BRIAN STABLEFORD IL RISVEGLIO DEI CREATORI (The Werewolves of London, 1990) A mia figlia Kate, in ricordo del giorno est...
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BRIAN STABLEFORD IL RISVEGLIO DEI CREATORI (The Werewolves of London, 1990) A mia figlia Kate, in ricordo del giorno estivo del 1984 in cui condivise con me la fascinazione e la delizia suscitate in lei dalla leggenda di Perseo, quale fu narrata in Scontro di titani. Parte Prima L'Enigma del Serpente e della Sfinge Secondo la tradizione la Sfinge era un mostro dai molti aspetti: nella faccia e nella voce aveva aspetto virgineo, aveva penne di uccello, unghie di grifone, e stava nella campagna tebana su di un giogo montano del quale impediva ogni accesso, poiché soleva porre insidie ai viandanti per rapirli e, avutili nelle sue mani, proporre loro enigmi oscuri e tortuosi. [...] La favola è molto bella, e anche saggia, poiché viene a parlare con eleganza della scienza. [...] La scienza può esser chiamata mostro senza assurdità, perché per gli ignoranti e gli inesperti è causa di grande meraviglia. Si mostra in molti aspetti e figure diverse per l'immensa varietà di soggetti nei quali essa si diffonde; viene rappresentata con un volto e una voce femminile per la sua grazia e loquacità; le sono attribuite le ali, perché le scienze e le scoperte scientifiche si diffondono rapidamente e volano come la luce, che si comunica subito da un lume all'altro. [...] Di due specie possono essere gli enigmi della Sfinge: quelli relativi alla natura delle cose, e quelli relativi alla natura dell'uomo. [...] Francesco Bacone, «Sfinge, o la scienza», La Sapienza degli Antichi 1 La superficie dell'Inferno è in perpetua turbolenza: il magma fuso si raffredda a formare una crosta nera come il giaietto, che si screpola perennemente per effetto della pressione esercitata dal sottosuolo, in modo tale che ogni fenditura brilla di un bianco accecante per un istante, poi diviene
rossa per qualche tempo, prima che la lava nuovamente eruttata si raffreddi, diventando parte della crosta. Su questa superfìcie è disteso supino Satana, gigantesco, immobilizzato da sette chiodi enormi conficcati nelle caviglie e nelle ginocchia, nell'ombelico, nel polso sinistro, nella gola: soltanto il braccio destro è libero di protendersi verso il cielo fiammeggiante, dove nubi di gas incandescenti, lacerate e scombussolate dalle tempeste capricciose, scaricano perpetuamente una pioggia di sangue. Il corpo di Satana è dorato, lustro, del tutto glabro. Il viso, che dopotutto è quello di un angelo, sarebbe bellissimo se non fosse distorto dallo spasmo del tormento. Infatti, Satana soffre: come potrebbe essere altrimenti? Tuttavia non è straziato dalla mera sofferenza fisica, giacché quest'ultima svanisce presto, nel corso dell'eternità. Egli patisce invece l'angoscia del fallimento e della disperazione, dell'acredine e del rimorso, della desolazione e della disgrazia, che il tempo non può ottundere più di quanto possa guarire. Sopra la sua testa, avvolta e circonfusa da un'oscurità fresca e confortante che la protegge dal cielo igneo, è sospesa la terra. Quantunque gli occhi esteriori di Satana siano chiusi a protezione dalla pioggia di sangue, questo mondo è chiaramente visibile al suo occhio interiore, la cui vista è così acuta e così limpida, che neppure un singolo peccato umano sfugge alla sua conoscenza. L'eredità del veleno che egli ha sparso nell'orecchio sconsiderato di Eva ha permeato ogni aspetto dell'esistenza umana: ogni azione e ogni pensiero; ogni sogno e ogni desiderio. Il mondo umano è saturato da una tentazione, alla cui attrazione le anime degli uomini non possono opporre se non la più debole delle barriere. Se soltanto potesse, Satana si pentirebbe: redimerebbe l'umanità dalla malattia della dannazione che si diffuse dal seme della sua invidia. Tuttavia, ciò non è consentito. Egli potrebbe riassorbire il veleno che sputò incautamente nel mondo con nulla più di un solo tocco risanatore, che ritrasformerebbe all'istante il mondo medesimo in un Eden; ma ogni volta che solleva la mano destra, libera, verso il cielo, con l'intenzione di afferrare la Terra, il pianeta gli viene sottratto: esso è sempre a portata di mano, eppure non può mai essere ghermito. Uno dei molti nomi di Satana è Tantalo, e ciò rivela che fu lui, e nessun altro, a rubare il cibo e il vino del Paradiso, per donarlo all'umanità. Un altro dei suoi nomi è Prometeo, è ciò rivela che fu lui, e nessun altro, a rubare il fuoco del Paradiso per donarlo all'umanità. Egli compì entrambe
queste azioni nella speranza di rimediare a quello che aveva fatto nell'Eden. Talvolta, le aquile vengono a straziare le sue carni e a divorare il suo cuore palpitante, che ogni volta ricresce per poter essere nuovamente divorato. Non sa quante volte sono arrivate e se ne sono andate le aquile, ma il numero è maggiore di quello degli atomi nel corpo di una persona. Non sa neppure quante volte ha proteso il braccio nel disperato tentativo di toccare la Terra, ma il numero è più grande di quello degli atomi nella Terra medesima. Nondimeno, non ha mai capitolato, né mai si arrenderà, perché la Terra non rimarrà per sempre tale quale è oggi, e quando arriverà il giorno della sua metamorfosi predestinata, egli spera ancora di poter essere l'autore e la guida della sua redenzione. Per l'amor d'Iddio... Avvampo! Ardo di veleno! Cordelia! Per pietà, Cordelia! Non sono morto, eppure sono all'Inferno... Gesù, salvami! Pater noster qui es in caelis, sanctificetur nomen tuum... Non riesco a pregare... Non riesco a pensare... Che cosa sta succedendo? Cordelia... Dio non può vedere il proprio viso perché non esiste specchio che possa rifletterlo, eppure ha un'immagine di Se Stesso. Non cammina nel Paradiso, perché non esiste luogo in cui Egli possa stare: nessun pascolo nell'Elisio, nessuna sala nel glorioso Valhalla. Eppure, esiste un Paradiso nella Sua medesima sostanza, dove le anime delle persone possono essere accolte. Un uomo è confinato dal proprio corpo, e l'universo lo contiene: egli è limitato, piccino, mentre esso è infinito. La vera natura di Dio è concepibile mediante l'inversione di questa prospettiva, operata dall'immaginazione: l'universo è contenuto da Lui. Benché Egli sia infinito, la sua forma macrocosmica è un'immagine umana nell'aspetto e nel carattere. L'universo è infinito dal punto di vista umano, però è finito dal punto di vista divino. Dio è esterno all'universo, ma è umano nella natura e nella consapevolezza. Gli occhi esteriori degli uomini, protetti dalla limpidezza della vista vera, non possono percepire Dio: persino l'occhio interiore, che talvolta si apre o viene aperto sfidando il dolore che subito gl'impone di chiudersi, non può vedere nel Suo cuore, perché soltanto la Sua superfi-
cie, la Sua immagine, è percepibile dall'universo che Egli contiene. Dio non può toccare il mondo degli uomini, più di quanto un uomo possa toccarsi il cuore con l'interno delle dita. Non può salvare la Terra con un tocco della mano risanatrice più di quanto possa farlo Satana, benché Egli sia onnipotente. A causa di quello che Lui Stesso è, e di quello che l'universo è, Dio guarda sempre all'interno dall'esterno, vedendo tutto e non potendo far nulla. E nondimeno, quando arriverà il giorno della metamorfosi della Terra, Egli sarà l'autore e la guida di tale trasformazione, perché qualunque mutamento nella natura dell'universo è, ipso facto, un cambiamento nella natura di Dio, suo confine. Questa vista miracolosa è così spaventevole che vorrei essere cieco! Sono nudo e soffro, Cordelia, e vedo quello che non potrò mai assimilare! Cordelia! Adveniat regnum tuum: fiat voluntas tua, sicut in caelo et in terra. Panem nostrum quotidianum da nobis hodie. Et dimitte nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris... Credo di essere sul punto di morire... Oh, Dio, lasciami vivere! Cordelia... I lupi corrono attraverso un campo di ghiaccio, sotto un cielo del nero più profondo, illuminato da innumerevoli stelle. Alcuni lupi sono bianchi, altri sono fulvi, altri sono argentei, e altri ancora sono neri. I loro ululati lugubri echeggiano nell'eternità, perché quando non sono lupi essi devono indossare l'immagine dell'uomo, che è l'immagine di Dio, e debbono vivere con il fardello spaventevole di una volontà che è libera: tutti, tranne uno, a cui è condonata la libertà e che è guidato da una volontà che non è la sua. Dov'è la loro preda, e dov'è la loro casa? Quale speranza di liberazione hanno, tranne la metamorfosi del mondo? E come possono tentare, lottando, di ancorare il mondo, affinché la mano risanatrice di Satana possa toccarlo, alfine? I lupi stanno divorando le stelle, Cordelia! Satana sta protendendo la sua mano tenebrosa a reclamarmi! Sto morendo... Sto morendo... Et ne nos inducas in tentationem... Et ne nos inducas in tentationem... Salvami, Cordelia! Io amo... Io amo... Ti prego: non lasciarmi...
In una grotta sotterranea il cui ingresso guarda verso la luce, gli uomini giacciono con le gambe e con il collo incatenati, incapaci di girarsi. Un fuoco arde alle loro spalle. E fra essi e il fuoco passa una strada, sulla quale marcia come in parata una fila di creature dal corpo umano e dalla testa di mammifero o d'uccello. Gli uomini incatenati nascono, crescono e muoiono senza vedere altro che le ombre gettate sul muro dinanzi a loro dal fuoco che brucia alle loro spalle. Vedono le ombre di coloro che percorrono la strada, e li venerano come divinità. Vedono Set, dalla testa di maiale enigmatico, e Horus, simile al falco, e Hathor, simile alla vacca, e Anubis, simile allo sciacallo, e Thoth, simile all'ibis, e Sebek, simile al coccodrillo, e Bast, simile al gatto, e sono talmente terrorizzati da queste ombre cupe e terribili, che pregano, invocando un redentore, il cui nome è Osiride. Tuttavia non giunge nessun redentore, perché essi non hanno risposto all'enigma della Sfinge. Come vedono soltanto ombre, così odono soltanto echi, e tale è la confusione degli echi, che essi possono a malapena iniziare l'opera di comprensione. Ma se uno di questi uomini riuscisse a spezzare la catena che gli cinge il collo, in modo da distogliere lo sguardo dalla parete rocciosa e potersi girare a guardare la strada, nonché il fuoco che da oltre la strada diffonde la sua luce, che cosa vedrebbe, e come potrebbe convincere i compagni di avere visto davvero? Costui rimarrebbe dolorosamente abbacinato dalla luce vera, e confuso dalle voci udite al posto degli echi, eppure saprebbe, oltre ogni dubbio, di aver visto qualcosa di più vero di quello che aveva sempre visto prima, e saprebbe che i suoi compagni sbaglierebbero, se sostenessero che ha soltanto sognato. E anche se non potrebbe neppure iniziare ad ipotizzare cos'altro ancora potrebbe vedere, o se sarebbe in grado di sopportare tale vista, bramerebbe liberarsi dalle altre catene, poter attraversare la strada e recarsi oltre il fuoco, fino all'ingresso della grotta, per guardare fuori. Soffrirebbe, in tal modo, ma non potrebbe essere contento prima di averlo fatto, perché... Fino a quando non ha visto il mondo, come può un uomo cercare di cambiarlo? C'è pericolo, Cordelia! Uno di coloro che percorrono la strada si è girato: è la felina, e può vedermi! Si è accorta che mi sono girato a guardarla, e sa che sono libero! O Dio, proteggimi dalla mia libertà! Rimettimi la catena al collo e la-
sciami guardare di nuovo le ombre! Non posso fronteggiare la felina, che di volta in volta ha la testa di una belva e il corpo di una donna, oppure la testa di una donna e il corpo di un felino gigantesco. Ha gli artigli per straziare, e i suoi occhi... Che occhi! Non posso fronteggiarla! Cordelia! Cordelia! Sed libera nos a malo! Sed libera nos a malo! Sed libera... 2 Il delirio di David Lydyard si era talmente aggravato, che sir Edward Tallentyre cominciò a temere per la vita del giovane. I vaneggiamenti quasi indecifrabili che sgorgavano dalle sue labbra, rivelavano un turbamento interiore del tutto incomprensibile, che sembrava costituito da una sofferenza più spirituale che fisica, e da un terrore di cui non era possibile determinare la causa. Nelle farneticazioni, comunque, Tallentyre riconobbe le parole del paternoster, recitato in Latino come nella messa cattolica, e il nome, ripetuto frequentemente, di Cordelia, sua figlia. L'amaca, appesa a poca altezza dal suolo, dondolava, mentre il suo sfortunato occupante smaniava, e Tallentyre si chiedeva se fosse necessario legarlo per evitare che cadesse o che si ferisse. Poiché era stato morso da un serpentello, Lydyard sulle prime aveva sottovalutato la ferita: di recente, infatti, era sopravvissuto al morso di un rettile di ben altre dimensioni, ossia un cobra. Tuttavia era evidente che l'efficacia del veleno, di qualunque genere esso fosse, non dipendeva in alcun modo dalla mole del serpente. Dunque Tallentyre si rammaricava di non avere insistito maggiormente, subito dopo l'incidente, affinché Lydyard facesse sanguinare la piccola ferita. In parte, si sentiva personalmente responsabile per le condizioni in cui si trovava il giovane: lui stesso aveva concepito il viaggio in Egitto; lui stesso aveva impulsivamente acconsentito a compiere la deviazione nel Deserto Orientale proposta da padre Francis Mallorn. Se la vita di Lydyard si fosse spenta in quella desolazione feroce, il rimorso avrebbe gravato per sempre su di lui, anche se nessuno lo avrebbe condannato: neppure Cordelia, la quale probabilmente amava tanto il giovane quanto questi amava lei. Tranne che a Cordelia, il baronetto non avrebbe dovuto fornire spiegazioni a nessuno, non avrebbe dovuto giustificarsi con nessuno, perché David Lydyard non aveva famiglia. Tallentyre lo aveva preso sotto la pro-
pria tutela quando il suo amico Philip Lydyard, padre del giovane, era morto improvvisamente, sei anni prima. Al termine degli studi universitari, lo aveva esortato a viaggiare, affinché visitasse di persona la culla della civiltà. Nei confronti della moglie e della figlia, nonché dello stesso David, aveva giustificato il viaggio come uno degli elementi indispensabili all'educazione del giovane; ma con ciò aveva in qualche misura mentito, perché i benefici che ne avrebbe tratto il giovane non erano che una scusa per la propria autoindulgenza. Ormai, sentiva di avere ingannato anche se stesso, e di aver preso a pretesto il viaggio come occasione per fingere di essere tornato giovane, e per viaggiare senza servitù, come potevano fare i giovani, con curiosità vivida e con temerario entusiasmo. Tale progetto era fallito: Tallentyre si sentiva infatti più vecchio che mai, nonché più sciocco. Senza dubbio si sarebbe sentito ancora più vecchio, se fosse accaduto il peggio, e se ciò lo avesse costretto a rivelare alla figlia con quanta avventatezza aveva assolto al proprio dovere nei confronti del suo amico. Perché l'ho condotto qui? pensò Tallentyre, amareggiato e disperato. Perché mai ho ascoltato quel prete sconsiderato? La domanda era ingiusta. Poche persone, in verità, avrebbero saputo resistere all'appello seducente del colto gesuita, specie date le circostanze in cui questi aveva espresso la propria proposta. Il viaggio in Egitto era stato compiuto da Tallentyre e da Lydyard utilizzando i mezzi messi a disposizione dall'epoca moderna: un piroscafo li aveva portati dall'Italia ad Alessandria; la ferrovia li aveva portati al Cairo; un altro piroscafo li aveva condotti dal Cairo ad Assuan; e un altro ancora dalla prima cateratta alla seconda. Sicuramente avevano veduto tutto quello che si erano proposti di vedere: Gizah e Saqqarah, le piramidi e la sfinge, Luxor e Tebe, i templi di Abu Simbel; ma ovunque avevano incontrato viaggiatori più esperti, i quali li avevano spietatamente umiliati lodando a gran voce gli antichi metodi di viaggio. Coloro che si definivano viaggiatori autentici avevano detto e ripetuto a Tallentyre e a Lydyard che, se si voleva scoprire il vero Egitto, bisognava viaggiare a bordo delle dahabeeyah, nonché a dorso di cammello: non in piroscafo. L'esperienza della visita alle piramidi e ai templi era del tutto rovinata dalle guide ufficiali e dai veicoli a noleggio. La tecnica degli anni settanta del XIX secolo era una barriera che impediva agli Europei di stabilire qualunque rapporto vero con il mondo antico, mentre il commercio moderno contribuiva a svalutare le antichità stesse, incoraggiando un vasto
traffico di falsi reperti del passato. Dopo avere udito parecchi discorsi di questo genere, Tallentyre si era convinto di essersi accostato ai misteri del tempo antico in modo sbagliato. Anche Lydyard aveva prestato ascolto alle critiche dei viaggiatori autentici, e ne aveva tratto la medesima persuasione, al pari di William de Lancy, un giovane conosciuto durante la traversata del Mediterraneo, che si era unito a lui e a Tallentyre. Quando padre Francis Mallorn, della Compagnia di Gesù, aveva offerto loro l'opportunità di visitare una località remota e pressoché sconosciuta al turismo, «in modo da conoscere meglio la vera storia del mondo», come lui stesso si era espresso, i tre compagni di viaggio si erano entusiasmati. E tutti e tre avevano disprezzato audacemente l'avvertimento solenne di Mallorn, secondo cui, intraprendendo una tale spedizione, avrebbero dovuto affrontare pericoli dai quali i turisti che usufruivano delle comodità moderne erano perfettamente protetti. E così, Lydyard era stato avvelenato, non era possibile trovare nessun aiuto nel raggio di cento miglia, e Tallentyre non sapeva che cosa fare. Come se non bastasse, tutto ciò era accaduto soltanto per vedere una dozzina di tombe rozze, saccheggiate ormai da molto tempo, prive di qualunque oggetto di valore avessero mai contenuto, e ridotte dal tempo a null'altro che macerie. Con la massima sincerità e devozione, Tallentyre si rammaricò di non avere considerato come un avvertimento il morso del cobra a Lydyard, e di non essere ritornato in Inghilterra appena il giovane si era ripreso dal primo avvelenamento. Le meditazioni e i crucci di Tallentyre furono interrotti dall'ingresso nella tenda di colui che aveva condotto il baronetto e i suoi due giovani compagni in quel luogo sfortunato e desolato. Come sempre, con la chioma corvina pettinata accuratamente e gli abiti rassettati, padre Mallorn era tanto ordinato da rasentare l'austerità. Tuttavia, Tallentyre aveva cessato di considerare questa sua caratteristica come un indizio di razionalità e di buon senso. — C'è qualche miglioramento, sir Edward? — chiese Mallorn. Nella luce gialla della lanterna, i suoi occhi neri apparivano calmi. Il baronetto scosse la testa: — Semmai, David è peggiorato. È addormentato, ma delira. Apparentemente più intrigato che angosciato da questa informazione, Mallorn domandò: — Riesce a capire che cosa sta dicendo? — Si avvicinò a Lydyard, che scuoteva la testa, e si curvò, accostando il proprio orecchio
alla sua bocca tremula per cogliere il flusso di parole che ne sgorgava, fioco ma incessante. — Non credo che abbia nessun segreto terribile da rivelare — commentò Tallentyre, aspro. — E lei, comunque, non è diventato il suo confessore, di recente? Impassibile, il gesuita alzò gli occhi per guardare Tallentyre senza cessare di ascoltare il delirio del giovane: — Ripete un nome — mormorò. — Chiama qualcuno... «Cordelia», dice... Ah! Ma si tratta di vostra figlia, vero? — Nel dir questo, parve stranamente deluso. Sarcastico, Tallentyre suggerì: — Forse sta recitando un brano del «Re Lear»... Per un momento, Mallorn parve considerare questa ipotesi, come se non avesse colto l'ironia del commento. Poi scosse la testa: — Ma questo povero ragazzo è in preda a un'angoscia mortale! È come se... — È un incubo — tagliò corto Tallentyre, in tono rude. — Null'altro che un incubo. Il gesuita si alzò: — Naturalmente... Cos'altro potrebbe essere? Vi fu qualcosa, nel modo in cui Mallorn pronunciò queste parole, che a Tallentyre non piacque affatto. Nessuno avrebbe potuto trovare alcunché da eccepire nella sua risposta, eppure essa suonò ambigua, se non falsa: come se il gesuita alludesse a una possibilità diversa, alla quale era estremamente interessato, ma fosse anche combattuto fra il desiderio e il timore di credervi. I suoi occhi neri lanciavano sguardi tutt'attorno, come se fosse stato parzialmente contagiato dal terrore di Lydyard. Superstizioni, pensò Tallentyre. La superstizione, secondo sir Edward Tallentyre, era il grande nemico dell'uomo moderno: una madre feconda di idoli mostruosi, che dovevano essere abbattuti per consolidare l'Età della Ragione. In generale, trovava che i seguaci delle religioni tradizionali fossero più tollerabili di coloro i quali aderivano ai culti esoterici che prolificavano da qualche tempo nella società londinese. A bordo del piroscafo, durante il viaggio sul Nilo, Mallorn era parso abbastanza razionale; ma in seguito, nel deserto, la sua irrazionalità latente era affiorata: ormai era come se fosse pronto a scoprire spettri in agguato in ogni ombra. — David è giovane — osservò Tallentyre, austero — e più forte di quanto sembra. Non credo che morirà. Se soltanto questa notte riuscisse a riposare davvero, potrebbe rimettersi a sufficienza per riprendere il viaggio domani stesso.
— Vorrei rimanere con lui — dichiarò Mallorn. — Sento che nel delirio recita il paternoster. Invoca il soccorso d'Iddio Onnipotente, e temo che possa avere bisogno di me. In risposta alle implicazioni di questa frase, Tallentyre contrasse istintivamente la bocca in una smorfia. Un tempo era stato cattolico, e anche se ormai si considerava ateo, non nutriva particolare avversione per i riti della Chiesa di Roma. Però non voleva sentirsi dire che Lydyard preferiva la compagnia di un confessore a quella di un amico, né voleva pensare che la necessità alla quale il gesuita aveva alluso potesse essere l'amministrazione dell'estrema unzione. — Per il momento, padre — replicò, con voce neutra — preferirei che ritornaste nella vostra tenda. Ma state pur certo che vi chiamerò... se sarà necessario. Anche se queste parole furono pronunciate come un ordine, Mallorn non celò la propria riluttanza ad obbedire. Aprì la bocca come per protestare, quindi cambiò idea, infine disse soltanto: — La prego di ripensarci, sir Edward. Allora Tallentyre ebbe l'improvvisa curiosità di sapere che cosa avesse voluto dire inizialmente. Stava forse per affermare di possedere qualche conoscenza speciale sulle condizioni del ragazzo? pensò. In tal caso, quale possibile fondamento potrebbe mai avere una simile conoscenza? In tono brusco, domandò: — Perché ci ha condotti qui? Evidentemente contento di potersi trattenere, Mallorn scrutò subito in viso Tallentyre, con gli occhi neri sfavillanti come se riflettessero la luce della lanterna. Rispose in tono calmo, ma suscitando di nuovo nel baronetto l'inquietante sensazione che la sua voce celasse un'insidia: — Sa bene perché, sir Edward. Avevo sentito parlare di queste tombe, e cercavo alcuni compagni che mi aiutassero ad esaminarle. Non vi ho illusi su nulla: non vi ho promesso piramidi immense o sfingi scolpite, ma soltanto mastabe in rovina e camere sepolcrali rozzamente scolpite nella pietra. E questo, in effetti, è quello che abbiamo trovato. Credevo che lei fosse uno studioso autentico, e che fosse in grado di riconoscere il valore di quello che abbiamo visto: si tratta di reliquie predinastiche, più antiche della Grande Piramide. Se la cronologia di Lepsius è corretta, i monumenti che si trovano in questa valle risalgono a quattromila anni prima di Cristo. Non credo che troveremo oro o gioielli, qui, nondimeno queste opere sono fra le più antiche che siano state prodotte dalla mano dell'uomo in tutto il mondo conosciuto. Ecco perché ho voluto venire qui, e perché ho chiesto a voi di accompagnarmi.
C'è di più, pensò Tallentyre. Se questo è vero, è però ben lungi dall'essere tutta la verità. Tuttavia era inglese, era stato educato come un gentiluomo, e si rendeva conto che Mallorn, almeno in apparenza, apparteneva alla sua stessa classe: gli era impossibile accusarlo apertamente di mentire. Dunque replicò: — Sapeva che le nostre guide si sarebbero spaventate e avrebbero rifiutato di accompagnarci fin qui, vero? Padre Mallorn si strinse nelle spalle: — Conosco le superstizioni dei pagani. Coloro che abbiamo assunto come guide sono uomini semplici, che preferiscono i sentieri a loro noti. Può darsi che questo luogo godesse di cattiva reputazione, un tempo. In tal caso, però, tale reputazione fu acquistata nella più remota antichità. — È difficile credere a cose del genere — disse Tallentyre, scettico. — La cultura orale non preserva le tradizioni per tanti secoli, qualunque cosa narrino i miti e le leggende sulle maledizioni trasmesse di generazione in generazione. Se le guide erano spaventate, posso supporre soltanto che temessero avvenimenti accaduti in un'epoca abbastanza recente da rimanere nella memoria dei vivi. — S'interruppe, notando che Mallorn, il quale non aveva cessato di ascoltare il delirio con la massima attenzione, lanciava una breve occhiata a Lydyard, il quale aveva alzato un poco la voce. Ciò lo indusse a chiedere: — Anche lei ha paura, vero? C'è qualcosa, nella malattia del ragazzo, che la preoccupa molto: qualcosa che riflette le sue angosce. Perché non mi spiega di che cosa si tratta? Di nuovo, Mallorn sostenne lo sguardo del baronetto. Non parve turbato dall'illazione, tuttavia riuscì a mantenere la propria compostezza soltanto con uno sforzo: — In effetti, sir Edward, sono piuttosto ansioso — confessò. — Non sapevo che cos'avremmo trovato qui. Sapevo soltanto che altri viaggiatori avevano visitato questo luogo, e che non vi si sarebbero recati se non avessero avuto valide ragioni di ritenere che vi avrebbero trovato qualcosa di grande interesse per loro. Come me, erano interessati alla vera storia del mondo. Riconosco che non volevo venire qui da solo, e che ho cercato alcuni compagni per potermi sentire più sicuro. Vorrei che lei fosse riuscito a persuadere le sue guide a rimanere con noi, e sono molto addolorato che il ragazzo abbia avuto la sfortuna di essere morso da un serpente, però non mi ritengo responsabile per nulla di tutto ciò. È possibile che un pericolo più grande infesti queste tombe, ma in tutta onestà non sono in grado di dire quali forme possa assumere tale pericolo. Per giunta, un uomo come lei riderebbe sicuramente delle mie ansietà. Superstizioni, pensò di nuovo Tallentyre. Da un lato, costui mi rim-
provera di non essere superstizioso. Dall'altro, ha paura dei fantasmi e delle maledizioni, ma non lo dichiara, e si nasconde dietro il mio scetticismo. Poiché non apprezzava le allusioni inquietanti sui pericoli vaghi e misteriosi più di quanto apprezzasse l'insistenza sulla presunta esistenza di più cose in cielo e in terra di quante ne sognasse la sua filosofia materialistica, Tallentyre era irritato dall'atteggiamento del gesuita: vedeva con sufficiente chiarezza che Mallorn non si sarebbe lasciato indurre facilmente a rivelare i segreti che custodiva, quali che fossero. Comunque, le condizioni di Lydyard avevano la precedenza su tutto, perciò era necessario rimandare qualunque tentativo di ottenere una spiegazione dal gesuita. — Mi dispiace — dichiarò Tallentyre. — Sono talmente turbato dalla malattia di David, che probabilmente sono troppo ansioso di trovare qualcuno con cui condividere la responsabilità dell'accaduto. Vada pure, ora. La chiamerò, se sarà necessario, anche se spero con tutto il cuore che tale necessità non si presenti. Ancora incline a rimanere, Mallorn si sforzò di trovare un modo per prolungare la conversazione: — Ho letto l'articolo — disse finalmente — in cui lei sostiene che non vorrebbe vivere in un mondo come il mio, turbato dai portenti e inesplicabile mediante la ragione. Ebbene, c'è una cosa che ho sempre voluto dirle, a questo proposito... Per tutta risposta, Tallentyre lo scrutò con sguardo adamantino, senza invitarlo a proseguire. Nondimeno, Mallorn riprese, in tono pacato: — Supponiamo, come pura ipotesi, che il mondo sia come lo immagino io, e non come lo immagina lei, accettando tutti i suoi giudizi su ciò che questo implicherebbe. Supponiamo che la creazione sia possibile, e che il mondo sia dunque, come lei sostiene, in pericolo di subire una sorte tale che, in qualunque momento, potrebbe acquistare la sostanza e la logica del sogno. Ebbene, sir Edward: quali conseguenze ne trarrebbe? Era l'invito a una lunga discussione, un tranello polemico, l'offerta di un sacrificio retorico come tentazione. Ma Tallentyre non si lasciò tentare: — Se davvero il mondo fosse così — rispose, con voce dura — dovremmo comunque vivere in esso, e fare del nostro meglio per comprenderlo. Tuttavia, non intendo discutere di filosofia mentre il mio amico soffre. Preferisco che lei ci lasci, ora. Annuendo, Mallorn accettò cortesemente la sconfitta, e se ne andò.
Per un poco, il delirio cessò: Lydyard tacque, pur continuando a sudare abbondantemente. Tallentyre gli accostò una borraccia alle labbra e lo fece bere. Per alcuni istanti, l'acqua sembrò recargli qualche sollievo, ma poi Lydyard riprese a vaneggiare, scuotendo violentemente la testa. D'impulso, Tallentyre si chinò come aveva fatto Mallorn, per sforzarsi di trarre un senso dal flusso di frasi frammentarie. Distinse così alcune brevi proposizioni coerenti, relative a una strada, a un'entità felina, a una catena intorno al collo di qualcuno, ad alcune ombre. Limpidamente, Lydyard disse: — Non posso affrontarla! Cordelia! — E pronunciò, in Latino, le ultime parole del paternoster, che significavano «liberaci dal male». In seguito, il giovane emise altri suoni, ma il baronetto non ebbe neppure la certezza che si trattasse di parole storpiate, né che le frasi che aveva distinto poco prima avessero qualche senso: sembrava, infatti, che non esistesse nessuna connessione intelliggibile fra la situazione in cui si trovavano entrambi e una creatura felina con una catena al collo. Forse, pensò Tallentyre, si tratta di frasi che si susseguono senza alcun ordine. Eppure il ragazzo chiama ripetutamente Cordelia, come se la implorasse di riportarlo magicamente nella fredda Inghilterra, lontano da questo paese di tombe, di serpenti, e d'ignei demoni del deserto. In quel momento, entrò nella tenda William de Lancy, che aveva soltanto tre o quattro anni più di Lydyard, ma era molto più esperto del mondo. Tallentyre conosceva la sua famiglia soltanto superficialmente, ma credeva di capire che tipo di uomo fosse de Lancy molto meglio di quanto capisse le motivazioni del misterioso gesuita. — I cavalli sono allarmati — annunciò de Lancy, inquieto. — Vorrei avere il loro fiuto, per poter capire che cosa avvelena quest'aria. — Così dicendo, si accarezzò il cinturone della rivoltella. Il baronetto si girò istintivamente a guardare sotto la propria branda, dove aveva collocato i fucili da caccia, abbastanza preziosi da dover essere tenuti sempre a portata di mano: — Forse c'è un predatore nelle vicinanze — suggerì. — Dubito che vi siano leoni, su queste colline, ma potrebbe trattarsi di sciacalli. — Può darsi — convenne de Lancy, senza nessun entusiasmo. — Una volta, mentre scrutavo la zona circostante, ho avuto l'impressione di scorgere una creatura di forma umana che si stagliava contro le stelle. Appena mi sono soffermato ad osservarla, si è accucciata. Ma questo è il deserto rosso, inospitale con tutti, tranne che con i beduini. Preferirei di gran lunga
che si trattasse di animali selvaggi, ma... Non sente anche lei? C'è qualcosa, qui. Non me la sento più di biasimare quei ribaldi vigliacchi che ci hanno piantati in asso. Altre superstizioni, pensò stancamente Tallentyre. Benché fosse equilibrato e bene istruito, quando si trattava di occultismo alla moda, de Lancy apparteneva alla scuola del «non c'è fumo senza fuoco», la quale rifiutava di negare la possibilità dei portenti, e dunque nutriva un rispetto esagerato nei confronti di quel genere di storie strane che coloro i quali avevano vissuto in India e nei paesi ancora più remoti dell'Estremo Oriente erano inclini a narrare nelle serate tediose trascorse al circolo. Con sussiego professorale, Tallentyre scosse la testa: — Siamo diventati troppo civili, de Lancy, perciò, quando siamo lontani dai luoghi frequentati abitualmente dagli uomini, siamo troppo sensibili. La consapevolezza di quanto siano remote e isolate certe regioni resuscita in noi quelle angosce informi e vaghe di cui avremmo dovuto sbarazzarci quando siamo usciti dall'infanzia. Le condizioni del povero David ci hanno resi inquieti tutti quanti, rammentandoci che persino i serpentelli e gli scorpioni possono arrecarci terribili sofferenze, se non la morte. Ammesso che i cavalli siano davvero minacciati da creature nascoste nell'oscurità, può trattarsi soltanto di fiere, o di briganti arabi. Avvicinatosi al giovane avvelenato, de Lancy si curvò come avevano già fatto Mallorn e lo stesso Tallentyre, cercando a sua volta di trarre un senso dal caotico profluvio di parole che si riversava sottovoce dalle sue labbra. Che cosa sta succedendo qui? pensò intanto Tallentyre. Che cosa ci induce tutti quanti a chiederci se non si possa ricavare qualche strana delucidazione dalle farneticazioni mormorate da un ragazzo sofferente? Incapace di individuare alcunché di significativo nei vaneggiamenti dell'amico, de Lancy si rialzò subito, a differenza di Mallorn. La discrezione gli impedì di rimarcare che la figlia di Tallentyre veniva nominata di frequente. Commentò invece, in tono truce: — Non ho mai visto nessuno in simili condizioni. Proprio non capisco che genere di serpente possa averlo morso, anche se credo di conoscere abbastanza bene le vipere e gli altri rettili velenosi. Senza dubbio non si è trattato di un aspide di Cleopatra. — L'ho ucciso e l'ho collocato in una giara — spiegò Tallentyre. — Intendo portarlo in patria per mostrarlo agli studiosi di Oxford. Forse si tratta di una specie sconosciuta, e forse, per risarcire David almeno in parte delle sue sofferenze, riceverà un nome ispirato a lui.
— Forse — convenne de Lancy, il quale, però, sembrava incapace di frivolezze. Era evidente che lo scambio di rassicurazioni non aveva alleviato affatto la sua ansia: la creatura che aveva turbato i cavalli inquietava anche lui, sebbene fosse chiaro che nemmeno lui stesso sapeva esattamente come, o perché. — Ho perso ogni desiderio di compiere esplorazioni — confessò stancamente Tallentyre. — Il gesuita, suppongo, vorrebbe che trascorressimo la giornata di domani a sgombrare le macerie, e che uno di noi si calasse nella mastaba per scoprire se vi sono rimaste alcune vestigia. Tuttavia, non avremmo i mezzi per rimuovere un sarcofago neppure se fossimo tanto fortunati da trovarne uno, e personalmente non mi piace affatto dover frugare nella polvere alla ricerca di scarabei e amuleti come quelli che si possono acquistare in qualunque bazar del paese. Qualunque oggetto sia stato lasciato dai saccheggiatori delle tombe delle epoche dinastiche, è già stato sicuramente recuperato da altri antiquari, giacché vi sono prove in abbondanza che negli ultimi decenni qui si è scavato. Se David fosse in condizione di viaggiare, dovremmo tornare subito indietro. Debolmente, de Lancy sorrise: — Siamo stati piuttosto sciocchi, sir Edward... — Può darsi — convenne Tallentyre. — Ci siamo lasciati contagiare dalle romanticherie dell'egittologia come da una lieve malattia, ansiosi di credere che un gesuita curioso potesse condurci a scoprire meraviglie sconosciute setacciando la sabbia. In realtà, però, sappiamo bene che queste sono soltanto illusioni. — Ciò detto, esitò. Quando riprese a parlare, il suo tono di voce era mutato: — Nondimeno... Il frate si aspettava di trovare qualcosa, qui... Ebbene, vorrei sapere di che cosa si tratta. — Glielo ha chiesto? — Sì, ma egli sostiene di non saperlo. — E lei gli crede? Il baronetto scrollò le spalle: — Giura di essere stato sincero con noi, e lo afferma con una cert'aria di convinzione. Dopotutto, è un religioso. — Ha paura di qualcosa — osservò de Lancy, con voce calma. — E anch'io, per la verità. Che Dio mi aiuti, sir Edward: anch'io. — Ancora una volta, portò la mano alla fondina. — Anche David è spaventato — commentò pensosamente Tallentyre. — Persino nella follia del suo tormento, è terrorizzato. E nonostante tutta la mia ostinata determinazione ad oppormi alla superstizione e a vedere il mondo com'è realmente, non posso reprimere la sensazione che vi sia qual-
cosa, qui, che mette a dura prova le mie convinzioni e la mia risolutezza. In silenzio, Tallentyre e de Lancy si scambiarono un'occhiata. Entrambi avrebbero voluto sbarazzarsi delle loro paure con una risata, ma nessuno dei due ne fu capace. Gli unici suoni che turbavano il silenzio della notte erano il lontano nitrire dei cavalli, e la voce, vicina, di Lydyard, il quale, sprofondato nell'incubo, parlava di un'entità felina, di Cordelia, delle ombre, del timor d'Iddio, e forse la trama del suo delirio conteneva un filo tenue di razionalità e di senso. 3 Era quasi mezzanotte, ma William de Lancy era ancora seduto sotto le stelle, accanto alle ceneri del fuocherello che era stato acceso per preparare il caffè. Era necessario risparmiare la legna, perché la scarsa provvista era quasi esaurita, e in tutta la valle non si trovava un solo rametto. Pigramente ma scrupolosamente, de Lancy fumava l'ultima pipata della giornata. Non si considerava in servizio di sentinella, perché non era stata presa formalmente nessuna decisione di effettuare turni di guardia, tuttavia non riusciva a sbarazzarsi del presentimento sinistro che l'opprimeva. Aveva trascorso abbastanza serate oziose a bere e a conversare con Tallentyre, per imparare a conoscere bene le sue concezioni, quindi era certo che il baronetto avrebbe definito superstiziosi i suoi timori. Comunque, credeva nei presentimenti, che potevano essere ignorati soltanto a proprio rischio e pericolo. Anche se non aveva mai veduto uno spettro, sapeva che alcuni uomini in cui aveva fiducia credevano che i fantasmi esistessero, e che avessero il potere di nuocere all'umanità. Era sicuro che, nel silenzio e nell'oscurità del tutto peculiari di cui erano abbigliati i sepolcri, gli spettri potevano manifestarsi, se lo volevano. In Egitto, si sentiva più prossimo al mondo soprannaturale di quanto si fosse mai sentito in qualunque altro paese che aveva visitato. Fra le sabbie del deserto, gli antichi avevano sepolto i defunti, fasciati di bende e di bitume, non perché riposassero, bensì affinché intraprendessero un viaggio superiore alla vita medesima: un viaggio nell'eternità. A differenza di uomini come Tallentyre, che la consideravano una fine assoluta e spietata, difficile da accettare, de Lancy era persuaso che la morte fosse necessariamente il preludio a un viaggio del genere. Ai suoi occhi,
l'uomo era una creatura troppo bella per essere sprecata nella putrefazione e nel disfacimento: meritava invece un destino migliore, più adeguato, in qualche luogo ignoto oltre i confini del tempo e dello spazio. Nonostante questa convinzione, trovava molto difficile credere a un Dio simile a un padre, nonché a un redentore. Non capiva perché, né lo avrebbe mai confessato ad anima viva, ma gli era più facile credere al potere delle enigmatiche divinità pagane, piuttosto che all'efficacia della preghiera cristiana. Pensava che vi fosse qualcosa di spiccatamente tragico nel modo in cui le mastabe erano state profanate senza pietà, più e più volte, prima dai ladri smaniosi di arricchirsi, venuti a rubare gli oggetti che appartenevano ai defunti, poi da coloro che erano venuti a rubare le salme stesse. Secondo lui, vi era ben poca differenza fra i trafficanti che facevano da mezzani alla superstizione fornendo a coloro che si definivano maghi i materiali da rivendere, e i bravi cristiani che facevano da mezzani al feticcio della cultura trafugando i defunti insieme ai loro sarcofagi, affinché fossero successivamente esibiti nei musei di tutto il mondo. Erano tutti ladri, ugualmente incuranti dei diritti e dei veri interessi dei defunti, che avevano intrapreso il lungo viaggio nell'aldilà. Anziché rimproverare ai morti i loro ritorni in forma spettrale, de Lancy si augurava che essi insegnassero ai vivi che non era affatto saggio turbare i resti di coloro che erano partiti per primi. Gli spettri hanno tutto il diritto di manifestarsi, pensò, come se questa riflessione determinata potesse bandire l'inquietudine che lo assillava. E coloro che non credono in essi meritano il terrore delle loro manifestazioni. Nessuno dei compagni di William de Lancy dormiva ancora. Entrambe le tende erano illuminate dall'interno, talché de Lancy poteva osservare le ombre che vi si muovevano. Evidentemente, Tallentyre era deciso a vegliare su Lydyard per tutta la notte, se necessario, mentre padre Mallorn si manteneva sveglio per qualche motivo personale, mediante la disciplina della preghiera. Per de Lancy, la preghiera era sempre stata un'imposizione, alla quale si era segretamente ribellato già da bambino. Aveva sempre finto di pregare, benché supponesse che le preghiere altrui non fossero soltanto sincere, bensì anche meditate ed efficaci. In un certo senso, invidiava la fede incrollabile di Mallorn nel Dio delle sacre scritture, come pure invidiava a
Tallentyre la fede ugualmente incrollabile nella inesistenza di quel Dio. Aveva l'impressione che qualunque fede assoluta fosse più rassicurante della combinazione fra i presentimenti inquietanti e l'assenza di fede, ossia il vuoto conturbante in cui avrebbe dovuto trovarsi Dio Padre. Di nuovo portò la mano alla fondina, come se essa si muovesse per volontà propria. L'aveva già ritirata di scatto più di una volta, ma in quel momento la sua disposizione mentale lo indusse ad agire diversamente: sfoderò la rivoltella e cominciò a giocherellarvi, passandola da una mano all'altra. Era carica, ma la sicura era inserita. Con la pistola in pugno, vuotò la pipa picchiando il fornello contro un sasso vicino. Nel buio, non vide la chiazza di cenere che vi lasciò. Rimise la pipa in tasca e si alzò. Completato il rituale, non aveva più nessun motivo per rimanere all'aperto, a meno di prendersi la briga d'immaginare un pericolo concreto: per esempio, un gruppo di banditi beduini che intendeva assalire l'accampamento con il favore delle tenebre, per derubare i viaggiatori. Tuttavia, a differenza di quello che lo stesso de Lancy aveva sospettato un tempo, l'Egitto non era un paese di predoni. In realtà, temeva, semmai, che i beduini non fossero meno inclini ad evitare le rovine di quanto avevano dimostrato di esserlo le guide, le quali avevano preferito rinunciare alla paga piuttosto che addentrarsi fra quelle colline, e che vi fosse qualche ragione orrenda per questa riluttanza. Nella luminosità della luna e delle stelle, a cui si aggiungeva la luce gialla delle lanterne accese nelle tende, spiccavano abbastanza nitidamente le ombre degli accessi alle due mastabe che erano stati sgombrati dalle macerie, e i crepacci in cui erano stati sepolti i più remoti antenati degli Egiziani. Il giorno precedente, tutti e quattro i viaggiatori erano stati bramosi di esplorare le poche vestigia antiche che non erano crollate interamente, o che non erano state del tutto intasate dalle sabbie del deserto. Persino là, fra i sassi aguzzi delle colline che dominavano la pianura alluvionale, il tempo aveva pressoché cancellato le tombe. Se vi erano resti da osservare, ciò era dovuto evidentemente agli scavi effettuati di recente da altri esploratori. Nelle camere sgomberate non era rimasto nessun oggetto, mentre i corridoi che conducevano alle stanze sotterranee dove un tempo erano stati collocati i sarcofagi erano quasi completamente ostruiti dalle macerie. Nel guardare attorno, però, de Lancy non poté ignorare la sensazione che nella luce magica delle stelle vi fosse qualcosa che sussurrava di segreti
ancora nascosti fra quelle rovine. Il popolo antico che aveva sepolto lì i propri defunti si era servito dei crepacci nella roccia prima ancora di iniziare a costruire con pietre e mattoni le tombe più primitive, e forse, persino dopo migliaia di anni, alcune di queste tombe erano ancora inviolate. Era possibile che gli archeologi che avevano preceduto de Lancy e i suoi compagni se ne fossero andati dopo aver compiuto soltanto una breve indagine, perché scavare fra le rovine predinastiche era infinitamente meno glorioso e romantico che esplorare la Valle dei Re. Ma ciò non dimostrava che non vi fosse nulla da scoprire. Forse alcune rozze tombe custodivano ancora le reliquie di un passato più remoto di quello documentato negli elenchi dinastici. Non era tanto difficile credervi, in una notte come quella, in cui la valle era tanto elegantemente e misteriosamente abbigliata dalla luce lunare e dalle ombre. D'improvviso, de Lancy fu scosso da un tremito d'inquietudine: Quelle ombre, pensò, si stanno muovendo! Per un istante, non riuscì a cogliere il significato della scoperta. Poi rammentò, con lo sbalordimento assurdo di chi ricordasse l'ovvio, che il movimento della luna e delle stelle era impercettibile, e che le rocce erano inamovibili: com'era dunque possibile che le ombre negli ingressi delle tombe si muovessero? Quando l'esplosione di questo pensiero gli devastò la coscienza con una vertigine spaventosa, de Lancy non trasse alcun conforto dal fatto di avere la rivoltella in pugno: a che cosa avrebbero mai potuto servire le pallottole, infatti, contro un esercito di ombre? Disse subito a se stesso che non vedeva nulla, che le ombre non si muovevano affatto, che s'ingannava, tuttavia non poté convincersene, perché non era affatto vero: le ombre si stavano realmente muovendo, e lui non era pazzo, bensì soltanto terrorizzato. Avrebbe invocato Dio per avere soccorso e protezione, se non avesse saputo che una falsa preghiera sarebbe stata inutile, in quel momento. Non poteva neppure chiamare in aiuto Tallentyre o padre Mallorn, perché non aveva di fronte null'altro che una legione di ombre, e non era un codardo. Era stato abbastanza coraggioso da confessare i propri timori al baronetto, quando la conversazione glielo aveva consentito, però non fu abbastanza coraggioso, in quel momento, per svelare a Tallentyre il terrore puro che provava dinanzi alle ombre che strisciavano nella tenebra. In verità, le ombre si muovevano. Anche se lo facevano nel loro spazio, al loro ritmo, de Lancy era consapevole che la sua propria presenza non
era estranea a tale movimento: si rendeva conto di essere in pericolo. Vacillando, si recò verso la tenda che condivideva con il gesuita, e subito si rese conto che non l'avrebbe raggiunta. L'aria intorno a lui sembrava straordinariamente tangibile, come se fosse divenuta più densa, più solida, per ostacolare i suoi movimenti, per imprigionarlo. Disse a se stesso che si trattava di un'illusione, eppure percepì l'attrito, mentre cercava di camminare, di correre... Fu rallentato, fu obbligato a deviare in un modo inaspettatamente goffo e brutale, poi, incespicante, fu attirato lentissimamente verso il versante della collina in cui attendevano gli ingressi delle tombe, dove le ombre brulicanti si affollavano come grandi scarafaggi neri, quasi che fossero parenti degli scarabei che prosperavano negli escrementi e nella putredine. Non entrerò vivo nella tomba! gridò mentalmente de Lancy. Non sarò suddiviso nelle mie diverse anime, per affrontare i pericoli del viaggio della morte prima del tempo! Non sono schiavo dei re conquistatori, perché appartengo a un popolo conquistatore, e voi non mi avrete! Ma era invaso dal profondo terrore che, per il reame di quelle entità fosche ed aliene, l'impero della regina Vittoria non fosse che qualcosa di meschino, di spregevole, e che il suo potere non dovesse essere temuto, e che ad esso nessuna creatura d'ombra dovesse la minima obbedienza. Cercò di correre, ma si sentì attirato lontano dalla direzione in cui si trovavano le tende. Sollevò i piedi dal suolo come per negare all'aria repellente il potere di imbrigliarlo, ma fu come se fosse smarrito in un sogno in cui poteva fluttuare: fu trascinato sulla sabbia cosparsa di sassi, contro la propria volontà, verso la breccia che saccheggiatori di tombe defunti ormai da lungo tempo avevano aperto nel muro di mattoni di una mastaba. Nell'osservare questa meta, comprese quale direzione avrebbe dovuto prendere per opporsi all'attrazione delle ombre; e tale consapevolezza gli fornì, tardivamente, un po' di energia per resistere. Sentì di nuovo gli stivali a contatto con la solida roccia, si accorse di essere in piedi, immobile, non più impotente. Il movimento delle entità parve divenire più frenetico e più caotico, simile a una danza folle, come se esse fossero le ombre innocue suscitate dalla fiammella guizzante di una candela. Dopotutto, erano forse qualcosa di più che schiave di un'energia turbolenta? La loro apparenza d'identità e di ostilità non era forse nulla più che un'illusione fugace? Immobile, con i muscoli contratti, nello sforzo di diventare inamovibile di fronte alla forza, di qualunque natura fosse, che tentava di attirarlo nella
tomba, de Lancy si accorse che l'aria lo esplorava, gli tastava il viso e gli abiti con la propria sostanza. Cercò di non respirare, nel timore di assorbire quell'elemento invadente all'interno del proprio organismo, dove avrebbe potuto afferrargli il cuore e gioire del sangue che gli fluiva ritmicamente nelle vene. Questa è forse l'aula del giudizio universale? pensò. Sono forse convocato dinanzi al trono di Dio, affinché il rotolo della mia anima sia svolto a rivelare la lista dei miei peccati? Nell'aria si diffuse un suono che ricordava le fusa di un gatto contento di essere coccolato e accarezzato. Se soltanto riuscissi a sparare, pensò de Lancy, forse tutti questi fantasmi svanirebbero in un batter d'occhio, spediti all'oblio che meritano dalla potenza del fuoco creato dall'umanità... Anche se sembrava un pensiero fondato e razionale, de Lancy non riusciva a credervi. Eppure la ragione non lo aveva del tutto abbandonato, perché al suo terrore si mescolava una certa curiosità. Dov'era il muso di quella presenza felina nell'aria? E dov'erano gli artigli? Quale forma superiore avrebbe potuto assumere? In qualche modo, le fusa erano affettuose, oltre che minacciose, e de Lancy si sentiva stranamente smarrito in una rete di paradossi. Dov'erano le ombre? Non sapeva perché, ma era stato perso di vista per un momento. La luce della luna e delle stelle era in qualche modo scomparsa, e de Lancy non aveva la sensazione di essere vicino alle tende o ai cavalli. Era mai possibile che fosse stato strappato dal tempo e trasportato nel mondo del sogno? D'improvviso, capì di avere assorbito l'entità senza volerlo: essa, quale che fosse la sua natura, non era più soltanto fuori di lui, bensì anche dentro di lui. Stava perdendo ogni contatto sia con il mondo fisico che lo aveva contenuto, sia con la propria paura: forse con la sua stessa anima. Si sentiva simile a un felino, capace di muoversi furtivamente nell'ombra, libero dal fardello del pensiero e della parola, interiormente calmo e posseduto dal mistero. Dentro di sé avrebbe dovuto avere una sorta di calore, prodotto dal fuoco fervido della vita medesima. Invece non sentiva nulla, se non un'assenza, un vuoto, una dolorosa inesistenza. Era consapevole di camminare... furtivo e silenzioso come un'ombra fra le ombre... creatura di pura volontà... animale... Poi cadde, e la sensazione di cadere destò in lui un terrore primordiale,
tanto simile all'essenza stessa del proprio essere, che non poteva venire negata dalla presenza confortante che lo aveva catturato e che lo imprigionava. Tale terrore eruppe da lui in un grido terribile, possente, che si diffuse fino a colmare tutto il tempo. Di riflesso, il dito premette il grilletto della rivoltella, anche se lo sparo fu tanto futile quanto de Lancy aveva temuto, e la detonazione si perse nell'urlo pauroso che, dopo essersi protratto sino ai margini dell'eternità, si spense in un silenzio interminabile. Questo, si disse William de Lancy, abbastanza ben consapevole del paradosso che gli consentiva di pensare, può essere soltanto il silenzio della morte. 4 Quando udì l'urlo e lo sparo, sir Edward Tallentyre afferrò una doppietta senza alcuna esitazione, la caricò rapidissimamente, e corse fuori della tenda. Per un attimo, benché la notte fosse abbastanza luminosa, ebbe l'impressione di essere sopraffatto dall'oscurità, perché i suoi occhi erano ormai abituati alla luce intensa della lanterna. Individuò approssimativamente la direzione da cui l'urlo era giunto, ma non riuscì a scorgere alcun bersaglio, né alcuna traccia di de Lancy. Nello sforzo di penetrare con la vista la cortina del buio, intravide un'ombra che si allontanava rapidamente da lui sul versante della collina: imbracciò la doppietta per mirare, prima di riconoscere padre Mallorn. La testa nera dell'ombra divenne improvvisamente pallida, quando il gesuita si girò a gridare: — Presto! È entrato nella tomba! Di corsa, il baronetto raggiunse Mallorn, che lo aspettava. Al grido di angoscia non seguì alcun altro suono: tutto aveva l'immobilità e la quiete del sepolcro. Giunto accanto al gesuita, Tallentyre udì soltanto il proprio respiro affannoso e ansioso. Scrutò il versante cosparso di macigni e di mastabe in rovina, solcato dai crepacci, chiazzato dalle ombre dense, e non seppe dove andare: — Quale tomba? — domandò. Il gesuita non nascose la propria incertezza: — L'ho visto entrare in una breccia. Mi è parso che essa desse accesso a una mastaba, ma adesso non sono più sicuro di quale si trattasse. Dev'essere caduto in una fossa! Un incidente di questo genere non parve probabile a Tallentyre, il quale
non riuscì neppure ad immaginare che potesse giustificare un urlo tanto colmo di orrore. Sapeva, anche se lui e i suoi compagni non si erano presi la briga di misurare la profondità delle poche fosse scavate dai precedenti esploratori, che esse non potevano essere più profonde di dieci o dodici metri. Era possibile che una caduta da tale altezza fosse fatale, ma non era probabile, anzi, anche ammettendo che de Lancy fosse inciampato, era incredibile che non fosse riuscito ad aggrapparsi al bordo della fossa, o a rallentare la caduta afferrandosi al declivio. E comunque, perché mai avrebbe dovuto esplodere una rivoltellata? — Rifletta! — esortò Tallentyre, spazientito. — Se lo ha visto, deve aver visto anche dov'è andato! — Nel dir questo, però, si rese subito conto che la faccenda non era tanto semplice. L'intero versante impervio era una confusione di ombre mutevoli: non era affatto stupefacente che il gesuita, nel salire di corsa la china, angosciato, avesse perso di vista il luogo verso cui si era diretto inizialmente. Intanto, all'accampamento, i cavalli, nuovamente inquieti, cominciarono a scalpitare sui sassi, producendo brevi schiocchi metallici. Senza girarsi ad osservarli, Tallentyre riprese a salire, guardando attorno nel tentativo di stabilire dove fosse scomparso de Lancy, e chiedendosi perché si fosse incamminato lassù, da solo, nel cuore della notte. — Attento! — gridò Mallorn. Tuttavia, Tallentyre non ebbe il tempo di reagire all'avvertimento: una creatura enorme e pesante sbucò dall'oscurità, gli si catapultò addosso, e lo rovesciò su un fianco. La doppietta scaricò un colpo in aria senza produrre alcun danno, ma il baronetto non la mollò, benché squassato dall'impatto terribile di una spalla e di un fianco contro una roccia affiorante. Mentre la creatura fosca lo scavalcava agilmente, Tallentyre non riuscì a capire che forma avesse: percepì a malapena un caldo respiro sul viso, e poi un odore muschiato, animale, che non riuscì a identificare. Il gesuita parve emettere un urlo strozzato. Incapace di rialzarsi, Tallentyre riuscì soltanto a sollevare la testa. La creatura, furibonda e gigantesca, balzò addosso al gesuita, afferrandogli le spalle con le zampe anteriori. Benché fosse tutt'altro che vecchio, anzi, cinque anni più giovane del baronetto, Mallorn non era abbastanza forte da resistere a un simile assalto. Per giunta, era disarmato: non aveva neppure un crocifisso da brandire, mentre invocava l'aiuto del Signore. In preda al panico, tentò di dire qualcosa, in Inglese o in Latino,
ma riuscì a pronunciare soltanto una serie di suoni inarticolati. Nell'alzarsi a sedere, Tallentyre udì il gesuita cadere, come lui stesso era caduto poc'anzi, sopraffatto dalla belva nera che sembrava essere scaturita dalle viscere della collina. Imbracciò la doppietta, tentando di mirare, certo che il colpo che gli rimaneva sarebbe stato sufficiente, se la fiera si fosse allontanata dalla sua vittima e gli avesse mostrato gli occhi. Invece, la misteriosa creatura parve ingaggiare una lotta spietata con il disgraziato Mallorn. Era impossibile stabilire che razza di fiera fosse: aveva le dimensioni, ma non la forma, di un cavallo. La testa e le zampe erano enormi. Sul dorso si scorgeva qualcosa di simile a un paio di ali atrofizzate. Con uno sforzo, Tallentyre si alzò in piedi, ignorando il dolore sordo che gli si diffuse in tutto il braccio destro, nonché alla base della schiena. Era consapevole di non avere ossa rotte. Sapeva inoltre che sarebbe stato in grado di sparare con mano ferma, se avesse osato. Senza esitare, avanzò, con l'intenzione di usare la doppietta per separare la fiera dal gesuita. Allora, sovrastando la vittima riversa, la belva si alzò, quasi come avrebbe fatto un uomo, e si volse, come nessun quadrupede avrebbe mai potuto fare. Illuminata direttamente dalla pallida luce della luna, che splendeva alle spalle di Tallentyre, batté l'aria con le ali, che però non avrebbero mai potuto consentirle di volare. Era possente, alta tre metri abbondanti, ammantata di pelliccia fulva, liscia e morbida, più simile a quella di un felino che a quella di un orso. Aveva sicuramente la coda, lunga e sferzante, e aveva gli artigli sfoderati, pronti a colpire. Eppure, la testa che guardava Tallentyre da quella terrificante altezza non era affatto felina, bensì quasi umana: il viso, pur essendo furente, ringhiante, demoniaco, aveva il contorno di quello di una bella donna. Il baronetto, che non aveva mai veduto una creatura tanto stupefacente, non riuscì a credere ai propri occhi. Nonostante le fattezze umane del viso, non riusciva neppure a concepire che quello sguardo bieco, funesto, e quella smorfia orrida che snudava le zanne bianche, celassero un'intelligenza. Nella forma della creatura chimerica, non era il corpo, bensì la testa ad essere incongrua. Il mostro sembrava del tutto inconsapevole della forma della propria testa, perché spalancò la bocca con folle arroganza, come se sperasse di poter decapitare Tallentyre con un sol morso. Per un attimo, Tallentyre ebbe l'opportunità di fare fuoco, ma poiché non era pronto, si limitò a pungolare la belva al ventre, come aveva progettato
di fare, senza nessuna vera possibilità di nuocerle. Il gesto, disastrosamente debole, risultò per forza di cose una provocazione, anziché un assalto. La fiera sgranò gli occhi gialli, in un modo che a Tallentyre, stranamente, non sembrò di pura furia belluina: pareva che lasciasse trapelare perplessità e sconcerto. Per alcuni istanti, Tallentyre si chiese se il mostro avesse davvero intenzione di nuocergli. Consapevole però di non potersi permettere il rischio di simili meditazioni in quell'attimo, colpì ancora, con vigore. Il manrovescio con cui fu percosso non lo colse impreparato: cadendo, cercò di rotolare. Tuttavia non vi riuscì, perché la violenza della sberla fu molto maggiore di quanto avesse previsto. Come perseguitato dalla goffaggine, urtò di nuovo il fianco contro un sasso aguzzo. Nondimeno, non si lasciò sfuggire la doppietta, che in quel momento gli era più cara della vita: era certo che sarebbe morto, se l'avesse abbandonata. Gli sembrava impensabile, infatti, che la fiera potesse mostrarsi misericordiosa dopo che l'aveva irritata. Tentò di fuggire carponi, in modo da guadagnare il tempo necessario a prendere la mira, tuttavia ebbe l'impressione che muoversi fosse stranamente difficile, come se l'ombra in cui era caduto avesse preso vita propria e lo imprigionasse, aderendo a lui come una sorta di magico mantello d'oscurità. Batté la testa contro un sasso e rimase stordito dalla vertigine. La luna, limpidamente visibile, simile a un grande scellino d'argento, fu celata da un'eclisse improvvisa. L'odore muschiato divenne tanto intenso da risultare nauseabondo. Oppresso da un gran peso, Tallentyre non fu straziato dagli artigli, né azzannato da quegli assurdi denti umani. Rimase grandemente sorpreso nel non riuscire a capire con quale parte del corpo la belva lo stesse soffocando, né che cosa stesse per accadere. Aveva l'impressione che la morte non intendesse specificare in qual modo si accingeva a ghermirlo: percepiva soltanto l'oscurità e la propria impotenza. Poi il peso scomparve, come se, per la seconda volta, la fiera avesse scavalcato Tallentyre, che impugnava ancora la doppietta. Nuovamente in grado di articolare parole, padre Mallorn pronunciò il nome di Satana in Latino. In apparenza, era convinto che l'avversario fosse un demonio. Tuttavia, non era di certo quello il momento di compiere esorcismi complicati, a prescindere dalla loro eventuale efficacia. Il mostro, infatti, udì le parole e tornò verso Mallorn. Alzandosi su un ginocchio, Tallentyre imbracciò di nuovo la doppietta, e
riuscì infine a mirare. A poco più di un metro e mezzo di distanza, la creatura si accoccolò come un gatto. Con gli occhi sfavillanti alla luce della luna, guardò il gesuita. Pur non comprendendo come ciò potesse essere avvenuto, Tallentyre ebbe l'impressione che essa, in quel momento, fosse poco più grande di lui, quasi che fosse rimpicciolita. Notò, inoltre, che i suoi occhi sembravano umani, anche se non aveva mai visto occhi umani gialli. Non riuscì a interpretarne l'espressione, ma immaginò che essa stesse contraendo i muscoli, pronta a balzare sulla vittima. Fece fuoco, e ansimò, mentre la violenza del rinculo gli faceva dolere tutto il braccio. Come se spiccasse un balzo, il mostro fu catapultato alPindietro, quindi fu squassato da uno spasmo. Nondimeno, Tallentyre comprese che non stava agonizzando, anche se la potente scarica di pallettoni avrebbe dovuto essere letale. Ferita, ma non morta, la fiera si rannicchiò e, come se assorbisse sostanza dall'ombra, riacquistò, prima di rialzarsi, le proprie dimensioni originarie. Disperatamente, Tallentyre tentò di ricaricare la doppietta, pur sapendo che ciò era del tutto inutile, perché ormai la creatura torreggiava su di lui, gigantesca, e non doveva fare altro, per disarmarlo, che allungare una zampa. In verità, giacché aveva abituato la vista alla luce gentile della luna e poteva vederla più nitidamente, notò che essa non aveva zampe, ma piuttosto artigli. Osservò meglio anche il viso strano e spaventoso: la pelle era nera, ma i lineamenti non erano negri: gli occhi gialli, o meglio, dorati, e le labbra finemente disegnate, erano troppo esotici perché fosse possibile assimilarli a qualunque razza conosciuta. Pur essendo consapevole di quanto fosse assurdo che proprio lui, fra tutti, concepisse una cosa del genere, pensò: È la Sfinge! È il volto della Sfinge! Quando la belva aprì di nuovo la bocca, Tallentyre quasi si aspettò di sentirle pronunciare un enigma leggendario, affinché lui lo risolvesse. Invece, essa non emise altro che una sorta di fioco lamento lugubre. Era un grido di dolore, eppure non esprimeva soltanto sofferenza: aveva anche qualcosa di stranamente malinconico. Intanto, come se si apprestasse a squarciare Tallentyre, il mostro sollevò un'enorme mano artigliata. In quel momento, rimanendo come paralizzato, in attesa del colpo letale, Tallentyre si accorse che si trattava davvero di una mano. Nello stesso istante, intravide una cosa pallida che scendeva dall'alto,
fulminea, tempestiva, come se Mallorn fosse riuscito ad evocare dal cielo una folgore prodigiosa per la distruzione dell'avversario. In procinto di scattare, la sfinge fu aggredita da una creatura piccola e feroce, che le balzò sulla testa come una puzzola bianca che assalisse un cane colto di sorpresa. Tuttavia, era l'aggressore ad essere una sorta di cane. Quando se ne accorse, Tallentyre si rese conto inoltre che esso era piccolo soltanto rispetto alla gigantessa felina: in realtà, era molto più grande del cane più grosso che egli avesse mai visto. Con la sua ferocia, con il suo furore ferale e intrepido, con la sua inarrestabile determinazione, gli apparve non meno strano e assurdo della sfinge. Era un lupo, ma una sorta di lupo fantasma, che non aveva nessun diritto all'esistenza reale nel mondo in cui Tallentyre credeva. Consapevole che stava per essere ingaggiata una battaglia spaventosa, Tallentyre non riuscì a credere che il lupo grigio fosse in grado di sconfiggere il mostro chimerico. Tentò di rialzarsi, ma fu assalito dalla vertigine e rischiò di perdere conoscenza. La sfinge deviò contro il lupo il colpo diretto al baronetto, ammesso che si fosse trattato, dopotutto, di un vero e proprio colpo, e lo trasformò in una sorta di manrovescio, privo di autentica forza. Nonostante questo, gli artigli affilati squarciarono un fianco al lupo, proiettandolo via: il sangue luccicò cupamente sulla pelliccia insolitamente pallida. Appena atterrato, il lupo si girò di scatto, deciso a riprendere la lotta. Tallentyre provò l'assurdo desiderio di gridargli di scappare, di salvarsi. La sfinge arretrò di mezzo passo, con un'espressione inequivocabile di perplessità, d'incertezza, ma poi batté le piccole ali e si alzò sulle zampe posteriori, divaricando gli artigli letali, pronta a colpire. Di nuovo, Tallentyre si sforzò di infilare una mano nella tasca in cui teneva le cartucce, ma qualcosa glielo impedì: era come se le ombre tutt'intorno a lui fossero alleate della sfinge e lo stessero straziando con artigli di tenebra, che non avevano bisogno di squarciare il corpo perché potevano giungere direttamente all'anima. Lasciò cadere la doppietta scarica e sentì un ruggito spaventevole nella propria mente, come se l'oscurità circostante non lo stesse soltanto schiacciando, bensì ululasse di collera e di esultanza. Ebbe la sensazione di non riuscire a respirare perché non vi era più aria per i suoi polmoni ansimanti. Il petto gli doleva come se fosse compresso da una cinghia di ferro che si stringeva sempre più, poco a poco. All'improvviso, lo scontro fra la piccola belva grigia e il nero mostro gi-
gantesco, che Tallentyre si sforzava tanto di osservare, divenne nulla più che una folle configurazione di mutevoli turbinii neri e bianchi, priva di ogni senso percepibile. Ma questo non è reale! pensò Tallentyre, con un empito di sollievo, quasi di tripudio. Sono stato avvelenato, e questi sono i fantasmi del mio delirio! Io sono stato morso dal serpente: non David! Io, e non lui, giaccio a letto, e pronuncio i nomi delle creature che mi ossessionano! Sembrava assolutamente giusto che fosse così: Tallentyre si sentiva irragionevolmente certo che il serpente avrebbe dovuto mordere lui, e non Lydyard. Fu felice di assumere a beneficio dell'amico il fardello che gli veniva offerto: fu felice di sostituire il giovane. Ispirato dalla rettitudine, lottò senza posa contro la tenebra, che però non lo lasciò respirare, impedendogli di prendere il sopravvento. Alla fine, fu costretto a soccombere, e fu come sprofondare nella collina, attraverso la crosta terrestre, fino a un inferno insopportabilmente tetro e desolato, dove non era possibile provare nessuna sensazione. Nondimeno, continuò a sentirsi perversamente e immensamente compiaciuto e sollevato, perché sapeva, ormai, che doveva essere tutto un sogno, suscitato dal cibo nocivo e dall'oppressione della fatica e dell'angoscia. Non aveva alcun dubbio, nella propria mente, che nell'istante del risveglio avrebbe scoperto che il mondo era ancora quello che era sempre stato: reale, solido, comprensibile. L'ultimo suono che udì fu la voce di Mallorn, il quale emise un ululato di abbandono simile a quello che William de Lancy aveva lanciato per convocare i compagni a quell'incontro con l'irrazionale. Non temere, mio superstizioso amico! gridò mentalmente Tallentyre, in tono da generoso salvatore. In verità, non vi è nulla da temere in un inferno simile, da cui saremo a suo tempo redenti mediante il ritorno della veglia e della ragione. 5 Quando David Lydyard si destò, i ricordi degli incubi terribili che lo avevano tormentato rifiutarono di svanire dalla sua mente come avveniva di solito. Ancora debole e febbricitante in seguito all'avvelenamento, si stupì di avere sofferto tanto per effetto di un morso lieve: null'altro che un semplice graffio, meno profondo della lieve puntura che aveva subito al Cairo, quando la zanna di un cobra gli aveva perforato il cuoio di una scarpa.
Nondimeno si sentì ristabilito e ne fu felice, sino a quando uscì dalla tenda e la luce mattutina gli rivelò la catastrofe che aveva travolto i suoi amici durante il suo delirio. A causa del proprio indebolimento, non cercò in alcun modo di seppellire Mallorn, né intraprese una ricerca metodica per ritrovare de Lancy. Tuttavia si sforzò sino ai limiti delle proprie risorse per trasportare Tallentyre nella tenda e per distenderlo nella sua amaca. Sulle prime, ebbe timore che Tallentyre fosse sul punto di morire per la medesima causa misteriosa che aveva provocato il decesso di Mallorn, ma poi scoprì che il battito del suo cuore era vigoroso e regolare. Rassicurato, non tardò a persuadersi che alla fine il baronetto si sarebbe destato dal suo strano sonno, e che sino ad allora sarebbe stato inutile cercare di dedurre una spiegazione dell'accaduto. Nel frattempo, cercò di rendersi utile, per quanto glielo consentivano le forze, lavorando sotto il sole più a lungo di quanto fosse prudente: persino a quell'altitudine la temperatura del mezzogiorno era difficile da sopportare. Pensava che fosse doveroso, da parte sua e di Tallentyre, rintracciare la famiglia del gesuita in Inghilterra e informarla del decesso, oppure, se si fosse scoperto che Mallorn non aveva famiglia, avvertire le autorità ecclesiastiche competenti, anche se non aveva la minima idea di quali fossero tali autorità, giacché il suo cattolicesimo era molto superficiale. Si recò nell'altra tenda per esaminare gli effetti personali del gesuita, quindi ritornò al cadavere per perquisirne gli indumenti. Provò vergogna nel vuotargli le tasche, benché fosse necessario farlo, perciò, insieme alla doppietta di Tallentyre, che aveva trovato aperta, con due bossoli esplosi non ancora espulsi, portò subito gli oggetti rinvenuti nella propria tenda e li collocò sull'amaca in cui egli stesso era giaciuto in preda al delirio. Non esaminò i documenti contenuti nella cartella di Mallorn, però osservò con curiosità altri due oggetti appartenuti al gesuita: un anello e un amuleto. Lo strano anello d'argento, che Mallorn non aveva mai portato al dito, stando a quanto Lydyard riusciva a ricordare, recava inciso un monogramma che sembrava composto da tre lettere: la O, la A e la S. L'amuleto era di un tipo che veniva venduto in tutti i mercati egiziani, anche se Lydyard non sapeva di quale materiale fosse fatto: era un'imitazione dell'utchat, che, ritrovato in numerose tombe antiche, rappresentava un occhio simbolico.
Quando Lydyard lo aveva interrogato a proposito di simili reperti, Mallorn gli aveva spiegato che, nella più remota antichità, gli Egizi avevano senza dubbio indossato come amuleti certi organi delle salme dei loro antenati, essiccati al sole o preservati nel bitume come le mummie, ma con l'andar del tempo li avevano sostituiti con riproduzioni in legno o in argilla. Quando non riuscì più a sopportare la sinistra sensazione tattile degli oggetti del defunto, Lydyard si dedicò per breve tempo alla preghiera. Gli sembrava ancora possibile pregare, benché l'esempio dell'uomo presso cui pregava, che aveva sostituito suo padre e per il quale nutriva molta ammirazione, avesse lasciato tutt'altro che incrollabile la fede che aveva ereditato. Infatti, Tallentyre era incrollabilmente convinto che tutte le religioni erano vestigia dell'epoca della superstizione, ormai agonizzante, e che bisognava confidare esclusivamente nella scienza come fonte di saggezza e d'ispirazione. Inoltre, il baronetto era molto più abile nell'argomentare le proprie tesi di quanto lo fosse il giovane nel sottoporle a verifica. In Inghilterra, il suo confessore aveva pronunciato severi ammonimenti contro le cattive influenze dell'ateismo. Anche per questo Lydyard era ancora lievemente perplesso che Mallorn avesse frequentato tanto assiduamente Tallentyre a bordo del piroscafo per Wadi Halfa, e poi si fosse dato tanta pena per indurlo ad associarglisi in quella impresa. Oltre a pregare affinché Tallentyre si ridestasse sano e salvo, Lydyard pregò per l'anima di padre Mallorn, nonché per la liberazione e la salvezza di William de Lancy, se questi ne avesse avuto bisogno. Per se stesso, si limitò a ringraziare di essere stato salvato per la seconda volta dalla morte per veleno. Tuttavia manifestò la propria riconoscenza con inquietudine, non del tutto certo di essere completamente guarito dagli effetti del veleno di serpente. Il sole era ormai alto nel cielo, quando sir Edward Tallentyre finalmente si destò dal proprio sonno innaturale. Allora Lydyard gli fu subito accanto con una borraccia. Dopo essersi dissetato avidamente, il baronetto rimase molto sorpreso, sia nello scoprire che il giovane si era rimesso quasi completamente, sia nel sentirsi tanto indebolito. Perciò si affrettò a domandare spiegazioni che Lydyard non poteva in alcun modo fornirgli. In breve, apprese dove e come il giovane lo aveva trovato, e seppe che padre Mallorn era morto, e che William de Lancy era scomparso. Allo sbalordimento subentrò in lui un'angoscia profonda: — Buon Dio — esclamò,
con un fervore sicuramente sconveniente per un ateo dichiarato. — Credevo che fosse stato tutto un sogno! Forse lo è stato davvero, ma improvvisamente non so più che cosa è reale e che cosa non lo è. La sera scorsa temevo per la tua vita, e ora mi sembra che soltanto tu abbia superato la notte illeso. Sono stato vittima di un'allucinazione terribile, David, eppure scopro che gli eventi hanno cospirato per riprodurre gli effetti che essa avrebbe avuto se fosse stata vera in ogni minimo dettaglio. Dobbiamo ritrovare de Lancy, se possibile, e poi, per amore della nostra sanità mentale, dobbiamo andarcene da questo luogo. — Non sono certo che ci siamo rimessi abbastanza per cavalcare — obiettò pazientemente Lydyard. — Non sono neppure sicuro che sarà facile ritrovare de Lancy: l'ho chiamato ripetutamente, con tutta la voce che avevo in corpo, senza ottenere risposta. In ogni caso, dobbiamo seppellire padre Mallorn, e per dargli degna sepoltura cristiana in questo luogo roccioso, dobbiamo deporlo in una tomba antica, nonché scusarci per quanto è possibile con colui che accoglierà la sua anima. — Se il mio sogno è veritiero, temo che de Lancy stia già riposando in un sepolcro millenario. Tuttavia dobbiamo cercarlo, perché non bisogna mai confidare nei sogni. — Così dicendo, Tallentyre tentò di alzarsi in piedi, ma lo sforzo fu talmente doloroso, che si lasciò dissuadere dal giovane. — Devi raccontarmi che cos'è accaduto — disse Lydyard. — Temo di essere rimasto nella morsa della febbre e del delirio fino al mattino: so soltanto quello che ho scoperto dopo essermi svegliato. Il baronetto scosse la testa, poi si palpò il fianco destro e la spalla con la mano sinistra: — Non so che cosa sia accaduto in realtà — confessò rabbiosamente. — Sembra che de Lancy sia entrato in una tomba e che qualcosa lo abbia talmente terrorizzato da indurlo a strillare orrendamente e a sparare con la rivoltella. Mallorn e io lo abbiamo rincorso, ma in breve il nostro stesso disorientamento ci ha costretti a fermarci. Forse il sogno è cominciato allora, e non prima. Come posso saperlo? Nella mia allucinazione, siamo stati aggrediti da una creatura enorme, simile a una sfinge vivente, in carne ed ossa, che prima è ingigantita, poi è rimpicciolita, poi è ingigantita ancora. Per sbaglio, ho sparato il primo colpo in aria. Con la seconda fucilata l'ho centrata in pieno, da breve distanza, senza però ferirla gravemente. D'improvviso, la sfinge è stata assalita da un grande lupo grigio. Allora sono stato soffocato dalle ombre: non ho più visto né sentito niente. Hai forse trovato la salma di un grosso felino, o magari di un lupo
grigio? — No. Però ho notato alcune chiazze di sangue sui sassi, vicino a dove ti ho trovato. Credevo che fosse sangue tuo, o forse di padre Mallorn, anche se nessuno di voi due mostrava ferite gravi. — Senza volerlo, Lydyard pronunciò questa frase sottovoce, perché il racconto di Tallentyre gli aveva ricordato improvvisamente un sogno che aveva avuto durante il delirio. Pensosamente, soggiunse: — Una sfinge, hai detto? Il baronetto lo scrutò ad occhi socchiusi, come se avesse rammentato a sua volta qualcosa: — «La felina... Non posso fronteggiarla»... — citò, quasi in un mormorio. — Ricordi di aver pronunciato una frase simile, al culmine del tuo delirio? Che genere di felino ti spaventava, David? Che parte aveva nel tuo sogno? Senza dover compiere alcuno sforzo, Lydyard rammentò ogni cosa, anzi, esitò proprio a causa della profusione d'immagini che gl'inondò la mente, scatenata dalle frasi di Tallentyre: — Ho visto Satana tormentato all'Inferno — sussurrò. — Ho visto Dio, impotente all'esterno dell'universo. Ho visto... lupi... che non erano soltanto lupi. E la felina... No, in realtà, non era una felina... All'inizio, ha avuto soltanto la testa felina, come la dèa Bast, ma poi, per alcuni momenti, ha avuto il viso di donna e il corpo felino... Si è staccata da un solenne corteo di tutte le divinità dell'Egitto, che sfilava nella caverna di Platone... — La caverna di Platone! — interruppe Tallentyre, in tono di biasimo. — La caverna descritta nella «Repubblica» — precisò lentamente Lydyard, pur sapendo che il baronetto aveva capito perfettamente a quale caverna alludesse. — La caverna dove gli uomini incatenati possono vedere soltanto le ombre gettate sulla parete dalla luce del fuoco. Nel mio sogno, erano le ombre dei numi con la testa d'animale, e io ero l'uomo che si gira, quando la catena intorno al suo collo, per caso, si spezza, e vede gli dèi, non le loro ombre, e Bast, la dèa dalla testa di gatto, era la divinità che se ne accorgeva... Bast, che era anche la Sfinge! — Con disagio, si accorse che il cuore gli palpitava. — Ero terrorizzato — soggiunse. — Anche adesso, l'incubo mi perseguita: la paura, e la blasfemia... — Non vi è alcuna blasfemia, in un incubo — dichiarò sbrigativamente Tallentyre, che sembrava molto più preoccupato del proprio ricordo. — Non vi è neppure la coincidenza che temevo: senza dubbio questa fugace similitudine dell'immaginazione è del tutto fortuita. — La blasfemia non stava in quello — mormorò meditativamente Lydyard — bensì nella mia visione dell'impotenza di Dio, e di Satana che
redimerebbe il mondo dalle sofferenze, se un fato crudele non glielo impedisse. Ho avuto pietà di Satana: prima che il terrore m'invadesse, Edward, mi sono infuriato a causa della sua prigionia... Come se gli prestasse attenzione a stento, Tallentyre ribatté, burbero: — Forse fai parte della compagnia del demonio senza saperlo: dopotutto, hai vissuto abbastanza a lungo in casa mia. D'altronde, abbiamo sognato entrambi anche di lupi, vero? Non hai forse detto di aver visto lupi? — Sì, ho visto lupi — confermò Lydyard. — Eppure, non so come, sapevo che in realtà erano licantropi. — I licantropi affamati della città di Londra? — replicò Tallentyre, citando un verso di una famosa filastrocca, poiché si sentiva, nonostante tutto, libero di scherzare. Il giovane scosse la testa: — Correvano su un ghiacciaio immenso: una distesa infinita di ghiaccio. Finalmente, Tallentyre riuscì ad alzarsi dall'amaca, scoprendo di essere in grado di reggersi in piedi. Questa volta, Lydyard non tentò d'impedirglielo, né di aiutarlo: perso nelle proprie meditazioni, tentò di rammentare quali strane idee lo avessero posseduto nell'osservare, con l'occhio del sogno, quei lupi sinistri. Esaminando gli effetti personali del gesuita, Tallentyre raccolse l'utchat, ma subito lo depose per prendere l'anello: — Cos'è questo? — No so — rispose Lydyard. — Apparteneva a padre Mallorn. Secondo te, come mai abbiamo avuto gli incubi entrambi, e per giunta simili, anche se soltanto uno di noi è stato morso dal serpente? E come mai il nostro incubo ha ucciso Mallorn e ha fatto scomparire de Lancy soltanto Dio sa dove? — Vorrei saperlo — disse amaramente Tallentyre. — Ma quello che è accaduto realmente, rimarrà noto soltanto a Dio, se non riuscirò a uscire di qui e a scoprire la verità studiando gli indizi che gli eventi hanno lasciato. Accompagnami dove mi hai ritrovato! Il giovane annuì, e indossò il cappello di paglia che usava per proteggersi dal sole. Nel calcarsi in testa il proprio cappello, Tallentyre si accigliò, notando che uno dei suoi due fucili, posati l'uno accanto all'altro, era graffiato. — L'ho trovato accanto a te, fra i sassi — spiegò Lydyard, cogliendo la domanda inespressa. — Conteneva due bossoli esplosi. In silenzio, Tallentyre uscì per primo alla luce del sole e sostò ad osservare la valle desertica, nonché gli ammassi di rovine delle tombe parzial-
mente dissepolte: — Non ci sono ombre, adesso — mormorò. — Il sole alto le ha scacciate tutte. Seguito da Lydyard, il baronetto salì il versante fino al luogo in cui giaceva la salma di padre Mallorn, già brulicante di mosche, che fu impossibile scacciare. Il giovane attese la conferma di quello che già sapeva da parte di Tallentyre: il decesso non aveva cause apparenti. I tagli e le contusioni erano tutt'altro che letali. A quanto pareva, il cuore di Mallorn, semplicemente stanco del tedioso lavoro di battere, si era fermato. — Be' — commentò finalmente Tallentyre — ormai padre Mallorn non potrà mai più rivelarci il vero motivo che lo ha indotto a condurci qui. E se la parte di verità che ci ha nascosto ha in qualche modo a che fare con quello che ci è accaduto questa notte, dovremo scoprire con altri mezzi di che cosa si tratta. — Poi, senza perdere altro tempo, si alzò a scrutare la parte sovrastante del declivio. — Se de Lancy è entrato in una delle tombe qui attorno, può essersi trattato soltanto di una di quelle tre. — Così dicendo, indicò a Lydyard i sepolcri a cui si riferiva. Così, tutore e pupillo iniziarono a investigare. Bastarono pochi minuti per appurare che de Lancy non poteva essersi smarrito all'interno della prima mastaba, che era parzialmente crollata. Anche la seconda era quasi completamente ostruita dalle macerie. Soltanto nella terza si apriva una fossa in cui un uomo avrebbe potuto cadere, o in cui una belva avrebbe potuto rintanarsi. In questa fossa, Tallentyre gettò un sassolino, che avrebbe dovuto urtare udibilmente il fondo in non più di due secondi. Invece, Lydyard contò fino a quattro prima di udire il rumore dell'impatto, e poi il rotolio rauco del sasso che continuava la discesa. — Dev'esserci un crepaccio, laggiù — commentò Lydyard. — Se è abbastanza largo da lasciar passare un uomo, e se de Lancy vi è caduto... — È soltanto un'ipotesi — replicò rabbiosamente Tallentyre. — Non sono ancora disposto ad ammettere che sia andata davvero così. All'altra estremità della camera, dove una certa quantità di detriti si era accumulata lungo la base della parete, Lydyard notò uno scolorimento: vi si avvicinò, lo palpò, e sentì cera di candela. Frugando fra i detriti, trovò un foglio di carta bruciacchiato ad un'estremità: — Edward! — E si affrettò a consegnare il foglio al baronetto. Nello srotolarlo, Tallentyre strappò il foglio, ma riuscì a ricomporne i pezzi per poterlo esaminare.
— È una pagina di libro! — commentò Lydyard. — Però non è molto antica — sospirò Tallentyre. — Più precisamente, è una pagina di almanacco. E guarda... Ecco una data: 1861. Temo che sia stata lasciata da precedenti esploratori. Be', spero che la loro spedizione abbia avuto più successo della nostra sfortunata escursione. Evidentemente, padre Mallorn ne fu messo al corrente e s'incuriosì a tal punto da volersi recare qui personalmente. Ma non c'è modo di scoprire, ora, di quali informazioni fosse in possesso sull'identità di quegli esploratori, o sulle loro eventuali scoperte. C'è altro? Il giovane indicò una chiazza su un sasso: — È sangue? Inginocchiatosi per toccare la chiazza, Tallentyre scrollò le spalle: — Se lo è, anch'essa è stata lasciata dagli studiosi che ci hanno preceduto. Non riesco a scorgere nessuna traccia di de Lancy. — Con la meticolosità che gli era consueta, infilò la pagina strappata nel proprio taccuino. — Mostrami le altre macchie di sangue — ordinò. Precedendolo, Lydyard uscì di nuovo alla luce del sole e lo condusse a breve distanza dalla salma di Mallorn, quindi indicò una macchia già tanto scurita dal calore, che ormai non sembrava più recente. — Non credo di averla lasciata io — dichiarò Tallentyre. — E guarda... Là, dove non sono certo arrivato, per quanto posso ricordare, ci sono altre chiazze. Forse è l'inizio di una traccia che sale per il declivio. Può darsi che de Lancy sia andato proprio in quella direzione. — Così dicendo, avanzò, scrutando il suolo. In breve, trovò altre tracce. Quando le vide, Lydyard si rese conto che non ci si poteva aspettare che un uomo che aveva perduto tanto sangue nel camminare o nel correre fosse sopravvissuto a lungo. Nel salire insieme a Tallentyre la china cosparsa di massi, Lydyard si aspettò di trovare un altro cadavere da un momento all'altro. Invece, le macchie divennero sempre più sparse e sempre più difficili da individuare, finché, nelle vicinanze del crinale, scomparvero. Tuttavia, Tallentyre proseguì senza indugi per poter osservare il versante opposto. Sul crinale, Tallentyre si fermò. Sentendolo sospirare ansiosamente, Lydyard comprese che aveva visto qualcosa e si affrettò a raggiungerlo. Quando il giovane gli fu accanto, Tallentyre gli afferrò un braccio e gl'indico, a meno di duecento metri di distanza, seminascosto da un macigno, il corpo pallido di un uomo, apparentemente nudo. — De Lancy! È ancora vivo? — Nel dir questo, Lydyard si rese conto
che rimanere esposti al sole senza indumenti con quel caldo per ore non poteva che nuocere, e temette il peggio. Imprecò contro se stesso per non avere effettuato subito una ricerca più scrupolosa, anziché perder tempo a pregare. Intanto, Tallentyre cominciò a scendere, con un'impazienza e una goffaggine che testimoniavano sia la sua fatica e la sua debolezza, sia la sua inflessibile determinazione. Con l'impressione di sentire scorrere ancora nelle proprie vene il veleno che il serpentello gli aveva iniettato nella mano, Lydyard lo seguì, incespicante. L'uomo era davvero nudo, e giaceva bocconi. Non era William de Lancy. Aveva la schiena pallida, ustionata dal sole, che cominciava ad arrossarsi spiacevolmente, tutta straziata come dagli artigli di un grosso felino. Era biondo e aveva lineamenti di straordinaria bellezza. Sembrava all'incirca coetaneo di de Lancy, ossia dimostrava fra i venticinque e i trent'anni, ma era più snello. Il baronetto lo girò supino, scoprendo che aveva anche il petto lacerato, e gli posò un dito sul collo: il sangue pulsava ancora nella carotide. Benché fosse sicuro di non averlo mai visto prima, Lydyard ebbe l'impressione che nel suo aspetto vi fosse qualcosa di strano, che esigeva di essere individuato, ma che lui non riusciva a percepire: — Chi può mai essere? — sussurrò. Con gli occhi stanchi, iniettati di sangue, Tallentyre lo scrutò: — Chi altri può mai essere — ribatté, con voce tremante di aspro e rabbioso sarcasmo — se non il lupo che ho visto in sogno? Senza dubbio era un licantropo sfuggito al tuo delirio, e venuto a misurare la propria potenza contro la Sfinge vivente! E giacché è così, che cosa ho mai appreso della vera storia del mondo, in questo luogo terribile e desolato, se non che tutto quello in cui ho scioccamente scelto di credere per tutta la vita è menzogna? Quello che ci è accaduto qui è opera del tuo Dio vendicativo, il quale ha voluto insegnarmi che la mente umana, dopotutto, è qualcosa di molto debole, che non può neppure sperare di vincere nella propria lotta per una comprensione adeguata del mondo. La violenza della risposta e la velata, ma deliberata, blasfemia, sgomentarono Lydyard: — Non puoi pensare davvero una cosa del genere! Per alcuni istanti, Tallentyre continuò ad imprecare mentalmente contro la propria sfortuna, quindi si degnò di rispondere: — In verità, non posso. Non so di che cosa siamo stati vittime noi, ma questo poveraccio è stato sicuramente spogliato dai predoni e lasciato per morto. Anche se non è de
Lancy, di sicuro non è un Egiziano. Dobbiamo aiutarlo come meglio possiamo, e tornare il più rapidamente possibile a Wadi Halfa, in modo da poter ottenere assistenza per tornare a cercare de Lancy. Speriamo di trovare qualcuno che ci aiuti a scoprire chi ci ha aggrediti così, e perché. A questo discorso, Lydyard non poté aggiungere che un silenzioso amen. Mentre Tallentyre, con l'intenzione di trasportarlo il più presto possibile all'accampamento, prendeva lo sconosciuto per le spalle, il giovane si curvò ad afferrargli le gambe. In quel momento, affiorò d'improvviso alla superficie della sua coscienza quello che lottava per salire dalle profondità da quando aveva visto il ferito: fu come se dentro di lui si fosse aperto un nuovo occhio, che vedeva il mondo in modo molto diverso dai due che solitamente usava. Quello che vide, e che fu convinto di vedere davvero, per quanto tale persuasione potesse sembrare paradossale, fu che lo sconosciuto aveva di umano soltanto l'aspetto: sotto tali sembianze si celava la sua vera natura lupesca. — Che succede? — domandò Tallentyre, con voce tagliente, poiché il giovane non lo aveva aiutato a sollevare il ferito. Per un attimo, Lydyard fu sul punto di rivelare al proprio amico e tutore quello che aveva appena visto, ma subito rammentò quali fossero la sua mentalità e la sua intolleranza a proposito di certe affermazioni, e non volle irritarlo con un'ulteriore creazione della propria sensibilità inquinata dal veleno: — Scusa... Per un momento, la vertigine mi ha confuso. Adesso posso sollevare costui. Nel trasportare il ferito all'accampamento nella valle sottostante, però, Lydyard si sentì invadere dall'angoscioso timore che la vertigine e la confusione lo avrebbero perseguitato molto più a lungo che per un attimo soltanto, e che forse l'occhio simbolico che si era aperto in lui non si sarebbe richiuso tanto facilmente. Primo Interludio La Bussola della Ragione O abbiamo mangiato la radice folle, Che prende la ragione prigioniera? William Shakespeare, Macbeth, I, 3
1 La tradizione popolare inglese medievale è singolarmente priva di storie sui licantropi, perché i lupi erano stati sterminati in Inghilterra durante il regno dei monarchi anglosassoni, e dunque avevano cessato di suscitare il timore della popolazione. Questa mancanza di tradizione, tuttavia, è largamente compensata dal successivo sviluppo della ricca mitologia dei licantropi di Londra. Quasi tutti gli Inglesi incontrano questa superstizione particolare sotto le sembianze relativamente innocue di una filastrocca ammonitoria, i cui tre versi raccomandano ai bambini di guardarsi dall'uscire soli di notte, specie quando la luna è piena, altrimenti potrebbero cadere preda dei «licantropi della città di Londra». I più antichi riferimenti ai licantropi londinesi che mi è stato possibile individuare, si trovano in una ballata apparsa verso il 1672, e in un opuscolo pubblicato probabilmente dieci o dodici anni più tardi. Invece si possono trovare menzioni in abbondanza nelle ballate e negli opuscoli del tardo XVIII secolo, quando apparve per la prima volta la maggior parte delle storie più conosciute. [...] Ancora oggi vengono narrate numerose storie sui misfatti dei licantropi di Londra. Nella maggior parte di questi orridi racconti infantili, i licantropi londinesi sono particolarmente inclini a rapire i bambini smarriti o disubbidienti. Esistono, tuttavia, alcune storie rimarchevoli di natura più bizzarra. Due esempi di questo genere, appartenenti alla tradizione popolare, corrispondono allo schema comune delle storie in cui gli esseri umani hanno come amanti esseri magici, ma contengono una differenza interessante rispetto alle altre della medesima categoria. Le storie che narrano di un uomo normale sposato a una donna di bellezza soprannaturale, che alla fine si rivela essere un licantropo di Londra, sono le più ortodosse, e comprendono di solito una promessa fatta dal marito alla moglie, che alla fine viene rotta e conduce alla scoperta della vera natura di lei, nonché, naturalmente, alla sua distruzione; tuttavia esprimono anche la concezione secondo cui le donne licantropo cercano continuamente mariti fra le classi superiori della città, poiché le dimore dei ricchi possono diventare rifugi per branchi interi di licantropi, composti, a quanto pare, da un numero di individui che varia da alcuni a una dozzina.
Le storie sugli affari di cuore fra una femmina umana e un maschio licantropo sono più peculiari. Queste relazioni favolose, di solito, non includono il matrimonio e tendono ad assumere la forma della narrazione romantica di un amore sincero ma tragico, che non può essere consumato perché i maschi dei licantropi di Londra, a differenza delle femmine, sono incapaci di avere rapporti sessuali in forma umana a causa del fatto che l'insorgere della passione induce sempre la metamorfosi. La persistenza di questa mitologia in epoca moderna è ulteriormente attestata da un articolo apparso nel Times del 27 marzo 1833, in cui si riferisce che una folla inseguì un uomo per Fleet Street, fino a Gough Square, sostenendo che l'inseguito aveva assistito i licantropi di Londra e aveva rapito bambini affinché essi se ne nutrissero. L'articolo insiste sul fatto che se la folla lo avesse catturato, l'uomo sarebbe stato sicuramente linciato. Invece riuscì a far perdere le proprie tracce tornando verso Ludgate Circus: in conseguenza di ciò, gli inseguitori furono intralciati dalla folla radunata intorno a un suonatore di organetto. Nella sua opera London Labour and the London Poor (Il lavoro e i poveri a Londra), pubblicata per la prima volta nel 1851, Henry Mayhew fornisce ulteriori prove che la credenza nei licantropi di Londra non appartiene del tutto al passato. Egli riferisce dichiarazioni di sincero terrore da parte di non meno di quattro testimoni: una spazzina, un acchiappatopi, un artigiano e un fruttivendolo. L'acchiappatopi dichiarò di aver visto i licantropi in più di un'occasione, e confessò che, nonostante li temesse, si sentiva disposto a riconoscere un debito di gratitudine nei loro confronti, in quanto i topi erano diventati la loro preda abituale, «perché oggigiorno la carne umana si dimostra troppo difficile e troppo pericolosa da procurare regolarmente». L'artigiano, ancor più loquace sull'argomento, si disse persuaso che la polizia sapeva benissimo dell'esistenza dei licantropi, perché aveva il dovere di disfarsi delle loro vittime, ma non osava dare pubblicità al flagello per timore di aumentare l'allarme della popolazione. Inutile dire che la polizia metropolitana fornisce un resoconto del tutto diverso. Un investigatore con cui ho parlato di recente mi ha spiegato che gli assassini comuni mutilano talvolta le loro vittime per dare l'impressione che il crimine sia stato perpetrato dai licantropi di Londra, mentre i ladri e gli altri delinquenti contribuiscono a questo terrorismo primitivo per inti-
midire la popolazione superstiziosa, che di loro stessi è vittima. Come i bracconieri inventano e diffondono nelle campagne le storie sui cani neri fantasma per intimidire coloro che potrebbero sorprenderli nel loro lavoro notturno, così, secondo l'investigatore, i depravati appartenenti alla malavita londinese si sono presi la briga di inventare, o quantomeno di confermare, la leggenda dei licantropi urbani. È notevole, tuttavia, che non in tutte le storie i licantropi di Londra sono descritti come malvagi divoratori di bambini. Talvolta, nel tumulto dei racconti dell'orrore, si possono cogliere voci compassionevoli, le quali sostengono che, dopotutto, i licantropi sono prigionieri della loro natura perversa, e non possono essere interamente biasimati per le loro azioni. Una piccola parte di natura ferina è presente in ognuno di noi, secondo queste voci, e coloro che non vogliono ascoltare le parole di Gesù Cristo, nostro redentore, devono essere considerati poco migliori dei lupi, poiché sono condannati a trascorrere l'eternità nell'inferno della loro stessa rapacità. Sabine Baring-Gould, The Book of Werewolves (Il libro dei licantropi), 1865. 2 La discussione pro e contro la teoria darviniana dell'evoluzione è stata confusa dai fraintendimenti circa la natura fondamentale della teoria medesima, vale a dire quello che essa tenta realmente di dimostrare. Molti attacchi alle affermazioni del dottor Darwin non mirano alla sua tesi, bensì a una nozione più fondamentale, che deve essere accettata come premessa del lavoro teorico. È necessario distinguere due significati piuttosto diversi che vengono comunemente attribuiti alla definizione «teoria dell'evoluzione». Con i loro attacchi, i religiosi intendono negare che sia mai avvenuta qualunque evoluzione delle specie, mentre quello che il dottor Darwin ci offre realmente con il suo eccellente libro «Sull'origine delle specie mediante la selezione naturale», è una teoria di come è avvenuta l'evoluzione, e ciò implica necessariamente riconoscere che la teoria fondamentale è già stata dimostrata. Gli scienziati sono entusiasmati dall'opera del dottor Darwin perché essa offre una comprensione razionale dei meccanismi dell'evoluzione delle specie, e ci indirizza alla comprensione della vera storia della vita sulla
Terra. In genere, gli oppositori religiosi si sforzano di trasferire la disputa su un campo di battaglia diverso, sposando una causa che gli uomini di scienza considerano giustamente perduta da lungo tempo. È forse troppo presto per stabilire se le deduzioni del dottor Darwin sui meccanismi dell'evoluzione sono corrette o meno. L'ipotesi è senza dubbio brillante, ma il verdetto di «non dimostrazione» dovrà forse rimanere sino a quando sarà svelato il meccanismo chimico dell'ereditarietà: sino ad allora, ogni discussione sulle «variazioni» operate dalla selezione rimarrà necessariamente e irritantemente vaga. A proposito dell'argomento più fondamentale della realtà dell'evoluzione, tuttavia, il verdetto è al di là di ogni ragionevole dubbio. Di sicuro si è verificata un'evoluzione che ha prodotto, dalle più semplici, specie sempre più complesse, e nessun uomo intellettualmente onesto può ragionevolmente dubitare che tutte le forme di vita ora esistenti discendono da pochi antenati comuni. Allo scopo di dimostrare tutto ciò, è sufficiente riferirsi a due fenomeni. In primo luogo, è evidente che la diversità delle specie viventi mostra precise configurazioni di parentela, e questo basta a suggerire in maniera persuasiva lo svolgimento di uno schema nello sviluppo graduale e progressivo di nuovi tipi. In secondo luogo, nei fossili si conserva la storia sbalorditiva delle specie fallite, che sono esistite nel remoto passato, e poi si sono estinte. Ciò dimostra chiaramente che la diversità delle specie sopravvissute non è altro che una piccola frazione della diversità delle specie esistite un tempo. Confrontando queste prove, gli uomini intelligenti non avrebbero mai potuto dubitare che l'evoluzione delle specie fosse del tutto evidente, se l'esercizio dell'intelligenza non fosse stato disgraziatamente ottenebrato dalla convinzione che il mondo non fosse abbastanza antico da avere consentito un'evoluzione graduale. La storia scritta tramandata dall'età classica, filtrata, nell'Europa occidentale, dalle distruzioni barbariche delle epoche buie, ci narra soltanto quello che avvenne in poche centinaia di generazioni. Perciò, anche a causa della persuasione che certi testi fossero sacri, e dunque indubitabili, i nostri sfortunati progenitori furono indotti ad accettare la concezione secondo cui la storia scritta abbraccia l'intera storia della Terra e dell'universo, dalla creazione fino al giorno d'oggi. Ora sappiamo invece che questo è falso. Le scoperte di geologi come Hutton e Lyell hanno dimostrato oltre ogni ombra di dubbio che la Terra è di gran lunga più antica di quanto sostenga la storia scritta, e anche dell'umanità stessa. La decifrazione delle iscrizioni lasciate dagli Egizi, e una se-
rie di scavi archeologici in Europa, hanno consentito a studiosi come Lubbock di dimostrare che è esistita una lunga preistoria dell'umanità, durante la quale gli uomini vissero senza conoscere la scrittura, dipendendo interamente dai miti della tradizione orale per la comprensione delle loro origini e della loro esistenza. Le testimonianze scritte, che siano considerate sacre o meno, sono colpevoli di un'ambizione traditrice e del tutto vana allorché comprimono audacemente a poche dozzine di generazioni il periodo trascorso prima dell'invenzione della scrittura. L'umanità è di gran lunga più antica della scrittura, e la Terra è di gran lunga più antica dell'umanità. Il riconoscimento di questi due fatti rimuove la barriera che si erge fra gli uomini intelligenti e l'evidenza dell'evoluzione delle specie naturali. Una volta abbattuto questo idolo, gli uomini intellettualmente onesti non possono fare a meno di vedere con chiarezza che cosa implica in realtà l'apparentamento delle specie, sia esistenti che estinte. Naturalmente, esistono persone che si aggrappano con ostinazione alla sicurezza apparente della parola scritta, e che preferiscono di gran lunga discutere di com'è il mondo sulla base dell'autorità dei testi, anziché su quella delle prove empiriche. Per costoro, il Dio delle scritture è, come Egli stesso dichiara di essere, la divinità più vendicativa che si possa concepire, incapace di tollerare qualunque sfida alla propria supremazia. Questo Dio e i suoi seguaci non possono riconoscere nessuna autorità alle prove empiriche: devono sopraffarle con il peso di quella delle prove scritte. È questo il metodo di discussione che asserisce, mediante il pio signor Gosse, che i fossili, e tutte le altre prove dell'antichità della Terra, devono essere stati creati da Dio contemporaneamente a tutto il resto, più o meno nello stesso spirito che lo indusse a fornire ad Adamo e ad Eva ombelichi del tutto inutili. Questo modo di procedere non è semplicemente erroneo: è ridicolo. È tale da non poter essere adottato da nessun uomo razionale, perché nega recisamente il potere della ragione. E il punto di vista secondo cui le prove devono essere sottomesse all'autorità, è difficile da criticare proprio perché non ammette la critica stessa: e questa deve essere senza dubbio riconosciuta come una debolezza fatale, anziché come un prezioso vantaggio retorico. Gli uomini di scienza e gli uomini di religione che ultimamente hanno incrociato le lame a proposito dell'opera del dottor Darwin non ci stanno semplicemente offrendo diverse concezioni dell'uomo, bensì concezioni
molto diverse su come il mondo può essere compreso, e dunque sul genere di mondo con cui abbiamo a che fare. La scienza afferma che il mondo, almeno fino a un certo punto, è comprensibile come uno schema di cause e di effetti che opera nel corso del tempo, mentre la religione sostiene che esso è comprensibile soltanto in rapporto alle intenzioni e ai comandamenti di un Dio che agisce in modi misteriosi, e che lo schema di causa e di effetto è sempre suscettibile, in linea di principio, di essere interrotto dall'intervento divino. Quest'ultima concezione viene abbracciata, spesso senza riflettere, da molti nostri contemporanei, entusiasti delle nuove mode «filosofiche», i cui criteri sono presi a prestito dagli alchimisti, dai mistici e dai maghi dell'antichità. Se si dovesse prestare fede a questi maniaci, ci si dovrebbe convincere che l'Età dei Miracoli, un tempo dichiarata misericordiosamente defunta, è stata restaurata ingloriosamente nell'Inghilterra della regina Vittoria, in virtù delle macchinazioni meschine di innumerevoli medium, spiritisti, e altri occultisti disonesti della stessa risma. Coloro che sono affascinati da questo misticismo moderno, tuttavia, dovrebbero rendersi conto di quale genere di mondo sia quello a cui accordano la loro fiducia: un mondo d'incertezza disperata, in cui la causalità è vittima in eterno dei capricci di un fato ignoto e inconoscibile, e in cui ogni apparenza può essere una menzogna dalla quale non è possibile ricavare nessuna deduzione. È di vitale importanza, credo, riconoscere e ricordare sempre quanto siano diverse, in realtà, le basi su cui si fondano le convinzioni degli evoluzionisti e le credenze dei creazionisti. Questi ultimi non si limitano a negare che le prove dell'evoluzione siano adeguate: negano anche il significato stesso della parola «prova». I seguaci del metodo scientifico, invece, sono obbligati a riconoscere che qualunque cosa vi sia nel mondo, e qualunque cosa accada nel mondo, può e deve essere spiegata secondo la logica della causalità, perché soltanto se questo presupposto è vero il mondo stesso può essere comprensibile. E la ragione sta dalla parte del punto di vista scientifico, perché soltanto esso può essere giusto. Dobbiamo spiegare la diversità e la trasformazione come lo svolgimento della causalità, perché altrimenti esse risultano inspiegabili. Quando un religioso si riferisce a Dio come alla «causa prima», si può avere l'impressione che osservi le cose dalla medesima prospettiva dello scienziato. In realtà, però, egli nega tale prospettiva. La «creazione» non si può considerare una causa perché è la negazione della causalità: è l'asserzione che la concatenazione della causalità può essere, ed è stata, casual-
mente interrotta dall'esterno, e che sono stati in tal modo provocati alcuni mutamenti arbitrari, che non possiamo e che non abbiamo bisogno di spiegare. Ebbene, questa non può essere conoscenza, perché è il rifiuto di riconoscere la possibilità della conoscenza. Secondo gli oppositori del dottor Darwin, le prove fossili e tutte le scoperte della geologia e dell'archeologia sono mutamenti arbitrari nello schema delle cose, che non possiamo e non abbiamo bisogno di spiegare. Qualunque altro elemento che non concordi con il loro punto di vista verrà rifiutato nello stesso modo: così, la concezione della creazione consuma avidamente e liquida ogni tentativo di attribuire un senso a qualunque cosa. Gli uomini di scienza non possono sostenere, e non sostengono, che tutto può essere conosciuto, ma affermano che è possibile conoscere. I loro avversari, invece, si accontentano di asserire, da una parte, che tutto può essere conosciuto, tramite la rivelazione divina o l'intuizione magica, mentre, d'altra parte, negano che possa esistere qualcosa di simile a una prova veritiera o a una deduzione razionale. Dunque gli uomini di scienza vivono in un mondo imperfetto in cui il progresso è possibile, mentre i seguaci della superstizione devono vivere in un mondo in cui la fantasia è libera di formulare qualunque affermazione voglia, sia sul passato che sul futuro. Non posso parlare per gli altri, ma personalmente rimarrei molto deluso e amareggiato nel trovarmi in un mondo del secondo tipo, che ha un passato che può essere molto diverso da quanto suggeriscono le prove, e che può essere in qualunque istante distrutto in modo rude e definitivo mediante l'incurante intrusione di un atto di creazione. Se è così, allora il mondo, che sembra tanto solido e tanto ordinato, può acquistare in qualunque momento la sostanza e la logica di un sogno, e dissolversi altrettanto facilmente. Se questo è veramente il mondo in cui esistiamo, allora dobbiamo gridare davvero «Che Dio ci aiuti»! perché non può esistere nessun'altra possibilità di conforto. Per quanto mi riguarda, mi ritengo soddisfatto dal presupposto che si può confidare nelle prove, che le deduzioni sono possibili, e che tutte le forme di superstizione, di magia e di religione sono illusioni generate dalla codardia della mente. Sir Edward Tallentyre, «Riflessioni sulla controversia relativa alla teoria darviniana», The Quarterly Review, Giugno 1867. 3
Alexandria, 11 Marzo 1871 Mio caro Gilbert, sembra che presto saremo in grado di lasciare l'Egitto e di tornare a casa. Speriamo di partire all'inizio della prossima settimana per Gibilterra a bordo del piroscafo Excelsior. Le autorità di questo paese hanno deciso di trasformare la nostra tragedia in una farsa: ci permettono di partire semplicemente per lavarsi le mani dell'intera faccenda, disperati per la loro incapacità di affrontarne la complessità. Come ben sai, la burocrazia in generale non ama i misteri, e la burocrazia egiziana in particolare è molto fervida nel detestare i nostri. Quello che a noi appare come un singolo mistero, si compone, secondo la mentalità burocratica, nientemeno che di tre enigmi diversi, ognuno a suo modo fastidioso. L'enigma del povero William de Lancy rimane assolutamente imperscrutabile. Abbiamo tutti i suoi documenti e tutti i suoi bagagli, ma non abbiamo lui, né vivo né morto: è stato affatto impossibile ritrovarlo. Ho ancora qualche dubbio sul fatto che siano state effettuate sufficienti ricerche nel deserto a meridione di Qina, ma gli Egiziani sostengono di avere rastrellato l'intera zona senza nessun risultato. Ho ricevuto una risposta alla lettera che ho indirizzato alla sua famiglia, in cui il padre si mostra studiatamente cortese, ma anche, com'era prevedibile, piuttosto gelido. Mi assicura che non mi può essere assolutamente attribuito nessun biasimo, ma leggendo fra le sue righe vergate con calligrafia impeccabile intravedo questa opinione: poiché ero il più anziano del gruppo, e per giunta baronetto, il diritto divino mi aveva conferito l'autorità di comandare la disgraziata spedizione, e dunque mi aveva affidato la responsabilità di fare in modo che tutto si concludesse felicemente. Ebbene, anche se non credo affatto nel diritto divino, la mia coscienza simpatizza completamente con questa concezione della mia responsabilità. L'enigma di padre Francis Mallorn, che sulle prime sembrava triviale, ha suscitato a sua volta difficoltà inspiegabili. Tutti i vantaggi forniti agli scrupolosi contabili del destino umano dall'indubitabilità della sua morte, sono stati sfortunatamente cancellati dall'inadeguatezza dei suoi documenti. Abbiamo tutto quello che gli apparteneva, e i burocrati sono riusciti a scoprire alcuni dei luoghi in cui ha soggiornato durante la sua risalita del Nilo, ma i tentativi di seguire le tracce della sua esistenza più a ritroso nel tempo non hanno incontrato null'altro che confusione. Tutte le richieste,
sia alle autorità civili inglesi, sia a quelle della Compagnia di Gesù, non hanno prodotto alcun risultato. Della sua famiglia, dei suoi studi, del suo lavoro, nessuno è riuscito a scoprire alcunché. Seppure con riluttanza, gli investigatori hanno dovuto concludere che, se mai padre Mallorn è esistito prima che noi lo incontrassimo, allora portava un nome diverso. In ogni modo, nessuno sa spiegare perché abbia ritenuto di doverlo cambiare a nostro beneficio, o piuttosto a nostro svantaggio, com'è avvenuto in realtà. È difficile credere che un gesuita viaggi provvisto di documenti falsi, e debbo confessare che padre Mallorn mi è sembrato in tutto e per tutto quello che dichiarava di essere. Oltre ad essere riluttante a riconoscere di essermi lasciato turlupinare tanto facilmente, non riesco a capire perché, né a quale scopo, egli mi abbia ingannato. Per fortuna, il terzo elemento del nostro mistero, vale a dire il giovane che abbiamo trovato nel deserto, è diventato un po' meno misterioso. Una ricerca ci ha consentito di trovare nel deserto, non lontano da lui, alcuni suoi effetti personali, inclusi i documenti, che ci hanno permesso di identificarlo come un certo Paul Shepherd, di nazionalità inglese. Le descrizioni che abbiamo ottenuto da coloro che lo hanno incontrato mentre viaggiava, solo, risalendo il Nilo, ci hanno confermato che tale identificazione è corretta. Sembra evidente che è stato derubato da una banda di predoni, e che gli oggetti da noi rinvenuti sono stati abbandonati, come privi di valore, dai predoni medesimi. Possiamo soltanto concludere che sono stati costoro a denudarlo, a ferirlo e a lasciarlo per morto. Le poche prove rimaste non ci hanno però consentito di rintracciare i suoi parenti: Shepherd è un cognome abbastanza comune, purtroppo, e la sua unica peculiarità è un paio di occhi azzurri straordinariamente chiari. In ogni modo, è un gentiluomo, a giudicare dal fatto che le sue mani e i suoi piedi sono privi di calli e di cicatrici. Le ferite che presentava, anche se non sappiamo come furono inferte, erano tutt'altro che gravi. Così, benché abbia perso molto sangue, il signor Shepherd è guarito rapidamente e perfettamente. Nondimeno, non sta affatto bene: ha perduto completamente la ragione e la memoria, a tal punto che non riconosce il proprio nome e non è in grado di rispondere a nessuna delle nostre domande. Si sveglia soltanto per brevi periodi, di solito durante la notte, talvolta fino a tre o quattro volte fra il crepuscolo e l'alba: sule prime sembra energico, ma in meno di un'ora viene di nuovo sopraffatto dal torpore. Non parla, e anche se sono certo che sente, sembra incapace di comprendere l'Inglese, o qualunque altra lingua in cui ho tentato d'inter-
rogarlo. È in grado di mangiare da solo, ma non con le posate. Comunque, si lascia imboccare. Non oso chiederti un'opinione sulle condizioni del giovane signor Shepherd, giacché non hai avuto la possibilità di visitarlo, ma se sarai in grado di fornirmi qualche consiglio che possa aiutarmi ad aprire una breccia nel muro di silenzio che lo circonda, te ne sarò infinitamente grato. Ricordo che in passato mi accennasti di conoscere James Austen, che presta servizio alla clinica per malattie mentali della contea di Hanwell. Ebbene, mi faresti un grande favore chiedendogli se gli è mai capitato d'imbattersi in casi del genere, e, in tal caso, se ha mai ottenuto qualche successo nel curarli. Vorrei poterti fornire una descrizione più completa delle sue condizioni, ma lo sfortunato signor Shepherd manifesta una rimarchevole apatia. Non reagisce a nessuno stimolo. La sua curiosità sembra spenta, specialmente negli ambienti chiusi. Presta scarsissima attenzione a qualunque oggetto io gli mostri. Talvolta, rimane alla finestra a guardar fuori, nell'oscurità. Spesso l'ho condotto all'aperto per osservare le sue reazioni, ma anche se si gira di scatto quando ode un suono, non manifesta nessun desiderio d'azione e nessuna curiosità. In un certo senso, è isolato dal mondo. Le autorità egizie, ovviamente, sono ambivalenti nei confronti del povero Shepherd: sono riluttanti sia ad assumersene la responsabilità, sia ad affidarlo interamente alla mia tutela, affinché possa ricondurlo in Inghilterra. La loro ingerenza a questo proposito è l'ostacolo principale che ha ritardato la nostra partenza, ma ormai hanno deciso che, se proprio qualcuno deve provvedere al suo ulteriore mantenimento, è preferibile che siamo noi a farlo. Nel caso che il giovane Shepherd non migliorasse, sarei lieto se tu lo visitassi, al nostro ritorno in Inghilterra. Se lo reputerai desiderabile, potrei affidarlo alle cure di Austen. Non voglio certo che venga rinchiuso ad Hanwell come un poveraccio, però mi farebbe piacere se Austen lo visitasse nella mia casa di Londra, oppure, se preferisce, a Charnley. Nel frattempo, desidererei avere un'opinione su quale genere di choc potrebbe avere provocato in Shepherd quella che sembra essere una regressione allo stadio infantile dello sviluppo mentale. In particolare, vorrei sapere se, a quanto si sa, esistono droghe o veleni in grado di provocare una condizione simile a quella di Shepherd. Dopo avere esaminato il problema con la massima attenzione alla fredda luce della ragione, posso giungere soltanto a questa conclusione: l'allarmante
sequenza di eventi nella quale siamo rimasti coinvolti è stata causata da qualche narcotico molto potente. Il sogno in cui ho visto la creatura simile alla sfinge venire aggredita da un lupo, mi è sembrato talmente vivido e reale, che non può essere stato naturale. Ricordo di avere sparato due colpi con la doppietta, come ho verificato al risveglio, però il bersaglio può essere stato soltanto un fantasma della mia immaginazione. Non so come questa teoria possa spiegare le ferite di Shepherd, che apparentemente è stato aggredito a breve distanza dal luogo in cui David ha trovato me, tuttavia la mia più ardente speranza è che potrà spiegarcelo lui stesso, una volta riacquistata la sanità mentale. Non so spiegare come possa essermi stata somministrata deliberatamente una droga, ma se è così, può averlo fatto Mallorn, o forse de Lancy. Comunque, non ho trovato nulla, fra gli effetti personali di entrambi, che possa far pensare che uno o l'altro dei due fosse in possesso di una sostanza simile. Non so neppure, con certezza, se il delirio di David sia stato causato veramente dal veleno del serpente che lo ha morso, oppure dalla somministrazione di una droga, eppure sospetto che la seconda ipotesi sia quella giusta. Forse anche il misterioso allontanamento di de Lancy dall'accampamento si può spiegare con questa supposizione: anche lui era influenzato da un'allucinazione suscitata da una droga. Non si può escludere neppure che anche Mallorn sia da considerarsi una vittima. È possibile che il suo improvviso attacco di cuore sia stato provocato da un'illusione molto vivida, non dissimile da quella di cui sono stato vittima io. Non so dire come il giovane Shepherd rientri in questo schema, però sono certo che è così. Anche lui è una vittima, quindi sono sicuro che comprendi perché ti chiedo un parere professionale sulle possibili cause della sua condizione. Ho meditato molto sui motivi per cui Mallorn ci chiese di accompagnarlo in quel luogo desolato. Mi sembra improbabile che lo abbia fatto per pura malignità. Piuttosto, sono incline a credere che fosse spaventato, a quanto pare con ragione, e che abbia cercato compagni fidati, che gli rimanessero al fianco in caso di pericolo. Non posso credere che sapesse esattamente quello che sarebbe accaduto, nondimeno aveva motivo di temere qualcosa. Purtroppo, la nostra protezione si è dimostrata terribilmente inadeguata. Dopo questa vicenda, David ha badato, in maniera esasperante, ad evitare ogni discussione, ma credo che, segretamente, non concordi affatto con me su quasi tutti questi punti. Anche se mi conosce troppo bene per sotto-
pormi apertamente una spiegazione soprannaturale degli eventi, sono certo che è incline a credere che siamo stati aggrediti da spiriti malvagi che sono in grado di mutare forma, che infestano le tombe, e che sono ispirati dal demonio. È ancora riluttante a condividere la sua fede nella reale esistenza di Dio e del diavolo, ma sembra che sia assillato da quest'ultimo. In verità, non posso biasimarlo del tutto, perché io stesso, sul momento, mi sono quasi convinto della realtà di quello che mi stava succedendo. Nondimeno, sono preoccupato per lui, e non sono affatto certo su come sia preferibile procedere per riconquistarlo alla causa della razionalità. Quali che siano gli argomenti della ragione, e per quanto possano essere soddisfacenti, ognuno di noi ha in sé una fonte prolifica di paure superstiziose, le quali resuscitano ad ogni tramonto. In nessuno di noi, infatti, il dominio della razionalità è assoluto. A tempo debito, David si renderà conto che gli spiriti che ci ossessionano sono dentro di noi, e non fuori di noi, ma per il momento sono incline ad accordargli il conforto di credere che quello che ci ha aggrediti è rimasto nel deserto e non può più raggiungerci. Mentre dal punto di vista fisico si è perfettamente ripreso, il ragazzo non si è ancora liberato del tutto dagli effetti dell'avvelenamento: i suoi nervi sono ancora scossi, specialmente durante la notte. Sono deciso a trattarlo con la massima gentilezza possibile, perché non voglio che anche lui debba avere presto bisogno delle cure di un alienista. Anche se abbiamo ormai ottenuto il permesso di tornare in Inghilterra, così che fra non molto sarò del tutto libero di agire, vi sono alcune indagini preliminari che tu potresti svolgere per mio conto, sempre se sei disposto a farmi questo favore. Naturalmente sarei molto lieto se tu riuscissi a raccogliere alcune informazioni sulla vera identità o sulla vita di Mallorn, ma poiché altri stanno già svolgendo queste ricerche, sarebbe forse più utile se tu ti occupassi di altre questioni, a proposito delle quali le autorità non hanno dimostrato nessun interesse cospicuo. In primo luogo, ti sarei molto grato se tu pubblicassi sul Times un'inserzione per rintracciare i parenti di quel Paul Shepherd che di recente si è recato in viaggio in Egitto: la famiglia ha tutto il diritto di sapere che cosa è accaduto al povero giovane. Se vuoi, puoi raccontare la nostra storia ad un giornalista, affinché la pubblichi: qui, infatti, le voci si sono talmente diffuse che temo la possibilità che se ne occupi un giornale scandalistico. In secondo luogo, sono curioso di sapere chi visitò la nostra valle nascosta circa dieci anni fa, probabilmente nel 1861 o nel 1862, e che cosa vi trovò. Allorché si offrì di condurci in un luogo in cui avremmo potuto ap-
prendere qualcosa sulla «vera storia del mondo», Mallorn ci riferì di essere al corrente delle scoperte di un'altra spedizione: senza dubbio, ciò aveva suscitato la sua curiosità, e forse anche il suo timore. Ecco perché m'interessa scoprire che cosa sapeva esattamente. A questo proposito, ho pensato che i curatori della collezione di reperti egizi del British Museum potrebbero sapere qualcosa di questa precedente spedizione, nonché essere in possesso delle relazioni eventualmente pubblicate da coloro che vi parteciparono. Se ti è possibile, consulta Samuel Birch: possiede una conoscenza enciclopedica in questo campo. In terzo luogo, mi chiedo se tu possa scoprire qualcosa a proposito di uno strano anello che David ha trovato fra gli effetti personali di Mallorn, insieme al rosario e ad altri oggetti religiosi. Secondo le autorità egiziane, si tratta di un gingillo, mentre un gesuita ci ha spiegato che non ha nulla a che vedere con il suo ordine religioso. Ecco i motivi per cui mi sono chiesto come mai Mallorn ne fosse in possesso. Si tratta di un anello con la faccia rettangolare, su cui è inciso un monogramma che sembra composto di tre lettere: A, O ed S. È possibile che queste siano le iniziali del vero nome di Mallorn? Oppure sono la sigla di una società alla quale egli apparteneva? Ti prego di non impegnarti troppo nel condurre queste tre ricerche. Se il lavoro ti renderà difficoltoso compierle, lascia che la seconda e la terza attendano il mio ritorno. Poiché abbiamo scelto un itinerario più lungo ma più comodo, dovresti essere in grado di farci pervenire una risposta mentre siamo ancora en route: forse riuscirai ad inviare una lettera fermo posta a Gibilterra. Nel frattempo rimango, come sempre, il tuo amico devoto, Edward. 4 Londra, 21 Marzo 1872 Mio caro Edward, ho compiuto alcuni piccoli progressi nelle ricerche che mi hai chiesto d'intraprendere, perciò ho pensato bene di scriverti subito, in modo che le mie notizie ti giungano prima che tu riparta da Gibilterra. Vorrei poter dire che quello che ho scoperto finora ha chiarito la faccen-
da, ma purtroppo non è così: anzi, temo che le informazioni in cui mi sono imbattuto possano soltanto ampliare la ragnatela di mistero e di sconcerto che la circonda. Mi auguro di poter scoprire qualcosa di più fra due giorni, dopo aver avuto l'opportunità di fare visita a colui il cui nome è risaltato in seguito alle mie indagini. Ma sto anticipando, mentre devo esporti gli eventi con ordine. Dopo aver pubblicato sul Times l'inserzione da te richiesta, mi sono affrettato a mostrare la tua lettera a James Austen, a Charnley Hall, nel caso che potesse fornire qualche consiglio riguardo al tuo sfortunato giovane. Con mia sorpresa, Austen ha detto subito che il nome di Paul Shepherd gli era noto, ma dopo aver letto il resto della missiva, ha confessato di essere tanto intrigato quanto completamente disorientato dal tuo resoconto. Per liquidare l'aspetto medico della faccenda, ti dico subito che Austen sostiene di non avere mai incontrato un caso simile a quello da te descritto, anche se certi suoi aspetti non gli sono del tutto sconosciuti. Oltre a non conoscere nessuna droga in grado d'indurre un tale stato mentale, giudica improbabile che esista un narcotico capace di provocare una gamma tanto vasta di effetti come quella di cui tu e i tuoi compagni siete stati vittime. Tuttavia, è consapevole dei rapidi progressi che sta compiendo la medicina nella scoperta e nella produzione di nuove sostanze, dunque non se la sente di escludere categoricamente che possa esistere un oppiaceo o un allucinogeno in grado di produrre tale effetti. Quanto a Paul Shepherd, dichiara di avere incontrato alcune volte un giovane che portava lo stesso nome, all'inizio degli anni sessanta. Costui corrisponde esattamente alla tua descrizione, forse troppo esattamente, come sottolinea Austen: quando questi lo conobbe, dimostrava all'incirca venticinque anni. Se il tuo Paul Shepherd è la stessa persona, dunque, dovrebbe sembrare più vecchio di una decina d'anni. D'altronde, abbiamo a che fare con qualcosa di più di una mera coincidenza di nome. Austen ha notato il brano della lettera in cui riferisci che il misterioso padre Mallorn si offrì di mostrarti qualcosa della «vera storia del mondo». Riconosce che questa espressione può essere ragionevolmente considerata una frase fatta, e che si potrebbe tranquillamente riferirla alle meravigliose scoperte di Lepsius e di altri sulla reale antichità della civiltà egizia, ma aggiunge che, per lui, essa non può fare a meno di assumere una connotazione diversa, specialmente in connessione al nome di Paul Shepherd. Talvolta, Austen accoglie a Charnley Hall alcuni pazienti come «ospiti», e di solito, anche se non sempre, si tratta di nobili che i parenti sono ansio-
si di affidare a cure esperte, ma che non possono permettersi di ricoverare in una clinica pubblica. Circa dieci anni fa, accolse un uomo che manifestava una sindrome notevolissima, il quale si presentò come «Adam Clay», anche se Austen finì per credere che questo fosse soltanto uno pseudonimo scelto ad arte. Il paziente dichiarò infatti di avere usato un altro pseudonimo, «Lucian de Terre», con cui un tempo aveva firmato un'opera di cui si dichiarava autore, intitolata La vera storia del mondo. Il presunto Adam Clay narrò di essere vissuto in Francia prima della rivoluzione del 1789, e in seguito ancora per parecchi anni, benché tutto ciò fosse smentito dal fatto che evidentemente non aveva più di cinquant'anni. Sulle prime, Austen credette che la convinzione di avere scritto quel libro fosse soltanto un elemento della fantasia del paziente di avere vissuto nella Francia prerivoluzionaria. Alla fine, però, trovò conferma dell'esistenza dell'opera, e si prese persino la briga di sfogliare il primo dei suoi quattro volumi, custoditi al British Museum. Scoprì così che si trattava di una storia straordinariamente assurda, quantunque non priva di un certo fascino. Giacché La vera storia del mondo fu pubblicata nel 1789, sembrava impossibile che il paziente di Charnley Hall ne fosse davvero l'autore. Alla morte, nel 1863, Clay non dimostrava più di una cinquantina d'anni, come ho già detto: sicuramente, non era un ultranovantenne. Nondimeno, Austen dichiara che appariva perfettamente convinto di essere l'autore dell'opera, nonché di essere molto più vecchio di quanto sembrasse: in realtà, dichiarò in più di un'occasione di essere immortale, anche se la morte dissolse infine questa sua illusione. Austen ha potuto concludere soltanto che il suo paziente venne in possesso di una copia del libro all'epoca in cui iniziò a soffrire di disturbi mentali, e che costruì una fantasia molto complessa intorno alla storia che vi aveva letto, assumendo la personalità, immaginaria, dell'autore. Negli argomenti che non avevano nulla a che fare con questa fantasia, Clay non sembrava affatto pazzo: il fatto che acconsentì a sottoporsi alle cure di Austen implica che forse era segretamente consapevole di essere malato. Tuttavia, non si lasciò mai persuadere ad abbandonare la sua identità fittizia. Austen mi ha detto di essersi affezionato molto alle lunghe discussioni con il paziente, che assumevano la forma di dispute amichevoli, in cui egli cercava di convincere Clay a rinunciare alla finzione, mentre Clay cercava, non senza una certa intelligenza, di convincere lui che il contenuto fantastico della Vera storia del mondo era davvero la storia autentica del mondo, di cui egli stesso Clay era a conoscenza perché l'aveva
vissuta dall'inizio alla fine. Il motivo per cui mi sono preso la briga di riferire tutto ciò, è che durante la sua degenza a Charnley Hall, Adam Clay ricevette visite da una sola persona: un giovane biondo, dagli occhi azzurrissimi, il cui nome era Paul Shepherd. Come ricorda Austen, era un giovane cordiale e cortese, ma resistette a tutti i tentativi di ottenere informazioni sul conto di Clay: dichiarò di non avere il diritto di rivelare nulla che lo stesso Clay non volesse dire, e non volle confermare né negare di credere che questi fosse pazzo. Allo stesso modo, Clay rifiutò di fornire informazioni su Shepherd, anche se Austen ha aggiunto, in modo piuttosto criptico, di essere riuscito ad ottenere, mediante deduzione, alcune conclusioni su dove e come Shepherd entrava a far parte della fantastica concezione della storia del mondo di Clay. Quando gli ho chiesto se fosse disposto ad incontrarti, al tuo ritorno in Inghilterra, per discutere ulteriormente la faccenda, Austen ha risposto che sarà lieto di aiutarti. Per ottenere le altre informazioni che mi hai chiesto, mi sono recato il giorno successivo al British Museum, dove, come mi hai suggerito, ho chiesto del signor Birch, al quale ho domandato che cosa sapesse delle spedizioni effettuate nella regione in cui si trova la tua valle nascosta. Sebbene molto sorpreso da tale domanda, ha acconsentito a rivelarmi quel poco che sapeva, dopo che gli ho spiegato che sto indagando per conto tuo e gli ho raccontato, in sintesi, quello che ti è successo. La regione che hai visitato insieme ai tuoi compagni non è considerata di grande interesse, secondo Birch, il quale, però, sa che circa dieci anni fa fu compiuta una spedizione nel deserto ad oriente di Wadi Halfa. Essa non fu organizzata da egittologi rispettabili, bensì da uno di quegli individui che Birch definisce letteralmente «piramidioti» ed «egittomaniaci», vale a dire coloro che sono decisi a perpetuare l'assurda concezione dell'antico Egitto, secondo la quale le opere d'arte sono simboli mistici e i geroglifici sono trattati di magia ermetica. Mi è parso evidente che Birch disprezza tanto il personaggio in questione da vergognarsi persino di parlarne. Quando me ne ha fatto il nome, non sono più rimasto sorpreso da tale atteggiamento, perché si tratta di Jacob Harkender. Suppongo che tu abbia già sentito parlare di Harkender, ma in caso contrario eccoti una sua breve descrizione. È una sorta di erudito, e probabilmente si definirebbe un occultista. Credo che Bulwer-Lytton lo conosca. Non è uno di quei personaggi che si potrebbero definire «occultisti alla moda», la cui specialità consiste nello sbalordire con assurdità esoteriche i
partecipanti ai banchetti e alle sedute spiritiche, nondimeno pretende di avere grandi conoscenze nel campo dell'occulto e della magia. Non so se esistano davvero in Gran Bretagna società segrete dedite alla conservazione e allo sfruttamento della presunta tradizione arcana, ma se esistono, sono certo che Harkender si gloria di essere un depositario dei suoi più potenti segreti. Vive non lontano da Medmenham, e più di una volta ho sentito abbinare il suo nome a quello di Dashwood, ossia quel Dashwood che una volta si autoproclamò presidente del cosiddetto Circolo del Fuoco Infernale. So che consideri il Circolo del Fuoco Infernale e le sue imitazioni moderne null'altro che sciocchezze di giovani dandy, meramente intenzionati ad insaporire con un pizzico di presunta affiliazione satanica la dissolutezza più infima. Conosco anche il tuo assoluto disprezzo nei confronti degli evocatori di spiriti, dei medium e dei mistici assortiti che seducono la società londinese da una decina d'anni. Sai bene che condivido completamente il tuo punto di vista, ma devo confessare che se Harkender è un millantatore, è almeno un millantatore estremamente risoluto e agguerrito. Ha viaggiato molto sia in India che in Egitto, e ha visitato luoghi in cui pochi altri Bianchi si sono mai recati. Anche se un uomo come Samuel Birch non esita a definirlo un ciarlatano, alcuni studiosi rispettabili riconoscono che ha dedicato risorse considerevoli alle ricerche nei paesi lontani. Non intendo insistere a questo proposito, tranne che per una coincidenza molto curiosa che ho scoperto quasi per caso. Prima di lasciare il British Museum, ho pensato, per puro capriccio, di recarmi nella sala di lettura, dove ho chiesto l'opera di cui mi aveva parlato Austen, e di cui proprio là avevo visto un volume alcuni anni prima. Ho parlato al giovane Gosse, il cui padre ha criticato la tua vigorosa difesa della teoria darviniana e i conseguenti attacchi agli uomini di religione, e lui, che, devo dire, non è molto simile al padre, è andato a cercarmi il libro. Quasi subito, però, è tornato a riferirmi che mancava. Come puoi immaginare, ciò ha causato una certa inquietudine fra i suoi superiori, perché nulla piace meno ai responsabili della biblioteca che smarrire un libro: in questo caso, per giunta, erano scomparsi tutti e quattro i volumi dell'opera. Gosse ha ricevuto l'ordine di consultare l'archivio, per verificare quando fosse stato chiesto il libro per l'ultima volta, e ha scoperto che ciò era avvenuto cinque anni prima, da parte nientemeno che di... Jacob Harkender! Non so proprio suggerire che cosa possa significare tutto questo. Sono deciso a far visita al signor Harkender per domandargli se può gettare una
luce di qualsiasi genere sulla tua strana esperienza, ma dubito che vorrà o potrà fornirmi qualche risposta ragionevole. È possibile, suppongo, che sfrutti la tua storia come un'opportunità per creare misteri, e forse il tuo coinvolgimento lo divertirà più di quanto ti faccia piacere. Purtroppo, stanno già cominciando a circolare voci sulla tua avventura, presumibilmente in conseguenza degli accertamenti compiuti dalle autorità egiziane, perciò è del tutto inutile che io tenti di mantenere il segreto. Credo che convenga interpellare schiettamente Harkender, nella speranza che si comporti con altrettanta sincerità e che acconsenta a rivelarmi perché effettuò una spedizione proprio in quel deserto, e che cosa trovò. Temo di non avere altro da aggiungere, a questo punto. Ho interrogato varie persone a proposito del monogramma sull'anello, incluso Birch, ma nessuno lo ha riconosciuto. Sospetto che il suo significato sia puramente personale, nel qual caso non si può apprendere nulla da esso. Dirò ad Harkender, quando lo vedrò, che sei stato condotto sul luogo della sua spedizione da un gesuita. Resta però da vedere se le notizie che gli porterò avranno qualche significato per lui. Infine, aspetto il tuo ritorno su queste sponde: allora potremo finalmente riunirci a discutere tutti quanti, incluso Austen, e organizzare un tentativo per arrivare al fondo di questo sconcertante problema. È un enigma davvero peculiare, ma confido che alla fine il concorso dei nostri intelletti riuscirà a trovare una spiegazione soddisfacente. Ti scriverò ancora dopo avere incontrato Harkender, nella speranza che la potenza miracolosa del vapore consenta alla mia lettera di raggiungerti prima che tu parta per tornare a casa. Ti prego di trasmettere a David i miei migliori saluti, e i miei auguri per una guarigione rapida e totale dalla malattia. Cordialmente tuo, Gilbert. Parte Seconda Rivelazioni dell'Occhio Interiore Guardati dai giorni dell'anno, ragazzo, In cui la luna ha il viso come una corona d'argento: Apriti il passo, se puoi, fino alla casa del tuo clan, E nasconditi dai licantropi della città di Londra.
Guardati dai portici e dai vicoli, ragazza, Dove cammina l'uomo ammantato di bruno: Anche se sei abbandonata, non cadere nell'agguato Dei bramosi licantropi della città di Londra. Guardati dalle notti stellate, bambino mio, E dalla bella dama nella veste liscia e bianca: Anche se sei abbandonato, non lasciarti sedurre Dagli affascinanti licantropi della città di Londra. Filastrocca tradizionale. 1 Quando fu al sicuro in cima al muro, a cavalcioni, con le gambe penzoloni, Gabriel Gill si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. Aveva finalmente tutto il tempo di guardare attorno in atteggiamento maestoso e pacato. E così fece, con adeguata fierezza. Dall'alto, spaziò con la vista sulla strada e sui campi all'esterno del muro, nonché sul parco all'interno. In passato, era sempre stato molto incuriosito dai dintorni, ma nelle ultime settimane la sua curiosità era tanto aumentata, che ormai erano le lontananze ad entusiasmarlo. Non era più il fanciullo di un tempo. Si accorse che un ragno gli si avvicinava lentamente lungo il muro, gli ordinò silenziosamente di andarsene, e non rimase minimamente sorpreso quando esso obbedì. Questo uso del potere era minimo, tuttavia era rivelatore. A tempo debito, sicuramente, avrebbe accresciuto il proprio potere, estendendo il proprio dominio alle api e ai pipistrelli, ai topi e ai ratti, agli uccelli e ai gatti, e infine... alle creature meramente umane. Un tempo, lui stesso era stato meramente umano, ma ormai non lo era più. Ormai era posseduto dal Demonio. Anche se non gli era stato facile giungere a tale conclusione, alla fine non aveva più potuto avere dubbi. Forse non era Satana in persona a dimorare in lui, naturalmente, bensì soltanto un demone inferiore. Non sapeva esattamente quali fossero le usuali implicazioni della possessione diabolica. Sorella Clare, benché fosse evidentemente affascinata da quell'argo-
mento, che spiccava nelle sue prediche sui pericoli della tentazione, tendeva ad essere vaga a proposito dei dettagli. Dunque colui che era venuto a dimorare in lui poteva benissimo essere un demone inferiore, scelto fra l'orda degli angeli che erano caduti insieme a Satana, anziché quest'ultimo in persona. Gabriel non era in grado di stabilirlo. Si osservò la mano, accorgendosi che sanguinava. Soffriva un po', ma il dolore di piccole ferite come quella non gli sembrava più così spiacevole come un tempo, anzi, si accompagnava a una sensazione stranamente gradevole di leggerezza, che lo induceva a pensare che forse avrebbe scoperto anche il modo di volare, se soltanto si fosse ferito abbastanza gravemente. Sognava spesso di volare, e bramava di diventare maestro in quest'arte. Sapeva che era possibile perché aveva visto sorella Teresa fluttuare a mezz'aria. Naturalmente, ella era assistita da un angelo più potente, ma egli aveva la nettissima impressione che, qualunque cosa potessero fare gli angeli per lei, il suo demone, un giorno, avrebbe potuto fare altrettanto per lui. Si era scorticato e tagliato la mano nell'arrampicarsi sull'antico muro di mattoni che cingeva Hudlestone Manor e il parco. Si era aggrappato saldamente all'edera che lo ammantava, ansimando di paura ogni volta che una radice si era staccata a causa del suo peso. Deciso ad arrivare in cima, aveva continuato ad arrampicarsi benché il cemento fra i mattoni fosse friabile e l'aderenza dell'edera non fosse sempre salda. Al suo demone piaceva che lui si arrampicasse, o che vagasse per il parco durante la notte, giacché entrambe queste attività erano proibite. Probabilmente era stata proprio la sua passione per le cose proibite che aveva consentito al demone di prendere possesso della sua anima. Le suore lo avevano lealmente avvertito di ciò: lui non le aveva ascoltate, e ormai era troppo tardi. Quando si era reso conto di quello che era successo, si era molto spaventato, poi, col tempo, aveva imparato ad accettarlo. Gli piaceva custodire segreti, e quello era il più grande segreto che si potesse immaginare. Dopotutto, un demone capace di aggiungere il piacere al dolore poteva essere un amico prezioso, in un mondo traboccante di sofferenze. Circa sei settimane prima, vale a dire poco prima del suo nono compleanno, Gabriel si era arrampicato per la prima volta sul muro, esortato dal suo amico Jesse Peat. Allora gli era sembrata la più grande impresa della sua vita, non tanto perché si era trattato di uno dei numerosi, piccoli riti di passaggio celebrati dai trovatelli che vivevano ad Hudlestone Lodge,
quanto perché gli aveva consentito di ammirare per la prima volta il mondo vasto che si stendeva oltre il muro di cinta. In quel momento, soltanto quaranta giorni dopo, sentiva di essere molto cambiato, anche se non riusciva a precisare il momento in cui il mutamento era avvenuto. Quando tentava, riusciva a ricordare soltanto un attimo remoto di rivelazione, che poteva o non poteva avere qualcosa a che fare con la sua condizione attuale. Quel primo momento sfolgorante di illuminazione lo aveva colto l'autunno precedente, quando era uscito dalla Lodge per andare con i suoi compagni alla Manor per le preghiere mattutine, e aveva scoperto che la rugiada era straordinariamente abbondante, raccolta su migliaia e migliaia di tele di ragno. D'improvviso, osservando le ragnatele drappeggiate come festoni sui cespugli e sull'erba, si era reso conto che erano sempre state lì, presenti, ma invisibili, tanto erano fini e delicate. Così aveva compreso, vagamente, che le apparenze che il mondo presentava all'occhio umano erano essenzialmente ingannevoli. Aveva capito allora che i ragni, i quali, in precedenza, gli erano sempre sembrati pochi e privi d'importanza, formavano una legione invisibile tutt'intorno a lui. Memore di quell'istante, Gabriel pensò che forse il demone era già entrato in lui, allora, e forse era già silenziosamente in agguato come un ragno nascosto, e gli aveva inviato una rivelazione che lui, ingenuamente, aveva scambiato per una propria comprensione. Forse le manifestazioni più recenti della presenza e dell'intelligenza del demone non erano state affatto la fase iniziale, ma semplicemente quella conclusiva di una possessione che era incominciata prima che lui fosse consapevole della propria esistenza, prima che avesse scoperto di essere un trovatello ospitato nella proprietà di Hudlestone Manor. Non gli sembrava che questi interrogativi, a cui era impossibile rispondere, avessero molta importanza. Pensava che contasse molto di più una domanda del tutto diversa: avrebbe potuto fuggire dalla Manor prima che le suore scoprissero la verità su di lui? La fuga era uno degli argomenti di conversazione preferiti dai fanciulli della Lodge, almeno fra i maschi. Jesse Peat ne parlava in continuazione. Talvolta alcuni fanciulli scappavano davvero, di solito dopo essere stati picchiati un po' più severamente del solito, però venivano sempre ripresi perché non sapevano dove andare. Tuttavia, Gabriel aveva ogni motivo di credere di poter diventare l'eccezione alla regola, perché aveva la guida di un demone, e alcuni amici che gli avevano già offerto aiuto. Morwenna gli
aveva confidato di sapere che cosa fosse veramente, e gli aveva assicurato che sarebbe stata felice di condurlo via, in modo che potesse vivere con altri della sua stessa specie. Non aveva capito esattamente che cosa ella avesse inteso dire, perché non sapeva a quale specie apparteneva, a meno che ella non si riferisse ad altre persone possedute dai demoni. Comunque era chiaro che lei aveva capito che lui non era come gli altri fanciulli: soltanto per questo era disposto ad avere fiducia in lei. Inoltre, Morwenna gli parlava sempre gentilmente, e gli sorrideva spesso, perciò era diversa sia dalla signora Capthorn e da suo figlio Luke, sia dalle suore taciturne di Santa Syncletica. Felice di non essere più tanto turbato dal dolore, Gabriel si leccò le gocce di sangue dalle escoriazioni alla mano destra e al polso. La sopportazione del dolore poteva essere un vantaggio e poteva diventare un segno di distinzione. Nella sua comunità, i segni di distinzione erano importanti. I maschi non dovevano curarsi del sangue, del dolore, delle ferite. Prima che il demone lo possedesse, egli aveva mantenuto questa apparenza con una certa difficoltà, ma ormai ciò gli era facile. Non viveva più nella paura del giorno in cui avrebbe dovuto affrontare la più severa prova di sopportazione, che i suoi amici avevano già dovuto sopportare. Infatti, lui non era mai stato picchiato né da Luke Capthorn, né da una suora. Aveva visto quali terribili sforzi avevano dovuto compiere Jesse e gli altri per non piangere durante le punizioni, perciò aveva avuto la certezza, in passato, che non sarebbe mai riuscito ad uguagliarli. Ormai, però, sapeva di aver poco da temere, almeno finché il demone fosse rimasto dentro di lui. Non sapeva perché non lo avessero mai picchiato. Il fatto che non lo avesse mai meritato non era una spiegazione sufficiente, perché molti altri erano stati puniti immeritatamente. E ciò era tanto più sconcertante, in quanto egli era perfettamente consapevole di essere detestato dalla signora Capthorn e da Luke, nonché di essere del tutto indifferente alle suore, che pure fingevano di essere persone sante, incapaci di odio. Nonostante tutti i suoi sforzi, non riusciva a conquistarsi l'affetto degli altri fanciulli, che pure si dimostravano talvolta solidali l'uno con l'altro. Inoltre, sapeva benissimo che l'amicizia e la tolleranza che Jesse Peat gli aveva mostrato in alcune occasioni non erano affatto basate su sentimenti sinceri. Consapevole di non essere brutto, né cattivo di carattere, non era mai riuscito a spiegarsi la propria impopolarità, ma almeno aveva imparato a celare la propria pena. Comunque, si chiese se gli altri, in qualche modo, avessero sempre istin-
tivamente saputo che lui non era come loro, bensì diverso: posseduto da un demone. Il sapore del sangue non era del tutto spiacevole, anzi, era piuttosto inebriante. Forse il demone era deciso ad insegnargli l'amore del vizio, per opporsi all'amore della virtù che le suore si sforzavano tanto accanitamente di impartirgli. Forse la prima lezione del demone avrebbe mirato proprio ad insegnargli ad amare i tagli e le percosse, proprio come la principale lezione delle suore mirava ad insegnare ai trovatelli a temere le suore medesime. Alzò lo sguardo e, nel tentativo di togliersi il demone dalla mente, scrutò il mondo oltre il muro. Quando gli era stato concesso per la prima volta di vedere il vasto mondo, Gabriel era rimasto molto deluso nel non trovarlo più meraviglioso di quanto fosse. Lo aveva osservato, trovandovi tutte le meraviglie che aveva previsto, ed era rimasto piuttosto deluso proprio per il fatto che il mondo reale non superava in alcun modo i suoi sogni. Ogni volta che era ritornato in cima al muro si era sentito straziare dal desiderio struggente di trovare qualcosa di nuovo e di entusiasmante, senza mai scoprire nulla. Soltanto il suo occhio interiore demoniaco poteva mostrargli i portenti. In precedenza, non si era mai arrampicato sul muro in quel tratto, eppure non vedeva nulla che non avesse già visto prima. Lontano, alla sua destra, si scorgevano le case della periferia di Greenford. Nella direzione opposta erano visibili a malapena i tetti di Perivale. Il canale, che Jesse gli aveva indicato da un altro punto di osservazione, non era visibile da lì. Gabriel non se ne curava, ma sapeva che a Jesse sarebbe dispiaciuto, perché Jesse, che era stato condotto all'istituto da un battelliere, credeva che la sua vera casa fosse una chiatta. Le sue fantasie di fuga non includevano mai la strada o la ferrovia, ma soltanto il canale: sull'acqua intendeva recarsi a Londra; sull'acqua si aspettava di trovare il proprio destino. Si era vantato di scavalcare spesso il muro e di recarsi al canale per fare amicizia con i battellieri, e Gabriel credeva che lo avesse fatto davvero almeno un paio di volte, perché due volte Luke Capthorn lo aveva picchiato per avere sconfinato. Sul versante del colle dirimpetto al muro era situato l'unico fabbricato abbastanza vicino da poter essere osservato nei dettagli: una villa il cui parco era cinto da un alto muro. Jesse aveva spiegato a Gabriel che si trattava della clinica Charnley Hall: — Un posto per matti — aveva commen-
tato, laconico. — Il figlio di Baker ha detto che li sente strillare, a volte: soprattutto quando la luna è piena. Dice che ululano come lupi e fanno sferragliare le catene. Io, però, non li ho mai sentiti. C'è un posto per matti ancora più grande ad Hanwell, dove ce ne sono centinaia, incatenati. Il figlio di Baker dice che alcuni di noi sono nati là, ma non sa chi. Credo che sia un bugiardo. Poiché aveva sentito sorella Clare raccontare come Gesù scacciava i demoni da coloro che soffrivano di pazzia, Gabriel non poté fare a meno di chiedersi se non potesse essere proprio lui uno dei trovatelli nati in manicomio, e se non gli venisse da tale retaggio il nucleo della sua recente possessione. Siccome queste meditazioni non gli piacevano affatto, le bandì dalla mente, lasciando vagare lo sguardo sul panorama che gli si stendeva attorno. I tetti della Manor e della Lodge erano visibili, ma le finestre da cui lui avrebbe potuto essere scoperto erano pochissime, perché il fogliame lo nascondeva quasi a tutte, e questo era un bene, giacché era proibito arrampicarsi sul muro. Nessuno glielo aveva mai detto chiaro e tondo, ma sapeva da molto tempo, per esperienza, che tutto quello che non gli veniva imposto era molto probabilmente proibito. Vivere secondo queste regole non era tanto arduo quanto poteva sembrare. Nella Lodge, dove abitavano i trovatelli, le regole erano sostanzialmente poche: in realtà, i Capthorn esigevano soltanto che i fanciulli loro affidati tacessero e non dessero noie. La capacità di sopravvivere, alla Lodge, stava tutta nell'arte umile e paziente di non farsi notare. Invece, farsi notare significava rendersi colpevoli di «preoccupare», e ai Capthorn non piaceva «preoccuparsi». Anche se i Capthorn non avevano simpatia per lui, Gabriel era diventato un «bravo ragazzo» perché dava poche preoccupazioni. Non era altrettanto facile trattare con le suore che vivevano nella Manor, giacché esse avevano un senso molto spiccato del rispetto formale della legge. Si preoccupavano soprattutto dell'istruzione dei trovatelli, mediante il catechismo e tutto l'indottrinamento ulteriore che le loro giovani menti erano in grado di accogliere, quindi erano molto più esigenti. Anche nel convento, però, Gabriel era considerato un bravo ragazzo, nonché insolitamente intelligente. Naturalmente la sua coltivazione dell'arte della bontà era motivata molto più dal terrore delle possibili conseguenze che da un genuino desiderio di compiacere, anche se le suore non sembravano badarvi. Esse amavano instillare nei fanciulli quello che consideravano un sanissimo terrore della
severità di Dio. In verità, Gabriel considerava Dio molto lontano dal regno della quotidianità: era terrorizzato piuttosto dalle suore, dalle loro pretese feroci, dalle loro imposizioni inflessibili, dalle loro smaniose preoccupazioni per la sua anima. Dal suo punto di osservazione, Gabriel non vedeva nulla dell'orto in cui i trovatelli più grandi dovevano lavorare di quando in quando sotto la supervisione delle suore, zappando il suolo o raccogliendo ortaggi, a seconda delle stagioni. La zona che egli poteva osservare era dominata da una wilderness in cui le more e i biancospini rivaleggiavano spietatamente con le ortiche e con le erbacce. D'improvviso, Gabriel trasalì, vedendo avanzare fra gli arbusti spinosi una suora che gli parve sorella Clare, oppure la badessa. Si rilassò un poco soltanto quando riconobbe sorella Teresa, la quale non insegnava. Per questo gli altri trovatelli ignoravano probabilmente la sua esistenza. Negli ultimi tempi, però, Gabriel non aveva potuto fare a meno di accorgersi di lei. Da quando la vista demoniaca si era sviluppata in lui, mostrandogli cose che i fanciulli, e forse anche tutti gli adulti, non vedevano, l'anima di sorella Teresa era diventata un faro perverso in un mare di confusione. Gabriel conosceva sorella Teresa non esteriormente, bensì interiormente: sapeva sia che cos'era, sia che cosa sperava e che cosa voleva diventare. Inoltre, sapeva che cosa stava facendo in quel momento, anche se ella gli mostrava la schiena: sorella Teresa stava raccogliendo spine, con l'intenzione di farne una corona. Naturalmente, sorella Teresa si pungeva le mani, e sanguinava, come aveva sanguinato Gabriel. Come lui, non era più turbata dal dolore, anzi, si preparava ad accoglierlo. Oltre che affascinato, Gabriel era spaventato da sorella Teresa, perché nutriva il terribile sospetto che, se mai lo avesse visto, e lo avesse scrutato negli occhi, avrebbe subito capito che cos'era: infatti, anch'ella possedeva una sorta di vista interiore, che però non era affatto demoniaca. Sorella Teresa era decisa a diventare una santa, e i santi, al pari di Gesù, avevano il potere di scovare e di punire i demoni. Gabriel non voleva che il demone che lo possedeva fosse scoperto, perché aveva una paura tremenda di quello che avrebbe potuto fargli se ne avesse causato il castigo. Sapeva benissimo di aver collaborato con l'entità che lo possedeva, lasciandosi corrompere con assoluta noncuranza. Apprezzava il potere che il demone gli donava: non intendeva rinunciare facilmente al privilegio della
vista interiore, nonostante le cose terribili che essa gli consentiva di vedere. Sapeva perfettamente com'era la vita di coloro che non erano posseduti e non potevano vedere: almeno quella di coloro che non avevano casa né famiglia. Anche se in apparenza era buono, bravo e diligente, non amava la virtù tanto da pentirsi di quello che sapeva di essere diventato. Se fosse stato costretto a riporre la propria fiducia in qualcuno, avrebbe di gran lunga preferito Morwenna e il proprio demone a Dio e a qualunque dei «Suoi» servi. Con estrema cautela, aggrappato molto saldamente all'edera precaria, Gabriel scese nuovamente al suolo, poi corse fra i cespugli lontano dal luogo in cui aveva visto la ragazza intenta a raccogliere spine. Quando fu abbastanza lontano da sentirsi al sicuro, continuò il proprio gioco, confidando sin troppo nel proprio spirito d'avventura, fino al crepuscolo. Allora Luke Capthorn andò a cercarlo, imprecando e chiamando alternativamente: con ogni evidenza, era molto irritato. 2 Nel tornare alla Lodge, Gabriel dovette quasi correre per mantenere l'andatura di Luke Capthorn, il quale mormorava lamentele e imprecazioni fra sé e sé, dichiarando che il piccolo bastardo era una dannata peste, che gli procurava noie in continuazione, e che avrebbe dovuto saper stare al proprio posto. Amava molto rammentare ai trovatelli che ben pochi di loro sapevano chi fossero i loro padri. Uno dei pochi vantaggi della sua vita, infatti, era quello di essere nato da una relazione matrimoniale, anche se si trattava di un vantaggio che si era dimostrato piuttosto misero, giacché il signor Capthorn aveva abbandonato la moglie e il figlio ormai da tanto tempo, che nell'istituto era diventato leggendario quanto re Erode o i licantropi di Londra. Soltanto quando furono alla Lodge, Gabriel si rese conto che non era stato affatto un caso, se Luke era andato a cercarlo. Fu subito condotto nel salotto della signora Capthorn, dove una tinozza era già collocata sul tavolo e alcune pentole colme d'acqua erano poste a scaldare sul fuoco. La signora Capthorn lo aiutò a svestirsi, perciò Gabriel s'industriò a rendere l'operazione quanto più difficile fosse possibile: non odiava lavarsi, bensì detestava le dita energiche e paffute della donna. Misericordiosamente, costei fu costretta a lasciarlo per occuparsi della delica-
ta questione di miscelare l'acqua calda e l'acqua fredda, in modo da ottenere esattamente la temperatura che la sua meticolosità e la natura giudicavano adeguata al bagno dei fanciulli. Così, Gabriel rimase solo a terminare l'imbarazzante faccenda. Quando il fanciullo si fu arrampicato sul tavolo e fu entrato nella tinozza, la signora Capthorn gettò in un angolo i suoi indumenti invernali: era arrivato il momento di indossare vestiti nuovi. Estremamente consapevole dell'indegnità che esse comportavano, Gabriel aveva sempre odiato tutte le situazioni in cui la sua persona diveniva mero strumento dei progetti della signora Capthorn, ma il suo disgusto era notevolmente aumentato da quando il suo corpo era diventato nulla più di una maschera che celava la potenza e l'intelligenza del demone che lo possedeva. Comunque, non oppose resistenza. Apparentemente, continuava ad essere un fanciullo di nove anni, quindi tutti lo trattavano ancora come tale. Dentro di sé, aveva un potere che gli avrebbe consentito di opporsi al trattamento a cui veniva sottoposto, tuttavia era riluttante a servirsene, perché non aveva ancora formulato alcun piano che gli consentisse di affrontare le conseguenze di una ribellione violenta. Dopo il primo impatto, Gabriel sarebbe rimasto ben volentieri a crogiolarsi nell'acqua calda con languida voluttà. Purtroppo, questa speranza fu subito vanificata dalla signora Capthorn, che prese la brusca: per lei, il bagno equivaleva alla confessione, e la strigliatura all'assoluzione. Appena Gabriel fu sufficientemente mondato, la signora Capthorn lo estrasse dalla tinozza, e gridò a Luke di far entrare il fortunato fanciullo destinato ad ereditare la sua acqua sporca, che non poteva certo andare sprecata. Soltanto quando Gabriel ebbe indossato i suoi nuovi abiti, che gli sembravano larghi e informi, rispetto al vecchio completo che ormai gli era diventato piccolo, la signora Capthorn si degnò d'informarlo della ragione di tutto quel trambusto: — Abbiamo un visitatore — lo informò trucemente. — Quando qualcuno ci avvisa che intende passare, ci diamo da fare tutti quanti. Ma non metterti strane idee in testa, furfantello, soltanto perché un gentiluomo viene a trovarti: questo non ti rende migliore degli altri. Non era la prima volta che la signora Capthorn sciorinava a Gabriel simili ammonimenti. Anche Luke aveva espresso la propria opinione in merito, e molto più aspramente: secondo lui, anche se era il bastardo di un possidente, e ciò non era in alcun modo dimostrato, Gabriel era pur sempre un bastardo, che valeva meno di chiunque portasse il cognome del proprio padre. Eppure, Gabriel aveva notato che le suore avevano un atteggiamento dif-
ferente: benché odiassero il peccato in tutte le sue manifestazioni, trattavano lui in modo quasi impercettibilmente diverso perché aveva un benefattore di un certo rango. Per esempio, erano molto più attente a correggere il suo modo di parlare, e lo trattavano con un certo ritegno. — Conosci il nome dell'uomo che devi incontrare? — chiese severamente la signora Capthorn, quando fu soddisfatta dell'aspetto del fanciullo. — È il signor Harkender — rispose macchinalmente Gabriel. — Esatto. E bada bene di dirgli che siete trattati bene tutti quanti, qui, dalle... dalle suore, e da tutti noi. In silenzio, Gabriel la scrutò dritto negli occhi cisposi. Per un momento, la signora Capthorn trasalì, prima che il suo volto rubizzo s'incupisse. Forse la donna aveva già pronunciato quella raccomandazione altre volte, ma se e quando lo aveva fatto, Gabriel l'aveva considerata soltanto uno dei tanti ordini che riceveva, in una litania interminabile. In quell'istante, però, per la prima volta, si rese conto di avere un favore da barattare: forse, se si fosse lamentato, la signora Capthorn avrebbe dovuto subirne le conseguenze. Sapeva, naturalmente, che di certo si sarebbe vendicata di lui con una rappresaglia terribile, se le avesse procurato qualche noia. Nondimeno, era finalmente consapevole di poter danneggiare in qualche modo sia lei che Luke, anche senza invocare il potere del suo demone interiore. Sembrava che la signora Capthorn attendesse una risposta, perciò Gabriel si sforzò di trovarne una. Cominciò: — Lui è...? — E subito s'interruppe. — Lui è... cosa? — domandò la signora Capthorn, impaziente. — È venuto a portarmi via? — Ah! Vuoi andartene, eh? — ribatté la signora Capthorn, con un gesto cerimonioso di congratulazione nei confronti di se stessa per avere scoperto le aspirazioni del fanciullo. — Non vedi l'ora di abbandonare coloro che ti hanno allevato, vero, miserabile ingrato? — Ciò detto, lo riconsegnò a Luke, affinché lo conducesse alla Manor. Nell'attraversare il giardino, Gabriel e Luke videro sorella Clare, la quale li aspettava accanto alla porta della Dipendenza, come veniva chiamata dalle suore la parte della Manor adibita a scuola. Come al solito, sorella Clare ferveva di petulanza virtuosa: — Dove sei stato? — domandò a Luke, che non era più immune di chiunque altro dal suo malumore. — Il signor Harkender sta aspettando!
Ben sapendo che tentare di fornire giustificazioni sarebbe stato controproducente, Luke si limitò a bisbigliare le sue scuse con la massima scortesia che osò manifestare. Quando sorella Clare lo prese per mano e lo trascinò via, Gabriel trasalì, perché la stretta gli fece dolere le abrasioni. Tuttavia, la suora pensò che ciò fosse un segno di ribellione, e tirò il fanciullo con maggior vigore. Poco dopo, sorella Clare introdusse Gabriel in un soggiorno dove attendevano tre persone: la madre badessa, Jacob Harkender, e una donna sconosciuta, dalla chioma grigia e dal viso angoloso, che sembrava più anziana di sorella Clare, ma non tanto vecchia quanto la badessa. Mentre costei lo osservava, dalla sua destra, Gabriel si fermò di fronte ai due visitatori, quasi sull'attenti. Tutt'altro che brutto, con la chioma leziosamente ondulata, i lineamenti morbidi e miti, le labbra tumide, Harkender sembrava persino effeminato, eppure aveva qualcosa di grifagno negli occhi neri, e quando sorrideva assumeva un'espressione sottilmente minacciosa, delicatamente crudele. — Come stai, Gabriel? — chiese, in tono gentile. Anche se Harkender parlava sempre con gentilezza, Gabriel non aveva mai avuto l'impressione che fosse buono: in quel momento, per giunta, gli parve meno buono che mai. Mentre l'occhio alieno che aveva in sé si focalizzava con interesse sul suo viso, ebbe anzi la certezza che quell'uomo non avesse mai conosciuto la bontà, e che fosse assolutamente malvagio. Anche se il debito di gratitudine che aveva nei suoi confronti gli veniva ricordato fin troppo spesso, non aveva mai avuto simpatia per lui, né era mai stato convinto di ispirare in lui un affetto maggiore che negli altri. Comunque rimase sorpreso dalla limpidezza con cui la sua vista interiore vedeva Harkender: il demone che era in lui era più entusiasmato da quella visita, di quanto lui stesso avrebbe mai potuto essere. — Benissimo, signore. Grazie — rispose tardivamente Gabriel, badando a pronunciare correttamente le parole, poiché sapeva bene che la sua proprietà di linguaggio veniva messa scrupolosamente alla prova. — Sei diventato proprio un bel giovanotto — commentò Harkender, compiaciuto. Quindi soggiunse: — Non è forse vero, signora Murrell? Giacché non aveva mai visto Gabriel, la signora Mercy Murrell non era in grado di valutare. Tuttavia rispose: — Sì, è diventato davvero un bel giovanotto. — Ma ti sei ferito alle mani! — riprese Jacob. — Fai vedere... — Quando Gabriel protese le mani, gliele prese e le esaminò, girandole e rigiran-
dole. — Com'è successo? — chiese, con voce tagliente. Pur sapendo che il gesto non sarebbe stato accettato come risposta, Gabriel si limitò a scrollare le spalle. Poi, mentre la badessa si curvava innanzi, la guardò di sbieco, sostenendo lo sguardo dei suoi occhi neri. — Si è arrampicato — dichiarò la badessa, con assoluta certezza. — È vero che ti sei arrampicato, Gabriel? — L'Inglese non era la sua lingua madre: lo parlava perfettamente, ma non senza un lievissimo accento. In silenzio, Gabriel chinò la testa: non gli piaceva ammettere le trasgressioni. Comunque, Harkender parve sollevato dalla spiegazione: — Arrampicarsi sui muri è nella natura dei ragazzi — commentò, con voce serica. — Le ragazze non lo fanno mai — replicò la badessa. — Sono più ubbidienti. — Non è questione di obbedienza, ma di volontà — obiettò Jacob. — Le ragazze hanno un tipo di volontà che le porta a percorrere sentieri diversi. La volontà dei ragazzi, invece, spinge a compiere imprese come arrampicarsi. Eppure, sia i ragazzi che le ragazze hanno le qualità per diventare peccatori... oppure santi. La badessa, per nulla convinta, tacque. Di nuovo, Harkender guardò il fanciullo: — Hai sofferto? — No, signore — rispose macchinalmente Gabriel. — Invece sì: so che hai sofferto. Ma forse non ti sei curato del dolore. Forse ti piace tanto arrampicarti, che non t'importa del dolore, purché tu possa raggiungere nuove vette — dichiarò Jacob, in un tono che non era serio, ma neppure beffardo. — Non è così, Gabriel? Il fanciullo si sentiva sottoposto a un esame severo: molto più severo delle domande delle suore sulla peccaminosità del suo cuore, o del prete che si recava alla Manor ogni domenica per ascoltare le confessioni. Con loro, Gabriel poteva mentire, mentre non era affatto sicuro che il suo enigmatico benefattore si lasciasse ingannare altrettanto facilmente. Qualcosa, nel modo in cui Harkender lo scrutava, lo induceva a chiedersi se fosse in qualche modo consapevole del mutamento che era avvenuto in lui, nonché della sua possessione. Comprendendo alla perfezione che si trattava di quello che il gentiluomo si aspettava, rispose affermativamente alla domanda. Senza mostrare di aver capito che Gabriel non sapeva se la risposta fosse veritiera, né se ne curava, Harkender chiese in tono pacato alla badessa, senza fornire giustificazioni o spiegazioni, ma aspettandosi evidentemente
di essere obbedito: — Le dispiacerebbe lasciarci soli per un poco? La badessa si alzò, per nulla risentita, almeno in apparenza, e lasciò la stanza, dopo aver lanciato un'ultima occhiata minacciosa a Gabriel, per rammentargli di badare alla dizione. — E ora — annunciò Harkender — possiamo parlare da uomo a uomo. Io ho studiato dai gesuiti, e ricordo bene quanto fosse terrorizzante la loro presenza: sentivo di poter parlare liberamente soltanto quando erano assenti. Pur non avendo mai sentito parlare dei gesuiti, Gabriel capì abbastanza bene a quale sensazione alludesse Harkender. Purtroppo, non considerava minimamente più rassicurante la presenza del suo benefattore e della misteriosa signora Murrell. — Ora che sei abbastanza cresciuto — continuò Jacob, con apparente soddisfazione — sento di poterti parlare come a una persona consapevole. Ebbene, voglio parlarti del tuo futuro. Alle possibilità relative al suo futuro, Gabriel non aveva mai pensato, perciò non seppe che cosa rispondere. Torcendosi le mani con una certa impazienza, Harkender chiese: — Hai terminato gli studi? Fin troppo consapevole che ogni sua dichiarazione sarebbe stata verificata, Gabriel rispose questa volta in un modo che non piacque al gentiluomo: — No, signore. — Per fortuna, la scarsa irritazione che Jacob lasciò trapelare non gli parve rivolta a lui. — Che cosa ti aspettavi? — intervenne la signora Murrell. — La prima preoccupazione delle suore è il benessere della sua anima. — Non importa — assicurò Harkender al fanciullo. — C'è tempo, e poi non è tanto importante. Piuttosto, è vitale che tu sia sano e forte. Da molto tempo ho intenzione di procurarti una dimora migliore di questa, ma certe ragioni mi hanno impedito di accoglierti nella mia casa. Spesso sono stato lontano, e nei periodi che ho trascorso a casa sono stato coinvolto in esperimenti che hanno assorbito tutta la mia attenzione. Finora, le suore hanno assolto alle tue esigenze meglio di quanto avrebbe potuto fare la mia servitù, inoltre ti hanno nascosto a una curiosità indesiderabile. Adesso, però, le tue necessità stanno diventando tali, che i servigi delle suore non sono più adeguati ad esse. Ho voluto farti conoscere la signora Murrell perché forse ti affiderò alle sue cure: non subito, ma molto presto. Ben lieto di distogliere gli occhi da Harkender, il cui sguardo stava cominciando a sconcertarlo terribilmente, Gabriel osservò la signora Murrell.
Anche se costei non tentò in alcun modo di sorridergli o di esprimergli un po' di tenerezza con un gesto, non manifestò neppure la disapprovazione gelida che era tipica delle suore. Il breve esame non bastò per consentirgli di confrontarla con la signora Capthorn, e di valutarla di conseguenza. — Che cosa ne dici? — esortò Harkender. — Grazie, signore — rispose Gabriel, di riflesso. Era questa la risposta che gli adulti volevano udire di solito quando gli chiedevano che cosa aveva da dire. In quel caso, tuttavia, la risposta del fanciullo non colse nel segno: Jacob sospirò. — Non puoi biasimare il ragazzo — osservò la signora Murrell. — Non sa chi siamo. Ha già incontrato te, ma non ti conosce. — Ciò detto, guardò Gabriel: — Fu il signor Harkender a portarti qui e ad affidarti alle suore, pagandole per il tuo mantenimento e per quello di alcuni altri bambini. Non tutti gli orfani, infatti, hanno qualcuno che provvede per loro. Si è assunto la tua responsabilità, e deve prepararti ad essere responsabile di te stesso. Sei pronto a ricompensare la generosità che ha dimostrato nei tuoi confronti? Non sapendo come rispondere sinceramente, Gabriel disse: — Sì, signora. Grazie. Con ciò, Mercy Murrell parve soddisfatta. Invece, Harkender comprese che il fanciullo aveva risposto macchinalmente: — La signora Murrell ha ragione. Tu non mi conosci affatto. È stata colpa mia: avrei dovuto venirti a trovare più spesso. Ma se non l'ho fatto, è perché certe ragioni me l'hanno impedito. Ormai, sei abbastanza grande per essere curioso, e forse anche per comprendere i frutti della curiosità. Dunque, chiedimi quello che desideri: cercherò di rispondere. In tal modo, ci conosceremo meglio a vicenda, e tu imparerai ad avere fiducia in me e nei progetti che ho per te. Chiedimi pure tutto quello che vuoi sapere, Gabriel... Assolutamente disorientato da quella situazione senza precedenti, Gabriel esitò: non aveva risposte prefabbricate da fornire, né riusciva a ricordarne nessuna che fosse adatta per essere presa a prestito. Non sapeva individuare i confini che bisognava evitare di varcare per non correre rischi. Comunque, cercò una domanda che potesse risultare accettabile. Se il demone lo avesse consigliato, sarebbe stato felice di ascoltarlo: purtroppo, esso rimase muto e affascinato, presente ma non attivo. Infine, chiese: — Sono nato nel posto dei matti? — E notò, con la coda dell'occhio, la sor-
presa della signora Murrell. Prima di rispondere, Harkender meditò per un poco, mantenendo un'espressione assolutamente imperscrutabile. Poi, con voce grave, spiegò: — Immagino che tu ti riferisca alla clinica di Hanwell... Ebbene, oso dire che alcuni tuoi compagni provengono da là, ma tu no. D'improvviso, Gabriel decise di non dover perdere l'occasione: — Chi è mia madre? E chi è mio padre? Di nuovo, Jacob tacque meditativamente per un poco, prima di rispondere: — Tua madre era Jenny Gill: morì subito dopo la tua nascita. Era amica della signora Murrell, e anch'io la conoscevo. Tu porti il suo cognome, anziché quello di tuo padre, ma non devi provare per questo neppure un'oncia di vergogna, giacché per nascita appartieni a una classe superiore a quella di tutti coloro che vivono qui... anche se ti conviene non dirlo a nessuno, men che meno alle suore. — Nel dir questo sorrise. Il fanciullo capì che tale sorriso voleva essere complice e confortante. In realtà, esso gli parve duro e privo di calore: una minaccia, anziché una promessa. — Ti prometto che ti piacerà vivere con la signora Murrell — continuò Jacob, abbassando la voce, quasi in un sussurro. — Mangerai meglio di quanto tu abbia mai mangiato, e avrai un ottimo letto in cui dormire. Quanto ad arrampicarti... Be', ti mostrerò vette da scalare che pochi uomini hanno mai osato affrontare, e t'insegnerò a provare, nel raggiungerle, una gioia che pochi uomini hanno conosciuto. Mentre Harkender pronunciava queste parole, i suoi occhi divennero quasi fulgenti, tuttavia Gabriel non riuscì a capire perché. Sussurrando a sua volta, rispose: — Grazie, signore. Allora Jacob parve leggere nella risposta una sincerità inesistente, dimostrandosi tanto vulnerabile alla menzogna quanto chiunque altro. Poi, però, come guidato da un ripensamento impulsivo, si allungò a sfiorare la fronte del fanciullo con i polpastrelli della mano destra. Sembrò un gesto istintivo, quasi noncurante, ma Gabriel capì subito che non si trattava di nulla del genere: nel sentire il tocco, percepì una sorta di potere, di brivido magico. In quel momento, intuì che anche Harkender era posseduto: dentro di lui era in agguato un demone che guardava il mondo attraverso la finestra della sua anima corrotta, con una vista di gran lunga più potente dei deboli occhi esteriori degli uomini. Con un tuffo al cuore, Gabriel ebbe il terrore che Harkender avesse avuto a sua volta la medesima percezione, e che il suo segreto non fosse più
tale: con orrore, attese la sua reazione alla rivelazione. Una fugace perplessità passò sul volto di Jacob, subito sostituita da un sorriso privo di generosità come sempre, eppure stranamente colmo di soddisfazione: — Non devi avere paura di me, Gabriel — assicurò Harkender. — Io solo, fra tutti coloro che hai conosciuto e che mai conoscerai, posso capire quello che sei e quello che puoi diventare. Io soltanto posso guidarti. Devi ricordarlo, Gabriel: rammenta sempre che ti sono amico. Il tono pacato di queste parole parve a Gabriel molto intimidatorio. Harkender non stava cercando di minacciarlo, anzi, forse stava davvero tentando di rassicurarlo. Eppure la semplice consapevolezza di quello che Jacob sembrava essere, e di quello che forse aveva ormai scoperto, era sufficiente a colmare il fanciullo di una trepidazione terribile. Nonostante questo, ricorrendo a tutta l'abilità che aveva sviluppato in un'intera vita di sotterfugi, Gabriel si limitò a rispondere: — Sì, signore. Di nuovo, Jacob Harkender sorrise, perché aveva ottenuto la risposta che desiderava. Dietro il suo sorriso, però, si celava qualcos'altro, che Gabriel non riuscì a definire, e che non gli piacque affatto. 3 Era buio, fuori, e il vento portava un gelo tagliente. La luna era quasi piena, ma velata a tratti dalle nubi in corsa, e visibile soltanto, di volta in volta, per pochi istanti, in maniera esasperante. Gabriel avrebbe dovuto tornare subito alla Lodge, ma giacché nessuno era ad aspettarlo, si allontanò furtivamente dal sentiero per costeggiare il muro di cinta della Manor. Ancora una volta sentì l'ardore e l'eccitazione del demone che aveva in sé, il quale, come egli ormai sapeva, amava quelle spedizioni notturne. Nell'oscurità della notte aveva la sensazione, talvolta, di essere interamente demone. Gli sembrava allora che la sua coscienza normale, la quale prosperava nella luce del giorno, nella consuetudine, nella compagnia altrui, fosse nascosta, proprio come il volto della luna era velato dalle nubi che le passavano dinanzi. Era estremamente consapevole del potere della propria volontà, ma ormai non era più interessato a trucchi lievi, come convocare pipistrelli e falene a svolazzargli intorno alla testa in una danza folle: il suo occhio interiore era alla ricerca di visioni più interessanti di quella. Con cautela, si recò al lato opposto della Manor, dov'era assolutamente
proibito andare, perché là le suore avevano le loro «celle», che per la maggior parte non erano affatto celle, ma semplicemente stanze disadorne e austeramente ammobiliate. Là vivevano molte sorelle che non svolgevano mai nessun servizio alla Dipendenza perché avevano scelto la clausura, quindi dedicavano la loro esistenza ai rituali e alla meditazione. Poche suore, per spirito di sacrificio e per senso del dovere, si assumevano il fardello di insegnare ai trovatelli. Di recente, Gabriel aveva compreso che consideravano questo servizio come una sorta di affitto per la Manor, e che lo svolgevano con riluttanza. Questa era una delle numerose informazioni che aveva ottenuto mediante il demone, che era un'entità d'intelligenza prodigiosa. Nonostante questo, però, esso era pur sempre un estraneo nel mondo degli uomini, quindi giudicava strano e inesplicabile quello che vi accadeva. Giunto nel nascondiglio che aveva scoperto di recente, Gabriel osservò la cella che era maggiormente degna di questo nome: quella in cui abitava sorella Teresa, la quale era solita pregare in ginocchio sulla pietra, mortificando la carne rabbrividente nel freddo crudele. La stanzetta aveva una sola finestra, che, situata vicino al soffitto, guardava il canale, e aveva un vetro tanto sporco, che di giorno lasciava entrare poca luce, e di notte lasciava uscire soltanto il più fioco guizzo di fiamma di candela. Ecco perché, spiando con la vista esteriore, si poteva vedere all'interno soltanto in modo offuscato, quasi deforme, e si poteva capire a stento se la suora fosse in piedi oppure in ginocchio. Nondimeno, la finestrella attirò Gabriel come un magnete, giacché non aveva bisogno della vista esteriore per percepire quello che avveniva nella cella: con il demoniaco occhio interiore, poteva vedere distintamente in che modo sorella Teresa si torturava, e perché. Quando Gabriel si fu appostato nel nascondiglio, la parte attiva del rituale era già terminata: sorella Teresa giaceva prona sul pavimento freddo, come se tutto il peso della Terra gravasse su di lei, gelido, implacabile, mentre il pensiero connesso alla percezione era ormai bandito dalla sua mente. Perciò, Gabriel si fece forza, preparandosi a condividere il suo sogno, la sua visione, la sua sofferenza illuminante... Gesù è sulla croce. La sofferenza del mondo non è più tanto acuta. La percezione si è ritirata dalla superficie, esposta all'erosione del vento e dell'acqua, spaccata dalle eruzioni del fuoco vulcanico. Eppure, nel manto del mondo esiste una serenità perpetua: una solidità fredda, lontana dal-
l'anima centrale, che è fuoco e ferro liquido. Il mondo pensa ancora, ma i suoi pensieri, come i suoi sentimenti, sono smussati dal fardello eccessivo. La mente del mondo è obnubilata, in preda alla vertigine, come se fosse lontana da se stessa: vi sono oscurità di giorno e freddo a mezzodì. Ma presto essa precipiterà in un delirio da cui non si riprenderà mai del tutto. Gesù sta sopportando il peso dei peccati del mondo. I chiodi conficcati nelle palme delle mani di lei sono tutte le malvagità mai perpetrate dall'umanità: i massacri e le torture, l'adorazione degli idoli abietti, le trascrizioni dei pensieri empi, le carezze e i gesti che esprimono falsamente l'affetto e l'amicizia. Il chiodo enorme conficcato nei piedi sovrapposti di lei è tutte le intenzioni malvage che hanno spinto gli uomini a vagare per il mondo: le fughe dalle punizioni giuste; le invasioni e le conquiste; i tradimenti della parentela e le deviazioni dal vero cammino della fede, della speranza e del dovere. La corona di spine sul capo di lei è tutti i pensieri di slealtà che l'umanità ha mai accolto attraverso i fallimenti multiformi della volontà volubile: i dubbi capziosi e gli inganni perfidi, le inimicizie calcolate e le invidie egoiste, la disperazione lugubre e i tradimenti dell'intelletto. La ferita sanguinante al fianco di lei è tutti gli errori del cuore: le malizie sprezzanti e gli odi ardenti, le spudorate illusioni di grandezza e i desideri lussuriosi, l'avarizia bramosa e l'amarezza struggente, le voglie della carne codarda. E lei sopporta tutto, e l'ammanta con la propria estasi. Ecce homo. Respinto dalla pura potenza della visione, Gabriel, senza fiato, fu trafitto dalla sensazione del peccato, né terribile, né deliziosa, scaturita dalla propria consapevolezza che, tramite lui, un demone dell'Inferno spiava le attività del Paradiso. Mentre sorella Teresa avanzava sulla strada dolorosa della santità, egli era lo strumento mediante il quale ella veniva osservata pazientemente, e la vanificazione delle sue opere più degne veniva tramata. Sorrise, ma fu consapevole che si trattava soltanto del demone che lo possedeva, il quale tentava di ridere della sua debolezza. Attraverso il vetro sporco della finestra che offuscava la vista, Gabriel osservò il movimento lento e fluido di Teresa, la quale si sollevò, con le braccia spiegate come ali d'angelo, e fluttuò nell'aria, simile a un falco lan-
guido su un cuscino d'aria invisibile, nella più fioca delle brezze. Forse era il vantaggio del bene sul male, o forse era semplicemente il risultato della disciplina e dell'esercizio: Gabriel lo ignorava. Tuttavia invidiava a Teresa quell'arte che lui, a differenza di lei, non sapeva padroneggiare. La sua ambizione, ammesso che vi fosse qualcosa in lui che potesse essere definita tale, era che la potenza del male facesse tanto per lui, un giorno, quanto la potenza che agiva in Teresa faceva per lei. Ancora una volta si chiese se sarebbe riuscito a levitare, se soltanto avesse osato sottoporsi alle sofferenze estreme che Teresa accettava con gioia. Infine si allontanò dalla finestra per spiare altre parti della Manor. Ritornò alla Dipendenza, e più precisamente alla finestra di una stanza molto vicina al soggiorno in cui aveva incontrato Jacob Harkender: questi stava conversando con la badessa, in presenza della signora Murrell. Per ascoltare quello che veniva detto, il fanciullo non ebbe bisogno della propria vista interiore. — È dunque sua intenzione prendere il ragazzo sotto la sua tutela entro questo mese? — domandò la badessa. — Sono ancora indeciso — rispose Harkender. — Vi sono grato per averlo educato nella maniera migliore. Tuttavia mi chiedo se il ragazzo sia già abbastanza cresciuto per affrontare lo stadio successivo della sua istruzione. Mi dispiace di non averla avvertita per tempo, Reverenda Madre, ma soltanto quando l'ho visto, poco fa, mi sono reso conto di quanto fosse cresciuto. — E che cosa intende fare di lui, precisamente? Per un istante, Harkender tacque, prima di rispondere abbastanza sinceramente: — Entrerà al mio servizio, Reverenda Madre. — Senza dubbio, signor Harkender — rispose gelidamente la badessa, mentre Gabriel notava che sedeva impettita, come se facesse virtù della propria scomodità deliberata — lei si ritiene libero di disporre a suo piacimento del ragazzo, e pensa che il fatto di averlo condotto qui le consenta di portarlo via quando vuole. Tuttavia capirà che, dal mio punto di vista, la questione appare sotto una luce diversa. Affidando Gabriel alle nostre cure, ci ha imposto il dovere di garantire che sia adeguatamente istruito e preparato alla vita cristiana. Dunque, noi nutriamo nei suoi confronti un interesse che non può essere semplicemente ignorato. Insomma, il dovere m'impone d'informarmi sulle sue prospettive. — Non lo metto in dubbio — rispose Jacob, con voce altrettanto gelida. — Non vuole dirmi che cosa turba la sua coscienza?
— Se posso parlare francamente, signore, si tratta della sua reputazione: corre voce che lei sia un mago, un alchimista, e un negromante. Nell'udire questa frase, la signora Murrell trattenne udibilmente il fiato. Invece, Harkender non manifestò il minimo indizio di turbamento a causa di quella provocazione, o almeno così parve a Gabriel: — Non deve avere alcun timore per l'incolumità del ragazzo, sotto tutti i punti di vista — rispose, calmo. — Sono uno studioso, è vero, ma non vi è nulla di diabolico nelle mie ricerche. La nostra Chiesa non si è mai vergognata, in passato, di non osteggiare l'alchimia, e se io sono un mago, allora appartengo alla medesima categoria di Alberto Magno e di Marcello Ficino: non sono uno stregone ciarlatano o un incantatore ipocrita. Non intendo discutere di eresia con lei, ma se possiede una qualsiasi prova in grado di dimostrare che sono colpevole di qualche vizio, si senta pure liberissima di esibirmela. — Voglio soltanto assicurarmi che l'anima di Gabriel, da noi protetta con la massima sollecitudine, non sia in pericolo — rispose la badessa, del tutto blandamente. Tuttavia, Gabriel ebbe l'impressione che questa dichiarazione celasse un'ironia terribile, e sospettò che Harkender fosse ugualmente sarcastico. Comunque, Jacob non lasciò trapelare alcun segno d'irritazione, né di scherno: — Può star certa che non mi preoccupo della sua anima meno di lei, e che sotto nessun aspetto posso essere considerato incapace di vegliare su di essa. Ho studiato dai gesuiti, come lei sa, e sono molto versato nella dottrina della Chiesa. La mia casa, Reverenda Madre, potrà essere ispezionata in qualsiasi momento dal vescovo, o da qualunque altro prelato, proprio come può accadere a questo convento. Inoltre, non ho alcuna difficoltà a concederle il permesso di mettermi alla prova. Di tutto ciò, Gabriel non capì quasi nulla. Per una volta, non sperimentò nessun flusso d'intuizioni misteriose, come quelle che aveva imparato ad attribuire al suo ospite demoniaco. Seppure senza sorridere, com'era suo solito, la badessa parve soddisfatta delle garanzie ottenute: — Volevo soltanto rassicurarmi — mormorò. — Anche quando Gabriel avrà lasciato l'istituto, il nostro interesse nei suoi confronti non cesserà: di questo può essere certo. — Ne sono lieto — replicò untuosamente Harkender. — E mi auguro che il vostro interessamento non venga mai meno, anche se temo che, quanto a questo, la clausura vi ostacolerà. La badessa si alzò, autorizzando gli ospiti a fare altrettanto. Prima che Harkender e la signora Murrell uscissero nella notte, Gabriel ebbe tutto il
tempo di nascondersi in un fosco nido d'ombra, in modo da non essere visto. Appena la badessa fu rientrata e sorella Clare si fu allontanata alla ricerca di Luke Capthorn, a cui era stato affidato il calesse di Harkender, la signora Murrell si volse subito al compagno: — Che cosa sa esattamente di noi? È evidente che fu un errore condurre qui il ragazzo, come ti dissi a suo tempo. — Probabilmente conosce soltanto le dicerie alle quali ha alluso — rispose tranquillamente Harkender. — A quanto pare, la clausura non è sufficiente a proteggere le suore dai pettegolezzi. Può darsi che abbiano percepito qualcosa di strano e di anormale nel ragazzo, ma ciò ha poca importanza. Qui, Gabriel è stato nascosto più efficacemente di quanto avrebbe potuto esserlo in casa mia. I miei servi sanno certamente molto di più di quanto sia bene per loro, senza contare che altri si sono interessati fin troppo alle mie attività. Non osai correre alcun rischio, quando la povera Jenny morì, perché altrimenti tutto il piano avrebbe potuto fallire. Ho sempre confidato nelle suore molto più di quanto potrei mai confidare nei miei amici. — Credi che la badessa interferirà? — Ne dubito. Poco fa l'ho avvertita chiaramente che lei, più di me, ha ragione di temere eventuali indagini. La regola seguita da lei e dalle sue monache pretende di risalire a Santa Syncletica, tuttavia non ha mai ottenuto l'approvazione di Roma, quindi dubito che il convento potrebbe superare un'eventuale ispezione. Le suore hanno ottenuto Hudlestone Manor a condizione di svolgere certe attività educative, e anche se a molti questo accordo può sembrare consono ai tempi, credo che sia motivo di disagio per le suore medesime. — Vuoi dire che non possono far nulla contro di te per timore di perdere la Manor? — Dubito che si potrebbe mai arrivare a tanto. Comunque, qualsiasi forma d'intromissione costituirebbe un imbarazzo di cui le suore preferiscono di gran lunga fare a meno, senza contare che anch'io ho sentito circolare certe voci su come la badessa incoraggia il reclutamento delle novizie fra le fanciulle che vivono qui all'istituto. Si dice che le dia grande gioia scoprire sante e visionarie fra le monache e fra le orfane. Sono passati soltanto vent'anni dall'ultima grande sommossa anticattolica, in questo paese, e i protestanti inglesi sono poco meno avidi dei socialisti francesi di raccogliere storie sul trattamento iniquo delle novizie nei monasteri. Se la
badessa vuole scoprire una nuova Santa Teresa, ha tutto l'interesse a compiere tale ricerca nella massima riservatezza. Anziché rassicurata, la signora Murrell parve sempre più inquieta: — Ma tutto indica che la badessa sa qualcosa! — Non credo. Se tutti coloro che digiunano e si frustano a vicenda fossero alla ricerca della visione mistica, il mondo intero godrebbe ormai da molto tempo della più meravigliosa illuminazione spirituale. Non dubito che la Chiesa abbia avuto i suoi visionari, ma gente come la badessa e le sue sorelle non hanno la più pallida idea di che cosa fossero realmente quei mistici. Perciò, non credo che le suore di Santa Syncletica possano minacciare in alcun modo il nostro progetto. — Speriamo che tu abbia ragione... — mormorò la signora Murrell, dubbiosa. Subito dopo, arrivò il calesse. Harkender aiutò la compagna a montare, poi si girò per scambiare furtivamente poche parole con Luke, con cui sembrava essere in insolita confidenza. Soltanto allorché il calesse fu scomparso e Luke si fu allontanato in direzione della Lodge, Gabriel giudicò che fosse sicuro uscire dal proprio nascondiglio. Però, proprio nell'andarsene, udì picchiare alla finestra da cui aveva origliato. Con un tuffo al cuore, si girò e vide la badessa che lo scrutava severamente: con imprudenza, era entrato nella zona illuminata dalla luce che usciva dalla stanza. Tutto tremante d'angoscia accumulata, in quanto era ben consapevole di essere un trasgressore abituale finalmente colto in flagrante, e sapeva quale sorte lo attendesse, Gabriel rientrò nella Manor. Era certo che sarebbe stato frustato, e la sua fiducia nel potere del demone di proteggerlo dal dolore che avrebbe provato stava scemando rapidamente. Con suo grande sbalordimento, tuttavia, la badessa gli parlò in un modo del tutto diverso da quello che si aspettava: — Sei stato un bravo ragazzo, Gabriel. Ti abbiamo insegnato ad essere bravo, e tu hai imparato bene la lezione. Spero che in futuro, qualunque cosa ti accada, non dimenticherai mai i nostri insegnamenti. — Sì, Reverenda Madre — rispose Gabriel, con una cortesia carica d'ansia. — Grazie, Reverenda Madre. — Il mondo è un luogo di fatiche e di tribolazioni — continuò la badessa, con un distacco e una vaghezza talmente strani, da indurre il fanciullo a chiedersi se si fosse accorta che aveva spiato. — In esso vi sono molti pe-
ricoli, e tu dovrai essere forte per affrontarli. E non parlo soltanto di forza fisica, bensì di forza spirituale. La carne non può fare a meno di essere debole, ma l'anima può essere forte: anzi, deve essere forte, per resistere alla tentazione. Mi capisci, Gabriel? — Sì, Reverenda Madre — replicò Gabriel, sforzandosi con tutto se stesso di sembrare sincero e devoto. — Grazie. — Comunque, non mentiva completamente. Se non altro, credeva di capire quello che la badessa stava cercando di dirgli. Sia lei, che sorella Clare e sorella Bernard, avevano tentato in vari modi di trasmettergli chiaramente lo stesso messaggio: la vita era dura, ma le sofferenze dovevano essere sopportate; il mondo era colmo di dolore, ma il dolore doveva essere sopportato volonterosamente, e la fede doveva essere mantenuta. — Quando te ne andrai da qui, sarai indotto in tentazione — assicurò la badessa — e assisterai a molta malvagità. Però hai imparato a pregare, e quando pregherai il Signore, Egli armerà il tuo braccio contro la tentazione e ti proteggerà dal male. Anche se cadrai fra i malvagi, il Signore sarà con te. Per un istante, Gabriel fu tentato di chiederle schiettamente se Jacob Harkender fosse uno dei malvagi a cui aveva alluso: ma soltanto per un istante brevissimo, fugace. Poi, non gli rimase da dire altro che: — Sì, Reverenda Madre. Lo ricorderò. Finalmente, traboccante di ammonimenti sulla condizione deplorevole del mondo, che gli sembravano molto poco significativi rispetto alla sua situazione presente, Gabriel ebbe il permesso di andarsene. Luke era tornato da tempo alla Lodge, ma la badessa non giudicò necessario far accompagnare il fanciullo per essere certa che si recasse davvero dove doveva. In ogni modo, Gabriel aveva spiato a sufficienza per quella notte, perciò s'incamminò subito verso la Lodge. Fu colto di sorpresa quando, nel tratto più buio del sentiero, a metà strada fra i due edifici, una donna sbucò silenziosamente dagli alberi e gli si parò dinanzi: era Morwenna. Diversa sia dalle suore che dalla paffuta signora Capthorne e dall'angolosa signora Murrell, nonché molto più giovane di tutte quante, almeno in apparenza, Morwenna aveva la chioma lunga, bionda, molto chiara, e indossava un abito bianco non molto diverso da quelli che Gabriel aveva osservato in certe raffigurazioni degli angeli: era abbastanza leggero da sembrare etereo.
— Dimmi, Gabriel... — chiese Morwenna, sottovoce. — Che cosa ti ha detto il signor Harkender? Vuole forse portarti via? — Forse lo farà — rispose Gabriel, non senza una certa difficoltà, giacché le parole gli si bloccavano in gola. — Non lo so. — Non avere paura. Lui non ha nessuna buona intenzione nei tuoi confronti, ma tu non devi avere paura, perché noi non lasceremo che ti prenda. Non vi era nulla di malevolo nei modi della donna, eppure Gabriel ebbe l'impressione che ella sapesse perfettamente che esortarlo a non avere paura significava proprio spaventarlo. In un sussurro, domandò: — Chi sei, Morwenna? Sei un fantasma? — Non credeva che ella fosse uno spettro, ma giudicò necessario chiederlo. Non credeva neppure che fosse un angelo, perché nonostante gli sforzi che le suore avevano compiuto per insegnargli ad apprezzare adeguatamente il vero schema delle cose, non riusciva a credere che gli angeli camminassero comunemente sulla Terra. D'altronde, non sapeva chi fosse realmente la donna, né perché mai fosse venuta a promettergli la fuga. — Sono Morwenna — ella dichiarò pazientemente, come se fosse una risposta esauriente. — Non avere paura, ti prego. Tornerò ancora, prima che il signor Harkender venga a portarti via. Noi siamo tuoi amici, e ti proteggeremo. Tienti pronto, Gabriel: ti prometto che verremo a prenderti molto presto. La voce della donna, e il suo modo di parlare, avevano un tale incanto, un tale fascino magico, che Gabriel desiderava crederle in modo struggente. In effetti, le credeva. Però si rendeva conto che tutto quello che Morwenna non osava rivelargli era estremamente misterioso. Voleva andare con lei, perché lei era bellissima, eppure una vocina interiore, dubbiosa, che non era quella del suo demone, suggeriva che forse ella era stata inviata come messaggera proprio perché era tanto bella, e nulla poteva esserle rifiutato. Benché il groppo in gola gl'impedisse ancora di parlare senza difficoltà, Gabriel promise: — Sarò pronto. D'improvviso, Morwenna si girò e scomparve, come se fosse entrata in una porta celata nell'oscurità. Poi, però, nel guardare in un'altra direzione, proprio mentre la luna pallida illuminava per un attimo una radura, Gabriel intravide una grande creatura candida allontanarsi agilmente, in silenzio, in modo abbastanza naturale. Quella creatura poteva essere soltanto un cane randagio, giacché persino
Gabriel Gill sapeva che non esistevano lupi, in Inghilterra, ad eccezione, forse, dei licantropi di Londra. 4 Quella notte, dormendo nel letto duro e bitorzoluto al quale si era abituato da molto tempo, Gabriel fece un sogno molto strano e molto vivido. Negli ultimi tempi, i sogni di quel genere erano diventati un'esperienza molto comune per lui: sapeva che era uno dei modi in cui il suo occhio interiore si esercitava, mentre la sua vista diventava gradualmente sempre più nitida e acuta. Non aveva tardato a comprendere che alcune cose viste dal suo occhio interiore non erano vere: le visioni bizzarre, simili a quella che aveva condiviso quella sera stessa con sorella Teresa, scaturivano dalla speranza, dall'ambizione, dal terrore, o dall'angoscia. Non era affatto certo, però, che tutte le visioni del suo occhio interiore fossero di quel genere. Talvolta, aveva l'impressione di assistere ad avvenimenti reali, del passato o del presente. Una delle ironie del suo notevole sesto senso era che le brevi visioni che esso consentiva durante la veglia sembravano molto meno reali di quelle che consentiva durante il sonno, in sogno. Quella notte, il personaggio principale del sogno fu Jacob Harkender. Ciò non sorprese minimamente Gabriel, il quale era perfettamente consapevole del legame che era stato forgiato fra lui e il suo benefattore nel momento in cui gli era stato rivelato che anche costui era posseduto. Nel sogno, Gabriel non fu fisicamente presente: fu come se il demone lasciasse per breve tempo il suo corpo per andare a vagare nella notte come uno spirito libero dai legami usuali, ma si trascinasse dietro la sua anima per preservare l'incantesimo con cui lo aveva imprigionato. Come spirito disincarnato, Gabriel si trovò in una stanza molto strana, sotto la grande cupola di vetri multicolori in cima a quella che gli sembrava essere la casa di Harkender. Non sapeva se la casa possedesse davvero una cupola del genere, comunque aveva la sensazione di vedere qualcosa di reale. Al centro della stanza era collocato un aggeggio in ferro battuto: Gabriel non riuscì a capire che cosa fosse, ma per qualche ragione insondabile lo paragonò ad una tela di ragno. Se l'oggetto era davvero qualcosa di simile, allora aveva catturato Jacob Harkender, il quale vi era saldamente legato per i polsi con alcune funi: completamente nudo, ad occhi chiusi, mormo-
rava ritmicamente fra sé e sé come se stesse cantilenando una preghiera di penitenza che aveva recitato molto spesso. Intanto, due persone l'osservavano. Una di costoro era la signora Mercy Murrell, con la quale Gabriel era più in sintonia che con Harkender. Nel percepire la turbinante confusione di sentimenti e di pensieri della signora Murrell, rimase sbalordito nello scoprire che in essa spiccava una sorta di disprezzo. Il mosaico del pavimento, composto di molte migliaia di tessere, raffigurava numerosi cerchi concentrici: su quello centrale era collocalo l'aggeggio metallico; quelli interni contenevano complesse decorazioni; quelli esterni erano divisi in sezioni, ognuna delle quali racchiudeva una parola o un simbolo; e dall'ultimo cerchio esterno, orlato da quelli che sembravano petali di rosa sanguigni, si dipartivano quattro tronchi d'albero, le cui chiome erano costituite da moltitudini di foglie colorate. Quantunque il disegno lo affascinasse, Gabriel non riuscì a capire neppure dal vortice d'impressioni della coscienza della signora Murrell che cosa esso significasse: Harkender lo aveva spiegato, ma lei non aveva nemmeno tentato di capire, perché sapeva benissimo di non essere minimamente promettente come apprendista di magia. Le sfaccettature della cupola erano disposte in maniera abbastanza complessa, anche se più semplice rispetto al disegno del mosaico. Di giorno, mentre il sole tracciava il suo tragitto nel firmamento, la luce colorata illuminava sicuramente il pavimento in una maniera meravigliosa e costantemente mutevole. In quel momento, però, era notte, e la luce della luna scompariva, a paragone con le quattro lanterne collocate agli angoli della stanza, ognuna all'estremità di un braccio della croce, le quali suscitavano ombre strane tutt'intorno. Nell'ombra più densa, la signora Murrell sedeva sopra una sedia: non si nascondeva, ma le piaceva osservare senza farsi notare, senza attirare l'attenzione su di sé. Gabriel captò nella sua memoria gli echi lamentosi dei discorsi con cui Harkender le aveva mestamente spiegato che il suo occhio interiore era del tutto cieco, bendato dal continuo conforto che ella traeva dalla normalità del mondo. Spiandone i pensieri, Gabriel capì che la signora Murrell, anche se non lo aveva mai detto, era in disaccordo con Harkender: non si era mai sentita a proprio agio nel mondo, né aveva mai pensato di viverne la normalità. Si considerava semmai l'abitante e l'approvvigionatrice di un mondo di sogno composto dalle idiosincrasie degli uomini. Non sapeva se il suo occhio in-
teriore fosse davvero cieco o meno, tuttavia i suoi occhi esteriori erano cinicamente interessati alle recite bizzarre che organizzava per i suoi clienti. Benché non fosse la prima volta che il demone gli consentiva di osservare il mondo attraverso il filtro dei pensieri e delle credenze altrui, Gabriel trovò che la signora Murrell era di gran lunga più enigmatica di Luke Capthorn o di sorella Clare: non riusciva a capire che tipo di persona fosse esattamente, né perché avesse una concezione di se stessa tanto strana. Se il demone la capiva, non lasciò trapelare alcun chiarimento. D'altronde, era possibile che esso non la comprendesse, giacché possedeva una sorta d'innocenza che contrastava con i suoi terribili poteri di veggenza. Con la stessa chiarezza con cui l'avrebbe udita se avesse parlato a voce alta, Gabriel sentì la signora Murrell pensare ironicamente: Quale esistenza più magica e più penetrante potrebbe mai condurre una donna, di quella di amante e ruffiana dei ricchi? In un modo che aveva qualcosa di materno, anche se niente affatto affettuoso, la signora Murrell si volse ad osservare la terza persona che si trovava nella stanza, vale a dire una ragazza. Come se si fosse completamente identificato con la donna, Gabriel osservò a sua volta la ragazza, la quale si stava avvicinando ad Harkender, che si trovava carponi sul pavimento: esitava, come se non sapesse bene che cosa doveva fare, benché fosse stata istruita alla perfezione dalla signora Murrell. Era interamente nuda, tranne l'oggetto che indossava mediante una cintura: un fallo finto in legno, inguainato di cuoio morbido, enormemente lungo ma non troppo grosso, dotato di un'appendice inserita nella vagina, in modo tale da stimolare colei che lo usava. La signora Murrell, però, sapeva bene che, da questo punto di vista, il fallo finto era tutt'altro che perfetto. In ogni modo, ciò non aveva alcuna importanza, perché in quel caso il piacere era irrilevante. Poiché le sue uniche esperienze di desiderio e di attrazione sessuali erano avvenute per interposta persona, Gabriel faticava molto a comprendere quello che stava accadendo. Sapeva che cosa fossero il coito e la sodomia, sia perché aveva visitato i sogni di Luke Capthorn, sia perché, prim'ancora di essere posseduto dal demone, aveva ascoltato i racconti e gli avvertimenti che i trovatelli più grandi della Lodge si scambiavano a proposito delle abitudini di Luke. Nondimeno, quello che sapeva del figlio della signora Capthorn non era sufficiente a fargli comprendere la scena alla quale stava assistendo. Osservata senza alcun divertimento dalla signora Murrell, e tramite co-
stei da Gabriel, la ragazza s'inginocchiò dietro ad Harkender e tentò goffamente d'infilargli il fallo nell'ano. Non guardò la signora Murrell per avere consigli, né tentò di scusarsi del proprio impaccio. Finalmente, con qualche disagio, riuscì ad eseguire la penetrazione, e poi, poco a poco, arrossendo d'imbarazzo, riuscì anche a trovare un ritmo, sebbene irregolare. Scrutando il volto della ragazza, la signora Murrell si concesse un sorrisino: gradualmente, vide che la sua espressione diventava compiaciuta, non perché lo sfregamento dell'appendice del fallo le procurasse piacere, bensì per la consapevolezza che l'azione implicava una sorta di umiliazione, e che lei stessa si trovava nel ruolo insolito della persona che la infliggeva, anziché subirla. E questo, come la signora Murrell ben sapeva, era proprio quello che Harkender voleva. Il dolore fisico era soltanto un elemento, e forse neppure il più importante: occorreva un tormento più sottile, composto di mortificazione e di abiezione, che l'abitudine in qualche modo non riusciva ad esaurire. Jacob non si serviva mai di cinedi, in nessun modo, perché l'eiaculazione vanificava le sue intenzioni: cercava qualcosa che non avesse una conclusione naturale o una pausa, qualcosa di potenzialmente infinito; e ancor più cercava l'artificiosità, per trasformare l'ordine normale delle cose, per rovesciare il disegno della natura, e per moltiplicare la perversità nel modo più complesso che l'intelligenza potesse consentire. Nel tumulto bizzarro dei pensieri e dei sentimenti della signora Murrell, Gabriel individuò i ricordi delle occasioni in cui Harkender aveva tentato di spiegare la concezione su cui si fondavano i suoi rituali segreti, ma non riuscì ad interpretarli, perché ella non aveva preso sul serio quelle spiegazioni: era abituata alle sofisticherie escogitate dagli uomini per spiegare e giustificare le loro aberrazioni, e le considerava menzogne superflue. Nel periodo del suo apprendistato alla prostituzione, era diventata ben presto indifferente alla penetrazione, in qualunque modo fosse eseguita. Poco a poco, Harkender smise di mormorare, oscillando al ritmo che la ragazza era finalmente riuscita ad ottenere, e che manteneva con scrupolosa, anche se faticosa, determinazione. Con un bastone in pugno, la signora Murrell si alzò dalla sedia e si avvicinò alla coppia. Era completamente vestita, fiera della propria semplice eleganza e della propria compostezza. Senza fretta, eppure non troppo lentamente, iniziò a percuotere le spalle e la schiena di Harkender. Non tentò di adeguarsi al ritmo della coppia, tuttavia distribuì meticolosamente i colpi, con attenzione scrupolosa alla forza e alla direzione.
Nel picchiare, la signora Murrell non provava nessun piacere: neppure quello che derivava dal disprezzo, di cui la ragazza era ancora capace. Aveva bastonato molti uomini, nella sua vita, anche se di rado in quel modo, che era il modo della punizione autentica, quella che si riservava ai servi e ai condannati, anziché l'umiliazione eccitante solitamente preferita dai depravati. D'altronde, Harkender non si faceva bastonare sulla schiena, invece che sulle natiche, soltanto perché bramava essere simultaneamente sodomizzato, bensì perché, com'era evidente, desiderava un dolore violento, non un dolore lieve, tale da eccitare mediante l'immaginazione. Infatti, dalle spalle alla vita, aveva la schiena devastata dalle cicatrici di innumerevoli bastonature crudeli. Le percosse risultavano più comprensibili a Gabriel, il quale aveva assistito alle autoflagellazioni di sorella Teresa, che aveva inciso sulla schiena il resoconto completo delle proprie sofferenze. Con uno strano distacco, si chiese se anche Harkender sapesse volare. Forse aveva i polsi legati proprio per rimanere avvinto alla Terra e non fluttuare nel regno multicolore della luce. Benché Harkender tacesse, Gabriel sapeva, mediante la signora Murrell, che non era ancora giunto alla condizione mentale che cercava, e che definiva «estasi». La signora Murrell la definiva invece «trance», e sospettava che un medico avrebbe saputo attribuirvi un nome latino. Le manifestazioni del progresso verso la comunione mistica furono scarse e lievi: una volta, Harkender girò lievemente la testa, come per cogliere un sussurro fioco; un'altra volta, i suoi occhi ebbero una serie di spasmi sotto le palpebre abbassate; infine, il suo viso assunse un'espressione di calma assoluta. Allora la signora Murrell, con un cenno, ordinò alla ragazza di ritirarsi. Sudata per lo sforzo, benché la stanza fosse gelida, la ragazza fu ben lieta di obbedire. Mentre la signora Murrell la conduceva alla sedia nell'ombra, il fallo fetido ondeggiò fra le sue gambe, ostinatamente eretto. Con evidente disgusto, la ragazza abbassò lo sguardo ad esso e se lo tolse, aiutata dalla signora Murrell. Anche se Harkender taceva, senza muovere neppure le labbra, la signora Murrell credeva, e Gabriel sapeva, grazie ai poteri divinatori messigli a disposizione dal demone, che stava continuando a cantilenare interiormente, e intanto aveva visioni che riguardavano misteriose associazioni con entità della cui esistenza indipendente il fanciullo non aveva nessun motivo di dubitare. Per alcuni istanti, Gabriel si rammaricò di non poter leggere nella
mente di Harkender, ma probabilmente il demone di costui era in grado di tenere a bada il suo. La signora Murrell era convinta che la presunta magia di Harkender consistesse principalmente nel saper compiere qualche trucchetto d'ipnotismo. Credeva che quello che gli accadeva, qualunque cosa fosse, avvenisse soltanto nella sua mente, e che qualunque cosa vedesse o sentisse fosse pura illusione, da lui stesso prodotta inconsciamente per la sua propria soddisfazione. Non credeva che un grande esercito di entità soprannaturali vivesse al di sopra e al di là del mondo materiale degli uomini, e di certo non credeva che Harkender potesse accedere al loro reame in qualità di apprendista angelo e di pretendente a un potere divino. Invece, Gabriel era convinto di saperne di più. Non dubitava che il potere dimorante in Harkender fosse reale, e che le entità invisibili con le quali egli comunicava fossero ugualmente reali. Sapeva già che la solidità del mondo era pura apparenza, e che gli spiriti, al pari dei ragni, potevano benissimo essere ovunque, ammantati della loro invisibilità, e nondimeno potenti: terribilmente potenti. Sapeva che la recita della giovane prostituta non era altro che uno strumento di significato puramente personale, per Harkender. La signora Murrell credeva che il rituale magico fosse semplicemente l'orpello di una perversione sessuale, ma sbagliava: l'orpello era l'atto sessuale, mentre la magia era estremamente reale. Se Harkender desiderava essere compagno e confidente dei demoni e di altre entità, non esisteva nulla che potesse impedirglielo, entro i limiti delle possibilità, almeno a giudizio di Gabriel, il quale domandò a se stesso: È per questo che si è nominato mio tutore? Vuole forse che il mio demone si allei al suo? Ancora una volta, desiderò accedere al sogno di Harkender, vedere attraverso il suo occhio interiore, anziché attraverso gli occhi esteriori della signora Murrell, ancora assorta nella propria sottovalutazione delle pratiche del mago, e nella propria determinazione a considerarle insignificanti. La signora Murrell non aveva mai rivelato ad Harkender quello che pensava veramente di lui. Dopotutto, era una prostituta: il suo mestiere consisteva nel permettere la realizzazione delle fantasie che il pensiero convenzionale, la vita convenzionale e il matrimonio convenzionale tentavano goffamente di emarginare. Nuovamente seduta sulla sedia, iniziò a giocherellare distrattamente con la chioma castano-ramata della ragazza, la quale, sedutasi accanto a lei sul
pavimento, le aveva posato la testa in grembo. Intanto, osservò Harkender nel momento del suo orgasmo eccentrico: il momento senza tempo di connessione, che sarebbe terminato con il ritorno al mondo materiale e alla coscienza normale. Questo ritorno, come Gabriel apprese dai pensieri della signora Murrell, avveniva talvolta con la facilità del risveglio naturale da un sonno senza sogni. In altre occasioni, invece, terminava in modo diverso. Scrutando Harkender, curiosa di scoprire che cosa stava per accadere, la signora Murrell non rimase delusa. D'improvviso, Harkender stirò le labbra tumide a snudare i denti ingialliti, in un rictus di choc e di sofferenza. Strizzò gli occhi già chiusi, come per una reazione riflessa a una minaccia. Iniziò a chiudere e ad aprire alternativamente i pugni, non bruscamente, né convulsamente, bensì molto gradualmente. Intanto, la fronte gli si coprì di sudore gelido, il volto impallidì, fino a diventare poco a poco cinereo. Era come se Harkender si fosse denudato all'anima universale e qualche altra intelligenza cercasse di possederlo, o di divorarlo, o di diventare lui mediante qualche sorta di metamorfosi materiale e spirituale. Sembrava che egli resistesse fieramente, con ogni atomo del proprio essere, eppure fosse sull'orlo del fallimento, in pericolo di essere annientato. Follia, pensò la signora Murrell. Assoluta follia. Non aveva il minimo dubbio che Harkender soffrisse davvero, ma pensava che fosse una sofferenza che lui stesso s'infliggeva, quindi non se ne curava affatto. Per contrasto, Gabriel era colmo d'orrore. Quantunque Harkender fosse già posseduto, era innegabile che qualche altra entità stava cercando di possederlo. Neppure per un momento Gabriel aveva mai pensato che i demoni competessero fra loro per il controllo degli umani, che contaminavano con la loro conoscenza corruttrice e con la loro vista corruttrice. Si domandò che cosa avrebbe provato se il suo demone fosse stato costretto a lottare per il possesso della sua anima, e che cosa sarebbe stato di lui se la battaglia fosse stata feroce. Mentre Gabriel e la signora Murrell osservavano, entrambi affascinati, anche se per ragioni molto diverse, l'espressione di Harkender si rasserenò lentamente, i suoi muscoli si rilassarono poco a poco. Alla fine, Harkender si destò in assoluta serenità, apparentemente senza alcuna consapevolezza di essere stato coinvolto in una lotta, anzi, convinto di avere ottenuto precisamente lo scopo che si era prefisso: né più, né meno. Eppure, Gabriel sapeva, e ciò lo spaventava, che Harkender aveva corso
un pericolo così reale com'era reale la sua magia. Quell'uomo, che si proponeva d'impadronirsi di lui e di usarlo per i suoi propri scopi, aveva potere, ma era anche vulnerabile, e per giunta lo era terribilmente. Gabriel poteva soltanto immaginare quale potesse essere la propria vulnerabilità, ma aveva l'impressione che gli fosse stato mostrato, deliberatamente e con estrema chiarezza, che il demone che lo possedeva avrebbe potuto essere scacciato, un giorno. E non sapeva se dovesse sperare in tale eventualità, oppure paventarla. 5 Allo svanire del sogno, Gabriel si destò. Per alcuni secondi rimase disorientato, incapace di comprendere chi fosse e dove fosse, poi la sua coscienza s'impose nuovamente, ma con una vividezza innaturale. Ebbe l'impressione di essere toccato, come da una mano gentile. Benché fosse buio, sapeva che non vi era nessuno accanto al letto, eppure non dubitò di essere stato realmente toccato, in qualche modo, e capì di non dover gridare. Indubbiamente, il tocco era stato un richiamo, una convocazione, quindi Gabriel comprese di doversi alzare. La notte era fredda, ma l'appello non poteva essere ignorato. Morwenna lo stava chiamando: molto prima di quanto avesse previsto, era arrivato il momento della fuga. D'improvviso, ebbe paura. Aveva sempre considerato fantastiche e astratte, come di sogno, sia Morwenna, sia le sue promesse e i suoi inviti seducenti. In quel momento, però, la fuga non gli parve più un'oziosa fantasticheria, bensì un'azione da decidere. Inquieto, si alzò a sedere, scivolò fuori dalle coltri, infilò la giacca, prese gli stivali, camminò in punta di piedi, indossando soltanto le calze, fino alla porta del dormitorio, e l'aprì con estrema cautela, provocando un cigolio, ma senza destare nessuno. Quella notte, il sussurro del vento tra le fronde degli alberi scricchianti si aggiungeva ai cigolii inquietanti del legno e ai mormorii delle condutture, che si udivano perennemente nella Lodge. Nondimeno, per produrre meno rumore possibile, Gabriel scese la scala badando a rimanere al margine dei gradini. Non era affatto la prima volta che si destava nel cuore della notte per andare a vagare nella casa e nel parco. Insieme a Jesse Peat, aveva compiuto all'interno dell'edificio alcune scorribande, che di certo non erano risultate meno avventurose per il fatto che i due fanciulli non avevano tentato di rubare nulla, neppure cibo dalla cucina, ben sapendo che la signora Cap-
thorn, la quale era molto possessiva, avara e scrupolosa, si sarebbe accorta della minima mancanza. L'unica escursione che avevano compiuto insieme all'esterno della Lodge era stata molto breve: in quella occasione, Gabriel aveva scoperto che Jesse fingeva di essere molto coraggioso, mentre in realtà lo era ben poco, e che aveva cominciato a coinvolgerlo nelle proprie imprese perché non osava intraprenderle da solo. Anche prima di essere posseduto, Gabriel non aveva mai temuto il buio e i rumori della notte. Da quando aveva la vista interiore e il potere sugli animaletti notturni, però, si muoveva nell'oscurità con la massima tranquillità e sicurezza. La porta posteriore era sprangata, tuttavia la chiave era appesa al solito gancio e la spranga, ben lubrificata, era silenziosa: Gabriel uscì dalla Lodge in silenzio, senza alcuna difficoltà. Soltanto quando fu nel cortile, dopo aver calzato gli stivali, si sentì libero di indugiare a chiedersi se stesse facendo la cosa giusta. Non si sentiva costretto, perché Morwenna, anche se lo aveva chiamato tramite mezzi occulti, non era in grado di obbligarlo. Non sapeva di quali poteri magici ella disponesse, ma era certo di non essere soggetto ad essi, in quel momento. Non sapeva quasi nulla di lei. Si rendeva conto che non agiva sola, e che qualcuno l'aveva mandata a fare amicizia con lui, però non poteva neppure supporre chi fosse questo qualcuno. Non era certo Harkender: più probabilmente, un avversario di costui. Parlando con la signora Murrell, infatti, Jacob aveva accennato alla necessità di nascondere Gabriel ad «altri», che erano molto interessati alle sue attività. Comunque, Gabriel non riusciva ad immaginare che cosa potessero volere questi «altri» da lui, né che cosa intendesse fare di lui Harkender, anche se nutriva forti sospetti che i progetti di quest'ultimo avessero qualcosa a che fare con il demone che lo possedeva da qualche tempo. Aveva imparato a non fidarsi delle parole quando non erano accompagnate dai fatti, perciò non escludeva che sia Harkender sia Morwenna avessero mentito, quando avevano assicurato di essergli amici. Era più incline a fidarsi di Morwenna soltanto perché era più bella, più affettuosa, e più ingenua. Era possibile che Jacob, il quale, dopotutto, non aveva negato esplicitamente di esserlo, fosse suo padre, eppure in lui non vi era nulla che l'istinto del fanciullo potesse riconoscere come paterno, mentre Morwenna, che sicuramente non era sua madre, aveva, negli occhi liquidi e luminosi, qualcosa che prometteva sollecitudine e gentilezza.
Quanto alle suore di Santa Syncletica e alla signora Capthorn, neppure per un momento Gabriel pensò ad esse. Non esitò a lungo: la consapevolezza di essere posseduto conferiva al suo spirito una splendida audacia. Poiché non poteva aprire o scavalcare i cancelli, Gabriel attraversò il parco della Manor in direzione del luogo protetto dagli alberi e dall'edera in cui Morwenna lo attendeva. Tramite la vista interiore, non tardò ad individuarlo: era situato in una parte del bosco più lontana e più isolata di quella in cui era solito andare ad arrampicarsi sul muro. Nell'attraversare una radura, intravide una forma bianca in direzione della Manor e si fermò di scatto. Per alcuni istanti, nonostante la vaga convinzione che ella lo attendesse al di là del muro, pensò che Morwenna gli stesse andando incontro. Tuttavia, non tardò a rendersi conto che non si trattava di lei. Con un brivido di paura, riconobbe l'unica persona all'interno delle mura che avesse veramente motivo di temere: l'emaciata sorella Teresa, che tanto disperatamente desiderava diventare santa. Soltanto lei, forse, aveva il potere di esorcizzare il suo demone, e forse era soltanto la volontà di costui che gli faceva desiderare con tanto ardore di rimanere dove si trovava. Nel vederla avvicinarsi, Gabriel non dubitò affatto che Teresa fosse guidata dalla sua vista interiore. Alla luce della luna, che non era ancora tramontata e che in quel momento non era oscurata da nessuna nube, notò che aveva l'espressione vacua: sarebbe parsa una sonnambula, se non fosse stato per la risolutezza estrema con cui camminava. Il fanciullo s'infilò tra i cespugli, ma non tentò in alcun altro modo di nascondersi agli occhi esteriori della suora, perché si rese conto che ciò, molto probabilmente, non sarebbe bastato per sfuggire a Teresa. Infatti, quando fu a meno di sei passi dal suo nascondiglio, la monaca si fermò e guardò attorno, come se percepisse una presenza nascosta nelle vicinanze. Indossava una camicia da notte bianca, per certi aspetti non dissimile dalla veste di Morwenna, benché fosse rozza e sporca, anziché fine e pulita. Rispetto a Morwenna, sembrava più giovane, e sicuramente era molto più magra: aveva il viso sparuto e le braccia scheletriche. Mentre Teresa guardava attorno, Gabriel non riuscì a credere che non cercasse qualcosa, tuttavia stentò a convincersi che i suoi occhi vitrei fossero in grado di vedere. Sembrava smarrita in un sogno, alla ricerca di qualcosa che si trovava in un altro mondo. Con le dita divaricate, muoveva le mani: il sangue colava lentamente dalle ferite da cui erano straziate.
Forse anche Teresa era posseduta, e forse in quel momento era totalmente dominata dall'essere che dimorava in lei, il quale era forse un angelo, come lei credeva, ma sicuramente si serviva di lei in modo molto più violento di quanto facesse il demone con Gabriel. La suora aprì la bocca, però sulle prime non riuscì a parlare: fu come se dovesse combattere una battaglia, prima di poter imporre ubbidienza alla propria voce. Quando finalmente vi riuscì, con uno sforzo, pronunciò queste parole: — Aiutami, ti prego! T'imploro! Sorpreso, ma per nulla tentato di rispondere, Gabriel rimase nell'ombra ad osservare Teresa, il cui sguardo divenne un poco meno vacuo, come se ella fosse sul punto di destarsi dalla trance, in preda allo smarrimento e al terrore: fu scossa da un brivido convulso, come se improvvisamente percepisse il freddo. — Aiutami! — invocò nuovamente Teresa, nel tono più lamentoso che Gabriel avesse mai udito. Certo che la suora sapesse della sua presenza e parlasse a lui, Gabriel uscì con riluttanza dai cespugli. Allora ebbe la conferma di non essere percepito con la vista esteriore. In silenzio, attese. Con gli occhi vitrei, Teresa continuò per un poco a scrutare chissà quale infinità oscura, poi, d'improvviso, dardeggiò freneticamente lo sguardo tutt'attorno, come se si fosse resa conto di una presenza che non riusciva a individuare. Osservò molte volte il fanciullo, senza mostrare in alcun modo di riconoscerlo, e intanto iniziò a tastare l'aria dinanzi a sé. Incapace di risolversi a parlare, Gabriel avanzò fino a meno di un metro da lei. Quando gli sfiorò la chioma con una mano, Teresa ebbe una reazione del tutto inaspettata: arretrò come in preda a uno spavento terribile, benché fosse ancora incapace di vedere il fanciullo. Si osservò la mano, con sofferenza e con terrore, come se avesse toccato qualcosa di viscido e di orrido, quindi si lasciò sfuggire un grido d'angoscia, basso e breve. Mentre la suora lo fissava, sapendo esattamente dove si trovava, eppure senza vederlo, Gabriel si sentì spegnere in gola le parole che era stato sul punto di pronunciare. Scrutandola negli occhi, ebbe la certezza che non fosse cieca, anche se non poteva vederlo. Percepiva qualcosa, ma non le fragili sembianze umane di Gabriel Gill accanto ai cespugli: fissava un orizzonte remoto, forse su un mondo illuminato dalla luce del giorno, che per lei non era meno reale di quanto lo fosse per lui il parco notturno, con il buio degli alberi e le ombre gettate dalla luna. Si chiese se vedesse attra-
verso il suo corpo e se percepisse il demone che vi dimorava. In apparenza, era davvero così, perché Teresa proruppe, in un tono del tutto diverso: — Vattene! Vattene, Satana! Non ti ascolterò! Oh, Cristo misericordioso: proteggimi! Nel sentirsi chiamare con il nome del demonio, Gabriel fu nuovamente invaso da tutta la propria angoscia. La magia di Harkender non aveva suscitato orrore in lui, anche se aveva compreso che il disprezzo della signora Murrell per essa era sbagliato; e non temeva Morwenna, pur sapendo che non era del tutto umana. Eppure, come si addiceva a una creatura satanica, ebbe paura di quella ragazza debole, che voleva diventare una santa, e fuggì all'improvviso, correndo il più rapidamente possibile. Smarrita, Teresa non lo inseguì subito. Dopo avere percorso una trentina di metri, però, Gabriel si arrischiò a guardare indietro e la vide avanzare fluttuando graziosamente, con i piedi feriti che sfioravano a malapena il suolo. Con feroce determinazione, si arrampicò sul muro. Le ferite delle spine alla mano destra si riaprirono e il dolore, come un fuoco purificante, avvampò in lui, rischiarando il suo proposito e giustificando la sua fretta. In cima al muro, guardò in basso, all'esterno, e, non scorgendo Morwenna, esitò nuovamente. Si girò e vide sorella Teresa avvicinarsi fra gli alberi, con le magre braccia protese come ad implorargli di rimanere, di confidare nella misericordia di Cristo. Se Morwenna fosse stata presente, Gabriel si sarebbe gettato dalla cima del muro senza esitazione, sicuro che lei lo avrebbe preso. Ma poiché ella non era presente, non saltò: non era certo di poter atterrare senza danni. Non era sicuro di avere il tempo di scendere lentamente, cercando sul muro appigli per le mani e per i piedi, perché sapeva già che Teresa era in grado di volare, e dunque di superare senza difficoltà il muro medesimo. Proprio mentre la sua preoccupazione stava per trasformarsi in un'angoscia paralizzante, un uomo abbigliato di scuro sbucò di corsa dalla vegetazione, afferrò Teresa da sinistra, e la trattenne: era Luke Capthorn, apparentemente in preda a un'ansia non inferiore a quella di Gabriel. Quando Luke la afferrò, Teresa smise subito di fluttuare: posò i piedi al suolo e iniziò ad agitare le braccia protese, guardando incessantemente attorno. Con voce fioca e lamentosa, invocò la protezione di Cristo e ingiunse a Satana di arretrare. Senza tante cerimonie, Luke la scrollò con violenza, ripetutamente. Per un attimo, Teresa parve terrorizzata, quindi sembrò ritornare in sé: i suoi occhi smisero di fissare vacuamente un altro mondo.
Il suo sogno, se di un sogno si era trattato, cessò. — Sorella Teresa! — chiamò Luke, con urgenza. — Sorella Teresa! D'improvviso, la suora si calmò e riacquistò il controllo di se stessa. — Era soltanto un sogno! — disse Luke. — Deve tornare alla Manor, adesso. Osservandolo, Gabriel capì che non era la prima volta che accadeva qualcosa del genere. Nei pensieri di Luke non percepiva alcuna lascivia: soltanto ansia pura e semplice, nonché il desiderio di ripristinare la normalità. Luke aveva paura di sorella Teresa: se mai aveva desiderato abusare di lei come abusava talvolta dei trovatelli affidati alle sue cure, aveva rinunciato da molto tempo a tale desiderio. E non sapeva che Gabriel aveva lasciato il dormitorio: non era uscito a cercare lui. Il fanciullo si rendeva conto di essere perfettamente visibile: se soltanto avesse guardato nella sua direzione, Luke lo avrebbe visto. Per il momento, però, non sentì il bisogno di nascondersi, come aveva fatto quando si era accorto della presenza di Teresa. Timidamente, non con occhi vacui, come aveva fissato chissà quale altro mondo fino a poco prima, Teresa guardò Luke: era ancora spaventata, ma in modo diverso. — Torni indietro — insistette Luke. — Satana era qui! — sussurrò Teresa, in tono di ammonimento. Allora Luke cercò di prenderla per mano, e trasalì, scoprendo che sanguinava. Più rudemente, ripeté: — Torni indietro! — Allontanò la suora con una spinta e si terse la mano insanguinata sui calzoni. — Non c'è nessuno, qui! Torni indietro, dannazione! Nell'udire questa imprecazione, Teresa vacillò, come se fosse stata percossa. — Torni indietro! — disse di nuovo Luke, ma in tono implorante, disperato, tanta era la sua ansia d'indurre la suora ad obbedirgli. — Sarà al sicuro nella Manor: sarà al sicuro! Non c'è nessuno, qui! Finalmente, Teresa si allontanò con una certa risolutezza, guardandosi però ripetutamente alle spalle, come se Luke fosse il demonio. Soltanto dopo avere percorso una dozzina di metri, finalmente, accelerò il passo e proseguì verso la sagoma fosca dell'edificio, senza più guardare indietro. Nel seguirla con lo sguardo, Luke sospirò rumorosamente. Appena la suora fu scomparsa nell'oscurità, s'incamminò verso la Lodge. Sempre immobile, Gabriel sorrise alla dolce ironia del fatto che Luke non lo aveva scoperto: non aveva neppure guardato nella sua direzione.
Ciò gli parve una dimostrazione ulteriore del potere del suo demone: si convinse che questi gli avesse ordinato di non guardare e di non vedere, e che Luke non avesse avuto altra scelta che obbedire. Quando anche Luke fu scomparso, Gabriel, nel silenzio, si girò a guardare il sentiero che correva, all'esterno, lungo il muro di cinta di Hudlestone Manor: apparsa come dal nulla, Morwenna era là, pronta ad accoglierlo. — Scendi, Gabriel — invitò Morwenna, lievemente ansimante. — È tempo che tu conosca mia sorella: è molto ansiosa d'incontrarti. Senza gettare nemmeno uno sguardo alle proprie spalle, Gabriel saltò fra le braccia, insolitamente forti, di Morwenna, la quale lo depose subito al suolo, gentilmente, accanto a sé. Il tocco delle sue dita perfette non era meno sollecito e affettuoso di quanto avesse immaginato il fanciullo, che, con un empito di sollievo, si congratulò con se stesso per non avere esitato nel rispondere al suo richiamo: era sicuro di avere agito nel modo più giusto. Non più abbandonato, e del tutto affascinato, si lasciò prendere per mano e condurre oltre il sentiero. Insieme, Morwenna e Gabriel si allontanarono dal muro di cinta del parco, nelle tenebre. 6 Nell'oscurità, senza fretta, Morwenna condusse Gabriel attraverso un boschetto fino alla riva del canale, dove attendeva una barca. Il fanciullo non poté fare a meno di pensare a Jesse Peat, che stava riposando tranquillamente nel dormitorio di Hudlestone Lodge: le sue fantasie di fuga avevano sempre incluso una barca in attesa. Agli occhi di Gabriel, la barca parve gigantesca: molto più grande di quanto aveva immaginato che fossero le barche, ascoltando i racconti di vita fluviale di Jesse. Da poppa a prua, essa misurava all'incirca una ventina di metri, mentre era larga poco meno di due metri. Condotto subito da Morwenna a poppa, Gabriel intravide il robusto cavallo grigio che attendeva pazientemente d'iniziare a tirare l'alzaia. Accanto al timone aspettava, fumando diligentemente una pipa ricurva, un barcaiolo che assomigliava tanto a Jesse Peat da sembrare suo parente: come lui, aveva la chioma nera, ricciuta, e la carnagione scura, però portava un folto paio di mustacchi neri e un orecchino d'oro. Con un cenno, senza parlare, invitò Morwenna e Gabriel a salire a bordo, e poi a scendere in cabina.
Le finestre della cabina erano oscurate dalle tendine, affinché la fioca luce gialla della lanterna che pendeva da un gancio infisso nel tetto non si scorgesse all'esterno. Su ognuna delle pareti era dipinto il medesimo paesaggio: un prato fiorito in primo piano, oltre il quale un bosco si stagliava sullo sfondo di una montagna immensa e remota. La cabina era occupata soltanto da una vecchia che indossava un fazzoletto a disegni geometrici avvolto intorno alla testa, uno scialle grigio, una camicetta bianca, una gonna sgargiante ma piuttosto sporca. Quando Gabriel, vedendola, si fermò, trepidante, la vecchia lo invitò, con un cenno, a sedere sulla panca accanto a una stufa a carbone, accesa. Quindi salutò Morwenna con un lieve inchino, e uscì, per andare a tenere compagnia al barcaiolo. Con un dondolio, e con una dolce accelerazione, la barca si staccò dalla riva. Lo zoccolio non si udiva perché il cavallo aveva gli zoccoli fasciati. — Questa barca viene usata per trasportare il carbone a Paddington — spiegò Morwenna, con voce dolce e musicale. — Abbiamo sempre avuto amici fra gli zingari, perché sono gente vargr come noi: sono più inquieti della gente comune, che ha l'anima fredda. Anche se non comprese tale discorso, Gabriel non chiese alcuna spiegazione. Per alcuni momenti, rimase in ascolto con la massima attenzione, senza udire alcun rumore d'inseguimento. Intanto, Morwenna prese due coperte da una cassapanca e le spiegò: — Sei stanco, Gabriel. Fino a quel momento, Gabriel non si era sentito affatto stanco. Ma nell'incontrare gli occhi dolci di Morwenna, si sentì improvvisamente molto assonnato. Resistette, perché si rendeva conto che si trattava di una sonnolenza magica, pur avendo la netta impressione che ella non volesse nuocergli in alcun modo, bensì che volesse soltanto farlo stare comodo: — Dove mi stai portando? — sussurrò, in tono di complicità. — Innanzi tutto, a Kensal Green, dove lasceremo la barca. Proseguiremo in carrozza per le strade di Londra, che a quest'ora sono molto tranquille. Alloggerai in una casa spaziosa, che appartiene a un uomo di nome Caleb Amalax: non ti piacerà molto, ma non avrai motivo di temerlo, perché è dei nostri, e ci è utile. Come gli uomini si servono delle altre bestie, così noi ci serviamo degli uomini dall'anima fredda. Sforzandosi di difendere la propria curiosità dall'imposizione seducente della sonnolenza, Gabriel domandò: — Siete maghi, allora? Come il signor Harkender?
Morwenna sorrise, scuotendo la testa: — Forse mia sorella è tanto potente nella magia quanto il signor Harkender, ma noi non siamo semplici maghi. Non sai che cosa siamo, Gabriel? Credevo che la tua vista fosse più sviluppata. Non voglio che tu creda che ti abbiamo rapito con l'inganno e con la menzogna. — Con voce morbida, carezzevole, soggiunse: — Guardami, Gabriel, e cerca di vedermi come sono realmente, giacché la forma umana non mi piace, e non mi appartiene... Allora Gabriel scrutò la chioma serica e gli occhi liquidi, le labbra rosse e sorridenti, le braccia forti, per nulla impacciate dall'ampia veste bianca. Sapendo che tutto ciò era pura apparenza, si sforzò di vedere attraverso e oltre l'apparenza, mediante l'occhio interiore che non padroneggiava ancora, e che spesso gli sembrava essere invece il suo padrone. Così, scoprì di poter vedere, non limpidamente, bensì evocativamente: — Sei una lupa — dichiarò, sorpreso di scoprire che la rivelazione non gli appariva tanto strana. — La tua anima è l'anima di una lupa. — E si rese conto, pur senza essere sconvolto dallo sbalordimento o dal terrore, che nel parco aveva visto davvero Morwenna, e che i licantropi di Londra esistevano realmente. — Questo ti spaventa, Gabriel? — chiese Morwenna, tanto teneramente e tanto amorevolmente da proibire al fanciullo di avere paura. — È quello che sono anch'io? — disse di rimando Gabriel, il quale non aveva ancora deciso che genere di demone dimorasse in lui, e dunque non riteneva impossibile che si trattasse di una creatura lupesca. — Ti piacerebbe essere un licantropo, e cacciare con il branco nelle strade buie della città? Per un istante, l'abitudine rischiò di prendere il sopravvento su di lui e d'indurlo alla solita risposta meccanica: «Sì, signora». Tuttavia, Gabriel si trattenne: sapeva che si trattava della risposta che Morwenna si aspettava, ma sapeva anche di non essere obbligato a fornirla. Si era lasciato alle spalle l'ubbidienza, ormai, e la riconosciuta inumanità di Morwenna gli dava il permesso di accantonare tutti i doveri che avevano formato la sua parvenza di fanciullo. Teresa lo aveva chiamato Satana, ma se apparteneva davvero alla compagnia del demonio, sicuramente non aveva nessun bisogno di cercare di nascondere ciò ai licantropi di Londra. Dunque rispose sinceramente: — Non so... Mi piacerebbe imparare a cambiare forma, e mi piacerebbe anche imparare a volare. Mi piacerebbe imparare tutti i poteri magici che ha il mio demone. Diede per scontato che Morwenna fosse al corrente della sua possessione. Come complimento, le lasciò capire che non aveva paura di quel-
lo che lei sapeva sulla sua vera natura. Nondimeno, Morwenna pareva soltanto perplessa. Per un attimo, sembrò sul punto di domandargli a quale demone si riferisse, ma poi decise di tacere. Dal suo evidente sconcerto, Gabriel capì che ella sapeva meno di quanto avesse immaginato, però non vi diede importanza: dopotutto, non aveva ideato il piano per liberarlo da Hudlestone Lodge, bensì si era limitata ad eseguire le istruzioni che aveva ricevuto. — Dormi, ora — esortò Morwenna. — Non sarà un sonno lungo, ma devi riposare. Nell'udirla pronunciare queste parole, Gabriel comprese che ella aveva un poco paura di lui, e anche che avrebbe potuto opporsi a lei, se avesse voluto: il demone lo avrebbe tenuto sveglio, nonostante l'incantesimo degli occhi di lei, se avesse invocato quella frazione del suo potere che era soggetta al suo dominio. Tuttavia, acconsentì benevolmente a lasciarsi suggestionare da lei. Quando si fu avvolto nelle coperte, però, cercò invano di rimanere immobile ad occhi chiusi: inquieto, e incapace di contenere la propria eccitazione, si girò e si rigirò nel tentativo di trovare una posizione comoda in quel luogo che gli sembrava irriducibilmente scomodo, inadatto a dormire. Intanto, non poté fare a meno di chiedersi che cosa gli sarebbe accaduto in compagnia dei licantropi di Londra. Il futuro, velato dall'incertezza, gli apparve più minaccioso di quando aveva contemplato quell'avventura alla luce del giorno. Ciò non aveva nulla a che fare con la scoperta che lo aveva indotto a consegnarsi ai licantropi: si trattava di un'inquietudine più vaga, che scaturiva dalla consapevolezza che il suo passato non era semplicemente dietro di lui, bensì era del tutto cancellato. Comunque, non poteva tornare indietro: non tanto perché era scappato, quanto perché era diventato una creatura molto diversa dal Gabriel Gill che era stato accolto alla Manor da bambino. Il demone che lo possedeva, di qualunque genere fosse, aveva reso lo schema della sua vita impossibile da perpetuare, forse persino da sopportare. Non soltanto non apparteneva più ad Hudlestone Manor: non apparteneva più neppure al consorzio umano. Si chiese perché Morwenna avesse detto che gli uomini avevano l'anima fredda, e perché fosse tanto certa che lui era diverso. Anche lui, ormai, come i licantropi di Londra, era un fuggiasco nel mondo degli uomini, e come loro aveva in sé il potere di dissimulare o di ferire a volontà. Gli era stata concessa la facoltà d'intravedere quello che
normalmente era celato alla vista umana, come la moltitudine dei ragni; e nell'acquistare tale facoltà di vedere il mondo al di là, era stato condannato a condividerla con tutti coloro che la possedevano. In realtà, il viaggio che stava compiendo non era una fuga, bensì una mera conferma del proprio arrivo. Il mondo in cui si trovava era sconcertante, ma poiché era stato gettato alla deriva in esso prima di avere trovato una situazione desiderabile in quello che si era lasciato alle spalle, non sentiva troppo intensamente la sua mancanza di sicurezza e di conforto. Dopotutto, era già abile nell'arte di lasciarsi condurre ovunque gli altri volessero guidarlo, mantenendo nel frattempo segreti i suoi veri pensieri. E così, in un tumulto di sentimenti che in qualche modo non contrastavano fra loro tanto ferocemente quanto avrebbero potuto, trascorse le buie ore notturne, fino a quando la barca approdò a Kensal Green. Quando finalmente Morwenna lo svegliò, Gabriel si alzò alacremente, entusiasta di sbarcare. Il barcaiolo apparve sulla soglia della cabina, apparentemente ansioso di sbarazzarsi di lui: quando il fanciullo precedette Morwenna, gli afferrò saldamente un braccio, per aiutarlo a salire i gradini. Benché non desiderasse tale aiuto, né ne avesse bisogno, Gabriel non si oppose. Era ancora buio, tuttavia il pallido chiarore che precedeva l'alba era già visibile nel firmamento orientale, privo di stelle. Sulla strada attendeva una carrozza trainata da un cavallo. Seduto a cassetta, il vetturale, che era un giovane grande e grosso, indossava un cappotto per proteggersi dal freddo. Non appena uscì dalla cabina, Gabriel sentì su di sé lo sguardo degli occhi, nascosti nell'ombra, del vetturale, il quale balzò subito al suolo e salutò: — Salve, Gabriel. — La sua pronuncia raffinata smentì l'aspetto plebeo che gli davano gli indumenti piuttosto sporchi. Sia nei modi sia nell'aspetto, era molto diverso dal barcaiolo e dalla vecchia: la chioma bionda e il pallore del viso spiccavano anche nell'oscurità; gli occhi azzurri erano molto insoliti, di una luminosità di cui Gabriel non aveva mai visto l'uguale. Montando sul predellino, Gabriel fu sorpreso dalla mano bianca e snella che sbucò dall'abitacolo per offrirgli aiuto. L'afferrò, e rimase ancora più sbalordito dalla morbidezza e dalla fermezza della presa. L'interno della carrozza era troppo buio per poter vedere chiaramente la persona che vi si trovava, tuttavia capì che si trattava di una donna, e immaginò che fosse la
sorella di Morwenna. Con una voce ancora più morbida di quella di Morwenna, la sconosciuta mormorò: — Sono molto felice di conoscerti, Gabriel. Morwenna mi ha parlato molto di te. Montata a sua volta a bordo della carrozza, Morwenna sedette sul sedile anteriore. L'altra donna trasse Gabriel accanto a sé, sul sedile posteriore, e in un gesto possessivo e protettivo gli passò intorno alle spalle il braccio con cui l'aveva aiutato a salire. Né la sua voce né il suo tocco, per quanto gentili, trasmettevano l'affetto di quelli di Morwenna. Intuendo che la sconosciuta era una persona molto più calcolatrice, Gabriel domandò, sottovoce, ma con urgenza: — Chi sei? — Morwenna non ti ha detto il mio nome? — L'altra donna attese per un poco, ma poiché Morwenna restava in silenzio, senza fornire una risposta, né una spiegazione, e Gabriel taceva a sua volta, riprese finalmente: — Il mio nome è Mandorla. Sono la madre e la sorella dei licantropi di Londra. — Così dicendo, strinse maggiormente a sé Gabriel, e con il tocco delle sue dita snelle cercò di rassicurarlo. Il fanciullo si sentiva stanco, ma sapeva che questa volta la sua stanchezza era autentica. — Il viaggio sarà lungo — riprese Mandorla — ma vedrai che il tempo passerà in fretta. Non aver paura: nessuno ti farà male. Noi ti proteggeremo. Mentre la carrozza partiva, Gabriel domandò: — Perché mi volete? Perché avete mandato Morwenna alla Manor a prendermi? — Perché sappiamo che cosa sei — rispose Mandorla, con estrema gentilezza. — Sappiamo anche che sei in pericolo a causa di coloro che non sanno che cosa sei, nonché a causa di coloro che lo sanno, e che vogliono servirsi di te in modo folle. Jacob Harkender ti avrebbe usato brutalmente, e non per scopi buoni. Noi, però, non lo faremo. Noi ti insegneremo quello che le suore non avrebbero mai potuto insegnarti: la vera storia del mondo, la vera natura dell'umanità, e la vera estensione del potere che possiedi. Soltanto noi conosciamo il tuo vero destino, e soltanto noi possiamo aiutarti a scoprirlo. — Siete in molti? — domandò Gabriel, ancora curioso nonostante la spossatezza che lo invadeva poco a poco. — Oh, sì — rispose Mandorla. — Perris, che hai già conosciuto, sta guidando la carrozza. Altri quattro li conoscerai: Siri, Calan, Suarra e Arian. Abbi pazienza, Gabriel, e col tempo ci conoscerai tutti: persino coloro
che stanno dormendo, se ci aiuterai a destarli. Non aver paura di nulla, Gabriel: non devi mai avere paura. Il cielo era ormai grigio, e il giorno nascente diventava sempre più luminoso, rapidamente. Infine, Gabriel poté osservare il volto di Mandorla. Quando aveva visto Morwenna per la prima volta, aveva creduto che non esistesse al mondo una donna più bella di lei. In quel momento, però, anche se non era certo di avere sbagliato, fu costretto a ricredersi. Con la chioma dorata, gli occhi viola, il viso serico, Mandorla era più meravigliosa di qualunque Madonna o angelo che Gabriel avesse mai veduto nei quadri, tuttavia i suoi lineamenti finissimi erano più duri di quelli di Morwenna, e la sua espressione era imperiosa. Era estremamente consapevole della propria autorità, in un modo che era estraneo a Morwenna, tanto che rammentò vagamente al fanciullo la madre badessa. Osservandola, Gabriel comprese perché avesse inviato Morwenna a fare amicizia con lui: Morwenna possedeva un'innocenza e una tenerezza che lei non aveva. Comunque, non si sentì ingannato per il fatto che i licantropi avessero inviata remissaria in grado di conquistare più facilmente la sua fiducia: non aveva paura di Mandorla. E quando lei gli aveva assicurato che non aveva motivo di avere paura di nulla, mai, le aveva creduto. Fu dunque tra le braccia di Mandorla, anziché tra quelle di Morwenna, che Gabriel cedette infine al sonno, anche se il viaggio a bordo della carrozza, che ondeggiava e sussultava violentemente nei solchi profondi della strada, fu di gran lunga più scomodo di quello a bordo della barca sul canale. 7 Dalla finestra dell'attico, Gabriel osservò la sottostante strada del mercato, vividamente illuminata, nella notte, dalla luce bianca dei lampioni a gas, preponderante, e dagli sparsi fuochi arancioni delle lampade ad olio. Mai Gabriel aveva visto una confusione simile a quella della folla, sempre più numerosa, né mai aveva sognato che potesse esistere un simile spettacolo. Pensò che quello fosse il mondo che avrebbe dovuto essere visibile oltre le mura di Hudlestone Manor: il tumulto autentico della vita moderna, di cui aveva sentito parlare sottovoce, e che non avrebbe mai potuto immaginare in tutti quegli spaventevoli dettagli. Il movimento, il fragore, l'affollamento, erano tanto sbalorditivi da mozzargli il fiato. Non riusciva ad immaginare come la gente potesse farsi largo o compiere qualun-
que azione in quel caos. Ai lati della strada intasata dalla calca, i cui marciapiedi erano percorsi dai venditori ambulanti, con le loro ceste piene di derrate e di passamanerie, si allineavano i chioschi dei venditori di pesce fritto, di patate al forno, di caldarroste, e le botteghe dei macellai, dei fornai, dei cartolai, dei droghieri. Fra i chioschi e le botteghe suonavano i fisarmonicisti e i flautisti, dondolandosi in una stanca parodia di danza. Gli spazi più angusti erano occupati dai mendicanti: ciechi, storpi, ragazze emaciate che stringevano fra le braccia bimbi piangenti. Affascinato da tale spettacolo, Gabriel non distolse gli occhi dalla strada neppure quando udì la porta aprirsi e chiudersi alle sue spalle. Soltanto quando la persona che era entrata gli si affiancò, si volse a guardarla: era Mandorla. Con la pelle lattea fiocamente scintillante nella luce che entrava dall'esterno, Mandorla rimase in piedi accanto al fanciullo, di fronte alla finestra: — Non sono spregevoli? Al sabato, ricevono la paga settimanale e vengono a comprare quello di cui hanno bisogno. Poi, quando hanno assolto alle loro necessità, o talvolta quando le hanno dimenticate, si abbandonano ai loro desideri, vale a dire che sei su dieci spendono fino all'ultimo centesimo il poco denaro che sono riusciti a risparmiare, per godere il lusso dell'ebbrezza o l'eccitazione del gioco d'azzardo. Tutto ciò non cambia mai, da una generazione all'altra, da un secolo all'altro, e non ha mai bisogno di essere ricordato o dimenticato. Quali che siano i nomi delle città, comunque siano chiamate le divinità venerate dalla gente, c'è sempre la folla, c'è sempre la massa sporca e drogata che sperpera la vita e l'anima in una palude di miseria. Guardala, Gabriel, e impara a disprezzarla, perché quella non è la tua gente, qualunque cosa ti abbiano detto in quella sentina di religiosità in cui Harkender ti aveva nascosto. Incuriosito, Gabriel la osservò. Vi era qualcosa, nel suo fervore pedagogico, che gli ricordava le suore di Santa Syncletica, ma sotto ogni altro aspetto Mandorla era estremamente diversa. Del resto, ciò era prevedibile: anche lei, come lui, apparteneva al Demonio, mentre le monache formavano un reggimento dell'esercito di Dio. — Perché non appartengo a quella gente? — chiese timidamente Gabriel. — Ora lo so, ma nessuno mi aveva mai detto che sono diverso, prima che incontrassi Morwenna. A Hudlestone, soltanto sorella Teresa ha capito che un demone mi possiede. Prim'ancora che Gabriel iniziasse a parlare, Mandorla si era girata per
recarsi al tavolino accanto al nuovo letto del fanciullo. Accese la lampada ad olio che vi si trovava, la quale diffondeva una luce gialla, meno intensa di quella dei lampioni a gas che ardevano in strada; poi sedette sul bordo del letto, e con un cenno invitò Gabriel ad avvicinarsi. Con esitazione, il fanciullo obbedì. — Non devi avere paura. — Mandorla allungò le braccia per attirare Gabriel a sé. — Diventerai il mio apprendista. Ti insegnerò tutto quello che posso sulle arti magiche. Ti piacerebbe, vero, avere il potere di dominare il mondo delle apparenze? — Sì, grazie — mormorò Gabriel, sentendosi insolitamente vergognoso di quell'accettazione immediata e vacua. Sapeva di possedere già certi poteri, o almeno che il suo demone li possedeva, tuttavia non intendeva rivelarlo spontaneamente. Con una facilità sorprendente, in una persona tanto snella, Mandorla lo sollevò di peso per porlo a sedere sul letto accanto a sé, quindi gli passò il braccio destro intorno alle spalle e lo strinse a sé, come nessuno aveva mai fatto prima che egli le sedesse vicino, nella carrozza che lo aveva condotto lì da Kensal Green: — Non devi fingere, con me. Non ho bisogno di essere ammansita con le cortesie. Non siamo come la gente là fuori, tu ed io. La gente è il nostro bestiame: è stata posta sulla Terra affinché noi ce ne serviamo come possiamo. È vero che assumiamo la loro forma per poterci muovere fra loro senza essere notati, però siamo molto diversi, e quando ci degnamo di indossare il loro aspetto, lo facciamo molto più abilmente di quanto possano farlo loro. Noi siamo belli, Gabriel, e sappiamo usare la nostra bellezza come una trappola. In passato ho abitato palazzi, ma le comodita e i lussi amati dagli umani sono pericolosi per noi, poiché minacciano di farci dimenticare quello che siamo realmente. Noi siamo creature selvagge, Gabriel: siamo i vargr, gli inquieti, e dobbiamo badare a non dimenticare mai l'eccitazione della caccia. Gli uomini si compiacciono di credersi civili, e pretendono di avere bandito la natura selvaggia dalle loro città, ma le strade buie di Londra sono la wilderness più vasta, il territorio di caccia perfetto. Con un lieve tuffo al cuore, Gabriel domandò: — Rapite i bambini per mangiarli? — Siamo lupi — rispose Mandorla. — Ci nutriamo secondo il nostro desiderio, e i bambini umani, per noi, non sono né più né meno che topi o conigli. Non abbiamo particolari necessità di cibarcene, ma possiamo divorarli, se ci piace. Uccidiamo secondo il nostro desiderio, e se traiamo
piacere dall'uccidere, ciò è nella nostra natura. Coloro i quali raccontano che vaghiamo nelle strade di notte alla ricerca di bambini da rapire, mentono, perché essi non suscitano in noi nessun appetito particolare. Tuttavia, se ci facesse piacere cibarci di carne umana, sia una notte ogni dieci, sia una volta ogni mille anni, nessuno potrebbe negarcene il diritto, giacché siamo lupi, e non dobbiamo nulla al gregge umano. Esitante, Gabriel chiese: — E anch'io sono un lupo? — Potresti esserlo, se soltanto imparassi come. In ogni modo, sei molto più di questo, fanciullo mio: persino Jacob Harkender non capisce realmente quale potere possiedi, e come potresti usarlo. — Sono più simile a lui che a te — dichiarò Gabriel, con rammarico. — Perché lui ha un demone nell'anima, come io ne ho uno nella mia. Piuttosto irritata, Mandorla reclinò la testa per obbligare il fanciullo a scrutarla negli occhi viola: — Non devi credere — ingiunse severamente — che dentro di te vi sia un demone estraneo a te, qualunque cosa ti abbiano detto le suore sugli stratagemmi di Satana. È vero che al mondo esistono i demoni, però quello che ti hanno spiegato le suore su di essi è sbagliato in ogni particolare. Le loro sacre scritture sono corrotte al pari di tutte le altre apparenze menzognere che preservano l'immagine del passato falso: non ci si può fidare di nulla che sia scritto in esse, nonostante gli echi fievoli della vera storia che i saggi possono trovarvi. Credi davvero di essere posseduto da uno spirito satanico come quelli degli incubi delle monache? In precedenza, Gabriel aveva creduto abbastanza sinceramente che fosse così, ma nel momento in cui Mandorla gli rivelò che non era vero, scoprì che la propria convinzione non aveva la forza di resistere al suo scetticismo. Perciò rispose, a disagio: — No, ma... — Incapace di continuare, attese umilmente che Mandorla gli spiegasse in modo diverso quello che gli era accaduto nelle ultime settimane. — Se sei posseduto, Gabriel, è l'apparenza umana che ti possiede. Finora, sei stato intrappolato dalla mera apparenza, tanto da sembrare umano persino a te stesso. Ma ora stai diventando un essere molto diverso, dotato del dono della vista interiore e del potere di dominare le apparenze. Quello che hai immaginato essere un demone entrato dentro di te, è in realtà il tuo vero essere. Il corpo umano e la fredda anima umana che hai considerato come tuoi non sono altro che un guscio, di cui dovrai liberarti gradualmente, come una libellula si sbarazza della crisalide strisciante che prima sembrava essere. Vi sono altri, oltre a noi, i quali mantengono una certa appa-
renza di umanità, anche se la loro natura interiore è diversa. Un tempo avevano forme diverse, ma ormai indossano tutti la maschera dell'umanità. Le creature del mondo stanno perdendo l'anima, e tutte le creature antiche devono travestirsi in modo da sembrare senz'anima. Non sappiamo perché è così, ma è un'evoluzione che finora siamo stati impotenti ad interrompere, giacché coloro che un tempo avevano il potere della creazione dormono un sonno molto più profondo di coloro che ne erano i seguaci. Non sarà sempre così: sta per iniziare un millennio che sarà molto diverso da quello che prevedono le tue pie monache, e tu, forse, contribuirai a questa metamorfosi gioiosa. Mi capisci, Gabriel? Benché Gabriel bramasse comprendere, e compiacere Mandorla mediante tale comprensione, ciò che aveva udito era davvero troppo. L'entità capricciosa che dimorava in lui, sia che fosse un demone, sia che fosse la sua vera anima, era capace di comprensioni miracolose, a proposito di certi argomenti, ma a proposito di altri sembrava cieca e stupida. Perciò il fanciullo non era rimasto sorpreso nel sentirsi spiegare che stava soltanto iniziando a destarsi. Dubbioso, domandò: — Che cosa sono? — I nomi non hanno importanza. Tu sei qualcosa di nuovo nel mondo. È trascorso molto tempo dall'ultima volta in cui apparve qualcosa di nuovo nel mondo, ad eccezione delle cose morte e senz'anima, come le macchine costruite dagli uomini. Ecco perché dobbiamo sperare in un'epoca nuova che sostituisca questa terribile Età del Ferro che per tutti noi è odiosa. Non sarà il ritorno dell'Età dell'Oro, ma dobbiamo sperare che sarà un'Età della Creazione, e non la lugubre e vacua Età della Ragione che l'Uomo d'Argilla ha profetizzato. — Ciò detto, Mandorla tacque, rendendosi conto che Gabriel non poteva capire quello che stava cercando di spiegargli. — Perdonami, Gabriel — mormorò. — Sappiamo talmente bene quanto siano ingannevoli le apparenze, che talvolta cessiamo completamente di badare ad esse. Devi sapere che mi devo sforzare per rammentare che tu, pur essendo uno di noi, non hai ancora vissuto per migliaia di anni, come noi. Dal mio aspetto, non si direbbe che ho vissuto diecimila anni, vero? — Come per sottolineare il fatto che ricordava, dopotutto, che lui era soltanto un fanciullo, lo strinse di nuovo a sé. Quantunque Gabriel fosse bello e buono, nessun altro si era mai mostrato tanto desideroso di toccarlo e di accarezzarlo quanto Mandorla: nessun altro gli aveva mai manifestato tanto affetto. Perciò gli fu facile credere che gli umani da cui era stato allevato avevano sempre sospettato, pur senza saperlo, che lui apparteneva a un'altra razza. Eppure, anche Mandorla
non sembrava del tutto sincera. D'improvviso, mentre ella gli scompigliava i capelli e gli accarezzava una guancia, Gabriel cominciò a piangere, ma senza lamenti, senza singhiozzi: semplicemente, le lacrime gli scorsero gentilmente sul viso. Eppure non si sentiva angosciato, quindi non capiva la ragione di tanta commozione. — Devi essere spaventato... Hai molto da imparare, ma io sono la maestra che può insegnarti la verità. — Ancora per qualche minuto, Mandorla lo tenne stretto a sé, mentre le lacrime sgorgavano da lui, poi, quando Gabriel si soffiò il naso e cercò di raddrizzare la schiena, lo lasciò. Prese lo specchio ovale che aveva posato sul tavolino accanto alla lampada, poco prima, senza che lui vi badasse, e ordinò: — Guarda! Il fanciullo obbedì. In silenzio, Mandorla sollevò lo specchio dinanzi a sé, all'altezza degli occhi, e cominciò a muoverlo quasi impercettibilmente da un lato all'altro, scrutandolo. Quindi si spostò, in modo che anche Gabriel potesse guardare. Sullo specchio apparve una fiammella azzurra, che si arricciò, guizzò, si torse, diventando sempre più grande e più luminosa: poco a poco, colmò lo specchio, traboccò, divenne bianca, e con la propria luce intensa illuminò ogni angolo della stanza, tanto che la luce gialla della lampada ad olio parve, per contrasto, tetra e fosca. Anche se lo voleva, Gabriel non osò proteggersi gli occhi con un braccio. Per più di mezzo minuto ancora, Mandorla tenne immobile lo specchio, lasciando fluire quella luce sbalorditiva, in cui il suo viso appariva bianchissimo, tranne gli occhi fieramente purpurei e le labbra coralline. Sollevata da una forza impercettibile, la sua lunga chioma ondeggiava orizzontalmente, come immersa in un ruscello invisibile. Gradualmente, la luce bianca si attenuò fino a ridiventare azzurra, si ridusse a nulla più che una scintilla fugace, infine si spense. Lo specchio divenne del tutto oscuro per un momento, prima di tornare a riflettere la stanza. Abbacinato, Gabriel batté le palpebre, tentando di riacquistare la vista: la luce gialla incupì poco a poco a un arancione scuro, simile a quello del sole al tramonto. Prendendo una mano del fanciullo, Mandorla gli fece toccare la superficie dello specchio, che era ancora lievemente calda, anche se forse il calore era soltanto quello delle dita che lo avevano tenuto: — Questa è
magia: il potere di accendere la luce nella tenebra. Puoi fare lo stesso? Anche se non aveva mai tentato nulla di simile, Gabriel non pensò neppure a rispondere negativamente. Per verificare, prese lo specchio, lo sollevò, tenendolo come aveva fatto Mandorla, e ne scrutò il centro. In silenzio, con la massima imperiosità di cui era capace, ordinò alla luce di comparirvi. Poiché nulla accadde, si sentì deluso. — Posso dominare gli animaletti — spiegò — e cambiare forma alle ragnatele tessute dai ragni. — Davvero? — Mandorla parve molto contenta. — Bene! Ogni volta che scopri di poter fare un incantesimo di questo genere, devi ripeterlo più e più volte, perché si migliora soltanto con l'esercizio. Ti dono lo specchio, affinché tu possa tentare di scoprire la magia che lo fa splendere: è uno strumento che ti sarà molto utile per misurare i tuoi progressi. Non preoccuparti, se sulle prime ti sembrerà difficile: ti prometto che il potere si manifesterà, perché appartiene di diritto a te, come a me. La magia è stata creata per la nostra razza, Gabriel, non per gente come Jacob Harkender: è la nostra eredità dell'Età dell'Oro, e quando la ruota del tempo avrà compiuto un giro completo, la magia ci riporterà al fiore rigoglioso della nostra giovinezza. È questo il compito che abbiamo in comune, Gabriel. Tu credi di essere molto giovane, ma in realtà è giovane soltanto la forma nuova che hai assunto, e il calore della tua anima è quello del medesimo fuoco primordiale che era la vita dell'Età dell'Oro. — Riprese lo specchio e lo posò di nuovo sul tavolino, dove la luce gialla della lampada lo inondò, screziandone la superficie di radiosità guizzanti. — Mia madre morì alla mia nascita — dichiarò Gabriel, con incertezza. — Il signor Harkender ha detto che il suo nome era Jenny. Allora Mandorla rise, cingendolo di nuovo con un braccio: — Non fu certo la prima donna dall'anima fredda a dare alla luce un figlio portentoso! Non devi credere di essere umano soltanto perché hai avuto una madre umana. L'umanità è nostra nemica, Gabriel, e Jacob Harkender è il peggior nemico fra tutti gli umani. — Ha detto di essere mio amico. Ha detto che soltanto lui può capire quello che sono. — Ha mentito. Ti farebbe soffrire, Gabriel. In se stessa, la sofferenza non è del tutto un male, poiché l'Angelo Tenebroso del Dolore è anche l'Angelo dell'Illuminazione. Ma Jacob Harkender, come tutti gli umani, può attingere all'illuminazione soltanto con la più estrema difficoltà, e la sua ignoranza ti metterebbe in pericolo. Soltanto io posso insegnarti adeguatamente la via del dolore: nessuno è più saggio, in tutto questo mondo
di apparenze vistose, e nessuno desidera più disperatamente la trasformazione che ad esso porrà fine. Ti prometto che, oltre alla magia, ti insegnerò anche come trattare intelligentemente con l'Angelo Tenebroso. Tenendo fra le mani lo specchio ovale preso dal tavolino, Gabriel scrutò nelle sue profondità e si domandò se fosse bene tentare nuovamente di suscitarne la luminosità accecante. Notò che Mandorla lo osservava incuriosita ed ebbe l'impressione che, se fosse riuscito, le avrebbe procurato una grande soddisfazione. Tuttavia depose nuovamente lo specchio: — Le suore non volevano farmi soffrire — disse, come fra sé e sé, ma in realtà perché era curioso di sentire la risposta di Mandorla. — Le ho viste picchiare i miei compagni. Alcune frustavano persino se stesse, ma nessuna ha mai picchiato me. Insondabile, Mandorla lo scrutò: — Le suore, e tutti gli umani che sono come loro, ci hanno sempre fatti soffrire. E puoi star certo che non avrebbero esitato a farti soffrire molto, se avessero creduto, come lo hai creduto tu stesso, che tu fossi posseduto dal Diavolo. Ma noi non dobbiamo avere tanta paura del dolore quanta ne hanno loro, né dobbiamo sottoporci alle sofferenze più estreme per poter vedere. Vuoi che ti mostri un'altra magia? In silenzio, Gabriel annuì. Senza dire altro, Mandorla uscì, lasciando la porta aperta. Sempre seduto sul bordo del letto, Gabriel attese pazientemente. Intanto, accarezzò la superficie dello specchio, nuovamente posato sul tavolino accanto. Con un pugnale in mano, Mandorla rientrò, senza curarsi di richiudere l'uscio. Mentre il fanciullo allungava una mano come per toccare la lama, che era molto sottile e acuminata, lunga circa trenta centimetri, a doppio taglio, ammonì: — Stai attento. — Glielo porse dalla parte del manico e glielo fece impugnare cautamente. Poi si gettò la chioma sulla schiena, si lisciò l'ampia veste bianca per farla aderire alla pelle, e indicò un punto del proprio torace sotto il seno sinistro: — Posa qui la tua mano, per sentire il battito del mio cuore. Di nuovo, Gabriel obbedì, percependo il palpito regolarissimo del cuore. Con un nodo alla gola, si rese conto che il proprio cuore batteva più celermente. — Premi qui la punta del coltello, e conficcami la lama fra le costole, fino a trafiggere il cuore. Violentemente, Gabriel scosse la testa. — Fallo — ordinò Mandorla — giacché io non sono una creatura uma-
na, e non posso morire. Se la ferita sarà precisa, non avrò neppure bisogno di dormire. — Fu costretta a prendere fra le proprie la mano tremante di Gabriel per collocare la punta del pugnale sulla posizione esatta e per aiutarlo a conficcare la lama. Il fanciullo ebbe l'impressione che la pugnalata fosse inflitta da entrambi contemporaneamente, senza riluttanza: la lama penetrò dritta nel corpo per parecchi centimetri, senza incontrare resistenza, e un filo di sangue sgorgò dalla ferita. Come se non osasse muoversi mentre aveva il cuore trafitto, Mandorla rimase assolutamente immobile per alcuni istanti, quindi, insieme a Gabriel, estrasse il pugnale. Una singola goccia dì sangue colò lentamente dalla ferita e si allargò sulla veste bianca a formare una chiazza delle dimensioni di una moneta da un penny. — Vedi? — riprese Mandorla, con la voce lievemente arrochita dallo sforzo o dall'emozione. — Non puoi tentare di usarlo, per adesso, ma questo è un potere che molti di noi posseggono. Io non posso morire, Gabriel, e conosco la via del dolore. Jacob Harkender, invece, è fin troppo mortale, e del dolore non sa nulla più di quella povera fanciulla illusa di Hudlestone Manor, che s'incorona di spine per poter udire la voce tenera del suo salvatore immaginario. Io t'insegnerò il potere e il dolore, nonché, col tempo, l'alchimia della metamorfosi. Non devi avere paura, qualunque cosa tu possa vedere in questa casa, perché sei sotto la mia protezione, ora, e nulla e nessuno ti nuoceranno. — Nel pronunciare le ultime parole, alzò improvvisamente lo sguardo. Imitandola, Gabriel vide sulla soglia l'uomo più brutto che avesse mai incontrato. Era di altezza e di corporatura gigantesche, completamente calvo, enormemente panciuto. Aveva la fronte e il collo carnosi e grinzosi, il viso sporco e sudato, gli occhi che sembravano piccoli tanto erano affondati nel grasso. Gli indumenti che indossava erano luridi come il suo volto, ma gli stivali erano puliti e lustri. Appoggiato allo stipite, osservava Mandorla e Gabriel. — Che vuoi, Caleb? — domandò Mandorla, con voce tagliente. — Calan è tornato — annunciò il gigante grasso, con una voce non meno torva del suo aspetto. — È completamente ubriaco. Mentre seguiva un uomo uscito dalla casa di Harkender, è stato scoperto e interrogato. È riuscito a sapere che l'uomo in questione è un certo dottor Gilbert Franklin, ma si è arrabbiato tanto da vantarsi della sua vera natura.
Con un sospiro, Mandorla tolse il braccio dalle spalle di Gabriel: — Che tu sia dannato per averlo trasformato in un ubriacone — mormorò. — Ma che cosa può mai importare? Credi che organizzeranno una crociata contro di noi per questo? Harkender rivelerebbe al mondo intero chi siamo, se pensasse che qualcuno gli crederebbe. Invece, sa bene che siamo perfettamente al sicuro. La notizia della scomparsa del ragazzo era già arrivata a Whittenton, quando Calan ha deciso di lasciare il suo posto? — No — brontolò il gigante. — Ma che importanza ha se lo scopre presto oppure tardi, visto che noi siamo molti, e lui è solo? — Tu non sai che razza d'uomo sia Harkender. È tutt'altro che stupido, e non è privo di potere. Piuttosto, sai per caso chi sia questo Franklin? — Un medico, credo: un amico di James Austen. — Austen! Se Austen è diventato suo seguace, allora Harkender può essere ancora più pericoloso. Chi può sapere quanto ha appreso Austen dall'Uomo d'Argilla e da Pelorus, ammesso che sia stato abbastanza intelligente da riconoscere la verità nell'apparente follia dell'Uomo d'Argilla? Dobbiamo accertarci che costui dorma ancora nella tomba che il dottore gli ha scavato, e soprattutto dobbiamo scoprire dove andò Pelorus dopo aver lasciato l'Inghilterra, nonché cosa andò a fare. Scendi, ora: ti raggiungo subito. Con una scrollata di spalle, il gigante si girò lentamente, poi si allontanò. Ascoltando il rumore dei suoi passi pesanti mentre scendeva le scale, Gabriel si chiese come avesse fatto, poco prima, a salire tanto silenziosamente da non essere udito. — Quello è Caleb Amalax — spiegò brevemente Mandorla. — Non appartiene alla nostra razza, ma noi, che siamo liberi e che viviamo al di là del tempo, dobbiamo ancora servirci di strumenti mortali per ottenere i nostri scopi. Caleb non è affatto nostro padrone, anche se nutre l'ambizione di poter scoprire, un giorno, come dominarci. Non capisce affatto la realtà del nostro potere, e non è una minaccia per te. Non avere paura di lui. — Ciò detto, si alzò e si recò alla porta. — Buonanotte, Gabriel. Dormi bene. Quando Mandorla ebbe richiuso l'uscio, ma non a chiave, Gabriel osservò il pugnale che teneva ancora in mano, chiedendosi se ella lo avesse dimenticato. Molto cautamente, con la punta della lingua, assaggiò il sangue che imbrattava la lama: era caldo e dolce, tuttavia non gli procurò la strana intossicazione che aveva provato quando si era graffiato e aveva succhiato il proprio sangue. Deposto il pugnale sul tavolino, si sdraiò sul letto, che non era soltanto
morbido, ma anche due volte più largo e più lungo di quello in cui aveva dormito ad Hudlestone Lodge: era grande quasi quanto il materasso che aveva condiviso con altri tre trovatelli prima di averne uno tutto per sé. Dopo essersi chiesto brevemente se dovesse recitare le preghiere, decise che non avrebbe pregato mai più: non ne aveva più bisogno. Invece, prese lo specchio ovale e vi scrutò a lungo, intensamente, impiegando la propria forza di volontà per farlo splendere. Nelle profondità dello specchio, guizzò fugacemente una fiamma azzurra, che, una volta catturata, iniziò presto a svilupparsi. Mentre la luce magica traboccava dallo specchio, Gabriel Gill rise di gioia pura. Poi, non tardò a smarrirsi in una trance autoindotta. 8 Seduto in poltrona, appoggiato a un bracciolo, con le gambe raccolte, Gabriel teneva possessivamente in braccio lo specchio ovale donatogli da Mandorla. Stava ancora imparando a servirsene, ma progrediva rapidamente. In esso vedeva immagini limpide come quelle che in precedenza aveva percepito mentalmente: era come se lo specchio fosse diventato una lente con cui il suo occhio interiore focalizzava la sua vista segreta. Proiettare le visioni nello spazio dello specchio, separandole dai propri pensieri e sentimenti, era preferibile, sotto molti aspetti, a permettere che esse invadessero i suoi sogni. Pensò che col tempo sarebbe forse riuscito a servirsi dello specchio con tale maestria da evocare tutte le immagini che desiderava. Forse sarebbe riuscito a collocare il mondo intero nella strana dimensione che si trovava entro e oltre lo specchio, nonché a cambiarlo a proprio piacimento. Il dominio della magia dello specchio non era l'unico successo che aveva conseguito da quando viveva nella casa di Mandorla. Aveva sviluppato maggiormente la capacità di connettere il proprio occhio interiore alle sensazioni altrui, così che anche per questo non aveva più bisogno di turbare i propri sogni. Ogni volta che aveva tentato di scrutare nei pensieri di Mandorla, aveva fallito. Gli era di gran lunga più semplice percepire quelli di Caleb Amalax: in questo stava diventando sempre più abile. In quel momento, stava guardando con gli occhi di Amalax, e ne era affascinato, anche se si trattava di un'esperienza che lo confondeva stranamente, perché in quel momento il gigante stava osservando sia lui, sia Morwenna, la quale giaceva languidamente nel suo letto.
Dalla spoglia stanza attigua, Amalax spiava attraverso un foro che aveva praticato in una parete la notte precedente, con tutta la fiera delicatezza dell'artigiano esperto, perciò si illudeva di non poter essere scoperto in alcun modo. Nelle rozze pareti lignee del fabbricato vasto e cadente in cui ospitava generosamente parecchi scassinatori e rapinatori, aveva aperto molti fori di quel genere, di cui si serviva per raccogliere informazioni che poi vendeva, al pari delle altre merci in cui trafficava. In passato, quando si era guadagnato da vivere soltanto come ricettatore e come capo di una banda di ladri, Amalax si era limitato a sorvegliare i propri clienti e i propri seguaci, che erano sempre stati tanto stupidi e imprudenti, quanto pronti a cospirare contro di lui per imbrogliarlo. Col passare del tempo, però, spiare era diventata per lui un'abitudine: un fine, non più soltanto un mezzo. Persino in quel momento diceva a se stesso che chi aveva i licantropi di Londra come compiici, aveva una necessità ancora maggiore di spiare i propri alleati, perché quando si stipulavano patti con demoni come quelli, il confine fra il dominio e la schiavitù era molto labile. Per Gabriel, l'ipocrisia di tale giustificazione era evidentissima. Com'era accaduto alla signora Murrell, che nell'elevarsi da prostituta a ruffiana era diventata una parassita, un'osservatrice passiva dei piaceri e delle umiliazioni altrui, così Amalax, nel divenire ospite dei licantropi di Londra, si era trasformato in un testimone impassibile dei loro progetti empi. Nel condividere i pensieri e le sensazioni di coloro che osservava, Gabriel aveva acquistato un'improvvisa e innaturale conoscenza delle perversità umane, e aveva imparato presto a gioire di non essere un mero fanciullo umano, pur avendo iniziato a malapena a comprendere la propria vera natura. Spiando Gabriel, ovviamente, Amalax non aveva la minima idea di essere spiato a sua volta da lui, e per giunta molto più intimamente. Con rammarico dello stesso Gabriel, che avrebbe appreso con estremo interesse qualunque sua teoria, il gigante ignorava il motivo per cui i licantropi consideravano il fanciullo tanto prezioso. Però si rendeva conto di dover ritenere importante, e di dover proteggere, qualunque persona od oggetto da essi considerati tali, nonché di non dover perdere occasione per ricavare da loro tutte le informazioni possibili. Nonostante questo, non credeva a tutto quello che gli aveva detto Mandorla: di certo non credeva che lei avesse diecimila anni e che i licantropi fossero immortali. A proposito dell'effica-
cia della loro magia, tuttavia, non nutriva alcun dubbio. Anzi, aveva deciso che, se intendeva davvero istruire Gabriel nelle arti magiche, Mandorla avrebbe avuto anche un secondo allievo, il quale non era per nulla meno disposto ad approfittare dei suoi insegnamenti. Anche se la lezione che era in corso in quel momento era di scarsa utilità pratica, Amalax non intendeva affatto rinunciare ad assistervi. Dal canto suo, Gabriel ne era lieto, perché era certo che i suoi pensieri e le sue reazioni fossero tanto istruttivi quanto la fervida conversazione di Morwenna. Con sorpresa, Gabriel scoprì che Amalax non aveva nessuna simpatia per Morwenna, anche se ammirarne il corpo flessuoso lo colmava di un'eccitazione torbida e disperata. Credeva che Morwenna fosse stupida e relativamente priva di potere, benché non nutrisse per lei un disprezzo paragonabile a quello che nutriva per il licantropo chiamato Calan. Aveva indotto quest'ultimo a rivelargli i segreti magici di cui era in possesso, ma aveva dimostrato di essere molto peggiore come allievo che come maestro. Infatti, era amaramente convinto di avere operato meraviglie nel trasformare il giovane in un attaccabrighe passabile e in un ubriacone, mentre in se stesso aveva scoperto soltanto una disgraziata incapacità inveterata ad operare incantesimi e divinazioni. Ormai era persuaso che, fra tutti i licantropi, Mandorla fosse l'unica a non avere il cuore e la mente infantili, tranne, forse, Pelorus, che però conosceva soltanto di nome. In quel momento, Morwenna era sdraiata sul letto, in appoggio su un gomito, e non indossava altro che la lunga veste bianca preferita dalle femmine di licantropo ogni volta che le convenzioni non imponevano loro di vestire come le donne: presumibilmente, tale preferenza era dovuta al fatto che quel tipo di abbigliamento non inibiva i loro poteri di trasformazione. In se stessa, la veste era provocante, e per giunta Morwenna, credendo di non essere osservata da nessuno tranne che da Gabriel, si era rilassata, abbandonandosi inconsapevolmente a una posizione molto sensuale. E il fanciullo era tanto intrigato dai sentimenti confusi di Amalax, che non si sentiva obbligato, né desiderava avvertire Morwenna che sbagliava nel credersi inosservata. Anche se godeva nell'eccitare la propria lussuria, Amalax era estremamente consapevole della necessità di tenere a freno le proprie fantasie stravaganti: Pietà, pensava, per l'uomo che osasse tentar di stuprare una licantropa! E Gabriel conosceva già a sufficienza i licantropi per essere perfettamente d'accordo con lui. — Riesci ad immaginare che cosa significa essere un lupo? — chiese
Morwenna al fanciullo. Gli hanno rivelato quello che sono! pensò Amalax. Morwenna sta cercando di attutire il colpo, ma... Come possono essere così ingenui, e pretendere di avere vissuto per secoli? Se hanno sempre odiato gli esseri umani, forse hanno creduto, per disprezzo, di non dover imparare la nostra ipocrisia: persino Mandorla, che crede di sapere tutto! Senza alzare lo sguardo, Gabriel rispose abbastanza direttamente, pensoso: — Ho cercato di immaginare che cosa significa essere un uccello e guardare il mondo dall'alto, volando. Ma essere un lupo... sarebbe diverso. — Non è troppo diverso — replicò Morwenna, in tono pazientemente pedagogico. — La gioia della caccia è per il lupo quello che la gioia del volo è per un uccello. Quello che devi cercare di immaginare, è la purezza della gioia, che è del tutto sgombra dalle nuvole del pensiero. Suppongo che tu creda di sapere che cos'è la gioia, però l'unica gioia che puoi conoscere è una gioia del pensiero, che è qualcosa di molto diverso. Potresti presumere che poter sapere di avere conosciuto la gioia sia un bene, ma sbaglieresti. Essere in grado di dire a se stessi «sono felice» significa staccarsi dalla felicità stessa, e alterarla. È un buon dono, la capacità di conversare fra noi: sapere, e sapere che sappiamo. Tuttavia, dobbiamo pagare un prezzo per questo dono: quello che guadagnamo nella potenza della ragione e dell'immaginazione, lo perdiamo nella potenza del sentimento, dell'intuizione, della percezione, e nella capacità di essere quello che sentiamo: di essere quello che siamo. Per le creature che pensano, i sentimenti sono fonte di preoccupazione e di sofferenza: la gioia è guastata dalla consapevolezza che non sempre siamo felici, e che la gioia medesima si dissolve presto. Il lupo ha soltanto i sentimenti: quando è felice, la gioia colma il suo intero essere, e persino quando soffre, non sa che il sentimento che lo possiede è il dolore. Per il lupo, infatti, il piacere è piacere, il dolore è dolore, e non c'è altro: non ha alcuna consapevolezza che potrebbe essere o che sarà diverso. Per l'umano, invece, il piacere è indebolito dalla consapevolezza che potrebbe non esservi e che non può durare, mentre la sofferenza è accresciuta dalla consapevolezza che si tratta di dolore, e che contiene la promessa della malattia e della morte. Per l'umano, non esiste sofferenza senza paura, né paura senza sofferenza. Il lupo, quando soffre, non accresce il proprio dolore, mentre quando è felice, nulla può privarlo della gioia, neppure in misura minima. Se tu fossi costretto a scegliere, Gabriel, dovresti preferire di gran lunga di essere lupo, anziché uomo. Oh, certo! pensò Amalax, silenziosamente cinico. Invece tu, che, sup-
pongo, puoi scegliere, esisti in forma umana giorno dopo giorno, e ti trasformi in lupa soltanto per brevi periodi. Con astuta provocazione, Gabriel obiettò: — Mi è stato detto che Dio mi ha creato a Sua immagine e somiglianza... — Te lo hanno detto le suore di Hudlestone — replicò sprezzantemente Morwenna. — E ti hanno anche detto che l'uomo è nato per soffrire, e che deve portare il fardello dei propri peccati, e di quelli dei propri antenati. Ma non apparteniamo a quella razza, tu ed io. — Dicevano anche che Gesù venne a soffrire per noi — continuò Gabriel, pensoso. — Non sono mai riuscito a capire perché anche noi dobbiamo soffrire... — Non dovresti dire «noi». Non fu per noi che il loro salvatore venne a morire, e noi non dobbiamo condividere minimamente la sua sofferenza, se possiamo imparare ad evitarla. Se soltanto volessi, Gabriel, potresti imparare ad essere un lupo, e forse... anche più di un lupo, se imparerai bene. Se sei davvero tanto intelligente quanto pensa Mandorla, imparerai forse la cosa più preziosa fra tutte, ossia essere un lupo per sempre, e non dover essere mai più una creatura che pensa. Mi sembra che sia un privilegio piuttosto discutibile, pensò Amalax, niente affatto persuaso dal racconto della licantropa sulla meraviglia di essere lupi. Ma se questo è quello che desiderate, sperate forse che il ragazzo possa liberare anche voi dalla vostra mezza umanità? Credete che possa imparare ad esercitare il suo potere anche su di voi, oltre che su se stesso? Queste considerazioni sui motivi per cui Mandorla lo aveva sottratto ad Harkender, e su quello che lui stesso avrebbe potuto fare per i licantropi, parvero molto interessanti a Gabriel, il quale, però, capì che Amalax, evidentemente, credeva che Mandorla volesse ben più della possibilità di essere inumana per sempre. — Non so — rispose. — Non credo che mi piacerebbe... — Non puoi saperlo — mormorò Morwenna. — Ma ciò è dovuto all'innocenza, che si perde presto. Un lupo non può chiedersi se gli piace o non gli piace essere tale, e il dono dell'inconsapevolezza è di gran lunga più benefico di qualunque ricompensa possa derivare dalla coscienza, che è precaria, colma di speranza e di paura. Il lupo non può pensare: caccia. La brama è la volontà che lo guida, e la soddisfazione della brama è la sua estasi: il sapore del sangue è la sua gioia. Dimmi, Gabriel... Le suore ti hanno parlato del Paradiso? Oso dire che ti hanno parlato molto di più dell'In-
ferno, visto che sono molto più adatte ad immaginare e a descrivere quest'ultimo. Ebbene, il mio racconto è molto diverso dal loro: il Paradiso è un lupo in caccia, Gabriel, e l'Inferno è semplicemente essere umani, persino nella gioia, o nella virtù, o nel trionfo. L'Inferno è qui, Gabriel, e non nelle viscere della Terra: non fu creato per Satana, bensì per l'umanità. Il Paradiso non esiste per gli uomini, ma soltanto per gli animali, e per gli Altri, come noi, che possiamo imparare a dimenticare l'ombra d'umanità che cade sul nostro corpo e sulla nostra mente, e possiamo godere delle vere ricompense della metamorfosi. Dimentica il salvatore di cui ti hanno parlato le suore: devi imparare ad essere tu stesso un salvatore, per amore di tutti noi. Dal suo punto di osservazione, Amalax non riusciva a scorgere il viso di Morwenna, ma soltanto la curva della sua bella schiena, e le sue lunghe trecce. Nella sua mente, Gabriel lesse una sorta di gioia paradossale, suscitata da una fantasia fugace: il gigante immaginava che Morwenna avesse l'espressione rapita del fervore visionario, e anche se non era certo che vederla in viso così gli sarebbe piaciuto, era eccitato. Non poteva fare a meno di desiderare Morwenna, e anche Mandorla, ma sapeva di non poter comprare né prendere con la forza quello che esse non erano disposte a concedergli. Ciò lo colmava del furore dell'impotenza e aumentava la sua determinazione a conquistare il maggior potere possibile, da esse e su di esse. Era inoltre abbastanza intelligente da rendersi conto del paradosso della propria situazione: proprio perché era loro alleato, era il più fervido di tutti i loro numerosi nemici. Pur essendo soltanto una sanguisuga demoniaca, che succhiava avidamente l'intelligenza altrui, Gabriel si era ormai nutrito a sufficienza per comprendere le meditazioni involute di Amalax. Credono di dominare il ragazzo, ma s'ingannano, pensò Amalax, risentito. Questa è casa mia, quindi il ragazzo appartiene a me. Quando saprò come servirmene, e che cosa ha il potere di fare, sarò io l'unico a servirmi di lui, e a barattare i suoi favori. A differenza del gigante, Gabriel era perfettamente consapevole di quanto fosse ridicolmente folle la sua spavalderia, perché sapeva che finché avesse avuto a disposizione i poteri del demone, che ormai riconosceva come propri, nessun mero essere umano avrebbe potuto servirsi di lui. Aveva già iniziato a chiedersi se vi fosse qualcuno al mondo, inclusa Mandorla, che fosse più potente di lui. — Non saprei — dichiarò, falsamente. — Non posso essere un lupo,
perché non so come diventarlo. Se non sono un essere umano, allora non so che cosa sono. — Non avere paura — disse dolcemente Morwenna. — Non devi più avere paura. Ci occuperemo noi di te, adesso. Mandorla ti insegnerà tutto quello che hai bisogno di sapere. Anche se non sei un lupo, appartieni alla nostra razza, non alla loro. — Non riesco a capire questa differenza fra le razze — replicò Gabriel, con lamentosa insincerità. E subito fu sorpreso, e si sentì colpevole, perché Amalax pensò: Questa è una menzogna, ragazzo! Forse non sai in che cosa consiste esattamente la differenza, però ti rendi conto che esiste. Non hai di fronte una donna qualsiasi, che ti si mostra come la modella di un pittore, travestita da cortigiana: in cuor tuo, sai di avere a che fare con la materia stessa di cui sono fatte le leggende. Quando guardi un tipo come me, pensi forse di vedere un demonio, ma in cuor tuo sai che sono soltanto un uomo. Nel contempo, Gabriel ebbe di nuovo la strana sensazione che nel gigante sembravano esservi più anime. Infatti, Amalax stava pensando inoltre che il fanciullo non era ancora diventato un licantropo o un mago, quindi, nonostante la sua diversità, avrebbe potuto essere stuprato e torturato, se non vi fosse stato il timore di subire la vendetta dei licantropi. Anche tutto ciò gli fu suggerito dalla lussuria, perché osservando il corpo sinuoso di Morwenna attraverso la veste trasparente, non riusciva a staccarsi da essa. — Presto conoscerai la differenza — intervenne Mandorla. — Hai imparato ad accendere lo specchio più rapidamente di quanto sperassi, e fra non molto potrai cominciare ad apprendere la via del dolore. Allora perderai ogni paura, ed entrerai in possesso del tuo vero retaggio. Sogna, fanciullo: sogna il potere che potrà porre fine a questa epoca vacua di uomini vacui... — E proseguì telepaticamente: E squarciare la coltre di oscurità vacua che avvolge la Terra, e ricostruire le sfere cristalline dell'Eden! Sbalordito, Gabriel alzò lo sguardo. Con i suoi bellissimi occhi viola, Mandorla lo scrutò, e sorrise, come se avesse capito, dalla sua reazione, che aveva percepito i pensieri che gli aveva inviato deliberatamente. — Oh, sì, anche questo — riprese, con la voce più morbida che fosse mai riuscita ad ottenere nel parlare al fanciullo. — Fino a quando non conosceremo i limiti del tuo potere, potremo sperare tutto. E se, alla fine, rivelerai di essere un angelo più debole di quanto ci auguriamo, vi saranno pur sempre colui che ti ha convocato, e colei che veramente ti ha dato alla luce. Le divinità si stanno destando dal loro son-
no millenario, caro Gabriel, e tutto il mondo sta tremando sull'orlo della caldaia della Creazione. 9 Le ragnatele invisibili che avvolgono il mondo sono miracolosamente rese visibili: ogni entità solida è avviluppata in esse alcune volte. Lo strato più profondo, il più prossimo alla superficie delle cose, è lacero e sbrindellato, ma gli strati superiori, più recenti, sono robusti e integri, sfavillanti, ora, di una rugiada che è pura luce stellare caduta dal cielo. Ogni albero isolato trascina alcuni strascichi nuziali. Laddove molte piante sono raggruppate, il bosco ha un tetto di un biancore brumoso che lo trasforma in un labirinto fosco. Ogni fiume scorre sotto un'infinità di ponti serici. Ogni strada è assediata da innumerevoli trappole, che catturano le anime di coloro che le percorrono a cavallo, in carrozza o in carro. Ogni fabbricato è come ravvolto in una crisalide, ogni porta e ogni finestra sono avvinte, anche se coloro che si muovono all'interno non sanno quanto sia assoluta la loro prigionia, o quanto siano sigillate le tombe delle loro anime. Anche i ragni che tessono queste ragnatele sono resi visibili dalla medesima incrostazione scintillante: benché i loro corpi siano più neri dell'ombra più cupa, essi splendono ora di luce riflessa, come enormi draghi ingioiellati che camminano sui campi e fra le case. Qui, queste strane creature ad otto zampe, misteriosamente ripugnanti agli occhi umani, sono rese maestose dalle dimensioni, dalla lentezza e dal fulgore. I ragni, cacciatori d'anime, sono tanto spaventosi quanto i componenti della favolosa schiera di angeli, che sono i veri abitanti del mondo com'è. Nelle stanze illuminate dalle candele di Hudlestone Lodge e di Hudlestone Manor, la vita procede come sempre, giacché il miracolo che ha reso visibili le ragnatele e i loro tessitori è concesso soltanto a coloro che sono dotati della vista interiore, di cui non sono forniti neppure i mansueti e i puri di cuore. Con una sola eccezione, i trovatelli della Lodge sono ciechi a questa luce meravigliosa. Con una sola eccezione, le suore dell'antica Manor non vedono alcunché. Ma persino coloro che sono dotati della vista interiore scorgono significati molto diversi nelle ragnetele che avvolgono il mondo e negli angeli ragni danzanti, perché laddove una persona può vedere una sorta di paradiso, un'altra deve trovare una sorta d'inferno.
E nel mondo più grande che sta oltre, nelle città che sono i formicai e i termitai delle anime fredde, coloro che sono voluttuosamente ciechi brulicano assorti nelle loro faccende, mentre i licantropi cacciano nelle strade, e i ragni tessono le loro tele, e i padroni autentici del mondo covano i loro piani sontuosi di morte e di trasfigurazione. Gabriel... Gabriel! Con la convinzione che, mentre il suo sogno si decomponeva nella fine inevitabile, qualcuno lo avesse chiamato, seppure con una voce alterata e attutila come da una grande lontananza, Gabriel si destò. Il risveglio non rese più limpido il richiamo. La voce, ammesso che di una voce si trattasse, si perse rapidamente nelle sensazioni che affollavano la coscienza del fanciullo. Alzatosi, Gabriel cercò a tastoni, sul tavolino, lo specchio ovale, lo trovò senza fallo, e fece ardere in esso la luce senza indugio. Si vestì con rapidità ed efficienza, come aveva sempre fatto per intraprendere le sue avventure notturne ad Hudlestone Lodge. Fino a quel momento, benché la porta non fosse mai chiusa a chiave, aveva sempre scelto di non uscire dalla propria stanza, nella casa di Caleb Amalax. Il trascorrere del tempo aveva corroso la sua ansia iniziale, ma la sua curiosità, fino ad allora, era sempre stata assorbita interamente dai giochi con lo specchio, che gli consentiva di accedere a visioni di gran lunga più bizzarre di qualunque scoperta potesse sperare di compiere mediante un mero vagabondaggio. Ma infine, anche se non sapeva esattamente perché, sentiva che era arrivato il momento di esercitare più concretamente le proprie facoltà. Non pensò neppure per un istante di compiere la sua prima escursione di giorno, quando chiunque avrebbe potuto vederlo. Il suo tempo era la notte, come lo era sempre stata ad Hudlestone: il sospetto che molti di coloro che condividevano la sua nuova abitazione avessero una simile preferenza per le ore notturne non bastava più ad intimidirlo. Erano le ore più tenebrose della notte. Ad Hudlestone, quelle erano sempre state ore di oscurità silenziosa e stigea, ma lì, a Londra, le strade non erano mai del tutto silenziose o buie. Perciò, quando Gabriel spense nuovamente la propria lanterna magica, rimase ancora luce a sufficienza per vedere. Non calzò le scarpe nuove che Mandorla gli aveva procurato, perché a-
vevano la suola troppo rigida per consentirgli di camminare in silenzio. Indossando soltanto le calze, uscì nel pianerottolo e iniziò a percorrere il corridoio. Non si considerava prigioniero, quindi non pensava affatto alla fuga. Non aveva la minima intenzione di uscire dalla casa: si proponeva soltanto di esplorarla e di apprendere qualcosa di più su coloro che vi dimoravano. Immaginava che, come la Lodge, la casa avesse una sola scala, però non tardò a scoprire che non era affatto così. Il corridoio non era cieco: conduceva a un altro corridoio su cui si aprivano dodici porte, il quale portava a sua volta ad altre due scale che scendevano. Inoltre, una quarta scala, più breve, saliva sino a una botola. Da una fessura fra le tavole, Gabriel poté osservare la strana luminosità rossastra che tingeva perennemente il cielo di Londra, perciò dedusse che dalla botola si accedeva al tetto. Questa possibilità, che in precedenza non aveva mai considerato, gli parve molto interessante e lo sottopose ad una tentazione insolita, inducendolo a rinunciare al proprio primitivo progetto di scendere ai piani inferiori dopo avere esplorato il proprio. Non aveva maggior paura dell'altezza di quanta ne avesse del buio, senza contare che la prospettiva di osservare tutta la panoplia di quel cielo strano era molto intrigante. La botola, che si apriva verso l'esterno, era pesante, ma non sprangata. Gabriel fu costretto a ricorrere a tutte le proprie forze, ma riuscì a lasciarla cadere sul tetto di ardesia lentamente, senza rumore. Dalla propria finestra, aveva osservato il labirinto di camini e di abbaini sui tetti delle case al di là della strada, perciò si aspettava un paesaggio tortuoso, e non rimase affatto deluso dalla scoperta del misterioso mondo superiore, che suscitò in lui entusiasmo e fiera soddisfazione. I fabbricati lungo la strada sulla quale guardava la casa di Amalax erano addossati a quelli prospicienti la strada parallela. Nella strana gola fra i tetti delle due file di case erano dislocati a intervalli regolari parecchi lucernari, alcuni dei quali erano illuminati dall'interno: un paio dalla luce dorata delle lampade, gli altri dalla luce più fioca delle candele. Immediatamente, Gabriel comprese che i lucernari gli offrivano una preziosa possibilità di osservare senza essere visto, quindi si accostò al più vicino. Badò a camminare il più silenziosamente possibile, anche se notando parecchi nidi d'uccelli fra i camini, comprese che qualche lieve rumore non avrebbe allarmato né insospettito coloro che si trovavano nelle stanze sottostanti.
Il primo lucernario non gli rivelò nulla d'interessante: Perris, sdraiato sul letto, stava leggendo alla luce di una candela. Non riuscì a leggere il titolo del libro, ma ciò lo incuriosiva ben poco, perché gli unici libri che conosceva erano la Bibbia, i messali, i catechismi e i trattati religiosi. Rapidamente, si recò al successivo lucernario, illuminato anch'esso da una candela, e non rimase deluso. Nella propria stanza, Mandorla giaceva supina sul letto, completamente nuda, e non era sola. Un uomo, anch'esso nudo, basso e bruno, molto villoso, con il torace ampio, la sovrastava, con un ginocchio sul bordo del letto, immobile ad ammirarla. Il contrasto fra la donna, pallida, snella, apparentemente delicata, e l'uomo, bruno, nerboruto, evidentemente rozzo, era stranissimo. L'uomo si curvò, coprendo i seni e il ventre, ma non il viso, di Mandorla, la quale, per alcuni istanti, lo osservò, poi, mentre egli cambiava posizione, distolse gli occhi per scrutare la fiamma della candela che ardeva accanto al letto: la sua espressione era enigmatica, tuttavia lasciava trapelare una sorta di divertimento. D'improvviso, Gabriel si trovò a condividere la mente dell'uomo. Ne rimase sbalordito, sia perché non aveva tentato consapevolmente di farlo, sia per il tumulto di sentimenti che lo investì come una cascata d'acqua gelida. Vide Mandorla come la vedeva l'uomo, e si rese conto, con sgomento, di non aver mai compreso le attrattive della bellezza femminile. Nell'osservare Morwenna, il brutto e gigantesco Amalax aveva represso la propria lussuria, perché era priva della minima prospettiva di soddisfazione. Quella dell'uomo basso e villoso, invece, non era soltanto più intensa, bensì diversa: attiva, reattiva, avida. Era cupidigia che aveva certezza della propria soddisfazione, e dunque implicava ogni perversità: trionfo, insieme a una pura sensazione di potenza; un desiderio sprezzante d'imporre, di costringere, di dominare, di suscitare timore. Era una lussuria che serrava la gola, che dilatava il cuore, che induriva selvaggiamente il pene. Per Gabriel, che aveva soltanto nove anni, era una passione aliena e orrenda: quella di Amalax gli era parsa mostruosa, ma questa gli sembrava di una mostruosità grottescamente ingigantita. Eppure, essa non era soltanto furia e arroganza: era anche timore e incredulità. L'uomo era abituato a mentire a se stesso: era talmente avvezzo all'inganno, che la verità, per lui, aveva quasi cessato di avere senso. Nondimeno, riusciva a percepire le alterazioni della realtà. Conosceva le prostitute e le fantasie. Sapeva che le prostitute non erano mai le creature fan-
tastiche che gli uomini desideravano che fossero, e si rendeva conto di essere assurdamente in presenza di qualcosa di così fantastico da superare la fantasia stessa: un'illusione che neppure Mercy Murrell avrebbe potuto creare. Nel turbine di emozioni e di sensazioni dell'uomo, Gabriel percepiva già un retrogusto amaro, una diffidenza che trapelava a smentire la perfezione delle apparenze e la fortuna favolosa di quella occasione. L'uomo già temeva che gli fosse chiesto qualcosa che avrebbe gravato la sua intelligenza e la sua anima di un fardello tale da dissolvere inesorabilmente il sogno. Presentiva che quel momento, assaporato soltanto parzialmente, avrebbe assunto un sapore aspro, amaro... Non sapeva quanto fosse fredda la propria anima, perché non la conosceva affatto, e non possedeva nessuna sensibilità in grado di rivelargli, anche soltanto vagamente, quanto potesse essere calda e bella un'anima. Eppure, si considerava in qualche modo troppo goffo, rozzo e meschino, per essere degno di ricevere il dono di quel momento. Con la vista interiore, Gabriel percepì la penetrazione, morbida, serica, quasi liquida, sorprendentemente semplice, agevole, precisa, e poi la pelle morbida, elastica, liscia sotto le carezze. Con la vista esteriore osservò il movimento ritmico dei fianchi dell'uomo, e la mano destra che palpava tutto il corpo di Mandorla. Con la chioma dorata sparsa sul cuscino come un'aureola, Mandorla accettò languidamente quella esplorazione insistita, muovendo soltanto la testa per spostare lo sguardo dalla fiamma della candela al soffitto, senza guardare mai il lucernario. Poco a poco, la sua espressione divenne sempre più divertita. Con un sorriso, scoprì i denti bianchi e luminosi, quindi sussurrò qualcosa all'orecchio dell'uomo. Anche se le parole parvero colmare uno strano vuoto dentro di lui, l'uomo in realtà non le udì, perciò Gabriel non ne comprese il significato. Poi, gradualmente, Gabriel si sentì colmare di uno struggimento terribile, come una resistenza all'irresistibile, come uno sforzo disperato per dilatare il tempo e per concentrare ogni pensiero e sentimento in un singolo istante di trascendenza esplosiva, e tutto che cadeva, tutto che crollava, tutto che si sbriciolava, per mancanza di capacità e di possibilità... Infine, un tuono gli scoppiò nella mente. Mentre l'uomo si muoveva con maggiore urgenza e con maggior passione, con la disgustosa certezza di chi non può attendere, Mandorla, sempre rilassata e ricettiva, si eccitò un poco, ma rimase con le braccia spalancate
e le mani del tutto passive, senza muoversi, se non continuando a scuotere la testa. Aveva un'espressione calma e calcolatrice, come se fosse ben paga dell'attesa. D'un tratto, vi fu un momento d'interruzione, di tensione contratta. Dopo essersi trattenuto spietatamente per alcuni istanti, l'uomo si abbandonò con tutto il proprio peso su Mandorla, la quale non si ribellò, ma continuò a sorridere. Intanto, Gabriel sentì palpitare il cuore al ritmo dell'uomo, il respiro affannoso, il sangue fremente, eppure ancora paura, incredulità, a guastare il grido silenzioso che poteva soltanto fingere trionfo, gioia, appagamento... Ma fu soltanto, infine, un grido. Dopo una breve attesa, Mandorla rovesciò l'uomo alla propria sinistra e lo fece rotolare supino. Un ottundimento greve e ronzante, simile a una saturazione di tutte le sensazioni, si trasmise dall'uomo a Gabriel. Poi, Mandorla sedette a cavalcioni dell'uomo e lo guardò. Tramite l'uomo, Gabriel vide con chiarezza sorprendente gli occhi viola. Quando Mandorla si curvò a baciargli il collo, la chioma le scese come una cascata sulle spalle e solleticò il viso dell'uomo, che, con una peculiare espressione in cui si fondevano contentezza e irritazione, chiuse gli occhi, in attesa di altri baci, e così non vide quello che vide invece Gabriel. In un istante, senza preavviso, Mandorla iniziò a trasformarsi. Osservando, Gabriel comprese quello che stava succedendo, e capì anche, con sbalorditiva subitaneità, che ella, in realtà, aveva organizzato quello spettacolo appositamente per lui, affinché potesse conoscere il comportamento degli umani e dei lupi, la brama e la passione, la natura e la necessità. Con tutta la propria forza, tentò di separare i propri sentimenti da quelli dell'uomo che giaceva supino sul letto, sapendo che stava per aprire gli occhi, per vedere quello che lui stava già vedendo, per scoprire quello che lui aveva già scoperto; ma non poté. Era intrappolato: i suoi sentimenti erano del tutto sommersi dall'insistenza e dall'intensità di quelli che condivideva. La rapidità della metamorfosi lo frastornò, perché aveva creduto, pur senza mai verificare tale convinzione, che fosse straordinariamente difficile per le gambe umane rimpicciolire e trasformarsi, per le mani umane diventare zampe, per il viso di una bella donna dissolversi in un muso lupesco e zannuto. Sarebbe stato molto più semplice credere a un mutamento istantaneo, tanto rapido da risultare impercettibile all'occhio umano.
Invece non accadde nulla di tutto ciò. La trasformazione fu percettibile e fluida: la chioma lunga e serica si consumò, la pallida pelliccia grigia spuntò, lo scheletro si modificò, la carne si fuse e si risolidificò. Secondo l'unica similitudine che Gabriel riuscì a concepire, stranamente adeguata e nel contempo assurda, Mandorla parve incendiarsi, come se una sorta di fiamma divina o diabolica l'avesse posseduta e tramutata: come se la lupa fosse in qualche modo le ceneri della persona. Supino sotto la lupa, l'uomo riaprì gli occhi. Persino nella luce fioca della candela, Gabriel vide, dall'alto del lucernario, la metamorfosi che l'uomo, in certo modo, subì a sua volta: il suo viso si trasformò improvvisamente in una maschera spaventosa, il terrore e l'orrore lo invasero, trasmettendosi a Gabriel. Fu come se le loro anime divenute gemelle fossero strappate, quasi che un artiglio terribile e soprannaturale li avesse ghermiti per il viso e trascinati all'Inferno. Eppure, nell'orrore, sotto la fossa infinita della paura in cui entrambi furono sprofondati, fu percepibile la consapevolezza della necessità e dell'ineluttabilità di quello che stava per accadere: non una mera eco della previsione di Gabriel, bensì il riconoscimento rassegnato della follia del desiderio umano imperfetto. Il panico non durò tanto a lungo da indurre l'uomo a tentare con una qualche risolutezza di liberarsi della lupa, che lo sgozzò con rapida efficienza, e poi, con la lingua lunga e ruvida, leccò il sangue che sgorgava. Osservando, Gabriel percepì e condivise la morte dell'uomo. Per costui, la sofferenza fu soltanto sofferenza, ma stranamente attenuata e breve, come se il sistema nervoso, accettata la disperazione, scegliesse di non strillare avvertimenti, e di rifiutare misericordiosamente di trasmettere gli impulsi dolorosi. Invece, per Gabriel, la sofferenza fu come un'esplosione di esultanza e un dono di potere: Sono un ragno che si nutre d'anime, pensò, e questa notte ho cenato! Provò un brivido lieve di paura nel rendersi conto che sia Mandorla che Morwenna avrebbero potuto con la stessa facilità nutrirsi di lui, ma non ebbe nessuna difficoltà a reprimere e a cancellare tale paura. Confidava che i licantropi non intendessero servirsi così di lui, anzi, cominciava già a convincersi che avrebbe potuto impedirlo, se avessero tentato. Per alcuni minuti, durante i quali Gabriel non provò nulla, la lupa non fece altro che leccare il sangue. Gli occhi del defunto rimasero spalancati e fissi, ma il rictus di terrore che aveva trasformato il suo volto in una ma-
schera, si rilassò poco a poco, come per effetto delle leccate. Finalmente, la lupa che era stata Mandorla, o meglio, che era ancora Mandorla, alzò la testa a guardare direttamente Gabriel, il quale, anche se la stanza era illuminata dall'interno, talché il riflesso della luce sul vetro avrebbe dovuto nasconderlo, non ebbe il minimo dubbio che ella lo vedesse, e che avesse sempre saputo della sua presenza, fin dal primo momento. Nel sostenere lo sguardo lupesco, Gabriel fece un sorriso di complicità, manifestando abbastanza chiaramente che non soltanto sapeva, bensì accettava completamente, di appartenere alla razza di Mandorla, e non a quella dell'umanità cieca e dall'anima fredda a cui apparteneva invece la vittima. Non era ancora un bevitore di sangue. Non era ancora un mostro. Tuttavia non era neppure un fanciullo umano, anzi, nemmeno un fanciullo: il suo corpo era semplicemente una maschera che indossava per camminare sulla Terra. Entro tale guscio dimorava un demone... o una divinità. Nell'assistere al banchetto della licantropa, non provò la minima compassione per la carne che essa stava divorando, e dalla propria indifferenza a qualunque tentazione di tal genere comprese di essere ormai lontanissimo da Hudlestone Manor, nonché dalla bontà che le suore di Santa Syncletica avevano cercato tanto fervidamente di insegnargli. 10 Quando rientrò, vibrante di eccitazione, nella propria stanza, Gabriel scoprì che lo specchio ovale, che aveva lasciato accanto al letto, brillava come per volontà propria. Vi si avvicinò con esitazione, non sapendo che cosa aspettarsi, ma poi vide che esso mostrava, come se lo riflettesse, il volto di Jacob Harkender, e sorrise, e si chiese se Harkender potesse vedere il suo sorriso. — Gabriel! — disse Harkender, come se lo chiamasse da lungo tempo, senza alcun risultato. — Devi ascoltarmi, Gabriel! Ti prego! Sicuro di poter cancellare l'immagine dallo specchio con un semplice tocco, Gabriel si domandò se non gli fosse possibile fare ben di più. Forse Harkender aveva messo a repentaglio la propria incolumità, entrando nello spazio immaginario all'interno dello specchio, che era l'arena del suo potere germogliante. Forse avrebbe potuto distruggere colui che, soltanto pochi
giorni prima, aveva progettato di diventare suo padrone. Se non altro, avrebbe potuto angosciarlo, farlo soffrire. Tuttavia non tentò in alcun modo di realizzare tali fantasie sfrenate. Curioso di scoprire che cos'avesse da dire Harkender, il fanciullo domandò: — Perché dovrei ascoltarti? — E per la prima volta, lasciò che la nuova identità che stava emergendo in lui si manifestasse in un'audacia di tono e di discorso. — Mi hai condotto ad Hudlestone Manor, e mi hai affidato alle suore, ben sapendo che non ero un trovatello qualsiasi. Hai cercato d'impedirmi di scoprire quello che sono realmente e di nascondermi a coloro che volevano aiutarmi: hai tentato persino di nascondermi a me stesso. — No! — Harkender sembrava minuscolo nello spazio dello specchio, sebbene fosse visibile soltanto il suo viso, che galleggiava come una maschera di gomma, distorto dalla lieve curvatura della superficie. — Tu non capisci, Gabriel. Non devi fidarti dei licantropi. Mandorla è pazza, oltre che malvagia: non esiterà a mentirti, nella speranza di piegarti alla sua volontà. Per un istante, Gabriel non fu altro che un fanciullo di nove anni di fronte all'autorità di un adulto: il senso del dovere e l'ubbidienza rischiarono di imporglisi nuovamente. Ma il demone che aveva portato il fuoco infernale nella sua anima non aveva nessun bisogno di rispettare le norme borghesi, e lo stesso Gabriel, con le conoscenze che aveva acquistato di recente, non si sentiva più piccolo, umile, spaventato. Dopo una fugace incertezza, il momento passò. — Nessuno può mentirmi, adesso — dichiarò Gabriel, pur non sapendo se ciò fosse vero. — Tutti mi hanno sempre mentito, ma adesso è finita per le bugie, perché ho il potere di svelarle. — Avrai questo potere — si affrettò a correggere Harkender. — Ho commesso un grave errore nel credere che i poteri di cui già disponi non potessero svilupparsi tanto rapidamente. Ma tu sei ancora molto giovane: nonostante il tuo potere, non puoi neppure iniziare a comprendere quello che puoi diventare. Mandorla ti permetterà di vedere soltanto quello che vuole che tu veda: non devi assolutamente fidarti di lei! — Perché no? — ribatté Gabriel. — È stata molto più sincera con me di quanto lo sia stato tu, quando sei venuto ad Hudlestone con le tue gentili promesse. Credevo di essere un fanciullo posseduto da un demone, allora, ma in pochi giorni Mandorla mi ha mostrato che sono una creatura di una razza molto diversa, e che la mia apparenza è soltanto un travestimento. Quando dici che lei vuole servirsi di me, ti credo! Ma perché mai i miei
scopi dovrebbero essere diversi dai suoi, se appartengo alla sua razza, e non alla vostra? — Tu non appartieni alla sua razza. Non esiste nessuno della sua razza, tranne i membri del suo branco, uno dei quali è un rinnegato che si oppone ai suoi piani. Mandorla è nemica degli uomini e degli dèi: non ha nessuna causa, se non la distruzione. Si servirà di te, se potrà, per fare scempio della razza umana per quanto le sarà possibile. Ma se tu ti farai usare da lei, non sarai combattuto soltanto dai maghi umani, giacché vi sono potenze che proteggono l'umanità sin dal momento della sua creazione. E anche se forse credi di essere una divinità, perché usi il potere di leggere nelle menti degli uomini inferiori o di imporre obbedienza ai ragni, devi renderti conto che esistono entità il cui potere supera il tuo, quanto il tuo supera quello di un ragno. T'imploro, Gabriel: non diventare lo strumento di Mandorla! Il volto stranamente effeminato di Harkender non poteva manifestare adeguatamente l'urgenza e la gravita di quello che egli si sforzava tanto di esprimere: la collera, sulle sue labbra tumide, diventava poco più che petulanza; la sua severità era attenuata dalla flaccidità delle sue guance. Eppure, la forza di Harkender era innegabile. E i suoi occhi sembravano avere qualcosa di peculiare, come se un'immagine si riflettesse magicamente nelle pupille, proprio come il volto dello stesso Harkender era riflesso nello specchio. Scrutando duramente colui che forse era suo padre, Gabriel non riuscì a scorgere chiaramente quello che si nascondeva in quegli occhi: una presenza informe e nera come la notte, un demone indefinibile e inafferrabile. Con la sua nuova voce stridente come metallo sulla pietra, Gabriel replicò, in tono accusatorio: — Anche tu vuoi servirti di me. Ma io ti ho visto all'opera attraverso gli occhi di un'altra persona, e sono incline a credere, come quella persona, che nonostante tutti i tuoi trucchi magici, sei soltanto uno sciocco millantatore. Nonostante tutto quello che hai fatto per cercare di rendermi tale, Jacob Harkender, io non sono un fanciullo umano, e ora che gli occhi della mia anima sono davvero aperti, non ho paura. In questo, almeno, sono lieto di essere guidato da Mandorla, perché lei è l'unica che mi abbia mai detto sinceramente che non ho bisogno di aver paura. — Tu non sei un fanciullo umano — riconobbe Harkender. — Però non conosci questo mondo, in cui sei nato di recente. La sua storia viene narrata in molti modi, nessuno dei quali è veritiero, e tu non puoi imparare che cosa esso sia realmente dai racconti dei licantropi, o dalla mente di coloro il cui occhio interiore è cieco, più di quanto tu l'abbia appreso dagli inse-
gnamenti delle suore di Hudlestone. Esiste una sola via per giungere alla verità, Gabriel: il viaggio dell'anima, interamente libera dalle falsità della storia: il volo interamente libero della meditazione, che sola può affrontare la realtà superiore. Soltanto io posso insegnarti questo. Mandorla è prigioniera delle fantasie che crede ricordi, come tutti gli immortali, e come possono esserlo anche gli angeli e i demoni che non si guardano dalle seduzioni della religione. Pur non comprendendo quello che Jacob stava cercando di spiegargli, Gabriel non era disposto a riconoscerlo: non ne poteva più di fingersi ingenuo, da quando poteva dominare parzialmente il potere della vista interiore, e da quando i licantropi di Londra erano diventati la sua gente. Con voce aspra, domandò: — Che cosa devo fare di te, Jacob Harkender? Sostieni di avere conosciuto mia madre, ma non vuoi dirmi in che modo sono imparentato con te. A differenza di me, sei umano: non puoi avere più nulla a che fare con me, ora che so come mi hai ingannato conducendomi ad Hudlestone. — Se non sono tuo padre, sono certamente il tuo tutore. Anche se non posso affermare di essere il tuo creatore, posso dichiarare con assoluta certezza che, se non fosse per me, tu non esisteresti affatto. Saresti pazzo a sbarazzarti di me tanto presto, perché so quello che hai un terribile bisogno di sapere, e fino a quando non avrai il potere di leggerlo nella mia mente, potrai apprenderlo soltanto dalle mie labbra. Mandorla può fornirti soltanto menzogne e illusioni, Gabriel. Io sono l'unico a conoscere la verità del mondo, perché soltanto io ho intrapreso il grande viaggio nello spazio interiore, per toccare il tessuto dell'universo. Apprendi tutto quello che vuoi da Mandorla, ma dovrai tornare da me, per sapere che cosa sei realmente, e che cosa puoi diventare a causa della tua natura. Meno fiducioso di quando vi aveva visto per la prima volta l'immagine di Harkender intrappolata, Gabriel scrutò nelle profondità dello specchio senza più sorridere. L'esultanza crudele suscitata in lui dal pasto di Mandorla era svanita. Era come se la potenza demoniaca che aveva in sé, stesse ridiventando inerte, e per quanto lottasse contro la sua indolenza, non poté reprimere l'impressione di non essere altro, dopotutto, che Gabriel Gill: un trovatello umano a cui le suore di Santa Syncletica avevano insegnato l'ubbidienza. — Lasciami in pace! — sussurrò. — Gabriel! Ascoltami! — implorò Jacob, quasi in un grido d'angoscia. — Mandorla non può morire, perciò è libera di sognare: a qualunque follia voglia dedicarsi, non può morire. Ma tu, purtroppo, puoi essere annientato
molto più facilmente di quanto immagini. Non sei umano, però sei sicuramente mortale. Puoi diventare un angelo, ma nel diventarlo, rischieresti di consumarti facilmente in una singola fiammata di fuoco dell'anima. Stai correndo un pericolo terribile, Gabriel: non puoi comprendere neppure vagamente in quale pericolo ti trovi. — Lasciami in pace! — ripeté Gabriel, distogliendo gli occhi dallo sguardo imperioso del mago. — Non sei solo, Gabriel! — continuò Harkender, rapidamente, come se sapesse di avere poco tempo. — Un altro è venuto dall'Egitto dopo di te: ne sono certo! Per l'amor d'Iddio, Gabriel: credimi! Esiste un pericolo, un pericolo mortale, da cui quella pazza di Mandorla non può assolutamente proteggerti... Con un gesto convulso di sfida, Gabriel si allungò a toccare la superficie dello specchio, come per spazzar via l'immagine che esso aveva catturato: in un istante, il volto di Harkender si dissolse, ma in qualche modo la sua immagine persistette nella mente del fanciullo, come la luce ardente dello specchio aveva indugiato una volta nei suoi occhi sebbene l'avesse bandita. Anche se Gabriel voleva fidarsi dei licantropi, voleva credere che Mandorla avrebbe agito soltanto nel modo migliore per lui, e voleva scoprire quale destino dovesse realizzare, la sua fiducia era stata scossa, e così era già stata parzialmente annullata. Qualunque cosa volesse credere, non avrebbe più potuto fare a meno di rammentare gli ammonimenti di Harkender ogni volta che Mandorla gli avesse fatto una promessa, o che lo avesse invitato a partecipare alla sua strana cospirazione contro l'umanità. La sua breve illusione di certezza e di fiducia era nuovamente sostituita dal dubbio. In realtà, che cosa gli era mai stato rivelato, da chiunque, a proposito di quello che era e di come era pervenuto all'esistenza? Desiderava, quasi, di non essere altro che un figlio del Dio severo di sorella Clare, miseramente privo di possessione demoniaca e di redenzione. In quel momento, entrò Mandorla, di nuovo in forma umana e più radiosa che mai, senza la minima traccia di sangue sulle labbra, il sorriso candido e perlaceo persino nella luce fioca che filtrava a fatica dal vetro sporco della finestra. Già sapendolo, chiese: — Sei ancora sveglio? — Mi piace la notte — rispose Gabriel, riacquistando spontaneamente la voce e i modi del fanciullo che sembrava essere. — E ho fatto un sogno che mi ha inquietato... — Farai molti sogni — promise Mandorla, passandogli accanto per recarsi allo specchio. Toccandone la superficie, vi accese una luce gialla,
non più luminosa della fiamma di una candela, proprio come lei voleva. — Ti piacerebbe sognare ancora? — chiese. — Io stessa faccio sogni molto vividi, e pratico l'arte di crearli, che è una magia semplice e superficiale, ma molto piacevole. Tu ed io, Gabriel, possiamo condividere i sogni, se vuoi. E, col tempo, potremo avverare i nostri sogni. Senza svestirsi, Gabriel si sdraiò sul letto: — Adesso posso portare i miei sogni nello specchio: non ho più bisogno di vivere in essi. — È una magia abbastanza facile. Ma i sogni più belli devono essere vissuti, non semplicemente osservati: altrimenti, come potremmo sapere quali sogni vorremmo che si avverassero? — Nella luce fioca, gli occhi viola di Mandorla sembravano enormi, come se splendessero di luce propria. Con quello sguardo strano, Mandorla aveva divorato un uomo prim'ancora di cibarsene, eppure Gabriel non lo temeva, come non temeva i paesaggi dei sogni della licantropa. — Vuoi dormire, adesso? — chiese Mandorla, nel suo tipico tono mielate e materno. — Dormirai, se ti donerò un sogno? In silenzio, Gabriel annuì. Pur non vedendo assolutamente nulla del flusso della sua coscienza, sapeva che in quel momento, brevemente, Mandorla lo vedeva come un bambino: un cucciolo da coccolare e da proteggere. Si chiese se fosse davvero pazza, come aveva dichiarato Harkender, o se fosse invece costui, l'indemoniato, a dover essere considerato folle. Chiuse gli occhi, e si sentì accarezzare gentilmente la fronte. Dopo qualche istante, permise a Mandorla di creargli un sogno, e acconsentì a viverlo per un poco, anche se non, nell'intimo del proprio cuore, a fidarsene. Il mondo è soltanto polvere, e le forze che lo mantengono unito si stanno indebolendo. La carne, la più debole delle sue strutture, si decompone più rapidamente di qualunque altra struttura nel vento del mutamento, che soffia via i volti, lasciando soltanto, dapprima, gli occhi spalancati e fissi, poi i sogghigni beffardi dei teschi. Dove un tempo una folla di uomini e donne eleganti passeggiava con orgoglio, ora esiste soltanto un esercito di scheletri cenciosi, che si trasforma in un tappeto di ossa sgretolate. Infine non rimane nulla, se non un deserto bianco e scintillante, disseccato e sereno. I fiori avvizziscono e le piante verdi inaridiscono. Dove un tempo una grande foresta si ergeva in paziente fiducia, ora esistono soltanto schiere di tronchi fragili e di rami spogli, drappeggiati di rampicanti simili a ra-
gnatele lacere, che si trasformano in una legione di involucri putrescenti. Infine non rimane nulla, se non una vasta palude grigia, putrida e tetra. I fabbricati si sbriciolano lentamente, con i mattoni anneriti dal fumo che si spaccano in crepe sanguigne, i vetri delle finestre che si sciolgono e scorrono come lacrime tetre, i camini alti che crollano lentamente come il grano mietuto da una falce pigra. Soltanto le piramidi d'Egitto sono costruite in modo da resistere alla disgregazione e si consumano poco a poco: sono le ultime opere dell'umanità a ritornare nella caldaia della Creazione, la pioggia degli atomi indifferenziati, il caos informe del fuoco primordiale. Cenere alla cenere, polvere alla polvere... Ogni apparenza è perduta e ogni realtà è conservata. Il tempo è finito: non può esservi attesa. Clinamen, lo scarto infinitesimale che è il nuovo inizio, la parola che diverrà la storia, che diverrà la guerra incessante della verità e del simbolo, è istantaneo. I deserti bianchi e sfavillanti producono una nuova legione di creature; le vaste paludi grigie vestono il mondo di colori; le mani dei creatori ricominciano l'opera di dare forma. Ma di chi sono i volti, e di chi sono gli occhi? Dove sono gli angeli, e di chi sono le anime? La polvere danza di nuovo, e la cenere riprende ad ardere nel fuoco bianco della vita. Tuttavia, il vento non è morto: soffierà ancora, e ancora, e ancora, e tutti i visi non sono che maschere create dagli angeli per i loro travestimenti e le loro finzioni... Il sogno si dissolse e Gabriel dormì. Durante l'intero intervallo vacuo che trascorse prima del risveglio, non ebbe alcuna importanza per lui se fosse una divinità o un demone, alleato dell'umanità o parente dei lupi. Vi furono soltanto oscurità, e pace... Infine ritornò il mattino, che obbligò Gabriel ad affrontare il mondo assurdo, detestabile, maledetto. Secondo Interludio L'Immaginazione Esplorativa L'Immaginazione primaria la ritengo la vitale capacità e l'agente primo di ogni umana percezione, e una ripetizione nella mente finita dell'eterno atto di creazione dell'infinito IO SONO.
Samuel Taylor Coleridge, Biographia literaria, 1817 1 Esistono due possibili etimologie della parola werewolf, ossia «licantropo». Secondo la più semplice, suggerita originariamente da Gervaso di Tilbury, werewolf deriva dall'anglosassone wér-wolf, in cui il prefisso wér significa semplicemente «uomo», ed ha equivalenti nel latino vir, nel prussiano virs, e nel sanscrito vira. Esiste però un'etimologia diversa, secondo cui il prefisso deriva dal norvegese vargr, che significa sia «lupo» sia «inquieto», e ha equivalenti nel francese varou, o garou, e nel gotico vaira. Sicuramente esistono, o sono esistite, varie razze di licantropi, ma il nome di quelli di cui ci occupiamo qui, vale a dire i licantropi creati da Machalalel, che oggigiorno si definiscono i licantropi di Londra, deriva certamente dalla seconda etimologia. Costoro sono i vargr, i loup garou, i vaira-ulf: gli inquieti. I licantropi creati da Machalalel non si trasformano con la luna, né possono trasformarsi interamente a loro volontà. Egli li creò affinché vivessero come se fossero esseri umani: non fu sua intenzione che essi tornassero mai, neppure per il più breve intervallo concesso loro dal fato, ad assumere forma di lupo. Purtroppo, la volontà di Machalalel fu insufficiente per negare loro tale privilegio, che essi esercitano con la massima gioia. Tuttavia, questa facoltà è anche la loro tragedia, giacché bramano tornare ad essere lupi per sempre, e l'eco del lupo che è in essi li ha indotti tutti, tranne uno, ad odiare con ardore terribile l'umanità e la forma umana. Quando sono in forma di lupo, i vargr hanno la coscienza del lupo, anche se la loro natura non è del tutto bestiale: non hanno accesso alla loro memoria di uomini o di donne, né possono comunicare mediante il linguaggio di cui si servono quando sono persone. Inoltre, la loro natura è ancor più rigidamente divisa: quando sono in forma di lupo, percepiscono come animali, però i loro istinti e i loro scopi sono pervertiti dall'umanità. I licantropi in forma di lupo sono creature estremamente volitive, anche se la volontà scritta nelle anime dei vargr quando erano soltanto lupi è stata grandemente modificata dalla lunga esperienza della natura divisa. Prima della metamorfosi, l'intelligenza umana del licantropo può vincolare la volontà lupesca a uno scopo particolare, fornendo, per così dire, un'istruzione all'altra metà del proprio essere. Una volta assunta la forma di lupo, è difficile modificare questo proposito, benché la sua influenza possa di-
mostrarsi inadeguata, se entra in conflitto con l'innata volontà lupesca. Fu la duttilità dell'interiorità lupesca che consentì a Machalalel, sul letto di morte, di rendere esecutore della propria volontà lo sfortunato Pelorus, imprimendo indelebilmente il proprio scopo nell'anima del prediletto. Le modifiche dovute a numerosi secoli di esperienza umana e lupina non si sono dimostrate adeguate a corrodere o a sovvertire tale volontà, che possiede interamente il povero Pelorus, con maggiore urgenza quando assume la forma di lupo, e che lo ha reso alieno alla sua stessa razza. In verità, i licantropi non possono fare a meno di odiare e disprezzare gli esseri umani: i miti eredi del mondo, dal cuore fosco e dall'anima fredda. I vargr non possono non provare risentimento per quello che fu fatto loro tanto tempo fa, e che li rese diversi da come la natura aveva inteso che fossero. Odiano e temono il loro essere trasformato, anche se la trasformazione ha conferito loro il dono dell'immortalità. Sotto questo aspetto sono molto diversi dall'Uomo d'Argilla che fu creato da Machalalel prima di loro, il quale nutre gratitudine nei confronti del suo creatore sia per la sua forma umana che per la sua immortalità. Creando i vargr, Machalalel fallì nel compito che si era prefisso. La loro forma umana è imperfetta, giacché essi non hanno né l'anima fredda degli umani, né l'anima calda degli Altri. Non sono più lupi autentici, e la lupa che li guida crede ormai che nulla, tranne la trasformazione completa del mondo, la quale annienterebbe l'umanità e la forma umana, sarebbe sufficiente per consentire ai vargr di ritornare ad essere veri lupi. Sembra che essi non abbiano alcun ruolo nello schema delle cose, perciò, ad eccezione di Pelorus, si alleano costantemente con coloro, umani o Altri, il cui scopo è quello di infrangere o modificare lo stesso schema delle cose. Ma forse sbagliano nel valutare ove risiedono i loro interessi, perché l'unica cosa che sappiamo con sicurezza sullo schema delle cose, è che non è quello che sembra. Gli scopi ultimi della verità e del destino sono ancora nascosti, nonostante tutti gli sforzi dei profeti e degli indovini. Lucian de Terre, La vera storia del mondo, 1789. 2 Il mondo è un intero, e come tale deve essere considerato. La magia dei frammenti e degli oggetti dissociati, la magia simpatica in tutte le sue forme, attinge alle connessioni inerenti all'integrità essenziale dell'intero, ma
è sostanzialmente triviale. A questo livello, l'alchimista, l'incantatore e lo stregone operano con un certo successo, tuttavia il vero mago deve riuscire ad andare oltre la manipolazione dei materiali e delle anime individuali: deve mirare ad agire sul mondo medesimo, intero ed integro. La Critica di Kant dimostra che possiamo conoscere il mondo soltanto come insieme di «fenomeni»: le cose quali appaiono ai nostri sensi. Soltanto per inferenza possiamo conoscere i «noumeni»: le cose quali sono in se stesse. Ovviamente, presupponiamo che le cose siano realmente come appaiono. Infatti, come potrebbe l'immaginazione accettare razionalmente e pacificamente l'idea che le apparenze sono estremamente ingannevoli? Nondimeno, questa supposizione è intrinsecamente rischiosa. Secondo il senso comune, è del tutto razionale presumere che le cose siano in realtà esattamente quali appaiono, e che le apparenze siano coerenti, e che i noumeni proietteranno sempre i medesimi fenomeni, come sempre in passato. Se le apparenze sono davvero coerenti e stabili, allora la scienza, che tenta di scoprire l'ordine nascosto dei fenomeni, è l'unica forma vera di conoscenza che si possa ottenere. Ma se le apparenze non sono del tutto coerenti nel tempo e nello spazio, che a loro volta sono fenomeni piuttosto che noumeni, allora la scienza deve limitarsi alle osservazioni del momento, e l'apparenza del mondo che essa descrive potrebbe trasformarsi completamente in qualsiasi istante. Forse ciò è accaduto diverse volte nel corso della storia umana. Forse accade molto di frequente, perché la memoria stessa è un'apparenza, e può darsi che questo sia quello che accade quando il mondo, insieme al suo «passato», viene rappresentato in essa, talché a tutti i suoi abitanti sembra essere sempre stato qual è nel presente. Se davvero le apparenze cambiano in questo modo, così che i noumeni proiettano in continuazione insiemi diversi di fenomeni coerenti, che cosa determina i mutamenti? Forse «determina» è la parola sbagliata. Forse ci si dovrebbe chiedere che cosa crea un mondo anziché un altro. Ebbene, disponiamo di varie risposte pronte. Proprio per colmare questo vuoto esplicativo è stato inventato «Dio», che crea con gli strumenti del miracolo e della magia, mediante Atti di Creazione che non richiedono nessuna causa o potere fisico, ma soltanto la Sua autorità e la Sua volontà. Tuttavia, che cosa possiamo sapere di Dio, se non che agisce in modo misterioso nel compiere portenti? Possiamo dedurre realmente, o persino supporre, che sia immortale, invisibile, onnipotente, e, si spera, benevolo?
Anche se alcuni di questi attributi sembrano positivi, in realtà sono tutti negativi: affermano soltanto che questo Dio non è fenomenico, che è oltre l'apparenza, vale a dire che è il rapporto fondamentale tra l'apparenza e la realtà noumenica. Dio è soltanto il falso espediente che colma il vuoto privo di risposte, al pari di tutti i confini immaginari che lo dividono in un pantheon, o che l'oppongono al suo contraltare satanico, o che riempiono l'universo di spiriti animistici e di magie che infondono speranza. Che cosa vedono, allora, i nostri occhi interiori? Sono mere illusioni, quelle che si presentano a noi nei sogni e negli incubi, nelle visioni e nelle voci? Quando i santi credono di comunicare con Dio e con gli angeli, sono semplicemente in preda alla follia? Quella che vediamo nei sogni è forse una realtà fenomenica diversa, molto meno stabile di quella che vediamo con gli occhi esteriori, oppure è una visione fugace del caos celato dall'ordine fenomenico? Non c'è modo di rispondere a questi interrogativi, tranne riconoscere che non possono trovare risposta. Però esiste soltanto un modo, un unico modo, per giungere alla certezza, ed è questo: il mondo è realmente come appare, oppure non lo è, e se non lo è, allora è un mondo che potrebbe sostanzialmente essere diverso, e che potrebbe anche essere volutamente trasformato e ricreato. E se è così, la vera conoscenza non è la scienza, bensì la magia, e il vero scopo della conoscenza è una sorta di divinità: la vera Autorità della Volontà. Se si tratta soltanto di fede, allora si deve sicuramente preferire la tesi magica. È necessario operare con rappresentazioni simboliche, perché per la mente non esiste altro modo di afferrare il mondo: e senza una presa sul mondo non esiste nessuna possibilità di controllo. Il mio simbolo del mondo sarà composto dalla rosa croce, dall'universo tolemaico, dalla Ruota del Tempo e dall'Albero Sefirotico, integrati in un insieme. La cupola, che potrà essere illuminata in modi diversi, consentirà e celebrerà il mutamento e la mutabilità in un modo che non sarebbe possibile al pavimento con il simbolo. La cupola e il simbolo insieme saranno la mappa dell'universo per il mio occhio interiore, consentendomi di recarmi nel cuore medesimo della Creazione. L'invocazione è essenzialmente introspettiva, e deve essere diretta all'interno anziché all'esterno. Se i sogni contengono qualcosa di più della
schiuma e della feccia del pensiero quotidiano, questo è il mezzo mediante il quale i semi della verità, dell'autorità e del potere devono essere coltivati, affinché crescano, fioriscano e fruttifichino. È necessario e vitale andare oltre le visioni e le voci, giungendo allo strato più profondo e più intimo della percezione interiore. Dobbiamo guardarci dal confidare troppo nelle nostre visioni. La vera comprensione può richiedere l'eliminazione di tutto ciò che crea idoli e si pone fra l'anima alienata, che è l'uomo, e la mente cosmica, che è la somma di tutti i Creatori. Tuttavia, non dobbiamo chiedere soltanto: «È possibile questo»? Bensì, dobbiamo chiedere anche: «È sopportabile»? Quello che sto facendo è pericoloso, sotto molti aspetti. I pericoli principali formano una coppia paradossale, come Scilla e Cariddi: fra essi rimane soltanto il più stretto dei canali. Sono i pericoli della guerra e della pace, della lotta e della sua assenza. Da una parte, ogni volta che invoco la condizione di «presenza magica», apro la mia anima a un regno di conflitti, perché comunque io scelga di caratterizzare l'anima universale, sia come singolo Dio, sia come numerose divinità, non può esservi alcun dubbio che essa è divisa in se stessa in molti modi diversi. Qualunque essere invochi affinché mi assista in questa ricerca per la conoscenza e il potere, l'invocazione m'impone di evitare altre entità, giacché adorare un nume significa sempre negarne un altro: e la generosità di una divinità può non essere superiore all'avversione di un'altra. D'altra parte, esiste un pericolo molto diverso: viaggiare con l'anima nel macrocosmo potrebbe diventare uno scopo, anziché un mezzo. Il processo della proiezione, che da alcuni è stato definito, in modo rivelatore, «estatico», offre ricompense intrinseche, così che coloro i quali ne hanno considerevole esperienza perdono frequentemente ogni interesse nelle vicende del mondo materiale, e diventano, per così dire, tossicomani della trascendenza. Forse è questa la ragione per cui gli Altri, che un tempo, a quanto pare, erano di gran lunga più numerosi degli esseri umani, ora sono quasi estinti. Forse era troppo facile per loro giungere all'estasi: forse la loro soglia del dolore era troppo bassa per costituire una restrizione efficace. Ma è possibile che queste siano soltanto supposizioni false. Per l'istruzione di eventuali discepoli, ho registrato tutte le fasi consuete del distacco.
Innanzitutto occorre perdere la sensazione del corpo e del luogo circostante, affinché l'anima sembri fluttuare libera. Così, essa diviene capace d'imbarcarsi in un'odissea attraverso il mondo, nonché oltre, nel regno delle stelle. Però le seduzioni di questo genere di esperienza debbono essere evitate. In questa fase, le voci si susseguono in un profluvio: è la babele che altri hanno scambiato per il vocio dei defunti, o per le istruzioni divine impartite ai santi e ai profeti. Tuttavia è necessario imparare a non restare vittime neppure di queste, perché compongono un canto sirenico colmo di promesse prive di adempimento. La resistenza alle voci è seguita dalle visioni più sgargianti, che sono intrinsecamente più difficili da ignorare o da considerare con distacco, perché sono immagini fantasmatiche: angeli e draghi, portenti e mostri, paradisi e inferni... Tutte queste entità sono prontissime a tessere la loro ragnatela d'impressioni fuorvianti, la cui fascinazione, però, si attenua poco a poco, fino a scomparire, man mano che l'abilità dell'adepto aumenta. Il maestro può trascendere le voci e le visioni, giungendo così agli orizzonti dell'immaginabile. Esiste una wilderness inviolata dall'immaginazione: là dimora l'essenza rivelatrice che, sbocciando nell'anima umana, può trasformare l'uomo comune in un superuomo, e modificare la tessitura del suo essere in un riflesso superiore dell'anima universale. Come al di sopra, così al di sotto: questa è la dichiarazione e la promessa, la divinità potenziale dell'uomo. Il vero mago non deve mirare a nulla di meno. Ho veramente bisogno di alleati e di collaboratori? In tal caso, dovrei cercare altri che hanno già percorso personalmente il sentiero? Finora, i miei esperimenti pedagogici si sono dimostrati molto deludenti. Ma dove potrei trovare altri adepti? I pochi spiritisti che non sono ciarlatani, sono condizionati dalle esigenze dei loro clienti. L'ordine di Sant'Amycus recluta coloro che sono dotati di capacità fra i ranghi della Chiesa, ma li impantana profondamente nella propria eresia. Quanto agli Altri fuggiaschi che sono descritti nella Vera storia del mondo, come e dove potrei trovarli? I licantropi di Londra non sono altro che mostri, di cui non ci si può fidare. Forse è necessario che io rimanga solo. Forse questo è l'unico modo per conquistare la vera Autorità. Forse l'Atto di Creazione è necessariamente individuale, e Colui che vuole farsi Dio deve essere un nume solitario e intollerante. Fra i miei amici e i miei seguaci, coloro che mi hanno amato più
intensamente, e che si sono sottomessi più di buon grado alla mia guida, hanno sofferto in conseguenza di tutto ciò. Devo affrontare il fatto che non posso più accettare l'amore altrui, e che devo preferire invece coloro i quali sono incapaci d'amore. Gli amanti sono strumenti inadeguati. In verità, lo strumento perfetto può essere soltanto creato, e non scoperto per caso nella consuetudine della vita sociale. Se soltanto vi fosse un modo per creare un bambino magico, in cui gettare i semi del potere latente al momento stesso del concepimento... Ebbene, forse esiste un modo di compiere questa impresa... Brani dal diario di Jacob Harkender, scritti fra il 1848 e il 1860. 3 Londra, 23 Marzo 1872 Mio caro Edward, non so se questa lettera ti giungerà prima che tu parta da Gibilterra, ma poiché esiste la possibilità che tu la riceva, mi sento tenuto a inviartela. Una parte di quello che ti devo riferire è tanto strana, che sento la necessità di scriverne il resoconto, perché temo che altrimenti potrei convincermi di avere sognato. Come ti avevo preannunciato, mi sono recato da Jacob Harkender, nella sua casa di Whittenton. Prevedevo che l'incontro sarebbe stato piuttosto strano, ma temo che esso abbia avuto una conseguenza ancora più strana. Comunque, non debbo anticipare, anzi, devo badare a rispettare scrupolosamente l'ordine degli eventi, altrimenti avresti tutto il diritto di burlarti di me per la mia inadeguatezza come osservatore. Ho camminato sino a Whittenton dalla stazione di Maidenhead, e ben presto ho avuto l'impressione di avere attraversato una sorta di confine invisibile e di essere entrato in un mondo peculiare. La dimora di Harkender è l'edificio più insolito che io abbia mai visto: sul tetto, è installata una sorta di cupola multicolore. Mi sono presentato senza preavvertire, quindi il maggiordomo mi ha doverosamente informato dell'assenza del signor Harkender. Quando ho chiesto di poterlo attendere, il maggiordomo si è dimostrato piuttosto riluttante, ma alla fine ha accettato il mio biglietto da visita e mi ha condotto nella biblioteca, dove mi ha lasciato in attesa. La casa non è molto grande, poiché, almeno dall'esterno, sembra avere
non più di quindici o venti stanze, escluse le cantine, nondimeno la biblioteca è vasta e colma di libri. Mi sono affrettato a cercare la sezione relativa all'Egitto, dove non sono rimasto affatto sorpreso nel trovare la Storia delle mummie egizie, di Pettigrew, accanto alla Scoperta del sistema solare perduto degli antichi, di Wilson, mentre l'opera su Tebe di Alexander Rhind era vicino a Vita e opere alla Grande Piramide, di Piazzi Smyth. Sono rimasto invece molto più sorpreso nello scoprire una vasta collezione di opere di filosofia, inclusi Bacone, Berkeley e Hume, nonché le traduzioni dal Tedesco di Kant e di Hegel, e quelle dal Francese di Descartes e di Rousseau. Per un poco ho nutrito l'ingenua speranza di trovare anche la copia smarrita al British Museum della Vera storia del mondo, di de Terre, ma naturalmente non è stato così. La mia delusione è stata rapidamente sostituita dallo sbalordimento suscitato dalla ricchezza della biblioteca, che contiene molti volumi manoscritti. Ho trovato le opere di Cornelio Agrippa, incluso il trattato apocrifo di magia nera; Marsilio Ficino e il Clavicule salomonis; John Dee e Robert Fludd; Tableau de l'Inconstance des Mauvais Anges, di Pierre de Lancre; e innumerevoli opere di autori a me ignoti, sia in Latino che in diverse lingue moderne. Se questi libri non si trovano nella biblioteca per pura ostentazione, allora Harkender è un autentico erudito, e non è interessato esclusivamente al fantastico. Ho dovuto attendere meno di un'ora prima che il mio involontario ospite venisse a salutarmi. Naturalmente, non sono rimasto per nulla sorpreso nello scoprire che non era affatto entusiasta di conversare con me. Era accompagnato da una donna che mi ha presentato come signora Murrell, ma ignoro se fosse proprio la persona che ha reso famigerato tale cognome. Quantunque la mia presenza non fosse evidentemente benvenuta, ero deciso ad andare fino in fondo. Ho spiegato che rappresentavo te e che di recente tu ti eri recato in Egitto. Il tuo nome gli ha procurato una certa irritazione, ma il suo atteggiamento è cambiato notevolmente non appena l'ho informato che ti sei recato nel Deserto Orientale, sull'altopiano di arenaria a meridione di Qina. Allorché mi ha chiesto chi ti ci avesse condotto, gli ho parlato del tuo misterioso padre Mallorn. In risposta a una sua rapidissima serie di domande, gli ho rivelato gli eventi che mi hai narrato, aggiungendo che Samuel Birch mi aveva suggerito di rivolgermi a lui. Soltanto alla fine mi sono ricordato che ero venuto a porre domande, anziché a farmi interrogare. Non sono riuscito a decifrare la reazione di Harkender, ma la signora
Murrell mi è sembrata sorpresa e turbata. Harkender se n'è accorto e le ha subito suggerito di ritirarsi, in modo tale da lasciar capire persino a me che si trattava in realtà di un ordine. Poi si è dichiarato meravigliato del mio racconto, e ha confessato che, a suo tempo, incontrò grandi difficoltà nel trovare guide per la sua spedizione in quella regione, anche se tali difficoltà lo intrigarono a sufficienza da indurlo a raddoppiare gli sforzi per giungervi. Infine, trovò uomini poco superstiziosi che accettarono l'incarico e poté rimanere per alcune settimane nella valle dove si è svolta la tua avventura, esplorando le mastabe. Ha sostenuto che le tombe furono saccheggiate molto tempo fa, forse persino all'epoca dei costruttori delle piramidi, e che poté rinvenire soltanto reperti di scarsa importanza, inclusi oggetti di coccio e attrezzi di pietra. Si è preso la libertà d'informarmi con sussiego che anche oggetti del genere hanno valore archeologico, e mi ha rammentato di aver compiuto la sua esplorazione prima che sir John Lubbock pubblicasse Prehistoric Times. Ha affermato che la notizia delle sue scoperte incoraggiò sir John a recarsi in Egitto di persona, però ha modestamente riconosciuto che le sue ricerche sono del tutto insignificanti rispetto a un'opera meravigliosa come la scoperta, da parte di Burkhardt, del grande tempio di Abu Simbel, o le esplorazioni di Hoskins in Nubia. Nessuno dei suoi operai fu mai morso da un serpente, e nessuno ebbe a soffrire di nessun genere di allucinazione. Anche se non è stato affatto scortese, e sebbene i suoi discorsi mi siano parsi del tutto plausibili, mi sono convinto che Harkender ha mentito. Morivo dalla voglia di sconcertarlo, di strapparlo alla sua impassibilità, perciò gli ho domandato: — Per caso, possiede un'opera intitolata La vera storia del mondo, firmata da un certo Lucian de Terre? Senza dubbio questo dardo ha centrato il bersaglio, perché Harkender ha manifestato uno sbalordimento assoluto. Tuttavia ciò non mi ha arrecato nessun vantaggio immediato per ottenere informazioni. Harkender si è limitato ad osservare che si tratta di un libro molto raro, e che una volta lo lesse al British Museum, ma che non è mai stato abbastanza fortunato da procurarsene una copia. Tuttavia mi ha chiesto se esso riguardasse in qualche modo la storia che gli avevo raccontato. Allora gli ho spiegato che forse colui che si faceva chiamare Mallorn vi aveva accennato, e ciò è parso soddisfarlo. Poi ho aggiunto che un mio amico conosceva un uomo che sosteneva di avere scritto il libro, e questa informazione lo ha sorpreso non meno della menzione del libro. Quando Harkender mi ha chiesto dove avrebbe potuto trovare costui, ho
deciso di essere tanto evasivo quanto lui: mi sono limitato a dire che il sedicente autore del libro era morto, ma che avevo sentito dire che il libro stesso era un'accozzaglia di assurdità. Sorridendo, Harkender ha osservato che anch'io devo essere uno scettico, come te. Ha aggiunto che ti conobbe, in passato, che continua a leggere le tue opere, e che le trova interessanti. Il suo successivo discorso potrà forse interessare te: — Sir Edward è sempre stato un ammiratore di Bacone, e condivide il punto di vista di quel grande pensatore, secondo cui se soltanto gli idoli mentali che oscurano e confondono il pensiero potessero essere abbattuti, la verità si manifesterebbe a tutti. Purtroppo, io non posso essere d'accordo con lui. La verità non potrà mai manifestarsi, né essere resa manifesta, perché non è affatto costante, bensì mutevole, e sfugge perpetuamente ai nostri tentativi di afferrarla. Lucian de Terre lo sapeva, perciò scrisse un libro di fantasie poetiche, nella speranza di catturare la verità mediante la dissimulazione. So che è un'operazione perversa, ma a quanto pare le verità nascoste non vengono insidiate e alterate tanto rapidamente quanto quelle che si credono manifeste. Ha dichiarato che gli piacerebbe incontrarti di nuovo e che cercherà di recarsi a farti visita quando sarai tornato in Inghilterra. Ha promesso che tenterà di aiutare il tuo giovane misterioso a riacquistare la memoria, utilizzando le sue capacità ipnotiche. A quel punto, oltre ad essere ormai spazientito dal duello intellettuale che avevamo ingaggiato, non avevo nessuna intenzione di passare del tutto per fesso. Ho detto ad Harkender che, pur non avendo nessun diritto di esigere informazioni da lui, e anche se per forza di cose mi ero presentato a casa sua come un mendicante, implorando il suo aiuto, nondimeno gli avevo raccontato una storia a cui era parso interessarsi molto, quindi volevo che mi offrisse qualcosa in cambio: magari poco. Non del tutto sinceramente, ho detto inoltre che lo consideravo onesto, e confidavo che avrebbe compreso quanto fosse giusta la mia richiesta. A sua volta, Harkender ha riconosciuto la mia onestà, ma ha detto di essere più incline al commercio di quanto io supponessi e ha promesso che mi avrebbe confidato il nome dell'ordine a cui apparteneva realmente padre Mallorn, se gli avessi rivelato l'identità di colui che aveva sostenuto di essere l'autore della Vera storia del mondo, nonché dove questi aveva dimorato prima della morte. Lo scambio mi è sembrato equo, tuttavia non mi sono ritenuto libero di accettarlo. Ho spiegato ad Harkender che l'uomo in questione era stato paziente di un mio collega, che quello che avevo saputo sul suo conto mi era stato rivelato in quanto medico, e che dunque ero vin-
colato al segreto professionale. Benché deluso, Harkender non ha voluto che ci lasciassimo in cattivi rapporti, o almeno così mi è sembrato, perché mi ha chiesto se il tuo presunto gesuita possedeva un anello. Dopo la mia risposta affermativa, mi ha domandato se l'anello recasse le lettere O, S e A. Ottenuta la mia conferma anche in questo caso, mi ha spiegato che si tratta delle iniziali dell'ordine di Sant'Amycus. Quando ho replicato di non aver mai sentito nominare questo santo, si è limitato a sorridere, dichiarando che pochi lo conoscono, ma che il suo ordine ha un convento a Londra, e che il priore ha nome Zefirino. Confesso di aver avuto la malagrazia di lagnarmi del fatto che tale informazione era una ricompensa assai scarsa per il disturbo che mi ero preso. Contrariato, Harkender ha ribattuto di avere soltanto una cosa ancora da dirmi: ci ha avvertiti entrambi che questa faccenda è del tutto estranea alle nostre competenze e alle nostre capacità. Ha concluso così: — Sir Edward può sforzarsi finché vuole di persuadersi che quello che è accaduto nel deserto è stata una pura e semplice allucinazione, ma non può credere sinceramente che sia così. La sua visione del mondo non gli permetterà mai di scorgere o di comprendere le radici di questo mistero, quindi sarebbe bene per tutti voi se non tentaste neppure di riuscirvi. Nondimeno, mi piacerebbe aiutare il giovane che non ricorda la propria identità, perciò, se me lo permetterete, lo farò. Mi dispiacerebbe se tu pensassi che ho condotto male questa conversazione, come sospetto di avere fatto: posso soltanto sperare che, se e quando Harkender verrà a farti visita a Londra, tu riuscirai a cavargli qualcosa di più. Se non altro, questa lettera può servire a metterti sull'avviso. Tuttavia, gli eventi di quella giornata non si sono conclusi con la mia partenza dalla casa di Harkender, anzi, l'avvenimento più rimarchevole si è verificato poco più tardi. Ho attraversato il Tamigi ad Hurley e mi sono diretto a Maidenhead, per prendere il treno per Hanwell, dove intendevo sostare per fare nuovamente visita ad Austen. Nel discendere Prospect Hill verso Stubbings Heath, mi sono accorto di essere seguito. Durante l'attesa del treno, mi sono avvicinato a colui che mi pedinava, per osservarlo di nascosto: era un giovane, sicuramente cittadino e non campagnolo, a giudicare dall'abbigliamento. Senza alcun dubbio non era né un operaio né un domestico. Dai modi, mi è parso un commesso viaggiatore, anche se non aveva nessun tipo di bagaglio. Di quando in quando mi guardava, sfrontatamente, con insolenzà, e l'attesa sembrava renderlo
molto impaziente. All'arrivo del treno, ho collocato la mia borsa in un compartimento vuoto e mi sono girato ad osservare il giovane, che per un momento ha sostenuto il mio sguardo, poi ha preso posto nella carrozza successiva. In borsa avevo un libro, L'origine dell'uomo, di Darwin, ma non ho neppure tentato di leggere: mi sono accontentato di meditare sulla mia strana discussione con Harkender. Come aveva indovinato che il tuo presunto gesuita portava un anello? È possibile fidarsi di quello che ha detto a proposito del monogramma? Perché si interessa a colui che sosteneva di essere Lucian de Terre? Che cosa scoprì realmente nel Deserto Orientale, e quale connessione esiste fra ciò e il disastro che è capitato a te e al tuo gruppo? Non ho tentato di ipotizzare risposte plausibili a questi interrogativi, ma mi sono sentito sempre più imbarazzato dal mio fallimento nel cavare un maggior numero di informazioni dall'evasivo Harkender: devo confessare che, quando sono smontato ad Hanwell, ero di pessimo umore. Ancor più mi ha irritato, pur se non mi ha sorpreso, veder smontare anche il mio giovane pedinatore. Così, ho deciso di afferrare il toro per le corna, mi sono accostato al pedinatore mentre si formava la fila all'uscita, e ho detto: — Se non sbaglio, veniamo entrambi da Whittenton. Se la mia audacia lo ha sorpreso, il giovane non lo ha dimostrato in alcun modo: semplicemente, ha riconosciuto che non sbagliavo. La sua voce era stranamente morbida e serica, ma il suo fiato puzzava di liquore, e i suoi modi rivelavano una certa inquietudine. Ha aggiunto che non aveva il piacere di conoscermi, e mi ha chiesto di presentarmi. D'improvviso, mi sono sentito sciocco: ancora una volta, avevo preso l'iniziativa per ottenere informazioni, e mi trovavo invece ad essere interrogato, oppure, nel migliore dei casi, ero costretto ad accettare uno scambio. Eppure, come avrei potuto rifiutare? Mi sono presentato, ho dichiarato di essere medico, e mi sono affrettato a chiedere l'identità del mio interlocutore. Il giovane ha sorriso: — Il mio nome è Calan, e sono un servo. Lei vive forse ad Hanwell, signore? — Non ricordo di aver mai udito nessuna voce lontanamente simile alla sua: era rauca, senza essere aspra. Comunque, il giovane era lievemente ubriaco, e dava l'impressione di non avere il completo controllo di se stesso. Uscito dalla stazione, mi sono fermato, deciso ad attendere che il giovane se ne andasse, prima di mettermi in cammino. Evidentemente, il giovane ha compreso il motivo del mio indugio. È parso molto irritato, come se io non avessi il diritto di vanificare il suo scopo: senza riguardi, mi ha do-
mandato dove stessi andando. Ho risposto che intendevo far visita a un amico, quindi gli ho chiesto, a mia volta, di chi fosse servo. Manifestando una certa intemperanza, il giovane ha risposto che la sua padrona è una certa Mandorla Soulier, e nel dir questo mi ha guardato in modo strano: evidentemente si aspettava che questo nome mi fosse noto. Anziché andarsene per i fatti suoi, è rimasto ostinatamente ad aspettare, fissandomi con lo sguardo piuttosto annebbiato dall'ebbrezza. La sua insolenzà mi ha reso furente: gli ho chiesto, con una certa asprezza, se fosse sua intenzione seguirmi per tutta la giornata, e se la sua padrona gli affidasse di solito incarichi di quel genere. Sempre più irritato, il giovane ha ribattuto, in modo alquanto sorprendente: — Non la seguirò più: è evidente che è questo che lei vuole. La prego, però, di rammentare che non può nascondersi a noi. Possiamo ritrovarla in qualunque momento, se vogliamo, perché siamo i licantropi di Londra, e il suo amico, il signor Harkender, non possiede neppure un decimo del potere di cui noi disponiamo. Deve avvertirlo di stare alla larga da noi, e di non cercare di ritrovare il ragazzo. Mentre io rimanevo immobile a fissarlo, sbalordito, il giovane ha girato sui tacchi e si è allontanato rapidamente, verso oriente. Ero ancora fermo così, come se avessi messo le radici, quando sono stato salutato da Austen, che stava arrivando dalla clinica, dove si reca tre giorni alla settimana. In un tono scherzoso che non sono riuscito a condividere, mi ha chiesto quali notizie avessi del Circolo del Fuoco Infernale. Quando gli ho raccontato quello che era appena successo, Austen è rimasto interdetto, però ha dichiarato di potermi fornire almeno una spiegazione parziale: proprio quella mattina, infatti, aveva saputo della scomparsa, dall'istituto di Hudlestone Manor, di un fanciullo, il quale era stato affidato alle suore nientemeno che da... Jacob Harkender! Soprattutto è rimasto meravigliato, però, dal fatto che il mio giovane pedinatore fosse a conoscenza della faccenda, giacché supponeva che neppure Harkender fosse già stato informato della scomparsa. Gli ho chiesto subito se le suore in questione appartenessero all'ordine di Sant'Amycus, ma Austen mi ha garantito di non aver mai sentito nominare un santo con questo nome, per non parlare di un ordine monastico a lui intitolato. Non ho la minima idea di cosa diavolo si possa dedurre da tutto ciò. Quello che all'inizio sembrava un piccolo enigma, sta diventando sempre più intricato giorno dopo giorno, come una sorta di nodo gordiano: insomma, un autentico mistero. Ho tentato di trarre profitto dal soggiorno a
Charnley interrogando meticolosamente Austen, il quale non è meno sgomento di me o di te, però ricorda che i licantropi di Londra sono menzionati nella Vera storia del mondo, di de Terre. Comunque, posso aggiungere che attualmente Hudlestone Manor è occupata dalle suore di Santa Syncletica: un ordine che porta un nome che mi sembra non meno strano di quello dell'ignoto Amycus, ma che pure esiste realmente. Non so dire se questa lettera contenga qualche elemento che ti possa essere utile per svelare il mistero in cui ci siamo invischiati, ma spero che tu non creda che io abbia inutilmente aggiunto qualche episodio melodrammatico. A quanto pare, tutto quello che ho ricavato dai miei sforzi è l'abitudine a guardarmi spesso alle spalle per scoprire se sono pedinato: una caratteristica, questa, che condivido con un numero inquietante di pazienti di Austen. Non credo nel potere della magia di Harkender, e ancor meno credo ai leggendari licantropi di Londra, eppure non posso fare a meno di provare un po' di paura, perché potremmo avere attirato involontariamente l'attenzione di qualcuno che potrebbe essere pericoloso. Spero che, con il tuo ritorno, partecipino alla nostra indagine una vista più penetrante e un'intelligenza più acuta di quelle che sono stato finora in grado di esercitare. A presto, Gilbert. Parte Terza I Conforti della Cecità Quelli che reprimono il desiderio lo fanno perché il loro desiderio è tanto debole da essere represso; ciò che reprime, cioè la ragione, usurpa il posto del desiderio e governa ciò che manca di volontà. Ed essendo represso, il desiderio a poco a poco diventa passivo, finché non è altro che l'ombra del desiderio. La storia di questo è scritta nel Paradiso Perduto, e il Governatore o Ragione si chiama Messia. E l'Arcangelo originale, colui che ha il comando dell'armata celeste, si chiama Diavolo o Satana, e i suoi figli si chiamano Peccato e Morte. Ma nel Libro di Giobbe il Messia di Milton si chiama Satana. Poiché questa storia è stata adottata dalle due parti.
Senza dubbio parve alla Ragione che il Desiderio fosse cacciato; ma il racconto del Diavolo, è che il Messia cadde e formò un cielo di quanto derubò all'Abisso. [...] Nota. La ragione per cui Milton era incatenato quando scriveva su Dio e gli Angeli, e in libertà quando scriveva su i Diavoli e l'Inferno, è che era un vero poeta e del partito del Diavolo senza saperlo. William Blake, Il matrimonio del cielo e dell'inferno, ca. 1793 1 Le fiamme dell'inferno crepitano e avvampano sotto il suo corpo dorato, ognuna un dardo di sofferenza e di estasi che intensifica la sua vista. Ma tutte le rivelazioni del suo occhio interiore sono tragedia e angoscia. Mentre piange le sue lacrime amare, egli anela il conforto della cecità. La Terra irraggiungibile sopra di lui è deturpata da tagli, ulcere e croste: per breve tempo è parso che guarisse lentamente, che si approssimasse alla pace; ma la vista profetica del suo occhio ciclopico rivela le ombre di possibilità terribili. La Terra, come un frutto dolce e maturo sul ramo dell'eternità, ospita in sé morbi e parassiti, le cui larve brulicano sotto la superficie, come se fossero finalmente pronte a spaccarla, vomitando i loro ragni neri e i loro gatti gialli, il cui morso è veleno e i cui artigli sono aguzzi. Se soltanto egli potesse protendere la mano risanatrice... Il suo cuore batte nel petto, vigorosamente e risolutamente: può sentirne la salute, ma da molto tempo ha imparato che quando percepisce tanta forza interiore, è prossimo il momento in cui le aquile precipitano dal cielo igneo, cavalcando i flutti della luce astrale, affinché i loro artigli possano insegnargli quello che ha bisogno di sapere: l'uomo non è nulla più di un capriccio del fato, e tutte le sue vanità sono mere vessazioni dello spirito, perché esiste un tempo per torturare e un tempo per straziare, un tempo per nuocere e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la fosca distruzione. Egli volge la testa, alla disperata ricerca di aiuto, ma Dio è impotente all'esterno della Sua Creazione: Lui ha creato il mutamento, con la sua logica immanente; Lui ha creato il destino, con la sua fine costitutiva; Lui ha creato il tempo e lo spazio, con il loro svolgimento intrinseco. Ma Lui è
soltanto superficie, soltanto immagine, soltanto Alfa e Omega, Inizio e Fine, per sempre e per sempre... Amen! I lupi corrono, benché il loro mondo sia trasformato in ghiaccio, e anche se uno si è separato dal branco, e ha vólto il proprio viso verso quello di Satana, con la misericordia nell'occhio azzurro e luminoso, che cosa possono mai importare le sue lacrime, e che cosa può mai ottenere il suo cuore intrepido? E nella grotta, la dèa sorride, e protende una bella mano a toccare il volto del prigioniero liberato, ad accarezzargli una guancia e a rubargli gli occhi, e a schiavizzare il suo cuore ribelle... Quando si destò, o forse credette soltanto di destarsi, in quel rifugio di oscurità confortevole a cui poteva accedere chiudendo gli occhi, David Lydyard sudava febbrilmente, e aveva una strana sensazione di abbarbagliamento, come se le sue facoltà visive fossero state sopraffatte durante il sonno da una profusione innaturale di luce. Tuttavia, tale sensazione era senza dubbio illusoria, perché quando aprì i suoi veri occhi, rimase sconcertato dalla luce relativamente fioca che entrava dall'oblò della propria cabina. In verità, rimase talmente interdetto, che trascorsero alcuni secondi prima che vedesse il lupo. La belva giaceva, o almeno così sembrava, sul pavimento. Era gigantesca, ma non aveva alcunché di minaccioso, anzi, appariva del tutto rilassata. Aveva la testa sollevata e guardava Lydyard con gli occhi azzurri e luminosi, ma senza snudare le zanne: il suo sguardo era placido e contemplativo, nient'affatto bramoso. Finalmente si è manifestata e dev'essere affrontata, disse silenziosamente Lydyard a se stesso, sorpreso da questa sua reazione. Finalmente la follia è sbucata dalle ombre, per possedere il mondo. Poi, per la seconda volta, o forse per la terza o per la quarta volta, si destò, nel conforto della cecità. E quando aprì gli occhi timorosi, vide soltanto Paul Shepherd, il quale, in piedi, completamente vestito, lo osservava con evidente preoccupazione. Nel vederlo così, Lydyard non rimase molto sorpreso, perché negli ultimi giorni le condizioni del giovane erano notevolmente migliorate. Rimaneva sveglio per periodi sempre più lunghi, anche se soltanto durante la notte, e manifestava segni evidenti di recupero delle facoltà mentali: espressioni di sgomento e di ansietà, nonché mormorii quasi intelliggibili, in cui si individuava talvolta qualche parola inglese. Proprio il giorno pre-
cedente, sir Edward Tallentyre aveva espresso l'opinione che qualunque trauma lo avesse privato della ragione, stava già allentando la propria presa su di lui, tanto che il povero Shepherd sembrava sul punto di ritornare in sé da un momento all'altro. Evidentemente, tale profezia si era avverata, giacché gli occhi azzurri e luminosi, che in precedenza erano parsi vacui e ingenui, erano diventati penetranti, sorprendentemente severi. Allungando un braccio a posare una mano su una spalla di Lydyard, il giovane misterioso domandò: — È finito del tutto il sogno, adesso? — Oh, sì — rispose Lydyard, con una risatina, consapevole dell'ironia del fatto che fosse l'altro a preoccuparsi per lui. — Sono di nuovo me stesso: non sono più all'Inferno. — E scostò il lenzuolo, scoprendosi il petto. Nel volgere gli occhi azzurri all'oblò per guardare fuori, Paul Shepherd chiese: — Che costa è quella? — È l'Africa settentrionale — rispose macchinalmente Lydyard. — Non siamo lontani da Tunisi, sulla rotta da Alessandria a Gibilterra. Come se provasse sollievo nel trovarsi in una regione del mondo a lui nota, Shepherd annuì. Tuttavia dichiarò: — Dove un tempo sorgeva Cartagine, e dove ora vivono i pirati barbareschi... — Dove vivevano i pirati barbareschi — corresse Lydyard. — Senza dubbio ci sono ancora bande di briganti che assaltano le navi arabe, ma l'Excelsior è un piroscafo, e i giorni della pirateria sono finiti. — Naturalmente — mormorò Shepherd. — Sono finiti, e quasi dimenticati... Spogliatosi del pigiama fradicio di sudore, Lydyard si alzò dalla cuccetta, e stranamente non pensò neppure a sentirsi imbarazzato a causa della propria nudità. Divideva la cabina con il compagno misterioso da alcuni giorni, quindi era ormai abituato a vederlo senza indumenti. Si vestì senza fretta, meticolosamente, deciso a fare le cose con ordine. Non si era ancora del tutto calmato, dopo i turbamenti dell'incubo, perciò aveva bisogno di tempo per adeguarsi nuovamente alla stretta della normalità. Intanto, sentendo su di sé la curiosità quasi tangibile degli occhi azzurri e luminosi che gli scrutavano il viso, immaginò che Shepherd stesse lottando con i ricordi recalcitranti, per comprendere che cosa gli fosse accaduto. Finalmente, Shepherd domandò: — Lei è William de Lancy? — No — rispose brevemente Lydyard. — De Lancy è scomparso, nel deserto a meridione di Qina. — Allora lei deve essere David Lydyard. Dunque de Lancy è scom-
parso? E che cosa ne è stato di sir Edward Tallentyre e di frate Francis? — Sir Edward si trova nella cabina attigua — rispose Lydyard, guardingo. — Il gesuita è morto: ha avuto un attacco di cuore, sempre là, nel deserto. Sa che cosa le è accaduto laggiù, signor Shepherd? Mentre il giovane misterioso sembrava meditare sulla domanda, i suoi occhi eccezionali rimasero abbastanza calmi, pur perdendo in parte l'intensità dello sguardo. Infine, scosse la testa: — No, non riesco a ricordare. Può dirmelo lei? — L'abbiamo trovata nudo e gravemente ferito. Il suo cavallo era nelle vicinanze, assieme ad alcuni suoi effetti personali, ma lei era completamente fuori di sé. — Così dicendo, Lydyard continuò nel proprio perseguimento ostinato della consuetudine, suonando il campanello per chiamare lo steward. — L'abbiamo portata con noi a Wadi Halfa, poi al Cairo, e infine ad Alessandria... come trofeo enigmatico per rammentarci i misteri del deserto. A questa battuta, Shepherd rispose con un brevissimo sorriso. Quindi domandò: — Quanto tempo è trascorso da quando mi avete trovato? — Quasi quaranta giorni. — Vi ho procurato molte noie? — Non molte. Con un minimo di difficoltà, siamo riusciti a nutrirla e a mantenerla pulito. Se avessi perso completamente la ragione, sono certo che avrei dato ben altri grattacapi a coloro che avrebbero dovuto assistermi. — Comunque, mi avete assistito, e io vi sono grato per non avermi abbandonato in qualche clinica egiziana. La voce di Shepherd era melodiosa, la sua dizione limpidissima rivelava che era perfettamente istruito, eppure Lydyard non riusciva a scacciare il sospetto assurdo che il suo linguaggio e le sue sembianze fossero soltanto una maschera: — Sir Edward non ha neppure preso in considerazione questa ipotesi. Sapevamo che lei non è egiziano. Dai documenti che siamo riusciti a recuperare, risulta che lei è Inglese. Inoltre, lei poneva un interrogativo, per la cui soluzione sir Edward non è riuscito a fornire nessuna ipotesi ragionevole. E mettere un uomo come lui in una situazione del genere, è come sventolare un fazzoletto rosso davanti agli occhi di un toro. — Naturalmente — replicò Shepherd, con voce morbida. — Ho letto alcuni saggi di sir Edward. — Sembra che lei sappia parecchie cose sul nostro conto — osservò Lydyard. — Noi invece non sappiamo nulla di lei, tranne il nome. A quan-
to pare, ci ha seguiti a nostra insaputa. Se è così, perché lo ha fatto? — È vero, è così — rispose schiettamente Shepherd. — Quanto al motivo... In quel momento, si udì bussare alla porta. Quando lo steward entrò, manifestando una certa sorpresa nel trovare sveglio anche il secondo occupante della cabina, Lydyard approfittò dell'occasione per annunciare di doversi assentare brevemente, e gli chiese di informare sir Edward Tallentyre che il signor Shepherd era desto, nonché in grado di conversare. Senza esitazione, Shepherd manifestò il proprio assenso con un cenno della testa. Al rientro in cabina, Lydyard trovò Tallentyre intento a conversare con Shepherd. Evidentemente, il baronetto aveva compiuto maggiori progressi di lui nell'ottenere una spiegazione, perché Shepherd stava dicendo: — In realtà, stavo seguendo frate Francis. Lui ed io avevamo... interessi simili. Conoscevo i vostri nomi perché mi era stato riferito che egli si era unito al vostro gruppo, tuttavia non vi avevo mai visti. Speravo di raggiungervi nella valle, dove però, a quanto pare, non sono mai giunto. Non so che cosa mi sia successo. Sembra che io abbia perso oltre quaranta giorni della mia vita. Sembra... — E tacque, confuso. Intanto, osservando Tallentyre, il quale aveva il volto severamente contratto e lo sguardo fosco di diffidenza, Lydyard ebbe la certezza che si stava domandando se Shepherd stesse mentendo, e per quale ragione. Dopo avere versato nel catino del lavamano l'acqua che aveva chiesto allo steward di portare, invitò con un gesto Tallentyre e Shepherd ad accomodarsi: — Avete già ordinato la colazione? — chiese, iniziando a lavarsi. — Sì — rispose Tallentyre, sedendo al tavolino. Shepherd prese posto di fronte a lui. Entrambi attesero cortesemente che Lydyard si lavasse e si asciugasse. In breve, però, il baronetto si dimostrò incapace di sopportare il fardello del silenzio: — Come mai si è recato in Egitto, signor Shepherd? E perché si è posto sulle tracce del nostro amico gesuita? — Suppongo che mi si possa definire una sorta di archeologo dilettante, proprio come padre Mallorn — rispose Shepherd. — Entrambi avevamo motivo di credere che si potesse trovare qualcosa d'interessante in quella valle, e che qualcosa vi fosse accaduto, o stesse per accadervi. — Lei è molto vago — osservò Tallentyre. — Non vuole spiegarci con maggior precisione a che cosa allude? Per un lungo momento, i due uomini si scrutarono in silenzio.
Infine, Shepherd rispose: — Vi sono alcune cose che non posso rivelarvi, e altre alle quali temo che non credereste. Vi sono molto grato dell'aiuto che mi avete dato, ma vi è in gioco molto di più della riconoscenza. Nella valle siamo stati aggrediti, vero? Qualcosa si è manifestato per nuocere a tutti noi in modi diversi. Con tutto il dovuto rispetto, sir Edward, dubito che mi crederebbe se azzardassi una congettura su che cosa è successo. — David è stato morso da un serpente — commentò Tallentyre, con voce neutra. — Il cuore di Mallorn ha ceduto, forse a causa del terrore, anche se nessuno può stabilirlo con certezza: né io, né nessun altro. Ignoro che cosa sia accaduto a de Lancy. Quanto a me, forse sono stato aggredito da qualche spaventevole creatura notturna: almeno, così è sembrato. In un certo senso, sarei ben contento di sapere con certezza che questa è la verità, perché almeno ciò mi restituirebbe una fiducia nei confronti della mia percezione, che in questi ultimi quaranta giorni è venuta meno. Però, esiste anche la possibilità che io sia stato vittima di un'allucinazione, e che dunque quello che ho creduto di vedere fosse soltanto un fantasma dell'immaginazione: una creatura del delirio e dell'incubo. La prego di non stabilire in che cosa posso o non posso credere, signor Shepherd, perché non lo so io stesso. Comunque, vorrei ascoltare la sua versione di quello che ci è accaduto in quel luogo dimenticato da Dio. Ascolterei molto volentieri persino il prodotto della fantasia più sfrenata. E aggiungo, in tutta franchezza, che non mi piace affatto il suo accenno noncurante a certe cose che non può rivelare. Anche se questo discorso fu di una franchezza quasi scortese, Lydyard fu lieto di udirlo, e attese con interesse la risposta. Ancora una volta, però, proprio nel momento meno opportuno, lo steward entrò a servire la colazione. Tallentyre gli lasciò il tempo di apparecchiare e di versare il caffè, prima di ordinargli, spazientito, di andarsene. Con una voracità sorprendente, tenuto conto che anche durante il periodo in cui era rimasto privo di conoscenza era stato nutrito regolarmente, e non appariva affatto emaciato, Shepherd iniziò a mangiare. Nonostante l'ansia di ottenere risposta, Tallentyre fu costretto a pazientare. Soltanto dopo un quarto d'ora, Shepherd posò la tazza del caffè per l'ultima volta, satollo, e dichiarò finalmente: — Le devo molto, sir Edward, quindi mi dispiace non poterle rivelare ogni cosa. Tuttavia, non oso, e anche se lo facessi, lei non otterrebbe nessuna spiegazione, giacché vi sono
fin troppe cose che io stesso ignoro. Le lesioni che ho subito avevano appunto lo scopo d'impedirmi di scoprire più di quello che già sapevo. D'altronde, non posso restare a lungo in vostra compagnia, e sarebbe sbagliato se vi lasciassi senza dar prova della mia riconoscenza. Dubito che possiate credere a quello che ho da dire, ma forse dovrei esservi grato, per questo, senza contare che avete tutto il diritto di decidere liberamente se considerarmi pazzo, o meno. Mi sono recato nella valle in cui mi avete trovato per lo stesso motivo che indusse a recarvisi il frate che si faceva chiamare Francis Mallorn, il quale apparteneva all'ordine di Sant'Amycus. Entrambi volevamo scoprire quale creatura si fosse destata laggiù, e quanto fosse pericolosa. È un'entità riapparsa di recente: da alcune centinaia di anni non se ne vedono di simili, sulla Terra. Non so perché il suo Creatore l'abbia destata dal lungo sonno di cui sembrava soddisfatta. Non credo che si tratti di una creatura malvagia, né che ci abbia aggrediti con l'intenzione di uccidere. Senza dubbio, il mondo le è parso molto strano e insolito, perciò ha reagito in modo estremamente confuso. Dato che Tallentyre non rispose subito, Lydyard ne approfittò per chiedere: — Dunque non si tratta di un'entità realmente pericolosa? — È più pericolosa di quanto possiate immaginare — replicò duramente Shepherd — sia a causa del potere che possiede, sia perché è come un neonato, in un mondo molto diverso da quello che un tempo conosceva. Probabilmente non nutre sentimenti malvagi innati nei confronti del mondo degli uomini, ma se venisse manipolata, e se il suo potere fosse sfruttato per scopi distruttivi, potrebbe arrecare una rovina immensa. Come se fosse ostinatamente determinato a procedere per gradi, Tallentyre commentò: — Dunque lei sostiene che siamo stati aggrediti da una creatura realmente esistente... — Sì. Lei stesso ha visto la creatura, e ne ha percepito la presenza: non si è trattato di un'illusione. — Per un poco, in effetti, ho creduto di vedere una creatura — confessò Tallentyre — ma poi, benché la percepissi, non ho più potuto credere di trovarmi di fronte a una sfinge viva, in carne ed ossa. Nonostante le sue assicurazioni, mi sento ancora costretto a dubitarne. — Questi dubbi sono affar suo, sir Edward — ribatté Shepherd. — Io non ambisco a convertirla a nessuna nuova fede. Posso soltanto spiegarle che cosa è avvenuto, e sono lieto di ammettere, se vuole, che potrei anche sbagliare del tutto. Nessuno è immune alle allucinazioni, e io ho motivi particolarmente validi per sapere quanto possono essere ingannevoli le ap-
parenze. Devo continuare? — Ma certo. E mi dica, se può, da dove è venuta quell'entità enigmatica. — È stata creata nel momento stesso in cui lei l'ha vista per la prima volta. Probabilmente non è la prima creatura del suo Creatore, perché può darsi benissimo che anche il serpente che ha morso il signor Lydyard fosse un suo strumento. Se è così, egli non è stato sicuramente infettato da un veleno qualunque. Non so se la creatura esista ancora, ma in caso affermativo, è possibile che non abbia più la forma chimerica con cui si è manifestata a lei: credo che questa forma fosse un'immagine tratta dalla sua mente, o forse da quella del frate. Se ora cammina ancora sulla Terra, probabilmente ha forma umana, perché c'è qualcosa, a proposito di tale forma, che turba il mondo. — Non ho mai sentito parlare di un santo di nome Amycus — disse Tallentyre, passando a un altro argomento. — Neppure padre Mallorn l'ha mai nominato. — Come la maggior parte dei santi, Amycus è leggendario — spiegò Shepherd — anche se la leggenda è stata dimenticata da tutti, tranne che da pochi fedeli. Si narra che un altro santo, il quale visse in Grecia poco tempo dopo la morte di Cristo, fu benvoluto da un satiro, che lo assistette nella sua opera misericordiosa, lo protesse dai suoi nemici, e infine si convertì alla sua fede. Di conseguenza, anche il satiro fu elevato alla santità: il suo nome era Amycus. Frate Francis non avrebbe mai nominato il proprio ordine, perché è segreto, ignoto alla Chiesa cattolica e al mondo in generale. — A che cosa mi chiede di credere? — domandò Tallentyre, calmo. — Devo ammettere soltanto che questo ordine può esistere, o anche che è esistito un santo che era un satiro? — Spesso la leggenda è tanto affidabile quanto la memoria — replicò Shepherd, senza nessuna apparente sfumatura d'ironia. — Ma lei non deve preoccuparsi di accertare se il santo satiro sia esistito o meno. Se vuole che mi atteggi ad erudito, posso farlo abbastanza facilmente, anche insistendo soltanto sul fatto che Amycus fu adottato come simbolo da una confraternita di cristiani neoplatonici del II secolo. Al pari di molti dotti convertiti dell'epoca, costoro tentarono, molto tempo prima di Tommaso d'Aquino, di conciliare i dogmi della fede con la saggezza dei filosofi classici, e furono dichiarati colpevoli di eresia gnostica. I seguaci di Sant'Amycus hanno preservato la loro conoscenza segreta fino all'epoca attuale. Credono di essere depositari di una storia del mondo più vera di quella narrata nella Bibbia, nonché di una conoscenza speciale della natura e del destino del-
l'uomo. Nel medioevo, si dedicarono all'alchimia e alla magia rituale, e tuttora mantengono anche questa tradizione di ricerca. Come altri gnostici, credono che l'intrappolamento della scintilla divina dell'anima in un involucro di carne sia una sorta di accecamento, che ha condotto l'anima medesima a una condizione prossima al sonnambulismo. Il mondo delle apparenze, vale a dire il mondo della materia volgare, non è, secondo il loro punto di vista, il vero mondo della Creazione divina, bensì una forma molto inferiore, opera di Creatori inferiori, che erano tanto corrotti quanto incompetenti. I frati di Sant'Amycus suppongono, per analogia con i sette pianeti, che questi Creatori inferiori siano sette, che governino il mondo materiale, e che mitrano un interesse predatorio nei confronti delle anime umane: in sostanza, cercano d'impedire che esse si uniscano alla Luce del Paradiso. — Immagino che stia per dirmi — intervenne Tallentyre — che proprio uno di questi sette Creatori si è destato di recente, dopo un sonno di secoli sotto le sabbie antiche dell'Egitto... — Questo è indubbiamente quello che frate Francis le avrebbe detto — convenne Shepherd — se avesse ritenuto necessario rompere il voto che lo vincolava al segreto. Ma l'ordine di Sant'Amycus non è affatto l'unica organizzazione a credersi depositaria della vera storia del mondo. Esistono molte altre storie tramandate mediante la scrittura o mediante la tradizione orale, e tutte condividono il concetto secondo cui il mondo delle apparenze non è che un'ombra di una realtà superiore, vulnerabile agli interventi di coloro che sono dotati del potere di creare. La fede di Sant'Amycus è soltanto una delle numerose immagini distorte del passato, né migliore né peggiore della maggior parte delle altre. — E come mai — domandò Tallentyre — queste convinzioni hanno condotto Mallorn in Egitto, nonché alla morte? — L'ordine di Sant'Amycus abbraccia una fede millenaristica, che attende la fine del mondo preconizzata nel Libro della Rivelazione: Cristo tornerà come redentore a trasformare il mondo in un paradiso inimmaginabile e annienterà i creatori malvagi del mondo materiale. Secondo questa dottrina, Cristo è puro spirito, e non può degnarsi di abbigliarsi davvero di carne, anche se accondiscende a mostrarsi in forma umana. Il suo ritorno glorioso e bellicoso sarà successivo all'avvento nel mondo di un falso Cristo creato, come estrema e disperata risorsa, dagli angeli malvagi. I frati di Sant'Amycus sono sempre all'erta per individuare l'Anticristo e i suoi accoliti, nonché per cogliere i segni premonitori della fine. Secondo padre
Francis, l'entità che avete visto era stata creata da un angelo caduto, e forse era venuta nel mondo per recitare il ruolo dell'Anticristo. Senza dubbio, ha creduto che la sua fede e la rettitudine della sua causa lo avrebbero protetto da qualunque male. A quanto pare, però, tutto ciò non è bastato a fargli superare quella prova cruciale. — Uno degli errori dei religiosi — commentò Tallentyre, quasi in un mormorio — è che di solito si fondano su una fede irrazionale, anziché su una certezza razionale. Mi dispiace pensare che una cosa di poco conto come la perdita della fede possa provocare un attacco di cuore fatale. D'altronde, gli uomini di scienza devono sempre essere pronti a riconoscere di essere nel torto, quando i sensi lo dimostrano: l'apertura mentale richiede un cuore forte. — Sono lieto di sentirglielo dire — dichiarò Shepherd. — In verità, però, sir Edward, lei non è stato affatto sottoposto a dura prova da quello che le è accaduto nel deserto, o da quello che le ho appena detto. Temo piuttosto che si trovi in pericolo il suo amico, perché sebbene egli abbia la mente aperta e il cuore forte non meno di lei, ha anche l'anima avvelenata. — Nel dir questo, si volse a David Lydyard, con una tale pietà negli occhi azzurri e luminosi, che Lydyard si sentì agghiacciare il sangue. 2 Tutto il discorso di Paul Shepherd sui Creatori che si destavano e sugli eretici gnostici, aveva lambito Lydyard come nulla più di un'increspatura della scia lasciata dagli eventi strani che erano accaduti nella valle a meridione di Qina: sia che esso potesse contenere o meno qualche briciolo di verità, David non aveva provato pressoché nessun interesse. Ma nel momento in cui Shepherd aveva descritto con una metafora tanto vivida la sua condizione di persistente turbamento, allora aveva provato una sensazione inaspettata e vigorosa di possessione e di minaccia. Aveva raccontato ben poco delle proprie tribolazioni a Tallentyre, perché un realista incallito come costui avrebbe giudicato debole di volontà un uomo che non fosse in grado di sopportare i propri incubi. Naturalmente, aveva ogni motivo di desiderare che il suo tutore continuasse ad avere una buona opinione di lui, perciò aveva sempre minimizzato le proprie sofferenze e si era dimostrato noncurante e sbrigativo ogni volta che Tallentyre si era accorto che in lui qualcosa non andava. Talvolta aveva accennato al contenuto delle proprie visioni, specialmente alla strana immediatezza
con cui, in sogno, si identificava con Satana innocente e sofferente, tuttavia si era sempre espresso con un calcolato disprezzo, per suggerire che si trattava di mere assurdità, indegne di seria considerazione. Nelle proprie meditazioni, invece, aveva considerato le proprie esperienze in modo ben diverso, chiedendosi se non fosse davvero possibile, dopotutto, essere posseduti da un demone malefico, in grado di tormentare mediante fantasie perverse. Si sentiva davvero come se un occhio estraneo si fosse aperto dentro di lui: un occhio al cui sguardo erano spietatamente esposti tutti i suoi pensieri, tutte le sue sensazioni, tutti i suoi ricordi. Peggio ancora, aveva talvolta l'impressione che questa strana vista interiore guardasse, nel suo modo straordinario, all'esterno, e che mediante qualche processo misterioso d'infiltrazione, le percezioni extrasensoriali corrompessero la sua coscienza. Sospettava che se soltanto questo magico occhio interiore, con uno sforzo, si fosse concentrato, avrebbe potuto esaminare anche i pensieri altrui. Perciò temeva di avere a malapena iniziato a vedere quello che forse, col tempo, gli si sarebbe rivelato. Aveva paura di tutto ciò, non tanto per quello che avrebbe potuto scoprire nelle menti altrui, quanto per quello che lui stesso avrebbe potuto diventare in conseguenza di tali scoperte. Non temeva di essere già impazzito, bensì che la follia fosse in agguato, in attesa, e che di sicuro lo avrebbe ghermito, se la sua mente fosse stata ulteriormente fiaccata, o persino annientata, dal peso spaventevole delle rivelazioni indesiderate. Perciò, quando Shepherd lo osservò come se comprendesse alla perfezione la sua situazione, Lydyard rimase profondamente sconvolto da una commistione inestricabile di terrore e di speranza. Per quaranta giorni aveva creduto che il mistero di Tallentyre fosse intrigante, ma futile: una mera distrazione dalle sue disgrazie intime, anziché un'estensione di esse. Ma infine, d'improvviso, si rese conto di quanto fosse stato sciocco tale atteggiamento, e imprecò contro se stesso, perché soltanto quando vi era stato rudemente costretto, aveva capito che la propria condizione era invece una parte fondamentale del mistero, e che uscirne sarebbe forse dipeso dal risolvere il mistero medesimo. Nonostante questo, non rispose a Shepherd: fu incapace di tollerare persino il pensiero di confessare la propria disperazione in presenza del padre di colei che amava. Dal canto suo, Tallentyre ignorò l'allusione di Shepherd all'avvelenamento dell'anima di Lydyard, come se non fosse altro che vacua retori-
ca. Semplicemente, formulò altre domande: — Se lei non condivideva la preoccupazione di padre Mallorn per l'avvento della Bestia della Rivelazione, perché era tanto interessato a quella valle? E come avete saputo, sia lei che padre Mallorn, che laggiù sarebbe accaduto qualcosa d'interessante? Come se fosse intontito, Lydyard ascoltò le risposte di Shepherd, riuscendo soltanto ad immagazzinarle nella memoria per meditarvi in futuro. In un tono gentilmente ironico, tale da dimostrare che si rendeva ben conto di quanto suonasse strana la sua dichiarazione, Shepherd spiegò: — Il mio Creatore non mi ha lasciato altra scelta che interessarmi agli altri come lui. A suo tempo, si preoccupò molto dell'umanità, e mi ordinò, in una maniera tale che non potei allora e non posso tuttora ribellarmi alla sua volontà, di essere amico e protettore degli uomini, da qualunque potenza fossero minacciati. Non importa se la creatura uscita dalla tomba è o non è quella il cui avvento fu profetizzato dal Libro della Rivelazione: il suo arrivo nel mondo dev'essere comunque considerato minaccioso. Per quanto riguarda il modo in cui ho saputo del risveglio del suo Creatore... Posso dire soltanto che posseggo risorse di cui lei non è forse disposto a riconoscere la validità. Benché il mondo sia cambiato tanto profondamente da quando fu creato, certe forme di magia sono ancora efficaci, e possono essere esercitate persino dagli uomini dall'anima fredda. Inoltre, esistono oggigiorno creature che hanno forma umana, eppure sono diverse dagli uomini: talvolta i loro sogni possono essere considerati visioni fugaci del futuro. — Fin troppo spesso ho sentito pronunciare discorsi sibillini di questo genere da coloro che pretendono di possedere conoscenze esoteriche — ribatté Tallentyre. — L'Inghilterra è piena di ciarlatani che sostengono di poter comunicare con i defunti e di poter ottenere informazioni sul futuro. Ma io credo che siano tutti quanti imbroglioni. — Purtroppo, i morti sono morti — convenne Shepherd. — Coloro che si sforzano tanto di captarne le voci sono illusi dalla speranza. Per lo stesso motivo, coloro che amerebbero tanto ereditare la saggezza antica, sono troppo bramosi di credere di avere scoperto quello che cercano. Eppure, la via del dolore non è del tutto chiusa, persino per gli esseri umani, e vi sono altri la cui vista interiore non si è esaurita o non è stata accecata. Se dicessi che non sono libero di parlare più esplicitamente di loro, lei penserebbe che sono soltanto un mistificatore. Eppure è vero: alcuni mi accuserebbero di avere già detto troppo. Comunque, ho un valido motivo per rivelarvi la verità, o almeno una parte della verità, giacché non oso dire di più.
— Mi dica, la prego... — esortò Tallentyre, sarcastico. — Qual è questo motivo? — Quale che possa essere la sua vera natura, e quali che siano le intenzioni del suo Creatore, l'entità che l'ha aggredita, sir Edward, è ancora libera nel mondo. Se è pericolosa, lei si trova in maggior pericolo di qualunque altro uomo, e la volontà di Machalalel non mi permette di abbandonarla al pericolo. Se intende investigare ulteriormente, e io non riesco a credere che un uomo come lei possa rinunciarvi, allora merita tutte le rivelazioni che è in grado di accettare. Se colui che è riuscito a destare questo Creatore è un uomo, allora si tratta davvero di un uomo molto pericoloso, quindi l'avverto subito di guardarsi da lui. Se l'uomo in questione non è che uno strumento, allora l'entità che si è servita di lui, quale che sia, è ancor più pericolosa. Lei, sir Edward, non ha altro potere che la conoscenza e l'intelligenza: l'unico modo in cui posso tentare di proteggerla dalle possibili conseguenze della sua determinazione ad indagare, consiste dunque nel fornirle informazioni. Ecco perché lo faccio. Può credere o non credere a quello che le ho detto: dipende esclusivamente da lei. — Sono in debito con lei, naturalmente — rispose Tallentyre. Nonostante questa risposta, Lydyard si rese conto chiaramente che il baronetto era spazientito da quelle che considerava null'altro che ciarlatanerie roboanti: tutta la sua artiglieria di sospetti suscitati dallo scetticismo era pronta a far fuoco. Personalmente, Lydyard non riuscì a fare altro che fissare in silenzio il bel viso di Shepherd, senza esprimere la propria simpatia. D'improvviso, Shepherd distolse lo sguardo da entrambi: — Vi prego di scusarmi... Ho bisogno di riposare un poco. Non mi sono ancora ripreso del tutto, perciò ho necessità di dormire. Non abbiate timore: non regredirò alla mia condizione precedente. Vi prometto che discuteremo ancora. Ma per ora... devo chiedervi di lasciarmi solo. Senza tentare in alcun modo di persuaderlo a continuare la conversazione, Tallentyre si alzò e manifestò il proprio consenso con un inchino teatrale: — Forse abbiamo bisogno entrambi di meditare su quello di cui abbiamo appena parlato. E temo che David sia ancora piuttosto sofferente a causa della sua disavventura. Perciò, noi andiamo a passeggiare sul ponte, prima che il sole salga tanto nel cielo da diventare insopportabile. Nel lasciarsi condurre fuori della cabina, Lydyard si girò, con estrema perplessità, a guardare i gelidi occhi azzurri che lo scrutavano.
Non appena si furono accomodati entrambi sulle sedie a sdraio, all'ombra, Lydyard chiese al baronetto che cosa pensasse del giovane misterioso che si era ridestato da poco. — È una persona davvero notevole — rispose giudiziosamente Tallentyre, che non aveva certo bisogno di esortazioni per affrontare l'argomento. — In tutta l'accozzaglia di assurdità che ci ha raccontato, però, trovo ben poco che si possa considerare una spiegazione sincera. Devo confessare che spero che quando avrà avuto il tempo di pensarci, escogiterà una storia più convincente. Dopo aver cercato un modo adeguatamente diplomatico di porre la successiva domanda, Lydyard chiese finalmente: — Credi che vi sia qualche verità in quello che ci ha raccontato? E pensi che lui ne sia davvero convinto? — Non saprei... Ma penso che questi siano i meno importanti di tutti gli enigmi che ci ha presentato. Viviamo in un'epoca in cui abbondano i maghi presunti, gli spiritisti, i medium, i mesmeristi e le sette esoteriche. Molti sostengono di udire le voci dei defunti, o di ottenere poteri da misteriose divinità. La semplice incredulità non è d'aiuto nell'affrontare tali fenomeni, come sa bene il nostro amico, che ci alletta mostrando di non curarsi di essere creduto o meno. Ci esorta a non essere dogmatici, e intanto ci stuzzica con fantasie pittoresche. Ma sotto un certo aspetto ha ragione: se vogliamo partecipare a questo gioco, in cui siamo stati coinvolti nostro malgrado e colti alla sprovvista, allora dobbiamo essere pronti ad accantonare le nostre convinzioni radicate, almeno temporaneamente. — Se non altro, Shepherd ci ha fornito qualche informazione sul misterioso padre Mallorn — osservò Lydyard. — Eppure non gli abbiamo parlato dell'anello che abbiamo trovato, il cui monogramma potrebbe rappresentare davvero l'ordine di Sant'Amycus. — Non possiamo essere certi che non abbia mai visto l'anello — obiettò Tallentyre. — Infatti, ha ammesso di essersi recato in Egitto per seguire la medesima pista di Mallorn. Comunque, non mi sembra molto interessante che una confraternita di eretici sia sopravvissuta fino al presente, giacché i dogmi della Chiesa non sono affatto meno assurdi. — Ciò detto, tacque, come perduto in meditazione sul racconto di Shepherd. — Come intendi comportarti nei suoi confronti? — chiese pacatamente Lydyard. — Non ho più nessuna responsabilità verso di lui, ora che ha riacquistato le proprie facoltà. È padrone di andare per la sua strada, come e
quando desidera. D'altronde, presumo che avremo il piacere della sua compagnia almeno fino a Gibilterra. — Ma sarà un piacere? Credevo che avesse cominciato ad irritarti... — Nell'irritazione si può trovare una sorta di piacere masochistico — rispose allegramente Tallentyre. — E anche se si tratta soltanto di un individuo dedito alle più sciocche fantasticherie, può darsi che si dimostri interessante. Dopotutto, qualcosa è realmente successo, in quella valle, e ha provocato la morte di un uomo: forse di due. — Ma tu rifiuterai sempre di accettare che quella creatura fosse reale, nonostante quello che hai visto — commentò Lydyard, con voce incolore. — E se costui insisterà sul contrario, avrete notevole difficoltà ad intendervi. — Spero di essere più obiettivo. Non possiamo negare di avere assistito a qualcosa di molto strano. Tuttavia, esiste un abisso fra supporre, per amor di discussione, che quella creatura simile a una sfinge fosse reale, e credere a tutti quei discorsi sui Creatori. Sono riluttante ad accettare che il mondo che conosco sia un'illusione, una mera apparenza, e che la sua storia non sia più veritiera delle fantasie dei frati di Sant'Amycus. Se le apparenze sono tanto instabili, com'è possibile che gli uomini organizzino la loro esistenza? Quello che ci rende razionali è questa capacità di organizzazione, la quale implica necessariamente la facoltà di prevedere, almeno con approssimazione, le conseguenze delle diverse azioni possibili. Questa capacità di previsione è fondata sulla comprensione del mondo qual è nel presente e qual era nel passato. Se questa comprensione è falsa, come si spiegano i continui successi delle nostre previsioni? Sicuramente mi concederai che il successo dell'intelligenza umana è una verità evidente, almeno per quanto concerne l'organizzazione delle società e un certo grado di progresso morale e tecnico. Questo discorso aiutò Lydyard a tranquillizzarsi, riportandolo a un modo di ragionare che gli era estremamente familiare, in quanto molto spesso aveva ascoltato Tallentyre esporre le proprie concezioni. Inoltre, esso gli offrì l'occasione di ritornare sul terreno familiare del dibattito intellettuale: — Eppure — obiettò subito — quando l'Europa credeva implicitamente nei dogmi della Chiesa, che tu ora giudichi falsi in ogni particolare, esisteva un'organizzazione sociale efficiente, era possibile agire razionalmente, e vi era persino progresso. Insomma, l'illuminismo, di cui sei tanto fiero, scaturì inizialmente dall'ignoranza e dall'errore. Per la prima volta, da quando aveva iniziato la conversazione, Tallentyre
sorrise: — Sono contento che tenti di confondermi con la retorica: lo considero un complimento. Mi piace immaginare, infatti, che tu abbia avuto in me un maestro non meno abile di quelli che hai conosciuto a Oxford. Naturalmente, hai ragione: le false credenze non ostacolano necessariamente il progresso. Ma insisto sul fatto che il progresso intellettuale avviene nonostante le false credenze, e non a causa di esse. Se la Chiesa non avesse sanzionato Ippocrate e Tolomeo con il timbro della fede, con quanto anticipo si sarebbero sviluppate la medicina e la cosmologia scientifiche, soppiantando le teorie precedenti, possenti ma errate? Resistendo alla tentazione di controbattere che la falsità della cosmologia antica non aveva impedito ai sacerdoti egizi di utilizzare le loro tavole astronomiche per predire le inondazioni del Nilo, né aveva impedito alla Chiesa di riformare il calendario, Lydyard chiese: — Dobbiamo dunque affrontare tutta questa faccenda come un gioco intellettuale? Forse che si tratta soltanto di una piacevole assurdità, benché un uomo sia deceduto, un altro sia scomparso dalla faccia della Terra, e noi stessi abbiamo rischiato la morte? — È un errore considerare i giochi come attività frivole — replicò pacatamente Tallentyre. — Molti uomini sono morti per lo sport, sia che si trattasse del piacere della caccia grossa, sia che si trattasse di quello delle carte. Anche le nostre imprese più solenni hanno una componente di finzione e di gioco: per esempio, la legge e la guerra. Il glorioso impero britannico, dopotutto, è una sorta di gioco, eseguito secondo leggi scritte e non scritte, indossando ogni sorta di costumi fantasiosi. Se non fosse perché abbiamo rischiato di morire, lascerei perdere tutto. Invece, sono stato aggredito, e voglio sapere come e perché. Se per scoprire quello che sta succedendo devo ascoltare racconti di Anticristi immaginari, ebbene... Così sia. Con voce neutra, Lydyard soggiunse: — E non ti aspetti nulla di meno da me... — Non recitare la parte dell'indifferente con me, David: ti conosco troppo bene. Non rinunceresti a tentare di scoprire come e perché questi incubi ti perseguitano, neppure se io lo desiderassi. Anche tu sei stato minacciato, e sono certo che non desideri meno di me di trovare una spiegazione. Allora Lydyard pensò che Tallentyre non si rendesse pienamente conto di quanto fossero veritiere le sue parole. In seguito, quando rientrò in cabina, Lydyard non rimase del tutto sorpreso nello scoprire che Shepherd non dormiva: sembrava anzi che lo stes-
se aspettando, desideroso dell'opportunità di parlargli in privato. Poiché gli sembrava inutile perdere tempo, Lydyard venne subito al dunque: — Mi dica che cosa mi è successo quando sono stato morso dal serpente. Apparentemente sollevato da tanta schiettezza, Shepherd rispose: — Non è facile da spiegare, senza contare che ho dedotto da pochissimi indizi quello che so della sua condizione. Durante il sonno, soffre di incubi simili a quelli provocati dal delirio? In silenzio, Lydyard annuì. — Ha forse l'impressione di essere posseduto da qualche entità aliena? — La mia sensazione è precisamente questa — confermò Lydyard, in tono dolente. — Intende forse dirmi che è davvero così? — In un certo senso, sì. Mediante il serpente, l'entità che ha creato la belva, la quale ha aggredito Mallorn e sir Edward, ha iniettato un po' di se stessa nel suo essere. Nella misura in cui i diavoli esistono realmente, questa entità è un demonio, ma lei non deve esserne troppo allarmato, perché potrebbe essere ugualmente definita un angelo. Non può essere definita malvagia: sarebbe semplicistico. E anche se il Satana dei cristiani può essere considerato una rappresentazione di qualcosa di simile ad essa, si tratta di un'immagine molto distorta dall'odio umano. — Nei miei sogni — spiegò Lydyard, con riluttanza — ho visto spesso Satana all'Inferno, e, in un certo senso, mi sono identificato con lui. Per la stessa ragione, ho avuto l'impressione che fosse stato terribilmente frainteso. — Talvolta, nei sogni, si trova la verità. E i sogni da cui lei è afflitto contengono forse più verità del consueto. Non per questo, però, bisogna confidare in essi senza alcun dubbio. Tutto quello che lei vede è filtrato dalle sue concezioni, dalle sue credenze, dalle sue paure. Ciò viene dimenticato spesso da coloro che cercano l'illuminazione: fin troppi, quando hanno successo, scoprono soltanto una grottesca esaltazione dei timori angosciosi e delle speranze ambiziose con cui hanno iniziato la ricerca. Questo è vero sia dei santi che dei satanisti: non si deve mai rinunciare allo scetticismo. Con brutale determinazione, Lydyard affrontò l'argomento che maggiormente gli stava a cuore: — Posso essere curato? Se davvero sono posseduto, l'entità che si trova dentro di me può essere esorcizzata? — Non può essere scacciata — rispose Shepherd, evidentemente dispiaciuto di dover annunciare una cattiva notizia. — A suo tempo, forse, l'enti-
tà stessa deciderà di abbandonarla, o forse no. — Mi sta dunque dicendo che non posso far nulla? — Ciò dipende da quello che intende fare di lei l'entità che si è introdotta nella sua anima. Con tutta probabilità, lo ha fatto per ottenere informazioni sul mondo: vuole apprendere quello che sa lei, e vedere quello che lei vede. Ha dormito tanto a lungo, che il mondo in cui si è destata è molto diverso dal mondo in cui si addormentò. È potente e intelligente, ma in questo momento è innocente: lotta per comprendere che cosa è diventata, e che cosa è divenuto il mondo. Non credo che sia Satana, o la Bestia della Rivelazione, ma ciò non vuol dire che io sappia esattamente che cos'è, o che cosa significa realmente il suo risveglio, o quanto sia potente. So soltanto che la catena di eventi che ha condotto al suo risveglio sembra essere iniziata in Inghilterra, quindi è probabile che là si trovi la soluzione del mistero. Se e quando riuscirò a scoprire che cosa sta succedendo, forse riuscirò ad aiutarla maggiormente. È persino possibile che lei possa aiutare me. Se ci separeremo, non disperi, perché tornerò appena possibile. Tuttavia deve guardarsi da certi altri, che hanno deciso di essere nemici dell'umanità, nonché dall'uomo al quale sir Edward sarà inevitabilmente condotto dalle sue indagini. — È dunque probabile che ci separeremo? — È molto probabile. Forse io stesso sono in pericolo, e questi quaranta giorni di sonno della ragione non mi sono stati di certo vantaggiosi. Ma sono suo amico, e farò tutto quello che posso per aiutarla a liberarsi dalla sua sfortunata condizione. Purtroppo, è possibile che lei scopra molto prima di me che cosa è diventata, durante il suo lunghissimo sonno, l'entità che ha scelto di servirsi di lei, e come può esercitare il suo potere adesso che è desta. — Mi sembra che lei sia molto affezionato alla parola «purtroppo», e che sia vago in maniera esasperante sulle possibili intenzioni di questa entità, angelo o demone che sia. Ha davvero il potere di por fine al mondo degli uomini, come crede la confraternita gnostica a cui Mallorn apparteneva? — Sinceramente, lo ignoro. Però, ne dubito. Tutto quello che so sulle entità di questo genere mi induce a credere che il tempo l'abbia privata di alcuni poteri, durante il sonno, e che dunque essa sarà molto riluttante a sprecare quelli che le restano. Però non oso dare per scontato che sia così. È possibile che sia stata destata davvero per arrecare distruzione, o per diventare la preda impotente di qualche altra entità del medesimo genere,
che cerca di coglierla alla sprovvista. Comunque, non oso dire troppo, perché tutto quello che dico non viene udito soltanto da lei, bensì anche dall'altra entità che l'ha intrappolata nella sua ragnatela. La prego soltanto di essere prudente, forte e paziente. Che bel consiglio! pensò Lydyard. Io gli chiedo conforto, e lui aumenta i miei timori! Prima, avevo soltanto paura di essere impazzito, ma adesso devo essere di gran lunga più spaventato dalla possibilità di non esserlo affatto! Sottovoce, rispose: — Se lei ha ragione, allora forse sono davvero dannato, o almeno condannato, a scoprire che cosa avviene a coloro che cadono preda di un dio vivente. Se possibile, preferirei non credere a nulla di tutto ciò. — «Come sono gli insetti per i fanciulli capricciosi, così siamo noi per gli dèi, che ci uccidono per il loro divertimento» — citò Shepherd. — Vorrei poterle dire che tutto ciò non è affatto vero, ma quando camminarono sulla Terra per l'ultima volta, le entità dai poteri divini non si fecero certamente alcuno scrupolo nel distruggere i semplici uomini. Fra esse ve ne furono alcune, le quali credettero che lo sterminio dell'umanità non fosse un male. Tuttavia, ve ne furono altre di opinione del tutto diversa. D'altronde, può darsi benissimo che la verità sia un'altra, ossia che gli uomini dall'anima fredda abbiano la facoltà di diventare molto più potenti delle divinità di un tempo, e che, a differenza dei numi, non debbano essere necessariamente distrutti dall'esercizio della loro creatività. Lei non conosce la magia, David, eppure non è affatto impotente né privo di risorse, e vorrei che lo rammentasse sempre. Lugubremente, Lydyard lo scrutò: — Chi è lei, in realtà? Non credo affatto che il suo nome sia davvero Paul Shepherd, né che lei sia un mistico ciarlatano, come crede sir Edward. In verità... — Così s'interruppe, incapace di dire altro. — Ha ragione — rispose il giovane dagli occhi azzurri. — Uso questo nome per pura convenienza, e per lo stesso motivo recito una parte a beneficio di sir Edward. Tuttavia, non oso dirle chi e che cosa sono, se il suo occhio interiore non le ha ancora consentito di vederlo. Posso soltanto fornirle consigli o avvertimenti, che lei è padronissimo di accogliere o di rifiutare, a suo piacimento. Si guardi dall'entità, quando la incontrerà di nuovo, quale che sia il suo travestimento. Si guardi da colui che visitò la valle prima di voi, e che osa immischiarsi negli affari degli angeli caduti. E si guardi anche dai licantropi di Londra, che di sicuro sanno tutto quello che so io, e probabilmente qualcosa di più.
3 La mattina successiva, al risveglio, Lydyard scoprì che la cuccetta inferiore era vuota. Sul momento, pensò semplicemente che Shepherd seguisse orari irregolari, ma più tardi, non vedendolo ricomparire, iniziò, insieme a Tallentyre, una ricerca discreta e meticolosa. In breve, divenne evidente che Paul Shepherd non era più a bordo della nave. Un'ulteriore indagine rivelò che i suoi effetti personali erano scomparsi dall'armadietto in cui erano stati riposti. Quando Lydyard suggerì che soltanto un pazzo si sarebbe tuffato in mare aperto da un piroscafo, Tallentyre ribatté che la costa africana non distava più di quattro o cinque miglia, e molte altre imbarcazioni incrociavano nelle vicinanze. Stranamente, il baronetto non parve affatto preoccupato per la scomparsa di Shepherd, benché essa confermasse i sospetti che nutriva sulla veracità del giovane misterioso. Per contrasto, Lydyard sentì acutamente la sua mancanza, non perché credesse a tutto quello che Shepherd gli aveva rivelato, bensì perché egli, almeno, gli aveva dato la speranza che la sua condizione interiore fosse comprensibile. Nonostante la propria riluttanza a credere di essere posseduto, questa spiegazione gli sembrava meno terribile della sua ovvia alternativa. Temeva a tal punto la follia, che la possibilità di essere invece posseduto da qualche intelligenza aliena, quali che ne fossero le probabili conseguenze, gli sembrava un'ancora di salvezza a cui aggrapparsi. Continuando la propria lenta navigazione, l'Excelsior condusse Lydyard e Tallentyre a Gibilterra, dove trovarono due lettere di Gilbert Franklin, le quali gettarono una luce del tutto nuova sull'intera vicenda. Allora anche Tallentyre cominciò a rammaricarsi di non poter interrogare nuovamente Paul Shepherd. Dopo aver letto le due lettere, Tallentyre le passò a Lydyard. Come sempre, la reazione del baronetto fu apparentemente fredda e meditativa. Invece, il suo pupillo riuscì a stento, per amor di convenienza, a contenere la propria eccitazione. Non appena Lydyard ebbe terminato la lettura della seconda lettera, Tallentyre chiese: — Che cosa ne pensi? Poiché non aveva riferito esattamente al tutore gli strani avvertimenti che Shepherd gli aveva fornito in privato, Lydyard non osò confessare la
reazione che aveva avuto nel leggere il riferimento ai licantropi di Londra contenuto nella seconda lettera. Con estrema cautela, rispose: — Queste lettere confermano quello che ci ha rivelato Shepherd sul conto di Mallorn... — Ci indicano anche la possibile fonte di alcune delle sue dichiarazioni — osservò Tallentyre. — Leggerei con molto interesse quel libro misterioso, se si riuscisse a trovarne una copia. E mi piacerebbe anche parlare con l'amico di Franklin a proposito del suo misterioso paziente. Quanto ad Harkender... Ben sapendo che per il baronetto era molto insolito lasciare incompiuta una frase, Lydyard rimase molto sorpreso: — Lo conosci bene? — Ho l'impressione di conoscerlo fin troppo, anche se non lo vedo da anni — confermò Tallentyre, con voce colma di disgusto. — Sento pronunciare spesso il suo nome ogni volta che, conversando, si affronta l'argomento delle fantasticherie e delle follie dell'occultismo moderno. Tuttavia non ho più avuto occasione d'incontrarlo di persona da quando lasciai Oxford. Harkender era studente, allora: non frequentava il mio college, però era abbastanza conosciuto in città. Era un tipo arcigno, che aveva imparato benissimo ad odiare, e che cercava di trasformare in virtù il fatto di essere odiato. Figlio di un uomo d'affari che nutriva per lui ambizioni sociali forse più ottimistiche che realistiche, era astuto e intelligente, ma era anche anticonformista: temendo di essere disprezzato, proteggeva i propri sentimenti esasperando le proprie caratteristiche più sgradevoli, e sforzandosi di ferire gli altri quanto gli altri ferivano lui. Rifiutava di riconoscere i fondamenti di qualunque ortodossia, sociale, religiosa o culturale. Senza dubbio, si sarebbe entusiasmato alla prospettiva di diventare un Anticristo. Non si laureò, ma non si sa se non vi riuscì o se non volle. — E adesso è un mago? — Pretende di esserlo — precisò Tallentyre. — Sembra che per compiere i propri rituali prediliga luoghi molto insoliti. — E che ottenga risultati ancora più insoliti — aggiunse Lydyard. Non gli piacque affatto l'occhiata che il baronetto gli lanciò nel sentirgli pronunciare questa frase, quindi si affrettò a domandare: — Che cosa pensi della strana faccenda del fanciullo rapito e di colui che ha dichiarato di essere un licantropo? — Non posso certo prendere sul serio coloro che si dichiarano licantropi — replicò aspramente Tallentyre. — Se queste belve leggendarie vivono segretamente a Londra da secoli, mi chiedo perché si siano lasciate attirare
fuori dai loro covi proprio adesso. Sono riluttante a credere che un tipo come Harkender sia in grado di applicare la propria erudizione occultistica a qualunque scopo pratico. D'altronde, sembra che altri si siano tanto interessati ai suoi affari, da lanciare spudoratamente oscuri avvertimenti persino a coloro che non visitano abitualmente la sua casa. — Possiamo dubitare che quello che ci è successo nella valle sia in qualche modo collegato alla sua precedente spedizione? — chiese Lydyard, il quale, personalmente, almeno, non ne dubitava affatto. Era certo che Harkender fosse l'uomo da cui doveva guardarsi, anche se Shepherd non lo aveva nominato. Inoltre era sicuro che Calan, comunque si interpretasse la sua truce affermazione, apparteneva al gruppo da cui doveva stare in guardia. — L'espressione «in qualche modo» allude a una vasta gamma di possibilità — commentò Tallentyre. Con ironica asprezza, Lydyard ribatté: — Sei disposto ad includere fra queste possibilità anche il risveglio di un demone? — Suppongo che vi sarò costretto, se non si riuscirà a trovare nessuna spiegazione più semplice — concesse Tallentyre, con una generosità ugualmente ironica. — Alla fin fine, però, anche in questo caso bisogna usare il rasoio di Occam, come sempre quando si cerca una spiegazione soddisfacente. — Andrai tu da Harkender, quando saremo tornati a Londra? — Nel pronunciare questa domanda, Lydyard notò, con sorpresa, che sul volto del baronetto ritornava un'espressione di disgusto. — Forse sì, e forse no — rispose Tallentyre, in tono tale, però, da lasciar intendere che la seconda possibilità era la più probabile. — Litigammo, una volta, e anche se Gilbert suggerisce che Harkender è più che pronto a dimenticarlo, personalmente non sono tanto sicuro di essere disposto a fare altrettanto. Non mi piace neppure il tono della piccola predica citata da Gilbert, pronunciata presumibilmente proprio affinché mi fosse riferita. Harkender avrà senza dubbio creduto che fosse divertente, ma io non sono dello stesso parere. — Quante probabilità avremo di trovare risposta alle nostre domande, se rifiuteremo di discuterne con Harkender? — Come posso saperlo? Comunque, Harkender è l'ultimo uomo al mondo da cui mi aspetterei una risposta sincera. Se è l'unico a conoscere la verità, allora sospetto che abbiamo pochissime probabilità di svelarla interamente. Nondimeno, dobbiamo prepararci ad ascoltare quello che ha da di-
re. — Vuoi che vada io da solo a fargli visita? Sarebbe tutto più semplice. Di nuovo, Tallentyre lanciò un'occhiata tagliente al proprio pupillo, come se apprezzasse quel suggerimento molto meno del dovuto: — Sembra che sia stato molto poco generoso nel rispondere a Gilbert, che però, come suo solito, lo ha subito perdonato. Con tutto il dovuto rispetto, David, credo che tu sia troppo cortese per vincere l'evasività di Harkender. Lo incontrerò io personalmente, se e quando ve ne sarà occasione. — Intendi cercare anche Mandorla Soulier e i licantropi di Londra? — Se sarà possibile — affermò Tallentyre, pur non riuscendo a considerare seriamente tale possibilità. — Se riuscirò a trovare lei, o il suo eccentrico servo, allora sarò ben contento di ascoltare quel che hanno da dire. Memore degli avvertimenti ricevuti, Lydyard pensò che un simile incontro non lo avrebbe affatto reso «contento», ma che sarebbe stato estremamente interessante scoprire se i licantropi di Londra esistevano realmente, e che cos'avevano a che fare con l'enigmatico Jacob Harkender, nonché con il misterioso Paul Shepherd. Quella notte, forse perché la sua immaginazione era particolarmente sollecitata dalle ultime discussioni, Lydyard ebbe un incubo più vivido e più facile da rammentare di tutti quelli che aveva avuto in precedenza, a partire dalla prima notte di delirio. La visione iniziò molto tranquillamente, con una serie d'immagini non molto vivide e non molto colorate: edifici altissimi, visti da vicino e dal livello del suolo, con i tetti e le torri che s'innalzavano vertiginosamente nel cielo fosco. Lydyard ne riconobbe alcuni: il nuovo Palazzo di Westminster, Notre Dame de Paris, la cupola di St. Paul. Altri erano creati dall'immaginazione assemblando le guglie di Oxford, i grotteschi doccioni francesi, i minareti turchi o moscoviti, gli edifici più strani raffigurati nelle opere d'arte. A un tratto, le torri e le cupole si trasformarono in mani e pugni umani protesi nel vano tentativo di afferrare il firmamento colmo di stelle, che poi persero poco a poco la loro solidità, fino a diventare fluidi. La prospettiva divenne orizzontale, mostrando strade affollate. Dapprima, le folle furono identificabili: i nottambuli di Piccadilly, gli accattoni del Cairo, e così via. Poi si mischiarono e si sovrapposero, come se l'occhio della mente lottasse per individuare fra esse l'ideale platonico della folla: un archetipo infinitamente più vasto, nella confusione claustrofobica
delle decine di migliaia di persone che si ammassavano a Epsom Downs per il derby, o qualunque gregge umano scacciato dal proprio paese dai fuochi della guerra. Di solito, Lydyard non temeva le folle, non ne aveva orrore, ma nell'incubo la pura profusione di corpi umani divenne spaventevole. Perciò si rifugiò in un deserto notturno dove non si scorgeva altro che roccia e sabbia. Un vento caldo agitava gentilmente la sabbia, i cui granelli scintillanti riflettevano la luce stellare vagando nell'aria densa. In quel paesaggio desolato, Lydyard iniziò a camminare a passi di trenta metri. Quando avvistò innanzi a sé le rovine di una vasta città, comprese che quello non era il suo mondo, o almeno, non era la sua epoca, perché gli edifici crollati erano di gran lunga più grandi di tutti quelli che aveva rammentato o fantasticamente assemblato in precedenza. Le colonne erano alte trecento metri. Le statue erano alte quasi duecento metri: alcune avevano teste umane, altre avevano tronchi, o gambe, o piedi umani, ma tutte erano chimere di qualche genere. Finalmente, Lydyard giunse al centro della città, dove si erano innalzate le torri più gigantesche prima di crollare in rovina: là trovò una piramide molto aguzza, che non era stata distrutta dal tempo, alta più di mille metri, con ogni gradone più alto di un uomo. Salire la piramide sarebbe stato estremamente difficile anche per un gruppo di uomini, tuttavia il sognatore fu trasportato teneramente dal vento capriccioso come se fosse null'altro che un granello di sabbia, ed entrò nella piramide attraverso un portale ad arco. Iniziò poi a scendere per corridoi ripidi e pozzi verticali, fino a un labirinto di catacombe dove smarrì completamente l'orientamento. Il viaggio nella tenebra divenne spaventoso, perché il sognatore non riusciva neppure ad immaginare come avrebbe mai potuto uscire. Tuttavia il terrore non durò a lungo, perché il volo rallentò e in breve una luce apparve in lontananza. Man mano che la luce si avvicinava, rassicurante nel suo giallo fulgore, il movimento cessò gradualmente, finché Lydyard si trovò di nuovo in piedi, immobile, sulla soglia di una sala vasta e illuminata. Varcando la soglia, immergendosi nella luce, Lydyard percepì il peso del proprio corpo, l'aria calda e asciutta sul viso, l'aderenza degli indumenti al petto, il battito lento del cuore. Sì sentì oppressivamente materiale e angosciosamente vivo. Il soffitto era alto sessanta metri, il pavimento, coperto di tappeti, misurava fra i centoventi e i centocinquanta metri di diametro. Sul trono al cen-
tro della sala sedeva, quindici o venti volte più alta di un uomo, la dèa dalla testa felina, Bast, la quale scrutò Lydyard con gli enormi occhi ambrati. Nella sala non erano presenti persone, né creature umanoidi: soltanto migliaia di gatti gialli, che stavano seduti, passeggiavano, si pulivano, o giocavano. Nessuno di essi prestò la benché minima attenzione al sognatore che avanzava. Nell'avvicinarsi alla dèa seduta, Lydyard divenne estremamente consapevole di essere minuscolo: ebbe l'impressione di essere non più grande di uno scarafaggio, mentre i gatti, che erano molto più piccoli di lui, in quanto erano di proporzioni assolutamente normali, gli parvero piccini come formiche. Ad ogni passo, lo sguardo interessato degli occhi giganteschi che lo scrutavano gli sembrò diventare più terribile e più minaccioso. Come per cercare aiuto, guardò attorno. Non vide nessuno, e nel contempo si sentì terribilmente consapevole dell'assenza di certe persone: Cordelia Tallentyre, William de Lancy, e anche sir Edward Tallentyre, che pure era quasi presente. Perciò il suo fardello di solitudine e d'angoscia divenne ancora più opprimente, strappandogli un grido: — Che cosa vuoi da me? L'ultima parola echeggiò in modo soprannaturale, obbligando Lydyard a domandarsi se sarebbe stato peggiore il perdurare del silenzio, o una risposta che avrebbe colmato il vuoto con risonanze infinite. Comunque, non ebbe il tempo di giungere a una conclusione, prima che gli echi si spegnessero, senza risposta. Guardò freneticamente attorno, alla disperata ricerca di aiuto, sempre senza scorgere nessuna persona. Allora fu colto dalla potentissima sensazione che Tallentyre avrebbe dovuto essere presente, e che se soltanto lo fosse stato, la sua vita e il mondo, la sua anima e l'anima del mondo, sarebbero state salve. Pensò che se la Sfinge, con i suoi terribili enigmi, era davvero la Bestia della Rivelazione, e se Bast, dalla testa felina, era la sua Creatrice, allora sir Edward, e soltanto sir Edward, avrebbe potuto fornire le risposte richieste: Tallentyre, e soltanto Tallentyre, avrebbe potuto essere il messia e il salvatore della sua anima assediata e del mondo malato. Anch'io, però, si disse Lydyard, sono sir Edward Tallentyre, perché la conoscenza che è sua non appartiene esclusivamente a lui, bensì a tutti: non è segreta, e non include misteri irrisolvibili, né dottrine esoteriche. Se mai sarà necessario, potrò far sì che sir Edward risponda. Nondimeno, era necessario affrontare la dèa, sostenere lo sguardo dei
suoi occhi gialli, e interrogarla, per sapere che cosa fosse realmente, e che cosa volesse da lui. Dunque, Lydyard sostenne lo sguardo di Bast e gridò la domanda: — Perché? E anche se pronunciò la parola una volta, una volta soltanto, gli echi gliela rimandarono assurdamente moltiplicata, prosciugandone il significato nel convertirla in un ululato vacuo, che lo assordò tanto dolorosamente da scacciarlo dal sogno: si destò fradicio di sudore gelido, terrorizzato dalla quiete atroce della notte. 4 Satana si contorce sul suo letto di fuoco, tanto violentemente quanto glielo concedono i chiodi che lo imprigionano. Cerca con tutte le sue forze di negare la persistenza della vista, perché non può sopportare di vedere quel firmamento in cui la terra è incastonata come un gioiello opaco e sporco. Un tempo, il cielo era tutto fuoco e furia, ma ora è nero e stellato, e fra le stelle si muovono strane ombre, che talvolta scivolano come grandi felini neri, e talvolta zampettano come ragni irsuti. Le stelle sono i loro occhi: gli occhi di predatori in agguato... Satana brama l'oscurità fresca della caverna delle illusioni, le catene pesanti della prigionia misericordiosa, il guizzare gentile delle ombre gettate dal fuoco sulla parete che separa. Anche là, nella caverna, poteva udire l'ululare dei lupi, e percepire il tocco gelido del vento tagliente sulla loro pelliccia, eppure era in una certa misura protetto, e godeva di una sorta di pace. Ma lì, nell'Inferno, esiste soltanto dolore, e la vista che si accompagna al dolore, e la consapevolezza che si accompagna alla vista, e la paura che si accompagna alla consapevolezza. Satana ha molti nomi, uno dei quali è Shepherd, che significa «pastore», anche se il pastore ha smarrito il suo gregge, e teme che i lupi possano scendere nella forra a dissetarsi a sazietà di sangue rosso e denso. Eppure il pastore è soltanto un altro lupo, e conosce fin troppo bene l'eccitazione e il gusto del sangue caldo e nutriente. E come può accusare il ragno e il gatto di malvagità, quando egli stesso è loro, e loro sono lui, e non esiste assolutamente nessuno che non abbia le mani lorde? E l'altro nome di Satana, per ora, è David, dall'anima avvelenata, i cui sassolini scagliati con la fionda non possono, dopotutto, prevalere sull'immensità di Golia, e sull'impotenza incurante del Dio che si trova all'E-
sterno, nella tenebra oltre l'oscurità, dove il tempo non esiste, e lo spazio non esiste, e la vita non esiste, e la speranza non è mai esistita... Pietà di Satana, nella sua miseria e desolazione. Pietà di colui che si pentirebbe e si redimerebbe, colui che salverebbe e libererebbe, colui che tergerebbe le chiazze della propria colpa, se soltanto potesse: se non fosse perduto e dannato. Se non fosse perduto, e dannato... Trasalendo, Lydyard si destò, e provò un'immediata vergogna: aveva voluto soltanto riposare gli occhi stanchi, e invece si era addormentato, completamente vestito, a un'ora tutt'altro che tarda. Alla vergogna, seguì il rammarico, perché aveva sperato, con tutto il fervore di colui al quale rimaneva ormai scarsa speranza, che nell'ambiente familiare della propria camera, sul materasso ben noto del proprio letto, sarebbe riuscito nuovamente a dormire il sonno ristoratore della vita normale, libero dall'incubo che lo aveva ghermito in una tomba egizia, e non lo aveva più abbandonato. Era tornato a casa sano e salvo, ma purtroppo aveva portato con sé anche il proprio demone, che lo possedeva più ferocemente che mai, e si beffava apertamente di lui. Non era facile sfuggire al suo dominio. Il ritorno a casa era stato deludente. Anche se lo aveva atteso con tutto il desiderio di cui era capace, Lydyard non si era dimostrato all'altezza della situazione. Ricordava di essersi comportato con una goffaggine spaventevole. Se aveva avuto la benché minima possibilità di lasciarsi l'Inferno alle spalle e di tornare al conforto della consuetudine e dell'affetto, l'aveva perduta a causa della propria inettitudine. Non era riuscito a cogliere il momento, e il ricordo di tale fallimento, terribilmente inquietante, era ancora orribilmente vivo nella sua mente... Quando la carrozza svoltò in Sturton Street, un raggio di sole sfavillante di rugiada entrò fugacemente dal finestrino, illuminando per un istante il viso di Lydyard, che trasalì, battendo le palpebre, e raddrizzò la schiena. Si sentiva spossato, ma era consapevole della necessità di mantenere le apparenze. Lanciò un'occhiata a Tallentyre, il cui volto non manifestava la minima traccia di sonnolenza, e invidiò l'immunità alla fatica di cui sembrava dotato. Si curvò innanzi a guardar fuori del finestrino, constatando che Sturton Street era esattamente come l'aveva sempre conosciuta, con le pallide fac-
ciate delle case su entrambi i lati, e gli stretti giardini protetti dalle cancellate. Tuttavia, si sentì rassicurato soltanto per un breve istante, perché proprio allora iniziò a tradire se stesso: la familiarità stessa di Sturton Street gli parve in qualche modo bizzarra, come se essa, e la casa in cui egli dimorava, e persino l'intera Londra, non appartenessero realmente al mondo in cui aveva avuto la sfortuna di essere condotto a vivere. Mentre Tallentyre saliva maestosamente i gradini ed entrava nella casa, Lydyard ebbe la sensazione, stranamente acuta, di essere osservato. Si girò di scatto e vide subito, sul marciapiede opposto, appoggiato a una cancellata, apparentemente incurante della pioggia, un uomo, il quale non fece alcun tentativo di nascondersi, o di fingersi indifferente. Pensò che non lo avrebbe riconosciuto nemmeno se non avesse avuto il viso ombreggiato da un cappello a falda larga. Sentendosi disgustosamente a disagio, si limitò a salire i gradini, con le gambe che sembravano di piombo. I viaggiatori appena tornati furono accolti da lady Rosalind Tallentyre, con una cordialità formale che non eclissò la radiosità del suo affetto, da Cordelia, con una stravaganza calcolata, e dai servi, primo fra tutti l'imperturbabile maggiordomo, Summers, con severa bonomia. Tutto ciò avrebbe dovuto indurre entrambi a rispondere con larghi sorrisi, ma Lydyard sorrise a malapena, con vitrea falsità: con le labbra soltanto, non con gli occhi febbrili. Quasi senza sapere come, tutore e pupillo si trovarono spogliati dei soprabiti e condotti in soggiorno, dove, in attesa che il tè fosse servito, mentre Tallentyre riceveva le amorevoli attenzioni della moglie e della figlia, Lydyard rimase in disparte, sentendosi estremamente solo. Non soltanto non udì quello che gli disse Summers, il quale gli era rimasto accanto, ma non ebbe neppure la cortesia elementare di degnarlo di una risposta. Poi lady Rosalind, insieme alla figlia, si avvicinò a Lydyard, e parlò per prima, per diritto di anzianità: — Spero che tu ti sia ripreso del tutto dalla tua avventura... — Oh, sì — rispose Lydyard, con la massima disinvoltura che riuscì a manifestare, ma con l'impressione che le sue parole suonassero orribilmente vacue e false. — In verità, mi vergogno di me stesso. Sono già stato abbastanza incauto a lasciarmi mordere una volta da un serpente. Ma due volte! È ignominiosamente sintomatico di una predilezione! Per fortuna, sono sopravvissuto ad entrambe le ferite. — Immagino — commentò lady Rosalind, con la massima cortesia — che il viaggio di ritorno non sia stato facile...
— Non è stato troppo arduo. Il nostro giovane amico, sofferente di amnesia, ha risposto bene alle cure che gli abbiamo somministrato. Alla fine, la sua guarigione e la sua partenza hanno semplificato ulteriormente il viaggio. Da Gibilterra, la navigazione è stata... tranquillissima. Dichiarando di doversi recare ad impartire istruzioni alla servitù, lady Rosalind si scusò. Il suo vero proposito fu quello di dare a Cordelia l'occasione di scambiare poche parole in intimità con Lydyard, il quale, però, riuscì soltanto a dimostrarsi ancora più goffo e più sciocco. — «Ignominiosamente sintomatico di una predilezione»! — citò Cordelia, in tono scherzoso. — Che frase mostruosa! E poi quella banalità sulla «navigazione tranquillissima»! Bisognerà che impari davvero a conversare meglio con mia madre. Pur comprendendo benissimo che Cordelia aveva chiesto, anzi, implorato, una risposta arguta da trasformare abilmente in un complimento, per preparare una manifestazione d'affetto, Lydyard riuscì a rispondere soltanto: — Hai ragione: devo proprio. Delusa, ma valorosa, Cordelia continuò, con voce intenerita da una sincera preoccupazione: — In realtà, come stai? In tono vacuo, Lydyard replicò: — Benissimo. E sono molto contento di essere a casa. Accigliata, Cordelia lo scrutò come se si fosse appena accorta di avere dinanzi uno sconosciuto travestito, un lupo in veste d'agnello, un imbecille anziché un innamorato: — Posso perdonarti la banalità della prima frase, ma non l'apparente falsità della seconda. Chi mai avrebbe potuto biasimare la reazione della ragazza? Lydyard arrossì spaventosamente, e con uno sforzo straziante, quasi balbettando, con frasi disarticolate, tentò di garantire che era estremamente contento di essere tornato a casa. — In tal caso — ribatté Cordelia — la tua confusione deve avere qualche altra causa, perché ogni parola che pronunci nasconde qualcosa d'imbarazzante e d'inespresso. Naturalmente, Cordelia aveva ragione. Eppure, Lydyard non lo disse, perché persino sulle lettere che le aveva scritto aveva gettato il medesimo manto di segretezza in cui si era sempre avvolto conversando con suo padre. Nell'erigere, seppure con estrema inadeguatezza, un muro per celare le proprie visioni, i propri incubi, l'avvelenamento della propria anima, si separò da Cordelia. Imprigionò il proprio amore per lei, tanto da non riuscire più ad esprimerlo. Dinanzi alla delusione di Cordelia, fu soltanto capace di
mormorare che avrebbe spiegato tutto a suo tempo, con una incoerenza che riuscì soltanto ad irritarla maggiormente. Non sapendo che cosa dire per salvare la situazione, e consapevole che questa sua incapacità era evidente a tutti in maniera molto imbarazzante, Lydyard fu salvato, in un certo senso, dal fatto che proprio allora tutti si trasferirono in un'altra stanza. Tuttavia ciò non lo liberò dalla sofferenza e dall'umiliazione. Sentì lady Rosalind riferire al marito che un certo Jacob Harkender si era recato a chiedere di lui, e che lo stesso aveva fatto un certo Shepherd, in risposta a un annuncio pubblicato da Gilbert Franklin sul Times. Naturalmente, ella aveva chiesto ad entrambi di ritornare in un momento più adatto. Inoltre, aveva invitato Franklin a cena. Mentre lady Rosalind continuava a chiacchierare, Lydyard, in preda alla vertigine, trovò finalmente il coraggio di chiedere il permesso di ritirarsi nella propria camera per riposare un poco... Benché non avesse avuto nessuna intenzione di addormentarsi, Lydyard era stato nuovamente rapito dall'incubo. Si alzò a sedere sul bordo del letto proprio nel momento in cui qualcuno bussava alla porta, e invitò: — Avanti. Era Tallentyre, e fortunatamente era più preoccupato che irritato: — Ti sei riposato, David? Non ti biasimo minimamente, perché il viaggio è stato dannatamente scomodo, e anche se ormai è primavera, l'aria di Londra non ha ancora perduto il gelo dell'inverno. Inoltre, la nebbia malsana che è calata durante la notte era senza dubbio molto adatta a ravvivare in te gli effetti del veleno. Credi che sarai in grado di scendere a cena? — Oh, sì, certo — rispose debolmente Lydyard. — Mi vesto subito... Che ore sono? — Nel dir questo, guardò l'orologio sulla mensola del camino: il vecchio orologio, la vecchia mensola, il vecchio camino... Per la prima volta, provò una sensazione struggente di conforto, un turbamento di lieta nostalgia che non aveva bisogno di cure. — È arrivato Gilbert — annunciò Tallentyre. — Vuoi che gli chieda di salire a visitarti? — No, grazie: non ho bisogno di un medico. Sono stato sciocco a confondermi in modo tanto imbarazzante, e doppiamente sciocco ad addormentarmi. Ti prego di perdonarmi. In silenzio, Tallentyre annuì, apparentemente soddisfatto, come se il rifiuto di farsi visitare da un medico fosse una garanzia infallibile di buona
salute. — Se non sbaglio — domandò Lydyard, tanto per fare conversazione — sono venuti a chiedere di te sia Harkender, sia qualcuno che ha detto di chiamarsi Shepherd... Di nuovo, Tallentyre annuì: — Senza dubbio torneranno entrambi. — E Franklin? — Lydyard aprì il guardaroba e iniziò a cercare un completo per la cena, chiedendosi se sarebbe riuscito a ricordare come indossarlo. — Non ha altre notizie, oltre a quelle contenute nelle sue lettere? — Non molte. Si rammarica di non essere riuscito ad accertare se Harkender abbia detto la verità, quando affermò che l'anello di Mallorn significava appartenenza all'ordine di Sant'Amycus. Gli ho assicurato che su quest'ordine abbiamo saputo l'essenziale da un'altra fonte, e l'ho interrogato, invece, a proposito di colui che lo seguì da Whittenton ad Hanwell. Non è riuscito a rintracciare Mandorla Soulier, ammesso che esista. In compenso, un ladro si è introdotto in casa sua, di recente, e ha rubato vari documenti assortiti, incluse le lettere che gli ho spedito dal Cairo e da Alessandria. — In effetti, non è molto — commentò Lydyard, iniziando a cambiarsi. — Oh, Gilbert ha parlato a lungo, come sempre — rispose allegramente Tallentyre — ma il resto di quello che ha detto ha poca importanza. Con l'aiuto di Austen, e con molta discrezione, ha svolto un'indagine fra i commercianti locali a proposito del fanciullo che si dice sia scomparso da Hudlestone. Secondo i pettegolezzi locali, il fanciullo sarebbe il figlio illegittimo di Jacob Harkender, ma è del tutto normale che in questi casi corrano voci di tal genere. Alla Lodge si sostiene che il fanciullo sia stato rapito, ma dato che non si sono trovate prove valide che ciò sia accaduto, è opinione comune che il piccolo sia semplicemente fuggito. Come al solito, si mormora di maltrattamenti, però Austen ha riferito a Gilbert che l'istituto gode di buona reputazione, e sicuramente non era famigerato per le crudeltà inflitte ai trovatelli, prima di questo incidente increscioso. Lo stesso Austen ha osservato che di quando in quando, inevitabilmente, vi sono ragazzi che fuggono dagli istituti di questo genere. — Tutto ciò — sospirò Lydyard — non fa che ampliare il labirinto di oscure allusioni, in cui non riusciamo a trovare nessun filo d'Arianna. — Quindi dobbiamo lasciar perdere, almeno per il momento, e affrettarci a godere la nostra cena di benvenuto. Cordelia è molto preoccupata per te: sono certo che hai molte cose da dirle. Proprio in quel momento, si udì suonare il campanello alla porta princi-
pale. Poco dopo, quando Lydyard era ormai completamente vestito, Summers si affacciò alla stanza, gesticolando a profusione per scusarsi. Con voce estremamente pacata, quasi monotona, il maggiordomo annunciò: — C'è un gentiluomo che desidera vederla, sir Edward. — E sottolineò la parola «gentiluomo», come per lasciar intendere che il visitatore non era affatto tale. — Non ha biglietto da visita, ma sostiene che il suo cognome è Shepherd. Si è già presentato qui poco tempo fa, in risposta all'annuncio che il dottor Franklin, su sua richiesta, ha pubblicato sul Times. Afferma di essere molto ansioso di avere notizie di suo fratello, che ha viaggiato con lei dall'Egitto. In questo momento si trova in salotto, con il dottore. Senza esitare, Tallentyre e Lydyard si recarono insieme in salotto, dove il visitatore, in un silenzio imbarazzato, stava di fronte a Gilbert Franklin. Quando lo vide, Lydyard rimase talmente sbalordito da rimanere udibilmente con il fiato mozzo, e si rallegrò nell'accorgersi che Tallentyre non era meno sorpreso. Entrambi, infatti, avrebbero facilmente potuto scambiare il visitatore per colui che avevano trovato nel deserto: aveva la chioma biondo cenere, il viso pallido, gli occhi azzurri e luminosi. Vestiva come il segretario di un avvocato e non aveva il prestigio che Paul Shepherd aveva dimostrato durante il breve periodo che era seguito alla sua guarigione e che aveva preceduto la sua scomparsa. Aveva consegnato a Summers la bombetta, ma non il bastone nero e lucido, con l'impugnatura d'argento modellato. Con studiata cortesia, lo sconosciuto esordì: — Sono molto lieto di fare la sua conoscenza, sir Edward. Le porgo le mie scuse per questa intrusione proprio il giorno del suo ritorno, ma sono veramente ansioso di avere notizie di mio fratello, Paul. Mi sono presentato subito dopo aver letto il suo annuncio sul Times, ma sono stato invitato a tornare questa sera, per quando era previsto il suo ritorno. — Salutò Lydyard con un breve inchino, poi riprese a scrutare Tallentyre. Pacatamente, il baronetto dichiarò: — Temo che suo fratello non sia più con noi. Mentre Tallentyre scrutava apertamente il visitatore negli occhi, Lydyard non faticò ad immaginare quali pensieri curiosi gli turbinassero nella mente. Memore degli avvertimenti di Shepherd, si chiese se lo sconosciuto figurasse nella lista di coloro da cui doveva guardarsi, e perché. — Mi può spiegare come mai vi siete separati? — domandò il giovane dagli occhi azzurri. — Mi dispiace disturbarla così, subito dopo il suo ri-
torno, ma senza dubbio anche lei si è accorto che mio fratello è afflitto da periodi prolungati di disordine mentale. Non sempre è com'era quando lei lo trovò, ma anche quando è padrone di se stesso, è dominato da fantasie stranissime. — Temo di non avere notato nulla di tutto ciò — contraddisse Tallentyre, quasi mellifluo. — Mentre era in nostra compagnia, è migliorato gradualmente. Purtroppo, è scomparso poco tempo dopo essere ritornato in sé. Ha lasciato l'Excelsior durante la navigazione, perciò è molto probabile che si sia semplicemente gettato in mare. Non posso dire se sia annegato o meno. Nell'ascoltare questo discorso, Shepherd osservò Tallentyre con la massima attenzione. Era evidente che non sapeva se credergli o meno sulla parola, né come indagare senza mostrarsi offensivo. Infine, commentò: — Mi dispiace molto... Dunque sembra che fosse ritornato in sé? — Sì, almeno per breve tempo — confermò Tallentyre. — Purtroppo, quello che ci ha detto mi è parso poco sensato. Sa dirci, per caso, come mai stava vagando nel deserto, quando lo trovammo? Questo è un enigma la cui soluzione ci sfugge ancora. — Come ho detto — rispose Shepherd, tradendo una certa incertezza — il povero Paul soffriva continuamente di allucinazioni. Non posso biasimarla per non essere riuscito a vegliare adeguatamente su di lui. È evidente, infatti, che anche noi abbiamo fallito. — Noi? — chiese Tallentyre, con voce neutra. — Il signor Shepherd ha dunque altri parenti a Londra, oltre a lei? — Oh, sì — replicò Shepherd, sempre con esitazione. — Da qualche tempo, però, vive lontano dalla famiglia. — Come se non riuscisse più a sostenere lo sguardo del baronetto, si girò bruscamente a scrutare Lydyard con una strana intensità: — Mio fratello non le ha detto nulla, signor Lydyard? Siamo davvero molto ansiosi di ritrovarlo, se esiste una possibilità che sia ancora vivo. — Be', no... — Lydyard si sforzò in ogni modo di mostrarsi sinceramente sorpreso, pur senza sapere affatto perché sentisse l'urgenza di mentire. — Si svegliava soltanto per poche ore al giorno, di solito dopo il tramonto, e anche se si lasciava imboccare da me, non ho mai visto la minima scintilla d'intelligenza umana, in lui, fino al giorno in cui è scomparso. Temo che suo fratello sia molto malato, e... Mi dispiace che non ci sia stato possibile ricondurlo a casa. — Anche lei è stato malato?
— Sono stato morso da un serpente — rispose pacatamente Lydyard, benché sorpreso dalla preoccupazione in apparenza sincera dimostrata da Shepherd nei suoi confronti. — Adesso, però, mi sono completamente ripreso. — E si congratulò mentalmente con se stesso per l'abilità nel mentire che aveva sviluppato. Non provava nessuna simpatia per il fratello di Paul Shepherd, senza contare che si sentiva stranamente inquieto in sua presenza. — Temo di non ricordare il suo nome, signor Shepherd — intervenne amabilmente Tallentyre. — Perris — rispose il visitatore, senza distogliere da Lydyard il proprio sguardo indagatore. — È un nome insolito — commentò Tallentyre. — Se volesse essere così gentile da lasciarmi il suo indirizzo, e quello degli altri parenti di suo fratello, sarei più che lieto di scriverle un resoconto dettagliato e completo del nostro incontro con lui. Naturalmente, lo spedirei insieme alle mie più sentite condoglianze. — È molto gentile da parte sua — rispose Perris Shepherd — ma credo che i miei cugini preferiranno ricevere le notizie personalmente da me. Crede probabile che Paul sia ancora vivo? — Di sicuro non possiamo essere certi che sia morto, però chi non è in pieno possesso delle proprie facoltà, e scompare da un piroscafo nelle prime ore del mattino, ha poche probabilità di sopravvivere, anche in un mare benigno come il Mediterraneo. Sinceramente, non le suggerirei di nutrire troppe speranze. — Naturalmente... — D'improvviso, Perris lanciò una breve occhiata a Gilbert Franklin. Poi si rivolse al baronetto: — Mi dispiace molto di averla disturbata. È stato molto gentile da parte sua assistere mio fratello, e mi duole che la sua sollecitudine non abbia avuto conseguenze più felici. Purtroppo, mio fratello è malato da lungo tempo: sapevamo che vi erano poche speranze che si riprendesse completamente. — Si fece restituire la bombetta da Summers, s'inchinò brevemente, e girò sui tacchi. Nessuno si mosse, mentre si udivano il tonfo della porta richiusa e il rumore dei passi sui gradini che scendevano in strada. Il baronetto guardò Lydyard, prima di chiedere a Franklin: — Lo hai riconosciuto, per caso? Ti ha guardato come se ti conoscesse. — Be', no — rispose il medico. — Non so neppure perché si sia presentato qui, visto che l'annuncio sul Times conteneva il mio indirizzo. — Non mi è piaciuto affatto — commentò Lydyard, in tono perplesso.
— E questo è strano, perché suo fratello, che sicuramente è suo gemello, non mi ha procurato affatto la stessa sensazione. — Anche a me non è piaciuto molto — confessò Tallentyre. Pensosamente accigliato, Franklin sbottò: — Non l'ho mai visto prima, però ho incontrato qualcuno che gli assomigliava molto. — Ah... Forse suo fratello è vivo, dopotutto — suggerì Tallentyre. — Forse ci ha preceduti in Inghilterra. — Sì, ho incontrato qualcuno che gli assomigliava — riprese Franklin, meditativamente. — E se la follia è una caratteristica di famiglia, allora è possibile che fosse un suo parente. — Che cosa intendi dire? — chiese Lydyard. — Be', mi riferisco al giovane con cui parlai alla stazione di Hanwell — spiegò il dottore. — Sicuramente non assomigliava tanto al signor Shepherd da poter essere suo gemello, tuttavia la somiglianza è sufficiente per indurmi a supporre che possano appartenere alla medesima famiglia. — I licantropi di Londra! — intervenne Tallentyre, sarcastico. — Avrei dovuto immaginarlo! Anche Lydyard ricordava quello che il giovane in questione aveva detto a Franklin, e rammentava inoltre che Paul Shepherd, il cui vero nome non era certo Paul, e il cui vero cognome non era certo Shepherd, lo aveva ardentemente esortato a guardarsi dai licantropi di Londra. Ebbe la sensazione di avere ormai ottenuto la conferma di una connessione fondamentale, che già i sogni lo avevano indotto a ipotizzare, e pur sapendo benissimo di non avere il minimo brandello di prova che Tallentyre potesse considerare valida, pervenne a una certezza sbalorditiva: il lupo che aveva salvato sir Edward dalla sfinge non era stato altri che Paul Shepherd, e la famiglia da cui questi si era estraniato, stando a quello che aveva dichiarato Perris, non era altro che quella dei licantropi di Londra. Una volta accettato tutto questo, di cui peraltro non riusciva a dubitare minimamente, non poté più negare che l'entità demoniaca la quale lo possedeva era sicuramente reale, e che tutti i pericoli da cui l'uomo lupo dell'Excelsior lo aveva messo in guardia lo minacciavano realmente. In un certo senso, aveva sempre saputo che tutto ciò era vero, ma finalmente era disposto anche a riconoscerlo: non era pazzo, né vittima di allucinazioni inspiegabili. E se non fosse stato possibile trovare una risposta soddisfacente all'enigma della nuova sfinge, allora si sarebbe perduto molto di più della stima che sir Edward Tallentyre aveva nella propria intelligenza.
5 Il secondo visitatore si presentò a Sturton Street quella sera, quando la cena era terminata da poco. Tallentyre acconsentì a riceverlo, anche se lady Rosalind e Cordelia non furono per nulla soddisfatte di essere abbandonate così. Prevedendo che il secondo colloquio non sarebbe stato meno peculiare del primo, Lydyard si augurò che fosse anche più illuminante. Tuttavia l'incontro iniziò in modo poco promettente: i quattro uomini sedettero nel fumoir con un imbarazzo quasi tangibile, e attesero pazientemente che Summers uscisse, dopo avere servito il brandy a tutti. Sollevando furtivamente lo sguardo dal bicchiere che teneva in mano, Jacob Harkender esordì: — Non ero certo che mi avrebbe ricevuto. In silenzio, il baronetto scrutò per alcuni istanti il visitatore. Osservandolo, Lydyard ricordò che Tallentyre aveva dichiarato di rammentare perfettamente il volto di Harkender, come se lo avesse inciso nella memoria, nonostante i venticinque anni trascorsi dal loro ultimo incontro: lo aveva descritto con il viso delicato ed effeminato, pallido ma sempre suscettibile di arrossire febbrilmente, nonché capace di lanciare sguardi spaventevoli, colmi di una riserva infinita di malevolenza. Fu molto difficile, per Lydyard, immaginare come un mostro d'ira e di livore l'uomo segnato dall'età e dalla disciplina che gli sedeva di fronte. Tuttavia in lui vi era qualcosa di vagamente vulcanico, come se fosse ancora in grado di eruttare furore. Conservava ancora una certa effeminatezza, ma aveva inoltre qualcosa che Lydyard stentava a definire: una sorta di ombra, che gli era come sovrapposta e veniva rivelata dalla seconda vista. — Perché non avrei dovuto riceverla? — rispose finalmente Tallentyre. — Crede forse che io sia il tipo d'uomo che serba rancore per oltre vent'anni a causa di un alterco? — Il tono, grottescamente incongruo rispetto alla frase, suggerì che il baronetto era esattamente un uomo di tal genere. — Ad essere sinceri — replicò Harkender — la ricordavo estremamente meticoloso e inflessibile, né posso credere che lei sia cambiato. Il contrasto che avemmo fu semplicemente il sintomo di un'antipatia reciproca, profondamente radicata. Dato il tipo d'uomo che io sono diventato, e il tipo d'uomo che lei è sempre stato, sospetto che ora mi detesti più che mai. — Il suo tono era calmo e serico, ma non beffardo: sembrava che stesse compiendo uno sforzo estremo per essere schietto.
L'attenzione di Lydyard fu attirata dal movimento strano di un'ombra che la luce del fuoco e quella della lampada gettavano sul muro alle spalle di Harkender: l'ombra aveva qualcosa di soprannaturalmente fosco e sinistro, che rammentava in qualche modo un ragno in agguato, in attesa della preda. — Se questo è il suo giudizio — dichiarò Tallentyre — mi meraviglia che lei abbia chiesto di essere ricevuto in casa mia. — Sono venuto qui seguendo il principio secondo cui il nemico dei miei nemici potrebbe essere mio amico. — Harkender sembrava assorto ad osservare i guizzi dei riflessi della luce della lampada nel vetro del bicchiere. — La sorte, con la sua ironia, ha formato alleanze persino più strane. So che lei non può considerarmi un gentiluomo o uno studioso, ma credo che possa essere abbastanza cortese da avere maggior considerazione della mia patina di educazione e di cultura, a paragone non di coloro che più grandemente ammira, bensì di coloro di cui si è ultimamente guadagnato l'inimicizia. Mentre Lydyard pensava che questo suo discorso fosse stato accuratamente preparato, Harkender gli lanciò un'occhiata inquieta, come se qualcosa, nel suo aspetto, lo lasciasse perplesso. — Non sono consapevole di essermi fatto nessun nemico... negli ultimi tempi — rispose Tallentyre, enfatizzando lievemente, ma deliberatamente, le ultime tre parole. Impassibile, Harkender domandò: — Posso chiederle che cos'è accaduto al giovane che trovaste nel deserto a sud di Qina? — Si è ripreso alla perfezione — affermò Tallentyre, quasi con noncuranza. — Se vuole, saremo lieti di parlarle più diffusamente di lui. Ma prima, dev'essere lei a rispondere ad alcune domande. Quando il dottor Franklin le chiese alcune spiegazioni, lei fu piuttosto evasivo. Vuole dirci, adesso, perché si recò laggiù nel deserto, dove William de Lancy è scomparso e dove David è rimasto ferito, e quale connessione esiste fra quella sua spedizione e la fuga del fanciullo che era affidato alle suore di Santa Syncletica? In apparenza, Harkender non rimase affatto sorpreso da questa domanda, né troppo contrariato. In quel momento, Lydyard ebbe l'impressione che la sua ombra diventasse sempre più simile a un ragno predatore, tuttavia non ebbe la certezza che ciò non fosse dovuto alla propria immaginazione. Poi, Harkender si leccò le labbra e si addossò allo schienale della poltrona. Allora l'ombra alle sue spalle scomparve, come se si fosse ritirata in
qualche tana segreta. Nondimeno, il fuoco ardeva ancora nel camino, gettando una luminosità rossastra e alquanto soprannaturale sulla metà inferiore del volto del visitatore. Divertito, Lydyard pensò che Harkender aveva proprio il tipo di viso che un pittore romantico avrebbe attribuito al Satana di Milton. Però il suo divertimento si dissolse subito, quando si rese conto che assomigliava anche al Satana del suo incubo, per il quale aveva provato tanta simpatia. — Anche se è stato abbastanza intelligente da pormi questa domanda — rispose finalmente Harkender — dubito che crederebbe alla verità. — Io dubito di tutto — ribatté Tallentyre — e non credo a nulla, prima di essere giunto a certezze razionali. Nondimeno, mi piacerebbe ascoltare la sua spiegazione, per quanto incredibile possa essere. Per alcuni secondi, Harkender lo scrutò risolutamente, quindi scrollò le spalle: — Che cosa le ha detto Pelorus? — Che cosa le fa credere che ci abbia rivelato alcunché? — chiese Tallentyre di rimando, badando a non smentire di conoscere Pelorus. — Il suo atteggiamento, la sua curiosità, e la sua determinazione a scambiare informazioni, mi comunicano che lei ha una mano da giocare, e che nasconde le sue carte migliori. Quando si recò a Whittenton, il dottor Franklin non sapeva nulla, mentre adesso lei è convinto di sapere abbastanza per provocarmi e per tentarmi. Ebbene, debbo avvertirla di essere cauto, perché i membri della famiglia di Pelorus, qui a Londra, sono molto mal disposti nei confronti di chi lo aiuta. — Abbiamo già conosciuto suo fratello — disse Tallentyre, in tono pacato. — È stato qui questo pomeriggio. Non del tutto sorpreso, Harkender annuì: — Mandorla sa che sta giocando una partita pericolosa... — dichiarò, quasi fra sé e sé. Quindi soggiunse: — Sa chi sono Pelorus e la sua famiglia? Senza esitazione, Tallentyre rispose: — Sono i licantropi di Londra. Allora Franklin ebbe un lieve trasalimento di sorpresa, mentre Lydyard si concesse un sorrisino, sapendo che, quantunque Tallentyre stesse al gioco di Harkender, quel che aveva dichiarato non era nulla di meno della verità. — Senza dubbio lo ha visto trasformarsi — commentò Harkender, imbronciato. — Se non è così, non crede affatto a tutto ciò, e intende soltanto mettermi alla prova. Comunque, ha poca importanza. Probabilmente, Pelorus le ha già spiegato quello che ho cercato di fare, e perché l'intromissione dei suoi parenti è tanto importuna.
— Può darsi — replicò Tallentyre. — Ma in questa faccenda mi sembra più saggio non credere a nessuno sulla parola. Preferirei sentire anche la sua versione. Osservando il baronetto, Lydyard immaginò quanto fosse deliziato dal successo del suo stratagemma. Dopo aver vuotato il bicchiere di brandy, Harkender disse cupamente: — Credo che lei si renda conto di quanto fossi riluttante a venire qui, sir Edward. Però, quello che il dottor Franklin mi ha raccontato della sua avventura in Egitto mi ha indotto a sperare che lei avesse salvato proprio Pelorus. Anche se non l'ho mai incontrato, so qualcosa della sua famiglia, e so inoltre che egli si oppone all'ambizione che ha indotto Mandorla a rapire Gabriel Gill. Mi dispiace di aver chiesto al dottor Franklin di avvertirla di stare alla larga dalle mie faccende, perché ora che lei è coinvolto, preferisco averla come alleato, anziché come nemico. D'altronde devo dirle, francamente, che Pelorus potrebbe essere di gran lunga più utile a me. Se vuole sbarazzarsi di me, non deve far altro che dirmi dove si trova Pelorus. Sempre estremamente attento al modo in cui formulava le proprie frasi, Tallentyre rispose: — Le dirò che cosa ne è stato di lui, se, e soltanto se, lei ci spiegherà perché si recò in quella valle nel Deserto Orientale, e che cosa cercò di fare laggiù. — Mi recai alla ricerca dell'illuminazione — dichiarò Harkender, con voce dura. — Come il seguace di Sant'Amycus che era con lei, so che i Creatori, i quali lottarono per imporre la loro volontà al mondo nel remoto passato, non perirono quando l'Età dei Miracoli terminò. Forse sono stati trasformati dall'evoluzione, tuttavia non sono morti: il loro potere rimane, e un giorno, forse, sceglieranno di ritornare. A differenza dei seguaci di Sant'Amycus, però, non credo che esista una guerra sotterranea fra il bene e il male, in tutto ciò: questa è semplicemente una fantasia religiosa. Non credo neppure che esista un piano divino già descritto nei testi sacri. Il futuro non è ancora deciso, e forse non sarà deciso dai Creatori, se soltanto gli uomini impareranno a controllare il loro potere a proprio beneficio. «Questo è il sentiero che ho cercato di seguire. Mi recai nella valle per compiere un rito, mediante il quale prelevai una parte del potere che giace latente laggiù, e lo incarnai in un bambino appena concepito. Una volta, gli esseri quasi umani di questo genere erano molti, ma oggi sono pressoché estinti, e per molte ragioni fu più vantaggioso, per me, crearne un altro, anziché scoprirne uno già esistente. Affidai il bambino alle suore di Santa Syncletica affinché lo proteggessero fino al momento in cui il suo occhio
interiore si fosse aperto: allora avrebbe potuto diventare il mio oracolo, la mia fonte di saggezza segreta. Ho cercato di nasconderlo, è vero, ma non perché pensavo che qualcuno intendesse rapirlo. Non riesco a capire l'intromissione dei licantropi. «Giacché Mandorla non vuole il fanciullo come fonte di salvezza, posso supporre soltanto che intenda servirsi del suo potere in maniera molto diversa. Forse crede di potersi sbarazzare della sua parziale umanità indesiderata, e ridiventare lupa per sempre. Forse è più ambiziosa, e desidera ridestare i Creatori affinché sconvolgano il mondo modellato dagli umani, che odia. Senza dubbio, sa che Gabriel non può restaurare l'Età dei Miracoli, però è possibile che trami qualche piano per danneggiare la razza umana. A questo proposito, non so dire che cosa sarebbe in grado di fare Gabriel, se imparasse a dominare e ad incanalare i propri poteri, né posso dire se Mandorla sia in grado di persuaderlo a farlo. Quali che siano le intenzioni di Mandorla, comunque, il fanciullo sarebbe infinitamente più al sicuro con me. «Sono convinto che Pelorus si opponga risolutamente alle ambizioni di Mandorla, perciò sono certo che tenterà di liberare il fanciullo. Entrambi avremmo molte più probabilità di successo se unissimo i nostri sforzi. Ecco perché le chiedo di dirmi dove si trova Pelorus. Nel parlare, Harkender si curvò innanzi gradualmente, talché Lydyard ebbe l'impressione che la sua ombra ragno uscisse poco a poco, cautamente, dal nascondiglio dietro la poltrona, per incombere grottescamente sulla sua testa, ancor più minacciosamente di prima. Per un attimo, Lydyard ebbe un brivido di paura, immaginando che potesse materializzarsi in un istante, balzare dal muro, aggredire qualcuno, e straziarlo con i cheliceri. — Chi era la madre di Gabriel? — domandò Tallentyre, con voce incolore. Si stava sforzando con tutto se stesso di far credere che nulla di quello che gli era stato detto gli era ignoto, nonché di celare del tutto la propria reazione. Soltanto Lydyard si rese conto dell'abilità con cui il baronetto stava dissimulando, e riuscì ad immaginare la complessità e la multiformità delle sue motivazioni: non intendeva semplicemente ottenere da Harkender il maggior numero possibile di informazioni, ma voleva anche tiranneggiarlo per il puro gusto di affermare la propria superiorità. — Una prostituta di nome Jenny Gill — rispose Harkender, senza nessuna vergogna. — È morta poco tempo dopo il parto. Ma questo non ha importanza. Le ho già detto tutto quello che voleva sapere, quindi le chie-
do ancora: dov'è Pelorus? — Purtroppo, non sappiamo dove si trovi attualmente il giovane che abbiamo trovato nel deserto: abbandonò segretamente l'Excelsior poco prima che arrivassimo a Gibilterra. Può darsi che sia annegato, come ho suggerito a suo fratello quando è venuto a chiedere notizie, oppure è possibile che sia già tornato in Inghilterra. Non lo sappiamo. Questa risposta lasciò Harkender estremamente deluso e contrariato. Lydyard percepì almeno in parte il furore che ribolliva in lui, e non poté fare a meno di pensare che avesse tutto il diritto di essere arrabbiato, visto che era stato vistosamente ingannato. Comunque, Harkender mantenne il controllo di se stesso e si limitò a lanciare un'occhiata torva al baronetto: — È una ben magra ricompensa, questa, per la mia onestà. — Così va il mondo — sentenziò Tallentyre, beffardo. — Spesso l'onestà viene tradita, mentre l'inganno ha successo. E quello che lei ha detto, anche se crede che sia vero, non è certamente tutta la verità. Qualunque impresa lei abbia iniziato nella valle, non è finita, e se davvero è riuscito a creare una sorta di chimera soprannaturale, essa non è certo l'unica. Che cosa può dirmi dell'altra entità, che ha privato della ragione colui che lei chiama Pelorus, e ha provocato la morte di Mallorn? Anche quella è stata creata da lei? — No, niente affatto. Non so neppure perché sia stata creata, né perché sia stata inviata sulla Terra. Zefirino le spiegherebbe probabilmente che si tratta della Bestia della Rivelazione, venuta a svolgere il proprio ruolo nell'Apocalisse, e potrebbe anche avere ragione. Non sono tanto stolto da non temere questa nuova entità, però non sono neppure tanto timoroso da dare per scontato che intende nuocermi. E se vogliamo fare un censimento delle chimere, sir Edward, rammentiamo di registrare anche l'altra: quella che siede accanto a lei. Allora Tallentyre si girò a scrutare Lydyard, il quale, pur vergognandosi di se stesso per questo, non riuscì a non trasalire, trafitto da quello sguardo: — David si è del tutto ripreso dal morso di serpente — affermò il baronetto, con voce tagliente. — Il suo delirio non è durato a lungo. Anche se non disse nulla per contraddire il proprio tutore, Lydyard si rese conto abbastanza chiaramente che Harkender, al pari di Paul Shepherd, o di Pelorus, sapeva che non era affatto così: l'ombra ragno alle sue spalle sembrava fissarlo con uno sguardo affascinante da predatore, che lo terrorizzava, quantunque sapesse che il mostro in realtà non esisteva affatto,
bensì era semplicemente un gioco di luci e di ombre. Anziché insistere, Harkender dichiarò: — Vorrei che lei acconsentisse ad aiutarmi, sir Edward. Non posso credere che sia lieto di lasciare Gabriel nelle mani dei licantropi, ora che sa quello che sono. Dopotutto, io sono legalmente il tutore del fanciullo, e sarò felice di pronunciare qualunque giuramento lei riterrà adeguato per garantire che intendo servirmi di lui molto più gentilmente di coloro con i quali si trova in questo momento. — Ciò dipende sicuramente dalla concezione che si ha della gentilezza — ribatté Tallentyre, con un tono gelido e ferale che sgomentò Lydyard. — Rammenti che io so come si servì di altri in passato. Nell'udire tali parole, Harkender mantenne il proprio atteggiamento austero. Però i suoi lineamenti, alla luce delle fiamme, furono improvvisamente stravolti da un tale odio, che altri occhi parvero scrutare da oltre la maschera che era il suo volto: occhi ardenti, furenti, malevoli. — Oh, sì — rispose, in poco più che un sussurro. — Il nostro contrasto... L'avevo dimenticato, per il momento. Dunque crede davvero che io voglia il fanciullo come cinedo? Se soltanto lei sapesse la verità, sir Edward: l'autentica verità! E non mi riferisco, in questo momento, alla scienza, o alla religione, o alla filosofia, o al misticismo, ma soltanto a noi stessi e a quello che siamo. D'altronde, lei non può vedere quello che siamo, più di quanto possa vedere in quale genere di mondo viviamo realmente: la cecità della sua classe è onnicomprensiva. Lei non vede il caos che è mascherato dall'ordine della scienza, non vede l'Inghilterra dei poveri, che esiste al di fuori della sua utopia di lusso aristocratico, non vede le perversioni dell'anima che sono celate e contenute dall'ipocrisia delle buone maniere. Lei crede che io sia un mostro, eppure è cieco alla vera mostruosità del mondo, dello stato, e dell'individuo. Il lusso acceca tutti gli uomini, ma io credo che la sua classe si crogioli nella cecità per amore della cecità, e abbia dimenticato la vergogna. Il vulcano ha eruttato, pensò Lydyard. Questa volta fu Tallentyre a restare sgomento, e non soltanto per l'improvviso mutamento d'umore e di modi del mago: — Cos'ha a che fare con tutto ciò la classe alla quale appartengo? — Cos'ha a che fare con cosa, precisamente? — ribatté Harkender, con amara ironia. — Con il suo materialismo inflessibile, essa ha a che fare più di quanto lei si renda conto. Con il suo austero moralismo, essa ha a che fare sotto ogni aspetto. — Cos'ha a che fare con noi — precisò Tallentyre. — Cos'ha a che fare
con l'antipatia reciproca che nutriamo da tanto tempo, e che a quanto pare non è affatto estinta. — Oh, tutto: tutto. Ma di ogni argomento che possiamo discutere, questo è sicuramente l'ultimo. — Harkender tacque per alcuni istanti, scrutando il baronetto con maggior calma. Poi sospirò: — O forse no... Ho deciso di sottoporle argomenti razionali sulla faccenda che interessa entrambi, ma immaginavo che non mi avrebbe ascoltato, perché rivedermi avrebbe resuscitato in lei il passato defunto. Ecco un'altra caratteristica della sua classe: non dimentica mai, e non perché sia orgogliosa della perfezione del proprio senso storico, ma semplicemente perché non dimentica mai. — Lei mi ricorda qualcosa che mi disse una volta il dottor Franklin, a proposito delle osservazioni di James Austen sulla mania di persecuzione. Si riferì alla facilità con cui l'illusione che vi siano cospirazioni ovunque s'impadronisce di una mente debole. Senza dubbio lei invidia la mia classe perché non vi appartiene, tuttavia non deve immaginare che l'aristocrazia d'Inghilterra esista solamente allo scopo di falsificare la realtà e di privare lei del rango a cui la sua immaginaria conoscenza occulta e il suo presunto potere magico le darebbe altrimenti diritto. Come se si nutrisse del sarcasmo del baronetto, Harkender parve trarre forza dall'attacco. Soltanto pochi istanti prima era sembrato in difficoltà, ma d'improvviso riacquistò l'assoluto controllo di se stesso: — Forse ho sbagliato a venire qui — dichiarò, in tono di vago autorimprovero. — Non potevo aspettarmi nessuna generosità da parte sua, né in fatto di fiducia, né in fatto di cortesia, né in fatto di simpatia. Se io la ricambiassi con la stessa cattiveria, però, non farei altro che approfondire il divario che ci divide, quando invece sono realmente convinto che dovremmo diventare alleati contro un avversario comune. Come Pelorus le ha indubbiamente spiegato, non può derivare nessun bene dal consentire a Mandorla di dominare i poteri che Gabriel possiede, giacché i suoi motivi sono egoistici nel migliore dei casi, e distruttivi nel peggiore. Se ha interesse nel contribuire a prevenire una tragedia, sarò lieto di accoglierla nella mia casa e di aggiungere le risorse della mia magia a quelle che Pelorus possiede, di qualunque genere siano. Nonostante il disgusto del baronetto, Lydyard provò una vaga simpatia per Harkender, che senza dubbio mostrava di essere il più generoso fra i due. Si augurò che Tallentyre cedesse, pur sapendo che non lo avrebbe fatto, perché sapeva essere estremamente ostinato. — Benché disprezzi la mia classe — rispose Tallentyre — lei si sforza
parecchio di imitarne i modi e le apparenze. — I modi non hanno nulla a che vedere con le apparenze — garantì Harkender. — E il movimento dalla causa all'effetto funziona in entrambi i sensi, anche se so che la sua mentalità scientifica non approva del tutto questo punto di vista. — Che cosa le abbiamo mai fatto? — Tallentyre si sforzò di trovare un insulto che aprisse una breccia nel muro di sfida del mago. — Sua madre morì in un ospizio per poveri, oppure fu semplicemente vittima del droit de seigneur? Allora Lydyard rimase senza fiato, e Franklin si adombrò per l'asprezza che la discussione aveva assunto. Forse lo stesso Tallentyre si rammaricò della frase nel momento stesso in cui la pronunciò, giacché non era malevolo e spietato per natura. Con il viso esangue, Harkender domandò, in tono di gentilezza ferale: — È dunque tanto deciso a ferirmi? — Signori — intervenne Franklin, per la prima volta — posso pregarvi di rinunciare a questa disputa? Quali che siano i contrasti fra voi, non serve sicuramente a nulla continuare a tormentarvi reciprocamente in questo modo. Il baronetto annuì brevemente, con soddisfazione di Lydyard, il quale immaginava con quanta riluttanza si mostrasse pentito: — Hai ragione, Gilbert. Mi scuso per quello che ho detto, Harkender. Sarebbe bene che fossi capace di dimenticare il motivo di antipatia che ebbi un tempo nei suoi confronti. Il mago non rispose subito, ma quando lo fece, la sua compostezza fu assoluta: — Suppongo che questa sia la scusa migliore che ci si possa aspettare da un Tallentyre. Ma se ciò può compiacerla, confesso di avere inflitto sofferenze ad altri. Ho sofferto per causa altrui, e ho cercato di vendicarmi danneggiando gli altri a mia volta. Avrei nuociuto anche a lei, se avessi potuto, e con una ferocia che le sarebbe parsa inesplicabile. Ma da allora ho imparato che talvolta la verità esiste persino nella banalità. Due mali non possono cancellarne un altro, eppure il bene può derivare dal male. Suppongo che, in un certo senso, dovrei essere lieto che la sua classe mi abbia insegnato il valore della sofferenza, anche se indubbiamente ha cercato d'insegnarmi soltanto, e per giunta in modo crudele, la follia delle mie aspirazioni. «Ma per rispondere alla sua precedente domanda, sappia che mia madre morì in un buon letto, in un modo niente affatto ignobile, e che io sono il
figlio legittimo di un matrimonio che non fu del tutto infelice. Non fu la povertà della mia famiglia a nutrire il mio odio, bensì la sua relativa ricchezza, giacché mio padre arricchì per mezzo della fortuna e dell'industria, quando le macchine prodigiose che lei venera trasformarono l'Inghilterra in una generatrice di progresso. Adorava l'aristocrazia, e ambiva a rendermi degno di appartenere alla sua classe privilegiata... Come se la mera ricchezza potesse compiere un tale miracolo alchemico! Mi fece studiare, e, come lei ben sa, mi inviò ad Oxford. Se volesse, potrebbe immaginare quali forze contribuirono a formare la mente e lo spirito che sembravano, e sembrano tuttora, tanto volgarmente diaboliche alla sua sensibilità raffinata. — Sì, credo di poterlo immaginare — convenne Tallentyre, con tatto. — Ora spetta a me essere scettico — ribatté Harkender, senza umorismo. — Potrebbe dedurre i fatti, ma non credo che riuscirebbe davvero ad immaginare la realtà di cui tali fatti sono nulla più che la superficie. — Ciò detto, si volse a Lydyard, che stava meditando sulle implicazioni della sua dichiarazione, e gli disse, quasi con noncuranza: — Sir Edward mi conobbe all'epoca in cui divenni abbastanza adulto per infliggere dolore, oltre che per soffrire. Sarei stato felice di portare il Diavolo sulla Terra, allora. Tuttora vengo talvolta paragonato, nei pettegolezzi, a Dashwood, ma il fuoco infernale che ardeva nell'anima di costui era nulla, rispetto all'inferno che ribolliva nella mia. Ormai, comunque, ho deviato le mie energie in altre direzioni: sono un costruttore, più che un distruttore. Proprio per questo sono avversario dei licantropi. Se sir Edward intende lasciarsi coinvolgere ulteriormente in questo affare, sono certo che potremmo opporci più efficacemente ai nostri nemici unendo le nostre forze. Se davvero si è ripreso dalla sua esperienza nel deserto, signor Lydyard, ne sono felice. In caso contrario, sono certo di poterla aiutare. Venga a Whittenton, quando può. Imbarazzato, Lydyard annuì, per obbligo di cortesia. Tuttavia, non poté fare a meno di rammentare l'avvertimento di Paul Shepherd, né di ignorare la strana ombra sul muro. Senza mostrarsi insoddisfatto dell'imbarazzo del giovane, Harkender posò di nuovo il proprio sguardo sconcertante sul baronetto: — Mediti sulla mia offerta, sir Edward. Non ordisco nessun tradimento. Anzi, come pegno della mia sincerità, sono disposto a rivelarle come trovare coloro che mi considerano dannato, affinché lei possa confrontare il mio racconto con il loro. — Strappò un foglio dal proprio taccuino, lo posò su un bracciolo
della poltrona, e vi scribacchiò qualcosa con una matita. Poi non lo porse a Tallentyre, bensì a Lydyard: — È l'indirizzo del convento dell'ordine di Sant'Amycus, qui a Londra. Se le diranno che cosa sanno dei licantropi, forse sarà più incline a preoccuparsi del fatto che Mandorla ha in custodia Gabriel. In silenzio, Lydyard prese il foglietto. Poi, mentre Tallentyre si alzava per suonare il campanello e chiamare il maggiordomo, e Harkender si alzava a sua volta, notò con piacere che l'ombra misteriosa sul muro aveva perduto ogni somiglianza con un ragno. Eppure non riuscì a reprimere un brivido di premonizione, doloroso e inequivocabile: senza dubbio avrebbe avuto ancora a che fare con quella mostruosa creatura di tenebra. 6 All'indirizzo che Harkender gli aveva fornito, Lydyard trovò una casa isolata, cinta da un muro alto, in un cupo viale ombreggiato da sicomori. Smontato dal cab, chiese al vetturale di attendere. Era solo, perché Tallentyre aveva dovuto occuparsi di affari rimandati fin troppo a lungo. Suonò il campanello accanto al portone ad arco, e attese. Dopo un poco, quando uno spioncino ad altezza d'uomo fu aperto in uno dei due battenti, si lasciò pazientemente osservare, anche se gli sembrò che l'ispezione durasse più del necessario. Finalmente, gli fu chiesto: — In che cosa posso servirla? — Vorrei parlare con frate Zefirino. Il mio nome è David Lydyard. Devo riferire della morte di un membro del vostro ordine. — Sono spiacente, ma questo è un luogo religioso: ai laici non è permesso entrare. — Me ne rendo conto, e normalmente non chiederei di infrangere la regola. Tuttavia è necessario che io parli al vostro priore. Un vostro confratello è morto nel tentativo di scoprire qualcosa che io sono ora in grado di rivelarvi. Inoltre, sono in possesso di alcuni suoi effetti personali che devo restituire, incluso un anello con il monogramma OSA. La persona a cui mi riferisco si faceva chiamare Francis Mallorn. — Attenda — rispose il portinaio invisibile, con una perentorietà irritante, prima di chiudere lo spioncino con un tonfo. Trascorsero almeno tre minuti prima che lo spioncino fosse riaperto. Lydyard si preparò ad essere sottoposto di nuovo a una lunga ispezione. Pochi istanti più tardi, però, una chiave girò nella serratura e un battente fu
aperto verso l'interno. Il giovane visitatore fu accolto da due uomini in saio, con la tonsura: il primo era di mezz'età, alto e magro, simile nella corporatura a sir Edward Tallentyre; il secondo era più basso e più giovane, con i capelli neri come il giaietto. Il secondo frate osservò Lydyard con evidente diffidenza, ma il primo lo invitò con un gesto ad entrare: — Sono il priore di questa casa. Il mio nome, come credo che già sappia, è Zefirino. — Grazie per avermi ricevuto. — Siamo noi che dobbiamo ringraziare lei — rispose cortesemente Zefirino. — Abbiamo saputo, tramite altre fonti, del triste decesso del nostro confratello, ma i dettagli di quello che gli è accaduto ci sono stati forniti in maniera angosciosamente confusa. Inoltre, è molto gentile da parte sua restituirci i suoi effetti personali. Spero che non le dispiaccia troppo, se non l'accolgo in casa. Suppongo che potrei fare eccezione alla regola, se volessi, ma preferisco che lei mi accompagni a passeggiare in giardino: questa soluzione costituirà un precedente più accettabile. Quando Lydyard ebbe dichiarato che non gli dispiaceva affatto, il priore lo condusse lungo il lato della casa, mentre l'altro monaco, che non era stato presentato, scompariva nell'edificio tramite una porta posteriore. Dietro la casa, sentieri selciati conducevano fra gli orti. Zefirino accompagnò Lydyard quasi al centro del giardino. Con un gesto, lo invitò a sedere su una panca, di spalle alla casa, poi gli sedette accanto, e chiese: — Posso avere l'anello? — Certamente. Il priore intascò l'anello e i documenti appartenuti a Francis Mallorn, quindi esaminò brevemente l'utchat, senza prestare particolare attenzione al disegno. Infine tacque, in attesa che parlasse Lydyard. Questi, però, non sapeva che cosa dire. Era certo che Tallentyre avrebbe iniziato immediatamente ad interrogare Zefirino sulla vicenda misteriosa in cui erano rimasti coinvolti, però aveva sempre avuto difficoltà a violare le norme della cortesia e della consuetudine per andare direttamente al nocciolo della questione. Inoltre, anche se la sua fede religiosa era stata fatalmente indebolita dall'influenza dello scetticismo di Tallentyre, era ancora incline a sentirsi umile e intimidito alla presenza dei funzionari della Chiesa. Finalmente, con esitazione, Lydyard esordì: — Sono stato educato alla fede cattolica, però non avevo mai sentito parlare del vostro ordine, né del santo da cui esso prende il nome.
— La nostra esistenza e il nostro scopo costituiscono un segreto che pochi hanno il privilegio di conoscere — confessò Zefirino, abbastanza amabilmente. — E riconosco che non abbiamo nessuna autorizzazione che il papa attuale sarebbe disposto a sancire. Nondimeno, siamo buoni cristiani, e siamo certi che, agli occhi di Dio, il santo da cui prendiamo nome è degno del nostro rispetto. Poiché questa risposta non fornì alcun appiglio per continuare la conversazione, Lydyard comprese di dover trovare la forza di iniziare l'interrogatorio: — Nelle notizie che ha ricevuto sulla morte di padre Mallorn, viene menzionato anche il mio nome? — Sì. In ogni modo, nell'ultima lettera che ci inviò, frate Francis ci informò di aver conosciuto tre Inglesi, e ci fornì i nomi di tutti voi. Era particolarmente contento di aver ottenuto l'aiuto di sir Edward Tallentyre. — Mi sembra strano... — Lydyard provò un lieve risentimento, poiché appariva evidente che Mallorn si era servito di lui e dei suoi compagni per i propri scopi. — Proprio perché sir Edward, un tempo, è stato cattolico, la sua conversione all'ateismo si è accompagnata alla determinazione di denunciare strenuamente l'assurdità della fede della Chiesa romana. Perché mai un religioso dovrebbe essere contento di unirsi a un uomo del genere? E perché mai frate Mallorn c'ingannò, mentre la religione esige onestà? — Credo che, se ricorderà esattamente le sue parole, scoprirà che frate Francis non vi mentì affatto. E se mantenne alcuni segreti, lo fece soltanto perché i suoi voti gl'imponevano di non rivelarli. Sono certo che i gesuiti, i quali le hanno insegnato a rispettare la verità, le hanno insegnato anche che mantenere i propri impegni è una virtù. Frate Francis era contento di avere l'aiuto di un uomo come sir Edward, a causa del rispetto che nutriamo per la potenza della razionalità e del dubbio. Non sapeva che cos'avrebbe trovato alla meta, ma temeva che la sua stessa disposizione a credere potesse impedirgli di vedere con sufficiente chiarezza. Ecco perché sapeva che la compagnia di un uomo con un punto di vista del tutto diverso gli sarebbe stata d'aiuto: accade talvolta che due persone che vedono le cose in modo diverso, possano giungere a una migliore comprensione insieme, anziché singolarmente. Poiché i gesuiti presso i quali aveva studiato sostenevano la supremazia assoluta del punto di vista della fede, Lydyard pensò che il discorso di Zefirino suonasse sospettosamente eretico. Per giunta, sapeva che Tallentyre era ugualmente convinto della supremazia assoluta della ragione e della scienza. Dopo un breve silenzio, domandò: — Il suo voto di segretezza le
impedisce forse di spiegarmi perché frate Francis volle recarsi in quella valle, nonché di darmi consiglio su certi problemi sorti dalla nostra avventura laggiù, i quali continuano a turbare le nostre vite? Inviandomi qui, sir Edward mi ha incaricato di porle alcune domande... Educatamente, Zefirino manifestò la propria sorpresa, come se quello che gli era stato appena detto gli sembrasse quasi incredibile: — Sir Edward le ha dato incarico di chiedere consiglio a noi? Lo credevo convinto che gli uomini superstiziosi, quali sicuramente ci considera, vivono in un mondo di fantasia che li rende liberi di affermare tutto quello che vogliono... Di che aiuto potrebbe mai essere il nostro consiglio a un uomo come lui, il quale ha dichiarato pubblicamente che non sopporterebbe di essere costretto a condividere le concezioni dei poveretti che credono nei miracoli? Il priore aveva parlato in tono estremamente gentile, anche se beffardo, perciò Lydyard non poté fare a meno di essere divertito dal suo discorso: — Non sapevo che i monaci acquistassero la Quarterly Review... Credo, comunque, e sir Edward è del mio stesso parere, che abbiamo bisogno del vostro consiglio: saremmo lieti di ottenerlo. Dopotutto, il vostro ordine deve assumersi almeno in minima parte la responsabilità per l'imbarazzo creato dalla mia presenza qui, giacché fu padre Mallorn a coinvolgerci nel suo progetto. Non abbiamo forse diritto a qualche spiegazione? — Forse sì — convenne Zefirino. — Mi dispiace che frate Francis si sia servito di voi, soprattutto perché sembra che ciò sia costato la vita a William de Lancy, e che abbia inoltre causato problemi e sofferenze a lei, signor Lydyard. Se non sbaglio, è stato morso da un serpente, e con gravi conseguenze... — È vero. Ma per quanto possa sembrare strano, non so, in realtà, quanto siano gravi le conseguenze. Questo, infatti, è uno dei problemi su cui speravo di ricevere consiglio: per me stesso, più che per sir Edward. Credo di avere informazioni da offrire in cambio, anche se non intendo certo insinuare che lei sarebbe interessato a un volgare baratto. A sua volta divertito, Zefirino sorrise, senza tuttavia rispondere. — Manterrò qualunque impegno di riservatezza che lei mi chiederà di assumere, però le domando il permesso di riferire quello che mi dirà a sir Edward e al suo amico, Gilbert Franklin. Le offro un resoconto completo e sincero di ciò che accadde la notte della morte di frate Mallorn. In cambio, come ho detto, le chiedo consiglio su come comprendere meglio quello che ci è successo.
Per un lungo momento, Zefirino scrutò placidamente il giovane, prima di chiedere a sua volta: — Chi vi ha informati dell'esistenza di questo ordine, nonché di come trovare questa casa? Con assoluta sincerità, Lydyard rispose: — Jacob Harkender ci ha fornito questo indirizzo, ma l'uomo che ci ha rivelato la vostra esistenza si faceva chiamare Paul Shepherd. Credo che costui sia conosciuto anche come Pelorus. — Ah... — mormorò Zefirino. — Sa che cosa è Pelorus? — È uno dei licantropi di Londra — rispose Lydyard, in tono pacato. — Però sembra che si sia estraniato dagli altri della sua razza. — Questo può essere vero. L'esempio del nostro santo patrono c'insegna che esistono inumani i quali servono Dio, e le cui anime sono, ai Suoi occhi, uguali alle nostre. La storia del nostro ordine ci suggerisce che Pelorus non è una creatura malvagia, anche se gli altri della sua razza indubbiamente lo sono. — Acconsente, dunque, a consigliarci? — Risponderò alle sue domande nel modo più completo, per quanto mi sarà possibile. Ben consapevole di quanto tale risposta fosse evasiva, Lydyard la accettò senza discussioni. Innanzitutto, formulò una domanda di cui prevedeva la risposta: — Perché frate Francis volle recarsi nella valle che Jacob Harkender aveva già visitato dieci anni prima? — Perché abbiamo sempre creduto che Harkender sia fra coloro il cui compito consiste nel preparare l'avvento dell'Anticristo, e perché ci è sembrato che quella spedizione facesse parte della sua missione. — Come avete scoperto lo scopo della spedizione? — domandò subito Lydyard. — Abbiamo i nostri veggenti, o i nostri maghi, se preferisce. Ebbene, essi, nelle loro visioni, colsero avvertimenti di un mutamento imminente, i quali alludevano non soltanto ad Harkender, bensì anche all'Egitto. — E anche ad Hudlestone Manor? Il priore, che non si lasciava abbindolare tanto facilmente, distolse gli occhi chiari dall'infinito, che aveva fissato sino a quel momento, e scrutò in viso il giovane: — Che cosa sa di Hudlestone Manor? — Sappiamo del fanciullo che vi fu condotto da Harkender — rispose risolutamente Lydyard. — Ci è stato spiegato che fu concepito durante la spedizione di Harkender in Egitto, e che il suo concepimento fu connesso ad un rito magico eseguito dallo stesso Harkender. Sappiamo che è stato
indotto a lasciare Hudlestone, oppure rapito, e forse dai licantropi di Londra. — Allora sapete già tutto quello che avrei potuto dirvi. — Tranne una cosa — obiettò pacatamente Lydyard. — Non sappiamo se voi credete che il fanciullo sia l'Anticristo. — Nel pronunciare queste parole, si rese conto, con imbarazzo, che suonavano bizzarre. Per di più, ebbe l'imbarazzante certezza che quello strano monaco le prendesse del tutto sul serio. — Non sappiamo che cosa sia il fanciullo — dichiarò Zefirino, con voce calma. — Però quella che lei ha suggerito è una possibilità reale. Jacob Harkender non lo crede, perché non sa di quale potere si nutre la sua volontà di vendetta. Neppure lei lo crede, signor Lydyard, nonostante il suo scrupoloso tentativo di mostrarsi neutrale a mio beneficio. — Sono di mentalità aperta — obiettò Lydyard. — Anzi, la mia mente, negli ultimi tempi, si è aperta molto più di quanto desiderassi. Sinceramente, però, non so che cosa credere a proposito della reale esistenza dei licantropi, o dei poteri della vista magica. Da quando fui morso da quel serpente, anch'io ho spesso le visioni, benché non osi confidare interamente in quello che vedo, o in quello che mi è stato detto. Comunque, a prescindere da quello che credo, sarei felice di avere il suo consiglio, frate Zefirino, su quello che potremmo fare a proposito di Harkender e del fanciullo. Infatti, Harkender è venuto da noi a chiedere aiuto per liberarlo dai licantropi. Il priore si alzò, si rassettò la tonaca, sedette di nuovo, poi, pensosamente, si posò un dito sulle labbra: — Non fate nulla — consigliò, in tono risoluto. — Non potete far nulla che possa mutare la conclusione predestinata di questa vicenda. Non dovete far nulla, tranne ritrovare l'armonia con Dio. Si rappacifichi con la fede, signor Lydyard, ed esorti sir Edward a fare altrettanto. — Mi vuole forse dire che anche voi non intendete far nulla? — Questo è un argomento di cui non posso parlare. Benché frustrato da questa reticenza, Lydyard si rese conto che sarebbe stato inutile insistere: — Quello che preoccupa Pelorus, e anche me, è la seconda creatura, comparsa nella valle, laggiù in Egitto. Cos'ha a che fare con il fanciullo, e con noi? Se il fanciullo è l'Anticristo, che cos'è mai quell'entità? La Bestia della Rivelazione, oppure Satana incarnato? — Non possiamo esserne certi, tuttavia l'avvento della Bestia è chiaramente profetizzato, e forse in questo evento non c'è nulla di sorprendente. Saremmo maggiormente in grado di giudicare se sapessimo con e-
sattezza che cosa accadde prima della morte di frate Francis. Se non sbaglio, è questa l'informazione che lei ha promesso di fornirmi. Pur non essendo in alcun modo soddisfatto di quello che gli era stato offerto in cambio sino a quel momento, Lydyard non esitò: raccontò tutto quello che era accaduto nella valle, aggiungendo brevi resoconti dei propri incubi, nonché narrando il risveglio di Pelorus. Infine ripeté: — Sono di mentalità aperta — e non riuscì a trattenersi dal soggiungere: — Nonostante gli sforzi che compirono i gesuiti per chiudermi la mente. Esagerano, nell'affermare che un giovane educato da loro durante gli anni in cui è maggiormente impressionabile appartiene a loro per sempre. Non so nulla, neppure nel recesso della mia anima di cui i miei maestri cercarono d'impadronirsi, di tutto quello in cui la fede impone di credere, perciò credo che lei possa capire in quale tumulto d'incertezza mi trovo. — Forse ha rifiutato quello che i gesuiti le hanno insegnato, ma sicuramente non è sfuggito alla loro influenza — obiettò Zefirino. — Persino lord Tallentyre non si è sottratto ad essa, come si può capire dai suoi articoli apparsi sulla Quarterly Review, nonostante l'ostilità che esprimono nei confronti della dottrina della Chiesa: ha perso la fede dei gesuiti, ma non la loro retorica e il loro fervore. Quando arriverà il giorno in cui entrambi dovrete scegliere sinceramente e profondamente tra la fede e l'oblio, entrambi comprenderete bene quale scelta vi si pone. Se mai Dio vi richiamerà alla fede, come chiamò Saulo sulla strada per Damasco, ritroverete tutto quello che i gesuiti vi hanno insegnato, senza esitazioni e senza omissioni. Se mai appartenete a qualcuno, appartenete a loro, per quanto ne dubitiate. Vi consiglio di prepararvi, perché forse quel giorno non tarderà a venire. Per nulla impressionato da questo breve sermone, Lydyard domandò: — Non si potrebbe supporre che la conclusione predestinata della vicenda si può evitare, o almeno che gli uomini hanno ancora un ruolo da svolgere nel determinare gli avvenimenti? — Potrebbe crederlo Pelorus, o anche Harkender, ma voi non dovete. La fede e la speranza testimoniano che Cristo ritornerà, per regnare sulla Terra per mille anni. Pregate per la vostra salvezza, e la otterrete. Non cercate di utilizzare la magia di Harkender, poiché essa è uno strumento di Satana, e vi sedurrebbe, conducendovi alla dannazione. Sottovoce, Lydyard replicò: — Le visioni che ho avuto recentemente potrebbero essere benissimo una forma di seduzione diabolica, poiché rivelano in me una simpatia nei confronti di Satana maggiore di quanto pensassi. D'altronde, sir Edward non condividerebbe mai questa interpretazio-
ne. — Senza dubbio. L'imminente trasformazione del mondo sarà esattamente quel genere di Atto di Creazione da cui sir Edward ha dimostrato, in un saggio che ha scritto, di essere tanto spaventato. Era evidente che tale prospettiva gli sembrava orrenda, anche se ha cercato di celare i propri sentimenti scagliando accuse contro la religione. L'ateismo è la sua difesa contro l'orrore di un mondo che può essere ricreato. Tuttavia, non può esservi difesa, come sanno tutti i veri uomini di scienza. Ha letto Hume, signor Lydyard? — Sì. — Lydyard accettò l'invito implicito a svolgere il ruolo di avvocato del diavolo. — Hume sostenne che la realtà di un miracolo non potrebbe mai essere dimostrata. Fu uno dei numerosi filosofi che furono spinti dalla ragione all'ateismo, ma che, per diplomazia nei confronti dell'intolleranza, non si dichiararono apertamente atei. — Forse — sorrise Zefirino. — Ma non fu lo stesso Hume a dimostrare che tutte le magnifiche leggi della scienza non sono meno effimere dei miracoli, in quanto nessun accumulo di prove basterà mai a renderle certe? — A renderle logicamente certe — convenne Lydyard. — Ma oggigiorno nessuno scienziato crede che la natura del mondo possa essere dedotta logicamente. È vero che, per una legge universale, possiamo osservare soltanto un numero finito di esempi, nondimeno, queste leggi si riferiscono a quello che ognuno può vedere nel mondo con i propri occhi, e qualunque costante osservabile concretamente, invariabilmente e frequentemente da tutti, è preferibile alla fede in qualcosa che non si è mai manifestato, tranne nei sogni di coloro che si sono autodefiniti profeti. Il mondo che vediamo con i nostri occhi si evolve e muta secondo processi di causa ed effetto: questo è tutto quello che possiamo sapere veramente. Per quanto mi riguarda, devo dire che non posso confutare questa concezione, anche se mi sembra che dentro di me si sia aperto un nuovo occhio, che minaccia di sommergermi di sogni che rivelano un mondo diverso, e assai meno certo. — Senza dubbio lei sa molto più di questo sui suoi limiti — obiettò dolcemente Zefirino. — Sa bene quale tipo di immagine proietta la lente del suo occhio sulla retina... — Un'immagine invertita. E allora? — E allora? Be', soltanto questo: l'occhio della sua mente, il suo occhio interiore, signor Lydyard, inverte di nuovo l'immagine, o meglio, la raddrizza: estrae la realtà dall'illusione creata dai suoi sensi. Non è forse un Atto di Creazione, quello che rovescia il mondo intero, affinché lei possa
vederlo diritto? Eppure lei si beffa di me perché credo in una trasformazione del mondo! «Il mondo visibile ai nostri sensi limitati e fallaci non è il mondo qual è in realtà, ma soltanto il mondo quale appare. Le sue dimensioni, la sua stabilità, la sua solidità e la sua coesione sono prodotti dei nostri occhi interiori, che un giorno ci permetteranno di vedere diversamente. Sir Edward vive ancora comodamente nel mondo che i sensi e la scienza hanno costruito per lui, convinto che l'alto sia al di sopra e che il basso sia al di sotto, e che questo sia quello che vede. Ma la comodità ci acceca tutti, e quando, per caso o per intuizione geniale, intravediamo il mondo qual è realmente, dobbiamo riconoscere che non vi è nulla di sicuro in esso: né le dimensioni, né la stabilità, né la solidità, né la coesione. Per quanto possa essere terribile e orrenda, questa è la verità, e l'unica speranza che abbiamo, è che la mano che guida la Creazione appartenga a un'entità che ci ama. — Sir Edward direbbe che questi sono soltanto sofismi. — Invece sono proprio quelli per cui lei è venuto qui: consigli. Si fidi del suo occhio interiore, signor Lydyard, giacché quello che esso vede è reale. Tuttavia si guardi dalle sue seduzioni, come pure dalle seduzioni del dubbio, poiché il male esiste nel mondo, e Satana è sempre ansioso di arruolare le anime degli uomini per la sua causa vana. Soltanto la fede può rivelarci quello che non ci viene rivelato dalla vista. Mi dispiace per lei, che deve sopportare il tormento della visione senza l'armatura della fede, ma non posso offrirle nessun'altra risposta. Siamo soltanto uomini, signor Lydyard, e per quanto possiamo aspirare a diventare Creatori, non possiamo usurpare questo privilegio: tutti coloro che tentano di farlo sono servi di Satana, che lo sappiano o meno. Torni a casa e preghi, signor Lydyard, e lasci Gabriel Gill ai licantropi, che spiritualmente gli sono affini. Non ha motivo di temere il fanciullo, né la Bestia che ha incontrato in Egitto, poiché essi non possono rubarle l'eredità che le appartiene in virtù della misericordia di Cristo: il regno dei Cieli, ormai prossimo. — Dopo una pausa, aggiunse: — La ringrazio ancora per avere restituito l'anello di frate Francis, e per avermi raccontato come morì. Ora la debbo lasciare, perché non posso dirle altro. Senza replicare, Lydyard si lasciò ricondurre al portone. Tuttavia, era deciso a porre un'altra domanda, prima di andarsene. Perciò si volse di nuovo al priore: — Crede che un uomo possa essere posseduto dal Diavolo?
— Assolutamente sì. E credo nel potere del rito dell'esorcismo, oltre a quello della preghiera. Ma la vista che le è stata concessa non è maligna in se stessa, signor Lydyard: non è suscitata da un demone inviato dall'inferno a punirla. Lei stesso è responsabile della sua propria salvezza: essa non può essere minacciata senza il suo permesso. Mentre il portone veniva chiuso e sprangato, Lydyard si allontanò a testa china. Poi, di scatto, alzò lo sguardo: al posto del cab attendeva una carrozza trainata da una pariglia di bai robusti. Al finestrino era affacciata la donna più bella che Lydyard avesse mai visto: aveva la chioma lunga e bionda, la carnagione pallida e perfetta, gli occhi viola. Scoprendo i denti bianchi e regolari in un sorriso enigmatico, la donna disse, con una dolcezza eccessiva e quasi disgustosa: — Mi sono presa la libertà di congedare il suo cab, signor Lydyard. La porterò ovunque desideri andare, e le sarei molto grata se mi offrisse l'opportunità di parlarle. Senza sapere perché, Lydyard arretrò d'un passo e guardò sospettosamente attorno. Poi osservò il vetturale, ma prim'ancora di riconoscere Perris, il fratello di Pelorus, indovinò chi fosse la donna: — Mandorla Soulier... — disse. Non sapendo che cos'altro aggiungere, si sentì lievemente sciocco. In silenzio, Perris raccolse il proprio bastone nero e lustro dal sedile accanto a sé, e sollevò il pomo d'argento modellato, quel tanto che bastava a mostrare un poco di lama: si trattava di un bastone animato. Di nuovo, Mandorla sorrise: — Monti, signor Lydyard — invitò, sempre con voce mielata. — Le prometto che non intendiamo farle alcun male. Freneticamente, Lydyard guardò attorno, chiedendosi che cosa sarebbe successo se fosse ritornato al portone e se si fosse messo a bussare violentemente, in preda al panico: i frati di Sant'Amycus gli avrebbero offerto rifugio? E se fosse fuggito di corsa, la carrozza l'avrebbe inseguito? In quell'istante, come per magia, da dietro il sicomoro che lo aveva nascosto fino a quel momento, con il braccio destro proteso, puntando una rivoltella, apparve Pelorus: — Posa il bastone, Perris, se non vuoi che ti faccia sprofondare in un lunghissimo sonno, assieme a Mandorla. E nel caso che tu sia tentato di commettere sciocche/ze, sappi che questa non è una stupida pistola da duello, bensì una rivoltella americana. Con questa, posso spedirvi facilmente tutti e due a compiere un viaggio nel remoto futuro, se questo è quello che volete. Nonostante il proprio sbalordimento, Lydyard si girò subito a guardare Mandorla, appena in tempo per cogliere sul suo viso un lampo fugace di
furore gelido e di odio terribile, prima che ella riacquistasse la propria compostezza. In un tono ancor più serico di quello che aveva usato poc'anzi, Mandorla replicò: — Oh, Pelorus... Desideravo tanto questo incontro. Da molti anni il desiderio di rivederti mi struggeva il cuore. Non puoi immaginare quanto mi rattristi scoprire che sei ancora tanto tragicamente soggiogato. Quanto saresti felice, se soltanto avessi la forza di volgere quell'arma contro te stesso! Senza manifestare in alcun modo di averla udita, Pelorus continuò a scrutare il fratello, minacciandolo con la rivoltella: — Parti, Perris! Subito, se non vuoi che la volontà di Machalalel mi faccia contrarre il dito sul grilletto! E Perris, senza attendere l'ordine di Mandorla, afferrò la frusta e la fece schioccare sonoramente: i cavalli scattarono all'istante e la carrozza si allontanò rumorosamente sulla strada ombreggiata. Come se dovesse davvero sforzarsi per non sparare, Pelorus continuò a mirare contro la vettura. Soltanto quando quest'ultima fu scomparsa oltre una curva, abbassò la rivoltella. Incapace di parlare, Lydyard rimase a fissare il proprio salvatore. — Torni a casa, signor Lydyard — suggerì Paul Shepherd, in un tono aspro e amaro che con estrema difficoltà avrebbe potuto contrastare maggiormente con quello usato poco prima da Mandorla. — E in futuro, ovunque vada, badi di essere sempre armato. Mia cugina è spaventata, e brama sapere che cosa intende fare la creatura che turba la sua mente. Per scoprirlo, la torturerebbe, e lo stesso farebbe Harkender. Ma rammenti che anche se Mandorla non può essere uccisa, i suoi piani sarebbero vanificati, se lei fosse obbligata a dormire. E una pallottola può imporle il sonno: non occorre che sia d'argento. — Ciò detto, girò sui tacchi e si allontanò. Quando si sentì chiamare, si fermò e si volse di nuovo, ma con un'espressione tale che David ne fu spaventato quasi quanto lo era stato dall'invito seducente di Mandorla: — Torni a casa, signor Lydyard — ripeté. — Tornerò da lei, se potrò farlo senza rischi, ma allora, forse, lei se ne rammaricherà. Sarei di gran lunga un amico migliore, se soltanto potessi lasciarla in pace. — Con questo congedo enigmatico e sinistro, colui che forse era un uomo lupo, e forse non lo era, si allontanò correndo in modo stranamente malfermo. In breve, scomparve. Poiché non poteva fare altrimenti, Lydyard se ne andò a sua volta, rapidamente, guardandosi alle spalle in continuazione, nel timore di scoprirsi
nuovamente inseguito dalla carrozza trainata da due robusti bai. 7 Passeggiando insieme a Cordelia lungo la Serpentine, verso Long Water e i giardini di Kensington, Lydyard non poté fare a meno di guardarsi alle spalle di quando in quando per accertarsi di non essere seguito. Non aveva nessuna prova di essere pedinato, tuttavia era incapace di rilassarsi. Era continuamente assediato da un'inquietudine che si manifestava spesso, fisicamente, con una vaga sensazione di vertigine, fin dalla notte fatale fra le mastabe, ma che comunque non era mai stata tanto persistente e tanto opprimente quanto in quel momento. Il giorno precedente, aveva consultato Franklin, ma il suo resoconto degli incubi, velato e piuttosto imbarazzato, aveva lasciato perplesso il dottore, il quale non aveva potuto fare altro che bisbigliare qualcosa sui «nervi» e suggerire dosi leggere dì laudano per facilitare il sonno. Naturalmente, Lydyard non aveva preso il laudano: i suoi sogni erano già abbastanza vividi senza tale incoraggiamento. — È mostruosamente ingiusto — affermò Cordelia. — Siamo usciti affinché tu potessi rilassarti un poco ed evitare le discussioni incessanti con papà e con il dottor Franklin, eppure presti più attenzione a chissà quale fantasma alle nostre spalle, che a me. E per aggiungere l'insulto al danno, sembri deciso ad imitare il rifiuto noncurante di mio padre a spiegare alla moglie e alla figlia a quale mistero dedicate entrambi tanto tempo e tante energie. — Mi dispiace — rispose Lydyard. — Quando lasciammo la valle delle tombe e dei serpenti per tornare a Wadi Halfa, speravo che la nostra brutta avventura sarebbe rimasta soltanto un ricordo, e mi aspettavo che sir Edward ed io avremmo risolto abbastanza facilmente quello che restava del mistero, come se si trattasse di un mero esercizio intellettuale. Purtroppo, i miei guai non sono finiti quando siamo giunti alla costa nebbiosa dell'Inghilterra: la febbre che ho contratto in Egitto mi tormenta ancora. D'altronde, ciò non è affatto insolito, quindi non devi preoccuparti troppo. Allora Cordelia si fermò. Lydyard fece altrettanto e si girò parzialmente a guardarla. Per un attimo, Cordelia gli accarezzò gentilmente una guancia con una mano guantata di bianco, benché non sembrasse affatto contenta di lui: — Povero David — mormorò, in un tono più di rimprovero che di simpatia.
— Sostieni che i tuoi guai non sono affatto insoliti, e mi dici di non preoccuparmi. A me, invece, sembra che i tuoi guai siano tanto insoliti, che non osi confidarne la natura e la gravita a nessuno di noi. Papà è preoccupato per te, sai? E non è tipo da preoccuparsi per nulla. — Senza dubbio mi giudica debole — osservò Lydyard, quietamente. — Pensa che tu non abbia ancora smaltito completamente il veleno — corresse Cordelia. — Sa che soffri di incubi terribili. Non devi vergognarti di essere malato, David: nessuno ti biasima per questo. — In se stessa, la febbre non è una colpa. Tuttavia, ogni genere di avversità rivela le debolezze delle persone. Benché sia soltanto una fantasia, un incubo ha il potere di traviare: minaccia di colmare il mondo di fantasmi, e di distruggere le fondamenta dell'equilibrio mentale. Nei sogni, è fin troppo facile credere all'impossibile, e quando invadono con troppo vigore la mente, i sogni rischiano di traboccare dal sonno alla veglia, come un acido che corrode le basi della razionalità. Ogni giorno mi sveglio con la speranza di migliorare, ma ogni giorno mi sembra di peggiorare. Non so come combattere questo veleno, ammesso che si tratti di un veleno, né so come difendermi dalla sua devastazione. — E io non dovrei preoccuparmi troppo, secondo te? Il tono afflitto della ragazza fece trasalire Lydyard: — Soltanto io posso oppormi ai tormenti degli incubi di cui sono vittima: non posso che essere solo. — Ciò detto, pensò: E questa è la sostanza del problema: nell'arena dei sogni, sono solo. Qualunque mostro mi faccia visita, debbo affrontarlo da solo. Se soltanto... — Durante la veglia, però, non sei costretto ad essere solo: anzi, non devi chiuderti nell'isolamento di queste meditazioni tormentose. Non devi cercare di nasconderti, David: non da mio padre, e non da me. Oppure i tuoi sogni mi hanno trasformata ai tuoi occhi? Nei tuoi incubi, sembro forse un'arpia o una gorgone? È per questo che sopporti a stento di guardarmi? — Così dicendo, Cordelia allungò di nuovo una mano e, molto gentilmente, obbligò Lydyard a osservarla: aveva gli occhi calmi e castani del padre, e i lineamenti dolci della madre. Era bellissima, ma la sua bellezza gentile non aveva nulla della maliziosità e del fascino di quella di Mandorla Soulier. Nel momento in cui la ragazza lo toccò, Lydyard arrossì. Imbarazzato, sorrise, e d'improvviso disse, con tenero ardore, lasciando trapelare il proprio affetto: — Niente affatto! Nei miei sogni, sei sempre l'angelo sfolgorante della misericordia, che scende a proteggermi dall'angelo tenebroso
della sofferenza. Non sto mai così bene come quando tu sei con me: persino in sogno. Per sottrarsi timidamente all'empito d'intimità che aveva provocato, Cordelia s'incamminò di nuovo. Poi schioccò lievemente la lingua, per mostrare di essere obbligata a trascurare il complimento: — Non ti ho mai visto tanto abbronzato — commentò, in tono scherzoso. — Mentre noi eravamo qua in Inghilterra a sopportare le nevi dell'inverno e le brume di Londra, tu eri in Egitto a crogiolarti al sole. Torni a casa abbronzato come un dio greco, trovi i gelidi venti settentrionali che spirano ancora ad aprile... e dichiari di essere malato! Notando che Cordelia sembrava a disagio, Lydyard capì che era irritata con se stessa, proprio come si era irritato lui quando si era tradito pronunciando banalità di quel genere: — Dopotutto, non sono un invalido che tossisce in continuazione — rispose. — Sono soltanto avvelenato. A quanto pare, sono diventato indebitamente attraente per i serpenti, quindi mi aspetto che tutte le vipere d'Inghilterra stiano correndo a Lancaster Walk, nella speranza d'incontrarci là. — Per le vipere, si dovrebbe andare a Regent's Park. — Tranne quelle che la Medusa aveva per chioma. — Credo che per quelle sia meglio Green Park — replicò Cordelia, nello stesso tono scherzoso di David. — Specialmente quando è buio. Allora Lydyard arrossì lievemente, perché vi erano cose che le ragazze oneste non avrebbero dovuto sapere, o che avrebbero dovuto fingere di non sapere. Sul ponte, i due giovani sostarono ad osservare coloro che remavano in barca. Il parco era molto affollato, perché era la prima domenica soleggiata di primavera, e il vento, benché fosse ancora piuttosto freddo, non era più tanto tagliente da indurre la gente a rimanere in casa. Nella Rotting Row e nel Ring trottavano parecchi cavalli. La musica della banda militare si udiva ancora, fiocamente, in lontananza, nonostante il mormorio di mille conversazioni. È questo il mondo che presto finirà? pensò Lydyard. E i demoni che lo spegneranno, camminano forse tra questa folla, in questo stesso momento? Era impossibile crederlo: la pura quotidianità della scena costituiva una tirannia che sfidava qualunque sovversione ingannevole. In quel luogo, frate Zefirino e Jacob Harkender potevano essere ricordati soltanto come pazzi o come visionari.
D'altronde, che cosa sono io? pensò Lydyard, prima di dichiarare, in tono più serio di poc'anzi: — Mi dispiace che il nostro ritorno sia stato rovinato dalla mia malattia e dai nostri stupidi intrighi. Avrei certamente preferito una riunione più allegra. — Oh, no — obiettò Cordelia. — Erano anni che non vedevo papà tanto appassionato. Non è mai felice, a meno che la sua sensibilità sia tanto offesa da suscitare la sua indignazione. Però la mamma terne che i suoi affari ne soffriranno, se continuerà ad affrontare il lavoro con tanta impazienza. — Per essere un letterato — rise Lydyard — sir Edward è insolitamente aggressivo. Dalla demolizione di un'assurdità o di un concetto fragile, trae la stessa soddisfazione che altri traggono dalla caccia alla volpe o dalla caccia grossa. Ma non è soltanto la consuetudine del lavoro a renderlo impaziente. Il mistero di quello che ci accadde in Egitto, e delle sue cause, sta diventando un garbuglio assurdo e inestricabile: tuo padre non scorge nessuna speranza di poter trovare una soluzione soddisfacente, perciò s'inquieta. Aborrisce i problemi irrisolti non meno di quanto la natura, come si dice, aborrisce il vuoto. — E per te sarebbe diverso, invece? — domandò Cordelia, con voce tagliente. — Mentre lui si spazientisce, tu ti angosci! Pur desiderando moltissimo celare la propria angoscia, Lydyard non poté negarla: — Vorrei che tuo padre ed io fossimo più simili — rispose, indirettamente. — Desidero molto la sua stima, ma non posso reagire come lui ai problemi che lo entusiasmano. Le meraviglie dell'Egitto hanno impressionato anche me, come tutti i visitatori, però il caldo e gli insetti hanno diminuito il mio senso del meraviglioso in una misura tale che mi vergogno a confessarlo. Tuo padre è un esploratore e uno studioso per natura, mentre io... Non so affatto che cosa sono, o che cosa posso diventare. Sir Edward è stato tanto gentile da trattarmi come un figlio, quindi non vorrei mai deluderlo. Tuttavia temo di non avere le capacità per essere all'altezza di quello che lui si aspetta da me. Nel pronunciare queste parole, Lydyard si rese conto di sembrare troppo tetro, quando invece avrebbe dovuto sforzarsi di più, per il proprio bene, oltre che per quello di Cordelia, di essere allegro e divertente. Infatti, era consapevole, e ciò lo imbarazzava, del fatto che Tallentyre si aspettava che la ragazza non venisse affatto coinvolta nel mistero: il suo codice di comportamento imponeva che le mogli e le figlie fossero protette non soltanto da ogni pericolo, bensì anche da ogni angoscia e preoccupazione. — Purtroppo — confessò Cordelia, in poco più che un sussurro — io
stessa, dall'istante della mia nascita, non sono mai stata all'altezza delle sue aspettative. Lo stesso vale per mia madre, che si è resa incapace di dargli altri figli, e ha maliziosamente rifiutato di lasciarlo vedovo. Sinceramente offeso per il tutore, Lydyard ribatté: — Non dovresti dire queste cose! — È vero, non dovrei. E non è forse vero che il fato ha rimediato al fallimento del sacro matrimonio, concedendo a mio padre il miglior figlio che qualunque genitore possa desiderare? A questo, Lydyard non seppe che cosa rispondere. Dopo un breve silenzio, Cordelia domandò: — L'angelo tenebroso del dolore ti visita spesso in sogno? — Sì, spesso — replicò Lydyard, con voce pacata. — Ma non può toccarmi, finché l'angelo sfolgorante della misericordia gli si oppone. Non capisco affatto perché sono tanto consapevole della sua vicinanza. — Papà mi ha mostrato il serpente che ti morse. Mi è sembrato molto piccolo: è stato facile schiacciarlo sotto un tallone. — Credo proprio che sia stato il serpente ad avere la peggio... Tuo padre ha ancora intenzione di farlo esaminare? — Certo. Però ha dovuto rimandare, per il momento. Perché Jacob Harkender è venuto a fargli visita, l'altro ieri? Senza lasciarsi prendere alla sprovvista, Lydyard rispose evasivamente: — Credo che si proponesse di ricomporre un'antica disputa. Sir Edward non mi ha spiegato esattamente quale contrasto ebbero, ma credo che sia quasi persuaso a perdonare Harkender. — Non posso credere che si sia trattato soltanto di questo — ribatté Cordelia, irritata. — Ma se non hai intenzione di rispondermi, immagino di dovermi accontentare. Senza dubbio riuscirò a sapere qualcosa di più dai pettegolezzi della servitù, come sono costrette a fare le donne di solito. — Allora spero che i servi siano in grado d'interpretare l'accaduto meglio di me — disse Lydyard, petulante. — Comunque, vorrei che tu non cercassi di estorcermi quello che sir Edward mi ha proibito di rivelare. Ti ho condotta a passeggiare proprio per sfuggire temporaneamente a tutta questa faccenda. Accigliata, Cordelia rimbeccò, in tono tagliente: — Mi dispiace che non mi consideri un mezzo di fuga più adeguato alle tue necessità. E non credere che io ti biasimi perché obbedisci a mio padre. Suppongo di essere ancora risentita perché a sir Edward Tallentyre non è mai passato per la mente che forse anche sua figlia sarebbe stata non meno felice del suo pu-
pillo di vedere le meraviglie del mondo antico. E adesso che mi vedo esclusa dalle vostre torve discussioni su quello che vi è accaduto laggiù, ho l'impressione che al danno si aggiunga l'insulto. Indubbiamente, sbaglio nell'irritarmi per il fatto che vengo giudicata indegna di considerazione: piuttosto dovrei sentirmi umilmente felice di poterti essere utile nel distrarti dalle tue angosce. Probabilmente abbiamo entrambi un terribile bisogno di passeggiare nel parco e di dedicarci a null'altro che alla conversazione arguta e al corteggiamento. Questo parere coincideva tanto esattamente con il suo, che Lydyard trasalì. Imbarazzato e confuso, non riuscì a fare altro che ripetere: — Corteggiamento?! Ma io non... — E tacque, rendendosi tardivamente conto che, qualunque cosa avesse negato, si sarebbe dimostrato scortese nel migliore dei casi. — So fin troppo bene, purtroppo — riprese subito Cordelia, in tono sarcastico — che non hai nessuna intenzione di corteggiarmi. Non hai ancora appreso quest'arte. Ma non dovresti permettere che ciò ti renda ipocrita. Tutti si aspettano che tu mi corteggi gradualmente, con la massima cortesia, progredendo inesorabilmente dalle caste manifestazioni di affetto che si potrebbero riservare a una cugina, sino a giungere infine alla proposta di matrimonio. Lo sa mio padre, lo sa mia madre, e lo sai tu, anche se ti stai ancora chiedendo come e quando riuscirai mai a trovare il coraggio di andare fino in fondo. Senza dubbio, ognuno di noi ha motivi diversi per approvare questo progetto, ammesso che lo approviamo. Ma tutti sappiamo che il tragitto si stende dinanzi a noi lastricato di buone intenzioni come la strada per l'inferno, anche se dobbiamo sperare che il tempo lo condurrà a una destinazione più desiderabile. Ti prego di farmi il favore di rifiutare di fingerti sconvolto o innocente. Anziché ridere allegramente, come avrebbe voluto, e sfruttare in modo adeguato l'occasione che gli veniva offerta di essere gentile e disinvolto, sciorinando una litania gioiosa di complimenti, Lydyard tacque, ammutolito dall'imbarazzo. Fu costretto a girarsi, come se avesse visto qualcosa di eccezionalmente affascinante, convinto che uno qualunque degli innumerevoli zerbinotti che passeggiavano nel parco sarebbe stato in grado di comportarsi meglio, e dunque sentendosi profondamente infelice. Quando riuscì infine a rispondere, disse soltanto: — Confesso di avere intravisto la carta di quel tragitto, ma non sapevo che tutti l'avessero già esaminata a piacimento. — E io, dichiarandolo, ti ho ferito. E adesso devo trattenermi dal pren-
derti in giro, per timore di farti soffrire maggiormente. Avere un innamorato timido è peggio che essere morsa da un serpente! — Credevo che fosse stata Cordelia ad essere ingiustamente rimproverata di essere una figlia ingrata — rispose Lydyard, sicuro che l'esegesi shakespeariana fosse adeguata. Ma subito dopo rovinò l'effetto aggiungendo: — Ma se siamo innamorati, e uno di noi è timido, non sei certo tu. — Quel «se» è stato molto volgare — commentò Cordelia. — Anche se non ti sei mai preso il disturbo di dirmi che mi ami, fingere che forse non è così può soltanto aggiungere il danno all'insulto. — Ritiro il «se» — si affrettò a dichiarare Lydyard, desiderando con fervore di poter trovare in sé abbastanza eloquenza per rimediare agli errori commessi, benché tardivamente. — E adesso che so che la mappa del nostro destino è tanto precisa quanto quella della ferrovia sotterranea, chiederò certamente a tuo padre il permesso di corteggiare la sua figlia preferita. — Prima dovrai chiedere il permesso a me — replicò Cordelia, con una levità inferiore a quella in cui Lydyard aveva sperato. — Inoltre devo meditare a lungo, prima di decidere se voglio essere corteggiata da un uomo che custodisce tanti segreti, e preferisce dedicarsi a chissà quali misteri, anziché alla compagnia della donna di cui si suppone che sia innamorato. Comprendendo che l'esortazione era seria, Lydyard rispose, con voce grave: — Non posso dirti nulla. Anche se non mi fosse stato proibito, si tratta di una faccenda troppo bizzarra. Ci sono state fornite diverse spiegazioni di quello che ci accadde in Egitto, ma sono tutte talmente fantastiche, che sembra non esservi speranza di giungere alla verità. A volte, sono quasi convinto di essere ancora in preda al delirio, coricato nella mia amaca, in Egitto, e che, da allora, ogni mio risveglio sia nulla più che un'estensione dell'incubo. — Anch'io devo essere considerata null'altro che una visione creata dal tuo incubo? — chiese Cordelia, in tono pungente. — Sono soltanto un angelo misericordioso, un fantasma del tuo delirio? Con sentimento, Lydyard dichiarò: — No, non un fantasma. Sia che sogni, sia che non sogni, la tua vicinanza è la cosa che m'importa più d'ogni altra: credo che potrei sopportare di assistere alla fine predestinata del mondo, se soltanto potessi essere con te nell'aldilà. — Se questa è una metafora, allora devo ringraziarti del bel complimento. Eppure, ho lo stranissimo sospetto che non lo sia. Per papà, natu-
ralmente, la fine del mondo sarebbe se gli venisse dimostrato una volta soltanto che ha torto. Ma tu non sei tanto inflessibile. Credi che il mondo finirà presto? — Sei troppo perspicace — osservò Lydyard, cercando di non sembrare risentito. — La semplice verità è che lo ignoro. Ieri ho conosciuto un uomo il quale mi ha assicurato che finirà presto, ma si tratta di un monaco erudito che appartiene a una setta molto peculiare: non credo che si possa condividere la sua opinione. Ora che ti ho detto più di quello che intendevo, spero che tu ne sia contenta. Quanto a me, sarei felice se soltanto potessi avere la certezza di non essere pazzo, o sul punto d'impazzire. — Dopo una breve pausa, soggiunse, sottovoce, e sentendosi estremamente audace: — Sarei felice anche se potessi essere certo, a parte tutti i progetti, del tuo sincero affetto per me. — Di questo, almeno, puoi essere certo — assicurò Cordelia, ma non con l'ansimante tenerezza che a David sarebbe parsa appropriata. D'improvviso, Lydyard si sentì capace, dopotutto, di corteggiarla e di tentare di essere affascinante e disinvolto: — A quanto pare, tu sei già certa dei miei sentimenti. Comunque, per quello che vale, ti dichiaro che sono innamorato di te. Per amor tuo, farò tutto il possibile per decidere che genere di vita intendo condurre, in modo da poterti mostrare quale esistenza ti chiederò di condividere, se si dovesse scoprire che, dopotutto, il mondo non finirà. — Grazie — rispose semplicemente Cordelia. Nello scoprire che la ragazza era finalmente senza parole, dopo avere ottenuto la dichiarazione desiderata, Lydyard provò una soddisfazione perversa. Ma subito la dimenticò, e garantì con ardore: — Tutto questo mistero si risolverà molto presto. Per quanto posso giudicare, non avrà conseguenze. I miei incubi cesseranno, col tempo. Jacob Harkender continuerà a praticare la magia e l'esoterismo nell'intimità della sua casa, senza dar noia a nessuno. La normalità fondamentale del mondo s'imporrà di nuovo, e il gioco sciocco in cui siamo rimasti coinvolti si ridurrà, semplicemente, a un caos di incidenti inesplicabili, del tutto indegni di ulteriore attenzione. — Poi pensò: E i licantropi di Londra saranno di nuovo banditi nella filastrocca alla quale appartengono in realtà, e non turberanno mai più la gente onesta con il terrore delle loro metamorfosi orrende. — E noi sfuggiremo all'angelo tenebroso della sofferenza — aggiunse Cordelia. — Esso tornerà nei luoghi che gli competono: le strade dove vivono i poveri, e dove le malattie e i ratti uccidono molti più bambini di
quanto abbia mai potuto fare qualunque branco di licantropi. Ma io non ho affatto menzionato i licantropi! protestò mentalmente Lydyard, improvvisamente consapevole che la ragazza, in qualche modo, sapeva più di quanto avrebbe dovuto. Non riusciva a credere che avesse origliato, tuttavia lei stessa gli aveva rammentato, poco prima, che una casa con la servitù era una casa senza segreti. Per giunta, la parola «licantropo» ricorreva avidamente nei pettegolezzi londinesi. Per non lasciarsi sfuggire nessun'altra rivelazione, ignorò l'allusione ai licantropi: — Dunque leggi le pubblicazioni socialiste che tuo padre porta a casa... — Se fossi davvero un angelo della misericordia — replicò Cordelia, con voce aspra — avrei tanto lavoro da fare, che non saprei da che parte cominciare: non potrei mai riposare. Non ho bisogno di nessuna pubblicazione per esserne consapevole. — Senz'attendere risposta, imboccò Buck Hill Walk. Benché non fosse del tutto sicuro che non si trattasse di mero ottimismo, Lydyard ebbe l'impressione che la ragazza camminasse un poco più eretta e un poco più fiduciosa di prima: Siamo amanti, adesso, pensò, assaporando le risonanze delle parole nella propria mente. Lei mi ha detto che mi ama, e anch'io le ho detto che l'amo. Si disse che sembrava un inizio molto vivace, e rimase gioiosamente sorpreso che fosse bastato un poco di buona volontà per incamminarsi su un sentiero che lo avrebbe sicuramente condotto al paradiso, anziché all'inferno. La vertigine continuava a perseguitarlo, ma per alcuni momenti si trasformò in una ebbrezza dalla quale nessun uomo avrebbe desiderato liberarsi. E fin tanto che l'ebbrezza perdurava, non riusciva a preoccuparsi troppo dell'esistenza o dei piani dei licantropi di Londra. Affrettandosi, seguì Cordelia, e nella fretta non vide né sentì il cavallo alle proprie spalle: ebbe appena il tempo di percepire il grido d'avvertimento del fanciullo che lo montava, prima che gli zoccoli gli percuotessero le caviglie, facendogli perdere l'equilibrio. Invano tentò di attutire la caduta con le braccia: l'urto della spalla del cavallo fu troppo violento. Perse conoscenza subito dopo aver battuto la testa contro un sasso aguzzo, però ebbe il tempo di vedere l'angelo tenebroso della sofferenza scendere su di lui come un'aquila dal cielo igneo, con gli artigli aguzzi spalancati e gli occhi neri ardenti di crudele trionfo. 8
L'incoscienza non durò a lungo: quel tanto che bastò perché Lydyard fosse trasportato a bordo di una carrozza. Mentre le ruote rumoreggiavano e sobbalzavano sui solchi delle strade, Lydyard riuscì ad alzarsi a sedere; a premersi un fazzoletto sulla tempia sanguinante; a digrignare i denti per il dolore agli arti; e a guardare gli occhi scuri di Cordelia, la cui espressione normalmente dolce era inondata di compassione e di preoccupazione. In seguito, riuscì a restare immobile mentre Gilbert Franklin lo visitava; a convenire con lui quando gli assicurò che non aveva fratture; a garantire a lady Rosalind che si sarebbe recato puntualmente a cena, abbigliato come si conveniva. Era in possesso di tutte le proprie facoltà. Non aveva nulla che non andasse, tranne la dignità ferita, i lividi, e il dolore. Nulla, tranne il dolore. Nonostante i sobbalzi, gli ondeggiamenti, le soste e le partenze brusche durante il ritorno a Sturton Street, la sofferenza causata dall'incidente scomparve in breve tempo. La furia dalla lingua biforcuta e dagli artigli avvelenati, che era l'angelo tenebroso del dolore, immobilizzò Lydyard nella propria stretta intima e feroce per pochi istanti fugaci soltanto, prima di essere costretta a ritirarsi nell'ombra delle mura del mondo. In seguito, essa effettuò alcune sortite per squarciargli un gomito o un polpaccio con gli artigli noncuranti, ma non riuscì più ad avvolgerlo nelle pieghe delle proprie ali pungenti. E giacché essa non vi riuscì, Lydyard non poté essere costretto a vedere il suolo screpolato dell'inferno, o a sopportare le ignominie e i rimorsi dell'angelo dorato e torturato. Invece, fu sostenuto dal potere degli occhi esteriori: l'entusiasmo del suo sguardo avido, che si protese ad afferrare il mondo reale e tutte le sue ombre fugaci nella luce del fuoco, prima fra tutte la dolce Cordelia dagli occhi scuri. Per tutto il giorno tenne a bada l'angelo del dolore, senza lasciarsi conquistare dalla vista interiore, anche se il battito del suo cuore rallentò, una volta, quando egli udì il miagolio del gatto di cucina. Quando giunse la notte, però, sentì, sdraiato fra le lenzuola morbide e fresche, le carezze blande dell'oscurità vacua... Allora le catene che bramava caddero ancora una volta, ed egli volse la testa verso la luce favolosa, che trasfigurò tutto il mondo e gli mostrò le forme degli dèi risorti, i quali non giunsero incoronati di spine e piangenti per l'umanità, bensì abbigliati con i cuori e con le anime dei predatori, dicendo: Nulla è nascosto,
nulla è fosco, nulla è dimenticato, nulla è negato, nulla è stabilito per sempre, nulla è come appare, nulla è mai sincero, nulla può essere mutato... Poi, con gli occhi presi a prestito di qualche angelo smarrito e solitario, vide... Vide in modo diverso rispetto a qualunque visione o incubo avesse mai avuto in precedenza. Fu come se l'occhio interiore che si era aperto nella sua anima non potesse più accontentarsi di osservare affascinato i paesaggi meravigliosi e sconfinati del sogno, ma s'involasse nel mondo degli uomini, per visitare altre anime, fredde, cieche, e condividerne l'armonioso essere nel mondo. Giacché la sua vista magica era libera di vagare a piacimento, Lydyard non rimase affatto sorpreso quando essa scelse di seguire sir Edward Tallentyre, che non era a casa quella sera. Tuttavia rimase tanto sbalordito quanto angosciato nello scoprire che la prospettiva adottata dall'occhio interiore, e offerta a lui come dono perverso, non era affatto quella del baronetto, bensì quella dell'amante che egli manteneva a Greek Street, e che lui non aveva mai avuto il privilegio di conoscere. Scoprì che il suo nome era Elinor Fisher, ed entro pochi minuti dall'inizio del proprio sogno si rese conto di sapere su di lei più di quanto qualunque uomo avesse diritto di sapere sui sentimenti di qualsiasi altra persona. Ad esempio, seppe che l'amplesso al quale si era abbandonata poco prima con Tallentyre era stato molto meno impetuoso di quanto ella avesse previsto dopo una separazione tanto lunga. Inoltre, seppe che Elinor, pur avendo tentato di scacciare dalla mente tale consapevolezza per potersi abbandonare del tutto al piacere del rapporto, non vi era riuscita. Ella sospettava che Tallentyre avesse dedicato le sue prime e più ardenti attenzioni alla moglie, e si sentiva delusa per il fatto che non fosse stato riservato maggiore entusiasmo a lei, l'amante, con la quale il baronetto poteva avere rapporti senza i freni del dovere e della cortesia. Era quasi come se Lydyard potesse percepire i pensieri di Elinor con la stessa limpidezza con cui lei stessa li udiva nella propria mente: Perché mai un uomo dovrebbe volere un'amante, se non per concedersi la libertà e la lussuria della passione pura? E se adesso questa passione è inibita, che cosa può mai significare, se non che l'amante non è più adeguata a suscitare tale resa, e che l'uomo è ormai stanco di lei?
Il ricordo dell'amplesso, ancora fresco nella mente di Elinor, non fu più sconvolgente, per colui che visitava la sua coscienza, delle riflessioni apparentemente ciniche che ad esso si accompagnavano. A quanto pareva, Elinor aveva sempre saputo che un giorno sarebbe stata «trascurata», o «accantonata», o quale che fosse la metafora banale che correntemente si usava per sfuggire all'orrore di quella situazione. Però era meravigliata nell'individuare l'inizio di tale processo in un uomo che era stato assente per mesi, e il cui desiderio, già smussato dalla consuetudine, avrebbe dovuto essere aguzzato dall'assenza. Era dunque vero, dopotutto, che le meretrici leggendarie di Parigi e di Roma erano tanto esperte nella loro arte, che al loro confronto qualunque prostituta inglese sembrava nulla più che una squallida vagabonda? Incapace di uscire dalla coscienza della donna, Lydyard fu percosso dalla consapevolezza che gli affondi irregolari di sir Edward l'avevano penetrata e colpita in modo spiacevole, mentre l'ansietà le aveva impedito di giungere persino al culmine di eccitazione a cui ella normalmente aspirava. Era impossibile che Tallentyre indovinasse quali pensieri correvano nella mente della sua compagna: Sono troppo vecchia per ricominciare, e se questa sarà davvero la fine, non diventerò altro che zavorra scaricata, senza nessun posto dove andare! Oppresso dal terribile fardello di questa imbarazzante consapevolezza, Lydyard non faticò a credere quello che gli aveva garantito Zefirino: la vista interiore era opera del Demonio in persona, che pescava anime dannate usando come esca il frutto dell'Albero della Conoscenza. Mentre Elinor giaceva con il cuore ancora martellante, benché non per passione febbrile, Tallentyre le rimase accanto per un poco, cingendola con le lunghe braccia e stringendola a sé quasi come se fosse una figlia da coccolare. Allora ella si sentì rassicurata, perché vi era sempre più sincerità in quello che un uomo faceva con le braccia, che in quello che faceva con il pene turgido. Tuttavia, quando Tallentyre la lasciò, Elinor fu nuovamente flagellata da una grandinata di dubbi. E l'occhio di Lydyard non poteva fare altro che vedere: non poteva rivelare alla donna sofferente che molto probabilmente il disagio del baronetto non aveva nulla a che fare con lei. Se avesse potuto, l'avrebbe gentilmente rassicurata che non aveva perduto il suo posto d'incarnazione del desiderio nel mondo segreto dell'immaginazione di Tallentyre; che aveva ancora il potere di gettare i suoi piccoli incantesimi e di affascinare il baronetto; che non era la canzone di una sirena rivale a ren-
dere sir Edward sordo a lei; bensì si trattava di qualcosa di ben diverso e di terribile... Eppure, la vista era silente, e il conforto era soltanto per i ciechi. Era inutile persino desiderare di poter placare le paure della donna, perché se in virtù di qualche miracolo fosse stato in grado di comunicare con lei, il semplice fatto di udire nella mente un'altra voce oltre alla propria l'avrebbe terrorizzata, convincendola di essere impazzita. Con estrema gentilezza, Elinor iniziò ad accarezzare Tallentyre, per riaffermare, con la delicata familiarità del proprio tocco, la forza del vincolo che li legava, o meglio, il vincolo mediante il quale lei si legava a lui, e lui legava lei. Intuendo il piacere innocente provato da Elinor nell'accarezzarlo, Tallentyre provò una sensazione orrenda di vergogna, poi si sentì miserabilmente felice quando lei smise e si alzò, per indossare una vestaglia di seta ricamata a draghi colorati in stile orientale, e andare a prendere altro vino. Nondimeno, fu costretto a notare e a condividere la sua preoccupazione, mentre lei badava a non celare il candore delle cosce e la curva dei seni. Così facendo, Elinor si propose di fare in modo che Tallentyre, rilassato dopo avere sfogato la propria lussuria, si accorgesse nuovamente di lei, e si compiacesse di quello che vedeva. Attraverso gli occhi della donna, Lydyard osservò Tallentyre, il quale sedette sul bordo del letto dell'amante, prese il vino che ella gli offriva, e ne bevve alcuni sorsi avidamente: soltanto con uno spietato sforzo di volontà riuscì ad impedire che la mano gli tremasse. — Che c'è, Edward? — chiese Elinor, consapevole di un vuoto che soltanto una domanda sollecita avrebbe potuto colmare. — In Egitto hai forse preso una febbre che questa inclemente primavera inglese ha resuscitato? — No — rispose Tallentyre. — Sono uno dei pochi privilegiati che prosperano nel caldo secco e nella luce abbacinante del deserto. Il povero David si è ammalato, a causa del morso di un serpente, e credo che il freddo non gli giovi affatto. Io, invece, sto benissimo. Il povero David! pensò Lydyard. E subito percepì una stranissima sensazione di Elinor: non aveva mai incontrato David Lydyard, ma aveva tanto sentito parlare di lui, che sperava di conoscerlo, un giorno; anzi, era certa che lo avrebbe conosciuto, perché aveva sentito dire che prima o poi arrivava sempre il momento in cui ogni uomo presentava la propria amante al figlio, oppure, se non aveva figli, al proprio pupillo. Senza volerlo, Lydyard percepì i pensieri e le sensazioni di Elinor anche mentre ella assaporava la possibilità, o indulgeva alla fantasia oziosa, che un giorno sir
Edward le chiedesse di «educare il ragazzo»: per il momento, però, questi era soltanto un nome, per lei, una persona senza volto di cui Tallentyre parlava con estremo affetto. Anche se non aveva mai saputo che il baronetto avesse parlato con estremo affetto di nessuno o di nulla, Lydyard immaginò che fosse normale da parte degli uomini, quando erano in compagnia delle loro amanti, indulgere a comportamenti che di solito evitavano, e che questa indulgenza includesse spesso non soltanto la lussuria, bensì anche il sentimentalismo. Gli uomini come Tallentyre non erano mai sentimentali con gli amici, né coi figli, e di rado lo erano con le mogli: con le amanti, però, erano del tutto liberi. — Anch'io sto bene — dichiarò Elinor, benché il baronetto non le avesse chiesto nulla. — Ho preso il raffreddore, a Natale, ma adesso sto benissimo. — Ne sono lieto — rispose Tallentyre, ma in un tono tale, che tanto Elinor quanto Lydyard compresero alla perfezione che non gliene importava assolutamente niente. — Anch'io sono stato afflitto da una sorta di febbre, per un breve periodo, e ho sognato un'oscurità ostile, una sfinge vivente, un grande lupo grigio... Adesso, però, sto meglio. Comunque il sogno, chissà perché e in quale modo folle e perverso, rifiuta di dissolversi. — È così che agiscono i sogni, anche se gli uomini se ne accorgono di rado. L'ironia di questa frase, che Elinor giudicò straordinariamente efficace, non fu affatto compresa dal baronetto, ma Lydyard, che era in grado di percepire in ogni sfumatura le emozioni e i pensieri della donna, non poté non capirla alla perfezione, anche se lei non lo seppe. — Un uomo morì, e un altro si smarrì nel deserto. Al suo posto, però, trovammo uno sconosciuto, che aveva perduto completamente la memoria e la ragione. Quando ritornò in sé, costui ci recitò uno stupendo elenco di assurdità, gettando su di me un tale incantesimo, che tuttora continuo ad ascoltare sproloqui del genere da quasi tutti coloro che incontro. Ma forse questo è del tutto prevedibile, perché sembra, se ci si può fidare delle notizie che abbiamo raccolto, che lo sconosciuto in questione sia uno dei famosi licantropi di Londra. Che cosa ne dici, mia cara Nora? Non ha voluto parlare di questo alla moglie, né alla figlia, pensò Lydyard. E non può essere sincero nemmeno con la sua amante, perché cerca di dare l'impressione che sia soltanto una faccenda divertente, mentre io so benissimo che la pensa diversamente. E si chiese, per un attimo,
se anche Tallentyre non fosse un po' spaventato. — Io dico — rispose con noncuranza la signorina Fisher — che il mio nome è Elinor, se l'hai dimenticato e mi consideri una qualsiasi «Nora». Ma se davvero hai attraversato il sentiero di uno dei licantropi di Londra, credo che ti convenga badare a non irritarlo, perché di quella razza non ho mai sentito parlare se non male. Il baronetto si accigliò, ma Elinor fu lieta che la guardasse: mentre lui ammirava la sua chioma liscia e scomposta, la sua bella vestaglia, il suo corpo formoso, si sentì molto fiera, con grande imbarazzo di Lydyard. — Hai sentito la mia mancanza? — chiese Tallentyre. Fu una domanda malinconica, anche se non fu pronunciata in tono malinconico: Lydyard non aveva mai neppure pensato di poter udire una frase di tal genere dalle labbra del suo tutore. — Sì. — Per un improvviso impulso ironico, Elinor pensò che avrebbe potuto rispondere: Oh, no! Ho avuto una dozzina di altri amanti, e ho spezzato definitivamente il cuore a tutti, uno dopo l'altro! Ma non osò dire nulla del genere, perché era convinta che gli uomini fossero gelosi della libertà delle loro amanti, quasi quanto queste ultime lo erano della sicurezza delle loro mogli. — Anch'io ho sentito la tua mancanza. Nonostante questa dichiarazione, Elinor divenne nuovamente ansiosa, perché Tallentyre non le aveva ancora spiegato quale varco si fosse aperto a dividerli, che cosa avesse reso il loro licenzioso amplesso meno ardente di quanto avrebbe dovuto essere, e perché. Chissà per quale motivo, pensò, dubita di se stesso, anche se soltanto un poco. Per un uomo come lui, questa è molto probabilmente un'esperienza nuova, visto che ha sempre avuto un'assoluta fiducia in se stesso. Nell'ascoltare queste considerazioni, Lydyard pensò che Elinor fosse molto perspicace. — Conosco la storia di una donna che s'innamorò di un licantropo di Londra — narrò pensosamente Elinor. — Si dice che anche lui l'amasse. Ella desiderava molto diventare sua amante, eppure ciò non era possibile. «Io posso cibarmi come uomo o come lupo», spiegò lui, «e posso bere come uomo o come lupo, però posso amare soltanto come lupo, perché la passione sincera non mi permette di restare in forma umana.» È una storia molto triste. — Non la conoscevo — confessò Tallentyre, con una strana perplessità. — Però ricordo di averne sentita una diversa, da bambino. È la storia di un
uomo che s'innamorò di una licantropa, ma non credo che si accordi con la tua, perché sono certo che l'uomo sposò la donna lupo, e visse con lei per molti anni, fino a quando, senza volerlo, ruppe una promessa che le aveva fatto. Allora lei lo lasciò per tornare dai licantropi. — Non è del tutto discordante con la mia — obiettò disinvoltamente Elinor. — Davvero? Vuoi forse dire che un uomo sarebbe felice di dividere il letto matrimoniale con una moglie che diventa lupa ogni volta che viene sopraffatta dalla passione? — Una moglie può lasciarsi portare a letto dal marito ogni volta che vuole, senza mai essere sopraffatta dalla passione. — Ciò detto, Elinor soggiunse, anche se, come Lydyard percepì, non lo pensava: — Però la storia di un uomo che ha preso come amante una licantropa sarebbe tutta un'altra cosa, vero? Il baronetto rise, ma Elinor si accorse che anche nel ridere non era meno inibito che nel fare l'amore: La preoccupazione che gl'impedisce di rilassarsi, qualunque sia, pensò, continua a dominare i suoi pensieri. Poiché credeva davvero nel motto in vino veritas, servì altro vino. Quando Elinor gli ebbe riempito nuovamente il bicchiere, Tallentyre domandò: — Davvero la passione trasforma sempre gli uomini in lupi? Dunque gli uomini sono del tutto in balia della lussuria? — Ne dubiti, forse? Il baronetto non rispose. Dopo un poco, però, chiese: — Credi davvero all'esistenza dei licantropi, Nora? Riesci veramente a credere che vi siano angeli caduti sulla Terra, pronti a fare scempio dell'umanità? — Non ha importanza quello che posso o non posso credere. Non sono mai stata a scuola: non so nulla. — Ciò detto, Elinor pensò: Un tempo, veniva da me soltanto per il piacere. Adesso chiede le mie opinioni, benché io non sia istruita. Come posso pagarlo, con monete così prive di valore? — C'è una cosa, che mi è stata detta da una persona, due sere fa, e che mi preoccupa — confidò Tallentyre, parlando lentamente. — Si tratta di un uomo che odiavo, e per validi motivi, credevo: una volta, infatti, fu molto crudele. Ebbene, costui mi ha detto che non potrei mai capire che cosa ha sofferto, e soltanto allora mi sono reso conto che non mi ero mai posto il problema: avevo rinunciato, senza mai neppure cercare di capire. Anche se Lydyard sapeva che Tallentyre alludeva a Jacob Harkender, Elinor non aveva modo di capirlo. Rimase alcuni istanti in silenzio, prima di dire: — È un bell'enigma... Temo, però, che dovrai scioglierlo tu per
me. Dopo essersi servito altro vino, Tallentyre narrò: — L'uomo in questione crede ai licantropi. Un tempo, ero convinto che fosse un ipocrita, ma adesso credo che sia perfettamente sincero. Molti anni fa, quando studiavo a Oxford, lo giudicavo l'uomo più malvagio che avessi mai conosciuto. Era molto bello, sapeva essere estremamente affascinante e intelligente, eppure era tanto orribilmente gelido, dentro di sé, da sembrare un autentico mostro. Seduceva sia gli uomini che le donne, per conquistarne l'amicizia e l'affetto, se non per avere rapporti sessuali, e godeva nel far soffrire tutti coloro che in tal modo gli diventavano vulnerabili. Una volta, portò una ragazza al suicidio. Io la conoscevo appena: per me era poco o nulla, se non un dolce sorriso intravisto di sfuggita. Eppure mi sembrò che fosse rimasta vittima di una tale crudeltà, che mi parve necessario esigere una spiegazione. Se non avessi già rinunciato alla fede, avrei forse creduto che quell'uomo fosse posseduto da un demone. In seguito, quando altri lo definirono mago e satanista, credetti di capirne la ragione, anche se personalmente giudicavo le sue azioni nulla più che una rivelazione spaventosa di quanto gli uomini possono essere malvagi e spietati. Ricordo che pensai davvero di sfidarlo a duello, ma dissi a me stesso che non potevo, e non perché non volessi ucciderlo, bensì perché non era un gentiluomo! Mi battei con lui in un modo meno violento, ma più sprezzante, e ne fui sempre fiero... fino a due sere fa. — Perché? — chiese dolcemente Elinor, ben sapendo, come lo sapeva Lydyard, che Tallentyre aspettava quella domanda. — Quale spiegazione ti ha fornito? — Mi ha detto che suo padre lo fece studiare nella speranza di fare di lui un simulacro di quel gentiluomo che non era per nascita. — E con questo? — domandò Elinor. Affascinato, Lydyard ebbe la sensazione che la sua odissea di sogno avesse uno scopo preciso, e attese che il baronetto confermasse la conclusione alla quale lui stesso era indipendentemente balzato. — Già... E con questo? — fece eco Tallentyre. — Senza dubbio, quell'uomo imparò il Latino e il Greco, la retorica e la matematica, e anche come ci si deve esprimere e come ci si deve vestire. Suo padre pensò forse che questo fosse un grande successo, anche se esito a pronunciarmi su come giudicò la direzione in cui quell'imitazione di gentiluomo orientò in seguito la propria cultura. Comunque, egli mi ha rammentato quale prezzo dovette pagare per questa educazione, e mi ha chiesto d'immaginare quali
forze contribuirono a renderlo quello che era. — Ho sentito dire che i college e le università sono luoghi crudeli — rispose Elinor. — Ci sono cinque o sei bordelli, in città, che soddisfano coloro a cui piace essere picchiati. Come sai, anch'io lavoravo per Mercy Murrell, una volta, e forse lavorerei ancora per lei, se non fosse stato per la grazia d'Iddio, e per sir Edward Tallentyre. Brevemente, beffardamente, in un modo che fece lievemente soffrire Elinor, mettendola in imbarazzo, Tallentyre rise: anche Lydyard si sentì non meno a disagio della donna. D'improvviso, come per un capriccio, Tallentyre domandò: — Hai mai conosciuto, là, una certa Jenny Gill? — Ne ho sentito parlare. Se ne andò, credo. Si disse persino che era stata uccisa, o che era morta in circostanze incresciose, ma si trattò soltanto di dicerie. Ero giovane allora. — Ciò detto, Elinor pensò: Ero bella, allora. Ma adesso... Annuendo, Tallentyre pose risolutamente fine alla digressione. Quindi riprese, pensieroso: — I college e le università non sono tanto tremendi... Ogni bel ragazzo ha un soprannome femminile, ma si tratta nella maggior parte dei casi di burle, e il sistema secondo cui gli allievi più giovani sono sottomessi ai più anziani non è così nero come lo si dipinge. Comunque, una certa quantità di percosse e di sodomia è ritenuta salutare per un giovane: è una prova di carattere da sopportare in silenzio, e poi da dimenticare per sempre. È vero però che in alcuni casi si commettono abusi, e che coloro che non riescono a trovare un protettore, o che trovano un protettore particolarmente vizioso, possono essere condivisi tanto liberamente e feriti tanto profondamente, che... Be', l'uomo di cui ti ho parlato ha ragione nel sostenere che non posso immaginare adeguatamente quali conseguenze possono avere abusi del genere. Suppongo che le ragazze disonorate e deluse non abbiano il monopolio del suicidio. «Comunque, tutto ciò ha poca importanza, anche se sentirne parlare mi ha impressionato. In realtà, sono rimasto turbato dall'accusa sprezzante di quell'uomo: secondo lui, io stesso sono in qualche modo colpevole di tutto questo, a causa della classe a cui appartengo, e quindi non posso che essere consapevole dello scopo a cui sono serviti gli abusi da lui subiti, in quanto strumenti del sistema educativo. Non ho potuto fare a meno di chiedermi se non possa esservi una connessione, come lui ha suggerito, tra il fatto che non mi sono mai interrogato a questo proposito, e il fatto che posso rifiutare senza difficoltà di credere nei licantropi, nei satanisti, nei maghi, e
in Dio... mentre per lui è fin troppo facile credere a tutto ciò. In quel momento, Lydyard ebbe l'impressione di avere scoperto un aspetto di Tallentyre che gli era sempre stato ignoto. Inoltre si rese conto, con imbarazzo, che anche Elinor aveva la medesima sensazione. La donna non replicò, perciò Tallentyre proseguì: — Dimmi, Nora... Esiste davvero, negli uomini, un lupo, a cui essi non possono resistere, mentre invece le donne ne sono capaci? È possibile che nei college e nelle università si stimoli l'appetito del lupo, mentre si finge ipocritamente di educare i giovani? E quando il lupo interiore viene completamente addestrato alla crudeltà nel giovane, che cosa ci si può aspettare dall'uomo, se non che scateni la propria ferinità, se può, sugli uomini e sulle donne, per poi lasciarli sanguinanti? Al pari di Lydyard, Elinor non era in grado di rispondere. Non era riuscita a comprendere tutte le sfumature del discorso perché non aveva assistito alla conversazione del baronetto con Harkender, tuttavia ne aveva colto la sostanza, quindi era certa che la preoccupazione di Tallentyre nei confronti dei licantropi fosse tutt'altro che oziosa: — Ho sempre pensato che, se c'è una verità nascosta nel mito dei licantropi di Londra, è questa: tutti gli uomini sono lupi, sotto la maschera della cortesia. — Già... — mormorò Tallentyre. — Adesso che sto cominciando a credere che possa esservi qualche verità nel mito, non posso fare a meno di chiedermi se questa non ne sia una parte... Mediante la propria vista miracolosa, Lydyard comprese che Tallentyre era sinceramente turbato dal labirinto fantastico in cui era stato condotto. Con sgomento, si rese conto che proprio come lui stesso si era dolorosamente sforzato di celare in tutti i modi i suoi veri sentimenti, così aveva fatto Tallentyre, il quale aveva sentito a sua volta il battito folle delle ali degli angeli, e non riusciva a negarlo con tanto fervore quanto desiderava. Non sono solo! pensò Lydyard, con uno strano empito di sollievo. Lui è con me, come ho sognato una volta! Ma proprio mentre Elinor osservava con tanto affetto il volto dubbioso dell'amante, questo volto si dissolse, trasformandosi in un altro viso, infinitamente più bello, infinitamente più calmo, e infinitamente terribile. E con esso si dissolsero Elinor Fisher, Greek Street, Londra medesima, finché rimase soltanto quel viso, sovrapposto alla luce fredda delle stelle nel vuoto infinito... Era il volto della Sfinge. Sto arrivando, annunciò la Sfinge a Lydyard, anche se le sue labbra ros-
se non si mossero affatto. E quando sarò arrivata, saprò che cosa fare. 9 In attesa che sir Edward Tallentyre scendesse nello studio, Lydyard si recò alla finestra ad osservare Sturton Street, divisa a metà da una siepe sottile: nessuno era appostato di fronte alla porta principale della casa, però un uomo era addossato a una cancellata a circa trenta metri di distanza, e guardava in direzione della casa con quella che sembrava una regolarità meccanica, due o tre volte al minuto: non avrebbe potuto sfuggirgli l'arrivo di nessuna carrozza e di nessun visitatore. Probabilmente, un'altra spia sorvegliava il retro della casa. Lydyard avrebbe voluto poterne catturare una e obbligarla a rivelare tutto quello che sapeva. Ne aveva persino parlato a Tallentyre, il quale, sebbene pensasse che la sorveglianza fosse un insulto, oltre che un fastidio, si era limitato a scrollare le spalle, sostenendo che con tutta probabilità si trattava di scagnozzi che non sapevano nulla. Entrato nello studio, anche Tallentyre si recò alla finestra e spazzò a sua volta la strada con una rapida occhiata, notando la presenza della spia: — Questa situazione sta diventando intollerabile — mormorò. — Suppongo che ci seguiranno a Charnley, se potranno. Dobbiamo tentare di eluderli, se non altro per dispetto. — Sanno abbastanza di Franklin per andare a cercarci direttamente là — osservò Lydyard. — Se scegliamo di nasconderei, allora dobbiamo farlo in modo più astuto. — Non c'è nulla da cui dobbiamo nasconderei — ribatté Tallentyre, con una certa irritazione. — Se attendono che Paul Shepherd venga a farci visita, ho l'impressione che aspetteranno a lungo. — Forse non è questo il loro scopo — suggerì pacatamente Lydyard. — Temo che possano essere più interessati a me. Credo che sappiano, ormai, perché Pelorus si è preso il disturbo di proteggermi, quando Mandorla Soulier mi ha invitato a seguirla. Inoltre, sospetto che il suo intervento abbia più che raddoppiato la loro determinazione ad impadronirsi di me. — Sei troppo ansioso. Non è possibile che vogliano nuocerti. A disagio, Lydyard scrutò il tutore negli occhi. Gli aveva riferito dettagliatamente il proprio colloquio con Zefirino, nonché l'incidente che era avvenuto subito dopo, ma sapeva che Tallentyre, in base al suo racconto, aveva ipotizzato soltanto che Mandorla Soulier intendesse interrogarlo a
proposito di «Paul Shepherd». Sulle prime, lui stesso aveva sperato che fosse soltanto così, ma ormai non gli era più possibile essere tanto ottimista. Imbarazzato, soggiunse: — Non sono stato del tutto sincero con te, Edward... Con un'espressione tutt'altro che priva di gentilezza, Tallentyre lo osservò: — Se intendi dire che l'avvelenamento è stato molto più grave di quanto tu sia disposto a confessare, allora lo so. Ti ho sentito gridare nel sonno, quindi so quanto siano terribili i tuoi incubi: non devi affatto vergognarti. — La mia riservatezza non era dovuta soltanto a questo — confessò stancamente Lydyard. — Da tempo non credo più di essere stato morso da un serpente qualunque, né di avere sofferto di un normale delirio provocato dalla febbre. Forse la nuova vista di cui dispongo ora è soltanto un inganno, ma anche se lo credessi, non potrei rifiutare di vedere. Credo che i licantropi di Londra esistano realmente, Edward, e che siano davvero una minaccia. Credo nell'entità che si è ridestata e che abbiamo incontrato in Egitto, benché non sappia se definirla una divinità o un demone, un angelo o un demiurgo. Credo che la sfinge che ti ferì fosse una creatura reale, concreta, che cammina ancora sulla Terra. Non posso accettare che la fine del mondo sia vicina, però credo che possa accadere qualcosa, tra breve, e che molto probabilmente sarà qualcosa di terribile. Giudicami pure debole o superstizioso, se vuoi, ma non posso fare a meno di credere in tutto ciò, e non riesco più a sopportare di tenere soltanto per me queste convinzioni. Ho bisogno dei tuo aiuto, Edward. E con questo non intendo dire che ho bisogno di rassicurazione sul fatto che mi basterà concedermi un po' di riposo per riprendermi perfettamente. Per alcuni istanti, Tallentyre lo scrutò, quindi indicò la poltrona accanto alla libreria. Attese che Lydyard vi si fosse accomodato, prima di sedere alla scrivania: — Che genere di aiuto desideri, David? Sarò felice di offrirtelo, se potrò. Il giovane scosse la testa: — Non ne sono tanto sicuro. Credo di poter dimostrare che le mie visioni sono dovute davvero a una sorta di seconda vista, però non credo che la mia dimostrazione ti piacerà. Per il momento, posso soltanto chiederti di ascoltarmi. In seguito, vorrei che tu mi aiutassi a decidere che cosa fare. — Ti ascolterò certamente — promise Tallentyre, con voce neutra. — M'interessa molto sapere quale prova puoi fornirmi. E non devi temere che non mi piacerà: nessun uomo intellettualmente onesto può mai essere turbato da una prova.
Dopo essersi inumidito le labbra, Lydyard si rifugiò temporaneamente nella dilazione: — La mia interpretazione dell'accaduto si basa sui resoconti che ci sono stati forniti, nonché sui sogni oracolari che ho avuto da quando sono stato privilegiato dal serpente. Devi sapere, infatti, che sono diventato una sorta di oracolo, simile a quello che Jacob Harkender cercò di creare per se stesso quando si recò in Egitto. Forse non sono esattamente dello stesso tipo, per così dire, né posso pretendere di sapere quanti tipi di oracoli esistano, ma sono certo di essere una specie di oracolo. Senza dubbio gli spiritisti mi definirebbero un medium, anche se le voci che sento non appartengono ai defunti. — Ciò detto, tacque. Il baronetto reclinò la testa, sempre osservandolo: — Continua. — I licantropi di Londra hanno rapito il fanciullo magico di Harkender perché credono che possa avere il potere del mutamento, oltre a quello della veggenza, e perché vogliono indurlo, con la persuasione o con la forza, ad usare tali poteri per i loro scopi. Pelorus, il quale agisce dominato da una costrizione che lo pone in contrasto con la sua stessa razza, è determinato a fare in modo che ciò non avvenga: rapirebbe a sua volta il fanciullo, se potesse, ma è molto preoccupato dal potenziale distruttivo della creatura che è stata generata più di recente, e che si è manifestata a noi sotto forma di sfinge. Consapevole che Pelorus è interessato a togliere a Mandorla il fanciullo, Harkender vorrebbe allearsi con lui, ma Pelorus è molto riluttante ad accettare, forse perché teme che Harkender possa essere lo strumento inconsapevole di un'altra entità molto potente, le cui intenzioni potrebbero essere distruttive. Gli altri licantropi vorrebbero eliminare Pelorus dalla partita, e anche se forse non sono in grado di annientarlo, possono di certo ferirlo tanto gravemente da renderlo impotente. A loro volta, però, sono preoccupati dalla nuova creatura, e s'interessano a me perché credono, giustamente, che io sia lo strumento della creatura. — È un ottimo riepilogo — commentò Tallentyre, con voce incolore. — Si potrebbe aggiungere che i monaci dell'ordine di Sant'Amycus sono persuasi che il potere distruttivo di una o di tutte queste misteriose creature è destinato a scatenarsi, provocando la fine del mondo profetizzata nel Libro della Rivelazione. Se tutto questo è vero, nessuno di noi può far nulla. Se invece tutto ciò non è vero... Be', non so proprio dire che cosa potrebbe ottenere una qualsiasi delle fazioni rivali, ultima fra tutte la nostra. Io, però, non sono stato favorito dalla dèa, com'è capitato a te, e non ho sogni deliranti che possano essere considerati visioni della verità. Temo proprio, David, di non poter credere a questa versione della vicenda raccontata da
te, più di quanto vi abbia creduto quando l'ha narrata Harkender. E non riesco a immaginare come tu possa persuadermi che in tutto ciò vi sia qualcosa di più di un'illusione febbrile. Consapevole, o credendo di sapere, che quel muro di scetticismo era soltanto una maschera, dietro la quale si celava maggior credulità di quanto sembrasse, Lydyard fece un sorrisino: — Non mi resta che esibire la prova alla quale ho accennato. Devo nuovamente avvertirti, però, che potrebbe non piacerti affatto... — Perché mai? — protestò Tallentyre, con rincrescimento sincero. — Sono un uomo ragionevole, e puoi star certo che ti ascolto con maggior simpatia di quanta ne avessi ascoltando Jacob Harkender. Con il cuore palpitante di trepidazione, Lydyard domandò: — Accetteresti, come prova di una facoltà che va molto oltre quella della vista ordinaria, un resoconto della conversazione che ha avuto luogo la notte scorsa fra te e una certa Elinor Fisher, e che non può essere stata ascoltata da nessun altro? Come non gli era mai accaduto in tutta la vita, Lydyard vide per un istante sir Edward Tallentyre in preda al più completo sbalordimento. Anche se si sforzò con tutta la propria volontà di apparire calmo e distaccato, il baronetto fallì: il suo volto divenne esangue, manifestando senza ritegno una collera torva. Per alcuni momenti, il fatto che il giovane avesse osato rivelargli una scoperta del genere, sopraffece tutto il suo interesse puramente scientifico nei confronti dei mezzi con cui era riuscito a compierla. In quegli attimi, Lydyard ebbe timore della sua possibile reazione. Ma poi l'intelligenza razionale riaffermò il proprio dominio su tutto il suo essere, e Tallentyre esortò, gelidamente: — Continua. Benché avesse previsto tale ostilità, Lydyard trasalì: nessun'altra scoperta, per quanto incredibile, avrebbe potuto essere più efficace nel convincere il baronetto che la realtà normale era stata trascesa. Con esitazione quasi impercettibile, riferì: — La notte scorsa hai ricordato che qualcuno, una volta, ti narrò una storia sui licantropi di Londra: la vicenda di un uomo che s'innamorò di una licantropa, la sposò, e visse con lei per molti anni, fino a quando ruppe una promessa: allora lei tornò dai licantropi. Pensavi che questa storia contraddicesse quella che Elinor Fisher ti aveva appena narrato, ma lei ha osservato che non era affatto così, perché le donne possono facilmente far l'amore senza passione, mentre per gli uomini è necessario essere eccitati. Questo è stato il preludio a una discussione del comportamento ferino di Jacob Harkender e della sua possibile spiegazione: se
lo desideri, posso ripeterla nei dettagli. Semplicemente, Tallentyre rimase a fissarlo in silenzio. Come se fossi un mostro leggendario, pensò Lydyard. Era convinto che non avrebbe potuto impressionarlo maggiormente neppure se si fosse trasformato in lupo sotto i suoi occhi. — È necessario che continui? — domandò. — Posso aggiungere un numero enorme di particolari, se vuoi, ma sono riluttante a farlo, proprio come lo sono stato ad assistere a quegli eventi. Ti posso assicurare che avrei smesso di osservare, se soltanto avessi saputo come fare. Purtroppo, non ho ancora imparato l'arte di controllare i miei poteri magici. Seguì un lungo silenzio. — Hai avuto altre visioni di questo genere? — chiese finalmente Tallentyre, sforzandosi di non lasciar trapelare l'ira dal proprio tono, in modo da poter recitare adeguatamente il ruolo dell'uomo razionale che sosteneva di essere. — Non esattamente dello stesso genere. Ne ho avute altre molto più simili a sogni. Per lungo tempo ho creduto che fossero conseguenze del delirio: prodotti della mia immaginazione. Ora non posso più esserne certo. Non posso esercitare nessun controllo su quello che sogno, e sono perfettamente sicuro che non tutto quelle che vedo nei sogni è vero, anche se le visioni possono essere considerate allegorie. Tuttavia so, e la notte scorsa questa mia consapevolezza è diventata indubitabile, di possedere una certa facoltà di vedere, che mi fu conferita dal serpente da cui fui morso, la quale mi unisce ancora a quel fantasma in forma di sfinge che ferì gravemente Pelorus e che quasi uccise te. Ecco perché i licantropi mi vogliono, e perché Jacob Harkender sarebbe felice, se acconsentissi a fargli visita a Whittenton. Non so se gli altri sono in grado di controllare i miei poteri meglio di quanto possa fare io stesso, però sono persuaso che desiderano servirsi di me in qualche modo per determinare con esattezza che cos'è l'entità creata di recente, e perché è stata creata. — Per quale ragione non mi hai parlato subito di queste visioni? — domandò Tallentyre. — Perché ti sei preso la briga d'insistere di essere guarito, tranne qualche sintomo persistente, ma privo d'importanza? — Non volevo che tu mi giudicassi il tipo d'uomo che si lascia turbare dagli incubi — rispose schiettamente Lydyard. — Volevo sembrarti forte e incrollabilmente razionale, perché ero certo che tu desideravi che io fossi così, e perché sono innamorato di tua figlia. Di nuovo, Tallentyre mantenne un lungo silenzio, che a Lydyard parve
una ricompensa ben misera per tanta coraggiosa sincerità. Infine, il baronetto domandò: — E ora? — Ora voglio sembrarti un uomo che sa quando occorre abbandonare la dissimulazione ed è capace di riconoscere i propri errori. Ora voglio essere un uomo capace di chiedere sinceramente il tuo aiuto, perché ne ho davvero bisogno. Anche se con scarsa convinzione, Tallentyre sorrise: — Adesso, però, ti sembro un uomo del tutto diverso rispetto a prima, immagino... — Al contrario — replicò Lydyard, ben consapevole di osare molto. — Non vedo nessuna contraddizione nel tuo comportamento. Quando è necessaria la sincerità, sei brutalmente schietto, quando è necessaria la dissimulazione, sai servirtene alla perfezione, ma comunque sei sempre del tutto consapevole della verità. Per nulla impressionato dal complimento perverso, Tallentyre chiese: — E ora ti aspetti, suppongo, che io creda che mi stai imitando, nella speranza che io mi senta adulato? — Sono lieto che tu riconosca la mia sincerità — ribatté Lydyard, compiaciuto con se stesso per essere riuscito ad escogitare prontamente una difesa tanto adeguata. Seguì un ulteriore silenzio, prima che Tallentyre mormorasse, quasi fra sé e sé: — E se il mondo dovesse rivelarsi diverso da come abbiamo sempre creduto che fosse, dovremmo pur sempre vivere in esso, come meglio possiamo... — Naturalmente, il semplice fatto che io possiedo un occhio interiore in grado di vedere in modo soprannaturale non dimostra che tutte le mie ipotesi corrispondono al vero — osservò Lydyard. — Dopotutto, forse, gli angeli tenebrosi che si sono destati dal loro lungo sonno non hanno la minima intenzione di sconvolgere il mondo. Pelorus ha suggerito che potrebbero essere del tutto disinteressati alla distruzione, ma anche che l'entità destatasi di recente potrebbe confondersi, nel trovare il mondo tanto cambiato, e potrebbe essere condizionata: forse potrebbe essere facilmente coinvolta in un conflitto. Nei miei sogni, ho implorato la dèa felina, che ho incontrato per la prima volta nella caverna di Platone, di dirmi che cosa vuole da me, ma lei non ha mai risposto. Credo che abbia scoperto che cosa vuole, o che cosa dovrebbe volere, soltanto in questi ultimi giorni, e ho paura di sapere che cos'ha finalmente deciso. Desidero molto avere il tuo aiuto, Edward, per scoprire in qual modo potrei essere sfruttato, e quale potere possiedo, perché temo che se non riuscirò a padroneggiare il dono
che mi è stato concesso, altri potrebbero servirsene per i loro scopi. Mentre Lydyard tentava ancora di valutare la reazione del tutore al suo discorso, e Tallentyre stava ancora cercando di organizzare una reazione, si udì bussare educatamente alla porta. Quasi con voce inarticolata, il baronetto rispose con un invito ad entrare. Su un vassoio d'argento, Summers consegnò la posta del mattino: cinque o sei lettere per Tallentyre, e un solo biglietto per Lydyard, con l'indirizzo scritto a mano sulla busta. Intanto che Tallentyre esaminava rapidamente la corrispondenza, Lydyard aprì la busta con un fervore dovuto alla frustrazione, più che alla curiosità, e ne trasse un foglietto. Benché la calligrafia appartenesse sicuramente a una persona istruita, il messaggio era scribacchiato frettolosamente: Il mio intervento è servito soltanto a renderla più interessante per i suoi nemici. Se desidera sapere di più, e se è in grado di credere a quello che le dirò, venga al Vauxhall Bridge, sulla riva del Surrey, alle otto. Si sbarazzi di coloro che la sorvegliano, altrimenti aumenterà il pericolo in cui ci troveremo. La firma era: Pelorus. In silenzio, Lydyard porse il biglietto a Tallentyre, il quale, deposta una lettera che stava scorrendo, lo lesse, poi osservò: — Non sappiamo se questa sia davvero la calligrafia di Pelorus. Potrebbe essere una trappola. Tuttavia, Lydyard aveva già deciso: — Lo so. Ma sarò armato, e userò la massima prudenza. — Ti accompagnerò, naturalmente — sussurrò Tallentyre. — In questa faccenda, come in qualunque altra, avrai da me tutto l'aiuto che ti occorre. Naturalmente, Lydyard non si era aspettato nulla di meno dal tutore, e gli fu molto grato per la rapidità con cui si era sbarazzato dell'irritazione e dell'angoscia provate nello scoprire che lui si era involontariamente intromesso nella sua intimità: — Ti ringrazio, ma l'uomo lupo si fida di me, almeno un poco, ed è preoccupato per me. Forse discuteremo più liberamente, se saremo soli. Ti chiedo soltanto di ascoltarmi senza riserve, quando tornerò, e di non dirmi che sono impazzito, se ti riferirò cose strane e spaventevoli. — Ti ascolterò — promise Tallentyre. — Questa vicenda riguarda me non meno di te, e sono deciso ad appurare la verità, anche se significa scoprire che il mondo in cui ho sempre creduto non è il mondo reale. Qualunque sia la verità, David, la perseguiremo senza cedimenti: quanto a questo, hai la mia parola. E qualunque aiuto ti occorra da me, non devi far altro
che chiederlo. — Grazie — ripeté Lydyard. — Con il tuo aiuto, sono diventato infinitamente più forte di quanto fossi quando mi sentivo solo. So che, se la verità può essere scoperta mediante la mia vista magica, non potrei avere amico migliore a guidare il mio occhio. — Speriamo soltanto — concluse Tallentyre — che l'enigma posto dalla nuova Sfinge non sia tanto astruso da impedirci di risolverlo. 10 La stanza in cui Pelorus condusse Lydyard era prospiciente il retro di un alto fabbricato situato a più di un miglio dal ponte presso il quale si erano incontrati. Lydyard non si era chiesto dove vivessero i licantropi di Londra, né come, ma poiché aveva visto Mandorla e la sua carrozza, aveva immaginato che non fossero privi di mezzi. A quanto pareva, tuttavia, Pelorus costituiva un'eccezione, perché Lydyard non aveva mai veduto un luogo tanto squallido e miserabile: nel varcare la soglia si rese conto che era, in un certo senso, poco meno estraneo alla sua esperienza personale, di quanto lo fosse un mondo in cui i licantropi coesistevano con la Bestia della Rivelazione. Nel consegnare il cappello e il soprabito, Lydyard si chiese in qual modo Pelorus si guadagnasse da vivere: non riusciva ad immaginare che svolgesse un lavoro normale e regolare, anche se dal suo modo di esprimersi e dal suo comportamento si capiva che era istruito, come doveva esserlo anche suo fratello, il quale era in grado di fingersi impiegato o vetturale con uguale disinvoltura. — È stato seguito? — chiese Pelorus, nell'invitare con un gesto l'ospite a sedere accanto al camino. La serata era meno fredda della precedente, ma la stanza non si era ancora riscaldata. — Soltanto fin dove mi sono lasciato seguire — assicurò Lydyard. — La folla e il traffico di Londra stanno diventando un incubo, eppure sono preziose per chi desidera sfuggire ad inseguitori indesiderati. — Io stesso ho pensato la stessa cosa, talvolta — confidò Pelorus. — Gradisce una tazza di tè per riscaldarsi? — Certamente. — Lydyard non trovava più nulla di particolarmente bizzarro nell'idea di bere il tè in compagnia di un licantropo. Mentre Pelorus collocava il bollitore sul fuoco, aggiunse: — Mi ha sorpreso ricevere il suo messaggio, dopo che ha rifiutato, in due occasioni decisamente migliori, di
rivelarmi quello che ora desidera che io sappia. Come mai ha cambiato idea? — Perché ho incontrato Jacob Harkender, e ho visto in lui quello che temevo di vedere: qualche entità si sta servendo di lui. — Per un lungo momento, Pelorus tacque, scrutando duramente Lydyard. Quindi domandò: — Sa che cosa sono? Anche se fu costretto a deglutire per sciogliere un lieve nodo alla gola, Lydyard rispose: — Certo. Lei è uno dei licantropi di Londra. Lentamente, Pelorus annuì, abbassando gli occhi straordinariamente azzurri. — Però non sono affatto sicuro di sapere che cosa significa questo esattamente — soggiunse Lydyard. — Com'è possibile che discendiate dagli esseri di cui parla la leggenda? Siete soggetti alla luna, come sostengono alcuni, oppure le vostre trasformazioni sono volontarie? In che modo riuscite a trovare le vostre prede in una grande città come questa? — La mia famiglia è imparentata soltanto alla lontana con gli altri lupi mannari della leggenda — spiegò Pelorus. — Per molti anni non ne ho mai visti di altre stirpi, e comunque mai in Inghilterra. La mia famiglia vive da diecimila anni. Non possiamo essere uccisi. Qualunque forma di violenza ci sia inflitta, siamo in grado di guarire dalle ferite e di ritornare a vivere, anche se gli incidenti più gravi causati dal fato possono farci dormire per mille anni, e noi, talvolta, ne siamo grati. Non siamo soggetti alla luna, eppure la nostra volontà non è del tutto indipendente: neppure quella di Mandorla. Abbiamo una necessità di essere umani che non possiamo negare, mentre la libertà di essere lupi ci è concessa in misura molto ridotta. Come i lupi, ci nutriamo di topi, di ratti, e di tutte le prede che possiamo uccidere facilmente. Anche se Mandorla ha coltivato il gusto della carne umana, non lo ha fatto per motivi di sopravvivenza, bensì per odio. I suoi banchetti di carne umana sono soprattutto rituali. La volontà di Machalalel mi proibisce di cibarmi di questa carne, perciò lei non si è sottoposto a nessun pericolo, venendo qui. — Come se esitasse a proposito di qualcosa che avrebbe potuto aggiungere, Pelorus fece una pausa. Infine, decise di tacere e rimase a scrutare Lydyard con gli occhi azzurri, come per valutarne la reazione. Tuttavia, Lydyard rimase impassibile: — Quale entità si sta servendo di Harkender? — Un'entità non dissimile da quella che si sta servendo di lei — rispose Pelorus, senza riguardi. — Dio o demone... Angelo o mostro... Chi può di-
re come l'abbia trasformata il tempo? Forse la conobbi, quando il mondo era giovane, ma ignoro che cosa abbia fatto di se stessa dopo aver cessato di svolgere il ruolo di Creatore. Non so neppure come si siano serviti di essa i cicli del mutamento. Sono certo che non è in grado di conoscere adeguatamente se stessa, perché tutta la sua saggezza e tutta la sua fede sono state congelate con il suo potere, e se io, che sono rimasto desto per la maggior parte di questi diecimila anni, ho trovato questo nuovo mondo di gran lunga troppo strano perché possa piacermi, quanto deve averlo trovato più strano essa, che si è svegliata soltanto di recente? — Eppure, questi esseri hanno i loro strumenti di conoscenza — osservò pacatamente Lydyard. — Tutto quello che sa Harkender, deve saperlo anche il suo padrone. E se l'immagine del mondo dipinta da Harkender è del tutto falsa, come insiste sir Edward, non è forse possibile che esso scelga di vedere attraverso mille altre paia di occhi? Senza dubbio, nulla si può celare a un essere del genere! — Vedere e comprendere non sono la stessa cosa — obiettò gravemente Pelorus. — E credo che lei se ne sia già reso conto. Il potere della Creazione non è privo di svantaggi, perché l'occhio della nostra niente muta a seconda di quello che vede, e più bramiamo l'illuminazione, più facilmente cadiamo vittima della seduzione delle immagini false o fuorvianti. — Ma almeno una volta — mormorò Lydyard — ho visto una cosa di cui non ho potuto dubitare, che non posso avere inventato, e che di certo non ho scelto di vedere. Intanto, l'acqua cominciò a bollire. Pelorus gettò il tè nella teiera, vi versò l'acqua fumante, mescolò meticolosamente. Infine, dichiarò: — Lei non è un Creatore, e può vedere più limpidamente di altri in virtù della sua anima, fredda come il ghiaccio. Nondimeno, sostiene di aver visto una volta soltanto quella che le è parsa essere in tutta evidenza la verità. I numi hanno bisogno degli oracoli più di quanto ne abbiano bisogno gli uomini, David, perché spesso vedono troppo, e non sempre abbastanza. — Versò il tè nelle tazze e ne offrì una all'ospite, prima di accomodarsi sulla propria sedia. Deliberatamente, distolse lo sguardo da Lydyard per osservare le fiamme che guizzavano e danzavano nel camino. Poi, in un tono volutamente noncurante, domandò: — Quali sono i suoi progetti? — Abbiamo intenzione di recarci a Charnley Hall, domani. Sir Edward è ansioso d'incontrare il dottor Austen, e di sentire che cosa può dirci del misterioso paziente che fu ricoverato nella sua clinica, il quale sosteneva di essere l'autore della Vera storia del mondo. Secondo il dottor Franklin, lei
lo conosceva. — Per molto tempo fu il mio unico amico — rispose Pelorus. — Il mondo è solo, senza di lui, ma anche se se n'è andato per propria scelta, non credo che rimarrà assente a lungo. Si è avvicinato moltissimo alla conoscenza assoluta, e se esiste qualcuno in grado di svelare i misteri del tempo e dello spazio, questo è lui. Quando avrà dormito per qualche tempo, allo scopo di lenire la propria delusione, ritornerà. Vorrei che fosse qui, ora, perché saprebbe molto meglio di me che cosa si può e che cosa si deve fare. Forse dovrei accompagnarvi a Charnley, e tentare di destarlo dal suo sepolcro temporaneo. Perplesso, Lydyard scosse la testa: — Non riesco a seguirla... Mi ha forse convocato qui per frastornarmi ancor più con una serie di enigmi? A sua volta, ma in segno di diniego, Pelorus scosse la testa: — Al contrario. L'ho condotta qui per fare tutto quello che posso per spiegarle che cosa ha imprigionato la sua anima. D'altronde, io stesso ignoro molte cose, e forse lei non riuscirà a credere a quello che le dirò. — Ho sopportato tanta follia, che tenterò di credere a qualunque cosa, se soltanto mi potrà essere d'aiuto. Un tempo, non avrei mai potuto credere all'esistenza dei licantropi. Adesso, però, ciò non mi riesce affatto difficile. — Ha letto la Vera storia dell'Uomo d'Argilla? — Purtroppo no. Non riusciamo a trovarne una copia da acquistare, mentre l'unica che fosse custodita al British Museum, disponibile per la consultazione, è stata rubata. L'ultimo a leggerla fu Jacob Harkender. Indubbiamente, Austen ci dirà che cosa ricorda di essa, ma ha letto soltanto uno dei quattro volumi: per il resto, deve affidarsi al ricordo di quello che gli riferì il suo paziente. In ogni modo, lei intende dunque dirmi che quella storia apparentemente fantastica è in realtà vera? — Nella misura in cui la verità può essere catturata dalla rimembranza, quello che scrisse l'Uomo d'Argilla è vero — replicò Pelorus, con enfasi scrupolosa. — I nostri ricordi non sono invulnerabili ai cicli del mutamento, tuttavia credo che si possa confidare maggiormente in essi, che nel linguaggio delle rocce e degli oggetti. La storia dell'Uomo d'Argilla è la più vera che possa essere scritta. Il libro contiene molto di più di quello che posso riferirle ora, ma devo dire tutto quello che il tempo mi consente, altrimenti lei non potrebbe neppure iniziare a comprendere quello che è, e quello che forse può ancora diventare. Nel sorseggiare il tè, Lydyard lo trovò un po' troppo amaro. Cambiò posizione, fin troppo consapevole dell'intorpidimento degli arti e del dolore
provocato dai lividi. Lo squallore della stanza gli sembrava opprimente, mentre la luce gialla della lampada ad olio era fioca e incerta. Non appena Pelorus iniziò a raccontare, tuttavia, Lydyard si isolò in qualche modo dall'ambiente che lo circondava, come se fosse diventato insopportabile, o come se l'angelo tenebroso della sofferenza fosse giunto da qualche inimmaginabile lontananza del vuoto ad approfittare della sua debolezza e della sua follia. Quantunque fosse assurdo, gli sembrò allora di non udire quello che Pelorus diceva. In seguito, però, rammentò ogni cosa in modo stranamente vivido, come se condividesse le conoscenze di Pelorus con la massima intimità possibile... Prima dell'avvento dell'umanità, esistette un'epoca che forse fu ineguagliabilmente felice, in cui la gioia fu pura e sconfinata. A quell'epoca, la forma umana non era che un capriccio: una delle numerose apparenze da indossare per un'ora, o per un anno, ma di cui era sempre possibile disfarsi. Quella fu, come la definì l'Uomo d'Argilla nella sua opera, l'Età dell'Oro. Nessuno che avesse conoscenza o memoria di quell'epoca innocente poté evitare di rimpiangerne la fine, anche se tale rammarico fu forse sciocco. Soltanto i Creatori, vale a dire i demiurghi e gli angeli caduti, potevano ricordare davvero l'Età dell'Oro, e quando acquistarono il dono della memoria, la sua limpidezza era già offuscata. La vera Età dell'Oro dev'essere stata priva d'individui: sarebbe stato assurdo, allora, parlare di entità superiori ed inferiori, dotate di poteri di tipo diverso. Ma col tempo, sicuramente nel periodo successivo all'avvento dell'umanità, questo fu il modo in cui la capacità di creare fu definita e valutata. Dalla libertà del flusso, emersero individualità in conflitto, i cui concetti di io vennero accuratamente descritti, definiti e codificati. Quando apparve l'umanità, ogni essere conosceva i propri confini, sapeva se si trovava fra i più potenti o fra i meno potenti, e aveva ormai iniziato a nutrire ambizioni e ansietà adeguate alla propria condizione. I più potenti sapevano di essere dèi, mentre i meno potenti sapevano di essere semplicemente gli Altri, «non uomini». Si sapeva inoltre che esistevano molte creature intermedie. Alle legioni di Altri che abitavano la Terra, i primi veri uomini parvero una burla ridicola di qualche Creatore crudele. Le creature limitate dalla stabilità erano nuove e strane: ancora più strano era il fatto della loro mortalità tediosa. Queste nuove creature andavano e venivano, e tutto il potere di creare che possedevano era concentrato nei loro organi genitali. D'al-
tronde, non si trattava affatto di autentica facoltà di creare, bensì di mera capacità di riproduzione, ossia di duplicarsi e di moltiplicarsi. Nella vera Età dell'Oro, i Creatori si fondevano e si dividevano, e non sapevano né si curavano di essere uno o di essere molti. Nel periodo successivo all'avvento dell'umanità, però, furono costretti a parlare di divisione e di discendenza: di Unici divenuti Molti. A quell'epoca, alcuni iniziarono a pensare di aumentare le loro nuove identità assorbendo altri: così, gli dèi che non si consideravano abbastanza grandi divennero ambiziosi di crescere. Di conseguenza, la differenza generò il conflitto, e la gioia dell'Età dell'Oro cedette in parte alla paura. Quando iniziarono a pensare in termini di prole, gli esseri dell'Età dell'Oro non accondiscesero, sulle prime, ad imitare gli uomini: la loro progenie era soggetta ai suoi stessi capricci e ai suoi stessi poteri di trasformazione. Anche se la loro forma fosse stata fissa, non avrebbero scelto di avere figli identici a loro, perché erano Creatori, le cui anime ardevano del fuoco del potere di dare forma, e desideravano sempre qualcosa di migliore, qualcosa di più nuovo, qualcosa di più luminoso: qualcosa che manifestasse il loro potere d'immaginazione. Anche se gli esseri che vissero nell'Età dell'Oro possedevano una sorta di mortalità, il concetto della morte era insensato per essi. Il potere mediante il quale si trasformavano si esaurì poco a poco, così che essi consumarono la loro sostanza, la loro energia, e infine si annullarono. Sulle prime, tuttavia, essi non pensarono che questa fosse una fine o una perdita dell'io, bensì semplicemente una fusione con il mondo: non cenere alla cenere, né polvere alla polvere, ma vita alla vita e mutamento al mutamento. Le loro anime calde arsero nella fiamma del potere di creare, ma essi non interpretarono tale destino come oblio, perché non riuscivano a concepire se stessi come singoli di durata limitata. All'inizio, non furono in grado di sviluppare il concetto di io: si considerarono semplici aspetti del febbrile processo d'incarnazione e di reincarnazione del mondo. Non poterono sviluppare neppure il concetto di storia: senza dubbio vissero momento per momento, e la loro memoria fu labile e volubile, abilissima nell'arte di dimenticare. In seguito, tutto cambiò. Per quanto possa sembrare paradossale, nessun essere della vera Età dell'Oro avrebbe potuto sapere o capire che il mondo stava cambiando. Quando tutto è flusso e libertà, quando ogni cosa può essere trasformata volon-
tariamente in qualunque altra cosa, il concetto di evoluzione, ossia di un movimento fondamentale dei modi in cui le cose sono e possono essere, non può avere alcun senso. Nondimeno, il mondo stava cambiando. Il flusso e la libertà furono delimitati dalla configurazione dell'essere che li aveva permessi: anche i Creatori erano stati creati, anche il loro potere di creare era un dono. Era esistito un inizio, un primordiale Atto di Creazione. Gli dèi erano stati creati da un Dio supremo, esterno alla Creazione, all'inquieto fuoco dell'anima, alla sua esuberante gioia di essere. Quando iniziò ad esistere il tempo, iniziò ad esistere il mutamento. Il mondo non era sempre stato identico, bensì il suo schema di sviluppo era stato creato nell'istante stesso del concepimento primordiale. Allorché questo fenomeno di mutamento fondamentale fu scoperto per la prima volta, si pensò che fosse una pecca della Creazione. Alcuni sostennero che era un difetto necessario, e che qualunque Creazione doveva essere limitata in qualche modo, vulnerabile al decadimento e all'annientamento. Altri obiettarono che si trattava di un capriccio, o di un errore, o di un fallimento del Creatore. Ma a prescindere da qualunque ipotesi, il fatto rimaneva. L'Età dell'Oro non poteva durare in eterno, il potere di creare non poteva rinnovarsi indefinitamente. Il mutamento esisteva, e un aspetto di tale mutamento era l'erosione graduale del potere creativo. A causa di tutto ciò, alcuni concepirono l'avvento dell'umanità non come una burla, bensì come una profezia. Alcuni videro negli uomini la forma di un nuovo modo dell'essere: un modo dell'essere dall'anima fredda, che, in quanto non consumava il potere di creare, avrebbe potuto continuare ad esistere quando l'esistenza fosse divenuta impossibile per altri modi dell'essere. Altri, già nei primi giorni dell'avvento dell'umanità, specularono che forse sarebbe giunta un'epoca in cui tutte le forme di vita sarebbero state fisse, e avrebbero avuto il potere di riprodursi all'infinito. Altri ancora ipotizzarono che, chiunque fosse, il Creatore che aveva creato gli uomini, presumibilmente dalla sostanza del suo stesso essere, aveva trovato una trasformazione che gli avrebbe permesso di durare molto a lungo, dopo che tutti gli altri Creatori si fossero esauriti e annientati. Nello scoprire la stabilità, questo Creatore aveva sconfitto la logica del flusso: nello scoprire la morte e la nascita, aveva sconfitto la logica della dissipazione e del decadimento. Ma nessuno sapeva quale Creatore avesse creato l'umanità, né come, né perché. Il pericolo di tutte queste supposizioni stava nel fatto che qualunque cosa venisse creduta, poteva avverarsi proprio per questo. Secondo alcuni, lo
schema di mutamento intrinseco alla Creazione non era affatto fisso, mentre altri sostenevano che si trattava soltanto di un'illusione della paura e della fede. Costoro gridavano a tutti che la rovina dell'Età dell'Oro era un fallimento dei Creatori, e che il futuro che sembrava scritto nell'immagine dell'uomo sarebbe divenuto il futuro autentico soltanto se i Creatori fossero stati abbastanza deboli e sciocchi da crederlo. Tuttavia, il mondo mutò. La razza umana dall'anima fredda prosperò e si moltiplicò, intanto che il mondo cambiava intorno ad essa, rimodellandosi secondo l'immagine del suo modo di essere. Quasi tutti gli Altri, che avevano indossato forme umane per capriccio, oppure avevano assunto aspetti chimerici, cedettero alla pressione dell'inevitabile, o di quello che credevano fosse l'inevitabile. Alcuni si preoccuparono di salvarsi dalla mortalità, altri conservarono un poco del loro potere sulla forma e sull'apparenza, ma quasi tutte le entità inferiori dell'Età dell'Oro acconsentirono alla fine a diventare umane, oppure molto simili all'umanità, allorché giunse la conclusione dell'Età dell'Oro. Nella vera Età dell'Oro non erano esistiti enigmi e misteri, né domande da porre, né risposte da trovare. Ma quando l'Età dell'Oro iniziò a dissolversi, il mondo si colmò di enigmi, di segreti, di dilemmi. Perché esisteva il mutamento? Quali opportunità offriva e quali pericoli poneva? Il fallimento dei Creatori superiori nell'assumersi la responsabilità del destino era una necessità o una debolezza? I Creatori dovevano servirsi del potere di cui disponevano per la pura gioia di usarlo, oppure dovevano iniziare invece a risparmiarlo? Gli Altri, che consideravano la condizione umana dell'essere come orribile e deforme, divennero terribilmente timorosi che il mondo si trasformasse lentamente e inesorabilmente fino a colmarsi di esseri umani, i quali riproducevano meccanicamente la loro specie infima, mentre le altre specie, più perfette e più preziose, scomparivano poco a poco. Questi ultimi Creatori, alcuni superiori e altri inferiori, iniziarono a ricercare la conoscenza con i mezzi di cui disponevano: l'intuizione, la rivelazione, la vista dell'occhio interiore. Ma quello che vedevano doveva pur sempre essere interpretato, compreso, organizzato in maniera coerente. E la vista dell'occhio interiore non era meno soggetta alle deformazioni delle credenze false di quella dell'occhio esteriore. Per poter vedere limpidamente e lontano, l'occhio interiore aveva biso-
gno di sottoporsi a una disciplina estremamente dolorosa. Perciò fu mediante la sofferenza e la negazione di sé, che i maghi e i saggi del mondo ottennero l'illuminazione. Si scoprì che il dolore era il mezzo mediante il quale l'occhio interiore poteva essere purificato e potenziato. Sia per gli Altri che per gli uomini, il dolore era di solito spiacevole: portato agli estremi, diventava insopportabile. Eppure, tutto ciò era compensato da una strana ebbrezza, che era la pura gioia dell'illuminazione. Gli esseri inumani di quel mondo antico non erano affatto simili agli uomini nella vulnerabilità alle ferite e alle malattie. La rapidità di guarigione era il complemento principale della capacità di mutare forma, o viceversa. Un'entità troncata in due parti o in una dozzina di pezzi, poteva riformarsi da ognuna delle porzioni senza eccessiva difficoltà, oppure poteva trasformarsi in altrettanti esseri nuovi e diversi quanti erano i pezzi. Questi esseri non avevano bisogno del dolore come avvertimento dei pericoli, delle ferite, o delle malattie, perciò il dolore stesso poteva svolgere funzioni e assolvere scopi molto diversi. Nondimeno, quando gli esseri umani popolarono il mondo, la loro natura obbligò il fenomeno del dolore a subire un adattamento molto diverso, che lo privò di tutte le sue caratteristiche di ricompensa, rendendolo qualcosa da evitare consapevolmente: uno sprone per guidare la nuova emozione della codardia. La vigliaccheria non era ignota agli esseri inumani, ma l'assenza di essa poté essere considerata da costoro un titolo di merito soltanto dopo l'avvento dell'umanità nel mondo. Ecco perché nella Vera storia del mondo si narra che l'Età dell'Oro fu seguita dall'Età degli Eroi. Prima che esistesse la codardia, non poterono esistere eroi. Prima che il dolore che purificava la vista si tramutasse nella sofferenza che era soltanto sofferenza, non poterono esistere nobili màrtiri, né crudeli torturatori. Dal punto di vista degli esseri umani, l'Età dell'Oro corrotta sembrò forse un'epoca estremamente maligna, vale a dire dolorosa, tuttavia non poté certo sembrare tale agii Altri, che avevano un'esperienza molto diversa del dolore, e dunque una concezione molto diversa del male. Comunque, l'Età degli Eroi fu un'epoca malvagia per tutti: sia per gli umani, sia per gli inumani. Anche prima dell'avvento dell'umanità, esistettero alcuni esseri nel mondo, i quali cercarono la conoscenza infliggendo il dolore e le privazioni non a se stessi, bensì ad altri, o imprigionando oracoli per cercare avidamente di trarre da loro nuove conoscenze. Tuttavia, questo comportamento
non fu considerato codardo o crudele prima che esistessero la codardia e la crudeltà: fu considerato in questo modo soltanto quando gli umani, scoprendo che gli altri mezzi di illuminazione erano loro virtualmente negati, iniziarono ad imitare queste pratiche degli Altri. In seguito, alcuni esseri umani riuscirono ad aprire i loro occhi interiori, trovando così una via all'illuminazione difficile e insidiosa, che poteva essere percorsa per un breve tratto mediante la disciplina e la negazione di sé, anche se nella maggior parte dei casi lo sforzo era del tutto sproporzionato alla ricompensa. Pochissimi svilupparono la vera vista, e persino costoro furono inclini a creare un enorme apparato di falsità sulla base di scarsissime conoscenze ottenute mediante la vera vista: così, le illusioni e le false credenze mantennero la preminenza. Gli esseri umani, purtroppo, erano costituiti in maniera tale, che avevano possibilità di gran lunga maggiori di ottenere le ricompense della conoscenza intuitiva indirettamente, ossia tormentando gli Altri e obbligandoli a parlare, piuttosto che direttamente, agendo su loro stessi. Per questa ragione, gli Altri inferiori divennero i nemici degli uomini e delle altre creature con cui condividevano il mondo. Iniziarono ad evitarli, forse non tanto per timore di soffrire, quanto perché odiavano quello che gli esseri umani diventavano quando si dedicavano a tali imprese. Anche gli Altri superiori, che pure non avevano ragione di temere gli umani e i loro strumenti, cominciarono a nascondersi, divennero avari nell'uso del loro potere, oppure diventarono predatori. Ecco perché gli Altri inferiori, per mantenere l'io e l'individualità, furono costretti a nascondersi anche da loro, oltre che dall'umanità. Col trascorrere del tempo, il mondo divenne quieto e freddo nell'anima. Gli Altri fuggiaschi si smarrirono poco a poco, e i Creatori medesimi, che si consideravano divinità, eppure avevano sviluppato avidità e paura, incertezza e confusione, si nascosero a loro volta, per aspettare, e aspettare: nessuno, e meno di tutti loro stessi, sapeva perché. Intanto, il mondo cambiò, mutò, si trasformò. Nessuno sapeva se il mutamento avesse una sola fine predestinata, oppure molte conclusioni possibili, né quale potesse essere la fine medesima, ammesso che una fine dovesse esservi, né che cosa sarebbero diventati i Creatori nascosti nella sostanza della Terra, né che cosa potessero fare, né che cosa potessero sperare di diventare. Comunque, esistevano alcuni che bramavano una fine, o una trasformazione, altri che desideravano un nuovo Atto di Creazione che risi-
stemasse il mondo. Costoro esistono ancora, ma non possono sapere quali Atti di Creazione siano ancora possibili, né sanno, nell'intimo dei loro cuori, quali fini siano realmente desiderabili. E nella loro confusione, nella loro ignoranza, nella loro paura, sono pericolosi: per gli uomini, e forse anche per il mondo medesimo. 11 Quando Pelorus smise di parlare, il flusso immane di parole e di immagini che aveva inondato la mente di Lydyard si esaurì poco a poco, fino a lasciare null'altro che pochi echi fugaci. Soltanto allora Lydyard fu di nuovo in grado di vedere, e divenne consapevole di quegli occhi sfavillanti, azzurri come il cielo d'Egitto. Sapeva di non avere semplicemente ascoltato: aveva collegato la propria coscienza a quella del licantropo, in un modo non dissimile da quello in cui, in sogno, era entrato nei pensieri di Elinor Fisher: — Intendi dire che tutto ciò è letteralmente vero? — chiese, debolmente. — Questo è quello che ricordi delle tue origini e della più antica storia del mondo? — Questo è quello che so — rispose Pelorus. — E anche se la maggior parte di quello che ho narrato accadde prima che io venissi al mondo, ti ho mostrato come viene rappresentato nella mia mente, in cui è stato impresso con lo stesso metodo che io ho usato per trasmetterlo a te. Se insisterai a dirmi che si tratta soltanto di una favola o di una menzogna, come disse James Austen all'Uomo d'Argilla, non potrò opporre nessuna certezza alla tua negazione, perché so bene, come lo sanno tutti, quanto sia fallace la memoria, e anche perché la storia che ti ho narrato è costituita in gran parte di sogni. Forse non è vera affatto, o forse contiene la verità in forma cifrata. In ogni modo, questo è quello che so io, e quello che sapeva l'Uomo d'Argilla. Entrambi conosciamo abbastanza il mondo per essere certi che la storia tramandata dai fossili e dai reperti è pura apparenza. La storia più vera, ossia di gran lunga più vera di quella che tu conosci, non è stata ancora narrata. — Che cosa stai cercando di svelarmi? Perché ti sei preso la briga di raccontarmi questa storia? — L'epoca dei grandi Creatori è scomparsa da molto tempo — spiegò pacatamente Pelorus. — Quasi tutti si annientarono dissipando il loro potere. Tutto quello che resta di loro è nella riproduzione meccanica di tipo umano, mediante la quale le piante e gli animali producono incessante-
mente copie di loro stessi, all'infinito. Alcuni Creatori cercarono d'immunizzarsi dalla dissipazione risparmiando il potere e nascondendosi: in altre parole, tentarono di preservare il proprio potenziale mediante l'inattività. «Alcuni divennero predatori per assorbire il potere creativo di altri. Tutti costoro divennero estremamente diffidenti nei confronti di tutti gli altri esseri, e in particolar modo dei loro simili. Costoro sono gli angeli che caddero sulla Terra, o meglio nella Terra, e divennero parte della sua sostanza: di essi si conserva memoria nelle mitologie. Nessuno ha mai saputo veramente quando e se torneranno, in quale forma, e a quale scopo, anche se alcuni hanno nutrito speranze e timori. Mandorla e i seguaci di Sant'Amycus sperano, seppure in modo molto diverso, che il loro ritorno sia inevitabile, e che sarà seguito da una trasformazione totale del mondo delle apparenze. L'Uomo d'Argilla ed io, invece, speravamo che non sarebbero mai tornati, o che, in tal caso, non avrebbero avuto il potere di provocare un mutamento reale. «Io non ho abbandonato questa speranza, ma temo che possa essere infondata. Speravo che questo nuovo risveglio avesse semplicemente uno scopo d'indagine e di esplorazione, in accordo con lo spirito dell'epoca. Ma ora che ho incontrato Harkender, credo che il suo padrone abbia scopi più tenebrosi. Può darsi che quest'ultimo abbia aiutato Harkender a creare Gabriel Gill semplicemente per impadronirsi del potere incarnato nel fanciullo. Tuttavia, temo che esso stia tessendo una ragnatela ancor più complicata. Il fanciullo potrebbe essere nulla più che l'esca di una trappola, in cui attirare la seconda creatura, e forse anche il suo Creatore. Se è così, allora anch'essa si trova in grande pericolo. — Questo avvertimento è per me, oppure è diretto, tramite me, all'entità che ha aperto il suo occhio bramoso dentro di me? — L'uno e l'altro — rispose francamente Pelorus. — Ma la mia preoccupazione principale è per essa e per l'umanità, perché potrebbero esservi valide ragioni per temere il suo padrone non meno del padrone di Harkender. Non sono in grado di stabilirlo. — Ho l'impressione che tu non possa dire nemmeno se quello che credi è vero. Se ho ben capito, condividi i ricordi dell'Uomo d'Argilla, e presumibilmente anche quelli di altri come te. Ebbene, può darsi semplicemente che tutti voi condividiate il medesimo sogno folle. — La memoria è fallace — riconobbe Pelorus. — Tutto è soggetto ai cicli del mutamento. Quando si desterà dal sonno che simula la morte, l'Uomo d'Argilla avrà forse dimenticato di avere mai assunto le identità di Lu-
cian de Terre e di Adam Clay, e forse il suo libro è scomparso dalla faccia della Terra. Allora lui ed io, forse, ricorderemo una storia del tutto diversa, e saremo perfettamente convinti che si tratta dell'unica storia che abbiamo mai conosciuto o vissuto. Non posso negarlo, sapendo quanto è incerto il mondo delle apparenze. — Dev'essere inquietante vivere in tale incertezza — osservò Lydyard, con voce neutra. — La conoscenza e la vista sono inquietanti, oltre che incerte — convenne Pelorus. — Senza dubbio anche tu lo sai benissimo, ormai. — A dir poco, i sogni e gl'incubi m'inquietano — confessò Lydyard. — Però non ho ancora rinunciato alla speranza di poter separare la realtà dall'illusione. E trovo estremamente difficile credere che tutte le apparenze, dall'immensità e dalle leggi fisiche dell'universo alle parole stampate sui libri, siano suscettibili di mutare per effetto di azioni creative arbitrarie. Non esiste forse un paradosso in quello che dici? Sostieni di sapere che la storia in cui crediamo è falsa, e questa tua conoscenza si basa sul fatto che hai un ricordo diverso della storia. Eppure riconosci che è probabile che il tuo ricordo sia altrettanto falso. — Sono certo che sir Edward Tallentyre ricorrerebbe ad argomenti di questo genere, ai quali non so come rispondere in maniera soddisfacente. Tuttavia — insistette Pelorus — non è sir Edward ad essere stato maledetto dalla vista interiore e dal potere dei sogni. Tu stesso sei l'unico che deve decidere che cosa sei, e che cosa puoi diventare. Io ho cercato di fare tutto quello che posso per avvertirti, e credo che tu capisca che cosa intendo dire. Con mano malferma, Lydyard sollevò la tazza per bere un ultimo sorso, scoprendo che il tè era già freddo: — Sono un oracolo — dichiarò, quasi con noncuranza. — Mandorla, Harkender, e l'entità che mi ha fornito questo potere, vogliono torturarmi per amplificare la mia vista. Ma che cosa vogliono che io scopra? Il licantropo si strinse nelle spalle: — Mandorla brama sapere chi sia la seconda creatura, di cui tu sei gli occhi. Inoltre, intende realizzare progetti molto più vasti con l'aiuto di Gabriel, ammesso che riesca a tenerlo con sé. Ciò non significa, però, che non intenda servirsi anche di te. Il padrone di Harkender desidera scoprire a sua volta tutto quello che può sul suo avversario. Quanto all'entità che ha fatto di te quello che sei diventato, ha bisogno per prima cosa dei tuoi pensieri, della tua vista, della tua comprensione del mondo. Ma quando avrà assorbito tutte queste conoscenze, chi può
prevedere che cosa potrà vedere, se soltanto... — Se soltanto verrò torturato abbastanza? — Se soltanto la tua vista potrà essere sviluppata e sfruttata interamente. Tu stesso sei una sorta di novità, un esperimento intrigante, anche se sono certo che non è questo il punto di vista del tuo padrone. Jacob Harkender iniziò a seguire la via del dolore molto tempo prima che il suo occhio interiore iniziasse a vedere, e anche se di recente la sua veggenza è aumentata, egli è soprattutto quale si è forgiato da sé. A te, invece, la vista è stata imposta con maggior violenza. Inoltre, tu possiedi uno scetticismo che non è mai stato posseduto da nessuno di coloro che hanno ottenuto la vista naturalmente o volontariamente. Non so se ciò renderà la tua vista più vera delle altre, ma sarebbe interessante sapere che cosa potrebbe vedere, se... — Ancora questo «se» — interruppe Lydyard, in tono aspro. — Anche tu rappresenti un pericolo per me, dunque? O intendi semplicemente suggerirmi che potrei sottopormi volontariamente alla tortura, per alimentare i fuochi della mia anima divenuta calda? Il licantropo scosse la testa: — Non posso nuocerti in alcun modo. Non ti minaccio, come non ti minacciano i frati di Sant'Amycus, che non ricorrono mai alla costrizione. Non posso neppure suggerirti di dedicarti alla via del dolore, perché ho conosciuto troppe persone che l'hanno seguita, alcune delle quali volontariamente, e non sono affatto convinto che l'estasi che alcuni hanno dichiarato di avere scoperto al di là del dolore valga il prezzo che hanno pagato per ottenerla. I puri di cuore vedono le divinità, ma l'Uomo d'Argilla ha sempre creduto che nei momenti di estasi la speranza trionfa talmente sulla ragione, che le divinità viste sono soltanto le proiezioni ingigantite e trasfigurate di coloro che hanno la visione. — Non occorre che tu mi suggerisca di non ricorrere a certi metodi — mormorò Lydyard. — Non sono tanto pazzo da torturarmi per aumentare gli incubi, né da credere a tutto quello che vedo quando soffro e sono in preda alla febbre. Quale che sia il potere dell'occhio interiore, continuo a preferire le conclusioni della scienza e della ragione. E credo che il mondo sarebbe un luogo migliore, se tutti gli uomini condividessero questa preferenza. — Vorrei che l'Uomo d'Argilla potesse sentirti, perché questo era il suo stesso punto di vista, nonché la sua speranza per la salvezza del mondo. La sua Età dell'Oro, l'unico regno dei cieli che lui abbia mai desiderato, dovrà essere costruita dal lavoro e dall'intelligenza degli uomini dall'anima fredda, quando verrà il giorno in cui gli angeli caduti saranno affidati all'eterno
riposo: egli aveva fede nell'evoluzione, non negli Atti di Creazione. — Allora è terribile che non abbia mai conosciuto sir Edward. Ed è doppiamente terribile che il serpente che ha morso me, non abbia scelto lui: sarebbe stato un esperimento di gran lunga più significativo, infatti, opprimere il suo scetticismo con la maledizione della vista. Anziché rispondere, Pelorus eseguì uno strano gesto, come se cercasse di avvolgersi meglio negli indumenti per riscaldarsi, e proteggersi dal freddo notturno. Forse la glabra pelle umana non gli è sufficiente, su quest'isola umida e tetra, pensò Lydyard. Poi, d'improvviso, chiese: — Che cosa vuoi da me? Ti ringrazio per tutto quello che mi hai detto, naturalmente, ma sospetto che tu voglia qualcosa in cambio. — Ti chiedo soltanto questo: se la tua vista ti fornisse alcune delle risposte che non conosco, avvertimi. Ne hai i mezzi, ora. Poiché aveva già condiviso la sua coscienza e la sua memoria carica di sogni, Lydyard non ebbe bisogno di domandare a Pelorus che cosa intendesse dire: sapeva che ormai esisteva un legame fra loro. Chiese invece: — Che cosa faresti, se una di queste Bestie dell'Apocalisse decidesse di dedicarsi alla distruzione? Che cosa potresti fare? Non ho dimenticato quello che ti ha fatto la sfinge in Egitto. — Machalalel è morto, ma la sua morte può essere soltanto quel genere di sonno in cui è sprofondato l'Uomo d'Argilla. E in tal caso... Be', io solo sono il portatore della sua volontà, e sono in grado di destarlo dal suo riposo. Egli non era affatto il sommo fra i sommi, ma anche queste entità avrebbero qualcosa da temere, se lui si svegliasse. Questa è una delle ragioni per le quali Mandorla è tanto ansiosa di sbarazzarsi di me. Stancamente, Lydyard scosse la testa: — È troppo... Veramente troppo... — Io non chiedo nulla — sussurrò Pelorus — neppure la tua fiducia. Dico soltanto che se e quando non potrai fare a meno di vedere, io ascolterò. E se mai avrai bisogno del mio aiuto, ti prometto che lo avrai. Non sei solo, e anche se forse sono un alleato debole, rimarrò sempre tuo amico. Non sono solo, pensò Lydyard. Non sono solo. Incuriosito, domandò: — Non puoi rafforzare la tua vista? Non puoi nutrire i tuoi sogni con il dolore, in modo che ti rivelino quello che ti occorre sapere su quei fantasmi del passato? — Posso nutrirmi come lupo o come uomo — rispose Pelorus, con rammarico — e posso bere come lupo o come uomo, ma posso sognare soltanto come lupo, perché quando sono in forma umana, la mia anima non
è meno fredda di quella di sir Edward Tallentyre. Quando sono uomo, sono quasi incapace di gioia lupesca, mentre quando sono lupo, sono quasi incapace di razionalità umana, e debbo seguire la mia volontà animale. Persino Mandorla, che è capace di far l'amore come donna, non può sognare come una donna: i suoi poteri magici sono scarsi, anche se pretende il contrario. Ecco perché ha bisogno di Gabriel Gill, ed ecco perché ritenterà sicuramente di catturare te... — Per usarmi come oracolo, torturandomi — concluse Lydyard. — Ma Gabriel Gill, se si deve credere a quello che si dice di lui, è umano a malapena, e senza dubbio è un oracolo molto più potente di me. — Infatti — confermò Pelorus, con voce dolente. — Tuttavia Mandorla è troppo astuta per correre il rischio d'infliggere dolore a una creatura che non ha soltanto il potere della vista. Con la seduzione, tenterà d'indurlo a servirsi di tutti i suoi poteri, ma forse ciò non sarà facile. Forse abbiamo motivo di essere grati che egli sia incarnato come fanciullo, e non come adulto, perché è difficile resistere a Mandorla. È molto pericolosa: anche se non può guidare la mano creatrice di Gabriel, può fare di tutto per tentare di suscitare un conflitto violento tra il padrone di Harkender e la Belva creata in Egitto, senza alcun timore per se stessa: dopotutto, lei è immortale, e non può essere annientata, neppure se gioca con il fuoco. — Eppure — osservò Lydyard, provocatorio — se fossi abbastanza sfortunato da cadere nelle mani di Mandorla e se fossi costretto a vedere tutto quello che può essere visto, tu saresti senza dubbio lieto di sapere che cosa scoprirei... — Non è questo che voglio — assicurò Pelorus. — Preferirei di gran lunga vedere Mandorla obbligata a desistere. E ti esorto ad usare l'arma che porti, all'occorrenza. — Forse dovrei esserne contento — insistette Lydyard. — Se non altro, se desideri che io soffra, preferisci che mi torturi da solo. — Mi fraintendi — assicurò pazientemente il licantropo. — Sarei sinceramente dispiaciuto, se tu venissi torturato. Ti libererei, se potessi, dal fato tremendo che ti ha colpito, e guarirei la tua anima ardente. Purtroppo, non posso farlo. Tutto quello che posso fare, invece, è rivelarti quello che so, nella speranza che ciò possa aiutarti a capire, e dunque a dominare, la tua afflizione. Credimi, David: anche se sono lupo, oltre che uomo, sono tuo amico. Allora Lydyard rammentò la prima e la più frequente delle sue visioni ricorrenti: Satana mesto e sofferente, che arrostiva sulle fiamme dell'Infer-
no e protendeva la mano libera nella speranza di redimere il mondo, soltanto per vedere la Terra sottrarsi ostinatamente al tocco della sua mano risanatrice. Aveva creduto di vedere se stesso nella condizione disperata dell'angelo impotente, ma in quel momento si rese conto che ad essa poteva essere paragonato anche il fato di un altro... Non aveva modo di sapere se fosse ironia o profezia, ma rammentò l'altra visione, a cui era parsa condurlo la sua preghiera fervida: Dio quale confine dell'universo, del tutto impotente ad intervenire. — Credo di capire, adesso — dichiarò Lydyard — perché mi dicesti che forse saresti stato un amico di gran lunga migliore, se soltanto avessi potuto lasciarmi in pace... — E capirai anche — rispose Pelorus — perché sono indotto tanto spesso ad usare la parola «purtroppo». In seguito, Pelorus accompagnò Lydyard al Vauxhall Bridge. Era mezzanotte passata, ma la città non era ancora silenziosa, e sul fiume, dinanzi agli innumerevoli pontili, navigava ancora una miriade di imbarcazioni. — Riuscirai a trovare un cab? — chiese Pelorus. — Ne dubito — rispose duramente Lydyard. — Ma non devo temere di essere aggredito e rapinato, perché, come te, ho una pistola in tasca: posso difendermi anche dagli uomini, oltre che dai licantropi. Se la nebbia mi farà prendere un raffreddore e mi verrà la febbre, mi addentrerò con tutto il coraggio di cui dispongo nella wilderness del mio delirio. Inquieto, Pelorus si volse ad osservare il fiume, in direzione di Lambeth Bridge e di Westminster. — Credi davvero che io abbia qualche speranza? — chiese Lydyard. — Se quello che mi hai detto è vero, quali possibilità ho di sopravvivere a questa vicenda? Il licantropo continuò ad osservare le acque torbide del Tamigi: — Non bisogna mai disperare. L'entità che ti possiede non ti lascerà morire facilmente. Non posso garantirti che non ti farà soffrire, o che impedirà che ti facciano soffrire, ma finché avrà bisogno di te, ti manterrà in vita. E se arriverà il momento in cui non avrà più bisogno di te, ti lascerà semplicemente libero. E se tu scoprirai quello che ha bisogno di sapere, se vedrai quello che ha davvero necessità di vedere, allo scopo di comprendere che cosa è, che cosa può essere, che cosa dovrebbe fare di se stessa... Ebbene, potrebbe essere persino capace di gratitudine. — Dunque dovrei considerarla una specie di... prova del fuoco. Per un
poco, Lydyard tacque. Poi, d'improvviso, domandò: — Perché l'Uomo d'Argilla viene chiamato in tal modo? — Perché fu creato dall'argilla, allo stesso modo in cui la mia famiglia fu creata da un branco di lupi. Noi siamo, suppongo, i primi esperimenti del mondo, e come accade con la maggior parte degli esperimenti, abbiamo fallito. Con un po' di fortuna, tu potrai fare di meglio. Ti prego, David: credimi. Puoi riuscire! Non oso assicurarti che non soffrirai, ma non devi credere che soltanto perché sei un uomo e non un dio, non hai il potere di influenzare il corso di questa vicenda. Il coraggio e l'intelligenza non sono affatto da disprezzare. — Ti garantisco che non li disprezzo. Dubito soltanto di possederli in misura adeguata. Senza rispondere, Pelorus deviò lo sguardo dalle acque fosche del fiume alle luci della riva: — Una volta, vidi ardere questa città, consumata dal furore del fuoco. Fu l'ultima volta che vidi Mandorla felice: l'ultima volta che la vidi in estasi per un'emozione sincera. Non posso fare a meno di amarla, perché lei è il centro del mio mondo lupesco, la padrona della gioia animale infinita che la mia anima anela. Allora, tuttavia, la sua felicità si trasformò ben presto in delusione, quando scoprì che il mondo non veniva trasformato. La città lignea fu ricostruita in pietra: un monumento ancora più gelido e possente all'anima e al lavoro dell'umanità. Londra non brucerà mai più, David, e io prego che non crolli mai, che non si disgreghi mai nella polvere e nella sabbia del deserto, come Eliopoli e Menfi, Cartagine, Troia... — È molto più probabile che affoghi nei suoi liquami fetidi — ribatté Lydyard. — La sua aria e le sue acque sono troppo avvelenate, e troppi, fra coloro che affollano le sue strade, sono poco più che rifiuti umani. Abbiamo ancora molta strada da fare per trasformare la Terra in un paradiso. E secondo alcuni, le città sono ferite purulente sul volto della civiltà. Credo che vi sia stata una pestilenza, prima del Grande Incendio... Vedesti la gente morire nelle strade, prima che le fiamme giungessero a purificare e a cauterizzare? — Ho visto di peggio: ero in Inghilterra, al tempo della peste nera. Ma le malattie possono essere sconfitte, e anche la follia: lo saranno di certo, se uomini come Gilbert Franklin e James Austen saranno liberi di studiare e di operare. Prima di attraversare il ponte, David Lydyard non disse addio a Pelorus, il quale rimase immobile a seguirlo con lo sguardo, né lo ringraziò per la
povera ospitalità che le circostanze gli avevano consentito di offrirgli. 12 Quando Lydyard arrivò a Sturton Street, la nebbia si era ormai addensata, trasformando la luce dei lampioni a gas in uno splendore diffuso, quasi magico. Nell'avvicinarsi alla casa, lanciò un'occhiata penetrante al marciapiede opposto, illuminato a stento, e non vide nessuna spia. Sapendo della sua assenza, Summers non aveva sprangato la porta principale: Lydyard la aprì con la chiave, entrò, e la sprangò. Il maggiordomo aveva lasciato anche un lume nell'atrio: lo prese, dopo essersi tolto il cappello, il soprabito e la sciarpa, poi salì le scale cercando di muoversi il più silenziosamente possibile: era evidente che Tallentyre non si era preso la briga di aspettarlo. Un lieve rumore lo fece trasalire e lo indusse a fermarsi, ma poiché la vecchia casa era sempre cigolante e scricchiolante, di notte, quando la temperatura si abbassava, riprese subito a salire, imprecando contro se stesso per il proprio nervosismo. Sul corridoio che conduceva alla sua stanza si aprivano sei porte, una delle quali era del bagno, e un'altra del gabinetto. La stanza grande in fondo e lo spogliatoio attiguo erano di Cordelia. La camera dirimpetto a quella di David era riservata agli ospiti. Notando che la porta della stanza degli ospiti era socchiusa, Lydyard la fissò per un momento, accigliato, prima di rimediare alla dimenticanza e chiuderla. Quindi si ritirò nella propria camera e sedette sul bordo del letto. Benché fosse tanto spossato dalla lunga passeggiata, che gli sembrava di non avere la forza di spogliarsi, non si sentiva particolarmente assonnato. Posata la rivoltella sul comodino, si tolse la giacca e la gettò su una sedia, quindi si sfilò gli stivali e si tolse le calze dai piedi doloranti. Infine, si coricò, supino, con la testa sul cuscino. Nonostante la stanchezza, era molto inquieto. Ascoltò pazientemente i rumori lievi della notte e meditò su Pelorus e sui licantropi di Londra: per una volta, la sua mente non fu assalita dalle visioni. Anche se il lupo mannaro gli sembrava tanto stranamente malinconico, aveva l'impressione che sarebbe stato incomparabilmente meraviglioso sapere di non poter morire e di poter vivere fino ad assistere alla fine del mondo, non importava come e quando fosse giunta. Poi, con suo rammarico, non arrivò il sonno, bensì una sorta di visione.
Poco a poco, la sua mente fu invasa dai pensieri di un'altra persona, che iniziarono a confondersi e ad intrecciarsi con i suoi. Un'ansietà che non era del tutto sua gli fece palpitare il cuore. Ma non provo dolore! protestò Lydyard. Eppure non era del tutto vero, perché sentiva la sofferenza attutita dei lividi, la quale parve intensificarsi all'improvviso quando ebbe inizio la visione, anche se egli era troppo confuso per capire se l'amplificazione della sensibilità fosse la causa o l'effetto. Ancora una volta, rimase prigioniero in una mente altrui: vide quello che l'altra persona vedeva, sentì quello che l'altra persona sentiva. Si trattava di un uomo quasi paralizzato dalla tensione, ardente di determinazione, il quale digrignava i denti per resistere alle attenzioni indesiderate di un terrore strisciante: i suoi pensieri erano colmi di nomi, che si susseguivano insieme alla consapevolezza della vicinanza di altri uomini al suo comando. Fra i nomi altrui spiccava il suo nome, a cui l'uomo si aggrappava con la mente, quasi come se temesse di dimenticarlo: era Caleb Amalax. Benché Amalax sapesse dove si trovava, Lydyard, per alcuni caotici secondi, non fu in grado di capire se fosse nelle vicinanze, oppure dalla parte opposta del mondo. Rimase ad osservare, mentre Amalax segnalava, a un certo Calan e a un certo Jack, di recarsi a una certa porta, in un certo corridoio illuminato da una candela, con una passatoia sul tavolato. Dopo avere obbedito, Calan e Jack scoprirono che la porta poteva essere aperta. Allora Lydyard riconobbe la porta al tatto, e per alcuni istanti la sua memoria e la sua vista si sovrapposero, si confusero. Perché? Si sforzò di riflettere, ma la consapevolezza che la sua stessa mano, la mano di David Lydyard, aveva toccato quella medesima porta, nel medesimo corridoio fiocamente illuminato, meno di mezz'ora prima, fu talmente peculiare che non riuscì a collegarla razionalmente con quello che stava succedendo in quel momento a un altro uomo. Osservò Calan attraversare il corridoio per accostarsi a un'altra porta. Ciò suscitò in lui una sensazione ancora più strana, perché si trattava di una porta che aveva toccato molte volte e che conosceva più che bene. Le sue sensazioni, già terribilmente intricate, si allacciarono in un nodo stretto e lugubre che non gli piacque affatto. Ebbe l'impressione di udire il rumore della porta che si apriva, non una volta soltanto, bensì due volte. Per meno di un attimo rimase quasi paraliz-
zato, come Amalax, poi, come per effetto di un'eco strana, trasalì, in preda all'ansia. La porta si aprì maggiormente, con uno strofinio. Di nuovo, Lydyard, confuso, ebbe l'impressione di udire il rumore due volte. Sentì un fruscio come di abiti e di trapunta, percependo anche una pressione sulla pelle. Soltanto allora si rese conto che Amalax e gli altri erano vicinissimi, e che quella che era stata appena aperta, era la porta della sua camera. Più nitidamente della propria reazione, Lydyard percepì quello che Amalax vedeva e pensava: uno sconosciuto si era mosso sul letto e forse stava per alzarsi. La luce della candela tenuta da Jack era schermata dalla porta, perciò Amalax, con gli occhi già abituati all'oscurità, vedeva Lydyard soltanto come una sagoma scura nel buio: arretrò, e indicando con la mano con cui teneva un lungo pugnale, ordinò a Calan di appostarsi all'altro lato della porta. Più nitidamente del proprio allarme, Lydyard percepì la tensione di Amalax, che si era collocato dirimpetto a Calan e lo aspettava. Nell'alzarsi, gli sembrò di osservare se stesso con la stessa passività e la stessa impotenza con cui osservava l'altro. Prendendo la rivoltella dal comodino, sentì che Amalax non aveva paura, ma non era meno ansioso di lui. Per nulla frenato dalla consapevolezza del pericolo, si recò alla porta e la spalancò. Pur avendo la rivoltella in pugno e pur credendo di essere pronto a tutto, fu colto stupidamente alla sprovvista dalla sensazione di panico che gli giunse di rimando, nonché dall'aggressione che subito seguì. Ignorando che Lydyard era armato, Amalax agì con imprudenza: gli passò un braccio attorno al collo e sollevò il pugnale. La tensione e la smania del gigante gli giunsero con tale violenza da soffocare la sua collera tardiva e sciocca: Lydyard lottò confusamente contro il braccio che lo soffocava, perfettamente desto come catturatore, ma semistordito dalla stanchezza come catturato. In tutto, gli aggressori erano cinque. Amalax non poteva vedere la sua rivoltella, ma Calan, o Jack, o uno degli altri, la vide: percosso da una bastonata, Lydyard mollò la pistola, che cadde e rimbalzò nel buio. Nel sentire il rumore attraverso le orecchie e la mente di Amalax, percepì l'esplosione di paura che esso suscitò. Scoprì, consapevole del trionfo dell'altro e al contempo della propria disperazione, di non potersi opporre a un avversario che era molto più grosso, più pesante e più forte di lui. Sempre soffocandolo per impedirgli di gridare, Amalax lo tirò di peso fuori dalla stanza, in corridoio. Lydyard
ebbe nello stesso momento la sensazione di tirare e di essere tirato, poi vide quello che in un certo senso già sapeva: gli altri assalitori, e lo scintillio della fiamma sulla lama del pugnale che aveva dinanzi agli occhi! Quando Amalax gli sibilò all'orecchio, Lydyard ebbe la duplice sensazione di pronunciare e di udire le parole, che echeggiarono in maniera soprannaturale: — Fermo! Taci, e non ti sarà fatto alcun male! Resisti, e ti taglio la gola! Oltre alle parole, però, Lydyard sentì anche i pensieri di Amalax: la preghiera disperata e irrazionale che nessuno fosse stato destato dal rumore provocato dalla caduta dell'oggetto scivolato quasi in fondo al corridoio, che il gigante non sapeva essere una rivoltella; e la speranza fervida che Lydyard credesse alla minaccia, la quale però sarebbe stata mantenuta soltanto per effetto della paura più mortale, perché l'ordine era di catturarlo vivo, e di rapirlo. Sia perché sapeva tutto ciò, sia perché, nonostante questo, fu colto dalla vertigine improvvisa provocata da un terrore gelido e incoercibile, tanto che ebbe l'impressione di essere sul punto di svenire, Lydyard non reagì. — Bene — mormorò Amalax, più a se stesso che a Lydyard, col fiato fetido di carne e di gin. Contro ogni probabilità, sperava ancora che il rumore della rivoltella caduta non fosse stato udito. Comunque, era convinto che anche in caso contrario avrebbe potuto fuggire usando il prigioniero come ostaggio. Nel guardare la porta presso cui si era fermata la rivoltella, Lydyard non seppe se sperare che si aprisse o pregare che rimanesse chiusa. Se soltanto fosse stata quella della stanza di Tallentyre, anziché quella di Cordelia ! E se soltanto Gilbert Franklin avesse occupato ancora la camera degli ospiti, vale a dire la prima in cui i rapitori avevano spiato! Nel mare turbolento della coscienza che Lydyard condivideva con Amalax, affiorò un altro nome, che portò nubi d'angoscia nel cielo mentale di entrambi: Mandorla! Il gigante credeva di essere padrone di se stesso, però Lydyard era in grado di vedere distintamente fino a che punto fosse schiavo di Mandorla, di cui pure conosceva la vera natura. La fiamma della candela illuminava i volti ansiosi di Calan e di Jack, i quali parvero incerti sul da farsi, paralizzati dal panico. D'un tratto, Jack avanzò di un passo verso la scala. Nello stesso istante, come se fosse la sua immagine riflessa in uno specchio folle, Calan mosse a sua volta un passo nella direzione opposta, verso l'estremità cieca del corridoio. Allora Lydyard, timoroso per l'incolumità di Cordelia, si mosse come
per fermare Calan, e subito Amalax rafforzò la stretta con cui lo bloccava. La nuova determinazione che si formò in lui invase lo spirito di Lydyard, aprendosi violentemente un varco nella sua angoscia: — Seguimi, e senza far rumore — sibilò, all'orecchio del giovane. — Obbedisci, e non sarà fatto male a nessuno. Se ti ribelli, scateno il lupo. — Nell'aggiungere questa minaccia, si aspettò, evidentemente, che Lydyard capisse. Sino a quel momento, Lydyard non aveva capito che cosa fosse Calan, ma d'improvviso comprese tutto ciò che significava «scatenare il lupo» per Caleb Amalax, lo strumento dei licantropi. Attraverso gli occhi di costui, notò che Calan indossava indumenti ampi, di cui avrebbe potuto sbarazzarsi con la massima facilità e rapidità. Dalla camera in fondo al corridoio giunse un rumore: non un tintinnio o un cigolio, bensì un suono più sordo. Il fragore provocato dalla rivoltella aveva destato Cordelia, la quale, benché la notte fosse fredda e il letto fosse caldo, aveva evidentemente deciso di alzarsi per scoprire che cosa fosse accaduto. — Silenzio, o sei morto — intimò Amalax sottovoce, sfiorando con le labbra l'orecchio di Lydyard. Le parole del gigante echeggiarono, pensate e pronunciate, dette e comprese. Lydyard era consapevole di quanto Amalax fosse tentato di ferirlo a sangue con il pugnale per dimostrargli la propria risolutezza. Ma se soltanto avesse intuito quanto essa era già evidente! Fino a quel momento, Lydyard non aveva potuto guardare Amalax negli occhi. Si accingeva a girare la testa per farlo, quando un'impressione fugace trasmessa dal gigante lo indusse invece a volgersi dalla parte opposta. Con la doppia vista, vide gli occhi di Calan, febbrilmente sfavillanti di ebbrezza e d'ira frustrata. Con tutto il suo cuore, Amalax desiderava che il licantropo non facesse nulla, ma temeva il contrario. Si augurava che l'uscio in fondo al corridoio non si aprisse, però aveva paura che ciò accadesse. E bramava con tutto se stesso di lasciare quella casa, anche se aveva il terrore che... Mentre Amalax si umettava le labbra, Lydyard fu colto da una sorta di capogiro nel percepire la confusione tumultuosa delle sue ansie. Sbalordito dalla brutalità e dalla rozzezza del gigante, pensò: Di certo, le mie azioni non sono mai state provocate da un miscuglio tanto vile di motivazioni! Aveva creduto che tutti gli uomini fossero simili, che tutte le loro anime fredde si assomigliassero. Invece non era così: non era affatto così! Allo scopo di fargli capire che sarebbe bastato un breve movimento del
polso per sgozzarlo, Amalax premette la lama del pugnale sulla gola di Lydyard. Paralizzato e contratto dalla tensione, Lydyard sentì che il gigante aveva la sensazione che il vento gelido della paura squassasse il suo prigioniero. Tuttavia, ammesso che spirasse, questo vento gelido proveniva soltanto dall'anima dello stesso Amalax, non da quella di Lydyard. Proprio allora, la maniglia della porta di Cordelia iniziò a girare. In quell'istante, la doppia consapevolezza cessò. Lydyard si ritrovò improvvisamente solo nella propria mente, con la propria paura, e anche, si rese conto subito, con la propria temerarietà. Dopo avere condiviso i pensieri di Amalax, rimase sorpreso nello scoprire quanto fosse pura la collera che provava nei confronti del malvagio che lo immobilizzava. Con un ringhio, Calan portò le mani al nodo della fune che gli cingeva la vita. Dolorosamente consapevole del pericolo che sembrava emergere irresistibilmente da una riserva profonda e tenebrosa di eventi malvagi, Lydyard ebbe il terrore che, non appena Cordelia fosse comparsa sulla soglia, Calan l'avrebbe aggredita. Anche se non gli leggeva più nella mente, sentì che Amalax aveva il medesimo timore. Non appena tutti ebbero la certezza che l'uscio si stava aprendo, Amalax disse: — Jack! Tuttavia, Jack non capì. Subito dopo, Cordelia aprì parzialmente la porta, mostrandosi vagamente nella luce fioca del lumino che ardeva alle sue spalle, nella camera, sul comodino. Vide il gruppo che si trovava nel corridoio illuminato dalla candela, la cui luce le parve senza dubbio intensa, per contrasto, poi notò la rivoltella sul tavolato, a non più di quindici centimetri dalla soglia. Forse nessuno degli intrusi si era reso conto di che cosa fosse l'oggetto caduto, ma in quel momento videro tutti che si trattava di un'arma da fuoco. Senza esitare, Cordelia si accosciò a raccogliere la rivoltella, rapidissimamente, e la puntò, senza rialzarsi. Era pallida di paura, ma era abbastanza esperta nell'uso delle armi, come ben sapeva Lydyard, che si era recato spesso con lei ad allenarsi nel tiro a segno. Le pistole erano molto diverse dai fucili, ma la ragazza aveva avuto il coraggio di puntarla, e senza dubbio avrebbe avuto anche quello di premere il grilletto. Lydyard era consapevole, come ne era consapevole Amalax, che la luce della candela rendeva gli aggressori ottimi bersagli.
Per alcuni istanti, nessuno si mosse. Però Amalax lesse nello sguardo della ragazza qualcosa che a Lydyard era sfuggito: paura per l'innamorato, che aveva un coltello alla gola. Dunque intimò, con voce calma: — Non spari, signorina. Il suo amico mi protegge come uno scudo: lo ammazzerebbe sicuramente. In silenzio, Cordelia spostò la rivoltella, come per mirare al viso di Lydyard, quindi, con sollievo di questi, la puntò di scatto contro Jack, il quale arretrò di un passo, per essere pronto a correre giù per la scala. Anche se avrebbe potuto precederlo, Calan rimase sdegnosamente immobile. Per questa ragione, Cordelia spostò di nuovo la mira, minacciando lui. Tutti, inclusa la ragazza, rimasero immobili, in ascolto, per scoprire se stesse arrivando qualcuno. Non si udì nulla. La camera di Tallentyre era troppo lontana: se anche il rumore prodotto dalla rivoltella caduta aveva turbato il suo sonno, il baronetto aveva senza dubbio concluso che non si era trattato di nulla d'importante. Ciò non era affatto sorprendente, visto che nella casa, di notte, si udivano solitamente molti piccoli rumori. Sicuro che se Calan l'avesse aggredita, Cordelia avrebbe sparato, Lydyard pensò che se anche il licantropo non correva nessun rischio, qualcun altro avrebbe potuto rimanere ferito o essere ammazzato. — Resta dove sei, Calan! — ordinò sottovoce Amalax, che indubbiamente era giunto alla medesima conclusione. Quindi si volse a Cordelia e mormorò, probabilmente nel tono più cortese di cui era capace: — Non le conviene sparare, signorina: siamo in troppi. Anche se mancasse il suo amico, non le basterebbero i proiettili. Noi vogliamo soltanto andarcene. Ora scenderemo la scala, molto cautamente. Quando saremo alla porta, ma non prima, io lascerò il signor Lydyard. Senza bisogno di leggergli nella mente, Lydyard capì che il gigante mentiva. Tuttavia sperò, per il bene di lei, che Cordelia gli credesse. Proprio in quel momento, dal piano superiore provenne un rumore: un servo si era svegliato e si era alzato. — Vai, Jack! — comandò Amalax. — Dobbiamo scappare tutti, e che nessuno si fermi! — Nonostante queste parole, rimase immobile, sempre trattenendo saldamente Lydyard, per farsene scudo. Quando Jack, che continuava a reggere la candela, iniziò a scendere la scala, il corridoio rimase buio. Nello stesso istante, Lydyard intuì, più che vedere, il brusco movimento con cui Calan sciolse la fune. Poi, nella penombra, vide la camicia veleggiare nell'aria e capì che si era spogliato: — No! — gridò, sia ad Amalax che al licantropo.
Tuttavia, anche Cordelia percepì il movimento, e fece fuoco all'istante, dimostrando di avere buona mira. Colpito all'inizio della trasformazione, Calan fu catapultato all'indietro. Il rinculo violento strappò un grido di dolore a Cordelia, che però lo aveva previsto e non perse l'equilibrio, anzi, puntò di nuovo la rivoltella, afferrandosi con la mano sinistra il polso destro per poterla impugnare più saldamente. Informe, Calan si contorceva nel buio, sanguinando copiosamente. Nel suo ululato spaventoso svanirono gli ultimi fragili dubbi che forse Lydyard nutriva ancora sulla vera natura di coloro che sostenevano di essere i licantropi di Londra: fu un grido demoniaco, più che belluino. Divenuto una grossa belva quadrupede, mostruosa e furente, ma ancora parzialmente umano, con la pelliccia che erompeva dalla pelle nuda, il lupo mannaro ferito continuò a trasformarsi nella semioscurità, e intanto balzò di nuovo all'attacco: i suoi occhi verdi e vividi sfavillarono, riflettendo la luce fioca che filtrava dalla camera della ragazza. Ancora una volta, Cordelia sparò, colpendo il licantropo. Le rivoltellate avrebbero ucciso qualunque uomo o lupo normale. Nonostante i suoi soprannaturali poteri di rigenerazione, Calan non era invulnerabile, perciò rimase gravemente ferito. La metamorfosi, come per effetto della combinazione della propria rapidità con la gravita delle ferite, divenne una sorta di esplosione organica, ma non si completò: il licantropo spruzzò getti di sangue in tutte le direzioni, quindi rimase immobile per alcuni istanti, simile a un ammasso informe di arti e di pelliccia. Frattanto, i rumori si diffusero in tutta la casa: gli spari, l'ululato e gli echi avevano destato gli abitanti. — Scappate! Scappate! — gridò disperatamente Amalax. — Si salvi chi può! Uno strano connubio di coraggio e di terrore indusse Lydyard ad affondare i denti nel braccio che gli cingeva il collo, nella speranza di indurre Amalax a mollare la presa. Tuttavia rischiò di essere pugnalato a morte: la lama gli tracciò dolorosamente una ferita poco profonda dal collo alla tempia, attraverso l'orecchio. Per giunta, non ottenne nulla, perché Amalax ebbe la presenza di spirito di non allentare la stretta e di stordirlo abbattendogli un grosso pugno sul cranio. Intontito, con il sangue che gli scorreva caldo sul viso e l'orecchio sfregiato che ardeva di dolore, seppure non troppo intensamente, Lydyard riuscì, soltanto con uno sforzo, a non perdere conoscenza: sapeva che Corde-
lia non aveva ancora scaricato la rivoltella. Mentre Calan, rotolando e contorcendosi, lo precedeva alla scala e cominciava a scendere i gradini, Amalax non osò lasciar cadere Lydyard: continuò a farsene scudo, arretrando. In quei momenti, Lydyard gioì di non condividere le sensazioni e i pensieri del gigante: gli bastava udire le sue imprecazioni violente, rabbiose, bizzarre. Con uno strano distacco, pensò che era quasi un miracolo che la sfilza d'invettive continuasse, perdurasse, tanto a lungo... 13 Londra arde di luce soprannaturale, i fabbricati si dissolvono in fumo colorato, mentre le stelle cadono dal cielo come pioggia sfavillante. Gli abitanti sono come paralizzati, e la luce che danza intorno trasforma i loro lineamenti, fonde i loro corpi in ammassi informi, singolarmente, a coppie, a gruppi: madri e figli che si sciolgono gli uni nelle altre, e coppie di amanti che divengono alfine un solo essere. Nelle strade cangianti corrono i lupi, bianchi, argentati, neri, rapidi di zampe e lievi di cuore. Intanto, gli angeli caduti che odiano l'umanità sfilano in cielo come ruote di fuoco, esultando nella loro libertà dalle prigioni più fosche della materia, dello spazio e del tempo. All'Inferno, Satana piange, osservando impotente mentre il mondo sovrastante si accende dall'interno come una sfera di cristallo, tutto fuoco, flusso e furore: protenderebbe la mano a toccarlo, se soltanto potesse. All'esterno della Creazione, Dio muta la propria immagine: impotente nella propria onnipotenza, si ricrea, e non riesce a convocare a giudizio coloro le cui anime si consumano nella caldaia della potenzialità. L'uomo nella caverna affronta la felina sorridente, dagli occhi sfolgoranti di furore spaventevole e dalle fauci spalancate, la quale dichiara: Riprenderò quello che avete rubato alla mia anima, oppure avvelenerò il mondo intero e distruggerò la Creazione stessa. E l'uomo grida: Sed libera nos a malo... Sed libera nos a malo... Sed libera... E non viene udito. Nell'aprire gli occhi inondati di lacrime di dolore, Lydyard chiamò: — Cordelia? Nessuno rispose.
Cessate le visioni, la vista interiore lasciò Lydyard nel dolore e nello sconforto, con l'emicrania e la nausea. Lo splendore immaginario che lo aveva abbacinato sbiadì, diventando la luce gialla di una lampada, che illuminava le pareti che lo racchiudevano e il letto su cui giaceva. Aveva i polsi strettamente legati con una corda sottile alla testiera in ferro battuto, e le caviglie avvinte in modo simile ai piedi del letto, da cui spuntavano i suoi piedi scalzi. Per quanto si torcesse e si sforzasse di cambiare posizione, non aveva modo di mettersi comodo. Il materasso era sconquassato. Sul bordo del letto, accanto a lui, sedeva la donna terribilmente bella che aveva già veduto una volta, la quale, con espressione beffardamente affettuosa, lo guardava con gli occhi viola come iris e gli sorrideva gentilmente, mostrando a malapena i denti perfettamente regolari. Nella luce artificiale, la sua chioma serica color miele scintillava ancor più che alla luce del giorno. — Hai rifiutato il mio invito, mio caro David — disse Mandorla Soulier, in tono di scherzoso rimprovero, mentre Lydyard era incapace di distogliere lo sguardo dal suo viso. — Hai preferito obbedire al mio amante geloso. Ultimamente, il povero Pelorus è del tutto impazzito, come senza dubbio hai indovinato: la volontà non gli appartiene più. La mia volontà, invece, mi appartiene completamente, e i semplici mortali, come vedi, non possono opporvisi. — Sei la regina dei licantropi, suppongo — rispose Lydyard, digrignando i denti per sopportare l'ironia rabbiosa. — Ebbene, oso dire che hai appreso molto dall'esempio della nostra amata sovrana. In un modo stranamente ironico, e al tempo stesso cortese, Mandorla rise: — Anche voi avete una regina? È così difficile tenere il conto dei vostri effimeri monarchi, che ormai non tento più di farlo. Non sono più invitata a corte da... parecchio tempo. In silenzio, Lydyard guardò attorno. Le pareti erano tanto chiazzate di fuliggine e di umidità, che riuscivano a luccicare. Il cemento si sbriciolava e i mattoni sembravano marci. La lampada era posata sul pavimento non piastrellato, sporco, fetido di escrementi. La sedia occupata da Mandorla era semplice e robusta. L'unico altro mobile, a parte il letto, era un tavolo basso, collocato accanto alla testiera, sul quale ardeva un mozzicone di candela quasi consumato, bizzarramente informe. Nello squallore di quella cantina, Mandorla ostentava un abito di seta sgargiante, che la faceva sembrare un'attrice del Drury Lane in costume da
Cleopatra, o da Salomè. — Se è così che ricevi gli ospiti alla tua corte — commentò Lydyard — spero che trascorrano parecchi anni prima di ricevere un altro invito da te. Questa volta, sorridendo, Mandorla lasciò trapelare un divertimento più sincero: — In altri tempi, mio caro David, avrei potuto accoglierti in un luogo di gran lunga migliore. Ma una bella donna che non invecchia viene lusingata troppo spesso dalle accuse di stregoneria. Tu non sai che cosa significa bruciare vivi, mio caro David, e se mai lo scoprirai, forse non ti desterai mai più con quel caro ricordo. Io invece lo so, e talvolta vorrei non saperlo. È un'esperienza che potrebbe impartire a Pelorus una lezione salutare su coloro per i quali nutre tanto sciocco rispetto. — Non abbiamo mai bruciato le streghe, in Inghilterra — osservò Lydyard, sforzandosi di resistere al dolore dell'emicrania e dello sfregio, nonché alla nausea insistente. — E da più di un secolo non ne impicchiamo nessuna. Se ti fossi tenuta meglio al corrente delle nostre vicende, lo sapresti. — Ho dormito per qualche tempo — spiegò Mandorla, con rammarico — e coloro che mi hanno protetta sono stati costretti ad essere molto prudenti. Al mio ritorno, ho trovato il mondo più cambiato di quanto avessi ritenuto possibile. È diventato fosco e tetro, soffocato dai fumi, fetido di esalazioni, fradicio di gin da poco prezzo, e le maniere e la morale si sono degradate in proporzione. Eppure, il suo potenziale autodistruttivo è maggiore di quanto avessi mai visto. In queste strade affollate, la carestia e la pestilenza sono sempre in agguato... E vi è motivo di sperare che una trasformazione gloriosa della guerra ingigantisca i massacri in modo molto piacevole. Esiste una tale meravigliosa profusione di nuovi strumenti di distruzione! — Come sta Calan? — Dorme — rispose Mandorla, con una certa disinvoltura. — Dorme, e sogna. Ma non credere che le vostre pallottole di piombo possano avvelenarlo o corromperlo, anche se i vostri spregevoli liquori avevano già incominciato a istupidirlo. Si desterà purificato e rinvigorito, e io, se potrò, purificherò e ravviverò il mondo per lui, affinché possa avere un risveglio più gioioso di tutti quelli che ha mai avuto in precedenza. Secondo le usanze del branco, io sono la madre e la protettrice delle mie sorelle, dei miei fratelli e dei miei cugini, oltre che dei miei cuccioli. La nostra razza è più fedele e più amorevole della vostra. Dando una stratta alle funi che lo legavano, Lydyard strizzò gli occhi per
la sofferenza: — Non posso crederlo. Di nuovo, Mandorla sorrise, ma più gelidamente: — Tutto ciò è soltanto apparenza, mio caro David. In realtà, io non sono affatto umana: sono una lupa, e gli umani, che sono le mie prede, non hanno più significato, per me, dei topi e delle rane. Io amo quelli della mia razza, come tu ami quelli della tua. Ma tu, per me, non vali più di quanto valgano per voi le bestie che mandate al macello. Se ne avessi il capriccio, potrei trasformarti in un animale domestico, e concederti il genere di affetto che forse tu concedi a un bel gatto. Però non potrei mai offrirti quell'amore puro che una lupa nutre per i propri simili. «Ti chiedo di capire tutto ciò, David, perché so che sei intelligente, secondo i criteri della tua razza, e capace di astrazione filosofica. Non voglio che mi consideri crudele, giacché sono anch'io una creatura razionale, come te. Mi capisci, vero, David? In caso contrario, non potresti capire neppure la tua situazione, e io voglio invece che tu ti renda conto che, in qualunque modo ti userò, non commetterò alcun male. Non ti devo misericordia, né pietà, né carità, David, perché sono una lupa, quale che sia il mio aspetto per i tuoi miseri occhi illusi. Il fervore con cui furono pronunciate queste frasi fu in qualche modo più spaventevole del loro significato. Se i bovini fossero stati in grado di pensare e di parlare, gli umani avrebbero pronunciato loro discorsi di quel genere? I predatori si aspettavano forse che le loro prede comprendessero la logica del macello? Avrebbero avuto il diritto di chiedere che la loro spiegazione fosse accettata, e che la giustizia dell'omicidio fosse riconosciuta, insieme alla rettitudine dei massacratori? — Qualunque cosa tu voglia da me — sussurrò Lydyard — te la negherò. Mediante la tortura, potrai forse indurmi a vedere, e persino a parlare, ma se speri di separare la verità dall'illusione e la realtà dal sogno, rimarrai sicuramente delusa. È sempre stato così con gli oracoli, vero? — Sugli oracoli, so molto più di te. Pelorus ti ha parlato della via del dolore? Anche se è così, dubito che te l'abbia descritta a sufficienza. Con la mia guida, imparerai a sognare i sogni più veri, e alla fine sarai grato della possibilità di servire ai miei scopi. Conosco la via del dolore molto meglio di quanto l'abbia mai conosciuta chiunque della tua razza: so quanto può essere persuasiva e quanto può ricompensare. Poiché non dubitava affatto che fosse così, Lydyard sentì un nodo alla gola che lo costrinse a deglutire. — Non avere paura — continuò a sorridere Mandorla. — Sei un po' più
che umano, ormai, quindi non devi pensare come un codardo dall'anima fredda. Ho chiesto la tua comprensione, e non è una cosa che abbia domandato a molti uomini. Siamo diversi, tu ed io, però possiamo ancora essere alleati. Sono sincera con te, perché spero che tu lo sia con me. Se non intendo sfruttare il mio travestimento per ingannarti o per sedurti, non è perché sai che cosa sono in realtà, giacché i tuoi occhi hanno un tale potere di vedere in modo falso, che potrei ingannarti e sedurti nonostante quello che sai, bensì perché vedo in te intelligenza autentica e curiosità sincera. Al di là di ogni ombra di dubbio, Lydyard comprese che si trattava di una menzogna, di un mero stratagemma, di un tentativo di seduzione che mirava a riuscire smentendo la propria intenzione. Capì anche che si trattava di una sorta di gioco: Mandorla non gli parlava così perché pensava davvero che fosse il modo migliore di ottenere il suo scopo, ma piuttosto perché la sua falsità la divertiva. Le sue lusinghe celavano una forma peculiare di disprezzo. — Non abbandonarti alla soddisfazione — intimò Lydyard, in tono tanto tagliente da sorprendere Mandorla — perché un'entità mi segue, e nessuno può sbarrarle il passo o forzarle la mano. Né tu né Harkender potete separare Gabriel dall'essere al quale la sua anima appartiene realmente. E tu non puoi dominare e sfruttare i conflitti fra le divinità. Allora Mandorla rimase sconcertata, ma soltanto per un istante: — Povero oracolo... Il veleno che hai nell'anima ti farà soffrire, se non riuscirai a contenerlo meglio. Come per schiarirsi la mente e scacciare la confusione, Lydyard scrollò la testa, però non rimase sorpreso quando il movimento aumentò le sue sofferenze. Il mondo parve offuscarsi e sbiadire. Anche attraverso gl'indumenti, egli percepì la ruvidezza della coperta sulla quale giaceva e lo sfregamento dei legami intorno ai polsi. Queste sensazioni furono estremamente amplificate, tuttavia la sfolgorante bellezza di Mandorla si appannò un poco, e le pareti squallide della cantina parvero ritirarsi in una foschia remota. Più aspramente di quanto intendesse, domandò: — Qualcun altro è rimasto ferito? — No. Caleb si è lasciato prendere dal panico, ma la sua stupidità è stata frenata dalla sua determinazione a fuggire. Sir Edward e sua figlia sono sani e salvi... per il momento. Senza reagire alla minaccia implicita, Lydyard osservò: — Sir Edward è un uomo molto influente, e il rapimento è un crimine grave. Inoltre, non devi dimenticare Pelorus: dovrai fare i conti anche con lui.
— La polizia non può trovarci, qui — assicurò Mandorla, con una noncuranza molto persuasiva. — E se Pelorus si prenderà la briga di venire in tuo aiuto, allora faremo davvero i conti. Non gli nuocerei mai per nulla al mondo, perché è uno di noi, per natura e per inclinazione autentica, e io lo amo tanto profondamente e tanto ineluttabilmente quanto lui ama me. Tuttavia dev'essere protetto dalla volontà aliena che si serve di lui per i suoi scopi malvagi, e lo corrompe. Anche lui si rammarica di non essere padrone della propria volontà. Non può abbandonarsi a me, per quanto lo desideri, perciò devo catturarlo, come sarebbe vincolato a fare chiunque lo amasse anche soltanto la metà di quanto lo amo io. Se verrà a salvarti, il suo più caro e più segreto desiderio sarà quello di fallire, e di poter sprofondare nel sonno dei secoli. E io sarei una lupa ben misera, se non cercassi di soddisfare il suo desiderio. Per impedire che le mani gli tremassero e che i denti gli battessero, Lydyard respirava lentamente e profondamente. L'emicrania non era intensa, però non gli dava tregua. Pensando che tutti i discorsi di Mandorla sembravano emanare il fetore della beffa e dell'inganno, replicò: — Forse Pelorus non verrà solo. Potrebbe allearsi con sir Edward. Inoltre, non devi dimenticare che qualcun altro potrebbe venire in mio aiuto: la Sfinge, di cui sono lo strumento. Essa ha ridotto all'impotenza Pelorus, in Egitto, e farà altrettanto con te, se vorrà. Ti prometto che farò tutto quello che posso per condurla qui, ma non affinché sia sedotta o derisa, bensì affinché sfoghi la sua collera! — Con gioia, vide Mandorla socchiudere gli occhi e comprese di averla spaventata, almeno un poco: ella non poteva sapere, infatti, fino a che punto egli padroneggiasse il proprio potere, né come si fosse sviluppato il suo rapporto con la Sfinge. — Non strafare — mormorò Mandorla. — Potresti cadere in trappola, com'è successo al povero Harkender, che si considera un predatore d'anime, mentre la sua stessa anima è imprigionata in una ragnatela tale, che lui non può neppure iniziare a comprenderla. Non credere di essere il padrone, e neppure lo schiavo prediletto, dell'entità di cui sei soltanto gli occhi. Ho cercato di mostrarti che cosa sei per me, ma per l'entità che ha scaldato la tua anima sei ancor meno: molto meno. Non puoi dominarla: non puoi neppure osare sperare che ascolti le tue preghiere. «Povero cucciolo d'uomo... Credi d'avere soltanto sognato di essere all'Inferno, senza sapere quanto siano reali ora i tuoi sogni. Sei prigioniero dei poteri della Creazione e della Distruzione, la cui realtà non può nemmeno essere immaginata mediante la tua ragione e il tuo linguaggio. L'en-
tità che ti possiede si sottrasse alla vista esteriore quando il mondo era molto giovane: forse prim'ancora che la razza umana fosse creata. Ora che si è reincarnata, è libera di fare quello che può di questo mondo spaventevole, gelido e desolato, e la mia speranza, la mia previsione, è che ha soltanto bisogno di vedere che cosa sono gli uomini, che cosa hanno fatto, per persuadersi ad usare il proprio potere allo scopo di annientare tutto ciò che esiste. Ascoltandola, Lydyard capì che Mandorla non osava credere davvero a quello che diceva: non esprimeva le sue convinzioni, bensì le sue speranze, che per giunta superavano di gran lunga le sue previsioni. A modo suo, aveva paura, non tanto della morte, quanto della propria impotenza. Aveva rapito Gabriel Gill per procurarsi un'illusione di potere e di dominio. Nell'intimo del suo cuore, però, era consapevole di non poter dominare la Creazione: sapeva di essere soltanto una lupa, alla quale erano negate la gioia e il conforto del proprio essere autentico. Forse Lydyard capiva Mandorla molto più di quanto lei stessa avesse voluto nel sollecitare la sua comprensione. Il potere dell'occhio interiore continuava ad aumentare in lui. Era un mago, nonostante la propria riluttanza. La sua facoltà di sognare la verità, nonché di riconoscerla quando la sognava, era maggiore di quanto ella immaginasse. Nonostante questo, era saldamente legato e soffriva. E sapeva che Mandorla, pur non possedendo tutti i poteri di cui si vantava, era sicuramente in grado di consegnarlo all'abbraccio tutt'altro che affettuoso dell'angelo tenebroso della sofferenza. In silenzio, Mandorla si protese a posargli una mano sulla fronte. Mentre l'emicrania avvampava in lui, Lydyard pensò che ciò non potesse essere dovuto al contatto: ebbe l'impressione che ella volesse tentare sinceramente di arrecargli un po' di sollievo, e che nonostante la natura lupesca, avesse sufficiente umanità in sé da contrastare la volontà di torturarlo. Non ebbe più dubbi sulle sue vere intenzioni, però, quando Mandorla, con le unghie affilate, gli riaprì la ferita al viso prodotta dal pugnale di Amalax. Mentre il sangue sgorgava, tentò invano di scostarsi: era legato troppo saldamente. Mandorla lo dominava: soltanto lei poteva liberarlo. Per la prima volta, tutta la sua solitudine e la sua sofferenza, tutto il suo sconforto e la sua disperazione, e sopra ogni altra cosa la sua impotenza, concorsero a suscitare improvvisamente in lui un terrore supremo, che lo paralizzò, proibendogli di agire, impedendogli persino di opporsi con la volontà alla passività: trasformandolo, insomma, in un giocattolo in balìa di qualunque potenza esterna.
— Non è per il mio piacere che faccio questo — spiegò Mandorla — bensì per istruirti. Devi imparare la via del dolore, e io so che, a differenza di Jacob Harkender, non hai il coraggio di intraprenderla da solo. — Prese il grottesco mozzicone di candela e si alzò. Senza fretta, si recò ai piedi del letto, in modo che Lydyard potesse osservarla, e comprendere le sue intenzioni. — È soltanto una candela. La sua fiammella non può farti soffrire davvero. Sai quanto tempo occorrerebbe per bruciare a morte un uomo, usando soltanto una candela? Sarebbe necessario moltissimo tempo, David, se lo si misurasse in ore, o in base all'intensità del dolore. La sofferenza più efficace è quella che può essere prolungata, che non uccide, e che dunque può essere costantemente rinnovata. — Accostò la fiamma alle piante dei piedi nudi di Lydyard, e la spostò piano piano, su e giù, in modo che il dolore aumentasse lentamente. Per alcuni secondi, la sofferenza fu tanto lieve, attutita, che Lydyard fu più incline a ridere che a gridare, ma poi crebbe, s'intensificò poco a poco, mentre la fiamma consumava i calli e giungeva alla carne viva. Non avrebbe saputo dire per quanto tempo lottò, però alla fine strillò, e allora la fiamma fu scostata: il dolore non cessò, anche se smise di aumentare. Tornata accanto alla testiera, Mandorla gli accostò la candela al viso, e per un minuto, o forse più, gli consentì di scrutare il nucleo della fiammella malevola. Con fervore, Lydyard sperò che ella intendesse posare di nuovo la candela sul tavolo e lasciarlo riposare. Ma anche la speranza faceva parte della tortura: dopo essere stata incoraggiata, poteva essere distrutta. Di nuovo, Mandorla tornò ai piedi del letto: — Sogna per me — disse, in tono implorante e seducente. — Non temere la fine, perché non ti lascerò morire. Quando avrai sognato, però, dovrai essere più sincero con me di quanto tu sia stato finora. Pensa alla mia bellezza, se puoi, e impara ad amarmi almeno un poco, perché questo renderà più sopportabile il sentiero del dolore. Sogna per me, e scoprirai che posso ricompensare, oltre che punire. «Ho bisogno di conoscere l'enigma della Sfinge, David, e soprattutto mi occorre saperne la risposta. Trova l'altra tua padrona per me, e poi torna a dirmi chi è, e dove si trova. Dille che ho vissuto diecimila anni, e che se esiste qualcuno su questa Terra che abbia la saggezza che le occorre, è Mandorla, la lupa. Dille questo, David, e forse io allevierò le tue sofferenze per qualche tempo. Ti prometto che non ti farò soffrire troppo, perché questo è soltanto l'inizio: col tempo, anche i dolori più tremendi saranno
più sopportabili, forse, se soltanto acconsentirai ad imparare quello che posso insegnarti. Tuttavia, la realtà fu più crudele della promessa: il dolore, che non si era ancora spento, divampò nuovamente, e s'intensificò poco a poco, senza posa, molto a lungo. D'improvviso, Lydyard vide ancora una volta Satana all'Inferno in tutti i dettagli più spaventevoli, e il sogno, nonostante i suoi singhiozzi e le sue grida, non sbiadì e non si dissolse nell'oscurità. 14 Il cielo era pieno di aquile, che scendevano rapide una ad una a squarciargli il ventre poco a poco, scoprendo le costole bianche e le interiora arrotolate, e il cuore che batteva, batteva... Era carne, lacerata dagli artigli e dai becchi, ricresceva sfrenatamente, bramosamente, tanto che il cuore palpitante si gonfiava nel petto, e le costole sfavillavano come per effetto di un fuoco bianco, e la sofferenza... Torturato, egli strillò, e l'eccesso del dolore gli asciugò le lacrime roventi, schernendo la sua impotenza. Come poteva sperare di risanare il mondo, infatti, quando non poteva neppure salvare se stesso dal castigo del proprio tradimento? Aprì la bocca per gridare aiuto, ma sulle prime le parole non giunsero. Non era forse all'Inferno, oltre la speranza e la salvezza? Senza dubbio era oltre la portata di qualunque angelo della misericordia, e parimenti oltre la portata del rimorso, oppure del pentimento, del Dio incurante e insensibile che si trovava all'esterno dei confini della Creazione, incapace di interferire con il destino che Lui stesso aveva provocato. Egli non dubitava affatto di tutto ciò. Eppure tentò ancora di gridare, di strillare, per invocare qualsiasi pietà che il caso cieco potesse fornire. E strillò, dunque, e la sua supplica d'aiuto echeggiò nell'eternità, e fu miracolosamente udita. E anche se le aquile continuarono a straziarlo, senza dargli tregua, egli sprofondò poco a poco in un rifugio oscuro e vellutato di tempo e di spazio. Fuggì nel riparo dei pensieri di un altro, che, appartenenti al passato ormai stabile, erano stati scrupolosamente archiviati, per essere indagati con pazienza e semplicità dagli storici curiosi, che cercavano soltanto di comprendere e non di mutare, di descrivere e non di creare, dì osservare e
non di essere... Mentre il buio si dissolveva, egli divenne consapevole di un lieve ondeggiamento. Per un breve istante pensò, assurdamente, che la terra sussultasse, ebbra, nella propria orbita intorno al sole, come se fosse in pericolo imminente di perdere del tutto la propria posizione e precipitare nel vuoto infinito e tenebroso. Quindi rammentò che non vi era nulla di così sicuro come la buona vecchia Terra: nulla di così immutabile come il sorgere e il tramontare del sole inesauribile. Quando vide l'oblò sopra la propria testa, comprese di essere a bordo di una nave, che rollava e beccheggiava perché era stata afferrata nella morsa di una tempesta. Provò un empito di sollievo tanto assurdo quanto la sua ansia precedente, che pure lo pervase, così che sul momento non riuscì a porsi nessuna delle domande sensate che avrebbe dovuto formulare: quale nome aveva la nave, e dove era diretta? Mentre si alzava a sedere sulla cuccetta, le coperte caddero, scoprendogli il torso nudo. Si volse all'oblò per osservare l'orizzonte lontano, dove il sole al tramonto era stretto nella morsa del mare grigio e di un banco di nubi non meno grigio e non meno solido: la pioggia cadeva già, ad offuscare il viso rosso dell'astro. Immaginò quanto fosse magnifico l'arcobaleno indubbiamente visibile dalle cabine di babordo. Dedusse che il bastimento era diretto a settentrione, tuttavia rimase tanto stranamente affascinato dalla pioggia obliqua che cadeva sui grandi flutti lenti, infiammati dalla luce morente del giorno, che continuò a non porsi gli interrogativi che sarebbe stato del tutto ragionevole formulare. Paradossalmente, era consapevole che stava evitando una questione fondamentale, o forse più di una, nell'interesse della tranquillità. Sapeva di rimanere aggrappato a quel momento di delizia, di libertà dall'angoscia, come un marinaio naufrago avvinghiato a un relitto, tanto assorto nel prolungare l'attimo, che il futuro gli appariva immateriale e insignificante. Poco a poco il sollievo si dissolse. Vagamente consapevole di avere dimenticato il proprio nome e i propri scopi, egli non riuscì a stabilire se gli occhi con cui guardava appartenessero a lui o a qualcun altro. Toccandosi il petto villoso di peli scuri, si chiese chi fosse. Poi distolse lo sguardo dall'oblò arrossato dal tramonto per osservare la cabina, e scoprì che in essa si trovava un'altra creatura, la quale, in piedi accanto alla porta chiusa, lo scrutava. Per un istante gli sembrò che ella
non fosse umana: ebbe l'impressione che fosse una grande felina, con la criniera fulva, gli occhi ambrati, il muso e le labbra neri, le zanne da carnivoro, però in grado di restare innaturalmente eretta, come un essere umano. Per un attimo questo fu tutto quello che vide, o che gli parve di vedere. Quindi ebbe una sensazione strana e fugace, come se un'altra tessera del mosaico del mondo fosse stata collocata al proprio posto, consentendogli di compiere un altro passo innanzi sul tragitto della ricerca della coerenza e della normalità. Colei che lo stava guardando era una donna dagli occhi sicuramente ambrati, i quali avevano qualcosa di felino nello sguardo. La chioma, però, era nera, non fulva, e il naso era aquilino, le labbra tumide e rosse. Quando sorrise, mostrò denti perfetti, e il suo sorriso fu quello di un'amante: dolce e possessivo. Indossava una camicia da notte di un azzurro pavone sgargiante, incantevole. — I ricordi sono cose mutevoli — ella sentenziò, con una voce bassa e musicale, che rammentava le fusa di un grosso gatto. — Hai dimenticato te stesso, ma io credo che ricordi abbastanza bene il mondo. Di nuovo, egli guardò fuori attraverso l'oblò. Dopotutto, il mondo non era sprofondato nelle viscere dell'universo: il sole, il mare, il cielo colmo di nubi, e la pioggia che cadeva, erano tutti al loro posto. Perciò egli immaginò che lo fossero anche Parigi e Londra, Wadi Halfa, Roma e Timbuctù, e che la regina Vittoria sedesse sul trono inglese, che Charles Darwin avesse già pubblicato L'origine dell'uomo, che Barnum e Bailey avessero inaugurato a New York il più grande spettacolo del mondo, e che Bismarck avesse già ingaggiato la Kulturkampf contro la Chiesa cattolica. Sembrava davvero che il mondo gli fosse abbastanza familiare. Tuttavia, egli non sapeva chi fosse, né sapeva chi fosse lei. — Io, d'altronde — ella riprese, come se per lei non fosse una questione di grande importanza — so abbastanza bene che cosa sono, e che cosa il tempo e il caso hanno fatto di me. Tuttavia il mondo è tanto nuovo e strano, per me, che quasi dispero di comprenderlo, e temo di ferirlo, indagando. Egli non riuscì ad affrontare direttamente tale enigma: — Che piroscafo è questo? — Il Popinjay, diretto a Southampton da Cherbourg. La traversata sarà ardua, temo, ma siamo al sicuro: andrà tutto bene. Allora egli notò che anche lei parlava Inglese, come lui: — Siamo diretti a casa, dunque?
— No, io non ho casa, qui, e tu hai perso la tua quando hai incontrato me. Non appartengo a questo schema delle cose, da cui ho estratto te, per poterti usare. Egli cominciò a sospettare di essere in qualche modo incapace di allarmarsi. Con qualche procedimento, era stato trasformato in una sorta di marionetta: era ingiusto che non se ne curasse, o che non si ribellasse all'ingiustizia. Era prigioniero della propria compiacenza forzata. — Che cosa sei? — chiese, anche se non riuscì a rammentare perché tale domanda fosse importante. — Chiamami Lilith. Non fu una risposta, tuttavia egli se ne accontentò: — Come posso chiamare me stesso? — Devi chiamarti Adam, come tutti gli uomini che scoprono di essere creati di recente. Sulla lista dei passeggeri, sei registrato come Adam Grey. Anche sui tuoi documenti c'è questo nome, ma non intendo obbligarti a conservarlo, se credi che non ti si adatti. Laconico, egli osservò: — Un tempo ero qualcun altro... — Un tempo: ora non più. Incapace di ribellarsi alla propria indifferenza, egli non poté fare altro che pronunciare la domanda più inquietante: — Perché? — Avevo bisogno della tua mente, della tua memoria, della tua voce... e della tua collaborazione! Sono straniera nel mondo: ho bisogno di una guida. C'è un essere che vuole servirsi di me. Non so ancora che cosa sia, né quali siano i miei interessi, perciò ho bisogno di te, Adam Grey: mi occorre la tua cecità, perché non posso leggere le apparenze abbastanza sinceramente, quando il mio occhio ciclopico è aperto. Ho bisogno di te perché ho paura: non della morte o della distruzione, bensì del mutamento. Ho bisogno della tua conoscenza del mondo, che può rivelarmi meglio della mia vista limpida che cosa il mondo vorrebbe che io diventassi. Per un istante fugace, egli riuscì quasi ad afferrare un ricordo effimero, ed ebbe l'impressione di aver quasi ricordato qualcosa d'importante: non chi era o chi era stato, ma un luogo in cui era stato, e qualcosa che aveva fatto. Non riuscì ad afferrare l'essenza del ricordo, che però suscitò una sorta di associazione in quella parte della sua coscienza che gli era stata restituita: — Parigi — disse. — Di recente, siamo stati a Parigi. Nel pronunciare questa frase, egli ebbe un brivido di trionfo, comprendendo di non essere del tutto prigioniero della forma che ella gli aveva dato. Era un uomo, non una marionetta: la sua volontà era libera, anche se
non lo erano i suoi ricordi. Con uno sforzo, con un po' di fortuna, con le vestigia di desiderio che era in grado di radunare, poteva ancora rammentare chi e che cosa era realmente, o era stato, prima di diventare Adam Grey. — Sì — ella confermò, con voce neutra — siamo stati a Parigi, poco tempo fa. È una città interessante, dove ho imparato molto su quello che è diventato il mondo. Però siamo diretti a Londra... — Dove vivono i licantropi — egli interruppe, senza sapere perché. Tuttavia ebbe per la seconda volta la sensazione che quella conoscenza gli appartenesse, che l'avesse pescata dalle profondità del proprio io nascosto. — Dove vivono i licantropi — ella convenne. — Ma non hai motivo di temere i licantropi, mio caro Adam, perché io ti ho creato molto più astuto di loro. Ho soffiato nella tua anima fredda un tale calore prometeico, che i licantropi non possono nuocerti in alcun modo. — Ciò detto, si aprì la camicia da notte, lasciandosela cadere dalle spalle. Nel vedere la biancheria intima da lei indossata, simile a un'asserzione di normalità, egli rimase stranamente sorpreso. Intanto, il sole era tramontato, le nubi grigie erano quasi scomparse nel crepuscolo, e la vibrazione che percorreva il bastimento, sempre ondeggiante sui flutti, si trasmetteva alla cuccetta, talché egli percepiva il vigoroso pulsare delle macchine a vapore: tutto il mondo rollava e beccheggiava, tremava, si scuoteva e barcollava, ma era soltanto una traversata tempestosa, niente affatto insolita nel canale della Manica. Molto probabilmente egli aveva già vissuto un'esperienza simile. Dopo avere steso meticolosamente la veste azzurra sulla cuccetta inferiore, ella iniziò a spogliarsi anche della biancheria intima, senza fretta e senza imbarazzo. Nell'osservarla, egli si domandò se gli fosse mai capitato di assistere a qualcosa di simile in precedenza. Cercando in se stesso i ricordi più sfuggenti, scoprì che rammentava abbastanza bene il mondo. Ricordava come conversare, che cosa fosse uno scherzo, quali fossero le regole del gioco del cricket. Sapeva abbastanza bene come far l'amore, e con l'abilità sufficiente per passare da uomo di mondo. Eppure non riusciva a rammentare nessuna esperienza, e neppure il nome o l'aspetto di una donna con cui avesse mai fatto l'amore. Non sapeva se fosse mai stato sposato. Anche se rammentava abbastanza bene Piccadilly, e le creature notturne che frequentavano i confini di Green Park, non era in grado di determinare se fosse stato uno di quegli uomini
che compravano i favori delle prostitute che si vendevano per mezza corona. Poi si domandò che cosa ricordasse lei, e quando i suoi ricordi fossero stati posti nella sua mente misteriosa. Per un attimo, egli pensò che ella stesse per coricarsi nella cuccetta inferiore. Tuttavia, ella non aveva affatto tale intenzione. Sia che ricordasse, sia che non ricordasse il mondo e le sue usanze, non si mostrò affatto confusa né timida, nel porsi cavalcioni a lui. Mentre ella lo fissava nell'ombra della notte che si addensava, egli ebbe l'impressione di scorgere nei suoi occhi gialli una sorta di estasi, di esultanza carnale, la quale implicava in qualche modo che, qualunque cosa fosse stata in precedenza, ella era Lilith: qualcosa di più gelido e di gran lunga più desolato che una persona, o un felino, o una divinità incarnata. Con estrema sorpresa, egli scoprì che una parte di quella esultanza era anche in lui, forse trasmessa dal calore che ella aveva donato alla sua anima debole. Fece l'amore con lei con un fervore tanto delirante da dimenticare completamente di chiedersi chi avrebbe potuto essere, che cosa avrebbe potuto diventare, soddisfatto di essere semplicemente Adam e null'altro. Consumata l'estasi, però, non ebbe il conforto che avrebbe dovuto provare, né trovò una cecità misericordiosa che lo salvasse da se stesso, bensì i voli delle aquile, che minacciarono di spingerlo avanti nel tempo, e nel mondo quale era davvero, orrendamente luminoso come poteva essere soltanto un incendio distruttore. Allora comprese di dover pregare con tutto l'ardore di cui era capace, affinché un Dio superiore lo salvasse dall'amplesso della Sfinge, il cui enigma non era ancora stato risolto dall'altro suo io, anzi, neppure interamente udito. Pregò, dunque, e sentì la propria preghiera precipitare nel pozzo dell'eternità, come tutte le preghiere. Nondimeno, ella non fu minimamente turbata dalle sue parole. In un certo senso, egli ne fu lieto, perché sentiva di non poter più pregare sinceramente il Signore. In sogno era stato Satana, e Satana era stato Prometeo, e Lydyard aveva avuto compassione di lui, condividendo il fardello della sua sofferenza. — È gentile, da parte tua, vegliare accanto al mio letto — egli sussurrò. — Vorrei che tu potessi portarmi un po' d'acqua, perché ho tanta sete che stento a parlare. — Era consapevole, ormai, del dolore ai piedi, che però gli sembrava nuovamente attutito, remoto.
— Che cos'hai visto? — ella domandò, in un tono che non era beffardo né minaccioso. — Dimmi che cos'hai visto, e forse avrai da bere. Se sarai sincero, avrai anche cibo, e indumenti puliti. Fidati di me, e la via del dolore diverrà sempre meno ardua e sempre meno infida. Ma prima, dimmi: che cos'hai visto? — La Sfinge sta arrivando. Indossa un'apparenza umana, ora: come te. Cerca i medesimi privilegi, ed è seducente come te. Tuttavia, proprio come te, non è veramente umana, e disprezza la propria parvenza umana. Non puoi obbligarmi a vedere altro, se non decide di mostrarsi, perché ha il potere di liberarmi dalla sofferenza. Sono il suo strumento: non puoi servirti di me contro di essa. — Ciò detto, egli cercò di alzarsi a sedere, ma proprio in quel momento iniziò di nuovo a soffrire. — Non muoverti — ella mormorò. Egli si umettò le labbra: — Ti converrebbe darmi quello di cui ho bisogno, e lasciarmi andare. La Sfinge non è amica della tua razza, e tu non hai nessun ruolo da svolgere in quello che essa è venuta a compiere. — Questo dev'essere ancora stabilito. — Mandorla riuscì di nuovo a sorridere, ed egli lesse la speranza nel suo sorriso. Non aveva nessuna intenzione di liberarlo. Finché Lydyard e Gabriel fossero rimasti suoi prigionieri, chiunque li avesse voluti avrebbe dovuto andare a prenderli, perciò avrebbe dovuto anche essere pronto a battersi per il privilegio di condurli via. La regina dei licantropi non sapeva quali sarebbero state le conseguenze di quel conflitto, se conflitto vi fosse stato, tuttavia sapeva di non aver nulla da perdere. Nella peggiore delle ipotesi, avrebbe dormito, per dieci anni o per mille anni. Scrutando i suoi occhi scuri, Lydyard comprese che tale prospettiva la spaventava pochissimo. Non riusciva a biasimarla del tutto per la sfrenata speranza che l'infinito strato di ghiaccio che avvinceva la sua anima alla Terra e alla forma umana potesse un giorno essere dissolto in un fuoco purificatore. D'improvviso, il sorriso divenne una smorfia, e Mandorla si accigliò, forse perché aveva scorto la compassione nello sguardo di lui: — Sei uno sciocco a cercare di beffarti di me, David Lydyard. Non dimenticare mai, uomo fragile, che posso farti soffrire, molto più di quanto puoi immaginare. E se alla fine riceverai la liberazione dal dolore, sarà un mio dono: un mio dono, a meno che la tua Sfinge non ti liberi, e non prima che ciò avvenga. «Rammenta che dopotutto sei soltanto umano, mentre io non lo sono.
Posso infliggerti sofferenze insopportabili, e puoi star certo che qualunque cosa possa fare la tua protettrice, essa non si cura minimamente di coloro che tu ami. Io apprezzo abbastanza la carne umana tanto che potrei bere il tuo sangue, se ne avessi voglia, oppure il sangue di una persona che ti è cara. Temimi, dunque, mio caro David: temimi! Queste minacce indussero Lydyard a inumidirsi nuovamente le.labbra. Sapeva ormai fin troppo bene che Mandorla era capacissima di torturarlo nelle maniere più terribili, e che quando accondiscendeva invece a giocare con lui, si comportava come una. gatta che giocasse con un topo. Tuttavia, esiste una gatta più potente, pensò. È libera, può giocare con te allo stesso modo, e può farti soffrire in modi che né tu né io possiamo immaginare. Ma in che modo ciò potrebbe salvarmi, se la furia dell'Inferno si scatenasse sulla Terra? In tono burbero, dichiarò: — Temo di non poter ancora esserti grato per la misericordia che potresti mostrarmi decidendo di non torturarmi. Vuoi portarmi un po' d'acqua, oppure vuoi servirti della sete per farmi sognare di nuovo? Accettando il rimprovero con benevolenza sorprendente, Mandorla non sorrise, né si accigliò: — Non sei un debole — mormorò. — Non posso provare simpatia nei tuoi confronti, per questo, perché non appartengo alla tua razza, ma ho vissuto troppo a lungo fra gli umani per odiarne tanto i migliori quanto ne odio i peggiori. Non ti torturerò soltanto per il gusto di vederti soffrire, tuttavia dovrai soffrire ancora, quando sarà il momento. Dirò a Caleb di portarti da bere, e una coperta per tenerti caldo. — Ciò detto, Mandorla si alzò. Di nuovo afflitto dall'emicrania, Lydyard lasciò ricadere la testa sul materasso, e fu lieto di vedere Mandorla salire i gradini di pietra che conducevano alla porta: finalmente poté rilassarsi per quanto possibile, e cedere alla spossatezza. Ma subito iniziò a percepire la vicinanza di quell'inferno che tanto spesso veniva a reclamarlo. L'umidità fredda della stanza si mescolò al calore del fuoco innaturale della sua anima, nonché alla sofferenza che gli divorava i piedi dalle dita ai calcagni. Le mura viscide della sua prigione scintillavano, come per la promessa di una luce più splendente al di là. Per tenere a bada le visioni, Lydyard iniziò a cantilenare in un sussurro: — Pater noster, qui es in caelis... Tuttavia, non sapeva più a chi indirizzare la propria preghiera.
15 A suo tempo, Caleb Amalax portò una tazza piena d'acqua, ma non la coperta che Mandorla aveva promesso. Guardò Lydyard come se avesse intenzione di vuotargli l'acqua in faccia, anziché di lasciarlo bere. Per alcuni istanti gliela mostrò senza offrirgliela, per schernirlo. Lydyard si limitò ad attendere pazientemente. Alla fine, Amalax gli accostò la tazza alle labbra e gli permise di bere liberamente. L'acqua aveva un sapore amaro e metallico, ma Lydyard la inghiottì avidamente: — Grazie — disse, quando ebbe finito. Il gigante, che non voleva i suoi ringraziamenti, se ne andò senza fargli il favore di parlargli: e per aggiungere il danno alla beffa, portò via la lampada. Bastò un'occhiata al mozzicone di candela, perché Lydyard si rendesse conto che ben presto sarebbe sprofondato in un'oscurità stigea. Rimase immobile per quello che gli parve un lungo periodo, deciso a non addormentarsi. Dopo una breve serie di tentativi, si convinse di non poter allentare i legami che gli avvincevano i polsi: per giunta, si adirò con se stesso nell'accorgersi che l'attrito della fune gli aveva scorticato la pelle, facendolo sanguinare. Ormai, il dolore ai polsi e alle caviglie legati gli sembrava maggiore di quello dei piedi ustionati. Sulle prime, decise di resistere al sonno per non sognare, ma poi, allorché la candela, finalmente consunta, si spense, non tardò a trovare una ragione più pratica. In pochi minuti, infatti, udì zampettare sul pavimento parecchi ratti vivacissimi. Alcuni roditori, invisibili nel buio, si arrampicarono sul letto, obbligandolo a scacciarli scuotendo le gambe. Non faticò ad immaginare che cosa avrebbe provato, se uno di essi gli avesse affondato le zanne ingiallite nella pianta di un piede, dando forse inizio all'assalto frenetico di un'orda di bestie ributtanti, decise a spolparlo. Riprese a pregare, ma smise dopo breve tempo. Un paio di volte, sentendo passare qualcuno in corridoio, chiamò, senza che nessuno entrasse a vedere che cosa voleva. Non gli fu portato cibo, né altra acqua, perciò si domandò se i torvi amici di Mandorla avessero deciso di lasciarlo diventare pasto per topi. Tuttavia, la spiegazione più probabile era che tutto ciò facesse parte di una strategia per demoralizzarlo. Mandorla non poteva accontentarsi di torturarlo: aveva bisogno della sua collaborazione. Prima di tornare, voleva ridurlo a una tale disperazione, che sarebbe stato lieto di rivederla e di ascoltare la sua voce suadente. Insomma, progettava di render-
lo completamente dipendente dai suoi favori. O forse, pensò Lydyard, in un momento di umorismo lugubre, sono stato scelto come esca per una trappola: devo attirare i topi, in modo che i licantropi possano ammazzarne e divorarne il più possibile. Quando un altro ratto si arrampicò sul letto, vicino alla sua testa, lo scaraventò via con una gomitata, facendolo squittire più d'irritazione che di paura. Tuttavia ebbe la certezza che esso si fosse ritirato soltanto temporaneamente e che fosse astutamente in attesa di un'occasione migliore. Intanto, ai piani superiori, la casa era tutt'altro che silenziosa: a giudicare dagli scricchiolii e dai cigolii dei tavolati, gli abitanti erano numerosi, molto probabilmente decine, e molto indaffarati. Comunque, nessuno rispose ai richiami del prigioniero. Evidentemente era normale, là, sentir gridare durante la notte: nessuno si prendeva la briga di chiedersi da dove giungessero le grida, e perché. Esausto, Lydyard si rilassò nuovamente, rimanendo immobile. In meno di dieci secondi, si sentì fiutare un tallone da un ratto. Colto da un improvviso furore parossistico, scalciò per allontanare il topo, e tirò per allentare i legami. Sapeva benissimo di non potersi liberare con la pura forza bruta, però doveva sfogare in qualche modo la propria frustrazione, anche se soltanto imprimendo qualche traccia di furore sulla superficie dell'esistenza mediante un dolore spietato. E quando, in quel momento di perversità, accettò la sofferenza, accogliendo il fuoco caustico, sprofondò di nuovo, attraverso qualche recesso misterioso, nella sostanza del mondo e nel tessuto del tempo. Anche se si smarrì nel trascorrere del tempo, Lydyard riuscì in qualche modo a preservare quell'ombra di curiosità che non era stata del tutto estirpata dalla sua intelligenza. Ancora una volta condivise la coscienza pietrificata di colui che aveva perduto il proprio nome, diventando l'ultimo di una serie infinita di Adam. Mentre eravamo a Parigi, pensò, in un modo stranamente ovattato e faticoso, accadde qualcosa... Per dominare i propri riottosi pensieri, Adam Grey si concentrò sui ricordi di Parigi che la sua memoria era in grado di recuperare: la facciata del Louvre che guardava la Senna; gli Champs Elysées; Notre Dame de Paris... Nulla destò in lui alcuna eco: niente s'impigliò nell'amo appeso alla sua lenza di pensiero, affondata in quella parte della mente che era gelida e sommersa.
Non era sconcertato: l'indifferenza che la sua strana padrona e amante aveva impresso in lui era tanto un dono quanto una maledizione, allorché era necessaria la pazienza. Continuò a rievocare ricordi, vaghi e indistinti come acquerelli sbiaditi o come dagherrotipi seppia: il Pont Neuf; la cupola dorata della chiesa di Saint-Louis, che svettava sopra l'ospedale; Les Halles; la chiesa di Saint-Sulpice, circondata di negozi che vendevano statuette sacre pacchiane... Inspiegabilmente, furono proprio le statuette di Saint-Sulpice a far scoccare d'improvviso una scintilla, provocando una piccola esplosione strana nella sua mente: per la seconda volta in pochi minuti, Lydyard, questa volta passeggero in un'anima altrui, fu isolato dal flusso del presente, e precipitò attraverso il tempo. Si trovò nelle immediate vicinanze di una chiesa, che non era SaintSulpice, né nessun'altra chiesa importante, bensì una chiesetta gotica innaturalmente gelida e soprannaturalmente illuminata da file e file di candele, le cui fiammelle si riflettevano sui vetri piombati delle finestre istoriate dai colori pallidi. Era sul ballatoio, solo. I fedeli erano pochi. Era in corso una cerimonia che non sembrava una messa, giacché l'officiante, come i suoi assistenti, indossava una strana casula nera di seta, e le frasi che pronunciava in Latino erano incomprensibili, nonostante la chiarezza dell'intonazione. Fra l'altare e la transenna, a pochissima distanza dall'uno e dall'altra, era collocato un tavolo basso. Alla vista delle due statue che si trovavano ai lati dell'altare, l'osservatore capì per quale motivo la sua memoria aveva effettuato quell'associazione: esse non erano meno rozze delle statuette in gesso da poco prezzo vendute nel Quartiere Latino. Tuttavia, una raffigurava il capo delle streghe con la testa di capro al sabba, e l'altra un demone grottesco. Allora, e soltanto allora, l'osservatore notò che la croce sull'altare era rovesciata, e che il calice era nero come il giaietto. In quel momento, Adam Grey, e con lui Lydyard, ritornò in se stesso, e condivise le emozioni appannate dell'osservatore incuriosito. Fra i detriti della propria conoscenza del mondo, trovò notizie sulle messe pervertite degli Yezidi: così si accese lentamente in lui la comprensione che stava assistendo al rito di Asmodeus e di Astaroth: la comunione nera dei satanisti moderni. Osservò con maggiore attenzione la congregazione, notando che era composta da un numero di individui compreso fra i trenta e i quaranta. Le
donne erano a capo scoperto, mentre gli uomini indossavano berretti. Per il resto, vestivano tutti in modo normale, con una certa eleganza. Intanto, un assistente si recò nella sagrestia, dalla quale ritornò poco dopo conducendo una ragazza che non poteva avere più di quindici o sedici anni, e che, ad eccezione di una maschera nera, era completamente nuda. Nonostante il freddo, non tremava. Il suo portamento era strano, come se fosse intontita o in trance: notandolo, l'osservatore si sentì a disagio, perché era consapevole di trovarsi in una condizione di coscienza simile. La ragazza si stese supina sul tavolo, con le braccia lungo i fianchi. L'officiante prese il calice, contenente un liquido che all'osservatore sembrava poter essere soltanto sangue, poi le segnò la fronte e i seni. A partire dai peli pubici, le tracciò sul ventre una croce, con l'intersezione dei bracci in corrispondenza dell'ombelico. Le depose il calice accanto alla testa e le posò sul ventre la patena con l'ostia. L'offertorio, simile a quello cattolico, fu celebrato con la dovuta solennità. L'ostia fu consacrata, il vino fu versato nel calice, ma l'offerta non fu dedicata a Dio: il paternoster fu sostituito da un'invocazione che non ne era un mero rovesciamento. Mentre l'ostia veniva spezzata e una particola veniva collocata nel calice, l'osservatore comprese che il significato simbolico non era il medesimo della messa cattolica: il rito, dedicato ai Creatori della materia e del corpo, escludeva il Creatore dell'anima, che era il Signore della Chiesa. Secondo la religione cristiana, si trattava di una messa nera, di un omaggio al Demonio; eppure non era una blasfemia deliberata, bensì un'adorazione solenne, priva di lascivia, nonostante la presenza della ragazza nuda, nonché priva di sacrificio, nonostante il sangue contenuto nel calice. A loro modo, i membri della congregazione si consideravano buoni e reverenti. I fedeli si radunarono alla transenna e chinarono la testa. Salito all'altare con l'ostia, l'officiante si volse prima verso una statua, poi verso l'altra, dicendo: — Ecce, Asmodeus... Ecce, Astaroth... — Dopo avere pronunciato altre frasi, incomprensibili per l'osservatore, si volse di nuovo ai fedeli, e rimase immobile, come paralizzato, incapace di scendere i gradini. Sopra la ragazza nuda, infatti, come se si librasse senza peso, apparve magicamente una figura enorme e terribile. Sulle prime i fedeli, molti dei quali avevano senza dubbio chiuso gli occhi, non si resero conto della sua presenza, ma poi la percepirono, alzarono lo sguardo uno ad uno, e rimasero a bocca aperta per la meraviglia e per l'orrore.
Alta tre metri e mezzo, con la testa lunga trenta centimetri, essa non era affatto simile alle due statue: assomigliava piuttosto alla ragazza, in quanto, oltre ad essere mascherata, era nuda e inequivocabilmente femmina. Il suo corpo era però più formoso: più materno che virgineo. La maschera, ammesso che fosse tale, era stata realizzata con arte sublime: aveva sei corna ricurve ed era ammantata di pelliccia felina. Gli occhi enormi sfavillavano come braci ardenti. D'improvviso, essa parlò: — Ecce, Astaroth! Ite, missa est! Subito dopo, mentre le urla echeggiavano nella navata, i fedeli balzarono in piedi, coprendosi gli occhi, e si urtarono gli uni con gli altri, in preda al panico, nel tentativo di fuggire. L'officiante, che nel frattempo aveva lasciato cadere l'ostia, si schermò gli occhi a sua volta, allarmato e incredulo. L'unica persona presente nella chiesa a rimanere immobile, come paralizzata dall'incanto e dalla più pura ammirazione, fu la ragazza mascherata distesa ai piedi dell'angelo tenebroso che si era appena dichiarato. Poi, nella chiesa si diffuse una risata selvaggia che parve scaturire dalla pietra stessa, e le finestre sfolgorarono di luce colorata, come se la notte si fosse appena trasformata in un giorno glorioso. I vetri istoriati non rappresentavano più Cristo e i santi, bensì una turba di demoni e di mostri, i quali eseguivano evoluzioni folli e comiche. La congregazione, inclusi l'officiante e i suoi assistenti, fuggì. Rimase soltanto la ragazza sul tavolo, immobile come se fosse morta, quasi che la sua anima si fosse trasferita in purgatorio, per ascoltare il verdetto che il fato si apprestava a pronunciare sulla sua eresia e sulla sua follia. Di scatto, l'uomo a cui era stato ordinato di essere Adam aprì gli occhi e vide, dal finestrino di un treno, il paesaggio tetro, ma rassicurante, della verde e bella Inghilterra. D'improvviso, fu assordato dalla rapida cacofonia cadenzata prodotta dal passaggio delle ruote sulle giunture delle rotaie. Sono dunque nella morsa di Satana medesimo? pensò, con una nausea improvvisa, la quale penetrò la cortina di noncuranza che aveva avvolto come un sudario i suoi sentimenti e le sue percezioni. Imprigionato con lui, però, Lydyard sapeva che quello che era accaduto nella chiesetta parigina non confermava affatto i timori e le speranze dei frati di Sant'Amycus. L'angelo caduto aveva posseduto gli adoratori del demonio e, attingendo alla loro stessa immaginazione, aveva assunto la forma di Astaroth semplicemente per scherno, per divertirsi ad esplorare la
spregevolezza umana. Nel rispondere all'angoscia inespressa di Adam Grey, l'entità non sembrò parlare a costui, che era il suo strumento più impotente, bensì a Lydyard, ancora prigioniero nella solitària oscurità infestata dai ratti: — Perché no? — ella disse, dall'angolo del compartimento in cui sedeva, bella e completamente umana. — Gli uomini dovrebbero essere obbligati a fronteggiare i loro dèi, per scoprire fino a che punto l'ignoranza li ha resi codardi. Quanto agli dèi... Non potremmo forse essere contenti di essere quali ci hanno resi gli uomini? — È quella la tua vera forma? — chiese Grey, con la voce momentaneamente arrochita dalla paura. — Sei davvero gigantesca, con la testa di una creatura mostruosa e gli occhi di fuoco? — Prima ancora di ottenere risposta, si rese conto, come già aveva compreso Lydyard, che ella stava giocando con lui: lo stuzzicava suscitando in lui un fremito di paura. Non poteva provare nulla senza il suo permesso: quando ella glielo negava, l'indifferenza scendeva su di lui come un manto soffocante. — Quando camminano sulla Terra — ella spiegò — gli angeli devono scegliere le forme che sono in grado di facilitarli maggiormente nell'ottenere i loro scopi. Devono essere belli e severi, ma devono anche corrispondere alle umane fantasie di potenza. Gli uomini sono come caricaturisti: raffigurano come mostri grotteschi coloro che concepiscono come tentatori, e attribuiscono al loro avversario la testa caprina, le zampe pelose, e la coda forcuta. Amano la bruttezza in coloro che desiderano odiare, mentre desiderano che la bellezza parli sinceramente di bontà e di generosità. In tal modo danno forma e sostanza agli angeli che si recano a far loro visita dalle profondità del tempo. — Ella tacque per un momento, volgendosi al finestrino per osservare il cielo tetro e i campi rugiadosi. Poco dopo, però, riprese, con affettata stanchezza: — Ah, mio caro Adam... È davvero un mondo assurdo, quello che ho trovato. Gli umani, i quali, l'ultima volta che camminai sulla terra, erano soltanto bruti villosi, ora hanno scoperto modi molto ingegnosi per manifestare la loro brutalità! Non cercare in te stesso quello che sei veramente, perché troveresti soltanto una scimmia miserabile, che nutre rimarchevoli illusioni di nobiltà. Domandati invece quello che potresti diventare, se io scegliessi di apparentarti a una razza superiore. Benché Adam Grey si sforzasse di comprendere, la mente che era stata capace di tale comprensione, in lui, era ormai sommersa ad eccessiva profondità. I suoi pensieri erano intrappolati, come se fossero avvolti in una
ragnatela. Eppure sapeva che non doveva tentare di fuggire, giacché la sua presenza lì era motivata. Dal canto suo, Lydyard non era in grado di stabilire se i suoi pensieri e le sue sensazioni stessero in qualche modo filtrando nella mente dell'altro. — Sei indubbiamente gentile — osservò il corpo che ospitava Lydyard — a permettermi di rammentare il mondo dal quale il mio io miserabile è stato cancellato. Però ho paura a sognare un futuro glorioso e a confidare nelle tue promesse, perché non so chi sei, né chi ti ha destata: ho visto soltanto Astaroth, e devo ancora incontrare Asmodeus. Nell'udire queste parole, Lydyard ebbe la certezza che la sua presenza come passeggero nei pensieri altrui non era priva di conseguenze. Se soltanto avesse saputo come, avrebbe potuto intervenire nella conversazione e parlare direttamente all'entità, ponendo tutte le domande che gli si affollavano nella mente, nonché esprimendo tutte le preghiere che un'entità dotata di poteri divini avrebbe potuto esaudire. Inoltre, avrebbe potuto avvertirla degli stratagemmi vani di Mandorla Soulier e del Ragno che stava in agguato nell'ombra di Jacob Harkender. Purtroppo, non era in grado di fare nulla di tutto ciò. — Ho visto quello che passa per Creazione quotidiana in questo vostro mondo — ella dichiarò, sempre come se sapesse benissimo di parlare a due uomini, anziché ad uno soltanto. — Temo che gli altri della mia razza non siano consapevoli di quanto profondamente stanno dormendo. Si sono imprigionati nella materia e nello spazio del mondo, perciò non possono sapere quanto e come il tributo del mutamento stia pervertendo lentamente il loro essere. «Sono grata al mostro di audacia umana, chiunque sia, che ha osato disturbarmi, perché non potevo certo immaginare, quando mi coricai a riposare pazientemente in attesa di un tempo migliore, che cosa avrei trovato al mio risveglio. Il vostro mondo è perfettamente maturo per gli Atti di Creazione, mio caro Adam, e oso dire che nessuno potrebbe fermare la mia mano, se decidessi di trasformarlo. Eppure, vi sono molte cose che non posso vedere né comprendere, perché sono insondabili agli occhi e alle menti di coloro ai quali ho rubato la vista. «Quello che veramente è strano in questo vostro mondo, mio delizioso consorte, è che sfida l'immaginazione di coloro che vivono in esso. D'altronde, ciò non è inspiegabile, se si considera che il mondo fu lasciato agli uomini dall'anima fredda che non possedevano la veggenza. Io stessa, che pure posso vedere che cosa sono gli uomini interiormente, ho a malapena
incominciato a comprendere la scienza e la società che compongono il loro mondo di apparenze. «Se soltanto ti fosse concesso di vedere che cos'è realmente il tuo mondo, quali notizie riferiresti alla Terra? Il ciclo del mutamento ha compiuto molto più di quanto avrei creduto possibile, perciò temo, giacché anch'io, nonostante quello che sono, posso avere paura, che vi sia qualcosa nel potere del mutamento, capace persino di negare il potere della Creazione. E voi, mio caro Adam, non dovreste gioire di questa mia ansia, perché non potete osare sperare di liberarvi dai vostri dèi senza sapere quale genere di libertà conquistereste! — Potrei esserti più utile, se tu mi permettessi di rammentare chi sono. Questa frase fu pronunciata soltanto da Adam Grey, perché Lydyard avrebbe saputo continuare molto meglio la conversazione, affrontando argomenti di gran lunga più importanti: o almeno, così credeva. — Temo di no — ella rispose, ironicamente. — Rimarresti confuso, mentre io considero preziosa la tua limpidezza di pensiero e di osservazione. Non opporti alla mia volontà, mio amato. Amami, mio caro Adam, e scoprirai di essere capace di abbandonarti a me senza dubbi, nonché con la gioia più pura. Non devi fare altro che amarmi. Mentre il suo ospite prigioniero osservava i lineamenti perfetti della donna, Lydyard si rese conto che era estremamente difficile resistere alla bellezza, apparente o meno che fosse. Mandorla Soulier aveva tentato di giocare con lui esattamente nello stesso modo in cui la Sfinge stava giocando con Adam Grey, il quale non poteva odiarla per questo: in un certo senso, si trattava di un complimento sincero. Lo stesso Lydyard, nel proprio intimo, non poteva odiare Mandorla Soulier, nonostante il fatto che costei, giocando con lui, avrebbe potuto ucciderlo. E Cordelia? pensò Lydyard, con uno choc doloroso di cinismo. Forse che il gioco della sua bellezza non è nulla più che un'ombra dei giochi di questi bei mostri? Ma scacciò subito questo dubbio tormentoso, cercando di concentrarsi invece su quello che l'affascinato Adam Grey stava dicendo alla sua maestosa padrona e amante. — Il mondo era di gran lunga più piccolo, l'ultima volta che tu vi camminasti — sussurrò Adam, con la voce quasi soffocata dalla canzone discordante del treno che correva sulle rotaie. — Forse si estende troppo nello spazio e nel tempo per essere così facilmente alterato come credi tu. Il potere in grado di provocarne la fine forse non esiste affatto, e se esiste, può darsi che sia superiore a quanto può immaginare una piccola divinità
tribale. Forse è un bene che tu abbia paura, nonostante quello che sei. — Forse — ella convenne, scrupolosamente prudente nella propria esitazione. — Ma la grandezza è come la bellezza: è contenuta nell'occhio dell'osservatore. E io non sono ancora convinta che non potrei, se così volessi, fermare le stelle nel loro corso, per farle piovere sulla Terra. Fra voi, vi sono coloro che desiderano ardentemente la fine, e se questo è quello che chiedono alle loro divinità, perché non dovrei provvedere? Mentre ella parlava, Lydyard notò qualcosa di strano attraverso gli occhi di Adam Grey: quando il sole mattutino spuntò improvvisamente dalle nubi mutevoli, apparve dietro la testa della Sfinge un'ombra simile a un ragno predatore in agguato, in attesa della preda. E anche se, mediante le labbra riluttanti di Adam Grey, tentò di gridare un avvertimento, Lydyard non vi riuscì: precipitò invece in una ragnatela di luce abbacinante e di fuoco che tutto consumava. 16 Era all'Inferno, ed era Satana, furente contro l'ignominia della propria prigionia, furente contro la crudeltà di Dio e contro l'indolenza dell'uomo, furente contro la lava ardente che affiorava gorgogliando sotto di lui e scottava la sua carne incorruttibile, che non poteva avvizzire, né annerire, né decomporsi, condannato dall'immortalità a soffrire per tutta l'eternità. Al di sopra di lui, il mondo non era più visibile, come non lo era la sua mano libera, la destra, né lo erano le aquile che volteggiavano in cerchio nel cielo igneo, perché quella era la notte del tempo, illuminata soltanto dalle eruzioni sotto di lui, crocifisso dalla circostanza e dal peccato, impotente a riscrivere il rotolo della storia, anche se non esisteva nulla che non potesse essere ricreato, e non era mai accaduto nulla che non potesse essere cancellato. S'infuriò contro i chiodi che lo trafiggevano, sforzandosi di svellerli e di liberarsi, a costo di straziarsi con squarci che avrebbero impiegato mille anni a guarire. Alla fine, comunque, sarebbero guariti, perché lui era un angelo, non un essere mortale. E consapevole di questo, era certo che avrebbe potuto trasformarsi, se soltanto avesse saputo come... Avrebbe potuto liberarsi, se soltanto avesse conosciuto il modo... Avrebbe potuto redirmersi, se soltanto... La luce sbiadì sino a divenire oscurità, lo strazio divenne mera sof-
ferenza, eppure egli non fu liberato dall'Inferno: fu semplicemente condotto in un'altra parte di esso, che non era affatto migliore, anzi, in modo molto subdolo era di gran lunga peggiore. Sentiva i rumori prodotti dai ratti. Il fetore della decomposizione era tanto denso nelle sue narici, che quasi credeva di giacere morto e putrescente. Scosse la mente intorpidita e mosse le labbra come per pronunciare una preghiera. Ma poi... Fiat lux, disse qualcuno: un sussurro nelle pareti della cantina, una voce dal nulla. E la luce si accese: una luce magica e miracolosa. Un fanciullo simile a un angelo biondo teneva sotto l'esile braccio destro un'immagine del mondo, sfolgorante di radiosità argentea. L'angelo buono protese la mano sinistra ad accarezzare con i polpastrelli i legami che avvincevano i polsi di Lydyard: essi caddero subito, senza bisogno di essere sciolti o recisi. Quindi l'angelo buono offrì il mondo, affinché egli potesse finalmente toccarlo, e avere quella possibilità di redimerlo che bramava da tanto tempo. Con entrambe le mani, egli prese lo specchio che conteneva il mondo, ignorando il sangue che gli scorreva dai polsi, e scrutò nelle profondità della luce magica che traboccava dalla cornice, come per cercarvi il proprio riflesso. Per il più fugace degli istanti, la luce guizzò, parve sbiadire, fu sul punto di spegnersi, poi avvampò di nuovo, più splendente che mai. — Posso farlo — egli sussurrò. — Ho rubato la luce degli dèi: mi appartiene, posso comandarla. — Chi sei? — domandò il fanciullo. — Sono Lucifero Prometeo, colui che tentò l'uomo dall'anima fredda con l'illuminazione e con il fuoco, e fu incolpato di tutte le punizioni subite dagli uomini in conseguenza del destino che era scritto per loro nei cicli del mutamento. — Il mio nome è Gabriel. Quando l'angelo pronunciò queste parole, egli non ne fu affatto sorpreso. Subito dopo, però, l'illusione crollò. Infatti, il fanciullo chiese: — Sei un licantropo? D'improvviso, Lydyard deglutì, scoprendo di avere un nodo alla gola e un sapore disgustoso in bocca: — Che genere di luce è mai questo? — domandò, disperatamente incapace di comprendere come il fulgore potesse
diffondersi dallo specchio che teneva in mano. Allora, come per effetto della consapevolezza da parte di Lydyard della sua impossibilità ad esistere, la luce cominciò ad affievolirsi. Il fanciullo riprese lo specchio e se lo strinse al petto, per salvare la radiosità morente e farla splendere di nuovo: l'oscurità ritornò, ma soltanto per un attimo. In tono afflitto, disse: — Non dovevi lasciarla spegnere. Avresti potuto farla brillare: hai visto che puoi. Io posso fare molto di più, non soltanto con lo specchio: anche con il vetro della finestra e con la polvere sul tappeto. Posso vedere, e ho il potere di cambiare le creature. Ho cominciato con le creature piccole: i tarli e i ragni. Però questo è stato soltanto l'inizio. Appartengo alla razza degli Altri, come Mandorla... e come te. — No, non come me — rispose Lydyard, con un sussurro. — Io ero soltanto un uomo, prima di essere morso dal serpente, che era Satana travestito. Il demone non è me: non è neppure parte di me. Voglio sbarazzarmene. Voglio tornare ad essere un uomo, accecato dalle consolazioni misericordiose. — Anch'io pensavo la stessa cosa, all'inizio — spiegò Gabriel, con voce neutra. — Ma non è per niente un demone: sono soltanto io. È quello che sono. Fu soltanto allora che le ultime vestigia della confusione finalmente scomparvero, e Lydyard comprese tardivamente chi fosse il fanciullo che aveva di fronte: — Tu sei Gabriel Gill! — Chi ti ha legato? È stato Amalax? — Sì — rispose Lydyard, burbero. Pervaso di nuova speranza, giacché almeno alcuni dei suoi legami erano stati rimossi, chiese: — Dove siamo, Gabriel? Puoi accompagnarmi fuori di qui? — Posso vedere con gli occhi di Amalax, e anche con quelli di Teresa. Per pochi momenti, Mandorla mi permette di guardare con i suoi occhi, quando si trasforma in lupa. Soltanto quando me lo ha permesso la prima volta ho capito quello che Morwenna aveva cercato di spiegarmi. Loro conoscono la gioia, mentre noi non la conosciamo. Nessuno conosce la gioia, tranne loro. Teresa poteva volare e vedere il Paradiso, ma doveva soffrire moltissimo per riuscirci, proprio come il signor Harkender. Il dolore è diverso, per me, però non conosco la gioia: non veramente, non ancora. Ma quando avrò imparato a trasformarmi in un lupo, rimarrò lupo per sempre, e aiuterò Morwenna e Mandorla ad essere lupe per sempre. Del tutto confuso da quel discorso torrenziale, Lydyard domandò: —
Chi è Teresa? — Una suora. Credono che sia una santa, perché può volare e parlare con Gesù. Mi ha chiamato Satana, ma io non lo sono. — No. — Lydyard si chiese che cosa avrebbe potuto dire al fanciullo per recidere quel nodo di caos. Dopo una pausa, soggiunse: — I licantropi non sono tuoi amici, Gabriel. Qualunque cosa ti abbia detto, Mandorla non è tua amica. Ti farà soffrire, come vuol far soffrire me. Aiutami, Gabriel, e io aiuterò te. Portami fuori di qui, e... — S'interruppe, alzando lo sguardo. Accecato dalla luce splendente che il fanciullo cullava fra le braccia, non aveva visto arrivare colui che stava sulla soglia, benché reggesse una candela accesa. Soltanto dopo qualche istante riconobbe Amalax, gigantesco e grasso come sempre. Era impossibile stabilire da quanto tempo fosse lì. Girandosi, Gabriel spostò lo specchio in modo tale da illuminare il gigante, il quale, divenuto chiaramente visibile, apparve ancor più brutto e sinistro. In un tono di gentile preoccupazione che suonò vacuo e falso, Amalax osservò: — Non dovresti essere qui, Gabriel. — Posso andare dove voglio — ribatté Gabriel, calmo. — Mandorla non sarebbe contenta di sapere che sei qui — insistette Amalax, per nulla turbato, almeno apparentemente, dall'insolenzà del fanciullo. — Si arrabbierebbe, se lo scoprisse. Devi tornare nella tua camera, e lasciare in pace costui. — Ha sete e soffre — replicò Gabriel. — Era solo al buio, con i ratti. — Devi cercare di essere un bravo ragazzo, Gabriel — ingiunse Amalax, con voce ferma. — Mandorla arriverà fra poco, e si arrabbierà, se ti troverà qui. Torna nella tua camera, per favore, e lascia che mi occupi io di costui. Gli lascerò la candela accanto al letto, e gli porterò da bere. I ratti non gli faranno nulla. — Non ho più bisogno di essere un bravo ragazzo — dichiarò Gabriel, in un tono di strano compiacimento. — Non ne ho mai avuto bisogno: semplicemente, non sapevo di non averne bisogno. Lei non può farmi male, signor Amalax: non osa neppure provarci. — Non voglio farti male — assicurò ostinatamente Amalax, anche se era evidente che quello che il fanciullo aveva detto era vero. — Nessuno vuole farti male. Ma costui è tuo nemico. Vuole portarti via, e questo sarebbe dannoso per tutti. Lascia che mi occupi io di lui, per favore. — Io non sono nemico di nessuno — intervenne Lydyard. — Cerca di vedere con i miei occhi, Gabriel, come puoi fare con quelli di costui. So
che cosa puoi fare, e voglio che tu sappia tutto quello che so io: voglio che tu sappia tutto. Non so se puoi capire, ma voglio che tu veda. Non è necessario che tu rimanga qui: vai pure, senza preoccuparti. Ma devi cercare di vedere con i miei occhi, in modo da scoprire com'è realmente il mondo, e chi sono i tuoi veri amici. — Taci! — ordinò Amalax, aspro, benché si rendesse conto, come lo sapeva Lydyard, che era del tutto inutile. — Lascia in pace il ragazzo! Allora Gabriel scrutò negli occhi dapprima Amalax, poi Lydyard, con un'intelligenza che smentiva il suo aspetto fanciullesco. Per incoraggiarlo, Lydyard annuì. A sua volta, Gabriel annuì. Quindi accondiscese a salire i gradini fino alla porta, dove aspettava Amalax, il quale si fece da parte per fargli spazio. Nel passargli dinanzi, Gabriel alzò lo sguardo a scrutarlo in modo tale da lasciar intendere chiaramente che non se ne stava andando per mera ubbidienza, bensì era del tutto padrone di se stesso. Quando il fanciullo se ne fu andato, Lydyard si sdraiò di nuovo sul materasso e si lasciò legare ancora una volta dal gigante senza opporre resistenza: — Mandorla non può dominarlo — osservò, mentre Amalax, come aveva promesso, sostituiva la candela consunta con quella che aveva portato. — È troppo potente, e vede troppo chiaramente, ora, per poter essere ingannato ancora a lungo. Perciò tu, qualunque cosa speri di ottenere servendo i licantropi, rimarrai deluso. Anzi, ti trovi in grande pericolo: ti converrebbe liberarmi. — Oh, no. — Amalax gli lanciò un'occhiata astuta e maliziosa. — Sei troppo prezioso: ricorda che i ratti hanno invaso la cantina, per venirti a cercare! Ebbene, potresti essere un'esca adatta ad attirare anche belve terribili: un licantropo che ha tradito la sua razza, per esempio. E intanto che lo aspetti, Mandorla è curiosa di ascoltare i racconti dei tuoi sogni. Con uno sforzo, Lydyard riuscì a sorridere: — Tu non osi nemmeno sognare le belve che potrei attirare — dichiarò, nel tono più morbidamente minaccioso che riuscì ad ottenere. — Infatti, una parte dell'anima della Sfinge è fusa alla mia, e mi conferisce il potere di evocare la Sfinge medesima: forse anche il Ragno. Benché non si possa escludere che il più caro desiderio di Mandorla sia quello di provocare uno scontro fra le due entità, dubito che lei ti abbia spiegato che cosa implicherebbe. Ti ha allettato con promesse di potere, ma in realtà intende annientare tutta la razza umana. Se ella riuscirà ad ottenere il suo scopo, tutti i tuoi meschini guadagni si trasformeranno in polvere e in cenere.
— Tu invece salveresti il mondo degli uomini, se io ti liberassi? — schernì Amalax. — Potresti sconfiggere i licantropi, e gli altri di cui parli? Che poteri hai, per fare promesse migliori di quelle che ho già ricevuto? È vero, pensò Lydyard. Che poteri ho? Tuttavia, rispose: — Io ho visto attraverso i tuoi occhi, Caleb Amalax, e così pure il ragazzo. Lui ed io conosciamo le tue speranze più fervide e le tue paure più segrete, molto più di Mandorla. So che ti rendi conto di essere soltanto una pedina che probabilmente sarà sacrificata senza neppure un ripensamento, e ti assicuro che, se esiste una qualsiasi speranza per te o per chiunque di noi, essa dipende da Pelorus, non da Mandorla. Sprezzante, Amalax sputò sul pavimento gelido. Senza bisogno di vedere attraverso i suoi occhi, Lydyard capì che l'atto fu soltanto il sostituto misero di una risposta razionale, ma anche che il gigante non osava ribellarsi ai licantropi. Era fin troppo affezionato al grasso disgustoso che gli rivestiva le ossa, per provocare la loro ira con un tradimento. — Vai pure, allora — riprese Lydyard. — Vai pure incontro al tuo destino funesto, come tutti gli altri sciocchi che Mandorla ha ammaliato con la sua bellezza! Le ultime parole della frase si persero negli echi di un'improvvisa serie di colpi d'arma da fuoco. — Pelorus! — gridò Lydyard. Anche se non riuscì in alcun modo a capire perché, il nome gli colmò gli occhi di lacrime di gioia. Non sei solo, pensò, come gli avevano assicurato Tallentyre e Pelorus. Dopotutto, sembrava proprio che non fosse destinato a soccombere alla malevolenza di Mandorla. Altre detonazioni echeggiarono, seguite da urla di dolore e di rabbia. Con il trionfo nel cuore, Lydyard vide Amalax alzare lo sguardo al soffitto, impallidire, esitare: È un codardo, dopotutto! pensò. La paura gli scorre come acido nelle vene. Sta già pensando a scappare! Con urgenza, esortò: — Liberami! Liberami subito, e farò tutto quello che posso per salvarti la vita. Se non mi liberi, la tua sorte è segnata! — Sapeva di non avere il tempo di ragionare: doveva sperare nell'effetto di una minaccia melodrammatica. Per nulla impressionato, Amalax rimase dove si trovava, in attesa. Intanto, sguainò il pugnale che portava alla cintura, lo stesso con cui aveva minacciato di sgozzare Lydyard: la lama scintillò alla luce della candela, simile a una sciabola fiammeggiante.
Non fu difficile, per Lydyard, immaginare quale pensiero si fosse impadronito della mente di Amalax: la determinazione di aspettare che la sparatoria cessasse. Sia il prigioniero che il carceriere rimasero a fissare la porta che Gabriel aveva lasciato socchiusa, terribilmente ansiosi di scoprire chi l'avrebbe spalancata. Non dovettero attendere a lungo, prima che entrasse Mandorla. Il brontolio di soddisfazione di Amalax si trasformò subito in uno strillo d'ira, perché Mandorla, dopo essere rimasta per un attimo in cima ai gradini, fu spinta innanzi, e cadde come un sasso sul pavimento lercio. Mentre Mandorla volava oltre il bordo della scala, Lydyard vide sul suo bel volto un'espressione di furore puro, che nel momento dell'impatto si trasformò bruscamente in umiliazione e in odio. Ma anche in forma umana, intralciata dagli indumenti, Mandorla sapeva come cadere, perciò rimase del tutto illesa. Si girò di scatto, stranamente raccolta in se stessa, con i muscoli contratti, come la belva che era, però non balzò all'attacco: non osò fare altro che mantenersi minacciosamente pronta a scattare, perché colui che l'aveva spinta giù e che stava in cima alla scala, impugnava una rivoltella americana simile a quella posseduta da Lydyard. Era Pelorus, il quale, audace come un lupo, era entrato nella tana dove i suoi nemici attendevano in agguato. — Grazie a Dio! — gridò Lydyard. Dopo essersi chiuso l'uscio alle spalle, Pelorus rimase immobile dove si trovava. Con gli occhi azzurrissimi, scrutò dapprima Mandorla, quindi Amalax, come se non sapesse contro chi puntare la propria arma. — Gli resta un colpo soltanto — sussurrò Mandorla, ansimante di preoccupazione smaniosa. — Non osa sparare a te, Caleb, perché se lo facesse sarebbe perduto. Gli altri stanno aspettando: non ha scampo. — Quindi si volse a Pelorus: — Getta la pistola amor mio. Hai fatto tutto quello che la volontà di Machalalel t'imponeva di fare, e hai fallito. Adesso sei libero di agire secondo i desideri del tuo io segreto. Getta la pistola, e ti prometto un sonno tranquillo. Spara, e ti giuro che farò tutto quello che posso per garantire che tu non possa destarti mai più sino a quando squilleranno le trombe del giudizio universale! Non c'è tempo per discutere e per ragionare, pensò Lydyard. Anche Mandorla, come ho dovuto fare io, è obbligata a sperare che le minacce melodrammatiche siano sufficienti.
Paralizzato dall'indecisione, Pelorus osservò Lydyard, poi Amalax. Infine, scrutò la malvagia cugina: — Se sparerò, allora sparerò a te, Mandorla. Amalax deve tagliare i legami del ragazzo, e lui ed io dobbiamo potercene andare, perché se non ci lascerai andare, dovrai dormire, per cento o per mille anni. Se ci lascerai liberi, forse avrai la possibilità d'influenzare la Sfinge. Ma se c'impedirai di andarcene, ti sveglierai in un mondo molto diverso. Per tutta risposta, Mandorla rise. Nondimeno, per accertarsi che non si fosse mosso, lanciò un'occhiata ansiosa ad Amalax, che infatti era immobile fin da quando era stato esploso il primo colpo d'arma da fuoco: — Perris è oltre quella porta, con Siri e con Suarra — replicò. — Dubito che tu abbia ferito Arian tanto gravemente da farlo dormire. Inoltre non è stato saggio, da parte tua, sparare a Morwenna, perché Gabriel le è molto affezionato. E se Gabriel vorrà punirti, allora forse imparerai davvero che cosa significa soffrire. Rinuncia, Pelorus. Rinuncia! Per un lungo momento, Pelorus si limitò a sorridere, anche se il suo sorriso fu truce, molto ansioso. Poi ordinò ad Amalax: — Libera Lydyard! Il gigante rimase perfettamente immobile. Allora Pelorus gli puntò la rivoltella alla testa: — E va bene... Se proprio devo perdere, almeno posso sparare a qualcuno che non risorgerà... Libera Lydyard! Senza dubbio, Pelorus aveva altri proiettili nelle tasche della giacca, però non aveva il tempo di ricaricare, perché se lo avesse fatto, Mandorla lo avrebbe immediatamente assalito. Lydyard capì che un solo colpo era troppo poco per costituire una minaccia efficace. Purtroppo, ciò fu compreso anche da Amalax, che continuò a rimanere immobile. Era una situazione di stallo che poteva essere sbloccata soltanto da un intervento esterno. Nel momento stesso in cui se ne rese conto, Lydyard invocò mentalmente, con un fervore silenzioso che non riconosceva l'assurdità della preghiera: Sfinge! Se puoi sentirmi, adesso, Sfinge, ti prego! Vieni a salvare il tuo servo! Questa supplica non ebbe altra risposta che il silenzio, e il perdurare dello stallo. D'improvviso, senza riflettere, Amalax si portò la mano libera alla testa calva come per scacciare qualcosa d'invisibile. Nella luce fioca della candela, Lydyard vide cadere qualcosa dalle travi del soffitto, e poi qualcos'altro ancora.
Dopo avere alzato lo sguardo, Amalax prese la candela e la sollevò, per illuminare ciò che stava cadendo. Intanto, con la mano con cui impugnava il coltello, si spazzò di nuovo il cranio, goffamente. Accigliato, evidentemente perplesso, non riusciva a scorgere quello che si nascondeva nell'ombra fra le travi, e che non avrebbe dovuto esservi. Dal canto suo, Lydyard vide soltanto un ammasso di ragnatele sporche. Dall'ombra, qualcos'altro cadde sulla testa calva e grassa di Amalax: un ragnetto, subito seguito da un altro, e da un altro, e da un altro... Persino Mandorla, allarmata, rimase senza fiato. Di scatto, Amalax si chinò, poi rapidamente si spostò da una parte e dall'altra, lasciando cadere la candela, ma invano: i ragni continuarono a piovergli sulla testa e sulle spalle. La bugia non si rovesciò: la fiammella guizzò e vacillò, ma non si spense. Alla luce della candela, Lydyard vide Amalax investito da un autentico diluvio di ragni: migliaia e migliaia. Nessuno di essi era più grande di un'unghia, ma erano tanto numerosi, che sommersero il gigante, aderendo alla sua pelle e ai suoi indumenti, nonostante i suoi sforzi violenti per scacciarli. Terrorizzato e disperato, Amalax strillò. Era impossibile che tutti quei ragni vivessero nascosti fra le travi, perciò Lydyard capì che non cadevano dal soffitto della cantina, bensì da un ignoto altrove, a meno che fossero stati creati per la prima volta dall'ombra e dall'aria, a formare quella cateratta vivente. Era mai possibile che la Sfinge avesse esaudito la sua preghiera? Oppure quella era l'opera di un altro angelo caduto, il padrone di Harkender, che sembrava nutrire un affetto tanto strano per il potere che avevano i ragni di suscitare orrore nell'umanità? Mentre Amalax continuava a strillare, Lydyard scoppiò in una risata selvaggia e crudele: esultava per lo sgomento del suo nemico, era estasiato dalle sue grida di angoscia e di terrore. D'improvviso, rendendosi conto che i ragni incapaci di aggrapparsi ad Amalax stavano inondando il pavimento della cantina, diffondendosi in tutte le direzioni come un'enorme chiazza fosca, rammentò di essere ancora legato al letto mani e piedi. Raddrizzandosi, Mandorla arretrò. Come se fosse stato tramutato in pietra, Pelorus rimase immobile, con la rivoltella inutile in pugno. In breve, Amalax fu ridotto a una sagoma enorme, talmente annerito dal
terribile diluvio, che i ragni che continuavano a cadere dal nulla non potevano più aggrapparsi e piovevano sul pavimento, ormai tutto brulicante da una parete all'altra. Anche se Lydyard si rannicchiò il più possibile, gli insetti striscianti iniziarono a sciamare sul materasso, nonché sopra di lui. Non lo punsero, non lo morsero, però il tocco delle loro zampette lo colmò di repulsione e di sgomento. Come la lupa che era, Mandorla ululò. Consapevole che non vi era scampo, e che l'Inferno era ancora una volta tutt'intorno a lui, non meno terribile che in precedenza, Lydyard chiuse gli occhi e cominciò a dare strattoni con tutte le proprie forze, per ferirsi i polsi legati alla testiera del letto. Finalmente comprese che l'unica libertà esistente, l'unica libertà che avrebbe mai potuto esistere, era la libertà della sofferenza e della veggenza, la libertà del volo nelle profondità e nelle estensioni infinite del tempo, dello spazio e della possibilità, nel mondo delle divinità giocose. Se soltanto potessi soffrire... gridò mentalmente a se stesso, in silenzio. Se soltanto potessi infliggermi dolore... Terzo Interludio L'Atto di Creazione Ed ho applicato il mio cuore ad apprendere la prudenza, e la dottrina, e gli errori, e le follie: ed ho riconosciuto che anche questo è affanno e afflizione di spirito. Perché dove è molta sapienza vi è molta indignazione: e chi moltiplica il sapere, moltiplica anche l'affanno. Ecclesiaste, I, 17-18. 1 Quando ho eliminato tutto quello che so perché mi è stato riferito in qualche modo, non tardo a scoprire di essere di fronte alla proposizione secondo cui tutto quello che so precisamente e veramente è quello che ho appreso mediante i sensi. È vero che conosco casi in cui i sensi mi hanno ingannato, tanto da indurmi in errore; però sembra anche vero che non ho motivo di dubitare dell'esistenza e della natura di molte cose che vedo.
Nondimeno, quando chiedo a me stesso quali siano le cose delle quali non posso e non ho motivo di dubitare, non posso fare a meno di pensare ai sogni, in cui ho visto cose molto simili a quelle reali, e le ho credute tali, mentre la mia esperienza non sembrava altro che illusione. Come posso sapere, ora, che questo non è un sogno, da cui alla fine mi desterò? Come posso sapere che quella che definisco veglia non è una condizione molto simile al sogno, in cui tutto quello che mi sembra di vedere è un mero prodotto della mente, e ha soltanto l'apparenza della realtà? Se esiste un Dio, che è stato capace di creare il mondo e di determinarne tutti i contenuti e le leggi, allora il medesimo Dio deve avere sicuramente il potere di formare i miei sogni, nonché l'inganno che m'induce a scambiare il sogno per la realtà. Se poi sostengo che Dio è buono, e non m'ingannerebbe mai così, come posso ribattere all'obiezione secondo cui è forse un bene che io sia ingannato, e credere al mondo come appare, anche se in realtà esso è diverso? La verità serve necessariamente alla bontà? E anche se la verità fosse necessariamente buona, ne conseguirebbe necessariamente che anche la mia conoscenza della verità sarebbe un bene? Per perseguire sinceramente il mio scopo, debbo osare supporre che al posto di quel Dio che è la fonte della verità, esista invece un genio possente e ingannatore, il quale ha davvero deciso che il cielo e la Terra che io percepisco, e tutti i loro colori, le loro forme, i loro suoni, non sono altro che illusioni e sogni intesi a intrappolare la mia credulità. Se fosse così, allora che cosa sarei io? Infatti, non potrei più essere una creatura di carne e di sangue, di sensi e di pensiero. Sicuramente, sarei un sognatore, ma non saprei dire affatto che cosa potrebbe mai essere in realtà questo sognatore, se osservato da un altro occhio. Non ho motivo di dubitare della mia stessa esistenza, perché anche in questo incubo deve esservi un dubitante, i cui dubbi ne sono la garanzia. Ma che cosa sono io, che dubito? Che cos'è e com'è il mondo che contiene il dubitante? Una cosa è certa, ed è questa: che contro l'argomento secondo cui questo genio dell'inganno può davvero essere al posto del Dio sincero in cui preferiamo credere, non esiste difesa. Se fu suo l'Atto di Creazione che diede forma al mondo, e se a lui appartiene il capriccio che potrebbe in qualunque momento ridargli forma, allora non abbiamo modo di saperlo. Se il mondo è una menzogna, è una menzogna impenetrabile, e se il dubbio ci conduce all'estremo di dubitare dell'esistenza di un Dio sincero, allora dobbiamo scoprirci privi di qualunque ancoraggio nei paesaggi della Crea-
zione, perché non possiamo sapere dove siamo o che cosa siamo, e tutte le nostre scoperte sono vane. E se io dovessi chiedere a me stesso: Posso essere contento di vivere in un mondo simile? quale risposta potrei fornire, se non che dove esiste il dubbio, deve esistere anche la fiducia, e che se questa fiducia è falsa, siamo perduti? Non posso avere nessuna fede in un Dio sincero, anche se suppongo che sia buono, tranne quella fede che si basa sulla speranza. Se fosse mal riposta la speranza la quale osa asserire che il mondo che vedo deve essere il mondo che esiste, allora la verità sarebbe qualcosa che non potrei mai conoscere. Anche se qualche miracoloso dono di rivelazione dovesse mostrarmi il mondo quale realmente è, e se esso fosse diverso da come appare, non potrei mai sapere se quello che ho visto è vero o meno. Se i miei sensi m'ingannano, e non ho altra garanzia tranne sperare che non m'ingannino, allora sono alla deriva in una wilderness di possibilità, in cui la verità è indistinguibile dall'illusione. Per questa ragione, se non per altre, devo aggrapparmi alla speranza, perché non posso sopportare di vivere in un tale mondo d'inganno, né posso sopportare di contemplare il Dio che esige tanto da me. La speranza, e soltanto la speranza, attribuisce gli Atti di Creazione esclusivamente a un Dio buono, perché se esistono altri capaci di compiere tali Atti, il mondo dev'essere il loro campo di battaglia, e mentre essi si contendono il dominio della sua forma e della sua natura, non esiste nulla che possa essere definitivamente conosciuto, e nulla che possa essere definitivamente compiuto. René Descartes, The Suppressed Meditations (Le meditazioni soppresse), scritto attorno al 1640 e pubblicato per la prima volta nel 1872. 2 Della Creazione del mondo, persino Machalalel non sapeva nulla. Nessun essere può conservare memoria del momento della propria origine: la coscienza si sviluppa gradualmente, e coloro che hanno il potere della Creazione, come coloro che non lo hanno, devono iniziare la vita nell'innocenza. Machalalel istruì con il massimo scrupolo coloro che creò, ma poté descrivere il mondo soltanto quale lo aveva trovato, perché il suo creatore non aveva svolto il ruolo del padre nei suoi confronti, come lui stesso ave-
va invece scelto di fare con le proprie creature. Sembrò a Machalalel che il mondo in cui si trovava fosse giovane, e che l'Età dell'Oro fosse l'infanzia dell'universo: un'epoca in cui l'abbondanza d'ingenuità e di scoperte meravigliose esisteva al posto della saggezza e delle conoscenze comprovate; in cui esistevano il gusto infinito del gioco e l'insofferenza nei confronti delle fatiche prolungate. Eppure, nonostante il suo sviluppo e la sua speranza di perpetuo perfezionamento, essa conteneva già avvisaglie di decadimento. A questo proposito, s'impone un'analogia con la vita umana. Gli uomini iniziano a morire prima di nascere, prim'ancora di sapere che esistono, e continuano a morire mentre crescono e prosperano, e il processo del divenire, mediante il quale essi si sviluppano come organismi, viene sempre interrotto, alla fine, dalla morte, senza essersi adeguatamente concluso. Come al di sopra, così al di sotto: il macrocosmo dell'universo si riflette nel microcosmo dell'uomo. Quando Machalalel scoprì quale modalità dell'essere fosse lui stesso, esistevano al mondo molti Creatori che sperperavano il loro potere, senza curarsi in alcun modo del fatto che si esaurivano sempre più nei processi di Creazione. Questi furono coloro che diedero veramente forma al mondo, perché fu la loro fecondità a formarlo e a determinarne la varietà. Esistevano però anche altri che avevano cessato di sperperare il loro potere, timorosi delle influenze che avrebbero potuto subire dai processi del divenire che erano stati avviati. Già all'epoca di Machalalel, alcuni di questi Creatori non si limitavano a risparmiare il loro potere, bensì avevano iniziato ad operare per accrescerlo, poiché avevano scoperto i mezzi per usurpare il potere degli esseri inferiori. Costoro, che erano pochi, divennero ladri del mutamento, predatori del potere, oltre a sfuggire il mutamento medesimo. Anche nell'Età dell'Oro vi furono conflitti e lotte, che aumentarono gradualmente durante tutto il tardo periodo che Machalalel non visse abbastanza per conoscere, e che io ho definito Età degli Eroi. Quando quest'epoca si concluse, per essere seguita dall'Età del Ferro, i giorni dei Creatori fecondi erano ormai terminati. Tuttavia, i conflitti e le lotte non cessarono, giacché i Creatori predatori erano ancora nemici gli uni degli altri. Quando i non umani dall'anima calda diventarono sempre meno numerosi e furono costretti a nascondersi, i Creatori che desideravano distruggerli furono obbligati a volgere le loro bramose attenzioni gli uni contro gli altri. In seguito furono a loro volta costretti a nascondersi, ma trasformarono i loro na-
scondigli in trappole e fortezze. Si potrebbe pensare che gli esseri umani non avessero nulla da temere perché, privi di calore nell'anima e di potere creativo, suscitavano scarso interesse nei Creatori predatori. Tuttavia non era affatto così, come dimostra la vera storia del mondo. Da una parte, i Creatori predatori considerarono spesso gli uomini come strumenti per la realizzazione dei loro piani: usarono e condizionarono varie tribù umane mediante piccoli esercizi di potere che non dissipavano energie, in modo da indurii a braccare i non umani dall'anima calda e a consegnarli loro sotto forma di sacrifici. D'altra parte, alcuni Creatori predatori si convinsero che nella natura e nelle fortune dell'uomo fosse possibile scorgere la volontà del Creatore supremo, sia che quest'ultimo esistesse ancora, sia che non esistesse più: gli uomini, infatti, sono il prototipo delle creature che non sono dotate del potere di creare e perciò devono essere considerate come una sorta di prodotto finale. Prima di chiunque altro, Machalalel si rese conto di tutto ciò, e previde, persino fra gli splendori dell'Età dell'Oro, che gli uomini sarebbero alla fine diventati gli abitanti principali della Terra, e che l'universo sarebbe mutato in modo tale da riflettere la natura del loro essere: come al di sotto, così al di sopra. Fu per questa ragione che Machalalel dedicò in modo particolare i propri studi agli uomini, e tentò di simulare l'Atto di Creazione che aveva dato loro forma. Non può esservi alcun dubbio, poiché ci stiamo avvicinando al culmine dell'Età del Ferro, che Machalalel avesse ragione: gli uomini hanno un ruolo cruciale da svolgere nel processo fondamentale del divenire, che modella l'evoluzione dell'universo e che lo condurrà, infine, dall'infanzia dell'Età dell'Oro a una maturità che non possiamo neppure immaginare. Credo che questo quarto e ultimo capitolo nella storia del mondo inizierà presto, e che la sua alba si possa trovare in quella che gli uomini medesimi hanno definito Età dell'Illuminismo, o Età della Ragione: definizione, quest'ultima, che non esito a prendere in prestito. Ho l'impressione che in quest'epoca si esaurirà definitivamente il potere creativo, che fu tanto prolifico nelle epoche precedenti, e che viene ora definito magia e miracolo dagli uomini, i quali hanno ormai quasi cessato di credere alla sua esistenza. Essa vedrà invece il trionfo di una nuova forma di potere, basata sulla scienza e sulle arti pratiche, che si può definire «tecnica», e il cui progresso ha compiuto passi molto rapidi negli ultimi cento anni. Le arti matematiche e meccaniche diverranno i mezzi con cui gli uomini trasformeranno e perfe-
zioneranno la loro natura, e anche se tali discipline non hanno il potere di operare sull'universo come intero, credo che non debbano essere disprezzate per questo. Gli uomini che mi circondano ora, nella Francia rivoluzionaria, sono già colmi di ottimismo per questa nuova epoca, e sono decisi a farla nascere. Con questo libro esprimo la mia fede nei loro ideali, o almeno la speranza per i loro ideali. Io posso soltanto nutrire speranza, mentre loro hanno fede, perché conosco la vera storia del mondo, nonché la storia ingannevole preservata dalle apparenze del mondo. So che i Creatori predatori esistono ancora, e che continuano pazientemente a compiere la loro opera. Alcuni sono soddisfatti di dormire, altri sono perennemente ansiosi di osservare, e nessuno sa quanti siano. Forse, nonostante tutto quello che hanno cercato di fare, sono condannati all'annientamento, e scopriranno, se mai tenteranno di esercitare il potere che hanno tanto scrupolosamente conservato, che tutti i loro progetti saranno vanificati. Spero fervidamente che ciò accada davvero, perché sarebbe un gran bene per il mondo se costoro, quando attingeranno finalmente alle loro riserve di potere, troveranno null'altro che la polvere arida dell'impotenza, invece della fecondità che hanno sperato di preservare dall'Età dell'Oro. Nonostante la speranza, però, non posso fare a meno di avere paura, perché so che questi esseri esistono ancora, e attendono nelle loro fortezze, fiduciosi che quando arriverà il momento giusto, il mondo sarà alla loro mercé, così che potranno disporne a piacimento. Lucian de Terre, La vera storia del mondo, 1789. 3 21 Aprile 1872 Caro sir Edward, sono rimasto profondamente turbato dal suo resoconto dell'intrusione nella sua casa e del rapimento di David Lydyard. Capisco perfettamente che, data la situazione, non potrà più accompagnare Gilbert Franklin a Charnley, come precedentemente convenuto, e comprendo anche, dopo questa terribile esperienza, il suo desiderio urgente, con cui concordo, di trasferire sua figlia da Londra. Mia moglie ed io saremo naturalmente felici di accoglierla, e può star certo che ella avrà tutto quello che le occorre
affinché possa riprendersi dalla dura prova che ha dovuto subire. Sono del tutto d'accordo sul fatto che conviene che ella sia protetta dagli aspetti spiacevoli di questa vicenda terribile, quindi le assicuro che Gilbert e io non ne discuteremo in sua presenza. Senza dubbio avremo occasione d'incontrarci quando tutto ciò sarà finito, ma, date le circostanze, ritengo opportuno rinunciare a tutte le riserve che in precedenza mi hanno reso riluttante a mettere per iscritto le seguenti informazioni. Dopotutto, l'uomo a cui si riferiscono è defunto ormai da alcuni anni, e so di poter confidare che lei le considererà strettamente confidenziali. In una lettera come la presente, sono costretto a limitarmi all'essenziale, ma credo che ciò le basterà per formarsi un'immagine adeguata di colui che conobbi come Adam Clay, nonché degli aspetti sconcertanti della sua condizione mentale. Conobbi Adam Clay nel 1859, quando fu affidato alle mie cure in seguito a un provvedimento giudiziario, dopo essere stato arrestato nel corso di una sommossa dinanzi al carcere di Newgate, in occasione dell'esecuzione di William Barlow. A suo tempo, questi era stato un noto radicale, esponente di primo piano del movimento cartista, per le attività all'interno del quale era stato imprigionato più volte. In seguito, era caduto in disgrazia. Sebbene fosse stato condannato per un omicidio non politico, la sua esecuzione aveva attirato una folla più numerosa del solito, inclusi parecchi suoi vecchi compagni di lotta politica. In apparenza, la folla insorse quando il boia, Calcraft, giudicò necessario recarsi sotto il patibolo per «bloccare le gambe di Barlow», vale a dire per aggiungere il proprio peso a quello della vittima, in modo da affrettarne la dipartita. Calcraft era famigerato come «boia della caduta breve», perché di rado riusciva a fare in modo che i condannati a lui affidati trapassassero rapidamente. A questo proposito, Clay mi narrò che lui e gli altri si limitarono a protestare per l'orrenda incapacità di Calcraft, ma che la polizia li fraintese, credendo che volessero tentare di liberare Barlow. Nello scontro che seguì, Clay fu tramortito da un poliziotto con una manganellata. Più tardi, mentre si trovava sotto arresto, ancora privo di conoscenza, delirò. I poliziotti, ascoltandolo, si convinsero che fosse completamente pazzo, e riferirono al magistrato che Clay, pur essendo con ogni evidenza troppo giovane, aveva dichiarato di conoscere Barlow sin dagli anni trenta. Per giunta, aveva parlato con ardore delle esperienze vissute a Parigi, durante il Terrore, dopo la rivoluzione del 1789. Quando fu condotto al cospetto del magistrato, Clay era ormai perfettamente ritornato in sé, tuttavia rifiutò di comunicare il
proprio domicilio e di rispondere alle domande relative alla sua vita, tranne fornire il nome con cui io stesso lo conobbi in seguito. Dapprima, Clay fu condotto ad Hanwell, dove io avevo già l'incarico che mantengo tuttora. Mi fu presentato come un caso sconcertante e problematico. Quando lo incontrai per la prima volta, mi parve tutt'altro che irrazionale, anche se decisamente apatico e malinconico, perciò esitai a destinarlo al manicomio, dove allora le condizioni erano piuttosto peggiori di oggi. Sia perché notò la mia riluttanza, sia perché evidentemente non apprezzava affatto tale prospettiva, Clay mi spiegò che, pur non essendo disposto a fornire il proprio domicilio, avrebbe potuto procurarsi denaro scrivendo una lettera ai suoi legali. Lo invitai a farlo. Quando i soldi arrivarono come previsto, mi offrii di trasferirlo qui, a Charnley Hall, dove talvolta ricovero i pazienti, i cui casi m'interessano in modo particolare. Allorché lo interrogai a proposito dei discorsi che si era lasciato sfuggire in prigione e che erano stati riferiti dagli agenti di polizia, finì con l'ammettere di averli pronunciati, anzi, insistette sulla loro veridicità. Dichiarò di essere molto più vecchio di quanto sembrasse, e di avere vissuto davvero a Parigi durante la rivoluzione: a quell'epoca, aveva scritto un libro che aveva poi fatto stampare in Inghilterra. Mi spiegò che, se desideravo conoscere tutta la storia della sua vita, non dovevo fare altro che consultare quell'opera, intitolata La vera storia del mondo, e firmata con lo pseudonimo «Lucian de Terre». Sulle prime, dubitai dell'esistenza stessa del libro, di cui non avevo mai sentito parlare, ma durante una delle mie frequenti escursioni a Londra, mi presi il disturbo di recarmi nella sala di lettura del British Museum, dove scoprii che il libro, invece, esisteva davvero. Lessi subito il primo dei quattro volumi dell'opera, scoprendo che si trattava della storia più fantastica che mi fosse mai capitato di leggere. Non ho mai consultato gli altri tre volumi, anche se durante le discussioni che avemmo in seguito, Adam Clay me ne riassunse sicuramente gran parte del contenuto. Inizialmente, pensai che il vero problema di Clay fosse la malinconia, in una forma molto simile a quella peccaminosa disperazione che nel medioevo era conosciuta come «accidia». Clay non era in armonia con il mondo: lo considerava un luogo tenebroso e detestabile, più doloroso di quanto avesse necessità o diritto di essere. Mi parve che le sue fantasie fossero il prodotto insolito di questa disperazione, concepite come per giustificarla. Non appena scoprii il contenuto della Vera storia del mondo, mi convinsi che avesse letto il libro e che ne fosse rimasto talmente impressionato da
rinunciare al proprio nome e alla propria storia, per assumere una nuova identità fittizia, basata sul libro stesso. Nella sua mente, era diventato il personaggio principale, nonché l'autore dell'opera: un uomo che nel più remoto passato era stato creato dall'argilla ad opera di una divinità quasi prometeica. Non giudicai importante leggere il resto dell'opera, perché mi proponevo di ricorrere alla razionalità per obbligare il mio paziente a riconoscere che non era, e non poteva essere, il personaggio descritto nel libro, e che questi, come io credevo, era stato concepito come una figura allegorica dal vero autore. Nello stesso tempo, cercai anche di persuadere Clay che il mondo non era affatto così fosco come immaginava, e che vi erano motivi sufficienti per essere ottimisti. Ero convinto che se soltanto fosse riuscito ad aprire una breccia nelle mura di malinconia che lo imprigionavano, indebolendo le proprie fantasie, allora si sarebbe sentito libero di riprendere il proprio vero nome e il proprio vero posto nel mondo. A dispetto dell'ottimismo che m'induceva a credere di poter ottenere questo scopo mediante la razionalità, Clay si dimostrò assai più intransigente di quanto avessi sperato. Durante i tre anni che trascorse a Charnley, Adam Clay divenne molto cordiale: sembrava che nutrisse molta simpatia per me, e io, da parte mia, ne avevo per lui. Credo che il suo caso sia il più intrigante che abbia mai esaminato, nonché il più stravagante e il più immune alla critica. A differenza di molti disgraziati che soffrono di una visione distorta del mondo, Clay non tardò a sbarazzarsi di ogni ritrosia nei confronti della discussione, per difendere risolutamente la veridicità delle proprie asserzioni. Non si confuse mai, né diventò mai ostinatamente silenzioso, persino di fronte alle argomentazioni che consideravo maggiormente intelligenti e rigorose: chi avesse assistito ad una delle nostre ultime discussioni avrebbe potuto pensare che lui studiasse la mia visione del mondo con lo stesso zelo con cui io studiavo la sua, e che lottasse con altrettanto vigore per comprenderla, senza essere disposto a riconoscere neppure per un attimo che fosse veritiera. Lesse i libri della mia biblioteca, inclusi i trattati sulla follia, sulla medicina, sulla filosofia, sulla scienza, e fu sempre lieto di discuterne con me, interpretandoli alla luce della sua rimarchevole idiosincrasia. Alla fine, fui costretto a concludere che non avrei mai potuto avere la meglio sulla sua concezione mediante la razionalità, perché essa era invulnerabile agli assalti della critica razionale. Clay era irremovibilmente persuaso del fatto che la natura fondamentale del mondo è in perenne muta-
mento, e che la storia costruita sulla base delle prove archeologiche, storiche e scientifiche, non è altro che apparenza. Sosteneva che i nostri ricordi sono tanto fallaci da dover essere costantemente ricostruiti, come pure i nostri libri. Alcuni testi risalenti al più remoto passato tramandano i nomi, secondo lui, di uomini che non sono mai esistiti, mentre molti autori che hanno scritto opere importanti sono stati completamente dimenticati. Persino le opere scritte da autori realmente esistiti possono non comunicare più il loro significato originario. Quando obiettai che non potevo credere a un simile processo di distruzione e di ricostruzione, tanto sistematico da richiedere necessariamente gli sforzi più scrupolosi e costanti da parte di un essere divino e malvagio, Clay replicò in tutta semplicità che questa era una mia incapacità, e che esistevano davvero esseri di quel genere impegnati esattamente in quell'opera. A quell'epoca, il caso di Clay mi coinvolse molto, perché mi sembrava un'ingiustizia terribile che un uomo tanto intelligente smarrisse del tutto la consapevolezza dell'assurdità delle proprie affermazioni. Una volta arrivai a chiedermi quale genere di Creatore avesse potuto creare l'umanità in maniera tale da renderne possibile la follia. Dopo oltre tre anni di cure, mi disperai quando Clay mi comunicò che aveva deciso di morire. Mi chiese molto ardentemente di non piangerlo, e mi assicurò che, anche se sarebbe parso morto, secondo i parametri umani, e sarebbe stato giudicato tale, in realtà sarebbe ritornato in vita in un'altra epoca, e più precisamente quando l'Età del Ferro, come lui sperava, sarebbe giunta alla sua conclusione designata, e gli uomini sarebbero stati finalmente pronti a inaugurare l'Età della Ragione. Non si sottopose ad alcuna violenza: dopo avere preso questa decisione, deperì rapidamente. Chiesi anche l'assistenza di Franklin, ma i nostri sforzi congiunti furono vani: in meno di una settimana, il cuore di Clay cessò di battere. I legali che avevano fornito il denaro per il suo mantenimento non furono in grado di aiutarmi a scoprire la sua vera identità, né ad individuare i suoi eventuali parenti. Alla fine, lo feci seppellire nella cripta della Hall, dove sono stati collocati i resti di molti Charnley e di molti Austen, da alcuni secoli a questa parte. Durante gli anni trascorsi a Charnley, Clay ricevette un solo visitatore, il quale si faceva chiamare Paul Shepherd. In occasione del nostro primo incontro, feci di tutto per indurre costui ad aiutarmi a persuadere Ciay della falsità della sua concezione, ma egli rifiutò, seppure con la massima corte-
sia: dichiarò che Clay era suo amico, e che quindi non poteva partecipare a nessuna cospirazione contro di lui. In breve, mi fu chiaro che lo stesso Shepherd era in realtà incline a condividere le fantasie di Clay. Allora decisi di proibirgli ulteriori visite, giacché mi sembrava intollerabile che le mie cure venissero vanificate in tal modo. Nondimeno, Clay mi convinse a rinunciare a questo provvedimento. Nonostante la riservatezza di entrambi, riuscii finalmente a capire che Clay credeva che Shepherd fosse il personaggio che, nella Vera storia del mondo, compare con il nome di Pelorus. Nel libro si narra che Pelorus fu creato dallo stesso Creatore che diede la vita all'uomo creato dall'argilla, e che apparteneva a un gruppo di esseri quasi umani derivati da un branco di lupi. A quell'epoca, ero incline a credere che Shepherd si limitasse ad accettare questo ruolo per divertire Clay. Ora, tuttavia, sono del tutto pronto ad accettare la sua opinione, secondo cui sbagliavo, e sono ugualmente pronto a riconoscere che il Paul Shepherd da lei conosciuto è l'amico di Clay, nonostante la sua apparente giovinezza, ed è convinto davvero che la concezione dello stesso Clay corrisponde al vero. Mi rammarico di non aver letto gli altri tre volumi della Vera storia del mondo di de Terre, perché se lo avessi fatto, avrei potuto presumibilmente scoprire per quale motivo diversi lettori si sono persuasi ad adottare la visione del mondo espressa nell'opera. Se esistono davvero uomini e donne che dichiarano sinceramente di essere i licantropi di Londra, sarei molto interessato a conoscerli, nonché ad assistere alla loro presunta metamorfosi. Anche se mi fosse concesso un simile privilegio, però, sarei costretto a rimanere scettico sulla vera natura e sull'estensione dei loro poteri: nel corso della mia carriera ho imparato a nutrire un salutare rispetto nei confronti della forza di suggestione, che sia o meno accresciuta da quello che oggigiorno viene definito ipnotismo. Per accettare la reale esistenza dei licantropi, persino se si tratta di pazzi che credono di potersi trasformare in lupi, non sarebbe necessariamente indispensabile rinunciare a tutta la conoscenza scientifica del mondo, ma sono certo che lei concorderà con me che, prima di giungere a una convinzione, quando si tenta di spiegare quello che si è sempre giudicato incredibile, conviene procedere gradualmente, a piccoli passi, con prudenza e con scrupolo. D'altronde, se si crede che il Creatore del mondo ha la potenza e la malvagità di permettere che gli uomini impazziscano e perdano la legittima
consapevolezza dell'assurdo, non lo si potrebbe ugualmente credere dotato del potere e della malvagità di rendere pazzi tutti gli uomini, nonché d'imporre loro una consapevolezza dell'assurdo il cui vero scopo è di rendere incredibile la verità? Mi auguro che queste note, per quanto generiche e disorganiche, possano esserle di qualche aiuto nel perseguire la soluzione del suo enigma. Naturalmente, attendo di ascoltare un resoconto completo della sua avventura, quando sarà finalmente riuscito a condurla a una conclusione soddisfacente. Cordialmente suo, James Austen. Parte Quarta L'Ira e l'Innocenza degli Angeli Per me si va nella città dolente, Per me si va nell'etterno dolore, Per me si va nella perduta gente. Giustizia mosse il mio alto fattore: Fecemi la divina potestate, La somma sapienza, e 'l primo amore. Dinanzi a me non fuor cose create Se non etterne, e io etterna duro: Lasciate ogni speranza, voi ch'entrate. Dante Alighieri, Inferno, III, 1-9. 1 La sua anima era interamente posseduta dalla smania di fuggire e dal desiderio di salvezza, tuttavia la salvezza non poteva essere trovata con una semplice ritirata nel mondo dei sogni: Lydyard sapeva che non vi era salvezza nella tempesta di fuoco e di furia che era l'Inferno di Satana, e neppure nella caverna in cui gli dèi gettavano le loro ombre guizzanti sulla parete illuminata dal fuoco. Com'era necessario, era dunque deciso a scappare molto oltre, a cercare il segreto ultimo del nulla senza tempo, a smarrirsi nelle pieghe labirintiche del tempo, dello spazio, e della potenzialità.
E così, dunque, si smarrì. Cercò e trovò la confusione. Condusse se stesso al di fuori dell'esistenza, distaccandosi dalle circonvoluzioni e dalle trame dell'apparenza. Si trasformò nel più spettrale dei fantasmi, eppure fu costretto a fuggire il più rapidamente possibile: a correre, a volare... Per lungo tempo, non vide altro che ombre, e non udì assolutamente nulla. Finché rimase in preda al panico, fu del tutto separato da qualunque possibilità di percezione riconoscibile. Era dominato da una paura troppo potente per essere facilmente soffocata, ma quando finalmente essa fu svanita, ricominciò a cercare forme e sembianze fra le ombre. Sulle prime, fallendo nello scoprire qualsiasi ancoraggio che gli consentisse di ritornare alle sensazioni, non si sentì affatto scoraggiato, perché ciò gli dimostrò quanto fosse riuscito a smarrirsi. Provò una contentezza lugubre nell'essere oltre la portata dell'esperienza sensibile, trionfalmente convinto di essersi così liberato di tutti i possibili oppressori. Tuttavia non gli ci volle molto per rendersi conto che la fuga assoluta era indistinguibile dalla prigionia assoluta. Poiché non poteva percepire il mondo reale, non poteva razionalmente pensare di esistere. Il conforto estremo della cecità non era affatto un conforto: era invece una sorta di morte. Per essere, aveva bisogno di vedere, e per vedere, doveva porsi alla mercé della propria vista, e affidarsi a tutti quei Creatori che rivaleggiavano per il dominio sul mondo interiore e su quello esteriore dei suoi sogni. Gli uomini, aveva sinistramente dichiarato la Sfinge, dovrebbero essere obbligati a fronteggiare i loro dèi, per scoprire fino a che punto l'ignoranza li ha resi codardi. Tuttavia, aveva aggiunto qualcosa di molto più enigmatico, ossia che gli dèi avrebbero potuto accontentarsi di essere quali li avevano resi gli uomini. Non era forse a causa di quello che aveva letto nella sua mente, o in quella di sir Edward, che il Creatore aveva assunto la forma e le sembianze della dèa Bast, e aveva dato alla propria creatura la forma di una Sfinge? Gli dèi medesimi avevano forse percorso quel sentiero prima di lui? Avevano forse tentato anch'essi, fallendo, di sfuggire alla tirannia del tempo e dell'evoluzione, che era in loro, irraggiungibile, come l'universo medesimo era irraggiungibile all'interno dell'essere del Dio supremo? Consisteva in questo la loro assenza dalla faccia della Terra fin da quando si era conclusa l'Età dei Miracoli? E la loro ricomparsa, come nel caso del Ragno e della Sfinge, e di altri che dovevano ancora tornare, non era forse null'al-
tro che la ricerca per ristabilire una connessione da parte degli sconfitti: la ricerca che in quel momento allettava lo stesso Lydyard? E se era così, non era forse possibile invertire l'enigma della Sfinge? Non poteva forse chiedersi, Lydyard, dal canto suo: E noi uomini, dobbiamo forse accontentarci di essere quali vorrebbero renderci gli dèi, oppure possiamo essere Creatori di noi stessi, padroni della nostra vista interiore? In questo sforzo, non fu sostenuto dall'immaginazione. Oltre la paura e il dolore, non percepiva nulla, se non lo smarrimento che aveva cercato con tanta avidità, e la lontananza estrema, che era l'unica vera salvezza. Aveva l'impressione di sapere, ormai, perché Adam Clay si era coricato nella tomba come un uomo mortale si sarebbe coricato nel proprio letto. E credeva di sapere anche perché Mandorla Soulier e gli altri della sua razza divisa erano contenti di sopportare il fardello della veglia, per poter giocare d'azzardo con il destino. Ma io non sono come nessuno di costoro, pensò. Come Pelorus, sono prigioniero di un alieno, di cui non conosco lo scopo, nelle cui ambizioni non posso avere fiducia, e nella cui vittoria finale non oso sperare. Nonostante tutti i propri dubbi, volse le spalle al mondo d'ombra al di là della Creazione, per poter iniziare il lungo viaggio di ritorno verso casa. Ma quando cercò di protendersi all'esterno con la mente, di vedere con altri occhi e di udire con altre orecchie, dapprima non trovò nulla da afferrare: fu come se il Giorno del Giudizio fosse trascorso durante la sua fuga, e ogni anima umana fosse partita per il proprio destino designato, in Paradiso o all'Inferno. A causa dell'orrore di questa solitudine, si ritirò in se stesso. Qualunque genere di spettro o di angelo fosse mai divenuto, sapeva incarnarsi soltanto in forma umana, e reagire alle necessità e ai desideri umani. Perciò la sua brama dei mondo divenne più intensa, come pure il suo bisogno avido di un corpo per contenere l'anima, anche se si fosse trattato soltanto di una cosa fatta della materia di cui erano fatti i sogni. Inoltre, non era solo: se ne rese conto nel momento in cui la sua angoscia avvampò in essere. Trovò una presenza, anzi, un'autentica cacofonia di presenze. L'universo non era tanto distante. Se non altro, era raggiungibile l'Inferno, come lo era anche quella Babele di voci lamentose che era la Terra, dove gli uomini dall'anima fredda lottavano per penetrare le brume fosche dell'illusione. Per il più fugace degli istanti, ebbe la visione di una cantina, in cui vide
un uomo, che avrebbe potuto essere lui stesso, dormire e sognare pacificamente: l'unico movimento era il guizzare della fiammella de! mozzicone di candela accanto al letto. Non si scorgeva nessun ragno e nessun ratto. Si udiva il respiro del dormiente, che era regolare. Fluttuando, Lydyard salì i gradini di pietra e percorse un corridoio tortuoso, finché giunse a una porta. Il corridoio era buio. L'oscurità era densa e profonda, colma d'aria e pregna di suoni abortiti: era l'oscurità vischiosa del mondo, non la notte eterea delle ombre fra le dimensioni. Era la tenebra che conteneva il potenziale latente della luce. — Fiat lux — sussurrò Lydyard. Quindi attese che un angelo dalla chioma dorata arrivasse, portando la sua cornucopia radiosa. Non arrivò nessun angelo, però apparve una mano che brillava fiocamente di rossa luce propria. Muovendosi a tastoni, la mano trovò qualcosa di materiale: spinse, e scomparve in qualcosa di freddo e di ligneo. Lydyard ne fu sorpreso, perché non aveva mai sperimentato una sensazione simile: la mano era sua, ma in precedenza non era mai stato capace di penetrare in un oggetto solido. Con uno sforzo, passò attraverso la porta: illeso. Trovò luce, ma non quella del giorno, bensì quella fioca e lontana dei lampioni a gas, ammantata dalla nebbia di Londra. Non sentì la nebbia sulla pelle, né la sua vista speciale riuscì a penetrarne gli strati densi. Il mondo da cui era stato separato era tutt'intorno a lui, in quel momento, eppure si nascondeva ai suoi occhi in modo peculiare. Non aveva la minima idea di dove si trovasse. Sebbene fosse del tutto disorientato, iniziò a camminare, lentamente, pazientemente. Intanto la città prese vita poco a poco intorno a lui, nell'alba imminente. I cittadini che lo incrociavano o lo superavano in strada erano come spettri: non poteva sentirli affatto. Il silenzio soprannaturale li rendeva del tutto irreali, anche se talvolta manifestavano la loro massa e la loro solidità sfiorandolo. Non pensò di essere del tutto immateriale, eppure gli altri sembravano essere pressoché inconsapevoli della sua presenza. Per qualche tempo fu sconcertato dal fatto che i passanti spettrali camminavano con maggior sicurezza di lui. Alla fine, però, concluse che la nebbia doveva sembrare più densa a lui che a loro. Evidentemente, il contatto che aveva ristabilito con il mondo era soltanto parziale. Una volta, sbarrò deliberatamente il passo a uno spettro incombente, preparandosi alla possibilità di essere urtato e atterrato. Il cittadino in-
ciampò per effetto della collisione, ma attraversò Lydyard, recuperando l'equilibrio, poi guardò furtivamente attorno, e riprese subito a camminare a passo rapido. A un vasto incrocio, i flussi di traffico diretti in tutte e quattro le direzioni si dissolvevano in un caos assoluto, mentre i conducenti delle carrozze, dei carri, degli omnibus, dei cab, lottavano per farsi largo, incitando i cavalli ad approfittare di ogni possibile vantaggio nella mischia. Tutti gli spazi lasciati liberi dalle vetture e dagli animali erano occupati dai pedoni, uomini, donne e bambini, che a loro volta s'insinuavano rapidamente nella calca. Anziché nell'orrenda cacofonia del fragore degli zoccoli e delle ruote, del tintinnio dei finimenti, del tuono smorzato dei passi, e del vocio tumultuante, la scena era avvolta in un silenzio che la rendeva irreale e sinistra. Deciso a sottrarsi al maelstrom umano almeno per un poco, Lydyard si appartò dalla folla. Provò un brivido vertiginoso di sollievo al pensiero di esservi estraneo, e di appartenere invece a una razza diversa. Cercando di appiattirsi contro un muro di mattoni, rimase a fissare la folla ribollente, silente, sbiadita, offuscata, che era in qualche modo il cuore e l'anima del mondo di cui un tempo aveva fatto parte. Resistette all'idea che alla fine avrebbe dovuto ritornare ad essa, e trasse un conforto perverso dalla consapevolezza che anche se si fosse gettato fra la calca non ne avrebbe affatto interrotto i flussi: persone, cavalli e veicoli lo avrebbero semplicemente attraversato. Rabbrividì, a tale considerazione, immaginando che il passaggio della folla attraverso il suo corpo spettrale lo avrebbe pervaso di una sensazione di gelo che gli avrebbe ghiacciato l'anima stessa. E proprio nel momento in cui lo immaginò, accadde: un individuo frettoloso che stava spingendo un carretto deviò bruscamente per evitare una vettura. Investito dal carretto, Lydyard ebbe soltanto la sensazione più effimera dell'impatto. Subito dopo, un vento gelido gli spazzò l'anima in modo quasi doloroso, tanto da farlo trasalire. Mentre un'ondata di vertigine lo invadeva, ebbe come l'impressione di scivolare, e rischiò di perdere la parziale connessione con la città alla quale lo aveva ricondotto l'istinto. Per un attimo, vide il volto della Sfinge impresso sulla tenebra turbinante, con i grandi occhi gialli luminosi d'amore. Ma lo vide come da una distanza tremenda, e capì che anche se essa era a Londra con la sua incarnazione, era assolutamente altrove con la sua anima calda e ignea. Perdendo tardivamente l'equilibrio a causa della collisione con il carret-
to, cadde. Già nell'allungare le mani per aggrapparsi a qualcosa, si rese conto di quanto fosse futile il tentativo. Quando atterrò, ebbe l'impressione di immergersi in una fossa colma di nebbia densa, poi capì che stava sprofondando nelle viscere della Terra: forse stava per precipitare nel baratro dell'Inferno. Ma non sono solo! gridò mentalmente, angosciato. Non sono solo! Infine, come in risposta alla propria preghiera, scoprì di non esserlo. In cima a Shaftesbury Avenue, sir Edward Tallentyre sostò a riprendere fiato, girandosi ad osservare il traffico che fluiva per Cambridge Circus. L'aria medesima sembrava sporca e aliena, anche se la sera era nuvolosa e non vi era traccia della nebbia che aveva guastato le ultime notti. Oltre a sentirsi spossato, il baronetto era irato con se stesso proprio per essere caduto vittima di una tale stanchezza irragionevole. Passeggero nei pensieri dell'amico, Lydyard si aggrappò alla coscienza presa a prestito con tutta la forza che riuscì a radunare, assaporando la limpidezza e l'immediatezza dei pensieri e delle sensazioni. Per tutto il giorno Tallentyre aveva cercato senza posa qualcuno che avesse udito il nome di Mandorla Soulier, e che sapesse dove trovarla. Era stato certo fin dall'inizio, ammettendo che la descrizione che Lydyard aveva fatto della donna corrispondesse al vero, di trovare qualcuno che l'avesse vista o che ne avesse sentito parlare, perché nulla poteva attirare maggiormente l'attenzione della popolazione maschile londinese di una donna dalla bellezza esotica ed enigmatica. Infatti, aveva avuto fortuna, ma soltanto in parte: nessuno di coloro che la conoscevano sapeva dove abitasse, o conosceva qualcuno che lo sapesse. Per il fatto di non potere, anzi, di non osare essere sincero con coloro che interrogava, Tallentyre si sentiva doppiamente frustrato. Soltanto Gilbert Franklin conosceva l'intera vicenda in tutti i dettagli: con tutti gli altri, il baronetto si era sentito obbligato ad essere molto circospetto. Non riusciva a nominare i licantropi di Londra, neppure in tono scettico, non perché ciò avrebbe potuto guastare la sua reputazione di uomo equilibrato e razionale, ma perché avrebbe indotto gli altri a non prendere sul serio la faccenda. Aveva denunciato il rapimento di Lydyard e aveva riferito alla polizia la descrizione del rapitore fornitagli da Cordelia, però aveva taciuto di quello che era accaduto, forse soltanto in apparenza, a colui al quale la ragazza aveva sparato. Era convinto che sarebbe bastato aggiungere un solo dettaglio incredibile alla storia per renderla del tutto inverosimile.
All'angolo, svoltò in Greek Street, poi rallentò molto più del solito nell'avvicinarsi alla casa in cui alloggiava Elinor Fisher. Si sentiva straordinariamente isolato, come se il mondo in cui si muoveva fosse misteriosamente diverso da quello che gli altri condividevano. Imprecò contro il caso e contro la propria imprudenza, senza saper individuare la vera causa per la quale si era lasciato attirare nel mondo magico della seconda vista, delle sfingi dotate del potere della metamorfosi, degli angeli fanciulli, e dei licantropi. Era acutamente consapevole di quanto fosse stata giusta l'osservazione di Lydyard, secondo cui coloro che erano estremamente rigorosi nell'esigere prove inoppugnabili, erano intrappolati senza speranza quando ottenevano tali prove. Una volta costretto ad ammettere il ruolo che il soprannaturale aveva svolto nella sua eccezionale avventura, tutto il suo mondo era stato sconvolto: per lui, ormai, tutto era possibile, perciò invidiava ferocemente coloro che non avevano mai dovuto affrontare un'esperienza come la sua. L'emozione di Tallentyre fu percepita da Lydyard come un'esplosione di conferma che il mondo esisteva, e che forse poteva essere afferrato e trattenuto, nonché protetto da coloro che minacciavano di annientarlo. Entrando nella casa in cui Elinor viveva, Tallentyre si lanciò istintivamente un'occhiata furtiva alle spalle per accertarsi di non essere seguito. Non appena si rese conto di ciò, imprecò mentalmente contro se stesso, con tanto più vigore in quanto intravide un uomo abbigliato di scuro che stava immobile sul marciapiede opposto, in paziente attesa, mentre la folla gli scorreva intorno. Tutto questo non è necessario! pensò, spietato con se stesso. Anche se il mondo è diverso da come credevo, ho pur sempre vissuto in esso per oltre quarant'anni, senza bisogno di fermarmi ad ogni angolo di strada e di sussultare di paura alla vista di ogni ombra! Quando Tallentyre ebbe bussato, Elinor aprì l'uscio: — Ma... Edward! Che cosa succede? — chiese subito. — Non ti ho mai visto tanto turbato! Il baronetto si permise il lusso di togliersi il cappello e il soprabito, prima di rispondere, con la massima concisione: — Alcuni individui hanno fatto irruzione in casa mia, la notte scorsa. Hanno rapito David, ricorrendo alla violenza. Ho tentato per tutto il giorno di trovare qualche indizio che potesse condurmi al covo dei rapitori, ma ho fallito. Poiché Elinor non si accontentò di questo resoconto succinto, Tallentyre fu costretto a narrarle ogni cosa, senza nominare però i licantropi di Londra, anche se proprio con lei ne aveva discusso precedentemente l'esistenza
con noncuranza e scetticismo. Lydyard rimase sbalordito nello scoprire la tenerezza del suo affetto nei confronti dell'amante, che lo induceva a celarle la verità. Allorché il baronetto le ebbe riferito che cosa aveva dichiarato alla polizia e quali ricerche aveva condotto in tutta la città per trovare qualcuno che conoscesse la misteriosa Mandorla Soulier, dopo avere inviato la figlia a Charnley affinché fosse al sicuro, Elinor domandò: — Che cosa intendi fare, adesso? — Non mi resta che un'unica possibilità, anche se detesto prenderla in considerazione — rispose Tallentyre. — Ciarlatano o no, Jacob Harkender è più informato di chiunque altro su questa faccenda, e ha le sue ragioni per voler stanare quella banda di rapitori. Dovrò andare a Whittenton, domattina. No! gridò Lydyard. Purtroppo, non era in grado di trasmettere i propri pensieri a Tallentyre. Intanto, il baronetto si gettò sul divano e si sfilò gli stivali dai piedi doloranti. Solerte, Elinor li portò via, quindi tornò con una bottiglia di whisky e con un solo bicchiere. Tallentyre si lasciò servire da bere, ma resistette alla tentazione di trangugiare il liquore in un unico sorso. Indovinando che vi erano scarse probabilità di cenare fuori, quella sera, Elinor chiese: — Devo preparare la cena? — Non ancora. Abbiamo tempo, per questo. Però dovrei scrivere a Franklin, perché domattina non ne avrò la possibilità, se dovrò partire presto per Whittenton. — Ma perché è stato rapito, il tuo amico? — domandò Elinor. — Se i rapitori vogliono un riscatto, non avrebbero dovuto preferire la tua diletta figlia? Il baronetto, a differenza di Lydyard, rimase lievemente sorpreso dalla sfumatura di sarcasmo nel tono della donna: — Sembra — rispose seccamente — che il mio sfortunato pupillo sia stato maledetto dal dono della seconda vista, o almeno, questo è quello che crede quella gente. Accorgendosi con sorpresa che egli aveva parlato come se conoscesse i colpevoli, Elinor chiese: — Chi è «quella gente»? Se avesse continuato a rispondere a tali domande, Tallentyre avrebbe finito col rivelare anche quello che aveva taciuto, perciò esitò. Allora Lydyard notò che mentre Elinor era, sotto certi aspetti, la sua confidente, il baronetto desiderava mantenere del tutto separati i diversi aspetti della propria vita, esercitando su ognuno di essi il massimo controllo. Ai suoi
occhi, Elinor non aveva nessuna parte nella vicenda, tranne quella di fornire temporaneamente rifugio e conforto. — In nome del cielo, Nora! Ne ho già avuto abbastanza di tutto questo, per oggi! Ti prego: parliamo di qualcos'altro. — Si aspettava che Elinor rimanesse insoddisfatta da questa risposta, nondimeno fu sorpreso dalla freddezza con cui ella scrollò le spalle e si allontanò. Proprio mentre apriva la bocca per aggiungere qualcosa, sentì bussare alla porta. Lieto del pretesto, imprecò per manifestare la propria irritazione. Il baronetto non ritenne necessario dire a Elinor di sbarazzarsi del visitatore senza indugi, perché era convinto che lo avrebbe fatto. Sul momento, Lydyard fu piuttosto sorpreso dalla sua arroganza, poi pensò che avrebbe dovuto stupirsi invece del fatto che egli conoscesse così bene l'amante. Mentre Elinor si recava alla porta e l'apriva, Tallentyre la osservò. A causa dell'uscio spalancato, non riuscì a vedere il visitatore, e non udì neppure la breve conversazione che seguì, tuttavia si accigliò nel vedere l'amante scostarsi per lasciar entrare l'intruso. Raddrizzò severamente la schiena e serrò torvamente le labbra, ma quando vide infine il visitatore, perse del tutto il proprio autocontrollo e balzò in piedi. In quell'istante, Lydyard non riuscì a capire se fu lui stesso ad essere assalito dalla vertigine, oppure il baronetto, perché non ebbe bisogno di percepire i pensieri di quest'ultimo per riconoscere all'istante il nuovo arrivato. Intanto, Tallentyre gridò: — Mio Dio! De Lancy! 2 Abbastanza stranamente, persino la meraviglia di Tallentyre non durò a lungo. Lydyard, il quale condivideva i suoi pensieri, capì che aveva varcato una soglia dell'immaginazione, oltre la quale non poteva più provare alcuna sorpresa. Il mondo aveva sfidato tanto perversamente le sue speranze e le sue previsioni, assumendo la natura e la logica del sogno, che qualunque avvenimento, ormai, doveva essere semplicemente accettato. Così, mentre Lydyard lo osservava, Tallentyre comprese, senza che ciò gli sembrasse particolarmente bizzarro, che l'uomo abbigliato di scuro, il quale, dal marciapiede opposto, aveva atteso il suo arrivo in Greek Street, era proprio colui che era scomparso senza lasciare tracce nel Deserto Orientale, alcuni mesi prima. Senza accennare a togliersi il cappello, il soprabito, i guanti, de Lancy
rimase immobile, mentre Elinor chiudeva la porta alle sue spalle. Tallentyre trovò sconcertante la sua calma soprannaturale, ma non così Lydyard, il quale aveva già capito a quale condizionamento fosse sottoposto. Con l'intenzione di offrire la mano, Tallentyre avanzò di un passo, poi, d'improvviso, vi ripensò e rimase immobile. Con esitazione, ripeté: — De Lancy? — Il mio nome non è de Lancy — rispose l'altro, sottovoce. — Sono Adam Grey. — Adam Grey? — ripeté Tallentyre, con affettata noncuranza. — E perché no? Lei non è certo il primo uomo da me incontrato negli ultimi tempi ad essere il doppio di un altro. In verità... Perché no? E mi dica, signor Grey... Per quale motivo si trova qui? — Nel pronunciare quest'ultima frase, lanciò un'occhiata di sbieco ad Elinor, la quale lo osservava con interesse, apparentemente decisa a non intervenire, e a non prendersi la briga di adempiere alle formalità consuete imposte dalla cortesia, che sarebbero parse semplicemente grottesche. — La mia signora ha bisogno di lei — rispose Adam Grey, che un tempo era stato William de Lancy. — Anche la mia! — mormorò Tallentyre. Quindi alzò la voce: — Può dirmi, per favore, chi è la sua signora? — L'ha già incontrata, una volta — spiegò Grey, sottovoce. — Ma ora la mia signora non intende accostarsi a lei come fece allora. Inviandomi a convocarla, intende essere sincera con lei, a proposito di quello che è, e di quello di cui è capace. Lydyard è perduto: forse non sarà mai ritrovato, se non agiremo rapidamente e con intelligenza. La mia signora ha bisogno di servirsi di lei come ha cercato di servirsi di lui, però le occorre la sua collaborazione volontaria e il suo massimo impegno. Sono qui appunto per chiederle tutto questo, sir Edward, e per convincerla che è necessario. Perduto! pensò Lydyard. Com'è possibile che io sia perduto? Per un momento, costernato dalla sua temerità, Tallentyre fissò William de Lancy, che era ormai divenuto Adam Grey, quindi fu costretto a reprimere l'impulso a scoppiare in una risata. Comunque, Lydyard sapeva che aveva interpretato correttamente il discorso di Grey: aveva capito che la sua padrona era la Sfinge. In tono ironico, Tallentyre domandò: — Dove si trova la sua signora? Perché ha mandato lei? — È vicina — assicurò Grey, quasi in un sussurro. — Per quanto concerne lo spazio e la materia, non ha i nostri limiti. Ci condurrà via, quando lei avrà accettato: allora la vedrà, se vorrà. Tuttavia, è molto meno facile
turbare il tempo. E la rete che cerca d'intrappolarci si sta già stringendo. Se vuole salvare Lydyard, deve affidarsi di sua volontà alla mia padrona. Inoltre, Lydyard non è l'unico che forse sarà necessario salvare. — Se la sua padrona è un angelo caduto dotato di poteri divini — ribatté Tallentyre — e se può dominare lei a tal punto da farle perdere la sua identità, e dominare Lydyard in modo tale da fargli rischiare di perdere la ragione, che cosa può mai volere da me? E perché ha bisogno di mandare il suo servo a chiedere il mio consenso? Qualcosa non va, pensò Lydyard. Qui c'è qualcosa che non va. Tutto ciò sta succedendo davvero, o si tratta soltanto di un'invenzione della mia anima in sogno, suscitata dalla speranza? Com'è possibile che io sia perduto e che debba essere salvato? — Noi siamo stati i suoi occhi e le sue orecchie — spiegò Grey, con estremo distacco. — Siamo stati anche la sua intelligenza, mediante la quale ha cercato di comprendere quello che vedeva e quello che sentiva. Però non le abbiamo fornito i mezzi per capire quello che sta succedendo, quindi ha paura. Coloro che sono definiti «angeli» da alcuni, e «dèi» da altri, hanno bisogno dei loro sudditi, come questi ultimi hanno bisogno di loro. Inoltre, le loro necessità travalicano i servigi degli schiavi e dei servi. Abbiamo bisogno di lei, sir Edward: anche Lydyard e altri hanno bisogno di lei, e noi siamo gli unici mediante i quali può aiutarli. La prego, sir Edward: collabori spontaneamente. Se non lo farà, Lydyard e sua figlia saranno sicuramente condannati, e forse lo saremo anche tutti noialtri. Sono io che sto inventando tutto questo! pensò Lydyard. Sto facendo in modo che accada, ammesso che stia accadendo! Intanto, Tallentyre pensò: Posso credere a costui? E subito dopo si disse che si trattava di una domanda futile. Riconobbe che gli veniva chiesto di abbandonare l'ultimo debole appiglio della razionalità e della materialità sulle quali aveva sempre contato, e di affidarsi al mondo arbitrario della magia, del mutamento, degli Atti di Creazione. Nel percepire tutto ciò, Lydyard ebbe la sensazione di tradire in qualche modo l'amico partecipando a quella serie di eventi. In quel momento, poiché l'angoscia per l'amante prese il sopravvento in lei sulla soddisfazione e sulla curiosità provate nel vederlo sconcertato e indeciso, Elinor finalmente intervenne: — Edward... — Non preoccuparti, Nora — esortò Tallentyre. — Non c'è nulla che tu possa fare, o che sia necessario che tu faccia. Io devo andare con costui, e tu non devi fare altro che chiudere la porta quando saremo usciti. Non pre-
occuparti: tornerò da te appena potrò, e allora ti dirò tutto. Giuro che allora ti spiegherò ogni cosa, perché sicuramente te lo devo. La mia fantasia sta diventando ridicola, pensò Lydyard. Edward potrebbe mai dire una cosa del genere? — Non andare — implorò Elinor. Il suo tono debole ed esitante tradì però che si trattava di una supplica pronunciata per dovere: in realtà, si rendeva conto perfettamente che nulla avrebbe potuto indurre il baronetto a desistere. — Per favore, Nora — chiese gentilmente Tallentyre — portami il soprabito e gli stivali. E fai presto, perché il signor Grey è impaziente di andare. Senza esitare, Elinor obbedì. Che misero creatore sarei! pensò Lydyard. Tutto ciò è sbagliato, e anche stupido. Non sono affatto sulla Terra, bensì ancora nella tenebra: ancora nella tenebra... Disperato, cercò altri pensieri da condividere, in modo da poter esistere veramente, e così trovò, anziché i pensieri estremamente ordinati di Tallentyre, il sogno più sfrenato e grandioso che avesse mai sognato per volontà della propria anima avvelenata... Volò nell'aria, non come un angelo, bensì come un piccolo essere senza io, il quale non conosceva altro che la gioia. Gli era concessa una tale abbondanza di gioia, che non sapeva se fosse un insetto o un uccello, ma soltanto che le sue ali iridescenti sfavillavano nel sole, e che l'aria era come un oceano di luce che lo sosteneva, e che le brezze erano le carezze delicate dell'amore divino. Fluttuava senza sforzo, libero dal pensiero, libero dai ricordi e dal dolore, dall'apparenza interiore dell'io, dall'apparenza esteriore di... D'un tratto, senza il minimo preavviso, rimase intrappolato nei fili vischiosi di una ragnatela invisibile, che lo avvolsero: più lottò per liberarsi, e più si dibatté, con tutta la frenesia della paura e della disperazione, più s'imprigionò. In pochi secondi le sue ali furono bloccate e tutta la sua libertà si dileguò. I ricordi caddero su di lui come l'ombra di un predatore che offuscasse il cielo splendente, e il suo io sgomento, terrorizzato, irresoluto, di cui era riuscito a liberarsi per qualche tempo, lo oppresse di nuovo con il fardello della percezione e dell'immaginazione, con l'orrore della consapevolezza. Allora vide quale ragnatela lo aveva catturato. Sulle prime pensò che si
estendesse su tutta la grande città fosca e che fosse ancorata alla periferia, poi si accorse che i suoi margini, come le estremità di un arcobaleno, toccavano solo apparentemente il suolo. In realtà, era più vasta di quanto fosse possibile percepire e immaginare, ed egli, immobilizzato e soffocato dai fili gentili e tenaci, era così minuscolo che forse il Ragno che l'aveva tessuta non si sarebbe mai accorto di lui. Tuttavia, questa era soltanto una speranza vana. Nonostante la nebbia grigia che avvolgeva la città sottostante, si scorgevano le luci offuscate di migliaia e migliaia di lampioni a gas. Proprio grazie a questa luce fioca egli poté scoprire che, tutt'intorno a lui, la tela aveva catturato più di dieci prede, ognuna delle quali strettamente avviluppata nei fili serici. Com'egli sapeva, il dio Ragno aveva iniettato ad ognuna di esse un acido che fondeva l'anima, rendendola bevibile. Eppure, tutte, in qualche modo misterioso, rimanevano vive, interamente consapevoli di quanto fosse disperata la loro lotta contro il fato che le attendeva. In cuor suo, egli sapeva che neppure lui stesso poteva sfuggire a tale destino: sapeva che pur essendo una creatura meravigliosa, a paragone con le altre, per il dio Ragno non era nulla più di un bocconcino da assaporare. Sapeva che il Ragno sarebbe arrivato. Né la speranza, né gli spettri provenienti dall'inizio del tempo potevano salvarlo. Né la madre Sfinge né la madre lupa avrebbero potuto giungere in suo aiuto, perché fra tutti gli angeli innocenti, soltanto il Ragno conosceva la verità del mondo e possedeva il potere vero. Allora egli gridò aiuto. Chiamò la madre lupa, che però aveva la pelliccia pallida scintillante di melma e gli arti avvinti da legami che non potevano essere spezzati. Chiamò la madre Sfinge, la quale, tuttavia, era avvolta nella tela di ragno, ormai mummificata, quasi polverizzata. E quando, in preda alla disperazione, chiamò il padre che non era suo padre, il creatore che non era il suo creatore, costui poté soltanto echeggiare la sua supplica, implorare a sua volta un aiuto che non sarebbe mai giunto. Da una distanza inimmaginabile, Jacob Harkender scrutò il suo viso con occhi luminosi e colmi di lacrime, gridando: — Figlio mio! Figlio mio! Liberami! Libera la mia anima! Per un istante, egli credette che avrebbe potuto rispondere alla sua preghiera, se soltanto lo avesse desiderato, e che avrebbe potuto dissolvere la ragnatela che lo avvinceva, e involarsi assieme a tutte le altre anime prigioniere che gli erano state affidate, e veleggiare a grande altezza, sopra
la città, sopra la Terra, fino a toccare l'orlo medesimo del Paradiso: dopotutto, egli non era forse un angelo? Poi, disse a se stesso: — Non sono figlio di un uomo, non desidero farlo, e non ho nessuna disputa con il Ragno. Sono padrone di me stesso: non sono posseduto, e non posso essere condizionato dalla violenza, dalla lealtà, o dalla paura. Eppure, questa non era nemmeno speranza: era soltanto mera illusione, nonché la voce di un altro, che affiorava dallo spazio vacuo in cui avrebbe dovuto trovarsi la sua anima, e lo tentava per beffarsi di lui. — Io sono l'angelo! — dichiarò, incapace di contenere le parole echeggianti. — Io sono l'angelo della morte e l'angelo del dolore, l'angelo con la spada fiammeggiante e l'angelo che scrive il libro del peccato! Io sono l'angelo ragno che tesse le sue tele nella Casa di Dio, e mia è la fantasia che scriverà il futuro sulla pagina dello spazio e del tempo! Mia è la fantasia... Fradicio di sudore, Gabriel Gill si destò nell'oscurità, perché la candela accanto al letto si era consumata e spenta. Nel buio, poté immaginare per alcuni istanti di essere nel dormitorio di Hudlestone Manor, di essere un bravo ragazzo con la coscienza pulita, niente affatto tormentato dai demoni, o dai licantropi, o da Caleb Amalax. Tuttavia, non fu in grado di mantenere a lungo tale illusione. Che cosa sta succedendo? pensò Lydyard, totalmente confuso. Anche questa è un'invenzione, oppure ho individuato davvero la vista del fanciullo, gli occhi dell'angelo? Alzatosi a sedere sul letto, Gabriel scostò la coperta che lo opprimeva. Se aveva caldo, però, non era a causa della coperta: il calore che colmava la stanza era tutt'attorno, nell'aria. Vi era qualcosa di sbagliato: qualcosa di terribilmente sbagliato. Pensò che la casa si fosse incendiata. Immaginò che il suo piccolo attico fosse l'unica stanza che non era ancora arsa, ma che da un momento all'altro avrebbe potuto crollare nelle fiamme sottostanti. Protese un braccio per toccare il tavolato e sentirne il calore. Allorché i suoi polpastrelli furono a pochi centimetri da esso, il tavolato svanì. Anziché la fornace ardente che Gabriel quasi si aspettava di vedere, apparve un vortice di oscurità enorme, che lo catturò e lo fece turbinare come una foglia nel vento d'autunno. Si aggrappò alla coperta, ma essa gli fu strappata dalle mani e fuggì insieme al letto, lasciandolo, in camicia da
notte, a rotolare nell'aria tempestosa. A causa del turbine, non ebbe la sensazione di cadere. Anche se fu assalito da una vertigine orribile, non ebbe il terrore di schiantarsi al suolo. Nessuna creatura avrebbe potuto volare in quell'uragano, perciò non tentò neppure. Comunque, non poté dubitare di essere trasportato verso qualche strana destinazione. Si sentì chiamare, ma la voce giunse da un'estrema lontananza, e l'ultima sillaba si prolungò in un lungo strillo acuto, prima di dissolversi nell'aria vorticante. Poi udì una successione di rumori, simile a una serie di colpi di tosse proveniente da lontano, a cui non poté attribuire alcun significato. Invece Lydyard, riconoscendo alcuni colpi d'arma da fuoco, comprese che il tempo si era ripiegato su se stesso, e che quello era il momento di poco precedente all'arrivo dei ragni, oppure il momento in cui era arrivato il Ragno. Allora, Lydyard si rese conto di essere completamente perduto. — È un sogno — disse Gabriel a se stesso, a voce alta, per scoprire se qualcuno potesse udirlo. — Ho sognato di essermi svegliato, ma non sono sveglio. — Eppure capì, allorché tentò con tutta la propria volontà di aprire gli occhi, che non era affatto così... a meno che il mondo stesso fosse diventato un sogno, e il tempo stesso avesse cessato di compiere la propria opera, che consisteva nel riprodurre la forma e l'ordine di ogni momento con precisione meccanica. Un essere misterioso aveva rapito il povero Gabriel Gill, strappandolo alla tutela di Mandorla con la stessa facilità con cui un uomo avrebbe potuto strappare un fiore da un cespuglio. Lo stesso essere aveva rapito anche David Lydyard, lo aveva avvolto nel tempo come una mummia egizia, e lo aveva scagliato nell'aldilà senza sostegno né guida, a precipitare... precipitare... precipitare... Con le braccia allargate, Lydyard sprofondò nella Terra, e con uno sforzo di volontà sostenne il proprio corpo: era di nuovo solo. In breve tempo, la sensazione di cadere fu sostituita da quella di veleggiare, che era di gran lunga più piacevole. Non aveva mai imparato a nuotare, ma non tardò a decidere che, se qualche tradimento aveva trasformato il mondo solido in un fluido, allora era costretto ad apprendere come muoversi nelle sue profondità fosche e lugubri. Iniziò a tracciare archi lenti con le braccia, come per trascinarsi innanzi nella terra, e si scoprì capace di avanzare meglio del previsto.
Era del tutto cieco, in quel mondo privo di luce, però il suo tatto sembrava amplificato, giacché poteva percepire numerose vibrazioni nella roccia fluida, e individuarne le origini: alcune scendevano dalla superficie in una confusione smorzata; altre si diffondevano lateralmente dalle gallerie in cui correvano i treni della metropolitana e in cui scorrevano i fiumi perduti di Londra. Tutto ciò gli fece comprendere di non essere molto al di sotto del mondo della luce e dell'aria, perciò fu tentato di risalire nuotando alla superficie e di ritornare nel mondo che gli era familiare. Per qualche tempo, però, resistette alla tentazione, perché la sensazione di nuotare lo colmò di una strana esultanza. Anziché riemergere, continuò ad inabissarsi, fino a quando tutte le vibrazioni si dissolsero in un remoto mormorio caotico. Laggiù trovò una pace profonda, che non sembrava soltanto piacevole, bensì assolutamente giusta. Si sentiva come se quello fosse in qualche modo il suo vero elemento, dove era infinitamente più a suo agio di quanto avrebbe mai potuto essere in quello strato sottile di vita organica che era la superficie del pianeta e del mondo degli uomini. Questo è quello che sono, pensò. Non sono affatto un essere umano, nonostante la forma in cui sono stato incarnato: non sono neppure un lupo, o qualunque altra creatura della Terra. Appartengo, invece, a luoghi solidi e irriducibili: al mondo della roccia e della pietra. Tuttavia, mentre scendeva a profondità ancora maggiore, il tatto gli rivelò qualcos'altro: la deliziosa frescura della terra era soltanto superficiale: nelle sue viscere esistevano regioni di grande calore e di grande attività. Proprio come il mondo della vita organica era soltanto una patina, così lo era quel mondo che sembrava essere la sua vera casa: anch'esso aveva il proprio ribollente Inferno. Se avesse voluto, Lydyard avrebbe potuto nuotare sempre più in profondità, fino al centro medesimo della Terra, e immergersi nel suo vasto oceano di ferro fuso, senza nessun timore di ostacolo o di annientamento: lo sapeva. Nondimeno, evitò questa possibilità. Non era laggiù che voleva andare, né rimanere, perché non era quello il suo posto, mentre lo era di certo quello in cui già si trovava. Sono stato rapito dalla mia culla di roccia per diventare un mostro di carne, e sono giunto a credermi posseduto da un demone, non perché ero stato avvelenato da quel serpente, bensì perché avevo scoperto infine che la mia anima e la mia intelligenza si adattavano male alla mia forma. Ora, dopo tanto tempo, finalmente, so che cosa sono e a quale regione appar-
tengo, e posso ringraziare liberamente il dio o il demone gentile, chiunque esso sia, che mi ha condotto qui, affinché scoprissi il mio unico e vero io. Avrebbe pronunciato queste frasi a voce alta, se avesse pensato che ve ne fosse bisogno. Presumeva invece che non fosse necessario, perché sapeva che un essere lo aveva trasformato col suo tocco, per condurlo gradualmente a quella comprensione, quindi poteva soltanto ritenere di essere ancora guidato, tentato e illuminato. Se alla sua guida, al suo tentatore, fosse piaciuto liberarlo da quel grembo confortante affinché fosse istruito ulteriormente, non dubitava che ciò avrebbe potuto essere e sarebbe stato fatto. Non temeva minimamente tale prospettiva, perché sapeva che ora che gli era stata mostrata la via al paradiso, sarebbe sempre stato capace di ritornare. Con tutto ciò in mente, Lydyard nuotò nella terra liquida, pazientemente ed estaticamente, languido di contentezza, fino a quando le sue braccia si stancarono misteriosamente. Alla fine si fermò, intrappolato nel tessuto della roccia, e si prese la libertà di chiedersi se quella fosse la condizione degli antichi Creatori. Dopo avere immaginato la loro caduta nel mondo spettrale, immaginava la loro caduta nel conforto freddo della roccia compatta. Avevano forse trasformato in un rifugio quello strato del mondo che era la carne sotto la crosta fragile? Forse che egli si trovava nel loro regno, il regno dei Cieli che avevano preparato per i poveri di spirito, per contenere tutti coloro che erano perseguitati per amore della giustizia, affinché potessero diventare veramente il sale della terra? Fin troppo presto, tuttavia, scoprì che non vi era riposo per lui nemmeno lì, proprio come non ve n'era stato nel mondo spettrale: doveva cercare nuovamente di ritornare nel mondo degli uomini, o nel mondo dei sogni. Ancora una volta ascoltò i pensieri altrui, che forse lo avrebbero riportato indietro e gli avrebbero consentito di scoprire che cosa poteva essere. E questa volta emise un grido silente, una sorta di preghiera, con cui non chiese di essere liberato dal male, bensì di sentire il fuoco purificatore dell'amore e della necessità. Urlò: Cordelia! E fu istantaneamente udito... 3
Nel camminare verso il lato meridionale del muro basso che cingeva il parco di Charnley Hall, Cordelia Tallentyre si sentiva rabbiosamente incline alla ribellione. La scrupolosa sollecitudine della signora Austen l'aveva obbligata a cercare rifugio dalla tirannia delle circostanze fuori di casa. Era già abbastanza grave che suo padre, dopo il rapimento di Lydyard, l'avesse costretta a lasciare la dimora di Sturton Street. Ma che poi, aggiungendo l'insulto al danno, l'avesse inviata proprio lì, in quello che era praticamente un manicomio, era intollerabile. Per giunta, tutto ciò si aggiungeva a un cumulo di risentimenti che era ormai diventato enorme. Dopo essere tornati dall'Egitto, né suo padre né il suo fidanzato avevano acconsentito a spiegarle in quale genere di vicenda si fossero immischiati, anche se era evidente che essa aveva condotto il povero David sull'orlo della follia. Comunque, Cordelia era stata costretta ad assistere al rapimento di David da parte di un gigante orrendo, e aveva sparato a un uomo mentre questi si stava trasformando in una bestia mostruosa. E nonostante tutto questo, sir Edward aveva continuato a negarle le spiegazioni che meritava. Invece, le aveva ordinato di recarsi con Gilbert Franklin a Charnley Hall, dove sarebbe stata al sicuro... e fuori dai piedi! Poi si era assentato per occuparsi della sua faccenda segreta, senza che lei avesse la minima idea di dove si fosse recato, nonché di quali speranze avesse di trovare e di liberare David. Precipitato all'improvviso nella caldaia ribollente di sdegno della mente della ragazza, Lydyard rimase sbalordito e allarmato: non aveva mai creduto che Cordelia fosse capace di sentimenti tanto violenti. A lui, come a tutti, ella si mostrava di solito calma e dignitosa. Anche se spesso lo prendeva in giro, non si arrabbiava mai. Per la prima volta, egli si rese conto di quale sforzo le fosse necessario per mantenere tale apparenza, e di quale desiderio profondo vi fosse in lei di spezzare i vincoli della cortesia e della convenienza, da cui era imprigionata. Giunta in un punto da cui si poteva vedere oltre il prato e il fiume Brent, Cordelia osservò Hudlestone Manor, cinta da un muro molto più alto di quello di Charnley Hall. Rimase immobile, godendo placidamente della carezza delicata della brezza sulle guance, ma intanto rammentò gli echi delle rivoltellate che aveva esploso all'incirca quaranta ore prima, e sentì di nuovo il rinculo dell'arma, rivide i proiettili che si conficcavano nel mostro metamorfico. Mentre gli sparava, aveva capito che si trattava di uno dei favoleggiati licantropi di Londra, e nel vederlo ferito, nel sapere di essere stata lei a ferirlo, aveva provato una sensazione di estatico trionfo che l'a-
veva meravigliata. Si domandò se tutti gli uomini imparassero a conoscere e ad apprezzare le sensazioni di quel genere, e se fosse per tale motivo che erano tanto lieti di andare in guerra. Ebbe l'impressione di capire per la prima volta quella brutale celebrazione della temerarietà che era la virilità. Non soltanto Lydyard non riuscì a condividere tale idea: osservandola attraverso la finestra buia della contemplazione di Cordelia, fu costretto, per la prima volta nella sua vita, a metterla in dubbio. Nei pensieri della ragazza, cercò tracce di quella corrente di sentimento profonda e irresistibile che era il suo amore per lui, ma ebbe l'impressione di avere sbagliato a valutarne sia la profondità sia l'irresistibilità, o forse perfino la natura. Non dubitava, e non poteva dubitare, che lei lo amasse realmente, nondimeno la sua interiorità era dominata in quel momento dal ricordo di come lei stessa aveva agito, e non dalla preoccupazione per le condizioni in cui si trovava il suo innamorato rapito. Lentamente, Cordelia riprese a passeggiare sul sentiero, ritornando al viottolo che conduceva dal cancello del parco alla porta della casa. Quasi aspettandosi di scorgere un volto ansioso che la osservava, alzò brevemente lo sguardo ai muri coperti d'edera e alle finestre inferriate, senza vedere nessuno. Molto probabilmente, approfittando della sua assenza, Austen e Franklin stavano discutendo della vicenda di cui avevano deciso di mantenerla all'oscuro. Poi, Cordelia notò un giovane che si stava avvicinando al cancello. A giudicare dal cappello e dal soprabito, sembrava un commerciante. Aveva sul viso una strana espressione d'innocenza fanciullesca, ma non abbassò timidamente e rispettosamente lo sguardo, anzi, scrutò la ragazza dritto negli occhi. Mentre Cordelia provava soltanto un brivido di apprensione, non di vera paura, Lydyard si allarmò, avvertendo che in quell'incontro vi era qualcosa di funesto. Il giovane si fermò dinanzi al cancello, come se avesse intenzione di entrare nella proprietà. Senza accennare ad aprire, Cordelia attese che egli spiegasse che cosa desiderava. — La signorina Tallentyre? — chiese il giovane, in tono di estrema cortesia. Sbalordita, Cordelia si domandò come sapesse il suo nome, e come l'avesse riconosciuta. Subito balzò a una conclusione che Lydyard non poté affatto condividere, ossia che fosse un messaggero di sir Edward. Con vo-
ce neutra, domandò: — Chi è lei? — Il mio nome è Capthorn, signorina: Luke Capthorn. Lavoro alla Manor, dove assisto gli orfani. Ciò sorprese Lydyard non meno della ragazza. In tono un po' più tagliente, Cordelia chiese ancora: — Come mai mi conosce? — Il signor Harkender mi ha detto che l'avrei trovata qui. Oso supporre, signorina, che lei sappia che il signor Harkender può procurarsi informazioni mediante certi mezzi di cui gli uomini comuni sono privi, e che quello che scopre talvolta lo preoccupa. Dice che i licantropi di Londra sanno dove si trova, signorina, e che non hanno buone intenzioni nei suoi confronti. Mi ha mandato ad avvertirla che non è al sicuro, e che suo padre non avrebbe dovuto mandarla qui. In un modo molto simile a come avrebbe osservato un bel serpente, Cordelia scrutò Capthorn. Non lo trovava del tutto repellente, ma ne era spaventata, sia per il suo sguardo schietto, sia per la sua cortesia eccessiva, ma soprattutto per quello che aveva detto. Confusa, con il cuore palpitante, tentò, senza successo, di apparire gelida e sprezzante: — Si può sapere di che cosa sta parlando? — I licantropi hanno rapito il signor Lydyard, vero? — replicò Capthorn, evidentemente consapevole dell'angoscia della ragazza. — Eppure il signor Harkender l'aveva avvertito di essere prudente. Gli aveva chiesto anche di recarsi a Whittenton, ma sir Edward non glielo ha permesso. Mi creda, signorina Tallentyre: esiste un solo uomo in Inghilterra che possa sfidare i licantropi di Londra, e questi è il signor Harkender. Ebbene, quello che mi ha mandato a dirle, è che lei si trova in grande pericolo, signorina. E soltanto lui stesso può spiegarle perché. Consapevole di essere impallidita, Cordelia decise di non manifestare in alcun altro modo, anzi, di non provare neppure, la minima angoscia. Con fervore, ma invano, Lydyard desiderò di poter comunicare telepaticamente o empaticamente con lei: si rendeva conto che la ragnatela di sogni orridi stava per intrappolare anche l'unica persona che amava, e sapeva che, quando ciò fosse avvenuto, l'incubo sarebbe cominciato per davvero, in modo terribile. — Perché il signor Harkender s'interessa di tutto questo? — domandò Cordelia. — E che cosa c'entra lei? — Il signor Harkender può trovare il signor Lydyard, che è stato rapito dai licantropi di Londra, i quali non sono suoi amici: hanno rapito anche il
suo giovane pupillo, Gabriel, che viveva alla Lodge, affidato alla mia custodia. Il signor Harkender rivuole Gabriel, e afferma di poter liberare anche il signor Lydyard. Desidera farlo, ma innanzitutto vuole essere certo che lei sia al sicuro. Occorre che lei si rechi a Whittenton, signorina Tallentyre: non c'è altra soluzione. Anche se fu sul punto di scacciare l'enigmatico intruso, Cordelia non osò farlo, perché non aveva modo di sapere se dicesse o meno la verità. Esitò, dunque, e la sua esitazione fu molto dolorosa per Lydyard, il quale, a differenza di lei, poteva vedere le ombre del Ragno negli occhi di Capthorn. Finalmente, Cordelia decise d'impulso: — Riferisca per favore al suo padrone che gli sono molto grata e che lo ringrazio per il disturbo che si è preso nell'inviarmi questo messaggio, ma che sono perfettamente al sicuro qui, affidata al dottor Austen. — Arretrò di un passo, girandosi per lanciare un'occhiata alla casa. Sperava che qualcuno la stesse osservando da una finestra, ma continuò a non scorgere nessuno. — Il signor Harkender tenterà di condurre il signor Lydyard a Whittenton — spiegò Capthorn, con voce blanda. — È necessario che lei venga a riceverlo là, signorina Tallentyre, perché può darsi che sia ferito e che abbia terribilmente bisogno di un'amica. Di nuovo, Cordelia esitò. Senza arretrare di un altro passo, scrutò Luke Capthorn: i suoi occhi le parvero sinceri, ma ebbe timore che tale apparenza fosse ingannevole. In nome d'Iddio! gridò mentalmente Lydyard, con la disperata volontà di essere udito. Non andare! — Se accettassi, non potrei partire sola — dichiarò Cordelia, ansiosa. — Perché non entra, signor Capthorn, e non spiega ogni cosa lei stesso al dottor Austen e al dottor Franklin? Anche se Capthorn non rispose subito, fu evidente che non era d'accordo. Rimase perfettamente immobile, continuando ad osservare Cordelia con uno sguardo fisso che cominciava a diventare inquietante: — Sono spiacente, signorina — dichiarò, in un tono che a Lydyard parve spaventosamente innaturale — ma non c'è tempo per questo. — È necessario trovare il tempo — insistette Cordelia. — Non posso semplicemente andarmene, senza neppure una parola di spiegazione. Per alcuni istanti, Lydyard fu sul punto di credere che Cordelia si fosse salvata mediante il rispetto delle convenzioni, ma il presagio sinistro che lo pervadeva si rivelò una guida più veritiera della speranza. D'improvviso, la voce di Capthorn si trasformò, diventando cupa e mi-
nacciosa: — Mi scusi, signorina Tallentyre... Si è accorta di avere un ragno sulla mano? Più sorpresa che allarmata, Cordelia ansimò, abbassando rapidamente lo sguardo. Si osservò subito la mano sinistra, anziché la destra, ma senza sapere perché, dato che non provava alcuna sensazione di solletico o di prurito. Tuttavia, scoprì di avere un ragno sorprendentemente grosso sul dorso della mano. Non aveva mai visto insetti simili in Inghilterra, anche se suo padre le aveva raccontato di avere osservato mostruosità di quel genere nel corso dei suoi viaggi. Raggelata fino alle ossa dall'orrore della scoperta, rimase come paralizzata. In realtà, il ragno non esisteva: Lydyard lo capì subito. Però questa consapevolezza non rese l'illusione meno orribile agli occhi della ragazza. — Sia prudente, signorina — esortò Capthorn, con voce oscenamente calma e controllata. — Se lei si spaventasse, il ragno potrebbe morderla. Purtroppo, Cordelia era già spaventata, e non poteva in alcun modo scacciare la paura. Mentre apriva la bocca per strillare, si sentì mordere dal ragno. Anche Lydyard sentì il morso: fu come se un rapace o un predatore gli strappasse l'anima come se fosse un boccone tenero, per divorarla. Mentre lo strillo le moriva in gola, Cordelia ebbe la sensazione di essere sommersa da un'ondata nera scaturita dal suolo: le sembrò che il suo spirito sprofondasse nelle fauci di un mostro nero ed immenso, per essere assimilato. L'unico suono che la ragazza e il passeggero nella sua mente udirono, prima che la tenebra li inghiottisse, fu lo schiocco metallico del cancello che veniva aperto. Sir Edward Tallentyre sognò di essere condotto in un'oscurità soprannaturale, calda e confortante, come doveva esserlo stato il grembo del cosmo prima che il Creatore supremo creasse la luce. Poi giunse su una spiaggia illuminata dalle stelle, sentì il profumo dell'oceano nelle narici, mentre una brezza pulita gli accarezzava il viso. Si trovò quindi sul versante boscoso di una collina, all'alba. Come accadeva talvolta nei sogni, l'ambiente circostante si allontanava e si dissolveva in continuazione. Era come se il mondo fosse costituito d'ombra, di volta in volta solido o spettrale a seconda del capriccio. Perciò Tallentyre aveva la sensazione di essere così nettamente separato dal mondo concreto e normale della materia, come se fosse stato ritagliato dalla pagina della realtà. In quel momen-
to era circondato da nulla più che un bozzetto, una scenografia essenziale e povera, per l'atto successivo del dramma irrazionale che lo aveva catturato nel suo svolgimento insensato. Che cosa sto facendo? si domandò Lydyard, benché stesse ormai perdendo la convinzione di essere il tessitore di quel sogno. Era certo di non essere un osservatore puro e semplice, tuttavia il baronetto non era una finzione della sua immaginazione speranzosa: era l'autentico Tallentyre, anche se non vi era modo di accertare che cosa ciò significasse esattamente, perché il sogno e la realtà erano ormai disperatamente intrecciati. La Sfinge lo aspettava. Non aveva corpo di leone e ali di aquila, non aveva gli artigli alle mani e ai piedi, nondimeno era la Sfinge. Era in forma umana, ed era bella, però non aveva la bellezza esotica che Tallentyre si era aspettato dopo avere udito la descrizione di Mandorla Soulier fattagli da Lydyard. Il baronetto credette di capire perché le entità che erano in grado di trasformarsi sceglievano forme femminili per trattare con gli uomini, usurpando il fascino immediatamente efficace della bellezza. Non comprendendo perché la Sfinge fosse tuttavia tanto normale, ipotizzò che Mandorla Soulier conoscesse gli esseri umani molto più intimamente di quella strana creatura, destata di recente da un sonno durato migliaia d'anni. La Sfinge era vestita semplicemente, con un indumento poco più esotico delle sue sembianze, che di certo non sarebbe stato considerato alla moda nei salotti londinesi: un abito bianco tagliato su misura, con le maniche lunghe e la gonna ampia. Nella mano destra teneva una pesante coppa di metallo. Allorché la Sfinge gli offrì la coppa, Tallentyre, pensando che sarebbe stato del tutto inutile mostrarsi esitante o diffidente, la prese e bevve con avidità: conteneva soltanto acqua. Poi, quando gli sembrò evidente che ella non intendeva parlare per prima, dichiarò: — Hai maledetto il mio amico con incubi terribili, e a quanto pare hai rubato l'anima al povero de Lancy. Devo forse sentirmi lusingato per il fatto che ti mostri a me senza trasformarmi? Oppure sono irretito a tal punto, che non mi rendo conto di quello che mi hai fatto? Forse che anch'io, come loro, sono posseduto da quella follia che gli dèi mandano a coloro che intendono distruggere? — Avevo bisogno della vista di Lydyard — rispose la Sfinge, calma. — Mi occorrevano i suoi sogni disordinati e le sue paure sincere, proprio come avevo necessità della mente di de Lancy, per modellarla. Ora credo di avere bisogno di uno strumento più solido e più acuminato: tanto solido e
acuminato, che non posso crearlo. E io devo procurarlo, pensò Lydyard. Ecco che cosa sta succedendo, qui. Tramite me, ella nomina il proprio campione. Tramite me, prendono forma il suo enigma e la relativa risposta. — Alcuni credono che tu possa distruggere o trasformare il mondo intero — replicò Tallentyre, affascinato dalla propria imperturbabilità. — Se è così, non capisco come un semplice mortale possa interessarti o esserti utile. — Coloro i quali credono che il mondo possa essere trasformato — gli rammentò la Sfinge — credono anche che gli uomini mortali otterranno la loro vera e giusta ricompensa, la quale non potrà mai essere negata da nessuno degli angeli inferiori. Per quanto la loro vista sia offuscata, e per quanto la loro fede sia traviata, hanno intravisto il paradosso della Creazione. Io ed altri possiamo giocare con le apparenze, tuttavia deve esistere una realtà che appare, e devono esistere anche coloro a cui si presentano le apparenze. Il mio potere di trasformare le cose è limitato dalle potenzialità del mutamento, che io non conosco e che non posso valutare adeguatamente. Inoltre, esso è condizionato dalle attività degli altri tramutatori, i quali possono cancellare o amplificare le mie opere in modi che non sempre posso prevedere. Tutto il potere si basa sulla comprensione, e tutta la comprensione è limitata dalla percezione. Noi abbiamo le nostre paure, i nostri limiti, i nostri pericoli, e i nostri nemici, proprio come voi avete i vostri. «Io non sono meno prigioniera del tempo di quanto lo sei tu. Posso modificare lo spazio a volontà, entro certi limiti, ma il tempo è inesorabile. Ad ogni secondo che passa, io posso compiere un'azione, o un'altra, ma non entrambe. A prescindere da quanti occhi utilizzo per vedere, e da quanti corpi possiedo, la mia intelligenza è limitata dal tempo: una sensazione deve seguire l'altra, e se il flusso della mia coscienza si dividesse, sarei per forza di cose confusa, come lo saresti tu. Com'è vero! pensò Lydyard. — Ecco sistemata l'onniscienza... — mormorò Tallentyre. Quindi osservò di sbieco colui che aveva conosciuto come William de Lancy, il quale stava perfettamente immobile, come una statua priva d'intelligenza. — Sono in pericolo — confessò la Sfinge. — Un'entità vuole ferirmi, annientarmi, e io non so come affrontare la minaccia. — Quale entità? — domandò Tallentyre. — Senza dubbio ha molti nomi, al pari di me. I nomi non sono più stabili e intrinsechi delle apparenze. Chiamiamolo Ragno, visto che ha voluto
presentarsi così alla vista di Lydyard, e diciamo che il suo piano è la ragnatela in cui intende intrappolarmi. La mia preoccupazione attuale è resistere al suo attacco, e, se possibile, reclamare la porzione di energia che mi è stata rubata. Sì, chiamiamolo Ragno! pensò Lydyard. La Sfinge lo ha visto soltanto attraverso l'occhio dei miei sogni torturati. Tutto quello che ne sa, lo sa sulla base delle mie deduzioni, e su quello che i suoi avversari hanno scelto di lasciarmi sapere. A suo modo, è cieca come noi! È mai possibile che il suo nemico sia davvero in grande vantaggio, se i suoi strumenti sono uomini come Jacob Harkender, e se creature come i licantropi di Londra possono intervenire con tanta facilità nei suoi piani? Accidenti! Queste potenti divinità sono sciocche e ingenue: la loro brama di padroneggiare questo sogno ch'è il mondo, è tanto disperata quanto la ricerca, che uomini come Harkender credono di avere intrapreso, per dominare il mondo con i desideri e con una presunta saggezza! — Credo di cominciare a capire perché hai bisogno di me — osservò Tallentyre. — Hai il potere di trasformare il mio aspetto, nonché di distruggermi. In me, però, come in tutte le cose che esistono, c'è qualcosa che è essenzialmente antecedente al cambiamento: qualcosa d'irriducibile. Puoi possedere la mia anima, come possiedi quella di Lydyard e quella di de Lancy. Tuttavia, perché possa essere posseduta, deve esistere una cosa che ha vita, forza, e potenza: quella che Francis Mallorn definirebbe la mia anima. Reclutare quest'ultima alla tua causa richiede persuasione, non possessione. È forse per questo che mi hai lasciato libero, in Egitto: non perché ero il più infimo fra coloro che avevi trovato, bensì perché ero il migliore? Con un sorriso molto umano, la Sfinge confessò: — Purtroppo, scelsi a caso, allora. Eppure, credo che tutto sia andato per il meglio, forse... In sogno, Lydyard aveva visto Satana, prigioniero all'Inferno, lottare per protendere una mano fino a toccare il mondo degli uomini e redimerlo dalle sofferenze. In Satana, aveva visto se stesso, e nonostante la fede di cui non si era mai del tutto sbarazzato, aveva aderito alla causa di Satana e si era infuriato contro l'ingiustizia di Dio. Ebbene, in quel momento, in maniera molto simile, sir Edward Tallentyre aderì a una causa che andava molto oltre i confini della sua ardita razionalità. Abbiamo venduto le nostre anime al Diavolo, pensò Lydyard. Ci siamo consacrati alla causa del nostro avversario, per poter impedire il Giorno del Giudizio. Come possiamo sapere se siamo ingannati? E se alla fine
falliremo, e il Ragno, dopotutto, vincerà, quale speranza potremo avere nel perdono e nel Paradiso? A sua volta, Tallentyre si rese conto di essersi vincolato. Era inutile e insensato rifiutare o dubitare. Anche se il mondo era costituito di sogni e d'incubi, bisognava comunque vivere in esso, e il dubbio non poteva soccorrere. Se i frati di Sant'Amycus avevano ragione in tutte le loro credenze, allora egli era sia condannato che dannato. Se invece sbagliavano... In quel momento, la sua guida doveva essere la speranza, non la fede. Doveva servirsi per quanto possibile del coraggio e dell'intelligenza, giacché tutto quello che fino ad allora aveva definito conoscenza non poteva più essergli utile in alcun modo. Finalmente, Tallentyre dichiarò alla Sfinge: — Formula il tuo enigma: farò del mio meglio per rispondervi. 4 Quando riprese conoscenza, Cordelia fu certa di non avere sognato. E Lydyard ne fu ancora più sicuro. Per un momento, ella ebbe la sensazione che il tempo non fosse trascorso, ma subito dopo capì che non era affatto così: giaceva, infatti, su un letto sconosciuto, in una stanza ignota. Non conosceva le due donne che la stavano osservando: una era di mezza età, dall'aspetto severo; l'altra, che dimostrava all'incirca l'età di Cordelia, aveva un'espressione strana, in cui si combinavano in qualche modo l'indifferenza e la curiosità. Subito, Cordelia si alzò a sedere e guardò attorno. Dalla carta da parati e dai mobili, comprese di trovarsi in una casa ricca, benché conservata con minor diligenza della sua. Non si udiva alcun suono, tranne il ticchettio di una pendola. Il sole pomeridiano che entrava dalla finestra inferriata illuminava la stanza. Per alcuni secondi, Cordelia non riuscì a collegare il presente al passato, poi rammentò, e si affrettò ad esaminarsi la mano sinistra, senza scorgere alcuna traccia del ragno: — Dove sono? — domandò. — Dov'è il dottor Austen? — Lei non si trova più a Charnley — rispose la donna di mezza età. — Questa è la casa di Jacob Harkender, a Whittenton. Quantunque sorpresa e allarmata da tale rivelazione, Cordelia rimase impassibile, risoluta a non manifestare le proprie emozioni. Mentre Lydyard lodava silenziosamente il suo coraggio, chiese ancora: — Come
sono arrivata qui? E chi è lei? — È arrivata in carrozza, accettando l'invito del signor Harkender. Io sono la signora Murrell. Il mio nome non le dice nulla, tuttavia ho una conoscenza in comune con suo padre. — Senza prendersi il disturbo di presentarla, Mercy Murrell ordinò con un breve cenno alla ragazza di andarsene, probabilmente per avvertire Harkender che la sua «ospite» si era svegliata. — A quanto ne so — ribatté Cordelia, gelida — mio padre non frequenta i sequestratori, e neppure gli spiritisti e gli occultisti. — Né il signor Harkender né io apparteniamo a nessuna di queste categorie — assicurò la signora Murrell. — Lei non è stata condotta qui con la forza, e nessuno intende nuocerle. Anzi, il signor Harkender vuole proteggerla dal pericolo che perseguita suo padre e il suo fidanzato, da quando si recarono nel deserto egiziano. Con tutto il dovuto rispetto per il dottor Austen, il signor Harkender è l'unica persona in grado di offrirle la protezione necessaria. — Purtroppo, non ho molta fiducia nella sua magia, né nelle sue buone intenzioni. — Nel dir questo, però, Cordelia rammentò il ragno, e il modo in cui era stata tramortita. Suo padre avrebbe detto che si era trattato d'ipnotismo, o di allucinazione indotta, anziché di magia, nondimeno il risultato era stato il medesimo. — È difficile avere fiducia in quello che non si vede — sentenziò la signora Murrell, in un modo tanto scrupolosamente ambiguo, che Cordelia si domandò quanta fiducia lei stessa avesse nei poteri di Harkender. Proprio in quel momento, prima che la ragazza potesse replicare, la porta fu aperta e Jacob Harkender entrò: — Grazie, signora Murrell — disse. Poi tenne l'uscio spalancato, per indicare che non aveva più bisogno della sua assistenza. Nel modo in cui la signora Murrell si alzò, con il viso duro, impassibile, Cordelia percepì un certo astio. Intanto, Lydyard scrutò le ombre alla ricerca di tracce del Ragno padrone di Harkender, ma non ne scorse alcuna. Comunque, non osò concludere che esso lo avesse lasciato solo. — Naturalmente, la signora Murrel ha ragione. — Harkender osservò Cordelia senza avvicinarsi troppo. — È difficile avere fiducia in quello che non si vede, e la signora Murrell, appunto, ha una certa cecità che le rende estremamente difficile avere fiducia. Tuttavia, io credo che lei abbia visto un uomo trasformarsi in lupo, ieri l'altro notte: un lupo che ha rifiutato di
morire, benché lei lo abbia colpito ripetutamente a bruciapelo. Gli uomini possono diventare creature più strane dei lupi, signorina Tallentyre. E la creatura che assalì suo padre in Egitto è incommensurabilmente più pericolosa dei licantropi di Londra. — Se non sbaglio, lei ha già cercato una volta di persuadere mio padre dell'urgenza di tale pericolo — osservò Cordelia, con voce tagliente. — Non so se vi sia riuscito, ma di certo mio padre ha rifiutato la sua protezione. Quanto a me, non so nulla di tutta questa faccenda, purtroppo, né capisco di che cosa lei stia parlando. Da una parte, Lydyard s'inquietò perché Cordelia era incuriosita da Harkender quasi quanto ne era intimorita, ma dall'altra fu lieto della diffidenza che provava nei suoi confronti. Nell'alzarsi, Cordelia si lisciò l'abito. Sebbene Harkender fosse tanto più alto di lei da guardarla dall'alto in basso, non si sentiva in inferiorità. Lo scrutò negli occhi, senza scorgere nulla che potesse aumentare le sue paure. Nemmeno Lydyard percepì la presenza o l'ombra del tessitore di ragnatele che l'aveva condotta lì. — Suo padre non ha voluto ascoltarmi — spiegò Harkender. — Temo di non avere avuto altra scelta che lasciarlo libero di subire le conseguenze della sua superbia. Nondimeno, mi sento obbligato a fare tutto quello che posso per proteggere la sua vita, e quella di David Lydyard. Fra tutti, Lydyard è colui che corre il maggior pericolo, e non perché è stato catturato dai licantropi, bensì perché la sua anima è schiava di un'entità capace di distruggerlo a piacimento: anche per puro capriccio. — Se non sbaglio, si dice la stessa cosa di lei — dichiarò Cordelia, momentaneamente compiaciuta della propria abilità nel ribattere. — Sa bene che non bisogna prestare ascolto a queste superstiziose assurdità — affermò Harkender, in un modo stranamente adulatorio. — È vero che alcuni sostengono che ho stretto un patto con Satana, e che sono il suo schiavo involontario, mentre altri dicono lo stesso dei licantropi. I frati di Sant'Amycus dichiarerebbero che il suo fidanzato e Gabriel sono similmente posseduti, ma se avessero ragione, saremmo tutti perduti alla causa dell'Inferno. Sta giocando con lei, pensò Lydyard. Come un gatto giocherebbe con un topo, come la Sfinge ha giocato con i satanisti di Parigi, come Mandorla Soulier ha giocato con me, così Harkender sta giocando con Cordelia. «Come sono gli insetti per i fanciulli capricciosi, così siamo noi per gli dèi»...
Anche Cordelia si rese conto che Harkender stava giocando con lei, e non ne fu per nulla soddisfatta. Scrutò duramente il proprio catturatore, perché tale lo considerava, nonostante l'abilità con cui si fingeva suo protettore, e dichiarò: — Ha esagerato. Non avrebbe dovuto mandare il suo uomo a rapirmi. E io, qualunque menzogna mi dica, non l'aiuterò. Mentre Harkender ricambiava lo sguardo della ragazza, Lydyard continuò a non vedere il ragno nei suoi occhi: vi fu persino un momento in cui pensò che sembrasse sinceramente dispiaciuto. Poi, però, il mago mutò espressione, parlò in tono molto diverso, con voce serica e pregna di minaccia: — Lei è una sciocca. Nella vostra arroganza, voi nobildonne credete di poter influenzare il mondo a vostro capriccio. Credete che il mondo vi appartenga, e che abbiate il diritto di dominarlo: che sia un impero glorioso, sul trono del quale sedete in virtù della vostra nobile femminilità. Lei non è meglio di suo padre. Ma io ho visto il mondo vero che è nascosto dalle apparenze di questo: ho visto il macrocosmo, nella luce che si riversa dai cieli a illuminare la mia anima sofferente, e ho visto il baratro dell'Inferno che si spalanca sotto i piedi di tutti coloro che camminano fieri sulla Terra. Non ho la presunzione di poterle mostrare il volto del Paradiso, signorina Tallentyre, però posso mostrarle l'abisso dell'Inferno, se voglio. Comprendendo che Harkender stava cercando di terrorizzarla, Cordelia si ostinò a non lasciarsi impaurire, o almeno a non manifestare spavento. Con misurato disprezzo, ribatté: — Se lei lo ha visto, allora l'Inferno non può essere tanto terribile, dopotutto. Crede forse, perché sono una donna, che io non abbia abbastanza coraggio per ascoltare le sue parole senza rabbrividire? Ebbene, rammenti che anch'io sono una Tallentyre, e sebbene mio padre mi abbia trascurata, da quando è arrivato David, non sono affatto schiava della superstizione. Senza dubbio lei potrebbe farmi soffrire in qualunque modo volgare e violento, tuttavia non può ferirmi con le sue abili illusioni, signor Harkender, perché io non sono tanto sciocca. Sentendo palpitare il cuore della ragazza, e pulsare il sangue nelle sue vene, Lydyard non seppe se disperarsi e pregare che tacesse, oppure esultare per la sua audacia. — Non dovrebbe tentarmi o sfidarmi così — disse Harkender, calmo. — Infatti, ho sempre creduto che si possa rispondere in un sol modo alle tentazioni e alla sfide, ossia come meritano. Vuole scendere nei sotterranei con me, dove vivono i ragni e i ratti, affinché possa mostrarle il baratro dell'Inferno? Se lo farà, le prometto che imparerà quanto è grande in realtà
il suo errore: e sarà una lezione davvero molto dolorosa. Questo è proprio quello che vuole! pensò Lydyard. Cordelia crede di sfidarlo, ma in realtà lui la sta tentando. Non sa a che gioco sta giocando, né di che cosa lui sia capace! — Non ho paura né dei ratti né dei ragni — assicurò Cordelia, risoluta. — E se crede che mi faranno scappare in preda al terrore, e che non oserò guardare oltre la soglia dell'Inferno, per non credere alla sua esistenza, allora mi fraintende. — Oh, no, signorina Tallentyre! — sorrise Harkender. — Non la fraintendo affatto! Allora, e soltanto allora, Lydyard comprese la verità che aveva in qualche modo celato a se stesso dal momento in cui aveva visto per la prima volta Luke Capthorn: la vittima di quello strano gioco non era Cordelia, bensì lui stesso. In qualche modo, Harkender e il Ragno sapevano che lui era dentro l'anima della ragazza, perciò Capthorn non era stato incaricato di catturare Cordelia, bensì lui stesso, tramite lei. L'abisso dell'Inferno non sarebbe stato mostrato a Cordelia, bensì a Lydyard, che era dentro di lei. Per un corridoio, Harkender si recò a una porta che si apriva su una scala di pietra. Con la mente in tumulto, Cordelia lo seguì. Pensando che se soltanto fosse riuscito a ritornare nella pace e nel silenzio della roccia nelle profondità della Terra, Cordelia sarebbe stata lasciata libera, Lydyard si sforzò con tutto se stesso di abbandonare i pensieri e le sensazioni dell'amata, ma non ne fu capace, più di quanto sarebbe stato capace di liberare la propria anima dal proprio corpo senza l'aiuto di qualche piccolo nume maligno. Mentre il mago e la ragazza scendevano la scala, i loro passi sulla pietra echeggiarono sordamente. Harkender teneva una candela che aveva preso da una nicchia e che aveva acceso. Lunghissima, la scala svoltava prima a sinistra, poi a destra, quindi scendeva ancora: Cordelia ebbe l'inquietante impressione che fosse interminabile. Senza fermarsi, Harkender superò alcune porte che davano presumibilmente accesso alle cantine. È un'illusione, pensò Cordelia. È un trucco di gualche genere. Non devo allarmarmi. Impotente, Lydyard attese. L'aria era gelida e immota. Dopo aver perso il conto dei gradini, Cordelia ebbe la sensazione, anche se non riuscì a credere che fosse davvero così, che la discesa durasse da almeno mezz'ora. Spesso udì rumori prodotti da parecchi animaletti in movimento, ma non intravide né ratti né topi alla
luce della candela. Non vide neppure un ragno, benché le pareti fossero ammantate di ragnatele. Torna indietro! gridò Lydyard, incapace di farsi sentire. In nome d'Iddio, torna indietro! Ma ormai era in trappola, come se fosse avvolto nei fili serici della tela del ragno, come se fosse saldamente legato a un letto mentre una moltitudine di ragni lo sommergeva come un'ondata, consumandolo con un'avidità fosca, e come se la sua anima fosse posseduta da un'entità tenebrosa, mostruosa e malvagia. Finalmente, Harkender si fermò dinanzi a un'antica porta ferrata, chiusa da solidi catenacci pesanti. — È questo l'abisso dell'Inferno? — chiese Cordelia, troppo sfiatata per essere sprezzante. — Lo è davvero, signorina Tallentyre — rispose Jacob Harkender, le cui mani, nella luce della candela, sembravano insolitamente grandi e villose. Con una mano, fece scorrere meticolosamente i catenacci, quindi spinse la porta, che si spalancò silenziosamente su un vuoto oscuro. Oltre la soglia non vi era assolutamente nulla: né pareti, né pavimento, né scale. Era davvero un abisso. — Vuole chiedermi di credere che è senza fondo? — domandò Cordelia. — Oh, no. — Harkender posò una mano villosa su una spalla della ragazza, in un gesto stranamente confortante e rassicurante, anche se a lei non piacque affatto il modo in cui le dita si allargarono, come arti chitinosi. — Non oso attardarmi a chiederle nulla, perché ho altri affari da sbrigare. Comunque, lei non lo crederebbe, se io non potessi mostrarglielo. — Con un'ultima occhiata all'anima prigioniera oltre gli occhi di Cordelia, della cui presenza la ragazza stessa non aveva il minimo sospetto, la proiettò rudemente oltre la soglia. Mentre cadeva nell'oscurità infinita, Cordelia strillò, ma la sua voce non echeggiò, perché non vi era nulla che potesse provocare l'eco. La tenebra rapì il suono, e lasciò precipitare Cordelia, per sempre... Quando il vortice finalmente lo lasciò, Gabriel ne fu lieto: dalla stabilità e dalla solidità trasse una certa sicurezza. Anche se il folle turbinio nel vuoto aveva suscitato in lui una vaga euforia, il fanciullo non si era affatto abbandonato alla pura emozione dell'esperienza. Non rimase minimamente sorpreso, mentre scendeva di nuovo, fluttuando, verso la superficie della Terra, nello scoprire di essere molto lontano dal punto in cui aveva iniziato l'ascesa. Né fu sorpreso accorgendosi
che il suo corpo, nonostante la sua confortante solidità, era capace di fondersi con la materia della casa e di attraversare le pareti di mattoni, in modo tale da poter rinascere e rimaterializzarsi all'interno: in una stanza dove sembrava che l'intero universo fosse in qualche modo raccolto e focalizzato. Cordelia! gridò Lydyard, convinto, nella propria disperazione, di aver perduto l'innamorata mentre precipitava, e di avere condiviso un'altra caduta, ingannato dalla confusione delle sensazioni. Anche se aveva veduto quel luogo soltanto nei sogni, Gabriel sapeva precisamente dove si trovava: al centro del mosaico sul pavimento dell'attico di Jacob Harkender, sotto la cupola di vetro colorato. L'arrivo del fanciullo suscitò due grida di sbalordimento molto diverse: l'urlo di esultanza di Jacob Harkender, e quello rauco d'incredulità strappato alla gola della signora Murrell. — Non te l'avevo forse detto? — domandò Harkender, con il viso pallido e segnato dalla sofferenza. — Non ti avevo forse detto che posso evocare gli spiriti dalle vaste profondità? Il mago era in ginocchio, nudo fino alla cintola, con i polsi legati alla ragnatela in ferro battuto, con il sangue che gli scorreva sulla schiena da una dozzina di ferite slabbrate, mentre la signora Murrell, completamente abbigliata di caldi indumenti, impugnava con la mano destra alcune bacchette di betulla strettamente legate in un fascio. Lasciato cadere il fascio, la signora Murrell recise i legami con un rasoio. Libero, Harkender spalancò le braccia come per accogliere Gabriel con un abbraccio affettuoso. Ma il fanciullo, dopo avere incontrato il suo sguardo soltanto per un momento, esaminò i simboli del mosaico. — Da dove vieni? — domandò la signora Murrell, con la voce incrinata dalla tensione dello scetticismo sconfitto. — Come sei arrivato qui? — Sono arrivato col vento — replicò Gabriel, sentendosi obbligato a fornire qualche spiegazione. — Sono arrivato... — Capì subito che la signora Murrell non apprezzava affatto la sua risposta, ma non seppe cos'altro dire. Quando osservò di nuovo Harkender, che si stava rialzando a fatica, capì che lui era invece molto soddisfatto. — Sapevo che i licantropi non avrebbero potuto trattenerti — dichiarò Harkender, con esultanza, nell'affrettarsi a indossare la camicia. — Anche se vivono da migliaia di anni, sono pur sempre bestie, nell'intimo, e non si sono mai presi la briga di coltivare la conoscenza. Mentre l'Uomo d'Argilla riposa nella sua tomba, in attesa che il mondo diventi un luogo migliore, la
ricerca della conoscenza deve essere continuata dai semplici mortali... E può essere compiuta! — Mandorla verrà a cercarmi — dichiarò Gabriel, non sapendo se come avvertimento o come minaccia. — Con lei verranno Morwenna, Perris e Siri. Arriveranno come lupi, se potranno. — E rammentò, nel dir questo, il terrore di colui che aveva assistito alla metamorfosi di Mandorla: lo strano terrore che aveva contenuto poca sorpresa, poca meraviglia, ma molto senso di colpa, ricambiato dal furore dell'Inferno. Morwenna non può arrivare, pensò Lydyard. E quanto a Mandorla, non ne sono affatto sicuro. — I licantropi non possono nuocermi — affermò audacemente Harkender. — Sono più potente di quanto abbiano mai immaginato. Con il tuo aiuto, posso fare e scoprire qualsiasi cosa. Ma questa è una speranza, pensò Lydyard. Non una convinzione. Anche Gabriel se ne rese conto, e ciò lo indusse a percepire qualcosa di alieno nella propria anima: gli rivelava cose che non avrebbe dovuto sapere, e lo aveva trasformato in una creatura che non avrebbe dovuto essere. Per la prima volta, Harkender lo abbracciò come un padre che ritrovasse finalmente il figlio da lungo tempo smarrito: — Gabriel! — disse, in poco più che un sussurro. Incapace di entrare con il proprio occhio interiore nella mente del mago, Gabriel non riuscì a leggerne i pensieri e i sentimenti, né riconobbe la possessività con cui il suo nome era stato pronunciato. Tuttavia si ribellò, perché non voleva essere abbracciato e trattenuto. Così, fu lasciato libero. Inquieto, Harkender arretrò, lasciando solo Gabriel al centro della sua mappa di tutta l'esperienza: la sua ruota di tutta la saggezza, il suo microcosmo simbolico. Anche la signora Murrell indietreggiò: a giudicare dalla sua espressione, sarebbe stata ben lieta di scomparire nel muro stesso, se avesse potuto. Con cautela, come se si aspettasse che fosse vischioso, Gabriel toccò il bordo del mandala chiazzato di sangue, sul quale Jacob Harkender aveva seguito la via del dolore sino ai limiti estremi dell'esperienza extrasensoriale. Quindi alzò lo sguardo alla cupola colorata, illuminata dall'interno, e rammentò lo specchio che Mandorla gli aveva donato come giocattolo. Era notte, in quel momento, tuttavia Gabriel immaginò che in pieno giorno la cupola sarebbe apparsa rutilante, sfolgorante, e non poté fare a meno di protendersi con il potere della volontà, come aveva imparato a fare con lo specchio, attirando dall'esterno della cupola, dall'esterno dell'uni-
verso medesimo, un ruscello di luce colorata che bagnò la stanza. Non disse nulla, perché non aveva bisogno di recitare incantesimi per ottenere quello scopo. Però allungò la mano destra con assoluta innocenza, come per afferrare un singolo raggio di luce magica. Allora il ruscello divenne un fiume. Alla vista del tripudio di colore che sgorgò per suo ordine, Gabriel rimase senza fiato. La luce che aveva evocato divenne più intensa e più bianca di quella del sole più sfavillante, e riversandosi attraverso il vetro colorato, parve sciogliere la cupola, la quale, anziché rimanere visibile in alto come una grande finestra arcuata, si dissolse completamente. Allo stesso modo svanì il pavimento, quando la luce vi si riversò: rimase soltanto il mosaico alla superficie, ossia l'albero della conoscenza. Allora Jacob Harkender gridò, e non di collera, bensì di pura delizia, come se il miracolo avesse annegato la sua anima tenebrosa nell'estasi. Nello stesso momento, Gabriel comprese che la cascata di luce lo aveva trasformato. Non era più un fanciullo che indossava una lacera camicia da notte: era diventato un angelo di alta statura, simile a quelli che aveva visto nei santini di sorella Clare, con un'aureola sfolgorante e le grandi ali bianche da colombo, e gli occhi dell'azzurro più puro che si potesse immaginare. Gabriel! gridò Lydyard. E per una volta, almeno, fu certo di essere stato udito. Con una voce che era interamente sua, più sua di qualunque altra voce che avesse mai usato prima, Gabriel annunciò: — Sono l'angelo della gioia e l'angelo della liberazione! Sono l'angelo del Signore! Mentre la presenza di Lydyard si frantumava e veniva scacciata, nell'essere di Gabriel avvenne una tale eruzione di potere, che parve che le pareti stesse del mondo dovessero esplodere. Consapevole di avere il tempo per un'ultima trasmissione di pensiero prima di tornare dal Paradiso al baratro dell'Inferno, Lydyard gridò, come gli suggeriva l'istinto: Sed libera nos a malo! Sed libera nos a malo! Liberaci dal male... Di nuovo, Harkender gridò, non più di delizia, bensì di furore e d'angoscia. Nondimeno, Gabriel udì. Nel trionfo della scoperta di se stesso, abbassò lo sguardo al mondo sotto i suoi piedi, inondato dalla luce gloriosa del Paradiso, e scoprì di essere ancora, dopotutto, quello che le suore di Santa Syncletica avevano fatto di lui.
Non era affatto lo strumento del Demonio: era il bene. Dunque protese la mano per rispondere alle preghiere con un miracolo, e per redimere la sventurata Terra... 5 Mercy Murrell non aveva mai recitato una preghiera in vita sua, né aveva mai messo piede in una chiesa. Credeva in Dio, ma non lo amava. Credeva nel Diavolo: vedeva i suoi demoni incarnati negli organi pendenti dai ventri degli uomini villosi, che si gonfiavano e si raggrinzivano seguendo i ritmi ebbri della passione e della crudeltà. Il Diavolo, nell'immaginazione della signora Murrell, era nero e simile a un pipistrello, con le ali immense alle quali erano saldate le braccia esili, le orecchie grandi e morbide, il muso porcino, grande, umido, il corpo peloso, le gambe corte, tozze, munite di grandi artigli, che gli consentivano di appendersi comodamente al suo trespolo in cima al campanile del Pandemonio, simile a un frutto marcio, o a un pene sazio e striminzito. Il Diavolo di Mercy Murrell aveva molti travestimenti, tutti archetipicamente maschili. A un estremo, si mostrava nella forma lubrica in cui era abilissimo nel lusingare, nel corrompere, nell'ottenere favori, e con cui si era guadagnato l'appellativo di Padre delle Menzogne, mediante i suoi incessanti sproloqui sull'amore, la sua padronanza disinvolta delle carezze più morbide e delle promesse più false, i suoi baci di Giuda, e la sua parodia degli abbracci materni. All'estremo opposto, si mostrava nella forma dello stupratore incallito, iracondo, violento nei confronti di coloro che lo importunavano o che si appellavano illecitamente alla sua compassione, imperioso e inflessibile: come tale si era conquistato il titolo di Principe delle Tenebre, aveva come unica certezza quella di poter infliggere sofferenza, e riconosceva il dolore che provocava come unica affermazione adeguata della propria opera nel mondo, della propria presenza di spirito, della propria mancanza di responsabilità. Mercy Murrell aveva incontrato il Diavolo in innumerevoli occasioni, sia sotto questi travestimenti estremi, sia sotto tutti i camuffamenti intermedi nelle combinazioni più subdole, perciò sapeva benissimo che, nonostante tali trasformazioni, era sempre fondamentalmente immutabile: brutale, crudele, spregevole, maledetto. Mercy Murrell non credeva affatto negli angeli di virtù. Conosceva abbondantemente le donne, quindi sapeva che esse non erano tanto demonia-
che quanto gli uomini, però non era affatto convinta che ne esistessero alcune le cui anime fossero del tutto innocenti. Secondo il suo punto di vista cinico, nessuno degli innumerevoli incontri fra la Bella e la Bestia poteva essere davvero considerato una sopraffazione: sapeva infatti fin troppo bene che le donne erano le sfruttatrici della bellezza, non le sue vittime impotenti. Poteva credere, benché a stento, nelle sirene che utilizzavano astutamente la loro bellezza come un'esca per trasformare la lussuria demoniaca degli uomini in un impeto sfrenato di distruzione; ma non poteva credere che le pie proteste delle belle vergini fossero altro che vile ipocrisia. Ai suoi occhi, soltanto le donne brutte e deformi potevano forse incominciare ad essere buone, pur conoscendo abbastanza la perversità dei demoni, per essere certa che anch'esse avessero qualche capacità di destare la lussuria, nonché la possibilità di attribuire un valore di mercato alle loro anime. Gli unici angeli in cui Mercy Murrell poteva credere erano gli angeli tenebrosi e caduti. Poteva accettare un angelo della morte ammantato nelle ombre del sepolcro, con i lineamenti permanentemente stravolti dal disprezzo per le follie e le vanità dell'umanità. Poteva accettare un angelo del dolore, tutto abbigliato di sangue, con gli artigli lustri, e con gli occhi gelidi come marmo. Però non poteva accettare un angelo custode, o un angelo della misericordia, perché ai suoi occhi tutti i custodi erano secondini, e tutte le azioni misericordiose erano prestiti ad usura da ripagare con sangue, sudore, e lacrime. A causa di tutto ciò, quando vide il figlio di Jenny Gill trasformato, Mercy Murrell non vide affatto un angelo, ma soltanto un essere sinistro di fuoco e di luce, falso nell'aspetto e falso nelle intenzioni. Una parte di lei voleva strillare, una parte voleva ridere, ma nessuna parte voleva pregare, implorare o supplicare: nessuna parte di lei credeva che Gabriel fosse qualcosa di più di una commedia delle apparenze, una beffa della fede, una follia della speranza. Quando Gabriel volse su di lei gli occhi di un azzurro meraviglioso, per guardarla con compassione, come Gesù aveva guardato Maria Maddalena, Mercy Murrell sostenne il suo sguardo, accusandolo subito di essere un ingannatore. Anche se i suoi occhi erano quelli di un fanciullo, non credeva che fossero liberi dalla lussuria, dall'avidità, dalla crudeltà; e anche se il loro colore era simile all'azzurro di un cielo perfetto, non lo riconosceva come l'azzurro del Paradiso. Per questa ragione, Gabriel non la vide: la scrutò negli occhi, ma senza vederla.
Quando Gabriel scomparve, dissolvendosi in un tripudio di luce multicolore, Mercy Murrell non gridò di collera, d'angoscia, e di perdita inaspettata, come fece invece Jacob Harkender, bensì urlò, con una sorta di trionfo: — Vattene! — E pur non credendo veramente di averlo obbligato a svanire, ebbe la sensazione di essere lei sola in armonia con lo svolgimento degli eventi, con il ritmo autentico della vita e del mutamento, con il processo vero del mondo. Per tutta la vita era stata una prostituta e una ruffiana, aveva venduto anime al Demonio e alla sua moltitudine di vampiri, quindi non riusciva ad immaginare, e men che meno a desiderare, nessun'altra esistenza. Alla vista delle fiamme rimaste, mentre le narici le si colmavano di fumo acre, pianse, finalmente, ma lacrime di dolore, non di gioia o di vergogna, e il calore che le giunse non fu la tortura dell'Inferno, bensì la vampa di un fuoco assolutamente normale. Un tempo Jacob Harkender aveva creduto devotamente in Dio, però aveva abbandonato la fede quando si era scoperto solo in un mondo violento, circondato dall'odio e dall'incapacità a placarlo. Quando era stato vittima per la prima volta di un grave abuso, all'incirca alla stessa età che aveva Gabriel Gill, aveva pregato per ottenere soccorso e aveva tratto un minimo di conforto dalle proprie preghiere, che però non gli avevano procurato nessun aiuto e nessuna liberazione. Questo fallimento si era risolto in una tale beffa delle sue speranze, da scacciare ogni consolazione, trasformandola in odio. Per breve tempo, Jacob Harkender era stato sul punto di odiare Dio, tuttavia non aveva tardato a rendersi conto che Dio non meritava neppure il suo odio. Col tempo, era giunto a credere nuovamente in Dio, anche se in un Dio molto diverso. Si era convinto, infatti, che l'ateismo fosse impossibile: era un'illusione basata sulla confusione a proposito dei possibili significati delle parole e delle interpretazioni razionali di cui era suscettibile il mondo percettibile. Non poteva dubitare che esistesse un mondo di cui i suoi sensi avevano esperienza, e che la materia fosse in movimento, e che il movimento obbedisse a certe leggi. Stabilito questo, non aveva evidentemente nessuna importanza se tutto fosse illusione e il mondo un mero spettacolo, o se le leggi che sembravano eterne e immutabili fossero soltanto capricci temporanei: in ogni caso, esisteva qualcosa al di fuori di lui che era vasto e parzialmente conoscibile; che aveva un ordine, se non uno scopo; e che
aveva un potere, se non una volontà, il quale poteva essere correttamente definito Dio. Come molti altri prima di lui, aveva abbandonato il Dio dei Testamenti soltanto per scoprire il Dio dei filosofi, e aveva stabilito che quest'ultimo era infinitamente più grande e più congeniale alle sue inclinazioni. Il Dio dei filosofi non poteva avere avversari, perché all'interno di un sistema di pensiero di quel genere non era concepibile nessuna antidivinità. Perciò Jacob Harkender non poteva credere al Demonio. Però aveva potuto osservare e comprendere, ancor prima di ritornare a credere in Dio, che il mondo era un'arena immensa di conflitti e di crudeltà, di collisioni, di distruzioni e d'impulsi bellicosi. L'odio e la violenza non potevano essere tolti al suo Dio per essere attribuiti a un Altro tenebroso e malvagio. D'altronde, neppure la loro terribile potenza poteva essere negata. Dunque, per Harkender, le grandi legioni di angeli e di demoni della cristianità avevano almeno un significato metaforico, in quanto concetti contrastanti all'interno della grande mente universale, il cui sogno, o il cui incubo, costituiva la realtà fenomenica. Agli occhi di Jacob Harkender, queste legioni non si schieravano sotto gli opposti stendardi del Bene e del Male, perché questi erano concetti umani basati sull'esperienza del piacere e del dolore, che nella mente divina dovevano apparire come semplici differenze. Nell'assumere il controllo della propria vita e delle proprie esperienze, ancor prima di diventare un filosofo e un adepto della conoscenza, Harkender aveva acquistato il dono di trasformare il dolore in una sorta di estasi: in una condizione diversa, anziché in una condizione infernale. Non era terrorizzato dall'Inferno, perché si considerava dominatore, e non schiavo, del dolore. Diventato padrone del dolore, Jacob Harkender aveva fatto di tutto per andare oltre i confini del bene e del male, istituiti dal gregge, e per travalicare l'infima natura umana, alla ricerca del sovrumano. Si era sbarazzato, mediante la ragione e un puro sforzo di volontà, degli aspetti più miserabili e più repellenti della propria natura umana. Era sfuggito alle trappole gemelle della coscienza e del dovere. Si era sforzato con tutto se stesso di essere un compagno degno per gli angeli e i demoni, di cui bramava scoprire le forme di esistenza e di cui agognava acquistare i poteri. Quando assistette alla trasformazione di Gabriel Gill, dunque, Jacob Harkender si oppose con tutto se stesso alla meraviglia, anche se non poté combattere il rammarico. Si rese conto che quello che vedeva era mera apparenza, vale a dire un riflesso di quello che il fanciullo aveva appreso ad
Hudlestone, perciò non se ne lasciò confondere. Il suo cuore però fu straziato dalla convinzione che fosse uno spreco terribile: il potere che aveva cercato di mietere per sé stava sbocciando molto prima di essere giunto a maturazione. Non certo per la prima volta, Harkender si rammaricò della propria decisione di affidare il fanciullo alle suore, giacché i timori che lo avevano indotto a farlo sembravano ormai del tutto inadeguati. Se soltanto la prostituta che aveva dato alla luce il bambino non fosse morta... Se soltanto lo stesso Harkender avesse avuto il coraggio di lasciar trapelare la notizia della sua morte, affrontando apertamente le accuse sussurrate... D'altronde, le morti erano eventi pubblici sulle quali si investigava, e alcuni di coloro che avevano aiutato il mago avrebbero potuto lasciarsi prendere dal panico e rivelare quello che sapevano sui suoi riti magici: se ciò fosse avvenuto, lui avrebbe perduto completamente il bambino, e forse sarebbe stato persino processato. Gli era sembrato molto più semplice occultare il decesso e nascondere il bambino, scegliendo come nascondiglio, con grande astuzia, un convento. Purtroppo, non aveva previsto che il fanciullo avrebbe iniziato tanto presto ad entrare in possesso della propria eredità, o che gli altri lo avrebbero trovato e avrebbero cercato di rapirlo. Insomma, non aveva tenuto conto dei licantropi di Londra, che erano riusciti a rovinare tutto. Così, Jacob Harkender gridò d'angoscia per quello che aveva perduto e per quello che aveva involontariamente compiuto: la perdita dell'angelo che avrebbe potuto guidarlo alla saggezza e al potere che bramava, e la creazione di quel vano ricettacolo di misericordia e di luce, che non aveva nessun cielo olimpico a cui ascendere, nessun padre divino e benevolo che lo proteggesse, nessuna missione da compiere. Tuttavia, mentre gridava, espresse una sorta di preghiera, di supplica: Guarda nel mio cuore! implorò. Guarda nel mio cuore e contempla la verità: quello che sei realmente, e quello che il mondo è realmente. Percepisci la gloria della mia sofferenza e il trionfo della mia illuminazione: osserva quello che sei stato creato per essere! Io sono tuo padre, tua madre, e il tuo unico vero amico. Io ho sofferto più di chiunque altro per redimere il mio mondo dalla desolazione. Io sono l'unico e il solo, l'uomo al di sopra dell'uomo, tuo fratello nel sangue e nel dolore. Se soltanto tu potessi vedere che cosa ho sopportato e che cosa ho fatto. Se soltanto tu potessi vedere che cosa ho scoperto e che cosa ho intravisto. Se soltanto tu potessi condividere l'esperienza che ho vissuto, accetteresti sicuramente tutto
quello che ho sperato e progettato per te. Ti chiedo soltanto di condividere la mia anima, che non è fredda come le anime degli altri uomini, ma riscaldata dai fuochi della violenza sopportata e dell'umiliazione soverchiata! Ti chiedo soltanto di condividere la mia anima... la mia anima... Tuttavia, mentre Jacob Harkender pregava, mentre sottoponeva la propria richiesta al tribunale del destino, l'angelo Gabriel scomparve: fuggì nel mondo della luce e del simbolo, senza sapere dove andava, né come, né perché, ma rifiutando e negando l'uomo che era stato il suo creatore, privo di gratitudine come qualunque figlio illegittimo. E quando si volse di nuovo alla propria complice, pallidissima, Jacob Harkender sentì i propri occhi ardere come braci, e sentì che la tenebra lo possedeva, trasformando ogni atomo del suo essere in cenere calda e nera. Allora comprese che l'Inferno era in lui: una furia demoniaca che sarebbe stata sufficiente ad incendiare il mondo, se soltanto egli avesse acconsentito ad essere la favilla capricciosa che avrebbe innescato tale distruzione. Come gli era capitato in precedenza quando aveva sognato di cadere, David Lydyard aprì gli occhi di scatto. Allora vide Caleb Amalax che lo sovrastava: non era più ricoperto di ragni brulicanti, ma stringeva ancora in mano il pugnale dalla lunga lama, e i suoi occhi sembravano globuli sporgenti di ragnatela grigia e polverosa. Sembrava che i ragni fossero entrati in lui, che gli avessero divorato il cuore, il fegato, gli occhi, e che avessero imbottito il suo corpo: che costituissero la sua stessa anima, ormai, e che guardassero dal suo cranio con i loro orridi poteri di veggenza. Benché incapace di distogliere lo sguardo da quegli occhi di polvere, Lydyard vide con la coda dell'occhio che Pelorus non era più presso la porta e che Mandorla non era più alla base della scala. Invece, due lupi giganteschi balzavano e turbinavano follemente, ringhiando e mordendo, come se stessero combattendo l'aria, e come se stessero perdendo la battaglia. Incapace di stabilire quanto tempo fosse trascorso da quando si era ferito con i legami per proiettarsi nel mondo in forma di sogno, Lydyard pensò: Forse non è passato neppure un attimo. Forse sono ritornato al momento prima della pioggia di ragni, e dovrò affrontarla ancora... Subito dopo si rese conto che non avrebbe mai vissuto quella terribile esperienza per la seconda volta, perché Amalax teneva ancora il pugnale e l'oscurità nei suoi occhi rivelava che intendeva servirsene per uccidere. Non osò ricorrere di nuovo all'espediente d'infliggersi dolore: sapeva infatti che in tal modo sarebbe fuggita soltanto la sua anima, mentre il suo
corpo sarebbe rimasto, e Amalax avrebbe potuto tagliargli la gola comunque. Non vi era fuga nei sogni: l'angelo tenebroso del dolore non poteva liberarlo da quel destino. Sempre con la coda dell'occhio, vide i lupi diventare ombre confuse, assorbiti dalle pareti come lui stesso era stato attirato nelle viscere della Terra. Dunque comprese che la magia e il portento erano ancora presenti intorno a lui: avrebbe potuto servirsene, se avesse saputo come fare. Rimanendo perfettamente immobile, scrutò Amalax negli occhi ultraterreni, aprì la bocca per parlare, e intanto si sforzò con tutto se stesso di radunare una voce, senza curarsi se fosse la voce del comando o la voce della ragione. Tuttavia non parlò, perché vide, con la stessa chiarezza con cui vedeva le pareti viscide di umidità e la fiamma gialla della candela, e capì, che Caleb Amalax era ormai oltre la portata di qualunque ordine, nonché della ragione: non era più al servizio di Mandorla Soulier, e di certo non apparteneva più a se stesso, giacché nei suoi occhi annuvolati si celava un demone, il cui sguardo lercio era più malvagio di quanto qualunque sguardo meramente umano avrebbe mai potuto essere. All'interno del suo corpo non restava null'altro che una moltitudine di ragni, e nulla rimaneva della sua anima se non luride ragnatele viscose: Lydyard ricordava di averlo sentito strillare, e strillare, e strillare, mentre i ragni penetravano in lui, divorandone le carni. Ormai, Caleb Amalax non era più umano: intendeva massacrare David Lydyard soltanto per sacrificarlo a un dio di gran lunga più tenebroso di quello che era apparso di recente agli sfortunati satanisti di Parigi. Di nuovo, Lydyard tentò di parlare, di scoprire l'incantesimo capace di salvarlo... E allora trovò qualcosa. Non fu la voce del comando né la voce della ragione a sorgere in lui, bensì una voce molto diversa, che non aveva bisogno della sua lingua arida e delle sue labbra insanguinate: essa gridò in lui, e il grido fu pura preghiera, non al Dio nel quale i gesuiti gli avevano tanto assiduamente insegnato a credere, bensì a qualunque dio che fosse in grado di salvarlo dal demone con l'anima di ragno. La preghiera fu così potente che non ebbe bisogno di parole che le dessero forma, né di voci che la esprimessero. Eppure, Lydyard fu costretto a vedere il pugnale che veniva sollevato; a sentire la mano callosa afferrargli la chioma, per tirargli indietro la testa ed esporre la gola ferita; e a soffocare nello sforzo di respirare, mentre la preghiera restava senza risposta.
Poi vide la lama che scendeva per infliggere il colpo fatale, rapida come un serpente, e sfavillava per un attimo, riflettendo la luce della fiamma. Sentì il metallo toccare la sua gola, e anche, in un lampo sconvolgente di precognizione, la sensazione della lama che affondava nei muscoli e nei tendini, recidendo il filo delicato della sua vita. Quello stesso lampo di precognizione gli rivelò che cosa sarebbe stata la morte: i pensieri sarebbero lentamente avvizziti nella sua mente, e intanto il linguaggio e l'immaginazione si sarebbero estinti, diventando malinconiche assurdità molto prima che la luce della coscienza si spegnesse. Dopo la morte, avrebbe ancora potuto dire cogito, ergo sum, perché sarebbe esistito un pensiero, e a causa di quel pensiero anche lui sarebbe esistito... Eppure, il pensiero si sarebbe accartocciato lentamente, come una foglia secca sul fuoco, sino a scomparire, diventando null'altro che polvere e cenere di un pensiero, mentre lui stesso sarebbe diventato null'altro che polvere e cenere di un essere... Allora intervenne il miracolo. Il pugnale non completò mai il proprio arco ferale: appena la lama toccò la pelle di Lydyard, esso fu ghermito da un potere incredibile, avvampò brevemente come una fiamma d'argento, e tremò in una nube di pallida cenere bianca. Anche lo sguardo torbido di Amalax, fisso con brama spaventevole sulla vittima, fu distolto con violenza: mentre la testa girava affinché gli occhi orridi fronteggiassero quello che li aveva negati, si udì lo schianto del collo spezzato come un ramoscello marcio, e infine il gigante cadde come una bambola di stracci. Fu allora che Lydyard vide l'altro viso: quello dell'angelo con gli occhi come il cielo. Protendendo una mano snella, l'angelo bruciò i legami con un fuoco che disinfettò e guarì i polsi feriti, l'orecchio lacerato, i piedi ustionati. Poi sollevò Lydyard e disse: — Questa è misericordia! Questa è verità. Questoèbene! Sed libera nos a malo... Sed libera nos a malo... E Lydyard rispose nell'unico modo che gli fosse possibile, ossia con un'altra preghiera: — Cordelia! Per l'amor d'Iddio! Lasciami andare da Cordelia! Nelle ombre grigie della sera, il branco di lupi corse, attraverso Osterley Park, su Lampton Hill, oltre Hatton Brook e la ferrovia a Langley Grove, per Stoke Piace e Burnham Common, oltre Hedsor Wharf e Cook Marsh, sempre in direzione di Ridgeley Wood e di una certa casa al suo confine
meridionale. Nel correre, i lupi erano liberi e colmi di gioia. Non percepivano la loro destinazione come ordine o come obbligo, bensì come scopo puro e indubitabile, perfettamente fuso con l'istinto e con la natura interiore. Come lupi, erano in armonia gli uni con gli altri, e con il mondo: come lupi, non avevano speranze fragili o apprensioni astiose: come lupi, erano energia e movimento, inseguimento e potenza predatoria: come lupi, non erano oppressi dal fardello dell'umanità. Come lupi, correvano insieme: un branco unito per la prima volta da secoli. Avevano accantonato per il momento le inimicizie che li avevano divisi sotto altra forma, dissolte dal fuoco della gioia. Come lupi, non appartenevano a Londra, né a nessun altro luogo costruito e nominato dagli uomini. Come lupi, erano liberi. Correndo, furono visti, perché la civiltà aveva squarciato i boschi come un morbo, denudando i campi per l'agricoltura e per il pascolo, costruendo strade per i cavalli e per le vetture, scavando fossi e canali per i leviatani riottosi di vapore e d'acciaio che erano gli ultimi figli dell'Uomo e di Mammone. Il mondo degli uomini si stendeva tutt'intorno ai lupi come una grande ragnatela, per sottrarsi alla quale non esisteva nessuna via di fuga. I sentieri che essi avevano tracciato al tempo in cui erano stati migratori e dominatori, incrociavano ormai una miriade di vie d'altro genere, quindi i lupi non potevano passare inosservati. Ma quasi tutti gli umani che li videro non li riconobbero affatto, perché essi scivolarono come ombre sotto le siepi: persuasi dalla loro razionalità capricciosa, credettero che fossero cani bighelloni, oppure illusioni. Soltanto alcuni bambini, molto lontani gli uni dagli altri, separati dai fiumi e dalle strade, dalle ferrovie e dai canali, osarono annunciare di aver visto i licantropi di Londra in caccia, e tutto quello che le loro grida trassero dalle bocche più adulte e più sciocche furono risate allegre, colme della superbia dell'incredulità. Invece, si trattava davvero dei licantropi di Londra in caccia. Accantonati i nomi che avevano adottato, le speranze disperate, e le ambizioni selvagge, per il breve tempo che era loro concesso due o tre volte ogni anno, i licantropi di Londra correvano, come fratelli e sorelle di sangue. E intanto non erano commiserevoli, ma spietati; non erano stupidi, ma ferali; non erano appariscenti, ma belli; non erano arroganti, ma fieri. Erano in caccia, e stavano andando dal Diavolo, ma come lupi, come creature della wilderness: come aria, e fuoco, e terra, e sangue, anziché
come argilla comune. Anche se la tenebra li attendeva come uno stagno esalante vapori malsani, anche se l'Inferno medesimo aveva spalancato la propria gola avida, anche se il battito febbrile dei loro cuori non era che un sussurro nel silenzio immane del sepolcro del tempo, essi correvano. Per ognuno di loro, essere un lupo era semplicemente essere, e mai negarsi. Così, i lupi corsero, e l'angelo li osservò dall'alto con occhio amorevole, meditando sulla giustizia terribile di Machalalel, il quale aveva posto il gelo nelle loro anime, nella speranza di poter così comprendere in che modo un altro dio avesse creato la sventura e l'infelicità dell'uomo. — Correte... — sussurrò l'angelo. — Correte... E seppe, ancor prima che l'oscurità giungesse a reclamarlo, di non poter fare quello che i licantropi di Londra gli avevano chiesto, più di quanto potesse deviare il flusso del tempo, o contenere l'espansione dello spazio infinito. Tuttavia, i lupi continuarono a correre, sino a quando la tenebra che li aveva già reclamati restituì loro i nomi. Un tempo, sorella Teresa era stata nulla più che una semplice orfana, più sventurata di tutti gli altri orfani per essere nata nel manicomio di Hanwell. Ormai, però, era quasi una santa, e per diventarlo giaceva con le braccia spalancate sulla nuda pietra del pavimento della propria cella, godendone la solidità fredda e dura. Si sentiva tanto vacua e leggera, da essere sicura che soltanto la forza della volontà, e non quella della gravita, le impediva di levitare. I graffi prodotti dalla corona di spine che indossava e le ferite sanguinanti alle palme delle mani non la facevano più soffrire, però provava un dolore lancinante all'addome. Immaginando di essere trafitta da un giavellotto, ripeteva preghiere all'infinito, in un delirio estatico, mentre il dolore rumoreggiava dentro di lei, come le maledizioni bisbigliate da un demone rabbioso. Non aveva un rosario, ma con l'occhio interiore vedeva la sagoma di un crocifisso stagliarsi sullo sfondo di una luce sovrannaturale, che le nubi rifrangevano divinamente in tutti i colori dell'arcobaleno. Aveva l'impressione che fosse passato moltissimo tempo dall'ultima volta che aveva udito le voci dei santi. Aveva fatto del suo meglio per lanciarsi alla deriva nell'oceano dell'eternità, quasi senza badare al ciclo della notte e del giorno, confidando che le sue sorelle si sarebbero occupate di con-
tare le ore e le settimane. Eppure non riusciva a trascendere del tutto i legami che l'avvincevano alla Terra e all'opprimente successione del tempo: il suo cuore giovane e ostinato palpitava nel suo corpo fragile, misurando la sua separazione dal Regno dei Cieli. Non osava essere delusa dalla cessazione delle voci e delle visioni: come avrebbe potuto, infatti, una come lei, meritare l'attenzione personale degli emissari di Cristo? Eppure la consapevolezza della sua solitudine non poteva essere altro che un fardello gravoso sulla sua anima stanca e legata alla Terra. Come al solito, aveva gli occhi esteriori chiusi, perché la vista interiore, per quanto imprecisa, era infinitamente preferibile. L'ombra della croce significava per lei molto più delle pareti imbiancate o dei volti sorridenti, della vegetazione verdeggiante della primavera o dell'azzurro di un cielo senza nubi. Se un ragno fosse caduto dall'alto sulla sua testa e avesse poi percorso tutto il suo corpo fino alle piante dei piedi, sorella Teresa lo avrebbe percepito a malapena, e non ne sarebbe stata spaventata. Ciò non avvenne, ma ella provò una sensazione diversa e più concreta, come se una mano le si fosse posata sopra una spalla. Per alcuni istanti non vi badò, ma poiché l'impressione permaneva, si alzò parzialmente, appoggiandosi alla mano destra, girò la testa, e aprì gli occhi. Quando vide l'angelo in piedi accanto a lei, pensò per un attimo di non avere affatto aperto gli occhi e di vederlo soltanto con la vista interiore. Tuttavia, quando il calore della radiosità dell'angelo investì il suo corpo esile, scacciando il freddo e la sofferenza che la stordivano, capì che lo stava davvero guardando con gli occhi esteriori. Allora si alzò per accoglierlo più apertamente, più sinceramente, più generosamente di quanto avesse mai ricevuto qualunque essere nulla più che umano. E quando l'angelo la prese fra le braccia per stringerla a sé, sorella Teresa non si oppose. E quando le ferite alle mani e ai piedi furono risanate, accettò il miracolo con gioia. E quando egli le tolse la corona di spine dalla testa per schiacciarla sotto i piedi, ella non protestò. E quando il fulgore della sua aureola dorata scacciò l'ombra della croce che era stata la sua compagna costante per metà della vita, ella non provò alcuna sensazione di perdita. E quando egli la trasportò attraverso il muro della cella, attraverso la Terra medesima, su, nel cielo bello e luminoso, ella pianse lacrime di pura gioia. Infine fu salvata e liberata dalla gabbia vile della carne che l'aveva
tanto ferita con i suoi insulti e le sue accuse. Eppure, non vide mai il cancello splendente del Paradiso, né percepì il battito del Cuore Divino, perché mentre il suo angelo sorvolava la Terra misera che soffriva tanto orribilmente per la mancanza della redenzione, dal suo nucleo infernale eruppe un demone più mostruoso di qualunque altro ella avesse mai affrontato nel labirinto della tentazione: una creatura fetida e ripugnante di tenebra e di fumi soffocanti, che assalì il suo liberatore con tutta la potenza furibonda di un uragano, schiantando le sue grandi ali bianche e suscitando il terrore nei suoi luminosi occhi azzurri. Allora ella comprese che anche gli angeli erano vulnerabili, e che l'innocenza che proibiva loro di avere paura non era dopotutto una misericordia. E tale fu l'orrore di questa rivelazione, che sorella Teresa strillò in un'angoscia che non poteva essere attenuata, e strillò, e strillò, e strillò, fino a quando l'oscurità demoniaca le turò la bocca con la sua viscosità putrida, e la rapì, trasportandola, insieme all'angelo ferito, nelle profondità estreme dell'Inferno. 6 In breve, Cordelia non provò più la sensazione di precipitare. Nell'infinita oscurità non vi era nulla da vedere, nulla da sentire, nulla da toccare. Giacché non spirava vento, ella aveva l'impressione di fluttuare. Non sapeva se fosse al centro della Terra, o nel nulla. Per un poco, le sembrò di non avere peso, e dunque di non avere materialità, né collocazione nello spazio. Non udiva il battito del proprio cuore, né il pulsare del sangue alle tempie, né poteva stringere il pugno per sentire le proprie carni. Ammesso che fosse ancora vestita, non sentiva gli indumenti sulla pelle. Aveva perduto la sofferenza, la fame, ogni minima percezione, ogni forma di consapevolezza fisica. Per quanto fosse assurdo, fu indotta a chiedersi se quella fosse stata la condizione di Dio prima che un capriccio privo di passione lo inducesse al suo primo e più grande Atto di Creazione. Tuttavia, fu abbastanza reverente per astenersi dalla blasfemia di sussurrare un ordine che potesse evocare la luce, e alleviare così la propria immersione nell'oscurità assoluta. Non pregò neppure per essere salvata, perché nella solitudine trovava una sorta di conforto strano, che bandiva il terrore dalla sua anima. Attese, come se aspettasse di rinascere. E quando le sensazioni ritornarono, quando percepì di nuovo il proprio
peso, il proprio corpo, i propri indumenti, ebbe davvero l'impressione di essere chiamata a nuova esistenza dal pozzo delle anime. Stava ancora cadendo, ma lentamente, come lanuggine, quindi non riusciva a credere che si sarebbe schiantata, e neppure ferita, quando fosse atterrata. Provava soltanto una vaga inquietudine, perché si sentiva stranamente isolata dalla crudeltà degli eventi: aveva l'impressione di essere soltanto un io di sogno, dopotutto, o un semplice fantasma che conservava soltanto l'illusione del corpo che aveva avuto in vita. Quando finalmente si fermò, ebbe la conferma di trovarsi in un sogno, o di essere diventata un fantasma, perché si trovò in un averno alieno e criptico, che, come pensò dapprima, poteva essere soltanto la Terra della Morte. Era un mondo che aveva la terra, ma non il cielo. Le brume avvolgenti brillavano di una radiosità soprannaturale, che sicuramente non proveniva da nessun sole o da nessun firmamento stellato. Gli alberi erano spogli e schiantati, bianchi e scheletriti. I sentieri erano cosparsi di gusci perlacei, di ossa calcinate, di teschi senza mandibole. Nulla si muoveva, tranne i vermi languidi e i rospi decrepiti. La più vaga delle brezze capricciose non agitava nulla, se non la bruma, eppure traeva dal paesaggio un sospiro fioco e fervido, simile ai lamenti degli spettri cui erano ugualmente negati le gioie del Paradiso e i tormenti dell'Inferno. Era un mondo sinistro e malsano, ma Cordelia non tardò a vincere la paura, perché ogni apparenza le sembrava falsa e ingannevole. Una volta, da bambina, suo padre l'aveva condotta all'Egyptian Hall di Piccadilly, a vedere il diorama di Albert Smith che descriveva l'ascesa del Monte Bianco. Anche se non lo aveva mai confessato al genitore, era rimasta delusa, perché le vedute illuminate, per quanto grandi e strane, le erano parse tanto evidentemente trasparenti, tanto evidentemente sovrapposte alla realtà volgare del teatro e del palcoscenico, da risultare sciocche. Le era sempre sembrato strano che sir Edward, il quale aveva visto una volta il Diaphanorama di Koenig, a Lipsia, fosse rimasto molto più affascinato di lei: un uomo come lui non avrebbe dovuto, dinanzi a un semplice spettacolo, rinunciare tanto facilmente allo scetticismo per il quale aveva tanta considerazione. Ebbene, Cordelia aveva la netta impressione che quell'averno fosse simile al Monte Bianco del diorama: una rappresentazione che falliva miseramente nel tentativo di apparire del tutto reale. Se questo è l'Inferno, pensò, allora Jacob Harkender dev'essere davvero
il Demonio. E se è così, allora il mondo ha molto meno da temere dalle macchinazioni sataniche, di quanto i religiosi ci abbiano sempre esortato a credere. Nel frattempo, s'incamminò nella foresta, la quale era tanto priva di vita da sembrare pietrificata, pur senza avere la durezza della pietra. Gli alberi, che erano teneri e si sbriciolavano come se fossero di cenere, erano riusciti a mantenere un calco delle forme arse in un lontano passato, soltanto perché nessun tocco noncurante o nessun tremore casuale li aveva mai fatti crollare in polvere. Avanzando nel paesaggio desolato, Cordelia ebbe l'impressione di essere costantemente osservata. Gli occhi bianchi dei rospi erano ciechi, i vermi non avevano occhi, eppure qualche creatura aliena e rapace, stranamente spaventata, la spiava. Sapeva di essere del tutto in suo potere, anima e corpo, e di essere assolutamente soggetta al suo capriccio divino, al punto che poteva vedere soltanto quello che essa le mostrava, poteva provare soltanto quello che essa le consentiva di provare, poteva essere soltanto quello che essa le permetteva di essere. Eppure essa si nascondeva, disperatamente ansiosa di non essere vista, come se fosse una tessitrice d'illusioni che non sapeva che cosa poteva o doveva catturare. Anche se avrebbe dovuto essere terrorizzata, Cordelia non lo era affatto. La paura non ottundeva la sua intelligenza e la sua razionalità, secondo le quali il paesaggio che vedeva non apparteneva al mondo che conosceva, bensì era soltanto un palcoscenico, la cui scenografia era stata ideata da un'immaginazione rozza e orribile. Se l'inferno fosse reale, pensò, e se un defunto vi si trovasse dopo la morte, che cos'altro dovrebbe fare se non vivere in esso, secondo le proprie possibilità? Quando le anime dannate giungono alla porta dell'Inferno e leggono la scritta che impone loro di abbandonare la speranza, cos'altro possono fare, se non rifiutare? Ebbe la certezza che suo padre sarebbe stato fiero di lei, se soltanto ne fosse stato capace. Quando si accorse che altri vagavano nell'averno, Cordelia pensò che fossero meno materiali di lei: spettri e ombre, inconsapevoli della sua presenza, i quali non erano in grado di muoversi di loro volontà, bensì erano attirati attraverso le brume argentee, senza offrire resistenza, da una sorta di magnetismo arbitrario. Fu con un'improvvisa esplosione d'inquietante illuminazione, che si rese conto che quelle forme vaganti ed eteree di ombra e di luce erano esattamente identiche a lei, e che le sue percezioni della
propria materialità erano echi di vita. Scoprì, allarmandosi lievemente, che stava soltanto sognando di camminare per propria volontà: in realtà fluttuava impotente, nella stretta della potenza che l'attirava gentilmente e inesorabilmente verso il suo destino. Forse sono morta, dopotutto, pensò. Chi avrebbe mai potuto credere che il Tribunale del Giudizio Universale fosse un luogo tanto lugubre? Come sarebbe assurdo se le delusioni della vita e lo squallore delle città fossero soltanto un anticipo delle delusioni dell'eternità e della desolazione dell'infinito! Nondimeno, non disperò: anche in quella condizione, non disperò. Molto prima di vedere la croce, e la forma umana che vi era appesa, con un altro piccolo choc che si aggiunse agli altri già subiti, si convinse di essere quasi certamente morta, nonché di essere stata convocata a rendere conto dei propri peccati. Non provò nessuna vergogna particolare al pensiero che avrebbe potuto essere accusata al cospetto di colui che aveva sofferto ed era morto per lei e per tutta l'umanità, nonché per tutte le piccole manchevolezze e i fallimenti della sua pietà e del suo onore. Fu trafitta dal terrore, per un attimo, ma reagì subito. Ho amato, pensò, in tono di sfida. Non tanto sinceramente e tanto ardentemente guanto avrei dovuto, ma con tutto il vigore e la speranza di cui sono stata capace, ho amato. E qualunque danno abbia inflitto al mondo, me ne sono resa colpevole in gran parte passivamente, perché non mi è stata offerta nessuna alternativa dalle circostanze. A differenza di quanto si era aspettata, la persona sulla Croce non era Cristo, bensì un fanciullo di non più di nove anni, con il viso d'angelo. E non sembrava che soffrisse, nonostante i polsi e i piedi inchiodati: aveva gli occhi chiusi come se dormisse, infatti, e il rilassamento del suo volto impediva di credere che fosse perduto in un incubo. Ai piedi della croce, due fantasmi stavano immobili a scrutare il fanciullo: una ragazza e un uomo. Tanto emaciata da sembrare sul punto di morire di fame, la ragazza era in ginocchio, come se fosse troppo rattristata e stanca per reggersi in piedi. Era evidente che aveva compiuto uno sforzo enorme per sollevare la testa ad osservare il fanciullo crocifisso, tuttavia non era in grado di staccare gli occhi increduli da lui. Come se fosse fatto d'ombra, l'uomo era visibile a malapena. Benché fosse evidentemente molto incerto e perplesso, il suo portamento era stranamente arrogante.
A breve distanza, Cordelia si fermò. Non aveva mai visto la ragazza, ma riconobbe subito Jacob Harkender, il quale non mostrava di essersi accorto del suo arrivo. Giacché ignorava quello che stava per accadere, e dunque non sapeva come comportarsi, decise di limitarsi ad attendere. E aspettò, fino a quando si sentì toccare una spalla. Allora si volse, trovandosi di fronte David Lydyard. In qualche modo, pur essendo fantasmi, i due innamorati si abbracciarono, con maggior ardore di quanto si fossero mai concessi, da vivi, nel mondo superiore, imbarazzati e costretti ad aspettare. — David! — disse Cordelia, in un singhiozzo soffocato. — Oh, David... Siamo morti, e smarriti nel grande cimitero delle anime! — No — rispose Lydyard. Come il dovere gl'imponeva, cercò di parlare con voce ferma, ma senza riuscirvi del tutto. — Non siamo morti, anche se sono costretto a dubitare che ritroveremo mai la terra dei vivi. Siamo vittime di un piccolo Atto di Creazione, compiuto da un angelo tenebroso che ha vissuto a lungo nella sostanza stessa della roccia d'Inghilterra. Questo è il centro della sua ragnatela, in cui ha intrappolato noi e molti altri. Non so dire, però, che cosa intenda fare di noi. Non devi aver paura di quello che vedi qui, perché è stato tessuto con la materia dei nostri incubi. La croce alla quale è inchiodato quel povero fanciullo è stata forgiata nell'immaginazione umana, e se l'angelo che domina qui è il Diavolo incarnato, ha preso nome e natura dai nostri angosciosi timori. Spera, se puoi: ci salveremo, se soltanto riusciremo a trovare la magia della liberazione. In quel momento, Harkender si volse ad osservarli, senza poterli vedere. Aveva le orbite vuote, infatti: non aveva più gli occhi, e nel suo cranio non vi era nulla, se non l'oscurità del vuoto. Una increspatura di perplessità passò sulla sua fronte, brevemente, prima di svanire nell'ombra dei suoi occhi. Poi si girò di nuovo verso la croce, che riusciva in qualche modo misterioso a vedere, e supplicò lamentosamente il fanciullo: — Gabriel! Non devi acconsentire a tutto questo! Il tuo potere non è ancora estinto. Scendi dalla croce, Gabriel, e guidami fuori da questo sotterraneo. Non devi fare altro che guidarmi alla luce, Gabriel, e io ti renderò più saggio di tutti gli uomini della Terra. Io ti renderò saggio! Non giunse risposta da colui che dormiva sulla croce, ma d'improvviso, nelle brume circostanti, parvero formarsi gorghi roteanti. Per un momento, Cordelia pensò che una legione di anime perdute fosse arrivata in folla speranzosa dalla foresta senza vita, però non tardò ad accorgersi che non si trattava di spettri umani, bensì di forme spettrali di belve sinistre: un bran-
co di lupi aveva circondato la radura in cui era eretta la croce e stava convergendo sulle ombre umane che attendevano là. Due lupi fantasma, e due soltanto, si alzarono sulle zampe posteriori: con increspature ingannevoli di bruma turbinante, divennero umani e si separarono. Il primo divenne una donna abbigliata di nero, dalla chioma bionda e dagli occhi simili a specchi, che si recò alla destra di Lydyard; il secondo divenne un giovane biondo, dagli occhi come opali, che si recò alla sinistra di Cordelia. La donna lupo sorrise, inducendo Cordelia a pensare che fosse una temeraria audacia da parte di qualsiasi creatura sorridere in un luogo come quello. Poi mormorò con voce morbida, come una gatta che facesse le fusa: — Dimmi, David... Sei stato tu a condurci qui? Oppure è stato Gabriel a convocarci, per lealtà verso la sua razza inumana? — Questa è Mandorla Soulier — sussurrò Lydyard, all'orecchio di Cordelia. — Non ha paura di essere morta, perché è la regina madre dei licantropi di Londra, e ha perduto simili paure moltissimo tempo fa. Crede di essere immortale, ma non se ne cura, perché appartiene ai vargr, gli inquieti, i temerari che riderebbero in faccia a Dio o al Demonio, e non avrebbero vergogna ad importunare né l'uno né l'altro con domande o richieste. — E l'altro chi è? — chiese Cordelia. — Il mio nome è Pelorus — dichiarò il giovane. — Ne ho usati altri, ma il mio nome è Pelorus. Con un sospiro, Mandorla rispose alle sue stesse domande: — Capisco che non sei stato tu, David, e neppure Gabriel, ma soltanto l'angelo indagatore che ha rubato l'anima di Harkender. Senza dubbio desidera scoprire che cosa si può fare di noi tutti. Che sfortuna, che il suo sonno sia stato turbato da un uomo come Harkender, la cui anima è nera e sconvolta dal dolore! Sicuramente è stata di gran lunga più fortunata la creatura che ha trovato te! — Che cosa intende dire? — sussurrò Cordelia, stringendosi maggiormente allo spettro confortante di Lydyard. — La magia di Harkender, suscitata dal dolore, ha sfondato la barriera del mondo materiale — spiegò Lydyard. — Non so quando né come, ma la sua anima fredda ha trovato sufficiente calore per far scoccare una scintilla nella materia tenebrosa di una creatura addormentata, che avrebbe dovuto essere lasciata al suo riposo. Quest'angelo si è destato in un mondo da cui era stato bandito molto tempo fa, e ha posseduto colui che lo ha svegliato,
ossia Harkender, per servirsi dei suoi occhi e corrompere i suoi sogni. Tuttavia, l'angelo può comprendere il mondo soltanto come lo comprende Harkender: ha ereditato tutto il suo dolore, tutta la sua angoscia, tutto il suo odio. Molto tempo fa, Harkender divenne volontariamente un Demonio, e ora ha fatto un demonio di questa creatura che ha destato sulla Terra. Quando essa si è servita di lui per riprodurre il piccolo miracolo mediante il quale la sua coscienza è stata rinnovata e riformata, ha agito come un Demonio, con una malvagità astuta e terribile, nel timore che il suo nuovo compagno e avversario potesse essere più potente e più saggio di lui: aveva intenzione di pervertire e di distruggere, ingegnosamente, ingannevolmente. Però, Mandorla ha ragione: avrebbe potuto trovare un servo di gran lunga migliore di quest'uomo colmo di odio. «L'altro Creatore, una volta destato, ha trovato subito i propri strumenti: ha rubato l'anima di de Lancy e ha imprigionato la mia. Mentre Harkender ha creato un'entità che riflette le sue debolezze, de Lancy ed io ne abbiamo creata una che riflette le nostre. Harkender iniziò il suo sogno oscuro nel baratro del suo inferno privato. Io, invece, ho iniziato il mio nella caverna di Platone. Harkender ha visto Satana nel mondo, io l'ho visto in me stesso. L'entità che ha posseduto lui, è diventata un mostruoso Ragno predatore, mentre l'entità che ha posseduto me è diventata una Sfinge dubbiosa, che non sa neppure rispondere al proprio enigma. E ora siamo tutti qui, prigionieri dell'incubo che è cresciuto dal seme dell'odio di Harkender. «Ma credo che Harkender abbia già cominciato a comprendere la follia e la futilità del suo odio passato. E forse il Ragno, nel catturare altri con la propria tela, ha scoperto il dubbio. Comunque, ignoro quali possano essere le conseguenze della sua incertezza. — È una ricostruzione ammirevole — commentò Mandorla, avvicinandosi molto a Lydyard. — Non ti avevo forse detto, David, che avrei potuto aiutarti a giungere all'illuminazione? Non hai avuto il coraggio di infliggere dolore a te stesso, ma hai avuto bisogno soltanto della spietatezza amorevole di qualcuno che sa. Adesso, però, devi lasciare la tua sorellina, perché fra poco dovremo affrontare il Ragno furente, e soltanto tu ed io siamo adatti all'impresa. — Ciò detto, si volse a Cordelia: — Non temere che lo voglia per me stessa, bambina mia, perché amo soltanto come lupa, e lui mi piace troppo per farne carne da divorare. Lascialo, ora, ti prego. Pur essendo notevolmente confusa, Cordelia cominciava a capire la vicenda. In ogni modo, non poté sciogliersi da quell'abbraccio, che era, nel cuore di quella wilderness aliena e desolata, tutto quello che era rimasto a
lei e al suo innamorato: — David... — sussurrò. — Non lasciarmi... Non lasciarmi mai... Senza sottrarsi all'abbraccio, Lydyard guardò Mandorla: — Fraintendi il Ragno, se credi che si curi di avversari come noi. Pensi forse che il fanciullo sia stato inchiodato alla croce per divertire o provocare noi? Questa trappola è stata tesa per catturare la Sfinge, e noi siamo solamente scorie acchiappate per via delle circostanze. Anche se sei immortale, e molto superiore agli esseri umani che disprezzi, sei nulla per questo Demone Ragno: assolutamente nulla. Credo che abbia attirato qui te e gli altri licantropi soltanto perché Harkender è infuriato con voi, e intende punirvi. — No! — protestò Mandorla. — Siamo degni di ben altro! — Purtroppo sono certo che David ha ragione — intervenne Pelorus. — E qualunque possibilità io possa avere avuto d'invocare il potere di Machalalel, è perduta, ora, perché il Ragno ci ha condotti nel centro della sua tana. Per la prima volta, Cordelia vide scomparire il sorriso dal suo volto e capì che Mandorla era addolorata dalla verità. Notò però che i suoi occhi luminosi come specchi non si offuscavano, bensì osservavano di nuovo il fanciullo che continuava a dormire quel sonno incongruo, appeso allo strumento di tortura. — Crede ancora che Gabriel le appartenga — sussurrò Lydyard. — Crede di poterlo lusingare, e di poter contare qualcosa in questa vicenda con il suo aiuto. Nel suo tono, Cordelia percepì una certa ammirazione, ma distolse lo sguardo dalla donna lupo per osservare la ragazza silente che continuava a fissare il fanciullo addormentato con una sofferenza insondabile negli occhi. Allora si chiese se qualcuno di coloro che erano stati convocati lì avesse il diritto di credere di dover svolgere un ruolo più importante di quello degli altri. Fino a quel momento, Jacob Harkender non aveva manifestato in alcun modo di essere consapevole della presenza dei licantropi, di Lydyard, di Cordelia, o della ragazza. D'improvviso, però, si girò di scatto a fissare l'oscurità brumosa, come se avesse udito i rumori prodotti dall'avvicinarsi di qualcuno. Il suo volto d'ombra divenne stranamente luminoso d'odio, come se preconizzasse l'arrivo di un nemico. Sempre sfiorando l'orecchio di Cordelia con le labbra, Lydyard sussurrò: — È la Sfinge! Tutti si volsero a guardare, rapiti, in attesa.
Ma quando l'essere che aspettavano sbucò dalle brume turbinanti, fra i tronchi biancastri e contorti di due alberi senza foglie, Cordelia vide che non si trattava affatto della Sfinge, bensì soltanto di un uomo: uno spettro, come tutti loro. Comunque, si lasciò sfuggire un sospiro soffocato di paura e di sbalordimento, perché quell'uomo era suo padre. 7 Fu con sentimenti contrastanti che David Lydyard vide arrivare con passo sicuro sir Edward Tallentyre, vale a dire pressoché l'ultima persona che si sarebbe aspettato d'incontrare in quel luogo d'incubo: da una parte, era lieto di avere un altro amico ed alleato; ma dall'altra temeva di essere in qualche modo responsabile della sua presenza lì, e quindi, se la vicenda si fosse conclusa male, avrebbe dovuto sopportarne la colpa. Ed era terribilmente difficile, almeno per il momento, ipotizzare che tutto potesse risolversi bene. Eppure, con il portamento e con l'andatura, Tallentyre manifestava un'assoluta sicurezza e un'assoluta fiducia in se stesso, tanto che Lydyard non dubitò affatto che intendesse assumere il controllo della situazione con la disinvoltura e con l'autorità che gli erano caratteristiche in ogni circostanza. Senza guardare Lydyard e Cordelia, ancora strettamente abbracciati, Tallentyre si avvicinò e passò oltre. Forse non li vide, forse non li riconobbe, o forse era interamente e risolutamente concentrato sulla creatura tenebrosa che indossava l'apparenza esteriore di Jacob Harkender. Fino a quel momento, Harkender non era stato altro che un vago spettro d'ombra. D'improvviso, parve divenire solido, e pesante: avvolto in un mantello nero, sembrava molto massiccio. Benché fosse un poco più alto, Tallentyre era molto più snello, in parte perché era un fantasma, in parte perché portava lo stesso completo leggero color cachi che aveva indossato nel deserto, la notte fatale del suo primo incontro con la Sfinge. Soltanto quando i due antichi nemici furono l'uno di fronte all'altro, Lydyard si rese conto di avere avuto ragione, dopotutto. In un certo senso, la Sfinge era presente con Tallentyre, proprio come il Ragno era presente in Harkender. In qualsiasi momento, le due entità avrebbero potuto trasformarsi con la stessa facilità con cui si trasformava Mandorla Soulier,
per mostrarsi quali erano state realmente prima che il fato assurdo donasse loro le menti e i sogni degli uomini. — Dunque sei qui, finalmente — dichiarò lo spettro ammantato, con voce sinistramente mutata, parlando sia come Jacob Harkender a sir Edward Tallentyre, sia come il Ragno a un'altra vittima attirata nella sua ragnatela di sventura. — Alla fine, hai dovuto venire a me, come ho sempre saputo che avresti fatto. — Sono qui — rispose Tallentyre. — Dopotutto, siamo molto più simili di quanto credessi un tempo, e non è necessario che siamo nemici. — Riconosci, allora, che ho ragione, e che il mondo, nella forma in cui esiste, è quello in cui io ho creduto: un mondo di mere apparenze e di magia creatrice, maturo per essere dominato da coloro che posseggono la vera conoscenza? — Niente affatto — rispose serenamente Tallentyre. — Sono qui per dimostrarti che, nonostante quest'incubo che hai creato per intrappolarci, hai torto. Allora Mandorla rise allegramente, e Lydyard, nell'udirla, non poté fare a meno di percepire la forza dell'assurdità apparente: erano tutti lì, attirati nelle profondità della Terra da un'immensa creatura soprannaturale di roccia e di fuoco, in quell'averno lugubre e squallido, all'ombra di un angelo crocifisso, e Tallentyre, pur essendo soltanto l'ombra di se stesso, affermava che il mondo non era quale sembrava essere in quel momento. D'altronde, non si trattava soltanto della sfida fra il razionalista sir Edward Tallentyre e il ciarlatano Jacob Harkender, bensì dell'enigmatica Sfinge pronta ad affrontare finalmente il Ragno che l'aveva destata dal sonno, rubandole un atomo della sua anima per creare un bambino portentoso. Comunque, Harkender non rise, né si accigliò. Invece, una fugace scintilla di speranza baluginò nei suoi occhi foschi fissi sull'avversario: — Posso annientarti in un attimo. Dispongo di un tale potere, qui, che posso consumarti con il fuoco e spargere le tue ceneri su questo suolo desolato. — Senza dubbio — rispose Tallentyre. — Ma ciò non dimostrerebbe che hai ragione. E anche tu, che fronteggi il futuro ignoto come tutti noi, hai bisogno di prove, oltre che di potere, perché fino a quando non avrai tali prove, non potrai sapere che cosa ti costerà l'esercizio del potere. Nella sua arroganza vi era qualcosa che toglieva il fiato, ma proprio mentre Lydyard lo osservava con ammirazione, Tallentyre trasalì, come percosso da una frustata, e si afferrò il braccio destro, abbassando lo
sguardo alla mano, trafitta da un dardo lungo una trentina di centimetri. Non riuscì a celare una smorfia e uno spasmo di dolore, intanto che il sangue scorreva lentamente sull'asta della freccia, scendendo verso la punta. Quindi sibilò: — Costruisci pure una croce anche per me. Costruisci croci per noi tutti, oppure bruciaci sul rogo. Sprecati nella creazione di questo sciocco Inferno in miniatura, se la tua mente fiacca non riesce a concepire altro. Nessuno può salvarti dal Diavolo, se questo è quello che brami essere. Nessuno può proteggerti dall'odio meschino e dal furore malvagio, se non vuoi capire. Ma ti dico, ora, che coloro per i quali il mondo stesso non è che un sogno, non possono affatto sognare veramente! Non sono stato mandato qui a svolgere il ruolo del pazzo dolente, bensì per rispondere alla tua necessità: una necessità che rimane, nonostante quello che quest'uomo crudele e folle ha fatto per pervertirla. Io ho la risposta che ti occorre, se soltanto sei in grado di sopportare di ascoltarla. Sentendo il palpito febbrile del suo cuore, Lydyard si accorse che il fantasma di Cordelia Tallentyre si stava mordendo un labbro per non piangere d'angoscia a causa del pericolo in cui si trovava suo padre. Tuttavia, Tallentyre dimostrò di poter compiere a sua volta qualche miracolo: il dardo scomparve e la sua mano guarì. Il viso dagli occhi vacui di Harkender si contorse in una maschera perfetta di furore: — Tu menti! Sei cieco, e non puoi vedere: non hai mai penetrato il velo dell'apparenza! Ma io ho percorso la via del dolore, e ho visto! Tu non sei che un uomo, mentre io sono più di un uomo! Non esiste nessun'altra risposta, tranne quella che ho trovato! — Hai visto, ma sei rimasto solo — ribatté Tallentyre — e l'iscrizione che hai letto sulle mura dell'eternità è il riflesso dei tuoi sogni febbrili. Sei rimasto solo, senza trovare amici e senza cercare verifiche, mentre persino qui, nel tuo Inferno privato, io non sono solo: con me vi sono altri, i quali dimostreranno che la mia visione non è soltanto mia, bensì è una verità che può essere condivisa da tutti. — Mille ciechi non possono vedere — sogghignò Harkender, in tono di scherno. — E poi, sei tanto certo che Lydyard veda come vedi tu? Sei tanto certo che sia ancora tuo adepto, ora che la Sfinge gli ha mostrato gli enigmi della Creazione nella loro vera luce? — Non ho neppure bisogno di domandarglielo: lo conosco. Conosco la sua mente, il suo cuore, il suo coraggio. Se non vede come vedo io, allora quello che vedo non ha superato la prova più importante. Un altro dardo sfrecciò nell'aria, conficcandosi nel cuore di Tallentyre.
Senza cadere, il baronetto abbassò gli occhi a guardarlo. Mandorla rise, senza che Lydyard capisse di chi stava ridendo. — Non nego che tu possa farmi soffrire — sussurrò Tallentyre, in modo tale, però, che tutti poterono udirlo distintamente. — Nego soltanto che ciò abbia importanza. Se acconsentirai a condividere il mio sogno, e a dimenticare il tuo, allora ti dimostrerò quale fantasia mesta e stupida ti è stata appioppata. E anche se non posso garantire che guarirò la collera velenosa che ti tormenta, prometto che la curerò meglio che potrò. Sicuro che Harkender avrebbe rifiutato, se fosse stato soltanto se stesso e nulla più, Lydyard era altrettanto certo che Tallentyre non avrebbe compiuto una simile offerta, se fosse stato soltanto se stesso e nulla più. — Che cosa intende fare? — bisbigliò Cordelia. Sul momento, Lydyard fu sul punto di rispondere che lo ignorava, ma subito dopo si rese conto che lo sapeva, e che, in modo perverso, aveva aiutato la Sfinge a capirlo: nel lottare tanto disperatamente per risolvere l'enigma della propria salvezza, la creatura che lo possedeva aveva lottato con altrettanta urgenza per risolvere l'enigma posto da lui, così che insieme erano giunti alla soluzione. Capì perché la Sfinge aveva scelto sir Edward Tallentyre come proprio difensore, e perché anche lui avrebbe dovuto confidare interamente in quello che il baronetto gli aveva insegnato. — Vuole dimostrare a costui, che si è autonominato demone, che cosa si trova veramente al di là dell'apparenza della Terra — sussurrò Lydyard. — Vuole dimostrare a tutti noi quello che non abbiamo capito, a causa della rigidità e della ristrettezza della nostra mente, ossia che il mondo, ora, è molto diverso da com'era prima! — A voce più alta, affinché tutti udissero, aggiunse, parlando al mago: — Devi vedere quello che costui può mostrarti, perché non ti rendi conto di quanto hai bisogno di saperlo. — Sono ciechi! — gridò Harkender, con voce lamentosa e lugubre, portando al viso le mani simili ad artigli, come se volesse strapparsi gli occhi foschi e vacui. — Sono ciechi, e sono soltanto due. Io sono solo, ma posso vedere! — Non siamo soltanto due — intervenne coraggiosamente Cordelia. — Siamo tre, e anche se abbiamo veduto l'abisso del tuo tetro Inferno, abbiamo ancora un sogno migliore, che ci appartiene! — Non siamo soltanto tre — corresse l'uomo lupo, Pelorus. — In verità, siamo quattro, e uno di noi ha vissuto per diecimila anni. Ascolta quest'uomo, altrimenti, anche se sei il Diavolo incarnato, sarai soltanto un misero pazzo, e per giunta maledetto.
In silenzio, Jacob Harkender si straziò il viso con le unghie. Avrebbe potuto chiedere aiuto soltanto ad uno fra i presenti: Mandorla Soulier, la quale, però stava ridendo fragorosamente, con una delizia impotente, priva di qualunque affettazione. D'un tratto, la ragnatela in cui erano tutti imprigionati fu squarciata da un vento tempestoso. L'averno si dissolse, con il consenso del suo Creatore, e così tutti si ritrovarono a Whittenton, sul pavimento a mosaico dell'attico di Harkender, che ardeva di fiamme rabbiose. Per alcuni brevi istanti furono inondati dalla luce colorata che entrava dalla cupola, la quale stava al posto del cielo, e aspirava a rappresentare la volta del Paradiso. Tuttavia, essa fu rapidamente oscurata dal fumo acre, che inghiottì tutti i presenti e li trasportò via. Quando il fumo si diradò, la cupola era scomparsa: il cielo notturno e le stelle sparse, pallidamente luminose, si offrivano nudi allo sguardo. — Ho già visto il cielo — affermò sprezzantemente Harkender. — Mentre la superficie della Terra è stata tanto trasformata dall'opera dell'uomo, il cielo non è mutato affatto. — Avete nascosto il cielo dietro la sua effigie — replicò Tallentyre, parlando non soltanto al Ragno, ma a tutti. — Avete detto a voi stessi che il cielo non muta e che le stelle sono eterne, ma ciò non è affatto vero, perché tutto quello che la mano dell'uomo ha compiuto sulla superficie della Terra è quasi nulla rispetto a quello che l'uomo ha visto nelle più remote profondità dell'infinito. Ci è stato detto costantemente che il conforto della realtà materiale ci acceca, perché non ci permette di vedere il mondo quale potrebbe essere se i Creatori lo trasformassero. Però io sostengo, ora, che il conforto dei sogni Creati provoca a sua volta una forma di cecità, e che la cecità peggiore è quella di coloro che possono vedere soltanto con gli occhi della fede e della fantasia. È il mondo tetro della collera e della paura, della sofferenza e degli incubi, ad essere veramente cieco. E io posso mostrarvi un mondo di gran lunga più vasto, se soltanto acconsentite a vedere. Videro le stelle. Videro che la loro luminosità fioca era mera apparenza, perché le stelle erano in realtà soli molto più grandi della Terra: sfere enormi e radiose che inviavano il dono del loro potere su piccoli mondi simili alla Terra. Videro che il numero delle stelle era mera apparenza, perché per ogni stella visibile ad occhio nudo, migliaia e migliaia di altre erano rivelate dal telescopio. E per ogni stella rivelata dal telescopio, migliaia e migliaia di
altre erano nascoste persino agli strumenti che amplificavano la vista, sia dall'involucro gassoso che avvolgeva la Terra, sia dalle nubi nere che si stendevano fra le stelle medesime. Videro che l'uniformità delle stelle era mera apparenza, e che esisteva fra esse una varietà di colore, di dimensioni e di materia superiore all'immaginabile. E videro che le nebulose pallide che condividevano il cielo con le stelle, erano in realtà grandi nubi di stelle, le quali colmavano le vastità nere oltre quella nube di stelle che ospitava il sole, che donava la propria luce e il proprio calore alla piccola e solitària Terra. Allora, per la prima volta, Lydyard, che aveva sempre condiviso con Tallentyre quelle conoscenze, vide quello che vedeva il baronetto con il suo occhio interiore freddo, cieco alla fantasmagoria dei sogni. Vide le stelle, e le lontananze fra le stelle, e le lontananze fra le isole degli universi, che erano alveari brulicanti di stelle, e le immense nebulose nere, e i vivai ardenti delle stelle non nate. Vide per la prima volta il macrocosmo, e vide quale ambizione che non conosce ostacoli vi fosse realmente nella litania speranzosa del «come al di sopra, così al di sotto». Vide un uomo tutto composto di stelle: un uomo che era l'universo, un uomo il cui cuore era la materia delle stelle, il quale aveva stelle per occhi, e grandi ali di stelle, e seme sfavillante di luce stellare e dell'energia della vita. Vide un uomo le cui lacrime erano stelle e il cui sangue era di stelle, e comprese quanto dovesse essere realmente immenso quell'uomo, e quale insopportabile gabbia d'oscurità vi fosse intorno ad ognuna delle stelle che erano i suoi atomi, nonché intorno ad ognuna delle isole d'universo che erano le sue cellule. E vide, come aveva già visto una volta, quel confine paradossale che era l'orlo dell'infinito e il corpo di Dio, il Creatore Supremo. Vide che l'uomo che era l'universo era l'immagine invertita del modello che era Dio. Vide che Dio era il Creatore Supremo, il quale era tanto impotente ad intervenire nella propria Creazione, quanto lo era un uomo a toccarsi il cuore, e aveva un viso che non piangeva né sorrideva, ma volgeva alla propria Creazione occhi che erano assolutamente e disperatamente ciechi. E non fu soltanto Lydyard a vedere tutto questo: tutti lo videro, e compresero che quello che vedevano non era soltanto un sogno. Videro, in quell'Eden di stelle, il secondo albero, dei cui frutti non ave-
vano mangiato né Adamo né Eva, che era il vero Albero della Conoscenza e il vero Albero della Vita. Videro che dove la luce inondava le superfici di miliardi di mondi, molti dei quali erano simili alla Terra, mentre molti altri non lo erano, là, fra gli atomi di quei mondi, fremevano le molecole della vita, che trasformavano quella luce allo scopo di costruire, ricostruire, e costruire di nuovo, tentando e sbagliando, tentando e sbagliando, per miliardi di volte, fino a creare organismi minuscoli e semplici, poi più grandi e più complessi, sempre più grandi e sempre più complessi. E videro che il processo di tentativi e di errori continuava, e che le cellule che erano gli atomi della vita tentavano e sbagliavano per altri miliardi di volte, ancora e ancora, fino a mutare, e a mutare, e a mutare, così che ogni specie, ovunque esistesse, si evolveva in molte specie, e dovunque cadesse la luce della vita, là cresceva un Eden nel microcosmo. Videro che soltanto alcuni di questi innumerevoli Eden davano vita a coppie come Adamo ed Eva, sotto molte forme diverse, ma che il processo di tentativi e di errori perdurava. Allora Lydyard, che aveva sempre condiviso con Tallentyre quelle conoscenze, vide quello che vedeva il baronetto con gli occhi della sua anima fredda e clinica, e quello che il ritmo e la musica della vita e della Creazione significavano realmente per quella mente affilata e scettica. Vide il processo dell'evoluzione incarnato nelle particelle minuscole di materia che turbinavano intorno alle stelle gloriose, le quali fluttuavano nelle loro gabbie di oscurità vasta e vacua. Vide le legioni degli esseri dall'anima fredda in tutte le loro miriadi di forme, che lottavano per vedere, e per costruire con il lavoro della mente e delle mani, senza il calore magico della Vista e della Creazione a guidarli. Vide la transitorietà e la permanenza delle loro opere, corrose dal tempo eppure sostenute dalla speranza, dalla riproduzione, dal perfezionamento. E vide, come non aveva mai visto prima, quale incanto ingannevole vi fosse nell'Età dell'Oro che Pelorus e Mandorla rammentavano, e quanto fossero state facili le sue trasformazioni, e quanto fossero state vane le sue realizzazioni. Capì quanto fossero tragicamente confusi i desideri che nutriva Mandorla, e che anche Pelorus aveva, nonostante la volontà aliena che operava in lui: che l'Età dell'Oro ritornasse, e che i licantropi di Londra potessero godere di una gioia infinita, pura... e cieca. Né Lydyard fu il solo a vedere tutto questo, anche se alcuni altri non poterono apprezzare quello che videro.
— Questo è il sogno che avresti potuto sognare — disse Tallentyre ad Harkender, e al Demone che questi aveva destato. — Questo è il sogno che può ancora essere sognato, da coloro che non vendono le loro anime agli incubi. Esistono milioni di uomini troppo afflitti e disgustati per sognarlo, e altri milioni che preferiscono il conforto della cecità. Forse gli angeli caduti sulla Terra sono di gran lunga più simili a loro di quanto sarebbero mai disposti a credere! Tuttavia, io sostengo soltanto questo: un angelo può creare un Inferno sulla Terra, e attirare migliaia o milioni di uomini al tormento o alla distruzione, ma tale è l'infinito del Tutto, che i suoi sforzi sono nulla. Se mai è esistita un'Età dell'Oro, è conclusa per sempre, e dimenticata dall'universo medesimo, che ha trovato un inizio migliore e un futuro migliore. Impara soltanto a vedere, e comprenderai. — C'è conforto, in questo? — sussurrò Mandorla all'orecchio di Lydyard. — C'è gioia? Se soltanto potessi sapere com'è vivere da lupo, ed essere liberi... — Io posso distruggere la Terra — dichiarò Harkender, con voce profonda come quella del Diavolo. — Non dubitare di me! Con l'odio, posso compiere opere tali da trasformare i tuoi sogni nel più terribile degli incubi! — Non ne dubito affatto — rispose Tallentyre. — Puoi devastare la Terra come un incubo di distruzione. Ma quando non esisterai più, e tutti coloro che appartengono alla tua razza non saranno altro che polvere come quella in cui ora sono sepolti, tutto sarà stato per nulla. Non importa quanti uomini ucciderai: ne esisteranno altri. Non importa quanti soli estinguerai: ne esisteranno altri. «Io ti offro qualcosa di meglio della visione della vendetta, composta dalla sofferenza, dalla confusione e dal rimorso: ti offro un futuro costituito dagli uomini di un milione di mondi, più multiforme e meraviglioso di qualunque altro tu possa immaginare. Io non vivrò per vederlo, ma tu, che hai vissuto, e rammenti di avere vissuto, per diecimila anni, che sono divenuti milioni durante il tuo sonno, potrai vivere per altri diecimila, o milioni di anni, se soltanto acconsentirai a tentare. Torna al tuo riposo, e un giorno, quando ti ridesterai, vi saranno sogni a sufficienza da rendere più degna la veglia: il Paradiso che non puoi conoscere è di gran lunga meglio dell'Inferno che conosci fin troppo bene! Se Harkender fosse stato soltanto se stesso e nulla più, Lydyard era certo che avrebbe rifiutato: invece era soltanto un'ombra catturata da una ragnatela, che non era stata del tutto progettata né tessuta da lui.
In verità, Harkender avrebbe rifiutato. Ma il Ragno che guardava dall'oscurità dei suoi occhi vacui non rifiutò. Aprendo gli occhi azzurri come il cielo, Gabriel Gill scese dalla croce e abbracciò Teresa, scrutando francamente Mandorla in viso. Senza alcuna seduzione nella voce, la donna lupo disse: — Gabriel... Parve che anche Jacob Harkender tentasse di pronunciare quel nome, ma le sue labbra, sanguinanti perché le aveva graffiate, non poterono neppure formarlo. Quando Gabriel sorrise, il suo corpo, come una stella che esplodesse nelle lontananze estreme e deserte del vuoto, avvampò in un fuoco silenzioso di luce e di speranza, estinguendosi. 8 Molto tempo più tardi, David Lydyard rammentò ogni istante di quell'ultimo sogno strano. Le conseguenze, invece, quando tutti ritornarono sulla Terra, sbiadirono nella vaghezza. Fu allora che la confusione assunse il dominio e che la memoria fallì nella propria opera. Tenendosi a braccetto, Lydyard e Cordelia avevano assistito all'incendio della casa di Jacob Harkender, mentre alcuni servi, con l'aiuto degli uomini venuti dal villaggio, tentavano invano di combattere le fiamme portando acqua dal torrente con i secchi: tanto sarebbe valso se avessero tentato di arginare il flusso del tempo. Non avevano potuto fare altro che mettere in salvo i cavalli prima che il fuoco si appiccasse anche alle stalle. Di altri particolari, Lydyard era meno certo. Aveva visto davvero la cupola dell'attico incendiarsi, illuminandosi dall'interno per alcuni minuti, come una lanterna di Halloween, o come un giocattolo? Oppure l'aveva vista già annerita dal fumo, con i vetri che esplodevano nel calore? Davvero una donna li aveva fronteggiati, con il volto rigato dalle lacrime provocate dal fumo e gli occhi stranamente accorati, chiedendo, con voce isterica d'angoscia, che cosa fosse accaduto a Jacob Harkender? Forse almeno questo era vero, perché Lydyard ricordava d'aver detto a qualcuno: — No, non lo abbiamo visto... qui. A questo proposito, rammentava che Cordelia gli aveva domandato quale fosse stata la sorte del mago, ma ciò era accaduto probabilmente in un'altra occasione. Comunque, ricordava abbastanza bene di avere risposto: — Sospetto che sia morto, ma non posso affermarlo con certezza. Credo che sia stato tremendo, per lui, scoprire che non padroneggiava il proprio
potere, bensì era soltanto uno strumento altrui. Non so se abbia sofferto maggiormente per avere scoperto di aver contribuito a formare la coscienza dell'altro a immagine della propria angoscia, o perché questa immagine è stata alla fine rifiutata in seguito alla persuasione di un uomo che odiava e disprezzava. In ogni caso, credo che fosse troppo orgoglioso per fuggire le fiamme, giacché aveva perduto già da molto tempo la paura dell'Inferno. Nessun altro era morto, tranne, naturalmente, Gabriel. Tuttavia, si poteva forse dire che Gabriel aveva davvero vissuto, se non come fantasma mai appartenuto al mondo reale? Quanto al fato del Ragno, si potevano soltanto formulare ipotesi. Secondo Lydyard, era ritornato nella Terra, contento di attendere lo strano svolgimento del destino del mondo, senza più tessere ragnatele labirintiche, continuando ad essere soltanto un Creatore impotente, confortato dalla cecità. Quando fu trascorso abbastanza tempo, Lydyard non poté più neppure sapere con certezza in che modo lui stesso e la sua futura moglie fossero riusciti a ritornare da Whittenton a Londra, benché sapesse che non avevano camminato, e neppure volato, magari su un tappeto magico. Senza dubbio avevano percorso le strade a bordo di una vettura trainata da cavalli, oppure avevano viaggiato sulle ferrovie e sui fiumi mediante le macchine costruite con tutta l'abilità degli uomini moderni. In un certo senso, però, non faceva differenza: non aveva importanza. Anche se ricordava che l'incontro era stato molto gioioso, Lydyard non rammentava neppure che cosa aveva detto a sir Edward Tallentyre quando si erano ritrovati. Era certo che avrebbe ricordato con precisione le parole, se non fosse stato per l'emozione, e che avrebbe rammentato più nitidamente la contentezza medesima, se non fosse stata soverchiata da un sentimento ancora più straordinario, che aveva a che fare con Cordelia, salvata dall'abisso dell'Inferno. In ogni modo, si perdonò queste mancanze della memoria, dicendo a se stesso che nessuno avrebbe potuto biasimarlo se era accecato dalla felicità: infatti, era riuscito a compiere per la donna che amava l'impresa nella quale persino Orfeo aveva fallito. Dopo qualche tempo, anche Elinor Fisher scoprì che i ricordi di quella giornata esasperante erano diventati confusi. A un certo momento, non aveva potuto fare a meno di fissare l'amante di nuovo seduto sul divano dal quale si era recentemente alzato, senza riuscire neppure ad immaginare
dove si fosse recato, né perché. Comunque, era certa di averlo visto sconvolto come mai prima, anche se con gli occhi illuminati da una strana eccitazione: una sorta di soddisfazione che non aveva mai visto in lui. Quando lei gli aveva offerto un bicchiere di whisky, lui l'aveva vuotato con un'avidità peculiare. In seguito, ella stentò a convincersi che lui avesse detto veramente quello che lei credeva che avesse detto. Non era possibile che avesse mormorato davvero: — Ho seguito de Lancy... Ho visto la Sfinge... — Infatti, sapeva che lui aveva visto la Sfinge in Egitto, alcuni mesi prima, in compagnia di William de Lancy e di David Lydyard. Non era possibile neppure che lei avesse detto quello che credeva di aver detto: — Hai giurato di raccontarmi tutto. — Non era possibile, perché era impossibile che lui lo avesse giurato. Credeva di ricordare abbastanza bene qualcos'altro che lui aveva detto, ma che a suo modo suscitava in lei la medesima perplessità. Era quasi certa di averglielo sentito dire, ma forse era soltanto il desiderio che fosse vero a renderla tanto fiduciosa. Quasi sicuramente, egli aveva detto: — Se non posso onorare un impegno, posso assumerne un altro: ti giuro che non dovrai mai temere di perdere quello che hai. Ti giuro che mi occuperò di te fino al giorno della mia morte, e che anche in seguito non rimarrai senza mezzi. È una promessa, questa, che mi sarà più facile mantenere di quella che non posso onorare, e che ti conforterà molto più dell'adempimento dell'altra. — Anche se era parso comicamente fuori luogo persino in quel momento, aveva aggiunto: — Mi perdoni, adesso? Sembrava tutto improbabile, eppure Elinor era certa di ricordare, e per giunta con fierezza, la propria risposta: — Devo perdonarti — aveva dichiarato, perversamente decisa ad usare un tono più noncurante di quanto piacesse a lui. — Un'amante deve sempre perdonare, vero? Che cos'altro la rende diversa da una moglie? A volte, ella si chiedeva se lui avesse replicato, o se fosse riuscito a replicare. Credeva che lo avesse fatto, ma non era del tutto certa di non sbagliare: — C'è stato un tempo, Nora, in cui ti avrei paragonata a un angelo — aveva risposto lui — e avrei riso del tuo rifiuto a sentirtene lusingata. Ma adesso so che cosa significa essere un angelo, e sono felice che tu sia soltanto quello che sei. E ti assicuro che questo, nelle mie intenzioni, è un complimento. Anche se poteva soltanto supporre di avergli creduto, Elinor ricordava di essersi seduta accanto a lui e di avere accettato il complimento con tutta la
tenerezza di cui era capace: almeno, era così che aveva agito, se mai tutto ciò era accaduto davvero. Tuttavia, vi furono alcune persone che ricordarono l'accaduto con maggiore chiarezza, anche dopo molti anni. Una di esse, almeno, poté rivivere gli eventi nella memoria come se fossero avvenuti soltanto il giorno prima, con la certezza assoluta che non avrebbe mai dimenticato. Nella sua cella, ad Hudlestone Manor, sorella Teresa era rimasta per alcune ore scossa dai brividi, soffrendo terribilmente il freddo, molto affamata, ma consapevole di non poter alleviare la propria condizione fino al mattino. E quando il mattino era arrivato... Allora aveva compreso che il cammino dalla santità all'umanità non sarebbe stato facile, per una persona che si era recata tanto oltre nella ricerca del Paradiso. Comunque, non aveva cercato sollievo. Anche se il freddo e la fame, che avevano cessato da tanto tempo di tormentarla nel corso ordinario della sua vita straordinaria, avevano ricominciato a farla soffrire, sapeva di poter sopportare la sofferenza. In compenso, altre cause di dolore erano scomparse: le stimmate erano guarite, e tutte le cicatrici delle ferite inflitte dalla corona di spine che aveva portato con fierezza, persino le più lievi, erano scomparse. La madre badessa e sorella Clare non avevano riconosciuto il mutamento come un miracolo, ma Teresa sapeva bene che lo era. Inoltre, sapeva che il miracolo più grande, che le aveva donato la volontà di non cercare più il Paradiso, non sarebbe mai stato compreso da nessuno, se non da lei stessa. E sul modo in cui esso ancora operava, non avrebbe mai detto una sola parola, fin tanto che fosse vissuta. Era certa che Gabriel fosse scomparso per sempre. Sapeva che egli non era stato il messaggero celeste da lei sempre atteso con fede, ma che non era stato neppure uno strumento di Satana, benché lei stessa lo avesse creduto. In verità, era stato innocente come qualunque altro fanciullo, e in qualche modo, nel suo trapasso nel fuoco e nella gloria, aveva estinto l'altro fuoco: quello che aveva quasi consumato l'anima della stessa Teresa. Ormai quasi incenerita, l'anima era stata magicamente ripristinata, e Teresa era fredda: aveva la vita, che non era facile, ma poteva essere vissuta. Lo aveva già dimostrato, vivendola come meglio aveva potuto, e continuò a dimostrarlo ancora per molti anni.
Nel frattempo, i lupi corsero come avevano sempre corso, inquieti e disperati, eternamente irredenti. Erano i vargr, gli inquieti: tuttora inquieti e per sempre inquieti. Corsero posseduti dalla collera e dalla gioia, liberi dalla conoscenza che sarebbe ritornata con la coscienza e il pensiero, con la memoria e la paura. Talvolta, gli umani li vedevano. Coloro che amavano il mondo qual era, distoglievano lo sguardo e schernivano le ombre ingannevoli. Però i fanciulli, che non avevano ancora imparato a stabilire se il mondo fosse realmente magico o meno, recitavano le frasi dell'antica filastrocca, rabbrividendo di terrore delizioso. Erano i fanciulli ad avere ragione: i licantropi di Londra erano feroci e reali, nemici di tutta l'umanità, ma il terrore da essi ispirato doveva essere soltanto un brivido d'emozione, dolce e fugace, perché essi, dopotutto, non dovevano essere temuti nel modo in cui un tempo gli uomini avevano temuto tutta la loro razza. In un certo senso, si doveva avere compassione di loro, per la loro impotenza e per il loro destino. E i licantropi di Londra lo sapevano, in cuor loro: lo sapevano tutti. Un giorno, non molto tempo dopo la sua discesa all'Inferno, Pelorus vide una carrozza fermarsi sul Vauxhall Bridge. Attese alcuni minuti, mentre il flusso del traffico scorreva oltre, poi s'incamminò lentamente, sul ponte, verso la carrozza. Il vetturale lo notò subito e rimase ad osservarlo mentre si avvicinava, né cordiale né ostile. — Salve, Perris — salutò Pelorus, quando fu all'altezza della vettura, restando brevemente immobile ad osservare il fratello. Questi lo salutò cortesemente con un cenno della testa, quindi si girò per fulminare con un'occhiata un carrettiere di passaggio, che proprio in quel momento aveva imprecato contro di lui perché lo intralciava. Montato in carrozza, Pelorus sedette di fronte a Mandorla e si puntellò per resistere al sussulto inevitabile della partenza. Con studiato divertimento, Mandorla osservò: — Immagino che tu abbia la rivoltella... — Certo — confermò Pelorus. — A differenza del povero Lydyard, non esiterò a servirmene, se sarò aggredito. Dolcemente, Mandorla rise: — È finita. Non abbiamo bisogno di essere nemici, almeno per il momento. Tu hai vinto ancora, anche se stento a capire come. Quanto al povero Lydyard... Non ho fatto altro che aiutarlo a
comprendere quello che era diventato. Non lo avrei mai fatto soffrire troppo: si è trovato realmente in pericolo soltanto quando l'Altro è venuto a reclamarlo, e ha fatto impazzire Amalax. Non mi piaceva troppo, il ragazzo, ma non ho mai avuto intenzione di nuocergli. — Ti ho sentita dire la stessa cosa a proposito di altri uomini — obiettò Pelorus — ma spesso ciò non è bastato a salvarli dalla sofferenza. Hai il dono sfortunato di nuocere di più quando non vuoi farlo, che quando vuoi farlo. — Non dovresti cercare di ferirmi — rimproverò Mandorla. — Sappiamo entrambi che ogni volta che ci riesci, tu soffri quanto me. — Non dovresti cercare di schernirmi così. Sappiamo entrambi che in realtà non ti diverte affatto. Non hai nessun motivo di biasimarmi, questa volta: non ho fatto nulla. — Sottovaluti la tua fortuna. Mi sono giunte voci su quello che accadde in Egitto, e so che non è possibile che tu sia rimasto ferito per nulla. Se la volontà di Machalalel ti indusse a correre un simile rischio, può essere stato soltanto perché la Sfinge, confusa e furente, rischiò di uccidere Tallentyre. Se soltanto tu lo avessi permesso... E poi, non hai potuto fare a meno di dare avvertimenti a Lydyard, vero? Sei stato costretto a tenerlo lontano dalle mie cure amorevoli un po' troppo a lungo, nonché ad aiutarlo a comprendere. Alla fin fine, è stato tanto mediante Lydyard quanto mediante Tallentyre che la Sfinge ha potuto affrontare il Ragno senza lottare. Non sai quanto il mondo sia stato prossimo alla distruzione, a causa del furore degli angeli. Giuro che senza di te avrei potuto rompere questo equilibrio delicato. — Conserva pure questa illusione, se così ti piace — disse Pelorus, con indifferenza. — Ma se pensi che le cose siano andate così, perché sei venuta da me, adesso? Credi forse di potermi ingannare con le tue lusinghe e la tua seduzione, come se fossi umano? Non posso fare a meno di amarti, Mandorla, perché è così che è fatto un lupo, e io, interiormente, sono abbastanza lupo. Tuttavia non avrò mai fiducia in te, finché avrò il potere della vista umana e del pensiero umano. — Soltanto la volontà di Machalalel t'induce a parlare così — redarguì Mandorla. — Io sono tua madre, tua sorella e tua amante, perché nessuno di noi due può vivere davvero al di fuori del branco. Io ti amo, come tu ami me, e non per obbligo. Per i maschi umani, sono soltanto bellezza, seduzione, inganno, e se soffrono a causa della loro attrazione per me anche quando io non voglio che ciò avvenga, è soltanto perché vengono traditi
dalla loro stupida lussuria, e lo meritano completamente. Ma tu non vedi l'imitazione della bellezza umana che mi fu imposta da Machalalel: vedi soltanto la lupa che si cela oltre questa apparenza, e questo è quello che ti lega a me. È di te stesso che non puoi fidarti, mio caro Pelorus, perché quella volontà sventurata ti domina, allontanandoti sempre da quello che sei e dalle tue vere necessità. — Con il più seducente dei suoi sorrisi umani, soggiunse, lasciando la frase incompiuta: — Se soltanto tu potessi abbandonarti a me... — Mi fraintendi. Sei tu che dovresti sforzarti di essere diversa. So che non puoi farlo, perché sei troppo lupa e troppo donna, e non sei abbastanza filosofa. Eppure, tu sei immortale, Mandorla: non si può sapere quali imprese potresti compiere, con la devozione e con la sincerità. Non so se tu abbia ragione o meno nel credere tanto appassionatamente che la tua unica salvezza consiste nel tornare ad essere null'altro che una lupa, però credo che non puoi e non potrai mai essere soltanto una lupa, ora che sei stata una donna. Quindi dovresti accettare questa condizione, anche se non puoi imparare ad apprezzarla. Vi sono cose di gran lunga peggiori che essere umani. Non intendo certo sostenere che per un vero lupo sarebbe meglio essere un uomo, eppure insisto che un licantropo deve accettare la parte umana di se stesso al pari della propria parte lupesca. Gli uomini non ti sono nemici, Mandorla: è sbagliato da parte tua, oltre che assurdo, desiderare la distruzione di tutto il loro mondo. Senza che egli la credesse minimamente sincera, Mandorla lo guardò con ogni apparenza di compassione e di preoccupazione: — Povero Pelorus! Non sei lupo, non sei uomo, ma sei... filosofo! D'altronde, cos'altro puoi amare se non i sofismi, giacché non vuoi unirti alla tua razza e non puoi amare come un uomo? Persino quella sorta di gioco amoroso che io posso fare con i maschi umani procura un poco di piacere. Per te, invece, non c'è nulla: assolutamente nulla, tranne la logica tormentosa del celibato... — S'interruppe di nuovo, curvandosi innanzi, e mostrò i denti perlacei in un sogghigno beffardo, che sarebbe stato una tentazione giocosa, se fosse stata in forma di lupa, ma che sul suo volto umano non poté apparire che come una parodia sarcastica. D'improvviso, Pelorus domandò: — Che cos'hai visto, quando il Ragno ha acconsentito a sognare il sogno di Tallentyre, anziché l'incubo di Harkender? Nell'addossarsi al sedile, Mandorla socchiuse gli occhi: — Tu eri là. Inoltre, so che hai incontrato Lydyard, il quale ti ha raccontato quello che
ha visto. Credi che io mi sia coperta gli occhi? — No — mormorò Pelorus. — Però esistono diverse forme di cecità, e io mi chiedo se tu abbia visto davvero quello che c'era da vedere. Il Ragno ha visto, vero? Ma Harkender, anche se era sognatore e parte del sogno, ha visto soltanto una fine e un abbandono, la frustrazione del suo odio e della sua avversione. Ebbene, mi chiedo se tu abbia visto più di questo... Brevemente, Mandorla ribatté: — Harkender è morto. — E tu non puoi morire. Tuttavia, ciò non risponde alla domanda. — Non ho visto nulla che possa cancellare l'inimicizia e il disprezzo che provo per l'umanità — dichiarò tetramente Mandorla. — Ho visto una battaglia perduta nel corso di una guerra lunga e spietata. Nondimeno, vi saranno altre battaglie. E io non so se la speranza di Tallentyre per l'universo possa ispirare maggiore fiducia, o se sia meno infernale, dei terrori morbosi di Harkender. Che cosa ci dice, dopotutto, se non che ognuno di noi non è altro che un granello di sabbia, del tutto insignificante? Forse a te piace sognare un sogno del genere, ma tu sei un filosofo, mentre io sono una lupa. Io conosco la gioia, che non potrà mai essere conosciuta né da sir Edward Tallentyre né dalla Sfinge, la quale avrebbe potuto assumere forma lupesca, e invece ha assunto forma umana. — Se è tornata al suo Creatore, a dormire nelle sabbie senza tempo, avrà almeno pace e pazienza. — Non è così. Ha ancora una forma umana, quasi tanto incantevole e seducente quanto la mia, e altrettanto falsa. Sta navigando verso l'America con quel burattino del suo Adam. Ha concepito la strana ambizione di conoscere più intimamente il mondo, e poiché ha acconsentito a liberare il tuo debole e volubile amico, dovrà trovare altri strumenti per il proprio scopo. Non ho affatto rinunciato alla speranza, per quanto concerne il suo futuro, giacché so già che cosa le insegnerà alla fine la sua forma attuale sulla bruttezza e la cattiveria degli uomini. Un giorno, mio caro Pelorus, i suoi pensieri ritorneranno sicuramente alla creazione dell'Inferno. E allora, forse, vi sarà modo di trattare con essa. — Ho maggior fiducia nel suo discernimento, perché so molto meglio di te che cosa ha visto e che cosa ha compreso. Mandorla scosse la testa: — Un giorno, forse — disse allegramente — tornerò a cercare David Lydyard. Potrebbe essere interessante rivaleggiare con la bella Cordelia, tanto per scoprire quanto è risoluto, in realtà, il suo amore per lei. Non gli nuocerei per nulla al mondo, ma se mi ci mettessi con tutto l'impegno di cui sono capace, forse potrei donargli una fugace vi-
sione della gioia. — E nel frattempo troverai senza dubbio un uomo più ricco, con una casa bella e comoda, e dirai a te stessa che anche se disprezzi il piacere che gli umani traggono dalla lussuria, devi pur sempre respirare e provvedere alla sicurezza del branco, e prepararti al prossimo piano folle che s'impadronirà di te. E di quando in quando mi scriverai, per invitarmi ad unirmi a te, e partecipare ai tuoi divertimenti. E una volta ogni tanto io accoglierò il tuo invito, per rivedere i miei fratelli e le mie sorelle, e discutere con te come stiamo facendo adesso. In tasca, però, avrò la mia rivoltella, e anche se la mia vista sarà forse annebbiata dall'affetto, non mi consegnerò mai al tuo potere: assolutamente mai. Si otterrebbe senza dubbio la pace, dormendo per sempre, ma in questo sonno non vi sarebbero sogni, e persino tu, che non senti la volontà di Machalalel, o che non vi presti ascolto, sei sempre avida di ritornare alla veglia colma di speranza, e a tutte le lotte, le tensioni, le angosce del mondo: dopotutto, non siamo angeli. — Non siamo angeli, perché siamo lupi. — Purtroppo, non siamo più lupi. Siamo soltanto i licantropi di Londra, che non hanno un posto adeguato nell'esistenza e nella cultura, e non possono crearsene uno, per quanto si sforzino di tentare. — Però, non importa quando e come arriverà — suggerì maliziosamente Mandorla — noi vivremo per vedere la fine, a differenza di Tallentyre. — Adesso sono certo che non hai veramente visto quello che ha veduto Tallentyre — ribatté Pelorus. — Perché se tu lo avessi visto, capiresti che il trionfo e la gioia di Tallentyre consistono nel fatto che non ha più bisogno di vedere la fine, di quanto abbia bisogno di rammentare l'inizio. Nel mondo che lui vede, infatti, non possono esservi vestigia di ogni inizio percettibile, né prospettive di ogni fine significativa. E questo è il modo migliore di vedere, Mandorla: questo è il modo migliore. Naturalmente, Mandorla Soulier non credette a Pelorus: nel proprio cuore, era una lupa, e sognava l'Età dell'Oro, quando il mondo era luminoso, e l'oscurità fra le stelle non era affatto infinita. Epilogo La Consolazione dei Sogni Gradevoli Tutto quel che è possibile di credere è un'immagine della verità. William Blake, Proverbi dell'Inferno»
1 Oggi, un uomo di nome David Lydyard è venuto a portarci la notizia che il mondo non finirà tra breve tempo. Crede con tutto il suo cuore che questa notizia, se è vera, sia buona. È arrivato al punto di suggerire che quello in cui crediamo è sbagliato, ma è stato estremamente gentile e cortese, niente affatto tronfio e sprezzante come altri visitatori. Crede in tutta sincerità di avere avuto una visione di Dio più vera di quella che abbiamo scelto come nostra guida, e di aver combattuto contro gli angeli caduti. Come m'imponeva il dovere, gli ho detto: — Si guardi dal peccato della superbia intellettuale, che la induce con la tentazione ad allontanarsi dal sentiero della fede. Può darsi che la fine destinata ancora non sia prossima, eppure verrà, e il ritorno di Gesù Cristo, che è Dio fatto uomo, è l'unica vera speranza dell'umanità. Non senza sincero rammarico, il signor Lydyard ha risposto di non poterlo credere. Ho cercato, com'era mio dovere, di dissipare i suoi dubbi e di condurlo dall'incertezza dell'eresia alla sicurezza della fede. Gli ho spiegato che il macrocosmo che è l'universo e che il microcosmo che è l'uomo sono una sola cosa, e che il palpitare del Cuore Divino è il palpitare del cuore umano, e che Gesù Cristo, il nostro unico e solo salvatore, è Iddio nell'uomo: la speranza incarnata. — Durante la mia prima visita — ha dichiarato il signor Lydyard — lei mi rammentò che il vedere è un processo attivo, e che la nostra vista non è semplicemente uno specchio in cui si riflette passivamente il mondo: è la mente che vede, mentre l'occhio è soltanto il suo strumento. Una vista limpida richiede un'intelligenza limpida, e nonostante il rispetto che abbiamo per l'autorità della tradizione, dobbiamo riconoscere che ora gli uomini vedono più limpidamente che mai prima il mondo qual è in realtà. E in futuro lo vedranno con chiarezza ancora maggiore. La prossima volta che questi Creatori ciechi ed ottusi si desteranno dal loro sonno, non si manifesteranno più come echi degli idoli dimenticati o dei mostri degli incubi, perché l'immaginazione delle generazioni future si sarà sbarazzata di simili fanciullaggini. L'epoca dei Ragni e delle Sfingi è ormai quasi conclusa, e io sono certo, in cuor mio, che voi avete aspettato troppo a lungo l'apocalisse e la creazione magica del Paradiso. Non vi sarà la fine del mondo, ora, padre, e il Paradiso sarà creato sulla Terra in forma umana, mediante l'opera
della mano e della mente. Altri, nel mondo d'oggi, sostengono cose del genere: costui ha parlato per molti, i quali si ritengono saggi. Tuttavia, i saggi autentici ripongono la loro fede nella profezia, e non nel progresso. Secondo David Lydyard, e secondo coloro che condividono il suo punto di vista, questo convento è anacronistico, ancorato a un passato già defunto, e orientato verso un futuro obsoleto. Ma noi abbiamo il nostro punto di vista e la nostra limpida intelligenza. Sappiamo che genere di mondo è quello che si stende oltre i nostri cancelli: ne conosciamo lo squallore e la miseria, la sporcizia e la desolazione, la follia e le guerre. David Lydyard e coloro che condividono il suo punto di vista credono che il mondo stia migliorando, però la loro convinzione è fondata sulle comodità, che sono godute soltanto da una piccola minoranza della popolazione mondiale, e che, come tutte le comodità, servono a rendere cieca la minoranza alle sofferenze della massa dell'umanità. Coloro che hanno visto veramente, sanno bene che il mondo non sta migliorando, bensì peggiorando, almeno per la grande maggioranza di coloro che vivono in esso, e che non ha ancora sperimentato gli estremi della guerra e della carestia, della pestilenza e della morte. Non si può dubitare delle visioni che la via del dolore ha concesso al nostro ordine: abbiamo visto i campi di battaglia in cui eserciti immensi si scontreranno e si massacreranno nel fango e nel filo spinato; abbiamo visto le legioni della distruzione volare nel vento come aquile di ferro, riversando fuoco e morte sulle città; abbiamo visto l'avvelenamento dei fiumi e dei mari; abbiamo visto l'olocausto. Conosciamo tutto questo, e siamo obbligati a mantenere il segreto con coloro che conoscono soltanto la speranza e la fede. Il culmine della distruzione non è ancora arrivato, e non potrà essere impedito dai miseri sforzi dell'umanità. Secondo David Lydyard, l'apocalisse non potrà mai avvenire, tuttavia noi sappiamo che è già incominciata. Secondo lui, il mondo non sarà distrutto, bensì ricostruito come Paradiso dagli sforzi della mano umana e delle sue macchine, tuttavia noi sappiamo che l'opera della mano e della macchina è distruzione, e che quando gli uomini vedranno finalmente come le loro opere hanno provocato la fine del mondo che amavano, allora si volgeranno all'unico redentore possibile, che è Iddio fatto uomo. Questa è la nostra speranza: l'unica speranza che il mondo abbia veramente.
Zefirino, Diario del Convento Inglese dell'Ordine di Sant'Amycus. 2 Se cerchiamo di comprendere la storia come deve essere compresa, non è affatto sufficiente conoscere quali eventi sono accaduti, e quando. Non possiamo affermare di capire le Crociate se conosciamo soltanto i nomi dei crociati, i luoghi in cui hanno combattuto le loro battaglie, e quanti di loro sono morti. Possiamo affermare di capire le Crociate soltanto quando sappiamo come mai e in seguito a quali circostanze quei guerrieri si definirono «crociati», perché giudicarono desiderabile e necessario intraprendere quelle spedizioni, e perché ritennero che fosse giusto e doveroso combattere quelle battaglie e rischiare la morte. Per questa ragione, la storia non dovrebbe essere definita una scienza. Oppure, se tale la si vuole definire, occorre considerarla una scienza molto diversa dalla chimica o dalla fisica. Gli eventi studiati dagli scienziati possono e debbono essere osservati soltanto dall'esterno: quel che abbiamo necessità di sapere su di essi, sono le leggi e le condizioni che li determinano, la loro frequenza e la loro periodicità, le forze che li cagionano. Questo è quello che s'intende con «comprensione» nella filosofia naturale. Gli eventi studiati dagli storici, invece, possono essere compresi soltanto dall'interno, secondo le credenze, i desideri e le paure degli uomini che li provocarono. Purtroppo, non disponiamo di nessun modo certo di conoscere neppure le credenze, i desideri e le paure di coloro fra i quali viviamo. Possiamo conoscere quello che dicono e quello che scrivono, e in base alle loro azioni possiamo giudicare, in parte, che genere di uomini sono. Tuttavia, una cosa che sappiamo per certo sul conto degli uomini è che sono tutti bugiardi e ingannatori, e che non rivelano mai veramente i loro sentimenti e i loro pensieri, neppure a coloro che li conoscono meglio. Per essere onesti con noi stessi, dobbiamo riconoscere che mentiamo molto spesso, con convinzione e in modo persuasivo, a coloro ai quali siamo più decisi a non nuocere, e che puntelliamo tali menzogne proclamando con il massimo vigore che non mentiremmo mai a coloro che amiamo tanto. Per essere onesti con noi stessi, dobbiamo ammettere inoltre che non conosciamo del tutto noi stessi, e che spesso agiamo senza sapere quali sono le ragioni vere delle nostre azioni. In seguito escogitiamo giustificazioni sia per blandire la nostra coscienza, sia per blandire gli altri uo-
mini, in modo da apparire più virtuosi e più razionali di quanto siamo in realtà. E se riconosciamo tutto questo, ci rendiamo conto che l'opera dello storico, la quale consiste nel comprendere le credenze non scritte, i desideri inespressi e le paure represse che senza dubbio condizionarono ogni pensiero degli uomini del passato, nonché ogni loro decisione, è tale da consentire soltanto l'ipotesi: mai la certezza. Da tutto ciò, però, non possiamo concludere che l'indagine storica sia pressoché impossibile, e che debba essere dunque abbandonata: al contrario, è estremamente necessaria. Se non avessimo modo di comprendere, e comprendere veramente, quello che gli altri uomini hanno creduto, pensato e sentito, allora la vita sociale sarebbe impossibile. La storia è necessaria affinché possa esservi progresso. Dobbiamo comprendere le menti umane per poter essere uomini noi stessi. Dunque la storia è possibile anche in assenza della certezza: la comprensione è possibile, nonostante la presenza perenne dell'inganno. Nondimeno, il successo dello storico è un successo dell'immaginazione, e non del metodo scientifico: è un'opera di creazione, oltre che di indagine. Tutta la storia, inclusa la più veritiera e la più rigorosa, è una sorta di fantasia. Ogni comprensione del passato è basata sulla nostra comprensione del presente, e il passato compreso è qualcosa che inventiamo, con l'ausilio delle reliquie, come i reperti archeologici e le fonti scritte: non è un testo in attesa di essere scoperto, decifrato e studiato. La moltitudine d'inganni, d'illusioni e di fraintendimenti del presente, contiene un'infinità di passati possibili: passati fantastici e arcani, passati perduti, passati mai esistiti. Il passato nel quale concordiamo di credere non è necessariamente il migliore, né quello che i nostri discendenti riconosceranno. Tutta la storia è una sorta di fantasia: dobbiamo riconoscerlo. Tuttavia, ciò non significa sminuire la storia ai nostri occhi, poiché la storia mantiene l'importanza vitale che ha sempre avuto. Comunque, ciò modifica necessariamente la nostra concezione di quello che la storia è, e può essere. In base alla stessa ragione per la quale tutta la storia è una sorta di fantasia, d'altronde, tutta la fantasia è a suo modo una sorta di storia. Dobbiamo costruire tutto quello che inventiamo sulle fondamenta di quello che sappiamo delle speranze e delle paure, dei desideri e delle ambizioni degli uomini. Ogni fantasia riflette queste conoscenze, proprio come ogni conoscenza partecipa della fantasia. Ecco perché non dovremmo disprezzare in alcun modo le storie immaginarie del passato: esse, infatti, possono aiutarci a comprendere quello che siamo e quello che possiamo diventare. Forse
possono aiutarci a comprendere noi stessi persino meglio della storia nella quale conveniamo di credere. Sir Edward Tallentyre, «Nuove riflessioni sulla Storia della civiltà in Inghilterra, di Henry Thomas Buckle», The Quarterly Review, Settembre 1873. 3 Carissima Cordelia, ho avuto un sogno, la notte scorsa, prima di dovermi alzare e andarmene. In sogno, sono tornato ancora una volta in quell'Inferno in cui Satana è prigioniero. Ho rivisto il suo bel viso e il suo occhio piangente. Ho provato ancora una volta lo strazio dei chiodi immensi che lo configgono al suolo igneo, e l'indegnità di quella pioggia di sangue che cade sul suo corpo dorato. Per un attimo, ho pensato che nulla fosse cambiato, e subito sono stato pervaso da un'avversione terribile, la quale mi ha suggerito che la possibilità del mutamento non esiste, che nulla cambierà mai, e che il futuro non sarà null'altro che il proseguimento del passato, con le aquile del furore vendicativo che si tuffano in eterno dal cielo a strappare e divorare le carni e il cuore di ogni uomo vivente. Ho guardato la Terra penzolante dalla volta del cielo, seminascosta dalla grande nube grigia della lotta e della desolazione, e ho pianto per quella redenzione che non potrà mai giungere. Ma poi ho visto te: ti ho vista sporgerti con la mano destra, afferrare il braccio libero di Satana, e sollevarlo, mentre, con la mano sinistra, bloccavi la Terra tormentata, e poi unire le mani, affinché il tocco di Satana potesse finalmente risanare la Terra. Quando ho alzato di nuovo lo sguardo, la pioggia di sangue stava scemando e il cielo era deserto. E quando mi sono destato, ho scoperto di essere con te, e ti ho vista sorridere nel sonno. Non mi occorre l'aiuto di Austen per interpretare questo sogno. Come dicono tutti i sogni veritieri a coloro che sanno ascoltare, esso suggerisce con estrema chiarezza che possiamo essere noi stessi a liberarci dal male: dobbiamo soltanto avere il cuore e la mente per tentare. Ritornerò al più presto possibile.
Ti amo, David. FINE