ÅSA LARSSON IL SANGUE VERSATO (Det Blod Som Spillts, 2004) Perché ecco, il Signore esce dalla sua dimora per punire le o...
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ÅSA LARSSON IL SANGUE VERSATO (Det Blod Som Spillts, 2004) Perché ecco, il Signore esce dalla sua dimora per punire le offese fatte a lui dagli abitanti della terra; e la terra ributterà fuori il sangue versato e più non coprirà i suoi cadaveri. Isaia, 26, 21 Sarà cancellata la vostra alleanza con la morte; la vostra lega con gli inferi non reggerà. Quando passerà il flagello del distruttore voi sarete la massa da lui calpestata. Ogni volta che passerà vi prenderà, poiché passerà ogni mattino, giorno e notte. E solo il terrore farà capire il discorso. Isaia, 28, 18-19 Mercoledì 21 giugno Sono sul divano della cucina. Non riesco a dormire. In questa stagione le notti sono chiare e non danno pace. L'orologio a pendolo tra poco batterà l'una. Nel silenzio, il suo ticchettio diventa sempre più sonoro. Fa a pezzi ogni frase. Ogni tentativo di pensiero ragionevole. Sul tavolo c'è la lettera di quella donna. Resta giù, mi dico. Resta giù e dormi. Mi viene in mente Traja, una femmina di pointer che avevamo da bambini. Non riusciva mai a stare ferma, andava avanti e indietro per la cucina come un'anima in pena, con le unghie che ticchettavano sul pavimento di legno. Nei primi mesi la tenevamo in gabbia per costringerla a stare ferma. La casa risuonava perennemente di ordini: «Seduta!», «Ferma!», «A terra!» Ora è esattamente la stessa cosa. Nel mio cuore c'è un cane che vuole balzare in piedi a ogni ticchettio del pendolo. A ogni mio respiro. Ma non è Traja. Lei voleva solo correre in giro. Sfogare la sua smania di movimen-
to. Questo cane gira la testa dall'altra parte quando cerco di guardarlo. È pieno di cattive intenzioni. Devo cercare di addormentarmi. Qualcuno dovrebbe chiudermi in gabbia. Mi alzo e guardo fuori dalla finestra. È l'una e un quarto, ma è chiaro come in pieno giorno. Le ombre dei vecchi pini sul confine della proprietà si allungano verso la casa. Mi sembrano tante braccia tese. Mani che si protendono verso di me dalle loro tombe senza pace. La lettera è lì sul tavolo della cucina. Scendo in cantina. È l'una e trentacinque. Il cane che non è Traja corre libero ai margini della mia ragione. Cerco di chiamarlo. Non ho voglia di rincorrerlo in quelle lande desolate. Ho la testa vuota. Le mie mani prendono diversi attrezzi dalle pareti. Cosa ci devo fare? La mazza. Il piede di porco. La catena. Il martello. Le mani mettono tutto nel bagagliaio della macchina. È come un puzzle. Non riesco a vedere cosa rappresenta. Mi siedo in macchina e aspetto. Penso alla donna e alla sua lettera. È colpa sua. È stata lei a farmi perdere la ragione. Sto guidando. C'è un orologio sul cruscotto. Tratti perpendicolari senza significato. La strada porta fuori dal tempo. Le mani stringono il volante talmente forte che mi fanno male le dita. Se vado a sbattere, dovranno segare via il volante e seppellirlo con me. Ma non succederà. Fermo la macchina a cento metri dal punto in cui la donna ormeggia la barca. Mi avvicino al fiume che aspetta fermo e placido. Sciaborda debolmente sotto il fondo della barca. Il sole di mezzanotte danza sulle increspature lasciate da una trota salita in superficie a mangiare larve. Le zanzare mi fioccano attorno. Mi ronzano accanto alle orecchie. Mi atterrano sul collo e attorno agli occhi e mi succhiano il sangue. Non ci faccio caso. Un rumore mi fa voltare. È lei. A non più di dieci metri da me. La sua bocca si apre e formula delle parole. Ma non sento niente. Mi si sono chiuse le orecchie. I suoi occhi si assottigliano. Si accendono di irritazione. Faccio due incerti passi in avanti. Non so ancora cosa voglio. Sono nella terra di nessuno, al di fuori della ragione. Ora si accorge del piede di porco che ho in mano. La bocca smette di muoversi. Gli occhi stretti tornano ad allargarsi. Un secondo di stupore.
Poi la paura. Anch'io mi accorgo del piede di porco. La mia mano sbianca per la stretta. E all'improvviso il cane è di ritorno. Enorme. Le zampe come zoccoli di cavallo. Il pelo dritto dal collo alla coda. I denti scoperti. Mi inghiottirà in un solo boccone. E poi divorerà la donna. Le sono accanto. Guarda il piede di porco come stregata, perciò il primo colpo la raggiunge alla tempia. Mi inginocchio accanto a lei e appoggio la guancia alla sua bocca. Un alito caldo sulla pelle. Non ho ancora finito. Il cane si getta come un folle su tutto ciò che trova sulla sua strada. Gli artigli aprono grandi ferite sul terreno. Vaneggio. Corro ai margini della follia. Poi oltrepasso il confine. * La sacrestana Pia Svonni è uscita in giardino a fumare. Di solito tiene la sigaretta come fanno le signore, tra l'indice e il medio. Ma ora stringe il mozzicone tra il pollice e la punta delle altre due dita. C'è una bella differenza. Dipende dal giorno di mezza estate. La gente diventa irrequieta. Non riesce a dormire. Non ne ha nemmeno bisogno. La notte bisbiglia e attira a sé, perciò si è costretti a uscire. Le fate dei boschi si infilano ai piedi scarpette nuove di tenera corteccia di betulla. È un vero e proprio concorso di bellezza. Danzano e sfilano sui prati dimentiche di se stesse, anche se potrebbe passare qualche macchina. Consumano le scarpette sotto gli occhi spalancati del piccolo popolo nascosto tra gli alberi. Pia Svonni spegne la sigaretta sul fondo del vaso rovesciato che funge da portacenere e getta il mozzicone nel buco. All'improvviso le viene voglia di scendere in bicicletta alla chiesa di Jukkasjärvi. Domani mattina ci sarà un matrimonio. Ha già pulito e sistemato tutto, ma ora le viene in mente di raccogliere un grosso mazzo di fiori da posare sull'altare. Farà una passeggiata nel prato dietro il cimitero. Ci crescono bottoni d'oro, ranuncoli e gerani selvatici in una nuvola bianca di cerfoglio selvatico. E nontiscordardimé ai bordi del sentiero. Si infila in tasca il cellulare e si allaccia le scarpe da ginnastica. Il sole di mezzanotte illumina il cortile. Sotto la luce fievole che colpisce lo steccato, le lunghe ombre dei paletti trasformano il prato in un tappeto a righe verde chiaro e verde scuro. Uno stormo di tordi fa un gran baccano
su una betulla. La strada per Jukkasjärvi è una lunga discesa. Pia pedala a più non posso. Va a una velocità spaventosa. E non ha il casco. I capelli le volano all'indietro. È come quando aveva quattro anni e andava in piedi sull'altalena finché le sembrava di doversi ribaltare. Attraversa Kauppinen, dove alcuni cavalli la osservano dal loro pascolo. Mentre attraversa il ponte sul Torneälven vede due ragazzini che pescano con la mosca un po' più a valle. La strada corre parallela al fiume. Il paese dorme. Supera l'ufficio turistico e la locanda, la vecchia cooperativa e l'orribile casa del popolo. Le pareti di legno grigiastro del museo del folclore e i veli di nebbia mattutina sul prato chiuso dalla siepe. In fondo al paese, alla fine della strada, c'è la chiesa di legno rosso. Il tetto di scandole manda odore di pece. Il campanile è inserito nella staccionata. Per entrare in chiesa bisogna attraversarlo e percorrere un sentiero lastricato che taglia un piccolo cortile. La porta blu del campanile è spalancata. Pia scende dalla bicicletta e la appoggia allo steccato. Dovrebbe essere chiusa, si dice dirigendosi lentamente verso l'ingresso. Qualcosa fruscia tra le betulle alla destra del vialetto che porta alla canonica. Si ferma ad ascoltare con il cuore in gola. Era solo un leggero fruscio. Sicuramente uno scoiattolo o un'arvicola. Anche la porta posteriore del campanile è aperta. E dalla soglia vede che lo è pure quella della chiesa. Ora il cuore inizia a batterle forte. Sune avrebbe potuto dimenticare di chiudere la porta del campanile, se avesse fatto bisboccia per festeggiare la notte di mezza estate. Ma non quella della chiesa. Il pensiero le corre alla banda di ragazzini che aveva sfondato le finestre della chiesa di Kiruna per lanciare dentro degli stracci incendiati. Era successo un paio d'anni prima. E questa volta cosa avrebbe trovato? Immagini sparse le si affollano alla mente. La pala d'altare imbrattata di urina e vernice spray. Lunghi segni di coltello sui banchi appena riverniciati. Quella volta probabilmente erano entrati da una finestra e poi avevano aperto la porta dall'interno. Si dirige verso l'ingresso della chiesa. Cammina lentamente, con le orecchie tese. Com'è possibile che si sia arrivati a quel punto? I ragazzini dovrebbero passare il tempo a pensare alle ragazzine e a truccare i motorini. Com'è possibile che si mettano a dare fuoco alle chiese e a picchiare gli
omosessuali? Attraversa l'atrio e si ferma sotto la balconata dell'organo, dove il soffitto è così basso che le persone più alte devono chinare la testa. La chiesa è buia e silenziosa, ma tutto sembra in ordine. Cristo, il predicatore Laestadius e la piccola lappone Maria risplendono intatti dalla pala d'altare. Eppure c'è qualcosa che la fa esitare. Qualcosa non è come dovrebbe essere. Ci sono ottantasei cadaveri sotto il pavimento. Di solito non ci pensa. Riposano in pace nelle loro tombe. Ma ora sente la loro inquietudine salire attraverso il pavimento e trafiggerle le piante dei piedi come tanti chiodi. Cosa c'è che non va?, si chiede. La navata è coperta da un tappeto rosso. Proprio dove il soffitto si alza, alla fine della balconata dell'organo, c'è qualcosa sul tappeto. Si china a guardare. Una pietra, è la prima cosa che pensa. Una scheggia di pietra bianca. La prende tra il pollice e l'indice e si dirige verso la sacrestia. Ma la porta della sacrestia è chiusa e Pia si volta per tornare da dove è venuta. Da quel punto si vede la parte inferiore dell'organo. È quasi completamente nascosto da un divisorio in legno che attraversa tutta la chiesa dal tetto a un terzo della sua altezza. Ma la parte inferiore è scoperta. E si vedono due piedi che pendono dalla balconata. Il suo primo pensiero è che qualcuno sia entrato in chiesa per impiccarsi. E per un attimo quell'idea la fa infuriare. La sente come una mancanza di riguardo. Poi non pensa più niente. Percorre di corsa la navata e una volta superato il divisorio vede il corpo appeso davanti alle canne dell'organo e al simbolo lappone del sole. È appeso a una corda, no, non è una corda, è una catena. Una lunga catena di ferro. Poi vede le macchie scure sul tappeto nel punto in cui ha raccolto la scheggia di pietra. Sangue. Può essere davvero sangue? Si china a guardare meglio. E allora capisce. La pietra che tiene ancora tra il pollice e l'indice non è affatto una pietra. È la scheggia di un dente. Pia è in piedi. Le dita lasciano cadere la scheggia bianca, quasi la lanciano via. La mano estrae il cellulare dalla tasca. Compone l'uno uno due. Ora all'altro capo del filo c'è un ragazzo che sembra dannatamente giovane. Mentre risponde alle sue domande, scuote la porta della balconata
dell'organo. È chiusa. «È chiusa» gli dice. «Non posso salire.» Torna di corsa in sacrestia. Niente chiavi. Riuscirà a sfondare la porta? Con che cosa? Il ragazzo al telefono grida per attirare la sua attenzione. Le dice di aspettare fuori. Sta arrivando aiuto, le promette. «È Mildred» strilla la donna. «È Mildred Nilsson che è appesa lassù. È il pastore. Dio, com'è conciata!» Il ragazzo al telefono la fa uscire in cortile. Lei gli dice che non si vede nessuno. «Non riattacchi» le dice. «Resti al telefono. Sta arrivando gente. Non deve tornare in chiesa.» «Posso accendermi una sigaretta?» Le dice di sì. Può anche appoggiare il telefono da qualche parte. Si siede sugli scalini dell'ingresso, con il telefono accanto. Fuma e si stupisce di quanto si senta calma e controllata. Ma la sigaretta brucia male. Alla fine si accorge che l'ha accesa dalla parte del filtro. Dopo sette minuti sente le sirene in lontananza. L'hanno fatta fuori, pensa. E allora iniziano a tremarle le mani. La sigaretta le cade. Quei bastardi. L'hanno fatta fuori. Venerdì 1 settembre Rebecka Martinsson scese dal taxi marino e alzò gli occhi verso la villa di Lidö. Il sole pomeridiano sulla facciata giallo pallido con gli infissi bianchi. Il grande cortile pieno di gente. Alcuni gabbiani stridevano da qualche parte sopra la sua testa. Ostinati e irritanti. Come fate, si disse. Diede al pilota una mancia troppo alta. Una sorta di compensazione per avere risposto a monosillabi a tutti i suoi tentativi di attaccare discorso. «Ah, c'è festa grande» disse il pilota con un cenno del capo verso l'albergo. Lo studio legale era riunito al completo. Quasi duecento persone che socializzavano. Parlavano a gruppi. Si staccavano e riprendevano a vagare. Strette di mano e baci sulla guancia. Nel cortile dell'albergo è allineata una lunga fila di griglie. Alcuni camerieri vestiti di bianco allestivano un buffet su un lungo tavolo coperto da una tovaglia di lino, facendo la spola tra la
cucina e il tavolo come ridicoli topolini bianchi con alti cappelli da cuoco. «Già» rispose Rebecka infilandosi in spalla la borsa in similcoccodrillo. «Ma si sopravvive anche a cose peggiori.» L'uomo rise e partì sollevando la prua dall'acqua. Un gatto nero saltò giù silenziosamente dal pontile e sparì nell'erba alta. Rebecka si incamminò. L'isola era affaticata dall'estate. Calpestata, secca e sciupata. Quanta gente ci è passata, pensò. Famiglie con bambini e le loro coperte da pic-nic, velisti ubriachi e benvestiti. L'erba era secca e ingiallita. Gli alberi polverosi, assetati. Riusciva a immaginare come doveva essere ridotto il bosco. Sotto i cespugli di mirtilli e le felci dovevano esserci bottiglie, lattine, preservativi usati e feci umane a bizzeffe. Il sentiero che portava all'albergo era duro e secco come cemento. Come la schiena squamosa di un lucertolone preistorico. Anche lei era una lucertola. Appena scesa dalla sua astronave. Travestita da essere umano per superare la prova del fuoco. Imitare il comportamento umano. Guardarsi attorno e fare più o meno le stesse cose degli altri. Sperando che il travestimento non si aprisse sul collo. Era quasi arrivata al cortile. Coraggio, si disse. Ce la puoi fare. Dopo aver ucciso quegli uomini a Kiruna, aveva continuato a lavorare per lo studio legale Meijer & Ditzinger. È andata bene, si era detta in un primo momento. In realtà era andato tutto a rotoli. Non pensava al sangue e ai cadaveri. In realtà non pensava affatto. Era convinta di lavorare. Ma alla fine si limitava a spostare carte da una pila all'altra. Dormiva male. Ed era diventata assente. La mattina le ci voleva un'eternità anche solo per prepararsi per andare al lavoro. La catastrofe l'aveva assalita alle spalle. Non aveva fatto in tempo a vederla se non quando le era ormai addosso. Era successo durante una semplice operazione di m&a. Il cliente aveva chiesto quale fosse il preavviso per annullare un contratto di affitto di un fabbricato. E lei aveva risposto a vanvera. Aveva la cartelletta con tutti i contratti sotto il naso, ma non aveva capito cosa c'era scritto. Il cliente, una ditta di spedizioni francese, aveva chiesto i danni allo studio. Si ricordava come l'aveva guardata Måns Wenngren, il suo capo. Paonazzo in volto dietro la scrivania. Rebecka aveva cercato di dare le dimissioni, ma lui non le aveva accettate. «Lo studio ci farebbe una pessima figura» aveva detto. «Tutti credereb-
bero che ti abbiamo invitata ad andartene. Che abbandoniamo un collaboratore psicologicamente... che non sta bene.» Aveva lasciato lo studio il pomeriggio stesso. E quando si era ritrovata sulla Birger Jarlsgatan nel buio autunnale, con le luci delle macchine costose che le sfrecciavano accanto tra le vetrine addobbate con gusto e i locali di Stureplan, era stata sopraffatta dalla sensazione che non avrebbe mai avuto la forza di tornare da Meijer & Ditzinger. Aveva desiderato andare il più lontano possibile. Ma non aveva potuto farlo. Si era messa in malattia. Prima una settimana per volta. Poi di mese in mese. Il medico le aveva detto di fare quello che le piaceva. Se c'era qualcosa che le piaceva nel suo lavoro, doveva continuare a farlo. Dopo Kiruna lo studio aveva allargato il suo giro d'affari nel campo penale. È vero che né il suo nome né la sua fotografia erano mai apparsi sui giornali, ma lo studio era stato citato spesso. E questo aveva dato i suoi frutti. La gente chiamava e diceva di volere "quella ragazza di Kiruna" per la difesa. La risposta standard era che lo studio poteva mettere a disposizione un penalista più esperto, e che la "ragazza" gli avrebbe fatto da assistente. In quel modo avevano messo un piede nei grandi processi seguiti dai media, al momento due violenze di gruppo, un omicidio a scopo di rapina e una complicata storia di corruzione. I soci le proposero di partecipare ai processi anche mentre era in malattia. Non capitava poi tanto spesso, ed era un modo come un altro per non perdere del tutto il contatto con il lavoro. Senza contare che non aveva bisogno di prepararsi. Bastava che andasse là a sedersi a fianco dell'altro avvocato. Ma solo se ne aveva voglia, naturalmente. Aveva accettato perché pensava di non avere scelta. Aveva screditato lo studio, l'aveva esposto a una richiesta di danni e gli aveva fatto perdere un cliente. Non poteva dire di no. Era in debito nei loro confronti, perciò si limitò a sorridere e annuire. Almeno quando doveva andare in tribunale si alzava dal letto. In genere i primi sguardi della giuria e del giudice erano per gli imputati, ma adesso era lei la grande attrazione del circo. Teneva gli occhi fissi sul tavolo davanti a sé e lasciava che la guardassero. Delinquenti, giudici, pubblici ministeri, giurati. Poteva quasi sentire cosa pensavano: «Allora è lei...» Era arrivata al cortile della villa. Lì l'erba era verde e rigogliosa. Gli spruzzatori dovevano aver funzionato a pieno regime per tutta l'estate. Le ultime rose selvatiche dell'anno emanavano una scia di profumo che seguiva la brezza serale verso l'interno dell'isola. L'aria era piacevolmente calda.
Le donne più giovani indossavano abiti di lino smanicati, quelle più mature nascondevano le braccia in sottili tuniche di cotone di iBlues e Max Mara. Gli uomini avevano lasciato a casa le cravatte e correvano avanti e indietro nei loro pantaloni Gant per portare da bere alle signore. Di tanto in tanto davano un'occhiata allo strato di brace sotto le griglie e scambiavano due chiacchiere con il personale affettando un'aria alla mano. Cercò tra la folla. Niente Maria Taube. Niente Måns Wenngren. All'improvviso le andò incontro uno dei soci, Erik Rydén. Vai con il sorriso. «È lei?» Petra Wilhelmsson osservò Rebecka Martinsson risalire il sentiero che portava alla villa. Petra era stata assunta da poco. Era appoggiata al parapetto della veranda, tra Johan Grill, un altro neoassunto, e Krister Ahlberg, un penalista sulla trentina. «Sì, è lei» confermò Krister Ahlberg. «La piccola Modesty Blaise dello studio.» Svuotò il bicchiere e lo posò sul parapetto. Petra scosse lentamente la testa. «E dire che ha ucciso una persona» disse. «Tre, in realtà» la corresse Krister. «Dio, mi vengono i brividi! Guarda!» disse Petra sollevando un braccio verso i suoi due accompagnatori. Krister Ahlberg e Johan Grill lo osservarono con attenzione. Era esile e abbronzato. La peluria rada e sottile si era schiarita per il sole. «Insomma, non perché è una donna» proseguì Petra. «È che non sembra proprio il tipo da...» «E infatti non lo è. Alla fine le è venuto un esaurimento nervoso. Non riesce più a lavorare. L'unica cosa che fa è presentarsi ai processi più in vista una volta ogni tanto. Io faccio tutto il lavoro e lei è la celebrità.» «È davvero una celebrità?» chiese Johan Grill. «Il suo nome non è mai uscito sui giornali, no?» «È vero, ma nel giro degli avvocati tutti sanno chi è. L'ambiente legale svedese è piccolo così, lo imparerai presto.» Krister Ahlberg indicò una distanza di un centimetro tra pollice e indice. Vide che Petra aveva il bicchiere vuoto e valutò se fosse il caso di offrirsi di riempirglielo di nuovo. Ma in quel caso avrebbe dovuto lasciarla sola con Johan.
«Dio» disse Petra. «Mi domando che effetto fa uccidere un uomo.» «Te la presenterò» disse Krister. «Non lavoriamo nello stesso settore, ma abbiamo frequentato insieme il corso di diritto commerciale. Aspettiamo solo che Erik Rydén molli la presa.» Erik Rydén abbracciò Rebecka e le diede il benvenuto. Era un uomo tarchiato e i suoi doveri di padrone di casa gli avevano fatto venire caldo. Il suo corpo emanava vapore come un acquitrino in pieno agosto. Un'esalazione di Chanel pour Monsieur e alcol. La mano destra di Rebecka gli diede una serie di pacche sulla schiena. «Che bello che sei venuta» disse lui con un largo sorriso. Le prese la borsa e le offrì in cambio un bicchiere di champagne e la chiave di una camera. Rebecka guardò il portachiavi. Era un pezzetto di legno dipinto di bianco e rosso, legato alla chiave con uno strano nodo. Per gli ospiti che si ubriacano e le fanno cadere in acqua, si disse. Scambiarono qualche frase di cortesia. Che tempo splendido. L'abbiamo ordinato apposta per te, Rebecka. Lei rise e gli chiese come andavano le cose. Bene, proprio la settimana prima aveva pescato un grosso cliente nel campo delle biotecnologie. E c'era in ballo una fusione con una società americana, perciò erano pieni di lavoro. Rebecka ascoltava sorridendo. Poi arrivò un altro ritardatario, ed Erik dovette riprendere il suo ruolo di padrone di casa. Un avvocato della divisione penale le si avvicinò e la salutò come se fossero vecchi amici. Cercò febbrilmente di ricordare come si chiamasse, ma non le venne in mente. Aveva due neoassunti al seguito, una ragazza e un ragazzo. Lui aveva un ciuffo biondo sopra il viso abbronzato di chi va in barca a vela. Non era molto alto e aveva le spalle larghe. Mento squadrato e prominente, e grossi bicipiti che spuntavano dalle maniche arrotolate del maglione costoso. Una specie di Braccio di Ferro di classe, si disse. Anche la ragazza era bionda. La criniera fermata sulla fronte da un paio di costosi occhiali da sole. Fossette sulle guance. Un cardigan intonato alla sua maglietta pendeva dal gomito di Braccio di Ferro. La salutarono. La ragazza cinguettava come un usignolo. Si chiamava Petra. Braccio di Ferro si chiamava Johan, con un cognome importante che Rebecka non riuscì a memorizzare. Le succedeva spesso, nell'ultimo anno. Prima aveva tanti cassetti in testa in cui classificava i dati. Ora ci finiva tutto dentro alla rinfusa e gran parte delle informazioni andavano perse. Sorrise e li salutò con
una stretta di mano sufficientemente energica. Chiese per chi lavoravano. Se si trovavano bene. Di cosa si stavano occupando. A lei nessuno chiese niente. Riprese a camminare fra i gruppi. Erano tutti pronti con il righello in tasca. Si prendevano le misure a vicenda. Facevano confronti. Stipendio. Casa. Nome. Chi si frequentava. Cosa si era fatto durante l'estate. Qualcuno stava costruendo casa a Nacka. Un altro cercava un appartamento più grande ora che era arrivato il secondo figlio, possibilmente nella zona giusta di Östermalm. «Sono uno straccio» esclamò il costruttore immobiliare con un sorriso felice. Un neo-single si rivolse a Rebecka. «A maggio sono stato dalle tue parti» disse. «Sono andato a sciare tra Abisko e il Kebnekaise, bisognava alzarsi alle tre del mattino per trovare la neve gelata. Di giorno era così bagnata che si affondava fino al ginocchio. Non si poteva fare altro che sdraiarsi a godersi il sole primaverile.» All'improvviso calò un'atmosfera imbarazzata. Doveva proprio nominare la sua zona? Kiruna si intrufolò fra loro come uno spettro. Tutti si misero a citare i nomi di mille altri posti dov'erano stati. In Italia, in Toscana, dai genitori a Jönköping o a Legoland, ma Kiruna non voleva saperne di scomparire. Rebecka si allontanò e tutti tirarono un sospiro di sollievo. Gli avvocati più anziani avevano passato le vacanze nelle loro case estive sulla costa occidentale, in Scania o sull'arcipelago. Arne Eklöf aveva perso la madre e raccontò apertamente a Rebecka di avere passato l'estate a litigare per l'eredità. «Brutta storia. Se il Signore ha creato la morte, il diavolo ha fatto gli eredi. Ne vuoi?» Accennò al suo bicchiere vuoto. Rebecka disse di no e lui le rivolse uno sguardo offeso, come se avesse rifiutato ulteriori confidenze. Probabilmente era proprio così. Rebecka restò a guardarlo mentre si dirigeva verso il bar all'aperto. Era una fatica parlare con la gente, ma restare lì da sola con il bicchiere vuoto era addirittura un incubo. Come una povera pianta che non può nemmeno chiedere dell'acqua. Posso sempre andare in bagno, si disse guardando l'orologio. E posso fermarmi dentro almeno sette minuti se non c'è coda. Tre se c'è qualcuno che aspetta. Si guardò attorno in cerca di una superficie su cui posare il bicchiere. In quell'istante Maria Taube apparve al suo fianco e le tese una coppetta di
insalata Waldorf. «Mangia» le disse. «Fai paura a guardarti.» Rebecka prese l'insalata. Vedendo Maria le tornò in mente la primavera appena passata. Sole tagliente fuori dalle finestre sporche, ma le persiane sono chiuse. Una mattina a metà della settimana Maria va a trovarla. In seguito Rebecka si chiede perché avesse aperto. Avrebbe dovuto restare nascosta sotto le coperte. Invece va alla porta. A malapena consapevole degli squilli del campanello. Apre la serratura di sicurezza quasi senza rendersene conto. Poi abbassa la maniglia. La testa è scollegata. Un po' come quando ci si ritrova davanti al frigorifero aperto e ci si domanda cosa si sta facendo in cucina. In seguito si disse che forse dentro di lei c'è una personcina saggia. Una ragazzina con gli stivali di gomma rossi e un giubbotto salvagente. Una sopravvissuta. E che la ragazzina aveva riconosciuto i colpi rapidi e leggeri. La ragazzina dice ai piedi e alle mani di Rebecka: «Ssst! È Maria. Non ditelo a Rebecka. Fatela alzare e controllate che apra la porta.» Maria e Rebecka sono sedute in cucina. Bevono caffè, da mangiare non c'è niente. Rebecka non parla molto. La piramide di piatti sporchi nel lavello, le pile di posta e giornali sul pavimento dell'ingresso, i vestiti sudati e stazzonati che indossa dicono già tutto. E all'improvviso iniziano a tremarle le mani. Deve appoggiare la tazza sul tavolo. Sbattono come due galline senza testa. «Basta caffè per me» cerca di scherzare. Ride, ma ne risulta un singulto vuoto. Maria la guarda negli occhi. Rebecka ha l'impressione che sappia. Che a volte esce sul balcone e guarda l'asfalto sotto di lei. O che spesso non ha il coraggio di andare a fare la spesa. E si accontenta di quello che c'è in casa, bevendo tè e mangiando cetriolini pescati direttamente dal barattolo. «Non sono una psicologa» dice Maria, «ma so che non mangiare e non dormire non fa che peggiorare le cose. E al mattino dovresti vestirti e uscire.» Rebecka nasconde le mani sotto la tavola. «Crederai che sia impazzita.» «Non dire idiozie, la mia famiglia è piena di donne che soffrono di nervi. Svengono, vanno in deliquio e non fanno altro che avere crisi di panico
e ipocondria. Ti ho mai parlato di mia zia? Un giorno è all'ospedale psichiatrico e ha bisogno di aiuto per vestirsi. La settimana dopo apre un asilo Montessori. Sono superabituata.» Il giorno dopo Torsten Karlsson, uno dei soci, offre in prestito a Rebecka la sua casetta in campagna. Maria ha lavorato per lui prima di passare alla squadra di Måns Wenngren insieme a Rebecka. «Mi faresti un favore» dice Torsten. «Così non avrò più paura dei furti ed eviterò di andarci solo per innaffiare le piante. In realtà dovrei venderla. Ma anche questa sarebbe una bella seccatura.» Naturalmente avrebbe dovuto declinare l'offerta. Era così ovvio. Ma la ragazzina con gli stivali rossi aveva già detto di sì prima ancora che Rebecka aprisse bocca. * Rebecka iniziò obbedientemente a mangiare l'insalata Waldorf. Cominciò con una mezza noce. Non appena se la mise in bocca diventò grande come una prugna. Continuava a masticare, preparandosi a inghiottire. Maria la osservava. «Come va?» le chiese. Rebecka sorrise. Si sentiva la lingua ruvida. «A dir la verità non ne ho idea.» «Ma ti senti a posto qui?» Rebecka alzò le spalle. No, si disse. Ma cosa ci posso fare? Se non mi sforzo, tra un po' mi ritroverò rinchiusa in una casetta da qualche parte, perseguitata dalle autorità, terrorizzata dalla gente, ipersensibile all'elettricità e con un sacco di gatti che pisciano dentro casa. «Non lo so» disse. «Ho l'impressione che la gente mi guardi appena mi volto dall'altra parte. Che parli di me quando mi allontano. Quando mi avvicino le conversazioni sembrano ricominciare da capo. Capisci cosa intendo?» «In effetti è così» rispose Maria con un sorriso. «Dopo tutto sei la Modesty Blaise dello studio. E ora ti sei rinchiusa nella casa di campagna di Torsten e diventi sempre più strana e isolata. È logico che parlino di te.» Rebecka rise. «Grazie, ora mi sento meglio.» «Ho visto che hai conosciuto Johan Grill e Petra Wilhelmsson. Cosa ne
pensi di miss Coscia Lunga? È simpatica, ma non riesco a farmi piacere una che ha il culo all'altezza delle scapole. Il mio ormai è come un adolescente. Vuole essere indipendente, si è emancipato e vuole reggersi sulle sue gambe.» «Hai ragione, mi è sembrato di sentire qualcosa muoversi tra l'erba quando sei arrivata.» Tacquero e guardarono il tratto di mare dove un vecchio Fingal avanzava a motore. «Non preoccuparti» disse Maria. «Tra un po' inizieranno a essere sbronzi sul serio. E allora arriveranno barcollando e vorranno parlare.» Si voltò verso Rebecka, avvicinò il viso al suo e biascicò: «Che effetto fa uccidere qualcuno?» Il capo di Rebecka e Maria, Måns Wenngren, le osservava da poco lontano. Brava, si disse. Ben fatto. Vide che Maria Taube era riuscita a far ridere Rebecka Martinsson. Le mani di Maria volavano nell'aria, in su e in giù, a destra e a sinistra. Era un miracolo che riuscisse a tenere sotto controllo il bicchiere. Anni e anni di allenamento in famiglia, probabilmente. La postura di Rebecka si era ammorbidita. Sembrava forte e abbronzata, notò. Magra come un chiodo, ma d'altra parte lo era sempre stata. Torsten Karlsson era qualche passo dietro a Måns, intento a osservare il buffet. Aveva l'acquolina in bocca. Spiedini d'agnello indonesiani, spiedini di filetto di maiale con spezie cajun, spiedini caraibici di pesce con zenzero e ananas, spiedini di pollo con salvia e limone o all'asiatica con salsa allo yogurt e zenzero, garam masala e curcuma, più altre salse e insalate a piacere. Vini rossi e bianchi, birra e sidro. Sapeva bene che in ufficio lo chiamavano "Karlsson sul tetto", come il personaggio di Astrid Lindgren. Basso e tarchiato, con i capelli neri e dritti come una spazzola da bucato. A Måns invece stava bene qualsiasi vestito. A lui di sicuro le donne non dicevano che era divertente e che le faceva ridere. «Ho sentito che ti sei preso una nuova Jaguar» disse rubando un'oliva dal bulgur. «Mmh, una cabrio, condizioni perfette» rispose Måns meccanicamente. «Come va?» Per mezzo secondo Torsten Karlsson si chiese se Måns stesse chiedendo notizie sulla salute della sua stessa Jaguar. Poi alzò gli occhi, seguì lo
sguardo del socio e vide Rebecka Martinsson e Maria Taube. «Le hai prestato la casa in campagna, no?» «Non poteva continuare a stare chiusa nel suo monolocale. Sembrava non sapere dove sbattere la testa. Ma perché non lo chiedi a lei? Lavora per te.» «Perché l'ho chiesto a te» rispose secco Måns. Torsten Karlsson alzò le mani in un gesto che voleva dire non-spararemi-arrendo. «A dir la verità non lo so» rispose. «Non vado quasi mai in campagna. E quando ci vado parliamo di altre cose.» «Tipo?» «Mah, di scale da incatramare, di vernice rossa, di finestre da stuccare. Non fa che lavorare. Per un periodo si è fissata con il compost.» Lo sguardo di Måns lo incitò ad andare avanti. Interessato, quasi divertito. Torsten Karlsson si passò una mano sulla spazzola che aveva in testa. «Già» disse. «Prima ha costruito una compostiera a tre scomparti per i rifiuti di casa e del giardino. A prova di topi. Poi si è messa a produrre compost. Mi ha praticamente obbligato a prendere appunti su come alternare erba e sabbia... una vera e propria scienza. E poi, quando doveva andare a quel corso sulla tassazione consolidata a Malmö, ti ricordi?» «Sì, sì.» «Be', mi ha chiamato per dirmi che non poteva andare perché il compost era diventato troppo... non mi ricordo cosa, a ogni modo c'era qualcosa che non andava, forse c'era troppo poco azoto. Era andata a farsi dare i rifiuti domestici di qualche asilo nelle vicinanze, e allora era diventato troppo umido. Perciò era costretta a restare a casa a rastrellare e trivellare.» «Trivellare?» «Sì, ho dovuto prometterle che se andava al corso sarei andato io a trivellarlo con un vecchio trapano da ghiaccio. E poi ha trovato il mucchio di compost dei vecchi proprietari al limitare del bosco.» «E allora?» «C'era dentro di tutto, scheletri di gatti, bottiglie rotte, escrementi... Quindi avrebbe dovuto ripulirlo. Ha trovato una vecchia rete da letto dietro il fienile e l'ha usata come setaccio. Rovesciava palate di compost sulla rete e poi la scuoteva in modo da filtrare il terriccio pulito. Mi sarebbe piaciuto presentarla a qualcuno dei nostri clienti.» Måns fissava Torsten Karlsson. Davanti agli occhi aveva l'immagine di Rebecka con le guance arrossate e i capelli in disordine, intenta a scuotere
selvaggiamente una rete in cima a un mucchio di terra. E Torsten sotto, con alcuni clienti in completo scuro che la guardavano a occhi spalancati. Scoppiarono a ridere nello stesso istante, senza riuscire a fermarsi. Torsten si asciugò gli occhi col dorso della mano. «Ma ora si è calmata» disse. «Non è più così... non so... l'ultima volta che sono andato era seduta sulle scale con un libro e una tazza di caffè.» «Che libro era?» chiese Måns. Torsten Karlsson gli lanciò un'occhiata strana. «Non ci ho fatto caso» rispose. «Parlale.» Måns svuotò il bicchiere di vino rosso. «Andrò a salutarla» disse. «Ma lo sai anche tu, sono un disastro a parlare con la gente. E con le donne è ancora peggio.» Cercò di ridere, ma questa volta Torsten non sorrise nemmeno. «Devi chiederle come sta.» Måns sbuffò. «Sì, sì, lo so.» Me la cavo meglio con le relazioni a breve termine. Clienti. Tassisti. Cassiere. Senza vecchi conflitti e delusioni che sembrano simili a mucchi di alghe aggrovigliate sotto la superficie. Cena di fine estate a Lidö. Il sole rosso si adagia sugli scogli smussati come una conchiglia dorata. Un cabinato attraversa silenzioso il braccio di mare. Le canne sulla riva accostano le teste per scambiarsi bisbigli fruscianti. Le risate e le chiacchiere degli ospiti scivolano sull'acqua. La cena era arrivata al punto in cui cominciano a circolare i pacchetti di sigarette. Era possibile fare due passi prima del dessert, perciò la gente ai tavoli si era diradata. I maglioni e i cardigan prima legati in vita o posati sulle spalle erano stati infilati sulle braccia intirizzite. Qualcuno stava facendo un terzo o quarto giro al buffet e chiacchierava con i cuochi che giravano gli spiedini sfrigolanti sul letto di brace. Altri iniziavano a essere ubriachi sul serio e dovevano tenersi alla ringhiera quando salivano le scale per andare in bagno. Gesticolavano e si facevano cadere la cenere sui vestiti. Parlavano a voce troppo alta. Uno dei soci aveva insistito per aiutare la cameriera che stava portando fuori il dessert. Da vero cavaliere, la liberò da un grosso vassoio di pasticcini alla crema e ribes rosso. I dolci si avvicinarono in modo preoccupante al bordo del vassoio. La cameriera gli rivolse un sorriso tirato e scambiò uno sguardo con i cuochi impegnati alle griglie. Uno di loro lasciò perdere quello che stava facendo e corse insieme
a lei verso la cucina per prendere il resto dei vassoi. Rebecka e Maria erano sedute sugli scogli. La pietra rilasciava il calore che aveva incamerato durante il giorno. Maria si grattava una puntura di zanzara all'interno del polso. «Torsten deve andare a Kiruna la settimana prossima» disse. «Te l'ha detto?» «No.» «È per quella collaborazione con la Janssongruppen Revision Ab. Con la separazione dallo stato, la chiesa svedese è diventata un cliente interessante. L'idea è di vendere un pacchetto giuridico comprensivo di contabilità e revisione dei conti alle varie congregazioni del paese. Fornire supporto per qualsiasi tipo di problema, da "come liberarsi da chi sta sempre a casa con l'emicrania" a "come chiudere contratti vantaggiosi con gli imprenditori" e via di seguito. Non so, ma mi sembra di aver capito che ci sia un piano a lungo termine per avviare una collaborazione con qualche mediatore ed entrare nel campo della gestione di capitali. A ogni modo Torsten cercherà di vendere i nostri servizi al consiglio ecclesiastico di Kiruna.» «E allora?» «Potresti andare con lui. Sai com'è fatto. Gli piacerebbe avere compagnia.» «Non posso andare a Kiruna» esclamò Rebecka. «So che la pensi così. Ma mi domando perché.» «Non lo so, io...» «Qual è la cosa peggiore che ti può capitare? Incontrare qualcuno che ti conosce? E poi c'è la casa di tua nonna, ti manca, no?» Rebecka non rispose. Non posso andarci, punto e basta, si disse. Maria sembrò averle letto nel pensiero. «Dirò comunque a Torsten di chiedertelo. Se si hanno dei mostri sotto il letto, la cosa migliore da fare è accendere la luce, sdraiarsi sulla pancia e guardare giù.» Si aprono le danze sulla terrazza dell'albergo. Abba a tutto volume dagli altoparlanti. Dalle finestre aperte delle cucine esce il rumore di stoviglie che tintinnano e di acqua che scorre. Il sole ha trascinato con sé nell'acqua il suo velo rosso. Ai rami degli alberi sono appese alcune lanterne. Il bar all'aperto è affollato. Rebecka scese al piccolo pontile in pietra. Aveva fatto un ballo con il
suo vicino al tavolo e poi se n'era andata. Ora l'oscurità la stringeva nel suo abbraccio. È andata bene, si disse. Meglio di quanto ci si potesse aspettare. Si sedette su una panchina vicino all'acqua, lo sciabordio delle onde contro il cemento. Odore di alghe umide, sale e gasolio. Una lampada si specchiava sulla superficie lucida e nera. Poco prima che tutti si sedessero a tavola, Måns si era avvicinato a salutarla. «Come va, Martinsson?» le aveva chiesto. Cosa cavolo si risponde a una domanda del genere?, si era detta. Il suo sorriso da lupo e il fatto che l'avesse chiamata per cognome erano un enorme cartello di stop: vietate confidenze, lacrime e sincerità. Perciò si era limitata a raccontargli di avere ridipinto le finestre della casa in campagna di Torsten. Quando era tornata da Kiruna sembrava che ci tenesse a lei, ma da quando non riusciva più a lavorare era sparito. Perché allora non si è nessuno, si disse. Quando non si può più lavorare. Dei passi sulla ghiaia le fecero alzare gli occhi. All'inizio non riuscì a distinguere il viso, ma riconosceva quella voce squillante. Era la neoassunta bionda. Come si chiamava? Petra. «Ciao, Rebecka» disse come se si conoscessero bene. Si piazzò troppo vicina a lei. Rebecka trattenne l'impulso di alzarsi, darle una spinta e andarsene. Sono cose che non si fanno. Perciò restò seduta. Il piede della gamba accavallata si muoveva in su e in giù per l'imbarazzo, tradendo la sua voglia di correre via. Petra si sedette accanto a lei con un sospiro. «Dio, ho dovuto fare tre balli con Åke. Sai come sono fatti. Solo perché lavoriamo per loro pensano che siamo una loro proprietà. Ho dovuto scappare di nascosto.» Rebecka borbottò qualcosa in tono comprensivo. Tra un po' avrebbe detto che doveva andare in bagno. Petra si girò verso di lei inclinando la testa. «Ho saputo cosa hai passato l'anno scorso. Dev'essere stato terribile.» Rebecka non rispose. Vediamo, pensò con malignità. Quando la preda non esce dalla tana bisogna attirarla fuori con qualche esca. Qualche piccola confidenza, probabilmente. Si espone la propria piccola confessione da scambiare con il segreto dell'altro, come una figurina.
«Mia sorella ha vissuto qualcosa di simile cinque anni fa» proseguì Petra dato che Rebecka taceva. «Ha trovato il figlio dei vicini di casa annegato in uno stagno. Aveva solo quattro anni. In seguito ha avuto...» Concluse la frase con un vago gesto della mano. «Ah, siete qui.» Era Braccio di Ferro. Si avvicinò con un gin tonic per mano. Ne tese uno a Petra e dopo un millesimo di secondo di esitazione porse l'altro a Rebecka. In realtà era per lui. Un vero gentiluomo, si disse Rebecka posando il bicchiere accanto a sé. Li guardò. Braccio di Ferro osservava Petra con cupidigia. Petra osservava lei con cupidigia. Quei due le avrebbero fatto la festa e poi si sarebbero accoppiati. Petra doveva avere intuito che Rebecka stava per andarsene. Che l'occasione le stava sfuggendo. In condizioni normali l'avrebbe lasciata fare, dicendosi che ci sarebbero state altre opportunità. Ma il vino e il cibo dovevano averle ottenebrato il giudizio. Si chinò verso Rebecka. Aveva le guance lucide e arrossate quando le chiese: «Allora, che effetto fa uccidere qualcuno?» Rebecka avanzava a grandi falcate tra la folla di persone ubriache. No, non voleva ballare. No, grazie, non voleva qualcosa da bere. Aveva la borsa a tracolla ed era diretta al pontile. Si era liberata di Petra e Braccio di Ferro. Aveva assunto un'espressione pensierosa, aveva fissato a lungo le acque scure e aveva risposto: «È stato terribile, ovviamente.» Cos'altro avrebbe potuto dire? La verità? «Non ne ho idea. Non me lo ricordo.» Forse avrebbe potuto parlare di quelle patetiche conversazioni con il terapeuta. Rebecka che non fa che sorridere, alla fine le scappa quasi da ridere. Cosa ci può fare? Non ricorda niente. Il terapeuta che non ride affatto, non c'è proprio niente da ridere. Alla fine avevano deciso congiuntamente di prendersi una pausa. Se Rebecka vorrà tornare più avanti sarà la benvenuta. Quando non riesce più a lavorare non lo contatta. Non riesce a decidersi. Immagina la scena, lei che piange perché non è più capace di affrontare la sua vita, e il viso di lui, un velo di simpatia come stucco su un'espressione da cosa-avevo-detto-io. No, Rebecka aveva risposto a Petra come avrebbe fatto una persona
normale, che era stato terribile ma che la vita doveva andare avanti, per quanto potesse suonare banale. Poi si era scusata e se n'era andata. Se l'era cavata bene, ma cinque minuti dopo le era montata la rabbia e ora... Ora era così infuriata che avrebbe potuto divellere un albero con tutte le radici. O forse avrebbe potuto appoggiarsi alla parete dell'albergo e rovesciarlo come una scatola di cartone. Era un bene per quei due biondi che non fossero più sul pontile, altrimenti li avrebbe gettati in acqua a calci. All'improvviso Måns era alle sue spalle. Al suo fianco. «Cosa c'è? È successo qualcosa?» Rebecka non rallentò il passo. «Me ne vado. Uno dei tipi in cucina mi ha detto che posso prendere in prestito la barca a remi.» Måns emise un suono incredulo. «Sei impazzita? Non puoi remare al buio. E poi come proseguiresti? Ma fermati, cosa ti è successo?» Rebecka si fermò appena prima di salire sul pontile e si voltò ringhiando. «Tu cosa dici?» esplose. «La gente mi chiede che effetto fa uccidere un uomo. Come cazzo faccio a saperlo? Non mi sono certo messa a scrivere poesie sulle mie sensazioni. È solo... successo!» «Perché te la prendi con me? Non te l'ho mica chiesto io.» La voce di Rebecka si abbassò all'improvviso. «No, Måns, tu non chiedi niente. Nessuno può accusarti di questo.» «Che cazzo» rispose lui, ma Rebecka era già salita sul pontile. La inseguì. Aveva gettato la borsa nella barca e stava slegando gli ormeggi. Måns cercò qualcosa da dire. «Ho parlato con Torsten» disse. «Mi ha detto che aveva intenzione di chiederti di accompagnarlo a Kiruna. Ma gli ho consigliato di lasciar perdere.» «Perché?» «Perché? Perché pensavo che fosse l'ultima cosa di cui hai bisogno.» Rebecka non lo guardò quando rispose. «Vorrei decidere da sola di cosa ho bisogno o meno.» Si rendeva conto che la gente intorno li stava guardando. Facevano tutti finta di ballare e chiacchierare, ma il brusio non si era forse abbassato di tono? Almeno così avrebbero avuto qualcosa di cui parlare la settimana dopo al lavoro. Anche Måns doveva essersene accorto e abbassò la voce.
«Be', ero solo preoccupato per te, scusa tanto.» Rebecka saltò nella barca. «Ah, eri preoccupato per me. È per questo che mi hai messa in mostra come una puttana in quei processi?» «Ora smettila» sibilò Måns. «Avevi detto che non avevi niente in contrario. Pensavo che fosse un buon modo di tenere il contatto con il lavoro. Scendi dalla barca!» «Come se avessi avuto scelta! Ci puoi arrivare anche tu, se ci pensi un attimo.» «Ma lascia stare i processi, adesso. Scendi dalla barca e vai a dormire, ne parliamo domani quando sarai più sobria.» Rebecka fece un passo avanti sulla barca, che si mise a oscillare. Per un attimo Måns pensò che sarebbe risalita sul pontile e l'avrebbe schiaffeggiato. Sarebbe stato divertente. «Quando sarò più sobria? Sei... sei davvero incredibile!» Staccò la barca dal pontile con un piede. Måns valutò se fosse il caso di tentare di fermarla aggrappandosi alla barca, ma anche quello sarebbe stato un bello spettacolo. Restare attaccato alla poppa fino a cadere in acqua. Come nelle Vacanze all'Isola dei gabbiani, lo zio Melker dello studio. La barca si allontanò. «Vattene a Kiruna, allora!» gridò senza preoccuparsi di chi poteva sentirlo. «Puoi fare quel cazzo che ti pare, per quanto mi riguarda.» La barca scomparve nel buio. Sentiva i remi cozzare negli scalmi e lo sciabordio delle pale nell'acqua. Ma la voce di Rebecka era ancora vicina ed era salita di tono. «Dimmi cosa potrebbe succedermi di peggio di questo.» Riconosceva quella voce dai tempi delle liti con la sua ex moglie. Prima la rabbia trattenuta di Madelene. E lui che non aveva la più pallida idea di cosa avesse sbagliato. Poi la lite, ogni volta come la tempesta del secolo. E alla fine quella voce più alta di un tono e pronta a spezzarsi in pianto. Quello poteva essere il momento della riconciliazione, se si era disposti a pagarne il prezzo: fare da capro espiatorio. Ma con Madelene aveva a disposizione un vecchio brogliaccio da cui pescare le battute: lui che diceva di essere uno stronzo, lei che singhiozzava come una bambina con la testa sul suo petto. Ma Rebecka... La sua mente fece qualche goffo passo da ubriaca per cercare le parole giuste, ma era già troppo tardi. Il rumore dei remi era sempre più lontano.
Col cavolo che l'avrebbe chiamata. Poteva scordarselo. All'improvviso Ulla Carle, una dei soci dello studio, era alle sue spalle e gli chiedeva cosa stesse succedendo. «Sono un idiota» disse muovendosi in direzione del bar, sotto le ghirlande di lanternine colorate. Martedì 5 settembre L'ispettore di polizia Sven-Erik Stålnacke stava andando da Fjällnäs a Kiruna. La ghiaia rimbalzava sotto il telaio dell'auto e dietro di lui si alzava una grossa nuvola di polvere. Quando svoltò nella Nikkavägen, il massiccio azzurro ghiaccio del Kebnekaise si erse alla sua sinistra. Strano che tutto questo non mi stanchi mai, si disse. Anche se aveva superato i cinquanta, restava sempre incantato dai cambi di stagione. La fredda aria di montagna che spazzava le vallate in autunno, il ritorno del sole alla fine dell'inverno, i primi sgocciolii dai tetti. E il disgelo dei fiumi. Anzi, con gli anni era quasi peggiorato. Avrebbe dovuto prendersi una settimana di vacanza solo per ammirare la natura. E suo padre era stato come lui. Nell'ultimo periodo della sua vita, almeno per gli ultimi quindici anni, non aveva fatto che ripetere la stessa solfa: «Questa sarà la mia ultima estate. Questo sarà l'ultimo autunno che potrò vedere.» Sembrava quasi che fosse quella la cosa che lo spaventava di più. Non poter vedere ancora una primavera, un'estate luminosa, un autunno rosseggiante. L'idea che le stagioni avrebbero continuato ad andare e venire senza di lui. Sven-Erik guardò l'ora. L'una e mezza. Ancora mezz'ora prima della riunione con il procuratore. Avrebbe fatto in tempo a fermarsi alla rosticceria di Annie a prendere un hamburger. Sapeva bene cosa voleva il procuratore. Erano passati quasi tre mesi dall'omicidio del pastore Mildred Nilsson e le indagini non avevano fatto alcun passo avanti. Ora il procuratore doveva averne abbastanza. E chi poteva biasimarlo? Inconsapevolmente aumentò la pressione sull'acceleratore. Avrebbe dovuto chiedere consiglio ad Anna-Maria, ora se ne rendeva conto. AnnaMaria era il suo capo, anche se in quel momento era in maternità e SvenErik la sostituiva. Solo che non gli sembrava naturale disturbarla a casa. Era strano. Quando lavoravano la sentiva così vicina, ma fuori dal lavoro
non sapeva mai cosa dirle. Sentiva la sua mancanza, però era andato a trovarla solo una volta, appena dopo la nascita del bambino. Di tanto in tanto era passata lei dalla centrale per dare un saluto, ma in quelle occasioni tutto il branco di galline della segreteria le si raccoglieva intorno a chiocciare e lui preferiva restarne fuori. A metà gennaio sarebbe rientrata. A quante porte avevano bussato. Qualcuno doveva pur avere visto qualcosa. A Jukkasjärvi, dove avevano trovato il pastore impiccato alla balconata dell'organo, e a Poikkijärvi, dove abitava. Niente. Avevano fatto un secondo giro di tutte le case. Niente di niente. Era davvero strano. Qualcuno l'aveva uccisa fuori del museo del folclore, in piena vista. Poi l'assassino aveva portato il cadavere in chiesa, sempre in piena vista. È vero che era successo nel bel mezzo della notte, ma in quella stagione era chiaro come di giorno. Avevano scoperto che era un pastore controverso. Quando Sven-Erik aveva chiesto se avesse dei nemici, parecchie delle donne attive nella comunità avevano risposto: «Tutti gli uomini del paese.» Una segretaria che lavorava nell'ufficio parrocchiale, con due linee profonde ai lati della bocca stretta, aveva praticamente detto che Mildred Nilsson doveva solo prendersela con se stessa. Era finita spesso sulla stampa locale anche da viva. Aveva litigato con il consiglio parrocchiale quando aveva organizzato un corso di autodifesa femminile nei locali della congregazione. Aveva litigato con il comune quando il suo gruppo femminile di studi biblici, il gruppo Maddalena, aveva preteso che il palazzetto del ghiaccio fosse dedicato per un terzo del tempo all'hockey femminile e al pattinaggio artistico. E di recente aveva litigato anche con alcuni cacciatori e allevatori di renne a proposito di una femmina di lupo che si era stabilita nei terreni della chiesa. Mildred Nilsson sosteneva che fosse un dovere della chiesa proteggere la lupa. L'Nsd 1 aveva allora pubblicato nel paginone centrale una foto sua e una del suo avversario, intitolandole rispettivamente L'amica dei lupi e Il nemico dei lupi. E poi c'era il marito, chiuso nella canonica di Poikkijärvi, sulla riva opposta del fiume. Era a casa in malattia, incapace di venire a patti con il vuoto che gli aveva lasciato. Sven-Erik ricordò il disagio che aveva provato interrogandolo. «Ancora voi. Non vi stancate mai?» Ogni colloquio era stato come spezzare il ghiaccio appena formatosi sopra un buco. Il dolore risgorgava fuori. Gli occhi rossi di pianto. Nessun figlio con cui condivide1
Norrländska Socialdemokraten, uno dei quotidiani più diffusi nella Svezia settentrionale [N.d.T.].
re il lutto. È vero che Sven-Erik aveva una figlia che stava a Luleå, ma riconosceva quella maledetta solitudine. Era separato e viveva da solo in una casa singola. Anche se aveva un gatto, e nessuno aveva ucciso sua moglie per poi impiccarla con una catena. Tutte le chiamate e le lettere dei vari pazzi che si erano autodenunciati per l'omicidio erano state controllate, ma naturalmente non avevano portato a niente. Solo a relitti umani, temporaneamente accesi da una febbrile agitazione provocata dai titoli dei giornali. Perché la tv e i quotidiani sembravano impazziti. Mildred Nilsson era stata assassinata nel bel mezzo della classica carenza estiva di notizie, e non erano passati nemmeno due anni dall'uccisione di un'altra personalità religiosa a Kiruna, Viktor Strandgård, figura di primo piano della congregazione della Fonte della Forza. La stampa aveva evidenziato le similitudini tra i due casi, nonostante l'assassino di Viktor Strandgård fosse morto. Ma l'ottica era la stessa: un uomo di Dio, una donna di Dio. Entrambi trovati brutalmente assassinati nelle rispettive chiese. I giornali nazionali intervistarono parroci e pastori: si sentivano minacciati? avevano intenzione di trasferirsi? Kiruna la rossa era diventata una brutta città in cui vivere per i preti? I sostituti estivi dei giornalisti seguivano attentamente il lavoro della polizia. Erano giovani e affamati di successo e non si accontentavano di risposte come "nessuna dichiarazione a questo punto delle indagini". Per due settimane Kiruna era rimasta sotto i riflettori. «Viene quasi da rovesciare le scarpe prima di infilarsele la mattina» aveva detto Sven-Erik al commissario. «C'è il rischio che cada fuori qualche giornalista con il pungiglione alzato.» Ma dato che le indagini non facevano progressi, i giornalisti avevano finito per lasciare la città. Anche perché l'attenzione mediatica era stata catalizzata da due persone calpestate a morte durante un concerto. Per tutta l'estate la polizia aveva lavorato sull'ipotesi di un emulatore: qualcuno che si fosse ispirato all'omicidio di Viktor Strandgård. All'inizio la polizia di Stoccolma era restia a tracciare un profilo psicologico dell'omicida. Dopo tutto non si trattava di un assassino seriale, a quanto si sapeva. E non era nemmeno sicuro che fosse un emulatore. Ma alla fine le somiglianze con il caso precedente e la pressione dei media avevano fatto sì che una psichiatra della polizia interrompesse le sue vacanze per andare a Kiruna. Aveva incontrato la polizia locale una mattina dell'inizio di luglio. Nella
sala riunioni erano sedute una decina di persone che sudavano. Non volevano rischiare che qualche estraneo ascoltasse, perciò le finestre erano rigorosamente chiuse. La psichiatra forense era sulla quarantina. Sven-Erik era rimasto colpito dalla calma e dalla comprensione, quasi dall'affetto, con cui parlava di pazzi e assassini seriali. Quando faceva esempi tratti dalla realtà diceva spesso "quell'infelice" o "un povero ragazzo che..." o "per sua fortuna è stato preso e condannato". Aveva anche raccontato di un tizio che, dopo un po' di anni passati in un ospedale psichiatrico, era stato dimesso, seguiva una cura e aveva un cane e un lavoro part-time come imbianchino. «Voglio sottolineare che spetta alla polizia decidere su quale teoria lavorare» aveva detto. «Se il vostro assassino è un emulatore posso fornirvi un suo profilo verosimile, ma la cosa non è affatto certa.» Aveva preparato una presentazione in Power Point, incoraggiandoli a fare domande. «È un uomo. Età tra i quindici e i cinquant'anni. Mi spiace.» L'ultima frase l'aveva aggiunta vedendo i loro sorrisi. «Preferiremmo qualcosa come "ha ventisette anni e tre mesi, lavora come fattorino, abita con sua madre e guida una Volvo rossa"» aveva detto qualcuno a mo' di battuta. «E porta il quarantadue di scarpe» aveva aggiunto lei. «Scherzi a parte, in genere gli emulatori hanno la caratteristica di esordire direttamente con reati gravi, perciò non è detto che abbiano condanne per precedenti episodi di violenza. Come sembrerebbe confermare il fatto che avete trovato delle impronte, che però non corrispondono a nessun pregiudicato.» Cenni del capo a conferma. «Potrebbe anche essere iscritto nel registro degli indagati o avere subito condanne per reati minori tipici di una personalità labile. Qualche molestia come pedinamenti, persecuzioni telefoniche, forse taccheggi. Ma se è un emulatore significa che si è chiuso nella sua stanza a leggere dell'omicidio di Viktor Strandgård per un anno e mezzo. È un passatempo tranquillo. Era l'omicidio commesso da qualcun altro. Finora gli è bastato. Ma d'ora in avanti vorrà leggere di se stesso.» «Ma in realtà i due omicidi non si assomigliano» aveva obiettato qualcuno. «Viktor Strandgård è stato accoltellato e poi gli hanno cavato gli occhi e tagliato le mani.» La donna aveva annuito. «È vero. Ma la spiegazione potrebbe essere che questa era la sua prima
volta. Accoltellare e infierire con un coltello implica, come potrei dire, un contatto più prossimo di quello consentito dall'oggetto allungato che sembra essere stato utilizzato in questo caso. È una soglia più alta da superare. La prossima volta, forse, sarà pronto a usare il coltello. Forse non ama la vicinanza fisica.» «Però l'ha portata fino in chiesa.» «Ma a quel punto aveva già finito. Ormai la vittima non era più nessuno, solo un pezzo di carne. Andiamo avanti. Abita solo o ha accesso a un locale tutto suo, per esempio uno studio in cui nessuno può entrare o un magazzino chiuso a chiave. Lì tiene la sua collezione di ritagli di giornale. Probabilmente sono in bella vista, magari addirittura esposti. È isolato, ha difficoltà nei contatti sociali. Non è improbabile che abbia frapposto qualcosa di fisico fra sé e il resto del mondo. Scarsa igiene, per esempio. Se avete dei sospettati, chiedete se hanno degli amici, quest'uomo non ne ha. Ma ripeto, non è affatto detto che sia un emulatore. Potrebbe anche essere qualcuno che è stato colpito da una follia momentanea. Se avremo la sfortuna di ritrovarci un altro delitto tra capo e collo ne riparleremo.» Sven-Erik fu interrotto nei suoi pensieri da un automobilista che portava a passeggio il cane tenendolo al guinzaglio attraverso il finestrino aperto. Un incrocio di jämthund, notò. Il cane galoppava con la lingua penzoloni. «Maledetti torturatori» borbottò guardando nello specchietto retrovisore. Probabilmente era un cacciatore che voleva avere il cane in forma per la caccia all'alce. Per un attimo valutò se fosse il caso di girare la macchina e fare due chiacchiere con il proprietario del cane. Certa gente non dovrebbe avere animali. Il resto dell'anno lo tiene sicuramente chiuso in giardino, pensò. Ma non lo fece. Era appena andato a parlare con un tizio che aveva infranto il divieto di visita alla ex moglie e si era rifiutato di andare in centrale anche se convocato. Non si faceva altro che litigare dalla mattina alla sera. Da quando ci si alza a quando si va a letto. Dove bisogna tracciare il confine? Un bel giorno si rischia di ritrovarsi a insultare la gente che butta cartacce per strada. Ma l'immagine del cane che galoppava e il pensiero dei cuscinetti delle zampe consumati a sangue continuarono a roderlo fino in città. Venticinque minuti dopo, Sven-Erik Stålnacke entrava nell'ufficio del procuratore Alf Björnfot. L'uomo sedeva alla sua scrivania con un bambi-
netto in braccio. Il piccolo era intento a tirare con grande soddisfazione la cordicella della lampada appesa sopra la scrivania. «Guarda chi c'è!» esclamò il procuratore all'ingresso del poliziotto. «Lo zio Sven-Erik. Questo è Gustav, il figlio di Anna-Maria.» L'ultima frase, rivolta a Sven-Erik, l'aveva pronunciata strizzando gli occhi da miope perché il bambino gli aveva tolto gli occhiali, con cui si era messo a percuotere la lampada facendola oscillare avanti e indietro. Nello stesso istante entrò l'ispettrice Anna-Maria Mella. Salutò SvenErik sollevando le sopracciglia e facendo balenare un rapido sorriso sul volto cavallino. Come se si fossero visti quella mattina alla riunione quotidiana. In realtà erano passati parecchi mesi. Fu colpito da quanto fosse piccola. Gli succedeva sempre quando non si vedevano da un po', dopo le vacanze per esempio. Nei suoi ricordi era sempre molto più alta. Si notava che era stata in congedo. Aveva un'abbronzatura profonda che non sarebbe scomparsa fino a inverno inoltrato. Le lentiggini non si vedevano più, perché avevano lo stesso colore del resto del volto, la treccia spessa era quasi bianca. Sulla fronte, lungo l'attaccatura dei capelli, aveva una fila di punture di zanzara tutte graffiate, piccoli punti scuri di sangue essiccato. Si sedettero. Il procuratore dietro la sua scrivania troppo ingombra, Anna-Maria e Sven-Erik sul divanetto riservato ai visitatori. Il procuratore fu breve. Le indagini sull'omicidio di Mildred Nilsson erano a un punto fermo. Durante l'estate avevano assorbito quasi tutte le risorse della polizia, ma ora la loro posizione nella lista delle priorità andava rivista. «Non c'è altra scelta» disse in tono dispiaciuto a Sven-Erik che fissava fuori dalla finestra. «Non possiamo penalizzare le altre indagini. Rischieremmo un richiamo del difensore civico.» Fece una breve pausa e osservò Gustav che svuotava il suo cestino della carta straccia allineandone accuratamente il contenuto sul pavimento. Un barattolo di tabacco vuoto. Una buccia di banana. Una scatoletta vuota di caramelle Läkerol Special. Alcuni fogli accartocciati. Quando il cestino fu vuoto, Gustav si tolse le scarpe e le gettò dentro. Il procuratore sorrise e continuò. Era riuscito a convincere Anna-Maria a rientrare a mezza giornata fino a dopo Natale, quando avrebbe ripreso a lavorare a tempo pieno. L'idea era che per quel periodo Sven-Erik continuasse a svolgere le funzioni di caposezione, mentre Anna-Maria si sarebbe dedicata all'omicidio. Si raddrizzò gli occhiali e osservò la scrivania. Alla fine trovò l'incarta-
mento di Mildred Nilsson e lo porse a Sven-Erik e Anna-Maria. Anna-Maria lo sfogliò distrattamente. Sven-Erik sbirciava da sopra la sua spalla. All'improvviso si sentì un gran peso dentro. Lo assaliva sempre una sorta di tristezza quando guardava quelle pagine. Il procuratore gli chiese di fare un riassunto delle indagini. Sven-Erik si passò le dita tra i folti baffi per qualche istante prima di raccontare senza grandi digressioni che Mildred Nilsson era stata uccisa durante la notte di mezza estate, il 21 giugno. Aveva celebrato nella chiesa di Jukkasjärvi la funzione notturna, che era terminata a mezzanotte meno un quarto. Vi avevano assistito undici persone. Sei di loro erano turisti alloggiati in paese. Già alle quattro del mattino erano stati tirati giù dal letto per venire interrogati dalla polizia. Gli altri fedeli facevano parte della banda di donne del pastore. «Banda di donne?» chiese Anna-Maria alzando gli occhi dall'incartamento. «Aveva fondato un gruppo di studi biblici composto esclusivamente da donne, il gruppo Maddalena. Una di quelle reti di sostegno che ultimamente vanno tanto di moda. Frequentavano la chiesa in cui predicava Mildred Nilsson. Hanno suscitato parecchio "cattivo sangue" in una parte della congregazione, un'espressione usata sia dai loro detrattori che da loro stesse.» Anna-Maria annuì e riabbassò lo sguardo sugli atti. Quando arrivò al protocollo dell'autopsia e al rapporto del medico legale Pohjanen, strinse leggermente gli occhi. «È stata picchiata a morte» disse. «Commozione cerebrale... fratture occipitali... lesioni cerebrali sotto i punti di impatto... emorragia subdurale...» Percepì una smorfia di disagio sui volti dei due uomini e andò avanti a leggere tra sé. Un corpo contundente, quindi. La maggior parte delle ferite erano lunghe circa tre centimetri, ma ce n'era anche una più lunga: «Ferita allungata sulla tempia sinistra... l'avvallamento termina tre centimetri sotto e due davanti il meato uditivo sinistro...» Avvallamento? Cosa diceva il rapporto? Sfogliò rapidamente le pagine successive. «... l'avvallamento e la ferita allungata sulla tempia sinistra sembrano indicare un'arma simile a un piede di porco.» Sven-Erik riprese il suo racconto: «Dopo la funzione Mildred Nilsson si è cambiata in sacrestia, ha chiuso la chiesa ed è scesa fino alla riva del
fiume dove teneva ormeggiata la barca. Lì è stata assalita. Poi l'omicida ha riportato il pastore in chiesa. Ha aperto la porta ed è salito sulla balconata, le ha passato una catena attorno al collo e l'ha issata sull'organo. È stata ritrovata poco più tardi da una sacrestana che era scesa in paese a raccogliere fiori per la chiesa, seguendo un impulso improvviso.» Anna-Maria lanciò un'occhiata a suo figlio. Aveva scoperto lo scatolone con le carte destinate al distruggidocumenti e stava facendo a pezzi un foglio dopo l'altro. Una fortuna. Anna-Maria proseguì la lettura. Fratture multiple alla mascella e all'osso zigomatico. Una pupilla era dilatata. Quella sinistra misurava sei millimetri, la destra quattro. Era un effetto dell'ematoma cerebrale. «Labbro superiore gonfio. Il lato destro presenta uno scoloramento violaceo, all'incisione si rileva abbondante sanguinamento...» Dio santo! Tutti gli incisivi superiori erano caduti. «Nella cavità orale sono stati ritrovati numerosi coaguli di sangue, oltre a due calze spinte violentemente verso la faringe.» «Hanno infierito quasi esclusivamente sulla testa» disse. «Due ferite al petto» aggiunse Sven-Erik. «Oggetto simile a un piede di porco, dice.» «Probabilmente proprio un piede di porco.» «Ferita allungata sulla tempia sinistra. Credi che sia stato il primo colpo?» «È probabile. Dunque bisogna supporre che sia destrimano.» «O destrimana.» «D'accordo. Ma l'assassino ha portato il cadavere per un bel pezzo. Dal fiume alla chiesa.» «Come facciamo a sapere che è stata portata? Potrebbe averla messa in una carriola o qualcosa del genere.» «Be', sai com'è fatto Pohjanen. Ci ha fatto notare le tracce di sangue. Prima è colato verso la schiena.» «Quindi vuol dire che era sdraiata a terra.» «Sì. I tecnici alla fine sono riusciti a trovare il punto esatto. A poca distanza da dove teneva ormeggiata la barca. La usava spesso per tornare a casa, abitava sull'altra sponda, a Poikkijärvi. È in quel punto che hanno trovato le scarpe.» «E poi? Mi riferisco al sanguinamento.» «Poi ci sono tracce meno abbondanti che dalle ferite sul volto vanno verso la sommità del capo.» «Capisco» disse Anna-Maria. «Quindi l'assassino l'ha portata su una
spalla, a testa in giù.» «Potrebbe essere la spiegazione. E non è esattamente uno sforzo da ginnastica dolce.» «Io ce la farei» disse Anna-Maria. «Anche ad appenderla all'organo. Era piuttosto minuta.» Soprattutto se fossi stata così... fuori di me dalla rabbia, aggiunse tra sé. Sven-Erik proseguì: «Le ultime tracce di sangue vanno in direzione dei piedi.» «Quando è stata impiccata.» Sven-Erik annuì. «Quindi non era morta?» «Non proprio. È scritto nel rapporto.» Anna-Maria lo scorse rapidamente. C'era una piccola emorragia sottocutanea sotto le ferite al collo. Secondo il medico legale indicava che era stata impiccata in punto di morte. Probabilmente era già incosciente. «Quelle calze in gola...» iniziò Anna-Maria. «Erano le sue» disse Sven-Erik. «Le scarpe sono rimaste sulla riva del fiume ed è stata ritrovata a piedi nudi.» «Non è certo la prima volta» disse il procuratore. «Capita spesso quando si uccide qualcuno a botte. La vittima si agita e rantola. È piuttosto sgradevole. E pur di far tacere il rantolo...» Si interruppe. Stava pensando a una violenza domestica sfociata in omicidio. La vittima aveva metà delle tende della camera infilate in gola. Anna-Maria guardò alcune delle fotografie. Il volto maciullato. La bocca spalancata, senza denti. E le mani?, si chiese. L'esterno delle mani? Le braccia? «Nessuna ferita da difesa» disse. Il procuratore e Sven-Erik scossero la testa. «E nessuna impronta digitale?» «No. Solo una parziale su una delle calze.» Ora Gustav si era messo a strappare le foglie da un grande ficus in un vaso. Anna-Maria lo allontanò dalla pianta e lui emise un urlo tremendo. «Ho detto di no» dichiarò la donna quando il piccolo cercò di divincolarsi per tornare al ficus. Il procuratore tentò di dire qualcosa, ma Gustav ululava come una sirena. Anna-Maria cercò di corromperlo con le chiavi della macchina e il cellulare, ma entrambi finirono miseramente sul pavimento. Aveva iniziato la defogliazione del ficus e voleva finire il lavoro. Anna-Maria lo prese in
braccio e si alzò. La riunione era finita. «Dovrei mettere un annuncio nella rubrica "Si regala"» disse a denti stretti. «O forse in quella "Scambi": "Offresi bambino di un anno e mezzo in ottima salute in cambio di tagliaerba".» Sven-Erik seguì Anna-Maria fino alla macchina. Sempre la stessa vecchia Ford Escort, notò. Non appena la madre lo mise a terra e poté camminare da solo, Gustav dimenticò le sue pene. Prima corse barcollante ma determinato verso un piccione che becchettava da un cestino dei rifiuti. Quando l'uccello prese il volo, il piccolo rivolse la sua attenzione al cestino. Qualcosa di rosa era colato lungo le pareti, probabilmente i resti di qualche ubriaco del sabato sera. Anna-Maria lo acchiappò esattamente un secondo prima che arrivasse sull'obiettivo. Gustav si mise a piangere come se ne andasse della sua vita. La madre lo infilò nel seggiolino dell'auto e chiuse la portiera. Dall'interno si sentivano i suoi singhiozzi soffocati. Si voltò verso Sven-Erik con un sorriso obliquo. «Quasi quasi lo lascio qui e torno a casa a piedi» disse. «Ci credo che protesta se gli porti via la merenda» commentò Sven-Erik con un cenno del capo in direzione del rivoltante cestino. Anna-Maria simulò un brivido. Scese il silenzio per qualche secondo. «Allora, pare che ti dovremo di nuovo sopportare» riprese Sven-Erik con un sorriso. «Eh sì, poveri voi» replicò lei. «La pace è finita.» Poi tornò seria. «Sui giornali hanno scritto che era femminista, organizzava corsi di autodifesa e cose del genere. E non ha nemmeno una ferita da difesa!» «Lo so» rispose Sven-Erik, sollevando i baffi in un'espressione pensierosa. «Forse non si aspettava di essere colpita. Forse lo conosceva. O la conosceva» aggiunse poi con un sorriso. Anna-Maria annuì pensierosa. Dietro di lei Sven-Erik vedeva l'impianto eolico di Peuravaara. Uno dei loro argomenti di litigio preferiti. Lui lo trovava bello. Lei orribile. «Forse» disse. «Forse l'assassino aveva un cane» aggiunse Sven-Erik. «I tecnici hanno trovato due peli di cane sui suoi abiti, e lei non aveva animali.» «Che tipo di cane?» «Non si sa. Dopo l'omicidio della piccola Helene a Hörby si è cercato di sviluppare la tecnica. Non si può stabilire la razza, ma se si trova un so-
spettato con un cane è possibile confrontare il DNA e vedere se si tratta dello stesso animale.» Gli strilli provenienti dalla macchina aumentarono di intensità. AnnaMaria si sedette al volante e accese il motore. Doveva avere la marmitta bucata, perché ruggiva come una motosega. Partì sgommando e imboccò la Hjalmar Lundbohmsvägen. «Non imparerai mai a guidare!» le gridò Sven-Erik attraverso la nuvola di gas. Dal lunotto posteriore la vide alzare una mano in segno di saluto. * Rebecka Martinsson guidava una Saab a noleggio in direzione di Jukkasjärvi. Torsten Karlsson era seduto accanto a lei con la testa appoggiata all'indietro e gli occhi chiusi. Si rilassava prima dell'incontro con il pastore. «Avvisami se superiamo qualcosa da vedere» le disse. Rebecka sorrise. Tutto, si disse. Tutto sarebbe da vedere. Il sole pomeridiano tra i pini. Gli insetti che svolazzano attorno ai rododendri lungo la strada. Le fessure causate dalle radici nell'asfalto. I resti di animali schiacciati sulla carreggiata. L'incontro con i pastori della diocesi era previsto solo per la mattina dopo, ma il parroco di Kiruna aveva chiamato Torsten. «Se arrivate martedì sera fatevi sentire» aveva detto. «Vi mostrerò due delle più belle chiese della Svezia, quelle di Kiruna e Jukkasjärvi.» «Allora partiamo martedì!» aveva deciso Torsten. «Sarebbe importante averlo dalla nostra parte prima di mercoledì. Mettiti qualcosa di carino.» «Fallo tu!» aveva ribattuto Rebecka. Sull'aereo erano finiti accanto a una donna che si era subito messa a chiacchierare con Torsten. Era alta e robusta, con un'ampia giacca di lino e portava al collo un enorme ciondolo etnico. Quando Torsten le aveva detto che era la prima volta che andava a Kiruna, aveva battuto le mani per la gioia. Poi gli aveva dato una serie di suggerimenti su cosa vedere. «Viaggio con una guida» aveva detto Torsten con un cenno del capo in direzione di Rebecka. La donna le aveva sorriso. «Allora è già stata da queste parti.»
«Sono nata qui.» La donna l'aveva squadrata dalla testa ai piedi con un'ombra di sospetto negli occhi. Rebecka si era voltata verso il finestrino lasciando che fosse Torsten a fare conversazione. L'aveva disturbata essere presa per una di fuori. Infilata nel suo completo grigio e nelle scarpe di Bruno Magli. Questa è la mia città, si era detta con un senso di sfida. Proprio in quel momento l'aereo aveva virato, facendo apparire Kiruna sotto di loro. Un grumo di costruzioni aggrappate alla montagna piena di ferro. Tutt'intorno solo montagne e paludi, vegetazione bassa e corsi d'acqua. Aveva fatto un respiro profondo. All'aeroporto, anche lei si era sentita una straniera. Mentre andavano verso l'autonoleggio avevano incrociato un gruppo di turisti che tornavano a casa. Puzzavano di sudore e lozione antizanzare. Il vento di montagna e il sole di settembre gli avevano arrossato le guance, brune con grosse zampe di gallina bianche per tutto quello strizzare gli occhi. Rebecka sapeva come si sentivano. Soddisfatti e leggermente storditi, con i piedi gonfi e i muscoli affaticati da una settimana di camminate in montagna. Indossavano giacche a vento colorate e pratici pantaloni color kaki. Lei invece aveva sciarpa e cappotto. Mentre costeggiavano il fiume, Torsten si raddrizzò e osservò incuriosito alcuni pescatori. «Speriamo di farcela» disse. «È chiaro che ce la farai» disse Rebecka. «Ti adoreranno.» «Credi? Non è un bene che non sia mai stato da queste parti. In realtà non sono mai stato più a nord di Gävle.» «Be', ma sei incredibilmente felice di essere qui. Hai sempre desiderato venire a vedere queste magnifiche montagne e visitare la miniera. La prossima volta ne approfitterai per fare un po' di vacanza.» «D'accordo.» «E niente domande tipo "come cavolo fate a sopportare i lunghi inverni bui in cui non sorge mai il sole".» «Ovvio.» «Anche se dovessero scherzarci sopra loro stessi.» «Sì, sì.» Rebecka parcheggiò accanto al campanile. Nessun pastore in vista. Percorsero il vialetto che portava alla canonica. Pannelli di legno rosso e spigoli bianchi. Appena dietro la canonica scorreva il fiume. L'acqua era bas-
sa, come sempre in settembre. Torsten iniziò la danza delle zanzare. Nessuno andava ad aprire. Suonarono e aspettarono ancora. Alla fine si voltarono per andarsene. Dall'apertura nella staccionata videro arrivare un uomo che agitava le braccia nella loro direzione. Quando fu più vicino si accorsero che portava un colletto da prete. «Salve» li salutò una volta arrivato. «Dovete essere dello studio Meijer & Ditzinger.» Tese la mano prima a Torsten. Rebecka assunse la posizione della segretaria, mezzo passo più indietro. «Stefan Wikström» annunciò il pastore. Rebecka si presentò senza menzionare il suo titolo. Credesse pure quello che gli faceva più comodo. Osservò il pastore. Era sulla quarantina, in jeans, scarpe da ginnastica e camicia da prete con il colletto bianco. Non doveva arrivare direttamente da una funzione, quindi. Eppure portava il colletto. Dev'essere uno di quei pastori a tempo pieno, si disse Rebecka. «Avevate appuntamento con il parroco, Bertil Stensson» proseguì l'uomo. «Purtroppo ha avuto un contrattempo, perciò ha chiesto che fossi io a mostrarvi la chiesa.» Rebecka e Torsten risposero con qualche frase di circostanza e lo seguirono nella piccola chiesa di legno dipinta di rosso. Il tetto di scandole odorava di pece. Rebecka rimase indietro di un paio di passi rispetto ai due uomini. Il pastore si rivolgeva quasi esclusivamente a Torsten e lui stava al gioco, evitando di voltarsi a coinvolgerla. Naturalmente poteva essere vero che il parroco aveva avuto un contrattempo. Ma poteva anche voler dire che aveva deciso di non appoggiare la proposta dello studio. Dentro la chiesa era buio. L'aria era ferma. Torsten si grattava le ultime venti punture di zanzara. Mentre Stefan Wikström raccontava le origini settecentesche della chiesa, Rebecka lasciò vagare i suoi pensieri. Conosceva già la storia della bella pala d'altare e dei morti che riposavano sotto il pavimento in pietra. Poi si rese conto che avevano cambiato argomento e tornò attenta. «Lì. Davanti all'organo» disse Stefan Wikström indicando con il dito. Torsten alzò gli occhi verso le canne lucide e il simbolo lappone del sole al centro dell'organo. «Dev'essere stato uno shock per tutti voi.»
«Cosa?» chiese Rebecka. Il pastore la guardò. «Sì, era appesa lì. La mia collega che è stata uccisa quest'estate.» Rebecka lo guardò stupefatta. «Che è stata uccisa quest'estate?» ripeté. Si creò una pausa imbarazzata. «Sì, quest'estate» insistette Stefan Wikström. Torsten Karlsson fissava Rebecka. «Smettila» le disse. Rebecka lo guardò scuotendo impercettibilmente la testa. «Un pastore, una donna, è stato ucciso quest'estate. Qui dentro. Davvero non lo sapevi?» «No.» La guardò preoccupato. «Devi essere l'unica in tutta la Svezia che... ho dato per scontato che lo sapessi. Era su tutti i giornali. Ogni notiziario...» Stefan Wikström seguiva il loro dialogo come una partita di tennis. «Quest'estate non ho letto i giornali» rispose Rebecka. «Né guardato la tv.» Torsten alzò le mani in un gesto di perplessità. «Credevo davvero...» tentò. «Ma è ovvio, nessuno...» Si interruppe per rivolgere un'occhiata imbarazzata al prete, ottenne in risposta un sorriso che significava il perdono dei peccati e proseguì. «Nessuno ha osato dirtelo. Forse preferisci aspettare fuori? O vuoi un bicchiere d'acqua?» Rebecka stava quasi per sorridere, poi cambiò idea. In realtà non sapeva che faccia fare. «Va tutto bene. Ma preferisco aspettare fuori.» Lasciò i due uomini in chiesa e uscì sulla scalinata. Dovrei provare qualcosa, si disse. Forse dovrei svenire. Il sole pomeridiano scaldava le pareti del campanile. Le venne voglia di appoggiarsi, ma non lo fece per non sporcarsi i vestiti. L'odore di asfalto caldo si mescolava a quello di pece fresca che arrivava dal tetto. Si domandò se Torsten stesse raccontando al pastore che era stata lei a sparare all'assassino di Viktor Strandgård. Forse invece gli aveva imbastito qualche balla. Sicuramente avrebbe fatto quello che credeva meglio per l'affare da concludere. Ormai faceva parte del repertorio di aneddoti dello studio, tra episodi piccanti e pettegolezzi indiscreti. Se Stefan Wikström
fosse stato un avvocato, Torsten gli avrebbe raccontato la verità. Ma forse i preti erano una razza meno pettegola degli avvocati. La raggiunsero dieci minuti dopo. Il pastore strinse la mano a entrambi. Sembrava quasi che non volesse più lasciargliele. «È un peccato che Bertil sia dovuto partire. C'è stato un incidente d'auto, non ha potuto dire di no. Se aspettate un attimo lo chiamo al cellulare.» Mentre Stefan Wikström cercava di telefonare al parroco, Rebecka e Torsten si scambiarono un'occhiata. Allora era davvero impegnato. Rebecka si domandò perché Stefan Wikström fosse così ansioso che lo incontrassero prima della riunione del giorno dopo. Vuole qualcosa, si disse. Ma cosa? Il pastore si rimise il telefono in tasca con un sorriso di scusa. «Mi spiace» disse. «Risponde la segreteria. Ma ci vediamo domani.» I saluti furono rapidi, dato che sarebbe passata solo una notte prima di rivedersi. Torsten chiese a Rebecka una penna per annotarsi il titolo di un libro che gli aveva suggerito il prete. Sembrava sinceramente interessato. Rebecka e Torsten si diressero di nuovo in città. Rebecka gli raccontava di Jukkasjärvi prima dell'esplosione turistica. Un paesino sonnacchioso in riva al fiume. La popolazione che diminuiva in silenzio come la sabbia che scorre in una clessidra. Il vero e proprio antiquariato alimentare offerto dalla cooperativa, i rari turisti al museo del folclore costretti ad accontentarsi di una tazza di caffè bruciato e di un dolce di marzapane e cioccolato coperto da una patina bianca. Le case non andavano vendute e restavano vuote e silenziose, con i tetti che facevano acqua e le pareti coperte di muschio. I pascoli invasi dal sottobosco. Ora invece, turisti di tutto il mondo venivano per dormire tra pelli di renna nell'albergo di ghiaccio, andare in motoslitta a trenta gradi sotto zero, guidare una muta di cani e sposarsi nella chiesa di ghiaccio. E quando non era inverno, si rilassavano nelle saune galleggianti o facevano rafting. «Accosta!» gridò Torsten all'improvviso. «Possiamo fermarci a mangiare lì.» Indicò due cartelli sul ciglio della strada, due pezzi di legno scritti a mano. Erano segati a forma di freccia e indicavano a sinistra. Lettere verdi su fondo bianco annunciavano «Stanze» e «Pasti fino alle 23.00». «No che non possiamo» obiettò Rebecka. «Quella è la strada per Poikkijärvi. Non c'è niente.» «Andiamo, Martinsson» insistette Torsten osservando speranzoso la di-
ramazione. «Dov'è finito il tuo senso dell'avventura?» Rebecka sospirò come una mamma paziente e svoltò a sinistra. «Non c'è niente qui. Un cimitero, una cappella e qualche casa. Ti assicuro che chi ha appeso quel cartello un secolo fa è fallito dopo una settimana.» «Quando lo sapremo con certezza faremo dietro-front e torneremo in città» ribatté Torsten imperturbabile. La strada asfaltata lasciò il posto a uno sterrato. Sulla sinistra scorreva il fiume, sull'altra sponda si vedeva Jukkasjärvi. La ghiaia rimbalzava sotto il telaio. La strada era fiancheggiata da basse casette in legno, in gran parte dipinte di rosso. Alcuni giardini sfoggiavano pneumatici di trattore trasformati in vasi per fiori agonizzanti e mulini a vento in miniatura, altri altalene e cassoni di sabbia. I cani li rincorrevano all'interno dei cortili abbaiando furiosamente. Rebecka si sentiva addosso gli sguardi da dentro le case. Una macchina sconosciuta. Chi poteva essere? Torsten si guardava attorno come un bambino felice e rivolse un cenno di saluto a un uomo anziano che smise per un attimo di rastrellare foglie per osservarli passare. Sorpassarono alcuni bambini in bicicletta e un ragazzo grande e grosso in motorino. «Là» indicò Torsten. Il ristorante era proprio in fondo al paese. Era una vecchia officina ristrutturata, una specie di scatola di cartone bianco sporco, con l'intonaco grigiastro che si staccava in più punti. Sul lato affacciato sulla strada si aprivano due grandi porte da garage dotate di finestre oblunghe per far entrare la luce, mentre sulla parete adiacente si aprivano una porta di dimensioni normali e una finestra con le sbarre. Ai due lati della porta c'erano due vasi di plastica con margherite gialle. Porte e infissi erano dipinti con una vernice sintetica marrone che tendeva a spellarsi. Sul retro alcuni spazzaneve rosso pallido erano abbandonati nell'erba alta e secca. Quando l'auto di Rebecka entrò in cortile, tre galline fuggirono dietro l'angolo sbattendo le ali. Una polverosa insegna al neon che diceva LAST STOP DINER era appoggiata alla parete affacciata sul fiume. Un cartello a ribalta accanto alla porta annunciava «Bar aperto». Nel cortile erano parcheggiate altre tre auto. Sull'altro lato della strada c'erano cinque bungalow in legno. Rebecka immaginò che fossero le stanze da affittare. Spense il motore. In quel momento arrivò il motorino che avevano superato lungo la strada e si fermò accanto all'edificio. Il ragazzo grande e
grosso restò seduto un momento senza riuscire a decidere se scendere di sella o meno. Lanciava occhiate in tralice a Rebecka e Torsten nella macchina sconosciuta, dondolandosi avanti e indietro verso il manubrio. La mascella prominente si muoveva nervosamente da un lato all'altro. Alla fine scese e si diresse verso la porta, camminando leggermente chino in avanti. Sguardo a terra e braccia piegate a novanta gradi. «Il grande chef è arrivato al lavoro» commentò Torsten. Rebecka emise un "mmh" di circostanza, il tipico suono a cui facevano ricorso gli avvocati più giovani quando non volevano ridere di una battuta volgare ma nemmeno urtare un superiore o un cliente. Il ragazzo era arrivato alla porta. Somiglia un po' a un orso in giacca a vento verde, si disse Rebecka. All'improvviso il ragazzo si voltò e tornò al motorino. Si tolse la giacca a vento, la piegò e la posò accuratamente sulla sella. Poi si sfilò il casco e lo posò con molta delicatezza sulla giacca piegata, come se fosse di vetro. Fece un passo indietro per controllare e spostò il casco di un millimetro, sempre con la testa bassa e leggermente inclinata di lato. Di tanto in tanto sbirciava verso Rebecka e Torsten sfregandosi il grosso mento. Rebecka immaginò che dovesse avere poco meno di vent'anni. Ma era chiaro che aveva la testa di un bambino. «Cosa sta facendo?» bisbigliò Torsten. Rebecka scosse la testa. «Entro a chiedere se hanno iniziato a servire la cena» disse. Dalla finestra aperta protetta da una zanzariera verde usciva il sonoro di una trasmissione sportiva, insieme a un parlottio sommesso e al tintinnare di stoviglie. Dal fiume arrivava il rombo di un fuoribordo. C'era odore di cibo. La temperatura era calata, la frescura della sera passava come una mano gentile sul muschio e i cespugli di mirtilli. È come a casa, pensò Rebecka guardando il bosco sull'altro lato della strada. Un colonnato di pini sottili sul magro terreno sabbioso. I raggi del sole penetrano tra i tronchi ramati e colpiscono i cespugli bassi e le pietre coperte di muschio. All'improvviso rivide se stessa. Una ragazzina con un maglione sintetico che le elettrizzava i capelli ogni volta che se lo toglieva. I pantaloni di velluto allungati con una fascia in fondo. Esce dal bosco tenendo in mano una tazza piena di mirtilli. Si dirige verso il fienile, dove l'aspetta la nonna. Sul pavimento in cemento brucia un piccolo fuoco per tenere lontane le zanzare, giusto il necessario, se si mette troppa erba le vacche iniziano a tossire.
La nonna sta mungendo Mansikka, le tiene ferma la coda con la fronte premuta sul fianco della bestia. Il latte cade a spruzzi nel secchio. Quando le vacche abbassano la testa per prendere altro fieno, le catene tintinnano. «Ciao, Pikku-piika» dice la nonna premendo ritmicamente le mammelle della vacca. «Dove sei stata tutto il giorno?» «Nel bosco» risponde la piccola Rebecka. Infila alcuni mirtilli in bocca alla nonna. Solo ora si rende conto di quanto è affamata. Torsten bussò al finestrino dell'auto. Voglio fermarmi qui, si disse Rebecka, sorpresa dal suo stesso fervore. I cespugli nel bosco erano gonfi come cuscini. Rivestiti di rametti di uva di monte, lucidi e scuri, e di mirtillo, di un verde più chiaro che aveva appena iniziato a virare al rosso. Vieni a sdraiarti, le sussurrava il bosco. Appoggia la testa e guarda il vento che scuote le cime degli alberi. Un altro colpetto al finestrino. Rebecka rivolse un cenno di saluto al ragazzo, che restò fermo sulle scale mentre lei entrava. I due garage della vecchia officina erano stati trasformati in bar e ristorante con sei tavoli in pino laccato allineati lungo le pareti, in grado di ospitare sette persone ciascuno. Il linoleum marmorizzato di colore rosso era intonato alla tappezzeria rosa con una decorazione a stencil che correva lungo tutto il locale, perfino sulle porte basculanti che si aprivano sulla cucina. Qualcuno aveva avvolto alcune liane di edera sintetica attorno alle tubature esterne per tentare di ravvivare l'ambiente. Dietro al bancone sulla sinistra, un uomo in grembiule blu asciugava i bicchieri che poi sistemava su uno scaffale insieme alle bottiglie. Aveva una corta barba scura e un anello all'orecchio destro. Le maniche della maglietta nera erano arrotolate sopra i bicipiti gonfi. A uno dei tavoli erano seduti tre uomini in attesa della cena. Un cestino di pane, le posate avvolte in tovagliolini di carta rossi. Gli sguardi fissi sulla partita in tv. Le mani nel cestino a pescare un pezzo di pane. I berretti ammucchiati su una delle sedie libere. Indossavano logore camicie di flanella sopra magliette pubblicitarie dal collo consumato. Uno di loro portava dei pantaloni da lavoro blu con il logo di un'impresa, e gli altri due si erano sfilati la parte superiore della tuta da lavoro che gli pendeva dalla cintola. Una donna sola di mezza età intingeva del pane in una ciotola di minestra. Rivolse un rapido sorriso a Rebecka per poi infilarsi velocemente il
pane zuppo in bocca, prima che si disfacesse. Ai suoi piedi era addormentato un labrador nero con il muso ingrigito per l'età. Sulla sedia accanto era posato un cappotto rosa-Barbie incredibilmente logoro. La donna aveva i capelli tagliati cortissimi in quella che con molta buona volontà si sarebbe potuta definire un'acconciatura pratica. «Posso aiutarla?» chiese l'uomo con l'orecchino dietro al bancone. Rebecka si voltò e fece in tempo solo a rispondere di sì prima che si spalancassero le porte basculanti per far passare una donna sulla ventina con tre piatti in mano. Aveva i capelli tinti a strisce di biondo, rosso e nero, un piercing al sopracciglio e due pietruzze alle narici. Che bella ragazza, pensò Rebecka. «Sì?» disse la giovane in tono incoraggiante, per poi posare i piatti davanti ai tre uomini senza aspettare la risposta. Rebecka era stata sul punto di chiedere se si poteva cenare, ma la risposta era ovvia. «C'è scritto "stanze" sull'insegna» sentì la sua voce chiedere. «Quanto costano?» L'uomo con l'orecchino la guardò stupefatto. «Mimmi» disse. «Chiede una stanza.» La donna con i capelli a strisce si voltò verso Rebecka, si asciugò le mani sul grembiule e si scostò un ciuffo dal viso. «Abbiamo dei bungalow» disse. «Tipo casotti da giardino. Costano duecentosettanta corone a notte.» Cosa sto facendo?, si chiese Rebecka. E subito dopo si rispose: voglio fermarmi qui. Da sola. «D'accordo» disse a bassa voce. «Torno tra un attimo con un signore per cena. Se anche lui chiede una stanza, dica che c'è posto solo per me.» A Mimmi comparve una ruga tra le sopracciglia. «Perché dovrei?» rispose. «Dopo tutto per noi sono affari.» «Niente affatto. Se dice che c'è posto anche per lui, cambierò idea e andremo entrambi a dormire in città. Perciò la scelta è tra un ospite o nessuno.» «Ha problemi a tenere a freno il tipo?» commentò l'uomo con l'orecchino con un sogghigno. Rebecka si limitò ad alzare le spalle. Che pensassero quello che volevano. D'altra parte, cosa avrebbe potuto dire? Mimmi alzò le spalle a sua volta. «Allora d'accordo» disse. «Ma la cena è per due? O dobbiamo dire che c'è da mangiare solo per lei?»
Torsten stava leggendo il menù. Rebecka era seduta di fronte a lui e lo osservava: le guance tonde arrossate dalla gioia, gli occhiali da lettura spinti più avanti possibile sulla punta del naso, i capelli in disordine. Mimmi era china su di lui e gli indicava il menù mentre lui leggeva ad alta voce. Come una maestra con un bambino. Torsten adora tutto questo, si disse Rebecka. Gli uomini con le braccia muscolose e i coltelli appesi alla cintura, che avevano risposto con un grugnito imbarazzato quando era entrato con il suo completo grigio e li aveva salutati allegramente. La bella Mimmi con il petto prosperoso e la voce squillante, la cosa più lontana che si potesse immaginare dalle cameriere compiacenti di Stureplan. Sicuramente stava già elaborando qualche aneddoto gustoso. «Può prendere il piatto del giorno» disse Mimmi indicando una lavagna appesa al muro dove c'era scritto «Alce in agrodolce con funghi e risotto alle verdure». «Oppure può scegliere uno dei piatti surgelati. Sono tutti accompagnati da patate, riso o pasta a scelta.» Indicò il menù dov'erano elencate una serie di portate sotto il titolo «Piatti surgelati»: lasagne, polpette, sanguinaccio, tortino di patate, fettine di renna, renna affumicata e spezzatino. «Si potrebbe assaggiare il sanguinaccio» disse Torsten deliziato. La porta si aprì e il ragazzo che era arrivato in motorino entrò e si fermò sulla soglia. L'ampio torace era stretto in una camicia di cotone accuratamente stirata e abbottonata fino al collo. Non osò guardare gli altri ospiti. Teneva la testa di sbieco, così che il mento prominente puntava verso una delle finestre. Come a indicare una via di fuga. «Nalle, come sei bello!» esclamò Mimmi interrompendo le riflessioni culinarie di Torsten. «Vieni dentro, fatti guardare!» gridò la donna con il cane allontanando il piatto. Solo allora Rebecka notò quanto si assomigliassero lei e Mimmi. Dovevano essere madre e figlia. Il cane ai piedi della donna sollevò la testa e diede due stanchi colpi di coda. Poi riappoggiò la testa e si riaddormentò. Il ragazzo si avvicinò alla donna, che batté le mani per l'entusiasmo. «Sei elegantissimo!» disse. «Buon compleanno! Che bella camicia!» Nalle sorrise lusingato e alzò il mento al soffitto con un gesto che a Rebecka ricordò Rodolfo Valentino.
«Nuova» disse. «Certo, si vede che è nuova» disse Mimmi. «Devi andare a ballare, Nalle?» gridò uno degli uomini, e aggiunse: «Mimmi, prepara cinque vassoi da portare via. Mettici quello che vuoi.» Nalle indicò i suoi pantaloni. «Anche questi.» Alzò le braccia in modo che tutti potessero vedere bene i pantaloni. Erano di cotone grigio, tenuti su da una cintura militare. «Anche quelli sono nuovi? Bellissimi!» assicurarono le due donne. «Ecco» disse Mimmi allontanando una sedia dal tavolo dove sedeva la donna con il cane. «Tuo padre non è ancora arrivato, ma puoi aspettarlo qui con Lisa.» «Torta» disse Nalle sedendosi. «Certo che avrai la torta. Credi che me ne sia dimenticata? Ma dopo cena!» Mimmi allungò una mano e lo accarezzò rapidamente sui capelli, poi sparì in cucina. Rebecka si sporse sul tavolo per avvicinarsi a Torsten. «Pensavo di dormire qui stanotte» disse. «Sai, sono nata in riva a questo fiume, qualche decina di chilometri più a nord, e mi è venuta un po' di nostalgia. Ma ti accompagno in città e torno a prenderti domani mattina.» «Nessun problema» disse Torsten con le guance sempre più colorite dal gusto dell'avventura. «Posso fermarmi anch'io.» «Non credo che queste stanze abbiano materassi molto comodi» obiettò Rebecka. Mimmi tornò con cinque vaschette di alluminio. «Pensavamo di dormire qui questa notte» le disse Torsten. «Avete stanze libere?» «Sorry» rispose Mimmi. «Rimane solo un bungalow. Con un letto singolo.» «Non c'è problema» disse Rebecka rivolta a Torsten, «ti accompagno.» Torsten le sorrise. Sotto il ben pagato avvocato di successo c'era un ragazzino grasso con cui lei non voleva giocare e che cercava di far finta che non gli importasse. Rebecka sentì una fitta alla coscienza. Quando tornò dalla città era quasi buio. Il bosco era una silhouette nera sul fondo blu del cielo. Parcheggiò davanti al bar e chiuse la macchina. Ora c'erano parecchie auto. Dall'interno arrivavano voci maschili, il rumo-
re di forchette infilate con forza nelle bistecche fino a colpire il piatto, la tv come sottofondo. Sperava che la festa di compleanno fosse riuscita. Il bungalow in cui avrebbe dovuto dormire era dall'altra parte della strada, al limitare del bosco. Una piccola lampada sopra la porta illuminava il numero cinque. Mi sento in pace, si disse. Si diresse verso il bungalow, ma all'improvviso si voltò e si inoltrò per qualche metro nel bosco. Gli abeti immobili e silenziosi guardavano le stelle che iniziavano ad accendersi. I loro lunghi manti di velluto verdeazzurro ondeggiavano dolcemente sopra il muschio. Rebecka si sdraiò per terra. Gli abeti chinarono la testa e bisbigliarono parole rassicuranti. Le ultime zanzare dell'estate intonarono un coro squillante e si gettarono su tutte le parti del suo corpo che potevano raggiungere. Che si servissero pure. Non si accorse che Mimmi era uscita a buttare la spazzatura. Quando tornò in cucina da Micke, gli raccontò che la loro ospite si era già coricata, ma per terra, non nel bungalow. «Mi sa che è fuori di testa» fu la sua conclusione. «Chissà» rispose Micke. Mimmi roteò gli occhi al cielo. «Vedrai che sarà convinta di essere una sciamana o una strega e si metterà a preparare pozioni di erbe e a ballare attorno al fuoco.» Zampe Gialle È Pasqua. La lupa ha tre anni quando un essere umano la vede per la prima volta. Succede nel nord della Carelia, sulle rive del fiume Vodla. Lei invece conosceva già gli esseri umani, il loro odore penetrante. E capisce cosa stanno facendo i due uomini in quel momento. Pescano. Quando era un cucciolo scendeva spesso al fiume all'imbrunire per divorare i resti lasciati dai bipedi, viscere di pesce, lasche, idi. Volodja sta posando le reti da ghiaccio con suo fratello. Hanno aperto quattro fori nel ghiaccio dai quali caleranno tre reti. Volodja è in ginocchio accanto a un buco, pronto ad afferrare il palo che suo fratello spinge sott'acqua da un altro. Le mani bagnate gli fanno male per il freddo. E non si fida del ghiaccio, si tiene sempre gli sci accanto. Se il ghiaccio cede può sdraiarcisi sopra a pancia in sotto e trascinarsi verso terra. Alexander ha insistito per posare le reti proprio lì perché è un punto ricco di pesci. C'è
molta corrente e il fondale precipita all'improvviso. Ma è un posto pericoloso. Se l'acqua sale, il fiume scava il ghiaccio da sotto. Volodja lo sa. Il ghiaccio può essere spesso tre palmi un giorno e due dita il giorno dopo. Ma non ha scelta. È venuto a trovare la famiglia di suo fratello per Pasqua. Alexander, sua moglie e le due figlie si devono stringere al piano inferiore, mentre la madre occupa il piano di sopra. Alexander ha la responsabilità delle donne di famiglia, mentre Volodja fa una vita vagabonda lavorando per la compagnia petrolifera Transneft. L'inverno prima era stato in Siberia. L'autunno scorso a Viborg, nel golfo di Finlandia. Negli ultimi mesi nelle foreste della Carelia. Quando suo fratello gli ha proposto di andare a posare qualche rete non ha potuto dire di no. Se lo avesse fatto, Alexander sarebbe andato da solo, e la sera dopo Volodja avrebbe mangiato lavarelli che non aveva contribuito a pescare. La rabbia di Alexander è fatta così, lo spinge a inoltrarsi con il fratello minore sul ghiaccio pericoloso. Ora che sono lì, sembra che la pressione sul suo cuore si attenui. Quasi sorride, con le mani semiassiderate nell'acqua gelida. Forse quella rabbia compressa si addolcirebbe se avesse un figlio maschio, si dice Volodja. E proprio in quell'istante, mentre rivolge alla Vergine una fuggevole preghiera che il figlio nella pancia di sua cognata sia un maschio, vede la lupa. È ferma al limitare del bosco sull'altra sponda e li osserva. Non è molto lontana. Ha gli occhi a mandorla e le zampe lunghe, la pelliccia lanosa e spessa. Sembra quasi che i loro sguardi si incrocino. Suo fratello non la vede, le dà la schiena. Ha le zampe davvero molto lunghe. E gialle. Sembra una regina. E Volodja è in ginocchio davanti a lei da quel ragazzo di paese che è, con i guanti bagnati e il berretto di pelo per traverso sui capelli sudati. Zjoltye nogi, dice. Zampe Gialle. Ma solo nella sua testa. Le labbra non si muovono. Non dice niente al fratello. Forse Alexander avrebbe preso il fucile appoggiato allo zaino e avrebbe sparato. Perciò si costringe a staccare lo sguardo dall'animale e a districare la rete dal bastone. E quando torna ad alzare gli occhi la lupa non c'è più. Quando Zampe Gialle arriva a trecento metri da lì, ha già dimenticato i due uomini sul ghiaccio, Non ripenserà mai più a loro. Dopo due chilometri si ferma a ululare. Le rispondono gli altri membri del branco, a meno di dieci chilometri di distanza. È fatta così. Parte spesso per spedizioni solita-
rie. Volodja la ricorderà per il resto della sua vita. Ogni volta che torna in quel posto scruta il limitare del bosco. Tre anni dopo incontra la donna che diventerà sua moglie. Quando riposa per la prima volta tra le sue braccia, le racconta della lupa dalle lunghe zampe gialle. Mercoledì 6 settembre La riunione sulla struttura che avrebbe dovuto fornire assistenza legale e finanziaria alle congregazioni si tenne a casa del parroco Bertil Stensson. Erano presenti Torsten Karlsson, socio dello studio legale Meijer & Ditzinger di Stoccolma, Rebecka Martinsson, avvocato dello stesso studio, i parroci di Jukkasjärvi, Vittangi e Karesuando, i rappresentanti dei vari consigli parrocchiali e il curato Stefan Wikström. Rebecka Martinsson era l'unica donna. La riunione era iniziata alle otto. Ora erano le dieci meno un quarto. Alle dieci sarebbe stato servito il caffè, a chiusura dell'incontro. Per l'occasione, la sala da pranzo del parroco fungeva da sala conferenze. Il sole settembrino penetrava dai vetri irregolari delle grandi finestre a riquadri. Le pareti erano coperte da librerie che arrivavano fino al soffitto. Niente soprammobili o fiori. Sui davanzali interni delle finestre erano invece allineate moltissime pietre, alcune lisce e tonde, altre ruvide e nere con scintillanti inserti di granato. Sopra le pietre erano posati dei rami stranamente contorti. Il prato e i vialetti fuori erano coperti di foglie ingiallite e bacche di sorbo. Rebecka sedeva accanto a Bertil Stensson. Ogni tanto gli lanciava un'occhiata di sbieco. Era un sessantenne giovanile. Un simpatico zio con i capelli da monello ingrigiti. Viso abbronzato e sorriso caldo. Un sorriso professionale, si disse Rebecka. Era quasi comico vedere lui e Torsten scambiarsi sorrisi reciproci, avrebbero potuto passare per fratelli o vecchi amici d'infanzia. Il pastore aveva stretto la mano di Torsten afferrandogli allo stesso tempo il braccio con la mano sinistra. Torsten si era mostrato incantato. Aveva sorriso e si era passato una mano tra i capelli. Rebecka si domandò se fosse stato il parroco a raccogliere le pietre e i rami che decoravano i davanzali. Di solito sono le donne che si occupano di queste cose. Che fanno passeggiate in riva al mare e raccolgono pietre lisce fino a sfondare le tasche delle giacche. Torsten aveva usato bene le sue due ore. Dopo qualche minuto si era tol-
to la giacca e aveva assunto un tono più personale. Simpatico ma senza perdere professionalità e serietà. Aveva servito l'intero pacchetto come se fosse un pranzo in tre portate. Come aperitivo aveva offerto loro qualche adulazione, in genere cose che già sapevano. Per esempio, che erano tra le comunità più ricche e più belle del paese. L'antipasto era consistito in piccoli esempi di campi in cui la chiesa poteva aver bisogno di consulenza legale, dal diritto civile al diritto associativo, del lavoro, fiscale e così via. Come portata principale aveva servito fatti, cifre e calcoli. Aveva dimostrato che sarebbe stato più conveniente concludere un accordo con un'unica società con competenze in campo sia legale che finanziario. Allo stesso tempo aveva evidenziato apertamente anche i contro, cose di poco conto, è vero, ma pur sempre da tenere in considerazione, e in questo modo aveva dato un'impressione di onestà e affidabilità. Non vendeva aspirapolvere. Ora stava dando il meglio di sé con il dessert, raccontando dell'aiuto già prestato a un'altra congregazione. Il loro problema era la gestione dei cimiteri, che era arrivata a costare somme enormi. C'erano cappelle ed edifici da mantenere in ordine, prati da falciare, fosse da scavare, vialetti da rastrellare e così via, e tutto questo costava denaro. Molto denaro. In quella congregazione avevano assunto un certo numero di LSU, lavoratori socialmente utili, o come cavolo si chiamavano, insomma lavoratori parzialmente pagati dallo stato. In ogni caso, queste persone non costavano grosse cifre alla chiesa, che quindi era disposta a chiudere un occhio sul fatto che non si facessero in quattro. Ma quando il rapporto di lavoro socialmente utile era diventato un'assunzione vera e propria, i costi salariali erano ricaduti interamente sulla chiesa, che si era ritrovata con un gran numero di dipendenti che non si ammazzavano certo di lavoro. Ne avevano assunti altri, ma ormai l'andazzo era tale che i vecchi operai non permettevano nemmeno ai nuovi arrivati di rimboccarsi le maniche. Era diventato sempre più difficile far funzionare le cose. Alcuni dipendenti a tempo pieno erano addirittura arrivati ad avere un secondo lavoro a tempo pieno. Poi la chiesa si era separata dallo stato, la congregazione era diventata autonoma e si era ritrovata a gestire direttamente le proprie finanze. La soluzione era consistita nell'affidare la gestione dei cimiteri a un'impresa esterna. Proprio come avevano fatto molti comuni negli ultimi quindici anni. Torsten citò quanto si fosse risparmiato grazie a quel semplice espediente. I presenti si scambiarono un'occhiata. Colpiti e affondati, si disse Rebecka.
«Senza contare» proseguì Torsten «che oltre a più denaro in cassa, alla congregazione resterà più tempo per le sue attività fondamentali, come occuparsi dei bisogni spirituali dei suoi membri. I pastori non dovrebbero fare gli amministratori, ma spesso le circostanze li obbligano a farlo.» Bertil Stensson spinse un foglio davanti a Rebecka. «Ci avete davvero dato molto su cui riflettere» c'era scritto. Be'?, si chiese Rebecka. Cosa vuole? Che ci scambiamo bigliettini come due scolaretti che hanno dei segreti da tenere nascosti alla maestra? A ogni modo annuì con un leggero sorriso. Torsten concluse e rispose ad alcune domande. Subito dopo Bertil Stensson si alzò e comunicò che il caffè sarebbe stato servito fuori, al sole. «Noi che abitiamo quassù ne dobbiamo approfittare» disse. «Non capita spesso di poter sfruttare i mobili da giardino.» Con un gesto, invitò gli altri a uscire e condusse Torsten e Rebecka in soggiorno. Dovevano ammirare il suo Lars Levi Sunna. Rebecka notò che aveva scambiato con Stefan Wikström un'occhiata che significava: aspetta fuori con gli altri. «Ritengo che la vostra proposta sia esattamente ciò di cui ha bisogno la congregazione» disse il parroco. «Ma avrei bisogno di voi fin da ora, e non fra un anno quando tutto questo potrebbe diventare realtà.» Torsten studiò il quadro. Raffigurava una renna dallo sguardo mansueto che allattava il suo piccolo. Attraverso la porta aperta, Rebecka vide una donna comparsa dal nulla che portava in giardino un vassoio con termos e tazze. «La nostra congregazione ha passato un brutto momento» proseguì il parroco. «Immagino che abbiate sentito parlare dell'omicidio di Mildred Nilsson.» Torsten e Rebecka annuirono. «Devo designare il suo successore» disse Bertil Stensson. «Non è un segreto che lei e Stefan non andavano d'accordo. Stefan è contrario ai pastori donna, io non condivido la sua opinione, ma devo rispettarla. E Mildred era un'agguerrita femminista. Non era per niente facile essere il loro capo. So già che c'è una donna titolata che farà domanda per quell'incarico, non appena lo renderò disponibile. Non ho niente contro di lei, anzi. Ma per amor di quiete preferirei assegnarlo a un uomo.» «Meno titolato?» chiese Torsten. «Sì. È possibile?»
Torsten si accarezzò il mento senza togliere gli occhi dal quadro. «Certo» rispose calmo. «Ma se la donna esclusa ingiustamente fa ricorso sarà tenuto a pagarle i danni.» «E ad assumerla?» «No. Se l'incarico è stato assegnato a un'altra persona, non le si può togliere il lavoro. Posso verificare a quanto ammontano in genere i danni in questi casi. A titolo gratuito.» «O meglio, sarà lei a farlo a titolo gratuito» scherzò il parroco rivolto a Rebecka, che rispose con un sorriso forzato. Poi tornò a concentrare la sua attenzione su Torsten. «Lo apprezzerei molto» disse in tono serio. «C'è anche un'altra cosa. O forse due.» «Spari.» «Mildred ha istituito una fondazione per la protezione di una lupa che si è stabilita nei boschi attorno a Kiruna. Questa fondazione doveva aiutarla a sopravvivere, occupandosi per esempio dei risarcimenti agli allevatori lapponi, della sorveglianza in elicottero in collaborazione con la protezione animali...» «Sì?» «Temo che la fondazione non abbia trovato il consenso in cui Mildred aveva sperato. Non che siamo contrari all'idea di proteggere un lupo, ma vogliamo mantenere un profilo apolitico. Tutti devono sentirsi a casa loro in chiesa, sia gli amici dei lupi, sia chi non li ama.» Rebecka guardò fuori dalla finestra. Dal giardino uno dei rappresentanti dei consigli parrocchiali li osservava con curiosità. Beveva il caffè tenendo il piattino sotto il mento per proteggersi da eventuali gocce. Indossava una camicia orribile. Una volta doveva essere beige, ma probabilmente era stata lavata insieme a un calzino blu. Per fortuna ha una cravatta intonata, si disse Rebecka. «Vorremmo sciogliere la fondazione e usare i fondi per altre attività più adatte alla chiesa» disse il parroco. Torsten gli promise di passare la questione a qualcuno che si intendeva di diritto associativo. «L'ultima è una cosa delicata. Il marito di Mildred Nilsson vive ancora nella canonica di Poikkijärvi. È terribile cacciarlo di casa, ma... be', purtroppo abbiamo bisogno dell'alloggio per il nuovo curato.» «Non dovrebbero esserci problemi» disse Torsten. «Rebecka, visto che hai intenzione di fermarti qualche giorno, potresti dare un'occhiata al con-
tratto d'affitto e parlare con... come si chiama?» «Erik. Erik Nilsson.» «Se per te va bene» aggiunse Torsten. «Altrimenti posso occuparmene io. Dopo tutto è un alloggio di servizio, nel peggiore dei casi ricorreremo all'ufficiale giudiziario.» Il parroco storse la bocca. «E quando si deve ricorrere alle maniere forti» aggiunse Torsten placido, «è meglio avere un bravo avvocato a cui dare la colpa.» «Me ne occupo io» disse Rebecka. «Erik ha le chiavi di Mildred» le comunicò il parroco. «Quelle della chiesa, intendo. Le rivoglio indietro.» «D'accordo» rispose. «Anche la chiave della sua cassetta di sicurezza nell'ufficio parrocchiale. È simile a questa.» Estrasse di tasca un mazzo di chiavi e ne mostrò una a Rebecka. «Una cassetta di sicurezza?» chiese Torsten. «Per tenerci denaro, eventuali appunti relativi alla cura delle anime, insomma, tutto quello che non si vuole rischiare di perdere. I pastori stanno raramente in ufficio e c'è sempre un gran via vai.» Torsten non riuscì a impedirsi di chiedere: «Non l'avete data alla polizia?» «No» rispose il parroco serafico. «Non ce l'hanno chiesta. Guardate, Bengt Grape sta prendendo la quarta tartina. Andiamo, altrimenti restiamo senza.» Rebecka accompagnava Torsten all'aeroporto. Un sole da estate di san Martino splendeva sulle betulle ingiallite. Torsten la guardava di sottecchi. Si domandava se ci fosse stato qualcosa tra lei e Måns. In ogni caso, ora era arrabbiata. Le spalle sollevate, la bocca tirata. «Quanto ti fermerai?» le chiese. «Non lo so» rispose evasiva. «Per il fine settimana.» «Solo per sapere cosa dire a Måns quando si accorgerà che ho perso per strada una sua collaboratrice.» «Vedrai che non farà domande.» Calò il silenzio. Alla fine Rebecka non riuscì più a trattenersi. «La polizia ovviamente non sa dell'esistenza di quella dannata cassetta di sicurezza» esclamò. La voce di Torsten assunse un tono platealmente paziente.
«Gli dev'essere sfuggita. Ma non sta a noi fare il loro lavoro. Dobbiamo fare il nostro.» «È stata uccisa» ribatté Rebecka a bassa voce. «Il nostro lavoro è risolvere i problemi dei clienti, finché questo non diventa illegale. E non è illegale farsi restituire le chiavi della chiesa.» «No. E poi li aiuteremo a calcolare quanto costerebbe un'eventuale discriminazione sessuale sul lavoro, in modo che possano allargare il loro club di soli uomini.» Torsten guardò fuori dal finestrino. «E io dovrò buttare fuori di casa suo marito» proseguì Rebecka. «Ti ho detto che non sei obbligata a farlo.» Ah, piantala, pensò Rebecka. Non mi hai lasciato scelta. Se non avessi accettato avresti mandato l'ufficiale giudiziario a occuparsi di lui. Premette il piede sull'acceleratore. I soldi prima di tutto, si disse. Sono quelli la cosa più importante. «A volte mi viene da vomitare» concluse con voce stanca. «A volte fa parte del nostro lavoro» disse Torsten. «Non c'è che da pulirsi le scarpe e andare avanti.» * L'ispettrice di polizia Anna-Maria Mella stava andando a trovare Lisa Stöckel, la presidente del gruppo Maddalena. La sua casa sorgeva isolata su una cresta dietro la cappella di Poikkijärvi. Alle spalle dell'abitazione la cresta precipitava in una morena, ai piedi della quale scorreva il fiume. Quando era stata costruita, negli anni sessanta, era un semplice bungalow, ma poi era stata ristrutturata e dotata di elaborati infissi bianchi e di una profusione di stucchi sul patio. Ora sembrava una scatola di scarpe travestita da casetta di marzapane. A fianco sorgeva un cadente edificio in legno rosso con il tetto in lamiera e un'unica finestra sbarrata. Legnaia, magazzino e fienile, immaginò Anna-Maria. Un tempo probabilmente c'era un'altra abitazione, che poi era stata abbattuta per costruire il bungalow, ma il fienile era rimasto in piedi. Entrò lentamente in cortile. Tre cani correvano su e giù davanti alla sua auto, abbaiando come matti. Qualche gallina fuggì sbattendo le ali e si rifugiò in un cespuglio di ribes. Accanto al cancello c'era un gatto pietrificato dalla concentrazione davanti a una tana di arvicola. Solo l'irritato frustare della coda rivelava che si era accorto dell'arrivo della Ford Escort.
Anna-Maria parcheggiò davanti alla casa. Dal finestrino vedeva le bocche spalancate dei cani che saltavano vicino alla portiera. È vero che agitavano la coda, ma era meglio non fidarsi. Uno era incredibilmente grande. E nero. Spense il motore. Una donna con un orribile cappotto rosa-Barbie uscì sulla veranda a richiamare i cani. «Qui!» Subito i cani abbandonarono l'auto e si lanciarono sulle scale della veranda. La donna li fece sedere e andò incontro alla macchina. Anna-Maria scese e si presentò. Lisa Stöckel era sulla cinquantina. Il viso abbronzato non era truccato. Attorno agli occhi aveva un intreccio di sottili linee bianche causate dallo strizzare gli occhi sotto il sole. I capelli erano molto corti, un altro millimetro e le sarebbero rimasti dritti in testa come una spazzola. Carina, si disse Anna-Maria. Sembrava una ragazza della prateria. Sempre che si potesse immaginare una ragazza della prateria con quel cappotto rosa. Era davvero orribile, coperto di peli di animale e pieno di buchi e strappi da cui spuntava l'imbottitura bianca. E poi ragazza era una parola grossa. È vero che Anna-Maria conosceva cinquantenni che sarebbero rimaste ragazze fino alla tomba, ma non era il caso di Lisa Stöckel. Anzi, aveva qualcosa negli occhi che diede ad AnnaMaria l'impressione che non fosse mai stata una ragazza, nemmeno quando era giovane. Aveva una linea quasi invisibile che le scendeva dall'angolo degli occhi fino agli zigomi. Un'ombra scura attorno agli occhi. Dolore, si disse Anna-Maria. Fisico o emotivo. Si diressero insieme verso la casa. I cani ancora seduti sulla veranda guairono freneticamente per avere il permesso di alzarsi a salutare l'estranea. «Fermi» ordinò Lisa Stöckel. Si era rivolta agli animali, ma obbedì anche Anna-Maria. «Ha paura dei cani?» «No, se so che non mordono» rispose guardando quello grosso e nero, con la lingua che gli penzolava dalla bocca come una cravatta e le zampe grandi come quelle di un leone. «Ce n'è un altro in cucina, ma è buono come un agnellino. In realtà lo sono anche questi, sono solo una banda di ragazzacci maleducati. Entri pu-
re.» Aprì la porta ad Anna-Maria che sgusciò nell'ingresso. «Brutti teppisti che non siete altro» disse tornando a rivolgersi amorevolmente ai cani. Poi alzò un braccio e gridò: «Via!» I cani si alzarono di scatto lasciando lunghe unghiate sul legno, scesero la scala in un sol balzo e si dispersero in cortile. Anna-Maria si guardava attorno nell'ingresso angusto. La metà del pavimento era occupata da due cucce. C'erano anche una ciotola per l'acqua e alcune paia di stivali di gomma, scarpe da ginnastica e pedule in goretex. C'era a malapena posto per loro due. Le pareti erano coperte di mensole e appendiabiti da cui pendevano guinzagli, guanti in cuoio, berretti, tute da lavoro e parecchio altro. Anna-Maria si domandò dove appendere la giacca, i ganci erano tutti occupati. «La appenda alla sedia in cucina» disse Lisa Stöckel. «Altrimenti si riempie di peli. Non si tolga le scarpe, mi raccomando.» Sull'ingresso si aprivano due porte, una che conduceva in soggiorno e una in cucina. In soggiorno erano allineati parecchi scatoloni pieni di libri, altri volumi erano accatastati sul pavimento. La libreria di legno scuro con le ante in vetro colorato era vuota e impolverata. «Sta traslocando?» chiese Anna-Maria. «No, è solo che... Si ammucchia sempre tanto ciarpame. E i libri, poi, non fanno che raccogliere polvere.» La cucina era arredata con pesanti mobili in pino laccato. Su un divanetto in stile rustico era allungata una femmina di labrador nero. Quando entrarono le due donne, si svegliò e agitò la coda in segno di saluto, poi riappoggiò la testa e si riaddormentò. Lisa la presentò come Majken. «Può raccontarmi qualcosa di Mildred Nilsson?» esordì Anna-Maria quando si furono sedute. «So che lavoravate insieme per un gruppo femminile.» «Ho già detto tutto a... quell'uomo grande e grosso con dei baffi grandi così.» Indicò con la mano un punto a una ventina di centimetri dal labbro superiore. Anna-Maria sorrise. «Sven-Erik Stålnacke.» «Sì.» «Le spiace ripeterlo anche a me?» «Da dove devo cominciare?»
«Come vi siete conosciute?» Anna-Maria studiò il suo volto. Quando la gente torna indietro con la memoria in cerca di un determinato avvenimento spesso abbassa la guardia. A meno che non sia un avvenimento su cui ha intenzione di mentire, ovviamente. Sul volto di Lisa Stöckel passò un rapido sorriso. Per un attimo si addolcì. Evidentemente voleva bene a Mildred. «È stato sei anni fa. Si era appena trasferita. In autunno dovette organizzare i corsi di catechismo per i cresimandi qui e a Jukkasjärvi. E partì come un cane da caccia. Andò a stanare i genitori di tutti i ragazzi che non si erano iscritti. Si presentò e spiegò loro perché pensava che il catechismo fosse importante.» «E perché era importante?» domandò Anna-Maria, ancora convinta che non le fosse servito assolutamente a niente frequentarlo, secoli prima. «Mildred riteneva che la chiesa dovesse essere un punto di incontro. Non le importava tanto se le persone credevano o no, quella era una questione tra loro e Dio. Le bastava riuscire a farle andare in chiesa per i battesimi, le cresime, i matrimoni e le feste principali, in modo che si sentissero abbastanza a loro agio da potercisi rifugiare quando la vita diventa difficile... E se qualche genitore obiettava dicendo "ma non è credente, non è bello che faccia la cresima solo per ricevere dei regali", rispondeva che non c'era niente di male nel ricevere dei regali, a nessuno piace studiare, né a scuola né in chiesa, ma fa parte della cultura generale sapere perché festeggiamo il Natale, la Pasqua, la Pentecoste e l'Ascensione o saper elencare gli evangelisti.» «E lei aveva un figlio, o una figlia, che...» «No, no. O meglio, sì, ho una figlia, ma si era già cresimata anni prima. Lavora al ristorante giù in paese. No, era per il figlio di mio cugino, Nalle. È ritardato e Lars-Gunnar non voleva che facesse la cresima. Perciò era venuta per parlarmi di lui. Vuole del caffè?» Anna-Maria accettò. «Sembra aver pestato i piedi a un sacco di gente» disse. Lisa Stöckel alzò le spalle. «È solo che era sempre così... diretta. Partiva sempre in quarta.» «Cosa vuole dire?» «Voglio dire che non infiocchettava mai le cose. Non c'era spazio per la diplomazia o le finezze. Se pensava che qualcosa non andava, lo diceva chiaro e tondo.» Come quando si era messa contro l'intera squadra di operai del cimitero,
pensò Lisa tra sé. Sbatté gli occhi, ma l'immagine nella sua testa non scomparve così facilmente. Prima vide due cedronelle che svolazzavano attorno ai cespugli di arabetta. Poi i rami della betulla pendula che ondeggiavano dolcemente nella brezza estiva che saliva dal fiume. E poi la schiena di Mildred. Il suo incedere militare tra le tombe. Lisa rincorre Mildred lungo il vialetto del cimitero di Poikkijärvi. In fondo è seduta la squadra di operai, in pausa caffè. Fanno molte pause. Si mettono a lavorare solo quando il parroco li osserva. Ma nessuno osa trovare da ridire. Se ci si mette contro quella gente si rischia di ritrovarsi a celebrare i funerali con i piedi in un mucchio di terra, o con un tagliaerba in funzione a due metri di distanza. O a predicare in pieno inverno in una chiesa gelida. Quel rammollito di un parroco non fa niente. Non ne ha motivo, sono troppo furbi per fare i prepotenti con lui. «Non metterti a litigare» tenta di convincerla Lisa. «Non ho intenzione di litigare» dice Mildred. E parla sul serio. È Mankan Kyrö a vederle per primo. È il capo ufficioso del gruppo. Il vero responsabile se ne frega. È Mankan che decide. È con lui che Mildred non ha intenzione di litigare. Va dritta al punto. Gli altri ascoltano interessati. «La tomba del bambino» dice. «L'avete già scavata?» «Cosa vuoi dire?» chiede Mankan in tono strascicato. «Ho appena parlato con i genitori. Mi hanno detto che avevano scelto un punto con la vista sul fiume nella sezione nord, ma che tu gli hai fatto cambiare idea.» Mankan Kyrö non apre bocca. Per tutta risposta sputa una presa di tabacco e si fruga in tasca in cerca della scatola. «Gli hai detto che le radici della betulla pendula sarebbero cresciute proprio attraverso il corpo del piccolo» prosegue Mildred. «E non è così?» «Succede dovunque, e lo sai bene. Semplicemente non ti andava di scavare sotto la betulla perché il terreno è pietroso e ci sono molte radici. Era troppo faticoso, tutto qui. Per me è inconcepibile che tu pensi ai tuoi comodi al punto da mettere in testa certe immagini a dei genitori.» Per tutto il dialogo non ha alzato la voce. I soci di Mankan guardano per terra. Si vergognano. E odiano quella donna pastore che li fa vergognare.
«Cosa vuoi che faccia?» chiede Mankan Kyrö. «Ormai abbiamo scavato una fossa, e in un punto migliore, se vuoi la mia opinione. Ma forse possiamo obbligarli a seppellire il loro figlio dove vuoi tu.» «Certo che no. Ora è troppo tardi, ormai li hai spaventati. Voglio solo che tu sappia che se succede un'altra volta una cosa del genere...» Ora l'uomo sta quasi sorridendo. Lo sta forse minacciando? «... metterai a dura prova il mio amore per te» conclude prima di andarsene. Lisa la segue. In fretta, per non sentire i commenti alle spalle. Se li può immaginare. Se il marito le desse quello che le serve forse si calmerebbe un po'. «A chi ha pestato i piedi?» chiese Anna-Maria. Lisa alzò le spalle e accese il bollitore dell'acqua. «Da dove devo cominciare? Al preside della scuola di Jukkasjärvi, perché pretendeva che affrontasse gli episodi di mobbing, alle assistenti sociali, perché si intrometteva nel loro lavoro.» «In che senso?» «Be', la canonica ospitava sempre qualche donna con bambini che aveva lasciato il marito...» «So che aveva istituito una fondazione per quella lupa» disse AnnaMaria. «C'è stato un grande dibattito a proposito.» «Già. Non ho né latte né biscotti, dovrà prenderlo nero.» Lisa Stöckel mise in tavola una tazza sbeccata con un disegno pubblicitario. «Anche il parroco e molti degli altri pastori non la sopportavano.» «Perché?» «Be', a causa nostra, le donne di Maddalena, tra le altre cose. Siamo quasi in duecento. Ma c'era anche molta gente che la apprezzava, e non solo nel nostro gruppo, anche molti uomini, nonostante la gente sostenga il contrario. Studiavamo la Bibbia. Assistevamo alle sue funzioni. E lavoravamo.» «In che senso?» «Facevamo un sacco di cose. Cucinavamo, per esempio. Ci siamo chieste cosa potevamo fare per le mamme sole. È faticoso essere sempre sole con i bambini e tutto il tempo se ne va in cose pratiche. Lavorare, fare la spesa, cucinare, e alla fine non restano forze sufficienti se non per guardare la tv. Allora abbiamo organizzato delle cene comuni nella casa parrocchiale in città dal lunedì al mercoledì, e qui in canonica il giovedì e il venerdì.
Facciamo a turno a cucinare, si pagano venti corone per un adulto e quindici per un bambino. Così le mamme evitano di fare la spesa e cucinare alcuni giorni alla settimana. A volte fanno a turno a occuparsi dei bambini delle altre, in modo da avere il tempo per andare in palestra o anche solo per fare un giro in città. Mildred era molto brava con le soluzioni pratiche.» Lisa rise e proseguì: «Era pericoloso dirle che qualcosa non andava nella comunità o cose del genere. Partiva in quarta, "cosa possiamo fare?", e in men che non si dica ti aveva messo a lavorare. Maddalena era un gruppo compatto, qualsiasi pastore avrebbe voluto averlo attorno a sé.» «Quindi gli altri pastori erano invidiosi?» La donna alzò le spalle. «Ha detto che Maddalena era un gruppo compatto. Ora non lo è più?» Lisa teneva lo sguardo fisso sul tavolo. «Ma sì.» Anna-Maria aspettò che dicesse qualcosa di più, ma si era chiusa in un ostinato silenzio. «Chi le era più vicino?» «Noi del direttivo di Maddalena, immagino.» «E suo marito?» Anna-Maria scorse un movimento dell'iride della donna. Lisa Stöckel, non me la racconti giusta, si disse. «Anche lui, è ovvio.» «Si sentiva minacciata o spaventata?» «Doveva avere un tumore o qualcosa che premeva sulla zona del cervello in cui risiede la paura... No, non aveva paura. E non era più minacciata del solito, c'era sempre qualcuno che si divertiva a tagliarle le gomme o sfondarle i vetri della macchina...» Lisa Stöckel lanciò ad Anna-Maria un'occhiata infuriata. «Aveva smesso di sporgere denuncia. Tante seccature per niente, non si può mai provare chi è stato neanche se lo si sa perfettamente.» «Allora forse potrà farmi qualche nome» disse Anna-Maria. Un quarto d'ora più tardi si risedette nella sua Ford Escort e partì. Perché uno si libera di tutti i vecchi libri?, si chiese. Lisa Stöckel restò alla finestra della cucina a osservare l'auto di AnnaMaria che spariva giù per la discesa in una nuvola di fumo grasso. Poi si sedette sul divano accanto alla femmina di labrador addormentata. Le ac-
carezzò il collo e il petto come una cagna lecca i suoi piccoli per calmarli. L'animale si svegliò e diede qualche affettuoso colpo di coda. «Cosa c'è, Majken?» chiese Lisa. «Non ti alzi nemmeno più a salutare gli ospiti.» Le corde vocali le si strinsero in un nodo doloroso. Provò una sensazione di calore sotto le palpebre. Erano lacrime. Non dovevano uscire. Deve avere molto male, si disse. Si alzò in fretta. Ah, Dio, Mildred, perdonami!, pensò. Perdonami, ti prego. Io... cerco di fare la cosa giusta, ma ho paura. Doveva prendere aria, all'improvviso si sentiva male. Fece in tempo a uscire sul portico prima di vomitare. I cani arrivarono di corsa. Se lei non voleva ciò che aveva rigettato, se ne potevano occupare loro. Li scacciò con un piede. Quella dannata poliziotta. Era entrata direttamente nella sua testa e l'aveva aperta come un libro illustrato. Mildred su ogni pagina. Non ce la faceva più a vedere quelle immagini. Il loro primo incontro sei anni prima. Ricordava che era accanto alla gabbia dei conigli. Era ora di dargli da mangiare. I conigli, bianchi, grigi, neri, a chiazze, si alzavano sulle zampe posteriori e premevano i musi contro la rete. Lisa distribuiva croccantini e carote a pezzi in piccoli piatti di terracotta. Provava una piccola fitta al cuore al pensiero che ben presto i conigli sarebbero finiti in pentola giù al ristorante. All'improvviso si trova alle spalle il pastore donna che si è appena trasferito in paese. Non si sono mai incontrate. Lisa non l'ha sentita arrivare. Mildred Nilsson è una donna attorno alla cinquantina, come lei. Ha un volto pallido e minuto, i capelli lunghi e scuri. Spesso Lisa la sentirà definire "insignificante". Non capirà mai come sia possibile. Quando stringe la mano sottile che le viene tesa le succede qualcosa dentro. Deve quasi obbligare la sua mano a lasciare la presa. Il pastore parla. Anche la bocca è piccola, con le labbra sottili. Rosse come uva di monte. E mentre l'uva di monte parla e parla, i suoi occhi cantano. Su un tema completamente diverso. Per la prima volta da - già, neanche lei sa più dire da quanto tempo - Lisa ha paura che le si possa leggere in volto la verità. Avrebbe bisogno di controllarsi allo specchio. Lei che ha mantenuto segreti per tutta la vita. Che sa cosa vuol dire essere la più bella ragazza del paese. È vero che tan-
te volte ha raccontato che da giovane si sentiva apostrofare in continuazione con "che bel davanzale", tanto che camminava leggermente curva in avanti. Ma ci sono altre cose, migliaia di segreti. Il cugino di suo padre quando aveva tredici anni. Le aveva afferrato i capelli e se li era rigirati in mano. Le sembrava che la pelle della testa stesse per staccarsi. «Tieni la bocca chiusa» le bisbiglia all'orecchio. La spinge in bagno, le sbatte la fronte sulle piastrelle per farle capire che parla sul serio. Con l'altra mano le slaccia i jeans. Il resto della famiglia è in salotto. Ha tenuto la bocca chiusa. Non ha mai detto niente. Si è tagliata i capelli. O l'ultima volta che ha bevuto alcol nella sua vita, la notte di mezza estate del 1965. Era quasi incosciente. Erano stati tre ragazzi di Kiruna. Due abitano ancora lì, qualche tempo fa li ha incontrati al supermercato. Ma il ricordo lo ha lasciato cadere come una pietra in uno stagno, è come se lo avesse sognato molto tempo fa. E poi gli anni con Tommy. Quella volta che si era ubriacato con i suoi cugini di Lannavaara. Era la fine di settembre. Mimmi non poteva avere più di tre o quattro anni. Il ghiaccio non si era ancora formato, i cugini gli avevano regalato una vecchia fiocina. Era inutilizzabile, non si rendeva conto che lo prendevano solo in giro. Verso mattina l'aveva chiamata perché lo andasse a prendere. Lei aveva cercato di convincerlo a lasciare lì la fiocina, ma lui si era incaponito ed era riuscito a farla entrare in macchina. Aveva fatto tutto il viaggio con il finestrino abbassato, con l'arpione che spuntava. Ogni tanto rideva e mimava un colpo verso il buio. Quando erano arrivati, aveva deciso che sarebbe andato a pescare. Mancavano due ore prima che facesse luce. Doveva andare anche lei, stabilì. Per remare e tenere la lampada. La bambina dorme, aveva obiettato lei. Perfetto, aveva risposto lui. Avrebbe dormito altre due ore. Cercò di convincerlo a indossare il giubbotto salvagente, l'acqua era gelida. Ma non c'era stato verso. «Cazzo, come sei diventata seria» disse. «Ho sposato Annika la precisina.» Lo trovava divertente. Una volta in barca non faceva che chiamarla così. «Stai un po' più vicina alla riva, Annika», come l'amica di Pippi Calzelunghe. Poi era caduto nel fiume. Si sentì un plop, e qualche secondo dopo armeggiava freneticamente in cerca di un appiglio. Acqua gelida, notte nera. Non gridava nemmeno. Si limitava ad ansimare per lo sforzo.
Ah, quei secondi in cui si chiese seriamente cosa fare. Sarebbe bastato qualche colpo di remo per allontanare la barca. Con tutto quell'alcol in corpo, quanto ci sarebbe voluto? Non più di cinque minuti. Poi lo tirò a bordo. Non fu facile, rischiò di cadere in acqua anche lei. Non trovarono più la fiocina. Forse era andata a fondo. Forse andava alla deriva nell'oscurità. A ogni modo era proprio scocciato. E ce l'aveva con lei, anche se le doveva la vita. Lisa sentiva che aveva voglia di picchiarla. Non aveva mai raccontato a nessuno di quella fredda tentazione di lasciarlo morire. Di vederlo affogare come un gattino in una bacinella. E ora è lì con il nuovo pastore. Si sente strana. Gli occhi di quella donna le sono entrati dentro. Ancora un segreto da lasciar cadere nel pozzo. Va a fondo. Resta lì a luccicare come un gioiello in mezzo al ciarpame. * Erano passati quasi tre mesi da quando sua moglie era stata trovata assassinata. Erik Nilsson scese dalla sua Skoda davanti alla canonica. Faceva ancora caldo, anche se era settembre inoltrato. Il cielo di un blu sgargiante, senza una nuvola. La luce tagliava l'aria come un coltello affilato. Era passato in ufficio. Era stato bello salutare i colleghi. Erano come una seconda famiglia. Presto sarebbe tornato, avrebbe potuto pensare a qualcos'altro. Guardò le scarpe allineate sulle scale. Fiori secchi pendevano dalla veranda. Si ripromise vagamente di mettere dentro i vasi. Altrimenti di punto in bianco sarebbero gelati e si sarebbero rotti. Si era fermato a fare la spesa lungo la strada. Aprì la porta, prese le borse e premette la maniglia con il gomito. «Mildred!» chiamò una volta entrato. Poi si fermò. Silenzio. La casa era un grande silenzio di duecentottanta metri quadrati. Il mondo intero stava zitto. La casa ondeggiava come una barca vuota attraverso un universo muto e abbagliante. L'unico suono che si sentiva era il cigolare della terra che ruotava sul suo asse. Perché diavolo l'aveva chiamata? Quando era viva sapeva sempre se era in casa. Non appena entrava dalla porta. Non c'è niente di strano, era solito dire. I neonati dopo tutto sentono l'odore della madre anche se è in un'altra stanza. Da grandi non si perde quella capacità. Semplicemente non viene riconosciuta dalla nostra consa-
pevolezza, perciò si parla di intuizione o sesto senso. A volte provava ancora quella sensazione quando tornava a casa. Come se lei fosse lì da qualche parte. Sempre nella stanza accanto. Posò le borse sul pavimento ed entrò nel silenzio. Mildred, gridava una voce nella sua testa. In quel momento suonò il campanello. Era una donna con un lungo cappotto sagomato e un paio di stivali dai tacchi alti. Era assolutamente fuori luogo, non avrebbe potuto spiccare di più se avesse avuto addosso solo la biancheria intima. Si tolse il guanto destro e gli tese la mano. Disse di chiamarsi Rebecka Martinsson. «Entri» disse passandosi inconsapevolmente una mano sui capelli e sulla barba. «Grazie, non serve, volevo solo...» «Entri» ripeté precedendola. Le disse di tenere le scarpe e la fece sedere in cucina. Era tutto in ordine. Cucinava e teneva in ordine la casa quando Mildred era viva, perché avrebbe dovuto smettere di farlo ora che era morta? L'unica cosa che non toccava erano le sue cose. Il suo maglione rosso era ancora appallottolato sul divano. Le sue carte e la sua posta erano ammonticchiate sulla scrivania. «Dica» la incoraggiò in tono gentile. Gli riusciva bene. Essere gentile con le donne. Nel corso degli anni ce n'erano state molte sedute proprio lì, al tavolo della cucina. Molte avevano un bambino in braccio e un altro accanto con il pugno stretto al maglione della mamma. Altre non fuggivano tanto da un uomo, quanto da loro stesse. Non sopportavano la solitudine di un appartamento a Lombolo. Quelle erano il genere che fumava una sigaretta dopo l'altra sulle scale della veranda. «Sono qui per conto dei datori di lavoro di sua moglie» disse Rebecka Martinsson. Erik Nilsson era stato sul punto di sedersi, o forse di chiedere se voleva del caffè. Ma ora rimase in piedi. Visto che non disse nulla, la donna proseguì: «Si tratta di due cose. Rivogliono le chiavi dell'ufficio. E dovrebbe iniziare a pensare al trasloco.» L'uomo guardava fuori dalla finestra. La donna continuava a parlare, ora era lei che era calma e gentile. Gli spiegò che la canonica era un alloggio di servizio, che la chiesa poteva aiutarlo a trovare un altro appartamento e una ditta di traslochi.
L'uomo strinse la bocca, il respiro gli divenne pesante. Ogni respiro era un sibilo dal naso. Ora la guardava con disprezzo, costringendola ad abbassare gli occhi sul tavolo. «Cazzo» disse. «Cazzo, fanno vomitare. È la moglie di Stefan Wikström che non sta più nella pelle? Non ha mai sopportato che Mildred avesse la canonica più grande.» «Non lo so. Io...» L'uomo picchiò i palmi sul tavolo. «Io ho perso tutto!» Fece un gesto nell'aria a indicare che stava cercando di controllarsi. «Aspetti qui» disse. Uscì dalla cucina. Rebecka sentì i suoi passi salire le scale e attraversare il piano superiore. Dopo un attimo era di ritorno e posò il mazzo di chiavi sul tavolo come se fosse un sacchetto di escrementi di cane. «C'è qualcos'altro?» chiese. «Il trasloco» ripeté lei irrequieta. E questa volta lo guardò negli occhi. «Come ci si sente?» chiese l'uomo. «Come ci si sente dentro quei bei vestiti, quando si fa un lavoro del genere?» Rebecka si alzò. Qualcosa cambiò nel suo volto, fu solo un attimo, ma Erik lo aveva visto molte altre volte. Il dolore silenzioso. Vide la risposta negli occhi di lei. La sentì come se la pronunciasse ad alta voce: come una puttana. Prese i guanti dal tavolo con movimenti rigidi, lentamente, come se dovesse contare. Uno, due. Afferrò il grosso mazzo di chiavi. Erik Nilsson sospirò pesantemente e si passò una mano sul viso. «Mi scusi» disse. «Mildred mi avrebbe preso a calci nel sedere. Che giorno è oggi?» Visto che Rebecka non rispondeva, proseguì: «Una settimana, me ne vado entro una settimana.» Rebecka annuì. La accompagnò alla porta. Cercò di trovare qualcosa da dire, non era il caso di offrirle del caffè. «Una settimana» ripeté guardandola allontanarsi. Come se avesse potuto farle piacere. Rebecka uscì dalla canonica barcollando. O forse era solo una sua impressione. In realtà non barcollava affatto. Le gambe e i piedi la portarono fuori con passi regolari. Non sono niente, si disse. Non è rimasto niente, qua dentro. Niente umanità, niente giudizio, niente di niente. Faccio quello che mi chiedono. È ovvio. I colleghi dell'ufficio sono tutto quello che ho. Mi dico che non
sopporto l'idea di tornare al lavoro. Ma in realtà non sopporto nemmeno di esserne esclusa. Faccio qualsiasi cosa, proprio qualsiasi cosa, per sentirmene parte. Prese come punto di riferimento la cassetta delle lettere e non si accorse della Ford Escort rossa che saliva lungo lo sterrato fino a quando rallentò per entrare. La macchina si fermò. Rebecka fu attraversata da una sorta di scossa elettrica. L'ispettrice di polizia Anna-Maria Mella scese dall'auto. Si erano conosciute quando Rebecka aveva assunto la difesa di Sanna Strandgård. Ed erano stati Anna-Maria e il suo collega Sven-Erik Stålnacke a salvarle la vita, quella notte. All'epoca la poliziotta era incinta, quasi cubica, mentre ora era magra. Ma aveva le spalle larghe e l'aria forte, anche se era così bassa di statura. I capelli raccolti nella solita treccia spessa sulla schiena. I denti bianchi e regolari nel volto cavallino. Un pony-poliziotto. «Salve!» esclamò Anna-Maria Mella. Poi non disse altro. Il suo viso era un enorme punto di domanda. «Io...» iniziò esitante Rebecka, per poi prendere lo slancio. «Il mio ufficio ha un affare in corso con le congregazioni della chiesa di Svezia, abbiamo avuto una riunione e... be', ci hanno chiesto aiuto per riavere la canonica, e visto che ero qui sono venuta a parlare con...» Concluse la frase con un cenno del capo in direzione della casa. «Ma non ha niente a che vedere con...?» chiese Anna-Maria. «No, quando sono venuta a Kiruna non sapevo nemmeno... no. Be', maschio o femmina?» chiese poi cercando di farsi apparire sulle labbra una smorfia di sorriso. «Un maschietto. Ho appena ripreso il lavoro dopo il congedo e mi sto occupando dell'omicidio di Mildred Nilsson.» Rebecka annuì. Alzò gli occhi al cielo. Era completamente sgombro. Il mazzo di chiavi pesava un quintale nella sua tasca. Cos'ho che non va?, si chiese. Non sono malata. Non ho nessuna malattia. Sono solo pigra. Pigra e pazza. Non ho più parole da dire. Il silenzio mi sta mangiando dentro. «Strano il mondo, eh?» disse Anna-Maria. «Prima Viktor Strandgård e ora Mildred Nilsson.» Rebecka annuì di nuovo, Anna-Maria sorrise. Sembrava che il silenzio dell'altra non la imbarazzasse affatto, si limitava ad aspettare pazientemen-
te che Rebecka dicesse qualcosa. «Cosa ne pensi?» chiese alla fine. «C'è in giro un pazzo che ha tenuto un album di ritagli sul delitto di Viktor e che ha deciso di dargli un seguito?» «Forse.» Anna-Maria alzò gli occhi verso un pino. Sentiva uno scoiattolo correre lungo il tronco ma non lo vedeva. L'animaletto salì fino in cima restando dall'altro lato del fusto e si mise a saltellare fra i rami. Forse era stato un pazzo ispirato dall'omicidio di Viktor Strandgård. O forse qualcuno che la conosceva. Che sapeva che quella notte avrebbe celebrato una funzione e che poi sarebbe scesa all'attracco. Non si era difesa. E perché è stata impiccata? Sembrava quasi come nel medioevo, quando si infilzava la testa della gente sulle picche. Come ammonimento. «Come stai?» chiese poi Anna-Maria. Rebecka rispose che stava bene. Ovviamente aveva passato un periodo difficile, ma aveva avuto l'aiuto necessario. Anna-Maria rispose che le faceva piacere. La guardò, ricordando la scena che la polizia aveva trovato arrivando alla capanna di Jiekajärvi. Lei non aveva potuto andare perché le erano arrivate le doglie, ma in seguito l'aveva sognata spesso. In sogno attraversava il bosco in motoslitta, sotto una tempesta di neve. Rebecka era adagiata sanguinante sullo scivolo. La neve le colpiva il viso. Aveva paura di investire qualcuno, ma andava veloce, nonostante il freddo. La motoslitta che ruggiva. Di solito si svegliava di soprassalto. Restava sdraiata a guardare Gustav che russava tra lei e Robert. Sdraiato sulla schiena. Perfettamente al sicuro e a suo agio, con le braccine piegate a novanta gradi come fanno i neonati. Era andato tutto bene, si diceva. Era andato tutto bene. Non era andato tutto così bene, si disse in quel momento. «Torni subito a Stoccolma?» chiese. «No, ho preso qualche giorno di vacanza.» «Stai a casa di tua nonna a Kurravaara?» «No, io... Sono qui in paese. Il ristorante affitta alcune camere.» «Quindi non sei stata a Kurravaara?» «No.» Anna-Maria squadrò Rebecka. «Se vuoi compagnia possiamo andarci insieme» disse. Rebecka la ringraziò ma declinò l'offerta. Non aveva ancora avuto il tempo di andarci, tutto lì. Si salutarono. Prima di separarsi Anna-Maria
aggiunse: «Hai salvato quelle bambine.» Rebecka annuì. La cosa non mi consola, si disse. «Cosa ne è stato di loro?» chiese. «Avevo segnalato ai servizi sociali dei sospetti maltrattamenti.» «Non se n'è fatto niente» disse Anna-Maria. «La famiglia si è trasferita.» Rebecka pensò alle bambine. Sara e Lova. Si schiarì la voce e cercò di pensare a qualcos'altro. «Sono faccende costose per il comune» disse Anna-Maria. «Le indagini costano. L'affidamento anche. Andare in tribunale pure. Dal punto di vista dei bambini sarebbe meglio se l'intero apparato dipendesse dallo stato, ma la soluzione migliore per il comune è che il problema si trasferisca da qualche altra parte. Cazzo, mi è capitato di togliere dei ragazzini da una zona di guerra di cinquantadue metri quadrati. E poi vieni a sapere che il comune ha trovato un appartamento per tutta la famiglia a Örkelljunga.» Tacque. Si rendeva conto che si era messa a parlare a vanvera solo perché Rebecka Martinsson sembrava sul punto di crollare. Quando si allontanò in direzione del ristorante, Anna-Maria restò un momento a osservarla, presa da un'improvvisa nostalgia per i suoi figli. Robert era a casa con Gustav. Aveva voglia di appoggiare il naso sulla testa di Gustav, sentire le sue braccine forti attorno al collo. Poi fece un bel respiro e raddrizzò la schiena. Vide il sole sull'erba ingiallita. Sentì lo scoiattolo ancora in movimento sull'albero sull'altro lato della strada. Le tornò il sorriso. Ora doveva parlare con Erik Nilsson, il marito di Mildred. Poi sarebbe tornata dalla sua famiglia. Rebecka Martinsson si diresse verso il ristorante. Il bosco alle sue spalle le bisbigliava un invito. Vieni qui, le diceva. Inoltrati in me. Sono senza fine. Sapeva come sarebbe stata quella passeggiata: i pini sottili come pertiche di rame battuto. Il vento tra le cime degli alberi come acqua che scorre. Gli abeti che sembrano bruciati dai licheni. Sotto i piedi il fruscio del muschio, lo schiocco delle pigne rosicchiate dai picchi. A volte si cammina su un morbido tappeto di aghi di pino, allora si sente solo il rumore dei sottili rametti che si spezzano sotto i piedi. Continua a camminare. Prima i pensieri sono una matassa imbrogliata. I rami le frustano il viso o le accarezzano i capelli. Uno dopo l'altro i fili vengono estratti dalla matassa. Restano impigliati agli alberi. Volano via nel vento. Alla fine la testa è vuota. E si può viaggiare attraverso il bosco,
su acquitrini dove i piedi sprofondano nella torba, lungo il fianco di una collina. Il vento fresco. Le betulle nane che strisciano sul terreno. Ci si sdraia. E poi cade la neve. All'improvviso si ricordò di quando era bambina. Quel desiderio di esplorare l'infinito come un'indiana. Le poiane che volteggiavano sopra la testa. Nei suoi sogni aveva lo zaino in spalla e dormiva sotto il cielo. Il cane della nonna, Jussi, era sempre con lei. A volte viaggiava in canoa. Ricordava di quando chiedeva a suo padre, indicando col dito: «Da quella parte dove si arriva?» e il padre rispondeva. Nuove poesie a seconda di dove puntava il dito e dove si trovavano. «Tjålme.» «Latteluokta.» «Oltre il fiume Rautasälven.» «In cima al Drakryggen.» Fu costretta a fermarsi. Le sembrava quasi di vederli. Era difficile ricordare il vero viso di papà. Era perché aveva visto troppe fotografie, avevano scacciato i suoi ricordi. Ma riconosce la camicia. È di cotone, ma morbida come seta per i tanti lavaggi. Fondo bianco, trattini rossi e neri che formano dei quadrati. Il coltello alla cintola. Il fodero di pelle scura e lucida. Il bel manico d'osso intagliato. E lei, a non più di sette anni. In testa un berretto blu con fiocchi di neve bianchi e ai piedi degli stivali come si deve. Anche lei ha un coltellino alla cintola, più che altro una questione di scena. Anche se ha cercato di usarlo per intagliare figurine nel legno. Come Emil di Lönneberga. Ma è troppo sottile. Se le serve il coltello deve chiedere in prestito quello di papà, funziona molto meglio per tagliare le frasche per accendere il fuoco o per appuntire gli spiedini. A volte anche per intagliare, anche se non ne ricava niente di buono. Rebecka abbassò gli occhi sugli stivali dai tacchi alti di Lagersons. Sorry, disse al bosco. Ormai mi vesto nel modo sbagliato. Micke Kiviniemi passò il panno sul bancone. Erano da poco passate le quattro di mercoledì pomeriggio. La loro ospite, Rebecka Martinsson, sedeva da sola accanto alla finestra e guardava il fiume. Era l'unica cliente donna, aveva preso una cotoletta di renna con purée e la frittata di funghi di Mimmi e aveva sorseggiato un bicchiere di vino rosso, inconsapevole degli sguardi degli altri avventori. La banda degli scapoli era sempre la prima ad arrivare. Di sabato arrivavano già verso le tre per cenare presto, bere qualche birra e ammazzare le ore solitarie fino a quando davano qualcosa di buono in tv. Quel pomeriggio c'era solo Malte Alajärvi, che importunava Mimmi come al solito, una cosa che gli piaceva un sacco. Più tardi sarebbe arrivata tutta la banda per
bere qualche birra e guardare lo sport in tv. I clienti del ristorante erano in gran parte scapoli incalliti, ma ultimamente arrivava anche qualche coppietta. E qualche donna del gruppo Maddalena. E a volte il personale del villaggio turistico di Jukkasjärvi attraversava il fiume e veniva a fare due chiacchiere. «Che cazzo è il piatto del giorno?» protestò Malte indicando il menù. «Gno...» «Gnocchi» spiegò Mimmi. «Sono come dei bocconcini di pasta. Gnocchi con pomodoro e mozzarella. E di secondo puoi prendere carne alla griglia o pollo.» Si piazzò accanto a Malte ed estrasse provocatoriamente il blocchetto degli ordini. Come se ne avesse bisogno, si disse Micke. Poteva prendere le ordinazioni di dodici persone e ricordarsi tutto a memoria. Incredibile. Guardò Mimmi. In un confronto con Rebecka Martinsson l'avrebbe battuta di parecchie lunghezze. Anche sua madre Lisa era stata una bellezza da giovane, lo dicevano tutti in paese. Ed era ancora una bella donna. Era difficile nasconderlo, anche se se ne andava in giro senza trucco e con abiti impossibili e si tagliava i capelli da sola. In piena notte e con le forbici da tosatura, come diceva Mimmi. Ma mentre Lisa nascondeva la sua bellezza meglio che poteva, Mimmi la metteva in mostra. Il grembiule stretto sui fianchi. I capelli striati che spuntavano dal fazzoletto legato in testa. Maglioncini neri aderenti con generose scollature. Quando si chinava ad asciugare i tavoli, chiunque poteva lanciare una bella occhiata nel solco tra i seni dolcemente oscillanti, tenuti fermi da un reggiseno bordato di pizzo. Rosso, nero o lilla. Da dietro, i jeans a vita bassa lasciavano intravedere l'aquila tatuata sulla natica sinistra ogni volta che si piegava. Ricordò la prima volta che l'aveva vista. Una sera era passata a salutare sua madre e si era offerta di dargli una mano. C'era gente che voleva mangiare e suo fratello come al solito non si era presentato, anche se l'idea del ristorante era stata sua. Mimmi si era offerta di preparare qualcosa da mangiare e servire in tavola. La voce si era sparsa la sera stessa. I ragazzi avevano chiamato gli amici perché venissero ad ammirarla. Poi era rimasta. Per un po', diceva sempre in tono vago quando lui si informava sulle sue intenzioni. Se lui insisteva dicendo che sarebbe stato meglio saperlo, in modo da poter pianificare l'attività del ristorante, lei assumeva un'aria ostile. «Allora non far conto su di me.»
In seguito, quando erano finiti a letto, aveva trovato il coraggio di chiederglielo di nuovo. Quanto sarebbe rimasta. «Finché non salta fuori qualcosa di meglio» aveva risposto con un sorriso. Non erano una coppia, questo glielo aveva messo bene in chiaro. Micke aveva avuto parecchie fidanzate. Con una aveva addirittura convissuto per un periodo. Perciò sapeva cosa voleva dire. Sei una persona splendida ma... Non è il momento giusto... Se mi innamorassi di qualcuno sarebbe di te... Non posso impegnarmi... Significava una cosa sola: non ti amo, vai bene per il momento. Mimmi aveva completamente trasformato il locale. Per prima cosa lo aveva aiutato a liberarsi del fratello, che non lavorava né lo aiutava a pagare i debiti. L'unica cosa che faceva era andare a bere con gli amici senza pagare. Una banda di perdenti che trattava suo fratello come un re, finché offriva da bere. «La scelta è semplice» gli aveva detto Mimmi. «O si chiude, e resti con i debiti. O lasci tutto a Micke.» E il fratello aveva firmato. Gli occhi cerchiati di rosso. L'odore stantio della maglietta che non cambiava da giorni. E quella nuova irascibilità nella voce. Il tono da alcolizzato. «Ma l'insegna è mia» aveva sentenziato allontanando il contratto con un gesto brusco. «Ho un sacco di idee» aveva proseguito picchiettandosi un dito sulla fronte. «Puoi venire a prenderla quando vuoi» aveva ribattuto Micke. E dentro di sé aveva aggiunto: campa cavallo. Si ricordò quando suo fratello l'aveva trovata su internet. Un'insegna di seconda mano dagli Stati Uniti. LAST STOP DINER, lettere al neon bianche su fondo rosso. All'epoca ne erano ridicolmente soddisfatti. Ma adesso cosa gliene importava a Micke? Aveva altri progetti. "Mimmi's" sarebbe stato un bel nome per un ristorante. Anche se lei non ne aveva voluto sapere. Era diventato "Da Micke bar ristorante". «Perché devi sempre cucinare cose così strane?» Malte guardò il menù con espressione addolorata. «Non c'è niente di strano» disse Mimmi. «Sono un po' come il polpettone di patate, solo più piccoli.» «Polpettone di patate al pomodoro, suona strano, no? Dammi qualcosa di surgelato. Prendo le lasagne.» Mimmi sparì in cucina.
«E lascia perdere il cibo per conigli» le gridò dietro Malte. «Hai sentito? Niente insalata!» Micke si voltò verso Rebecka Martinsson. «Resta anche stanotte?» «Sì.» Dove dovrei andare?, si chiese. Cosa dovrei fare? Qui almeno nessuno mi conosce. «Quel pastore» disse poi. «La donna che è morta.» «Mildred Nilsson.» «Com'era?» «In gamba, secondo me. Lei e Mimmi sono le cose migliori che siano capitate a questo paese. E anche a questo locale. Quando ho aperto c'erano solo un sacco di scapoli dai diciotto agli ottantatré anni. Ma quando è arrivata Mildred, hanno iniziato a venire anche le donne. Ha dato una bella spinta al paese.» «Il pastore faceva pubblicità al locale?» Micke rise. «Era fatta così. Pensava che le donne dovessero uscire un po'. Prendersi una pausa. Così quando non avevano voglia di cucinare venivano qui a mangiare con i mariti. E da quando vengono anche le donne, l'atmosfera è cambiata. Finché erano tutti uomini, non facevano altro che brontolare.» «Non è vero» obiettò Malte Alajärvi che stava origliando facendo finta di niente. «Sì invece, e lo fai ancora. Ti siedi qui a guardare il fiume e non fai che brontolare su Yngve Bergqvist per l'albergo di ghiaccio a Jukkasjärvi...» «È vero, ma quel furfante di Yngve...» «E ti lamenti del cibo e del governo e del fatto che non c'è mai niente di bello in tv...» «Solo un sacco di quiz!» «... e di qualsiasi altra cosa!» «L'unica cosa che ho detto su Yngve Bergqvist è che è un dannato imbroglione che mette in vendita qualsiasi cosa purché sia seguita dall'aggettivo "artico". Slitte artiche e safari artico, e scommetto che quegli idioti di giapponesi pagherebbero duecento dollari extra per cagare in un cesso artico!» Micke si voltò verso Rebecka. «Ora capisce?» Poi tornò serio.
«Perché me lo chiede? Non sarà una giornalista?» «No, no, ero solo curiosa. Dopo tutto abitava qui e... Lavoro per quell'avvocato che era con me ieri sera.» «Gli porta la ventiquattrore e gli prenota i biglietti aerei?» «Qualcosa del genere.» Rebecka Martinsson guardò l'orologio. Aveva allo stesso tempo temuto e sperato che Anna-Maria Mella si presentasse furibonda pretendendo le chiavi della cassetta di sicurezza. Ma probabilmente il marito di Mildred Nilsson non gliene aveva parlato. Forse non sapeva neanche lui che chiavi fossero. Era un bel pasticcio. Guardò fuori dalla finestra. Stava diventando buio. Sentì una macchina fermarsi nel cortile del ristorante. Il cellulare si mise a vibrare nella borsetta. Lo tirò fuori e guardò il display. Era il numero dello studio. Måns, si disse, e corse fuori sulla scala. Era Maria Taube. «Come va?» chiese. «Non lo so» rispose Rebecka. «Ho parlato con Torsten. Mi ha detto che li avete in pugno.» «Mmh...» «E che sei rimasta lì per occuparti di un paio di cose.» Rebecka non rispose. «Sei stata a, come si chiama, il paesino dove c'è la casa di tua nonna?» «Kurravaara. No.» «C'è qualcosa che non va?» «No, niente di particolare.» «Perché non ci vai, allora?» «Non ne ho avuto occasione, tutto qui. Sono stata troppo occupata ad aiutare i nostri futuri clienti con un sacco di stronzate.» «Non prendertela con me, tesoro» disse Maria in tono gentile. «Raccontami. Che stronzate hai dovuto fare?» Rebecka le raccontò tutto. All'improvviso si sentiva così stanca che aveva voglia di sedersi sulle scale. Maria sospirò all'altro capo del filo. «Accidenti a Torsten» disse. «Io...» «Non ci provare» disse Rebecka. «La cosa peggiore è la cassetta di sicurezza. Si tratta degli oggetti personali del pastore morto. Possono esserci lettere e... qualsiasi altra cosa. Se c'è qualcuno che deve averli è suo marito. E la polizia. Possono esserci prove, non possiamo saperlo.»
«Il parroco consegnerà sicuramente il materiale interessante alla polizia» tentò Maria Taube. «Forse» rispose Rebecka piano. Restarono un attimo in silenzio. Rebecka giocava col piede nella ghiaia. «Pensavo che fossi lì per entrare nella gabbia del leone» disse Maria. «Sì, sì.» «Cazzo, Rebecka. Non dirmi sììì, sììì. Sono tua amica e devo dirtelo. Non fai che fuggire. Se non osi andare in città e a Kurrkavaara...» «Kurravaara.» «... e rimani lì a nasconderti in qualche alberghetto di paese lungo il fiume, dove andrai a finire?» «Non lo so.» Maria Taube restò in silenzio. «Non è così semplice» disse alla fine Rebecka. «Credi che lo pensi? Posso venire su e farti compagnia, se vuoi.» «No» tagliò corto Rebecka. «D'accordo, io te l'ho detto. E mi sono offerta.» «E io lo apprezzo molto ma...» «Non ce n'è bisogno. Ora è meglio che torni al lavoro, se voglio uscire di qui prima di mezzanotte. Ti telefono. Måns ha chiesto di te, a proposito. Credo che sia preoccupato. Rebecka, ricordati di quando si andava in piscina da bambini. Se si saltava direttamente dal trampolino più alto poi gli altri non facevano più paura. Vai alla Chiesa di Cristallo e assisti a una funzione. Così il peggio è fatto. Non mi hai detto già il Natale scorso che Sanna e la sua famiglia e la moglie di Thomas Söderberg si sono trasferiti?» «Non glielo dici, vero?» «A chi?» «A Måns. Che io... non so.» «Ma no. Ti chiamo.» * Erik Nilsson è seduto immobile al tavolo della cucina. Sua moglie morta siede all'altro capo del tavolo. Non osa dire niente. Osa a malapena respirare. Basta una parola o il minimo movimento e la realtà se ne va in mille pezzi. Se chiude gli occhi, quando li riaprirà sarà sparita.
Mildred sorride. Sei un bel tipo, gli dice. Riesci a credere che l'universo sia infinito, che il tempo sia relativo, che possa curvarsi e tornare indietro. L'orologio alla parete si è fermato. Le finestre sono degli specchi neri. Quante volte ha invocato la moglie morta in quei tre mesi. Ha desiderato che scivolasse nel buio fino al suo letto, quando andava a dormire. O che facesse sentire la sua voce nel bisbiglio del vento tra gli alberi. Non puoi restare qui, Erik, gli dice. Lui annuisce. È solo che è così difficile. Cosa deve fare di tutte le sue cose, i libri, i mobili. Non sa da che parte cominciare. È un ostacolo insormontabile. Non appena ci pensa viene sopraffatto da una tale stanchezza che deve mettersi a letto anche se è pieno giorno. Fregatene, gli dice. Fregatene degli oggetti. Non mi importa niente di queste cose. Sa che è vero. Tutti i mobili vengono dalla casa dei genitori di lei. Era l'unica figlia di un pastore ed entrambi i suoi genitori erano morti quando andava all'università. Si rifiuta di commiserarlo. Come sempre. Questo lo fa ancora arrabbiare moltissimo. Quella era la Mildred cattiva. Non cattiva nel senso di malvagia. Ma la Mildred che faceva male. Che lo feriva. Se vuoi restare con me sono contenta, gli diceva quando era viva. Ma sei un adulto, scegli da te la tua vita. Aveva ragione?, si domanda come ha fatto tante altre volte. C'è davvero bisogno di essere così drastici? Ho vissuto la sua vita fino in fondo. È vero, l'avevo scelto io. Ma l'amore non significa forse andarsi incontro? Abbassa gli occhi sul tavolo. Non deve cominciare a pensare ai bambini, altrimenti Mildred scomparirà come un'ombra attraverso i muri. Deve scuotersi. Ha sempre dovuto scuotersi. Ormai in cucina è quasi buio. Era lei che non aveva voluto. I primi anni facevano l'amore. Di sera. O in piena notte, se la svegliava. Sempre con la luce spenta. Sentiva ancora la sua malcelata ripugnanza se lui voleva fare qualcosa di più che infilarglielo dentro. Alla fine avevano smesso. Lui non le si avvicinava più, e a lei non importava. A volte la ferita tornava a galla e litigavano. Piagnucolava, diceva che lei non lo amava, che dava tutto al lavoro. Che lui voleva dei bambini. E lei si limitava ad allargare le braccia: cosa vuoi da me? Se sei infelice, prendi e vattene. E lui: dove? da chi? Alla fine le tempeste si calmavano sempre. La quotidianità prendeva il sopravvento. E a lui bastava sempre, o quasi.
I gomiti appuntiti di lei sul tavolo. L'unghia dell'indice che tamburella pensosamente sulla superficie laccata. Ha l'aria concentrata e ostinata di quando si è messa in testa qualcosa. Lui è abituato a prepararle da mangiare. Quando torna tardi prende il piatto dal frigorifero e lo scalda nel microonde. Verifica che mangi. O le prepara un bagno caldo. Le dice che non si arrotoli i capelli attorno al dito o finirà per rimanere calva. Ma ora non sa cosa fare. O dire. Vuole chiederle com'è. Dall'altra parte. Non lo so, risponde lei. Ma sono ancora combattuta. Molto combattuta. Ci avrebbe scommesso. È qui perché vuole qualcosa. Gli viene paura che scompaia all'improvviso. Puff. Aiutami, le dice. Aiutami ad andarmene. Lei si rende conto che non ce la fa da solo. E vede la sua rabbia. L'odio segreto di chi dipende da qualcuno. Ma non ha più importanza. Si alza. Gli posa una mano sulla nuca. Gli attira il viso contro il seno. Ora ce ne andiamo, dice dopo un momento. Sono le sette e un quarto quando si chiude alle spalle la porta della canonica per l'ultima volta nella sua vita. Tutto quello che porta con sé sta in una borsa della spesa. Un vicino scosta le tendine, si avvicina alla finestra e lo osserva infilare la borsa in macchina. Mildred si siede sul sedile accanto a lui. Mentre l'auto oltrepassa il cancello, Erik si sente quasi euforico. Come l'estate prima di sposarsi. Quando hanno girato l'Irlanda in macchina. E Mildred sorride decisa. Si fermano davanti a Micke. Vuole solo lasciare le chiavi della canonica a quella Rebecka Martinsson. Con sua sorpresa la trova sulle scale. Ha in mano il cellulare, ma non sta parlando. Tiene il braccio lungo il corpo. Quando lo vede sembra quasi voler scappare. Erik si avvicina con cautela, quasi implorante. Come si fa con un cane randagio. «Volevo darle le chiavi della canonica» dice. «Così può darle al pastore insieme a quelle dell'ufficio e dirgli che ho lasciato la casa.» La donna non apre bocca. Prende le chiavi. Non chiede dei mobili e delle sue cose. Rimane lì, il telefono in una mano, le chiavi nell'altra. Erik vorrebbe dire qualcosa. Chiederle scusa, forse. Abbracciarla o accarezzarle i capelli. Ma Mildred è scesa dalla macchina e lo chiama. Vieni!, grida. Non puoi fare niente per lei. La aiuterà qualcun altro. Perciò si volta e torna alla macchina.
Non appena si siede al volante la tristezza che gli aveva trasmesso Rebecka Martinsson sparisce. La strada che porta in città è buia e avventurosa. Mildred siede accanto a lui. Parcheggia davanti all'Hotel Ferrum. «Ti ho perdonata» le dice. Lei si guarda le ginocchia, scuote leggermente la testa. Non ti avevo chiesto perdono, dice. * Sono le due di notte. Rebecka Martinsson dorme. La curiosità si intrufola dalla finestra come una pianta rampicante. Le affonda le radici nel cuore. Le diffonde germogli in tutto il corpo, come metastasi. Le si abbarbica alle costole. Le tesse un bozzolo attorno alla cassa toracica. Quando si sveglia nel mezzo della notte è diventata una spinta irresistibile. I rumori del ristorante si sono spenti. Un ramo batte irritato sul tetto del bungalow. La luna quasi piena proietta una luce spettrale dalla finestra. Illumina il mazzo di chiavi posato sul tavolo. Si alza e si veste. Non ha bisogno di accendere la lampada, basta la luce della luna. Guarda l'ora. Pensa ad Anna-Maria Mella. Quella poliziotta le piace. È una donna che ha scelto di fare la cosa giusta. Esce. C'è parecchio vento, le betulle e i sorbi frustano l'aria. I tronchi dei pini cigolano e scricchiolano. Si siede in macchina e parte. Va al cimitero. Non è lontano. Non è neanche grande. Non deve cercare a lungo prima di trovare la tomba del pastore. Molti fiori. Rose, erica. Mildred Nilsson. E uno spazio vuoto per suo marito. Era nata lo stesso anno della mamma, si dice Rebecka. Avrebbe compiuto cinquantacinque anni a novembre. C'è silenzio, ma Rebecka non lo sente. Il vento soffia così forte che le ronzano le orecchie. Rimane un attimo a guardare la lapide. Poi torna alla macchina parcheggiata fuori. Quando si siede in macchina torna il silenzio. Cosa credevi?, si chiede. Di trovare Mildred Nilsson seduta sulla lapide, trasparente, con la mano alzata in un gesto imperioso? Certo che così sarebbe stato più facile. Ma la decisione spetta a lei. Così il parroco vuole le chiavi della cassetta di sicurezza di Mildred Nilsson. Cosa c'è dentro? Perché nessuno ne ha parlato alla polizia? Vole-
vano riavere le chiavi con discrezione. È per questo che lo hanno chiesto a Rebecka. Non ha importanza, si dice. Posso fare esattamente quello che mi salta in testa. * L'ispettore di polizia Anna-Maria Mella si svegliò nel bel mezzo della notte. Era il caffè. Quando beveva caffè di sera si svegliava sempre nel bel mezzo della notte e poi si girava e rigirava per un'ora prima di riaddormentarsi. A volte si alzava. In realtà era un bel momento. Tutta la famiglia dormiva e lei poteva ascoltare la radio bevendo una tazza di camomilla in cucina o piegare la biancheria pulita o fare qualsiasi altra cosa immersa nei suoi pensieri. Scese nel seminterrato e accese il ferro da stiro. Rivide mentalmente la conversazione con il marito di Mildred Nilsson. Erik Nilsson: Sediamoci in cucina, così possiamo tenere d'occhio la macchina. Anna-Maria: Perché? Erik Nilsson: Chi ci viene a trovare di solito parcheggia giù al ristorante o comunque a qualche distanza. Altrimenti c'è il rischio di trovare le ruote bucate o la vernice graffiata o qualcosa del genere. Anna-Maria: Ah. Erik Nilsson: Bah, non è così terribile. Ma un anno fa ci sono stati molti di questi episodi. Anna-Maria: Avete sporto denuncia? Erik Nilsson: Non si può fare niente. Anche se si sa chi è stato, non ci sono mai prove. Non c'è mai nessuno che veda qualcosa. La gente ha paura. La volta successiva può essere la loro rimessa che va a fuoco. Anna-Maria: Qualcuno ha dato fuoco alla vostra rimessa? Erik Nilsson: Sì, è stato un tipo che abita in paese... O almeno crediamo che sia stato lui. Quando lo ha lasciato, sua moglie ha abitato qui in canonica per un po'. Era stato bravo, si disse Anna-Maria. Avrebbe potuto prendersela con lei, ma non lo aveva fatto. Avrebbe potuto assumere un tono amareggiato, accusare la polizia di non fare niente, fino a scaricarle addosso la responsabilità della morte della moglie.
Iniziò a stirare una delle camicie di Robert, Dio santo, aveva i polsini tutti consumati. La camicia fumava sotto il ferro. C'era un buon odore di cotone appena stirato. Era abituato a parlare con le donne, si vedeva. Ogni tanto lei perdeva il filo e rispondeva alle sue domande, non tanto per creare un clima di fiducia quanto perché lui l'aveva messa a suo agio. Come quando le aveva chiesto dei suoi figli. Sapeva cosa era tipico della loro età. Per esempio le aveva chiesto se Gustav aveva già imparato a dire no. Anna-Maria: Dipende. Se sono io a dire no non lo capisce. Ma se lo dice lui... Erik Nilsson ride ma torna subito serio. Anna-Maria: Che casa grande. Erik Nilsson: (sospira) ... non è mai stata una vera casa. Per metà canonica e per metà albergo. Anna-Maria: Ma ora è vuota. Erik Nilsson: Sì, il gruppo femminile Maddalena ha pensato che avrebbe suscitato troppe chiacchiere. Il vedovo che si consola con diverse donne vulnerabili. Immagino che avessero ragione. Anna-Maria: Devo farle questa domanda, com'erano i rapporti tra lei e sua moglie? Erik Nilsson: Deve proprio? Anna-Maria: ... Erik Nilsson: Buoni. Avevo un enorme rispetto per Mildred. Anna-Maria: ... Erik Nilsson: Non era una donna comune. Nemmeno un pastore comune, del resto. Era così... appassionata in tutto quello che faceva. Anna-Maria: Da dove veniva? Erik Nilsson: Era nata a Uppsala, figlia di un pastore. Ci siamo conosciuti quando studiavo fisica. Diceva sempre di non sopportare la moderazione. Parlava troppo e troppo veloce e a voce troppo alta. E quando si metteva in testa una cosa diventava quasi maniacale. Poteva farti impazzire. Si poteva desiderare che fosse più moderata. Ma... (allarga una mano) ... quando muore una persona del genere... non è stata una perdita solo mia. Aveva dato un'occhiata alla casa. Accanto al letto matrimoniale, dal lato di Mildred non c'era niente. Niente libri, niente sveglia. Niente Bibbia. All'improvviso Erik Nilsson era comparso alle sue spalle. «Aveva una stanza sua» disse.
Era una piccola mansarda. Alla finestra non c'erano fiori, ma una lampada e alcuni uccelli di ceramica. Il letto singolo era ancora sfatto, così come doveva averlo lasciato. Una vestaglia di flanella gettata sopra. Accanto al letto, sul pavimento, una pila di libri. Anna-Maria aveva sbirciato i titoli: in cima la Bibbia, Discorsi per una fede adulta, l'Enciclopedia biblica, alcuni libri per bambini e per ragazzi, Anna-Maria riconobbe Winnie the Pooh, Anna dai capelli rossi, e in fondo a tutto un mucchio disordinato di articoli strappati. «Non c'è niente da vedere» disse Erik Nilsson in tono stanco. «Non c'è più niente da vedere.» È strano, si disse Anna-Maria piegando i vestiti del bambino. Sembrava quasi che trattenesse la moglie morta. La sua posta era ammucchiata intatta sul tavolo. Sul comodino c'erano ancora un bicchiere d'acqua e gli occhiali da lettura. Tutto il resto era perfettamente pulito e ordinato, evidentemente non ce la faceva a cancellare la sua presenza. Ed era una bella casa. Sembrava uscita da una rivista di arredamento. Eppure aveva detto che non era una casa, ma "per metà canonica, per metà albergo". E aveva detto anche di provare "rispetto" per lei. Strano. * Rebecka guidava piano verso la città. La luce grigiastra della luna veniva assorbita dall'asfalto e dallo strato di foglie marcescenti. Gli alberi si agitavano al vento, sembravano quasi allungarsi affamati verso la magra luce, ma invano. Rimanevano nudi e neri. Contorti e sofferenti prima del riposo invernale. Superò la canonica. Era una costruzione bassa di mattonelle bianche e legno scuro. Svoltò in Gruwägen e parcheggiò davanti alla vecchia lavanderia. Era ancora in tempo per cambiare idea. O forse no. Qual è la cosa peggiore che mi può succedere?, si chiese. Posso essere sorpresa sul fatto ed essere condannata a pagare una multa. Perdere un lavoro che ho già perso. Una volta arrivata fino a lì, sarebbe stato molto peggio tornare indietro e rimettersi a letto. Sedersi sull'aereo per Stoccolma la mattina dopo e continuare a sperare di poter riprendere a lavorare. Pensò a sua madre. Il ricordo salì in superficie, forte e reale. Poteva qua-
si vederla fuori dal finestrino. I capelli perfettamente pettinati. Il cappotto verde pisello che si era cucita da sola, con una fascia in vita e il collo di pelliccia. Quello che faceva alzare gli occhi al cielo alle vicine quando sfilava loro accanto. Chi si credeva di essere? E gli stivali dal tacco alto che non aveva comprato a Kiruna ma a Luleå. È come una fitta amorosa al petto. Ha di nuovo sette anni e allunga una mano verso la mamma. È così bella con quel cappotto. Quando era più piccola una volta le aveva detto: «Sei come una Barbie, mamma.» E la mamma aveva riso e l'aveva abbracciata. Rebecka aveva aspirato tutti i suoi buoni odori. I capelli della mamma avevano un buon profumo. La cipria sul viso un altro. E l'acqua di colonia nell'incavo del collo. Rebecka lo disse anche altre volte: «Sei come una Barbie», solo perché le aveva fatto così piacere. Ma non ottenne più lo stesso risultato. Come se funzionasse una volta sola. «Piantala» aveva finito per dirle sua madre. Rebecka si sforzava di ricordare. C'era di più. Se si guardava meglio. Quello che le vicine non vedevano. Che le scarpe erano di poco prezzo. Che le unghie erano rosicchiate. Che la mano che portava la sigaretta alla bocca tremava leggermente, come nelle persone di indole nervosa. Le poche volte che Rebecka pensava a lei, la ricordava infreddolita. Con due maglioni e i calzettoni di lana, seduta al tavolo di formica in cucina. O come adesso, con le spalle leggermente sollevate, perché sotto un cappotto elegante non ci sta un maglione pesante. La mano che non tiene la sigaretta nascosta in tasca. Il suo sguardo entra in macchina e cade su Rebecka. Occhi sottili e penetranti. Le labbra all'ingiù. Chi è la pazza ora? Non sono diventata pazza, si disse Rebecka. Non sono come te. Uscì dalla macchina e si diresse a passi veloci verso la canonica. Quasi fuggendo dal ricordo della donna dal cappotto verde pisello. Molto opportunamente, qualcuno aveva spaccato il lampione dell'ingresso posteriore. Rebecka provò le chiavi del mazzo. Poteva esserci l'allarme. Una variante economica, uno di quelli che scattano solo in casa per spaventare i ladri, oppure uno vero, collegato a una ditta di vigilanza. È tutto tranquillo, cercò di convincersi. Anche se dovesse arrivare qualcuno non saranno certo le forze d'assalto, tutt'al più un guardiano assonnato. Avrei un sacco di tempo per filarmela. All'improvviso trovò la chiave giusta. Aprì la porta e scivolò nel buio all'interno. Silenzio. Nessun allarme. Nemmeno un pigolio che indicasse che aveva sessanta secondi di tempo per inserire un codice. La canonica era un edificio su livelli sfalsati, la porta posteriore era al primo piano e
l'ingresso principale al piano terra. L'ufficio parrocchiale era al primo piano, questo lo sapeva. Non si preoccupò di muoversi con circospezione. Tanto non c'è nessuno, si disse. Mentre si dirigeva rapidamente verso l'ufficio, le sembrava di sentire l'eco dei suoi passi sul pavimento in pietra. La stanza con le cassette di sicurezza era di fronte all'ufficio parrocchiale. Era stretta e senza finestre, perciò fu costretta ad accendere la luce. Il battito cardiaco le si accelerò leggermente mentre armeggiava con la chiave, provando ad aprire gli sportelli che non avevano il cartellino con il nome. Se fosse arrivato qualcuno in quel momento non avrebbe potuto nascondersi. Cercò di capire se si sentisse qualcosa sulle scale o dalla strada. Le chiavi squillavano come campane. Il terzo sportello si aprì senza problemi. Doveva essere quello di Mildred Nilsson. Rebecka guardò dentro. La cassetta di sicurezza era piccola, non conteneva gran che ma era quasi piena. Alcune scatolette di cartone rigido e due sacchetti di tessuto con dei gioielli. Una collana di perle, alcuni pesanti anelli d'oro con pietre preziose, orecchini. Due semplici anelli di fidanzamento dall'aria antica, gioielli di famiglia. Una cartelletta blu con dei documenti. C'erano anche parecchie lettere. Gli indirizzi sulle buste erano scritti con calligrafie diverse. Cosa faccio ora?, si chiese Rebecka. Si domandò se il parroco conoscesse il contenuto della cassetta. Si sarebbe accorto che mancava qualcosa? Fece un bel respiro e si sedette sul pavimento a esaminare e suddividere rapidamente il tutto. La sua testa finalmente aveva ripreso a funzionare come al solito, lavorava in fretta, assorbiva informazioni, le elaborava e le metteva in ordine. Mezz'ora dopo Rebecka accese la fotocopiatrice dell'ufficio parrocchiale. Prese le lettere così com'erano. Magari c'erano delle impronte digitali o altre tracce. Le infilò in un sacchetto di plastica che trovò in un cassetto. Fotocopiò i documenti della cartelletta, poi mise le copie insieme alle lettere dentro il sacchetto, ripose la cartelletta nella cassetta di sicurezza, la chiuse, spense la luce e se ne andò. Erano le tre e mezza del mattino. Anna-Maria Mella fu svegliata da sua figlia Jenny che le tirava un braccio. «Mamma, c'è qualcuno che suona alla porta.»
I bambini sapevano di non dover aprire a orari strani. Come poliziotto di una piccola città, capitava di ricevere visite a orari insoliti. Piccoli delinquenti in lacrime che cercavano l'unica madre confessora che conoscevano o colleghi con la faccia seria e il motore acceso. E a volte - capitava di rado, è vero, ma capitava - qualcuno arrabbiato o ubriaco, o entrambe le cose. Anna-Maria si alzò, disse a Jenny di infilarsi nel suo letto accanto a Robert e scese nell'ingresso. Aveva il cellulare in tasca con il numero della centrale già composto. Guardò nello spioncino, poi aprì. Era Rebecka Martinsson. Anna-Maria la invitò a entrare. Rebecka si fermò sulla porta. Non si tolse il cappotto. Non voleva una tazza di tè o di caffè. «So che stai indagando sulla morte di Mildred Nilsson» disse. «Queste sono lettere e copie di documenti personali.» Le tese un sacchetto di plastica spiegandole rapidamente come era venuta in possesso del materiale. «Come capirai anche tu, sarebbe meglio che non si sapesse che ti ho consegnato queste cose. Se riesci a trovare una spiegazione alternativa mi fai un favore. Altrimenti...» Alzò le spalle. «... affronterò le conseguenze.» Anna-Maria sbirciò nel sacchetto. «Una cassetta di sicurezza nell'ufficio?» chiese. Rebecka annuì. «Perché nessuno ha detto alla polizia che...» Si interruppe e guardò Rebecka. «Grazie!» disse. «Non dirò come li ho avuti.» Rebecka fece il gesto di andarsene. «Hai fatto la cosa giusta» disse Anna-Maria. «Lo sai anche tu, vero?» Era difficile capire se stava parlando di quello che era successo quasi due anni prima a Jiekajärvi o se si riferiva alle fotocopie e alle lettere nel sacchetto. Rebecka fece un movimento con il capo. Poteva essere un cenno affermativo. Ma poteva anche essere una scrollata di testa. Quando se ne andò, Anna-Maria rimase ferma nell'ingresso. Aveva voglia di mettersi a gridare. Cazzo!, voleva urlare. Come si sono permessi di tenersi queste cose?
* Rebecka Martinsson è seduta sul letto nel suo bungalow. Riesce appena a distinguere il profilo dello schienale della sedia contro il rettangolo grigio della finestra illuminata dalla luna. Adesso, si dice. Adesso dovrebbe arrivare il panico. Se qualcuno lo viene a sapere sono fritta. Verrei condannata per violazione di domicilio e abuso d'ufficio, non troverei mai più un lavoro. Ma il panico non vuole arrivare. Nemmeno l'ansia. Anzi, si sente più leggera. Potrei sempre lavorare come bigliettaia, si disse. Si sdraiò e guardò il soffitto. Si sentiva un po' euforica. Dall'interno della parete arrivava il rumore di un topolino che correva avanti e indietro. Rebecka bussò e ottenne qualche istante di silenzio. Poi il viavai ricominciò. Rebecka sorrise. E si addormentò. Con i vestiti addosso e senza essersi lavata i denti. Sognò. È seduta sulle spalle di papà. È il periodo dei mirtilli. Papà ha la gerla sulle spalle. Dev'essere pesante portare la gerla e Rebecka. «Non sporgerti» le dice quando si allunga per afferrare i licheni che pendono dagli alberi. La nonna li segue. Maglione sintetico blu e huivi. Ha quel modo parsimonioso di muoversi nel bosco. Senza sollevare i piedi più del necessario. Una sorta di trotto costante, a passi brevi. Hanno con loro due cani. Jussi, l'elghund grigio, segue la nonna. Sta invecchiando, risparmia le forze. Jacki, il cane giovane, un incrocio indefinibile di vari spitz, fa continuamente avanti e indietro, non annusa mai abbastanza, sparisce per lunghi tratti, a volte lo si sente abbaiare a chilometri di distanza. Nel tardo pomeriggio Rebecka dorme accanto al fuoco mentre i due adulti continuano la raccolta. Ha il giubbotto Helly Hansen di papà come cuscino. Il sole scalda, ma le ombre sono lunghe. Il fuoco tiene lontane le zanzare. I cani di tanto in tanto vengono a darle un'occhiata. Le danno dei colpetti col muso per poi allontanarsi rapidamente prima che riesca ad accarezzarli o a passargli le braccia attorno al collo. Zampe Gialle
È fine inverno. Il sole si alza sopra le cime degli alberi e scalda il bosco. Strati di neve pesante cadono dagli alberi. È un periodo difficile per la caccia. Durante il giorno lo spesso manto bianco che copre il terreno si allenta per il caldo. È faticoso rincorrere le prede. Se il branco caccia di notte alla luce della luna o all'alba, il gelo gli spacca i cuscinetti delle zampe. La femmina alfa sta per andare in calore. È irrequieta e irritabile, chi le si avvicina deve mettere in conto qualche morso. Si piazza davanti ai maschi sottomessi e piscia con la zampa così alta da rischiare di perdere l'equilibrio. L'intero branco è influenzato dalla sua irritabilità. Tutti ringhiano e ululano, scoppiano piccole zuffe continue. I più giovani gironzolano nervosamente ai margini del rendez-vous. C'è sempre qualcuno dei più anziani che li rimette al loro posto. Durante i pasti la gerarchia viene rispettata rigorosamente. La femmina alfa è la sorellastra di Zampe Gialle. Due anni fa, proprio in quel periodo ha sfidato la vecchia dominante, che stava per andare in calore e ostentava continuamente la propria superiorità sulle altre femmine. Quando si è rivolta alla sorellastra di Zampe Gialle protendendo la testa striata di grigio e scoprendo i denti in un ringhio minaccioso, la lupa più giovane invece di rinculare spaventata con la coda tra le zampe ha raccolto la sfida. Ha guardato la vecchia alfa negli occhi e ha rizzato il pelo. Il combattimento è scoppiato in una frazione di secondo e si è concluso in meno di un minuto. La vecchia dominante aveva perso. Un morso profondo sul collo e un orecchio sbranato erano bastati a farla ritirare uggiolando. La sorellastra di Zampe Gialle l'aveva scacciata, e da quel momento il branco aveva una nuova femmina alfa. Come non si era mai ribellata alla vecchia dominante, Zampe Gialle non sfida nemmeno la sua sorellastra. Eppure questa è particolarmente provocatoria nei suoi confronti. A un certo punto le afferra il muso tra le mandibole e le fa fare un mezzo giro tra il branco. Zampe Gialle striscia docile con la schiena inarcata e lo sguardo basso. I giovani lupi si alzano e si mettono a girare in tondo nervosamente. Zampe Gialle lecca gli angoli della bocca della sorellastra. Non vuole litigare né sfidarla. Il maschio alfa, un animale di un grigio argenteo, è difficile da conquistare. Ai tempi della vecchia alfa, la seguiva per settimane prima che questa finalmente si decidesse ad accoppiarsi. Le annusava il posteriore e metteva al loro posto gli altri maschi davanti a lei. Spesso le si avvicinava e le dava dei colpetti con le zampe anteriori come a dire: «E ora ti va?»
Ora il maschio alfa è sdraiato indolente e apparentemente disinteressato alla sorellastra di Zampe Gialle. Ha sette anni e nessuno nel branco mostra la minima intenzione di prendere il suo posto. Tra qualche anno sarà più vecchio e debole e dovrà imporsi di più, ma ora può permettersi di restare sdraiato al sole a scaldarsi la pelliccia, leccandosi le zampe o mordicchiando un po' di neve. La sorellastra di Zampe Gialle lo corteggia. Si accuccia e piscia davanti a lui per attirare la sua attenzione. Lo sfiora passandogli accanto, frenetica e con la base della coda insanguinata. Alla fine il maschio cede e la copre. L'intero branco tira un sospiro di sollievo. La tensione cala immediatamente. I due cuccioli di un anno hanno voglia di giocare e svegliano Zampe Gialle, sdraiata sotto un pino poco lontano a sonnecchiare. I lupetti le si gettano addosso. Uno batte le zampe robuste sulla neve, l'altro le corre incontro di gran carriera e la supera con un balzo. Zampe Gialle si alza e va all'inseguimento, abbaiando sonoramente. Uno scoiattolo spaventato sale come una saetta rossiccia lungo un tronco. Zampe Gialle raggiunge uno dei piccoli e gli fa fare una doppia capriola nella neve. Si azzuffano per un po', poi è il suo turno di essere inseguita. Sfreccia come una moffetta tra gli alberi. Ogni tanto rallenta per farli avvicinare, poi riparte come una saetta. Non la prenderanno fino a quando non lo vorrà lei. Giovedì 7 settembre Alle sei e mezza del mattino Mimmi fece una pausa per fare colazione. Era in piedi dalle cinque. L'aroma di caffè e di pane appena sfornato si mescolava al profumo di lasagne e pyttipanna. Cinquanta vaschette in alluminio erano allineate sul bancone d'acciaio a raffreddarsi. Lavorava con la porta della cucina aperta perché l'ambiente non si riscaldasse troppo. E perché ai clienti piaceva. Gli faceva compagnia vederla trafficare avanti e indietro, mentre loro potevano mangiare in santa pace, senza sguardi di rimprovero se masticavano con la bocca aperta o si rovesciavano un po' di caffè sulla camicia. Prima di sedersi a fare colazione, viziò gli avventori facendo il giro della sala da pranzo a rabboccare le tazze di caffè e a offrire fette di pane fresco. In quel momento apparteneva a tutti loro, era moglie, figlia, madre. I capelli striati erano ancora umidi dalla doccia mattutina, castamente intrecciati sotto il fazzoletto. Le bastavano già gli sguardi che riceveva normalmente. Non aveva nessuna intenzione di andare in giro con i capelli bagna-
ti che gocciolavano sulla maglietta di H&M. Miss Wet T-shirt. Posò il bricco sulla piastra e comunicò: «Se ne volete ancora servitevi da soli, ora mi siedo un quarto d'ora.» «Mimmi, versami del caffè» borbottò subito uno degli uomini per prenderla in giro. Alcuni di loro stavano andando al lavoro. Erano quelli che buttavano giù il caffè a piccoli sorsi rapidi anche se era ancora troppo caldo e divoravano i toast in due bocconi. Gli altri restavano lì un paio d'ore prima di tornare a casa alla loro solitudine. Cercavano di attaccare discorso e sfogliavano pigramente il giornale del giorno prima, quello nuovo sarebbe arrivato molto più tardi. In paese non si usava dire che si era disoccupati o in malattia o in pensionamento anticipato. Si diceva semplicemente che si andava a casa. Rebecka Martinsson era seduta da sola a uno dei tavoli sul lato del fiume e guardava fuori dalla finestra. Mangiava uno yogurt con muesli e beveva il suo caffè senza fretta. Mimmi abitava in un monolocale in città, lo aveva tenuto anche se in pratica viveva da Micke nella casa accanto al ristorante. Quando aveva deciso di fermarsi per un po', sua madre le aveva offerto senza troppa convinzione di stare a casa sua. Era così evidente che si sentiva in obbligo, che a Mimmi non sarebbe mai passato per la testa di accettare. Ormai erano tre anni che gestiva il ristorante con Micke e solo il mese prima Lisa le aveva dato una chiave di riserva di casa sua. «Non si sa mai» le aveva detto con lo sguardo che si spostava in continuazione. «Se succede qualcosa... Sai, ci sono i cani.» «Certo» aveva risposto Mimmi prendendo le chiavi. «I cani.» Sempre quei dannati cani, aveva pensato tra sé. Lisa si era accorta che Mimmi si era offesa, ma non era nel suo stile darlo a vedere o cercare di parlarne. No, era ora di andare. Se non c'era qualche riunione del gruppo Maddalena c'erano sempre gli animali, le gabbie dei conigli da pulire o uno dei cani da portare dal veterinario. Mimmi si sedette sul bancone in legno accanto al frigorifero. Se acciambellava le gambe riusciva a stringersi tra le erbe aromatiche che crescevano in alcune latte vuote. Era un bel posticino. Si vedeva Jukkasjärvi sull'altra riva del fiume. A volte una barca che passava. Quella finestra non esisteva quando il locale era un'officina, Micke gliel'aveva fatta come regalo. «Mi piacerebbe che ci fosse una finestra» aveva detto. E lui gliel'aveva aperta. Non ce l'aveva con i cani. Non era gelosa. Spesso li chiamava i suoi fratellini. Ma come quando era a Stoccolma, mai che Lisa andasse a trovarla.
O che telefonasse. «È ovvio che ti vuole bene» le diceva Micke. «È tua madre, no?» Non capiva niente. Dev'esserci qualche tara genetica in noi, si disse. Nemmeno io sono capace di amare. Se per caso incontrava un vero stronzo, allora sì che poteva... non innamorarsi, era una parola troppo addomesticata, la variante da supermercato del sentimento, no, poteva diventare psicotica, dipendente, tossicodipendente. Era già successo. Soprattutto prima, quando viveva a Stoccolma. Per liberarsi da una relazione del genere bisognava strapparsi la carne di dosso. Con Micke era diverso. Con lui avrebbe potuto fare dei figli, se avesse pensato di poterli amare. Mentre addentava una fetta di pane fresco sentì il rumore di un motorino che si fermava in cortile. Nalle, pensò. Ogni tanto succedeva che venisse al ristorante al mattino. Se si svegliava prima di suo padre e riusciva a sgattaiolare fuori senza farsi sentire. Altrimenti la regola era che facesse colazione a casa. Poco dopo era fuori dalla finestra davanti a cui era seduta Mimmi e bussava sul vetro. Indossava una salopette arancione che un tempo era appartenuta a un operaio della società dei telefoni. La striscia riflettente in fondo ai pantaloni era quasi del tutto consumata dall'uso e dai lavaggi. Portava anche un berretto di pelo sintetico blu con i paraorecchie e una giacca a vento verde che gli arrivava a malapena alla vita. Le rivolse uno dei suoi impagabili sorrisi furbetti che gli tagliavano in due il volto dai lineamenti forti: la mascella se ne andava a destra, gli occhi si assottigliavano, le sopracciglia si sollevavano. Era impossibile non sorridere in risposta, non aveva importanza che non la lasciasse mangiare il suo toast in santa pace. Aprì la finestra. Il ragazzo infilò le mani in tasca e tirò fuori tre uova, guardandola come se avesse eseguito un trucco difficilissimo. Andava spesso nel pollaio a raccoglierle le uova. Mimmi le prese. «Grazie! Sei venuto ad aiutarmi a cucinare?» Dalla gola del ragazzo uscì una risata soffocata. Come un motorino d'avviamento che non vuole partire. «O forse a lavare i piatti?» Rispose con un no divertito, sapeva che lo stava prendendo in giro, ma per sicurezza scosse energicamente la testa. Non era venuto a lavare i piatti.
«Hai fame?» gli chiese poi, e Nalle girò sui tacchi e sparì dietro l'angolo. Mimmi saltò giù dal bancone, richiuse la finestra, bevve un sorso di caffè e diede un morso al toast. Quando entrò in sala da pranzo, Nalle era seduto di fronte a Rebecka Martinsson. Aveva appeso la giacca a vento alla sedia ma aveva tenuto il berretto. Era una sua abitudine. Mimmi glielo tolse e gli accarezzò la corta zazzera bionda. «Non preferisci sederti più in là? Così puoi vedere se passa qualche bella macchina.» Rebecka sorrise al ragazzo. «Può restare qui con me, se vuole» disse. La mano di Mimmi toccò di nuovo Nalle, massaggiandogli leggermente la schiena. «Vuoi frittelle o yogurt e toast?» Mimmi lo sapeva già, ma a Nalle faceva bene parlare. E decidere da solo. Vide le parole prendere forma nella sua bocca prima di uscire. La mascella gli si mosse da una parte e dall'altra, poi disse con decisione: «Frittelle.» Mimmi tornò in cucina. Prese quindici piccole frittelle dal freezer e le infilò nel microonde. Sua madre Lisa era cugina del padre di Nalle, Lars-Gunnar, un poliziotto in pensione che da quasi trent'anni era il capo della squadra di caccia del paese. Questo lo aveva reso un uomo potente. Era anche grande e grosso, proprio come Nalle. Un poliziotto che incuteva rispetto, ai suoi tempi. Ma anche gentile, a quanto diceva la gente. Capitava ancora che andasse al funerale di qualche piccolo delinquente che aveva conosciuto per lavoro. Spesso, in quei casi, Lars-Gunnar e il pastore erano gli unici presenti. Quando aveva incontrato la madre di Nalle, aveva già più di cinquant'anni. Mimmi ricordava quando era venuto a casa sua con Eva la prima volta. Non potevo avere più di sei anni, si disse. Lars-Gunnar ed Eva erano seduti sul divano in salotto. Lisa correva avanti e indietro tra la cucina e il salotto con latte e caffè e biscotti e Dio sa cos'altro. Era il periodo in cui cercava di adattarsi. Poi si era separata dal marito e aveva smesso di cucinare e fare torte e biscotti. Mimmi riesce quasi a vedere Lisa che cena nel suo bungalow. In piedi, con la schiena appoggiata al piano di lavoro, butta giù cucchiaiate di qualche cibo in scatola. Ma quella volta Lars-Gunnar aveva passato un braccio sulle spalle di
Eva, un gesto insolitamente affettuoso per un uomo di quelle parti, e forse soprattutto per lui. Era orgoglioso. Eva, se non proprio bella, era almeno molto più giovane di lui, più o meno come Mimmi ora, tra i venti e i trenta. Dove quell'assistente sociale in vacanza avesse incontrato Lars-Gunnar, Mimmi non riesce proprio a immaginarlo. A ogni modo Eva aveva lasciato il suo lavoro a... Norrköping, se ricordava bene, ne aveva trovato uno in paese e si era trasferita nella casa che Lars-Gunnar aveva ereditato dai genitori. Dopo un anno era nato Nalle. Anche se allora si chiamava Björn. Un nome adatto a un bambino grande e grosso come lui2 . Non doveva essere stato facile, si disse Mimmi. Venire da una grande città e trasferirsi in paese. Spingere la carrozzina avanti e indietro con le vecchiette locali come unica compagnia. Come aveva fatto a non impazzire? Anche se in realtà era proprio quello che era successo. Il microonde scattò e Mimmi tagliò due fette di gelato e spalmò un cucchiaio di marmellata sulle frittelle. Versò un bicchiere di latte e imburrò tre grosse fette di pane integrale. Prese tre uova sode da una pentola sul fuoco, mise tutto su un vassoio insieme a una mela e lo portò a Nalle. «Niente più frittelle se prima non hai mangiato il resto» disse severa. Quando Nalle aveva tre anni gli era venuta la meningite. Eva aveva chiamato la guardia medica. Le avevano detto di aspettare un po'. E così era andata com'era andata. Quando il bambino aveva cinque anni Eva se n'era andata. Aveva lasciato Nalle e Lars-Gunnar ed era tornata a Norrköping. O era fuggita. In paese si era parlato molto di come avesse abbandonato suo figlio. Certa gente non è in grado di assumersi delle responsabilità, dicevano. E si chiedevano come fosse possibile. Come avesse fatto ad abbandonare il proprio bambino. Mimmi non lo sapeva. Ma sapeva cosa voleva dire sentirsi soffocare. E poteva immaginare come Eva fosse andata in pezzi in quella casa di eternit rosa. Lars-Gunnar rimase in paese con Nalle. Non parlava volentieri di Eva. «Cosa posso fare?» diceva soltanto. «Non posso mica costringerla.» Quando Nalle aveva sette anni era tornata. O meglio, Lars-Gunnar era andato a prenderla a Norrköping. I vicini raccontavano che l'aveva portata dentro casa in braccio. Il cancro l'aveva quasi consumata. Tre mesi dopo 2
In svedese Björn significa "orso", Nalle "orsacchiotto di pezza" [N.d.T.].
era morta. «Cosa potevo fare?» tornava a dire Lars-Gunnar. «Dopo tutto era la madre di mio figlio.» Eva era stata sepolta al cimitero di Poikkijärvi. La madre e la sorella erano venute per il funerale. Non si erano fermate a lungo, erano rimaste al rinfresco solo il tempo necessario. Portavano la vergogna di Eva al suo posto. Gli altri ospiti non le guardavano negli occhi. «E Lars-Gunnar che le consolava» diceva la gente. Non avevano potuto occuparsi di lei quando stava morendo, e ci aveva pensato Lars-Gunnar. E ne portava i segni. Doveva aver perso quindici chili. Aveva l'aria grigia e stanca. Mimmi si domandava come sarebbero andate le cose se ci fosse già stata Mildred. Forse Eva sarebbe entrata a far parte del gruppo Maddalena, forse si sarebbe separata da Lars-Gunnar ma sarebbe rimasta in paese, sarebbe riuscita a occuparsi di Nalle. Magari sarebbe addirittura riuscita a tenere in piedi il suo matrimonio. La prima volta che Mimmi vide Mildred, era seduta sul portapacchi del motorino di Nalle. Il ragazzo avrebbe compiuto quindici anni tre mesi dopo. Nessuno in paese diceva niente su un handicappato che guidava una moto prima dell'età consentita. Dio santo, dopo tutto era il figlio di LarsGunnar. Non se l'erano passata tanto bene. E finché Nalle restava sulle strade del paese... «Ahi, il mio povero sedere» esclama Mildred ridendo mentre scende dal motorino. Mimmi è seduta in cortile. Ha portato fuori una sedia e fuma una sigaretta al sole, sperando di prendere un po' di colore. Nalle ha l'aria soddisfatta. Fa un cenno a Mimmi e Mildred, gira la moto e se ne va sollevando uno spruzzo di ghiaia. Due anni prima era stato cresimato da Mildred. Mimmi e il pastore si presentano. Mimmi è sorpresa, non sa cosa si era aspettata, ma ha sentito dire tante cose su di lei. Che è litigiosa. Che parla troppo chiaro. Che è meravigliosa. Che è così intelligente. Che è fuori di testa. E ora che ce l'ha davanti ha un'aria così normale. Quasi spenta, anzi, a voler essere sinceri. Mimmi si era aspettata che fosse circondata da una sorta di campo elettrico, ma tutto quello che vede è una donna sulla cinquantina con un paio di jeans antiquati e delle pratiche scarpe a buon mercato.
«È una tale benedizione!» dice Mildred con un gesto del capo in direzione del borbottio della motocicletta che si allontana. Mimmi sospira e mormora che Lars-Gunnar non ha avuto una vita facile. È una specie di riflesso condizionato. Quando il paese intona la solita litania su Lars-Gunnar abbandonato con il figlio da una moglie troppo debole, il ritornello è: poveretto... certa gente passa di tutto... non è stato facile per lui... A Mildred si forma una ruga profonda tra gli occhi mentre guarda Mimmi con aria provocatoria. «Nalle è un dono» dice. Mimmi non risponde. Con lei la storia che tutti i bambini sono un dono e che c'è un senso in tutto ciò che accade non attacca. «Non capisco come si possa parlare di Nalle come se fosse un peso. Non ti accorgi che mette la gente di buon umore?» È vero. Mimmi pensa alla mattina prima. Nalle pesa troppo. Ha perennemente fame e suo padre cerca di impedirgli di mangiare in continuazione. Un'impresa impossibile. Le donne del paese non sanno resistere alle richieste di Nalle e a volte nemmeno Micke e Mimmi. Come ieri. All'improvviso Nalle si è presentato al ristorante con una gallina sottobraccio. Lill-Anni, una cocincina, non fa molte uova ma è buona e affezionata e si lascia accarezzare. Ma essere portata via dal pollaio è un'altra storia. Infatti agita le zampe e chioccia irritata sotto il grande braccio di Nalle. «Anni!» dice Nalle a Micke e Mimmi. «Panino.» Ruota la testa e inclina il collo in modo da guardarli da sotto il ciuffo con aria astuta. È impossibile capire se è consapevole che non ci cascheranno. «Porta subito fuori la gallina» dice Mimmi sforzandosi di fare la voce severa. Micke scoppia a ridere. «Anni vuole un panino? Be', allora è meglio darglielo.» Nalle torna in cortile con un panino in una mano e Anni sotto l'altro braccio. Lascia andare la gallina e divora il panino in pochi morsi. «Ehi!» grida Micke dalla veranda. «Non era per Anni?» Nalle si gira verso di lui con espressione teatralmente dispiaciuta. «Finito» dice sconsolato. Mildred continua a parlare.
«Lo so che è stata dura per Lars-Gunnar. Ma sei davvero sicura che se Nalle non fosse stato ritardato avrebbe dato più gioia a suo padre? Io ne dubito.» Mimmi la guarda. Ha ragione. Pensa a Lars-Gunnar e ai suoi fratelli. Non ha conosciuto il loro padre, il nonno di Nalle. Ma ne ha sentito parlare. Isak era un uomo duro. Puniva i figli con la cinghia, e a volte anche con qualcosa di più duro. Aveva avuto cinque figli e due figlie. «Cazzo» diceva Lars-Gunnar ogni tanto. «Avevo così paura di mio padre da farmela addosso, ancora quando andavo a scuola.» Mimmi ricorda bene quel commento. Era piccola, allora. Non poteva credere che quel gigante di Lars-Gunnar potesse aver avuto paura. O essere stato piccolo. Che se la fosse fatta addosso, poi! Come dovevano essersi sforzati di non diventare come il loro padre. Ma ce l'avevano dentro. Quel disprezzo per la debolezza. Una durezza che ereditavano di padre in figlio. Mimmi pensa ai cugini di Nalle, alcuni di loro abitano in paese, fanno parte della squadra di caccia, a volte vanno al loro ristorante. Ma Nalle è immune da tutto ciò. Dai saltuari scoppi di amarezza di LarsGunnar nei confronti della moglie, di suo padre, del mondo in generale. Dalla sua irritazione per i limiti del figlio, dall'autocommiserazione e dall'odio che emergono solo quando beve, ma che sono sempre lì, sotto la superficie. Nalle può chinare la testa, ma solo per pochi secondi. È un bambino felice nel corpo di un adulto. L'amarezza e la stupidità non fanno presa su di lui. Se non fosse stato handicappato. Se fosse stato normale. Mimmi sa bene come sarebbe stato il rapporto tra lui e suo padre. Spoglio e secco. Potato dal disprezzo per le proprie debolezze. Mildred. Non sa quanto ha ragione. Ma Mimmi non si lancia in alcun ragionamento. Si limita ad alzare le spalle, dice che è contenta di averla conosciuta ma che deve tornare al lavoro. Mimmi sentì la voce di Lars-Gunnar dalla sala ristorante. «Ma insomma, Nalle.» Non arrabbiata. Stanca e rassegnata. «Te l'ho detto mille volte, la colazione si fa a casa.» Mimmi uscì in sala da pranzo. Nalle teneva la testa china sul piatto per
la vergogna. Si leccò la traccia di latte dal labbro superiore. Le frittelle erano finite, come le uova e i toast, solo la mela era ancora intatta. «Quaranta corone» disse Mimmi con una punta di allegria di troppo. Se lo merita, quel tirchione, si disse. Aveva sempre il freezer pieno di carne proveniente dalle partite di caccia. Le donne del paese lo aiutavano con le pulizie e il bucato, gli portavano il pane fresco e invitavano a cena lui e Nalle. Quando Mimmi aveva iniziato a lavorare al ristorante, Nalle faceva colazione gratis. «Non dovete dargli niente» aveva spiegato Lars-Gunnar. «Altrimenti ingrassa troppo.» Ma Micke gli dava da mangiare e, non avendo il permesso di LarsGunnar, non aveva il coraggio di farsi pagare. Ma Mimmi sì. «Nalle ha fatto colazione» disse a Lars-Gunnar la prima volta che le toccò il turno di mattina. «Sono quaranta corone.» Lars-Gunnar le aveva lanciato un'occhiata sorpresa. Si era guardato attorno in cerca di Micke, che era a casa a dormire. «Non dovevate dargli niente» aveva iniziato. «Se non può mangiare devi tenerlo lontano da qui» disse Mimmi. «Se viene, mangia. Se mangia, paghi.» Da quel giorno aveva sempre pagato. Anche a Micke, quando apriva lui la mattina. Ora sorrise a Mimmi e ordinò caffè e frittelle anche per sé. Era in piedi accanto al tavolo a cui erano seduti Nalle e Rebecka. Non riusciva a decidere dove sedersi. Alla fine si sistemò al tavolo accanto. «Vieni qui» disse. «Forse la signora vuole stare per conto suo.» La signora non rispose e Nalle rimase dov'era. Quando Mimmi arrivò con l'ordinazione Lars-Gunnar le chiese: «Puoi tenere qui Nalle oggi?» «Ancora» disse Nalle indicando la pila di frittelle del padre. «Prima la mela» replicò Mimmi irremovibile. «No» rispose poi a Lars-Gunnar. «Ho molto lavoro. Stasera c'è la riunione di Maddalena.» Un'ombra di disapprovazione passò sul volto dell'ex poliziotto. Come succedeva alla maggior parte degli uomini quando si parlava del gruppo femminile. «Neanche per qualche ora?» insistette. «Perché non chiedi a mamma?»
«Non mi va di chiederlo a Lisa. Sarà occupata per la riunione di stasera.» «Qualcuna delle donne del paese allora? Vogliono tutte bene a Nalle.» Osservò Lars-Gunnar che prendeva in considerazione l'alternativa. Niente è gratis a questo mondo. È vero che poteva chiedere a qualche donna del paese. Ma era proprio quello che non gli andava. Chiedere un favore. Disturbare. Dovere qualcosa a qualcuno. Rebecka Martinsson guardò Nalle che fissava la sua mela. Difficile a dirsi se si sentiva d'impiccio o se semplicemente non gli andava giù di essere costretto a mangiare la mela prima di avere altre frittelle. «Può stare con me, se a lui va bene» disse. Lars-Gunnar e Mimmi la guardarono sorpresi. Lei stessa non era meno sorpresa di loro. «Sì, non ho in programma niente di speciale per oggi» proseguì. «Potrei fare un giro da qualche parte... Se vuole venire anche lui... Vi do il mio numero di cellulare.» «Sta in uno dei bungalow» spiegò Mimmi a Lars-Gunnar. «Rebecka...» «Martinsson.» Lars-Gunnar fece un cenno del capo. «Lars-Gunnar, il papà di Nalle» si presentò. «Se per lei non è un disturbo...» È ovvio che è un disturbo, ma ormai si è offerta, pensò Mimmi irritata. «Nessun disturbo» assicurò Rebecka. Sono saltata dal trampolino più alto, si disse. Ora posso fare quello che voglio. * Anna-Maria Mella era seduta nella sala riunioni della centrale di polizia. Aveva convocato una riunione mattutina a causa delle lettere e degli altri documenti trovati nella cassetta di sicurezza di Mildred Nilsson. Oltre a lei c'erano i suoi colleghi Sven-Erik Stålnacke e Fred Olsson. Sul tavolo davanti a loro erano posate una ventina di lettere, la maggior parte con le buste aperte. «Cominciamo» disse. Lei e Fred Olsson si infilarono i guanti di lattice e iniziarono a leggere. Sven-Erik rimase seduto con le mani intrecciate sul tavolo, i grandi baffi sporgenti come una spazzola per scarpe. Sembrava che volesse uccidere
qualcuno. Alla fine anche lui si infilò lentamente i guanti, come se fossero due guantoni da boxe. Diedero un'occhiata veloce a tutte le lettere. La maggior parte erano di membri della congregazione con qualche problema. Divorzi, morti, infedeltà e preoccupazioni per i figli. Anna-Maria ne alzò una. «Questa è illeggibile» disse. «Guardate, non si capisce niente, sembra un filo del telefono ingarbugliato.» «Da' qua» disse Fred Olsson allungando una mano. Prima si portò il foglio così vicino al volto da toccarlo col naso. Poi lo allontanò lentamente fino a leggerlo con le braccia tese. «Tutta questione di tecnica» disse strizzando e spalancando alternativamente gli occhi. «Prima si riconoscono le parole brevi, "è", "tu", "di", poi si ricostruisce a partire da quelle. Me ne occupo dopo.» Posò la lettera e tornò a quella che stava leggendo. Gli piaceva quel genere di lavoro. Cercare nei database, fare collegamenti, verificare dati, rintracciare persone senza fissa dimora. «The truth is out there» era solito dire prima di collegarsi. Aveva molti informatori nella sua agenda e un gran numero di contatti, gente che sapeva molte cose su questo o quell'argomento. «Qui c'è qualcuno arrabbiato» disse dopo un po' alzando una lettera. Era scritta su carta rosa con dei cavalli al galoppo con la criniera al vento nell'angolo superiore destro. «Il tuo tempo è AGLI SGOCCIOLI, Mildred» lesse. «Ben presto TUTTI sapranno la verità su di te. Predichi MENZOGNE e vivi di MENZOGNE. Siamo in MOLTI a esserci stancati delle tue MENZOGNE... eccetera eccetera...» «Mettila in un sacchetto» disse Anna-Maria. «Quelle più interessanti le mandiamo alla scientifica. Merda!» Fred Olsson e Sven-Erik Stålnacke alzarono gli occhi. «Guardate!» disse. «Guardate qui!» Spiegò un foglio e lo mostrò ai colleghi. Era un disegno. Rappresentava una donna con i capelli lunghi appesa a un cappio. Chi l'aveva fatto aveva una buona mano, non un professionista ma un buon amatore. Attorno al corpo penzolante si arricciavano lingue di fuoco e sullo sfondo c'era un tumulo con una croce nera. «Cosa c'è scritto lì in fondo?» Anna-Maria lesse ad alta voce: «PRESTO MILDRED.»
«Questa...» iniziò Fred Olsson. «... la mandiamo immediatamente a Linköping!» proseguì Anna-Maria. «Se ci sono impronte... Dobbiamo chiamarli e dire che questa cosa ha priorità assoluta.» «Tu vai pure» disse Sven-Erik. «Io e Fred controlliamo le altre.» Anna-Maria infilò lettera e busta in due sacchetti di plastica, poi corse via. Fred Olsson tornò a chinarsi disciplinatamente sul mucchio di lettere. «Questa non è male» disse. «C'è scritto che è una brutta isterica che odia gli uomini e che deve fare attenzione perché "ci siamo stufati di te, brutta puttana, fai attenzione quando esci la sera, guardati attorno, i tuoi nipoti non ti riconosceranno". Se non aveva figli, come faceva ad avere dei nipoti?» Sven-Erik stava ancora fissando la porta da cui era uscita Anna-Maria. Tutta l'estate. Quelle lettere erano rimaste nella cassetta di sicurezza tutta l'estate, mentre lui e i suoi colleghi si dibattevano nel vuoto. «Quello che voglio sapere» disse senza guardare Fred Olsson «è perché quei dannati pastori non mi hanno detto che Mildred Nilsson aveva una cassetta di sicurezza in ufficio!» Fred Olsson non rispose. «Avrei voglia di prendere quei signori per la collottola e dargli un bello scrollone» proseguì. «Tanto per chiedergli cosa stanno tramando.» «Ma Anna-Maria ha promesso a Rebecka Martinsson...» «Ma io non ho promesso un bel niente» urlò Sven-Erik sbattendo una mano sul tavolo con tanta forza da farlo sobbalzare. Si alzò e fece un gesto impotente con la mano. «Tranquillo, non ho intenzione di fare una sciocchezza» aggiunse poi. «Devo solo, che ne so, riprendermi un momento.» Con quelle parole lasciò la stanza. La porta sbatté alle sue spalle. Fred Olsson tornò alle lettere. Forse era meglio così. Gli piaceva lavorare da solo. * Il parroco Bertil Stensson e il curato Stefan Wikström erano nella stanza di fronte all'ufficio parrocchiale e guardavano nella cassetta di sicurezza aperta di Mildred Nilsson. «Calmati» disse Bertil Stensson. «Ricordati di...»
Chiuse la frase con un cenno del capo in direzione dell'ufficio dove sedevano le segretarie. Stefan Wikström guardò il suo capo di soppiatto. La bocca del parroco si contrasse in una smorfia pensosa. Si distendeva e si contraeva alternativamente come quella di un criceto. Il corpo basso e tozzo in una camicia rosa di Shirt Company perfettamente stirata. Un colore audace, erano le sue figlie a scegliergli i vestiti. Ma gli donava, era adatto al volto abbronzato con i capelli grigi spettinati come quelli di un ragazzino. «Dove sono le lettere?» chiese Stefan Wikström. «Forse le ha bruciate» rispose il parroco. La voce di Stefan Wikström salì di un tono. «A me ha detto che le aveva tenute. Pensa se le ha qualcuno di Maddalena. Cosa devo dire a mia moglie?» «Forse niente» disse Bertil Stensson calmo. «Devo vedere suo marito. I gioielli spettano a lui.» Rimasero un attimo in silenzio. Stefan Wikström guardava ancora la cassetta di sicurezza. Aveva creduto che quello sarebbe stato un momento liberatorio. Che avrebbe tenuto in mano le lettere e si sarebbe sbarazzato di Mildred una volta per tutte. Invece continuava a tenerlo per la gola come sempre. Cosa vuoi da me, Signore?, si chiese tra sé. Sta scritto che non ci sottoponi a prove superiori alle nostre possibilità, ma questa volta mi hai portato al limite delle mie forze. Si sentiva intrappolato. Intrappolato da Mildred, da sua moglie, dal lavoro, dalla sua vocazione a cui dava sempre senza ricevere mai nulla in cambio. E dopo la morte di Mildred si sentiva intrappolato dal suo capo. Prima Stefan era contento della relazione padre-figlio che si era instaurata tra loro, ma ora si rendeva conto del prezzo da pagare. Era nelle mani di Bertil. Negli sguardi delle segretarie poteva leggere cosa il parroco diceva alle sue spalle. Inclinavano leggermente la testa e assumevano un che di compassionevole nello sguardo. Gli sembrava quasi di sentirlo: «Stefan sta passando un momento difficile. È più sensibile di quanto sembri.» Più sensibile uguale più debole. Il fatto che in alcune occasioni il parroco avesse celebrato le funzioni al suo posto non era passato sotto silenzio. Tutti erano stati informati, in modo apparentemente casuale. Si sentiva umiliato e sfruttato. Vorrei scomparire, pensò all'improvviso. Dio che ti prendi cura dei passeri.
Mildred. A giugno era svanita. Di colpo. Ma ora era tornata. Il gruppo Maddalena si era rimesso in piedi. Reclamavano agguerrite più pastori donna. E Bertil sembrava aver già dimenticato com'era fatta. Adesso quando parlava di lei lo faceva con un certo calore nella voce. Aveva un gran cuore, diceva sospirando. E aveva maggiori doti pastorali di lui, ammetteva generosamente. Ma questo significava anche che aveva maggiori doti pastorali di Stefan, dato che Bertil era più prete di lui. Io almeno non sono un bugiardo, si disse Stefan concitato. Mildred era una piantagrane, raccoglieva attorno a sé donne a pezzi e gettava benzina sul fuoco invece di acqua. La morte non poteva cambiare questo fatto. Era un pensiero fastidioso quello che Mildred desse fuoco alle persone a pezzi. Molti avrebbero potuto affermare che aveva dato fuoco anche a lui. Ma io non sono a pezzi, si disse. Non è stato per quello. Sempre fissando la cassetta di sicurezza, ripensò all'autunno del 1997. Bertil Stensson ha convocato Stefan Wikström e Mildred Nilsson. Con lui c'è anche Mikael Berg, in qualità di responsabile del personale della parrocchia. Mikael siede rigido e impettito sulla sua sedia. È sulla cinquantina e i pantaloni che indossa non devono avere meno di dieci o quindici anni. E a quell'epoca Mikael pesava dieci o quindici chili di più. Ha i capelli radi e incollati sul cranio, ogni tanto fa un respiro affannato. Solleva una mano, non sa dove metterla, se la passa rapidamente sui capelli e torna a posarla sul ginocchio. Stefan è seduto di fronte a lui. Pensa che deve mantenere la calma. Per tutto il colloquio che lo aspetta dovrà mantenere la calma. Gli altri possono anche alzare la voce, ma lui non è fatto così. Aspettano Mildred. Arriva direttamente da una funzione scolastica e ha avvisato che arriverà con qualche minuto di ritardo. Bertil Stensson guarda fuori dalla finestra, con una ruga in mezzo alla fronte. Poi arriva Mildred. Bussa ed entra nello stesso tempo. Ha le guance arrossate, i capelli increspati dall'aria umida autunnale. Getta la giacca su una sedia e si versa del caffè. Bertil Stensson spiega perché sono lì. La congregazione sta per spaccarsi in due, dice. La parte pro-Mildred - non dice quella pro-Stefan - e il resto. «Sono felice della partecipazione che riesci a creare attorno a te» dice a Mildred. «Ma per me è diventata una situazione insostenibile. Inizia ad assomigliare a una guerra tra un prete femminista e un prete misogino.»
Stefan fa quasi un balzo sulla sedia. «Non sono misogino» ribatte costernato. «No, ma è quello che la gente pensa» disse Bertil Stensson spingendo avanti l'Nsd di lunedì sul tavolo. Nessuno ha bisogno di guardarlo. Tutti hanno letto l'articolo. «Pretedonna risponde per le rime» dice il titolo. Nell'articolo viene citata la predica di Mildred della settimana prima. Aveva raccontato che in origine la stola era un indumento femminile romano, utilizzato fin dal quarto secolo dopo Cristo come veste liturgica. «Gli odierni paramenti dei preti sono dunque degli abiti femminili, racconta Mildred Nilsson» diceva l'articolo. «Tuttavia posso accettare preti maschi, dopo tutto sta scritto: "Non c'è più né uomo né donna, né giudeo né greco"». Anche Stefan aveva potuto dire la sua. «Stefan Wikström afferma di non sentirsi attaccato personalmente dalla predica. Ama le donne, anche se preferirebbe non vederle sul pulpito». Stefan è addolorato. Si sente ingannato. È vero che aveva detto quelle cose, ma il contesto era completamente diverso. Il giornalista gli aveva chiesto: «Ama i suoi fratelli. E le donne? È un misogino?» E lui aveva ingenuamente risposto di no, che amava le donne. «Ma preferirebbe non vederle sul pulpito.» È vero, aveva risposto. A grandi linee era così. Ma non era un giudizio di valore, aveva aggiunto. Ai suoi occhi il lavoro delle diaconesse era importante quanto quello dei preti. Il parroco dice che d'ora in avanti non vuole più vedere prese di posizione del genere da parte di Mildred. «E quelle di Stefan, allora?» chiede lei perfettamente calma. «Lui e la sua famiglia non vengono in chiesa quando predico io. Non possiamo celebrare la cresima insieme perché si rifiuta di lavorare con me.» «Non posso ribaltare le parole della Bibbia» dice Stefan. Mildred accenna un gesto di stizza con la testa. Bertil assume un'espressione paziente. Sono cose che ha già sentito, si rende conto Stefan, ma cosa ci può fare, restano sempre vere. «Gesù ha scelto dodici uomini come apostoli» insiste Stefan. «Il sommo sacerdote era sempre un uomo. Quanto ci possiamo allontanare dal testo biblico per adeguarci ai valori correnti della società senza perdere la nostra cristianità?» «Tutti i discepoli e i sommi sacerdoti erano anche ebrei» risponde Mildred. «A questo riguardo, qual è la tua posizione? E leggiti la Lettera agli
ebrei, ormai è Gesù il nostro sommo sacerdote.» Bertil alza le mani a indicare che non vuole entrare in una discussione che hanno già fatto parecchie altre volte. «Vi rispetto entrambi» dice. «E ho acconsentito a non assegnare donne alla tua parrocchia, Stefan. Ma voglio sottolineare ancora una volta che state mettendo me e i fedeli in una situazione difficile. State creando un conflitto. E voglio invitarvi entrambi a non entrare in polemica, soprattutto non dal pulpito.» Cambia espressione. Da severa a conciliante. Quasi strizza l'occhio a Mildred in segno di comprensione. «Concentriamoci invece sul nostro compito comune. Sarei felice di non dover sentire parole come "potere maschile" e "strutture di potere" in chiesa. Devi credere a Stefan quando dice che non è una presa di posizione se non viene in chiesa quando predichi tu, Mildred.» Mildred resta impassibile. Guarda Stefan dritto negli occhi. «È la parola della Bibbia» dice lui senza riuscire a reggere lo sguardo. «Su questo non scendo a compromessi.» «Gli uomini picchiano le donne» dice Mildred, poi fa un respiro profondo e prosegue. «Gli uomini discriminano le donne, le dominano, le molestano, le uccidono. Le privano degli organi genitali, le uccidono appena nate, le costringono dietro a un velo, le chiudono in casa, le violentano, impediscono loro di studiare, danno loro uno stipendio inferiore e minori possibilità di fare carriera. Su questo non scendo a compromessi.» Per circa tre secondi cade un silenzio di tomba. «Ma Mildred...» tenta di romperlo Bertil. «È pazza» grida Stefan. «Mi stai dando... mi stai paragonando a chi maltratta le donne. Questa non è una discussione, questa è una calunnia bella e buona e non so...» «Cosa?» chiede lei. Ora sono entrambi in piedi, da qualche parte sullo sfondo si sentono le voci di Bertil e di Mikael Berg: «Calmatevi, sedetevi.» «Cosa di quello che ho detto è una calunnia?» «Non c'è spazio per la discussione» dice Stefan rivolto a Bertil. «Non possiamo trovare un compromesso. Non ho nessun bisogno di farmi... Non possiamo collaborare, lo vedi anche tu.» «Non hai mai voluto farlo» sente dire a Mildred mentre esce dalla stanza.
Bertil Stensson restava in silenzio davanti alla cassetta di sicurezza aperta. Sapeva che il suo giovane curato si aspettava che dicesse qualcosa di tranquillizzante. Ma cosa poteva dire? Naturalmente Mildred non aveva bruciato o buttato via le lettere. Se solo avesse saputo prima della loro esistenza. Era molto irritato con Stefan per non avergliene parlato. «C'è qualcos'altro che dovrei sapere?» chiese. Stefan Wikström si guardò le mani. Il voto del silenzio poteva essere una croce molto pesante da portare. «No» rispose. Bertil Stensson scoprì con suo stesso stupore di sentire la mancanza di Mildred. Era rimasto sgomento e scioccato quando era stata uccisa, ma non aveva mai pensato che avrebbe sentito la sua mancanza. Probabilmente era ingiusto. Ma quello che prima trovava piacevole in Stefan, la sua disponibilità e la sua... ah, che parola ridicola, la sua ammirazione per il suo capo, da quando Mildred era morta gli sembravano solo una fastidiosa ansia di piacere. Avevano bisogno di controbilanciarsi a vicenda, i suoi bambini. Li vedeva spesso così, anche se Stefan aveva più di quarant'anni e Mildred aveva superato i cinquanta. Forse perché erano entrambi figli di pastori. Ah, Mildred sì che sapeva irritare la gente. A volte con niente. Come durante la cena dell'Epifania, per esempio. Ora si sentiva meschino per essersi arrabbiato tanto. Ma non poteva sapere che sarebbe stata l'ultima, per Mildred. Stefan e Bertil fissano come stregati l'avanzata di Mildred sul tavolo che li separa. Sono alla cena dell'Epifania, una tradizione degli ultimi anni. Sono seduti uno accanto all'altro di fronte a Mildred. Il personale sta per sparecchiare dopo la prima portata, quando Mildred muove all'attacco. Aveva iniziato a radunare il suo piccolo esercito, afferrando il portasale con una mano e il portapepe con l'altra. Li aveva accostati, facendogli fare un giro di danza mentre seguiva con aria assorta la conversazione che probabilmente verteva sul lavoro intenso del periodo di Natale, sui più recenti malanni di stagione o cose del genere. Poi aveva smoccolato le candele. Si vedeva che Stefan doveva trattenersi per non strappargliele di mano dicendo: smettila di toccare tutto! Il bicchiere invece era ancora al suo posto, come una regina in attesa del proprio turno sulla scacchiera.
Quando Mildred inizia a parlare della lupa di cui hanno scritto i giornali nel periodo di Natale, spinge distrattamente il portasale e il portapepe dal lato del tavolo di Bertil e Stefan. A quel punto anche il bicchiere viene messo in movimento. Mentre Mildred racconta che la lupa ha attraversato i confini russi e finlandesi, il bicchiere viaggia in lungo e in largo sul tavolo per tutta la lunghezza del suo braccio, attraverso ogni possibile confine. Continua a parlare con le guance colorite e a spostare oggetti sul tavolo. Stefan e Bertil si sentono messi alle strette, stranamente infastiditi dalla sua avanzata sulla tovaglia. Resta dalla tua parte!, hanno voglia di gridare. Racconta loro di averci pensato molto. E di essere arrivata alla conclusione che la chiesa dovrebbe istituire una fondazione per proteggere la lupa. Dopo tutto i terreni appartengono alla chiesa, quindi l'animale ricade sotto la sua responsabilità, secondo lei. Bertil, irritato da quella univoca partita a scacchi, ribatte a tono. «Secondo me invece la chiesa dovrebbe occuparsi della sua missione primaria, la cura delle anime e non dei boschi. È una questione di principio. Non dovremmo nemmeno possedere dei boschi. La gestione del capitale dovremmo lasciarla a qualcun altro.» Mildred non è d'accordo. «Siamo incaricati di far fruttare la terra» dice. «E se la chiesa possiede del terreno lo deve gestire nel modo migliore. Ora questa lupa è arrivata in territorio svedese, sulle terre della chiesa. Se non ottiene protezione non avrà vita lunga, lo sai anche tu. Qualche cacciatore o allevatore di renne le sparerà.» «Perciò la fondazione...» «Dovrebbe impedirlo, sì. In collaborazione con la protezione animali.» «Ma in questo modo allontaneresti gli esseri umani» obietta Bertil. «Tutti devono trovare posto in chiesa, cacciatori, lapponi, amici degli animali, tutti. La chiesa non può prendere posizione in questo modo.» «E la nostra responsabilità di amministratori della terra, allora?» dice Mildred. «Dobbiamo proteggere la terra, e questo comprende anche gli animali a rischio di estinzione, no? Se la chiesa avesse sempre avuto questo atteggiamento esisterebbe ancora la schiavitù.» A quel punto sono costretti a mettersi a ridere. Mildred deve sempre esagerare. Bertil Stensson richiuse la cassetta di sicurezza e si infilò la chiave in tasca. A febbraio Mildred aveva istituito la sua fondazione. Né lui né Stefan
Wikström si erano opposti. L'intera idea della fondazione lo aveva profondamente irritato. E ora gli rodeva rendersi conto di non essersi opposto per pura viltà. Aveva paura di essere visto come un nemico degli animali o Dio sa cosa. Ma aveva convinto Mildred ad accettare un nome meno provocatorio di "Fondo per la protezione del lupo in Scandinavia". Alla fine era stato scelto "Fondo per la protezione della natura di Jukkasjärvi", e lui e Stefan avevano avuto potere di firma insieme a Mildred. Poi in primavera, quando la moglie di Stefan era andata da sua madre a Katrineholm con i figli più piccoli, Bertil aveva smesso di pensarci. Ma ora gli rodeva, naturalmente. Stefan comunque avrebbe dovuto dire qualcosa, si discolpò tra sé. * Rebecka parcheggiò nel cortile della casa di sua nonna a Kurravaara. Nalle saltò giù dalla macchina e fece il giro della costruzione di corsa. Come un cane felice, si disse Rebecka vedendolo sparire dietro l'angolo. Subito dopo le venne un rimorso di coscienza. Non era giusto paragonarlo a un cane. Il sole di settembre sull'eternit grigio. Il vento che soffiava placido tra l'erba autunnale, pallida e secca. Sull'acqua bassa, una barca a motore in lontananza. Da un'altra direzione, il rumore di una sega circolare. Per il resto, silenzio e calma assoluta. Una lieve brezza sul volto, come una mano delicata. Guardò di nuovo la casa. Le finestre erano in pessimo stato. Avrebbero dovuto essere scartavetrate, stuccate e riverniciate. Con lo stesso verde scuro di prima, ovviamente. Pensò alla lana minerale, accatastata sulla scala che portava in cantina per fermare le correnti fredde e impedire alla brina di formarsi lasciando brutte macchie di umidità sulle pareti. Avrebbe dovuto essere rimossa. Sarebbe stato necessario anche isolare la scala, impermeabilizzarla e poi installare una ventola. Mettere a posto la cantina. Sistemare le finestre sfondate della serra prima che fosse troppo tardi. «Vieni, entriamo» gridò a Nalle che era corso giù fino alla casetta di legno rosso degli Andersson. Nalle arrivò attraversando il campo di patate. Le suole delle scarpe gli si imbrattarono di uno spesso strato di terra. «Tu» disse indicando Rebecka una volta sulle scale.
«Rebecka» rispose. «Mi chiamo Rebecka.» Il ragazzo annuì in risposta. Tra un po' glielo avrebbe domandato di nuovo. Glielo aveva già chiesto parecchie volte, ma non l'aveva mai chiamata per nome. Salirono la scala ed entrarono nella cucina della nonna. C'era odore di chiuso e faceva più freddo che fuori. Nalle la precedeva. In cucina aprì spudoratamente tutti gli armadi e i ripostigli, tutti i cassetti e le antine. Bene, pensò Rebecka. Così fa uscire i fantasmi. Sorrise della sua figura massiccia e goffa, dei sorrisi astuti che ogni tanto le rivolgeva. Era una compagnia piacevole. Perché un prode cavaliere non potrebbe avere anche questo aspetto?, si disse. Vedere che tutto era come al solito la rassicurò. Si sedette sul divano accanto a Nalle, che aveva trovato uno scatolone pieno di giornalini. Stava tirando fuori quelli che gli piacevano. Dovevano essere a colori, perciò si concentrò soprattutto su Topolino. Rimise invece nello scatolone Agente segreto X9, L'Uomo mascherato e Buster. Rebecka si guardò attorno. Le sedie dipinte di blu accanto al vecchio tavolo a ribalta. Il frigorifero che ronzava. Le decalcomanie che raffiguravano varie spezie sulle mattonelle dietro la vecchia cucina Näfveqvarn. Accanto alla cucina a legna c'era quella elettrica con le manopole in plastica marrone e arancio. Dappertutto traspariva la mano della nonna, dalla mensola in legno sopra la cucina pendevano ancora mazzetti di fiori secchi accalcati tra le pentole e i mestoli di acciaio inossidabile. Antennaria, tanaceto, erioforo, millefoglio e ranuncoli. Vide anche alcuni semprevivi rosa, che ai tempi della nonna non c'erano. Doveva averli messi Inga-Lill, la moglie di zio Affe. I pezzotti della nonna sul pavimento, perfino come protezione sul divano. Le tovagliette ricamate che coprivano ogni cosa, anche la macchina da cucire nell'angolo. I vassoi fatti con i fiammiferi che il nonno assemblava negli ultimi tempi, quando era malato. Le fodere dei cuscini intessute o fatte all'uncinetto. Potrei vivere qui?, si domandò Rebecka. Guardò il prato fuori dalla finestra. Non c'era più nessuno che lo falciava, e si vedeva. Qua e là spuntavano grossi cespugli, l'erba nuova era cresciuta attraverso uno spesso strato di erba secca dell'anno prima. Sicuramente c'erano anche migliaia di tane di arvicole. Dall'alto poteva vedere meglio in che condizioni era il tetto del fienile. La questione era se si poteva ancora fare qualcosa per salvarlo. Si scoraggiò immediatamente. Una
casa muore, quando viene abbandonata. Pian piano ma inesorabilmente. Avvizzisce, smette di respirare. Si sgretola, collassa, ammuffisce. Da dove potrei cominciare?, si chiese Rebecka. Solo le finestre sarebbero un lavoro a tempo pieno. Non so aggiustare il tetto. E probabilmente nemmeno il soppalco regge più. La porta al piano di sotto sbatté violentemente, facendo tremare il piccolo carillon appeso sopra, che emise alcune note esitanti. La voce di Sivving risuonò nella casa. Salì risolutamente le scale ed entrò nel piccolo appartamento. «Ehilà!» Qualche secondo dopo apparve sulla porta della cucina. Il vicino di casa della nonna. Grande in tutti i sensi. I capelli bianchi e soffici come la lanugine del salice artico. Una maglietta militare sotto la giacca blu di pelo sintetico. Il largo sorriso quando la vide. «Rebecka» disse soltanto. In due passi le fu accanto e la abbracciò. Non che fossero abituati ad abbracciarsi, nemmeno quando era piccola. Ma non le passò nemmeno per la testa di irrigidirsi. Anzi. Chiuse gli occhi per i due secondi che durò l'abbraccio. Sprofondò in un mare di pace. A eccezione di qualche stretta di mano nessuno l'aveva più toccata da... sì, da quando Erik Rydén l'aveva salutata alla festa dello studio legale a Lidö. E prima ancora erano passati sei mesi, da quando aveva fatto gli esami del sangue in ospedale. Poi l'abbraccio finì. Ma Sivving Fjällborg continuò a stringerle un avambraccio con la mano. «Come stai?» le chiese. «Bene» rispose con un sorriso. L'espressione del vecchio si era fatta più seria. La trattenne ancora un secondo. Poi il sorriso tornò sulle sue labbra. «Vedo che hai portato un amico.» «Sì, ti presento Nalle.» Il ragazzo era immerso in un Topolino. Difficile dire se stesse leggendo o se guardasse solo le figure. «Bene, allora venite a prendere il caffè da me, ho una cosa bellissima da farvi vedere. Che ne dici Nalle? Succo di frutta e ciambelle? O bevi il caffè?» Nalle e Rebecka seguirono Sivving come due vitellini alle spalle della
madre. Sivving, si disse Rebecka con un sorriso. Tutto si sistemerà. Basta fare una finestra alla volta. La casa di Sivving era dall'altra parte della strada. Rebecka gli raccontò che era andata a Kiruna per lavoro e che si era fermata per qualche giorno di vacanza. Sivving non fece domande imbarazzanti. Perché non stava a Kurravaara, per esempio. Rebecka notò che il braccio sinistro gli pendeva inerte lungo il fianco e che trascinava leggermente il piede sinistro, non molto, ma si vedeva. Nemmeno lei fece domande. Sivving viveva nel locale caldaia, giù nel seminterrato. C'era meno da pulire e si sentiva meno solo. Solo quando andavano a trovarlo i figli e i nipoti usava il resto della casa. Ma era un locale accogliente. I piatti e le stoviglie che usava tutti i giorni erano allineati su una piccola mensola scura. C'erano un letto, un piccolo tavolo di formica, una sedia, un lavamano e una cucina elettrica. In una cuccia accanto al letto era sdraiata la cagna di Sivving, Bella. E accanto a lei quattro cuccioli. L'animale si alzò scodinzolando a salutare Rebecka e Nalle. Non aveva tempo di farsi accarezzare, si limitò a dare loro un'annusatina e al suo padrone una leccata veloce. «Brava, piccola» disse Sivving. «Be', cosa ne dici, Nalle? Belli, vero?» Nalle sembrò non sentirlo nemmeno. Fissava i cuccioli con espressione estasiata sul volto. «Oh» disse soltanto sedendosi sui talloni e allungando una mano a prendere uno dei cuccioli. «Oh.» «Non so se...» iniziò Rebecka. «No, lascialo» disse Sivving. «Bella è una madre più sicura di quanto mi sarei aspettato.» Bella si sdraiò accanto ai tre cuccioli rimasti. Teneva costantemente d'occhio Nalle che si era riseduto, appoggiandosi alla parete, con il quarto in braccio. Il piccolo si svegliò e attaccò la sua mano e il maglione con tutte le sue energie. «Sono fatti così» commentò Sivving ridendo. «È come se avessero un interruttore acceso-spento. Un momento girano come arcolai, un attimo dopo dormono come sassi.» Bevvero il caffè in silenzio. Non c'era bisogno di parlare. Bastava osservare Nalle sdraiato sul pavimento con i cagnolini che gli si arrampicavano sulle gambe e sulla pancia e gli tiravano i vestiti. Bella ne approfittò per elemosinare una ciambella accanto alla tavola. Si sedette accanto a
Rebecka con due fili di acquolina che le colavano dalla bocca. «Vedo che hai imparato le buone maniere» esclamò Rebecka ridendo. «Va' a cuccia» ordinò Sivving con un gesto della mano. «Ho l'impressione che non ci senta troppo bene da quell'orecchio» commentò Rebecka ridendo ancora di più. «È colpa mia» si lamentò Sivving. «Ma sai, quando si è soli è facile cedere e poi...» Rebecka annuì. «Sai una cosa?» aggiunse poi tutto allegro. «Visto che sei in compagnia di un bel ragazzo alto e forte, potete aiutarmi a tirare in secco il pontile. Avevo quasi pensato di farlo con il trattore, ma ho paura che non regga.» Il pontile era fradicio e pesante. Nalle e Sivving erano entrati nel fiume basso e lento e lo tiravano ognuno per un'estremità. Le ultime zanzare della stagione ne approfittavano per pungerli sul collo. Il sole e la fatica avevano fatto sì che i loro vestiti finissero ammucchiati sulla riva. Nalle indossava gli stivaloni di scorta di Sivving, Rebecka si era messa dei vecchi vestiti trovati a casa della nonna. Uno degli stivali era tagliato, perciò si era subito bagnata il piede destro. Ora era sulla riva a tirare, con l'acqua che sciaguattava nello stivale. Sentiva i rivoli di sudore colarle lungo la schiena. E sulla fronte. Salata e bagnata. «Questa sì che è vita» gemette. Sivving la osservò soddisfatto. È vero che il lavoro fisico dà un certo sollievo quando l'animo è tormentato. Se fosse tornata, l'avrebbe messa sotto. Poi mangiarono zuppa di carne con gallette nel seminterrato. Sivving aveva tirato fuori dal nulla tre sgabelli e li aveva sistemati attorno alla tavola. Rebecka si era messa un paio di calze asciutte. «Era buona, vero?» disse Sivving a Nalle, che aveva ingurgitato la zuppa con grandi pezzi di gallette imburrate. «Puoi venire ad aiutarmi ancora, se vuoi.» Nalle annuì con la bocca piena. Bella era nella sua cuccia, circondata dai cuccioli che ronfavano. A volte muoveva le orecchie. Teneva tutto sotto controllo, anche se aveva gli occhi chiusi. «E ovviamente tu sei sempre la benvenuta, Rebecka» aggiunse poi. Rebecka annuì guardando fuori dalla finestra. Il tempo passa più lentamente qui, si disse. Ma passa ugualmente. Un pontile nuovo. Nuovo per me, in realtà deve avere già parecchi anni sul
groppone. Il gatto che si nasconde tra l'erba non è Mirri. Dev'essere morto e sepolto da chissà quanto. Non so come si chiamano i cani che abbaiano in lontananza, una volta lo sapevo. Riconoscevo i latrati irascibili e aggressivi di Pilkki, poteva andare avanti all'infinito. Sivving. Tra un po' avrebbe avuto bisogno d'aiuto per spalare la neve e fare la spesa. Chissà se potrei resistere quassù. * Anna-Maria Mella parcheggiò la sua Ford Escort rossa nel cortile di Magnus Lindmark. Secondo Lisa Stöckel ed Erik Nilsson, era l'uomo che non aveva mai fatto mistero di odiare Mildred Nilsson. Che le aveva tagliato le gomme e aveva dato fuoco alla rimessa della canonica. Magnus stava lavando la macchina, quando la vide entrare in cortile chiuse l'acqua e posò il tubo. Attorno alla quarantina. Non molto alto, ma forte. Si arrotolò le maniche della camicia mentre Anna-Maria scendeva dall'auto. Voleva mostrare un po' i muscoli. «Bella locomotiva» commentò scherzando. Un attimo dopo si rese conto che era una poliziotta e cambiò espressione. Un misto di disprezzo e astuzia. Anna-Maria si disse che avrebbe fatto meglio a farsi accompagnare da Sven-Erik. «Non credo di voler rispondere a nessuna domanda» dichiarò Magnus Lindmark prima ancora che aprisse bocca. Anna-Maria si presentò. Tirò fuori il tesserino, anche se non era solita farlo. Cosa faccio ora?, si domandò. Non poteva costringerlo a parlare con lei. «Non sa nemmeno di cosa si tratta» tentò. «Mi lasci indovinare» disse atteggiando il volto in un'espressione di profonda riflessione, massaggiandosi il mento con l'indice. «Una troia di pastore che ha avuto quel che si meritava, forse? Mi lasci pensare un attimo... no, non ho voglia di parlarne.» Ah, questo gioco lo diverte un sacco, si disse Anna-Maria. «Bene» replicò in tono indifferente. «Allora prendo la mia locomotiva e me ne vado.» Si voltò per tornare alla macchina. Ora dice qualcosa, fece in tempo a pensare. «Se prendete chi l'ha uccisa datemi un colpo di telefono» gridò. «Così vengo a stringergli la mano.»
Arrivata alla macchina, Anna-Maria si voltò con le dita sulla maniglia senza dire una parola. «Era una puttana e ha avuto quello che si meritava. Non ha un blocco per appunti? Se lo scriva!» Anna-Maria si tolse di tasca un blocco e una penna. Scrisse «una puttana». «Sembra aver fatto arrabbiare un sacco di gente» commentò come tra sé. L'uomo si avvicinò, fermandosi a una distanza minacciosamente ridotta. «Ci può giurare.» «Perché era arrabbiato con lei?» «Arrabbiato» ripeté sarcastico. «Mi arrabbio con il cane quando abbaia agli scoiattoli. Non sono un ipocrita, non ho problemi ad ammettere che la odiavo. E non ero certo l'unico.» Continua a parlare, si disse Anna-Maria annuendo. «Perché la odiava?» «Perché ha distrutto il mio matrimonio, ecco perché! Perché mio figlio ha ricominciato a bagnare le lenzuola a undici anni! Avevamo dei problemi, Anki e io, ma dopo aver parlato con Mildred non ha più voluto sentire ragioni. Le dicevo: "Se vuoi andiamo a un consultorio familiare, lo faccio se vuoi", ma no, quella stronza di Mildred le aveva messo strane idee in testa e alla fine mi ha lasciato. E ha preso i bambini. Non credeva che la chiesa facesse certe cose, vero?» «No. Ma lei...» «Anki e io litigavamo, è vero. Ma scommetto che lo fa anche lei con suo marito, o no?» «Spesso. Ma era così arrabbiato da...» Anna-Maria si interruppe per sfogliare il blocco. «... darle fuoco alla rimessa, tagliarle le gomme della macchina e romperle i vetri della serra?» Magnus Lindmark le rivolse un largo sorriso mentre rispondeva: «Ma non sono stato io.» «Cosa ha fatto la notte prima del giorno di mezza estate?» «L'ho già detto, ho dormito da un amico.» Anna-Maria consultò il blocco. «Fredrik Korpi. Dorme spesso dagli amici?» «Quando sono così sbronzo da non riuscire a guidare...» «Ha detto che non era certo l'unico a odiarla. Chi altro?» Fece un gesto col braccio.
«Chiunque.» «Era molto amata, ho sentito dire.» «Da una massa di donnette isteriche.» «E da alcuni uomini.» «Che non sono altro che donnette isteriche. Chieda a qualunque uomo vero, scusi il termine, e vedrà. Si era messa anche contro la squadra di caccia. Voleva far revocare la concessione venatoria e Dio sa cosa. Ma se crede che sia stato Torbjörn a ucciderla, si sbaglia di grosso.» «Torbjörn?» «Torbjörn Ylitalo, il guardaboschi della chiesa, nonché presidente del circolo della caccia. La primavera scorsa hanno litigato di brutto. Le avrebbe piantato volentieri una palla in testa. Era insopportabile quando iniziava a parlare di quella lupa. Ed è tutta una questione di classi sociali. È facile amare i lupi per la massa degli stoccolmesi. Ma il giorno in cui un lupo si presenterà sui loro campi da golf o sulle loro belle verande e si mangerà i loro barboncini a colazione cambieranno idea!» «Mildred Nilsson non era di Stoccolma.» «Forse no, ma sempre di quelle parti. Il cane del cugino di Torbjörn Ylitalo è stato ucciso dai lupi mentre lui era nel Värmland a trovare i suoceri, nel Natale del '99. Era un ottimo cane da cerca, aveva vinto anche delle gare. L'ho visto piangere davanti a tutti da Micke, quando raccontava di come aveva trovato il cane. O meglio, quello che ne restava. Non c'era altro che lo scheletro e qualche brandello di pelle.» La guardò. Anna-Maria rimase impassibile, cosa credeva, che sarebbe svenuta solo perché parlava di scheletri e brandelli di pelle? Vedendo che non diceva niente, l'uomo voltò la testa a osservare le cime dei pini tra le nubi sfrangiate nel cielo azzurro. «Sono stato costretto ad andare da un avvocato per poter rivedere i miei figli. Cazzo, cazzo. Spero che abbia sofferto. È stato così, vero?» Quando Rebecka e Nalle tornarono da Micke erano già le cinque. Lisa Stöckel stava scendendo a piedi verso il ristorante e Nalle le corse incontro. «Cane!» gridò indicando Majken. «Piccolo!» «Abbiamo visto dei cuccioli» spiegò Rebecka. «Becka!» gridò il ragazzo indicandola. «Ah, siamo diventati popolari» commentò Lisa con un sorriso. «I cuccioli sono stati un grosso punto a favore» rispose timidamente
Rebecka. «Tutti i cani» replicò Lisa. «Ti piacciono i cani, vero Nalle? Ho sentito che oggi si è occupata di Nalle, grazie. Posso rimborsarla se ha avuto delle spese per mangiare o altro.» Estrasse il portafoglio di tasca. «No, no» rispose Rebecka con un gesto brusco della mano che fece cadere il portafoglio a Lisa. Tutte le tessere si rovesciarono sulla ghiaia, quella della biblioteca, quella dei punti del supermercato, la carta di credito e la patente. E la foto di Mildred. Lisa si chinò a raccogliere tutto rapidamente, ma Nalle aveva già afferrato la fotografia. Era stata scattata durante un viaggio in pullman in occasione di un ritiro del gruppo Maddalena. Mildred sorrideva con aria di simulato rimprovero verso la macchina fotografica. Era Lisa che aveva scattato la foto quando si erano fermati per sgranchire un po' le gambe. «Hired» disse Nalle portandosi la foto alla guancia. Fece un sorriso a Lisa che gli tendeva una mano impaziente, facendo uno sforzo per non strappargliela di mano. Fortuna che non era presente nessun altro. «Sì, erano amici loro due» disse con un cenno del capo in direzione di Nalle, che teneva ancora la foto premuta contro la guancia. «Sembra essere stata un pastore speciale» disse Rebecka seria. «Molto speciale» disse Lisa. «Molto.» Rebecka si chinò ad accarezzare il cane. «È una tale benedizione» disse Lisa. «Si dimenticano tutte le preoccupazioni quando si è con lui.» «Non è una femmina?» chiese Rebecka guardando sotto la pancia del cane. «No, stavo parlando di Nalle» disse Lisa. «Lei è Majken» aggiunse dando al cane una carezza distratta. «Ne ho anche altri.» «Mi piacciono i cani» rispose Rebecka grattando le orecchie di Majken. Un po' meno gli esseri umani, vero?, si disse Lisa. Lo so. Ero così anch'io. Lo sono ancora. Ma Mildred le aveva fatto fare di tutto. Fin dall'inizio. Come quando si era messa in testa che dovesse tenere un corso di economia familiare. Ovviamente Lisa aveva cercato di rifiutarsi. Ma Mildred era... cocciuta era una parola ridicola. Non si poteva far stare tutta Mildred in quella parola. «Non ti importa?» le chiede. «Non ti importa delle persone?»
Lisa è seduta per terra con Bruno sdraiato accanto. Gli sta tagliando le unghie. Majken è a fianco a loro, a osservare ogni suo gesto come un'infermiera. Gli altri cani sono sdraiati nell'ingresso sperando che non arrivi mai il loro turno. Se rimangono zitti e fermi abbastanza a lungo, forse Lisa si dimenticherà di loro. Mildred è seduta sul divano, intenta alle sue eterne spiegazioni. Come se il problema fosse che Lisa non capisce. Il gruppo Maddalena vuole aiutare le donne economicamente in difficoltà. Disoccupate di lungo periodo, donne con lunghe assenze dal lavoro per malattia alle spalle, donne che vivono del sussidio con l'ufficiale giudiziario alle calcagna e i cassetti pieni di avvisi di società di recupero crediti e Dio sa cos'altro. Mildred sa che Lisa lavora come consulente economico per il comune, e vuole che tenga un corso per quelle donne. In modo che imparino a gestire le proprie finanze. Lisa vuole rispondere di no. Dire che non le importa del suo prossimo. Che le importa dei suoi cani, gatti, capre, pecore, agnelli. Della femmina di alce che aveva trovato l'inverno precedente, magra come un chiodo, e a cui aveva dato da mangiare. «Non verranno» risponde Lisa. Taglia l'ultima unghia di Bruno, poi gli dà una pacca affettuosa e il cane raggiunge gli altri nell'ingresso. Lisa si alza. «Quando le inviti dicono "sì, sì, fantastico", ma poi non si presentano» insiste. «Vedremo» dice Mildred assottigliando gli occhi. Poi allarga la sua piccola bocca color uva di monte in un largo sorriso, mostrando una fila di denti piccoli come quelli di un bambino. A Lisa vengono le gambe molli, guarda da un'altra parte. Dice: «D'accordo», ma solo per far andare via il pastore prima di finire lunga e distesa per terra. Tre settimane dopo, Lisa parla di fronte a un gruppo di donne. Disegna su una lavagna bianca. Grafici a torta, in rosso, verde e blu. Lancia occhiate di sbieco a Mildred, osa appena guardarla. Si concentra sulle altre ascoltatrici. Con addosso i vestiti migliori. Camicie a buon mercato, maglioni bioccoluti, bigiotteria dorata. La maggior parte ascolta, altre guardano Lisa con aria quasi ostile, come se fosse colpa sua se stanno così male. Poco per volta viene coinvolta in altri progetti del gruppo. Si lascia trascinare per inerzia. Per un periodo frequenta perfino il gruppo di studi bi-
blici, ma poi non ce la fa più. Non può guardare Mildred, le sembra che le altre le possano leggere in viso come in un libro aperto. Ma non riesce a evitare di guardarla tutto il tempo, è così evidente. Non sa cosa fare. Non sa di cosa parlano. La penna le cade di mano in continuazione. Alla fine smette di andarci. Si tiene alla larga dal gruppo femminile. L'irrequietezza è come una malattia incurabile. Si sveglia in piena notte. Non fa altro che pensare a Mildred. Inizia ad andare a correre. Prima sulla strada. Poi il terreno si asciuga e può correre nei boschi. Va in Norvegia e compra un altro cane, uno springer spaniel. Almeno la tiene occupata. Ridipinge le finestre e nelle chiare serate di maggio, invece di chiedere in prestito il motocoltivatore del vicino, sarchia a mano il campo di patate. A volte le sembra di sentir suonare il telefono, ma non va mai a rispondere. «Posso avere la foto, Nalle?» disse Lisa sforzandosi di mantenere un tono di voce neutro. Nalle la stringeva con entrambe le mani, con un sorriso che andava da un orecchio all'altro. «Hired» ripeté. «Dondola.» Lisa lo fissò e gli prese la foto. «Sì, certo» disse alla fine. Poi aggiunse, forse un po' troppo in fretta, ma Rebecka sembrò non farci caso: «Nalle è stato cresimato da Mildred. E il catechismo è stato un po'... poco convenzionale. Aveva capito che era solo un bambino, perciò andavano in altalena al parco giochi e facevano gite in barca e andavano a mangiare la pizza. Non è vero, Nalle? Tu e Mildred mangiavate la pizza. Quattro stagioni, vero?» «A proposito, oggi ha mangiato tre porzioni di zuppa di carne» disse Rebecka. Nalle le lasciò per dirigersi verso il pollaio. Rebecka lo salutò, ma il ragazzo sembrò non sentirla. Nemmeno Lisa sembrò far caso al suo saluto, quando Rebecka si incamminò in direzione del suo bungalow. Rispose in tono assente, stava ancora guardando Nalle. Lisa seguì il ragazzo come una volpe dietro alla preda. Il pollaio era sul retro del ristorante. Pensava a quello che aveva detto guardando la foto di Mildred. «Hired. Dondola.» Ma Nalle non andava in altalena. Avrebbe voluto vedere l'alta-
lena in cui fosse riuscito a sedersi. Perciò non poteva riferirsi a un gioco che avevano fatto insieme. Nalle aprì la porta del pollaio. Aveva l'abitudine di raccogliere le uova per Mimmi. «Nalle» disse cercando di catturare la sua attenzione. «Nalle, hai visto Mildred dondolare?» Accompagnò la domanda con un gesto della mano a indicare sopra la testa. «Dondola» rispose il ragazzo. Lo seguì nel pollaio. Nalle infilava la mano sotto le galline e prendeva le uova che stavano covando. Rideva delle loro beccate furibonde. «Era in alto? Era Mildred?» «Hired» ripeté Nalle. Si infilò le uova nelle tasche e uscì. Signore Iddio, pensò Lisa. Cosa sto facendo? Ripete tutto quello che dico. «Hai visto il razzo?» chiese con un gesto veloce della mano. «Woschh!» «Woschh!» ripeté Nalle con un sorriso estraendo un uovo di tasca. In quel momento arrivò la macchina di Lars-Gunnar, che si fermò sul ciglio della strada e suonò il clacson. «Il papà» disse Lisa. Alzò una mano a salutare il cugino. Si rendeva conto di quanto fosse rigido e innaturale il suo gesto. Il corpo è traditore. Le riusciva impossibile incrociare il suo sguardo o scambiare qualche parola con lui. Restò dietro il ristorante mentre Nalle corse alla macchina. Non pensarci, si disse. Mildred è morta. Niente può cambiare la realtà. * Anki Lindmark viveva in un appartamento al secondo piano al 21d di Kyrkogatan. Quando Anna-Maria Mella suonò il campanello, socchiuse la porta e guardò fuori da sopra la catena di sicurezza. Era sulla trentina, forse un po' più giovane. Aveva i capelli tinti di biondo con la ricrescita scura. Indossava un maglione lungo e una gonna di jeans. Attraverso la porta socchiusa Anna-Maria fu colpita dall'altezza della donna, di sicuro oltrepassava il suo ex marito di tutta la testa. Anna-Maria si presentò. «È lei l'ex moglie di Magnus Lindmark?» chiese poi. «Cos'ha fatto?» replicò Anki Lindmark.
Poi spalancò gli occhi. «È successo qualcosa ai ragazzi?» «No» disse Anna-Maria. «Vorrei solo farle qualche domanda. Faremo in fretta.» Anki Lindmark la fece entrare, poi riagganciò la catena e chiuse la porta a chiave. Andarono in cucina. Era tutto pulito e ordinato. Farina d'avena, Nesquik e zucchero in barattoli Tupperware sul piano di lavoro. Una tovaglietta sul microonde. Sul davanzale della finestra un vaso con dei tulipani di legno, un uccello di vetro e un carretto in miniatura. Sul frigorifero parecchi disegni di bambini tenuti fermi da alcune calamite. Vere tende con tanto di fascette, mantovane e volant. Al tavolo della cucina era seduta una donna sulla sessantina con i capelli color carota. Rivolse ad Anna-Maria un'occhiata arrabbiata, tirò fuori dal pacchetto una sigaretta al mentolo e la accese. «Mia madre» spiegò Anki sedendosi. «Dove sono i bambini?» chiese Anna-Maria. «Da mia sorella. La cuginetta compie gli anni.» «Il suo ex marito, Magnus Lindmark...» iniziò Anna-Maria. Quando la madre di Anki sentì pronunciare il nome dell'ex genero sbuffò fuori una nuvoletta di fumo. «... ha ammesso di odiare Mildred Nilsson» concluse Anna-Maria. Anki Lindmark annuì. «Ha provocato danni a sue proprietà» proseguì. Si sarebbe morsa la lingua. Perché usava quel linguaggio così ufficiale? Dovevano essere gli occhi a fessura della donna dai capelli color carota che la facevano diventare formale. Sven-Erik, vieni ad aiutarmi, pensò. Lui sì che ci sapeva fare con le donne. Anki Lindmark alzò le spalle. «Senta, tutto quello che diremo resterà fra noi» disse Anna-Maria nel tentativo di riavvicinare le placche continentali. «Ha paura di lui?» «Raccontale perché vivi qui» disse la madre. «Sì» acconsentì Anki Lindmark. «I primi tempi dopo averlo lasciato, abitavo nella casa di campagna di mamma a Poikkijärvi...» «Ora l'ho venduta» disse la madre. «Non era più possibile viverci. Va' avanti.» «... ma Magnus continuava a darmi ritagli di giornale che parlavano di
incendi e cose del genere, alla fine non ho più avuto il coraggio di abitare così isolata.» «E la polizia non può fare niente» aggiunse la madre con un sorriso amaro. «Non è cattivo con i ragazzi, questo no. Ma a volte, quando beve... sì, a volte arriva fin sulle scale e mi insulta... mi dà della puttana, e anche peggio... prende a calci la porta. Perciò preferisco abitare qui, dove ci sono dei vicini e non ho finestre al piano terra. Ma prima di trovare questo appartamento ho abitato per un po' a casa di Mildred. È andata a finire che le hanno sfondato i vetri... e tagliato le gomme... e hanno dato fuoco alla rimessa.» «Ed è stato Magnus?» Anki Lindmark fissava la superficie del tavolo. Sua madre si sporse verso Anna-Maria. «Gli unici che non ci credono siete voi poliziotti» disse. Anna-Maria evitò di addentrarsi nel discorso sulla differenza tra credere una cosa e poterla provare e si limitò ad annuire pensierosa. «L'unica cosa che spero è che se ne trovi una nuova» disse Anki Lindmark. «E possibilmente ci faccia dei figli. Ma ultimamente va meglio, da quando Lars-Gunnar è andato a parlargli.» «Lars-Gunnar Vinsa» aggiunse la madre. «È un poliziotto, o meglio lo era, ora è in pensione. Ed è il capo della squadra di caccia. Ha parlato con Magnus. E se c'è una cosa che Magnus non vuole è perdere il suo posto in squadra.» Lars-Gunnar Vinsa, certo che Anna-Maria sapeva chi era. Ma era andato in pensione poco tempo dopo che lei si era trasferita a Kiruna, e non si erano mai trovati a lavorare insieme. Perciò non poteva dire di conoscerlo. Aveva un ragazzo ritardato, se non sbagliava. Ricordava anche come era venuta a saperlo. Lars-Gunnar e un collega avevano arrestato una tossica che faceva casino al Kupolen. Prima di perquisirla, Lars-Gunnar le aveva chiesto se aveva delle siringhe in tasca. No, che cazzo, le aveva a casa. Perciò lui le aveva controllato tranquillamente le tasche e si era punto con una siringa. La ragazza era arrivata in centrale con il labbro superiore gonfio come un pallone e con il sangue che le colava dal naso. I colleghi avevano impedito a Lars-Gunnar di autodenunciarsi, aveva sentito dire AnnaMaria. Era il 1990, per un test dell'AIDS ci volevano sei mesi. Nel periodo che seguì si parlò parecchio di Lars-Gunnar e di suo figlio di sei anni. La mamma del piccolo lo aveva lasciato, e il padre era l'unica persona che gli
rimaneva. «Quindi Lars-Gunnar ha parlato con Magnus dopo l'incendio della rimessa?» chiese Anna-Maria. «No, è stato dopo il gatto.» Anna-Maria aspettò in silenzio. «Avevo una gatta» riprese Anki raschiandosi la voce come se le fosse andato qualcosa di traverso. «Pallina. Quando me ne stavo andando da casa ho provato a chiamarla, ma era in giro da un po'. Ho pensato che sarei tornata a prenderla un'altra volta. Ero così nervosa. Non volevo incontrare Magnus. Nei giorni successivi ha continuato a telefonarmi. Anche a mia madre. A volte nel bel mezzo della notte. E un giorno mi ha chiamata in ufficio per dirmi che aveva lasciato un sacchetto di cose mie appeso alla porta dell'appartamento.» Tacque. La madre soffiò verso Anna-Maria uno sbuffo di fumo che si disperse in membrane sottili. «Nel sacchetto c'era Pallina» disse quando vide che la figlia non andava avanti. «E i suoi piccoli. Cinque. Tutti senza testa. Non erano altro che sangue e pelo.» «Cos'ha fatto?» «Cosa poteva fare?» proseguì la madre. «Voi avete le mani legate. Lo ha detto perfino Lars-Gunnar. Per fare denuncia dev'essere stato commesso un reato. Se i gatti avessero sofferto, lo si sarebbe potuto accusare di crudeltà verso gli animali. Ma dato che gli aveva tagliato la testa, sicuramente non avevano fatto in tempo a soffrire. Se fossero stati gatti di razza di un certo valore lo si sarebbe potuto accusare di danni patrimoniali. Ma erano solo dei comuni mici domestici.» «Già» concluse Anki Lindmark. «Ma non credo che potrebbe uccidere...» «Ah, davvero?» obiettò la madre. «E quando ti sei trasferita qui? Ti ricordi cosa è successo con Peter?» La madre spense il mozzicone e si accese una nuova sigaretta. «Peter abita a Poikkijärvi. Anche lui è separato, ma è un bravissimo ragazzo. Be', lui e Anki avevano iniziato a uscire qualche volta...» «Solo come amici» la interruppe Anki. «Una mattina, Peter stava andando al lavoro e Magnus lo ha superato con la sua macchina. Peter non poteva girargli attorno, perché Magnus aveva messo la macchina di traverso, e la strada sterrata è piuttosto stretta.
Magnus scende, apre il bagagliaio e tira fuori una mazza da baseball. Poi va verso l'altra auto. Peter è convinto che lo ucciderà, pensa ai suoi figli, pensa che forse lo ridurrà come un handicappato. Invece Magnus si limita a scoppiare in una risata di scherno, risale in macchina e riparte facendo schizzare in aria la ghiaia. A quel punto hanno smesso di uscire insieme, non è vero Anki?» «Non volevo litigare. È buono con i miei figli.» «Già, hai a malapena il coraggio di andare a fare la spesa. Non c'è praticamente differenza da quando eri sposata. Sono così stanca di questa storia. E la polizia non può fare un bel niente!» «Perché ce l'aveva tanto con Mildred?» chiese Anna-Maria. «Diceva che era stata lei a convincermi a lasciarlo.» «Ed è vero?» «No, certo che no» disse Anki. «Sono una donna adulta. Prendo da sola le mie decisioni. Ed è quello che ho detto a Magnus.» «E lui cos'ha risposto?» «È stata Mildred a suggerirti di dire così?» «Sa cos'ha fatto Magnus la notte prima del giorno di mezza estate?» Anki Lindmark scosse la testa. «L'ha mai picchiata?» «Ma i bambini no.» Era ora di andare. «Solo un'ultima cosa» disse Anna-Maria. «Quando stava da Mildred, che impressione ha avuto di suo marito? Andavano d'accordo?» Anki Lindmark e sua madre si scambiarono uno sguardo. L'argomento preferito del paese, si disse Anna-Maria. «Mildred andava e veniva come un gatto» rispose Anki. «Ma a lui sembrava andare bene così... Insomma, non hanno mai litigato o cose del genere.» * Si stava facendo sera. Le galline si rifugiarono nel pollaio e si strinsero le une alle altre sui loro trespoli. Il vento calò fino a fermarsi del tutto. I dettagli venivano cancellati dall'avanzare della penombra. Erba, alberi e case si confondevano nel cielo blu scuro. I rumori si avvicinavano, si facevano più netti. Lisa Stöckel ascoltava il suono dei suoi stessi passi sulla ghiaia mentre
scendeva verso il ristorante. Aveva Majken al guinzaglio. Tra un'ora il gruppo femminile Maddalena si sarebbe riunito da Micke. Sarebbe rimasta sobria e avrebbe mantenuto la calma. Avrebbe sopportato tutte quelle chiacchiere sull'andare avanti senza Mildred. Su Mildred che era vicina a loro come quando era viva. Bastava mordersi le labbra, tenersi stretta alla sedia e non alzarsi a gridare: «È finita! Niente può andare avanti senza Mildred! Non è vicina! È una fanghiglia in decomposizione sotto terra! Terra era e terra ritornerà! E voi, voi tornerete a chiudervi in casa, a preparare il caffè, a soffrire di emicrania, a fare pettegolezzi. E a leggere Casa bella e la pubblicità del supermercato e a servire i vostri mariti.» Entrò dalla porta e la vista di sua figlia interruppe il corso dei suoi pensieri. Mimmi stava passando uno straccio su tavoli e davanzali. I capelli di tre colori raccolti in due spesse trecce sopra le orecchie, l'orlo del reggiseno di pizzo rosa che spuntava dalla scollatura del maglioncino nero aderente, le guance arrossate. Probabilmente era stata in cucina a preparare da mangiare fino a poco prima. «Cosa c'è per cena?» chiese Lisa. «Ho giocato sul tema mediterraneo. Panini alle olive con salse varie per antipasto» rispose Mimmi senza rallentare il movimento dello straccio. Passò al bancone che asciugò con il canovaccio che portava sempre infilato nel grembiule. «Tsatsiki, tapenade e hummus» proseguì. «Poi zuppa di fagioli al basilico, tanto valeva cucinare vegetariano per tutti, metà delle socie sono delle mangiaerba.» Alzò gli occhi e rivolse un sorriso a Lisa che si stava togliendo il berretto. «Ma mamma!» esclamò. «Come sei conciata? Ti fai rosicchiare i capelli dai cani?» Lisa si passò una mano sui capelli per cercare di farli stare giù. Mimmi guardò l'ora. «Ci penso io» disse. «Prendi una sedia.» Sparì oltre la porta basculante che portava in cucina. «Per dessert gelato al mascarpone con lamponi» gridò. «È una bomba.» Lisa prese una sedia, si tolse il cappotto e si sedette. Majken si accucciò immediatamente ai suoi piedi, la breve passeggiata l'aveva già stancata, o forse più probabilmente aveva male.
Lisa rimase seduta immobile come in chiesa, mentre Mimmi le passava le forbici tra i capelli pareggiandoli alla lunghezza di un dito. «Come andrà a finire senza Mildred?» chiese Mimmi. «Hai tre rose, una in fila all'altra.» «Andremo avanti come al solito, immagino.» «Facendo cosa?» «Le cene per mamme e bambini, le mutande pulite e la lupa.» La storia delle mutande pulite era iniziata come un progetto di raccolta. Ci si era resi conto che gli aiuti pratici offerti alle donne maltrattate erano molto maschiocentrici. Nei pacchi di vestiario c'erano rasoi usa e getta e mutande da uomo, ma non slip e tamponi. Le donne dovevano accontentarsi di boxer e assorbenti simili a pannolini per bambini. Maddalena aveva proposto ai servizi sociali di occuparsi dell'acquisto di slip, tamponi e prodotti per l'igiene, come deodoranti e balsami per capelli. Il passo successivo era stato individuare delle persone di riferimento, che i padroni di casa delle donne maltrattate avrebbero potuto chiamare in caso di problemi. «Come farete con la lupa?» «Speriamo di poter continuare la collaborazione con la protezione animali. Ora che viene la neve e si potranno seguire le sue tracce con le motoslitte, se la vedrà brutta se non la teniamo sotto osservazione. Ma la fondazione ha un bel po' di soldi, perciò dovremmo farcela.» «Questa volta non la scamperai, lo sai anche tu, vero?» disse Mimmi. «Cosa intendi?» «Sarai tu il nuovo motore di Maddalena.» Lisa si grattò via alcuni capelli che le si erano appiccicati sotto l'occhio. «Mai» rispose. Mimmi scoppiò a ridere. «Credi di avere scelta? Trovo che ci sia del comico, tu non sei mai stata una tipa da associazioni, l'avresti mai detto? Dio, quando ho sentito che sei diventata presidente, Micke mi ha dovuta rianimare.» «Me l'immagino» commentò secca Lisa. No, pensò. Non l'avrei mai detto. Ho scoperto molte cose che non avrei mai detto di me stessa. Le dita di Mimmi fra i suoi capelli. Il rumore delle forbici che si chiudevano. Quella sera di inizio estate... pensò Lisa. Ricordava che era seduta in cucina a cucire delle nuove imbottiture per le cucce dei cani. Le lame delle forbici si chiudevano. Swisch, swisch, clic,
clic. La tv accesa in soggiorno. Due dei cani erano seduti lì, sul divano, sembrava quasi che stessero guardando il telegiornale. Lisa ascoltava distrattamente le notizie mentre tagliava la stoffa. Poi passò le pezze di tessuto alla macchina da cucire, pigiando sui pedali. Karelin russava nella sua cuccia nell'ingresso. Non c'è niente di più buffo di un cane che russa. Era sdraiato sulla schiena con una zampa posteriore sollevata. Un orecchio gli copriva un occhio come la benda di un pirata. Majken era sul letto, in camera, con le zampe sul naso. Di tanto in tanto emetteva qualche guaito soffocato e muoveva di scatto una zampa. Il nuovo springer spaniel accanto a lei. All'improvviso Karelin si sveglia di botto e si mette ad abbaiare come un matto. I cani sul divano del soggiorno si precipitano a dargli man forte. Majken e il cucciolo di springer spaniel arrivano di corsa, rischiando di far cadere Lisa che si è alzata a sua volta. Come se fosse possibile non averlo capito, Karelin viene in cucina e le racconta sonoramente che c'è qualcuno sulla scala esterna, che hanno visite, sta arrivando qualcuno. È Mildred Nilsson, il pastore. È ferma sulla veranda. Il sole del tramonto alle sue spalle le trasforma i capelli in una corona dorata. I cani le corrono incontro. Sono estasiati dalla visita. Abbaiano, si azzuffano e guaiscono. Bruno sembra addirittura cantare. Le code battono sullo stipite e sulla ringhiera della veranda. Mildred si china a salutarli. Fa bene. Lei e Lisa non possono guardarsi troppo a lungo. Non appena Lisa l'ha vista lì fuori, ha avuto la sensazione di essersi avventurata in mezzo alle rapide. Ora hanno il tempo di abituarsi. Si guardano un attimo, poi distolgono gli occhi. I cani leccano Mildred in faccia, il mascara le cola sulle guance, gli abiti le si riempiono di peli. La corrente è impetuosa. Bisogna tenersi forte. Lisa stringe la maniglia della porta. Ordina ai cani di andare a cuccia. Di solito urla e strepita, è il suo tono abituale con i cani e loro non ci fanno molto caso. Ma questa volta l'ordine è quasi un sussurro. «Andate a cuccia» dice con un gesto fiacco della mano. I cani la guardano perplessi, non avrebbe dovuto urlare? Ma se ne tornano ugualmente in casa ciondolando. Mildred prende la rincorsa. Si vede che è arrabbiata. Lisa è più alta di lei di tutta la testa, deve tendere il collo per guardarla. «Dove sei stata?» chiede furibonda. Lisa solleva un sopracciglio.
«Qui» risponde. Gli occhi si soffermano sul volto di Mildred segnato dall'estate. Le sono venute le lentiggini. E la peluria sopra il labbro superiore e sulla mandibola è diventata bionda. «Sai cosa intendo» dice Mildred. «Perché non vieni più al gruppo di studi biblici?» «Io...» inizia Lisa scervellandosi per trovare una scusa sensata. Poi si arrabbia. Perché deve dare spiegazioni? È un'adulta, ha cinquantadue anni, avrà pure il diritto di fare quello che vuole, no? «Avevo altro da fare» risponde. Il tono è più brusco di quanto avrebbe voluto. «Cosa?» «Lo sai!» Si fronteggiano come due maschi di renna, con il torace che si alza e si abbassa. «Sai benissimo perché non vengo alle riunioni» dice alla fine. Ormai si sono inoltrate nella corrente fino alle ascelle. Il pastore perde l'appoggio. Fa un passo verso Lisa, sorpresa e infuriata allo stesso tempo. C'è anche qualcos'altro nel suo sguardo. Apre la bocca. Prende fiato come si fa prima di scomparire sott'acqua. La corrente trascina con sé anche Lisa. Perde la presa sulla maniglia. Fa un passo verso Mildred. La mano atterra sulla sua nuca. Ha i capelli come quelli di un bambino. La attira a sé. Mildred è tra le sue braccia. La sua pelle è così morbida. Entrano in casa barcollando, intrecciate, la porta resta aperta, sbatte contro la ringhiera delle scale. Due cani escono. L'unica cosa sensata che Lisa riesce a pensare è: resteranno in cortile. Attraversano l'ingresso inciampando in scarpe e cucce. Lisa cammina all'indietro. Le braccia ancora strette attorno a Mildred, una alla vita, una alla nuca. Mildred la spinge dentro, le mani sotto il maglione di Lisa, le dita sui capezzoli. Attraversano la cucina incespicando, una volta in camera ruzzolano sul letto. C'è sdraiata Majken, puzza di cane bagnato, nel pomeriggio non aveva resistito a un tuffo nel fiume. Mildred sulla schiena. Via i vestiti. Le labbra di Lisa sul viso di Mildred. Due dita infilate nel suo sesso. Majken solleva la testa e le guarda. Poi torna a sdraiarsi con un sospiro, il naso tra le zampe. Non è la prima volta che vede dei membri del branco
accoppiarsi. Non c'è niente di strano. Poi preparano il caffè e scaldano le ciambelle. Ne mangiano un sacco, come due morte di fame. Mildred ne dà anche ai cani e ride, finché Lisa le dice bruscamente di smetterla, li farà ammalare, ma ride anche lei nonostante il tentativo di fare la severa. Sono sedute in cucina nella chiara notte estiva con una coperta sulle spalle, ognuna a un lato del tavolo. I cani si sono fatti prendere dall'atmosfera festosa e giocherellano in giro. Ogni tanto le mani attraversano la tavola per incontrarsi. L'indice di Mildred chiede al dorso della mano di Lisa: «Ci sei ancora?» La mano di Lisa risponde: «Sì!» Il medio e l'indice di Lisa chiedono all'interno del polso di Mildred: «Sensi di colpa? Angoscia?» Il polso di Mildred risponde: «No!» E Lisa scoppia a ridere. «Meglio che riprenda a frequentare il gruppo di studi biblici, allora.» Mildred ride a sua volta. Un pezzo di ciambella mezzo masticato le cade di bocca finendo sul tavolo. «Dio, cosa bisogna essere disposti a fare per avvicinare la gente alla Bibbia.» Mimmi fece un passo indietro e osservò il suo lavoro. Le forbici in mano come una spada sguainata. «Ecco fatto» disse. «Così non vai più in giro a fare figuracce.» Arruffò con una mano i capelli di sua madre. Poi prese il canovaccio appeso al grembiule e spazzolò via i capelli rimasti sulla nuca e sulle spalle di Lisa. Lisa si passò una mano sui capelli cortissimi. «Non vuoi guardarti allo specchio?» chiese Mimmi. «No, vanno sicuramente bene.» * Per la riunione autunnale del gruppo femminile Maddalena, Micke Kiviniemi aveva apparecchiato all'aperto un piccolo tavolo per le bevande, proprio accanto alla scala che portava all'ingresso. La serata era buia, quasi nera. E insolitamente calda per la stagione. Aveva creato una sorta di sentiero che attraversava il cortile, allineando una serie di candele in barattoli di vetro. Lungo la scala e sul tavolo con bottiglie e bicchieri erano posate
numerose lanterne di carta. Aveva avuto la sua ricompensa. I loro oh! e ah! si sentivano già dalla strada. Stavano arrivando. A passettini prudenti o a grandi falcate. Una trentina di donne. La più giovane vicina ai trenta, la più anziana settantacinque compiuti. «Che bello» gli dissero. «Sembra di essere all'estero.» Micke sorrise ma non rispose. Si mise al riparo dietro il tavolo delle bevande. Si sentiva come un ornitologo in un capanno di osservazione, non dovevano fare caso a lui. Dovevano comportarsi in modo naturale, come se lui non ci fosse. Si sentiva eccitato, quasi un ragazzino nascosto tra gli alberi a spiare. Il cortile davanti al ristorante era una grande stanza buia piena di rumori. I loro passi sulla ghiaia, risatine, chiacchiere, esclamazioni. I suoni viaggiavano. Si tendevano arroganti verso il cielo nero. Saltavano impudichi oltre il fiume, raggiungevano le case sulla sponda opposta. Venivano risucchiati dal bosco, dai pini neri, dal muschio assetato. Correvano lungo la strada e ricordavano al villaggio: esistiamo. Si erano messe tutte eleganti e profumate. Eppure si vedeva che non navigavano nell'oro. I vestiti erano antiquati. Lunghi cardigan di cotone sopra gonne scampanate a fiori, permanenti casalinghe, scarpe di seconda mano. Esaurirono l'ordine del giorno in poco più di mezz'ora. Gli incarichi vennero assegnati rapidamente alle volontarie, si alzavano regolarmente più mani di quante ne servissero. Poi cenarono. La maggior parte non era abituata a bere, e con un certo allarme misto a entusiasmo si ritrovò rapidamente brilla. Mimmi passava tra i tavoli ridacchiando, Micke restava in cucina. «Ah, Dio» gridò una delle donne quando Mimmi portò il dessert. «Non mi divertivo così da quando...» Si interruppe agitando nell'aria il braccio magro, che spuntava dalla manica del vestito come uno stuzzicadenti. «... dal funerale di Mildred» gridò qualcuno. Ci fu un attimo di silenzio. Poi scoppiarono tutte in una risata isterica, gridando che era vero, che il funerale di Mildred era stato... sì, divertente da morire, per poi scoppiare un'altra volta a ridere della nuova battuta. Il funerale. Avevano osservato la cassa che veniva calata strette nei loro vestiti neri. Il sole tagliente di inizio estate feriva gli occhi. I bombi che ronzavano attorno al mucchio di terra. Le foglie delle betulle tenere e luci-
de come se fossero di cera. Le cime degli alberi come chiese verdi traboccanti di uccelli impazienti di accoppiarsi. Il modo della natura di dire: non mi importa, io non mi fermo mai, terra eri e terra tornerai. Tutta quella bellezza ultraterrena come sfondo della spaventosa buca nel terreno, della cassa laccata. Le immagini di Mildred nella loro testa. Il cranio come un vaso rotto sotto la pelle. Majvor Kangas, una del gruppo, le aveva invitate a casa sua per un rinfresco. «Venite!» aveva detto. «Mio marito è su al capanno, non mi va di restare sola.» Così erano andate da lei. Si erano sedute silenziose sui divani buoni di pelle nera. Non avevano molto da dire, nemmeno sul tempo. Ma Majvor covava ribellione. «Andiamo!» aveva detto. «Aiutatemi!» Si era arrampicata su uno sgabello e aveva aperto l'armadietto sopra il guardaroba dell'ingresso. Ne aveva tirato fuori una decina di bottiglie: whisky, cognac, calvados, liquori vari. Le altre le avevano afferrate, ai piedi dello sgabello. «È roba buona» aveva detto qualcuno osservando le bottiglie. «Single malt invecchiato dodici anni.» «Ce le porta nostra nuora ogni volta che va all'estero» aveva spiegato Majvor. «Ma Tord non le apre mai, lui offre solo acquavite. Nemmeno io ho un debole per queste cose, ma oggi...» Aveva chiuso la frase con una piccola pausa a effetto. Le altre l'avevano aiutata a scendere dallo sgabello come una regina dal suo trono. Una per lato, una mano ciascuna. «Cosa dirà Tord?» «Cosa dovrebbe dire?» aveva risposto Majvor. «Non le ha aperte nemmeno l'anno scorso, quando ha compiuto sessant'anni.» «Lascialo pure bere il suo veleno per topi!» Perciò si erano sbronzate. Avevano cantato salmi. Dichiarato il loro affetto reciproco. Tenuto discorsi. «Alla salute di Mildred» aveva gridato Majvor. «Era la donna più indomabile che abbia mai conosciuto.» «Era pazza!» «Ora dovremo essere pazze per conto nostro!» Avevano riso. E versato qualche lacrima. Ma soprattutto riso.
Quello era stato il funerale. Ora Lisa le guardava mangiare il gelato al mascarpone e cantare le lodi di Mildred. Se la caveranno, pensò mentre se ne andava. Ce la faranno. La cosa la rendeva felice. O forse non felice, sollevata. E allo stesso tempo la solitudine la teneva all'amo, un barbiglio nel cuore e riprendeva la lenza. Dopo la riunione Lisa tornò a casa a piedi, nel buio. Era da poco passata la mezzanotte. Superò il cimitero e risalì la cresta che seguiva il fiume verso il monte. Passò accanto alla casa di Lars-Gunnar, riusciva appena a distinguerla alla luce della luna. Le finestre erano buie. Pensò a suo cugino. Il capo del villaggio, si disse. L'uomo più forte del paese. Quello che aveva convinto l'impresa incaricata di spazzare la neve a pulire la strada per Poikkijärvi prima di quella per Jukkasjärvi. Quello che aveva aiutato Micke quando aveva avuto problemi con la licenza per i liquori. Non che Lars-Gunnar bevesse molto quando andava al ristorante. Anzi, ormai beveva di rado. Una volta era diverso. Prima gli uomini bevevano in continuazione. Venerdì, sabato, e almeno un'altra volta nel corso della settimana si ubriacavano per bene. Gli altri giorni solo qualche birra. Era così. Ogni tanto dovevano pur calmarsi in qualche modo, altrimenti andava tutto in malora. No, Lars-Gunnar ci andava piano con l'alcol. L'ultima volta che Lisa l'aveva visto davvero ubriaco era stata sei anni prima. L'anno prima che Mildred si trasferisse in paese. Quella volta era andato da lei. Lo vedeva ancora seduto in cucina. La sedia scompare sotto la sua mole. Tiene i gomiti sulle ginocchia e la testa fra le mani. Ansima pesantemente. Sono le undici di sera passate. La bottiglia è posata sul tavolo davanti a lui. Quando è arrivato ce l'aveva in mano. Come una bandiera: ho bevuto, e ho intenzione di andare avanti ancora un bel po', cazzo. Lisa era già andata a dormire quando aveva bussato. Non che lo avesse sentito, erano stati i cani ad avvisarla non appena aveva messo piede sulla veranda. Naturalmente è una sorta di dimostrazione di fiducia che vada a casa sua in quello stato. Indebolito dall'alcol e dai sentimenti. Solo che lei non sa cosa farci. Non succede spesso che la gente le faccia confidenze. Non è
una persona che invita a farlo. Ma sono parenti. E lei sa tenere la bocca chiusa, Lars-Gunnar lo sa. Perciò sta lì in vestaglia ad ascoltarlo parlare. La storia infelice della sua vita. L'amore infelice e tradito. E Nalle. «Scusami» borbotta Lars-Gunnar mordendosi un pugno. «Non avrei dovuto venire.» «È tutto a posto» dice lei, insicura. «Vai pure avanti mentre io...» Non le viene in mente niente, ma deve trovare qualcosa da fare se non vuole scappare a gambe levate. «... mentre preparo da mangiare per domani.» Perciò lui riprende a parlare e lei si mette ad affettare carne e verdura per una zuppa. Nel bel mezzo della notte. Sedano rapa e carote, aglio e navone, patate e Dio sa cosa. Ma Lars-Gunnar non sembra trovarci niente di strano. È concentrato su se stesso. «Sono stato costretto a uscire di casa» confessa. «Prima di... Non sono sobrio, lo ammetto. Prima di uscire mi sono seduto sul letto di Nalle e gli ho puntato il fucile alla testa.» Lisa non dice una parola. Affetta carote come se non avesse sentito niente. «Ho pensato al futuro» sospira. «Chi si prenderà cura di lui quando non ci sarò più? Non ha nessuno.» Aveva ragione, pensò Lisa. Era arrivata alla sua casetta di pan pepato in cima alla cresta. La luna gettava una sottile argentatura sui fregi delle finestre e della veranda. Salì la scala. I cani abbaiarono e si misero a correre come matti all'interno, riconoscevano i suoi passi. Quando aprì la porta si precipitarono fuori a pisciare in cortile. Entrò in soggiorno. Le uniche cose che erano rimaste erano la libreria vuota e il divano. Nalle non ha nessuno, pensò. Zampe Gialle È primavera. Rare chiazze di neve sotto i pini grigiastri e gli abeti impettiti. Una brezza tiepida da sud. Il sole filtra tra i rami. Animaletti vari razzolano ovunque nell'erba dell'anno scorso. Nell'aria svolazzano centinaia di profumi, come in un pentolone. Resina e germogli di betulla. Terra tie-
pida. Acqua. L'odore dolciastro delle lepri. Quello acre delle volpi. La femmina alfa ha scavato una nuova tana. È una vecchia tana di volpe in un pendio rivolto a sud, circa duecento metri sopra un laghetto. Il terreno è sabbioso, facile da scavare, ma la lupa ha dovuto ugualmente faticare per allargare l'entrata, eliminare i detriti risalenti alle volpi e aprire una cavità a tre metri dall'ingresso. Zampe Gialle e un'altra femmina di tanto in tanto l'hanno aiutata, ma ha fatto gran parte del lavoro da sola. Ora passa le giornate nelle vicinanze della tana. Si sdraia davanti all'ingresso a sonnecchiare sotto il sole primaverile. Gli altri lupi le portano il cibo. Quando il maschio alfa le porta qualcosa, si alza e gli va incontro. Lo lecca e mugola soddisfatta prima di inghiottire i doni. Poi, una mattina, la femmina alfa entra nella tana e non ne esce per tutto il giorno. La sera partorisce i cuccioli. Li pulisce, mangia tutte le membrane, i cordoni ombelicali e la placenta. Li spinge in piedi con colpetti di muso sotto la pancia. Non ha portato fuori nessun cucciolo nato morto. Volpi e corvi restano senza cena. Il resto del branco continua la sua vita fuori dalla tana. Dà la caccia a piccole prede, restando nelle vicinanze. A volte si sente uggiolare qualche piccolo che si è trascinato nella direzione sbagliata, o un altro a cui i fratelli hanno sottratto la mammella. Solo il maschio alfa ha il permesso di entrare e rigurgitare un po' di cibo per la femmina. Dopo tre settimane, la femmina alfa porta fuori i cuccioli per la prima volta. Sono cinque. Gli altri lupi non stanno in sé dalla contentezza. Li salutano con cautela, li annusano, dando loro colpetti con il muso. Li leccano sulle pance tonde e attorno alla coda. Dopo poco la femmina alfa li riporta nella tana. I cuccioli sono esausti per tutte le nuove impressioni. I due lupacchiotti di un anno si danno la caccia a vicenda nel bosco. Per il branco inizia un bel periodo. Tutti danno una mano. I piccoli sono instancabili e la loro giocosità contagia tutti gli altri. Può capitare che perfino la femmina alfa si dedichi a una gara di tiro alla fune con un vecchio ramo. I cuccioli crescono e sono sempre affamati. I loro nasi diventano sempre più lunghi e le orecchie più aguzze. I lupi di un anno fanno a turno a montare la guardia fuori dalla tana mentre gli altri vanno a caccia. Quando tornano gli adulti, i piccoli vanno loro incontro impettiti. Mendicano, uggiolano e gli leccano gli angoli della bocca. In risposta, gli adulti rigettano mucchietti rossastri di carne. Se ne avanza ne avranno un po' anche i baby-sitter. Zampe Gialle non sparisce nei suoi vagabondaggi solitari. In quel perio-
do rimane con il branco e i lupetti nuovi. Si sdraia sulla schiena e fa la preda inerme. Due di loro le si lanciano addosso, uno le infila i dentini aguzzi nelle labbra, l'altro le attacca ferocemente la coda. Spinge via col muso quello che le si era attaccato alle labbra e gli posa sopra una delle sue enormi zampe. Il cucciolo ha un bel da fare per liberarsi. Lotta e si divincola. Alla fine ce la fa e le gira intorno correndo sulle zampette lanose, poi torna a lanciarsi contro la sua testa con un ringhio tracotante. Le morde le orecchie con fare bellicoso. Poi si addormentano di colpo. Uno tra le sue zampe anteriori, l'altro con la testa sulla pancia del fratello. Zampe Gialle ne approfitta per schiacciare un sonnellino anche lei. Fa un tentativo non molto convinto di acchiappare una vespa che si è avvicinata troppo, la manca, attorno ai fiori si sente un ronzio assonnato di insetti. Il sole del mattino si alza sopra le cime dei pini. Gli uccelli si lanciano nell'aria in cerca di cibo da rovesciare nei becchi spalancati dei loro piccoli. Che fatica giocare. La felicità le scorre dentro come un torrente in primavera. Venerdì 8 settembre L'ispettore di polizia Sven-Erik Stålnacke si svegliò alle quattro e mezza del mattino. Maledetto gatto, fu il suo primo pensiero. Di solito era Manne a svegliarlo a quell'ora. Aveva l'abitudine di prendere lo slancio sul pavimento e atterrare pesantemente sulla sua pancia. E se si limitava a mugolare e a girarsi dall'altra parte, Manne si metteva a passeggiare avanti e indietro sul suo corpo come uno scalatore sulla cresta di un monte. A volte emetteva un miagolio lamentoso, che significava che aveva fame o che voleva uscire. Spesso entrambe le cose. Se Sven-Erik si rifiutava di alzarsi, borbottando: «È piena notte, stupido di un gatto», tirandosi il piumino fin sulle orecchie, le passeggiate proseguivano, con gli artigli sempre più fuori. Alla fine, in genere, li infilava nello scalpo del padrone. Gettare il gatto giù dal letto o buttarlo fuori dalla stanza non serviva gran che. Perché allora Manne si dedicava con tutte le sue energie a mobili e tende. «È un gatto dannatamente intelligente» diceva Sven-Erik. «Sa che se fa così lo sbatto fuori. Il che è esattamente quello che voleva fin dall'inizio.» Sven-Erik era un uomo che incuteva rispetto. Aveva le braccia muscolo-
se e le mani grandi. Qualcosa nel suo viso e nel suo atteggiamento indicava una pluriennale abitudine a trattare con i peggiori attaccabrighe. Eppure si divertiva a farsi tormentare da un gatto. Quella mattina però non era stato Manne a svegliarlo. Ma si era svegliato lo stesso. Per abitudine. Forse perché sentiva la mancanza di quel giovane tiranno tigrato che lo vessava di continuo con i suoi agguati e i suoi desideri. Si sedette sul letto, tanto non sarebbe più riuscito ad addormentarsi. Ormai era la quarta notte che quel dannato gatto era sparito. Di solito stava via un giorno, a volte due. Non c'era da preoccuparsi. Ma quattro... Scese le scale e aprì la porta d'ingresso. La notte era una lanugine grigia, stava per spuntare il giorno. Emise un fischio prolungato, andò in cucina, prese un barattolo di cibo per gatti e un cucchiaio e uscì sulla veranda picchiandoli uno contro l'altro. Niente gatto. Alla fine rinunciò, gli stava venendo freddo solo con i boxer. È così, si disse. È il prezzo della libertà. C'è il rischio di venire investiti da una macchina o catturati da una volpe. Presto o tardi. Riempì la macchina del caffè. Meglio così, comunque, si disse. Meglio questo che vedere Manne ammalarsi ed essere costretto a farlo sopprimere dal veterinario. Sarebbe stato uno schifo. La macchina del caffè si mise in moto con un gorgoglio e Sven-Erik tornò in camera a vestirsi. Forse Manne si era trasferito a casa di qualcun altro, era già successo. Che tornasse a casa dopo tre giorni senza essere minimamente affamato. Palesemente ben nutrito e riposato. Qualche vecchietta si sarà intenerita e l'avrà fatto entrare. O qualche pensionato che non ha di meglio da fare che mettergli a bollire del salmone o versargli un piattino di panna. Sven-Erik fu assalito da una rabbia irragionevole nei confronti di quegli sconosciuti che facevano entrare in casa un gatto che non gli apparteneva. Possibile che la gente non capisse che c'era qualcuno che si preoccupava e si chiedeva dove fosse finito? Si vedeva bene che Manne non era un randagio, affettuoso com'era e con il pelo lucido. Gli avrebbe preso un collarino. Avrebbe dovuto farlo da tempo. Solo che aveva paura che restasse impigliato da qualche parte, era questo che lo aveva frenato fino a quel momento, il pensiero di Manne appeso a un albero o agganciato a un cespuglio dove sarebbe morto di fame. Fece una colazione abbondante. I primi anni dopo che Hjördis se n'era
andata si limitava a prendere un caffè in piedi. Ma poi era migliorato. Quella mattina divorò senza appetito lo yogurt con muesli. Il caffè era pronto e riempiva la cucina con il suo profumo. Manne in origine era il gatto di sua figlia, glielo aveva lasciato quando si era trasferita a Luleå. Non avrebbe mai dovuto accettare. Ora lo sapeva. Era solo una dannata seccatura, sì, una dannata seccatura. Anna-Maria Mella era seduta al tavolo della cucina con il suo caffè. Erano le sette. Jenny, Petter e Marcus dormivano ancora. Gustav era sveglio e gattonava avanti e indietro sulla pancia di Robert nella camera al primo piano. Davanti a lei c'era una copia dell'inquietante disegno di Mildred impiccata. Rebecka Martinsson aveva fotocopiato anche un sacco di documenti, ma Anna-Maria non ci capiva gran che. Odiava i numeri, la matematica e cose del genere. «Giorno!» Suo figlio Marcus entrò in cucina e aprì il frigorifero. Vestito! Marcus aveva sedici anni. «Non ci posso credere» disse Anna-Maria guardando l'orologio. «C'è un incendio al piano di sopra o cosa?» Marcus sorrise. Si versò una tazza di latte e cereali e si sedette accanto a lei. «Ho un compito in classe» disse ingurgitando cucchiaiate di latte. «Non posso uscire dal letto e andare direttamente a scuola. Devo darmi un po' di carica.» «Chi sei?» chiese Anna-Maria. «Cosa ne hai fatto di mio figlio?» Questa è Hanna, si disse. Che Dio la benedica. Hanna era la ragazza di Marcus. Il suo atteggiamento ambizioso nei confronti della scuola era contagioso. «Forte» disse Marcus prendendo il disegno di Mildred. «Cos'è?» «Niente» rispose Anna-Maria togliendogli il foglio di mano e appoggiandolo rovesciato sul tavolo. «No, sul serio. Fammi vedere!» Riprese il disegno. «Cosa significa?» chiese indicando la tomba che si intravedeva dietro il corpo appeso. «Bah, forse che deve morire ed essere sepolta.» «Sì, ma cosa vuol dire questo? Non lo vedi?»
Anna-Maria osservò il disegno. «No.» «È un simbolo» disse Marcus. «È una tomba con una croce sopra.» «Guarda! I contorni sono molto più spessi che nel resto del disegno. E la croce prosegue nel terreno e finisce con un uncino.» Anna-Maria guardò meglio. Aveva ragione. Si alzò e raccattò le carte. Controllò l'impulso di abbracciare suo figlio e si limitò ad arruffargli i capelli. «In bocca al lupo per il compito in classe!» disse. In macchina chiamò Sven-Erik. «Sì» ammise dopo essere andato a prendere la sua copia del disegno. «È una croce che attraversa un semicerchio e finisce a uncino.» «Dobbiamo scoprire cosa significa. Chi può sapere una cosa del genere?» «Cos'hanno detto al laboratorio?» «Ce lo porto questa mattina. Se ci sono impronte evidenti ci diranno qualcosa nel pomeriggio, altrimenti ci vorrà un po' di più.» «Forse qualche professore di religione saprebbe dirci cos'è quel simbolo» disse Sven-Erik pensieroso. «Sei meglio di un'enciclopedia!» disse Anna-Maria. «Di' a Fred Olsson di trovarne uno e di faxargli il disegno. Ora vestiti che passo a prenderti.» «Ah sì?» «Vieni con me a Poikkijärvi. Voglio parlare con Rebecka Martinsson, se è ancora lì.» Anna-Maria guidava la sua Ford Escort rossa verso Poikkijärvi. SvenErik, seduto accanto a lei, premeva i piedi sul fondo della macchina per un riflesso condizionato. Perché diavolo doveva sempre guidare come un pirata della strada? «Rebecka mi ha dato anche le copie di alcuni documenti» disse. «Non ci capisco niente. Cioè, è chiaro che si tratta di qualche documentazione di natura finanziaria, ma sai che...» «Non dovremmo chiedere alla polizia tributaria, allora?» «Sono sempre molto impegnati. Gli chiedi una consulenza e ti rispondono dopo un mese. Tanto vale chiedere a lei, dopo tutto li ha già visti. E sa perché ce li ha dati.» «È davvero una buona idea?»
«Ne hai una migliore?» «Ma sei sicura che voglia essere coinvolta in questa storia?» Anna-Maria scosse la treccia impaziente. «È stata lei a darmi le copie e le lettere! E non sarà coinvolta in un bel niente. Cosa ci può volere? Dieci minuti delle sue vacanze.» Anna-Maria frenò bruscamente e svoltò a sinistra verso Jukkasjärvi, accelerò fino a novanta, frenò di nuovo e svoltò a destra verso Poikkijärvi. Sven-Erik si teneva alla portiera, gli venne in mente che avrebbe dovuto prendere una pillola contro il mal d'auto, il che gli ricordò il gatto, che odiava andare in macchina. «Manne è sparito» disse guardando i pini ingioiellati dal sole che sfrecciavano fuori dal finestrino. «Santo cielo» disse Anna-Maria. «E da quanto?» «Quattro giorni. Non è mai stato via così a lungo.» «Tornerà» disse. «Fa ancora caldo, è logico che i gatti vogliano stare in giro.» «No» rispose Sven-Erik con voce ferma. «È stato investito. Non lo rivedrò più.» Avrebbe voluto che lo contraddicesse. Avrebbe dovuto protestare e assicurargli che non era così. Lui avrebbe insistito nella sua convinzione che il gatto fosse sparito per sempre. In modo da poter sfogare un po' della preoccupazione che lo rodeva e ricevere un po' di speranza e consolazione. Ma lei si limitò a cambiare argomento. «Non dobbiamo arrivare fino a là in macchina» disse. «Non credo che voglia attirare l'attenzione.» «Cosa ci fa qui, in realtà?» chiese Sven-Erik. «Non lo so.» Anna-Maria fu sul punto di dire che forse Rebecka non riusciva più ad andare avanti, ma lasciò perdere. Altrimenti Sven-Erik l'avrebbe costretta a tornare indietro. Aveva il cuore più tenero di lei per quelle cose. Forse dipendeva dal fatto che lei aveva dei figli di cui occuparsi. Gran parte del suo istinto di protezione si consumava a casa. * Rebecka Martinsson aprì la porta del suo bungalow. Quando vide AnnaMaria e Sven-Erik le si formarono due increspature profonde sulla fronte. Anna-Maria era davanti, con qualcosa di eccitato nello sguardo, un setter
che ha fiutato la pista. Sven-Erik più indietro, non lo aveva più incontrato da quando era stata all'ospedale, due anni prima. I capelli attorno alle orecchie da grigio scuro erano diventati argentati. Sotto il naso, i baffi ancora simili a un roditore morto. Sembrava imbarazzato, come se capisse che non erano i benvenuti. Anche se mi avete salvato la vita, si disse Rebecka. Pensieri veloci le attraversarono la mente. Come fazzoletti di seta tra le mani di un prestigiatore. Sven-Erik accanto al suo letto d'ospedale. «Siamo entrati in casa e abbiamo capito che dovevamo trovarti. Le bambine stanno bene.» Ricordo meglio quello che è successo prima e dopo, si disse Rebecka. Prima e dopo. Dovrei chiedere a Sven-Erik. Cos'ha visto quando è arrivato al capanno? Potrebbe raccontarmi dei corpi e del sangue. Vuoi che ti dica che avevi ragione, disse una voce dentro di lei. Che è stata legittima difesa. Che non avevi scelta. Chiediglielo, ti dirà sicuramente quello che vuoi sentire. Si sedettero. Sven-Erik e Anna-Maria sul letto di Rebecka, lei sull'unica sedia. Sul piccolo termosifone erano stesi una maglietta, un paio di calze e un paio di slip. Rebecka lanciò un'occhiata imbarazzata ai vestiti bagnati. Ma cosa avrebbe potuto fare? Appallottolare le mutande e gettarle sotto il letto? O forse fuori dalla finestra? «Allora?» chiese secca, non ce la faceva a essere gentile. «È per le copie di quei documenti che mi hai dato» spiegò Anna-Maria. «Ci sono parecchie cose che non capisco.» Rebecka si afferrò le ginocchia. Ma perché?, si chiese. Perché bisogna ricordare? Rotolarcisi dentro e scavare? Cosa ci si guadagna? Chi può garantire che serva a qualcosa? Che non si affoghi semplicemente nel buio? «Sapete...» disse. Parlava a voce molto bassa. Sven-Erik guardava le sue dita sottili attorno alle rotule. «... devo chiedervi di andarvene» proseguì. «Vi ho dato le copie e le lettere. Le ho avute commettendo un reato. Se salta fuori perderò il lavoro. Inoltre qui non sanno chi sono. O meglio, sanno come mi chiamo. Ma non che sono implicata nella storia di Jiekajärvi.» «Andiamo» implorò Anna-Maria restando seduta come se avesse il sedere incollato al letto, sebbene Sven-Erik accennasse ad alzarsi. «Mi sto
occupando di una donna assassinata. Se qualcuno ti chiede cosa siamo venuti a fare, di' che stavamo cercando un cane scappato di casa.» Rebecka la guardò. «Bella idea» disse lentamente. «Due poliziotti in borghese in cerca di un cane scappato di casa. Era ora che la polizia rivedesse la distribuzione delle sue risorse.» «Forse si tratta del mio cane» obiettò Anna-Maria testarda. Restarono un attimo in silenzio. Sven-Erik stava per morire dal disagio, seduto sul bordo del letto. «Sentiamo, allora» disse Rebecka allungando una mano verso il fascicolo. «Qui» disse Anna-Maria tirando fuori un foglio. «È un estratto di bilancio» disse Rebecka. «Questa entrata è segnata con l'evidenziatore.» Rebecka indicò una cifra in una colonna intitolata «1930». «1930 è un conto attività, per assegni e cose del genere. C'è un accredito di 179.000 corone dal conto 7610, che è un conto dedicato ad altre spese personali. Ma a margine è stato aggiunto a matita "Formazione??"» Rebecka si infilò dietro l'orecchio un ciuffo di capelli. «E questo?» chiese Anna-Maria. «"Giust.", cosa significa?» «Sta per pezza giustificativa. Può essere una fattura o un altro documento che giustifichi l'esborso. Credo che indichi che aveva dei dubbi su queste spese, è per questo che ho preso i documenti.» «Di che società si tratta?» chiese Anna-Maria. Rebecka alzò le spalle. Poi indicò l'angolo superiore sinistro della pagina. «La partita iva inizia per 81. È una fondazione.» Sven-Erik scosse la testa. «Il fondo per la protezione della natura di Jukkasjärvi» disse AnnaMaria dopo qualche secondo. «Una fondazione che aveva istituito lei.» «Aveva dei dubbi su quelle spese per la formazione» concluse Rebecka. Calò di nuovo il silenzio. Sven-Erik allontanò una mosca che insisteva a volersi posare su di lui. «Sembra aver fatto arrabbiare un sacco di gente» disse Rebecka. Anna-Maria rispose con un sorriso amaro. «Ieri ho parlato con uno dei più arrabbiati» disse. «Odiava Mildred Nilsson perché aveva ospitato la sua ex moglie con i bambini quando lei l'aveva lasciato.»
Raccontò a Rebecka dei gattini decapitati. «E non possiamo fare niente» concluse. «Mi sento impotente. Ho l'impressione che saremmo più utili lavorando al reparto frutta e verdura del supermercato ICA. Ti senti mai così?» Rebecka fece un sorriso obliquo. «Non mi occupo quasi mai di cause penali» disse in tono evasivo. «Solo di reati finanziari. Ma è vero che a volte l'idea di stare dalla parte del sospettato dà... una sorta di ripugnanza. Quando si rappresenta qualcuno veramente privo di coscienza. Ci si ripete "tutti hanno diritto a una difesa", quasi come una formula magica contro quel...» Non pronunciò la parola "disprezzo di sé" ma si limitò a chiudere la frase con un'alzata di spalle. Anna-Maria notò che Rebecka Martinsson alzava spesso le spalle. Forse per scuotere via i pensieri sgradevoli, un modo di interrompere un ragionamento faticoso. O forse era come suo figlio Marcus, con quel continuo alzare le spalle che era un modo per sottolineare la sua distanza dal mondo. «Hai mai pensato di cambiare fronte?» chiese Sven-Erik. «Da queste parti cercano sempre procuratori, la gente non si ferma a lungo.» Rebecka sorrise imbarazzata. «Ma è ovvio» proseguì Sven-Erik con l'aria di sentirsi un idiota. «Un avvocato guadagna tre volte di più di un procuratore.» «Non è questo» rispose Rebecka. «In questo periodo non sto nemmeno lavorando, perciò il futuro è...» Alzò di nuovo le spalle. «Ma mi hai detto che eri qui per lavoro» disse Anna-Maria. «Sì, ogni tanto faccio qualcosa. E visto che uno dei soci doveva venire da queste parti ho chiesto di accompagnarlo.» È in malattia, si rese conto Anna-Maria. Sven-Erik le lanciò un'occhiata rapidissima, aveva capito anche lui. Rebecka si alzò per indicare che il colloquio era finito. La salutarono. Quando si furono allontanati di qualche passo, Sven-Erik e Anna-Maria sentirono la sua voce alle loro spalle. «Minacce aggravate» disse. Si voltarono. Rebecka era sulla porta del bungalow. Teneva una mano su uno dei pilastri in legno che reggevano la veranda. Sembra così giovane, pensò Anna-Maria. Due anni fa era una donna in carriera. Era snella ed elegante come una modella e i lunghi capelli scuri avevano un buon taglio, non come i miei, rifletté. Ora aveva i capelli più
lunghi. E tagliati alla bell'e meglio. Indossava jeans e maglietta. Niente trucco. L'osso del bacino che sporgeva dai jeans e la posizione stanca ma ostinata le ricordarono i bambini troppo cresciuti che a volte incontrava nel suo lavoro. Ragazzini che si prendevano cura dei genitori alcolizzati o psicotici, che preparavano da mangiare per i fratelli più piccoli, tenevano in piedi la facciata meglio che potevano e mentivano alla polizia e agli assistenti sociali. «Quello dei gattini» proseguì Rebecka. «Potete accusarlo di minacce aggravate. Si direbbe che il suo comportamento fosse mirato a suscitare paura nella sua ex moglie. Non c'è bisogno di minacce esplicite, secondo la legge. E lei si è spaventata, no? Forse potrebbe essere sufficiente per un ordine di allontanamento.» Mentre tornavano alla macchina, Sven-Erik Stålnacke e Anna-Maria Mella incrociarono una Mercedes giallo scuro con a bordo Lars-Gunnar e Nalle Vinsa. Lars-Gunnar lanciò loro una lunga occhiata. Sven-Erik alzò una mano per salutarlo, non erano passati molti anni da quando era andato in pensione. «È vero» disse Sven-Erik osservando la Mercedes che scompariva in direzione del ristorante di Micke. «Abita qui in paese, mi domando come va con il suo ragazzo.» * Il parroco Bertil Stensson stava celebrando la messa di mezzogiorno nella chiesa di Kiruna. Una volta alla settimana la popolazione poteva ricevere la comunione durante la pausa pranzo. Nella sala piccola erano radunate una ventina di persone. Il curato Stefan Wikström sedeva in quinta fila vicino al passaggio centrale. Si era pentito di esserci andato. Un ricordo gli attraversò la mente. Suo padre, pastore anche lui, a casa sul divano della cucina. Stefan seduto accanto, avrà avuto una decina d'anni. Il ragazzo parla senza sosta, ha qualcosa in mano, qualcosa che vuole mostrare al padre, non ricorda cosa. Il padre con il giornale davanti al viso come il velo del tempio. E all'improvviso il figlio si mette a piangere. La voce della madre alle sue spalle: puoi ben dargli ascolto un momento, ti ha aspettato tutto il giorno. Con la coda dell'occhio Stefan vede che indossa il grembiule. Dev'essere ora di cena. Allora il padre abbassa il giornale, irri-
tato dall'interruzione della lettura, l'unico momento di pace della giornata, offeso dal rimprovero della moglie. Il padre di Stefan era morto da molti anni. La sua povera mamma anche. Ma era esattamente così che il parroco lo faceva sentire in quel momento. Come un bambino irritante che aveva bisogno di attenzioni. Stefan aveva cercato di non andare alla messa di mezzogiorno. Una voce dentro di lui gli aveva detto con decisione: non andarci! E invece ci era andato. Era riuscito a convincersi che non lo faceva per Bertil Stensson ma perché aveva bisogno di comunicarsi. Aveva creduto che ora che Mildred non c'era più sarebbe stato più facile, invece era diventato tutto più difficile. Molto più difficile. È come con il figliol prodigo, si disse. Lui era il figlio devoto e servizievole che era rimasto a casa. Cosa non aveva fatto per il parroco nel corso degli anni: si era accollato noiosi funerali e tediose messe in ospedale e in casa di riposo, lo aveva aiutato con le scartoffie - Bertil era un disastro con l'amministrazione -, aveva aperto la chiesa per le riunioni giovanili del venerdì sera. Bertil Stensson era vanitoso. Aveva monopolizzato le collaborazioni con l'albergo di ghiaccio di Jukkasjärvi: battesimi e matrimoni nella chiesa di ghiaccio spettavano a lui. Monopolizzava anche tutti gli avvenimenti che avevano la minima possibilità di finire sui giornali locali, come il gruppo di crisi dopo l'incidente stradale in cui avevano perso la vita sette giovani in settimana bianca o le funzioni personalizzate per il parlamento lappone. Tra l'uno e l'altro di questi impegni, gli piaceva avere del tempo libero. Ed era Stefan che lo rendeva possibile, che lo sostituiva e lo rimpiazzava. Mildred Nilsson era stata il figliol prodigo. O meglio: come doveva essere il figliol prodigo prima di andarsene da casa. Prima che l'irrequietezza lo trascinasse verso terre lontane. Disordinato e ribelle, doveva aver dato sui nervi al padre, proprio come Mildred. Tutti credevano che fosse lui, Stefan, a non sopportare Mildred. Ma si sbagliavano, Bertil era solo più abile nel nascondere la sua avversione. Quando era viva, le cose erano diverse. Attorno a tutto ciò che faceva si creava un clima di litigiosità e irritazione. E Bertil era felice e grato di avere accanto Stefan, il figlio servizievole. Stefan ricordava come il parroco avesse l'abitudine di entrare nel suo ufficio. Aveva un modo di fare, una sorta di codice che diceva: sei il mio prescelto. Compariva sulla porta, simile a un gufo con i suoi capelli bianchi, il corpo tozzo e gli occhiali da lettura sollevati sulla fronte o spinti sulla punta del naso. Stefan allora al-
zava gli occhi dalle sue carte. Bertil si guardava indietro quasi impercettibilmente, poi entrava e si chiudeva la porta alle spalle. Si lasciava sprofondare nella poltroncina degli ospiti con un sospiro di sollievo. E sorrideva. Ogni volta Stefan sentiva qualcosa scattargli dentro. Spesso il parroco non aveva niente di particolare da dirgli, a volte gli chiedeva consiglio su qualche piccola faccenda, ma in genere dava l'impressione di voler semplicemente stare un momento in pace. Tutti correvano da Bertil e Bertil si rifugiava da Stefan. Ma dopo la morte di Mildred le cose erano cambiate. Lei non era più là come un fastidioso sassolino nella scarpa del pastore. All'improvviso era la dedizione di Stefan a essere irritante. Ora Bertil gli diceva spesso: «Non c'è bisogno di essere così formali» o «Dio ci autorizza a essere pratici», parole che aveva preso da Mildred. E quando parlava di lei lo faceva in termini così positivi che a Stefan veniva quasi la nausea a sentire tutte quelle menzogne. E aveva smesso di andare a trovarlo nel suo ufficio. Stefan restava lì, incapace di portare a termine qualsiasi lavoro, a tormentarsi e aspettare. A volte il parroco passava davanti alla sua porta aperta. Ma ora usava altri codici, altri segnali: passi rapidi, uno sguardo dalla porta, un cenno del capo, un sorriso frettoloso. Sono-di-corsa-come-va, significava. E prima che Stefan facesse in tempo a rispondere al sorriso, era già sparito. Una volta sapeva sempre dov'era Bertil, ora non ne aveva idea. Quando il personale della segreteria gli chiedeva di lui, era costretto a scuotere il capo con un sorriso forzato, ottenendo in cambio occhiate perplesse. Da morta Mildred era invincibile. Nelle terre lontane era diventata il figlio prediletto. La funzione era quasi finita. I fedeli intonarono il canto di chiusura e andarono in pace. Stefan avrebbe dovuto andarsene allora. Dritto a casa. Ma non aveva potuto farci niente, i suoi piedi avevano preso l'iniziativa ed erano andati incontro a Bertil. Il parroco stava chiacchierando con uno dei fedeli e lanciò a Stefan un'occhiata laterale senza coinvolgerlo nella conversazione, costringendolo ad aspettare. Era tutto così sbagliato. Se solo Bertil lo avesse salutato, Stefan avrebbe potuto ringraziarlo per la messa e andarsene. Ora sembrava che avesse qualcosa di particolare da dirgli. Fu costretto a inventarsi un pretesto. Finalmente il fedele ritardatario se ne andò. Stefan si sentì tenuto a giu-
stificare la sua presenza. «Sentivo il bisogno di comunicarmi» disse. Bertil annuì. Il sacrestano portò fuori il vino e le ostie lanciando una rapida occhiata al parroco. Stefan seguì i due in sacrestia e prese parte senza essere invitato alla preghiera per il pane e il vino. «Ci sono novità?» chiese una volta terminata la preghiera. «Sulla fondazione, intendo.» Bertil si tolse con qualche fatica la pianeta, la stola e il camice. «Non so» disse. «A ogni modo forse non la scioglieremo. Non ho ancora deciso.» Il sacrestano si prese tutto il tempo del mondo per versare il vino nell'ampolla e riporre le ostie nel ciborio. Stefan strinse i denti. «Credevo che fossimo d'accordo sul fatto che la chiesa non può tenere in piedi una fondazione del genere» disse a bassa voce. Senza contare che è una decisione che spetta al consiglio parrocchiale e non solo a te, aggiunse tra sé. «Sì, ma per il momento è ancora in piedi» replicò Bertil. Stefan sentì chiaramente una nota di impazienza sotto il tono gentile della voce. «Se poi sarà il caso di spendere soldi per proteggere la lupa o se si dovrà investire nella formazione, lo vedremo più avanti.» «E la concessione venatoria?» Ora Bertil sorrideva. «Su, non è il caso di continuare a litigare su questa storia. A tempo debito il consiglio parrocchiale prenderà la sua decisione.» Il parroco gli diede un buffetto sulla spalla e se ne andò. «Salutami Kristin!» aggiunse senza voltarsi. A Stefan venne un nodo in gola. Si guardò le mani, le lunghe dita rigide. Mani da pianista, diceva sempre sua madre. Verso la fine, quando era in casa di riposo e lo scambiava sempre più spesso per suo padre, quei discorsi sulle dita gli davano fastidio. Sua madre gli prendeva le mani tra le sue e ordinava al personale di osservarle: guardate le sue mani, senza un segno di lavoro manuale. Dita da pianista, mani da scrivania. Salutami Kristin. A voler vedere le cose nella loro vera luce, sposarla era stato l'errore della sua vita. Stefan si sentì indurire dentro. Nei confronti di Bertil, di sua moglie. Li ho sopportati abbastanza, si disse. Questa storia deve finire. Sua madre doveva aver capito tutto di Kristin. Quello che l'aveva colpito
in lei era proprio la somiglianza con sua madre. L'aria leggermente da bambola, i modi garbati, il buon gusto. Ma sua madre doveva essersene accorta. «Molto personale» aveva detto della casa di Kristin la prima volta che era andata a trovarli, quando Stefan studiava a Uppsala. «Accogliente.» Accogliente e personale, due ottime parole a cui far ricorso quando non si poteva dire "bella" o "di buon gusto". E ricordava il sorriso quasi divertito di sua madre quando Kristin le aveva mostrato le sue composizioni di rose secche e semprevivi. No, Kristin era piuttosto brava nell'imitare e nello scimmiottare, ma non diventò mai il genere di moglie del pastore che era stata sua madre. E che shock era stato per lui vedere la casa di Mildred. Tutti i colleghi erano stati invitati con la famiglia per il tradizionale vin brulé natalizio. Era risultata una serata stranamente assortita, con le famiglie dei pastori, Mildred, suo marito - una figura quasi parodistica con barba e grembiule da cucina - e le tre donne temporaneamente rifugiate nella canonica di Poikkijärvi. Una di loro aveva due bambini sicuramente affetti da ADHD, o una delle tante altre sigle astruse che andavano di moda negli ultimi tempi. Ma la casa di Mildred sembrava un dipinto di Carl Larsson. La stessa leggerezza curata ma mai sovraccarica, la semplicità e il buon gusto che regnavano nella casa d'infanzia di Stefan. Non riusciva a collegarla alla figura di Mildred. Davvero questa è casa sua?, si era chiesto. Si era aspettato un ambiente bohémien, con mucchi di riviste in disordine, tappeti e cuscini orientali. Ricordava le parole di Kristin dopo quella serata. «Perché non ci trasferiamo nella canonica di Poikkijärvi?» gli aveva chiesto. «È più grande, sarebbe più adatta per noi che abbiamo dei figli.» Sicuramente sua madre si era accorta che il lato fragile di Kristin, che tanto piaceva a Stefan, non era solo fragile ma spezzato. Qualcosa di tagliente su cui prima o poi si sarebbe fatto male. Fu colto da un'improvvisa amarezza nei confronti della madre. Perché non mi ha detto niente?, si chiese. Avrebbe dovuto avvertirmi. E Mildred. Mildred che usava la povera Kristin. Ricordava quel giorno all'inizio di maggio in cui gli aveva agitato in faccia le lettere. Cercò di scacciarla dai suoi pensieri. Ma era insistente da morta come da viva. Un caterpillar. Proprio come quella volta. «Bene» dice Mildred piombando nell'ufficio di Stefan.
È il 5 maggio. Meno di due mesi dopo sarebbe morta. Ma ora è più viva che mai, le guance e il naso rossi come mele appena lucidate. Chiude la porta alle sue spalle con un piede. «No, resta seduto!» dice a Bertil che cerca di fuggire. «Voglio parlare a entrambi.» Già quell'introduzione la dice lunga sul suo carattere. Bertil accavalla le gambe e incrocia le braccia sul petto. Stefan si appoggia allo schienale della sedia. Il più possibile lontano da lei. Si sentivano rimproverati e criticati prima ancora che iniziasse a parlare. «La chiesa dà in concessione i suoi terreni al circolo della caccia di Poikkijärvi per mille corone all'anno» prosegue. «La concessione dura sette anni e si rinnova automaticamente se non viene revocata esplicitamente. È così dal 1957. All'epoca il parroco abitava qui a Poikkijärvi. E gli piaceva andare a caccia.» «Ma cosa c'entra con...» inizia Bertil. «Fammi finire! È vero che chiunque può diventare socio del circolo, ma sono solo il direttivo e la squadra di caccia a godere dei vantaggi della concessione. E dato che il regolamento fissa a venti il numero di membri della squadra, non ci sono nuovi ingressi a meno che non muoia qualche vecchio socio. E guarda caso, tutti i componenti del direttivo fanno parte della squadra. Insomma, negli ultimi tredici anni la squadra è stata composta sempre delle stesse persone.» Si interrompe e guarda fisso Stefan. «Eccetto te, naturalmente. Quando sei anni fa Elis Wiss si è dimesso spontaneamente sei entrato tu, vero?» Stefan non risponde. È il modo con cui ha pronunciato la parola "spontaneamente" che lo rende furibondo. Mildred prosegue. «Secondo il regolamento, solo la squadra di caccia può usare fucili a palla, e quindi ha l'esclusiva sulla caccia all'alce. Per quanto riguarda le altre prede, tutti i soci del circolo possono ottenere permessi giornalieri, ma le prede abbattute devono essere divise tra i membri attivi del circolo e, sorpresa!, è il direttivo a stabilire le quote. La mia idea è questa. Sia la LKAB che Yngve sono interessati alla concessione, la LKAB per i suoi dipendenti e Yngve per i turisti. Trasferendo a uno di loro la concessione, potremmo aumentare significativamente il canone. E intendo davvero significativamente. E potremmo investire quei soldi in una manutenzione seria del bosco. Perché, diciamocelo onestamente, cosa fa Torbjörn Ylitalo? Lavora per la squadra di caccia! Praticamente gli stiamo offrendo anche un dipen-
dente gratis.» Torbjörn Ylitalo è il guardaboschi della chiesa. È uno dei venti membri della squadra di caccia nonché presidente del direttivo. Stefan sa bene che gran parte del suo tempo lavorativo è utilizzato per organizzare le partite di caccia insieme a Lars-Gunnar e per tenere in ordine i capanni e le torrette di avvistamento. «Insomma» conclude Mildred, «ci sarebbero soldi per la manutenzione del bosco e soprattutto per la fondazione. La chiesa potrebbe cederle la titolarità della concessione. Ora la protezione animali ha marcato la lupa, ma servono fondi per tenerla sotto osservazione.» «Non capisco perché tiri in ballo questo argomento con me e Stefan» la interrompe Bertil in tono molto calmo. «La concessione è sotto la responsabilità del consiglio parrocchiale, no?» «Sai, credo che sia un argomento da sottoporre all'intera comunità» obietta Mildred. Nella stanza cade il silenzio. Bertil annuisce, Stefan sente una fitta alla spalla sinistra, un dolore che risale lungo il collo. Capiscono esattamente cosa intende. Sanno bene come apparirebbe una discussione del genere se venisse portata di fronte alla comunità o alla stampa. Il club di privilegiati che cacciano gratis sulle terre della chiesa e requisiscono perfino le prede che non hanno abbattuto loro. Stefan fa parte della squadra di caccia, non se la caverebbe. Ma anche il parroco ha i suoi motivi per sostenere la squadra. Grazie a loro, ha il freezer sempre ben rifornito e può offrire ai suoi ospiti generose porzioni di filetto d'alce e di selvaggina di penna. E la squadra ha fatto anche altre cose per ricompensare il consenso silenzioso del parroco. Il suo capanno nella foresta, per esempio. L'ha costruito e lo tiene in ordine. Stefan pensa al suo posto nella squadra di caccia. Gli ha sempre fatto l'effetto di un sasso liscio e tiepido nella sua tasca. La sua pietra portafortuna. Ricorda ancora quando glielo hanno offerto. Il braccio di Bertil sulle sue spalle mentre lo presentava al guardaboschi Torbjörn Ylitalo. «Stefan va a caccia» aveva detto il pastore. «E gli piacerebbe molto entrare nella squadra.» E Torbjörn, signore feudale dei boschi della chiesa, aveva annuito senza tradire il minimo segno di disappunto. Due mesi dopo, Elis Wiss aveva rinunciato al suo posto. Dopo quarantatré anni. E Stefan era entrato a far parte dei venti. «È ingiusto» dice Mildred. Il parroco si alza.
«Discuterò di questa faccenda quando sarai più calma» dice a Mildred. E se ne va. Lasciando Stefan solo con lei. «Come farò?» dice Mildred. «Appena ci penso mi viene l'agitazione.» E sorride. Stefan la guarda stupefatto. Cos'ha da ridere? Non capisce che ha appena lanciato una vera e propria dichiarazione di guerra? È come se dentro quella donna intelligente, perché anche Stefan deve riconoscere che è intelligente, si nascondesse un ritardato mentale. Cosa può fare adesso? Non può andarsene anche lui, sono nel suo ufficio. Rimane seduto senza sapere cosa fare. Poi Mildred lo guarda con aria seria, apre la borsa e tira fuori tre buste scritte a mano. Stefan riconosce la calligrafia di sua moglie. Si alza e prende le buste. Gli si annoda lo stomaco. Kristin. Kristin! Sa di che lettere si tratta anche senza leggerle. Ricade pesantemente sulla sedia. «Due sono decisamente sgradevoli» dice Mildred. Sì, lo può immaginare. Non è la prima volta. È sempre la stessa storia, con piccole variazioni. Ci è già passato due volte. Arrivano in una città nuova. All'inizio Kristin dirige il coro di voci bianche e insegna alla scuola domenicale, un adorabile usignolo che canta le lodi della sua nuova città. Ma una volta superato l'innamoramento iniziale - sì, di questo si tratta -, si fa strada l'insoddisfazione. Ingiustizie vere e inventate che raccoglie come francobolli. Un periodo di emicranie, visite mediche e accuse a Stefan che non prende sul serio il suo disagio. Poi iniziano i problemi tra lei e qualche dipendente della parrocchia o qualche membro della comunità. E a quel punto lancia la sua crociata. L'ultima volta aveva messo in piedi un vero e proprio circo, coinvolgendo il sindacato, mentre un'impiegata dell'ufficio parrocchiale pretendeva che il suo esaurimento nervoso fosse riconosciuto come incidente sul lavoro. E Kristin che si sentiva accusata ingiustamente. Alla fine il trasferimento diventava inevitabile. La prima volta avevano un bambino, la seconda tre. Ora il ragazzo più grande è alle superiori, un periodo molto delicato. «Ne ho altre nello stesso stile» dice Mildred. Quando se ne va, Stefan resta seduto con le lettere in mano. Mi ha preso al laccio come un fagiano, si dice, e non sa nemmeno lui se intende Mildred o sua moglie. *
Måns Wenngren era seduto nel suo ufficio. Non aveva mai fatto caso che la sua poltrona cigolasse in modo così irritante. Stava pensando a Rebecka Martinsson. Poi cercò di smettere di pensarci. In realtà aveva un sacco di cose da fare. Telefonate e mail a cui rispondere. Clienti da intrattenere. I suoi collaboratori avevano iniziato a lasciargli documenti e post-it sulla sedia perché li vedesse. Ma mancava solo un'ora al momento di andare a pranzo, perciò poteva rimandare tutto ancora per un po'. Era solito definirsi un tipo irrequieto. Gli sembrava quasi di sentire la sua ex moglie, Madelene: «Già, suona molto meglio di inaffidabile, infedele e in fuga da se stesso.» Ma era vero che era irrequieto, e fin dalla culla. Sua madre raccontava che per tutto il primo anno di vita aveva pianto ogni notte. «Si è calmato solo quando ha imparato a camminare. Per un po'.» Suo fratello, di tre anni maggiore di lui, aveva raccontato mille volte di quando vendevano alberi di Natale. Uno dei fittavoli della loro famiglia gli aveva offerto un lavoretto extra. Erano solo bambini. Due mocciosi di sette e dieci anni. Måns aveva appena iniziato ad andare a scuola, ma contare sapeva, eccome, raccontava il fratello. Soprattutto i soldi. «Måns guadagnava molto più di tutti gli altri. Non riuscivamo a capire come facesse, prendeva quattro corone di commissione per ogni albero venduto, esattamente come noi. Ma mentre noi restavamo lì impalati a morire di freddo e ad aspettare le cinque, lui attaccava bottone con tutti i passanti che si fermavano a guardare. E se qualcuno diceva che l'albero era troppo alto, si offriva di accorciarglielo sul momento, chi poteva resistere a un ragazzino con una sega alta quanto lui. E qui arrivava il bello: staccava i rami dei mozziconi che aveva tagliato e li legava assieme a formare grosse ghirlande che vendeva a cinque corone il pezzo. E quei soldi finivano dritti nelle sue tasche. Il fittavolo, come diavolo si chiamava, forse Mårtensson, era incavolato nero. Ma cosa poteva farci?» A questo punto il fratello interrompeva il racconto e inarcava le sopracciglia in un gesto che la diceva lunga sull'impotenza di Mårtensson nei confronti della sfacciataggine del figlio del padrone. «Un uomo d'affari» concludeva. «È sempre stato un uomo d'affari.» Fino a pochi anni prima Måns aveva rifiutato quell'etichetta. «La giurisprudenza non c'entra niente con gli affari» diceva. «Sì, invece» rispondeva il fratello. «Eccome se c'entra.»
Quanto a lui, aveva passato la prima parte della sua vita adulta all'estero facendo Dio sa cosa, per poi tornare in Svezia e prendere un diploma di assistente sociale. Ora dirigeva i servizi sociali di Kalmar. A poco a poco Måns aveva smesso di giustificarsi di fronte al fratello. Perché bisognava sempre scusarsi per il proprio successo? «Certo» rispondeva ora. «Affari e soldi in banca.» E poi raccontava della sua macchina nuova o del suo ultimo telefonino. L'odio del fratello diventava palese negli occhi della cognata. Måns non capiva. Suo fratello aveva tenuto insieme il suo matrimonio. I figli lo andavano a trovare. Ora lo faccio, si disse alzandosi con un cigolio. Maria Taube cinguettò un arrivederci e mise giù il telefono. Maledetti clienti, telefonano e ti sommergono di domande imprecise e generiche a cui non si può rispondere. Ci voleva mezz'ora solo per capire cosa volevano. Bussarono alla sua porta, e prima ancora che facesse in tempo a rispondere, Måns infilò dentro la testa. Non ti hanno insegnato niente a Lundberg?, si disse. Per esempio ad aspettare che ti dicano "avanti"? Come se le avesse letto nei pensieri che si nascondevano dietro al sorriso, Mans chiese: «Hai tempo?» Quando era stata l'ultima volta che gli avevano risposto di no?, si domandò Maria facendogli cenno di sedersi e bloccando le chiamate in arrivo. Måns si chiuse la porta alle spalle. Brutto segno. Maria andò in cerca di qualche dimenticanza o trascuratezza, di qualche cliente insoddisfatto. Non le venne in mente niente. Era la cosa peggiore di quel lavoro. Poteva reggere lo stress, la gerarchia e gli straordinari, ma quell'abisso nero che ti si spalanca davanti all'improvviso era troppo. Come era successo a Rebecka. Era così facile bruciare qualche milione di corone. Måns si sedette e si guardò attorno, tamburellando con le dita su una coscia. «Bella vista» esordì con un sorriso ironico. Fuori dalla finestra incombeva la facciata grigiastra del palazzo vicino. Maria rise per educazione ma non disse niente. Sputa il rospo, pensò. «Come va con...»
Måns concluse la domanda con un vago gesto del braccio in direzione dei mucchi di carta sulla sua scrivania. «Bene» rispose, riuscendo a fermarsi un attimo prima di raccontargli di cosa si stava occupando. In realtà, non lo vuole sapere, si disse. «E... hai notizie di Rebecka?» chiese poi. Le spalle di Maria Taube si abbassarono di un centimetro. «Sì.» «Torsten mi ha detto che voleva restare lassù per un po'.» «Sì.» «Cosa fa?» Maria esitò. «Non lo so con esattezza.» «Andiamo, Taube, non fare la difficile. So che le hai suggerito tu di andare. E sinceramente ti posso dire che non trovo che sia stata un'idea brillante. E ora voglio sapere come sta.» Fece una pausa. «Dopo tutto lavora qui» aggiunse. «Chiedilo a lei» disse Maria. «Non è così facile. L'ultima volta che ci ho provato ha fatto una scenata, se ti ricordi.» Maria ripensò a Rebecka che se n'era andata in barca a remi in piena notte. Era fuori di testa. «Non posso parlare di Rebecka con te. Lo capisci anche tu, si incazzerebbe a morte.» «E io, allora?» chiese Måns. Maria Taube gli rivolse un sorriso benevolo. «Tu sei sempre incazzato nero» rispose. Måns sogghignò, divertito da quella piccola mancanza di rispetto. «Ricordo quando hai iniziato a lavorare per me» disse. «Eri una ragazza timida e dolce. Facevi quello che ti veniva detto di fare.» «Lo so» rispose. «È così che questo studio riduce la gente.» * Rebecka Martinsson e Nalle si presentarono alla porta di Sivving Fjällborg come due giornalieri. L'uomo li accolse quasi li stesse aspettando e li invitò a scendere nel seminterrato. Bella dormiva in una cassetta di le-
gno con uno strato di pezzotti, con i cuccioli ammonticchiati accanto alla pancia. Quando arrivarono gli ospiti, si limitò ad aprire un occhio e ad agitare la coda in segno di saluto. Verso l'una Rebecka era andata a casa di Nalle e aveva suonato alla porta. Lars-Gunnar aveva aperto, rimanendo fermo sulla soglia, mentre Rebecka era rimasta sulla veranda. Si era sentita come una bambina di cinque anni che chiede ai genitori se l'amichetto può uscire a giocare. Sivving mise su il caffè e tirò fuori tre spesse tazze di porcellana a fiori gialli, arancio e marroni. Riempì un cestino di focaccine e tolse dal frigo un pacco di margarina e uno di salame. Faceva fresco nel seminterrato. L'odore di cane e caffè appena fatto si mescolava con un vago sentore di terra e cemento. Il sole autunnale entrava dallo stretto lucernaio. Sivving guardò Rebecka. Doveva aver preso dei vestiti dagli armadi della nonna. Riconosceva quella vecchia giacca a vento nera con fiocchi di neve bianchi. Si domandò se sapeva che era di sua madre. Probabilmente no. E nessuno doveva averle detto quanto le assomigliava. Gli stessi capelli scuri e le stesse sopracciglia marcate. La forma quasi rettangolare dell'occhio e l'iride di un indefinito color sabbia cerchiato di scuro. I cuccioli si svegliarono. Grandi zampe e grandi orecchie, le code come piccole eliche contro i bordi della cassetta. Nalle si sedette sul pavimento e divise con loro le sue focaccine mentre Sivving sparecchiava. «Non c'è odore più buono al mondo» disse Rebecka inalando profondamente con il naso appoggiato all'orecchio di un cucciolo. «Quello non è prenotato» disse Sivving. «Vuoi fare un'offerta?» Il cagnolino morse la mano di Rebecka con i suoi dentini aguzzi come punteruoli. Aveva la pelliccia color cioccolato, tanto corta e morbida da sembrare pelle nuda. Le zampe posteriori erano bianche fino a metà. Lo rimise nella cassetta e si alzò. «Non posso. Aspetto fuori.» Era stata sul punto di dire che lavorava troppo per avere un cane. Rebecka e Sivving cavavano patate. Sivving strappava le piante dal terreno con la mano sana, Rebecka lo seguiva con la zappa. «Non si fa altro che zappare e vangare» disse Sivving. «Avevo intenzione di chiederlo a Lena, questo fine settimana viene su con i ragazzi.» Lena era sua figlia. «Lo faccio volentieri» disse Rebecka.
Dava un colpo di zappa, non era difficile nel terreno sabbioso, poi raccoglieva le patate staccate dalla pianta. Nalle correva sul prato con un'ala di gallo cedrone appesa a uno spago e giocava con i cuccioli. Di tanto in tanto Rebecka e Sivving raddrizzavano la schiena e guardavano nella loro direzione. Non potevano fare a meno di sorridere. Nalle che correva sollevando la mano che teneva lo spago, il branco di cuccioli che lo rincorreva con incredibile energia. Bella era sdraiata nell'erba a scaldarsi al sole. Ogni tanto sollevava la testa per catturare un calabrone che le dava fastidio o dare un'occhiata ai suoi piccoli. Non sono normale, si disse Rebecka. Non riesco a frequentare gente della mia età, ma con un vecchio e un ritardato mi sento perfettamente a mio agio. «Mi ricordo quando ero piccola» disse. «Dopo aver raccolto le patate, voi grandi accendevate sempre un fuoco. E noi bambini potevamo arrostire quelle rimaste.» «Bruciate fuori, appena cotte in superficie e crude al centro. Me lo ricordo. E poi tornavate a casa sporchi di terra e fuliggine dalla testa ai piedi.» Rebecka sorrise al ricordo. Si aveva rispetto per il fuoco, non era una cosa da bambini. Ma per la raccolta delle patate si faceva un'eccezione. Allora, in quelle sere, il fuoco era tutto per loro. Lei, i suoi cugini e i figli di Sivving, Lena e Mats, ci si sedevano attorno e osservavano le fiamme nel buio della sera, le smuovevano con i bastoni. Si sentivano proprio come degli indiani, quelli dei libri per ragazzi. Tornavano a casa solo verso le dieci o le undici, praticamente in piena notte. Felici e sporchissimi. I grandi avevano già fatto la sauna da ore e chiacchieravano tranquilli. La nonna, la moglie di zio Affe e quella di Sivving bevevano tè, Sivving e zio Affe una Tuborg ciascuno. Lei e gli altri bambini avevano il buon senso di restare nell'ingresso, evitando di portare metà del campo di patate in cucina. «Ah, sono arrivati gli ottentotti» esclamava Sivving ridendo. «Non vedo nemmeno quanti sono, perché l'ingresso è buio come il fondo di una miniera e loro hanno la pelle altrettanto nera. Mettetevi a ridere, così possiamo contare i denti!» I bambini ridevano. Prendevano gli asciugamani che gli porgeva la nonna e correvano alla sauna in riva al fiume per lavarsi nel tepore residuo. *
Quando arrivò Anna-Maria Mella, il presidente del circolo della caccia di Poikkijärvi, Torbjörn Ylitalo, stava tagliando legna in cortile. Le dava la schiena e indossava il paraorecchie, perciò non la sentì arrivare, e lei ne approfittò per guardarsi un po' attorno indisturbata. Gerani ben curati alle finestre dietro le tendine a quadretti. Quindi probabilmente era sposato. Le aiuole erano pulite, sul prato non c'era una foglia. Lo steccato accuratamente dipinto di rosso con le punte bianche. Anna-Maria pensò al suo steccato coperto di licheni e alla vernice che si staccava dal cancello. L'estate prossima lo dipingeremo, si ripromise. Ma non era forse la stessa cosa che aveva pensato anche l'autunno precedente? La sega circolare di Torbjörn Ylitalo mordeva il legno con un ululato penetrante. Quando gettò a terra l'ultimo pezzo e si chinò per raccogliere un altro tronco, Anna-Maria ne approfittò per richiamare la sua attenzione. L'uomo si voltò, abbassò il paraorecchie sul collo e spense la sega. Era sulla sessantina. Un po' rozzo, ma a suo modo curato. I pochi capelli che gli restavano erano grigi e tagliati corti, come la barba. Dopo essersi tolto gli occhiali protettivi aprì la giacca da lavoro blu e tirò fuori un paio di occhialini alla Sven-Göran Eriksson, che sistemò sul grosso naso a patata. Il viso abbronzato e segnato dalle intemperie sopra il collo bianco. I lobi delle orecchie erano enormi, e Anna-Maria notò che il rasoio elettrico era stato passato anche lì. Non come Sven-Erik, si disse. Dalle sue orecchie uscivano delle vere e proprie criniere. Si sedettero in cucina. Anna-Maria aveva accettato una tazza di caffè quando Torbjörn Ylitalo le aveva detto che ne avrebbe presa una anche lui. Accese il bollitore e frugò nel frigorifero, ma sembrò sollevato quando Anna-Maria disse che le bastava il caffè. «È in ferie per preparare la caccia all'alce?» chiese Anna-Maria. «No, ma posso fare gli orari che voglio.» «È lei il guardaboschi della chiesa, vero?» «Già.» «E il presidente del circolo della caccia, nonché membro della squadra.» Annuì. Chiacchierarono un momento di caccia e raccolta di bacche. Anna-Maria estrasse di tasca un blocco e una penna e li posò sul tavolo
davanti a sé. «Come le ho detto poco fa, si tratta di Mildred Nilsson. Ho sentito dire che non andavate d'accordo.» Torbjörn Ylitalo la guardò. Non sorrideva, fino a quel momento non l'aveva fatto nemmeno una volta. Bevve senza fretta un sorso di caffè, posò la tazza e chiese: «Chi glielo ha detto?» «Era così?» «Cosa posso dirle, non mi piace parlare male dei morti, ma ha seminato molta zizzania qui in paese.» «In che modo?» «Glielo dico chiaro e tondo: odiava gli uomini. Credo davvero che volesse che tutte le donne del paese si separassero dai mariti.» «Lei è sposato?» «Sì.» «Sua moglie ha cercato di lasciarla?» «No, lei no. Ma altre sì.» «Allora su cosa non andavate d'accordo, lei e Mildred?» «Bah, per esempio si era messa in testa l'idea delle quote rosa nella squadra di caccia. Un altro goccio?» Anna-Maria scosse la testa. «Sa, una donna ogni due membri. Secondo lei doveva essere una condizione essenziale perché ci venisse rinnovata la concessione venatoria.» «E lei pensava che non fosse una buona idea.» Ora l'uomo mise un po' di enfasi nel suo tono altrimenti misurato. «Ma nessuno a parte lei pensava che fosse una buona idea. Non sono un misogino, ma nelle imprese o in parlamento bisogna conquistarsi il posto, e nella nostra squadra devono valere le stesse regole. Sarebbe un'ingiustizia ottenere un posto solo perché si è donna. E in quel caso come ci si conquisterebbe il rispetto dei compagni? E poi cosa c'è di male nel lasciare che gli uomini si dedichino alla caccia? A volte penso che sia il nostro ultimo avamposto. Lasciatecelo godere in pace. Io mica ho insistito per entrare a far parte del gruppo femminile di studi biblici.» «Perciò avevate litigato per questo?» «Litigato... Sapeva come la pensavo.» «Magnus Lindmark ha detto che le avrebbe piantato volentieri una palla in testa.» Anna-Maria rifletté un attimo se avesse fatto bene a dirlo. Anche se quello stronzo che aveva decapitato i gattini se lo meritava.
Torbjörn Ylitalo non sembrò irritarsi. Anzi, accennò perfino un sorriso, per la prima volta. Un sorriso stanco, quasi impercettibile. «Credo che questo rispecchi più che altro i sentimenti di Magnus stesso» rispose. «Ma non è stato lui a ucciderla. E nemmeno io.» Anna-Maria non rispose. «Se fossi stato io le avrei sparato e poi l'avrei seppellita in qualche palude» aggiunse. «Sapeva che aveva intenzione di revocare la vostra concessione venatoria?» «Sì, ma non aveva il sostegno del consiglio parrocchiale, perciò non significava niente.» Torbjörn Ylitalo si alzò. «Se non c'è altro devo continuare con la legna.» Si alzò anche Anna-Maria. Lo vide posare le tazze nel lavello, e poi prendere il bricco del caffè e metterlo ancora caldo nel frigo. Anna-Maria non fece commenti. Si salutarono tranquillamente in cortile. Anna-Maria se ne andò. Aveva intenzione di tornare da Erik Nilsson per chiedergli se sapeva chi avesse mandato quel disegno a sua moglie. Parcheggiò fuori dal cancello della canonica. La cassetta della posta traboccava di riviste, il coperchio era alzato. Ben presto avrebbe iniziato a pioverci dentro. Conti, pubblicità e riviste sarebbero diventati un unico grumo di cartapesta. Aveva già visto cassette della posta in quelle condizioni. I vicini chiamano, la polizia va a controllare e trova la morte. In un modo o nell'altro. Fece un respiro profondo. Prima avrebbe provato alla porta. Se il marito di Mildred Nilsson era dentro, poteva anche essere aperta. Se fosse stata chiusa avrebbe guardato dalle finestre del piano terra. Salì la scala esterna, decorata con fregi bianchi. Sulla veranda erano disposte alcune sedie di vimini bianche e grandi vasi in cui la terra era diventata dura come cemento, con i poveri resti rinsecchiti di qualche fiore. Nello stesso istante in cui posò la mano sulla maniglia, la porta si aprì dall'interno. Anna-Maria non gridò. Probabilmente non batté ciglio. Ma dentro di sé aveva fatto un salto. Una donna uscì andando quasi a sbattere contro di lei e gridò per lo spavento. Era attorno alla quarantina, aveva gli occhi scuri con le ciglia lunghe e folte. Non era molto più alta di Anna-Maria, quindi piuttosto bassa, ma più
snella e longilinea. La mano che portò istintivamente al petto aveva le dita sottili, il palmo magro. «Oh!» esclamò con un sorriso. Anna-Maria Mella si presentò. «Cerco Erik Nilsson.» «Ah» disse la donna. «Non... non è qui.» La sua voce si spense. «Si è trasferito» aggiunse. «La canonica appartiene alla chiesa. Non è stato proprio costretto ad andarsene, ma... Mi scusi, mi chiamo Kristin Wikström.» Tese la mano sottile verso Anna-Maria. Poi assunse un'aria imbarazzata e si sentì in dovere di spiegare la sua presenza. «Sarà mio marito Stefan a trasferirsi qui, ora che Mildred... Cioè, non solo lui. Anche io e i bambini, ovviamente.» Rise. «Erik Nilsson non ha portato via i suoi mobili e non sappiamo dove sia e... be', sono venuta a vedere cosa c'è da fare.» «Quindi non sapete dove sia Erik Nilsson?» Kristin Wikström scosse la testa. «E suo marito?» chiese Anna-Maria. «Non lo sa nemmeno lui.» «No, chiedevo dov'è.» A Kristin Wikström si formarono delle piccole increspature sul labbro superiore. «Cosa vuole da lui?» «Fargli qualche domanda.» Kristin Wikström scosse lentamente la testa con espressione preoccupata. «Vorrei davvero che potesse stare un po' tranquillo» disse. «Ha avuto un'estate molto pesante. Niente vacanze. La polizia sempre addosso. I giornalisti chiamavano anche di notte, sa come sono, e non potevamo staccare il telefono perché mia madre è anziana e malata, non si sa mai. E la paura che ci sia in giro un pazzo che... Non abbiamo il coraggio di lasciar uscire i bambini da soli. Sono sempre preoccupata per Stefan.» Ma non aveva parlato del dolore per la scomparsa di una collega, notò Anna-Maria freddamente. «È a casa?» chiese inflessibile. Kristin Wikström sospirò. Guardò Anna-Maria come se fosse un bambi-
no che l'aveva delusa. Molto delusa. «In effetti non lo so» disse. «Non sono il tipo di donna che deve avere sempre il controllo totale sul marito.» «Allora proverò alla canonica di Jukkasjärvi e se non c'è andrò in città» disse Anna-Maria Mella resistendo alla tentazione di alzare gli occhi al cielo. Kristin Wikström resta sulla veranda della canonica di Poikkijärvi a osservare la Ford Escort rossa che si allontana. Non le è piaciuta quella donna poliziotto. Non le piace nessuno. Ma sì, invece. Ama Stefan. E i bambini. Ama la sua famiglia. In testa ha un proiettore acceso. Non crede che succeda a tutti. A volte le mostra delle assurdità. Ma ora chiuderà gli occhi e guarderà un film che le piace molto. Il sole sul viso. Sembra ancora estate, quasi non si crede che possa fare così caldo a Kiruna. Anche quello va bene. Perché il film risale alla primavera scorsa. Il sole entra dalla finestra e le scalda il viso. I colori sono vivi. L'immagine così sfumata che sembra quasi avere un'aureola attorno al capo. È seduta in cucina, Stefan le siede accanto. Si è chinato in avanti e le ha posato la testa in grembo. Lei gli passa le mani sui capelli. Gli dice: «Schhh.» Sta piangendo. «Mildred» dice. «Non ce la faccio più.» Vorrebbe solo un po' di pace. Al lavoro. A casa. Ma con Mildred che riversa i suoi veleni nella congregazione... Gli accarezza i capelli soffici. È un momento che ha del sacro. Stefan è così forte, non cerca mai conforto in lei. Ora è felice di poterglielo offrire. Qualcosa le fa alzare gli occhi. Sulla porta c'è il loro figlio maggiore, Benjamin. Dio com'è conciato, con i capelli lunghi e i pantaloni neri aderenti e strappati. Fissa i suoi genitori senza dire una parola. Ha gli occhi sconvolti. La madre aggrotta la fronte per fargli capire che deve andarsene. Sa che Stefan non vuole che i bambini lo vedano così. Il film finisce. Kristin si aggrappa alla ringhiera. Questa diventerà la loro casa. Se il marito di Mildred crede che basti lasciare lì i suoi mobili per non farsi cacciare via, si sbaglia di grosso. Mentre si dirige verso la macchina, fa girare un'altra volta il film. Questa volta cancella Benjamin. * Anna-Maria Mella parcheggiò nel cortile della canonica di Jukkasjärvi. Suonò ma nessuno andò ad aprire.
Quando si voltò per andarsene, vide un ragazzo che si dirigeva verso la casa. Era dell'età di Marcus, attorno ai quindici anni. Sotto gli occhi aveva uno spesso strato di kajal. Indossava una giacca di pelle nera e pantaloni aderenti neri con enormi buchi alle ginocchia. «Ciao!» gridò Anna-Maria. «Abiti qui? Cerco Stefan Wikström, sai se...» Non fece in tempo ad andare avanti. Il ragazzo la fissò. Poi si voltò di scatto e si mise a correre in direzione della strada. Per un attimo AnnaMaria ebbe l'impulso di rincorrerlo ma si trattenne. Perché avrebbe dovuto? Si sedette in macchina e si diresse in città. Mentre attraversava il paese, cercò con lo sguardo il ragazzo vestito di nero, ma non lo vide da nessuna parte. Sarà stato uno dei figli del pastore? O forse era qualcuno che aveva intenzione di entrare in casa ed era rimasto sorpreso dalla sua presenza. Ma c'era anche qualcos'altro che le frullava in testa. La moglie di Stefan Wikström. Kristin. Quel nome le diceva qualcosa. Poi le venne in mente. Accostò e fermò la macchina. Si allungò verso la pila di lettere indirizzate a Mildred che Fred Olsson aveva selezionato. Due erano firmate «Kristin». Anna-Maria le scorse rapidamente. Una risaliva a marzo ed era scritta a mano con una calligrafia ordinata: «Lasciaci in pace. Vogliamo un po' di tranquillità. Mio marito ha bisogno di stare tranquillo. Vuoi che mi metta in ginocchio? Ecco, sono in ginocchio e ti imploro: lasciaci in pace». L'altra risaliva a poco più di un mese dopo. Si vedeva che era stata scritta dalla stessa persona, ma la calligrafia era più intricata, gli anelli delle G erano allungati e alcune parole erano cancellate con un tratto pesante: «Forse pensi che non si SAPPIA. Ma tutti si sono accorti che ti sei trasferita a Kiruna solo un anno dopo che mio marito ha iniziato a lavorare in città. Te lo ASSICURO, lo SANNO TUTTI. Collabori con gruppi il cui unico SCOPO è contrastarlo. Avveleni la fonte con il tuo ODIO. L'ODIO che tu stessa finirai per bere!» Cosa faccio ora?, si disse Anna-Maria. Torno indietro e la metto con le spalle al muro? Chiamò Sven-Erik Stålnacke dal cellulare. «Parliamo prima con suo marito» suggerì. «Stavo andando anch'io all'ufficio parrocchiale per farmi dare i bilanci della fondazione per la protezio-
ne della lupa.» * Stefan Wikström sospirò pesantemente dietro la sua scrivania. Sven-Erik Stålnacke si era seduto nella poltroncina degli ospiti mentre Anna-Maria Mella era rimasta in piedi, appoggiata alla porta con le braccia conserte. A volte è così... poco pedagogica, si disse Sven-Erik guardando la collega. In realtà avrebbe dovuto occuparsi lui di quel tipo, sarebbe stato meglio. Ad Anna-Maria non piaceva e non si curava di nasconderlo. È vero, anche Sven-Erik aveva letto della lite tra Mildred e quel prete, ma erano lì per lavoro. «Sì, sono a conoscenza delle lettere» ammise Stefan. Aveva il gomito sinistro sulla scrivania e si reggeva la fronte con le dita. «Mia moglie... lei... a volte non sta bene. Non intendo dire che soffra di veri e propri disturbi psichiatrici, ma di tanto in tanto è un po' instabile. E allora non è più lei, a dire la verità.» I due poliziotti tacevano. «A volte si crea timori immaginari. Ma non potrebbe mai... non crederete che...?» Si tolse la mano dalla fronte e batté il palmo sulla scrivania. «È assurdo. Signore Iddio, Mildred aveva centinaia di nemici.» «Tra cui lei?» chiese Anna-Maria. «No davvero! Sono sospettato anch'io? Mildred e io eravamo spesso in disaccordo su questioni pratiche, è vero, ma né io né la povera Kristin abbiamo niente a che fare con l'omicidio...» «Non abbiamo mai sostenuto il contrario» si inserì Sven-Erik corrugando la fronte in un modo che fece tacere Anna-Maria. «Cosa ha detto Mildred di queste lettere?» proseguì Sven-Erik. «Mi ha informato di averle ricevute.» «Perché le ha tenute, secondo lei?» «Non lo so, io conservo perfino le cartoline di Natale.» «C'erano altre persone al corrente?» «No, e vi sarei grato se continuasse a essere così.» «Perciò Mildred non lo ha detto a nessun altro.» «No, a quanto ne so.» «Le era grato per questo?»
Stefan Wikström sbatté gli occhi. «Cosa?» Stava quasi per mettersi a ridere. Grato. Avrebbe dovuto essere grato a Mildred? Era un'idea così assurda! Ma cosa poteva dire? Non poteva certo raccontare la verità. Mildred lo teneva ancora in gabbia. E sua moglie era la serratura. E ci si aspettava la sua gratitudine. A metà maggio si era umiliato andando a chiederle le lettere. L'aveva accompagnata per un tratto di strada lungo Skolgatan. Doveva andare a trovare qualcuno all'ospedale. Era il periodo peggiore dell'anno. Non a Lund, ovviamente. Ma a Kiruna sì. Le strade erano piene di ghiaia e di ogni genere di detriti lasciati dallo scioglimento della neve. Niente verde. Solo sporcizia, detriti e ghiaia. Stefan aveva parlato con sua moglie al telefono. Era da sua madre a Katrineholm con i bambini più piccoli. Dalla voce sembrava allegra. Stefan guarda Mildred. Anche lei sembra allegra. Volge il viso verso il sole e si riempie i polmoni con gusto. Dev'essere una benedizione non avere il senso del bello. Così ghiaia e sporcizia non ti rovinano l'umore. Certo che è strano che Kristin diventi più allegra e recuperi le forze quando si allontana da lui per un po', si dice non senza una certa dose di amarezza. Non era certo quella la sua idea di matrimonio, lui pensava che ci si dovesse sostenere e dare energia a vicenda. Aveva accettato da tempo che lei non fosse il sostegno che aveva sperato, ma ora sembra che nemmeno lui sia abbastanza per lei. «Mah, ancora un po'» risponde esitante quando le chiede quanto starà via. Mildred non vuole dargli le lettere. «Puoi distruggermi la vita in qualsiasi momento» le dice con un sorriso obliquo. Lei lo guarda senza abbassare gli occhi. «Dovrai abituarti a fidarti di me» risponde. La guarda di sottecchi. Camminando così fianco a fianco, diventa evidente quanto sia piccola. I suoi incisivi sono innaturalmente stretti. Assomiglia davvero a un roditore. «Ho intenzione di portare la questione della concessione venatoria davanti al consiglio parrocchiale. Il contratto con il circolo della caccia scade a dicembre. Se affittiamo i terreni a qualcuno che può pagare...» Stefan non crede alle sue orecchie. «Si tratta di questo, dunque» la interrompe, stupito di quanto suoni cal-
ma la sua voce. «Mi stai minacciando! Se voto per prolungare la concessione al circolo della caccia racconterai di Kristin. È un colpo basso, Mildred. Così dimostri la tua vera natura.» Sente che la sua bocca vive di vita propria. Si contorce in una smorfia prossima al pianto. Se Kristin può riposare un po' ritroverà l'equilibrio. Ma se saltano fuori quelle lettere... Sa che non reggerebbe il colpo. La sente già lamentarsi della gente che le sparla alle spalle. Si creerà altri nemici e attaccherà battaglia su più fronti contemporaneamente. E così saranno rovinati. «No» dice Mildred. «Non ti sto minacciando. Starò zitta in ogni caso. Vorrei solo che tu...» «Dimostrassi un po' di gratitudine?» «... potessi venirmi incontro almeno una volta» conclude stancamente. «Andando contro la mia coscienza?» A quel punto si infiamma. Mostra il suo vero io. «Andiamo! Non credo proprio che sia una questione di coscienza.» Sven-Erik Stålnacke ripeté la domanda: «Le era grato per questo? Tenuto conto che non eravate in ottimi rapporti, è stato generoso da parte sua non raccontare a nessuno delle lettere.» «Sì» riuscì a dire Stefan dopo qualche secondo. Sven-Erik si schiarì la gola. Anna-Maria staccò la schiena dalla porta. «Un'ultima cosa» disse Sven-Erik. «I bilanci della fondazione per la protezione della lupa. Sono qui in parrocchia?» Le iridi di Stefan Wikström si mossero come pesci in un acquario. «Cosa?» «I bilanci della fondazione, sono qui?» «Sì.» «Vorremmo vederli.» «Non avete bisogno dell'autorizzazione del procuratore per una cosa del genere?» Anna-Maria e Sven-Erik si scambiarono un rapido sguardo. Sven-Erik si alzò. «Mi scusi» disse. «Dovrei usare il bagno, dove...?» «A sinistra, poi esca dalla segreteria e di nuovo a sinistra.» Sven-Erik si allontanò. Anna-Maria cercò nella borsa la copia del disegno che raffigurava Mildred impiccata.
«Qualcuno ha mandato questo a Mildred Nilsson. L'ha mai visto prima?» Stefan Wikström prese il foglio. Le sue mani non tremavano. «No.» Restituì il disegno. «Ha mai ricevuto niente del genere?» «No.» «E non ha idea di chi possa averlo mandato? Non gliene ha mai parlato?» «Io e Mildred non eravamo in confidenza.» «Le spiacerebbe farmi un elenco di persone con cui potrebbe essersi confidata? Intendo qui nell'ufficio parrocchiale o all'interno della congregazione.» Anna-Maria lo osservò mentre scriveva. Sperava che Sven-Erik si sbrigasse a fare quello che doveva. «Ha figli?» chiese. «Sì. Tre maschi.» «Quanti anni ha il più grande?» «Quindici.» «Che aspetto ha? Le somiglia?» La voce di Stefan Wikström diventò improvvisamente più esitante. «È difficile rispondere. Non si capisce nemmeno che faccia ha sotto il trucco e la tintura per capelli. Sta... attraversando una fase.» Alzò gli occhi e sorrise. Anna-Maria capì che il sorriso di facciata e l'espressione "attraversare una fase" erano di routine quando parlava del figlio. Poi il sorriso si spense. «Perché mi chiede di Benjamin?» domandò. Anna-Maria prese la lista che le tendeva. «Grazie per l'aiuto» fu tutto quello che disse prima di andarsene. Uscendo dall'ufficio di Stefan Wikström, Sven-Erik Stålnacke andò direttamente in segreteria. Vi trovò tre donne, una intenta ad annaffiare i fiori alle finestre, le altre due sedute al computer. Sven-Erik si avvicinò a una delle due e si presentò. Aveva circa la sua età, attorno alla sessantina, il naso lucido e gli occhi gentili. «Vorremmo dare un'occhiata ai bilanci della fondazione per la protezione della lupa» disse.
«D'accordo.» La donna sparì in direzione di uno degli scaffali e tornò con un fascicolo quasi vuoto. Sven-Erik lo osservò pensieroso. I bilanci dovrebbero essere più corposi, con fatture, colonne e un sacco di conti. «Tutto qui?» chiese perplesso. «Sì» rispose la donna. «Non ci sono molte transazioni, più che altro trasferimenti di fondi.» «Lo prendo in prestito per un po'.» Gli sorrise. «Lo tenga pure, è solo una copia. Ne stampo una nuova dal computer.» «Senta» proseguì Sven-Erik abbassando la voce. «Dovrei chiederle una cosa, possiamo...» Fece un cenno del capo in direzione delle scale. La donna lo seguì. «C'è una fattura che riguarda delle spese di formazione» disse SvenErik. «Una cifra molto elevata...» «Sì» disse subito la donna. «So a cosa si riferisce.» Si fermò un attimo a riflettere, come se prendesse la rincorsa. «Non era giusto, Mildred si era molto arrabbiata» disse. «Stefan e la sua famiglia sono andati in vacanza negli Stati Uniti alla fine di maggio. A spese della fondazione.» «Come ha potuto farlo?» «Lui, Mildred e Bertil erano firmatari indipendenti. Perciò non ci sono stati problemi. Credeva che nessuno ci avrebbe fatto caso, o forse l'ha fatto solo per provocarla, cosa ne so.» «E poi cos'è successo?» La donna lo guardò. «Niente» disse. «Ci hanno messo una pietra sopra. Mildred ha detto che dopo tutto avevano visitato Yellowstone, dove stanno conducendo un progetto pilota sui lupi. A quanto ne so non hanno litigato.» Sven-Erik ringraziò la donna, che si risedette al suo posto davanti al computer. Si domandò se fosse il caso di tornare nell'ufficio di Stefan per fargli qualche domanda su quel viaggio. Ma non c'era fretta, potevano farlo il giorno dopo. Aveva bisogno di rifletterci sopra un momento. E nel frattempo non c'era motivo di spaventare la gente. «Non ha battuto ciglio» gli riferì Anna-Maria in macchina. «Quando gli ho mostrato il disegno non ha battuto ciglio. O è totalmente privo di emozioni o era troppo occupato a sembrare calmo. Sai, quando ci si concentra
troppo sul mantenere la calma si tende a dimenticare che si dovrebbe comunque reagire in qualche modo.» Sven-Erik borbottò qualcosa. «Almeno avrebbe dovuto essere interessato» insistette Anna-Maria. «Dargli un'occhiata più approfondita. Sarebbe stata quella la reazione naturale.» In effetti non ha risposto alla mia ultima domanda, si rese conto. Quando gli ho chiesto se aveva idea di chi avesse potuto mandarlo. Si è limitato a dire che lui e Mildred non erano in confidenza. Stefan Wikström andò in segreteria. Aveva una leggera nausea, avrebbe dovuto tornare a casa a mangiare qualcosa. Le segretarie lo guardavano incuriosite. «Mi hanno fatto qualche domanda di routine su Mildred» disse. Le tre donne annuirono, ma si vedeva che non erano convinte. Che razza di espressione. Domande di routine. «Hanno chiesto qualcosa anche a voi?» chiese poi. La donna che aveva parlato con Sven-Erik rispose di sì. «Il tipo grande e grosso voleva vedere i bilanci della fondazione.» Stefan si raggelò. «Non glieli avrai mica dati? Non hanno nessun diritto di...» «Certo che glieli ho dati! Non c'è nessun segreto, no?» La donna lo guardò con aria inquisitoria. Stefan si sentiva addosso anche gli sguardi delle altre due. Perciò girò sui tacchi e tornò rapidamente nel suo ufficio. Bertil poteva dire quello che voleva, ma ora doveva a tutti i costi parlare con lui. Lo chiamò al cellulare. Era in macchina. A tratti la voce spariva. Stefan gli raccontò che era stata lì la polizia. E che avevano preso i bilanci della fondazione. Bertil non sembrava affatto scosso. Stefan disse che, dato che facevano parte entrambi del direttivo, non era stato commesso alcun errore formale, ma che non era tranquillo. «Se una cosa del genere va sui giornali, sai come andrà a finire. Passeremo per malversatori.» «Andrà tutto bene» disse il parroco perfettamente calmo. «Ora devo parcheggiare, ci sentiamo dopo.» La calma di Bertil gli fece capire che se fosse saltata fuori la storia del
viaggio negli Stati Uniti non avrebbe preso le sue difese. Non avrebbe mai ammesso che lo avevano concordato insieme. «Ci sono un sacco di soldi sul conto della fondazione che stanno lì a far niente» aveva detto il parroco. E così avevano pensato a un viaggio di formazione. Erano nel direttivo di una fondazione per la protezione della natura, ma non sapevano niente sui lupi. Perciò avevano deciso che Stefan sarebbe andato a Yellowstone. E alla fine si era fatto accompagnare da Kristin e dai bambini più piccoli, così aveva avuto una scusa per farla tornare da Katrineholm. Era sottinteso che non avrebbero detto a Mildred che il viaggio era stato pagato con i soldi della fondazione. Doveva averglielo riferito qualcuno della segreteria. Al suo ritorno lo aveva affrontato. Lui le aveva spiegato con calma l'esigenza che almeno uno di loro avesse qualche competenza specifica sull'attività della fondazione. E lui era il più adatto, dopo tutto era un cacciatore. Poteva godere di un rispetto che Mildred non sarebbe riuscita a conquistarsi nemmeno in mille anni. Si era aspettato che andasse su tutte le furie. Una piccola parte di lui quasi lo desiderava. Si rallegrava al pensiero dell'esibizione scarlatta della sua rabbia in contrasto con il blu profondo della sua calma. Invece si era limitata ad appoggiarsi alla scrivania. Pesantemente, in un modo che per un attimo gli aveva fatto pensare che avesse qualche malattia segreta, ai reni o al cuore. Si era voltata verso di lui. Il viso pallido sotto l'abbronzatura primaverile. Gli occhi ridotti a due cerchi neri. Un ridicolo animale di pezza dagli occhi a bottone che si animò all'improvviso e si mise a parlare in tono minaccioso. «Quando parlerò al consiglio parrocchiale della concessione venatoria te ne starai buono, hai capito?» disse. «Altrimenti la polizia verificherà se questo viaggio era giustificato oppure no.» Stefan aveva cercato di dirle che si stava rendendo ridicola. «Scegli tu» aveva risposto lei. «Non ho intenzione di portare pazienza in eterno.» L'aveva guardata stupefatto. Quando mai aveva portato pazienza? Era sempre stata un cespuglio di ortiche. Stefan pensò al parroco. Pensò a sua moglie. Pensò a Mildred. Pensò agli sguardi delle segretarie. All'improvviso gli sembrò di perdere il controllo del respiro. Ansimava come un cane chiuso in un'auto. Doveva cercare di calmarsi. Posso tirarmene fuori, si disse. Cosa c'è che non va in me?
Fin da bambino si era sempre cercato amici che lo opprimevano e lo sfruttavano. Che lo obbligavano a sbrigargli le commissioni e a consegnargli la merenda. In seguito aveva dovuto bucare gomme e lanciare pietre per dimostrare che il figlio del pastore non era un pappamolla. E ora che è adulto, continua a cercare persone e situazioni in cui viene trattato da rifiuto umano. Prese il telefono e fece una chiamata. Una sola. * Lisa Stöckel è seduta sulle scale della sua casetta di pan pepato. La prova d'esame di un pasticcere sotto effetto di droghe, come la chiama Mimmi. Presto scenderà al ristorante. Ormai cena lì tutte le sere. Sua figlia sembra non trovarci niente di strano. In cucina le sono rimasti solo un piatto fondo, un cucchiaio e un apriscatole per il cibo per i gatti. I cani gironzolano per il cortile. Annusano in giro e pisciano sui cespugli di ribes. Pisciate pure dove volete, si dice con un mezzo sorriso. La durezza del cuore umano è una cosa strana. È come la pelle dei piedi. Si può correre scalzi sulle pigne e sulla ghiaia. Ma se la pelle dei talloni si spacca il taglio diventa profondo. La durezza era sempre stata la sua forza. Ora è diventata la sua debolezza. Cerca le parole da dire a Mimmi, ma è tutto inutile. Tutto quello che potrebbe dire avrebbe dovuto essere detto tanto tempo prima, e ora è troppo tardi. E poi cosa le avrebbe dovuto dire? La verità? Difficile. Ricorda com'era sua figlia a sedici anni. Lei e Tommy erano già separati da parecchi anni. Lui si ubriacava tutti i fine settimana. Era una fortuna che fosse un piastrellista così bravo, dal lunedì al giovedì finché aveva da lavorare si limitava alla birra. Mimmi era preoccupata. Ovvio. Pensava che Lisa dovesse parlare con lui. Le chiedeva: «Non ti importa di papà?» Lei rispondeva di sì. Era una bugia. Anche se aveva deciso di farla finita con le bugie. Ma Mimmi era Mimmi. A Lisa non importava un fico secco di Tommy. «Perché tu e papà vi siete sposati?» le aveva chiesto un'altra volta. Lisa si era resa conto che non ne aveva la minima idea. Era stata una scoperta sconvolgente. Non riusciva a ricordare cosa pensava o sentiva quando avevano iniziato a uscire, erano andati a letto, si erano fidanzati o quando si era messa il suo marchio al dito. E poi era arrivata Mimmi. Era una bambina così bella. E allo stesso tempo era la catena che l'aveva legata a Tommy.
All'inizio aveva dubitato dei suoi sentimenti materni. Cosa deve provare una madre per il suo bambino? Non lo sapeva. «Dovrei poter morire per lei» pensava a volte guardando Mimmi che dormiva. Ma non significava niente. Era come promettere di regalare viaggi intorno al mondo se si fosse vinto un milione di corone alla lotteria. Era più facile morire per sua figlia in teoria che sedersi a leggerle una favola per un quarto d'ora. Mimmi che dormiva la faceva struggere di affetto e rimorsi di coscienza. Mimmi sveglia con le manine sul suo viso in cerca di pelle e di contatto le faceva venire la pelle d'oca. Era convinta di non potersi più liberare del matrimonio. E quando poi lo aveva fatto si era stupita di quanto fosse stato facile. Era bastato fare le valigie e andarsene. Lacrime e strilli erano come l'olio nell'acqua. Con i cani le cose non sono mai complicate. A loro non importa se lei è asociale. Sono trasparenti e instancabilmente allegri. Come Nalle. Lisa è costretta a sorridere ogni volta che pensa a lui. Se lo vede davanti insieme alla sua nuova amica, quella Rebecka Martinsson. Quando Lisa l'aveva vista per la prima volta, martedì sera, indossava un cappotto al polpaccio e una sciarpa lucida, sicuramente di seta. Un'altezzosa segretaria di direzione o qualcosa del genere. E c'era qualcosa di strano in lei, forse un microsecondo di ritardo nelle sue reazioni. Come se dovesse sempre pensare prima di rispondere, fare un gesto o sorridere. Nalle non bada a queste cose. Entra nel cuore della gente senza togliersi le scarpe. Dopo una giornata con lui, Rebecka andava in giro con una giacca a vento degli anni settanta e una coda di cavallo legata da un elastico marrone, di quelli che ti strappano i capelli quando te li togli. Nalle non sa dire le bugie. Ogni giovedì pomeriggio Mimmi serve un tè all'inglese. Le signore di città vengono apposta a Poikkijärvi per l'occasione. Scones appena sfornati e marmellata, sette tipi di torta. Giovedì scorso Mimmi aveva urlato con voce severa: «Chi ha dato un morso a una torta?» Nalle, che stava facendo merenda con latte e tartine, aveva alzato la mano all'istante gridando: «Io!» Benedetto Nalle, pensò Lisa. Le stesse parole pronunciate mille volte da Mildred. Mildred. Quando si era aperta una fessura nella durezza di Lisa, Mildred era entrata in lei, contaminandola interamente. Solo tre mesi prima stavano sdraiate sul divano letto in cucina. Capitava spesso che i cani occupassero il letto e Mildred la implorava di non farli scendere. «Non vedi come stanno bene?»
In quel periodo, all'inizio di giugno, Mildred è molto occupata. C'è la fine della scuola, le cresime, la chiusura dei gruppi di catechismo e un sacco di matrimoni. Lisa è sdraiata sul fianco sinistro, con una sigaretta nella mano destra. Mildred dorme, o forse è sveglia, più probabilmente a metà strada. Una leggera peluria le copre la schiena lungo la colonna vertebrale. È una fortuna, Lisa che va pazza per i cani ha un'amante con la schiena simile alla pancia di un cucciolo. O forse di un piccolo lupo. «Cos'ha di speciale quella lupa?» chiede Lisa. Mildred ha avuto una vera e propria primavera da lupi. Il telegiornale le ha dedicato un servizio di novanta secondi per parlare della lupa. L'associazione Mille Note ha organizzato un concerto in favore della fondazione, e lei ha perfino tenuto prediche sulla lupa. Mildred si volta sulla schiena e le prende la sigaretta dalle dita. Lisa le disegna figure sul ventre. «Mah» dice, e si vede che si sforza di rispondere seriamente alla domanda. «C'è qualcosa in comune tra i lupi e le donne. Ci assomigliamo. Quando guardo questa lupa mi ricordo per cosa siamo state create. I lupi sono incredibilmente resistenti. Vivono a cinquanta sotto zero nelle aree polari così come a cinquanta gradi nei deserti. Sono territoriali, sono inflessibili nel proteggere i loro confini. Aiutano il branco, sono leali, amano i loro cuccioli sopra ogni altra cosa. Sono come noi.» «Tu non hai cuccioli» dice Lisa per pentirsene immediatamente, ma Mildred non si offende. «Ho voi» dice ridendo. «Hanno il coraggio di fermarsi quando è necessario» prosegue poi, «e hanno il coraggio di partire quando è necessario, o di battersi se ce n'è bisogno. Sono... vivi. E felici.» Soffia fuori il fumo, cerca di disegnare degli anelli mentre riflette. «Ha a che fare con la mia fede» dice. «L'intera Bibbia è piena di uomini con una missione che viene prima di tutto il resto, prima di mogli e figli e... sì, tutto. Ci sono Abramo e Gesù e... Mio padre è diventato pastore per seguire le loro orme. Mamma doveva occuparsi della casa, delle visite dal dentista e delle cartoline di Natale. Ma per me Gesù è colui che permette alle donne di pensare, di partire se è necessario, come una lupa. E quando ho voglia di essere arrabbiata e capricciosa mi dice: andiamo, sii felice, piuttosto.» Lisa continua a disegnare sul ventre di Mildred, il suo indice le scorre sul seno e sui fianchi.
«Sai che la odiano, vero?» chiede. «Chi?» «Gli uomini del paese» risponde Lisa. «Quelli della squadra di caccia. Torbjörn Ylitalo. All'inizio degli anni ottanta è stato condannato per bracconaggio. Aveva sparato a un lupo nel Dalarna. Sua moglie è di quelle parti.» Mildred si alza a sedere di scatto. «Stai scherzando!» «Per niente. In realtà avrebbero dovuto togliergli il porto d'armi. Ma sai, Lars-Gunnar era un poliziotto. Ed è la polizia che decide queste cose e... Dove stai andando?» Mildred è saltata in piedi. I cani arrivano di corsa, credono di poter uscire. Si infila i vestiti senza degnarli di uno sguardo. «Dove stai andando?» chiede di nuovo Lisa. «Questo dannato club di maschilisti» grida Mildred. «Come lo sai? Come fai a saperlo?» Lisa si siede. Lo ha sempre saputo. Era sposata con Tommy e Tommy era amico di Torbjörn Ylitalo. Guarda Mildred che non riesce ad allacciarsi l'orologio e finisce per infilarselo in tasca. «Cacciano gratis» sbotta Mildred. «La chiesa gli offre le sue terre su un piatto d'argento ma loro non fanno entrare nessuno nel loro club, soprattutto non le donne. Le donne lavorano, sistemano le cose e devono aspettare la ricompensa nel regno dei cieli. Sono maledettamente stanca di questa storia. È un segnale di come la chiesa vede gli uomini e le donne, ma ora basta, per Dio!» «Però, quanto imprechi!» Mildred si volta verso di lei. «Dovresti iniziare anche tu!» * Magnus Lindmark guardava fuori dalla finestra della cucina. Stava diventando buio ma non aveva acceso le luci. I contorni e gli oggetti sia in casa che fuori erano diventati indistinti, avevano iniziato a sfuocarsi, a confondersi nell'oscurità. Però vide benissimo il caposquadra Lars-Gunnar Vinsa e il presidente del circolo della caccia Torbjörn Ylitalo dirigersi verso casa sua. Rimase dietro le tende. Cosa cazzo volevano? E perché non erano venuti in mac-
china? O forse avevano parcheggiato a qualche distanza per poi fare l'ultimo tratto a piedi. Ma perché? Si sentì invadere da un profondo disagio. Qualsiasi cosa volessero, gli avrebbe detto che non aveva tempo. A differenza di loro, aveva un lavoro. Sì, è vero, Torbjörn Ylitalo era guardaboschi, ma questo non significava che lavorasse. Non capitava spesso che Magnus Lindmark ricevesse visite, da quando Anki se n'era andata con i ragazzi. A quei tempi pensava che fosse una rottura avere sempre tra i piedi i parenti di lei e gli amici dei ragazzi. E non era nel suo stile fare sorrisi a destra e sinistra. Perciò alla fine gli ospiti se ne andavano appena lui tornava a casa. Gli andava benissimo. Non gli piaceva la gente che chiacchierava per ore. Non avevano niente da fare? Ora erano sulla veranda e bussavano. La sua macchina era in cortile, perciò era inutile che facesse finta di non essere in casa. Torbjörn Ylitalo e Lars-Gunnar Vinsa entrarono senza aspettare che Magnus andasse ad aprire. Andarono direttamente in cucina. Torbjörn Ylitalo accese la luce. Lars-Gunnar si guardò attorno. Fu come se Magnus all'improvviso vedesse anche lui la sua cucina. «C'è un po' di... È da parecchio che non metto in ordine» disse. Il lavello traboccava di piatti sporchi e confezioni di latte vuote. Due sacchetti di carta pieni di barattoli ammuffiti dietro la porta. I vestiti che aveva lasciato cadere a terra prima di farsi la doccia aspettavano di essere portati in lavanderia. Il tavolo ingombro di volantini pubblicitari, posta, vecchi giornali e una ciotola di yogurt ormai seccato. Sul piano di lavoro accanto al microonde c'era un motore smontato che prima o poi avrebbe dovuto aggiustare. Magnus chiese se volessero del caffè, ma entrambi rifiutarono. Non volevano nemmeno una birra. Magnus invece ne prese una, era la quinta della serata. Torbjörn andò dritto al punto. «Cos'hai detto alla polizia?» chiese. «Cosa vuoi dire?» Torbjörn Ylitalo strinse gli occhi. Qualcosa nella postura di Lars-Gunnar Vinsa sembrò appesantirsi. «Non fare lo stupido» disse Torbjörn. «Hai detto che volevo sparare al pastore.» «Ah, stronzate! Quella donna poliziotto è una stronza...» Non riuscì ad andare oltre. Lars-Gunnar aveva fatto un passo avanti e gli
aveva mollato un ceffone. Era un po' come beccarsi una sberla da un grizzly. «Non raccontare balle!» Magnus sbatté le palpebre e si portò una mano alla guancia bollente. «Che cazzo» borbottò. «Ti ho sempre difeso» disse Lars-Gunnar. «Sei un dannato perdente, l'ho sempre pensato. Ma grazie a tuo padre hai avuto un posto in squadra. E ci sei rimasto, nonostante le tue imprese.» Un lampo di sfida passò negli occhi di Magnus. «Ah sì? Perché tu saresti migliore di me?» Questa volta fu Torbjörn a dargli una spinta sul petto. Magnus barcollò all'indietro, sbattendo contro il piano di lavoro. «Ora ascoltaci!» «Ho avuto fin troppa pazienza con te» proseguì Lars-Gunnar. «Sono stato paziente quando ti sei messo a provare il fucile nuovo sui cartelli stradali con i tuoi amici. E per la rissa nel capanno di caccia dell'anno scorso. Non reggi l'alcol, però ti ostini a bere e fai un sacco di idiozie.» «Ma quale rissa, è stato il cugino di Jimmy che...» Un altro spintone da parte di Torbjörn. A Magnus cadde di mano la lattina. La birra si rovesciò sul pavimento. Lars-Gunnar si asciugò il sudore dalla fronte. «E quei dannati gatti...» «Già, che cazzo...» confermò Torbjörn. Magnus emise una risata da ubriaco. «Cosa sarà mai, qualche stupido gatto...» Lars-Gunnar lo colpì al viso. Col pugno chiuso. Dritto sul naso. Il sangue colò caldo sulla bocca di Magnus. «Andiamo, colpiscimi!» ruggì Lars-Gunnar indicando il suo mento. «Andiamo! Qui! Ora hai l'occasione di fare a botte con un vero uomo. Dannato picchiafemmine. Sei una vergogna. Andiamo!» Fece segno a Magnus di farsi avanti con le mani chiuse a uncino e spinse avanti il mento come esca. Magnus si teneva la mano destra sotto il naso gocciolante, mentre con la sinistra faceva cenni di diniego. All'improvviso Lars-Gunnar si appoggiò pesantemente al tavolo. «Io esco» disse a Torbjörn Ylitalo. «Prima di fare qualche cazzata.» Mentre usciva si voltò sulla porta. «Puoi denunciarmi, se vuoi» disse. «Me ne frego. È esattamente quello
che mi aspetto da uno come te.» «Ma non lo farai» disse Torbjörn Ylitalo quando Lars-Gunnar fu uscito. «E d'ora in avanti terrai la bocca chiusa su di me e su tutta la squadra di caccia. Mi hai sentito?» Magnus annuì. «Se ti sento aprire bocca a sproposito un'altra volta, giuro che te ne farò pentire amaramente. Capito?» Magnus annuì di nuovo. Teneva la testa sollevata per fermare il sangue. Così gli scendeva in gola, sapeva di ferro. «La concessione venatoria dev'essere rinnovata a fine anno» proseguì Torbjörn. «Se ci saranno chiacchiere o discussioni... chi lo sa. Non c'è niente di sicuro a questo mondo. Hai un posto in squadra, ma devi comportarti bene.» Restarono un attimo in silenzio. «Mettici sopra un po' di ghiaccio» disse Torbjörn alla fine. Poi uscì anche lui. Lars-Gunnar Vinsa era seduto sulle scale con la testa fra le mani. «Andiamo» disse Torbjörn Ylitalo. «Cazzo» disse Lars-Gunnar. «È che il mio vecchio picchiava mia madre. Perciò perdo la testa quando... Avrei dovuto ucciderlo, intendo mio padre. Sai, quando ho finito la scuola di polizia ho cercato di convincerla a separarsi. Ma negli anni sessanta bisognava prima parlare con il prete. E quello stronzo l'ha convinta a restare con il vecchio.» Torbjörn Ylitalo osservò il prato invaso dalle erbacce che confinava con il cortile di Magnus Lindmark. «Andiamo» ripeté. Lars-Gunnar Vinsa si alzò faticosamente. Pensava a quel prete. Alla sua pelata lucida. Al collo simile a una pila di rotoli di salsiccia. Cazzo. Sua madre seduta davanti a lui con il cappotto buono. Le mani sulle ginocchia. Lars-Gunnar accanto a lei per farle compagnia. Il prete le aveva rivolto un sorrisetto condiscendente. Come se fosse una barzelletta. «Siete vecchi» le aveva detto. Sua madre aveva appena compiuto cinquant'anni. Sarebbe vissuta per altri trenta. «Non dovreste riconciliarvi, invece?» Tornando a casa, lei era molto silenziosa. «È fatta» aveva detto Lars-Gunnar. «Ora che hai parlato con il prete puoi andartene.» Ma lei aveva scosso la testa. «È meno dura ora che voi ragazzi ve ne siete andati» aveva risposto. «Come farebbe da solo?»
Magnus Lindmark osservò i due uomini allontanarsi lungo la strada. Aprì il freezer e ci frugò dentro. Tirò fuori un sacchetto di carne congelata, si sdraiò sul divano del soggiorno con un'altra birra e la carne congelata premuta sul naso e accese la tv. C'era un documentario sui nani, poveri diavoli. * Rebecka Martinsson compra un vassoio da asporto da Mimmi. Sta andando a Kurravaara. Forse si fermerà per la notte. Con Nalle si sentiva a suo agio, adesso vuole provare da sola. Farà la sauna e il bagno nel fiume. Sa già come sarà. L'acqua fredda, le pietre affilate sotto i piedi. Il respiro accelerato quando ci si tuffa, poi le bracciate verso il largo. E l'inspiegabile sensazione di essere una cosa unica con tutte le età passate. Si è tuffata e ha nuotato lì a sei anni, a dieci, a tredici, fino a quando si è trasferita in città. Sono le stesse rocce, la stessa riva. La stessa aria fresca della sera che scorre come un fiume d'aria sopra quello d'acqua. È come una matrioska che finalmente ha dentro tutti i pezzi e può riavvitarsi sapendo che anche il più piccolo è al sicuro all'interno. Poi cenerà da sola in cucina guardando la tv. La lascerà accesa mentre laverà i piatti. Forse vedendo la luce accesa Sivving andrà a trovarla. «Quindi oggi sei di nuovo andata all'avventura con Nalle?» È Micke che parla. Ha gli occhi gentili che non si intonano con le braccia tatuate e muscolose, la barba incolta e l'orecchino. «Sì» risponde. «Forte. Lui e Mildred andavano spesso in giro insieme.» «L'ho saputo.» Ho fatto qualcosa per lei, pensa. Mimmi arriva dalla cucina con il vassoio di Rebecka. «Ascolta» dice Micke. «Ti andrebbe di darci una mano domani sera? È sabato, le vacanze sono finite, le scuole sono ricominciate e ci sarà un sacco di gente. Cinquanta corone all'ora, dalle otto all'una, più le mance.» Rebecka lo guarda a bocca aperta. «Certo» risponde dopo essersi ricomposta. «Perché no?» Parte. Si sente piena di energia. Zampe Gialle
È novembre. La luce dell'alba è grigia e spenta. Durante la notte ha nevicato e radi fiocchi di neve leggeri come piume cadono ancora nel bosco silenzioso. Da qualche parte in lontananza si sente il verso di un corvo. Il branco di lupi dorme coperto dalla neve in un piccolo avvallamento. Tutti i cuccioli tranne uno hanno superato l'estate. Ora il branco è composto da undici elementi. Zampe Gialle si alza e si scuote via la neve. Annusa l'aria. La neve si è posata come una coperta sui vecchi segnali olfattivi, ripulendo l'aria e il terreno. Aguzza i sensi. L'occhio acuto. L'orecchio pronto. Ecco. Sente un alce che si alza e si scuote via la neve dalla pelliccia a un chilometro di distanza. La fame si fa risentire come un buco doloroso nello stomaco. Sveglia gli altri e segnala la presenza della preda. Sono molti ora, e possono dare la caccia anche ad animali di grandi dimensioni. L'alce è una preda pericolosa. Ha le zampe posteriori forti e gli zoccoli taglienti. Con un calcio può spezzare la mascella di un lupo come se fosse un ramo secco. Ma Zampe Gialle è un'abile cacciatrice. Ed è audace. Il branco si dirige lentamente verso l'alce. Ben presto trovano la pista. Con qualche latrato sommesso e irritato i piccoli vengono convinti a restare in coda al gruppo. Ormai hanno sette mesi e hanno già iniziato a catturare animali di piccole dimensioni, ma in questa spedizione saranno solo degli osservatori. Capiscono che sta succedendo qualcosa di importante e tremano di eccitazione trattenuta. Gli adulti risparmiano le forze. Solo di tanto in tanto alzano i musi a testimoniare che non si tratta di un normale trasferimento ma di una caccia faticosa. È probabile che risulti un fallimento, ma Zampe Gialle ha un passo deciso. È affamata. E ormai lavora a tempo pieno per il branco. Non osa più allontanarsi per i suoi giri solitari come un tempo. Sente che rischia di essere scacciata dalla comunità. Un bel giorno forse non le permetteranno più di tornare tra loro. La sua sorellastra, la femmina alfa, la tiene sotto stretto controllo. Zampe Gialle si avvicina sempre alla coppia alfa con le zampe posteriori piegate e la schiena curva per mostrare la sua sottomissione. Trascina la coda per terra. Lecca loro gli angoli della bocca. È la cacciatrice più abile del branco, ma ormai non basta più. Se la cavano anche senza di lei e in qualche modo sanno tutti che il suo tempo è agli sgoccioli. Da un punto di vista puramente fisico, Zampe Gialle è superiore alla sorellastra. È veloce e ha le zampe lunghe. La più grande delle femmine del branco. Ma non ha la testa da capobranco. Adora fare escursioni in solitaria. Non le piacciono le zuffe ed evita volentieri le liti agitando la coda e
invitando l'avversario a giocare. La sua sorellastra invece, non appena si sveglia e si stiracchia, inizia a lanciare attorno uno sguardo duro che significa: «Allora? C'è qualcuno che vuole vedersela con me oggi?» È inflessibile e impavida. O ti adatti o te ne vai, i suoi piccoli lo impareranno presto. Non esiterebbe a uccidere se si arrivasse allo scontro. Con lei nella coppia alfa, i branchi rivali devono stare bene attenti a non entrare nel loro territorio. La sua perenne irrequietezza spinge l'intero branco a caccia di prede o ad allargare il territorio. Ora l'alce ha sentito l'odore del branco. È un giovane maschio. Si mette a correre attraverso il bosco, i lupi lo sentono dallo scricchiolio di rami spezzati. La neve fresca non è profonda, c'è il rischio che l'alce riesca a sfuggirgli. Zampe Gialle aumenta l'andatura. Si allontana dagli altri e disegna un semicerchio per tagliare la strada alla preda. Dopo due chilometri il branco la raggiunge. Zampe Gialle ha costretto l'alce a fermarsi con brevi attacchi ripetuti, tenendosi accuratamente lontana dalle corna e dagli zoccoli. Gli altri accerchiano l'animale che inizia a muoversi in circolo, pronto a difendersi da chi oserà muovere il primo attacco. Prende l'iniziativa uno dei maschi, azzannandolo nel garretto posteriore. L'alce si libera ma gli resta una larga ferita, i muscoli e i tendini sono strappati. Il lupo non è abbastanza veloce a indietreggiare e l'alce riesce a ributtarlo indietro con un calcio. Quando si rimette in piedi zoppica un po'. Ha due costole rotte. Gli altri fanno qualche passo indietro e l'alce sfugge all'accerchiamento, sparisce nel folto del bosco, sanguinante. Gli restano ancora troppe forze. Meglio lasciarlo correre fino a stancarsi. I lupi partono all'inseguimento. Senza fretta. Ben presto raggiungeranno di nuovo la loro preda. Il lupo colpito dal calcio li segue zoppicando. Nei prossimi tempi dipenderà completamente dal branco per la sopravvivenza. Se le prede saranno troppo piccole, per lui non resteranno che le ossa. Se dovranno fare spostamenti troppo lunghi non riuscirà a seguirli. Quando la neve diventerà troppo alta gli diventerà doloroso muoversi. Dopo cinque chilometri il branco attacca di nuovo. Ora è Zampe Gialle che fa il lavoro sporco, prendendo la testa del gruppo al galoppo. La distanza tra loro e l'alce diminuisce rapidamente. Gli altri sono così vicini da sfiorarle le zampe posteriori con la testa. Non esiste più altro che l'alce. L'odore del suo sangue nel loro naso. Lo hanno raggiunto. Zampe Gialle si appende al garretto dell'animale. È il momento più pericoloso, non molla, e un attimo dopo un secondo lupo azzanna l'altro garretto. Un terzo prende immediatamente il suo posto quando Zampe Gialle molla la presa per cor-
rere avanti e affondare le zanne nel collo dell'alce. L'animale cade in ginocchio nella neve trascinando con sé Zampe Gialle. Cerca di raccogliere le forze per rialzarsi. Tende la testa verso il cielo. Il maschio alfa gli azzanna il muso e glielo tira verso terra. Zampe Gialle aggiusta la presa e gli squarcia la gola. La vita scorre via dall'alce. La neve si tinge di rosso. I piccoli ricevono il segnale di via libera, arrivano di corsa e si gettano sull'animale morente. Condividono il trionfo della caccia mordicchiandogli le zampe e il muso. I lupi adulti dividono la preda con le mascelle robuste. Dal cadavere si alza un vapore nell'aria fredda del mattino. Sugli alberi attorno, si raccoglie una moltitudine di uccelli neri. Sabato 9 settembre Anna-Maria Mella guardava fuori dalla finestra della cucina. La vicina stava asciugando i davanzali delle finestre. Di nuovo! Li puliva una volta alla settimana. Non era mai stata a casa loro, ma immaginava che fosse tutto in perfetto ordine e senza un granello di polvere. La diligenza dei vicini nelle faccende di casa. Sempre pronti a mettersi in ginocchio in cerca di denti di leone, a spalare la neve, a pulire le finestre, a cambiare le tende. Tutto ciò le faceva provare un'irragionevole irritazione. A volte una certa compassione. E quel giorno una sorta di invidia. Avere la casa in ordine, una volta tanto, non sarebbe stato affatto male. «Sta di nuovo pulendo i davanzali» disse a Robert. Robert borbottò qualcosa da dietro le pagine dello sport e la tazza del caffè. Gustav era seduto per terra, intento a svuotare lo scomparto delle pentole. Anna-Maria si sentì invadere da un'ondata di malumore. Dovevano fare le pulizie del sabato. Ma evidentemente toccava a lei prendere l'iniziativa. Rimboccarsi le maniche e mettere in moto gli altri. Marcus era andato a dormire da Hanna. L'imboscato! Naturalmente avrebbe dovuto essere felice che avesse una ragazza e degli amici. Il suo incubo peggiore era che i ragazzi restassero degli emarginati. Ma quella stanza! «Oggi devi dire a Marcus di mettere in ordine la sua stanza» disse a Robert. «Io non ho la forza di mettermi a litigare.» «Ehi!» aggiunse dopo un po'. «C'è qualcuno lì dietro?» Robert alzò gli occhi dal giornale. «Potresti almeno rispondere. Così so se mi hai sentita o no!»
«D'accordo, glielo dirò» rispose Robert. «Perché hai questo tono?» Anna-Maria si alzò a fatica. «Scusa» disse. «È solo che... la stanza di Marcus mi fa quasi paura. Inizia a essere pericoloso entrarci. Sono stata in quartieri malfamati che in confronto sembravano usciti da una rivista di arredamento.» Robert annuì serio. «Torsoli di mela pelosi che camminano...» commentò. «Sono terrorizzata!» «... tra i vapori di una buccia di banana fermentata. Dovremmo procurarci una gabbietta.» Meglio battere il ferro... «Se tu ti occupi della cucina, io inizio dal piano di sopra» suggerì AnnaMaria. Era meglio così. Al piano di sopra c'era un tale caos. Il pavimento della loro camera era disseminato di biancheria sporca e di borse delle vacanze che non avevano ancora svuotato. I davanzali delle finestre erano coperti di mosche morte e foglie secche. Il bagno era un disastro. E le camere dei ragazzi... Anna-Maria sospirò. Robert ci avrebbe messo un'eternità, mettere in ordine non era il suo forte. Meglio fargli pulire i fornelli, caricare la lavastoviglie e passare l'aspirapolvere al piano di sotto. È così deprimente, si disse. Avevano deciso mille volte di fare le pulizie di giovedì. Così il venerdì la casa sarebbe stata pulita e in ordine e il sabato avrebbe potuto essere dedicato a fare qualcosa di più divertente tutti insieme. Ma non ci riuscivano mai. Giovedì sera erano alla frutta, fare le pulizie era fuori questione. Venerdì chiudevano gli occhi per non vedere il disordine, noleggiavano un film che non riuscivano mai a seguire fino alla fine. E così il sabato era rovinato. A volte non si decidevano prima di domenica mattina, e in quei casi in genere le pulizie iniziavano con una sua crisi di nervi. E poi tutte le cose che non arrivavano a fare. I mucchi di biancheria che non riuscivano mai a eliminare del tutto. Gli armadi in condizioni penose. Pochi giorni prima aveva infilato la testa nell'armadio di Marcus per aiutarlo a cercare chissà cosa, e quando aveva sollevato il mucchio di maglioni depositato sul fondo era strisciato fuori un animaletto. Preferiva non pensarci. Quando era stata l'ultima volta che aveva pulito gli armadietti della cucina? Quando trovavano il tempo tutti gli altri? E l'energia?
Squillò il suo cellulare. Un numero che non conosceva. Era un uomo che si presentò come Christer Eisner, professore di storia delle religioni. Chiamava per quel simbolo di cui la polizia di Kiruna aveva chiesto notizie. «Sì?» disse Anna-Maria. «Purtroppo non sono riuscito a identificarlo. Assomiglia al simbolo alchemico che indica una prova o il mettere alla prova, ma qui c'è anche quell'uncino che prosegue attraverso il semicerchio. Spesso il semicerchio rappresenta l'incompiuto, o talvolta l'umano.» «Perciò questo simbolo non esiste?» chiese Anna-Maria delusa. «Ah, vedo che passiamo subito alle domande difficili» disse il professore. «Cosa esiste e cosa no? Per esempio, Zio Paperino esiste?» «No» rispose Anna-Maria. «Esiste solo nella fantasia.» «Ovvero nella sua testa?» «Sì. E anche in quella di altri, ma non nella realtà.» «Ah. E l'amore allora?» Anna-Maria scoppiò a ridere sorpresa. Si sentì solleticata da un pensiero nuovo, una volta tanto. «Questa è difficile» ammise. «È vero che non ho identificato il simbolo, ma io mi occupo di ricerche storiche. Questo potrebbe essere un simbolo nuovo. Certi generi musicali ne fanno largo uso, così come certi generi letterari. Il fantasy, per esempio.» «Chi potrebbe dirmi qualcosa di più?» «Qualche critico musicale. Per quanto riguarda la letteratura, qui a Stoccolma c'è una libreria specializzata in fantascienza e fantasy, è a Gamla Stan.» A quel punto chiusero la conversazione. Anna-Maria era dispiaciuta. Le avrebbe fatto piacere continuare a parlare con quell'uomo, anche se in realtà non avrebbe saputo cosa dirgli. Sarebbe stato bello potersi trasformare nel suo cane e accompagnarlo a fare una passeggiata nel bosco. Così lui avrebbe potuto confidarle i suoi pensieri, erano in molti a farlo con i propri cani. E Anna-Maria, temporaneamente trasformata in cane, avrebbe potuto limitarsi ad ascoltare, senza sentirsi tenuta a trovare risposte intelligenti. Entrò in cucina. Robert non si era ancora mosso. «Devo andare al lavoro» disse. «Torno tra un'ora.» Si domandò se fosse il caso di chiedergli di iniziare a fare le pulizie. Poi lasciò perdere, tanto non lo avrebbe fatto. E se glielo avesse chiesto, tor-
nando a casa e trovandolo ancora seduto a leggere il giornale si sarebbe infuriata. Gli diede un bacio e se ne andò. Era meglio andare d'accordo. Dieci minuti dopo Anna-Maria era in ufficio. Tra la posta trovò un fax della scientifica. Avevano trovato un sacco di impronte sul disegno - tutte di Mildred Nilsson. Avrebbero fatto altri tentativi, ma ci sarebbe voluto qualche giorno. Chiamò il servizio informazioni e chiese il numero di una libreria di fantascienza a Gamla Stan. L'addetto lo trovò al volo e la mise in contatto con il negozio. Rispose una donna, Anna-Maria le spiegò cosa voleva sapere e le descrisse il simbolo. «Mi spiace» disse la libraia. «Così su due piedi non mi viene in mente niente. Ma mi mandi un fax, così posso chiedere a qualche cliente.» Anna-Maria promise di farlo, la ringraziò e riattaccò. Nello stesso istante in cui posò la cornetta squillò il telefono. Era SvenErik Stålnacke. «Devi venire subito» disse. «È per quel prete, Stefan Wikström.» «Sì?» «È scomparso.» * Kristin Wikström piangeva senza ritegno nella cucina della canonica di Jukkasjärvi. «Eccolo!» gridò a Sven-Erik Stålnacke. «Ecco il passaporto di Stefan. Come avete potuto pensare una cosa del genere? Non è partito, ve lo assicuro. Non lascerebbe mai la sua famiglia. Lui che è il migliore dei... Vi dico che gli è successo qualcosa.» Gettò il passaporto per terra. «Capisco» disse Sven-Erik. «Ma dobbiamo procedere per esclusione. Non si vuole sedere?» Sembrò non sentirlo nemmeno. Continuava a girare disperata per la cucina, andando a sbattere contro i mobili e facendosi male. Sul divano erano seduti due bambini di cinque e dieci anni, giocavano con il Lego e non sembravano particolarmente preoccupati dalla disperazione della madre o dalla presenza di Sven-Erik e Anna-Maria.
Sono piccoli, si disse Anna-Maria. Digeriscono tutto. All'improvviso i problemi suoi e di Robert diventarono piccoli e insignificanti. Faccio le pulizie più di lui, e allora? «Come farò?» gridò Kristin. «Come posso fare?» «Quindi non ha passato la notte a casa» disse Sven-Erik. «È sicura?» «Non è venuto a letto» piagnucolò. «Cambio sempre le lenzuola al venerdì e il suo lato era intatto.» «Potrebbe aver dormito sul divano?» suggerì Sven-Erik. «Siamo sposati! Perché non dovrebbe dormire con me?» Sven-Erik Stålnacke era andato a Jukkasjärvi per chiedere a Stefan Wikström del viaggio negli Stati Uniti a spese della fondazione. E aveva trovato la moglie con gli occhi sbarrati. «Stavo proprio per chiamare la polizia» aveva detto. La prima cosa che aveva fatto era stata chiedere le chiavi della chiesa e correre a vedere. Non c'era nessun prete morto appeso all'organo. SvenErik aveva dovuto sedersi un attimo su un banco, tanto era sollevato. Poi aveva telefonato in centrale per far controllare le altre chiese. Alla fine aveva chiamato Anna-Maria. «Ci serve il numero del conto corrente di suo marito.» «Ma cosa avete? Non ci sentite? Dovete andare a cercarlo. Gli è successo qualcosa! Non avrebbe mai... Forse è...» Tacque e guardò i suoi figli. Poi corse in cortile. Sven-Erik la seguì, mentre Anna-Maria ne approfittò per dare un'occhiata in giro. Aprì rapidamente i cassetti. Niente portafoglio. Non era nemmeno nelle tasche delle giacche appese in ingresso. Salì al piano superiore. Era come aveva detto Kristin Wikström. Nessuno aveva dormito da quel lato del letto matrimoniale. Dalla camera poteva vedere il pontile dove Mildred Nilsson teneva la barca. Il luogo in cui era stata uccisa. E c'era luce, pensò Anna-Maria. Era la notte prima del giorno di mezza estate. Niente orologio da polso sul comodino. Dunque si sarebbe detto che avesse con sé portafoglio e orologio. Tornò giù. Una delle stanze sembrava essere lo studio di Stefan. Provò ad aprire i cassetti della scrivania ma erano chiusi. Dopo un attimo trovò la chiave dietro ad alcuni libri sullo scaffale. Li aprì. Non contenevano gran che. Qualche lettera che scorse rapidamente, niente che sembrasse avere a
che fare con lui e Mildred. Nessuna di un'eventuale amante. Guardò fuori dalla finestra. Sven-Erik e Kristin stavano parlando in cortile. Bene. In casi normali avrebbero aspettato qualche giorno. Di solito si trattava di sparizioni volontarie. Un serial killer, si disse Anna-Maria. Se lo troviamo morto siamo nei pasticci. Fuori, Kristin si era accasciata su una sedia da giardino. Sven-Erik le stava estorcendo informazioni su tutto il possibile. Chi potevano chiamare per prendersi cura dei bambini. I nomi degli amici e dei parenti di Stefan Wikström, forse sapevano qualcosa di più. Se avevano una casa per le vacanze. Se la famiglia aveva solo l'auto parcheggiata in cortile. «No» singhiozzò Kristin. «La sua macchina è sparita.» Tommy Rantakyrö chiamò per dire che avevano controllato tutte le chiese e le cappelle. Niente preti morti. Un grosso gatto percorreva placidamente il vialetto in direzione della casa senza degnare l'estraneo di uno sguardo. Non cambiò percorso né si nascose tra l'erba. Forse assunse un'andatura leggermente più compatta, con la coda bassa. Era grigio scuro, con il pelo lungo e morbido. Sven-Erik pensò che aveva un'aria infida. Testa piatta, occhi gialli. Se un tipo del genere se la fosse presa con Manne, il suo povero micio non avrebbe avuto una sola possibilità di cavarsela. Se lo vedeva davanti agli occhi, ferito e nascosto da qualche parte, magari in un fossato, o dietro una casa. Malridotto e indebolito, facile preda di un cane o di una volpe. Anna-Maria gli sfiorò una spalla e si allontanarono di qualche passo. Kristin Wikström aveva lo sguardo fisso davanti a sé, con il pugno destro davanti alla bocca, intenta a mordicchiarsi l'indice. «Cosa ne dici?» chiese Anna-Maria. «Diramiamo un ordine di ricerca» disse Sven-Erik guardando Kristin Wikström. «Ho un brutto presentimento. Per il momento a livello nazionale, compresi gli aeroporti. Controlliamo il conto in banca e il telefono. E parliamo con amici, parenti e colleghi.» Anna-Maria annuì. «Il che significa fare gli straordinari.» «Sì, ma cosa dirà il procuratore? Quando la stampa lo verrà a sapere...» Sven-Erik allargò le mani in un gesto impotente. «Dobbiamo anche chiederle di quelle lettere» disse Anna-Maria. «Quelle che ha scritto a Mildred.»
«Non adesso» rispose Sven-Erik deciso. «Quando sarà arrivato qualcuno a occuparsi dei bambini.» * Micke Kiviniemi osservava il locale dalla sua posizione strategica dietro il bancone. Il re nel suo regno chiassoso e disordinato, che odorava di cibo, birra, fumo di sigarette e dopobarba con una traccia di sudore. Spillava birra come alla catena di montaggio, intervallando di tanto in tanto i boccali con un whisky o un bicchiere di vino rosso o addirittura di bianco. Mimmi correva come un topolino da circo tra i tavoli, spazzando via le briciole e prendendo le ordinazioni. Le chiedevano: «Il tuo pollo in casseruola o lasagne, quello che c'è.» La tv nell'angolo era accesa, così come lo stereo dietro il bancone. Rebecka Martinsson sudava in cucina. Metteva il cibo dentro il microonde e lo tirava fuori. Ritirava montagne di bicchieri sporchi dal bar e li riportava puliti. Micke era soddisfatto di quello che vedeva. Tutti i suoi problemi erano lontani. L'ufficio tasse. La banca. I lunedì mattina in cui si svegliava stanco fin nelle ossa e restava a letto ad ascoltare i topi che rovistavano nei bidoni della spazzatura. Se solo Mimmi fosse stata un po' gelosa del fatto che aveva offerto un lavoro a Rebecka Martinsson, sarebbe stato perfetto. Invece anche lei aveva trovato che fosse una buona idea. Micke si era trattenuto dal dire che Rebecka avrebbe offerto ai ragazzi qualcosa di nuovo da guardare. Mimmi non avrebbe comunque risposto, ma aveva l'impressione che da qualche parte avesse un cassettino in cui raccoglieva tutti i suoi errori e le sue mancanze, e il giorno in cui sarebbe stato pieno se ne sarebbe andata. Senza preavviso. Solo chi ci tiene davvero dà un preavviso. Ma ora il suo regno era pieno di vita come un formicaio in primavera. Questo è un lavoro che riesco a fare, si disse Rebecka Martinsson sciacquando i piatti prima di infilarli nella lavastoviglie. Non c'era bisogno di pensare o di concentrarsi. Bastava portare vassoi avanti e indietro e fare in fretta. Tenere il tempo. Non si rendeva conto del sorriso che le andava da un orecchio all'altro mentre riportava un vassoio di bicchieri puliti a Micke. «Tutto bene?» le chiese lui ricambiando il sorriso. Rebecka sentì il cellulare vibrare nella tasca del grembiule. Non poteva
essere Maria Taube. È vero che lavorava sempre, ma non di sabato sera. A quell'ora doveva essere da qualche parte a farsi offrire da bere. Era il numero di Måns. Le venne un tuffo al cuore. «Rebecka» urlò nel ricevitore premendosi la mano contro l'altro orecchio per sentire qualcosa. «Måns» replicò lui. «Aspetta un attimo» gridò. «C'è troppo chiasso.» Si diresse verso la porta sollevando il telefono verso Micke e segnalando "cinque minuti" con le dita dell'altra mano. Micke annuì e Rebecka uscì in cortile. L'aria fresca le fece drizzare i peli delle braccia. Ora sentiva che anche all'altro capo c'era chiasso. Måns doveva essere in un locale. Poi il chiasso si attutì. «Ecco, ora posso parlare» disse. «Anch'io. Dove sei?» chiese Måns. «Davanti al bar ristorante di Micke a Poikkijärvi, è un paesino a qualche chilometro da Kiruna. E tu?» «Fuori dallo Spyan, un localino dalle parti di Stureplan.» Rebecka rise. Sembrava allegro. Non distante come al solito. Doveva essere ubriaco. Se ne fregava. Non si parlavano da quella sera che se n'era andata in barca a remi da Lidö. «Stai facendo baldoria?» «No, a dire la verità sto lavorando sodo.» Ora si arrabbia, si disse. O forse no. Måns rise. «Ah sì? E cosa stai facendo?» «Ho trovato un ottimo lavoro come lavapiatti» disse con simulato entusiasmo. «Guadagno cinquanta corone all'ora, duecentocinquanta per tutta la serata. E ho anche il permesso di tenere le mance, ma non so, non sono in molti a entrare in cucina per dare la mancia alla lavapiatti, perciò mi sa che mi hanno fregata.» Sentì Måns ridere di nuovo, un hohoho quasi sbuffato che terminava con un uhuuu quasi implorante. Sapeva che quell'uhuuu era accompagnato dal gesto di asciugarsi gli occhi. «Cazzo, Martinsson» gemette. Mimmi infilò la testa fuori dalla porta e le fece un cenno che voleva dire "crisi". «Devo andare» disse Rebecka. «Altrimenti mi trattengono i soldi dallo stipendio.»
«Allora vuol dire che gliene devi tu, mi pare di capire. Quando torni?» «Non lo so.» «Dovrò venirti a prendere» disse Måns. «Non sei affidabile.» Vieni pure, commentò tra sé Rebecka. Alle undici e mezza arrivò Lars-Gunnar Vinsa. Senza Nalle. Rimase in piedi e si guardò attorno. Era come il vento nell'erba. Tutti erano influenzati dalla sua presenza. Mani alzate in segno di saluto, conversazioni interrotte e riprese a voce più bassa. Teste voltate. Lui registrò tutto. Poi si chinò sul bancone e chiese a Micke: «Quella Rebecka Martinsson, se n'è andata?» «No» disse Micke. «Sta lavorando qui.» Qualcosa nell'espressione di Lars-Gunnar lo spinse a continuare: «È solo per stasera, sapevo che ci sarebbe stata molta gente.» Lars-Gunnar piegò la sua statura da orso verso il bancone e invitò Micke a seguirlo in cucina. «Vieni, devo parlare con lei e voglio che ci sia anche tu.» Mimmi e Micke fecero in tempo a scambiarsi un'occhiata prima che lui e Lars-Gunnar entrassero in cucina. Cosa c'è?, avevano chiesto gli occhi di Mimmi. Che ne so, avevano risposto quelli di Micke. Di nuovo il vento nell'erba. Rebecka Martinsson stava sciacquando i piatti. «Rebecka, vieni un attimo sul retro con me e Micke, dobbiamo parlare» disse Lars-Gunnar. Uscirono. La luna come una scaglia di pesce sopra il fiume nero. I rumori attutiti del ristorante. Il fruscio del vento tra gli abeti. «Voglio che dici a Micke chi sei» disse calmo Lars-Gunnar. «Cosa vuoi sapere? Mi chiamo Rebecka Martinsson.» «Forse ci puoi dire cosa fai qui?» Rebecka lo guardò. Se c'era una cosa che aveva imparato nel suo lavoro era non parlare a vanvera. «Si direbbe che tu abbia in mente qualcosa» disse. «Parla chiaro.» «Sei di queste parti, o meglio di Kurravaara. Lavori come avvocato e sei stata tu a uccidere quei tre pastori due anni fa.» Due pastori e un ragazzo malato, lo corresse mentalmente. Ma non disse una parola. «Credevo che fossi una segretaria» disse Micke.
«Capirai che qui in paese siamo curiosi» disse Lars-Gunnar. «Perché un avvocato dovrebbe lavorare in cucina sotto mentite spoglie? Quello che guadagni questa sera è quanto spendi per un pranzo in città. Viene da chiedersi perché ti sei intrufolata qui... per ficcare il naso, forse. Sai, a dire la verità non mi importa. La gente è libera di fare quello che vuole, ma credo che Micke abbia il diritto di saperlo. E poi...» Distoglie lo sguardo e lo fissa sul fiume, sbuffando. Gli cala addosso un peso. «... ti sei servita di Nalle. È solo un bambino. E hai avuto il coraggio di usarlo per farti accettare.» Mimmi comparve sulla porta. Micke le lanciò un'occhiata che la fece restare lì in silenzio. «Il tuo nome mi diceva qualcosa» proseguì Lars-Gunnar. «Sono un ex poliziotto, sai, quindi conosco bene tutta la storia di Jiekajärvi. E poi la lampadina si è accesa. Hai ucciso quelle persone. Può anche essere che il procuratore non abbia ritenuto necessario procedere, ma devi sapere che per noi poliziotti non significa un bel niente. Nel novanta per cento dei casi, anche se si sa che qualcuno è colpevole, non si arriva nemmeno a un processo. Puoi ritenerti soddisfatta, cavarsela dopo aver commesso un omicidio non è da tutti. Non so cosa tu stia facendo qui. Forse ci hai preso gusto con la storia di Viktor Strandgård e giochi a fare l'investigatrice privata, oppure lavori per qualche giornale. A dire la verità me ne frego. Ma ora la mascherata è finita.» Rebecka li guardò. Dovrei dire qualcosa, pensò. Difendermi. Ma cosa avrebbe potuto dire? Che per qualche giorno era riuscita a pensare a qualcosa di diverso che cucirsi delle pietre nelle tasche? Che non riusciva più a fare l'avvocato? Che apparteneva a quel fiume? Che aveva salvato la vita alle figlie di Sanna Strandgård? Si slacciò il grembiule e lo tese a Micke, poi si voltò senza dire una parola. Non tornò nel locale, andò direttamente al suo bungalow. Non correre!, si ordinò. Si sentiva i loro sguardi nella schiena. Nessuno la seguì pretendendo una spiegazione. Raccattò le sue cose e le infilò nella borsa, la gettò sul sedile posteriore della macchina e se ne andò. Non piangeva. Che importanza ha?, si chiese. Queste persone non significano niente per me. Niente e nessuno significa qualcosa.
Zampe Gialle È un febbraio gelido. Le giornate si allungano, ma il freddo è come la mano inclemente di Dio. Non allenta la presa. Il sole è soltanto un disco nel cielo, l'aria è ghiaccio solido. Sotto lo spesso manto bianco, topi e arvicole riprendono a tracciare le loro strade. Gli ungulati rosicchiano la corteccia ghiacciata degli alberi. Dimagriscono e aspettano la primavera. Ma una temperatura di quaranta gradi sotto zero o una tempesta di neve che sommerge il paesaggio in un'unica, lenta onda di desolazione non preoccupano certo il branco di lupi. Anzi, è il loro periodo migliore. Il tempo perfetto. Il cibo non gli manca. Hanno un territorio ampio e una buona riserva di caccia. Niente caldo fastidioso. Niente insetti succhiasangue. Il tempo a disposizione di Zampe Gialle è finito. Le zanne scintillanti della femmina alfa dicono che è arrivato il momento. Zampe Gialle ha fatto tutto quello che poteva. Ha strisciato sulle ginocchia implorando di poter restare. Ma quella mattina di febbraio è arrivato il momento. Non le è più permesso avvicinarsi alla famiglia. La femmina alfa la scaccia. Le sue mandibole si chiudono nell'aria con uno schiocco secco. Le ore passano. Zampe Gialle non rinuncia del tutto, rimane a poca distanza dal branco. Spera in un segno che le dica che può tornare, ma la capobranco è irremovibile. Si alza in continuazione a scacciarla. Uno dei maschi, fratello di Zampe Gialle, distoglie lo sguardo. Lei vorrebbe affondare il naso nel suo pelo, dormire sulla sua spalla. I piccoli la guardano con la coda bassa. Le sue zampe gialle vorrebbero dar loro la caccia fra i pini, fare dietrofront a velocità folle e farsi inseguire a loro volta nella neve. I piccoli presto avranno un anno, capiscono a sufficienza quello che sta succedendo per tenersi in disparte. Ringhiano incerti. Vorrebbe deporre ai loro piedi una lepre ferita e vederli partire al suo inseguimento in preda alla frenesia della caccia, scavalcandosi a vicenda per l'entusiasmo. Tenta un'ultima volta. Fa un passo esitante. Questa volta la femmina alfa la insegue fino al limitare del bosco, sotto i rami nudi dei vecchi pini. Zampe Gialle resta lì a guardarla mentre torna al branco. Ora dovrà dormire da sola. Prima ha sempre dormito circondata dai rumori del branco, i grugniti, i sospiri, le flatulenze. Ora le sue orecchie faranno la guardia mentre lei scivolerà in un inquieto dormiveglia. Ora odori sconosciuti riempiranno le sue narici. Scacceranno il ricordo
delle sorelle e dei fratelli, dei cuccioli e dei vecchi lupi. Si incammina a un trotto lento. Il passo in una direzione. Il desiderio nell'altra. Qui ha vissuto finora. Lì sopravviverà. Domenica 10 settembre È domenica sera. Rebecka Martinsson è seduta sul pavimento della camera da letto a casa di sua nonna a Kurravaara. Ha acceso la stufa. Un plaid sulle spalle, le braccia attorno alle ginocchia. Di tanto in tanto si allunga a prendere un pezzo di legno da una cassetta dello Zuccherificio Svedese. Lo sguardo fisso sul fuoco. Ha i muscoli indolenziti. Durante il giorno ha portato fuori tappeti, coperte, materassi e cuscini. Li ha battuti e lasciati all'aria. Ha lavato il pavimento e pulito i vetri delle finestre. Ha lavato tutti i piatti e i bicchieri e ha spolverato la credenza della cucina. Ha aperto il piano di sotto, lasciando le finestre spalancate tutto il giorno per far uscire l'aria chiusa e viziata. Ora ha acceso il fuoco sia nella cucina economica che nella stufa per scacciare le ultime tracce di umidità. Ha comunque santificato il giorno di riposo. Almeno il cervello ha riposato davvero. Ora continua a farlo fissando il fuoco. Come si faceva una volta. L'ispettore di polizia Sven-Erik Stålnacke è seduto in soggiorno. La tv è accesa senza sonoro, nel caso ci sia qualche gatto che miagola fuori. Non ha importanza, tanto quel film lo ha già visto. C'è Tom Hanks che si innamora di una sirena. Senza il gatto la casa è vuota. Ha fatto un lungo giro chiamandolo a bassa voce. Ora si sente molto stanco. Non tanto per la camminata ma per tutto quell'aguzzare le orecchie. Per la continua attenzione, anche se sapeva che non sarebbe servito a niente. E non un segno di vita da parte del pastore scomparso. Già sabato la notizia era arrivata ai due giornali della sera, che avevano dedicato il paginone centrale alla sua sparizione. C'era un commento di qualcuno del gruppo di profiling criminale della polizia di Stoccolma, ma non della psichiatra che li aveva già aiutati in precedenza. Uno dei due giornali aveva ripescato un vecchio caso degli anni settanta in Florida, un pazzo che aveva ucciso due predicatori. In seguito l'assassino era stato ucciso da un compagno di cella mentre puliva i bagni, ma durante la reclusione si era vantato di avere commesso altri omicidi per cui non era stato condannato. Grandi foto di Stefan Wikström. Nella didascalia spiccavano le parole «prete», «padre di
tre bambini» e «moglie disperata». Non un accenno alla sospetta appropriazione indebita, grazie a Dio. Sven-Erik notò che non veniva detto nemmeno che Stefan Wikström era un oppositore delle donne pastore. Ovviamente non c'erano risorse sufficienti per proteggere tutti i preti e i pastori della zona. I colleghi si erano demoralizzati dopo che uno dei giornali aveva scritto: «La polizia: Non possiamo proteggerli!» L'Expressen dava consigli a chi si sentiva minacciato: non rimanere soli, modificare le proprie abitudini, cambiare strada per andare al lavoro, chiudere sempre la porta a chiave, non parcheggiare accanto a macchine malridotte. Ovviamente si trattava di un pazzo. Uno di quelli che vanno avanti fino a quando hanno la sfortuna di farsi prendere. Sven-Erik pensa a Manne. Una scomparsa in un certo senso è peggio della morte. Non si può piangere qualcuno scomparso. Ci si può solo tormentare nel dubbio. La testa come un immondezzaio di ipotesi inquietanti. Dio santo, Manne è solo un gatto. Se si trattasse di sua figlia... L'idea è troppo grande. Non riesce ad afferrarla. Il parroco Bertil Stensson è seduto sul divano del soggiorno. Un cognac appoggiato sul davanzale alle sue spalle. Il braccio destro sullo schienale del divano, attorno alle spalle di sua moglie. Con la mano sinistra le accarezza il seno. Lei non stacca gli occhi dalla tv, c'è un vecchio film con Tom Hanks, ma le sue labbra formano un sorriso di approvazione. In realtà il pastore sta carezzando un seno e una cicatrice. Ricorda l'ansia di lei quattro anni prima, quando l'avevano operata. «Si vuole essere desiderate fino a sessant'anni» aveva detto. Ma ormai ama quella cicatrice più del seno di cui ha preso il posto. Un memento della brevità della vita. Prima che le vostre caldaie sentano i pruni, vivi li travolga il turbine. Quella cicatrice riporta le cose alle giuste proporzioni. Lo aiuta a mantenere l'equilibrio tra lavoro e tempo libero, tra dovere e amore. A volte ha pensato di tenere una predica su quella cicatrice, ma naturalmente non è possibile. In qualche modo misterioso, sarebbe una sorta di violazione. Perderebbe la sua influenza, se ne parlasse. È la cicatrice che tiene la sua predica a Bertil. Non ha alcun diritto di impadronirsene. Ne aveva parlato solo con Mildred, quattro anni prima. Non con Stefan. Non con il vescovo, anche se sono amici da molti anni. Gli sembra di ricordare di avere pianto. E che Mildred era stata una buona ascoltatrice. Che aveva sentito di potersi fidare di lei. Lo faceva impazzire. Ma ora che passa l'indice della mano sinistra sulla
cicatrice di sua moglie, non sa più perché lo facesse infuriare tanto. Che importanza aveva se era una femminista e non si rendeva conto di quali fossero le attività pertinenti alla chiesa. Lo squalificava come capo. All'epoca la cosa gli dava molto fastidio. Non chiedeva mai permesso, non chiedeva mai consiglio. Faceva fatica a stare nei ranghi. Si sorprende delle parole che ha scelto, "stare nei ranghi". Non è un capo del genere. Si vanta di saper lasciare autonomia e libertà ai suoi sottoposti. Ma rimane pur sempre un capo. A volte aveva avuto bisogno di rimarcarlo. Come la storia del funerale di quell'uomo che aveva lasciato la chiesa. L'anno prima di ammalarsi aveva ripreso a frequentare le funzioni di Mildred. Poi era morto, lasciando detto di volere che fosse Mildred a celebrare il suo funerale. E lei aveva celebrato una cerimonia laica. Naturalmente Bertil avrebbe potuto chiudere un occhio su quella piccola infrazione, invece l'aveva denunciata al capitolo episcopale e Mildred era stata convocata dal vescovo. Se l'era meritato, pensava allora. Perché altrimenti bisognerebbe avere delle regole se poi non le si segue? Era tornata al lavoro come se niente fosse. Non aveva fatto il minimo riferimento al colloquio con il vescovo. Non sembrava affatto irritata, arrabbiata o offesa. Il che fece venire a Bertil il dubbio che il vescovo fosse dalla sua parte. Che le avesse detto che era stato costretto a convocarla e a darle una lavata di capo perché Bertil aveva insistito. Che i due avessero silenziosamente concluso che Bertil era suscettibile, insicuro della sua leadership e forse anche un po' geloso. Perché non avevano chiesto che lo celebrasse lui il funerale. Non capita spesso che qualcuno si dedichi sul serio a un esame interiore, ma Bertil siede in confessione davanti alla cicatrice. È vero. È vero che era un po' geloso. Un po' arrabbiato per quell'amore incondizionato di cui Mildred era oggetto da parte di molti. «Mi manca» dice a sua moglie. Gli manca e la piangerà a lungo. Sua moglie non gli chiede di chi sta parlando. Si disinteressa del film e abbassa il volume. «Non l'ho sostenuta abbastanza quando lavorava per me» prosegue Bertil. «Non è vero» lo contraddice la moglie. «L'hai lasciata libera di lavorare come voleva. Sei riuscito a tenere insieme lei e Stefan, è stata un'impresa.»
I due preti litigiosi. Bertil scuote la testa. «Sostienila adesso, allora» gli suggerisce sua moglie. «Ha lasciato in sospeso tante cose. Prima poteva occuparsene da sola, ora ha più bisogno che mai del tuo appoggio.» «E come?» risponde ridendo. «La maggior parte delle donne del gruppo Maddalena mi vede come il nemico in persona.» Sua moglie gli sorride. «Puoi aiutare e sostenere anche senza ricevere in cambio gratitudine o amore. Puoi prenderne un po' da me, invece.» «Forse dovremmo andare a letto» propone il pastore. La lupa, pensa sedendosi a pisciare. Mildred avrebbe voluto usare i soldi della fondazione per tenerla sotto osservazione durante l'inverno. Non appena gli viene in mente quell'idea, il bagno sembra quasi carico d'elettricità. Sua moglie lo chiama dalla camera da letto. «Arrivo» risponde. Non osa quasi farlo a voce alta. La presenza è così palpabile in quel momento. Ma fuggevole. Cosa vuoi?, chiede. E Mildred si avvicina. Tipico di quella donna. Proprio mentre è seduto sulla tazza con i pantaloni abbassati. Sono in chiesa tutto il giorno, la rimprovera lui. Avresti potuto cercarmi là. E in quel momento capisce esattamente cosa deve fare. I soldi della fondazione non sono sufficienti. Ma rinegoziando la concessione venatoria... O il circolo della caccia inizia a pagare al prezzo di mercato o troveranno un altro affittuario. E i soldi andranno alla fondazione. La sente sorridere. Sa cosa vuole da lui. Avrà contro tutti gli uomini del paese, ci saranno polemiche e lettere ai giornali. Ma sa che può farcela. Può tirare dalla sua parte il consiglio parrocchiale. Lo farò, le promette. Non perché ritenga che sia giusto. Per te. Lisa Stöckel ha acceso un fuoco in cortile. I cani sono in casa e dormono nelle loro cucce. Maledetti selvaggi, pensa con affetto. Ora ne ha quattro. Il suo massimo è stato cinque. C'è Bruno, un german pointer a pelo corto. Tutti lo chiamano "il tede-
sco" per i suoi modi controllati e l'austerità quasi militare. Quando Lisa prende lo zaino e i cani capiscono che faranno una lunga passeggiata, nell'ingresso si scatena una vera e propria baraonda. Abbaiano, danzano, latrano, guaiscono e lanciano ululati di gioia. Quasi la gettano a terra, calpestano lo zaino. La guardano con occhi che dicono: veniamo anche noi, vero, non te ne andrai senza di noi? Tutti tranne "il tedesco". Lui resta seduto come una statua al centro della stanza, apparentemente indifferente. Ma se ci si china a osservarlo più da vicino, si vede una vibrazione sotto la pelle. Un tremore quasi impercettibile di eccitazione trattenuta. E se alla fine diventa troppo, se proprio deve dare sfogo alle sue emozioni per non scoppiare, batte le zampe anteriori sul pavimento, due volte. Quello è il segnale che è davvero eccitato. Poi naturalmente c'è Majken. La sua vecchia femmina di labrador. Ma negli ultimi tempi non è molto in forma. Ingrigita e stanca. Majken li ha allevati tutti, da quella amante dei cuccioli che è. I nuovi arrivati potevano sempre dormire sulla sua pancia, diventava la loro nuova mamma. E se non aveva un piccolo di cui occuparsi, le veniva una gravidanza isterica. Fino a due anni prima le poteva capitare di tornare a casa e trovare il letto completamente disfatto. Tra i cuscini e le coperte c'era Majken con i suoi cuccioli fittizi: una pallina da tennis, una scarpa, e una volta che aveva avuto particolarmente fortuna un peluche trovato nel bosco. Poi c'era Karelin, un massiccio incrocio tra un pastore tedesco e un terranova. Era arrivato da Lisa a tre anni. Il veterinario di Kiruna le aveva telefonato per chiederle se lo voleva. Avrebbe dovuto sopprimerlo, ma il proprietario avrebbe preferito trovargli un nuovo padrone. Non era adatto alla vita in città. «Non ho difficoltà a crederlo» aveva aggiunto il veterinario. «Mi sembra di averlo visto passare per strada trascinando il padrone al guinzaglio.» Infine Spy-Morris, il suo springer spaniel norvegese, figlio di campioni da esposizione. Un talento del tutto sprecato con quella banda di selvaggi e Lisa, che non va nemmeno a caccia. Adora sedersi accanto a lei a farsi accarezzare il petto, ha l'abitudine di appoggiarle pesantemente le zampe sulle ginocchia per ricordarle la sua presenza. Un sovrano gentile e magnanimo. Pelliccia di seta come una signorina e orecchie pelose, soffre di mal d'auto. Ora sono tutti e quattro in casa. Lisa getta sul fuoco tutto il possibile e l'immaginabile. Trapunte e vecchie coperte, libri e una parte dei mobili. Carte. Altre carte. Lettere. Vecchie fotografie. Ne risulta un falò impres-
sionante. Lo sguardo di Lisa si perde tra le fiamme. Alla fine era diventato così faticoso amare Mildred. Nascondersi, tacere, aspettare. Litigavano come in un dramma di Norén. Si litiga nella cucina di Lisa. Mildred chiude le finestre. Quella è la cosa più importante, pensa Lisa. Che nessuno senta. Lisa butta fuori tutto. Tutte le parole sono uguali. Ne è già stanca prima ancora di averle pronunciate. Parole su Mildred che non la ama. Sul fatto che è stanca di essere il suo passatempo. Stanca di quell'ipocrisia. Lisa è in piedi al centro della stanza. Ha voglia di lanciare oggetti. La disperazione la rende stridula. Non è mai stata così prima d'ora. E Mildred sembra farsi piccola piccola. È seduta sul divano stretta a Spy-Morris. Anche Spy-Morris si fa piccolo piccolo. Mildred lo accarezza come se consolasse un bambino. «E la congregazione?» chiede. «E Maddalena? Se vivessimo apertamente insieme, sarebbe tutto finito. Sarebbe la dimostrazione definitiva che odio gli uomini. Non posso mettere alla prova la gente oltre il suo limite di sopportazione.» «Perciò preferisci sacrificare me?» «No, perché dev'essere per forza così? Sono felice. Ti amo, posso dirtelo mille volte, ma tu vuoi delle prove.» «Non si tratta di prove, si tratta di poter respirare. Il vero amore vuole essere visto. Ma è questo il problema. Tu non vuoi, tu non mi ami. Maddalena è solo una dannata scusa per tenere le distanze, Erik forse può accettare una cosa del genere, ma io no. Trovati un'altra amante, sicuramente ce ne sono molte disponibili.» Ora Mildred si mette a piangere. La sua bocca cerca di opporre resistenza. Preme il viso contro il cane, si asciuga le lacrime con il dorso della mano. Era lì che voleva condurla Lisa. Anzi, avrebbe addirittura voglia di picchiarla. Vuole le sue lacrime e la sua sofferenza, ma non è soddisfatta. Il suo dolore ha ancora fame. «Smettila di frignare» dice in tono duro. «Non significa niente per me.» «Adesso la smetto» promette Mildred come una bambina, con la voce incrinata e le mani che continuano ad asciugare le lacrime. E Lisa, che si è sempre autoaccusata di non essere capace di amare, pronuncia la loro condanna: «Ti piace autocompatirti, tutto qui. Credo che ci sia qualcosa che non va in te. Ti manca qualcosa. Dici di amarmi, ma non
si può aprire una persona per vedere cosa ha davvero dentro. Avrei potuto abbandonare tutto, sopportare tutto. Volevo sposarti. Ma tu... tu non puoi provare amore. Né dolore.» Allora Mildred alza gli occhi. Sul tavolo della cucina c'è una candela accesa in una bugia d'ottone. Posa la mano sulla fiamma, si brucia il palmo. «Non so come dimostrarti che ti amo» dice. «Ma posso dimostrarti che so cos'è il dolore.» Stringe la bocca in una smorfia di sofferenza. Le lacrimano gli occhi. Un odore disgustoso si diffonde in cucina. Alla fine, dopo un tempo apparentemente lunghissimo, Lisa afferra il polso di Mildred e le allontana la mano dalla candela. La ferita aperta, la carne nuda e annerita. Lisa la guarda terrorizzata. «Devi andare in ospedale» dice. Ma Mildred scuote la testa. «Non lasciarmi» implora. Ora piange anche Lisa. Conduce Mildred alla macchina, le fissa la cintura come se fosse una bambina che non sa farlo da sola, torna in cucina a prendere un pacco di spinaci surgelati e glieli preme sulla ferita. Due settimane dopo litigano di nuovo. Di tanto in tanto Mildred mostra a Lisa l'interno della mano fasciata. Come per caso, sistemandosi i capelli dietro l'orecchio o cose del genere. È un segno d'amore segreto. Ora è buio. Lisa smette di pensare a Mildred e va nel pollaio. Le galline dormono sui loro trespoli, accostate le une alle altre. Le prende e le porta in cortile una a una, tenendole strette a sé. Così la gallina si sente al sicuro e chioccia appena. Un blocco di legno farà da ceppo. Le afferra rapidamente per le zampe, un colpo contro il ceppo per renderle incoscienti. Poi solleva l'ascia, la mano appena sotto la lama, il colpo, uno solo, secco, preciso. Tiene la gallina per le zampe mentre agita le ali, con gli occhi chiusi per non farci entrare piume o polvere. In totale sono dieci galline e un gallo. Non li seppellisce. Tanto i cani li disseppellirebbero immediatamente. Li getta nel bidone dell'immondizia. Lars-Gunnar torna a casa nel buio. Nalle dorme sul sedile accanto a lui. Sono stati nel bosco tutto il giorno. Ora ha molti pensieri che gli ronzano in testa. Vecchi ricordi. All'improvviso si vede davanti Eva, la madre di Nalle. È appena tornato a casa dal lavoro. Ha fatto il turno pomeridiano ed è già buio, ma lei non
ha acceso le luci. Quando arriva la trova al buio, appoggiata alla parete dell'ingresso. È un comportamento così strano che è costretto a chiederle: «Cosa c'è?» E lei risponde: «Io qui muoio, Lars-Gunnar. Mi dispiace, ma io qui muoio.» Cosa avrebbe dovuto fare? Come se non fosse stanco morto anche lui. Stava tutto il giorno al lavoro ad affrontare miserie di ogni genere. Poi tornava a casa a occuparsi di Nalle. Ancora oggi non capisce come lei impiegasse tutto il suo tempo. I letti non erano mai fatti, raramente trovava la cena pronta. Era andato a dormire. Le aveva chiesto di salire, ma lei non aveva voluto. La mattina dopo era sparita. Aveva preso solo la borsetta. Non lo riteneva nemmeno degno di una lettera. Poi lui aveva eliminato dalla casa la sua presenza. Aveva infilato tutte le sue cose in alcuni scatoloni e li aveva messi in soffitta. Dopo sei mesi, Eva aveva telefonato. Voleva parlare con Nalle. Lui le aveva spiegato che non era possibile, lo avrebbe solo messo in agitazione. Le aveva spiegato che nei primi tempi l'aveva cercata piangendo, ma ora andava meglio. Le aveva raccontato come stava il bambino, le aveva mandato dei disegni. Si accorgeva che la gente del paese pensava che fosse troppo buono. Troppo indulgente. Ma non le voleva male. A cosa sarebbe servito? E le assistenti sociali parlavano di mandare Nalle in una casa famiglia. «Può trasferirsi là per qualche tempo» dicevano. «Così tu potresti tirare un po' il fiato.» Era andato a dare un'occhiata a quella dannata casa famiglia. Faceva venire la depressione solo a entrarci. Tutto era deprimente. La bruttezza di ogni oggetto che strillava "istituto" o "casa di cura per pazzi, ritardati e disabili". Le decorazioni realizzate dagli stessi residenti, formine di gesso, mosaici di perline e orribili quadri in cornici a buon mercato. E le chiacchiere del personale. I loro grembiuli a righe. Ricordava di avere guardato una delle inservienti, non poteva essere più alta di un metro e cinquanta. Aveva pensato: e tu dovresti metterti in mezzo se scoppia qualche lite? Nalle era grande e grosso ma non sapeva difendersi. «Mai» aveva detto Lars-Gunnar alle assistenti sociali. Avevano cercato di insistere. «Hai bisogno di un aiuto» avevano detto. «Devi pensare a te stesso.» «No» aveva risposto. «Perché? Perché dovrei pensare a me stesso? Io penso al ragazzo. Sua madre pensava a se stessa, guardate un po' quanto
bene ce n'è venuto.» Ora sono a casa. Lars-Gunnar rallenta prima di entrare in cortile. Controlla la situazione. Si vede piuttosto bene alla luce della luna. Nel portabagagli ha il fucile per alci. Carico. Se c'è una macchina della polizia proseguirà dritto, anche se lo scoprono avrà un minuto di tempo prima che facciano in tempo ad accendere il motore e uscire in strada. Be', almeno trenta secondi. E basterebbero. Ma il cortile è vuoto. Sotto la luna vede un gufo in volo di ricognizione sopra la riva del fiume. Parcheggia la macchina e tira indietro più che può il sedile del guidatore. Non vuole svegliare Nalle. Si sveglierà da solo tra qualche ora. Allora andranno a letto. Ora chiude gli occhi un momento anche lui. Zampe Gialle Zampe Gialle si allontana trotterellando dal suo territorio. Non ci può più stare. Entra nel territorio di un altro branco. Nemmeno lì si può fermare, è molto pericoloso. I confini sono ben marcati. I segnali olfattivi come filo spinato fra i tronchi. Tra l'erba alta che spunta dalla neve corre un muro di odori, hanno spruzzato urina e scavato con le zampe posteriori. Ma deve passare, deve andare a nord. Le prime tappe vanno lisce. Corre a stomaco vuoto. Piscia in basso, appiattendosi al suolo perché il suo odore non si diffonda, forse ce la fa. Ha il vento alle spalle, è un vantaggio. La mattina dopo fiutano la sua pista. Due chilometri dietro di lei, cinque lupi affondano il naso nelle sue tracce e partono all'inseguimento. Si alternano alla testa della muta e ben presto stabiliscono un contatto visivo. Zampe Gialle si accorge di loro. Ha attraversato un fiume e quando si volta li vede sull'altra sponda, a meno di un chilometro di distanza. Ora corre per la sua vita. Sa che gli intrusi vengono uccisi immediatamente. La lingua le penzola dalla bocca aperta. Le lunghe zampe affondano nella neve, la pista che segue non è battuta. Poi trova le tracce di una motoslitta che vanno nella direzione giusta. Gli altri continuano ad avvicinarsi, ma non più così rapidamente. Quando arrivano a trecento metri da lei si bloccano di colpo. L'hanno scacciata dal loro territorio. Se l'è cavata.
Ancora un chilometro, poi si sdraia. Mastica un po' di neve. La fame la rode come un topo nello stomaco. Prosegue il viaggio verso nord. Poi, dove il Mar Bianco separa la penisola di Kola dalla Carelia, svolta verso nord-ovest. La fine dell'inverno le fa compagnia. Diventa difficile correre. Boschi. Alberi centenari e anche più vecchi. Conifere fino a metà del cielo. Alcune sono spelacchiate quasi fino in cima, dove le braccia verdi formano un tetto che oscilla cigolando. Il sole penetra a fatica, non riesce ancora a sciogliere la neve. Chiazze di luce e acqua che stilla dalla cima degli alberi. È tutto un gocciolio, un mormorare d'acqua. C'è odore di primavera e d'estate. Ora si può fare qualcosa di più che limitarsi a sopravvivere. Gli uccelli fanno sentire i loro pesanti colpi d'ala, le volpi escono sempre più spesso dalle tane, i topi e le arvicole corrono sul ghiaccio mattutino. E un silenzio improvviso quando tutto il bosco si ferma, annusa l'aria e ascolta la lupa che passa. Solo il picchio continua il suo ostinato tamburellare sui tronchi. Anche il gocciolio non si ferma. La primavera non ha paura dei lupi. Paludi. La fine dell'inverno è un corso d'acqua sotto un manto di neve ormai fradicia, che al minimo tocco si trasforma in un pantano. A ogni passo si affonda. La lupa inizia a viaggiare di notte, quando la crosta che si forma regge il suo peso. Di giorno si accampa in un avvallamento o sotto un pino. In guardia anche nel sonno. La caccia è molto diversa senza il branco. Cattura lepri e altra piccola selvaggina. Non gran che, nello stomaco di un lupo in trasferimento. Anche i rapporti con gli altri animali sono diversi. Volpi e corvi si accodano volentieri ai branchi di lupi. Le volpi mangiano i resti della loro mensa, i corvi sparecchiano la tavola. E prima gridano dagli alberi: «Ecco una preda! Ecco un cervo in calore! Tutto preso a lucidarsi le corna contro un albero! Prendetelo, prendetelo!» Un corvo annoiato può perfino lanciarsi su un lupo addormentato, beccarlo in testa e indietreggiare di qualche passo. Saltellando nel modo goffo e ridicolo dei volatili. Il lupo fa un balzo. Il corvo prende il volo all'ultimo secondo. A volte vanno avanti a divertirsi così per un bel po', il nero e il grigio. Ma un lupo solitario non è un compagno di giochi. Non disdegna nessuna preda, non ha voglia di giocare con gli uccelli, non spartisce volentieri il suo cibo.
Una mattina sorprende una femmina di volpe nella sua tana. Vede parecchie buche in un pendio, una è nascosta sotto una grossa radice. Solo l'odore e un po' di terra smossa tradiscono la sua presenza. È da lì che esce la volpe. La lupa la vede sporgere la testa, il corpo sottile, e si immobilizza, si blocca lì dov'è, la volpe deve uscire ancora un po', ma appena volta la testa da quella parte può vederla. Un balzo. Come se fosse un felino. Uno schianto tra i rami e le frasche di un piccolo pino caduto. Taglia la volpe in due, frantumandole la spina dorsale. La divora con avidità, tiene fermo il corpo con una zampa e inghiotte il poco che c'è. Subito viene raggiunta da due corvi che cercano di sottrargliene una parte. Uno rischia la vita, avvicinandosi tanto da indurla ad attaccare, mentre l'altro ruba rapidamente un pezzo di carne. Cerca di morderli mentre scendono in picchiata attorno alla sua testa, ma senza mai togliere le zampe dal cadavere della volpe. Dopo avere inghiottito anche l'ultimo boccone, passa da un'apertura all'altra annusando l'aria. Se la volpe avesse avuto dei piccoli e non fossero troppo in profondità, potrebbe tirarli fuori scavando, ma non c'è niente. Poi riprende a correre nella sua direzione. Le zampe di un lupo solitario non si fermano mai. Lunedì 11 settembre «Sembra quasi che l'abbia inghiottito la terra.» Anna-Maria Mella guardò i suoi colleghi. Erano in riunione nell'ufficio del procuratore. Avevano appena constatato che non c'erano tracce del prete scomparso. Calò il silenzio per una decina di secondi. L'ispettore Fred Olsson, il procuratore capo Alf Björnfot, Sven-Erik Stålnacke e l'ispettore Tommy Rantakyrö avevano l'aria abbattuta. Era proprio quella l'ipotesi peggiore, che fosse stato inghiottito dalla terra. Sepolto da qualche parte. Sven-Erik aveva l'aria più abbattuta di tutti. Era arrivato per ultimo alla riunione, e non era da lui. Aveva un cerotto macchiato di sangue sul mento. Il tipico segno maschile di una brutta mattinata. Nella fretta, i peli sotto il pomo d'adamo erano sfuggiti al rasoio e spuntavano dalla pelle come spessi steli grigi. All'angolo della bocca aveva dei resti di schiuma da barba secca. «Bah, per il momento resta una semplice scomparsa» disse il procurato-
re. «Dopo tutto è un ecclesiastico e ha saputo che stavamo indagando su quel viaggio negli Stati Uniti a spese della fondazione. Può essere sufficiente per darsi alla fuga. Il timore di vedere infangata la reputazione. Forse salterà fuori all'improvviso.» Calò di nuovo il silenzio. Alf Björnfot si guardò attorno. Era una squadra decisamente demotivata. Sembrava quasi che non aspettassero altro che saltasse fuori il cadavere del prete, completo di tracce e di prove, in modo da dare nuovo impulso all'indagine. «Cosa sappiamo delle ore che hanno preceduto la scomparsa?» chiese poi. «Ha chiamato la moglie dal cellulare alle sette meno cinque di venerdì sera» disse Fred Olsson. «Poi ha coordinato la riunione del gruppo giovanile, ha chiuso la sala e ha celebrato la funzione serale alle nove e mezza. È scomparso subito dopo le dieci senza che nessuno lo vedesse.» «La macchina?» chiese il procuratore. «È parcheggiata dietro l'ufficio parrocchiale.» Era un percorso così breve, si disse Anna-Maria. Dalla sala del gruppo giovanile al retro dell'ufficio parrocchiale non c'era più di un centinaio di metri. Ricordava una donna scomparsa qualche anno prima. Una donna con due bambini, che era uscita per dare da mangiare ai cani in cortile. Ed era sparita. La sincera disperazione del marito e la certezza sua e di tutti gli altri che non avrebbe mai lasciato i figli di sua spontanea volontà avevano fatto propendere la polizia per una sparizione. L'avevano trovata sepolta nel bosco dietro casa. L'aveva uccisa il marito. Ma Anna-Maria all'epoca aveva pensato la stessa cosa. Un percorso così breve. «Cos'è emerso dai controlli delle telefonate, della posta elettronica e del conto in banca?» proseguì il procuratore. «Niente di particolare» rispose Tommy Rantakyrö. «L'ultima chiamata è stata quella alla moglie. Per il resto erano telefonate di lavoro ad alcuni membri della comunità e al parroco, al capo della squadra di caccia, alla sorella della moglie... Ho qui la lista delle chiamate con rispettivo argomento.» «Bene» disse Alf Björnfot in tono incoraggiante. «Cos'hanno detto la sorella e il parroco?» chiese Anna-Maria. «Con la sorella ha parlato della moglie, aveva paura che potesse peggiorare di nuovo.»
«Ha scritto quelle lettere a Mildred Nilsson» disse Fred Olsson. «Sembra che i Wikström e la Nilsson fossero decisamente in conflitto.» «E con il parroco di cosa ha parlato?» insistette Anna-Maria. «Quando gliel'ho chiesto sembrava imbarazzato» rispose Tommy Rantakyrö. «Poi mi ha detto che Stefan era preoccupato perché avevamo preso i bilanci della fondazione.» Una ruga quasi impercettibile attraversò la fronte del procuratore, ma non disse una parola a proposito di procedura scorretta e sequestro non autorizzato di documenti. Commentò invece: «Il che potrebbe indicare che è scomparso volontariamente per paura di uno scandalo. Nascondere la testa nella sabbia è la reazione più comune in questi casi, credetemi. Per noi è ovvio che così peggiorano solo le cose, ma spesso non se ne rendono conto.» «Perché non ha preso la macchina?» chiese Anna-Maria. «Non può essere sparito a piedi. A quell'ora non partiva nessun treno. Né aereo.» «Potrebbe aver preso un taxi» tentò il procuratore. «Nessuna chiamata» rispose Fred Olsson. Anna-Maria lo guardò con approvazione. Cocciuto come un terrier, si disse. «Bene» disse il procuratore. «Tommy, tu...» «... busserai a tutte le porte attorno all'ufficio parrocchiale per chiedere se qualcuno ha visto qualcosa» concluse Tommy rassegnato. «Esattamente, e poi...» «... parlerai un'altra volta con i ragazzi del gruppo giovanile.» «Perfetto! Fred Olsson verrà con te. Sven-Erik» proseguì il procuratore. «Tu potresti chiamare il gruppo di profiling criminale e sentire cosa hanno da dirci.» Sven-Erik annuì. «Com'è andata con il disegno?» chiese poi il procuratore. «Ce l'ha la scientifica» disse Anna-Maria. «Non hanno ancora trovato niente.» «Bene! A meno che non succeda qualcosa di speciale, ci rivediamo domani mattina» concluse il procuratore piegando di scatto le stanghette degli occhiali e infilandoli nel taschino della camicia. E con ciò la riunione era chiusa. Prima di andare in ufficio, Sven-Erik passò da Sonja al centralino. «Se qualcuno telefona per dire che ha trovato un gatto tigrato grigio,
chiamami» disse. «È Manne?» Sven-Erik annuì. «Una settimana. Non è mai stato via così tanto.» «Terremo gli occhi aperti» promise Sonja. «Vedrai che torna. Fa ancora caldo. Starà facendo la corte a una gattina da qualche parte.» «È castrato» rispose cupo Sven-Erik. «Oh» commentò Sonja. «Lo dico alle ragazze.» La psichiatra del gruppo di profiling criminale rispose immediatamente. Sembrava contenta di sentire Sven-Erik. Peccato che fosse decisamente troppo giovane per illudersi. «Immagino che tu abbia letto i giornali» disse Sven-Erik. «Sì, lo avete trovato?» «No, è sempre irreperibile. Cosa ne pensi?» «Be', cosa ne pensi tu?» Sven-Erik cercò di mettere ordine nei suoi pensieri. «Dunque» iniziò. «Se supponiamo che sia come dicono i giornali...» «Cioè che Stefan Wikström sia stato ucciso e che si tratti di un assassino seriale» completò lei. «Esatto. In questo caso c'è qualcosa di strano.» La donna restò in silenzio, aspettando che Sven-Erik esplicitasse il concetto. «Voglio dire, è strano che sia scomparso. Se l'assassino ha impiccato la prima vittima all'organo, perché non ha fatto la stessa cosa con Stefan Wikström?» «Forse voleva prima ripulirlo. Su Mildred Nilsson avete trovato un pelo di cane, no? O forse voleva tenerlo per un po'.» Si interruppe per riflettere un attimo. «Mi dispiace» disse alla fine. «Quando salterà fuori il corpo, se salterà fuori, perché potrebbe anche essere scomparso volontariamente, ne riparleremo. Per vedere se c'è qualche elemento comune.» «D'accordo» disse Sven-Erik. «Può essere volontario. Dopo tutto non aveva la coscienza del tutto pulita a proposito di una certa fondazione. E ha saputo che stavamo indagando su quella piccola storia sporca.» «Piccola storia sporca?» «Sì, c'erano in ballo un centinaio di migliaia di corone, non di più. Dubito che si sarebbe mai arrivati a un processo. Si trattava di un viaggio di
formazione che in realtà era una vacanza in famiglia.» «Perciò, secondo te, non aveva motivo di scappare solo per questo?» «A dire la verità, no.» «A meno che non sia stata la vicinanza della polizia a spaventarlo.» «Cosa vuoi dire?» La donna rise. «Niente!» rispose con enfasi. All'improvviso tornò formale. «Vi auguro buona fortuna. Fatti sentire se ci sono novità.» Non appena riattaccò, Sven-Erik capì cosa aveva voluto dire. Se Stefan aveva ucciso Mildred... Il suo cervello protestò immediatamente. Proviamo a supporre per un attimo che sia andata così, si sforzò SvenErik. Allora l'avvicinarsi della polizia lo avrebbe sicuramente spaventato. Qualsiasi cosa stessimo cercando. Anche solo se avessimo voluto chiedergli l'ora. Il telefono di Anna-Maria squillò. Era la donna della libreria di fantascienza. «Ho trovato quel simbolo» disse senza perdere tempo. «Sì?» «È stato uno dei miei clienti a riconoscerlo. È sulla copertina di un libro intitolato The Gate, di una certa Michelle Moan, è uno pseudonimo. Non esiste la traduzione in svedese. Non ce l'ho, ma posso ordinarglielo, se vuole.» «Sì, grazie! Di cosa parla?» «Della morte. È un libro sui morti. Carissimo, cinquantadue sterline, più le spese di spedizione. In realtà ho già chiamato la casa editrice in Inghilterra.» «Sì?» «Ho chiesto se avevano ricevuto qualche ordine dalla Svezia. Hanno detto di sì, alcune copie. Una delle quali per Kiruna.» Anna-Maria Mella trattenne il fiato. Viva gli investigatori dilettanti. «Le hanno fatto qualche nome?» «Sì. Benjamin Wikström. Ho anche l'indirizzo.» «Non serve» urlò Anna-Maria nel ricevitore. «Grazie mille. La richiamerò.»
Sven-Erik era di nuovo da Sonja. Non era riuscito a trattenersi. «Cos'hanno detto le ragazze? C'è qualcuno che ha notizie del gatto?» La donna scosse la testa. Tommy Rantakyrö si materializzò all'improvviso alle spalle del collega. «Ti è sparito il gatto?» chiese. Sven-Erik borbottò un sì a denti stretti. «Si sarà trasferito a casa di qualcun altro» disse Tommy con noncuranza. «Sai come sono i gatti, non si affezionano a nessuno, sono solo nostre proiettaz... insomma, siamo noi che gli attribuiamo i nostri sentimenti. Non provano affetto, è scientificamente dimostrato.» «Che stronzate» grugnì Sven-Erik. «Ma è la verità» insistette Tommy senza fare caso alle occhiatacce di Sonja. «Sai, quando ti si strofinano contro le gambe come fanno loro. È solo per marchiarti con il loro odore, per indicare che sei una sorta di punto di ristoro di loro proprietà. Non sono animali sociali.» «Forse no» rispose Sven-Erik. «A ogni modo viene a dormire nel mio letto come un bambino.» «Perché è caldo. Per un gatto non sei altro che una coperta elettrica.» «Ma tu sei un amante dei cani» si intromise Sonja. «Non puoi parlare dei gatti.» Poi aggiunse rivolta a Sven-Erik: «Anch'io preferisco i gatti.» Nello stesso istante si spalancò la porta a vetri. Anna-Maria entrò di corsa, prese Sven-Erik per un braccio e lo trascinò fuori dal centralino. «Dobbiamo andare alla canonica di Jukkasjärvi» disse solamente. * Kristin Wikström aprì la porta in vestaglia e pantofole. Aveva il trucco colato sotto gli occhi. I capelli biondi erano tirati dietro le orecchie alla bell'e meglio. «Cerchiamo Benjamin» disse Anna-Maria. «Vorremmo parlare con lui. È in casa?» «Cosa volete?» «Parlare con lui» ripeté Anna-Maria. «È in casa?» La voce di Kristin Wikström salì di registro. «Cosa volete da lui? Perché volete parlargli?» «Suo padre è scomparso» rispose Sven-Erik in tono paziente. «È naturale che vogliamo fargli qualche domanda.»
«Non è a casa.» «Sa dov'è?» chiese Anna-Maria. «No, e dovreste cercare Stefan. Ecco cosa dovreste fare in questo momento.» «Possiamo vedere la sua stanza?» La madre chiuse gli occhi con aria stanca. «No.» «Allora ci scusi per averla disturbata» disse Sven-Erik con gentilezza, trascinando Anna-Maria verso la macchina. «Che idiota!» esclamò Anna-Maria mentre uscivano dal cancello. «Come ho fatto a essere così stupida da venire senza un mandato di perquisizione?» «Fermati un po' più in là e fammi scendere» disse Sven-Erik. «Poi va' a procurarti il mandato, più veloce che puoi, e torna subito qui. Voglio tenerla d'occhio.» Anna-Maria fermò la macchina e Sven-Erik scese. «Sbrigati» le disse. Sven-Erik tornò di corsa verso la canonica. Si fermò dietro il cancello, nascosto da un cespuglio di sorbo. Vedeva bene sia la porta che il camino. Se viene fuori del fumo, entro, si disse. Dopo un quarto d'ora uscì Kristin Wikström. Si era infilata un paio di jeans e un maglione. Teneva in mano un sacco della spazzatura chiuso e si dirigeva verso il bidone. Quando sollevò il coperchio girò la testa e vide Sven-Erik. Non gli restava altro da fare. Le si avvicinò tendendole una mano. «Faccia la brava» disse. «Me lo dia.» La donna gli porse il sacco senza una parola. Vide che si era data una spazzolata ai capelli e che si era messa un velo di rossetto. Poi iniziò a piangere. Niente smancerie, al massimo un fremito del volto, solo lacrime. Avrebbe anche potuto essere colpa di una cipolla. Sven-Erik aprì il sacco della spazzatura. C'erano dei ritagli di giornale su Mildred Nilsson. «Venga» disse attirandola a sé. «Mi dica dov'è.» «A scuola, ovviamente» rispose. Poi si lasciò abbracciare, piangendo muta contro la sua spalla. *
«Cos'hai in mente?» chiese Sven-Erik mentre Anna-Maria parcheggiava davanti alla scuola di Högalid. «Che abbia ucciso sia Mildred che suo padre?» «Non ho in mente niente. Ma ha un libro con lo stesso simbolo che c'è nel disegno minatorio spedito a Mildred. E un sacco di ritagli di giornale sul suo omicidio.» La preside della scuola era una bella donna sulla cinquantina. Era rotondetta, con una gonna al ginocchio e una giacca blu. Al collo aveva una sciarpa colorata a mo' di collana. A Sven-Erik bastò guardarla per tornare di buon umore. Gli piacevano le donne energiche. Anna-Maria spiegò che volevano che mandasse a chiamare Benjamin Wikström senza tanto chiasso. La preside consultò l'orario delle lezioni e chiamò al telefono l'insegnante che aveva la classe di Benjamin. Mentre aspettavano, chiese di cosa si trattasse. «Crediamo che abbia minacciato Mildred Nilsson, il pastore che è stato ucciso l'estate scorsa. Perciò dobbiamo fargli qualche domanda.» La preside scosse la testa. «Scusatemi» disse. «Ma ho qualche difficoltà a crederlo. Benjamin e i suoi amici hanno un aspetto spaventoso, è vero. Capelli corvini e viso bianchissimo. Gli occhi neri di trucco. E dovreste vedere che maglioni si mettono a volte! Lo scorso trimestre uno dei compagni di Benjamin aveva una felpa con uno scheletro che mangiava neonati.» Rise e alzò le spalle in un brivido simulato. Tornò seria quando vide che Anna-Maria non sorrideva. «Ma sono ragazzi per bene» proseguì. «Benjamin ha passato un brutto periodo l'anno scorso, ma gli affiderei tranquillamente i miei bambini. Se avessi bambini piccoli, voglio dire.» «In che senso ha passato un brutto periodo?» chiese Sven-Erik. «Andava male a scuola. Ed era molto... Vogliono solo distinguersi, con i vestiti e tutto il resto. A volte ho l'impressione che ostentino il loro senso di estraneità. Ma Benjamin non stava bene. Aveva un sacco di piccole ferite sulle braccia di cui staccava continuamente le croste, così che non guarivano mai. Ma dopo Natale qualcosa si è aggiustato. Si è messo con una ragazza e ha fondato un gruppo musicale.» Sorrise. «Dio santo. La primavera scorsa hanno suonato qui a scuola. Avevano trovato non so dove una testa di maiale contro cui si accanivano a colpi
d'ascia sul palco. Erano al settimo cielo.» «È bravo a disegnare?» chiese Sven-Erik. «Sì, in effetti sì» rispose la preside. Bussarono alla porta ed entrò Benjamin Wikström. Anna-Maria e Sven-Erik si presentarono. «Vogliamo farti qualche domanda» disse Sven-Erik. «Con voi non ci parlo» fu la risposta del ragazzo. Anna-Maria Mella sospirò. «Allora dobbiamo portarti in centrale, sei sospettato di minacce.» Lo sguardo a terra. I capelli davanti agli occhi. «Fate pure.» * «Be', proviamo a parlarci?» chiese Anna-Maria a Sven-Erik. Benjamin Wikström sedeva nella stanza numero uno. Non aveva pronunciato una sola parola da quando lo avevano fermato. Sven-Erik e AnnaMaria erano andati a prendere una tazza di caffè per loro e una coca per il ragazzo. Il procuratore Alf Björnfot gli andò incontro di corsa in corridoio. «Chi avete fermato?» ansimò. Gli spiegarono cos'era successo. «Quindici anni» disse il procuratore. «Dovrebbe essere accompagnato dalla madre.» Sven-Erik e Anna-Maria si scambiarono un'occhiata. «Portatela qui» disse il procuratore. «Intanto date al ragazzo qualcosa da mangiare, se ne vuole. E chiamate i servizi sociali. Manderanno anche un loro operatore. Poi chiamatemi.» E sparì. «Non voglio!» gemette Anna-Maria. «La vado a prendere» disse Sven-Erik. Un'ora dopo erano tutti nella sala interrogatori. Sven-Erik Stålnacke e Anna-Maria Mella sedevano a un lato della scrivania. Benjamin Wikström era di fronte a loro, con un'assistente sociale a sinistra e la madre a destra. Quest'ultima aveva gli occhi cerchiati di rosso. «Hai mandato tu questo disegno a Mildred Nilsson?» chiese Sven-Erik. «Avremo presto le impronte digitali. Se sei stato tu ti conviene parlarce-
ne.» Benjamin Wikström manteneva un silenzio ostinato. «Santo cielo» disse Kristin. «Cos'è questa storia, Benjamin? Come puoi comportarti così? È malsano!» «Forse dovremmo fare una piccola pausa» disse l'assistente sociale posando un braccio sulle spalle di Kristin. Sven-Erik annuì e spense il registratore. Kristin Wikström, l'assistente sociale e Sven-Erik uscirono. «Perché non vuoi parlare con noi?» chiese Anna-Maria. «Perché non capite niente» rispose Benjamin Wikström. «Non capite assolutamente niente.» «Lo dice sempre anche mio figlio. Ha la tua età. Conoscevi Mildred?» «Non è lei nel disegno. Non capite? È un autoritratto.» Anna-Maria guardò il disegno. Aveva dato per scontato che fosse Mildred. Ma anche il ragazzo aveva i capelli lunghi e neri. «Eri suo amico!» esclamò Anna-Maria. «È per questo che conservavi quei ritagli!» «Lei mi capiva» disse. «Lei mi capiva.» Dietro la cortina di capelli, alcune lacrime caddero sulla scrivania. Benjamin siede con Mildred nel suo ufficio in parrocchia. Stanno bevendo un infuso di olmaria con il miele. Gliel'ha portata una delle donne di Maddalena, che l'ha raccolta e seccata personalmente. Concordano ridendo sul fatto che ha un sapore orribile. Uno degli amici di Benjamin è stato cresimato da Mildred. È tramite lui che si sono conosciuti. The Gate è posato sulla scrivania di Mildred. «Cosa ne pensi ora che l'hai letto?» Il libro è spesso. Molto spesso. Un sacco di testo in inglese. E molte immagini a colori. Parla di "the gate to the unbuilt house, to the world you create". La porta della casa non ancora costruita, del mondo a cui dai forma. È un invito a costruire nella propria mente il mondo in cui si vuole vivere per l'eternità. Parla della strada per arrivarci. Il suicidio. Collettivo o singolo. La casa editrice inglese è stata denunciata da un gruppo di genitori dopo che quattro ragazzi si sono tolti la vita insieme nel 1998. «Mi piace l'idea di costruirsi il proprio paradiso» dice Mildred. Poi ascolta. Gli porge dei fazzoletti quando piange. Lo fa sempre quando
parla con Mildred. È la sensazione che a lei importi davvero che lo fa piangere. Le racconta di suo padre. C'è anche una buona dose di vendetta in questo. Nel parlarne proprio a Mildred che lui disprezza tanto. «Mi odia» dice. «Non ha importanza quello che faccio. Anche se mi tagliassi i capelli e mi vestissi bene e prendessi buoni voti e fossi eletto rappresentante di classe non sarebbe comunque soddisfatto. Lo so.» Bussano alla porta. Mildred assume un'espressione contrariata. Quando è accesa la luce rossa... La porta si apre ed entra Stefan Wikström. È il suo giorno libero. «Ah, sei qui» dice a Benjamin. «Prendi la giacca e va' a sederti in macchina.» Poi aggiunge rivolto a Mildred: «E tu evita di intrometterti nelle mie faccende di famiglia. Va male a scuola. Si veste da far vomitare. Svergogna la sua famiglia come meglio può. Con il tuo sostegno, vedo. Lo inviti a prendere il tè quando marina la scuola. Hai sentito cosa ti ho detto? Prendi la giacca e va' in macchina.» Punta il dito sull'orologio al polso. «Hai lezione di svedese, ti porto a scuola.» Benjamin resta seduto. «Tua madre è a casa che piange. La tua responsabile di classe ha chiamato per chiedere dove fossi. Fai star male la mamma. È questo che vuoi?» «Benjamin voleva solo parlare» dice Mildred. «A volte...» «Si parla con la propria famiglia!» ribatte Stefan. «Certo!» urla Benjamin. «Ma tu ti rifiuti di rispondere. Come quando ti ho chiesto se potevo andare fino al confine con la famiglia di Kevin. "Tagliati i capelli e vestiti da persona normale e io ti parlerò da persona normale."» Benjamin si alza e prende la giacca. «Vado a scuola in bici. Non serve che mi accompagni.» E se ne va. «È colpa tua» dice Stefan indicando Mildred, ancora seduta con la tazza in mano. «Mi fai pena, Stefan» risponde lei. «Dev'esserci un deserto attorno a te.» *
«Lo rilasciamo» comunicò Anna-Maria al procuratore e ai suoi colleghi. Andò alla caffetteria e chiese all'assistente sociale di accompagnare a casa madre e figlio. Poi tornò nel suo ufficio. Si sentiva stanca e depressa. Sven-Erik passò a chiederle se voleva andare a pranzo con lui. «Ma sono le tre» rispose. «Hai mangiato?» «No.» «Allora prendi la giacca. Guido io.» Anna-Maria sorrise. «Perché dovresti guidare tu?» Tommy Rantakyrö comparve alle spalle di Sven-Erik. «Dovete venire» disse. Sven-Erik lo guardò con aria offesa. «Io con te non ci parlo» disse. «Per la storia del gatto? Stavo solo scherzando. Venite, dovete ascoltare una cosa.» Lo seguirono nella stanza numero due. C'erano un uomo e una donna, entrambi in abiti da lavoro. L'uomo, piuttosto corpulento, teneva in mano un berretto verde militare e si asciugava il sudore dalla fronte. La donna era innaturalmente magra. Aveva dei segni profondi sulle labbra e sul viso, come quelli lasciati da molti anni di fumo. Un fazzoletto in testa e macchie di bacche sui jeans. Entrambi sapevano di fumo e lozione antizanzare. «Potrei avere un bicchiere d'acqua?» chiese l'uomo quando i poliziotti furono entrati nella stanza. «Ah, piantala!» esclamò la donna con un tono che sottintendeva che niente di quello che lui poteva dire o fare sarebbe stato giusto. «Vi spiace ripetere quello che mi avete appena raccontato?» chiese Tommy Rantakyrö. «Dai, parla tu!» disse la donna irritata. Il suo sguardo si spostava nervosamente da un poliziotto all'altro. «Dunque, eravamo a nord del lago Nedre Vuolusjärvi a raccogliere bacche» cominciò l'uomo. «Mio cognato ha un capanno da quelle parti. Un terreno fantastico per le more artiche, quando è stagione, anche se questa volta in effetti stavamo raccogliendo uva di monte...» Guardò Tommy Rantakyrö che gli fece cenno di arrivare al punto.
«Durante la notte abbiamo sentito un rumore» continuò l'uomo. «Era un grido» affermò la donna. «Sì, sì. E dopo abbiamo sentito uno sparo.» «E poi un altro ancora» aggiunse la moglie. «Ma racconta tu, allora!» esclamò l'uomo irritato. La donna strinse le labbra. «Be', a dire la verità è tutto qui» concluse l'uomo. Sven-Erik li guardò sconcertato. «Quando è successo?» chiese. «Nella notte tra venerdì e sabato» rispose l'uomo. «E oggi è lunedì» disse Sven-Erik lentamente. «Perché siete venuti solo ora?» «Ti avevo detto di...» iniziò la donna. «Chiudi il becco» la interruppe il marito. «Gli avevo detto che dovevamo tornare subito a casa» disse la donna a Sven-Erik. «E poi ho visto quel prete sui giornali, credete che sia lui?» «Avete visto qualcosa?» chiese Sven-Erik. «No, eravamo già a letto. Abbiamo solo sentito esattamente quello che vi ho detto. E anche una macchina, ma questo molto più tardi. Lì vicino passa la strada asfaltata che arriva da Laxforsen.» «Non avevate capito che poteva essere qualcosa di serio?» chiese SvenErik in tono gentile. «Che ne so io» rispose l'uomo imbronciato. «La caccia all'alce è aperta, non è poi così strano sentir sparare nel bosco,» La voce di Sven-Erik era innaturalmente paziente. «Ma era in piena notte. La caccia si ferma un'ora prima del tramonto. E chi è stato a gridare? Un alce?» «Avevo detto che...» iniziò la donna. «Senta, il bosco è pieno di suoni strani» la interruppe l'uomo con aria offesa. «Poteva essere una volpe. O un cervo in calore. Li ha mai sentiti bramire? Bene, ora a ogni modo vi abbiamo detto tutto. Quindi direi che possiamo tornarcene a casa.» Sven-Erik fissò l'uomo come se fosse impazzito. «Tornarvene a casa?» strillò. «Tornarvene a casa? Voi restate qui! Prenderemo una cartina e ci indicherete esattamente la zona. Ci direte da dove proveniva lo sparo. Se era a palla o a pallettoni. Ripenserete al grido, se per caso avete distinto qualche parola. E parleremo anche di quella macchina. Da dove arrivava, a che distanza era, tutto. Voglio l'ora esatta di
quando è successo. E analizzeremo tutto molto attentamente. Più di una volta. Intesi?» La donna lo guardò implorante. «Gli avevo detto che dovevamo andare subito alla polizia, ma sa com'è, quando si inizia a raccogliere bacche...» «Già, e guarda com'è andata a finire» disse l'uomo. «In macchina ho uva di monte per tremila corone. Devo chiamare qualcuno che la venga a prendere, non ho nessuna intenzione di farla andare a male.» Il petto di Sven-Erik si muoveva su e giù. «Ma la macchina era un diesel» aggiunse l'uomo. «Mi prende in giro?» chiese Sven-Erik. «No, è facile riconoscerli dal rumore. Il capanno è a qualche distanza dalla strada, ma l'ho sentito bene. Anche se, come vi ho detto, è stato molto più tardi. Probabilmente non c'entra niente con lo sparo.» * Alle quattro e un quarto del pomeriggio Anna-Maria Mella e Sven-Erik Stålnacke si dirigevano a nord a bordo di un elicottero. Sotto di loro il Torneälven serpeggiava come un nastro argentato. Qualche rara nuvola in movimento proiettava un'ombra sulle montagne, per il resto il sole splendeva sul terreno dorato. «Posso capire che preferissero restare a raccogliere bacche invece di tornare in città a rovinarsi il fine settimana» disse Anna-Maria. Sven-Erik le diede ragione ridendo, poi guardarono la cartina. «Se il capanno è qui, all'estremità nord del lago, e lo sparo proveniva da sud...» disse Anna-Maria indicando con il dito. «Ha detto che sembrava molto vicino.» «Sì, e quaggiù ci sono alcune capanne sul lago. E poi hanno sentito una macchina. Non può essere stato a più di uno o due chilometri dal capanno.» Avevano cerchiato una zona sulla cartina. Il giorno dopo, la polizia l'avrebbe perlustrata insieme all'esercito. L'elicottero si abbassò seguendo il Nedre Vuolusjärvi verso nord. Localizzarono il capanno dove avevano dormito i raccoglitori di bacche. «Scendi ancora un po', così diamo un'occhiata più da vicino» gridò Anna-Maria al pilota. Sven-Erik guardava nel binocolo. Anna-Maria trovava che fosse più
semplice senza. Betulle e acquitrini. La strada che costeggiava il lago quasi fino all'estremità settentrionale. Qualche renna che li guardava con aria stupida e una femmina di alce che galoppava con un piccolo tra i cespugli. Speriamo bene, si disse Anna-Maria, strizzando gli occhi nel tentativo di vedere qualcosa di diverso da betulle e cespugli. Non ci si mette a scavare per niente. «Aspetta» gridò all'improvviso. «Guarda lì.» Tirò Sven-Erik per un braccio. «Vedi?» disse. «C'è una barca appena sotto il recinto delle renne. Andiamo a vedere.» Il lago era lungo sei chilometri. Un sentiero portava dalla strada sterrata alla riva. L'ultimo tratto era costituito da una passerella. La barca di plastica bianca era tirata in secco, accuratamente rovesciata per evitare che si riempisse d'acqua. La voltarono insieme. «Perfettamente pulita» disse Sven-Erik. «Fin troppo» ribatté Anna-Maria. Si chinò a osservarne il fondo. Alzò gli occhi verso Sven-Erik e annuì. Si chinò anche lui. «Sì, è sangue» confermò. Guardarono il lago liscio e calmo. Un cerchio increspò la superficie. Da qualche parte si sentì il richiamo di una strolaga. Laggiù, si disse Anna-Maria. È nel lago. «Torniamo indietro» disse Sven-Erik. «Non è una buona idea lasciare in giro le nostre tracce, i tecnici si arrabbieranno. Faremo venire Krister Eriksson e Tintin. Se trovano qualcosa chiameremo un sommozzatore. Evitiamo di usare il sentiero, potrebbero esserci delle tracce.» Anna-Maria guardò l'ora. «Dovremmo farcela prima che venga buio.» Non più tardi delle quattro e mezza del pomeriggio si ritrovarono tutti in riva al lago, Anna-Maria Mella, Sven-Erik Stålnacke, Tommy Rantakyrö e Fred Olsson. Aspettavano Krister Eriksson e Tintin. «Se è da queste parti, Tintin lo troverà» disse Fred Olsson. «Anche se non è bravo come Zack» obiettò Tommy. Tintin, una femmina di pastore tedesco, era dell'ispettore Krister Eriksson. Quando si era trasferito a Kiruna, cinque anni prima, Eriksson ave-
va con sé Zack, un maschio dall'ampia schiena, nera e marrone chiaro. La testa larga. Non esattamente un esemplare da esposizione. Un cane che obbediva a un solo padrone. Esisteva solo Krister. Se qualcun altro cercava di salutarlo o accarezzarlo, voltava sdegnosamente la testa dall'altra parte. «È un onore poter lavorare con lui» diceva lo stesso Krister. Il personale del soccorso montano cantava le sue lodi. Zack era il miglior cane da valanga che avessero mai visto. Ma era bravo anche nelle ricerche. Le uniche occasioni in cui si vedeva Krister Eriksson alla caffetteria della centrale erano quelle in cui Zack offriva la torta. O meglio qualche parente riconoscente o qualcuno a cui aveva salvato la vita. Altrimenti Krister usava le pause caffè per portare a passeggio il cane. Non era uno di compagnia, tutto qua. Forse dipendeva dal suo aspetto. A quanto si diceva, era stato un incendio quando era un ragazzino a ridurlo così. Anna-Maria non aveva mai osato chiederglielo, non era il tipo a cui si facevano domande del genere. Il viso era una pergamena rosa acceso. Le orecchie due buchi nella pelle. Non aveva capelli, né ciglia, né sopracciglia, niente. Anche del naso non era rimasto molto. Due grotte oblunghe al centro della faccia. Anna-Maria sapeva che i colleghi lo chiamavano Michael Jackson. Quando Zack era vivo, fioccavano le battute su cane e padrone. Si diceva che la sera si sedessero insieme davanti alla tv a bere una birra e a guardare le partite. E che era Zack quello che indovinava più risultati in schedina. Ora che Krister aveva Tintin, Anna-Maria non sentiva dire più niente. Probabilmente le battute continuavano come prima, ma dato che Tintin era una femmina, dovevano essere così volgari da risparmiarle a una collega donna. «Diventerà brava» diceva Krister. «È ancora un po' troppo eccitabile, un po' immatura, ma si correggerà.» Krister Eriksson arrivò dieci minuti dopo gli altri. Tintin sedeva sul sedile accanto a lui, con una cintura di sicurezza per cani allacciata. La liberò e la fece scendere. «È arrivata la barca?» chiese. Gli altri annuirono. Un elicottero l'aveva calata all'estremità nord del lago. Era una barca arancione a fondo piatto, dotata di riflettore ed ecoscandaglio. Krister Eriksson infilò a Tintin un giubbotto salvagente. La cagna sapeva esattamente cosa significava. Lavoro. Lavoro divertente. Piroettava at-
torno ai piedi del padrone tutta eccitata, con la bocca aperta e carica di aspettativa, girando il naso in tutte le direzioni. Scesero verso il lago. Krister Eriksson salì con Tintin sulla barca e la allontanò dalla riva con una spinta. I colleghi restarono sulla riva a guardarli scivolare via. Sentirono Krister accendere il motore. All'inizio Tintin girellava eccitata per la barca, danzando e mugolando. Alla fine si parcheggiò a prua e sembrava pensare ad altro. Passarono quaranta minuti. Tommy Rantakyrö si grattava la testa. Tintin si era sdraiata. La barca avanzava verso sud muovendosi avanti e indietro sul lago. I poliziotti la seguivano dalla riva. «Cazzo, come mordono» si lamentò Tommy Rantakyrö. «Uomini e cani. Sei nel tuo elemento» disse Sven-Erik ad Anna-Maria. «Piantala» borbottò Anna-Maria in tono ammonitore. «Tanto più che non era nemmeno il suo cane.» «Cosa?» chiese Fred Olsson. «Niente!» rispose Anna-Maria. «Be', hai fatto trenta...» disse Tommy Rantakyrö. «Veramente è stato Sven-Erik a fare trenta» obiettò Anna-Maria. «Racconta, allora! Coprimi pure di vergogna.» «Sì, ma era quando abitavi ancora a Stoccolma» iniziò Sven-Erik. «Quando frequentavo la scuola di polizia.» «Per farla breve, Anna-Maria abitava con un ragazzo. Ed era una cosa recente.» «Abitavamo insieme da due mesi e stavamo insieme da poco di più.» «Correggimi se sbaglio, ma un giorno torna a casa e trova un perizoma di pelle nera sul pavimento della camera da letto.» «Con l'apertura a strappo sui fianchi» aggiunse Anna-Maria. «E un buco sul davanti. Non c'era bisogno di essere un genio per capire cosa doveva spuntare fuori.» Fece una pausa e guardò Fred Olsson e Tommy Rantakyrö. Non li aveva mai visti così felici e interessati. «E per di più sul pavimento c'era un assorbente.» «Non dirmelo!» commentò Tommy Rantakyrö pendendo dalle sue labbra. «Ero scioccata» proseguì Anna-Maria. «Voglio dire, quando si è davvero sicuri di conoscere bene una persona? Perciò quando Max è tornato a casa, ero lì seduta in camera da letto. Lui mi dice: "Cosa c'è?" Io gli indico il perizoma e dico: "Dobbiamo parlare. Di questo." Lui non batte ciglio.
"Ah" risponde perfettamente indifferente. "Dev'essere caduto dall'armadio." E rimette perizoma e assorbente in cima all'armadio. Con assoluta freddezza.» Poi sogghignò. «Era una mutanda per cani. Sua madre aveva una femmina di boxer a cui lui badava di tanto in tanto. E quando la portava al guinzaglio le metteva quella specie di mutanda con il buco per la coda e un assorbente. Era così semplice.» Le risate dei tre uomini echeggiarono a lungo sul lago. «Oh Dio» gemette Tommy Rantakyrö asciugandosi gli occhi. Poi Tintin si alzò. «Guardate» disse Sven-Erik Stålnacke. «Come se qualcuno di noi potesse fare altrimenti» rispose Tommy Rantakyrö allungando il collo. Tintin era in piedi a prua, completamente rigida. Il naso puntava verso il lago come l'ago di una bussola. Krister Eriksson ridusse la velocità e diresse la barca nella direzione indicata da Tintin. Il cane iniziò a guaire e ad abbaiare, grattando la piattaforma con le zampe. Abbaiava sempre più forte e si sporgeva sempre di più, tanto da ritrovarsi con la parte anteriore del corpo fuori dalla barca. Quando Krister Eriksson mise in acqua la boa di segnalazione per identificare il punto, Tintin non riuscì più a trattenersi. Saltò in acqua e fece un giro attorno alla boa, abbaiando e sputando acqua. Il suo padrone la chiamò e la afferrò per la maniglia del giubbotto salvagente. Per un attimo sembrò sul punto di cadere in acqua anche lui. Una volta issata a bordo, Tintin riprese a guaire e ululare di gioia. I poliziotti sentivano la voce di Krister tra il rombo del motore e i latrati del cane. «Brava, piccola. Braaava.» Tintin saltò a terra inzuppata come una spugna e si scrollò facendo una bella doccia ai poliziotti. Krister Eriksson le faceva i complimenti e le carezzava la testa. La cagna non riusciva a stare ferma un attimo. Poi andò a fare un giretto nel bosco abbaiando quanto era brava. I suoi latrati sembravano arrivare da diverse direzioni. «Perché è saltata in acqua?» chiese Tommy Rantakyrö. Krister Eriksson scosse la testa. «Aveva caldo ed era eccitata» rispose. «Ma aveva fatto centro, e se trova quello che cerca deve essere gratificata, perciò non potevo rimproverarla
per essersi buttata in acqua.» Guardò in direzione dei latrati con un misto di orgoglio e preoccupazione. «È davvero brava» disse Tommy impressionato. Gli altri gli diedero ragione. L'ultima volta che l'avevano vista all'opera, Tintin aveva ritrovato una vecchietta svampita di settantasei anni che si era persa nei boschi di Kaalasjärvi. La zona da setacciare era grande e Krister Eriksson l'aveva perlustrata percorrendo vecchie strade sterrate su una jeep scoperta. Sul cofano aveva messo un tappetino da bagno perché Tintin non scivolasse. La cagna ci stava seduta sopra come una sfinge con il naso in aria. Una dimostrazione impressionante. Non capitava spesso di parlare così a lungo con Krister Eriksson. Tintin tornò dal suo giretto e si fece coinvolgere da quell'improvviso spirito di gruppo. Arrivò addirittura a intrufolarsi tra i poliziotti e a dare una rapida annusata ai pantaloni di Sven-Erik. Poi il momento magico terminò. «Bene, allora abbiamo finito» disse Krister quasi irritato, per poi chiamare Tintin e toglierle il giubbotto salvagente. Iniziava a fare buio. «Ormai non resta che chiamare i tecnici e i sommozzatori» disse SvenErik. «Inizieranno domani mattina appena farà chiaro.» Si sentiva allegro e triste allo stesso tempo. Era successa la cosa peggiore. Era stato ucciso un altro prete, ormai potevano esserne quasi sicuri. Ma d'altra parte, presto avrebbero avuto un cadavere. Sulla barca c'erano delle tracce, e probabilmente anche sul sentiero. Sapevano che l'assassino aveva un diesel. Ora avevano qualcosa su cui lavorare. Guardò i suoi colleghi. Notò che quell'elettricità aveva contagiato anche loro. «Possono iniziare già stasera» disse Anna-Maria. «Possono fare un tentativo anche al buio. Lo voglio tirare su il prima possibile.» * Måns Wenngren era seduto al bancone del Grodan e guardava il suo telefonino. Per tutto il giorno si era impedito di chiamare Rebecka Martinsson, ma ora non ricordava più perché non avrebbe dovuto farlo. L'avrebbe chiamata e le avrebbe chiesto come andava il suo lavoro in nero.
Pensava cose che aveva pensato a quindici anni. All'espressione che avrebbe avuto mentre la penetrava. Vecchio sporcaccione!, disse a se stesso mentre digitava il numero. Rispose al terzo squillo. Sembrava stanca. Le chiese come andava il lavoro in nero, proprio come aveva pensato di fare. «Non è andata molto bene» rispose. Poi saltò fuori tutta la storia di come il padre di Nalle l'avesse accusata di essere una spiona. «Era bello non essere "la donna che ha ucciso tre uomini" per un po'» disse. «Non ho fatto niente per nasconderlo, ma non c'era nemmeno motivo di parlarne. La cosa peggiore è che me ne sono andata senza pagare il conto.» «Si potrà pagare con bonifico o qualcosa del genere» disse Måns. Rebecka rise. «Ne dubito.» «Vuoi che me ne occupi io?» «No.» Ovvio, si disse. Poteva cavarsela da sola. «Allora puoi semplicemente passare a pagare» disse. «Sì.» «Non hai fatto niente di male, non c'è nessun motivo di abbassare la testa.» «No.» «E anche se avessi fatto qualcosa di male, non ci sarebbe ugualmente nessun motivo di abbassare la testa» proseguì Måns. Dall'altro capo il silenzio. «Non sei molto loquace, Martinsson» disse Måns. Svegliati, si disse Rebecka. Non comportarti sempre da caso clinico. «Mi spiace» disse. «Fregatene, per il momento» disse Måns. «Ti chiamo domani mattina per tirarti un po' su. Sarai sicuramente in grado di andare a pagare un conto in un posto sperduto. Ti ricordi quella volta che ti sei voluta occupare da sola della Axling Import?» «Mmh.» «Ti chiamo domani.» Non lo farà, si disse quando riattaccarono. Perché dovrebbe? I sommozzatori trovarono il cadavere di Stefan Wikström alle dieci e
cinque di sera. Lo tirarono su con l'imbracatura di rete, ma era pesante. Era avvolto da una catena d'acciaio. La pelle era bianca e porosa, come candeggiata. Nella fronte e nel petto aveva due fori d'ingresso di mezzo centimetro di diametro. Zampe Gialle È l'inizio di maggio. Le foglie rimaste tutto l'inverno sotto la neve sono ridotte a una crosta scura che copre il terreno. Qua e là spunta qualche timida macchia di verde. Venti tiepidi da sud. Voli di uccelli. La lupa è ancora in movimento. A volte viene sopraffatta dalla solitudine. Allora tende la gola al cielo e lascia che accada quel che deve accadere. Cinquanta chilometri a sud di Sodankylä c'è un paese con una discarica a cielo aperto. Scava per un po', trova dei resti e porta alla luce alcuni topi grassi e terrorizzati con cui si riempie ben bene lo stomaco. Poco lontano dal paese trova un cane da orso della Carelia legato a una catena. Quando la lupa esce dal bosco non si mette ad abbaiare come un pazzo. Né si spaventa o si nasconde. Rimane semplicemente in silenzio ad aspettarla. L'odore dell'uomo la spaventa, ma ormai è sola da troppo tempo e quel cane da orso senza paura le piace. Per tre giorni torna a trovarlo al crepuscolo. Trova il coraggio di avvicinarsi. Lo annusa e si lascia annusare. Si scrutano a vicenda. Poi torna al limitare del bosco, si ferma e aspetta che lui la raggiunga. Il cane tira la catena. Di giorno smette di mangiare. Quando torna la quarta sera, la lupa non lo trova più. Aspetta per un po' al limitare del bosco. Poi si inoltra nel folto e prosegue. La neve è sparita del tutto. Dal terreno vibrante di desiderio di vita si alza un vapore. Tutto brulica e freme, frinisce e canta. Le foglie si fanno strada a forza nei rami doloranti. L'estate arriva dal basso come un'onda verde e incontrollabile. La lupa risale il corso del Torneälven per una ventina di chilometri. Attraversa la passerella di Muonio. Poco dopo, un uomo si inginocchia davanti a lei per la seconda volta nella sua vita. È sdraiata in un bosco di betulle con la lingua penzoloni. Non sente più le zampe. Gli alberi sopra di lei in una nebbia indistinta. L'uomo in ginocchio è un ricercatore della protezione animali.
«Sei così bella» dice accarezzandole i fianchi, le lunghe zampe gialle. «Sì, è proprio graziosa» conferma il veterinario. Le fa un'iniezione di vitamine, le controlla i denti, le piega delicatamente le giunture. «Tre anni, forse quattro» tira a indovinare. «Ottime condizioni, niente scabbia, niente di niente.» «Una vera principessa» dice il ricercatore fissandole al collo il trasmettitore, curioso gioiello per un'altezza reale. L'elicottero ha il motore ancora acceso. Il terreno è talmente inzuppato che il pilota non osa spegnerlo, ha paura di affondare e di non riuscire più a ripartire. Il veterinario fa un'altra iniezione alla lupa, poi è ora di lasciarla. Il ricercatore si alza in piedi. Sente ancora la sua pelliccia sulle mani, spessa e sana. La lanugine all'interno. I peli lunghi e spessi dello strato esterno. Le zampe pesanti. Quando si alzano in volo, la vedono rimettersi in piedi, barcollando leggermente. «Tipa tosta» commenta il veterinario. Il ricercatore rivolge una preghiera alle potenze celesti. Una richiesta di protezione. Martedì 12 settembre È tutto sui giornali. E ne parlano alla radio. Il prete scomparso è stato trovato in un lago con una catena attorno al corpo. Ucciso con due colpi d'arma da fuoco. Uno al petto, uno alla testa. Una vera e propria esecuzione, dice una fonte all'interno della polizia, aggiungendo che è stato più per fortuna che per abilità che il corpo è stato ritrovato. Lisa è seduta al tavolo della cucina. Ha chiuso il giornale e spento la radio. Cerca di restare perfettamente immobile. Non appena si muove, dentro di lei si scatena un'onda. Un'onda che le attraversa il corpo, che la fa alzare in piedi, che la fa camminare avanti e indietro nella casa vuota. In soggiorno, con le sue librerie deserte e i davanzali vuoti. In cucina. I piatti sono lavati. Gli armadietti puliti. I bidoni della spazzatura vuoti. Non ci sono in giro fogli o conti da pagare. In camera. Stanotte ha dormito senza lenzuola, tirandosi sopra solo il copriletto, si è stupita di riuscire ad addormentarsi. Il copriletto è piegato in fondo, i cuscini sistemati in cima. I suoi vestiti non ci sono più.
Se resta seduta perfettamente immobile, riesce ad addomesticare il suo desiderio. Il desiderio di piangere e di gridare. O di soffrire. Il desiderio di mettere una mano sulla piastra ardente della cucina. È quasi ora di andare. Si è fatta la doccia e si è messa della biancheria pulita. Non è abituata a portare il reggiseno, le dà fastidio sotto le ascelle. I cani non si lasciano ingannare così facilmente. Le vanno incontro scodinzolando. Il rumore delle loro unghie sul pavimento, cliccheti-cliccheticlic. Non fanno caso al suo corpo rigido e distante. Le premono il naso contro il ventre e fra le gambe, le infilano la testa sotto le mani pretendendo di essere accarezzati. Li accontenta. È uno sforzo sovrumano. Riuscire ad accarezzarli, sentire il pelo morbido, il calore del sangue che scorre vivo. «Andate a cuccia» ordina con una voce strana. I cani obbediscono. Ma poco dopo tornano a zampettarle intorno. Alle sette e mezza si alza. Sciacqua la tazza del caffè e la appoggia sul lavello. La cucina ha un'aria stranamente desolata. In cortile i cani fanno i riottosi. Di solito saltano immediatamente in macchina, sanno che significa una giornata nei boschi. Ma ora restano lì ad abbaiare. Karelin corre a pisciare sul cespuglio di ribes, "il tedesco" si siede e la guarda fisso mentre gli ordina di salire indicando con la mano il bagagliaio aperto. Majken è la prima a cedere. Attraversa il cortile tutta ingobbita con la coda fra le gambe. Karelin e "il tedesco" la imitano. Spy-Morris non è mai particolarmente ansioso di andare in macchina. Ma ora è peggio che mai. Lisa deve rincorrerlo urlando e imprecando finché si ferma. Poi lo trascina verso la macchina. «Salta dentro, per Dio» urla picchiandolo sul sedere. Alla fine salta dentro anche lui. Ha capito. Hanno sicuramente capito tutti. La guardano attraverso il lunotto. Si siede sul paraurti, già stremata. L'ultima cosa che fa è litigare con loro, non era così che doveva andare. Va al cimitero. I cani li lascia in macchina. Scende fino alla tomba di Mildred. Come al solito ci sono un sacco di fiori, cartoline, perfino fotografie incurvate e ispessite dall'umidità. La terranno in ordine per lei, tutte le donne. Naturalmente avrebbe dovuto portare qualcosa da lasciare sulla tomba. Ma cosa? Cerca di trovare qualcosa da dire. Qualcosa da pensare. Fissa il nome di Mildred sulla pietra grigia. Mildred, Mildred, Mildred. Si pianta dentro il
nome come un coltello. Mildred mia, pensa poi. Mildred che posavi la testa sul mio braccio. Erik Nilsson vede Lisa da lontano. Se ne sta piantata lì rigida e inerte e sembra guardare attraverso la lapide. Le altre donne stanno sempre in ginocchio e toccano la terra, puliscono e mettono in ordine, parlano con gli altri visitatori. Sta andando alla tomba, ma ora si ferma un attimo. Ha preso l'abitudine di andarci la mattina dei giorni feriali. Per avere un momento tutto per lui. Non ha niente contro le donne di Maddalena, ma in un certo senso hanno occupato la tomba di Mildred. Il suo posto non è tra loro. Riempiono tutto lo spazio di fiori e candele. Posano piccole pietre in cima alla lapide. Il suo contributo scompare nel bailamme. Per le altre va bene far parte del lutto collettivo. Dev'essere un conforto per loro sapere di essere in molte a sentire la sua mancanza. Ma lui. È un pensiero infantile, lo sa. Vorrebbe che la gente lo indicasse e dicesse: «Era suo marito, è lui quello da compatire di più.» Mildred cammina qualche passo dietro a lui. Devo andare avanti?, le chiede. Ma lei non risponde. Guarda fissa Lisa. Erik va incontro a Lisa. Si schiarisce la gola per non spaventarla, sembra così immersa nei suoi pensieri. «Ciao» dice piano. Non si incontrano dal giorno del funerale. Lei annuisce e si sforza di produrre un sorriso. Lui sta quasi per chiederle se anche lei ha un appuntamento lì a colazione, o qualche altra banalità per mettere in moto la conversazione. Ma poi cambia idea e dice in tono serio: «Ce l'avevamo solo in prestito. La cosa terribile è che non ce ne siamo mai resi conto finché era con noi. Mi arrabbiavo spesso con lei per quello che non mi dava. Ora vorrei aver... non so... vorrei aver accettato con gioia quel che mi dava invece di tormentarmi per quello che non avevo.» La guarda. Lei gli restituisce uno sguardo privo di espressione. «Parlo troppo» dice lui imbarazzato. Lisa scuote la testa. «No, no» riesce a dire. «È solo che... non posso...» «Era sempre così occupata, non faceva che lavorare. Ora che è morta ho l'impressione che finalmente abbiamo tempo l'uno per l'altra. Come se fos-
se andata in pensione.» Guarda Mildred. Si è chinata a leggere le cartoline sulla tomba. A tratti sorride. Prende le pietre posate sulla lapide e le tiene in mano. Una dopo l'altra. Erik tace. Aspetta che Lisa gli chieda come va. Come se la cava. «Devo andare» dice. «Ho i cani in macchina.» Erik Nilsson la guarda allontanarsi. Quando si china per cambiare i fiori nei vasi, Mildred è sparita. * Lisa si siede in macchina. «Piantatela» dice ai cani dietro. Avrei dovuto andare a dormire, si dice. Invece di girare per casa come un'anima in pena aspettando Mildred. Quella notte. La notte prima del giorno di mezza estate. È la notte prima del giorno di mezza estate. Mildred è già morta. Lisa non lo sa. Non fa che girare per casa e bere caffè, anche se a quell'ora non dovrebbe farlo. Lisa sa che Mildred ha celebrato la messa di mezzanotte a Jukkasjärvi. Pensava che dopo sarebbe andata da lei, ma inizia a essere un po' troppo tardi. Forse qualcuno si è trattenuto a chiacchierare. O forse Mildred è andata a casa a dormire. Dal suo Erik. Le si annoda lo stomaco. L'amore è come una pianta o un animale. Vive e si trasforma. Nasce, cresce, invecchia, muore. Butta nuovi germogli. Poco prima l'amore per Mildred era una gioia calda e vibrante. Le dita pensavano alla sua pelle, la lingua ricordava i suoi capezzoli. Ora è grande come prima, forte come prima. Ma con il buio è diventato pallido e pieno di pretese. Risucchia in sé tutto ciò che c'è in Lisa. L'amore per Mildred la rende spossata e triste, è così stanca di pensare sempre a lei. Non c'è posto per nient'altro nella sua testa. Mildred e basta. Dov'è, cosa fa, cos'ha detto, cosa voleva dire. Capita che abbia voglia di vederla per un giorno intero solo per poi litigare appena arriva. La ferita alla mano di Mildred è guarita da tempo. È come se non ci fosse mai stata. Lisa guarda l'ora. Mezzanotte è passata da un pezzo. Prende Majken al guinzaglio e scende lungo la provinciale. Pensa di andare al fiume per vedere se c'è ormeggiata la barca di Mildred.
Lungo il percorso supera la casa di Lars-Gunnar e Nalle. Nota che la macchina non è in cortile. Da allora ci ha pensato tutti i giorni. Tutto il tempo. Che la macchina di Lars-Gunnar non era in cortile. Che Nalle non ha nessun altro. Che niente può riportare in vita Mildred. * Måns Wenngren chiama Rebecka Martinsson per darle la sveglia. La sua voce è calda e roca. «In piedi!» ordina. «Bevi un caffè e mangia un toast. Fatti la doccia e preparati. Ti richiamo tra venti minuti. Dovrai essere pronta.» Lo ha già fatto in passato. Quando era sposato con Madelene e riusciva ancora a sopportare le sue periodiche crisi di panico e agorafobia e Dio sa cosa, parlava con lei di visite dal dentista, cene di famiglia e acquisti di scarpe ai grandi magazzini. Non tutti i mali... Ora almeno conosce la tecnica. Richiama dopo venti minuti. Rebecka risponde obbediente come una scout. Ora dovrà sedersi in macchina, andare in città e prelevare abbastanza soldi per pagare il conto a Poikkijärvi. La terza volta le dice di andare a Poikkijärvi, parcheggiare fuori dal ristorante e chiamarlo da lì. «Bene» dice Måns, quando gli telefona. «Ora è questione di mezzo minuto, dopo di che te lo sarai lasciato alle spalle. Entra e paga. Non hai bisogno di dire una parola, se non vuoi. Puoi limitarti a dargli i soldi. Quando l'hai fatto torni in macchina e mi richiami, d'accordo?» «D'accordo» dice Rebecka come una bambina. Resta seduta in macchina e guarda il ristorante. Bianco e scrostato sotto il vivido sole autunnale. Si domanda chi ci sarà. Micke o Mimmi? * Lars-Gunnar apre gli occhi. È Stefan Wikström che lo sveglia in sogno. I suoi patetici lamenti, il piagnucolio di quando si lascia cadere in ginocchio in riva al lago. Quando capisce. Ha dormito sulla poltrona del soggiorno con il fucile sulle ginocchia. Si alza faticosamente, con la schiena e le spalle rigide. Sale in camera di Nalle. Dorme ancora profondamente.
Naturalmente non avrebbe mai dovuto sposare Eva. Ma era solo uno stupido zotico del nord. Una preda fin troppo facile per una come lei. Era sempre stato grande e grosso, grasso fin da piccolo. A quell'epoca i bambini erano degli stecchi che volavano dietro al pallone. Erano sottili e veloci e lanciavano palle di neve ai ragazzi grassi che si trascinavano a casa più in fretta che potevano. A casa da papà. Che lo picchiava con la cinghia se non era dell'umore giusto. Non ho mai alzato una mano su Nalle, si dice. Non lo farei mai. Ma il ragazzo grasso era cresciuto e aveva completato gli studi con discreti risultati, nonostante i dispetti dei compagni. Aveva frequentato la scuola di polizia e quando era tornato a casa era un altro uomo. Non è facile tornare al proprio paese natale senza ricadere nel ruolo che si era ricoperto prima. Ma durante gli anni della scuola di polizia, Lars-Gunnar era cambiato. E non si prende in giro un poliziotto. Si era fatto anche nuovi amici. In città. Colleghi di lavoro. Aveva ottenuto un posto nella squadra di caccia. E dato che non aveva paura di lavorare ed era portato per la pianificazione, ne era diventato presto il capo. L'idea era che i membri della squadra si alternassero come capocaccia, ma non andò così. Lars-Gunnar si dice che, in un certo senso, agli altri faceva comodo avere qualcuno che pianificava e organizzava. Ma in una piega nascosta della sua coscienza c'è anche la consapevolezza che nessuno avrebbe osato mettere in dubbio il suo ruolo. Non c'era niente di male, dopo tutto quel rispetto se lo era guadagnato. E non ne aveva tratto vantaggi come avrebbero fatto tanti altri. No, il suo errore è stato piuttosto essere troppo buono. Pensare troppo bene del suo prossimo. Come con Eva. È difficile non rimproverarsi. Ma quando l'aveva incontrata aveva appena compiuto cinquant'anni. Era sempre rimasto solo, perché con le donne le cose non erano mai andate come voleva. Con loro era rimasto lento e impacciato come da ragazzo, consapevole del suo corpo troppo grande. E poi era arrivata Eva. Che aveva posato la testa sul suo petto. Quella testa che quasi spariva nella sua mano quando la attirava a sé. "La mia piccola" la chiamava. Ma poi, quando non le stava più bene, se n'era andata. Abbandonando lui e il ragazzo. Ricorda a malapena i mesi successivi. Era una specie di oscurità. Credeva che in paese lo guardassero tutti, si chiedeva cosa dicessero alle sue spalle. Nalle si gira faticosamente nel sonno. Il letto cigola sotto il suo peso.
Devo..., si dice Lars-Gunnar, ma perde subito il filo. Fa fatica a concentrarsi, ma la vita quotidiana deve continuare. È quella l'unica cosa che conta. La quotidianità sua e di Nalle. La vita che LarsGunnar ha costruito per entrambi. Devo fare la spesa, si dice. Latte, pane e formaggio. Sta per finire tutto. Scende le scale e telefona a Mimmi. «Vado in città» dice. «Nalle dorme e non voglio svegliarlo. Se viene da te dagli la colazione, eh?» * «È lì?» Anna-Maria Mella aveva chiamato l'ufficio del medico legale a Luleå. Era stata l'assistente Anna Granlund a rispondere, ma Anna-Maria voleva parlare con il primario, Lars Pohjanen. Anna Granlund badava a lui come una mamma accudisce il figlio malato. Teneva la sala autopsie in perfetto ordine. Apriva i cadaveri, estraeva gli organi, li rimetteva a posto quando aveva finito, ricuciva e scriveva gran parte dei rapporti. «Non può andare in pensione» le aveva detto una volta. «Sai, alla fine diventa una specie di matrimonio, ho fatto l'abitudine a lui, non voglio lavorare per qualcun altro.» E Lars Pohjanen tirava avanti. Sembrava respirare attraverso un tubo, il solo parlare gli faceva venire il fiatone. Qualche anno prima era stato operato per un cancro ai polmoni. Anna-Maria se lo vedeva davanti. Probabilmente stava dormendo sul vecchio divano della saletta del personale. Il portacenere accanto agli zoccoli consumati. Il camice verde come coperta. «Sì, è qui» rispose Anna Granlund. «Un attimo.» La voce di Pohjanen all'altro capo del filo, raschiamento di gola e sibilo. «Dimmi tutto» disse Anna-Maria. «Sai che sono un disastro a leggere.» «Non c'è molto da dire. Hrrrm. Sparo frontale al petto. Poi un secondo colpo alla testa, da distanza molto ravvicinata. Il foro di uscita presenta un effetto esplosivo.» Lunga inspirazione, gorgoglio da tubo di aspirazione. «... pelle raggrinzita ma non gonfia... anche se sapete già quando è scomparso...» «La notte tra venerdì e sabato.» «Credo che sia stato in acqua da allora. Ci sono piccole lesioni nelle zo-
ne non coperte dai vestiti, sulle mani e sul volto. Sono stati i pesci. Non c'è molto altro. Avete trovato i proiettili?» «Li stanno ancora cercando. Niente segni di lotta? Nessun'altra ferita?» «No.» «Il resto?» La voce di Pohjanen assunse un tono irritato. «Nient'altro, ti ho detto. Puoi chiedere a qualcuno di... di leggerti il rapporto ad alta voce.» «Intendevo dire come va.» «Ah» disse tornando subito più gentile. «Uno schifo, ovviamente.» Sven-Erik Stålnacke stava parlando al telefono con la psichiatra della polizia di Stoccolma. Era seduto in macchina nel parcheggio della centrale. Gli piaceva la sua voce, fin dall'inizio gli era piaciuto il calore che emanava. E il fatto che parlasse lentamente. La maggior parte delle donne di Kiruna parlavano dannatamente in fretta. E ad alta voce. Erano come dei mitra, non si aveva una sola possibilità. Poteva quasi sentire la replica di Anna-Maria: «Nessuna possibilità? Siamo noi che non abbiamo una sola possibilità di avere una risposta sensata. Chiediamo: "Com'era?" Silenzio di tomba, e dopo una lunghissima pausa di riflessione arriva la risposta: "Non male." È inutile provare a tirar fuori qualcosa di più, almeno con Robert. Perciò siamo costrette a parlare per due. Neanche una possibilità, eh? Ma vai a quel paese.» Ora ascoltava la voce della psichiatra e riconosceva quel suo umorismo. Anche se la conversazione era seria. Se solo avesse avuto qualche anno in meno... «No» disse la donna. «Non credo che si tratti di un emulatore. Il corpo di Mildred Nilsson è stato esposto, mentre quello di Stefan Wikström non doveva essere trovato. E non ci sono nemmeno segni di violenza. Il modus operandi è completamente diverso. Può essere stato tranquillamente qualcun altro. Perciò la risposta alla tua domanda è no. È molto improbabile che Stefan Wikström sia stato ucciso da un assassino seriale che soffre di disturbi psichici e che l'omicidio sia stato compiuto su ispirazione del caso di Viktor Strandgård. Quindi, o sono stati uccisi da due persone diverse, oppure Mildred Nilsson e Stefan Wikström sono stati uccisi per un motivo, come dire, più concreto.» «Cioè?» «L'uccisione di Mildred sembrava molto... emotiva. Mentre quella di
Stefan è più un...» «Un'esecuzione.» «Esatto! Assomiglia un po' a un delitto passionale, sono solo ipotesi, ricordatelo, sto solo cercando di dare una forma alla situazione emotiva che sembra emergere, d'accordo?» «Sì.» «Consideriamolo un delitto passionale, allora. Il marito uccide la moglie in preda alla rabbia. Poi uccide l'amante più a sangue freddo.» «Ma non erano una coppia» obiettò Sven-Erik. A quanto ne sappiamo, si corresse poi mentalmente. «Non sto dicendo che sia stato il marito. Voglio solo dire...» La donna tacque. «Non so nemmeno io cosa voglio dire» concluse poi. «Ma può esserci un collegamento. Può essere stato lo stesso assassino. Psicopatico, forse. Ma non necessariamente. E non nel senso di una persona che ha perso tutti i contatti con la realtà.» Era ora di riattaccare. Sven-Erik lo fece a malincuore. E Manne non era ancora tornato. * Rebecka Martinsson entra da Micke. Ci sono tre clienti che fanno colazione. Signori anziani che le lanciano un'occhiata di apprezzamento. Un po' di bellezza femminile dal vivo è sempre benaccetta. Micke sta passando lo straccio sul pavimento. «Ciao» dice a Rebecka ritirando secchio e spazzolone. «Vieni con me.» Rebecka lo segue in cucina. «Mi devi scusare» dice Micke. «Sabato è andato tutto storto. Ma sono rimasto di sasso quando Lars-Gunnar ha raccontato... Sei stata davvero tu a uccidere quei pastori a Jiekajärvi?» «Sì. Due pastori e...» «Lo so. Un pazzo. Ne hanno scritto i giornali, anche se non hanno mai fatto il tuo nome. Neanche quelli di Thomas Söderberg e Vesa Larsson, a dire la verità, ma tutti sapevano chi erano i pastori. Dev'essere stato terribile.» Annuisce. Sì, dev'essere stato così. «Sabato ho pensato che Lars-Gunnar poteva avere ragione. Che forse eri qui per curiosare. Ti avevo chiesto se eri una giornalista e mi avevi rispo-
sto di no, ma poi mi sono detto che forse non eri una giornalista ma lavoravi ugualmente per un giornale. Ma non è così, vero?» «No, io... all'inizio sono finita qui per sbaglio, per mangiare qualcosa con Torsten Karlsson.» «Il tipo che era con te la prima volta?» «Sì. E non ne parlo molto in giro. Di tutto quello che... è successo. Poi mi sono fermata, per stare un po' tranquilla e perché non avevo il coraggio di andare a Kurravaara, dove c'è la casa di mia nonna... Ma poi ci sono andata con Nalle. È il mio eroe.» L'ultima frase la dice con un sorriso. «Sono venuta a pagare il conto del bungalow» aggiunge poi tendendogli il denaro. Micke lo prende e le dà il resto. «Ho scalato la paga di sabato. Cosa dice il tuo altro capo del fatto che lavori in nero?» Rebecka scoppia a ridere. «Ah, adesso mi puoi ricattare.» «Dovresti salutare Nalle, tanto passi davanti a casa sua per andartene. Se giri a destra all'altezza della cappella...» «Lo so, ma non credo che sia una buona idea, suo padre...» «Lars-Gunnar è in città, Nalle è a casa da solo.» Mai e poi mai, si dice Rebecka. C'è un limite a tutto. «Salutamelo tu» aggiunge poi. Una volta tornata in macchina chiama Måns. «Tutto fatto» annuncia. Måns Wenngren risponde come era solito fare con sua moglie. La frase gli esce di bocca da sola. «Brava la mia bambina!» Poi aggiunge rapidamente: «Ben fatto, Martinsson. Ora ho una riunione. Ci sentiamo più tardi.» Rebecka resta seduta con il cellulare in mano. Måns Wenngren, si dice. È una roccia. Piove che Dio la manda. Soffia il vento. Uno è stanco e ha le scarpe bagnate e non sa esattamente dov'è. La cartina non ne vuole sapere di coincidere con la realtà. E poi all'improvviso le nubi si aprono. I vestiti si asciugano al vento. Ci si ritrova seduti su una roccia e si osserva una vallata bagnata dal sole. Ne è valsa la pena. Cerca di chiamare Maria Taube ma non risponde. Le manda un sms: «Tutto bene. Chiamami».
Imbocca la provinciale. Accende la radio su una stazione di musica nonstop. All'incrocio con la strada che porta alla cappella incontra Nalle. Un brivido di nostalgia e di senso di colpa la attraversa. Solleva una mano in segno di saluto. Nello specchietto vede che le fa un cenno. Agitato. Poi si mette a rincorrere la macchina. Non va molto veloce, ma non molla. Poi lo vede inciampare. Sembra che si sia fatto male, è caduto nella cunetta. Rebecka ferma la macchina sul ciglio della strada. Guarda nello specchietto. Nalle ancora non si rialza. Le viene paura. Scende e si mette a correre. «Nalle» grida. «Nalle!» E se avesse battuto la testa contro una pietra? Lo trova sdraiato nella cunetta che le sorride. Come un coleottero sulla schiena. «Becka!» esclama quando se la vede comparire davanti. È chiaro che dovevo salutarlo, si dice. Che razza di persona sono? Nalle si rimette in piedi. Rebecka lo aiuta a ripulirsi. «Ciao Nalle» dice poi. «È stato bello...» «Vieni» la interrompe lui, tirandola per un braccio come un bambino. «Vieni!» Poi si volta e si incammina. Sta tornando a casa. «No, io...» inizia Rebecka. Ma Nalle prosegue. Non si gira. Crede che lei lo segua. Rebecka guarda la macchina. È fuori dalla carreggiata e in un punto con buona visibilità. Può fargli compagnia un momento. Si incammina anche lei. «Aspettami» grida. * Lisa parcheggia davanti all'ambulatorio del veterinario. I cani sanno esattamente dove sono. Non è un posto divertente. Sono tutti in piedi a guardare fuori dai finestrini. Le bocche aperte e ansimanti. Le lingue penzoloni. "Il tedesco" inizia a perdere forfora. Lo fa sempre quando è nervoso. Una sorta di pula biancastra gli spunta tra i peli e si deposita sulla pelliccia bruna. Le code sono incollate alle pance. Lisa entra. I cani restano in macchina. Noi non entriamo?, chiedono i loro sguardi. Per questa volta evitiamo i-
niezioni, visite, odori spaventosi e umilianti imbuti attorno alla testa? Anette, la veterinaria, le va incontro. Sistemano per prima cosa il conto, se ne occupa lei stessa. Sono solo loro due. Niente personale, nessuno in sala d'attesa. Lisa è commossa da quelle attenzioni. L'unica cosa che Anette chiede è: «Li porti con te?» Lisa scuote la testa. In effetti non ha avuto la forza di pensarci. È già molto che sia arrivata a organizzare tutto fino a quel punto. E ora è li. Diventeranno rifiuti. Allontana l'idea che sia una mancanza di rispetto. Che gli deve di più. «Come facciamo?» chiede poi. «Li porto dentro uno alla volta?» Anette la guarda. «Sarebbe troppo duro per te, credo. Se li portiamo dentro tutti insieme, gli do un po' di sedativo prima.» Lisa esce barcollando. «Fermi!» ordina quando apre il bagagliaio. Mette il guinzaglio a tutti. Non vuole rischiare che qualcuno scappi. Torna in ambulatorio con i cani attorno alle gambe. Attraversa la sala d'aspetto, gira l'angolo e supera le porte dell'ufficio e della sala medicazioni. Anette apre la porta della sala operatoria. Il loro ansimare. E il rumore delle unghie che ticchettano e scivolano sul pavimento. Si impigliano nei guinzagli, Lisa cerca di sbrogliarli mentre entra nella sala, basta che entrino, subito. Finalmente ci sono. In quella stanza orribile con il suo orribile pavimento di linoleum rosso e le pareti marroni. Lisa sbatte la coscia contro il tavolo operatorio. Tutte le unghie che hanno graffiato il pavimento hanno fatto sì che lo sporco penetrasse nel linoleum, che non torna più pulito. Si è creato come un sentiero rosso scuro che va dalla porta al tavolo. Sulla porta di uno degli armadi è appeso il poster di una ragazza in un prato fiorito. Tiene in braccio un cucciolo dalle orecchie morbide. Sull'orologio alla parete c'è una scritta sul quadrante tra il dieci e il due: «È ora». La porta si richiude alle spalle di Anette. Lisa toglie i guinzagli ai cani. «Iniziamo da Bruno» dice. «È così ostinato, sarà comunque l'ultimo a sdraiarsi. Lo sai.» Anette annuisce. Mentre Lisa accarezza Bruno sulle orecchie e sul petto, Anette gli fa un'iniezione di sedativo nel muscolo della zampa anteriore. «Ma come sei bravo» bisbiglia Lisa.
Allora Bruno la guarda. Dritto negli occhi, anche se i cani in genere non lo fanno. Poi distoglie rapidamente lo sguardo. È un cane che ci tiene all'etichetta. Non si guarda il capobranco negli occhi. «Che cagnone paziente» dice Anette dandogli una pacca amichevole quando ha finito. Poco dopo Lisa è seduta per terra sotto la finestra. Il termosifone le brucia la schiena. Spy-Morris, Bruno, Karelin e Majken semiaddormentati accanto a lei. Majken ha la testa su una delle sue cosce. Spy-Morris sull'altra. Anette spinge Bruno e Karelin più vicino a Lisa, in modo che li possa toccare tutti. Non ci sono parole. Solo un incredibile dolore alla gola. I loro corpi caldi sotto le sue mani. Come avete fatto ad amarmi, si dice. Lei che è così irrimediabilmente pesante dentro. Ma l'amore canino è semplice. Si corre nel bosco e si è felici. Ci si sdraia gli uni addosso agli altri e si gode del tepore reciproco. Anette rade le zampe e inserisce la cannula. Va tutto in fretta. Troppo in fretta. Anette è già pronta. Resta solo da fare l'ultima cosa. Dove sono finiti i pensieri d'addio? Il dolore alla gola diventa insopportabile. Le fa male dappertutto. Lisa trema come se avesse la febbre. «Allora lo faccio io» dice Anette. E pratica loro l'iniezione letale. Ci vuole mezzo minuto. Restano sdraiati come prima. Le teste sul suo grembo. La schiena di Bruno contro il suo sedere. La pelliccia pesante di Majken ricade in modo diverso da quando dorme. Lisa pensa di alzarsi. Ma non ce la fa. Il pianto sotto la pelle del volto che cerca di resistere. È come una sfida a braccio di ferro. I muscoli oppongono resistenza. Vorrebbero riportare la bocca e gli occhi all'espressione normale, ma il pianto si fa strada ugualmente. Alla fine si accartoccia in una smorfia grottesca. Il viso rigato di lacrime e moccio. Com'è possibile che faccia così male. Le lacrime compresse dietro le palpebre come sotto il coperchio di una pentola ora le scorrono ardenti lungo il viso. Cadono su Spy-Morris. Dalla sua gola esce un lamento implorante. Ha un suono orribile. Una sorta di uhu uhu. Si sente gemere come una vecchia rinsecchita e condannata. Si mette a quattro zampe. Abbraccia i cani. I suoi movimenti sono bruschi e incontrollati. Gattona tra loro e infila le braccia sotto i loro corpi
abbandonati. Li accarezza sulle palpebre, sui nasi, sulle orecchie, sulle pance. Preme il viso contro le loro teste. Il pianto è come una tempesta che scuote e agita il suo corpo. Tira su col naso e cerca di deglutire. Ma è difficile inghiottire, così a quattro zampe, con il viso verso il basso. Alla fine il moccio le cola fuori dalla bocca. Si asciuga con le mani. E allo stesso tempo c'è un'altra voce. Un'altra Lisa che la guarda e dice: che razza di persona sei? e Mimmi? Allora smette di piangere. Proprio quando pensa che non riuscirà mai a smettere. È strano. Tutta l'estate era stata un'unica lunga lista di cose da fare. Una dopo l'altra le aveva spuntate. Il pianto non era sulla lista. Ci si era inserito da solo. Lei non voleva, le faceva paura. Aveva paura di annegarci dentro. E ora che il pianto è arrivato... All'inizio è stato sgradevole, un dolore insopportabile e buio. Ma poi. Poi è diventato un rifugio. Una stanza in cui riposare. Una sala d'attesa prima del prossimo punto sulla lista. All'improvviso una parte di lei voleva continuare a piangere. Rimandare quello che doveva ancora succedere. E a quel punto il pianto la lascia. Dice: è finita. E si interrompe di colpo. Si alza. C'è un lavandino, si aggrappa al bordo e si tira su. Anette ha lasciato la stanza. Ha gli occhi gonfi come due palle da tennis. Si preme le dita gelide sulle palpebre. Apre il rubinetto e si sciacqua il viso. C'è della carta ruvida nel portarotolo accanto al lavandino. Si asciuga e si soffia il naso, evita di guardarsi allo specchio. La carta le sfrega la pelle del naso. Guarda i cani. È così spossata dal pianto che non sente più l'emozione profonda di poco prima. Il dolore acuto è solo un ricordo. Si accovaccia e dà a ciascuno una sobria carezza. Poi esce. Anette è seduta davanti al computer. Lisa si limita a buttare lì un arrivederci. Fuori nel sole di settembre. Che punge e ferisce. Ombre nette. Qualche nuvola vagabonda le manda un riflesso dispettoso negli occhi. Si siede in macchina e abbassa l'aletta parasole. Accende il motore e attraversa la città per poi imboccare la statale che porta in Norvegia. Durante il viaggio non pensa a niente. Se non alla strada che serpeggia. Alle immagini che cambiano. Il cielo blu acceso. Fiocchi di nuvole che si sfilacciano nella loro corsa sopra le montagne. Scarpate ripide. Il lago Torneträsk come una pietra lucida avvolta in fili d'oro giallo.
Quando supera Katterjåkk compare all'improvviso. Un tir. Lisa non rallenta. Poi si slaccia la cintura di sicurezza. * Rebecka Martinsson seguì Nalle in cantina lungo una scala in pietra dipinta di verde. Aprì una porta. Davanti a loro si allargava una stanza che fungeva da dispensa, officina e magazzino. Un sacco di cose dappertutto. C'era umido. La vernice bianca era chiazzata di nero. Qua e là l'intonaco aveva ceduto. Lungo i muri erano addossati semplici scaffali con barattoli di marmellata, cartoni di viti e chiodi e ogni genere di materiale, vernici, barattoli di diluente evaporato e pennelli induriti, carta vetrata, secchi, attrezzi elettrici, intrichi di prolunghe. Alle pareti libere erano appesi altri attrezzi. Nalle le fece segno di fare silenzio posandosi l'indice sulle labbra. La prese per mano e la fece sedere su una sedia. Poi si inginocchiò accanto a lei e picchiettò con l'unghia sul pavimento. Rebecka restò seduta in silenzio, in attesa. Nalle estrasse di tasca un pacco di biscotti quasi vuoto. Trafficò con la confezione fino a riuscire a estrarne uno che spezzò in due. A quel punto arrivò di corsa un topolino. Si avvicinò a Nalle seguendo un percorso a S, si fermò accanto al suo ginocchio e si alzò sulle zampine posteriori. Era marrone grigiastro, non più lungo di quattro o cinque centimetri. Nalle gli porse mezzo biscotto. Il topolino cercò di trascinarlo via, ma dato che Nalle non mollava la presa restò lì a mangiarlo. L'unica cosa che si sentiva era il suo flebile sbocconcellare. Nalle si voltò verso Rebecka. «Topo» disse ad alta voce. «Piccolo.» Rebecka credeva che l'animale si sarebbe spaventato a sentirlo parlare così forte, invece continuò a sgranocchiare il biscotto. Annuì e gli rivolse un largo sorriso. Era uno spettacolo raro. Nalle il gigante e il topolino. Si domandò come fosse successo. Come avesse fatto a vincere la paura dell'animaletto. Poteva essere stato così paziente da restare seduto immobile ad aspettare? Forse. Sei un ragazzo molto speciale, pensò. Nalle allungò un dito e cercò di accarezzarlo sulla schiena, ma a quel punto la paura diventò più forte della fame, e il topo sfrecciò via come un tratto grigio e sparì tra le carabattole ammucchiate lungo i muri.
Rebecka lo seguì con lo sguardo. Ora doveva andare. Non poteva lasciare la macchina parcheggiata a quel modo per chissà quanto tempo. Nalle disse qualcosa. Lo guardò. «Topo» disse. «Piccolo.» Provò una fitta di dolore. Quel ragazzo ritardato era la persona a cui si era avvicinata di più da un'eternità. Perché non ci riesco?, si chiese. Non riesco a farmi piacere la gente. Non mi fido. Ma di Nalle ci si può fidare. Non sa fingere. «Ciao Nalle» disse. «Ciao» rispose lui senza la minima traccia di rimpianto nella voce. Rebecka salì la scala in pietra. Non sentì la macchina che si fermò in cortile. Non sentì i passi sulla veranda. Nello stesso istante in cui aprì la porta che portava in cantina, si aprì anche quella d'entrata. La figura imponente di Lars-Gunnar riempì lo specchio della porta. Come un masso che le bloccava la strada. Le si strinse il cuore. Lo guardò negli occhi. Lui la fissò. «Che cazzo» disse soltanto. * La squadra di tecnici trovò una pallottola alle nove e mezza del mattino. La estrassero dal terreno sulla riva del lago. Calibro 30-06. Alle dieci e un quarto avevano i risultati del controllo incrociato tra il registro automobilistico e quello delle armi. L'elenco di tutte le persone che possedevano sia un diesel che una carabina. Anna-Maria si abbandonò all'indietro sulla sedia. Era davvero un oggetto di superlusso. Si poteva reclinare lo schienale fino quasi a sdraiarsi. Come dal dentista, ma senza il dentista. Una lista di 473 persone. Diede una rapida scorsa ai nomi. Lo sguardo le cadde su uno che conosceva. Lars-Gunnar Vinsa. Aveva una Mercedes diesel. Lo cercò nel registro dei possessori di armi. Aveva dichiarato tre armi. Due carabine e un fucile a pallettoni. Una delle carabine era una Tikka calibro 30-06. Bisognava sottoporre tutte le armi di quel calibro a una prova di sparo, ma forse si poteva iniziare da lui, anche se non era mai divertente quando si trattava di un ex collega.
Guardò l'ora. Le dieci e mezza. Ci sarebbe andata dopo pranzo con Sven-Erik. * Lars-Gunnar Vinsa guarda Rebecka Martinsson. A metà strada dalla città si era accorto di avere dimenticato il portafoglio ed era tornato indietro. Che razza di cospirazione era? Aveva detto a Mimmi che sarebbe uscito. Che fosse stata lei a chiamare quell'avvocato? Non ci può credere. Ma non può essere diversamente. E lei si è precipitata a curiosare. Il cellulare in mano alla donna si mette a suonare. Non risponde. Si limita a guardarlo corrucciata. Rimangono entrambi perfettamente immobili mentre il telefono continua a suonare. Rebecka si dice che deve rispondere. Dev'essere Maria Taube. Ma non ci riesce. E a quel punto glielo vede scritto in faccia. Ha capito. E lui capisce che ha capito. La paralisi si interrompe. Il telefono cade a terra. È stato lui a colpirle la mano? È stata lei a scagliarlo via? Le blocca la strada. Non può uscire. Un terrore folle si impossessa di lei. Si volta e si mette a correre verso il primo piano. Le scale sono strette e ripide. La tappezzeria è macchiata dall'età. Un disegno a fiori. La vernice sugli scalini spessa come vetro. Si arrampica velocissima a quattro zampe, come un granchio. Non deve inciampare. Sente Lars-Gunnar. Il suo peso dietro di lei. È come correre dritta in una trappola. Dove può andare? La porta del bagno davanti a lei. Si precipita dentro. In qualche modo riesce a chiudere la porta e a girare la chiave. La maniglia viene abbassata dall'esterno. C'è una finestra, ma non ha più la forza di scappare. Non le resta altro che la paura. Non si regge in piedi, si accascia sul coperchio del water. Poi inizia a tremare. Tutto il suo corpo è in preda a sussulti spasmodici. I gomiti stretti allo stomaco. Le mani davanti al volto tremano così forte che involontariamente si colpisce la bocca, il naso, il mento. Le dita piegate come artigli. Un tonfo pesante, un colpo violento sull'esterno della porta. Stringe gli occhi. Le lacrime iniziano a scorrere. Vuole premersi le mani sulle orecchie ma non le obbediscono, non fanno che tremare.
«Mamma!» piange quando la porta cede di schianto. Un pezzo di legno le colpisce un ginocchio. Fa male. Qualcuno la solleva per i vestiti, ma lei si rifiuta di aprire gli occhi. Lars-Gunnar la solleva per il colletto. La donna piagnucola. «Mamma, mamma!» Gli sembra di risentire se stesso. «Aiti! Aiti!» È tornato a più di sessant'anni prima, suo padre sbatacchia sua madre come un guanto per tutta la cucina. È riuscita a chiudere Lars-Gunnar e gli altri bambini nella stanza. Lui è il più grande. Le sorelline più piccole sono sedute pallide e silenziose sul divano, lui e il fratello di mezzo picchiano alla porta. Il pianto e le preghiere della mamma. Oggetti che cadono a terra. Papà che vuole la chiave e che presto l'avrà. Fra poco Lars-Gunnar e il fratello le prenderanno mentre le piccole staranno a guardare. A quel punto sarà il turno della mamma di essere chiusa nella stanza. La cinghia volerà. Per qualcosa. Non ricorda cosa. C'era sempre qualche motivo. Le sbatte la testa contro il lavandino. Tace. Tacciono anche il pianto dei bambini e la voce della mamma nella sua testa, «Älä lyö! Älä lyö!» La lascia andare, e la donna cade sul pavimento. Quando la gira, lei lo fissa con grandi occhi muti. Perde sangue dalla fronte. È come quella volta che ha investito una renna sulla strada per Gällivare. Gli stessi occhi spalancati. Lo stesso tremito. La prende per i piedi e la trascina sul pianerottolo. Nalle è sulle scale e vede Rebecka. «Cosa?» grida. Un grido acuto e preoccupato. Un po' come lo stridio di un gabbiano. «Cosa?» «Non è niente, Nalle!» grida Lars-Gunnar. «Vai fuori.» Ma Nalle è spaventato. Non ascolta. Sale qualche gradino. Vede Rebecka sdraiata a terra. Ripete il suo ostinato «cosa?» «Non mi hai sentito?» urla Lars-Gunnar. «Fuori!» Lascia i piedi di Rebecka e lo allontana con un gesto. Alla fine è costretto a scendere e trascinare fuori Nalle. Chiude la porta. Nalle rimane lì. Lo sente ripetere: «Cosa? Cosa?» Paura e disperazione nella voce. Se lo vede mentre cammina avanti e indietro sulla veranda. Prova una rabbia spaventosa verso la donna al piano di sopra. È tutta colpa sua. Avrebbe dovuto lasciarli in pace. Risale le scale in tre falcate. È come Mildred Nilsson. Avrebbe dovuto
lasciarli in pace. Lui e Nalle e tutto il paese. Lars-Gunnar è in cortile a stendere i panni. È la fine di maggio. Ancora niente foglie, ma sta iniziando a spuntare qualche germoglio nelle aiuole. È una giornata di sole e vento. In autunno Nalle compirà tredici anni. Ne sono passati sei dalla morte di Eva. Nalle corre in cortile. Riesce sempre a trovare qualcosa da fare. Ma non si può mai restare soli. A volte Lars-Gunnar avrebbe voglia di poter stare un po' per conto suo. Il vento di primavera strattona il bucato. Le lenzuola e la biancheria sventolano come tante bandiere tra le betulle del cortile. Alle spalle di Lars-Gunnar c'è il nuovo pastore, Mildred Nilsson. Quanto parla. Non la finisce più, Lars-Gunnar esita prima di stendere le mutande vecchie. Non diventano mai del tutto bianche, anche se sono pulite. Ma poi si dice: che cazzo, perché dovrebbe vergognarsi davanti a lei? Vuole che Nalle venga cresimato. «Ascolta» dice Lars-Gunnar. «Qualche anno fa sono venuti un paio di quei biascicaorazioni che volevano pregare per la sua guarigione. Li ho buttati fuori per le orecchie. Non amo molto la chiesa.» «Non farei mai una cosa del genere!» risponde lei con enfasi. «È ovvio che pregherò per lui, ma ti prometto che lo farò in silenzio e a casa mia. Non vorrei che fosse diverso da com'è. Hai davvero avuto una benedizione con questo ragazzo. Non potrebbe essere migliore.» * Rebecka solleva le ginocchia. Spinge con i piedi. Solleva. Spinge. Si trascina di nuovo in bagno. Non riesce ad alzarsi, si rannicchia in un angolo. Ora lo sente tornare su per le scale. Era facile per Mildred dire che Nalle era una benedizione, pensa LarsGunnar. Mica doveva badare continuamente a lui. E non era lei ad avere alle spalle un matrimonio fallito a causa del bambino. Non aveva bisogno di preoccuparsi del futuro, lei. Di come se la sarebbe cavata Nalle. Della sua pubertà. Quando stava lì con le lenzuola sporche e si chiedeva cosa fare. Nessuna ragazza lo avrebbe voluto. Un sacco di paure strane in testa, il pensiero che quell'istinto lo avrebbe reso pericoloso. E dopo la visita del pastore, tutte le donne del paese erano arrivate in
processione. Lascia cresimare il ragazzo, dicevano. E si erano offerte di organizzare il ricevimento. Dicevano che sarebbe stato divertente per Nalle, se non fosse stato a suo agio bastava smettere. Perfino sua cugina Lisa era venuta a fargli la predica. A dire che poteva occuparsi lei del vestito. Lars-Gunnar si era infuriato. Come se il problema fossero i regali o il vestito. «Non si tratta dei soldi!» aveva urlato. «Ho sempre speso quel che c'era da spendere per lui. Se avessi voluto risparmiare lo avrei messo in un istituto un sacco di tempo fa. Facciamolo cresimare, allora!» E aveva pagato un vestito e un orologio. Le ultime due cose di cui Nalle aveva bisogno, ma Lars-Gunnar non aveva aperto bocca. Nessuno avrebbe potuto dargli del taccagno alle spalle. Poi era cambiato qualcosa. Era come se l'amicizia tra Mildred e il ragazzo lo derubasse di qualcosa. La gente tendeva a dimenticare il prezzo che aveva dovuto pagare. Non che avesse un'immagine idealizzata di se stesso, ma non aveva avuto una vita facile. La brutalità di suo padre. Il tradimento di Eva. Il peso di dover crescere da solo un ragazzo ritardato. Avrebbe potuto fare scelte diverse, più facili. Ma aveva studiato ed era tornato al paese. Era diventato qualcuno. Andandosene, Eva lo aveva fatto precipitare nel pozzo. Se ne stava chiuso in casa con Nalle, convinto che nessuno li volesse. Di nuovo provava la vergogna di essere rifiutato. Eppure si era preso cura di Eva quando stava per morire. Aveva tenuto Nalle a casa. Si era preso cura di lui da solo. A sentire Mildred Nilsson, era stato fortunato ad avere un figlio così bravo. «Certo» aveva ribattuto LarsGunnar a qualcuna delle donne. «Ma è anche una grossa responsabilità. Una preoccupazione.» E si era sentito rispondere che i genitori si preoccupano sempre per i loro figli. E dopo tutto lui non sarebbe stato costretto a separarsi da Nalle, come dovevano fare tutti gli altri quando i figli crescevano e se ne andavano. Un sacco di stronzate. Di gente che non aveva idea di cosa stesse dicendo. Ma da allora era sempre stato zitto. Tanto non avrebbero potuto capire. Con Eva era capitata la stessa cosa. Da quando era arrivata Mildred, la gente tendeva a dire: «Poveretta!» Di lei! A volte gli veniva voglia di chiedere cosa intendessero. Se credevano che vivere con lui fosse così terribile da costringerla ad abbandonare suo figlio. Aveva la sensazione che sparlassero alle sue spalle.
Già allora si era pentito di aver lasciato cresimare Nalle. Ma era troppo tardi. Non poteva impedirgli di andare in chiesa con Mildred, altrimenti sarebbe passato per invidioso. Nalle stava bene con lei. Non aveva abbastanza cervello per vedere com'era davvero. Perciò Lars-Gunnar lasciava correre. Nalle iniziò ad avere una vita al di fuori di lui. Ma chi gli lavava i vestiti, chi ne aveva responsabilità e preoccupazioni? E Mildred Nilsson. Lars-Gunnar si era convinto di essere lui il suo obiettivo fin dall'inizio. Nalle era solo un mezzo. Si era trasferita in canonica e aveva organizzato la sua mafia femminile. Aveva convinto le donne di essere importanti. E loro si erano lasciate guidare come oche starnazzanti. È ovvio che ce l'avesse con lui. Lo invidiava. Perché aveva una posizione in paese. Era il capo della squadra di caccia. Era stato un poliziotto. E ascoltava la gente, metteva gli altri davanti a sé, e questo gli conferiva rispetto e autorità. E lei non lo poteva sopportare. Sembrava che si fosse messa in testa di togliergli tutto. Ne era risultata una guerra. Di cui solo loro due erano consapevoli. Aveva cercato di screditarlo. Lui si era difeso come meglio poteva. Ma non era mai stato portato per quel genere di giochi. La donna si è di nuovo trascinata in bagno. È accucciata tra il water e il lavandino e tiene le braccia sulla testa come per proteggersi. La prende per i piedi e la trascina giù per le scale. La testa le rimbalza su ogni scalino. Tunc, tunc, tunc. E Nalle che grida fuori sulla veranda. «Cosa? Cosa?» È difficile tapparsi le orecchie. Deve finire in fretta. Ricorda il viaggio a Maiorca. Un'altra delle trovate di Mildred. All'improvviso tutti i giovani della chiesa devono andare in campeggio all'estero. E Mildred vuole che ci vada anche Nalle. Lars-Gunnar aveva risposto secco di no. Mildred aveva insistito, dicendo che la chiesa avrebbe mandato una persona in più apposta per occuparsi di Nalle. Offriva la congregazione. «Tieni conto di quanto costano normalmente i ragazzi di quell'età» aveva proseguito. «Attrezzatura da sci, viaggi, giochi elettronici, vestiti di marca...» E Lars-Gunnar aveva capito l'antifona. «Non è una questione di soldi» aveva detto. Ma aveva capito che agli occhi della gente del paese sarebbe sembrato così. Che non voleva spendere per Nalle. Che Nalle doveva rinunciare a tutto. Che ora che Nalle aveva la possibilità di fare qual-
cosa di divertente... Perciò era stato costretto a cedere. Bastava mettere mano al portafoglio. E tutti che gli dicevano che era bello che Mildred facesse tanto per Nalle. Che era un bene per il ragazzo che si fosse trasferita in paese. Ma Mildred voleva rovinarlo, lui lo sapeva. Quando le avevano rotto i vetri o quando quell'idiota di Magnus Lindmark aveva cercato di dare fuoco alla sua rimessa, lei non aveva sporto denuncia alla polizia. E la gente aveva iniziato a chiacchierare, proprio com'era sua intenzione. La polizia non può fare niente. Quando servirebbero davvero non si muovono. Quelle chiacchiere coinvolgevano anche Lars-Gunnar. Era lui che doveva sopportare la vergogna. E poi mirava al suo posto nella squadra di caccia. Sulla carta potevano anche essere terreni della chiesa. Ma il bosco era suo. Era lui che lo conosceva. È vero che l'affitto era basso, ma in realtà la squadra avrebbe dovuto essere pagata per sparare. Gli alci provocano un sacco di danni. La caccia all'alce in autunno. La pianificazione insieme ai compagni di squadra. I sopralluoghi all'alba. Il sole non è ancora sorto. I cani sono legati e tirano i guinzagli. Annusano l'aria verso l'oscurità grigiastra del bosco. Lì da qualche parte ci sono le prede. La caccia durante il giorno. L'aria autunnale e i latrati lontani dei cani. Lo spirito di gruppo quando ci si occupa della selvaggina. La fatica della macellazione. Le chiacchiere attorno al fuoco la sera. Mildred gli aveva scritto una lettera. Non aveva osato affrontarlo a quattr'occhi. Aveva scritto che sapeva che Torbjörn era stato condannato per caccia di frodo ma non gli era stata revocata la licenza di caccia. Che era stato Lars-Gunnar a sistemare la faccenda. Che lui e Torbjörn non potevano più andare a caccia sulle terre della chiesa. «Sarebbe non solo inopportuno ma in contrasto con la presenza della lupa che la chiesa intende proteggere» aveva scritto. Sente ancora un'oppressione al petto quando ci pensa. Voleva farlo precipitare nell'isolamento, era quello il suo scopo. Fare di lui un dannato perdente. Come Malte Alajärvi. Niente lavoro e niente caccia. Aveva parlato con Torbjörn Ylitalo. «Non possiamo farci niente» era stata la sua opinione. «Devo già ritenermi fortunato a non perdere il lavoro.» Lars-Gunnar aveva l'impressione di sprofondare in un formicaio. Si immaginava da lì a qualche anno, lui e Nalle seduti davanti alla tv come due palle sgonfie a guardare le estrazioni del lotto.
Non era giusto. La storia del porto d'armi risaliva a quasi vent'anni prima! Era solo una scusa per danneggiarlo. «Perché?» aveva chiesto a Torbjörn. «Cosa vuole da me?» E Torbjörn aveva alzato le spalle. Poi aveva passato una settimana senza parlare con anima viva. Un assaggio di come sarebbe diventata la sua vita. Di sera beveva parecchio. Era l'unico modo per potersi addormentare. La sera prima del giorno di mezza estate era seduto in cucina a festeggiare. Insomma, festeggiare non era la parola più adatta. Chiuso in cucina con i suoi pensieri, a parlare da solo e bere da solo. Alla fine era andato a letto e aveva cercato di dormire. Gli sembrava di avere qualcosa che gli martellava nel petto. Qualcosa che non provava da quando era bambino. Allora era andato in macchina e aveva cercato di riprendersi. Ricordava di essere quasi uscito di strada mentre faceva manovra. Poi Nalle era corso fuori in mutande. Lars-Gunnar credeva che dormisse da un pezzo. Agitava le braccia e gridava. Lars-Gunnar aveva dovuto spegnere il motore. «Puoi venire anche tu» aveva detto. «Ma devi metterti addosso qualcosa.» «No, no» aveva detto Nalle rifiutando di mollare la maniglia della portiera. «Tranquillo, non me ne vado. Va' a vestirti.» La testa gli si annebbia quando cerca di ricordare. Voleva parlare con lei. E lo avrebbe ascoltato, dannazione. Nalle si era addormentato sul sedile accanto a lui. Ricorda di averla colpita. Di aver pensato: adesso basta. Adesso basta. Non smetteva di far rumore, per quanto la colpisse. Rantolava e gemeva. Respirava. Allora le aveva tolto le scarpe. E le aveva infilato le calze in bocca. L'aveva portata in chiesa ancora furibondo. L'aveva issata alle canne dell'organo con la catena. Mentre era lì sulla balconata aveva pensato che non aveva nessuna importanza se fosse arrivato qualcuno, se qualcuno lo avesse visto. Poi era entrato Nalle. Si era svegliato ed era entrato in chiesa. All'improvviso era al centro della navata e guardava verso Lars-Gunnar e Mildred con gli occhi spalancati. Non aveva detto niente. Lars-Gunnar tornò sobrio all'istante. E si arrabbiò con Nalle. E all'improvviso gli venne una paura terribile. Se lo ricorda bene. Ricorda di aver trascinato Nalle verso la macchina. Di essersene andato. E che né lui né Nalle avevano detto una parola. Ogni giorno Lars-Gunnar si aspettava che arrivassero. Ma non arrivava
nessuno. O meglio, erano venuti a chiedergli se aveva visto qualcosa. O se sapeva qualcosa. Le stesse domande che facevano a tutti gli altri. Ricordò di essersi infilato i guanti da lavoro che erano nel bagagliaio. Non che avesse in mente qualcosa, le impronte digitali o chissà che. Era stato un gesto automatico. Se si prende un attrezzo come il piede di porco si infilano i guanti. Pura fortuna. Pura fortuna. E poi tutto era tornato alla normalità. Nalle sembrava non ricordare niente. Era come al solito. Anche Lars-Gunnar era come al solito. Dormiva bene di notte. Ero come un animale ferito, si dice guardando la donna ai suoi piedi. Come un animale che si sdraia in un cespuglio ed è solo una questione di tempo che il cacciatore lo raggiunga. Quando Stefan Wikström lo aveva chiamato, glielo aveva sentito nella voce. Che sapeva. Già il fatto che lo chiamasse, perché avrebbe dovuto? Si vedevano a caccia, non aveva altri contatti con quel papp amolla di curato. E ora gli telefonava. Gli diceva che il parroco sembrava esitare a proposito del futuro della squadra di caccia. Forse Bertil Stensson avrebbe proposto al consiglio parrocchiale di disdire la concessione venatoria. E parlava della caccia all'alce come se... come se avesse qualcosa da dire in proposito. Quando Stefan l'aveva chiamato, la nebbia nella testa di Lars-Gunnar si era diradata. Ricordava di essere stato all'approdo ad aspettare Mildred. Il cuore che batteva come un martello pneumatico. Aveva alzato gli occhi verso la canonica. E c'era qualcuno alla finestra del piano superiore. Non se lo era ricordato fino alla telefonata di Stefan Wikström. Cosa voleva da me?, si chiede. La stessa cosa che voleva Mildred. Avermi in suo potere. * Lars-Gunnar e Stefan Wikström sono in macchina, diretti verso il lago. Lars-Gunnar ha detto che deve tirare in secco la barca e legare i remi. Stefan Wikström brontola come un bambino a proposito di Bertil Stensson. Lars-Gunnar lo ascolta con un orecchio solo. Si tratta della concessione venatoria e del fatto che Bertil non apprezza abbastanza il lavoro di Stefan. E poi deve ascoltare le sue chiacchiere infantili sulla caccia. Come se ci capisse qualcosa. Il ragazzino a cui il parroco aveva regalato un posto in squadra. Lars-Gunnar è confuso da tutte quelle chiacchiere. Cosa vuole quel pre-
te? Sembra quasi che Stefan gli parli del parroco come un bambino che tende un braccio sbucciato. Soffiaci sopra, così il male va via. Non ha nessuna intenzione di farsi schiacciare sotto il tacco da questo verme. È pronto a pagare il prezzo delle sue azioni. Ma non a Stefan Wikström. Mai. Stefan Wikström tiene gli occhi sulla porzione di strada illuminata dai fari. Soffre di mal d'auto, deve guardare avanti. La paura inizia a farsi strada in lui. La sente strisciare nel suo stomaco come una biscia. Parlano di tutto. Non di Mildred, Ma si percepisce la sua presenza, quasi come se fosse seduta sul sedile posteriore. Ripensa alla notte prima del giorno di mezza estate. Quando si era affacciato alla finestra della camera da letto. Aveva visto qualcuno aspettare accanto alla barca di Mildred. All'improvviso lo sconosciuto aveva fatto qualche passo. Era sparito dietro una capanna di tronchi sul terreno comunale. Non aveva visto più niente. Ma poi naturalmente ci aveva ripensato. E aveva capito che era Lars-Gunnar. E che aveva qualcosa in mano. Nemmeno adesso pensa di aver fatto male a non dire niente alla polizia. Lui e Lars-Gunnar fanno parte della squadra di caccia. E in un certo senso lui è il suo pastore. Lars-Gunnar fa parte del suo gregge. Un prete obbedisce a leggi diverse da quelle dei normali cittadini. Come prete non poteva alzare il dito e puntarlo contro Lars-Gunnar. Come prete doveva trovare il momento in cui Lars-Gunnar fosse stato pronto a parlare. Era un altro dei suoi fardelli. E lui l'aveva accettato. L'aveva rimesso nelle mani di Dio. Aveva pregato: sia fatta la tua volontà. E aveva aggiunto: non riesco a sentire che il tuo giogo è lieve e il tuo fardello leggero. Sono arrivati e scendono dalla macchina. Stefan deve portare la catena. Lars-Gunnar gli dice di andare avanti. Stefan inizia a seguire il sentiero. C'è la luna piena. Mildred cammina alle sue spalle. La sente. È arrivato al lago. Stefan lascia cadere la catena. La guarda. Mildred gli si infila nell'orecchio. Scappa!, gli dice. Scappa! Ma non può scappare. Rimane lì e aspetta. Sente arrivare Lars-Gunnar. Prende forma lentamente alla luce della luna. E sì, ha con sé il fucile. *
Lars-Gunnar guarda Rebecka Martinsson ai suoi piedi. Dopo che la ha trascinata giù dalla scala ha smesso di tremare. Ma è cosciente. Lo guarda fisso. Rebecka Martinsson guarda l'uomo sopra di lei. Ha già visto quella scena. L'uomo che è come un'eclissi solare. Il volto nell'ombra. Il sole che entra dalla finestra della cucina come una corona attorno alla testa. È il pastore Thomas Söderberg. Dice: ti amavo come una figlia. Presto gli farà saltare la testa. Quando l'uomo si china su di lei, gli si aggrappa ai vestiti. O meglio, non esageriamo, l'indice e il medio della mano destra si infilano sotto il collo del suo maglione. Solo il peso della mano lo tira più vicino. «Come si fa a vivere con questo peso?» Lui le apre a forza le dita. Quale peso?, si chiede Lars-Gunnar. Stefan Wikström? Si era sentito più in colpa quella volta che aveva sparato a una femmina di alce a Paksuniemi, più di vent'anni prima. Nello stesso istante in cui era caduta erano comparsi due piccoli. Poi erano scomparsi nel bosco. Aveva ripensato a lungo al suo errore. Prima la femmina. Poi non aver reagito in tempo sparando anche ai piccoli. Dovevano essere andati incontro a una morte lunga e dolorosa. Apre la botola che porta in cantina. La afferra e la trascina verso l'apertura. La mano di Nalle bussa alla finestra. Il suo sguardo confuso tra i gerani di plastica. Rebecka si riprende. Quando vede l'apertura nel pavimento inizia a divincolarsi. Si aggrappa alla gamba del tavolo, se lo trascina dietro. «Molla» le dice aprendole le dita. Per tutta risposta lo graffia in viso. Si divincola e si contorce. Una lotta muta e spasmodica. La prende per il collo. I suoi piedi si sollevano dal pavimento. Dalle sue labbra non esce una parola. Il grido è tutto negli occhi: no! no! La getta giù come un sacchetto di rifiuti. Cade all'indietro. Un gran fracasso e poi il silenzio. Richiude la botola. Poi afferra a due mani la credenza contro la parete e ce la trascina sopra. È pesante, ma lui è forte. Rebecka apre gli occhi. Le ci vuole un momento per rendersi conto di
avere perso conoscenza per un po'. Ma non può essere stata svenuta a lungo. Pochi secondi. Sente Lars-Gunnar trascinare qualcosa di pesante sulla botola. Ha gli occhi spalancati e non vede niente. Buio pesto. Sente passi e rumori sulla sua testa. Si alza in ginocchio. Il braccio destro pende inerte dalla spalla. Istintivamente si afferra la spalla con la mano sinistra e lo raddrizza. Una vampata di dolore si irradia dalla spalla al braccio e alla schiena. Le fa male dappertutto. Tranne che in faccia. Lì non sente niente. Sembra anestetizzata. E c'è qualcosa che pende flaccido e bagnato. È il labbro? Quando deglutisce sente sapore di sangue. Si mette a quattro zampe. Il pavimento di terra sotto le mani. L'umido penetra nei jeans all'altezza delle ginocchia. C'è odore di escrementi di topo. Se muore lì la mangeranno i topi. Avanza carponi. Tasta con la mano davanti a sé per trovare la scala. Dappertutto ragnatele appiccicose che le si incollano alla mano. Sente qualcosa nell'angolo. È la scala. Si mette in ginocchio con le mani su un gradino. Come un cane sulle zampe posteriori. Ascolta. E aspetta. Lars-Gunnar ha spostato la credenza. Si asciuga la fronte con il dorso della mano. I "cosa?" di Nalle si sono calmati. Lars-Gunnar guarda fuori dalla finestra. Nalle cammina in cerchio in mezzo al cortile. Riconosce quell'andatura. Quando ha paura o è triste fa così. Può volerci anche mezz'ora a calmarlo. È come se smettesse di sentire. La prima volta che era successo, Lars-Gunnar si era sentito così frustrato e impotente che aveva finito per dargli uno schiaffo. Quel colpo gli brucia ancora dentro. Ricorda che si era guardato la mano, quella che aveva dato il colpo, e aveva pensato a suo padre. E Nalle non era certo migliorato. Anzi. Ora sa che deve avere pazienza. E tempo. Se solo avesse tempo. Esce in cortile. Fa un tentativo anche se sa che è inutile: «Nalle!» Ma Nalle non sente. Continua a camminare in cerchio. Lars-Gunnar ha pensato mille volte a quel momento. Ma nei suoi pensieri Nalle dormiva tranquillo. Avevano passato una bella giornata, magari nel bosco. Oppure erano andati in motoslitta sul fiume. Lars-Gunnar si sedeva un attimo accanto al letto di Nalle. Il ragazzo dormiva, e poi... È troppo. Peggio di così non poteva andare. Si passa una mano sulla
guancia. Sembra che stia piangendo. A quel punto si vede davanti Mildred. Fin da allora non aveva fatto che avvicinarsi a questo momento. Ora lo capisce. Quando aveva sferrato il primo colpo era pieno di rabbia verso di lei. Ma poi. Poi era stata la sua stessa vita che aveva fatto a pezzi. Che aveva appeso all'organo perché tutti la vedessero. Alla macchina. La carabina è lì. Carica. Lo è stata tutta l'estate. Toglie la sicura. «Nalle» chiama con la voce impastata. Vuole dirgli addio. Avrebbe voluto farlo. «Nalle» dice al suo ragazzo. Ora. Prima di non riuscire più a tenere in mano il fucile. Non può farsi trovare seduto lì. Lasciare che portino via Nalle. Solleva il fucile contro la spalla. Prende la mira. Spara. Il primo proiettile nella schiena. Nalle cade in avanti. L'altro in testa. Poi entra. Avrebbe voluto aprire la botola e ucciderla. Dopo tutto cos'è quella donna? Niente. Ma non ha la forza di spostare la credenza. Si siede sul divano. Poi si rialza. Apre l'orologio da muro e ferma il pendolo. Si risiede. La canna in bocca. La sua vita è un tormento da tempo immemorabile. Sarà una liberazione. Finalmente sarà tutto finito. Giù nella cantina buia sente gli spari. Vengono da fuori. Due colpi. Poi la porta che sbatte. Sente dei passi in cucina. Infine l'ultimo sparo. Qualcosa di antico si risveglia in lei. Qualcosa di ancestrale. Si arrampica sulla scala per fuggire. Picchia la testa sulla botola. Rischia di cadere, ma riesce ad aggrapparsi. La botola non si muove di un millimetro. Ci picchia sopra con i pugni. Le nocche si sbucciano. Si spezza le unghie. * Anna-Maria Mella entra nel cortile di Lars-Gunnar Vinsa alle tre e mezza del pomeriggio. Sven-Erik è accanto a lei. Sono rimasti in silenzio per tutta la strada fino a Poikkijärvi. Non è piacevole parlare di un ex collega a
cui devono sequestrare un'arma per una prova di sparo. Come al solito Anna-Maria va un po' troppo veloce, e per un pelo non investe il corpo allungato sulla ghiaia. Sven-Erik impreca. Anna-Maria inchioda e si precipitano entrambi fuori dalla macchina. Sven-Erik è subito in ginocchio e posa una mano sul collo del corpo. Uno sciame di mosche si alza dalla nuca insanguinata. Scuote la testa in risposta alla domanda muta di Anna-Maria. «È il ragazzo di Lars-Gunnar» dice. Anna-Maria guarda verso la casa. Non ha con sé l'arma di servizio. Cazzo. «Non fare sciocchezze» la avverte Sven-Erik. «Torna in macchina e chiama i rinforzi.» Anna-Maria ha l'impressione che i colleghi ci mettano un'eternità ad arrivare. «Tredici minuti» dice Sven-Erik guardando l'orologio. Fred Olsson e Tommy Rantakyrö su un'auto civile e quattro colleghi in giubbotto di kevlar e uniforme nera. Tommy Rantakyrö e Fred Olsson parcheggiano fuori lungo il fiume, poi corrono accucciati fino al cortile di Lars-Gunnar. Sven-Erik ha spostato la macchina di Anna-Maria fuori dalla portata di tiro. L'altra auto invece entra in cortile e i poliziotti ci si riparano dietro. Sven-Erik prende un megafono. «Ehi!» grida. «Lars-Gunnar! Se sei lì dentro, vieni fuori, dobbiamo parlare.» Nessuna risposta. Anna-Maria incrocia lo sguardo di Sven-Erik e scuote la testa. I quattro con l'equipaggiamento di protezione fanno irruzione. Due dalla porta, uno prima e l'altro subito dopo. Due dalla finestra sul retro. Il silenzio è assoluto, a parte il rumore del vetro che si rompe. Gli altri aspettano. Un minuto. Due. Poi uno esce sulla veranda e fa un cenno. Via libera. Il cadavere di Lars-Gunnar è sul pavimento davanti al divano. La parete dietro lo schienale è macchiata di sangue. Sven-Erik e Tommy Rantakyrö spostano la credenza che è al centro della stanza, sopra la botola. «C'è qualcuno qui sotto» grida Tommy Rantakyrö. «Vieni su» dice allungando una mano.
Ma la persona che è là sotto non viene. Alla fine Tommy scende. Gli altri lo sentono: «Merda! Stai calma. Riesci a stare in piedi?» Ora sale le scale. Lentamente. Gli altri la aiutano. La prendono sotto le braccia. Allora si lamenta piano. Ci vuole una frazione di secondo prima che Anna-Maria riconosca Rebecka Martinsson. Metà del viso è gonfia e blu. Ha una grossa ferita sulla fronte e il labbro superiore penzola attaccato a un lembo di pelle. «Era come una pizza con sopra di tutto» dirà molto più tardi Tommy Rantakyrö. Anna-Maria pensa soprattutto ai suoi denti. Sono così stretti. Come se la mascella si fosse bloccata. «Rebecka» dice. «Cosa...» Ma Rebecka la allontana con un gesto della mano. Anna-Maria la vede dare un'occhiata al corpo sul pavimento prima di uscire barcollando. Anna-Maria Mella, Sven-Erik Stålnacke e Tommy Rantakyrö la seguono. Fuori il cielo si è ingrigito. Nubi cupe e cariche di pioggia li sovrastano. Fred Olsson è in cortile. Non dice una parola quando vede Rebecka, ma spalanca la bocca attorno al non detto e sbarra gli occhi. Anna-Maria guarda Rebecka, ferma come una statua a osservare il cadavere di Nalle. Istintivamente tutti sentono che non è il caso di toccarla. È chiusa nel suo mondo. «Dove cazzo è l'ambulanza?» chiede Anna-Maria. «Sta arrivando» risponde qualcuno. Anna-Maria alza gli occhi. Sta iniziando a gocciolare. Devono coprire il corpo in cortile, con una cerata o qualcosa del genere. Rebecka fa un passo indietro. Agita la mano davanti al viso come se ci fosse qualcosa che vuole scacciare. Poi si mette a camminare. Prima va verso la casa. Poi cambia direzione e punta verso il fiume. Si muove come se avesse gli occhi bendati, sembra non sapere dov'è e dove va. Poi arriva la pioggia. Anna-Maria sente arrivare il freddo autunnale come un flusso di aria fredda che spazza il cortile. Mille aghi di ghiaccio. Solleva la lampo, affonda il mento nel collo della giacca. Deve cercare quella cerata. «Tienila d'occhio» grida a Tommy Rantakyrö con un cenno in direzione di Rebecka che si allontana barcollando. «Tienila lontana dal fucile dentro
casa, anche dalle vostre armi. E non lasciarla scendere al fiume.» Rebecka Martinsson attraversa il cortile. C'è un ragazzo morto morto morto per terra. Poco fa era seduto in cantina e dava da mangiare un biscotto a un topolino. C'è vento. È un rombo nelle orecchie. Il cielo si riempie di graffi, profondi squarci che a loro volta si riempiono di inchiostro nero. Piove? Ha iniziato a piovere? Solleva le mani al cielo per vedere se si bagnano. Le maniche scivolano giù, scoprendo i polsi sottili, le mani come betulle spoglie. La sciarpa le cade a terra. Tommy Rantakyrö rincorre Rebecka Martinsson. «Ehi» dice. «Non verso il fiume. Presto arriverà l'ambulanza e...» Non ascolta. Continua a barcollare verso la riva. Tommy trova che sia orribile. Che lei sia orribile. Orribili occhi spalancati in un viso di carne nuda. Non vuole restare solo con lei. «Sorry» dice afferrandola per un braccio. «Non posso... Non puoi andare da quella parte.» Ora la terra si spacca come un frutto marcio. Qualcuno la prende per un braccio. È il pastore Vesa Larsson. Non ha più la faccia. Una testa di cane gli spunta dalle spalle. Due scuri occhi canini la guardano con riprovazione. Aveva dei figli. E dei cani che non possono piangere. «Cosa vuoi da me?» strilla Rebecka. Ora ha di fronte il pastore Thomas Söderberg. Sta tirando fuori dal pozzo bambini morti. Si china e li tira fuori uno alla volta, tenendoli per i talloni o per le caviglie. Sono nudi e bianchi. La loro pelle è floscia e gonfia d'acqua. Li getta in un mucchio che cresce sempre di più ai suoi piedi. Quando si volta, si trova faccia a faccia con sua madre. È così bella e pulita. «Non mettermi addosso quelle mani» dice a Rebecka. «Capisci? Capisci cosa hai fatto?» Anna-Maria Mella ha trovato un tappeto da stendere sul corpo del figlio di Lars-Gunnar. Non è facile immaginare cosa potrebbero volere i tecnici. Deve anche far bloccare la zona prima che arrivi tutto il paese. E la stampa. Ci mancava solo che si mettesse a piovere. Nel bel mezzo di quel casino, mentre corre con il tappeto in mano e grida di mettere le delimitazioni,
sente nostalgia di Robert. Ha voglia che sia già sera, quando potrà piangere fra le sue braccia. Perché è tutto così assurdo e complicato. Tommy Rantakyrö la chiama e lei si volta. «Non riesco a tenerla» grida. Sta lottando con Rebecka Martinsson nell'erba. Lei agita le braccia e picchia violentemente attorno a sé. Si libera e si mette a correre verso il fiume. Sven-Erik Stålnacke e Fred Olsson la rincorrono. Anna-Maria non fa nemmeno in tempo a reagire che Sven-Erik la ha già raggiunta. Fred è subito dietro. La riprendono. Si divincola come un serpente tra le braccia di Sven-Erik. «Buona» dice ad alta voce. «Buona, buona.» Tommy Rantakyrö si tiene una mano sotto il naso. Un rivolo di sangue gli scorre tra le dita. Anna-Maria ha dei fazzoletti di carta in tasca. C'è sempre qualcosa da asciugare dalla faccia di Gustav. Gelato, banana, moccio. Li tende a Tommy. «Stendila sulla schiena» grida Fred Olsson. «Dobbiamo legarla.» «Neanche per sogno» risponde Sven-Erik brusco. «Arriva o no, questa ambulanza?» L'ultima frase è diretta ad Anna-Maria, che risponde che non lo sa con un cenno del capo. Ora Sven-Erik e Fred Olsson tengono Rebecka uno per braccio. È in ginocchio in mezzo a loro e si agita da una parte all'altra. In quel momento finalmente arriva l'ambulanza, seguita da un'altra autopattuglia. Sirene e lampeggianti nella pioggia grigia. Che vita di merda. E in mezzo a tutto il resto, Anna-Maria sente Rebecka gridare. Rebecka Martinsson grida. Grida come una pazza. Non riesce a smettere. Zampe Gialle È nero come il demonio. Arriva di corsa attraverso un mare di garofani selvatici rosa scuro. Le capsule bianche e cotonose volano come neve nel sole autunnale. Poi si ferma di colpo a cento metri da lei. Ha il petto largo. La testa anche. Il pelo lungo e nero. Bello non è, ma è grande. Come lei. Aspetta immobile che lei si avvicini. È da ieri che lo ha sentito arrivare. Lo ha chiamato, cantando per lui. Gli ha raccontato che era sola nel buio. E ora è venuto. Finalmente è venuto.
La felicità le solletica le zampe. Gli va dritta incontro. La sua corte è senza riserve. Abbassa le orecchie e inarca la schiena a formare una morbida S. La coda di lui si agita in lunghe e lente oscillazioni. Naso contro naso. Naso contro genitali. Naso sotto la coda. Poi di nuovo naso contro naso. Petto in fuori e collo teso. Il tutto è quasi insostenibilmente solenne. Zampe Gialle mette le sue carte in tavola. Se mi vuoi sono tua, dice chiaramente. Poi lui dà il segnale. Posa una zampa anteriore sulla sua spalla e fa un balzo in avanti, quasi giocoso. A quel punto lei non riesce più a trattenersi. La voglia di giocare che aveva dimenticato torna ad assalirla, irresistibile. Si allontana con un salto. Parte di scatto, sollevando uno spruzzo di terra. Accelera, cambia direzione di colpo, torna indietro e si getta su di lui con un lungo balzo. Si volta. Abbassa la testa, aggrotta il naso e scopre i denti. E poi riparte. Lui si getta all'inseguimento e quando la raggiunge ruzzolano entrambi a terra in una capriola. Sono fuori di sé dalla gioia, giocano come pazzi. Poi si sdraiano uno sopra l'altra ansimanti. Zampe Gialle allunga pigramente il collo e gli lecca la bocca. Il sole tramonta tra i pini. Hanno le zampe stanche e soddisfatte. Tutto è adesso. * Rebecka Martinsson si rimetterà in piedi, ho fiducia in quella ragazzina dagli stivali rossi. E ricordate: nelle mie storie, dio sono io. I personaggi a volte potranno anche agire di loro volontà, ma sono io che li ho inventati. Anche la maggior parte dei luoghi del libro sono inventati. Esiste un paese di nome Poikkijärvi sulle rive del Torneälven, ma li finiscono le somiglianze. Non c'è nessuna strada sterrata, nessun ristorante, nessuna canonica. Molte persone mi hanno aiutata a scrivere questo libro e qui voglio ringraziarne alcune: l'avvocato Karina Lundström, che scova personaggi interessanti all'interno della polizia. Il primario Jan Lindberg, che mi ha aiutata con i miei morti. La dottoranda Catharina Durling e il giudice Viktoria Edelman, che hanno consultato i codici quando non capivo qualcosa o non avevo voglia di farlo. L'addestratore di cani Peter Holmström, che mi ha parlato del supersegugio Clinton.
Gli errori nel libro sono miei. A volte mi dimentico di chiedere alcune cose, altre le capisco male e altre ancora preferisco inventarle. Grazie anche all'editor Gunnar Nirstedt per i suoi commenti. A Elisabeth Ohlson Wallin e a John Eyre per la copertina dell'edizione svedese. A Lisa Berg e a Hans-Olov Öberg che hanno letto e apprezzato. A mia madre e a Eva Jensen che hanno sempre avuto la forza di premere il tasto repeat e dire: Fantastico! Sul serio! A mio padre che si occupa dell'ambientazione delle mie storie e che sa rispondere a qualsiasi domanda e che ha visto un lupo quando aveva diciassette anni mentre stava calando alcune reti. E infine: a Per, per tutto. FINE