio di scarpe da ginnastica. Mentre pedalava verso nord, lungo le strade buie e deserte, si chiese se correre a esaminare il lucchetto dell'appartamento dell'Uccello non fosse in realtà un modo per togliersi Margaret dalla mente. Chinò la testa e pedalò con maggiore energia, cercando di non pensare a niente. L'agente di turno alla Prima Sezione prese le chiavi di casa dell'Uccello dalla stanza in cui venivano raccolte le prove. «Due ore fa ha chiesto carta, penna e inchiostro» disse a Li. «Da allora non si è più sentito un trillo.» Rise della propria battuta. Il vicolo era deserto. Le finestre, sulla facciata della casa, erano buie. Li entrò con la bicicletta nel cortile e spaventò un topo che frugava nel mucchio di immondizie accanto ai gradini. Lasciò la bicicletta appoggiata al lampione che illuminava l'ingresso. Le porte dell'ascensore erano chiuse e il pulsante di chiamata era spento. Li si diresse verso le scale, il cui accesso era sbarrato da un cancelletto. Prima che potesse trovare nel mazzo la chiave per aprirlo, si rese conto che era già aperto. Si tolse di tasca una piccola torcia elettrica che portava sempre con sé e illuminò la serratura. Era bloccata, probabilmente da tempo. Chiunque sarebbe potuto entrare inosservato nell'edificio, dopo le dieci di sera, quando l'ascensore non funzionava più e la ragazza se n'era andata. Arrivò al nono piano senza fiato e, una volta di più, si pentì di non avere smesso di fumare. Per reazione, accese una sigaretta. Il corridoio era illuminato dalla luce fioca dei lampioni stradali. Li cercò il numero 905, la casa dell'Uccello. La porta era socchiusa. Quegli idioti dei suoi agenti non l'avevano chiusa. Sollevò il lucchetto, appeso alla catenella. Il gancio entrava e usciva dalla sua sede, ma non si chiudeva. Li avvicinò la pila alla serratura e vide che sul metallo c'erano piccoli graffi lucidi. Era stata manomessa. Di recente. E da qualcuno che sapeva il fatto suo. Qualcuno, dunque, si era introdotto in quella casa e aveva nascosto la spada nell'armadio. Li girò la maniglia della porta e la spalancò. Sentì il frullo e il battere di ali nell'aria, il coro degli uccelli spaventati. Qualcosa emerse dal buio e volò verso di lui, qualcosa di grande e scuro che lo colpì al torace. Barcollò all'indietro, colto di sorpresa. Dall'oscurità emerse un uomo, un po' più basso di lui, magro, ma dritto e forte. Aveva fatto appena in tempo a vedere i contorni della sua figura quando
gli arrivò una pedata in pieno petto e, in faccia, un pugno piccolo e duro. Sbatté la testa contro il muro dietro di lui con uno schianto secco, poi si accasciò a terra, mentre il sangue gli usciva a fiotti dal naso e dalla bocca. Il suo aggressore lo scavalcò, uscì dalla porta, che era rimasta aperta, e corse via lungo il corridoio. Li sentiva un dolore forte al petto e il sangue che gli scorreva giù per la gola quasi lo soffocava. Si sentì un perfetto imbecille. Qian guardò le macchie di sangue rappreso sulla maglietta di Li e scosse la testa. Anche la faccia del suo capo appariva malridotta. Il labbro inferiore era spaccato e gonfio, dalle narici spuntava, impregnato di sangue, il tampone di cotone che un medico gli aveva infilato per fermare l'emorragia. «Dev'essere stato un bel pezzo d'uomo per ridurti così!» «No, la corporatura non c'entra. È che mi ha colto di sorpresa, tutto qui. Non mi aspettavo che ci fosse qualcuno in casa» disse Li, vergognandosene un po'. Tutto l'edificio adesso era illuminato a giorno. Con l'arrivo della polizia a sirene spiegate gli inquilini erano usciti sui pianerottoli o nei cortili. Anche nelle case vicine tutti si erano svegliati ed erano scesi in strada, a guardare l'andirivieni degli agenti in divisa. C'era ormai qualche centinaio di curiosi, uomini, donne e persino bambini, ancora insonnoliti. Qian era arrivato da poco. «Secondo te, che cosa ci faceva qui?» chiese a Li e, indicando i suoi colleghi che sembrava stessero smantellando l'intero appartamento, aggiunse: «E loro, che cosa stanno facendo?». «La stessa cosa che faceva lui: cercano qualcosa» rispose Li. «La diiierenza è che lui sapeva che cosa e noi invece no.» «Capo, non capisco. Tu sai chi è questo tizio?» «Ma certo: è la stessa persona che ha nascosto l'arma del delitto nell'armadio dell'Uccello.» «Ha nascosto l'arma del delitto...? Allora vuoi dire che non è stato l'Uccello?» «Non l'ho mai pensato. Forse chi aveva nascosto la spada nell'armadio è tornato perché aveva dimenticato o perso qualcosa mentre era qui. Un oggetto qualsiasi, che però poteva tradirlo.» Erano ormai le cinque del mattino quando Qian uscì dalla casa dell'Uccello tenendo in mano uno di quei sacchetti di plastica trasparente nei quali si raccolgono le prove. Li era seduto per terra sul pianerottolo, circondato da mucchietti di cenere e mozziconi di sigaretta. L'effetto degli analgesici stava passando e il dolore si faceva sentire. Si alzò faticosamente in piedi.
«Che cos'hai trovato?» «Forse qualcosa, forse niente.» Nella prima luce del giorno il cielo era limpido per la pioggia della notte precedente. Le nubi erano scomparse. Li prese il sacchetto. Dentro c'era un brillantino, non più grande della capocchia di un fiammifero, incastonato su uno spillo corto, senza punta. «Che cos'è?» chiese a Qian. «Un orecchino di quelli che si portano appena si fa il buco nell'orecchio. Non credo proprio che appartenga all'Uccello.» Li lo guardò sconcertato. «Vuoi dire che è stata una donna a conciarmi così?» Qian rise. «È improbabile, capo. Di questi tempi anche i ragazzi portano l'orecchino. Una brutta moda importata dall'Occidente.» Li lanciò un'occhiata verso l'appartamento. «Niente altro?» «Ho paura di no, capo. Almeno, niente d'interessante. Siamo stati fortunati a trovare questo orecchino in mezzo a tutto quel casino. Brillava, per questo l'abbiamo visto.» Qian fece per riprendere il sacchetto, ma Li disse che preferiva tenerlo lui. «Potrebbe essere della dottoressa Campbell. Ieri c'era anche lei, qui. In quale stanza l'hai trovato?» «In camera da letto.» La faccia di Li non tradiva emozioni, anche se il cuore gli batteva forte contro le costole ammaccate. Ora aveva un motivo, stupido ma plausibile, per vedere Margaret. Nel parco di fronte a Ritan Lu gruppi di uomini e donne si stavano riunendo per ballare il fox-trot o per esercitarsi nel tai ch'i o nel wu shu. Li sentiva già la musica che veniva dai grandi registratori portatili. I primi raggi di sole filtravano attraverso le foglie. L'aria era fresca, come capitava di rado in quella stagione a Pechino. Sebbene fossero solo le sei del mattino, la strada era già piena di ciclisti. Qualche ambulante, agli angoli delle strade, vendeva patate dolci calde, oppure tan bing e castagne arrosto. Il fumo portava con sé l'odore dei dolciumi infornati per la prima colazione. Li si era avviato verso la parte nord della città. Pedalare aumentava il dolore alle costole. Aveva un mal di testa lancinante, il labbro spaccato pulsava, ma non sentì più niente quando vide spuntare tra gli alberi la facciata del Ritan Hotel. Girò attorno a una impeccabile aiuola fiorita e andò a fermarsi sotto la struttura di acciaio e vetro, dipinta di rosso, che formava una pensilina sopra l'entrata dell'albergo. Li vide una figura nota uscire in
fretta dalla porta principale e dirigersi con passo energico verso un taxi che l'aspettava. Era Zimmerman. Vederlo uscire dall'albergo di Margaret lo fece soffrire più dei calci che aveva preso in pieno petto. Non c'era da stupirsi che Zimmerman avesse un'aria tanto felice, pensò. Lui aveva Margaret. Zimmerman non l'aveva notato. Niente di strano, perché avrebbe dovuto notare una faccia cinese in una città con undici milioni di facce cinesi? Si accorse che i due addetti alla vigilanza in uniforme scura che fumavano davanti alla guardiola lo stavano guardando, insospettiti. Esitò. Non poteva entrare subito, altrimenti Margaret avrebbe capito che aveva visto Michael uscire. Più tardi, nel corso della giornata, avrebbe mandato Sang a chiederle se l'orecchino fosse suo. Non era una verifica che richiedeva il suo intervento personale. 4 Appena imboccata la Beixinqiao, Li vide una decina di agenti in uniforme che fumavano, in piedi, all'ombra degli alberi. Davanti all'ingresso laterale della Prima Sezione, era parcheggiata un'ambulanza, con due ruote sul marciapiede. Quando gli agenti lo videro arrivare smisero di parlare tra di loro. Altri erano radunati in fondo al corridoio, dove una rampa di scale portava alle celle. Li corse per il corridoio, scansando gli agenti, e scese i gradini due per volta. La cella era affollata di agenti, in uniforme e in borghese. Due medici erano chini su un corpo steso sul pavimento. Tutti si fecero da parte per far passare Li. La testa dell'Uccello era piegata da un lato, in una posizione strana. Gli occhi erano spalancati e senza vita, fissi sulla parete. Dalle labbra livide usciva la punta della lingua. Un pezzo di corda era abbandonato a terra. «Si è impiccato, capo. Questa notte» disse Wu alle sue spalle. «Dove ha trovato la corda?» Li provava un doloroso senso di rabbia impotente. «La usava per tenersi su i pantaloni» rispose Wu. «Ma siccome era coperta dalla giacca, nessuno l'ha vista.» Dopo una pausa aggiunse: «E nessuno ha controllato». Li era così sconfortato che non se la sentiva di prendersela con nessuno. Guardò l'Uccello. Per quanto i suoi lineamenti fossero contorti in modo quasi grottesco, c'era una strana pace nei suoi occhi. Si era liberato della
sua sofferenza. Dopo trentatré anni era tornato libero come gli uccelli che aveva amato per tutta la vita. «Ha lasciato una confessione, capo» disse Wu. «Una confessione?» «L'ha presa Chen.» Chen porse a Li due fogli di carta leggera, scritti con dei caratteri rozzi e infantili. «Ci faranno passare l'inferno per questa storia» disse. «Al ministero non piace che i detenuti si uccidano in cella. Ci sarà un'inchiesta.» Li annuì e, con il cuore in gola, lesse la confessione dell'Uccello. «Almeno abbiamo la confessione. Il caso è risolto e la pressione politica si allenterà. Non sapete quanto mi dia continuamente da fare per difendere il vostro lavoro?» Li lo sapeva sin troppo bene. «Peccato, però, che la confessione non abbia né capo né coda» disse. Chen gli rivolse uno sguardo preoccupato. «In che senso?» «Non ha fatto altro che ripetere, quasi parola per parola, le accuse che ieri gli ha rivolto Sang. Basterebbe riascoltare la registrazione. Ci ha detto quello che volevamo sentirci dire. È l'autocritica che gli avrebbero fatto scrivere durante la Rivoluzione culturale, quando pretendevano le confessioni più assurde. La confessione è la via di minima resistenza, anche per chi è innocente.» «Stronzate» ribatté Chen. «Ci ha fornito un falso alibi, aveva il movente e l'arma del delitto è stata ritrovata a casa sua. Che cosa vogliamo di più?» «Un movente non equivale a una prova di colpevolezza, lei lo sa, capo. L'imputato non si ricordava più dove era stato lunedì sera e, quanto all'arma del delitto, è stata nascosta apposta in casa sua.» «La prova?» «Eccola» Li indicò la propria faccia tumefatta. «Il ladro che ha sorpreso nell'appartamento di Ge Yan le ha dato il benvenuto. Che razza di prova sarebbe?» Li sapeva di non poter provare che la spada era stata messa in quell'armadio apposta per incriminare l'Uccello. «Ci sono molte altre incongruenze, capo. Il soprannome, il vino...» Chen lo interruppe. «Non le voglio sapere. È inutile che me le ripeta.» «Ma, capo...» La voce di Chen era bassa e minacciosa. «Mi ascolti. Abbiamo provato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che Yuan Tao ha ucciso Scimmia, Zero e il Porcellino. È stata una vendetta contro chi aveva perseguitato suo pa-
dre durante la Rivoluzione culturale. Ora siamo in possesso di una confessione da parte di un individuo che riteneva di essere la prossima la vittima sulla lista dell'assassino e che ha ucciso Yuan prima che Yuan uccidesse lui. La confessione è supportata dalla scoperta dell'arma del delitto nel suo appartamento. Fine della storia. Il caso è chiuso.» Dopo una lunga pausa, Chen chiese: «Sono stato chiaro?». Li avrebbe voluto sbattergli in faccia la confessione dell'Uccello, ma capì che sarebbe stato inutile, perciò si limitò a rispondere: «Sì, capo». CAPITOLO DODICESIMO 1 Margaret si stiracchiò nel letto con una nuova sensazione di libertà. Per quanto fosse stato doloroso prendere una decisione, ora si sentiva sollevata da un peso enorme. Era rimasta a lungo tra le braccia di Michael quella notte, rannicchiata contro di lui, per sentirsi confortata e protetta. Avevano fatto l'amore e poi lei aveva dormito tranquillamente fino alle sei, quando aveva sentito che lui stava andando via. «Dove vai?» gli aveva chiesto. Michael non le aveva risposto, limitandosi a sorriderle e a darle un bacio sulla fronte. «La domenica non è un giorno di riposo in Cina e non c'è tregua per chi ha il vizio del lavoro. Mi hanno chiamato sul set. Ci vediamo più tardi.» Si era riaddormentata ma l'aveva svegliata il ricordo della promessa fatta a Xinxin di portarla al parco. Fece la doccia, si lavò i capelli e mentre se li asciugava davanti allo specchio, si vide invecchiata, stanca, con i lineamenti segnati. Aprì l'armadio e pensò che più tardi avrebbe dovuto fare le valigie. Prese in fretta un paio di jeans e una maglietta. Cercò un paio di scarpe da ginnastica sul fondo dell'armadio e vide che sull'asse di legno dov'erano state appoggiate era rimasta una polvere bluastra. Restò immobile a fissarla, con le scarpe in mano. Sentiva il sangue pulsarle sulle tempie. Lentamente si chinò, prese un pizzico di quella polvere tra le dita e la osservò attentamente. La consistenza e il colore erano gli stessi del campione che le aveva mostrato Li. Guardò sotto le scarpe e vide che la polvere si era infilata nei solchi della suola. Cercò di ricordarsi quando aveva messo quelle scarpe l'ultima volta, ri-
costruì i suoi spostamenti delle ultime giornate e si rese conto che aveva indossato quelle scarpe il giorno in cui era andata con Michael a vedere i Guerrieri di Terracotta agli scavi di Xi'an. Ma che nesso poteva esserci tra le camere sotterranee di Xi'an e una serie di delitti avvenuti a Pechino, che a tutti gli effetti erano già stati risolti? Aveva lasciato che il pensiero corresse troppo rapidamente e cercò di fermarsi a riflettere. Non poteva essere certa che quella polvere blu fosse la stessa dei campioni analizzati, ma voleva scoprirlo. All'improvviso si ritrovò catturata proprio da quel mondo che aveva deciso di abbandonare a ogni costo. La forza che la spingeva a partire era irresistibile, ma altrettanto era la sua curiosità. Se i criminali non osservavano il riposo settimanale, perché avrebbero dovuto osservarlo i criminologi? Margaret decise che il signor Qi lavorava anche di domenica. Gli aveva portato il campione di polvere in una busta bianca dell'albergo e aveva messo sul tavolo le scarpe da ginnastica, dentro un sacchetto di plastica. «Sembra proprio la stessa polvere» disse il signor Qi. «Probabilmente si tratta per il settanta per cento circa di creta cotta e per il resto di sostanze organiche e minerali, specifiche di talune manifatture ceramiche. Dove l'ha trovata, dottoressa Campbell?» chiese. «È rimasta attaccata alle suole delle mie scarpe a Xi'an, durante una visita agli scavi dei Guerrieri di Terracotta.» «Ah!» Il signor Qi era raggiante. «Allora è la stessa polvere! Abbiamo analizzato i componenti minerali dell'argilla. I depositi si trovano tutti nella provincia dello Shaanxi, a ovest di Xi'an. Ma se questa proviene dagli scavi dev'essere quella che avevano usato per plasmare i Guerrieri di Terracotta, più di duemila anni fa.» Margaret si ricordò di aver letto nel rapporto della scientifica che l'argilla proveniva dalla provincia dello Shaanxi, ma non aveva mai pensato di collegare quella zona con Xi'an. «Quando potrà dirmi se è la stessa polvere dei campioni raccolti sulla scena dei delitti?» chiese. «Oh,» rispose allegramente Qi «oggi è una giornata tranquilla. Credo che mi basteranno un paio d'ore. Posso fare un'analisi petrografica al microscopio ottico e determinare il peso specifico. Vuole anche l'analisi mineralogica? Può aspettare qui la risposta, se crede.» Margaret guardò l'orologio. «Grazie, devo andare. Ma la pregherei,
quando avrà i risultati, di comunicarli per telefono al vicecaposezione Li.» «Certo.» Qi sorrise. «Lei è molto in gamba, dottoressa Campbell. Dovrebbe rimanere con noi a lavorare per la polizia cinese.» «Grazie» disse Margaret e dentro di sé pensò: "Piuttosto m'impicco". Il taxi la lasciò al Ponte del Lingotto d'Argento. L'emporio sull'angolo stava facendo buoni affari. Le famiglie si concedevano una passeggiata domenicale lungo i sentieri che costeggiavano il lago Qianhai. Margaret s'incamminò verso il mercato del Fiore di Loto, dove la folla si stava già radunando intorno ai chioschi a comprare interiora di maiale cotte e profumate al coriandolo. Margaret passò sotto un'arcata che portava alla casa di Mei Yuan. Non aveva fatto che pensare a quella polvere vecchia di secoli rimasta attaccata alle sue scarpe, trovata nella casa di un morto, grattata via dai vestiti della vittima di un omicidio. Se i campioni corrispondevano, quello era l'elemento che collegava l'Ottava Meraviglia del mondo ai recenti delitti. Xinxin le corse incontro. Margaret l'abbracciò, la prese per mano e la riportò in casa. Mei Yuan l'accolse con un gran sorriso. «Xinxin non riusciva a dormire ieri sera all'idea di andare con te al parco» disse. Poi, cambiando tono chiese: «È vero che parti?». «Sì, è vero» rispose Margaret imbarazzata. «È per via di Li?» Margaret si limitò ad annuire. Non aveva voglia di dare spiegazioni. Xinxin la tirava per un braccio e la guardava, parlottando in fretta. «È impaziente,» le spiegò Mei Yuan «ha aspettato così tanto!» «Allora andiamo.» Mei Yuan la fermò. «Solo un minuto. Ha ancora le pantofole ai piedi. Vicino alla porta ci sono le scarpe da ginnastica. Bisogna aiutarla ad allacciarle.» Margaret si mise a sedere su uno sgabello basso, a destra della porta. Si guardò le mani e vide che erano più grandi delle scarpe di Xinxin. Prese la sinistra e notò che aveva lasciato tracce di polvere bluastra sul pavimento di linoleum verde chiaro. Prese anche l'altra, le capovolse e ritrovò sulla suola di entrambe la stessa polvere. Allora ebbe davvero la sensazione di non capire più niente, perché Xinxin non era andata con lei a Xi'an. «C'è qualcosa che non va?» chiese Mei Yuan preoccupata. «Quando è stato che Xinxin ha messo queste scarpe l'ultima volta?»
chiese Margaret. «Le aveva addosso quando è uscita con te e Li Yan.» Dov'erano stati con Xinxin? Cercò di concentrarsi. Li le aveva fatte salire nell'auto della polizia. Erano passati tutti e tre dalla Prima Sezione e Xinxin non era scesa. Poi erano andati all'università... «Oh, Cristo!» esclamò. Xinxin e Mei Yuan la guardavano spaventate. All'università erano stati nel laboratorio di conservazione e restauro. Il professor Chang si era scusato per il disordine. "Da decenni qui si restaurano gli antichi tesori della Cina" aveva detto "Non abbiamo l'abitudine di rimettere tutto a posto ogni sera." Anche il professor Yue aveva lavorato in quel laboratorio e il primo residuo di polvere blu era stato trovato sui suoi pantaloni e sulle sue scarpe. Margaret lasciò cadere a terra le scarpine, si alzò e faticando a trovare le parole disse: «Mi dispiace, Mei Yuan. Non so come spiegarlo a Xinxin, ma non posso portarla al parco. Tornerò più tardi. Devo andare all'università». I leoni di pietra parvero rivolgerle uno sguardo severo quando Margaret scese dal taxi. Tra le colonne del portale solo l'ingresso centrale era aperto. Margaret si chiese come avrebbe convinto la guardia a lasciarla entrare. Per fortuna vide che era la stessa del giorno prima, che la riconobbe subito come la signora che era venuta accompagnata da un funzionario della polizia. Sorrise e, come Alice attraverso lo specchio, scivolò da un mondo dentro un altro. Il giardino, i laghi e i sentieri del campus erano quasi deserti. Margaret attraversò il ponte di pietra sull'acqua immobile e vide il padiglione bianco della facoltà di Archeologia brillare oltre i prati, in parte nascosto dagli alberi. Dopo un quarto d'ora di peregrinazioni era riuscita a trovare l'istituto d'Arte con i laboratori di archeologia. Il cortile era vuoto e stranamente silenzioso. Si sentiva solo il ronzio degli insetti e, più lontano, il canto degli uccelli, le voci di una ragazza e di un ragazzo che si salutavano. L'istituto d'Arte sembrava deserto e le sue porte invalicabili. Tuttavia, uno dei battenti non era stato chiuso a chiave. Margaret si ritrovò in un interno buio. Il lungo corridoio che portava al centro dell'edificio, infatti, non aveva finestre. Margaret intravide un'unica lama di luce uscire da una porta socchiusa e si ricordò che quello era il laboratorio di conservazione e restauro
dove il giorno prima lei e Li avevano parlato con il professor Chang. «Posso entrare?» La sua voce riecheggiò a un volume troppo alto nel corridoio vuoto. Ma nessuno le rispose. Spinse la porta, che si aprì cigolando. All'interno, la luce filtrava attraverso i listelli delle persiane in fasce sottili e ondulate che si rincorrevano sulle pareti della stanza. «Si può?» chiese ancora, ma non c'era nessuno. La spada che il professor Chang stava restaurando era ancora stretta nelle ganasce della morsa, sul grande tavolo da lavoro al centro della stanza, sporco e ingombro, proprio come se lo ricordava. Posò la borsa sul banco, ne tolse un sacchetto di plastica trasparente e si chinò a esaminare la polvere sul pavimento. C'erano trucioli di legno e una specie di terriccio sabbioso. Margaret si spostò lungo la stanza, verso un tratto libero del pavimento e lo trovò coperto da un denso strato di polvere blu scuro. Sembrava, per colore e consistenza, la stessa polvere che era rimasta incastrata nella suola delle sue scarpe a Xi'an. Ne infilò più che poté nel sacchetto di plastica. Dal fondo della stanza Margaret si rese conto che il bancone da lavoro non occupava più la stessa posizione del giorno prima, ma era stato spinto in avanti, verso la porta, facendolo scorrere su binari fissi al pavimento. Sotto c'era una botola. Il coperchio era aperto e alcuni gradini scomparivano all'interno di una cantina illuminata. Per la prima volta si sentì invadere dall'inquietudine. Si affacciò all'apertura e gridò: «C'è qualcuno?». Ma fu investita da un'aria fredda e umida che aveva lo stesso odore di muffa delle gallerie della Città Sotterranea. Esitò un momento, poi, vinta dalla curiosità, s'infilò il sacchetto di plastica in tasca e saggiò col piede i gradini di legno per assicurarsi che sostenessero il suo peso. Le parvero robusti e scese. Si trovò in un grande spazio quadrato, con le pareti grezze macchiate di umidità. Una lampadina pendeva dal soffitto attaccata a un filo elettrico che percorreva la volta di un tunnel illuminato ogni quindici o venti metri. All'imbocco del tunnel c'era un cancello di ferro, socchiuso. Margaret chiamò di nuovo, ma non le rispose nessuno. Stava già cedendo alla tentazione di tornare indietro, quando vide una chiazza marrone sul pavimento. Si chinò a guardarla meglio. Era sangue. Un sangue vecchio di qualche settimana, che aveva preso un colore bruno. Si guardò attorno e vide una striscia di sangue secco, come se un corpo ferito fosse stato trascinato dentro o fuori dal tunnel. La seguì con cautela, tenendo sempre una mano appoggiata alla parete. Ora l'inquietudine era
diventata paura. Il freddo le penetrava nelle ossa e il respiro le si condensava in vapore davanti alla bocca. Non vedeva a più di tre o quattro metri di distanza, nella nebbia umida del tunnel. Le sembrava di camminare nella Città Sotterranea, verso la vecchia stazione ferroviaria di Pechino. Man mano che proseguiva si rese conto che le macchie di sangue andavano allargandosi sul pavimento di cemento. Si stava avvicinando al luogo in cui si era svolta una tragedia. A un certo punto la nebbia si diradò e il tunnel si aprì su una grande sala a volta. Il suo sguardo fu subito attratto da un'enorme chiazza di sangue sul pavimento. Riconobbe gli inconfondibili schizzi prodotti da un colpo di spada. Alzò gli occhi e le sfuggì un grido di terrore quando vide file di figure ritte in piedi che la fissavano nella penombra. Le luci si spensero e l'oscurità fu totale. 2 Li fumava accanto alla finestra. Aveva la mente vuota. Non voleva pensare alla confessione dell'Uccello, né all'inconsistenza delle prove, né all'intruso che lo aveva aggredito, né all'ordine di Chen di chiudere l'indagine. Soprattutto non voleva pensare a Margaret, che stava per partire e che forse avrebbe sposato Zimmerman. Qian bussò e si affacciò alla porta. «Capo, c'è una persona nella stanza degli interrogatori. Vuole parlarti.» Li non fece neanche lo sforzo di voltarsi. «Non voglio vedere nessuno.» «È importante» insisté Qian. «È Luna, l'amico dell'Uccello, che non gli ha fornito l'alibi per lunedì sera.» Luna era un ometto secco, completamente calvo, con una faccia piccola e rotonda. Sotto un abito grigio e dimesso, indossava una camicia bianca con il colletto sbottonato, logoro e sporco. Stava seduto, con le gambe accavallate, sulla sedia che l'Uccello aveva occupato soltanto il giorno prima durante l'interrogatorio in cui si era proclamato innocente. Una sigaretta arrotolata a mano gli stava bruciando le dita. Era pallido e agitato. «Che cosa c'è?» gli gridò Li entrando nella stanza. Luna lanciò un'occhiata a Qian, che gli fece un cenno rassicurante. «Ripeta quello che ha detto a me.» Angosciato, l'uomo diede un ultimo tiro al mozzicone di sigaretta che aveva in mano e poi cominciò ad arrotolarne un'altra, forse solo per evitare
lo sguardo di Li. «Ho sentito che cos'è successo» disse. «Mi dispiace non essere venuto ieri sera. Adesso è tardi.» «Tardi per che cosa?» «Mi sono confuso, non so perché. Di solito, l'Uccello e io giocavamo a dama il martedì sera, ma una volta abbiamo anticipato la partita al lunedì, perché il giorno dopo doveva arrivare un mio cugino dalla campagna. Chissà perché, mi sono sbagliato e ho detto che era stato due settimane fa. Ero sicuro...» Alzò gli occhi umidi verso Li, in cerca di comprensione. «Purtroppo ultimamente non ricordo più le cose. Ieri mio cugino mi ha telefonato e allora mi è tornato in mente tutto... Non sapevo che fosse così importante...» Gli mancò la voce e guardò di nuovo la sigaretta arrotolata per nascondere le lacrime. «Si spieghi meglio» disse Li. Luna accese la sigaretta. «È stato lunedì scorso che abbiamo giocato, come ha detto l'Uccello. Giù, alle mura di Xidan. Poi lui è venuto a casa mia a bere una birra. È andato via che era quasi mattina. Ho capito che lo sospettate di aver fatto qualcosa di brutto, ma non può essere stato lui perché era con me. Lo giuro sulla tomba dei miei antenati.» Qian rincorse Li lungo il corridoio dell'ultimo piano. «Capo, perché hai detto che questa testimonianza non serve?» «Perché Chen non ne vuole sapere.» «E ti pare giusto?» «No, non mi pare giusto!» disse Li. Gli dava fastidio che quel poliziotto, più vecchio di lui ma di grado inferiore, lo credesse d'accordo con la decisione di ignorare quella testimonianza. «L'alibi fornito da Luna conferma una verità che già sapevo. Chen non ne ha voluto tenere conto prima e non cambierà certo idea adesso.» Qian lo guardò, scuotendo la testa. «Così, chiunque sia stato, è a piede libero. E tu vuoi che la faccia franca?» «No, non è questo che voglio» rispose Li. «Li!» La voce di Chen risuonò nel corridoio. Si voltarono e videro che stava correndo verso di loro. «Prenda due agenti e si precipiti all'aeroporto.» «Capo,» disse Li, contrariato «ci sono nuovi sviluppi nel caso Yuan Tao.» Chen finse di non aver sentito. «Si sbrighi, Li!» ordinò «Abbiamo un'emergenza all'aeroporto.»
«Mi dispiace, non vado da nessuna parte finché non discutiamo del delitto Yuan Tao». Chen non poteva permettersi di ignorare questa sfida alla sua autorità. Ma Li proseguì: «C'è stato un equivoco sull'alibi dell'Uccello. Si ricorda che aveva dichiarato di aver giocato a dama con un amico? E che l'amico l'aveva smentito? Bene, ora questo testimone tardivo è venuto a dirci che si era sbagliato di una settimana e che è sicuro di essere stato con l'Uccello quella sera. Dunque è impossibile che l'Uccello abbia ucciso Yuan Tao». Chen non poteva, soprattutto davanti a Qian, lasciar cadere l'obiezione di Li. Con tono autoritario, tagliò corto: «Ne parleremo quando tornerà dall'aeroporto». Li, esasperato, ribatté: «L'aeroporto è sotto la giurisdizione della polizia aeroportuale. Che cosa c'entriamo noi?». Chen fece uno sforzo evidente per controllarsi e disse con calma: «Un carico di Guerrieri di Terracotta, destinati a una mostra itinerante negli Stati Uniti, doveva essere stivato su un cargo. C'è stato un incidente con un carrello elevatore, una cassa è caduta da un'altezza di sei metri, si è aperta e il contenuto è andato in pezzi». «E noi che cosa c'entriamo?» chiese Li. «Non capisco.» «Nella cassa c'erano due guerrieri.» «Allora?» Li non aveva ancora afferrato la situazione. «Doveva essercene uno solo» rispose Chen con un sospiro di sufficienza. All'aeroporto Capital, esaurite le formalità, il vicecaposezione Wei invitò Li, Wu e Qian a salire su un minibus Toyota. Attraversarono la pista con una lunga corsa fino all'aereo, che brillava al sole. Un camion e un carrello elevatore erano parcheggiati presso la stiva del cargo. C'erano alcune automobili della polizia, una ventina di agenti della polizia aeroportuale in uniforme e altri in borghese. Lo spazio intorno all'aereo era stato recintato da un nastro a righe gialle e nere che qua e là svolazzava alla brezza che spirava incessante sulla pista di decollo. Il minibus si fermò accanto all'apparecchio. Gli agenti della polizia di Pechino oltrepassarono il nastro e si avvicinarono all'oggetto che era al centro dell'interesse generale: una grande cassa di legno, spaccata in due nell'impatto della caduta. Il materiale da imballaggio, compatto e morbido, era sparso per terra tra i resti dei guerrieri che erano rimasti intatti per duemila anni per finire disintegrati sulla pista dell'aeroporto. Due teste erano chiaramente visibili, una intera, l'altra
spezzata. «Chi è il responsabile di questo massacro?» chiese Li. Un uomo di mezza età, in giacca e cravatta, con gli occhiali da sole, si fece avanti e strinse la mano a Li. «Sono Jin Gang, capo della sicurezza al Museo dei Guerrieri di Terracotta di Xi'an.» «È lei il responsabile delle operazioni di imballaggio?» Jin assentì. «Siamo in cinque ad accompagnare le statue. Il mio vice, due archeologi e due ricercatori, tutti del museo. Eravamo presenti quando i guerrieri sono stati imballati per la spedizione.» «Uno solo per cassa?» «Esatto.» «E come mai qui ce n'erano due?» Jin si accovacciò a terra e tolse una massa di trucioli di legno dalla cassa che si era rotta. «Dia un'occhiata» disse. «C'è un doppiofondo: c'era già un guerriero nascosto lì dentro quando la cassa è stata imballata. Abbiamo controllato le altre» e accennò alle casse per metà già scaricate dal camion. «Sono tutte uguali. Dalla Cina escono due guerrieri e, presumibilmente, solo uno torna indietro.» Li si chinò a guardare la cassa sfasciata. Raccolse un pezzo di terracotta. «Sono autentici?» Jin fece un cenno a un uomo con i capelli bianchi, chino a osservare i cocci di terracotta, che rispose a Li direttamente. «Mi chiamo Yan Shu, sono l'archeologo anziano del museo. Lei chiede se questi guerrieri sono autentici? Sì, fanno parte dell'Esercito di Terracotta. Non ci sono dubbi in proposito, vicecaposezione Li.» «Qual è la provenienza delle casse?» chiese. Nessuno rispose. Il vento stava aumentando, fischiava attorno al carrello dell'enorme velivolo. «Allora, chi ha prodotto le casse?» «Una ditta di imballaggi di Pechino, nel distretto di Haidan» rispose Jin, rimettendosi in piedi, impettito. «Ma sono state commissionate dagli organizzatori della mostra, non dal museo.» «Da chi è organizzata la mostra?» «Da un'organizzazione americana molto seria che si chiama L'arte della guerra. La mostra si terrà contemporaneamente a una trasmissione televisiva.» «Che genere di trasmissione?» Li si sentiva come se stesse guadando un mare ignoto che tutti, intorno a lui, sembravano conoscere. Diede un'oc-
chiata a Qian, che si strinse nelle spalle. «Una serie di documentari: L'arte della guerra di Michael Zimmérman» rispose Jin. «Sarà sugli schermi televisivi americani il mese prossimo.» Li sentì i muscoli della faccia e del collo contrarsi e, nonostante il caldo, rabbrividì come per un presagio di morte. «Che cosa c'entra Michael Zimmérman?» chiese. «È lui il curatore della mostra» rispose Jin. «L'associazione L'arte della guerra è stata fondata da lui.» Nella parte orientale della città, la calda luce autunnale illuminava l'appartamento di Michael Zimmerman, al ventiduesimo piano di una delle torri gemelle del Centro del Commercio Cinese nel Mondo. L'addetto alla sicurezza dell'edificio, dopo aver esaminato attentamente il mandato di perquisizione emesso dall'ufficio del procuratore generale, aveva accompagnato in ascensore Li, Wu, Qian e alcuni agenti in divisa. Il personale in servizio confermò che Michael non aveva trascorso la notte nel suo appartamento. Ma Li lo sapeva già. L'incaricato aprì la porta su un mondo che superava l'esperienza e i sogni più sfrenati della maggior parte degli agenti di Li. Per qualche minuto rimasero a guardare, in silenzio. Poi Li chiese all'incaricato della sicurezza di aspettare fuori. Quando fu solo con gli agenti disse: «Non sappiamo che cosa stiamo cercando, quindi guarderemo dappertutto. Ma siate cauti, questa è un terreno diplomaticamente sensibile». Dal momento in cui era entrato nell'appartamento, aveva sentito che nell'aria c'era un profumo discreto, appena percettibile finché non si arrivava alla stanza da bagno, dove diventava più intenso. Finalmente riuscì a rintracciarne l'origine in una bottiglietta marrone. Lesse l'etichetta: patchouli. Ne aveva sentito l'odore, la prima volta, in casa di Yuan Tao. Era questo l'aroma discreto che accompagnava Zimmerman, l'elemento familiare che Li aveva sempre avvertito in sua presenza. Se la prese con se stesso per non essere mai riuscito a prendere piena coscienza della sua confusa percezione. Zimmerman era dunque stato nell'appartamento di Tao nel quartiere dell'ambasciata e in quello preso in affitto di nascosto in Tuan Jie Hü Dongli. Quasi certamente la notte del delitto. Questi pensieri che andavano via via chiarendosi nella sua mente all'improvviso si condensarono sulla precisa sensazione che Margaret fosse in pericolo. Tornò nel salotto. Wu, con gli occhiali da sole sulla testa, esaminava un
mucchio di videocassette sparse sul pavimento. «Gli piacciono i film, eh?» disse. Li lesse l'etichetta. «Sono provini del documentario.» «Cioè?» «Copie VHS delle riprese effettuate sul set. Forse le guarda la sera, quando torna a casa.» Li non sapeva esattamente che cosa avesse sperato di trovare. Non capiva in che modo e fino a che punto Zimmerman fosse implicato in quella storia. Non era così ingenuo da credere che il caso gli offrisse una prova per incriminarlo. Si avvicinò alla scrivania. C'era un mini hi-fi con una dozzina di CD che osservò attentamente, curioso di conoscere i gusti di Zimmerman. Erano quasi tutti di jazz, qualcuno di musica classica e, stranamente, una compilation di canzoni d'amore di Lionel Ritchie. Si chiese perché quest'uomo fosse piaciuto a Margaret. Lui lo aveva trovato antipatico fin dalla prima volta che l'aveva visto, alla sala da tè Sanwei. Forse solo per gelosia. Ora che Zimmerman rischiava di essere sospettato di omicidio e certamente di contrabbando di opere d'arte, avrebbe potuto attribuire la sua avversione a motivi professionali. «Ehi capo, guarda!» esclamò Wu. «C'è una videocassetta della Sicurezza Interna dell'università di Pechino. La Quarta Camera... Che cos'è?» Li prese la videocassetta e la osservò. Sull'etichetta, a mano, erano state aggiunte le parole Quarta Camera e la data: 14 settembre. Li ripeté ad alta voce: «Quattordici settembre, ti dice qualche cosa?». Wu si strinse nelle spalle. Qian disse: «Il 15 settembre abbiamo trovato il cadavere del professor Yue». Li diede la videocassetta a Wu. «Vediamola.» Qian tirò la tenda alle loro spalle e tutti gli agenti si riunirono davanti al televisore. Comparve un'immagine in bianco e nero, ma non si capiva cosa fosse perché la luminosità era scarsa. Mancava il sonoro. Si vedevano sagome scure, immobili, sullo sfondo. A un certo punto emerse una figura in movimento, ripresa dall'alto. Era un uomo curvo, barcollante, che veniva spinto avanti da un altro individuo, dritto e forte. Quando arrivarono al centro dello schermo, l'uomo che stava dietro costrinse l'altro a voltarsi e a inginocchiarsi. «Cristo!» gridò Wu. «Quello è Yue Shi, il professore! Guardate, ha le mani legate dietro la schiena.» Videro che aveva un cartello appeso al collo e lessero il soprannome:
Scimmia, capovolto e cancellato con un rigo e sotto il numero quattro. Sembrava che il professore stesse piangendo, mentre l'altro uomo, del quale non si vedeva ancora bene la faccia, gli parlava, guardandosi intorno. Poi si voltò, quasi di fronte alla telecamera. Li aveva capito chi fossero fin dal primo momento in cui le due figure erano apparse sullo schermo, ma per lui il primo piano della faccia trionfante di Yuan Tao era uno spettacolo difficile da sostenere. Una faccia che Li conosceva perché l'aveva vista sul tavolo dell'autopsia. Yuan Tao alzò il braccio che reggeva la spada da giustiziere, la copia di bronzo che aveva commissionato al signor Mao, a Xi'an. Il professore fece un debole tentativo di alzarsi in piedi, ma Yuan lo spinse di nuovo in ginocchio. Era facile dominarlo perché si trovava sotto l'effetto del flunitrazepam. Yuan gli mise una mano dietro la testa spingendola avanti, indietreggiò di un passo e si mise in posizione, a gambe larghe, alla sinistra della vittima. Appoggiò la lama della spada sulla nuca del professore, quindi, con un movimento rapido ed esperto, la alzò e la calò di colpo. La testa rotolò sul pavimento. Nell'appartamento di Zimmerman, sei uomini guardarono attoniti il corpo decapitato di Yue Shi cadere in avanti e rovesciarsi di lato, con il sangue che usciva a fiotti dalle carotidi recise. Yuan si tolse di tasca uno straccio che passò su tutta la spada, poi parve cercare con lo sguardo l'approvazione dei testimoni immobili e muti, sullo sfondo. Li disse. «Non c'è da stupirsi che sapessero come ripetere il rito dell'omicidio. L'avevano registrato!» Uno degli agenti in divisa corse in bagno, con una mano sulla bocca. «Che cosa la Yuan?» chiese Wu, sottovoce. «Che cosa sono quelle figure?» Li bloccò l'immagine con il telecomando e si piegò in avanti per vedere meglio. «Oddio!» mormorò. «Quelli sono i Guerrieri di Terracotta.» Margaret si trovava in mezzo a quelle figure silenziose e tremava, per il freddo o forse per la paura. In alto, sul muro, c'era un puntino di luce rossa intermittente che faceva alternativamente comparire e sparire le facce fredde come pietra dei suoi compagni di prigionia. I loro occhi senza vita sembravano fissare l'eternità verso la quale marciavano da più di duemila anni. Impossibile contarli. Erano decine e decine. In tacite file, uno dietro l'altro, nell'oscurità fredda e spaventosa di quella camera sotterranea, cui ave-
vano avuto il tempo di assuefarsi. Margaret non ancora. All'inizio, quando le luci si erano spente, aveva sentito da lontano uno scatto metallico e aveva gridato, sperando che qualcuno la sentisse. Terrorizzata, era tornata indietro a tentoni, lungo il tunnel, un passo alla volta, con una mano sul muro e l'altra tesa in avanti, alla cieca. Non ricordava di essersi mai trovata in un luogo così privo di luce. Il buio sembrava prendere forma e sostanza avvolgendola completamente. A un certo punto, la sua mano toccò qualcosa di freddo e umido. La ritrasse con un breve grido. Capì infine che era il metallo del cancello all'ingresso del tunnel. Tornò sui suoi passi. I Guerrieri di Terracotta l'aspettavano, come se un destino comune li costringesse a condividere con lei quell'oscurità. Si rese conto che la spia intermittente che le permetteva di dare brevi occhiate ai suoi compagni proveniva da una telecamera di sicurezza montata all'ingresso del tunnel. Era una telecamera a raggi infrarossi? Qualcuno, davanti a un monitor, la osservava e seguiva i suoi movimenti? Si rannicchiò in mezzo ai guerrieri, per sfuggire alla telecamera, con le braccia strette intorno alle ginocchia, in cerca di calore e di conforto. Aveva voglia di piangere. Non sapeva più da quanto tempo fosse lì sotto. 3 Li sbatté il ricevitore del telefono e gridò: «Wu!». Wu comparve immediatamente sulla soglia. «Sì, capo?» «Vai giù, nell'ufficio del procuratore generale e fatti firmare un mandato per Zimmerman.» «Vado.» «Capo,» ora c'era Qian sulla porta «Zimmerman è introvabile. Non è sul set né alla produzione, né all'ambasciata americana...» Squillò il telefono sulla scrivania e Li alzò il ricevitore e urlò: «Un momento!». Lo coprì con la mano e disse a Qian: «Prova in quel locale dove aveva detto di essere stato la notte dell'omicidio di Yuan: il Mexican Wave. Dev'essere in Dongdaqiao Lu». Riprese il telefono. «Sì, con chi parlo?» chiese, aprendo la cartelletta con la documentazione sugli omicidi e raccogliendo da terra due fogli che ne erano scivolati fuori. «Sono Qi,» disse la voce al telefono «il vicecaposezione al Centro Accertamento prove materiali. Spero di non disturbarla.» «Che cosa vuole?» Li non era nello stato d'animo adatto a perdersi in
convenevoli. Mise davanti a sé, sulla scrivania, i due fogli che erano caduti. «Ho i risultati che la dottoressa Campbell mi aveva richiesto questa mattina.» «Quali risultati?» chiese Li bruscamente, mentre leggeva i due fogli scritti in inglese che Margaret aveva stampato dal computer. Erano tratti dalla «North California Review of Japanese Sword Arts». «Quelli sulla polvere blu che la dottoressa ha portato qui stamattina. Voleva che la confrontassi con i campioni prelevati dal cadavere del professor Yue e dall'appartamento assegnato dall'ambasciata a Yuan Tao.» Li non capiva più niente. «La dottoressa Campbell le ha portato un campione di polvere? Questa mattina?» «Sì. I campioni coincidono.» Li si fece improvvisamente attentissimo. «La dottoressa le ha detto dove aveva trovato quella polvere?» «Sì, sotto la suola delle scarpe che indossava il giorno in cui visitò gli scavi dei Guerrieri di Terracotta a Xi'an.» Li ebbe appena il tempo di registrare mentalmente questa informazione prima che il suo sguardo fosse catturato da un nome nella lista dei vincitori di una gara per dilettanti di tameshi giri, a San Diego. «Pronto... Pronto...» «Certo, signor Qi, mi scusi.» Li si sentiva la gola secca. Adesso sapeva chi aveva ucciso Yuan. «La ringrazio molto, signor Qi.» Chiuse la comunicazione. Il foglio che aveva in mano tremava. Scattò in piedi, afferrò con uno strattone la giacca appesa allo schienale della sedia e si precipitò nell'ufficio degli agenti investigativi, per chiedere a Qian il telefono cellulare. Qian glielo lanciò attraverso la scrivania, Li lo prese al volo e se lo attaccò alla cintura. «Tienimi informato, qualsiasi cosa succeda» gli disse. «Vado a cercare la dottoressa Campbell. Potrebbe essere in pericolo.» Il parco giochi era quasi deserto. Un gruppetto di bambini giocava intorno a un mucchio di sabbia, sorvegliati dalle madri. Un vento leggero agitava le foglie degli alberi e faceva dondolare le corde per arrampicarsi. Un Paperino gigantesco, davanti a un dinosauro, dominava le altalene e le giostre. Sul lago Houhai piccole onde si rincorrevano in superficie. Li si guardava intorno, sempre più angosciato: Margaret e Xinxin non c'erano. Entrò in un negozio di bibite e sigarette in un padiglione sul lago. La proprieta-
ria, seduta dietro il banco, stava leggendo una rivista illustrata. Quando lui le chiese se avesse visto una yangguizi con una bambina cinese scosse la testa. Li corse verso l'hutong dove aveva lasciato l'automobile, salì in fretta, fece marcia indietro e andò a casa di Mei Yuan. Si sentì sollevato nel trovarvi Xinxin. «Dov'è finita Margaret?» chiese a Mei Yuan. «Non mi ha portata al parco» rispose Xinxin, con un tono petulante. «Aveva promesso e non mi ha portata.» «Ti ha spiegato che non poteva e che sarebbe tornata più tardi» cercò di consolarla Mei Yuan. «Allora, sai dov'è?» chiese Li per la seconda volta. Mei Yuan indicò le scarpe da ginnastica di Xinxin sulla porta. «Si è agitata all'improvviso quando ha visto una specie di polvere blu sulle scarpe di Xinxin.» Li guardò le scarpe e riconobbe subito la polvere che aveva trovato sul cadavere del professor Yue e nell'appartamento del suo assassino. «Ha detto che doveva andare all'università» aggiunse Mei Yuan. 4 Margaret sentiva che le si stavano irrigidendo le dita e le giunture. Aveva brividi che non riusciva a controllare, il labbro inferiore le tremava a ogni respiro. Erano i primi sintomi di ipotermia, li conosceva. Aveva perso ogni cognizione del tempo. Sapeva che presto sarebbe stata colpita da un torpore comatoso e che, se si fosse addormentata, non si sarebbe svegliata più. Fece qualche passo, agitò le braccia per riattivare la circolazione e generare quel po' di calore che l'avrebbe tenuta in vita. Prima aveva temuto che arrivasse qualcuno, ma adesso lo desiderava, chiunque fosse, per non morire lì sotto, scivolando nell'incoscienza a poco a poco, senza neanche poter lottare. Il freddo e il buio erano nemici insidiosi, che avevano una pazienza infinita. Non poteva combatterli. Le sembrava inverosimile che solo pochi metri sopra di lei splendesse il sole. Avrebbe voluto piangere, ma sapeva che le lacrime erano inutili. I suoi pensieri e i suoi sensi dovevano avere un unico scopo: la sopravvivenza. Si era spinta due volte fino al cancello, nella speranza di trovare il modo di sfondarlo o di forzare la serratura, ma era stato impossibile. Si era
fatta strada con cautela attraverso la fila di guerrieri, fino in fondo alla stanza, dove due gradini portavano all'imbocco di un altro tunnel. Aveva percorso anche quello, con un filo di speranza, ma era stata bloccata da un altro cancello chiuso a chiave. Aveva contato i guerrieri uno a uno. Ce n'erano sessantasette, compresi gli arcieri in ginocchio. Aveva tastato i loro lineamenti, come se fosse stato possibile trarne qualche conforto, ma erano più freddi dei cadaveri che aveva sezionato sul tavolo dell'autopsia. Temeva che il controllo fisico e mentale stessero per sfuggirle. La paura della morte stava diventando accettazione. La paura era come il dolore, non lo si poteva sostenere all'infinito. Ma a un tratto fu abbagliata dalla luce e il terrore la colpì al cuore come un coltello. Strinse gli occhi e, un po' alla volta, riuscì a vedere quanto aveva intorno. I guerrieri erano rimasti muti e indifferenti nella sala che ora le appariva piccola. Le giunse, da lontano, il rumore metallico del cancello che si apriva stridendo. Tornò a nascondersi in mezzo ai guerrieri, come se potessero proteggerla. Sentì dei passi leggeri che venivano verso di lei. Si protese, nella penombra, per vedere chi fosse, mentre la paura le impediva quasi di respirare. Poco prima non aveva forse desiderato che arrivasse qualcuno, perché niente era peggio del morire lì sotto, senza potersi difendere? Adesso non ne era più così sicura. La sagoma di un uomo entrò nell'alone di luce irradiato dalla lampadina fissata in fondo alla stanza. Un fantasma sul cui viso Margaret vide il sorriso triste di Michael. «Michael» sussurrò. Lo sguardo di Michael vagò lungo le file serrate dei guerrieri, finché non la individuò, pallida e spaventata, in mezzo alle facce barbute dei suoi difensori. «Michael,» disse «che cosa fai qui?» Fu sorpresa dalla calma che sentì nella voce di lui. «Dovrei essere io a chiedertelo.» Si avvicinò e lei si ritrasse in mezzo ai guerrieri. «Stammi lontano!» «Margaret, non penserai che voglia farti del male! Io ti amo.» Lei lo guardò e vide che era sincero. «Ma allora,» disse sconvolta «perché il professor Yue è stato ucciso proprio dove tu ti trovi adesso, prima che il suo cadavere venisse trasportato a casa sua?» Michael guardò la macchia di sangue ai suoi piedi e assentì lentamente. «Parla, per l'amor di Dio! Perché?» C'era un'espressione nuova negli occhi di Michael. «È la conclusione
della storia che non ti posso raccontare. Almeno per ora.» In Margaret la paura e lo smarrimento si mescolavano alla delusione, alla collera e alla disperazione. «Di che cosa stai parlando?» «Della più grande scoperta di Hu Bo.» Michael affondò le mani nelle tasche della giacca e fece qualche passo per la stanza, assorto nei suoi pensieri. Poi alzò la testa e il suo viso aveva l'espressione intensa che le era diventata familiare. «L'edilicio che è qui, sopra di noi, l'istituto d'Arte, durante la Rivoluzione culturale era la sede della facoltà di Archeologia, dove Hu Bo e i suoi colleghi avevano trovato rifugio dalla follia imperante. Più tardi, nel 1974, sono venuti a conoscenza della scoperta dell'esercito dei Guerrieri di Terracotta. Alcuni di questi erano già stati portati alla luce e restaurati dal centro culturale locale, ma le autorità di Pechino non lo sapevano ancora.» Michael si tolse le mani di tasca e le tese verso Margaret come se volesse fare appello alla sua immaginazione. «Pensa al loro stato d'animo, Margaret! Quella che poteva essere una delle più grandi scoperte archeologiche del secolo era avvenuta quando ancora le Guardie Rosse facevano le loro scorrerie per la Cina, saccheggiando i musei e distruggendo i tesori d'arte del paese.» Margaret capì che non si stava rivolgendo a lei, ma al suo pubblico televisivo. Pensò che, con ogni probabilità, avesse preparato da tempo quel discorsetto e che forse ora la telecamera del sistema di sicurezza lo stesse registrando per i posteri. «Hu e due suoi colleghi,» proseguì Michael «hanno lasciato di nascosto Pechino e sono andati a Xi'an per verificare di persona la fondatezza delle voci sulla famosa scoperta. Hanno parlato con i responsabili del centro culturale, con i contadini che avevano trovato i guerrieri scavando un pozzo e, tornati a Pechino, hanno convinto il capo del dipartimento che valeva la pena di intraprendere altre ricerche. Non hanno, però, dato molto rilievo alla scoperta per non scatenare iniziative controproducenti. Nessuno di loro ha preso un soldo. Un gruppo di vecchi archeologi, aiutati da alcuni contadini ingaggiati sul posto, hanno scavato in un sito che non presentava evidenze in superficie.» Michael aveva gli occhi lucidi, mentre stringeva il pugno in segno di trionfo. «Ma le buche che avevano scavato li hanno portati dritti in quella che è stata chiamata dagli archeologi ufficiali, arrivati subito dopo, la "Quarta Camera". E, come loro, l'hanno trovata vuota, o meglio piena di sabbia e di detriti.» Michael s'interruppe, lo sguardo acceso, la voce rotta dall'emozione. «Ma è stata trovata anche un'anticamera piena di guerrieri. Circa centotrenta. Forse erano stati depositati lì per tra-
sportarli in un secondo tempo da qualche altra parte. Forse avevano qualche difetto ed erano stati scartati. Non lo sapremo mai. Ma Hu e i suoi colleghi, che avevano capito l'importanza della scoperta, sapevano che non sarebbe passato molto tempo prima che le autorità scoprissero a che cosa stavano lavorando.» Michael si spostò sul suo palcoscenico immaginario, come se i guerrieri di cui stava parlando fossero il pubblico. Ma guardava anche Margaret, chiedendole con gli occhi di partecipare al suo entusiasmo. Desiderava coinvolgerla nel suo racconto, farle capire quanto quella scoperta fosse importante per lui. «I guerrieri erano stati danneggiati dal crollo delle pareti e del tetto,» disse «e Hu temeva soprattutto che arrivassero le Guardie Rosse e li distruggessero per sempre, quali esemplari della "vecchia cultura". Così, si sono procurati una scavatrice meccanica e hanno svuotato il vano antistante la Quarta Camera, riempiendo una cassa dopo l'altra dei frammenti di guerrieri. Le casse sono state spedite a Pechino via terra e tenute in un magazzino ad Haidan, di proprietà dell'università. In seguito sono state trasferite all'università stessa e nascoste nel rifugio antiatomico costruito negli anni Sessanta.» Michael emise un sospiro e sorrise a Margaret. «Insomma, pensavano di conservare quel patrimonio d'arte per i posteri quando, inaspettatamente, le autorità hanno dato il via a una grande campagna di scavi. In un anno sono state portate alla luce le migliaia di guerrieri dello Scavo n. 1. Hu Bo e gli altri si sono trovati intrappolati nelle loro stesse buone intenzioni. A quel punto, confessare di aver spostato i guerrieri dalla Quarta Camera avrebbe significato essere accusati di furto, o peggio. Allora hanno fatto un patto. Hanno passato i venticinque anni successivi a restaurare i guerrieri prelevati da Xi'an, un frammento dopo l'altro, qui sotto, in quella che poi avrebbero chiamato la loro quarta camera, e anche al piano di sopra, nel laboratorio. L'esistenza dei guerrieri e la stessa esistenza del rifugio antiatomico era nota solo a pochi. I membri dell'università in carica negli anni Sessanta erano stati epurati. Tuttora, questo posto ufficialmente non esiste. Quale nascondiglio migliore?» Nonostante la paura e la rabbia, Margaret si era, suo malgrado, lasciata coinvolgere dalla storia di Michael. «Qual era il patto?» chiese. Michael capì di averla riconquistata. «Si sono messi d'accordo che chiunque di loro fosse sopravvissuto agli altri avrebbe rivelato, prima di morire, l'esistenza dei guerrieri perché fossero restituiti alla nazione e alla
vera Quarta Camera. Nel 1998, Hu Bo, ultimo sopravvissuto del gruppo degli archeologi, si è ammalato di cancro. Sapendo che gli restavano poche settimane di vita, ha confidato il segreto della Quarta Camera al suo allievo prediletto, qui all'università.» «Il professor Yue» disse Margaret. «Sì.» «Non dirmi il resto, credo di poterlo indovinare. Lui ha pensato di poterci guadagnare una fortuna, non è così? Basta riuscire a portare fuori dalla Cina questi Guerrieri di Terracotta di cui nessuno sa niente e ci si può arricchire. Quanto vale uno di loro, in Occidente?» Michael fece un gesto ampio con la mano. «Non hanno prezzo, Margaret. Si parla di miliardi. Tutti insieme valgono decine, centinaia di miliardi. Ci sono uomini immensamente ricchi che pagherebbero qualsiasi cifra per avere un Guerriero di Terracotta autentico in biblioteca o nel loro studio.» «E così,» disse Margaret «tutti i tuoi bei discorsi sulle meraviglie della storia e dell'archeologia vanno al diavolo solo perché hai trovato l'occasione di mettere insieme un po' di soldi.» Era uscita dal suo nascondiglio tra le statue dei guerrieri. Si ricordava della sera in cui aveva visto Michael per la prima volta, a casa dell'ambasciatore. "La verità non è mai noiosa" le aveva detto "è uno straordinario intreccio di passione umana, fragilità, forse tenebra, che porta a commettere un delitto." No, pensò Margaret, la verità non era noiosa, era sordida. Michael sembrava stupito di avvertire un tono sprezzante nella sua voce. «Tu non capisci, Margaret, non è andata così. Yue Shi non aveva la possibilità di portare i guerrieri fuori dal paese. Quando si è affidato a me, io sapevo di trovarmi in una posizione unica per poterlo fare. Avevo già organizzato mostre, la notorietà che mi derivava dai programmi che avevo fatto alla televisione mi dava potere. Ma non direi che si possa parlare di furto. Nessuno sapeva dell'esistenza di questi guerrieri e, in ogni caso, sarebbero stati altrettanto al sicuro, se non di più, nelle mani di collezionisti privati. Ho pensato a quante cose avrei potuto fare con quei soldi, Margaret. Ai progetti che avrei potuto sovvenzionare senza andare in giro, con il cappello in mano, a chiedere fondi alle università, alle associazioni benefiche, alle televisioni. In ogni angolo del mondo ci sono tesori che aspettano solo che qualcuno paghi per farli venire alla luce.» «Quanta nobiltà nelle tue aspirazioni!» commentò Margaret. «E per questi soldi, per questi scavi... vale la pena di uccidere, secondo te?»
«Ti prego, credimi, non è andata esattamente così.» Michael le si avvicinò. «Non ti avvicinare!» gridò Margaret. L'aveva persa un'altra volta. «Abbiamo installato un circuito video di controllo,» disse, ormai stanco, disperato «in modo che nessuno di noi, a conoscenza di questa sala, potesse ingannare gli altri.» «Che ne è stato del senso dell'onore tra ladri?» Lui scosse la testa, ignorando la frecciata. «L'assistente di laboratorio dell'istituto mi ha telefonato. Con il professore aveva organizzato lo spostamento dei guerrieri in un laboratorio che avevamo preso in affitto ad Haidan. Era in uno stato di agitazione terribile. Mi ha detto che il professor Yue era stato ucciso qui, nella stanza sotterranea, e che tutto era stato videoregistrato. Mi sono precipitato qui e ho trovato il corpo decapitato.» Abbassò gli occhi sull'enorme macchia di sangue rappreso. «Dovevamo farlo sparire, perché nessuno vedesse i guerrieri. Lo abbiamo avvolto in coperte e teli di plastica e lo abbiamo portato a casa sua. Non avevo mai visto tanto sangue.» Michael impallidì al ricordo di quella testa mozzata, della forma anomala di quel corpo. «Ho guardato la videocassetta e ho riconosciuto subito Yuan Tao. Chissà perché il professore lo aveva portato qui sotto! Forse voleva corromperlo, in cambio della vita. Può darsi. La verità è che Yuan Tao aveva visto i guerrieri. Sapeva che erano qui. Non eravamo più al sicuro.» «Allora vi siete serviti della registrazione per ucciderlo nello stesso modo in cui era stato ucciso il professor Yue in modo da far pensare che l'assassino fosse lo stesso.» «Non sapevamo degli altri delitti finché non abbiamo affrontato Yuan Tao, nell'appartamento in Tuan Jie Hü Dongli. È stato allora che abbiamo scoperto che era lui l'assassino delle prime due vittime.» «E tu non hai avuto incertezze?» «Eccome! Ma non c'era altra scelta. Portare opere d'arte fuori dalla Cina è un reato punibile con la pena capitale. Saremmo stati condannati a morte. E Yuan Tao non ci faceva tanta compassione. Dopotutto era un assassino e aveva appena ucciso tre persone. Se mai la polizia fosse arrivata a lui, sarebbe finito con una pallottola in testa in uno stadio di calcio.» Una logica ineccepibile. Margaret cercò di soffocare la paura con il distacco professionale. «Come sapevi che la quarta vittima avrebbe dovuto portare il numero tre?» «In realtà non lo sapevamo» rispose lui. «Ma nell'appartamento, insieme
alla spada, avevamo trovato tre lacci di seta e tre cartelli già numerati: uno, due e tre. Così abbiamo capito che stava facendo un conto alla rovescia, a partire da sei.» «E il narcotico?» «Era sotto le assi del pavimento, insieme al resto.» «E come l'avete convinto a prenderlo?» «È strano... ma credo che avesse capito di non avere scampo, sembrava quasi felice di essere sollevato dalla responsabilità di dover uccidere ancora. Ha suggerito lui stesso che lo mescolassimo alla vodka perché fosse più efficace.» «E non ti è sembrato strano quel colore blu brillante?» «Sì, ma tu come lo sai?» «Lo so perché è il mio lavoro, Michael. Non ti è venuto in mente che qualcuno l'avrebbe notato al momento dell'autopsia? Credevi che anche alle sue vittime avesse somministrato una droga blu elettrico?» Margaret aveva quasi voglia di ridere. «Lo ha fatto per lanciare un messaggio. Lasciare un indizio. E noi non lo abbiamo capito.» S'interruppe un momento per riflettere. «Come avete trovato il soprannome?» Michael sembrava smarrito. «Al collo di Yue era appeso un cartello con il soprannome, abbiamo pensato che facesse parte del rito...» «Ma perché Talpa? Non dirmi che ve l'ha suggerito lui!» «Sì, non avevamo ragione di non credergli.» «Siamo stati davvero ciechi come talpe!» esclamò Margaret, al colmo dello sconforto. Che cosa diceva lo zio di Li, che lui citava sempre? "La risposta è sempre in un dettaglio." «La Talpa sei tu. Ovvio. L'archeologo che scava, come la talpa. E noi, stupidi, non l'abbiamo capito. Chi gli ha tagliato la testa?» «Non sono stato io, Margaret, non avrei mai potuto fare una cosa del genere.» «Ah, già! Tu prendi i soldi, ma non ti sporchi le mani di sangue. Ma dimmi, com'è arrivata in casa dell'Uccello l'arma del delitto?» Michael fissava il pavimento, in dubbio se rispondere o no. «In un modo o nell'altro, tu mi hai sempre tenuto bene informato sugli sviluppi dell'indagine» disse, senza guardarla negli occhi. «Margaret, mi hai detto tu stessa che la polizia sospettava di lui. E il suo indirizzo era lì, tra le carte prelevate nell'appartamento di Yuan.» Michael alzò lo sguardo e vide il dolore negli occhi pieni di lacrime di Margaret. Si era fidata di lui, proprio come si era fidata di quell'altro Mi-
chael della sua vita e tutti e due l'avevano tradita. In quel momento la morte le apparve l'unica via di fuga dalla sua incredibile stupidità. Li camminava in fretta attraverso i sentieri ombrosi del campus deserto nella calura pomeridiana. Le prime foglie morte cadevano dagli alberi trasportate dal vento leggero dell'autunno incipiente. La guardia all'ingresso ricordava di aver visto Margaret entrare in università quella mattina, ma non gli sembrava di averla vista uscire. Mentre Li saliva i gradini quasi si scontrò con Wang Jiahong, lo scorbutico assistente che li aveva accompagnati al laboratorio il giorno prima. Trasalì nel vederlo, col volto in fiamme sotto la massa di capelli neri. Il giovane si asciugò la fronte con il dorso della mano sporca. «Che cosa fa qui?» chiese con tono di voce fermo, ma gli occhi pieni di panico. «Ha visto la signora americana che ieri era qui insieme a me?» Wang scosse la testa. «Qui?» «Che cazzo di domanda è? Qui, certo, e dove se no?» «No, non l'ho vista» rispose Wang in modo villano. «Ne è sicuro?» «Sicurissimo. Non mi sono mosso tutto il giorno. Stavo per chiudere. Può dare un'occhiata intorno, se crede.» Li guardò l'orologio. Era passato troppo tempo perché Margaret potesse essere ancora all'università. «Non importa» disse. Wang rimase a guardarlo finché non lo vide dirigersi verso l'uscita. Li si sentiva angosciato. Dov'era Margaret? Era stata al campus, ne era sicuro, ma forse se n'era andata da un'altra uscita. Prese un blocchetto dalla tasca posteriore dei pantaloni, cercò un numero di telefono e chiamò la vicina di Mei Yuan per chiederle di verificare se la yangguizi fosse tornata. Dopo una lunga attesa, Mei Yuan venne al telefono e disse che Margaret non si era vista. Li tornò verso l'ingresso e chiese di nuovo alla guardia se fosse sicuro di non aver visto uscire la signora americana. La guardia confermò che da lì non era passata. Li stava per salire sulla macchina, quando vide parcheggiata dall'altra parte della strada un'auto che gli era familiare per averla notata, due giorni prima, davanti alla sede del Dipartimento di Investigazione Criminale. Il contrassegno rosso del corpo diplomatico, sulla targa, lo riempì di terrore. Capì che Margaret era ancora all'interno dell'università e che la sua vita era in pericolo.
Tornò all'istituto d'Arte, ormai esausto e sudato. La porta era ancora socchiusa. Wang non se n'era andato, contrariamente a quanto aveva detto. Li si spinse con cautela lungo il corridoio buio fin dove entrava un po' di luce dalla soglia del laboratorio di conservazione e restauro. Sentì uno scalpiccio e un'ombra oscurò la striscia di luce. Prima che potesse fare qualunque mossa, Wang fu sopra di lui e lo spinse contro la parete. Un dolore lancinante gli trafisse il torace già ammaccato e lo lasciò senza fiato. Wang ne approfittò per precipitarsi verso l'uscita. Li avrebbe voluto inseguirlo quando scorse, attraverso la porta aperta del laboratorio, la borsa di Margaret sul banco da lavoro. Margaret aveva la faccia inondata di lacrime. «Un sacco di bugie» disse. «Ecco cosa sono le storie edificanti che mi hai raccontato. E io che mi sono bevuta tutto! Che imbecille, vero?» Sentiva la propria voce risuonare nella foschia alle sue spalle e capì che stava perdendo ogni capacità di autocontrollo. Michael la prese per le spalle e la scosse. Lei non tentò nessuna resistenza; non le interessava più nulla di quello che poteva capitarle. «Non è vero» disse Michael. «Ogni parola che ho pronunciato era sincera. Devi credermi, Margaret. Io ti amo e voglio che mi sposi.» Lei si divincolò dal suo abbraccio. «Non insultarmi, Michael. Non puoi credermi più stupida di quanto non sia in realtà.» La disperazione di Michael era sincera. «Niente è perduto, Margaret. La metà dei guerrieri è già partita. Potremmo diventare ricchi, io e te. Oltre l'immaginabile.» «Ora ti conosco,» disse Margaret «ma vedo che tu ancora non conosci me.» Lui le si avvicinò. «Va' via! Stammi lontano!» «Credi che voglia ucciderti?» «No, so che lo faresti fare a qualche tuo amico.» «Non permetterò a nessuno di farti del male.» Michael allungò una mano verso di lei. «Vieni via con me. Prendiamo un aereo e partiamo.» Indicò i guerrieri. «Non m'importa più di quelli che sono rimasti, non li voglio più. M'importa solo di te.» «Ne sei sicuro Michael?» Margaret fece qualche passo indietro tra le file dei guerrieri. Allungò una mano e spinse più forte che poté la statua di un generale chiuso nella sua pesante armatura. Il guerriero oscillò sulla base e andò a frantumarsi ai piedi di Michael. «Margaret, che cosa fai? Sono tesori inestimabili!»
«Non hai detto che non te ne importa più?» Margaret si buttò con forza contro un arciere, che seguì il destino del suo generale, in una miriade di cocci e schegge di terracotta. Michael cercò di trattenerla, ma lei indietreggiò ancora, in mezzo alle figure silenziose dei guerrieri. «Non farlo, Margaret, ti supplico! Hanno attraversato due millenni. Fanno parte del patrimonio storico dell'umanità. Non distruggerli!» Nel dolore autentico di Michael, Margaret ritrovò quella parte di lui che l'aveva affascinata, ma che ora sapeva che l'aveva spinto all'omicidio. Il suo peccato era stato una passione così sfrenata che neppure il delitto poteva fermare. La redenzione era impossibile. «Sono pronto a rinunciare al documentario. Andremo in America e lì racconterò al mondo la storia dei guerrieri della Quarta Camera. Non importa se saranno in un museo o nella casa di un ricco che ha potuto permettersi di comprarli, l'importante è che siano salvi. A tutti i costi.» Abbassò lo sguardo sui guerrieri ridotti in pezzi. «Che scena commovente.» La voce che uscì dalla semioscurità fece sussultare entrambi. Michael vide Sophie emergere dall'ombra del tunnel con una pistola in mano. Era pallida, ma decisa. «Da quanto tempo sei lì?» le chiese Michael. «Quanto basta. Wang mi ha avvertita subito dopo aver chiamato te. Così non mi sono persa il tuo patetico spettacolo.» Sophie, amara e altezzosa, si rivolse a Margaret. «Bravo, vero?» Margaret la guardò, atterrita. «In realtà, non è bravo affatto» proseguì Sophie, senza aspettare la sua risposta. «Da solo non se la sarebbe cavata, è corso da me a chiedere aiuto. Avrei fatto qualsiasi cosa per lui, lo sapeva.» Rise scuotendo la testa. «Allora sei stata tu a uccidere Yuan» disse Margaret. «Già. Non c'è male, vero, per una che, secondo la tua definizione, ha l'aria di avere appena finito le scuole superiori. Una volta, ironia della sorte, ho partecipato con Michael a una gara di tameshi giri, in California. Lui non se lo ricordava nemmeno, figurati! Non eravamo nella stessa categoria. Ma quando si è trattato di tagliare davvero una testa, io ci sono riuscita e lui no. Ho fatto io la parte sporca del lavoro. Sono stata io a mettere la spada dove era opportuno che fosse trovata. Tu pensi di essere stata un'imbecille, che cosa dovrei dire io? Volevo farmi amare come amavo lui. Te l'ho presentato e ho consigliato a Dakers di affidarti l'autopsia, così avremmo potuto controllare l'evolversi dell'indagine.» Di scatto, puntò la
pistola contro Michael e l'alzò con il braccio teso. «Ma il vigliacco si è innamorato di te. E adesso vuole che, mano nella mano, scappiate insieme lasciando me nella merda.» Le si riempirono gli occhi di lacrime. «Col cazzo!» Colpì Michael alla gola. Lo sparo rintronò contro le pareti della Quarta Camera di Hu Bo, Michael fece un salto indietro e cadde, trascinando con sé alcuni dei suoi amati guerrieri. Margaret urlò e si portò una mano alla bocca nel vedere il sangue sgorgare dalle labbra di Michael, uscirgli a fiotti dalla gola, dove il proiettile aveva reciso la carotide e distrutto la trachea. La sorpresa e la paura gli accendevano ancora lo sguardo, mentre moriva con le mani serrate disperatamente alla gola, tentando inutilmente di parlare. Margaret vide il braccio di Sophie che reggeva la pistola girarsi verso di lei, colse il riflesso della luce nei suoi occhi pieni di lacrime. Furono certamente quelle lacrime a far fallire il primo colpo. La testa del guerriero vicino a Margaret andò in pezzi, schegge affilate come rasoi le colpirono la guancia. Si voltò e scappò verso l'interno buio della sala. Caddero altre statue. Sophie sparò ancora. Margaret sentì alla sua sinistra un guerriero esplodere e disintegrarsi in una polvere di ceramica vecchia di due millenni. Scivolò sulla superficie viscida del pavimento e cadde pesantemente su un gomito. Improvvisamente si sentì suonare un telefono. Ci fu un momento di sconcerto sulla faccia di Sophie. A tre metri da lei c'era Li. Nella mano destra teneva la spada che il professor Chang stava restaurando. Con la sinistra tentava di spegnere il cellulare attaccato alla cintura. Troppo tardi. Sophie s'illuminò di un sorriso selvaggio. Sparò. Li vacillò e cadde tra i cocci di terracotta. Margaret si alzò in piedi a fatica, stringendosi il gomito, accecata dalle lacrime e dal terrore. Arrancò verso l'uscita in fondo al tunnel, ma sapeva di non avere speranza, perché il cancello era chiuso a chiave. Aspettò che le arrivasse un proiettile nella schiena, quasi come una liberazione. Scosse forte il cancello, sperando di riuscire ad aprirlo. Si voltò e vide Sophie che avanzava verso di lei. Aveva uno strano sorriso come quello di un bambino pazzo. Guardò Margaret a lungo negli occhi, poi la colpì con forza sulla faccia con la canna della pistola. Margaret provò un dolore lancinante. Le si piegarono le gambe e scivolò a terra. Sophie teneva la pistola puntata su di lei. «Cagna schifosa!» disse, poi spalancò gli occhi e la bocca in una espressione di attonita sorpresa.
Una lunga lama di bronzo le usciva dal petto. Per qualche secondo restò in piedi, come se fosse la spada a sostenerla, poi qualcuno la sfilò e Sophie cadde. Dietro a lei c'era Li in ginocchio, appoggiato alla spada, con la camicia bianca impregnata di sangue. Margaret si trascinò verso di lui in ginocchio, in tempo per sostenerlo mentre cadeva. Riuscì a mettersi seduta in terra con la testa di Li posata in grembo. Gli strappò di dosso la camicia e tamponò la ferita nella parte alta del torace. Lo cullò tra le braccia, mentre gli ripeteva tra le lacrime: «Li Yan ti chiedo perdono. Che errore ho fatto!». Li aprì gli occhi con grande fatica. «La colpa è mia» disse. «Dovevo ascoltare il mio cuore. La prossima volta...» Tossì. Un dolore lancinante gli fece richiudere gli occhi. Margaret vide dietro di loro, tra le ombre dei guerrieri, Michael morto in mezzo ai cocci di terracotta. Povero, stupido Michael, corrotto dalla propria ingenuità, dalla convinzione che in qualche modo tutto andasse secondo i suoi infantili desideri. Rubare, se nessuno lo sapeva, non era un furto. Uccidere un assassino non era un omicidio. E per l'amore bastavano un anello e una promessa di matrimonio. Si ricordò di quello che lei gli aveva detto la sera che avevano passato insieme al quartiere musulmano di Xi'an: "Nessuno intraprenderebbe il viaggio, se la prospettiva fosse la morte". Nessuno, allora, avrebbe potuto immaginare che sarebbe stato lui a concludere la storia di Hu Bo, morendo in mezzo ai guerrieri della Quarta Camera. Margaret guardò Li che respirava a fatica tra le sue braccia. «Sai che cosa significa tutto questo?» disse senza smettere di singhiozzare. Li riaprì gli occhi. «No, che cosa significa?» «Che devo cancellare un altro volo per causa tua.» «Peccato cancellare un volo solo per assistere al mio funerale.» Margaret rise tra le lacrime. «No, non morirai e io ti porterò da mangiare all'ospedale, come si fa in Cina.» Ringraziamenti Ho avuto molti aiuti preziosi nei lavoro di ricerca indispensabile alla stesura di Il quarto sacrificio. Ringrazio, in particolare, il dottor Richard H. Ward, professore di Criminologia e preside del Collegio di Criminologia
presso la Sam University di Huston, Texas; Steven C. Campman, dottore in medicina dell'Armed Forces Institute of Pathology, Washington, DC; il professor Dai Yisheng, ex direttore del Quarto Istituto cinese per la formulazione del codice di comportamento della polizia a Pechino; l'ispettore Wu He Ping, ministro della Pubblica sicurezza, a Pechino; il professor Yu Hongsheng, segretario generale della Commissione per le norme legali relative alle pubblicazioni di carattere letterario, a Pechino; il professor He Jiahong, dottore in Scienze giuridiche e professore di Diritto presso la facoltà di Legge dell'Università del Popolo; il professor Yijun Pi, vicedirettore dell'istituto di Sociologia legale e studio della delinquenza minorile dell'Università cinese di Scienze politiche e Giurisprudenza; Chai Rui, del dipartimento di Archeologia dell'università di Pechino; Stanley J. Harsha, dell'ufficio Affari culturali dell'ambasciata americana a Pechino; Zhang Qian, della facoltà di Lingue straniere dell'Università di Xi'an; Qiang, direttore del Museo dei Guerrieri di Terracotta, a Lintong, nella provincia dello Shaanxi; Zhao Yi che ha cucinato per me uno squisito spezzatino alla mongola e Shimei Jiang e la sua famiglia per la loro amicizia e per l'ospitalità che mi hanno offerto a Pechino. FINE