TIM LaHAYE & GREG DINALLO IL SERPENTE DI BRONZO (Babylon Rising, 2003) DEDICATO al GENERALE LEW WALLACE, il cui Ben Hur ...
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TIM LaHAYE & GREG DINALLO IL SERPENTE DI BRONZO (Babylon Rising, 2003) DEDICATO al GENERALE LEW WALLACE, il cui Ben Hur - apparso nel 1880 e sottotitolato Una storia del Cristo - mi ha insegnato che i romanzi possono essere emozionanti e istruttivi nel contempo e affascinare sia il lettore ateo sia quello cristiano. Con più di sei milioni di copie stampate e uno spettacolo teatrale visto da più di mezzo milione di spettatori a cavallo tra il XIX e il XX secolo, il libro ebbe risonanza internazionale e da esso furono tratte tre versioni cinematografiche: due nell'epoca del muto - nel 1907 e nel 1925 - e infine, nel 1959, il classico in Technicolor di William Wyler, interpretato da Charlton Heston, uno dei film più amati di tutti i tempi; a JERRY B. JENKINS, mio co-autore nella stesura della serie «Gli esclusi», diventata un caso editoriale, che mi ha coadiuvato nel mettere per iscritto la mia visione romanzata della profezia biblica basata sull'Apocalisse. Insieme abbiamo dimostrato che nel XX secolo era ancora possibile scrivere un romanzo contenente un messaggio; a GREG DINALLO, co-autore di questo libro, il quale ha contribuito a dare forma alla mia visione di un thriller del XXI secolo la cui elettrizzante trama si basa sulle profezie della Bibbia non trattate nei libri della serie «Gli esclusi»; e ai PROFETI EBREI, che ebbero, per ispirazione divina, visioni di eventi terreni che potrebbero accadere nella parte iniziale del XXI secolo. Tali eventi devono essere rivelati a coloro i quali vivono in quelli che i profeti chiamarono «gli Ultimi Giorni» e che alcuni storici moderni definiscono «la fine della storia». 1 Esattamente trentatré ore e quarantasette minuti dopo essere stato per l'ultima volta in chiesa, Michael Murphy stava scivolando in un abisso terribile e oscuro. La preghiera non gli era mai sembrata così necessaria come in quel momento. Nell'oscurità più assoluta, accompagnato soltanto
dal sibilo del proprio corpo che cadeva, Murphy non aveva idea di cosa gli stesse succedendo. Sapeva solo che stava precipitando. Molto velocemente. Con tutto il suo metro e novanta di altezza. Appena un istante prima, stava sul tetto di quello che sembrava un magazzino abbandonato in una strada secondaria di Raleigh, North Carolina. Era piuttosto inconsueto, per lui, trovarsi in un posto del genere. Di solito, le notti del lunedì, durante il semestre accademico, preparava la lezione del giorno dopo. Eppure era bastata un'unica parola per fargli lasciare tutte le normali attività e correre verso quel luogo umido e deserto. Certo, era una parola in aramaico, una delle tante lingue antiche che Michael Murphy leggeva piuttosto bene. Le lettere in aramaico erano state minuziosamente vergate con un inchiostro turchino, penetrato profondamente in un foglio di spessa, costosa carta riciclata color avorio, avvolto con cura e legato con un nastro translucido a una grossa pietra. Una pietra che, nel tardo pomeriggio, era entrata di schianto attraverso la finestra al primo piano dello studio di Murphy al campus. Chiunque avesse gettato la pietra era scomparso prima che Murphy potesse arrivare alla finestra. Allora lui svolse la carta e lesse l'unica parola che vi era scritta. Poi la fissò e prese a contare. Trenta secondi dopo, il telefono squillò. Murphy sapeva quale voce avrebbe udito all'altro capo del filo, anche se non aveva mai visto il volto della persona cui quella voce apparteneva. «Salve, Mathusalem, vecchia canaglia.» Come risposta ci fu una risata chioccia, un suono che Murphy avrebbe riconosciuto ovunque. «Oh, Murphy, non mi deludi mai. Penso proprio di aver suscitato il tuo interesse.» «Emi costi la riparazione della finestra.» Guardò di nuovo quella parola sul foglio. «È vero?» «Murphy, ti ho mai deluso?» «No. Hai fatto del tuo meglio, svariate volte, coi tuoi modi bizzarri, per uccidermi, però... deludermi, mai. Dove e quando?» Il suono stridulo si tramutò in uno schiocco di lingua. «Via, non mettermi fretta, Murphy. Fisso io regole e tempi, guido io la partita. Ma, credimi, questa sarà la migliore di sempre. Per me, almeno.» «Allora immagino che, come al solito, nessun individuo sano di mente
accetterebbe questa tua sfida, vero?» «Solo un giovanotto appassionato come te. Tuttavia, come sempre, ti do la mia parola. Se sopravvivi, avrai ciò per cui hai lottato. E, credimi, per questo premio vorrai sopravvivere.» «Voglio sempre sopravvivere, Mathusalem. Al contrario di te, per me la vita è preziosa.» Il vecchio sbuffò. «Non così preziosa da non venire ad annusare come un cane avido l'osso che ti ho appena lanciato. Basta con le chiacchiere. Stasera, alle nove e diciassette. Fatti trovare sul tetto del magazzino al numero 83 di Cutter Place, a Raleigh. E accetta il mio consiglio, ragazzo. Se verrai, e so che lo farai, goditi queste ultime ore.» Dopo un'altra risata stridula, la linea divenne muta. Murphy scosse il capo, mise giù la cornetta e prese il foglio. Il nome che lesse fece volare i suoi pensieri ancor più veloci di prima. Per Michael Murphy - studioso che non limitava la sua attività a pile di vecchi tomi polverosi, archeologo che si dedicava alla caccia di reperti in grado di confermare eventi scritti nelle pagine della Bibbia - quello era il nome del profeta che lo affascinava più d'ogni altro. DANIELE Per il resto della giornata, Murphy non riuscì quasi a far altro se non riflettere sul suo appuntamento notturno con Mathusalem. Erano passati circa due anni dalla prima volta che era stato contattato da quell'eccentrico personaggio. Ogni volta, senza preavviso e senza mai mostrare il suo volto, Mathusalem gli aveva inviato un messaggio: un'unica parola in una lingua antica, il nome di uno dei libri della Bibbia. A ciò, entro un minuto, seguivano enigmatiche istruzioni che lo conducevano immancabilmente in una località deserta, dove Mathusalem lo osservava da un nascondiglio sicuro, facendosi beffe di lui, mentre Murphy cercava di sopravvivere a sfide autentiche, mortali. Ogni volta il rischio di morte era altissimo. In apparenza, Mathusalem era tanto serio nei suoi giochetti sadici quanto lo era nella scientificità delle sue scoperte. E, sempre in apparenza, aveva abbastanza denaro non soltanto per entrare in possesso dei reperti, ma anche per permettere alle sue più pazze fantasie di attirare Murphy in trappole mortali, pianificate con estrema attenzione. Avrebbe davvero permesso che Murphy morisse, se mai la cosa potesse succedere? Fino a quel momento, ogni volta Murphy
aveva rischiato la vita e ogni volta non aveva avuto dubbi: Mathusalem lo avrebbe lasciato morire. Eppure, malgrado due costole rotte, un polso fratturato e troppe cicatrici per ricordarle tutte, Murphy era sempre riuscito a fare appello a tutte le sue notevoli abilità e rimanere vivo abbastanza a lungo per reclamare il suo premio. E che premi erano stati... Tre reperti che Murphy non avrebbe avuto altra possibilità di vedere. La loro autenticità era stata dimostrata in laboratorio, però Mathusalem non aveva mai fatto parola delle sue fonti. Erano parecchie le questioni che tormentavano Murphy in merito a quegli incredibili, fantastici oggetti, tuttavia, quando aveva reso pubblici i reperti, nessuna organizzazione, nessun governo e nessun collezionista privato si erano fatti avanti per denunciarne il furto. A prescindere da come e dove Mathusalem fosse venuto in possesso di quei tesori, essi si erano sempre rivelati tali. Per Murphy, insomma, quell'uomo rimaneva un assoluto mistero. Definirlo «un eccentrico» non era neanche un punto di partenza per spiegare il suo modo di fare. Senza dubbio era un esperto di oggetti antichi, ma da dove veniva? E come riusciva a reperire manufatti che avrebbero fatto venire l'acquolina in bocca a qualsiasi archeologo? Murphy lo ignorava. Inoltre era particolarmente sconcertante il fatto che Mathusalem non tenesse quei tesori per sé o li donasse a un museo. E perché mai sceglieva quegli stranissimi «giochi» per offrire a Murphy la possibilità di rivendicarne il possesso? Essendo onesto, Murphy era convinto di non poter vedere le eventuali zone d'ombra che celavano la provenienza dei reperti. Quanto all'identità di Mathusalem, lo immaginava come un ricco collezionista, ben inserito nell'ambiente, ma totalmente pazzo. Anche se c'era un aspetto preoccupante. La religione. Di certo, Mathusalem non era un uomo devoto. Al contrario. Gran parte del piacere che lui sembrava provare in quelle sfide consisteva nello schernire Murphy a proposito della sua fede. Fino a quel momento, Murphy aveva vinto ogni sfida e doveva ammettere che, oltre alla possibilità di entrare in possesso dei reperti, a motivarlo era anche l'occasione di ribattere ai maligni insulti di Mathusalem riguardo alla sua fede. Ciò giustificava ben poco il rischio di mettere a repentaglio la propria vita, Murphy lo sapeva bene. Tuttavia orgoglio, temperamento e testardaggine erano in testa alla lista dei suoi difetti. Le riserve più forti sulle sue spericolate avventure con Mathusalem scaturivano dalla sua profonda fede religiosa, la quale
rendeva molto più difficile giustificare il rischio mortale che lui correva ogni volta. E giustificarlo non soltanto nei confronti di se stesso, ma anche di sua moglie Laura. La passione di Murphy nella ricerca di reperti era stata un vero banco di prova dell'amore di Laura per il marito. Il fatto che lei avesse una laurea in Culture dell'antichità era certamente d'aiuto. Tuttavia, dopo ogni vicenda, c'erano state molte discussioni e molte promesse. Lui sosteneva che avrebbe cercato di resistere alla prossima tentazione di Mathusalem, ma Laura sapeva che, prima o poi, ci sarebbe stata un'altra pericolosissima trappola. Mathusalem doveva semplicemente mostrare al marito un altro reperto… Era stata quella consapevolezza che aveva spinto Murphy a buttar giù una nota frettolosa prima di partire per Raleigh. Laura era a un congresso, ad Atlanta, e non sarebbe tornata prima della sera seguente. Così Murphy aveva scritto quel poco che sapeva sulla propria destinazione, lasciando poi il messaggio sulla mensola del camino in salotto. Per ogni evenienza. Tenne il piede leggero sull'acceleratore per tutto il viaggio da Preston a Raleigh così da essere certo di non beccarsi una multa per eccesso di velocità, l'unico rischio che, quella sera, poteva senz'altro evitare. L'indirizzo che Mathusalem gli aveva dato corrispondeva a un edificio di otto piani, posto in una strada deserta di un quartiere abbandonato. Raggiunto il tetto, Murphy cercò qualche indizio per la mossa seguente. Senza nessun preavviso, il tetto gli si aprì sotto i piedi e fu allora che lui si ritrovò a precipitare all'interno dell'edificio. In caduta libera. Nei pochi istanti dall'inizio della discesa, nella sua mente passarono in un lampo il ricordo di quanto fosse bella Laura il giorno innanzi, prima di recarsi all'aeroporto, e una rapida preghiera. Poi Murphy evocò i suoi anni di pratica di arti marziali, costringendosi a trovare la posizione migliore da assumere nel momento in cui fosse giunto al suolo. Quando avrebbe toccato terra - prima o poi doveva accadere, pensò -, non sarebbe stato affatto piacevole. Assunse la posa che aveva definito «l'ultimo anelito del gatto», la sua umile interpretazione di una manovra di atterraggio tibetana. A suo parere, corrispondeva ai movimenti che un gatto - giunto alla nona vita - avrebbe eseguito per atterrare indenne. Rilassò ogni muscolo, lottando contro l'istinto d'irrigidirsi in attesa di un impatto tremendo.
Invece rimbalzò. Nello spazio nero come la pece, il suo corpo urtò quella che sembrava un'enorme rete. E quel rimbalzo lo disorientò ancor più della caduta. Una sensazione intensificata da un lampo di luce che lo accecò. «Molto gentile ad avere fatto un salto qui, Murphy.» Mathusalem. Sebbene Murphy non riuscisse ancora a vedere, quella risata chioccia che riempiva l'aria era inconfondibile. E, anche se avesse potuto vedere chiaramente, Mathusalem sarebbe stato ben nascosto, come sempre. «Probabilmente stai ancora cercando di ritrovare l'orientamento, perciò non riesci ad apprezzare quanto sia magnifica questa vecchia costruzione. La via di caduta attraverso tutti i piani è stata realizzata per poter calare i materiali dal tetto fin quaggiù, al livello di lavoro principale. Ho chiesto ai miei collaboratori di prepararla apposta per te, ma, all'ultimo momento, ho avuto pietà e ho fatto montare la rete. Mi sto rammollendo. Speriamo che tu non faccia altrettanto.» Finalmente Murphy smise di rimbalzare e rotolò fino al bordo della rete. La vista stava tornando normale, tuttavia non sembrava che ci fosse molto da vedere all'interno di quell'edificio. Muri bianchi, un pavimento enorme... Il soffitto doveva trovarsi parecchi piani più in alto, ma la cupa oscurità e il bagliore penetrante di vari riflettori, montati alle pareti, rendevano impossibile appurare dove fosse o se esistesse. La rete di corda spessa, annodata a croce, si estendeva solo su una parte del piano. Era legata a quattro massicci pali di legno assicurati al suolo e stabilizzati da grossi sacchi, che - rifletté Murphy - dovevano essere pieni di sabbia. Al lato opposto dello stanzone si ergeva una luccicante porta scorrevole di argenteo metallo ondulato. Era chiusa. Una piattaforma rialzata, protetta da pannelli di vetro massiccio, circondava il locale. Era lì che doveva trovarsi Mathusalem, pensò Murphy, benché non riuscisse a intravedere neanche una sagoma. La sua mente si stava schiarendo e il respiro cominciava a tornare normale. «Certamente è valsa la pena di venire fin qui, Mathusalem. Ora posso avere il mio premio e tornare a casa?» «Perché, te lo saresti guadagnato, secondo te? Quello era soltanto un modo originale per farti entrare nel gioco. Preparati allo spettacolo vero. Adesso.» Murphy udì un suono inquietante, un rombo cupo che riempiva lo spazio vuoto.
«Ah, professor Murphy, lo vedo dalle tue orecchie dritte, sei pronto ad affrontare il tuo avversario.» Con un sospiro, Murphy pensò: Così ora inizia davvero... Poi giunse un secondo rumore, ancora più minaccioso. Qualcosa urtò contro il lato opposto della porta metallica. Murphy si rese improvvisamente conto che quel qualcosa stava per sbucare dalla porta e lanciarsi proprio contro di lui. «Senti un po', Mathusalem... Non vuoi farmi dare un'occhiata al tuo ultimo reperto, prima? Almeno conoscerò il motivo per cui hai provato così ostinatamente a uccidermi.» «Sì, lo sai che mi piace divertirmi con te, Murphy. Voglio proprio che tu resti in vita per guadagnarti questo premio. È roba che scotta. Dirami, perché oggi ti sei così emozionato nel leggere la parola 'Daniele'?» Prima che l'altro potesse rispondere, ci fu un terzo colpo, ancora più violento, contro la porta. Murphy non poté trattenersi dal sobbalzare, guardando preoccupato la barriera di metallo. «Finora hai messo in palio alcuni superbi reperti di epoca biblica, Mathusalem. Non so come li hai ottenuti, però io, da solo, non li avrei mai trovati. E Daniele... Be', sai che era il più importante dei profeti. L'ho studiato per anni. Fammi almeno dare un'occhiata al reperto di Daniele su cui sei riuscito a mettere le mani.» «No. Basta con le chiacchiere, Murphy. Stai per vederlo più da vicino di quanto non vorresti. Stasera, tu non studierai Daniele. Tu sarai Daniele.» Con un fragore metallico, la porta scorrevole dall'altro lato della stanza si sollevò. Nel vano, si stagliò un leone, che lanciò un ruggito. Murphy non poté fare a meno di ammirare il suo colore fulvo, la muscolatura elastica dei fianchi, la folta criniera e il modo in cui gli artigli quasi sfavillavano sotto la luce brillante dei riflettori. Ma il leone non perse tempo ad ammirare Murphy. Con un altro ruggito riecheggiante e lo slancio di tutte e quattro le potenti zampe, si lanciò sull'uomo, come se fosse un pasto pronto, a sua completa disposizione. Istintivamente, Murphy si gettò a terra, piombando con un tonfo sulla sinistra del leone, abbastanza vicino da sentire lo sbuffo caldo del respiro fetido che usciva dalla sua bocca. «Su, Murphy, non scappare. Sii uomo e combatti», gridò Mathusalem. Gli artigli del leone graffiarono il pavimento di legno, mentre la testa si muoveva rapida da una parte e dall'altra, con fare indignato, schizzando gocce di bava su Murphy. Abbandonando la posizione prona in cui era
caduto, l'uomo rotolò due volte, si rialzò e, senza fermarsi, si aggrappò a uno dei pali di legno, balzando poi di nuovo sulla rete. Inseguendolo, il leone sferzò l'aria con una delle zampe anteriori, abbassando gli artigli affilati come lame a pochi centimetri dalla gamba di Murphy per ben due volte. Con la terza zampata, gli ridusse a brandelli la manica sinistra. Prima di poter essere colpito ancora, Murphy fece un salto, ricadendo a qualche decina di centimetri di distanza e poi rimbalzò nuovamente. Il leone prese a zampate più volte la rete, ma sembrò frustrato e confuso da quella preda saltellante. Tra il pavimento di legno scivoloso sotto le zampe posteriori e la rete che gli impigliava quelle anteriori, l'animale si dibatteva e ruggiva. Murphy continuò a saltare il più lontano possibile: sapeva che il momento in cui il leone lo avesse colpito, sia pure con una zampata casuale, poteva essere il suo ultimo istante di vita. «Murphy, smettila di fare il popcorn, scendi giù e dai al micione la possibilità di giocare davvero con te.» Sì, scendo, ma non come credi tu, pensò Murphy. Mise la mano in tasca e ne estrasse un coltellino svizzero. Non aveva nessuna intenzione di uccidere quell'animale, anche se lo scontro era impari: il leone poteva squarciarlo coi suoi artigli, mentre lui disponeva di quell'unica lama. Così, mentre il leone artigliava la rete, cercando di saltare verso di lui, Murphy si mosse barcollando verso uno dei pali e lo raggiunse in quattro salti. Quindi tagliò la fune che sosteneva la rete. «Murphy, sei scorretto», urlò Mathusalem. «Proprio tu parli di scorrettezza, pazzo che non sei altro.» Quindi Murphy prese a saltare verso il palo successivo. Il leone tirava zampate furiose, ma pareva ormai stanco, come un peso massimo a metà di un incontro combattuto. Forse era soltanto un pio desiderio... pensò Murphy. Eppure l'animale sembrava veramente confuso dai suoi movimenti rapidi. Quando il secondo lato della rete cadde sotto l'affondo del coltello di Murphy, il leone si rese conto troppo tardi che avrebbe dovuto spostarsi. Le sue zampe anteriori erano adesso tenacemente impigliate nelle pesanti corde. Murphy, più che scendere, scivolò sul pavimento, badando di stare alla larga dagli artigli della belva. O almeno così credeva. Infatti un artiglio posteriore del leone, districandosi dalle funi, lo colpì, provocandogli un dolore intenso alla spalla sinistra. Murphy si slanciò verso una delle due corde cui era ancora attaccata
la rete; era sul pavimento e riusciva a muoversi più in fretta. Nella migliore delle ipotesi gli rimaneva una decina di secondi prima che il leone riuscisse a liberarsi dalle corde. Il dolore alla spalla gli fece capire che avrebbe dovuto sollevarsi soltanto col braccio destro e fu grato alle centinaia di flessioni che si obbligava a fare in palestra ogni settimana. Si tirò su, girandosi velocemente, poi saltò di nuovo per afferrare il palo e tagliò la terza corda proprio mentre il leone si liberava dal mucchio di funi. Intrappolato di nuovo dalla rete, il leone crollò al suolo. Ruggì con un respiro spezzato, pesante, cercando di liberarsi a forza di artigli. Murphy rotolò a terra, ma si assicurò di essere completamente fuori portata della belva. «Ah, Murphy, hai rovinato tutto», disse Mathusalem, quasi balbettando. «Però sei combattivo. Per essere un inutile docente di Esegesi biblica hai fegato, te lo concedo.» Murphy ansimava quasi come il leone. «Perché invece non mi dai il mio reperto?» riuscì a dire, tra un ansito e l'altro. «Be', te lo sei guadagnato, suppongo. Tuttavia non sarà facile come pensi.» Murphy si rizzò, sollevando lo sguardo verso la piattaforma. «Che tiro mi stai giocando, Mathusalem?» «Zitto e ascolta. È proprio davanti a te. Lo devi soltanto prendere.» «Prendere cosa? Dove?» Murphy aveva un brutto presentimento. «Oh, il tuo fisico è ancora in forma, Murphy, ma tutti quegli scavi ti hanno ridotto il cervello in pappa. Guarda il collo del leone.» Murphy notò che, intorno al collo del leone, era legata una sottile striscia di pelle. Attaccato alla striscia, poi, c'era un tubo rosso, simile per forma a un contenitore per sigari, ma molto più grande. «Oh, no, Mathusalem. Credi che lotterò di nuovo col leone solo per prendergli quella roba intorno al collo? È troppo folle anche per te.» Tacque un istante, sentendo che l'occasione stava per sfuggirgli, poi riprese: «Ma insomma, cosa c'è nel tubo?» Mathusalem si abbandonò a una delle sue risate. «Oh, Murphy, ti ho messo addosso una bella smania, stasera. Non puoi resistere: ti conosco troppo bene. Tornerai da lui. Non puoi fermarti. E stavolta... ah-ah-ah! Quel bel micione ti farà pagar cara la tua curiosità.» Murphy guardò il coltello che teneva in mano e fu tentato di usarlo. Poi però lo richiuse e lo rimise in tasca.
«Oh, sempre il bravo boy-scout, eh? Vuoi un duello leale...» Murphy scosse il capo e si diresse al palo più vicino al leone, che stava ancora a terra. «No, Mathusalem, non voglio proprio un duello leale, ma pazienza. Non voglio uccidere quel leone più di quanto stasera voglia uccidere te... E Dio mi è testimone che tu mi hai fatto pensare a quella possibilità più di quanto abbia fatto lui. Però questo fatto non m'impedirà di sfruttare la situazione a mio vantaggio.» Raccolse il sacco che zavorrava il palo. Per sollevarlo doveva usare entrambe le braccia, ma la spalla sanguinante lo fece urlare dal dolore e quasi se lo lasciò cadere su un piede. Preferì quindi trascinarlo verso il punto in cui il leone cercava ancora disperatamente di strappare la rete che gli imbrigliava le zampe. «Farà certamente più male a te che a me», grugnì Murphy, lasciando cadere il sacco sulla testa del leone, il quale crollò come uno straccio, privo di sensi. Per qualche istante, Murphy guardò la bestia immobile che respirava piano. Poi allungò la mano verso la striscia di pelle che assicurava il tubo al collo. Trattenne il fiato e, con uno strattone, liberò l'oggetto dalla criniera. Aveva il suo premio. Ma quel tubo era così leggero... Che fosse vuoto? «Che roba è, Mathusalem? Non posso mica accontentarmi di un sigaro.» Mathusalem non rispose subito. La porta di metallo scorse verso l'alto. «Hai vinto, Murphy, ora vattene. Goditi il tuo bottino di guerra. Ma ti dirò tre cose, perché il guerriero vincitore merita rispetto. Anzitutto, come ti ho accennato, quella roba scotta, scotta davvero.» «Scotta nel senso che è rubata?» «Non importa in quale modo l'ho avuta. Come per le altre cose che ti ho dato, nessun proprietario infuriato ti darà la caccia. Ma c'è qualcuno che ti verrà a cercare, quando saprà che la possiedi. Non so chi sia, né perché sia così interessato, però io faccio perdere le mie tracce molto bene... Ho raccolto parecchie voci su qualcuno che sta disperatamente cercando di venire in possesso di quella cosa e non si fermerà davanti a niente, a niente, per averla.» «Ma per avere che? Cosa c'è, qui dentro?» «E arriviamo al secondo punto. Il tubo non contiene il reperto, bensì la chiave per trovarlo. E quali siano la chiave e il reperto devi scoprirlo da solo. Credo che tu sia una delle poche persone al mondo in grado di farlo. E so pure che, se troverai la soluzione, sarà la scoperta della tua vita. Ammesso che tu sopravviva.»
«Ma... Daniele? Ha qualcosa a che fare con Daniele?» Murphy era esasperato. «Punto numero tre. Il legame non ti sarà evidente, però ti giuro... Sì, sono certo che è una cosa autentica e ti farà diventare il re del tuo 'circolo della Bibbia'. Te lo garantisco. E ora, fuori.» «Su, Mathusalem, non puoi lasciarmi così in sospeso. Che cos'è?» «Posso e lo farò, Murphy. Vattene. Non so perdere, lo sai.» Con un ultimo sguardo pieno di dolore al leone, Murphy si avviò verso la porta, stringendo saldamente il tubo. «Allora addio, vecchio pazzo. Immagino di doverti ringraziare.» Un attimo prima che Murphy varcasse la soglia, Mathusalem ringhiò: «Murphy, non essere troppo sicuro di te stesso e delle tue gesta... bibliche. Sta' attento, dammi retta. Se qualcuno deve ucciderti, quel qualcuno vorrei essere io, durante una delle nostre partite». Murphy alzò lo sguardo alla piattaforma. «Sei il solito sentimentale, Mathusalem. Grazie per l'avvertimento, ma finora il risultato è: cristiani uno, leoni zero.» 2 Babilonia, 604 a.C. L'urlo trafisse la notte babilonese come il ruggito di una grande bestia in agonia. Risuonò lungo i corridoi di pietra e lo si udì anche fuori delle mura del palazzo, nella piazza illuminata dalla luna e nel labirinto di vicoli dove dormivano i mendicanti. Persino gli uccelli acquatici sulle rive del grande fiume reagirono al grido con un rauco stridio, quindi si levarono in volo sopra le rive sulle quali era costruita la città. All'urlo seguì un silenzio che era, se possibile, ancor più agghiacciante. Poi l'agitazione, il movimento convulso e il roteare incontrollato degli occhi che versavano lacrime vere nel più orribile dei sogni. Atmosfera sinistra, caos turbinoso, immagini e suoni provenienti da un regno compreso tra veglia e sonno. Il sovrano del più grande regno esistente non poteva opporsi all'aggressione implacabile che giungeva da dentro la sua mente. Una dozzina delle sue guardie scelte, uomini forti le cui potenti gambe si muovevano pesanti sulle lastre di pietra, gridavano ordini. La luce delle torce, accese in fretta, illuminava i visi contratti dalla paura racchiusi
negli elmi, mentre gli uomini correvano per affrontare qualunque minaccia, per terribile e imprevista che fosse. Con le corte spade sguainate, le guardie irruppero nella camera da letto del re, mentre gli occhi cercavano freneticamente nelle ombre tremolanti il bagliore del pugnale di un assassino. Le ombre della stanza non rivelarono nessuna presenza minacciosa, ma non ci fu un senso di sollievo, giacché ciascuna guardia avrebbe preferito affrontare un assassino piuttosto che indirizzare lo sguardo terrorizzato verso il corpo del re. Nabucodonosor, sovrano dell'impero babilonese, vincitore degli egizi a Carchemish, due volte in dieci anni distruttore di Gerusalemme, il cui nome infondeva paura nei cuori più forti, ora sedeva dritto nel grande letto d'ebano, con gli occhi spalancati, la bocca tremante, la pelle di un pallore spettrale. I cuscini erano fradici di sudore. «Mio signore...» Arioch, capitano della guardia reale, fece un passo avanti, sapendo che avvicinarsi troppo alla persona del re era un invito alla morte. Ma doveva essere sicuro. Il corpo del re sembrava intatto e certamente l'assassino non aveva avuto tempo di fuggire. Era stato avvelenato, allora? Il respiro del re usciva a rantoli convulsi e lui teneva una mano tremante sul cuore. Sebbene stordito, non sembrava provare dolore. Se fosse stato veleno, si sarebbe convulsamente stretto l'addome straziato dalla sofferenza. Controllandosi, sapendo che doveva tranquillizzare con l'esempio i suoi uomini in preda al panico, il capitano attese. «Un sogno.» La voce del re era un sussurro. La voce tonante ridotta a un alito di vento. «Un sogno, mio signore?» Il capitano socchiuse gli occhi. Poteva essere ancora pericoloso. Inviato da uno stregone esperto di magia nera, un sogno poteva uccidere come una lama. «Perdonami, mio signore. Che sorta di sogno era?» Il re si voltò a guardarlo. «Era certamente terribile», aggiunse in fretta. Il re serrò gli occhi, pensoso, come se cercasse di ricordare un nome o di riportare alla memoria il viso di un amico morto da tempo. «No», disse infine, con una smorfia di rabbia. La voce era quasi tornata al suo timbro normale, mentre afferrava il boccale di vino a fianco del letto e lo gettava sul pavimento. «Non posso dirlo, non ricordo nulla!» «Parlate!» Il re strinse i braccioli del trono dorato, le dita aggrappate alle elaborate teste di leone che vi erano intagliate, guardando gli uomini
davanti a lui. Erano strani a vedersi. Due caldei con le teste rasate e gli occhi socchiusi, nudi eccetto per un perizoma di stoffa e i sacri amuleti intorno al collo. Un nubiano dalla pelle nera con una pelliccia di ghepardo sulle spalle magre. Un egizio, la cui semplice sottoveste di cotone contrastava con un impressionante cerchio nero di kohl intorno agli occhi. E un babilonese, sacerdote di Marduk, portatore della pestilenza. «Portatemi qui oggi stesso i migliori maghi», aveva ordinato Nabucodonosor. «Stanateli dai quattro angoli di Babilonia, perché il mio animo è ansioso. Devo sapere il significato del mio sogno.» I volti degli uomini, che stavano in piedi a semicerchio intorno al trono reale, brillavano del sudore della paura. «Parlate, cani, o vi assicuro che prima del tramonto le vostre inutili carcasse saranno cibo per gli sciacalli», gridò il re. Non avevano motivo di dubitare delle sue parole. Da quando aveva avuto quel sogno, lui non pensava ad altro. Le sue notti erano un tormento di agitazione insonne e i suoi giorni trascorrevano nel tentativo infruttuoso di ricordare anche il minimo dettaglio della visione. Ora stava ai suoi indovini farlo rivivere per lui. Se non ci fossero riusciti, la fila di soldati allineati dietro il trono, con le corte lance in posizione, rendeva chiare le conseguenze. Mentre il silenzio si protraeva, angoscioso, Amukkani, capo dei maghi caldei, si schiarì la voce e tentò un sorriso suadente. «Forse al mio signore è stata concessa una visione dallo stesso Kishar, una visione della quale soltanto tu sei degno. Forse il dio ti ha tolto la memoria in modo che tu non lo possa raccontare alle persone comuni.» S'inchinò profondamente, mentre Nabucodonosor lo fissava coi penetranti occhi neri. «Che senso avrebbe, idiota? Darmi una visione per poi togliermela! Se era soltanto per me, allora dovrei sapere cos'è!» Palpandosi gli impomatati riccioli della barba, il re si rivolse ad Arioch. «Assicurati che le lance siano ben appuntite. Questi cosiddetti saggi sono viscidi come anguille.» Il capitano delle guardie sogghignò. Come molti babilonesi, temeva il potere dei maghi quasi quanto quello dei demoni. Sarebbe stato bello vederli infilzati sulla punta di una lancia. Accorgendosi che il tempo scorreva veloce, l'egizio sospirò teatralmente, come se a un tratto gli fosse balenata un'idea. «Mio signore! Lo vedo! La mia mente è piena di luce, come se brillassero mille torce. E lì, in mez-
zo alle fiamme c'è un fiume di fuoco, e sul fiume...» «Silenzio!» tuonò il re. «Credi di prendermi in giro? Credi che sia una di quelle vecchie e stupide donnicciole che ti pagano per predire il futuro? Quando qualcuno mi descriverà il mio sogno, lo saprò. E saprò anche quando un cane rognoso farà finta di saperlo. Basta! Una scorpacciata di ferro metterà fine alle tue bugie!» E alzò una mano, segnalando ai lancieri di prepararsi. «Aspetta! Ti prego, signore...» Il secondo caldeo si era fatto avanti, come se intendesse toccare il re. Ma era soltanto terrorizzato. «Risparmiaci e ti giuro che saprai qual è il tuo sogno.» Nabucodonosor abbassò la mano e guardò l'interlocutore con un sorriso divertito. «Tutti voi mi avete detto soltanto bugie. Se ti risparmio, cosa me ne viene?» Il caldeo deglutì, la gola secca. «Non possiamo raccontarti il tuo sogno, signore. È vero. Ma so chi lo può fare.» Il re si alzò di scatto e gli indovini si rannicchiarono all'unisono. «Chi, dunque? Chi è costui?» strillò Nabucodonosor. «Un ebreo, signore», continuò il caldeo. «Uno di quelli condotti qui da Gerusalemme.» Si raddrizzò, quasi convinto che sarebbe vissuto per vedere un altro giorno. «Un ebreo che si chiama Daniele.» 3 Shane Barrington non aveva mai conosciuto la paura. Da ragazzo, crescendo nelle strade di Detroit, percorse da una feroce rivalità, aveva ben presto imparato che sopravvivere significava non mostrarsi mai deboli e non permettere all'avversario - per quanto grosso e forte - di cogliere la propria paura. E la lezione imparata per strada gli era servita altrettanto bene nei consigli di amministrazione delle aziende americane. La Barrington Communications era così diventata uno dei colossi mondiali dell'informazione e della tecnologia. E Shane Barrington aveva costruito il suo successo sia sbaragliando senza pietà la concorrenza sia manipolando le cifre con abilità quasi geniale. In quel momento, mentre il Gulfstream IV privato si avvicinava alle coste scozzesi, guardò fuori nell'oscurità gelata e sentì un brivido percorrergli le ossa. Per la prima volta in vita sua, Shane Barrington aveva paura. I suoi occhi scorsero per la centesima volta il tabulato, ormai sgualcito e
macchiato di sudore. Per la centesima volta lesse le colonne di cifre, le piccole righe di numeri che potevano significare la fine di tutto quello per cui aveva lavorato, tramato e mentito. Piccole righe di numeri che potevano distruggerlo con la stessa certezza di un proiettile nel cervello. Aveva ormai rinunciato a capire in qual modo le prove delle «creative» procedure contabili della Barrington Communications fossero filtrate all'esterno. Un sistema cifrato su misura e assolutamente all'avanguardia, unito alla minaccia di gravi conseguenze per chiunque avesse osato tagliargli la strada, aveva tenuto al sicuro il suo segreto per vent'anni. Indubbiamente nessuno dei suoi dipendenti era abbastanza furbo - o abbastanza stupido da tradirlo. Uno dei suoi vecchi rivali in affari, allora? Una sfilza di nomi e volti gli si presentò davanti, ma lui li scartò tutti. Uno era ormai un alcolizzato all'ultimo stadio; un altro si era impiccato nel suo garage. Tutti erano stati annientati, in un modo o nell'altro. Ma allora chi gli aveva spedito quell'e-mail? Lo avrebbe scoperto ben presto. Non appena il primo chiarore dell'alba diventò visibile all'orizzonte, controllò il suo Rolex e calcolò l'ora di arrivo a Zurigo. Un po' prima di quanto richiesto dal suo ricattatore. Nel giro di poche ore si sarebbero trovati a faccia a faccia. E lui avrebbe saputo quale sarebbe stato il prezzo della sopravvivenza. Quando il Gulfstream si arrestò, dopo aver rullato su una pista fuori mano nei pressi di Zurigo, Barrington aveva fatto una doccia, si era sbarbato e aveva indossato un abito blu, confezionato per mettere in risalto il suo fisico atletico. Guardandosi nello specchio del bagno scorse un volto troppo duro per essere veramente bello, labbra sottili e zigomi aguzzi, illuminati da occhi grigio-pietra che ancora bruciavano con l'intensità dell'ambizione giovanile. Il tocco di grigio alle tempie che addolciva i suoi tratti - se ne rendeva conto - gli evitava di sembrare il bellicoso affarista dal cuore duro che in effetti era. Aveva usato le ultime ore per ricomporsi, attingendo alle risorse di fiducia che racchiudeva nel proprio intimo per raccogliere le energie. Mentre metteva piede sulla pista si sentì concentrato, all'erta come un guerriero pronto alla battaglia. Una cosa era certa: non avrebbe ceduto senza combattere. Una lucida Mercedes nera attendeva vicino all'aereo. Accanto c'era un autista in divisa, dalla pelle olivastra e dallo sguardo vuoto, sull'attenti nell'aria fredda del mattino; aprì la portiera posteriore mentre Barrington si
avvicinava e, senza dire una parola, gli fece cenno di salire. «Allora, dove andiamo?» chiese Barrington mentre la Mercedes si arrampicava lungo una tortuosa strada di montagna che sembrava puntare dritta verso le nubi. Silenzio. Nello specchietto retrovisore, scorse l'autista sorridere a labbra strette. «Ho fatto una domanda. E mi aspetto una risposta. Pretendo una risposta.» La fredda minaccia nella sua voce era palese, ma l'autista non batté ciglio. Coi suoi occhi inespressivi, sostenne lo sguardo di Barrington per un istante prima di rivolgere di nuovo l'attenzione alla strada che si snodava, serpeggiando sempre più in alto. In un attimo, la rabbia che Barrington era riuscito a controllare nelle ultime ventiquattr'ore venne a galla. Si sporse innanzi e artigliò la spalla dell'autista, ringhiando: «Dimmelo immediatamente o te ne pentirai, quant'è vero Iddio». L'autista fermò l'auto nel mezzo di un tornante che costeggiava la montagna. Lentamente girò il viso fino a guardare Barrington dritto negli occhi, allungò la mano verso la lucetta dell'abitacolo e la accese. Poi aprì la bocca, mostrando che non aveva la lingua. Mentre Barrington affondava nel sedile, la bocca spalancata per la sorpresa, l'auto accelerò di nuovo; gli unici rumori erano il ronzio regolare del motore e il battere furioso del suo cuore. Il castello sembrò spuntare fuori dalla montagna, come un doccione minacciosamente aggrappato alla guglia di una chiesa. I suoi massicci muri di pietra, sormontati da torrette a punta, saettavano verso il cielo nuvoloso come ad abbracciare l'oscurità, mentre dalle antiche finestre dai vetri impiombati giungeva una luce fioca e tremolante. L'orologio di Barrington segnava quasi mezzogiorno, ma, non appena cominciò a piovere e le gocce presero a tambureggiare sul tetto dell'auto, sembrò che fosse calata la notte. Nelle tenebre davanti a loro, il castello sembrava uscito da un incubo. Mentre Barrington cercava ancora di abituarsi a quell'apparizione medievale di torrette nere bagnate di pioggia, l'autista già apriva la portiera posteriore, impugnando un grande ombrello di foggia antiquata e indicando l'enorme portone di ferro del castello. Con un respiro profondo, ripetendosi che era ancora giorno, che si trovava in un Paese moderno e civilizzato del XXI secolo - tutto il contrario di quanto gli suggerivano i sensi -, Barrington lo seguì. Non fu affatto sorpreso allorché la pesante porta si richiuse. Si ritrovò in
un atrio che si perdeva nelle tenebre. A farlo trasalire, fu un improvviso raggio di luce che illuminò una sezione del muro alla sua sinistra, in apparenza di acciaio lucente. Doveva andare lì? Si girò verso l'autista, ma l'oscurità lo aveva inghiottito. Barrington era solo e, sebbene l'aria fosse stranamente fredda, sentì un rivolo di sudore colargli lungo la schiena. Sforzandosi di andare avanti, si diresse verso la porta d'acciaio, che, al suo avvicinarsi, si aprì con un lieve sibilo. Mentre entrava nell'ascensore e la porta si richiudeva dietro di lui, Barrington ebbe l'impulso - per lui assolutamente straordinario - di mormorare una preghiera. Quando l'ascensore si fermò e le porte si aprirono, Barrington si sentì come se fosse sprofondato nelle viscere della montagna. Il sinistro silenzio gli provocò una fitta di panico che lo lasciò senza fiato, quasi fosse stato sepolto vivo. Una voce tonante lo riportò in sé. «Benvenuto, Mr Barrington. Siamo lieti che ce l'abbia fatta. Prego, si accomodi.» Incespicando come uno zombie, Barrington si mosse a tentoni nell'ombra, verso la sedia di legno intagliato alla sua destra. Sedendosi lentamente, come se quella fosse una sedia elettrica che lo avrebbe ucciso, alzò la testa, nella speranza di poter guardare negli occhi il suo torturatore. Vide invece il profilo di sette persone, sedute a un enorme tavolo di ossidiana che sembrava prosciugare la luce rimasta nella stanza. Illuminata da dietro, ogni figura restava nera e bidimensionale, come la luna durante un'eclissi di sole. Era impossibile distinguerne i lineamenti. La voce parlò di nuovo. Sembrava venire dalla persona seduta al centro dei sette. Non tuonava più, ma, sotto le vocali pronunciate in modo monotono, c'era una durezza stridente che ricordò a Barrington il rumore di unghie che raschiavano una lavagna. «La sua presenza qui indica che lei ha compreso la gravità della sua posizione, Mr Barrington. C'è speranza per lei, quindi. Ma soltanto se, da ora in poi, lei farà esattamente ciò che le verrà ordinato.» Barrington si sentiva stordito, come una rana ipnotizzata da una vipera, ma quello era troppo. «Ordinato? Io non so chi siete... Non sono neppure sicuro di dove mi trovo... Però so una cosa: nessuno dà ordini a Shane Barrington.» Le sue parole echeggiarono nell'oscurità e, per un istante, lui si domandò se avesse segnato un punto a proprio favore, se avesse alterato almeno un po' l'equilibrio delle forze. Bene, pensò. Andiamo all'attacco.
Fu in quel momento che cominciò la risata. Prima sommessa, poi sempre più forte, sino a diventare una cascata che inondò la stanza come un torrente in piena. Era una risata di donna e veniva dall'ultima figura a sinistra. «Oh, Mr Barrington, sapevamo che lei non ha il minimo senso morale. Tuttavia credevamo che avesse cervello. Non capisce? Lei appartiene a noi, ora. Completamente. E le porteremmo via anche l'anima... se ce l'avesse.» Sembrava schiettamente divertita. Poi fece una pausa, come per sottolineare l'importanza di quello che stava dicendo. «Le informazioni in nostro possesso circa le procedure aziendali della Barrington Communications negli ultimi due decenni basterebbero a mandarla in prigione per il resto della vita... se fossero rese pubbliche.» Di nuovo una pausa a effetto. «A meno che i suoi azionisti infuriati, che lei ha truffato così bene, non si scaglino prima contro i suoi uffici, riducendoli in briciole.» Un'altra voce risuonò dall'ombra. Aveva una tonalità profonda e un chiaro accento inglese. «Non s'illuda, Mr Barrington. Il nostro... 'invito' è stato, per necessità, assai sintetico e costituisce solo la superficie delle sue infrazioni finanziarie. Le quali sono come un iceberg, un iceberg di crimini finanziari che la manderebbe a fondo in modo atroce. Al suo confronto, il Titanic è una nave giocattolo in una tinozza.» Barrington si alzò dalla sedia, facendo appello agli ultimi brandelli d'arroganza. «È impossibile. Avete corrotto qualcuno per sollevare un po' di polvere, certo, tuttavia dubito che disponiate di qualcosa che vada oltre l'imbarazzante manipolazione di fondi che posso aver fatto...» La voce dall'accento britannico lo interruppe. «Non ci prenda per idioti, Mr Barrington. Abbiamo tutto... Le spese in conto capitale che sono state inserite nei profitti, le società oltremare costituite come voci attive, mentre in effetti nascondevano delle perdite. Per non parlare delle minacce ai concorrenti, delle intimidaziomi.. Diamine, anche in questi tempi di profitti illeciti, lei è un peccatore finanziario da Guinness dei Primati.» Ecco, ci siamo, infine, pensò Barrington. La punizione. Aveva sempre creduto di essere troppo furbo, troppo privo di scrupoli perché le sue colpe, un giorno, potessero ritorcersi contro di lui. Ora, suo malgrado, i volti delle persone che aveva rovinato, mentre lui diventava uno degli uomini più ricchi e potenti del mondo, cominciavano a tornargli in mente. La vedova afflitta di un socio d'affari spinto al suicidio. Gli anziani di cui aveva decimato i fondi pensione per coprire le perdite... «Allora mi denuncerete?» si lamentò debolmente.
Rispose una nuova voce. Era maschile, d'origine ispanica, con un taglio secco come lo stridere di un rapace. «Non l'abbiamo di certo convocata per consegnarle il premio alla migliore azienda, señor Barrington, tuttavia non abbiamo il minimo interesse a denunciarla alle autorità.» Un barlume di comprensione attraversò gli occhi di Barrington. «Oh, capisco. Volete una fetta per voi.» La bocca gli si chiuse di scatto di fronte al rumore di un vigoroso applauso. Quando poi si rese conto che veniva dalla donna, si sorprese ancora di più. «Si sieda. Basta con le ciance.» Barrington tornò ad abbandonarsi sulla sedia. «Una fetta? Questa non è un'estorsione mafiosa. Non ha ancora capito? Lei è nostro, Barrington.» Ci fu un leggero colpo di tosse, poi la voce inglese parlò di nuovo. «Ora che sembra aver compreso la sua posizione, lasci che le offra un'alternativa a una vita dietro le sbarre... Una vita che sarebbe senza dubbio assai breve.» Barrington poté quasi vedere il sorriso di scherno sulla faccia oscurata. «L'abbiamo scelta per quello che può fare per noi. Per come ci può aiutare nei nostri... sforzi. Siamo disposti a versare non meno di cinque miliardi di dollari alla Barrington Communications, abbastanza per ripianare i debiti che lei ha così abilmente nascosto, quanto basta perché lei possa continuare a inghiottire i suoi ultimi concorrenti. Abbastanza per fare di lei... il numero uno nel mondo della comunicazione. Salvo il fatto che, naturalmente, lei lavorerà per noi. Per i Sette.» D'un tratto, Barrington si sentì stordito. Gli pareva di essere un condannato a morte che, mentre sta contando i suoi ultimi secondi, si vede concedere dal governatore un rinvio dell'esecuzione... e un assegno per cinque miliardi di dollari. Con un sorriso, si rese conto che avrebbe fatto qualsiasi cosa - qualsiasi - gli venisse chiesta. «Bene, credo che accetterò la soluzione numero due», disse Shane Barrington, che aveva recuperato la padronanza di sé, mentre un flusso di adrenalina gli scorreva nelle vene. «Ditemi soltanto che cosa devo fare.» Fuori, le nuvole sembravano abbracciare ancora più strettamente le mura del castello, mentre un vento tagliente danzava intorno ai bastioni. Tra la furia degli elementi, il castello si ergeva freddo, nero e silenzioso. Nel silenzio impenetrabile della cripta sotterranea non si udì il rumore della porta di ferro che si richiudeva. Né i Sette poterono udire il rombo
smorzato della Mercedes che si avviava verso l'aeroporto. Ma sapevano che Barrington era sulla strada giusta, con la mente infiammata dalla nuova missione. La loro fiducia era ben riposta. La luce attenuata dei fari nascosti restituì ai Sette, da ombre spettrali che erano, il loro normale aspetto umano. Tuttavia, benché in privato si concedessero una certa rilassatezza, ciascuno di loro emanava un alone di paura. Il terzo dalla destra, un uomo dal viso tondo e dalla capigliatura argentea che tendeva a diradarsi, si sistemò gli occhiali a lunetta e si rivolse sorridendo all'uomo con la voce tonante che aveva rotto per primo il silenzio. «Bene, John. Devo chiederti scusa. In effetti Barrington è stato una scelta eccellente. Sono quasi sorpreso che non si sia offerto prima come volontario. Sembra che provi un gran piacere nei suoi nuovi compiti.» La sua staccata cadenza inglese si sciolse in un riso soffocato. Serio, senza distogliere lo sguardo dalla sedia sulla quale poco prima era seduto Barrington, John Bartholomew parlò e il suo tono rimase freddo. «Il tempo per le reciproche congratulazioni è ancora molto lontano, credo. Il nostro grande progetto è soltanto all'inizio. C'è ancora molto da fare.» «Ma John! Certamente ciò che abbiamo iniziato non può essere fermato, ormai. Non è scritto così?» replicò l'inglese. «M'inchino alla tua superiore saggezza nel regno della finanza. Però, come sacerdote, credo di poter rivendicare una conoscenza particolare, diciamo, della dimensione spirituale. Pensa a Daniele, pensa al sogno di Nabucodonosor. Pensa a cosa significa!» Nella sua eccitazione aveva afferrato il braccio di Bartholomew. «È certo che, col piano di noi Sette, il vero potere di Babilonia - l'oscuro potere di Babilonia - risorgerà!» 4 Murphy non era sicuro di che cosa fosse peggio, se le fitte di dolore che gli trafiggevano la spalla o l'esplosione d'ira con cui la moglie lo stava investendo. Se non altro la collera si sarebbe esaurita col tempo. Almeno così sperava. «Allora, Michael...» Lo chiamava sempre Michael quand'era arrabbiata. «Dimmi perché sono così speciale.» Lui grugnì mentre lei gli ripuliva la spalla col disinfettante. Un po' più energicamente del necessario, pensò. «Le altre mogli tornano a casa inaspettatamente alle ore piccole e trovano i loro mariti a letto con un'altra donna o intenti a giocarsi a poker la
retta scolastica dei figli o semplicemente sbronzi.» Spruzzò altro disinfettante su un batuffolo di ovatta pulita. «Ma io, fortunata come sono, torno a casa e scopro che mio marito è stato quasi ucciso da un leone!» Smise di curargli la spalla per un istante e gli sorrise. «Sì, spiegami cosa ho fatto per essere così fortunata.» Non era la prima volta che Murphy innalzava una silenziosa preghiera di ringraziamento per aver trovato una donna meravigliosa e per il fatto che miracolosamente - almeno così gli sembrava - lei avesse accettato di sposarlo. Lo stava tormentando con un fiume di parole - e non era neanche la prima volta -, però lui sapeva che Laura era soltanto preoccupata. Senza contare che, come sempre, lui si meritava in pieno quella sfuriata. Era stato anche come minimo provvidenziale che lei fosse rientrata a casa nel momento giusto. L'ultimo giorno del convegno sulla mappatura delle città scomparse era stato annullato quando il principale relatore, il professor Delgado del Mexican Archeological Institute, si era ammalato. Così, con un misto di delusione per aver perso i racconti leggendari di quel grand'uomo e di gioia per aver ridotto il tempo della lontananza da Murphy, lei era saltata sul primo aereo in partenza da Atlanta. «Speravo di farti una sorpresa», disse Laura ironicamente. «Ma suppongo che avrei dovuto immaginarlo. In casa sono io quella che riceve le sorprese, vero?» Mentre finiva d'incerottare le garze sterili, Murphy la osservò nello specchio del bagno. Laura annuì, soddisfatta del proprio lavoro, e aiutò il marito a indossare una maglietta pulita. Sapevano entrambi che non poteva farlo da solo. Scesi al piano di sotto, lo fece accomodare in una delle sedie a dondolo, poi andò in cucina. Tornò con due tazze di tè fumante. «Bene, professor Murphy, a quanto pare non morirai per le tue ferite. Inoltre la tua incantevole e indulgente moglie si è calmata quanto basta per ascoltare qualsiasi assurda stupidaggine tu stia per raccontarle. Perciò stai seduto lì, cerca di non svenire per la seconda volta nella serata e raccontami la tua triste storia.» Murphy sospirò. Non le sarebbe piaciuto. «Era lui. Mathusalem. Ho ricevuto il messaggio quand'ero in ufficio. Molto intrigante.» «E tu hai mollato tutto e sei andato dove ti ha detto quel pazzo?» Laura alzò gli occhi al cielo. «Oh, ma dimenticavo, tu sei Michael Murphy, il famoso archeologo avventuriero. Nessuna impresa è troppo pericolosa per te. Anzi più è folle, meglio è.» E scosse la testa.
Murphy attese finché non fu sicuro che avesse terminato. Infine lei sorseggiò un po' di tè: era il segnale che lui attendeva per continuare. «Ha detto Daniele. Il Libro di Daniele. Come potevo non essere interessato?» «Ah, quindi la fossa dei leoni. Ora capisco.» «Già.» Murphy posò la tazza sul tavolino tra le sedie a dondolo e si sporse verso di lei. «Uno dei libri più importanti dell'intera Bibbia. Profezia allo stato puro. È tutto lì. Il sogno di Nabucodonosor, la statua... ogni cosa.» Nella sua eccitazione, aveva dimenticato il pulsare della spalla. «Mathusalem mi stava offrendo un reperto relativo al Libro di Daniele. Una prova così convincente avrebbe di sicuro costretto gli scettici a rifletterci due volte, prima di scartare Daniele come una semplice fantasia. Pensaci!» Laura era seduta nella sua sedia a dondolo, distaccata. «E tutto quel che dovevi fare erano tre riprese contro un leone mangia-uornini.» Il suo tono era gelido. «Be', tesoro, poteva andar peggio», replicò Murphy con un ghigno. «Se fosse stato il Libro dell'Apocalisse rischiavo di trovarmi a faccia a faccia con la Bestia con dieci corna e sette teste.» Lo sguardo che lei gli lanciò fu ancora più gelido. Non c'era da scherzare. Non c'era affatto da scherzare. Murphy cambiò linea di condotta. «Amore, il punto è che Mathusalem sarà anche matto da legare, ma gioca sempre secondo le regole...» «Secondo le sue regole», lo interruppe Laura. «Le regole di un uomo misterioso, di un pazzo che non ha niente di meglio da fare coi suoi soldi che attirarti in situazioni dove rischi la vita. E tu ci sei cascato ogni volta!» «Sì, perché le sue regole dicono che, se vinco al suo gioco, prendo il premio», continuò Murphy, imperturbabile. «Ne abbiamo già discusso, Laura. Lo so che sembra una pazzia, però è vero. Io non accetto le mezze misure. Amo il mio lavoro senza riserve, cerco di amare Dio senza riserve e, soprattutto, amo te senza riserve. È un 'pacchetto tutto compreso', tesoro, anche in notti come questa, quando ti sembra che l'unico premio che ti rimane sia quello di consolazione.» Laura aggrottò la fronte, sconfitta. Aveva spiegato come la pensava. Sapeva che, per Murphy, resistere alle lusinghe dei reperti di Mathusalem era come decidere di non respirare. E, anche se non glielo avrebbe certamente confessato, l'intrepida passione di Murphy nel portare alla luce qualsiasi oggetto che provasse la veridicità della Bibbia era uno dei motivi per cui lei lo amava.
Resistette per un'altra decina di secondi e poi si allungò ad abbracciarlo. «Michael Murphy, Mr Assurdo», sussurrò, chiamandolo col nomignolo che gli aveva affibbiato parecchi anni prima. «Lo sai bene che la cosa più assurda è che non riesco a rimanere arrabbiata più a lungo di quanto ti ci voglia a cacciarti di nuovo nei guai.» Lui accennò al tavolo. Guardarono entrambi il tubo che se ne stava lì, innocuo come una bomba inesplosa. «Va bene, allora, Murphy...» Sorrise col più dolce dei sorrisi e lui si chiese cosa stesse per accadere quando vide il sorriso di lei trasformarsi in uno sguardo preoccupato. «La ferita è più grave di quanto pensassi. Quel leone è andato più in profondità di quel che sembrava all'inizio. Ti porto all'ospedale per farti mettere qualche punto. Non ammetto discussioni.» Anche se in precedenza aveva respinto la sua insistente richiesta di accompagnarlo al pronto soccorso, ora Murphy non oppose neppure la più debole resistenza. Laura si ammorbidì di nuovo e, posandogli una mano sulla spalla sana, esclamò: «Ehi, visto che ti sei dato tanto da fare per ottenere questa roba, che ne diresti se domani, dopo la lezione, vengo al laboratorio e ti aiuto a scoprire cosa c'è lì dentro?» 5 «Dunque rischi la vita ogni giorno?» «Esatto, amico. Un passo falso e... splat!» Il barista, abbastanza vicino ai clienti da udire la conversazione, scosse il capo e continuò a sfogliare il giornale. In un fiacco martedì pomeriggio, in quello squallido bar del quartiere di Astoria, all'ombra di una Manhattan non troppo lontana, si sentiva un milione di chilometri lontano dalla frenesia della città. Era stato ad ascoltare quei due chiacchieroni per venti minuti, un'unica birra in due. L'aveva presa Farley, il grande eroe, uno dei clienti regolari. L'altro era uno sconosciuto. Doveva esserlo, per parlare con Farley tutto quel tempo. Gli altri clienti abituali sapevano che Farley era un noioso attaccabottoni, che parlava sempre e soltanto di quanto fosse rischioso il suo lavoro. Insomma, era un pulitore di finestre, non un marine in prima linea! Il barista squadrò ancora lo sconosciuto, probabilmente pensando che se stava lì ad ascoltare gli sproloqui di Farley probabilmente era sordo. E invece no: sembrava quasi pendere dalle sue labbra. E non beveva niente
di più forte dell'acqua. Quando lo sconosciuto aveva chiesto dell'acqua - neanche acqua minerale - il barista era stato sul punto di dargli la solita rispostaccia: quello era un bar, non una fontana pubblica, eccetera... Eppure qualcosa lo aveva trattenuto. Non perché quello straniero avesse un'aria minacciosa. Farley era un tipo scialbo, molliccio e, se possibile, lo sconosciuto aveva un aspetto ancora più insignificante: capelli grigi, occhiali da quattro soldi, un naso grosso, butterato, e un'aria goffa. Tuttavia, mentre l'unico modo che Farley aveva per ucciderti era annoiarti a morte, c'era qualcosa in quello sconosciuto dall'aria mite che aveva impedito al barista di sfidarlo. «Ehi, ti va di mangiare un hamburger?» chiese lo sconosciuto. E, dimostrando di aver già capito che Farley era la persona più tirchia di Astoria, aggiunse: «Offro io». Mentre osservava i due uscire lentamente, il barista non si curò neanche di guardare se Farley avesse lasciato la mancia, ma alzò un sopracciglio quando vide un biglietto da cinque dollari vicino al bicchiere d'acqua vuoto. Be', spero di rivederlo presto, pensò. Non poteva sapere che non avrebbe più rivisto nessuno dei due. Fuori del bar, lo sconosciuto disse: «Perché non prendiamo la mia auto? È proprio dietro l'angolo». Farley annuì e lo seguì. «Ehi, amico, ripetimi un po' come ti chiami.» «Non te l'ho mica detto.» L'uomo si fermò davanti a una jeep verde scuro e Farley esitò, con un'aria perplessa. «Già, è vero. Allora, come ti chiami?» Lo sconosciuto lo ignorò, lanciando occhiate veloci a destra e a sinistra per controllare la strada deserta. Poi Farley lo vide fare alcuni movimenti rapidi intorno alla testa. «Eh?» chiese, perplesso. In quel momento lo sconosciuto si voltò a guardarlo. Ma il volto che Farley aveva visto prima era completamente diverso. La parrucca grigia, gli occhiali e il naso erano scomparsi. «Non avrai bisogno di saperlo.» Quasi troppo rapido per essere visto, lo sconosciuto passò la mano destra davanti alla gola di Farley. E lì, prima che Farley potesse gridare, apparve una sottile linea di sangue. Quando lui cercò di emettere un suono, non uscì nulla. «Non dovrai più sapere niente.» Protese le braccia per afferrare il corpo inerte e lo depose nell'auto. «Ormai so le uniche cose che valeva la pena di
sapere da te.» L'uomo si mise al volante. Sulla camicia del morto, accanto a lui, si pulì l'indice destro, sporco di sangue, pensando: Be', a Farley non dispiacerà... Quindi prese il cellulare e, mentre componeva il numero, studiò l'indice alla luce verde del pannello luminoso. Il dito sembrava un normale indice finché non lo si osservava meglio, scoprendo così che era un dito artificiale, accuratamente forgiato e dipinto per sembrare vero. A eccezione dell'estremità, là dove si sarebbe dovuta trovare l'unghia, che era affilata in un bordo micidiale. Alla sua chiamata fu risposto con un'unica parola. «Situazione.» Lo sconosciuto rispose con voce fredda, impassibile, senza accento, molto diversa dal tono cordiale che aveva usato con Farley. «Pronto a procedere al suo ordine.» Si raddrizzò, in attesa. «Vai», gli fu detto. «Ah, Artiglio, non sbagliare... e non morire.» L'uomo conosciuto come Artiglio spense il telefonino, controllando che tutto il sangue fosse venuto via dal dito che gli dava quel nome. Spinse Farley sotto il finestrino e si avviò verso il luogo dove avrebbe scaricato il corpo. Un posto in cui sarebbe stato impossibile ritrovarlo. Si concesse un sorriso cupo. Per lui, il fallimento e la morte erano opzioni praticabili quanto per Farley lo era respirare. 6 Il re e il prigioniero della tribù di Giuda si guardarono negli occhi, e il re fu sorpreso nel vedere che lo schiavo sosteneva il suo sguardo. Era vero, non c'erano guardie al suo fianco per intimidire l'uomo con le loro spade e l'atteggiamento feroce. Ma la semplice presenza del re, la maestà e il potere di Nabucodonosor, il cui nome faceva tremare principi e sovrani, non erano abbastanza per terrorizzare un umile schiavo ebreo? Eppure l'uomo, mentre aspettava che il re parlasse, sembrava la calma in persona. Era molto strano. Quel popolo aveva la reputazione di essere intelligente. Tuttavia quell'uomo sembrava non capire che avrebbe perso la vita se non avesse dato una risposta al re. Una risposta che fino ad allora gli uomini più saggi del regno non erano stati in grado di fornire. Il re osservò la semplice tunica di lana, l'atteggiamento quieto - né arrogante né sottomesso -, lo sguardo paziente e distaccato, e si chiese se quello potesse essere l'uomo che gli avrebbe rivelato il suo sogno. Se avesse fallito come tutti gli altri, allora una cosa era certa: Daniele sarebbe
stato soltanto il primo di molti a subire la sua collera. Le strade di Babilonia sarebbero state inondate di sangue prima che la sua rabbia si placasse. Il re si mosse sul trono intagliato e ruppe il silenzio. «Bene, Daniele.» Pronunciò il nome ebreo dello schiavo con derisione, come se avesse alluso a qualche segreto vergognoso. «Sono certo che non ti devo spiegare perché sei qui.» «Sono qui perché me lo hai ordinato, mio re.» Nabucodonosor lo osservò, cercando qualche segno d'impudenza. Il suo tono era neutro in modo irritante, proprio come l'espressione del suo viso alla luce tremolante delle torce. «Infatti, Daniele. E sono sicuro che, nella tua saggezza, saprai perché l'ho ordinato. E cosa voglio che tu faccia.» Daniele chinò leggermente la testa. «Sei stato disturbato da un sogno, mio re. Un sogno tremendo che ha scosso il tuo spirito, eppure, quando ti sei risvegliato, non ne rimaneva né un frammento né un brandello. Soltanto una vuota eco, come il suono di una parola in una strana lingua.» Nabucodonosor si rese conto che stava stringendo tra le mani l'amuleto di Anu, che portava intorno al collo. Per gli dei, come faceva quell'uomo a conoscere così bene i suoi pensieri più segreti? «Sì, sì, tutta Babilonia lo sa. Ma sai raccontarmi il sogno, Daniele? Me lo puoi riportare alla memoria?» Si accorse con spavento di parlare con voce rotta. Il SUO abituale tono di comando era stato sostituito dal lamento di un bambino piagnucoloso. Daniele chiuse gli occhi e fece un lento, profondo respiro. Il momento si prolungava e Nabucodonosor sentì i propri nervi tendersi fino all'eccesso. Infine Daniele riaprì gli occhi, che ora brillavano di una nuova intensità, e parlò. «I segreti di cui mi domandi non possono essere svelati al re dagli indovini, dai maghi, dagli astrologi o dagli stregoni. Soltanto il Dio che è nei Cieli può svelarli.» Poi tacque e si concentrò profondamente. «Sì, sì, non ti fermare ora», urlò Nabucodonosor. Daniele si prese il tempo necessario. Finalmente volse sul re uno sguardo placido e parlò lentamente, a voce alta, così che il messaggio non venisse frainteso. «Il Signore che è nei Cieli ha rivelato in questo sogno, re Nabucodonosor, le cose che accadranno negli Ultimi Giorni.» 7
Mentre camminava a passo spedito verso la Scala B del Memorial Lecture Hall, Michael Murphy aveva un aspetto davvero poco professorale. Certo, aveva quell'aria un po' arruffata di chi bada più alle idee che alle apparenze esteriori: la cravatta un po' di sbieco su una sgualcita camicia di jeans, una vecchia giacca di tela consunta ai gomiti, un paio di scarpe da tennis che mostravano chiaramente i segni di una lunga usura... Però, se lo si guardava più attentamente, osservando il passo misurato e senza sforzo, le mani callose e le leggere cicatrici che segnavano i bei lineamenti, si capiva che Murphy non viveva di certo in una torre d'avorio. Era un uomo più felice all'aria aperta che al chiuso e ancor più felice quando doveva affrontare ardue imprese fisiche. Per un istante, Murphy provò il desiderio di essere chiamato all'improvviso a compiere proprio una di tali imprese... una qualunque. Di solito la fiducia in se stesso non gli mancava, eppure, durante quella passeggiata attraverso il campus della Preston University, nel caldo di fine agosto, Murphy sapeva che la sua lezione sarebbe stata seguita da un numero davvero esiguo di studenti. Un numero così esiguo da essere imbarazzante. Il corso di Archeologia biblica era stato aggiunto al programma di studi all'ultimo minuto. Le regolari lezioni di Murphy attiravano pochi ragazzi entusiasti. Alla Preston University non erano molti gli studenti che volevano dedicarsi allo studio del passato... figurarsi poi del passato biblico. Così, alla fine del semestre precedente, alcuni ex studenti facoltosi avevano fatto pressione sul rettore affinché ci fossero più corsi dedicati alla Bibbia. Che Dio li benedica, pensò Murphy, sebbene quella fosse una fortuna solo a metà. I possibili problemi erano due. Da un lato, se nessuno si fosse presentato alle lezioni, lui avrebbe dovuto dare parecchie spiegazioni ai finanziatori. Dall'altro, Fallworth, il preside della facoltà di Lettere e Scienze, era assolutamente contrario a un altro corso di Archeologia biblica. A onta della crescente notorietà dovuta alla scoperta di vari reperti biblici, Murphy cercava di non montarsi la testa. Era stato protagonista di tre special sul suo lavoro realizzati da un canale via cavo e quelle trasmissioni avevano indotto alcune aziende a donare fondi per la facoltà. Poi c'erano stati gli incassi delle mostre dei manufatti, allestite nel museo universitario... Ma tutta quella attenzione aveva suscitato la gelosia e la rabbia del preside Fallworth, che aveva fatto qualche velato commento su Murphy e sulla sua presunta «antireligiosità». Meno velatamente, anzi in modo del tutto esplicito e perentorio, Fallworth aveva sostenuto che il campo di stu-
dio di Murphy non fosse credibile né dal punto di vista scientifico né da quello storico. E tutto ciò - come Murphy aveva fatto notare a Laura la settimana prima - era stato dichiarato da un uomo la cui pubblicazione più recente aveva come titolo: Materiali per bottoni nelle piantagioni della Georgia del XVIII secolo. Quel nuovo corso di Archeologia biblica aveva però alcuni aspetti positivi: anzitutto Murphy adorava insegnare e, in secondo luogo, i fondi supplementari gli avrebbero permesso di ampliarlo ulteriormente. Come aveva scritto nel programma di studi, avrebbe tenuto un corso sul tema: «Studiare il passato, verificare la Bibbia e leggere i segni dei profeti». E poi, per la prima volta, c'era la possibilità che qualsiasi studente, a prescindere dal corso di laurea, frequentasse uno dei suoi corsi. Murphy intendeva anche vivacizzare le lezioni, mostrando filmati che non erano stati inseriti nei programmi mandati in onda e pensava anche d'includere le riprese di alcune delle scoperte più recenti. Tuttavia aveva evitato di controllare l'elenco degli iscritti prima di quella lezione inaugurale, sperando per il meglio... Eppure la stessa vocina che s'insinuava nei suoi pensieri di studioso del passato e cercava di riportarlo al mondo «reale» gli sussurrava: Siamo nel XXI secolo! A chi vuoi che interessino gli ittiti in quest'epoca di hip-hop? «Be', a me sì», esclamò Murphy, senza neppure accorgersi di aver parlato ad alta voce. «La mia lezione sarà fantastica, anche se in aula ci saremo soltanto io e le mie diapositive.» Quando il brusio animato proveniente dall'interno divenne udibile, Murphy trasse un respiro ed entrò nell'aula. Con sua gran sorpresa, ogni posto era occupato e molti studenti stavano lungo i muri, mentre altri erano seduti per terra, sotto la cattedra. Murphy batté le mani e il chiacchiericcio si fermò di botto. «Bene, gente, cominciamo. Dobbiamo trattare millenni di storia e abbiamo solo quaranta minuti, quindi non c'è tempo da perdere.» Scrutò le file di volti e si chiese cosa sperassero. Che si aspettavano? E lui sarebbe stato all'altezza? Scorgere gli occhi intelligenti e il sorriso impaziente di Shari Nelson in prima fila gli fece salire un sorriso alle labbra. Be', almeno una faccia amica c'era. Se avessero cominciato a tirargli qualcosa, forse Shari sarebbe riuscita a calmarli. «È magnifico vedere che siete accorsi in tanti, però vorrei verificare se
sapete in cosa vi state imbarcando. Questo corso si chiama Archeologia biblica e, secondo il programma, concerne lo studio dell'Antico e del Nuovo Testamento, con particolare riguardo alle prove archeologiche che convalidano l'accuratezza storica della Bibbia. Se qualcuno di voi ha sbagliato strada mentre stava andando al seminario 'Matrix: film o progetto per il nostro futuro?', questo è il momento giusto per squagliarsela.» Qualche risatina, ma nessuno si alzò. Bene, erano ancora con lui. «Allora, cosa significa 'archeologia biblica'? Be', lasciatemi fare qualche domanda. Noè costruì veramente un'arca e la riempì con una coppia di tutti gli animali? Mosè aprì veramente il mar Rosso agitando il suo bastone? Un uomo di nome Gesù è veramente vissuto, ha respirato e camminato nella Terra Santa duemila anni or sono, predicando, guarendo e compiendo miracoli? Come possiamo essere certi di tutto ciò?» Una mano affusolata si alzò in fondo all'aula. Apparteneva a una ragazza bionda dai capelli lisci e dai grandi occhiali rotondi che lui aveva visto un paio di volte nella cappella dell'università. «Perché ce lo dice la Bibbia», dichiarò la giovane con voce calma e sicura. «E perché ce lo dice Hollywood», la interruppe un'altra voce. Era di uno studente robusto, dai capelli neri. Teneva le braccia incrociate sulla maglietta della Preston e sfoggiava un sorriso compiaciuto. «Se ci crede Charlton Heston, dev'essere vero, no?» La battuta provocò qualche risata e perfino un piccolo applauso. Murphy sorrise e rimase in attesa che gli studenti si calmassero. «Sapete, quando avevo la vostra età anch'io ero scettico», continuò poi. «Forse lo sono ancora. Si suppone che i cristiani accettino la verità della Bibbia come articolo di fede. Ma talvolta alla fede serve un aiuto. Ed è qui che entra in ballo l'archeologia biblica.» Indicò il giovane robusto, che ancora sogghignava, nella fila dietro quella di Shari. «Cosa ci vorrebbe per provarti che l'Arca di Noè è esistita? Cosa ti convincerebbe?» Lo studente ci rifletté, poi disse: «Suppongo che dovrei vedere una prova concreta, non crede?» Anche Murphy sembrò riflettere. «Una prova concreta...» mormorò. «Mi sembra giusto. Be', vediamo, quando si tratta di ricerche scientifiche, bisogna essere pronti ad andare ovunque ci siano prove. Negli ultimi centocinquant'anni, ci sono stati più di trentamila scavi archeologici, i quali hanno portato alla scoperta di prove a sostegno di quella parte della Bibbia detta Antico Testamento. Per secoli, gli scettici hanno bollato come assurda l'i-
dea che fosse esistito un popolo ittita, come riportato nella Bibbia, ma poi le ricerche archeologiche ne hanno fornito una prova irrefutabile. Allo stesso modo, la semplice menzione della città di Ninive suscitava il riso e lo scherno dei non credenti finché l'intera città non venne scoperta vicino al fiume Tigri dal grande archeologo A.H. Layard. Fino a oggi, non è stata trovata neppure una sola prova che metta in dubbio l'autenticità della Bibbia.» «Accidenti... Impressionante!» disse qualcuno dal fondo dell'aula. Ma lo studente in cerca di prove concrete non era ancora soddisfatto. «Se mi vuole convincere che l'Arca è vera, mi piacerebbe piuttosto vedere, per esempio, il timone usato da Noè.» Murphy sorrise. «Be', il timone dell'Arca non è stato ancora rinvenuto. Però ho qualcosa che potresti trovare interessante...» Proiettò la prima diapositiva sul grande schermo dietro la cattedra. Mostrava un telo che copriva qualcosa di simile a una scatola. La successiva rivelò che, sotto il telo, c'era un'urna di pietra chiara, con un coperchio sovrapposto. Lunga circa sessanta centimetri, larga una quarantina e profonda venticinque, portava ancora i segni degli strumenti primitivi usati per scolpirla da un blocco di calcare. «Qualcuno sa cos'è?» chiese. «Il cestino del pranzo di Fred Flintstone?» suggerì la voce ormai familiare del giovane robusto. Shari si girò e gli lanciò un'occhiataccia, poi replicò a Murphy: «È un sarcofago? Forse il sarcofago di un bambino?» «Ci hai preso, Shari.» Murphy le rivolse un caldo sorriso. «È certamente un contenitore per raccogliere le ossa, cioè un ossario. Migliaia di anni fa, in alcune parti del mondo era pratica comune che, dopo la decomposizione dei defunti, le ossa venissero riesumate, avvolte nel lino, e deposte in una di queste urne.» «Ma allora di chi è quell'ossario?» disse una voce dal fondo. «Di Russell Crowe, forse?» Murphy ignorò le risate. «Be', diamo un'occhiata.» La diapositiva successiva era una foto ravvicinata di un lato dell'urna, e mostrava una scritta consunta e scolorita. «Qui dice Giacomo...» «Giacomo? Cioè James! Ehi, Jimmy Hoffa, ci stavamo giusto chiedendo dov'eri finito!» Apparentemente immerso nei suoi pensieri, Murphy non sentì i commenti e le risatine che seguirono. Era altrove, lontano nel tempo. Passò a un ingrandimento del lato dell'ossario e cominciò a leggere. «Giacomo...
figlio di Giuseppe...» Il silenzio era sceso sull'aula. «... fratello di Gesù.» Lasciò che il silenzio si prolungasse, poi riprese: «In questa piccola urna che vedete qui, un'urna che io ho toccato, ci sono le ossa del fratello di Gesù. Di solito, soltanto il nome del padre del defunto veniva inciso su un ossario, a meno che quel defunto non avesse un altro parente molto noto. E nessuno era più famoso di Gesù, nel bene o nel male, in quella parte del mondo e in quel periodo. La cosa importante è che questo ossario non conferma soltanto il fatto che Gesù è una figura storica, ma anche che era così conosciuto da indurre la famiglia di Giacomo a identificare il fratello morto riferendosi a lui. Dimostrare l'autenticità di questo ossario significa anche dimostrare che Gesù è vissuto in quel periodo e che era una figura eminente del suo tempo. Esattamente com'è presentato nella Bibbia». Come gli succedeva ogni volta che guardava le foto di quell'urna di pietra, Murphy provava una strana sensazione di disorientamento. Era come se le migliaia d'anni che lo separavano da quell'uomo fossero state spazzate via, come se fossero presenti insieme in un istante senza tempo. La voce di un ragazzo vicino a Shari lo riscosse. «Forse è questo che dice l'urna, ma come facciamo a sapere che non è un falso? Nel Medioevo si sfornavano reliquie di santi come ricordini da quattro soldi. Prendiamo la Sindone di Torino. Si suppone che sia un falso, vero, professor Murphy?» Murphy scrutò il giovane interlocutore. Con ogni probabilità era uno scettico, tuttavia sembrava più serio, più riflessivo e meglio informato di quel buffone che, fino a quel momento, aveva occupato la ribalta. Notò che anche Shari si era voltata per studiarlo. «Hai fatto un'osservazione giusta... Come ti chiami?» «Paul», si presentò lo studente, poi arrossì, chiaramente a disagio per tutta quell'attenzione da parte dell'aula. «Bene, Paul. Alcuni esperti hanno raggiunto la conclusione che la Sindone di Torino è probabilmente un falso medievale. Io non ne sono convinto. Ma come possiamo distinguere i falsi dal vero? Cosa mi fa pensare che questo ossario contenga veramente le ossa del fratello di Cristo?» «La datazione col carbonio 14?» La risposta fu rapida e sicura. «Grazie, Paul. Quando vorrai accomodarti in cattedra e continuare la lezione, fammelo sapere. Sembra che tu abbia tutte le risposte», disse Murphy sorridendo.
Paul arrossì di nuovo e Murphy si rese conto di essere stato troppo duro. Quel giovane non stava cercando di complicargli la vita, era solo più intelligente della media degli studenti. «Sì, la datazione col carbonio 14 ci consente di stabilire quando un reperto è stato fatto o quand'era in uso, con un margine di errore che può essere anche di soltanto cinquant'anni», continuò. «Il carbonio 14 è un isotopo radioattivo che si trova in tutti i composti organici, in materiali inorganici che siano stati generati da organismi viventi e, con un sistema particolare che si definisce datazione al radioisotopo, si può applicare, per esempio, anche alle rocce. Dal momento che ha un tasso di decadimento conosciuto, l'ammontare di carbonio 14 rimanente in un oggetto ci può rivelare la sua età.» Paul sembrava sempre più imbarazzato. Di certo non amava trovarsi sotto i riflettori, però non riusciva nemmeno a trattenersi dal fare domande. «Hmm, professor Murphy, ma la datazione col carbonio ci dice soltanto quando la pietra originaria si è formata e non quando l'urna... volevo dire l'ossario è stato ricavato dalla stessa, no?» «Hai perfettamente ragione, Paul. Però, dentro l'urna, incastrati in minuscole crepe, abbiamo trovato minuscoli frammenti di mussola e tracce di polline e, grazie alla datazione col carbonio 14, si è scoperto che questi elementi risalgono al 60 dopo Cristo. E non solo: l'iscrizione è in una forma di aramaico usata unicamente a quel tempo. E se vuoi un'altra prova, l'esame microscopico della patina che si è formata sull'iscrizione prova che questa non è stata aggiunta successivamente.» Murphy si fermò a guardare i volti attenti. Nessuno stava parlottando in fondo all'aula. Nessuno stava mandando SMS. Nessuno guardava dalla finestra. Anche se non erano convinti, aveva catturato la loro attenzione, o almeno così sembrava. Ma adesso arrivava il test finale. «Molto bene, signore e signori. Sennonché quello che vi ho detto è un mucchio di sciocchezze. Questo ossario è decisamente falso.» La classe esplose in grida di delusione e smarrimento. Alla faccia della vecchia e sonnacchiosa archeologia, pensò Murphy. «Insomma, si decida!» lo sollecitò qualcuno. «Sì, è vero, molti scienziati e vari studiosi hanno sostenuto che questo ossario è un falso», riprese Murphy, alzando un po' la voce. «Io, però, sono rimasto impressionato sia dalla datazione col carbonio 14, che esamineremo in una prossima lezione, sia dalla scritta in aramaico, peculiare del I secolo dopo Cristo. È una scoperta relativamente nuova, perciò ci saranno molti altri studi e dibattiti su questo ossario nei prossimi anni. E ho solle-
vato la questione proprio all'inizio del corso per un motivo ben preciso.» Fece una pausa, poi riprese, in tono più pacato. «Io sono uno scienziato, e chi ha messo in discussione l'autenticità dell'ossario appartiene alla comunità scientifica. Però sono anche un cristiano, serio, credente e praticante. Ho il timore che gli scienziati decisi a mettere in discussione la falsità di questo reperto siano mossi anche dalla possibilità di essere costretti a rivedere i loro dubbi e i loro preconcetti su Cristo. Forse la mia mente è offuscata dalla religione? E la mancanza di fede che essi professano può distorcere il loro modo di pensare? Ragazzi, questi sono solo alcuni dei problemi in più che deve affrontare un archeologo il cui obiettivo è provare la fondatezza storica della Bibbia. Nelle prossime settimane avrò il piacere di esplorare con voi questo e altro ancora.» In quell'istante, con la coda dell'occhio, notò in fondo all'aula il preside Fallworth che camminava avanti e indietro. Che fortuna! pensò Murphy. Chissà da quanto tempo è lì... «Ora, per non lasciarvi in sospeso, vi assicuro che la domanda se Gesù di Nazareth sia veramente esistito non si basa sull'autenticità di questo ossario. In questo corso studieremo alcune prove certe. Ma quando l'autenticità dell'ossario sarà stata dimostrata, come credo che avverrà, sarà una prova ulteriore per coloro i quali sono convinti che Gesù è vissuto in mezzo a noi.» Controllò l'orologio. «Ma adesso, prima che le mie divagazioni riempiano tutto il tempo a nostra disposizione, vediamo l'elenco delle letture del corso...» «Fermo lì, Murphy!» Una mano ossuta afferrò Murphy per lo zainetto mentre stava uscendo dall'aula. «Preside Fallworth... Che bell'esempio ha dato agli studenti, assistendo alla mia lezione.» «La pianti, professor Murphy.» Fallworth era alto come Murphy, ma aveva un pallore da topo di biblioteca, di fronte al quale certe mummie sembravano scoppiare di salute. «E la chiama lezione, quella? Io la definisco una vergogna. L'unica cosa che l'ha distinta da un predicatore da strapazzo è che non ha fatto circolare il piattino per le offerte.» «Accetterò ogni donazione che lei voglia fare, preside. A proposito, le serve il programma?» «No, professor Murphy, ho tutto ciò che mi serve per chiedere al consiglio universitario di avviare un'indagine di valutazione su quella specie di guazzabuglio evangelico che lei chiama corso.» Sta' calmo, si disse Murphy. «Preside, se crede che il mio lavoro non sia
professionale, allora la prego di aiutarmi a migliorare la mia abilità d'insegnante. Ma, se ce l'ha contro i cristiani, allora non starò qui ad ascoltarla.» «Sa come già chiamano nel campus questa sua stupida messinscena? Il Bibbia-facile, il Gesù-quaggiù o il Galilea Express.» Murphy non riuscì a trattenersi dal ridere. «Buona, l'ultima. Intendo rendere questo corso intellettualmente stimolante, preside, ma confesso di non aver fissato il minimo di quoziente intellettivo per parteciparvi. Impareranno, glielo prometto, ma probabilmente non sarò in grado di adeguarmi a quello che lei ritiene un indispensabile requisito, e cioè che l'unico sistema accettabile d'insegnamento è annoiare a morte gli studenti.» «Si ricordi quello che le sto per dire, Murphy. Le sue speranze che questo corso sopravviva e che lei possa conservare l'incarico in questa università sono morte almeno quanto lo è la robaccia che c'era in quella sua scatola.» «È un ossario, preside. Siamo docenti universitari, sforziamoci di usare i termini corretti. Se salta fuori che non è autentico, forse posso farglielo avere a buon mercato per tenerci i suoi bottoni. Adesso mi scusi, ma devo lasciarla. Ho un nuovo reperto da esaminare.» 8 Chiudendo la porta del laboratorio dietro di sé, Murphy tirò un sospiro di sollievo. Quello era il suo rifugio, un posto in cui non c'era spazio per vecchi tromboni e meschine rivalità accademiche. L'unica cosa che lì contava era la verità. Di conseguenza, quello spazio incontaminato era dipinto in bianco purissimo. Nella stanza, inondata di luce alogena, si allineavano banchi da lavoro hi-tech e scaffali cromati, e l'unico suono era il ronzio dei computer e delle apparecchiature tecnologiche di controllo ambientale. In mezzo alla stanza c'era un tavolo attrezzato per fotografare i reperti, con due lampade stroboscopiche alogene, che fornivano una luce senza ombre e senza colore, e righe graduate per il riscontro delle dimensioni. Montata su un treppiede c'era una videocamera digitale ultimo modello. Shari Nelson, in camice bianco da laboratorio, era china sopra di essa e vi stava inserendo un dischetto. «Ciao, Shari», disse Murphy. «Grazie per aver annullato i tuoi impegni e di essere qui ad aiutarmi. Laura sta cercando di liberarsi, ma noi cominciamo subito, perché sono sicuro che ha lo studio pieno di ragazzi che hanno solo voglia di lamentarsi.»
«Talvolta mi chiedo se lei sia mai stato giovane, professor Murphy.» «Mai. Ho un'anima antica. Chiedilo alla mia mummia... cioè alla mia mamma.» «Be', la battuta è antica di sicuro.» Lo guardò con un sorriso radioso. «Sono qui da un'ora e ho preparato tutto. È così emozionante!» Indicò il tubo che lui aveva in mano. «È quello?» Lo mise sul tavolo di fronte a lei. «Se salterà fuori che non è un bel niente, ti prego di non rimanerci troppo male, Shari. Ora come ora, non ho proprio idea di cosa sia.» «Ma lei crede che sia qualcosa d'importante, vero? Così ha detto. Insomma, l'ho capito dal suo messaggio quant'era emozionato.» Aveva ragione. Alle tre del mattino, quasi fuori di sé per il dolore e la stanchezza, Murphy si era convinto di avere nelle mani qualcosa d'importanza capitale e l'e-mail vagamente farneticante inviata a Shari ne era la prova. Adesso, alla luce del giorno, i dubbi cominciavano ad assalirlo, insieme con un dolore pulsante alla spalla. «Lo spero, Shari. Ma ricordi la prima legge dell'archeologia biblica?» «La so, la so», cinguettò lei. «Sii sempre pronto a rimanere deluso.» «Già. Non lasciare che le speranze offuschino la tua obiettività.» Shari sapeva come andavano quelle cose, ma non sembrava badarci. E Murphy sperava per entrambi che nel tubo ci fosse qualcosa di più che un po' di polvere. La notte precedente, prima di cadere in un sonno agitato, Laura e lui avevano esaminato minuziosamente il tubo, scoprendo la giuntura quasi invisibile nel mezzo. Pareva che le due metà fossero state avvitate insieme con tale precisione da formare una chiusura perfetta. Shari sembrava ipnotizzata mentre Murphy prendeva il tubo con entrambe le mani e cominciava a svitarlo. «Aspetti», gridò la ragazza. «Non c'è qualcosa che dovremmo fare prima?» Murphy la guardò, perplesso. «Oh, vuoi dire passarlo ai raggi X? Shari, fai onore al tuo vecchio professore. Hai ragione, normalmente si vuole avere un'idea del contenuto prima di esporlo all'aria e a possibili danni. Ma scommetto il pranzo che qui dentro c'è un rotolo di papiro. È l'unica cosa tanto piccola e leggera da contenere gli indizi che mi sono stati forniti. E se è un papiro che è sopravvissuto per circa duemila anni senza deteriorarsi, significa che è ben asciutto e che, dopo averlo fotografato...» «... lo dovremo reidratare!» Murphy non poté trattenere un sorriso di fronte all'entusiasmo di Shari.
Benché fosse ancora una studentessa, era probabilmente la persona più equilibrata che avesse mai conosciuto. Ma la prospettiva di scoprire un manufatto legato alla Bibbia l'agitava come se fosse una bimbetta iperattiva di due anni. «Sì. Allora, siamo pronti? Bene, procediamo.» Shari posò sul tavolo, sotto le mani di lui, un vassoio di plastica, destinato a raccogliere i detriti che potevano cadere dal papiro, frammenti che potevano essere usati per la datazione col carbonio 14. Poi Murphy iniziò a fare pressione sul sigillo. Il ronzio di fondo dei macchinari sembrò aumentare di volume, mentre i due sì concentravano sul tubo. Il sigillo si ruppe con uno schiocco. Murphy era quasi certo che Mathusalem avesse aperto il tubo per verificarne il contenuto, ma in qualche modo lo aveva anche perfettamente risigillato. Le due parti si erano separate, rivelando un rotolo di carta scolorita, che Murphy fece cadere delicatamente nel vassoio. «Suppongo che dovrò pagarle il pranzo, professore», mormorò Shari. «Direi che si tratta di un papiro autentico, vero?» Murphy sembrò non sentirla. Si era piegato sul rotolo, cercando di decifrare i segni leggeri sulla superficie. Si trattava di inchiostro o era un indizio di disfacimento? Quei segni erano stati tracciati dall'uomo o si sarebbero rivelati semplici macchie? Dopo un istante, fece un ampio sorriso e batté una mano sulla spalla della ragazza. «Prendo il solito, Shari, per favore. Cheeseburger con chili e doppi cetrioli...» «E un chinotto», aggiunse lei, felice. Si misero al lavoro, con Shari che alternativamente scattava foto e risucchiava polvere e detriti dal vassoio con un aspirapolvere grande quanto una torcia elettrica tascabile, mentre Murphy esaminava il rotolo da ogni angolazione. Quando lei ebbe terminato, Murphy portò il vassoio verso qualcosa che somigliava a un grosso forno a microonde, completo di porta a finestrino e pannello elettronico su un lato. Infilò il vassoio nella camera iperbarica, chiuse la porta, e digitò i dati per l'umidità e la pressione. Con un po' di fortuna, le antiche fibre del rotolo avrebbero assorbito gradualmente l'umidità finché l'oggetto non fosse diventato abbastanza flessibile da potersi srotolare senza disintegrarsi. In caso contrario, le foto che Shari aveva appena scattato sarebbero state l'unica possibilità per svelarne i segreti di quel rotolo. Insieme guardarono attraverso il vetro opaco, come due neogenitori avrebbero guardato un bimbo nell'incubatrice. «E ora aspettiamo», disse Murphy.
Quando Shari Nelson lasciò il laboratorio del professor Murphy, Paul Wallach dovette affrettare il passo per raggiungerla. Rischiò di perderla mentre avanzava a grandi passi nel dedalo di corridoi del vecchio edificio. «Scusami. Posso parlarti un momento?» Shari si voltò e Paul fu sorpreso nel vedere che gli sorrideva. Coi capelli corvini raccolti in una coda di cavallo e con indosso una felpa e un paio di pantaloni da jogging blu scuro, sembrava che Shari non badasse affatto né al suo aspetto né al suo abbigliamento. Ma l'effetto complessivo, grazie anche agli occhi di un verde luminoso, era affascinante. «Senti, io... so che lavori col professor Murphy, e volevo solo chiedere scusa per quello che ho detto durante la lezione. Non volevo passare per un arrogante o qualcosa del genere.» Lei sporse in fuori la mascella come se stesse riflettendo su cosa replicare. «Hai fatto una domanda importante. Non è quello che ci hanno sempre detto di fare, cioè porre domande?» «Credo di sì. È solo che ho notato che tu sei... Be', lo sai.» I suoi occhi si appuntarono sulla semplice croce d'argento che lei portava al collo. Shari si accigliò e lui si sentì arrossire. Era stata gentile e lui l'aveva offesa. Se era tanto intelligente, come mai lei lo faceva sentire così sciocco? «Anche i cristiani possono porre domande, sai? Eccone una: chi sei?» Lui arrossì ancora di più. «Sono Paul Wallach. Sono passato alla Preston questo semestre.» Shari gli tese la mano. «E io sono Shari Nelson, piacere. E non ho pensato che fossi arrogante. In realtà, quando si tratta di domande davvero importanti, forse sono gli atei quelli cui non piace farle.» Rise. «Scusa, ma non credo che tu sia venuto alla Preston per prendere lezioni da me.» «Be', no, voglio dire, va bene, puoi...» Trasse un respiro profondo e si ricompose. Avanti, prendi in mano la situazione. «Mi piacerebbe di sicuro chiederti qualcosa, se sei d'accordo e se hai tempo. Sulla lezione e sul professor Murphy. Ho saputo che nella cafeteria ci sono certi doughnut che hanno urgente bisogno di una bella datazione col carbonio 14. Che ne dici?» «Allora, che tipo è il professor Murphy?» chiese Paul. «Sembra in gamba.» «Intendi per essere un archeologo biblico?» Paul e Shari avevano parlato per venti minuti. Un doughnut dall'aria stantia era rimasto intatto su un piatto di plastica di fronte a loro, accanto a
due tazzoni da caffè vuoti. Da quello che Paul riusciva a capire, lei non sembrava affatto annoiata dalla sua compagnia. Eppure quella ragazza aveva proprio un'abilità sconvolgente nel farlo sentire un perfetto idiota. «No, non intendevo quello. Davvero. Volevo dire in gamba come professore.» Lei gli sorrise per dimostrare che gli credeva e che lo aveva solo preso in giro. A ogni modo, il sospiro di sollievo di Paul era stato udibile. «Sì, Murphy è in gamba», disse Shari. «Ed è il migliore nel suo campo. Ho imparato un sacco di cose da lui.» «Hai detto che talvolta ti lascia lavorare nel suo laboratorio, sulle sue scoperte. È vero?» domandò Paul. «Quella è la cosa migliore. Sono così fortunata... Non riesco a credere che lui non abbia paura che io lasci cadere qualcosa... Sono reperti veramente importanti dal punto di vista storico, sai?» E lo fissò con quegli occhi verdi che potevano intimidire oltre che affascinare, una cosa di cui Paul si stava rendendo conto. Forse gli aveva detto più di quanto lei stessa avrebbe voluto. «Ma basta parlare di me e del professor Murphy.» Lo squadrò dall'alto in basso. «Ancora non mi hai detto nulla di te. Hmm...» Si mise un dito sotto il mento. «Dalla camicia e dai pantaloni stirati, dal taglio ordinato dei capelli, per non parlare dei mocassini lucidi... Sì, direi che non sei esattamente il tipico studente della Preston.» A voce più bassa, sporgendosi verso di lui aggiunse: «Anzi non credo affatto che tu sia uno studente». Trasalendo, Paul cercò di replicare, ma non ci riuscì e Shari capì subito di aver esagerato. Si era divertita a sue spese e quello era sbagliato. «Senti, non volevo...» «No, hai ragione», disse lui, con gli occhi fissi sui tazzoni vuoti. «Non sono veramente a mio agio, qui. Non so più neanch'io dove sono a mio agio.» «Perché? Devi aver avuto un motivo per trasferirti a Preston quest'anno.» Paul non sapeva se era il caso di raccontare la sua storia. Ma Shari gli piaceva davvero, quindi lo fece. «Be', l'hai voluto tu. Mi sono trasferito alla Preston dalla Duke University.» «Oh, non sono molti gli studenti che lasciano la Duke per venire qui», esclamò Shari, sorpresa. «No, e non l'ho fatto nel modo più facile. Vedi, mio padre ha sempre
puntato molto su di me. Non è mai andato al college. Ha messo su l'azienda di famiglia, una tipografia, sfacchinando come si faceva una volta. Si è separato da mia madre quando io ero ancora bambino perché lavorava giorno e notte e, quando mi dedicava un po' di tempo, era solo per ripetermi che dovevo andare a scuola e imparare un lavoro 'elegante', come diceva lui. Ha guadagnato abbastanza per mandarmi in una scuola privata, dove ho preso l'abitudine di vestirmi in modo appropriato per le lezioni... In più sono stato sempre circondato da persone di servizio, che mi hanno praticamente cresciuto, ed erano molto severe. Mi sono iscritto alla Duke, al corso di Economia aziendale, perché era lì che mio padre aveva sempre sognato di andare. Poi, l'inverno scorso, lui è morto d'infarto... Così, improvvisamente.» D'istinto, Shari si allungò verso di lui e gli prese la mano. «Mi spiace, Paul. Dev'essere stata dura.» Paul cercava di concentrarsi sul discorso e non su come fosse piacevole il tocco di Shari sulla propria mano. «Sai, non ho mai conosciuto davvero mio padre... È assai vergognoso, lo so, tuttavia, dopo la sua morte, non posso dire di averne sentito la mancanza. Il peggio è venuto quando i contabili e gli avvocati hanno cominciato a controllare i conti dell'azienda, scoprendo che mio padre era sommerso dai debiti. Ho smesso temporaneamente di frequentare la Duke per dare una mano a sistemare le cose, ma la situazione era senza speranza. Vendendo sottocosto l'azienda e la casa ho potuto pagare i debiti, però non avevo abbastanza soldi per tornare alla Duke, neanche se avessi voluto. Tuttavia mi piaceva la zona e mi sono reso conto che stare qui era un po' come rimanere a casa. Inoltre ho pensato che potevo permettermi di frequentare la Preston. Ammesso che trovi un lavoro, cioè.» «E perché ti sei iscritto a Economia aziendale se la odiavi?» «È un'idea su cui mio padre ha insistito per così tanti anni... E penso ancora che forse sia proprio questo il mio destino. Voglio finire l'università, sto cercando con tutte le mie forze di non mollare e la prospettiva di un lavoro nel mondo del commercio mi sembra tuttora la più solida. Tuttavia mi ero ripromesso di andare a qualche altro corso, per prova, e quello del professor Murphy mi era sembrato interessante.» Shari sorrise. «Lo so, la pensavo allo stesso modo. Io non avevo intenzione di diventare un'archeologa...» Senza che il ragazzo lo facesse di proposito, il suo sguardo corse di nuovo alla croce che ornava il collo di lei. «Be', tu almeno hai una formazione
religiosa. Io non ho neanche quella. La religione faceva parte della lunga lista di cose per le quali mio padre non aveva mai tempo o voglia.» «Era così anche per i miei genitori, quand'erano vivi, ma la cosa bella della nostra Chiesa è che puoi iniziare quando vuoi.» «Immagino di sì. Ma prima credo che mi preoccuperò della mia laurea in Economia. Mi sento come un atleta che si è allenato a dovere, ma poi non riesce ad andare alle Olimpiadi. È ciò su cui mio padre ha sempre voluto che mi concentrassi, ma in verità la detesto.» Shari guardò l'orologio. «Devo scappare alla prossima lezione, ma, dal momento che sei nuovo del campus, scommetto che una cena casalinga non ti dispiacerebbe. Perché non vieni da me una sera di questa settimana, così parliamo ancora?» Stavolta Paul fu pronto. «Non me lo farò dire due volte.» 9 Diversamente da coloro che abitano in certi grattacieli di lusso - e pagano cifre da capogiro per una terrazza sulla quale raramente escono ad ammirare il panorama -, Shane Barrington si era fatto un punto d'onore nello scrutare ogni mattina l'abbagliante orizzonte cittadino che circondava il suo attico. Come il signore di un castello medievale, lui aveva una certezza: un giorno, tutto ciò che vedeva sarebbe stato suo. Trascorreva gran parte delle sue mattine immerso nelle strategie di conquiste a breve e lungo termine, indifferente ai rumori della strada, che peraltro si trovava sessantadue piani più in basso. Quella particolare mattina, però, fu disturbato nei suoi progetti da un rumore continuo e ripetitivo di cui, all'inizio, non riuscì a capire l'origine. Era come se qualcosa venisse pompato. Improvvisamente, un'ombra scese sulla facciata della terrazza e Barrington si girò a vedere cosa stesse succedendo dietro di lui. Con sorpresa, notò un grande falco pellegrino calare dal cielo in picchiata e atterrare su un tavolino di ferro battuto, lontano non più di un metro e mezzo da lui. L'uccello era maestoso e superbo, simile nell'atteggiamento allo stesso Barrington. I due predatori si studiarono con distaccato rispetto per qualche istante, poi lo sguardo dell'uomo si appuntò su uno degli artigli del falco. Barrington si rese conto che l'uccello teneva stretto un binocolo compatto e ultrasofisticato. Come se avesse capito che l'uomo si era accorto del binocolo, il falco lo lasciò cadere sul tavolino, producendo un lieve
rumore metallico. Ma Barrington attese che il falco muovesse di nuovo le ali, volando via, sopra i tetti, prima di allungare la mano a prendere l'oggetto. Mentre il falco, lento e nobile, risaliva verso il cielo, Shane Barrington ebbe una nuova sorpresa: dall'altro artiglio del volatile, infatti, si era srotolato un piccolo striscione. Allora, rapidamente, puntò il binocolo sul pezzo di stoffa e lesse: ENDICOTT ARMS 14a PIANO 12 MINUTI. Incuriosito, Barrington cercò con lo sguardo l'Endicott Arms, un palazzo residenziale posto diagonalmente rispetto al suo, e contò quattordici piani partendo dalla strada, poi si riportò il binocolo agli occhi. Le lenti meticolosamente lavorate si scheggiarono - senza rompersi - allorché Barrington fece cadere il binocolo, tanta era stata l'emozione per quello che aveva visto. Alla finestra del quattordicesimo piano dell'Endicott Arms c'era infatti un volto che aveva riconosciuto all'istante. Non apparteneva a qualcuno che lui frequentava regolarmente... Anzi non vedeva quella persona da circa tre anni. Ma i tratti di quel volto erano assai simili a quelli di un altro, che Barrington aveva visto proprio quella mattina - e ogni altra mattina della sua vita - riflessi in uno specchio: erano i propri. Attraverso il binocolo, si ritrovò a guardare suo figlio venticinquenne, Arthur. Unico frutto del suo breve matrimonio, Arthur era una versione più attraente - e più giovane - del padre. A parte il sostegno economico e qualche frettolosa visita durante le vacanze, Barrington aveva mostrato poco interesse per il ragazzo, specialmente dopo che l'ex moglie si era trasferita in California col nuovo marito. Negli anni precedenti, onde evitare richieste di aiuto finanziario, Barrington aveva fatto sorvegliare attentamente dalle proprie segretarie sia il figlio sia l'ex moglie. Perciò non era stato affatto sorpreso quando Arthur, dopo essere stato espulso da ben quattro Accademie d'arte, si era sistemato nel centro di Manhattan, con l'evidente intenzione di farsi mantenere dal facoltoso genitore. Barrington era quindi preparato ad affrontare il figlio allorché questi si era presentato nel suo ufficio - coi capelli viola, coi pantaloni di pelle strappati e con un piercing alla lingua - per chiedergli un finanziamento mirato all'apertura di una galleria d'arte riservata all'esposizione di sculture. Tutto ciò che Arthur Barrington aveva ottenuto dal padre era stata una rabbiosa predica di un minuto e mezzo, durante la quale era stato informato che un «fallito drogato parassita» non avrebbe avuto neppure un cente-
simo. Poi gli addetti alla sicurezza lo avevano scaraventato fuori degli uffici della Barrington Communications. Grazie al binocolo, Barrington aveva subito riconosciuto il figlio, ma quest'ultimo non poteva fare lo stesso. La stanza in cui si trovava era molti piani più in basso e gli edifici erano separati da una strada. Ma la sua testa era rivolta in direzione di Barrington. Qualcuno al suo fianco, vicino alla finestra, lo obbligava a guardare verso suo padre. La figura stava chiaramente forzando la testa del giovane con una mano guantata, mentre l'altra mano - anch'essa guantata - impugnava un lungo e minaccioso coltello, puntato alla gola del giovane. L'ultima immagine che Shane Barrington vide prima che il binocolo gli cadesse di mano, finendo a terra, fu il cartello scritto a mano attaccato al collo del figlio: PAPÀ, HAI 11 MINUTI E 30 SECONDI PER VENIRE QUI ALL'APPARTAMENTO 14C ALTRIMENTI QUEST'UOMO MI UCCIDERÀ «Pazzi assassini!» urlò Shane Barrington, col poco fiato che gli era rimasto dopo la corsa dal suo attico e attraverso Park Avenue fino al quattordicesimo piano dell'Endicott Arms. Ci aveva messo soltanto otto minuti a compiere quel tragitto e, negli ultimi tre minuti, aveva avuto la netta sensazione che il mondo gli stesse di nuovo crollando addosso. Proprio com'era accaduto nel castello in Svizzera. I Sette. Barrington stava urlando all'uomo che, pochi minuti prima, teneva il coltello puntato alla gola del figlio. Ora il coltello sembrava sparito, ma Arthur Barrington era steso su un letto, apparentemente privo di sensi. Sul viso aveva una maschera collegata a un respiratore, il quale a sua volta era collegato a una macchina piuttosto complessa. La macchina lampeggiava, emettendo una serie di bip. «Mr Barrington, sono onorato che abbia accettato il mio invito. Non vuole salutare affettuosamente suo figlio, dato che non lo vede da tanto tempo?» La voce dell'uomo sembrava avere un vago accento sudafricano, ma non tradiva la minima emozione. «Chi è lei? Cosa sta facendo ad Arthur?» «I Sette le hanno detto che qualcuno l'avrebbe contattata, Mr Barrington. Tuttavia non credo che le abbiano fatto il mio nome. Ho molte diverse identità, com'è richiesto dal mio lavoro, ma può chiamarmi come mi chia-
mano i Sette: Artiglio.» La rabbia di Barrington, unita ormai alla paura, non si placava. «Artiglio? E che cos'è, un nome o un cognome?» «Non fa differenza. Lo uso perché è un omaggio all'unica ferita che ho ricevuto nella mia vita di guerriero. Il primo falco che ho allevato e addestrato da ragazzo in Sudafrica, l'ultima cosa per la quale ho provato affetto, un giorno mi si è rivoltato contro, strappandomi l'indice.» Nel dir così, si tolse il guanto dalla mano destra. A prima vista, la mano di Artiglio sembrava del tutto normale, ma, osservandola più attentamente, si notava che l'indice era stato sostituito da un materiale duro e dello stesso colore della pelle, modellato come un dito. E la parte in cui avrebbe dovuto esserci l'unghia presentava una sorta di punta acuminata: un'arma capace di uccidere. «Quel falco l'ho abbattuto... e questa mi ricorda cosa succede se ci si distrae o ci si rammollisce. Ed è molto utile nei momenti in cui un'arma vera e propria non è adatta. Una cosa che lei, da uomo di mondo, capirà, perché accade sempre più spesso oggigiorno, in questi tempi così angoscianti.» «Quindi i Sette vogliono che prenda ordini da lei?» «Proprio così, Mr Barrington.» «Ma cosa c'entra mio figlio in tutto questo? Non lo vedo da anni.» «Esattamente da tre anni e due mesi. È solo un giochetto, che dobbiamo fare per soddisfare i Sette e per convincere me che lei è veramente pronto a fare quello che le viene chiesto. Non importa cosa. Perciò, benché non siate una famiglia modello, credo che, in fondo, lei nutra qualche sentimento per lui, anche solo da essere umano a essere umano.» «Cosa vuol dire? Che ha fatto ad Arthur?» «È un po' tardi per fare il padre preoccupato, non crede? Tuttavia la sua messinscena è abbastanza convincente. Lo dico da uomo spietato a uomo spietato.» Artiglio si mosse verso il tubicino di plastica collegato alla maschera sul viso di Arthur Barrington. «Non capisco. Perché è sdraiato lì, privo di sensi? È ammalato?» Nella voce di Barrington si percepiva una disperazione forse reale, forse inconsapevole. Artiglio afferrò il tubicino di plastica con la destra. «Mr Barrington... I Sette vogliono che lei porti a termine alcune specifiche operazioni e io sono qui per comunicarle le direttive in base alle quale tali operazioni saranno eseguite. Alcune saranno illegali, altre spiacevoli... Ma tutte accadranno quando io glielo ordinerò e lei agirà immediatamente, senza chie-
dere spiegazioni, senza trovare scuse e senza sbagliare.» «Lo so, ho già accettato tutto questo in Svizzera.» Lo sguardo con cui Artiglio trafisse Barrington era affilato quanto il suo indice. E proprio con la punta di quel dito, Artiglio tagliò il tubicino, provocando una sibilante fuoriuscita d'aria. Il macchinario a fianco del letto cominciò a emettere bip in modo stridulo e quattro luci rosse lampeggiarono. «Sì, è facile impegnarsi a parole se nell'immediato non c'è nulla in gioco, Mr Barrington. Adesso voglio vedere se ha davvero il fegato di agire.» «Ma per cosa? Che sta succedendo a mio figlio?» «Non finga di provare improvvisamente un grande affetto per questo ragazzo. D'accordo, è una vita umana, ma non è granché, come vita. Nessun vero amico, nessuno scopo... Quando sarà morto, questo ragazzo non mancherà a nessuno.» «Morto? Ma cosa... Perché dovrebbe morire?» «Perché lo dico io. Qui, ora. È il nostro test. È completamente arbitrario, insensato, brutale. Proprio come tante cose che i Sette le chiederanno di fare. Che io le farò fare. Cose che farà... altrimenti morirà.» Barrington si lanciò contro Artiglio, gridando: «Ma come, sta...» L'altro gli afferrò il braccio, fermandolo immediatamente. «Non ci pensi neanche, Mr Barrington. Neppure per un secondo. Oh, ma io non sono proprio senza cuore. Se mi dice di salvare il ragazzo, lo farò.» Col dito indice coprì il taglio nel tubicino. Il sibilo cessò immediatamente, le spie si spensero e il bip tornò regolare. Dopo alcuni secondi tolse di nuovo il dito, l'aria ricominciò a uscire e gli allarmi ripresero. «Sì, mi fermerò qualche secondo. Quanto basta per tagliarle la gola.» Alzò l'indice, affilato come un rasoio, a qualche centimetro dagli occhi di Barrington. «Poi ucciderò il ragazzo.» Barrington crollò sul pavimento, ma continuò a far correre lo sguardo dal letto in cui giaceva Arthur ad Artiglio. Dopo un paio di minuti, la macchina emise un bip lungo e continuo e il grafico divenne piatto. «Congratulazioni, Mr Barrington. I Sette sarebbero orgogliosi di lei. Io sono orgoglioso di lei. Ha fatto la cosa giusta al momento giusto. Continui ad agire così ogni volta che la contatterò e avrà successo e potere al di là dei suoi sogni più sfrenati.» Gettò un foglio di carta ai piedi di Barrington. «Ecco le sue prime istruzioni. Si tratta d'informazioni che mi servono.» «Che ne sarà di mio figlio?» «Credo che le strazierebbe il cuore seppellirlo nella tomba di famiglia, perciò provvederò io a sbarazzarcene e nessuno ne saprà mai nulla. In ef-
fetti, questo è vero solo in parte. La gente saprà qualcosa della morte di Arthur Barrington. Come sempre, c'è un piano, di cui però non è necessario che lei conosca gli sviluppi, per ora. Le saranno rivelati quando sarò pronto. Per il momento, si limiti a raccogliere quelle informazioni. Adesso se ne vada.» 10 Guardando il giovane con la testa rasata e i pantaloni sformati che camminava a grandi passi lungo il corridoio, Laura Murphy scosse il capo e sorrise. Ricordava abbastanza dei suoi giorni da studentessa per sentire un'ondata di comprensione ogni volta che uno studente si presentava alla sua porta con gli occhi rossi, le unghie smangiucchiate e la faccia di chi non ha dormito o mangiato da una settimana. E non li giudicava con severità. Anzi le pareva che, per loro, fosse più difficile adattarsi al vasto, malvagio mondo di quanto lo fosse stato per la sua generazione. Superare quella terra di nessuno piena d'insidie tra l'infanzia e l'età adulta non era mai stato facile e, per quei ragazzi, senza dubbio c'erano più lusinghe e distrazioni da affrontare. Se considerava tutte le immagini e i messaggi inquietanti sfornati dai mezzi di comunicazione, finiva per pensare che forse era un miracolo se qualcuno di loro ne fosse comunque venuto fuori bene. Era soltanto il loro abbigliamento che, talvolta, andava al di là della sua comprensione... Laura era più che felice di poter dare anche soltanto un piccolo aiuto in quella transizione verso l'età adulta. Ormai da due anni fungeva da consulente per gli studenti universitari e non se n'era mai pentita, benché alcune persone a lei vicine - particolarmente suo padre - l'avessero rimproverata, sostenendo che stava gettando via una brillante carriera di archeologa sul campo per stare ad ascoltare giovani brufolosi «piagnucolare per i loro voti». A parere di Laura, pochi trionfi professionali erano paragonabili al senso di compiutezza da lei provato nell'aiutare una laureanda in Letteratura inglese, affetta da manie suicide, che era riuscita prima a farsi pubblicare un libro di poesie e poi a tenere alcuni seminari di scrittura creativa, insegnando ad altri come indirizzare il loro tumulto interiore verso qualcosa di positivo. In quel modo, Laura riusciva persino a trovare tempo per il suo libro sulle città perdute. Forse non sarebbe entrato nelle classifiche di vendita, né avrebbe dato origine a un film di successo, però, quando lei ne avesse con-
segnato una copia a suo padre, allora avrebbe potuto pensare, con un certo orgoglio, di aver creato una specie di reperto archeologico tutto suo. E inoltre partecipava anche al lavoro del marito, usando le sue doti diplomatiche nei frequenti scontri che Michael aveva con le autorità e portando la sua esperienza - complementare a quella di lui - nella ricerca e nell'autenticazione dei manufatti biblici... Una cosa che avrebbe dovuto fare proprio in quel momento, rammentò, con un fremito di attesa. Non era stata presente all'esame iniziale del rotolo fatto da Murphy, perché il suo ufficio, come al solito, era pieno di studenti, ma ormai era giunto il momento di vedere se il rotolo reidratato stava per svelare qualche meraviglioso segreto su Daniele. Chiuse la porta dell'ufficio, raddrizzò il cartello che diceva LO SO: HO DETTO CHE LA MIA PORTA È SEMPRE APERTA... MA TORNO PRESTO, PROMESSO! poi, con passo svelto, percorse il corridoio e uscì dall'edificio. Dopo qualche minuto giunse alla porta di Murphy, bussò vivacemente ed entrò. Seduto al tavolo da lavoro, le maniche della camicia di jeans arrotolate, i capelli scompigliati, Murphy guardava qualcosa attraverso una lente d'ingrandimento, apparentemente perso nei suoi pensieri. Questo è il Murphy che mi piace di più, pensò Laura con un sorriso. Il Murphy così assorto nel proprio lavoro da non accorgersi nemmeno se la casa è in fiamme... Quel Murphy che l'aveva chiamata pochi minuti prima, colmo di eccitazione, per dirle che il rotolo era pronto. Gli toccò la mano, salutò Shari, e rivolse la sua attenzione alla camera iperbarica. «Allora, credi che sia sufficientemente reidratato?» «Immagino sia grassoccio e succulento come uno di quei tacchini che tua madre cucina il giorno del Ringraziamento», disse Murphy. «In effetti questo potrebbe essere anche un tantino più succulento.» «Lo so, lo so... e probabilmente è anche più saporito», esclamò Laura, alzando gli occhi al cielo. Murphy s'infilò un paio di guanti bianchi di cotone, aprì lo sportello della camera iperbarica e con cautela rimosse il rotolo. «Vediamo cosa abbiamo arrostito», mormorò. Iniziò delicatamente a srotolare il papiro su un vassoio di plastica. Laura trattenne il fiato, stupita dalla fermezza delle sue mani, considerato che stava maneggiando un oggetto che risaliva al regno di Nabucodonosor, al tempo di Daniele. Proprio adesso, in questa stanza, noi tre, vivi e vegeti, siamo in contatto con la Bibbia grazie a questo papiro incredibilmente
fragile, che potrebbe sbriciolarsi in polvere in qualsiasi momento, pensò. Ma l'antico papiro non si sbriciolò. Come una farfalla che emerge dalla crisalide, si srotolò lentamente, intatto e bello. «Guarda qui», disse Murphy, quando la scrittura cuneiforme apparve ai loro occhi, riga dopo riga. Triangoli compatti con code lineari e forme a V, come stormi di uccelli nel cielo, erano pigiati insieme in strette colonne. Completamente aperto, il papiro misurava circa ventitré centimetri per trentotto. Era segnato da lunghe pieghe che ne attraversavano la superficie color tabacco, i bordi erano frastagliati e gran parte della superficie si era sfaldata. Ma c'erano rimaste più lettere di quante Murphy avesse osato sperare. «Direi che è caldeo», mormorò. Laura non riusciva a distogliere lo sguardo da quegli strani simboli, quasi timorosa che svanissero nel nulla sotto i suoi occhi. «Sembrerebbe logico. Ai tempi di Nabucodonosor, la metà dei sacerdoti e degli stregoni era caldea. Riesci a leggerlo?» Murphy piegò il rotolo per ottenere una migliore angolazione. «Be', non conosco perfettamente il caldeo. Posso ordinare un'insalata o chiedere dov'è l'ufficio postale, ma nulla di più complicato...» Laura gli strinse un braccio. «Sii serio, dai. Ti ho visto persino scribacchiare in caldeo. Cosa dice?» «Be', è strano.» Murphy guardò attentamente i simboli, socchiudendo gli occhi. «Riconosco con certezza il simbolo per la parola 'bronzo' e qui» indicò una sbavatura appena leggibile -, «c'è il simbolo del 'serpente'. E guarda, eccoli di nuovo, col simbolo per 'gli israeliti'.» Rimasero in silenzio per un istante e Shari rimase immobile a osservarli. Sembrava che i due Murphy pensassero all'unisono, ansiosi di trovare un significato a quei segni. «Cosa significa tutto ciò?» chiese infine la ragazza. «Il Serpente di Bronzo», sussurrò Laura. «Proprio così», disse Murphy. «Fatto da Mosè tremilacinquecento anni or sono...» «E spezzato in tre parti dal re Ezechia nel 714 a.C.» «Ma, signore mie, tutto questo non ha senso», esclamò Murphy. «Mathusalem mi ha detto che il premio era un manufatto che aveva a che fare con Daniele. Il quale è vissuto al tempo del re Nabucodonosor... cioè più di cento anni dopo il regno di Ezechia.» Spinse indietro la sedia e prese a camminare su e giù. «No, non ha senso. Perché uno scriba caldeo avrebbe scritto qualcosa sul Serpente di Bronzo? E qual è il legame con Daniele?»
Laura esaminò di nuovo il rotolo per capire se si riusciva a individuare qualche altro dettaglio. «E se lo chiedessimo al pazzo che te lo dato?» «Me lo ha dato?» «Lo sai cosa intendo.» Murphy scosse la testa. «A Mathusalem piace che io capisca da solo. Fa parte del gioco.» Schioccò le dita. «Ma non c'è motivo per cui non debba chiedere un po' d'aiuto. Vieni, facciamo qualche foto. Conosco una donna che parla caldeo anche quando dorme.» Laura incrociò le braccia e gli rifilò uno sguardo severo. «No», disse lui rapidamente. «Non lo so per esperienza personale. Anzi non l'ho mai incontrata.» «Rilassati, Murphy. Lo so che ami solo me... e qualunque cosa stia sottoterra da almeno duemila anni. Chi è quest'oracolo?» «Non ci crederai, ma il suo nome è...» disse Murphy, pronunciando ogni sillaba lentamente, come se stesse ordinando una bottiglia di vino in un ristorante elegante, «... Iside Proserpina McDonald.» 11 La Parchments of Freedom Foundation era una delle centinaia di organizzazioni private che avevano la loro sede a Washington in edifici dalla facciata di pietra e dall'aria così ufficiale che molti cittadini li scambiavano per uffici governativi. La targa sulla porta dell'ufficio al secondo piano del palazzo della PFF indicava soltanto DOTTOR I.P. MCDONALD e solo gli iniziati sapevano che, dietro quella porta, c'era una delle più grandi esperte mondiali di culture antiche. Analogamente nessuno, passando davanti a quell'ufficio, avrebbe stabilito un collegamento tra lo studio di civiltà dimenticate e il persistente trambusto che arrivava da dietro quella porta chiusa. Il rumore dei libri che cadevano sul pavimento a uno a uno era seguito dal più delicato fruscio della carta, poi dal fracasso di un oggetto pesante una lampada? Un fermacarte? - che sbatteva contro qualcosa di solido. Fortunatamente per il responsabile di tutto quel caos, il corridoio antistante era percorso da poche persone. Il piccolo ufficio, senza finestre, era coperto da scaffali su tre lati, ma molti volumi - alcuni copie uniche, quasi tutti rari o quantomeno fuori catalogo - giacevano in un mucchio disordinato sullo scolorito tappeto marrone. In mezzo a quel massacro, una piccola, flessuosa figura controllava
alcuni documenti prelevati da una grossa pila disposta su una vecchia scrivania con l'alzata avvolgibile e li scartava con furia. «Deve essere qui. Deve esserci», gracchiò una voce, mentre una vacillante colonna di riviste accademiche veniva sbattuta a terra. Svariati cassetti furono aperti e sistematicamente frugati, ma, a giudicare dal sibilo di rabbia che accompagnava la ricerca, l'oggetto del desiderio non si trovava lì dentro. D'un tratto la figura si fermò, la testa piegata verso la porta. Rumore di passi. Tacchi alti che picchiettavano lungo il corridoio. Nell'ufficio tutto si era fermato. I passi continuavano, avvicinandosi. Poi si fermarono. Una pausa. Poi un colpo alla porta, delicato, titubante. Poi un altro, più forte, più insistente. «Dottoressa McDonald? Ha bisogno di aiuto?» La ragazza dall'aria compassata, che indossava un lindo abito blu, esitò. Se la dottoressa McDonald non rispondeva, voleva dire che era così concentrata su un manoscritto da non sentire neppure bussare e guai a chi entrava senza avere il permesso. Aveva imparato da tempo che la McDonald non la prendeva bene, se veniva interrotta sul lavoro. Era un po' come coi sonnambuli, pensò: se venivano svegliati, cadevano in uno stato confusionale, diventando persino violenti. Meglio lasciarli in pace finché non ritrovavano da soli la strada per tornare nel mondo dei vivi. Ma quella situazione era particolare. La ragazza aveva sentito distintamente una serie di schianti mentre voltava l'angolo e, avvicinandosi alla porta, non aveva avuto dubbi: qualcuno stava distruggendo l'ufficio della dottoressa McDonald. Fiona Carter non era coraggiosa. Il semplice pensiero della violenza fisica le faceva venire la nausea dalla paura. Ma c'era una cosa che la spaventava di più dell'eventualità di affrontare un ladro risoluto: spiegare alla dottoressa McDonald perché avesse permesso a qualcuno di decimare la sua preziosa biblioteca. Girò la maniglia e, con mano tremante, spinse la porta. Essa si aprì delicatamente, rivelando una donna magra, con indosso una gonna di tweed e un maglione da pescatore sformato, che era immersa fino alle caviglie in un mucchio di riviste rovinate e di pagine manoscritte, alcune delle quali svolazzarono nell'improvvisa corrente d'aria. La donna lanciò a Fiona un'occhiata furente. «Dottoressa McDonald!» Fiona fece un passo avanti e quasi inciampò in un grosso volume nero. «Si sente bene? Ho sentito un tale rumore... pensavo ci fosse un intruso. Pensavo che qualcuno stesse...»
«Non riesco a trovare quel maledetto poema di Cariddi. L'ho visto appena ieri e ora è scomparso. Fiona, ha di nuovo messo il naso nei miei manoscritti?» La ragazza trattenne una risata nervosa. Far diventare l'ufficio della dottoressa McDonald più caotico di quel che già era? Nessuno, neanche un ladro pasticcione, ci sarebbe riuscito. «Il poema di Cariddi?» chiese allora. «È possibile che lei stesse consultando l'Antica letteratura copta di Merton mentre lo leggeva?» La dottoressa McDonald pareva dubbiosa. «Sì, è possibile.» «In tal caso, forse l'ha messo dentro il volume per conservarlo.» Se ricordava bene, l'Antica letteratura copta era rilegato in tela verde scuro con la scritta in rosso sul dorso. Non era nel suo solito posto sullo scaffale. A dire il vero, ben pochi libri erano al loro posto. Chinò lo sguardo sul pavimento coperto di volumi. «È quello? Laggiù, vicino a Il sacro e il profano di Mircea Eliade...» La studiosa si voltò nella direzione indicata da Fiona e raccolse un grosso libro verde. Sfogliò rapidamente le pagine e un foglio di pergamena svolazzò a terra. Il poema di Cariddi. La dottoressa McDonald guardò Fiona, raggiante. Osservando quei vestiti semplici e la sua aria severa, era facile non accorgersi che Iside Proserpina McDonald era una donna di una bellezza incantevole, rivelata soltanto dai suoi rari sorrisi. Sebbene non sorridesse affatto se la chiamavano col nome di battesimo. «Brava ragazza. Come diavolo fa a sopportarmi?» Prima che Fiona potesse formulare una risposta adatta, uno squillo risuonò nella stanza. Le due donne rimasero immobili per un istante poi si girarono istintivamente verso la scrivania vuota e infine presero a scandagliare il pavimento, in cerca del punto da cui proveniva il suono. Fiona spinse via un pacco di giornali e raccolse il telefono. «Ufficio della dottoressa McDonald, parla Fiona Carter. Oh, buongiorno, professor Murphy...» Si girò verso la studiosa che si era messa a scuotere furiosamente la testa, facendo una silenziosa boccaccia per dire no. «Ma no, non è affatto occupata, professor Murphy. Sono certa che sarà felice di parlarle.» Sorrise dolcemente e passò il telefono alla dottoressa. Iside sedette alla scrivania, con le braccia conserte e le labbra increspate, in attesa che il computer scaricasse un'e-mail. Mentre ascoltava il professor Murphy e la sua incredibile storia di un papiro babilonese, aveva a ma-
lapena notato che Fiona si era assunta il laborioso compito di ristabilire un po' d'ordine. E ormai, se non si poteva dire che tutto era a posto, almeno il pavimento era stato sgombrato e le carte e i volumi erano stati raccolti in cataste ordinate. Fiona aveva persino riordinato la collezione di antiche statuine in ceramica di Iside - le sue dee -, sistemandole in cima all'unico schedario nella corretta sequenza cronologica. Quando Iside percorse con lo sguardo quelle care figurine a lei così familiari - iniziando dalla pingue dea della fertilità proveniente dalla valle di Neander, in Germania, e finendo con una graziosa dea sumera della luna; si sentì salire agli occhi una lacrima che tuttavia ricacciò indietro. Le statuine erano un prezioso lascito di suo padre, il dottor McDonald, uno dei più eminenti archeologi del suo tempo, il risultato di una vita di scavi nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente. «Per la mia piccola dea, amata e adorata sopra tutte le altre», le aveva detto, porgendole la grossa scatola quadrata, legata con un fiocco. Ai suoi occhi di tredicenne, quelle statuine - qualcuna senza un braccio o una mano, tutte incavate e sporche di terra e polvere di civiltà da tempo scomparse - erano più belle di qualsiasi Barbie. Era stato quel regalo a segnare l'inizio della sua appassionata dedizione ai segreti del passato. Sfortunatamente, le statuine non erano il solo retaggio che il padre le aveva lasciato. C'era anche il nome. Immaginava che esistessero ragazze chiamate Freya - la dea nordica della fertilità - che a scuola non erano mai state prese in giro. Conosceva una paleontologa greca di nome Aphrodite e sapeva che non si crucciava affatto di quel nome. E non c'era anche una tennista di nome Venus? Nessuno le aveva reso la vita difficile perché si chiamava come la dea romana dell'amore. Ma Iside Proserpina era diverso. Era come essere nata con un diadema di stelle intorno alla testa. Oppure coi serpenti al posto dei capelli. Le rendeva abbastanza difficile passare inosservata. Nella piccola scuola nelle Highlands l'avevano chiamata Issy o Posy, due nomignoli che lei detestava. Perché non poteva essere una Mary, una Kate o una Janet come tante altre ragazze? Nel museo, nel rifugio del suo ufficio, almeno poteva insistere su «dottoressa McDonald». Ma con gli amici era un po' più complicato. Forse, rifletté, era quella la ragione per cui non ne aveva. Tamburellò sulla scrivania le dita lunghe ed eleganti, ma con le unghie mangiucchiate fino alla carne. Era curiosa di ricevere le foto del papiro. Se guardi l'acqua nella pentola, non bolle mai. Aggrottò le sopracciglia.
Il professor Murphy aveva tutta l'aria di un eccentrico. Pareva molto interessato alle profezie bibliche e aveva confusamente accennato al Libro di Daniele. Ma il papiro sembrava interessante. Naturalmente poteva essere un falso, oppure qualcosa di più banale: una lista della spesa vecchia di tremila anni o il permesso per tenere una iena in casa... Dio solo sapeva che razza di burocrati erano quei babilonesi. Nel corso degli anni, di pari passo con la crescita della sua reputazione di filologa, si erano moltiplicati gli enigmi bisognosi della sua esperienza in campo linguistico. Se, scavando, si rinveniva un coccio di ceramica con un'iscrizione che lasciava perplessi oppure se si scopriva un pezzo di papiro coperto di ghirigori senza senso, prima o poi lo si portava a Iside McDonald. E nove volte su dieci, a costo di metterci sei mesi, e quasi d'impazzire, lei risolveva l'indovinello, decifrava il codice o scioglieva il nodo linguistico che aveva sconcertato gli altri esperti. Quello era il suo straordinario talento. Pur felice di vedere che la carriera di lei prendeva il volo, mentre la propria tramontava, il padre era dell'opinione che fosse una questione di memoria, più che di esperienza. Certo, la dimestichezza che Iside mostrava coi geroglifici sacri era giustificabile soltanto se si ammetteva che lei, in una vita precedente, era stata una sacerdotessa egizia. Ridicolo, naturalmente. Ma era il genere di sciocchezze che lui diceva verso la fine. Probabilmente era soltanto un modo scherzoso, da archeologo, per dire quanto le voleva bene. Iside cancellò quel ricordo con un battito di ciglia, mentre sul monitor si formavano le immagini del papiro, e abbandonò con sollievo il mondo agitato delle emozioni per quello più semplice dell'antica Babilonia. Ciò che vide catturò immediatamente la sua attenzione. E la trattenne davanti al monitor per due ore, accompagnate da una serie di appunti scarabocchiati frettolosamente. Il telefono lo riportò alla realtà. «Professor Murphy? Sono McDonald. Ho letto il suo papiro.» Lui mise da parte la Bibbia. «Piacere di sentirla. La prego, mi chiami Michael. Anche se quasi tutti mi chiamano Murphy.» Ci fu una pausa imbarazzata. «Bene, Mr Murphy, sembra che lei abbia ragione. Si tratta senz'altro del Serpente di Bronzo della Bibbia...» «Ma il papiro è datato centocinquant'anni dopo la distruzione del Ser-
pente di Bronzo.» Avvertì la disapprovazione di lei per la sua impazienza. «Mi scusi, questa faccenda mi sta innervosendo. Continui pure.» «Sembra che il papiro sia una specie di diario, scritto da un gran sacerdote caldeo di nome Dakkuri. Da quanto capisco, il Serpente è stato davvero spezzato in tre parti, come dice la Bibbia, ma evidentemente qualcuno si è poi dimenticato di gettar via i pezzi, che devono essere stati custoditi nel Tempio. Quando i babilonesi hanno saccheggiato Gerusalemme, li hanno ritrovati appunto nel Tempio... e ovviamente hanno pensato che valesse la pena portarseli a casa.» «E quando i pezzi hanno raggiunto Babilonia, questo Dakkuri ha rimesso insieme il Serpente di Bronzo.» «Lo penso anch'io. Ma questo è solo l'inizio. Penso che Dakkuri fosse convinto che quel Serpente valesse ben più di una bella scultura in bronzo.» La mente di Murphy galoppava. «Mi sta dicendo che i babilonesi, a Gerusalemme, avevano sentito parlare dei poteri curativi del Serpente creato da Mosè e si erano affidati a Dakkuri perché lo rendesse di nuovo... operante?» A Iside non piaceva che Murphy la interrompesse, e si rese conto che avrebbe dovuto essere altrettanto invadente se voleva concludere. «In effetti, professor Murphy, credo che Dakkuri cercasse di usare il Serpente come parte di un culto.» «Vuole dire che Dakkuri indusse i babilonesi a adorare il Serpente come gli israeliti avevano fatto al tempo di Ezechia?» «Non tutti i babilonesi lo fecero. Dal papiro, sembra che ci fosse una specie di ristretto circolo sacerdotale, capeggiato da Dakkuri, che circondava le linee di potere tracciate dal simbolo del Serpente.» «Ma ciò non suggerisce pure che l'adorazione del Serpente si sia rivelata un grave errore per i babilonesi, come lo era stato per gli israeliti?» «Be', ci sono riferimenti a qualche difficoltà col Serpente, ma il papiro è danneggiato in un punto cruciale», rispose Iside, lasciando intendere che quel danno era stato provocato dalla trascuratezza di Murphy. Lui non ci fece caso. «Sembra che quella 'difficoltà', come la chiama lei, fosse davvero grossa. Infatti c'è il simbolo del re, il che potrebbe significare che il culto del Serpente di Dakkuri era stato bandito dallo stesso Nabucodonosor, giusto?» «Evidentemente non ha bisogno che io le insegni là Bibbia, Mr Murphy», replicò Iside in tono compiaciuto. «Secondo il Libro di Daniele,
Nabucodonosor costruì una grande statua con la Testa d'Oro, a somiglianza di quella vista in uno dei suoi famosi sogni. E a tutti i principi d'ogni parte del regno fu ordinato d'inchinarsi e di adorarla in alcune precise circostanze. Quando sentivano il suono del corno, per esempio, o del flauto o dell'arpa.., Mi faccia pensare, che altro?» «Della sambuca, del cembalo e del salterio», disse Murphy senza esitare. «Grazie. Sì, cembalo e salterio... Ah, quanto può essere poetico re Giacomo.* Mi riporta al catechismo domenicale nella mia piccola chiesa in Scozia.» Il ricordo sembrò farla allontanare per un istante dal tema della conversazione, ma lei si riprese in fretta. «In conclusione, Dio fece diventare il re pazzo come una lepre marzolina per punirlo della sua arroganza e, quando alla fine Nabucodonosor rinsavì, comprese il messaggio: il culto degli idoli era peccato. Così lo bandì.» «E naturalmente mise al bando anche il culto del Serpente.» «Immagino di sì.» «Dunque anche questo sacerdote, Dakkuri, ricevette l'ordine di non adorare più il Serpente e di disfarsene.» «Ma comincio a credere che disfarsi di quel Serpente fosse piuttosto difficile», lo interruppe lei. «Nessuno di quelli che lo ha posseduto voleva fonderlo e riutilizzarlo.» Murphy saltò dalla sedia. «Sì! Ci sono! Ecco spiegato il papiro. Dakkuri non ha scritto tutto ciò soltanto per comunicare al mondo che era stato un adoratore del Serpente. Voleva dare l'impressione di averlo distrutto, come ordinato da Nabucodonosor. Non era uno stupido. Però lui ha nascosto i tre pezzi. Ecco cosa ci dice nel papiro, vero, dottoressa McDonald?» «Ci dice qualcosa di meglio, Mr Murphy. Sì, Dakkuri ha scritto di aver nascosto i pezzi, ma ci dà anche il primo indizio per ritrovarli.» Murphy sprofondò nella sedia, come se l'ultima frase lo avesse atterrato. «'Il primo indizio'? Che significa?» «L'ultima parte del papiro, in realtà, è divisa in due sezioni. La prima continua il racconto di Dakkuri. Sembra che lui avesse scelto tre dei suoi accoliti per disperdere i pezzi del Serpente in tre luoghi ben distinti dell'impero babilonese.» «E ci spiega dove andarono a nasconderli?» Iside stava diventando brava a interrompere le interruzioni di Murphy. «Quella è la seconda sezione. Pare che Dakkuri volesse organizzare una specie di caccia al tesoro per i pezzi del Serpente. Le ultime righe sono la chiave per trovare il primo pezzo. E aggiunge, almeno così mi sembra,
che, una volta trovato il primo pezzo, esso condurrà al resto del Serpente.» Murphy guardò l'ingrandimento del papiro davanti a sé. «Sulla base di questo disegno... Mi riferisco alla curva con l'ondulazione in fondo... Direi che il primo pezzo è la coda, giusto?» «Anch'io voto per la coda del Serpente.» «Di sicuro Dakkuri si è dato molto da fare per salvare il Serpente, eppure si è assicurato che fosse tremendamente difficile ritrovarne i pezzi.» Iside ebbe l'impressione che parlare con Murphy fosse una sfida alla sua erudizione e solleticasse il suo spirito competitivo, uno spirito che, con gli uomini intelligenti, si risvegliava all'istante. «Difficile, sì, ma non impossibile per qualcuno abbastanza brillante da decifrare gli indizi.» Murphy sentì ogni cellula del suo corpo d'archeologo tremare di eccitazione. «Questo significa che possiamo trovare il Serpente di Bronzo fatto da Mosè! Meglio ancora, se troviamo il Serpente sulla scorta di questo papiro, ciò dimostra che esso esisteva ancora al tempo di Daniele!» Una risata poco femminile sfuggì dalla bocca di Iside prima che lei potesse trattenersi. «Noi, Mr Murphy? Niente da fare. Riesco a malapena a trovare le cose nel mio ufficio. Comunque, lei è libero di partire al galoppo in cerca del primo pezzo del Serpente. Nulla di più semplice. Sempre che lei sappia dove si trovano le Corna del Bue.» * Nel 1611, re Giacomo I Stuart affidò a sei commissioni composte da uomini illustri e pii l'incarico di realizzare una versione inglese della Bibbia. La traduzione venne completata nel 1611 e divenne ben presto la versione di riferimento per i protestanti di lingua inglese. (N.d.T.) 12 Le Corna del Bue. Le Corna del Bue. Murphy continuava a rimuginare quella frase e si meravigliava dell'apparente facilità con cui Iside McDonald aveva estrapolato il nome di quel luogo dai simboli in fondo al papiro. Per quanto li avesse esaminati attentamente, non si era neppure avvicinato a stabilire l'associazione. Eppure, ora che lei li aveva interpretati, sembravano chiarissimi. Incassando il colpo - nient'affatto lieve - al suo orgoglio professionale e maschile, Murphy si convinse che la sua esperienza sul campo poteva rendere operativa la teorica maestria linguistica della dottoressa McDonald.
Le Corna del Bue dovevano fare riferimento a un luogo abbastanza importante, ragionevolmente vicino all'antica Babilonia. Non potendo sapere quanto tempo sarebbe trascorso prima che quel pezzo del Serpente venisse riportato alla luce, era probabile che Dakkuri avesse scelto un sito naturale e non uno creato dall'uomo. Per alcune ore si concentrò sui suoi testi topografici, però si rendeva conto via via che nessuno conosceva i paesaggi antichi meglio della moglie. I suoi studi sulle città antiche le fornivano la conoscenza enciclopedica di cui ora lui aveva bisogno. Disperatamente. Alla fine, Murphy rintracciò Laura nella sala d'aspetto della facoltà. «Amore, devi tirar fuori tutti i tuoi libri e le tue mappe. Credo di aver scoperto dov'è il Serpente.» «Stai parlando sul serio? Sai dov'è il Serpente?» Laura si tolse subito la veste di consigliera, diventando un'archeologa al cento per cento. «Be', veramente devo dire grazie alla dottoressa McDonald. E lei ha trovato soltanto l'indizio relativo al luogo in cui è nascosto il primo pezzo del Serpente. Il papiro è una specie di mappa del tesoro caldea, con un pezzo del Serpente come tesoro», spiegò Murphy. «Fantastico!» esclamò Laura. «Ma dov'è?» Murphy s'inginocchiò, mostrando a Laura dove aveva scritto Le Corna del Bue e disegnato svariati schizzi a matita di parti del territorio che potevano aver ispirato quel nome. Avevano tutte due sommità verticali ricurve come corna ed erano a cavallo di un rilievo del terreno che poteva dare l'idea di un cranio di bue. «Sono arrivato fin qui. A dire il vero, ho un disperato bisogno della tua abilità nel leggere le mappe. È passato un bel po' di tempo da quando Dakkuri ha scritto le indicazioni e credo che il territorio sia un po' cambiato.» Laura rise. Lo prese per mano e s'incamminarono attraverso l'atrio. «Strano davvero, Murphy», mormorò lei, scuotendo il capo. «Come mai gli uomini non sanno leggere le mappe?» Non appena le ebbe mostrato la traduzione parziale del papiro, Laura partì immediatamente. In pochi minuti il loro salotto, già in disordine, era diventato un mare in tempesta di carte, con mappe, libri di consultazione e tabulati di computer sparsi sul pavimento. Laura sedeva nel mezzo di quel caos, afferrava mappe, le scartava, scarabocchiando note a gran velocità, canticchiando tra sé.
A sentir lei, non era come cercare un ago in un pagliaio. Era come ricostruire un pagliaio bimillenario, capire dove ogni filo di paglia era stato posto in origine, prima di essere portato via da duemila anni di vento, inondazioni e terremoti, e infine trovare l'ago. Se Murphy e Iside avevano decifrato correttamente il papiro, bisognava dire che le indicazioni di Dakkuri sul nascondiglio della coda del Serpente erano molto dettagliate. Laura fornì un'interpretazione più precisa dei rudimentali schizzi di Murphy, sostenendo che le Corna del Bue si riferivano a un particolare aspetto geografico, probabilmente una dorsale, terminante in due aguzzi promontori, forse con un grosso rilievo roccioso o una collina sporgente da dietro... il «corpo» del bue. E il tutto doveva essere ben visibile da lontano, perciò il terreno circostante doveva essere abbastanza piatto. Ma lo scenario che aveva avuto in mente Dakkuri era perennemente mutevole. I mari erano avanzati per poi ritirarsi, l'erosione aveva spostato le colline come pezzi su una scacchiera, il tracciato dei fiumi e dei canali forse era stato deviato, trasformando il deserto in pascolo e viceversa. E poi c'erano i terremoti: potevano scuotere gli elementi come in un caleidoscopio, cambiando completamente il quadro da un anno all'altro. Per vedere le cose come le aveva viste Dakkuri, era necessario invertire il processo. In un certo senso guardare il panorama moderno e vedere quello antico al di sotto di esso. Quel compito richiedeva un'abilità portentosa nel leggere le mappe a rilievo tridirnensionali, una conoscenza dettagliata della geografia antica e un senso intuitivo delle trasformazioni geologiche nel corso del tempo... per non parlare di una specie di sesto senso indefinibile. Per fortuna, Laura era una delle poche persone al mondo a possedere tutte quelle abilità. Mentre la guardava consultare attentamente i documenti, Murphy si stupì ancora una volta di fronte alle capacità straordinarie della moglie. Ma comprese pure che trovare la coda del Serpente alle Corna del Bue avrebbe messo quelle capacità alla prova come mai prima di allora. 13 Fu il secondo pugno quello di cui Murphy si pentì. Non stava combattendo contro nessuno; stava colpendo un sacco da boxe nella palestra della Preston University. Il primo pugno, un destro veloce e diretto, gli era sembrato buono, così buono che aveva rapidamente tirato con la sinistra un
colpo contro il sacco, che aveva mandato una scossa dal guantone direttamente alla spalla. Proprio quella spalla ancora dolorante per la zampata del leone. Quando Murphy lasciò cadere le braccia per lasciar rimbalzare il dolore nella parte superiore del corpo, il tipo tarchiato vicino a lui ringhiò: «Avanti, Murphy, niente pausa caffè. Questo non è un impiego statale, ma un allenamento». Levi Abrams gli spinse la spalla per farlo continuare. Quella sinistra. Murphy si dovette piegare in due per evitare che il dolore gli trafiggesse il torace. «Levi! Non mi hai sentito quando ho detto che oggi avrei dovuto stare attento con questa spalla?» «Assorbì il dolore, Murphy. Forza. Concentrazione. Non ricordi niente della vita militare? Allenarsi, allenarsi e ancora allenarsi. È l'unico modo per evitare di marcire come una delle tue mummie.» Murphy non poté fare a meno di ridere, mentre sollevava lo sguardo verso quell'israeliano alto un metro e novantacinque che prendeva sempre così sul serio i loro allenamenti. In effetti, Levi Abrams era serio in tutto ciò che faceva, a quanto ne sapeva Murphy. Negli Stati Uniti era stato reclutato e molto ben pagato da industrie hi-tech della zona di Raleigh-Durham come esperto di sistemi di sicurezza. Tanto ben pagato da potersi permettere di andare in pensione anticipata dal Mossad e trasferire la famiglia a Raleigh. Murphy tuttavia era certo che Levi non fosse del tutto a riposo. Non glielo avrebbe mai chiesto direttamente e l'altro era troppo riservato per parlare, di sicuro aveva ancora vari agganci in Medio Oriente, sia coi Paesi Arabi sia con Israele. E infatti Levi aveva spesso aiutato Murphy a ottenere rapidamente i documenti per poter andare e tornare dal Medio Oriente e, cosa più importante, per farne uscire certi oggetti. Sarebbe stato difficile capirlo dall'espressione severa e dal modo di parlare sempre concreto, però Levi rispettava Murphy. Come quest'ultimo, anche Levi era nato per insegnare. Però, se Murphy avesse tartassato i suoi studenti come Levi faceva con lui, l'università lo avrebbe trascinato in tribunale per maltrattamenti. Si erano conosciuti due anni prima, sulla pista di atletica. Era l'alba e Levi stava controllando la sicurezza di un potente sistema computerizzato donato all'università dall'industria tecnologica in cui lavorava. Poi Levi si era offerto di migliorare l'abilità di Murphy nelle arti marziali, il che aveva portato ad allenamenti intensissimi ogni volta che i due ne avevano il tem-
po. Con Levi, Murphy si spingeva sempre ben oltre lo sforzo che praticava da solo e normalmente ci dava sotto parecchio. E ora aveva esagerato, scatenando il dolore che lo aveva quasi costretto a piegarsi in due. Quella mattina, Murphy avrebbe volentieri saltato del tutto l'allenamento per dar tempo alla sua spalla di guarire, però aveva un motivo urgente per incontrare Levi. Decise di affrontare la questione mentre aspettava che il dolore diminuisse. «Levi, amico mio, ti devo chiedere un grande favore. Ho una traccia per qualcosa di veramente grosso, una scoperta archeologica sulla quale mi devo precipitare.» «Un altro dei tuoi gingilli polverosi?» Il rispetto di Levi per Murphy come pugile non si estendeva alla professione scelta dallo studioso. «Fammi indovinare... Ti servono forse, come dice mio figlio, delle 'ruote'? Un trasporto in qualche parte rischiosa del Medio Oriente?» «Mi conosci davvero bene, amico mio. Levi, Laura e io abbiamo bisogno di entrare al più presto in Samaria, trovare il luogo in cui si nasconde ciò che stiamo cercando, e portare l'oggetto a Preston senza noie coi funzionari e con le dogane. Ah, e non mi deve costare niente.» Levi fece un fischio, lungo e sommesso. «Come? E non avrai neanche il tempo per qualche colloquio di pace, visto che sei nelle vicinanze? Vedrò cosa posso fare. Quando sarai pronto a partire?» «Ci siamo liberati per gran parte della prossima settimana e i miei studenti sono praticamente sistemati, perciò posso partire subito. Anche Laura si farà sostituire. Ti sono veramente grato, Levi.» «Vediamo prima se riesco a trovare ciò che ti serve.» Levi gli diede un pugno su una spalla e sibilò: «La pausa caffè è finita. Torna al sacco». 14 «Siamo entrambi uomini, ma formiamo una coppia interessante, professor Murphy, vero?» Murphy annuì con deferenza al suo ospite, lo sceicco Umar al-Khaliq, ma si domandò a che cosa mirasse un preambolo del genere. Stavano bevendo un forte caffè arabo nella splendida casa di al-Khaliq in Samaria, dopo un giorno di viaggio. Il tutto era stato organizzato da Levi Abrams con sorprendente rapidità. Laura si era ritirata nella stanza degli ospiti, sostenendo di essere esausta, ma in privato aveva fatto notare a Murphy di avere la sensazione che
lo sceicco non ritenesse le donne degne di partecipare a discussioni serie. «Be', tipico di tanti arabi della sua generazione», aveva commentato. Quindi, puntando un dito contro Murphy, aveva aggiunto: «In realtà è tipico di tanti uomini di ogni Paese». «Ehi, non puntarmi il dito contro. È carico!» protestò Murphy. «Sono innocente.» «Ma potresti portare lo sceicco almeno nel XX secolo.» Murphy sospirò. «Sono d'accordo, cara, però consiglierei di non offendere la mano generosa che ha reso possibile questo viaggio, eh? Almeno finché non sarà finito. Poi, te lo prometto, ti lascerò qui a mostrargli la verità. Sarai il mio regalo speciale al nostro ospite samaritano che sembra possedere tutto il resto.» «Murphy, meno male che devo studiare queste mappe. Perché domani, quando andremo in esplorazione, troverò un posto veramente fantastico dove lasciare te. Non tirate tardi con le vostre chiacchiere tra maschi, d'accordo?» In effetti, Murphy era abbastanza sicuro di quello che lo sceicco avrebbe voluto discutere, dato che era stato Levi Abrams a metterli in contatto. Dopo aver parlato per un quarto d'ora al cellulare, mentre Murphy terminava l'allenamento, Levi aveva detto: «Credo di avere trovato la persona perfetta per te, amico mio. Lo sceicco Umar al-Khaliq». «E perché sarebbe la persona perfetta?» Levi aveva fatto sedere Murphy. «La cosa ti sembrerà del tutto inattesa, trattandosi del Medio Oriente... Lo sapevi che ci sono sempre più arabi che cercano il vostro Dio?» «Ho letto qualcosa in merito al movimento cristiano tra i musulmani, ma onestamente credevo fosse verosimile quanto il loro avvicinarsi all'ebraismo. Senza offesa.» «Figurati. Comunque, al-Khaliq è ricco oltre ogni dire, conserva ancora lo status di diplomatico per la sua flotta di aerei privati, ma evidentemente tutto ciò non gli basta. Ha contattato, con discrezione, è ovvio, alcuni gruppi di missionari cristiani della regione. Come puoi immaginare, tentativi del genere non sono ben visti in Medio Oriente, non importa quanto tu sia potente. Perciò gli ho detto che saresti stato felice di consigliarlo, in cambio del viaggio di andata e ritorno e di rifornimenti per qualche scavo.» «Levi, sei un genio. Mi posso fidare di lui?» «Ho aiutato lo sceicco anni fa, in una situazione complicata, con certi
beduini dal grilletto facile che lui aveva difficoltà a contrastare sul suo territorio. Io mi fiderei.» «Grazie, Levi. Ti devo moltissimo.» «Non mi devi niente. Sta' attento alla tua meravigliosa moglie, piuttosto. Tu non mi mancheresti più di tanto, mentre lei mi mancherebbe moltissimo. E fidati dello sceicco, però non necessariamente di chiunque altro collabori con lui. Ma in fondo tu sai cosa fare quando scavi in terre... ignote.» Due giorni dopo quel colloquio, Murphy era seduto davanti allo sceicco, aspettando che costui spiegasse, nel suo inglese un po' contorto, perché loro due formavano una «coppia interessante». Il viaggio non sarebbe potuto andar meglio. Il primo consigliere dello sceicco, Saif Nahavi, si era occupato di tutti i dettagli; la ricchezza e il prestigio diplomatico di alKhaliq avevano rimosso ogni intralcio burocratico... Anche se, come Laura gli aveva fatto notare: «Murphy, i tuoi viaggi somigliano sempre a una prigione. È molto facile entrarvi, ma non lo è altrettanto uscirne». Certo, Murphy era molto grato alla generosità dello sceicco e, per parte sua, voleva tener fede al patto concluso da Levi, discutendo con al-Khaliq tutti gli aspetti di quel suo apparente interesse per il cristianesimo. Tuttavia i suoi numerosi viaggi in Medio Oriente gli avevano insegnato che doveva attendere: soltanto lo sceicco poteva iniziare la discussione di una faccenda tanto delicata. Ammesso che la affrontasse. «Professor Murphy, lei è un cristiano che viene nella mia terra musulmana in cerca di qualcosa perduto da secoli, una cosa che ritiene sia oggi di vitale importanza. Io sono una persona che possiede tutto ciò che esiste di moderno, eppure sono spinto a cercare qualcosa di ancora più antico e di più semplice di quello che lei cerca in questo viaggio.» «Sceicco, rispetto il suo coraggio in questa ricerca. Ha qualche domanda da farmi?» «Le domande sarebbero tante, ma per me è già abbastanza incontrarla e aiutare un uomo della sua fede. Nella mia posizione, finché rimango nella terra dei miei avi, e nonostante tutto ciò che posso fare, non ho la libertà di cui gode lei, lei che è venuto qui col cappello in mano.» Murphy dovette trattenere un sorriso di fronte all'involontaria tendenza dello sceicco a utilizzare frasi imbarazzanti. «Mi lasci dire, sceicco, che sono al suo servizio ogni ora del giorno e della notte. Le sono debitore per la sua generosità nei confronti del mio lavoro, una generosità dimostrata con un preavviso così breve. Ma dopo stasera mi considero doppiamente
favorito dalla sorte, perché lei mi ha ricordato quanto sono fortunato a essere americano e libero di professare qualunque religione io desideri.» «Sono io a doverla ringraziare, Murphy. Forse un giorno potremo discutere di molte cose del suo Paese.» «È sicuro che dovremo aspettare fino ad allora, sceicco? Sono certo che stasera non avremo abbastanza tempo per tutte le sue domande, ma perché non mi fa quelle che ritiene più importanti? Anche solo un paio...» Lo sceicco sorrise. «Vedo, professore, che lei è bravo a scavare. Bene. Mi dica, qual è la principale differenza che vede tra Allah e il suo Dio? Molta gente pensa che siano la stessa entità.» Murphy si chinò in avanti. «Ci sono molte somiglianze. Noi crediamo che il nostro Dio sia il creatore di tutte le cose, e voi pure. Ma crediamo anche in un Dio uno e trino, un Dio composto da tre personalità divine che hanno compiti diversi. È un misericordioso Padre Celeste, il Reggitore dell'universo che ha amato l'umanità al punto da concederle Suo Figlio e lasciare che morisse sulla croce per i nostri peccati e perché potessimo godere della vita eterna. Invia il Suo Spirito Santo nei nostri cuori per creare in noi un nuovo spirito e guidarci attraverso la vita.» Lo sceicco sospirò. «C'è tanto da capire. La mia seconda grande domanda è questa: cosa dovrei fare se volessi diventare cristiano?» «Secondo la Bibbia, si diventa cristiani credendo che Gesù Cristo è il Figlio di Dio, morto per i peccati del mondo, resuscitato il terzo giorno e inteso a salvare tutti coloro che lo implorano con fede.» «Tutto qui? Sembra troppo facile, troppo semplice.» Murphy annuì. «Sì, è vero. Ed è uno dei motivi per cui molti non capiscono. Come sa, sceicco, i musulmani credono che Cristo fosse un perfetto servitore di Dio, un uomo che ha compiuto molti miracoli, un profeta. Ma Gesù fu molto di più. Il fatto che sia resuscitato dimostra che il Signore Dio Padre era felice del Suo sacrificio ed è pronto a salvare tutti coloro che Lo implorano con fede...» S'interruppe, vedendo che lo sceicco aveva un'aria stanca, poi concluse: «Sceicco, ciò che le ho spiegato stasera riguarda il cuore. Nella quiete dei suoi pensieri può invocare il Padre nel nome del Figlio, e lo Spirito Santo la salverà e le darà la vita eterna». «Grazie, professor Murphy, per non avermi tartassato a questo riguardo.» Murphy trasalì per la scelta di quel verbo. «E grazie per aver risposto alle mie domande.» «Di nulla, sceicco. Pregherò perché lei prenda presto la sua decisione. Le chiederei una cosa: quando lo farà, me lo faccia sapere. Ecco il mio
biglietto. Mi potrà contattare per telefono o per e-mail.» «Bene. Ora deve riposare, professore. Domani il mio assistente, Saif, la scorterà nella mia terra e si assicurerà che lei ritorni alla sua... con meno intralci possibili.» Un'ora dopo che lo sceicco si era ritirato e mezz'ora dopo che Murphy ebbe spento la luce nella stanza degli ospiti, il braccio destro dello sceicco, Saif Nahavi, si avviò furtivamente verso la zona del mercato, come se dovesse fare qualche acquisto dell'ultimo minuto per la spedizione di Murphy del mattino seguente. Mentre passava davanti a un negozio di articoli elettronici chiuso, una voce gli disse: «Nahavi. Behzad. Non ti girare. Guarda la vetrina». Nahavi obbedì. Behzad parlò dal buio dell'entrata del negozio. «Sei pronto per domani?» «Sì. L'autista che usiamo di solito si è detto ammalato. Tu, Behzad, lo sostituirai all'ultimo momento. Saremo soltanto i Murphy e io. Viaggiano leggeri, a dir poco.» «E cosa cercano?» «Non so cosa stia cercando Murphy nel nostro Paese. Ma, data la sua reticenza, ritengo si tratti di qualcosa che vale molto denaro.» «Meglio così.» Il tono gelido di Behzad era inquietante. «Non dubitare di me, Behzad. Non abbiamo mai lavorato insieme, anche se hai cercato più volte di convincermi a sfruttare la mia posizione presso lo sceicco per rubare cose che tu avresti venduto al mercato nero. So valutare la situazione e ti dico che, qualunque cosa i Murphy troveranno domani, varrà una fortuna.» Abbassando la voce, aggiunse, quasi a se stesso: «E poi ci sono i miei debiti di gioco, che questo mese sono andati oltre quanto potrei rubare allo sceicco». «Tu sei tenuto in grande considerazione dallo sceicco e mi hai sempre considerato alla stregua di spazzatura, Nahavi. Ma io ho sempre sospettato che eri un ladro come me.» «Tu sei un ladro professionista, Behzad, ecco perché domani faremo affari insieme. Ricorda, però: si fa a modo mio. Deve sembrare una rapina commessa da ignoti. Non metterò in pericolo la fiducia che lo sceicco ha in me.» «Starò attento a proteggere la tua preziosa innocenza. Ma ciò che prenderò ai Murphy dovrà fruttarmi una bella somma al mercato nero.» «Il denaro arriverà, Behzad. Metà per te, metà per me e, per non fare tor-
to a nessuno, se farai bene la tua parte, una morte bella intera per i Murphy.» 15 Murphy si passò la manica sulla fronte, socchiuse gli occhi nella luce abbagliante, scrutando una linea distante di colline polverose e respirò a pieni polmoni l'aria rovente del deserto. Era la prima volta che metteva piede in quella particolare zona della Samaria, ma aveva capito subito che era un posto evocativo: le sue scarpe da ginnastica che scricchiolavano sul terreno arido, un gregge di capre spelacchiate che gli passava accanto, lasciando nell'aria il suono delle campanelle e un forte sentore muschiato... Lì potevano aver camminato i primi cristiani. Forse uno degli apostoli si era riposato per un po' all'ombra di quel grosso macigno appollaiato sulla scarpata. Per quello che ne sapeva, forse stava letteralmente seguendo le orme di Gesù. Sorrise al suo volo di fantasia. Forse era un'esagerazione. Ma non c'era dubbio che quello fosse il posto dove avevano avuto luogo alcuni eventi chiave della Bibbia. Ed era convinto che quella terra dall'apparenza morta e vuota poteva raccontare una storia prodigiosa. Bastava saperla leggere. Il difficile stava proprio lì, purtroppo. La copertura ufficiale della visita di Murphy in Samaria era la realizzazione di alcuni filmati di prova per un programma televisivo. Così, mentre Laura continuava a setacciare metodicamente il terreno, Murphy alzava e abbassava la videocamera digitale, fingendo di concentrarsi sul lavoro. Attraverso il monitor, Murphy guardava Laura: camminava avanti e indietro, esaminava la bassa dorsale a sud, la confrontava con un fascio di mappe infilato in una tasca dei suoi pantaloni larghi, si girava improvvisamente di centottanta gradi come se avesse d'un tratto ricordato qualcosa... e poi si voltava di nuovo, frustrata, come se la memoria l'avesse tradita. Murphy sapeva che non era il caso di incalzare Laura quand'era immersa nel lavoro. Gli altri membri della spedizione, messi a disposizione dallo sceicco, erano Saif Nahavi e un autista chiamato Behzad. Entrambi erano rimasti con la Land Cruiser, badando a eventuali intrusi, ma apparentemente senza interessarsi ai Murphy. Questi ultimi non avevano detto nulla a Nahavi in merito a cosa stessero cercando, limitandosi a indicare la zona in cui volevano essere condotti. Andando anche oltre le raccomandazioni di Levi,
Murphy non aveva detto nulla del Serpente nemmeno allo sceicco. Laura e Murphy erano dunque pressoché soli in quel piccolo angolo di deserto, un anfiteatro naturale il cui semicerchio era formato dalle corna arcuate del rilievo. Il suono delle campanelle si era perduto in lontananza e l'unico rumore era il sussurro della sabbia smossa delicatamente dal vento. Dopo lo studio delle mappe - la sera prima e di nuovo la mattina presto, Laura si era sentita girare la testa per l'eccitazione e il forte caffè arabo. Era convinta di aver trovato il posto giusto. Poi, dopo aver esaminato un numero infinito di rilievi e burroni, senza mai permettersi la minima distrazione, aveva puntato il dito sulla mappa stesa sul tavolo da cucina. «Eccolo! Ne sono sicura. A nord del vecchio greto del fiume, prima di giungere allo uadi. È là!» Murphy aveva sperato che avesse ragione. Dopotutto, ce l'aveva nel sangue. In quel momento, tuttavia, si rese conto che la sicurezza della moglie era scomparsa, evaporata come rugiada al sole rovente del deserto. Laura aveva la testa bassa, le spalle curve come un'atleta sconfitta mentre tornava verso di lui, facendosi strada tra massi e rocce affioranti. E poi, in un attimo, scomparve. 16 Murphy rimase per un istante a bocca aperta, come lo spettatore di un numero di magia che non riesce a capire dove sia finita la ragazza che, soltanto un attimo prima, era dentro la grossa scatola. Poi si mise a correre. Quand'era sparita, Laura era lontana da lui una cinquantina di metri. Col cuore che martellava, Murphy correva pesantemente nella sabbia verso la nuvoletta di polvere che segnava il punto in cui l'aveva vista l'ultima volta. Gli pareva di essere in uno di quegli incubi dove si cerca di sfuggire a un mostro, ma le gambe non si muovono. Nella sua mente si formò l'immagine di Dakkuri - un volto malvagio in cui spiccavano due occhi neri scintillanti di cattiveria - e mormorò una preghiera. Inciampò, cadde, si rialzò e finalmente raggiunse la sommità della piccola altura. Lì, dove fino a poco prima c'era Laura, scorse una buca larga poco più di un metro, con la sabbia che vi scivolava dentro come acqua in uno scarico. Si gettò a terra, sporgendosi il più possibile verso la buca. Ricordò come, molto tempo prima, lui era riuscito a salvare un compagno di scuola: il ragazzo stava camminando su una lastra di ghiaccio che aveva
ceduto. Anche allora lui si era sporto verso l'amico, sperando che la lastra reggesse il suo peso. La sabbia del deserto si comportava allo stesso modo? Improvvisamente gli parve di sentire un grido soffocato. Era Laura? Si sporse ancora, ma il terreno sotto di lui cedette e Murphy precipitò, come un bambino su uno scivolo. Atterrò con un tonfo e rotolò sul fianco, soffocando per una boccata di sabbia. Mentre la risputava, la polvere cominciò a diradarsi e il mondo tornò di nuovo a fuoco. Si ritrovò in una sorta di camera: su tre lati c'erano muri di pietra scura, grossolanamente sbozzati, mentre il quarto era coperto dalla marea di sabbia che lo aveva risucchiato. E lì, apparentemente ignara del caos intorno a sé, c'era Laura. Murphy balzò in piedi e allungò la mano nella sua direzione. «Laura, stai bene? Sei ferita?» I suoi pantaloni erano strappati sulle ginocchia, una macchia scura filtrava attraverso la stoffa e la sabbia sembrava cadere da tutto il suo corpo. Tuttavia, mentre Laura la scuoteva via dai capelli, Murphy vide che sorrideva. «Vedi, avevo ragione! Era giusto sotto i nostri piedi ed è sempre stato qui. Non c'è da meravigliarsi se non potevamo vederlo.» Murphy la strinse in un forte abbraccio e rise di sollievo. «Non ho mai dubitato di te neanche per un secondo, amore.» Si tirò indietro per controllare che fosse ancora tutta intera, poi seguì il suo sguardo sul muro. Gli occhi si stavano abituando a quella mescolanza di luce, che proveniva dalle buche attraverso le quali erano caduti, e di tetra oscurità della caverna in cui si trovavano. Videro che, a una cinquantina di metri da loro, la sabbia lasciava il posto ad alcune pietre, disposte a gradini, che portavano all'entrata di quella che sembrava una specie di caverna naturale. Durante le loro escursioni nel North Carolina, ne avevano viste molte, di caverne simili. Incespicarono tra la sabbia fino ai gradini, dove si mossero più rapidamente verso l'entrata della caverna. Entrambi tirarono fuori le torce dalle tasche dei pantaloni e fecero scorrere i fasci di luce come archi gemelli. «Cosa stiamo cercando?» chiese Laura. «Probabilmente un'anfora.» Laura richiamò alla mente l'immagine degli antichi vasi di argilla dalla forma a bulbo con due manici che sporgevano come orecchie dal collo sottile. Le anfore venivano usate per immagazzinare cereali, pesce essiccato, acqua, vino e oggetti di valore. Ne individuò una che giaceva nella sab-
bia e la porse a Murphy. «Sì, questa certamente è un'anfora... Non dimentichiamo che i babilonesi ne portarono via moltissime, quando saccheggiarono Gerusalemme. Se ho ragione, la coda del Serpente è in una di queste.» Murphy rovesciò il vaso. Qualcosa di orribile, somigliante a un serpente, strisciò fuori e scivolò via. «Ma non in questa.» Laura rabbrividì e saltò di lato, mentre quella cosa viscida le guizzava accanto. Perse l'equilibrio, inciampò all'indietro contro il muro della caverna e cadde attraverso una fessura verticale. Murphy la sentì gridare e girò la torcia, cercandola nel buio. Ma Laura era scomparsa. «Laura, Laura, dove sei?» chiamò, in preda all'ansia. «Sono qui, Murphy», rispose finalmente lei, dopo quella che parve un'eternità. «Qui! Credo di averla trovata.» Murphy si sentì sollevato nel sentire la sua voce, ma non riusciva ancora a vederla. Dopo qualche istante di nervosismo, però, scorse attraverso la fessura il fascio luminoso della torcia di lei. Si precipitò in quella direzione e s'infilò in quello spazio nel muro che sembrava aver ingoiato Laura. Si ritrovò così in un'altra caverna, molto più piccola della prima. «Laura, vuoi smetterla di sparirmi sotto gli occhi?» Ma lei non lo ascoltava, tutta intenta a far scorrere il fascio luminoso della torcia su ciò che aveva trovato. «Guarda, Murph!» esclamò infine, sorpresa. «Non è incredibile?» Lui puntò la sua torcia a fianco di quella di Laura. Tutti e due rimasero a bocca aperta. «Murph, vedi anche tu quello che vedo io?» «È quasi troppo bello per essere vero.» Il collo di un grosso vaso di pietra spuntava da un mucchio di terriccio e di sabbia, come se avesse aspettato per secoli di essere aperto proprio da loro. Si avvicinarono, cauti come cacciatori all'inseguimento di un cervo, timorosi che possa fuggire prima di essere inquadrato nel mirino. In silenzio, Murphy s'inginocchiò e ripulì il vaso dal terriccio e dalla sabbia. Era alto quasi mezzo metro e aveva il collo largo abbastanza da lasciar passare una mano. Poi, con fare ansioso, lo afferrò e, cercando di non pensare agli scorpioni, alle vipere e ad altre creature che potessero pungere, v'infilò dentro la mano. Laura, che per prudenza si era tenuta un po' discosta, indirizzò il fascio
di luce sul pavimento della caverna, nello spazio compreso tra lei e l'anfora, per assicurarsi che non ci fosse nulla di «strisciante», prima di fare un altro passo verso il marito. La strada sembrava sicura e lei stava per raggiungere il marito - che stava gridando di felicità - quando, per puro scrupolo, illuminò la parete opposta della caverna. Neanche lì c'erano animali che strisciavano, ma ciò che vide quasi le fermò il cuore. «Ehm, Murph...» sussurrò. «Abbiamo un problema.» 17 La caverna era piena di anfore. Centinaia e centinaia di anfore. Di tutti i tipi e di ogni dimensione. Murphy posò quella che teneva in mano e che solo pochi secondi prima gli era sembrata il nascondiglio certo della coda del Serpente. Poi, notando che il suolo era piatto e asciutto, rifletté che forse era proprio quello il motivo per cui le anfore erano state immagazzinate lì, secoli prima. Messe lì e dimenticate. «Splendido», grugnì. «Questo dev'essere il cimitero delle anfore. Non pensavo di passare qui i prossimi sei mesi.» «E sì che stavo lavorando davvero bene...» «Vero. Ci hai portato così vicini.» «Hai qualche idea su come scoprire qual è l'anfora che nasconde la coda del Serpente?» «Ehm... Mi domando se quell'ignobile gran... sacerdote di Dakkuri non ci abbia attirato in una trappola. E se avesse ordinato ai suoi scagnozzi non soltanto di nascondere quella parte del Serpente, ma addirittura di nasconderla in piena vista?» «Già, come cercare un ago in un mucchio di altri aghi invece che in un pagliaio.» «Può darsi che non sia così difficile, Laura. Conosci queste cose meglio di me, grazie alle tue ricerche... Come si usavano queste anfore?» Laura cominciò a frugare mentalmente nella sua vasta conoscenza di manufatti antichi. «Quando le chiudevano, di solito utilizzavano tappi di sughero, di creta o di legno», spiegò. «Ma, per una cosa così importante, dovremo cercarne una chiusa con la cera.» «Se ne troviamo una piena di centesimi di dollaro, è sicuramente falsa.» Presero così a esaminare le anfore: Laura cominciò da un lato della caverna e Murphy dall'altro. La maggior parte era vuota. Alcune conteneva-
no ossa di animali, altre primitivi strumenti domestici ed effetti personali. Ognuna di tali anfore, a prescindere dal contenuto, era un manufatto antico che, in circostanze diverse, avrebbe spinto Murphy, o qualsiasi altro archeologo, a saltare di gioia. Un'anfora dopo l'altra... Ne controllarono moltissime e stavano ormai per abbandonarsi allo sconforto, quando Murphy ebbe un'idea. «Aspetta», disse col tono che usava quando non riusciva a capacitarsi di essere stato tanto cieco su qualcosa. «Se volessi nascondere un pezzo del Serpente, che è presumibilmente lungo, sottile e duro, non lo metteresti in una di quelle panciute, dove sbatterebbe qua e là, attirando l'attenzione ogni volta che il contenitore viene spostato. L'avvolgeresti in qualcosa di morbido e la infileresti in una di queste, vero?» Raccolse un'anfora lunga e stretta che somigliava a un vaso da fiori. «Trovane una come questa sigillata con la cera e ci siamo.» La maggior parte delle anfore nella caverna era del tipo panciuto. L'intuizione di Murphy le aveva eliminate tutte. I due individuarono le candidate potenziali, scartando poi rapidamente quelle che non erano chiuse con la cera. «Che ne dici di questa?» chiese a un certo punto Laura, sollevando verso il marito un'anfora la cui bocca era sigillata così accuratamente, e in modo così liscio e completo, che il tappo doveva essere di cera. Murphy cominciò a scavarlo con un coltello, mettendo tutti i residui di cera in una busta di plastica per uno studio successivo. Ben presto il tappo saltò fuori con un rumore sordo. Murphy spalancò gli occhi, mentre infilava la mano e tirava fuori qualcosa avvolto in un panno ruvido. Una volta srotolato il panno, apparve un pezzo di bronzo forgiato, in perfetto stato di conservazione, lungo una trentina di centimetri e con un diametro di circa cinque. Era sagomato a forma di serpente e la parte superiore appariva irregolare. Murphy non ebbe il minimo dubbio. Aveva in mano la coda del Serpente di Bronzo. 18 «Murphy, l'abbiamo trovato! Dammelo...» esclamò Laura, valutando con meraviglia il peso della coda del Serpente di Bronzo sulla sua mano. «Immagina, tesoro, questo lo ha fatto Mosè.» «Incredibile. Oggi è il nostro giorno fortunato. Ora, però, cerchiamo di
uscire di qui, in modo da vivere abbastanza per raccontarlo domani.» Tornarono sui loro passi, ma si resero conto che non sarebbero riusciti a risalire lungo le buche attraverso le quali erano caduti nella caverna sotterranea. Allora Murphy scorse due passaggi, che conducevano nella direzione opposta all'entrata della caverna, e imboccò quello con meno sabbia. Dopo parecchie centinaia di metri, la sabbia divenne terriccio e il terreno un po' più umido, segno che forse l'acqua era vicina. Qualche metro più in là, c'erano radici di alberi e cespugli che spuntavano dal suolo e Murphy riuscì a issarsi su un viluppo di radici abbarbicate a una roccia e a sporgere la testa fuori. «Cara, credo che possiamo filarcela di qua.» «Murph, sono incastrata!» Murphy si girò e vide che il piede di Laura era bloccato in una rete di radici contorte. Si piegò e, spezzando quell'intreccio vegetale, la liberò. Stava per gettar via le radici, quando notò un piccolo germoglio che spuntava dal viluppo, a forma di croce quasi perfetta. Lo staccò e lo porse a Laura, dicendole: «Per te, mia incantevole sposa. Un ricordo della tua visita al padiglione del Serpente di Bronzo». Un sottile raggio di sole filtrò dall'alto, passando in mezzo a loro e colpendo la piccola croce, che sprigionò un alone brillante, quasi divino. Murphy e Laura ammutolirono, poi lei strinse la croce al petto, mentre Murphy l'abbracciava. Rimasero fermi nel raggio di luce, avvinti, dimenticando entrambi dov'erano. Ma se lo ricordarono immediatamente allorché il primo proiettile colpì la roccia a cinque centimetri dal viso di Laura. Il secondo proiettile colpì un ramo sovrastante la buca del terreno in cui Murphy si era infilato. I due vennero bersagliati da frammenti di corteccia. Murphy si parò davanti a Laura per proteggerla, spingendo poi entrambi indietro verso la parete di roccia. «Murphy, che succede?» «C'è qualcuno che non scherza e che ci sta sparando addosso. A meno che non torniamo indietro e troviamo un'anfora piena di armi e munizioni, dobbiamo muoverci. Ora.» Laura non si era mai trovata in una sparatoria, ma capì al volo il messaggio. E il terzo proiettile, alzando una nuvoletta di sabbia vicino al piede di Murphy, la aiutò a sbrigarsi. Si misero a correre nei cunicoli sotterranei, ma ben presto incontrarono una parete di roccia. «L'unica via di uscita è la buca, anche se è rischiosa. E chiunque ci sta sparando lo sa. Vieni.»
Murphy ricondusse Laura al viluppo di radici in cui lei era rimasta impigliata poco prima, dato che offriva la protezione migliore contro il fuoco dei proiettili. Non era granché, ma almeno non erano all'aperto. «Stai qui e stai giù.» «Murph, dove vai? Non mi lasciare!» Lui corse verso le rocce dall'altra parte della buca. «Ssstt. Ho un'idea che forse può funzionare, ma sarà un po'... rumorosa.» Chiunque stesse sparando poteva farlo solo attraverso la buca, e non poteva valutare le distanze, a meno che non c'infilasse dentro l'arma. Ed era su quello che contava Murphy. Per qualche istante ci fu silenzio. Non riuscendo più a scorgere i movimenti dei due bersagli, il loro aggressore fu costretto a calare lentamente nella buca la canna di un AK-47. Poi riprese a sparare a raffica, facendo un baccano infernale e riducendo il suolo a una turbinosa nuvola di polvere, terriccio e sabbia. Allora, sperando di aver calcolato con esattezza i tempi, Murphy si slanciò ad afferrare la canna dell'arma, tirandola verso il basso. Con un urlo tremendo, il fucile e la persona che lo reggeva piombarono attraverso la buca nel terreno. Murphy si alzò, mettendosi in posizione per colpire l'aggressore non appena questi fosse arrivato al suolo, ormai crivellato di colpi. Sapeva di avere una frazione di secondo per trarre vantaggio dalla sua unica risorsa: il fattore sorpresa. Ma la sorpresa fu un'altra. L'uomo, infatti, non rimase a terra per lungo tempo. Anzi, dopo la buca, continuò a cadere. I proiettili avevano intaccato il terreno al punto da smuovere la sabbia, il terriccio e le pietre che, per secoli, avevano costituito la copertura superficiale di una profonda fossa di sabbia. Mentre Murphy guardava, sbalordito, l'aggressore finalmente si fermò, con un tonfo smorzato. Dal momento che il fucile gli era rimasto in mano, Murphy era certo che quell'uomo non aveva altre armi. Si sporse su quella nuova buca, ancora più profonda. Non avrebbe più dovuto preoccuparsi dell'aggressore o di ciò che ne restava. Mentre cercava di non sentire l'orribile urlo stridulo, Murphy capì che quell'uomo stava per essere sepolto vivo. In pochi secondi, tonnellate di sabbia - intoccata da esseri umani per secoli o forse mai neppure sfiorata da essi - caddero sul corpo di quel disgraziato. Anche volendo, non c'era più nulla che Murphy potesse fare per salvarlo. Nel giro di mezzo minuto, là dove prima c'era la testa rimase solo un cumulo di sabbia.
Murphy tuttavia ebbe il tempo di puntare addosso all'uomo il fascio della sua torcia e lo riconobbe. Era Behzad, l'autista. Poi sentì una mano sulla spalla e si girò di scatto, spianando l'AK-47. «Ehi, Murph, calmati. Sono io.» «Oh, scusa, tesoro. Usciamo dalla buca, qui potrebbe crollare tutto.» Poi tra sé, per non impaurire Laura, mormorò: «E visto che il nostro autista ha cercato di ucciderci quaggiù, chissà cosa ci aspetta lassù». 19 Riacquistarono la calma. Murphy e Laura uscirono dalla buca dopo che lui ebbe cautamente controllato l'apertura, col fucile pronto a far fuoco. Cessato il frastuono degli spari regnava un meraviglioso silenzio. Scesero dalla collina, dirigendosi verso la Land Cruiser, chiamando Saif. Ma solo quando raggiunsero l'auto capirono perché lui non aveva risposto e non li aveva aiutati. Era accasciato sul sedile anteriore, con la testa che sanguinava per via di un colpo inferto con quello che probabilmente era un oggetto pesante. «È... morto, Murphy?» Proprio mentre Laura faceva questa domanda, Saif emise un debole gemito e il suo corpo si mosse. «La mia opinione professionale è che Saif non è morto, Laura.» Lei gli scoccò un'occhiataccia. «Scansati, sapientone, e lasciami dare un'occhiata alla ferita.» Afferrò il fondo della camicetta, giacché non aveva un panno pulito. «Saif, mi senti? Qualcuno ti ha colpito. Probabilmente Behzad, l'autista, il sicario che ci ha aggredito. Hai visto qualcosa prima di essere colpito?» Saif aprì un occhio, poi l'altro e mugolò: «Ah, Mrs Murphy, state bene. Avete... siete... Che Allah sia lodato, siete salvi. Credo che il sostituto dell'autista fosse un rapinatore. Mi ha aggredito e vi ha inseguito. Lo sceicco sarà indignato. Mi spiace che il rapinatore abbia rubato il vostro oggetto». Insospettito, Murphy lo fissò. «Che vuoi dire, Saif? Siamo stati aggrediti dallo stesso uomo che ti ha colpito, però lui non ci ha derubato. E non deruberà più nessuno.» Saif si sforzò di apparire sollevato. «Allora avete trovato quello per cui siete venuti?» «Sì, e molto di più... soprattutto proiettili. Ora andiamo all'aeroporto.»
Due ore più tardi i Murphy erano al sicuro a bordo del jet dello sceicco, diretti a casa. «Che giornata, Murph!» Laura si rannicchiò vicino al marito, con gli occhi che rapidamente le si chiudevano. «La prima parte del Serpente di Bronzo...» mormorò lui. «E la prima volta che qualcuno mi spara. Ma sono così affascinata dal Serpente che posso anche perdonarti per avermi fatto quasi uccidere a fucilate.» «Forse mi ci vorrà un po' prima che possa perdonare me stesso.» Murphy si voltò e le mise una mano sulla guancia. «Tesoro, se avessi avuto il sospetto che ti avrei messo in pericolo...» Laura sorrise e posò la propria mano sulla sua. «Lo so, mi avresti lasciato a casa a lavare i piatti e rammendarti i calzini. Ora che è tutto finito, assaporo già il mio trionfo: la settimana prossima, in sala docenti, potrò sbandierare le mie azioni eroiche.» «E io non credo che dimenticherò o perdonerò mai il nostro amico Saif.» Laura scoccò a Murphy uno sguardo perplesso. «E perché mai, Murph? Quel poveretto ci ha quasi rimesso la vita.» «Già, 'quasi' è la parola giusta. Non sono un medico, però... Hai mai visto una ferita alla testa così perfetta? Una bella dose di sangue per attirare la nostra attenzione e un taglio non abbastanza profondo da provocare danni.» Laura balzò sul sedile. «Oh, no! Ero troppo spaventata e confusa dagli spari per farci caso in quel momento, tuttavia, quando Saif ha aperto gli occhi, non stava riprendendo i sensi. Quelle pupille erano limpide come il cielo del deserto.» «Sì, l'ho notato. Credo che Saif facesse parte del piano e stesse recitando la parte della vittima, in caso noi fossimo sopravvissuti. Però non riteneva possibile che avessimo la meglio sull'autista-sicario e arrivassimo così a smascherarlo.» «Ma come faceva a sapere che stavamo cercando il Serpente?» «Non lo sapeva. Non poteva. Nessuno lì ne era al corrente. Credo sapesse che lo sceicco ci stava aiutando a trovare qualcosa di valore. Non gli importava cosa fosse: voleva soltanto rubarcela. Sono convinto che lo sceicco non abbia legami con l'imboscata. Quando atterreremo, però, gli farò sapere che razza di astuta canaglia lavora per lui.» «Suvvia, Murphy, lo sceicco ci ha ospitato. Se gli parlerai al telefono, t'invito a non perdere la tua abituale calma.» «Ma certo che no. Però gli farà piacere scoprire la verità. A proposito,
che ne diresti di dare un'occhiata più da vicino alla cosa per cui oggi ci siamo quasi fatti ammazzare?» Prese la valigetta diplomatica dello sceicco e ne estrasse il pezzo di metallo avvolto in un panno. Dimenticata d'un tratto la stanchezza, Laura sorrise. «Perché ci hai messo tanto?» Murphy cominciò a sciogliere i nodi, quasi aspettandosi che la coda del Serpente scivolasse, sibilando, tra i sedili. Tirò via il panno e alzò l'oggetto alla luce. Era stato forgiato 3250 anni prima, ma la magnifica superficie bronzea sembrava rimasta indenne dall'azione corrosiva dell'uomo o della natura. La struttura della pelle del Serpente, lavorata da mani esperte, appariva intatta. Ogni scaglia del rettile era stata fedelmente riprodotta, e Murphy riconobbe la struttura di una vipera della sabbia. «Questo lo ha fatto Mosè», sussurrò. «Mosè ha davvero tenuto questo oggetto fra le sue mani.» Laura allungò la mano e lo toccò con un dito. «Obbedienti a Dio, riposero fiducia in Lui e furono guariti. Era un simbolo della loro fede.» Murphy vide che la moglie aveva la pelle d'oca. «Ma dopo che Mosè ebbe finito di usarlo, che ne fu di questo Serpente? Per tutti questi secoli la domanda è rimasta senza risposta.» Sollevò la coda del Serpente in modo che la luce del finestrino corresse sulla superficie, facendo scintillare e danzare le scaglie. Sembrava quasi viva. «Ehi, amore, hai visto?» Laura si accostò. «Cosa? È il sole che...» Poi lo scorse. Un altro gruppo di simboli. Appena visibili, come se fossero stati incisi in modo rudimentale, quasi scarabocchiati nel bronzo. Ma, una volta che li ebbe messi a fuoco, apparvero stranamente eleganti... e familiari. Triangoli con code lineari e forme a V, come uccelli contro il cielo. «Scrittura cuneiforme caldea», mormorò. «Proprio come il papiro.» «Sì, e scommetto che anche qui è la mano di Dakkuri.» Murphy si voltò e appoggiò il viso al finestrino. Novemila metri più in basso, il deserto s'increspava verso l'orizzonte lontano. «Sai, quali che fossero le sue intenzioni, il gran sacerdote Dakkuri sembra aver tenuto fede alla promessa fatta nel papiro. Ha lasciato sul primo pezzo qualcosa che ha tutta l'aria di poterci condurre al resto del Serpente.» 20 «Allora, avete fatto qualcosa d'interessante la settimana scorsa? Io sono
stato in Samaria...» Vi fu soltanto un vago moto d'interesse tra gli studenti. Pubblico difficile, eh? pensò Murphy. Fu tentato di dar loro una scossa, aggiungendo: «... a farmi sparare da un arabo», ma si trattenne. Invece infilò la mano nello zaino vicino al leggio. «... e guardate che cos'ho trovato.» «Un tubo della doccia?» chiese qualcuno dal fondo dell'aula. «No, ma il prossimo che fa lo spiritoso ci finisce, sotto una doccia. Questi straordinari trenta centimetri di bronzo, signore e signori, sono un serpente.» Parecchie teste nelle prime file si ritrassero. «Tranquilli, non è mai stato vivo, però ha avuto molte vite, tutte più interessanti di quelle di un vero serpente.» Accese il proiettore. «I nomi biblici sono difficili da pronunciare, lo so, pertanto vi darò un aiuto per farlo in modo corretto, mostrandoveli. Tutti questi signori hanno regnato molto tempo prima della diffusione di People, quindi non ho foto grandi, patinate e a colori per aiutarvi a ricordarli.... Ecco, questa diapositiva mostra un documento dall'aria decrepita, un rotolo di papiro del quale sono entrato in possesso non molto tempo fa. Come spesso accade in campo archeologico, però, non mi ha fornito una mappa per trovare ciò che cercavo. Sarebbe molto più facile se questi manufatti giungessero a noi con un'audiocassetta del tipo di quelle usate nelle visite ai musei, ma io non sono mai stato così fortunato. Perciò dobbiamo scoprire i fatti da soli.» La diapositiva seguente era un dettaglio del papiro. «Non vi preoccupate. Quelli di voi che credono di avere i postumi di una sbronza sappiano che quella roba non è scritta in inglese. Nemmeno si avvicina, al nostro idioma. È scritta in una lingua nota - o, di questi tempi, pressoché ignota come caldeo, e risale al tempo di Nabucodonosor, il più grande re di Babilonia.» Fece passare il nome del re sullo schermo, seguito da una mappa di Babilonia. Poi passò al simbolo del papiro che, a suo parere, rappresentava il re. «Neppure questo ci è giunto con un video... Quindi: come faccio a sapere che questa bellissima effigie rappresenta Nabucodonosor? Conoscendo l'epoca della scrittura e la successione dei re. In altre parole, gente, mangiate la verdura, dite le preghiere la sera, e studiate, studiate, studiate. Non ci sono scorciatoie hollywoodiane in questo campo. Ora, veniamo al perché questo papiro è così interessante. Dell'epoca babilonese, gli archeologi hanno trovato soprattutto ricevute di deposito e documenti relativi a cose di tutti i giorni, perché i babilonesi erano la versione ante litteram degli amministratori universitari. Amavano prendere nota di tutto.» Passò a un'altra diapositiva. «Questo potrebbe sembrare un capello sulla lente del
proiettore, invece è il simbolo cuneiforme del serpente. Combinandolo col simbolo successivo, che crediamo indichi 'bronzo'... Be', mi sono abbastanza emozionato. Poi, quando ho messo insieme abbastanza del resto del papiro, il sospetto che non fosse una lista della spesa babilonese è diventato quasi una certezza.» Murphy spense il proiettore e tirò il fiato per qualche istante. Poi riprese: «Tornerò in modo più dettagliato sui metodi d'interpretazione degli antichi scritti in una prossima lezione. Per ora, lasciatemi fare un balzo in avanti, omettendo quello che ho imparato leggendo il papiro e in quale modo esso mi abbia condotto alla scoperta del mio amico serpente». Tolse di nuovo dallo zaino la coda del Serpente di Bronzo. «Oggi desidero infatti sottolineare il coraggio necessario per andare oltre la logica e le conoscenze acquisite, giacché sono spesso i concetti più fantasiosi, pazzi e impossibili a condurre i vecchi e noiosi archeologi come me alla scoperta di nuove verità. Sono convinto che, dopo gli opportuni esami di laboratorio, dimostreremo che questo frammento di metallo è la coda del Serpente di Bronzo, il quale, secondo l'Antico Testamento, è stato realizzato da Mosè intorno al 1250 a.C. Nella Bibbia si racconta che gli israeliti, avendo preso a lamentarsi del loro lungo vagabondare nel deserto, si misero a compiere atti di 'miscredenza' verso Dio. Come punizione, Dio mandò quindi dei serpenti velenosi a mordere i trasgressori. Tutti allora si pentirono e chiesero aiuto a Mosè, il quale si mise a pregare. Dio ebbe pietà degli israeliti e disse a Mosè: 'Fa' un serpente fiammeggiante e mettilo su un'asta; quando coloro che sono stati morsi lo guarderanno, rimarranno in vita'. Interpretando 'fiammeggiante' come 'bronzeo', Mosè realizzò allora un simulacro di serpente e lo mise davanti a coloro che erano stati morsi, guarendoli. Il simbolismo del Serpente è una diretta allusione al serpente che ha tentato Eva nel Paradiso Terrestre, il momento in cui ha avuto inizio la discesa dell'umanità verso il peccato. Uno di questi giorni vorrei riprendere tale argomento e parlare di che cosa abbia guarito gli israeliti. Si è forse trattato di qualche magico e oscuro potere del Serpente di Bronzo o del fatto che essi avessero riacquistato la fede in Dio? Ma, se osassi inoltrarmi in questioni di fede, il preside Fallworth comincerebbe ad accusarmi di essere un predicatore da baraccone, quindi... Inoltre oggi voglio arrivare al nocciolo della mia indagine. Sono due i momenti storici riportati nella Bibbia in cui fa la sua comparsa il Serpente di Bronzo. Il primo è appunto nel 1250 a.C, quando Mosè forgia il Serpente allo scopo di guarire gli israeliti. Ci spostiamo poi rapidamente intorno al 715 a.C. A questo periodo fa riferimento
il Secondo Libro dei Re, 18:1-5, l'unico altro passo della Bibbia in cui viene citato il Serpente. Lì si afferma che, in disaccordo col primo comandamento, il Serpente di Bronzo era diventato un oggetto di adorazione. Il giovane re Ezechia, uno dei più devoti re di Giuda, scoprì che il suo popolo praticava l'idolatria, come d'altronde facevano varie tribù vicine. Il Serpente di Bronzo era dunque stato segretamente conservato e considerato alla stregua di un idolo; alcuni gli attribuivano anche misteriosi poteri taumaturgici. Quando Ezechia scoprì che il popolo di Giuda s'inchinava in adorazione davanti al Serpente, cosa che doveva essere riservata a Dio, si adirò a tal punto da romperlo in tre pezzi. Come ho già detto, questa è l'ultima volta in cui incontriamo il Serpente di Bronzo nella Bibbia. Ma poi è arrivato questo papiro, che mi ha messo sulle tracce della presenza del Serpente al tempo del grande impero babilonese, durante il regno di Nabucodonosor, cioè molto tempo dopo e a grande distanza da dove la Bibbia lascia il Serpente, ridotto in tre pezzi ai piedi di Ezechia.» Nel silenzio dell'aula, Murphy sospirò, quindi riprese: «Dato che gli archeologi cercano qualche modo, oltre alla macchina del tempo, per spiegare come i manufatti possano compiere balzi temporali e spaziali, ho formulato una teoria che, soltanto la settimana scorsa, mi ha aiutato a trovare questo pezzo del Serpente. Mi sono convinto che l'ordine di Ezechia riguardante la distruzione del Serpente sia stato obbedito: l'oggetto è stato spezzato in tre parti e conservato nel vecchio Tempio. A quel tempo, anche se il re vi avesse costretto a distruggere un idolo, non avreste gettato via quasi un metro di ottimo bronzo. Circa centovent'anni dopo, quando i babilonesi arrivarono nel regno di Giuda e saccheggiarono il Tempio, portarono a Babilonia qualunque cosa sembrasse avere un certo valore... e così qualcuno recuperò i tre pezzi del Serpente. Si dà il caso che sul papiro da me scoperto parte del testo risulta mancante, quindi le ipotesi sono anche più numerose del solito. Tuttavia la parte recuperata del messaggio ci è sufficiente per affermare che un gran sacerdote di quegli idolatri babilonesi abbia messo insieme il Serpente, credendo probabilmente che avesse grandi poteri. Nella prossima lezione inizierò a parlare di profezie e di come Nabucodonosor abbia avuto paura del vero Dio, ordinando così che gli idoli venissero distrutti... Avrete già capito che il destino del Serpente di Bronzo è stato quello di finire di nuovo sul tagliere. Sennonché il gran sacerdote, autore del papiro, ha voluto salvare nuovamente il Serpente, separandone i pezzi e tracciando proprio sul papiro le istruzioni per ritrovarli e rimetterli insieme. Cosa che, se riesco a leggere cosa sta scritto in
fondo a questa coda, io cercherò di fare. Perciò, mentre vado a farlo, siete liberi di andare. La lezione è finita». «Professor Murphy?» lo chiamò uno studente. «Nessuno è guarito quando lei ha sollevato la coda, ma lei crede che, se troverà gli altri due pezzi e li rimetterà insieme, allora potrà curare la gente?» «Sì, questa è una domanda importante. Tuttavia, secondo i seguaci della cosiddetta magia nera, che hanno cercato il Serpente per secoli, è altrettanto possibile che, se i pezzi verranno riuniti, l'oggetto così composto si presti a essere utilizzato per scopi malvagi.» 21 Shane Barrington si sforzava di non pensare a suo figlio. Anche per un maestro nell'arte dell'indifferenza, dell'assoluto distacco verso gli affari portati a termine senza pietà e gli atti malvagi commessi, l'assassinio di Arthur da parte di Artiglio - mentre lui se ne stava lì, impotente - si stava rivelando un ricordo troppo difficile da ignorare. Soprattutto perché Barrington non aveva idea di cosa avesse fatto Artiglio del corpo, a parte quella misteriosa affermazione sul fatto che avesse «un piano». Dopo aver completamente escluso il figlio dalla sua vita per tanti anni, ora, da morto, Arthur continuava a tornargli in mente. Strano, rifletté Barrington. Non che corresse il rischio di diventare improvvisamente sentimentale nei confronti della famiglia, però. A parte l'ex moglie, liquidata più di vent'anni prima, Arthur era stato fino a poco prima il suo unico parente in vita. E lui non aveva certo bisogno - e tantomeno necessità - di qualcuno che potesse considerare un amico. Soci, dipendenti, servitori, sì. Amici, no. Barrington non nutriva un particolare attaccamento nemmeno per i luoghi. Non esisteva un posto che potesse veramente chiamare «casa», benché avesse lussuose dimore in tre continenti. Il suo Paese d'origine non aveva il minimo valore affettivo per lui: era un luogo da cui, se si era fortunati, si scappava e non veniva voglia di tornarci per nessun motivo. L'attrazione per le splendide architetture o le inestimabili opere d'arte era per gli spiriti deboli. Si sentiva più felice quand'era in viaggio, in aereo o su un'auto veloce. Muoversi in fretta, sentire il mondo rimpicciolire sotto i piedi... E, coi mezzi all'avanguardia della Barrington Communications, poteva far accadere le cose ovunque fosse. Ma se avesse dovuto scegliere un posto nel quale si sentiva più a suo a-
gio, come se si trovasse al centro dell'universo, sarebbe stato lì, nel suo attico, a osservare il vasto e frastagliato panorama di acciaio e vetro prendere vita nella luce dell'alba. Tuttavia, dopo quel terribile momento in cui aveva visto Artiglio torturare Arthur, Barrington non aveva più guardato fuori della finestra. Figurarsi uscire in terrazza. Mancavano quattro minuti all'arrivo della sua ospite e lui si disse che quello era il momento di tirar fuori la sua grande forza di volontà. Si costrinse ad aprire le tende e a spalancare le porte di vetro scorrevoli della terrazza. Non si sarebbe comportato come quelle creature deboli che aveva sconfitto in passato. Nei suoi progetti non c'era spazio per il senso di colpa. Andò a passo deciso verso la ringhiera e guardò l'Endicott Arms. Per un attimo rabbrividì, poi sgombrò la mente. E tornò subito padrone di se stesso, come un re barbaro sui corpi accatastati dei nemici uccisi. Di recente, la Barrington Communications aveva guadagnato miliardi di dollari e non era mai stata così forte. Le falle della struttura finanziaria erano state tamponate, lasciando mezzi più che sufficienti per finanziare nuove espansioni e conquiste. Qualunque magnate dell'industria così pazzo da credere di poter combattere ad armi pari con Shane Barrington avrebbe scoperto a sue spese quanto si sbagliava. Posò la mano sul vetro e sorrise. Non gli avevano chiesto in cambio nient'altro... e, in realtà, non era granché. Adesso avrebbe affrontato il secondo compito assegnatogli dai Sette. Come il primo, anche questo sembrava strano, arbitrario, senza legami con un grande piano generale, ed era stato trasmesso in modo conciso, senza la minima spiegazione. A ogni modo si trattava di qualcosa che, col suo potere, era in grado di realizzare facilmente... proprio come aveva già ottenuto la lista delle informazioni relative alle misure di sicurezza dell'ONU. Guardò il suo Rolex. L'incontro era fissato per le sette. Abbastanza tardi da costringere la donna ad annullare qualunque impegno avesse avuto per la serata. E lui l'aveva fatta attendere altri dieci minuti. Abbastanza a lungo perché la fiducia svanisse, sostituita dalla paura. Trucchetti meschini, forse, e probabilmente non più necessari. Ma era l'esercizio del potere, sia pur futile, a piacergli; se non avesse potuto prendersi quella soddisfazione, la sua vita sarebbe stata veramente molto monotona. Si allontanò dal proprio riflesso sfumato e parlò nel microfono inserito nella fodera della giacca. «La faccia entrare.» Stephanie Kovacs, rampante giornalista del Barrington News Network,
s'impose ancora una volta di non controllare i capelli e il trucco quando la receptionist, una bionda dai capelli cortissimi, le fece un cenno con la mano perfettamente curata, indicando la porta. Eccola lì, Stephanie Kovacs, la star delle inchieste televisive, la giornalista che smascherava senza paura i disonesti e i corrotti, una donna alla quale avevano sparato, che era stata ferita da un pazzo armato di coltello, minacciata da cani da guardia, che si era sempre mostrata sicura di sé e aveva affrontato uomini due volte più grossi di lei e dieci volte più aggressivi... Eccola lì, impaurita come un gattino abbandonato perché il direttore generale del network l'aveva convocata per un colloquio. Qual era la cosa peggiore che poteva accadere? Be', il licenziamento. Quel pensiero le era turbinato nel cervello negli ultimi cinque minuti e l'aveva spinta a scorrere mentalmente il suo indirizzario. Chi chiamerò per primo? Quel dirigente che, durante la cena per la consegna di un premio, aveva detto: «Se mai volessi lasciare la baracca...» Chi era? Quale network ha bisogno di un volto nuovo per aumentare gli ascolti? Quale notiziario sta disperatamente cercando credibilità? Il punto, in realtà, non era trovare un nuovo lavoro in televisione. Aveva successo ed era sufficientemente rispettata nell'ambiente da non doversi preoccupare più di tanto. A roderla dentro, a serrarle la bocca dello stomaco, era la certezza che, quando Shane Barrington ti licenziava, non ti lasciava semplicemente andare, ma si assicurava che tu fossi finita. Carriera chiusa. E se lui aveva in mente di farle proprio quello, allora, di lì a un mese, sarebbe stata fortunata a trovarsi davanti a una telecamera per descrivere l'effetto che le insolite precipitazioni nel mese di giugno avrebbero avuto sul raccolto di soia. Si fermò alla porta, si aggiustò un capello fuori posto, ed entrò, sperando che Barrington non riuscisse a vedere al di sotto della sua ben collaudata patina di fiducia. «Ha chiesto di vedermi, Mr Barrington?» Shane Barrington sembrava più alto che nelle fotografie e nelle rare riprese televisive, ma i lineamenti duri e gli occhi scuri apparivano minacciosamente familiari. Senza una parola né un mutamento di espressione le indicò il divano in pelle scura a ridosso della parete opposta e rimase in piedi, mentre lei si sedeva, costringendola così a guardarlo dal basso. «Miss Kovacs... Stephanie», esordì. «Sono lieto che mi possa dedicare qualche minuto del suo tempo prezioso. Spero di non averla distolta da qualche inchiesta importante. Mi rincrescerebbe pensare che qualche malfattore l'abbia fatta franca perché l'ho sottratta al suo lavoro.»
Lei si sforzò di ridere. «Be', il mare è pieno di pesci. Questo è il bello del mio lavoro... i bersagli validi non mancano mai.» Barrington la guardò senza sorridere. «Certo... La capisco benissimo.» Si voltò e sedette dietro la lunga scrivania dal piano di vetro affumicato al centro della stanza. Lei non poté fare a meno di notare l'assenza del telefono e di un computer. In effetti non c'era nulla che deturpasse quella perfetta superficie cristallina. «Secondo alcune persone, non presto molta attenzione a questo settore delle mie attività. Come se la televisione non m'interessasse, quasi che fosse una tecnologia antiquata, una cosa del passato... E Shane Barrington è sempre interessato al futuro, giusto?» «Giusto», non poté fare a meno di rispondere lei. «Ma non è affatto vero, Stephanie. Seguo con grande attenzione il canale delle news. E in particolare i suoi servizi, le sue inchieste così intrepide.» A lei parve che il termine intrepide avesse un che di derisorio. Sarebbe immediatamente saltata alla gola di chiunque altro avesse usato quel tono: nessuno poteva sminuirla e farla franca. Eppure, con sua gran sorpresa, continuò a sorridere docilmente, come se fosse un cane che veniva accarezzato, non un agnello diretto al mattatoio. Gli occhi di Barrington sembrarono accendersi un poco, quasi stesse godendo del suo disagio. «Lei sa veramente come mettere al tappeto i cattivi: senza pietà, senza quartiere. Così mi piace.» Quella frase sembrava riferita più a un pugile che a una giornalista, però, se a Barrington piaceva il suo stile, a Stephanie stava bene così. Ancora non sapeva dove volesse andare a parare, ma la sua ansia cominciava a diminuire. Forse, dopotutto, non l'avrebbe licenziata. «Dicono anche che sono un amministratore delegato che non interferisce. Non impongo linee editoriali alle varie emittenti. Finché gli ascolti rimangono alti, che me ne importa, giusto? Fate programmi su ciò che preferite: scarafaggi assassini, nonne serial killer... Qualunque cosa susciti il vostro interesse.» Di bene in meglio, rifletté Stephanie. Apprezzava il suo modo di gestire le notizie. Credeva nella libertà d'informazione. Di cosa si preoccupava? Barrington si appoggiò allo schienale della poltrona e posò le mani sul tavolo. Gli occhi tornarono a rabbuiarsi. «Ma non sempre si può confidare che la gente faccia sino in fondo il proprio lavoro. A volte s'impone un piccolo suggerimento.» Sorrise senza allegria. «Dall'alto.» Ahi, ahi... pensò Stephanie. La conversazione, se tale la si poteva defini-
re, aveva preso una brutta piega. «Ho deciso che qualcuno dovrebbe svolgere un'inchiesta - un'implacabile denuncia, senza esclusione di colpi - su un certo gruppo di persone che costituiscono un grave pericolo per il Paese... anzi per il mondo intero. Qualcuno deve smascherare quei pericolosi fanatici», disse Barrington. Oh, oh, eccoci al dunque, pensò lei. «Il gruppo è quello dei cristiani evangelici. E quel qualcuno sarà lei.» Accidenti, quell'uscita non se l'aspettava proprio. Non aveva davvero capito a cosa Barrington volesse arrivare... Però Stephanie Kovacs non aveva scavalcato gli altri talenti televisivi - tutti brillanti e disperatamente avidi di successo - lasciandosi sfuggire occasioni come quella. Sfoggiando un umile sorriso,, cancellò rapidamente la sua perplessità. «Sono onorata della fiducia che ripone in me, Mr Barrington. Cercherò di non deluderla.» «Veda di non farlo. La terrò d'occhio.» 22 L'uomo chiamato Artiglio fece una pausa nel lavoro, concedendosi qualche secondo per osservare la zona di Manhattan che si trovava sotto di lui. In effetti, soltanto un ridotto parapetto e alcune corde impedivano ad Artiglio di precipitare in strada. Si trovava a dieci piani di altezza, sulla piattaforma del pulitore di finestre che era stata calata dalla cima di una delle strutture più riconoscibili al mondo: il Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite. Artiglio tornò a rivolgersi verso una delle centinaia di finestre che facevano sembrare la facciata del più alto edificio dell'ONU uno svettante muro di vetro. C'erano trentanove piani, ma Artiglio aveva fatto bene i conti ed era interessato soltanto a quelli dal quinto al dodicesimo. Shane Barrington si era attenuto alle istruzioni ed era riuscito a fornire ad Artiglio le chiavi per superare alcune misure di sicurezza, così da permettergli di portare a termine il suo compito. Gli aveva detto che cosa voleva e aveva lasciato a Barrington, le cui numerose sussidiarie progettavano sistemi di comunicazione, sicurezza e servizi pubblici per migliaia di società, l'incombenza di escogitare come procurargli quanto gli serviva. Artiglio non aveva avuto bisogno di molto, in quanto il noiosissimo Mr Farley gli aveva fornito abbondanti dettagli sulle sue quotidiane procedure di pulizia. Prima di sbarazzarsi del cadavere, Artiglio aveva comunque preso tutti i documenti d'identità di Mr Farley e prelevato anche le parti
necessarie per superare il controllo delle impronte digitali. In caso contrario, gli sarebbe stato impossibile accedere all'ONU. Poi Artiglio si era «truccato» da Mr Farley e aveva imbottito la sua uniforme - che portava la scritta EXECUTIVE BUILDING MAINTENANCE - per somigliargli anche come corporatura. Studiò il foglio che aveva in mano: era uno schema da lui meticolosamente disegnato raffigurante ogni finestra dell'edificio. Se avesse continuato a muoversi liberamente su e giù sulla piattaforma motorizzata della pulizia vetri, sarebbe stato tutto pronto molto prima dell'ora zero. 23 L'autostima di Murphy come fiero maschio e fiero archeologo stava ricevendo una bella batosta. «Shari, lo devo ammettere, sono sconcertato. In fede mia, non so cosa ci sia scritto su questa coda.» Avevano già eseguito tutti gli esami di datazione consentiti dall'attrezzatura del laboratorio e Shari aveva scattato accurate foto digitali da ogni angolazione. Stavano proprio guardando gli ingrandimenti. «Non credo di poterle ingrandire oltre, professor Murphy, altrimenti non vedremo altro che sbavature.» Con un gesto distratto e, nel contempo, frustrato, Murphy si passò la mano tra i capelli. «Qualsiasi strumento usato da Dakkuri per incidere il messaggio sulla coda è riuscito a far durare la scritta per tutti questi secoli... Vederla non è un problema. Sono io che non riesco a cavare un ragno da un buco. Siccome non aveva molto spazio, deve aver usato una specie di antica stenografia. Sospetto inoltre che i segni di Dakkuri siano piuttosto criptici, visto che forniscono indicazioni per scoprire il pezzo successivo di quella che lui reputava la sua icona più potente.» Shari trasse un respiro profondo prima di dire ciò che stava pensando da alcuni minuti. «Ehm... professor Murphy... Ha pensato a...» «Non dire altro. Ammetto sempre le sconfitte. Devo telefonare di nuovo a Iside McDonald.» «Accidenti, professor Murphy, questa è una colossale pal... ehm... una storia incredibile.» Iside McDonald riguardò le annotazioni scribacchiate e spostò la cornetta all'altro orecchio per dare al collo la possibilità di sgranchirsi. «È allettante, ma non posso fare quanto mi chiede.» «Perché no? Guardi, mi rendo conto che non ci conosciamo, ma deve sapere che non sono un pazzoide e di solito so quel che dico. Mi ha aiutato
col papiro, sulla cui autenticità ormai non sembrano più esserci dubbi. Questo è il passo successivo. Probabilmente sono più vicino di chiunque altro a ritrovare l'intero Serpente di Bronzo.» «Sì, certo, professor Murphy, le do ragione, ma io sono una filologa della Parchments of Freedom Foundation, non una romantica archeologa in cerca di gloria, e ho una scrivania piena di lavoro arretrato.» Allungò il collo, guardandosi intorno. «In realtà, il mio ufficio è pieno di cose che avrei dovuto finire mesi fa.» «La prego, Iside. Mi creda, preferirei non chiederle aiuto, ma non posso aspettare... e oltretutto detesto ammettere che non sono abbastanza in gamba da risolvere il problema mentre lei lo è.» Iside sospirò, ma, con sua sorpresa, le labbra le si aprirono in un sorriso. «Oh, professor Murphy, vedo bene come riesce a farsi strada superando ogni ostacolo. Lei padroneggia l'antica arte dell'adulazione.» «Sono un professionista patentato. Mi aiuterà, per favore?» «Ascolti, Murphy, ecco ciò che sono disposta a fare. Nel corso dei prossimi giorni sarò inchiodata qui per le riunioni di rendiconto della PFF e anche lei sarà occupato. Tuttavia, il buono della nostra Fondazione è che di solito le risorse non mancano. Ecco perché devo essere qui per le riunioni di rendiconto, dal momento che lei non è l'unico abile professionista dell'indispensabile adulazione. Tuttavia le manderò la mia bravissima e fidatissima segretaria, Fiona: grazie all'aereo della PFF arriverà lì in un lampo e prenderà la coda del Serpente per portarmela qui.» «Perbacco! È straordinariamente generoso, tuttavia non posso separarmi dal Serpente. Chi mi garantisce che sarebbe al sicuro?» «Murphy... Sono certa che lei lavora in quella che definirei una pittoresca, minuscola e perfetta università di provincia, mentre io mi trovo nel centro di ricerche storiche più grande del mondo, con impianti e sistemi di sicurezza all'avanguardia. Vuole scherzare?» Ancora una volta, Murphy capì di essere stato battuto. «Ha vinto, Iside. Prima che io scappi con la coda tra le gambe a leccare le ferite del mio orgoglio di provinciale, mi permetta di ringraziarla. La coda del Serpente sarà sua per tutto il tempo necessario. Quando arriva Fiona?» Murphy entrò nell'ufficio di Laura, reggendo una scatolina. «Murph, che ci fai da queste parti? Non sarà che il vecchio preside ti ha di nuovo spedito qui agli arresti?» «Tesoro, me ne stavo tutto depresso nel mio laboratorio perché ho dovu-
to telefonare a Iside McDonald e darle la coda del Serpente, giacché evidentemente non sono abbastanza abile da trovare la soluzione. Poi mi sono reso conto che ero ancora bravo a far qualcosa, così ho tirato fuori questa e l'ho sistemata. È da quando siamo tornati dalla Samaria che pensavo di dartela.» Le porse la scatola. Mentre la scartava, Laura sembrava ansiosa come una bambina di cinque anni il giorno di Natale. «Oh, Murph, è la croce formata dalle radici della caverna. Mi chiedevo dove fosse finita.» Sollevò il legno - tirato a lucido - per ammirarlo. Era lungo quasi quattro centimetri e largo poco più di uno. Murphy aveva scavato un piccolo foro in alto, poi aveva completato la rifinitura con qualche goccia d'olio, che faceva risaltare le venature e rendeva più intenso il colore del legno. Al punto d'incrocio c'era un nodo rotondo, dal quale erano cresciuti i quattro germogli della radice che formavano la croce. Brillava come una gemma di mogano. «L'ho appesa al migliore laccio di pelle delle mie scarpe. Nessuna spesa è stata risparmiata per fornirvi di gioielli all'altezza del vostro rango, mia signora.» E le fece un inchino. Laura si chinò in avanti e l'abbracciò forte. «Alzatevi, nobile giovane, la vostra regina ha grandi cose in serbo per voi. Andiamo, conducetemi a casa, e lasciate che vi mostri perché è bello essere il re.» 24 Paul Wallach guardò Shari affondare il cucchiaio nella salsa. Lei diede una leccatina, fece un piccolo cenno col capo come a indicare: Niente male, te lo dico io, e tornò a mescolare la pasta. Nell'angusta cucina, il vapore le arrossava le guance, come se avesse fatto jogging senza poi potersi cambiare. La patina lucida di sudore la rendeva in qualche modo ancor più bella. Lei si girò e vide il suo sguardo assorto. «Ehi!» Si accigliò. «Dovresti stare più attento. Quanto ho detto che deve cuocere la pasta?» «Cinque minuti?» azzardò lui. «No... quindici.» Lei mantenne il suo cipiglio e strinse più forte il cucchiaio. «Oh, capisco», disse lui. «È una domanda a trabocchetto. Finché non è, come si dice... al dente.» Lei spostò dalla fronte un'umida ciocca di capelli neri e tornò alle pentole fumanti. «Hmm. Non credo che tu abbia ascoltato una sola parola di
quello che ho detto, Paul Wallach. Sei stato tu a spiegarmi che vivi di scatolette di tonno e pizza al taglio, aggiungendo che ti sarebbe piaciuto imparare a cucinare un pasto che sappia veramente di qualcosa. Lo so che questa non è esattamente anitra all'arancia o roba simile, ma potresti almeno mostrati un po' più interessato.» Lui posò subito il bicchiere di Coca-Cola sul tavolo e assunse un'aria pensierosa. «Ti ringrazio, Shari, veramente. E il profumo è favoloso. Però trovo difficile concentrarmi su cose che non m'interessano davvero...» «Sarai abbastanza interessato a mangiarle, scommetto», lo interruppe lei. «Certo, sì, hai ragione. Volevo dire che non sarò mai bravo in una cosa del genere... Per quanto mi possa impegnare, non sarò mai un grande cuoco.» «Così come non sarai mai il prossimo Bill Gates, vero?» gli disse, lanciandogli uno sguardo in tralice per assicurarsi di non averlo offeso. Sospirò. «Proprio così. Mi sembra di aver sempre fatto cose per le quali non ero portato, di aver sempre finto d'interessarmi a cose di cui non m'importava un... fico secco. Insomma, volevo che mio padre fosse orgoglioso di me, che non mi considerasse un fallito. E invece poi è venuto fuori che il fallito era lui.» Shari aveva promesso a se stessa che lo avrebbe lasciato parlare senza interromperlo, ma distolse lo sguardo dai fornelli per fissarlo. «Paul, non puoi pensare questo di tuo padre. Non ha avuto successo negli affari, ma ha fatto sì che tu vivessi bene per un bel po' di tempo.» «Già, proprio bene. Mi chiedo se sia fallito più come uomo d'affari o come padre.» «Paul Wallach, lascia che ti dica una cosa che ho scoperto quando i miei genitori sono morti in un incidente d'auto, diversi anni fa. Li puoi biasimare per qualsiasi cosa ti sembri sbagliata nella tua vita, ti puoi sentire colpevole per tutto quello che è rimasto in sospeso, ma, a un certo punto, devi vivere la tua vita, buona o cattiva che sia. Devi smettere di usarli come scusa.» Paul sprofondò nella sedia. «Oh, continuo anch'io a ripetermelo. Ecco perché mi sono costretto a riprendere l'università, qui a Preston: non volevo star lì, inerte, a lamentarmi per la mia cattiva stella. Quanto a impegno nel lavoro, mio padre è di certo un modello. Però è difficile impegnarsi in qualcosa se non ci si crede.» Shari gli allungò due piatti fumanti di spaghetti al sugo di vongole e pomodoro e per un istante lui fu distratto da quell'odore appetitoso. «Accidenti!» esclamò. «Insomma, accidenti sul
serio! Mi devi dare la ricetta una volta o l'altra», aggiunse sorridendo. «Ah, ah, molto divertente», replicò lei, spingendolo verso il piccolo soggiorno dove aveva apparecchiato. «Siediti e mangia. E poi mi dirai esattamente in che cosa credi.» «Grazie», disse Paul porgendo a Shari una tazza di caffè. «E non soltanto per la cena deliziosa. Grazie per avere ascoltato i miei problemi. Mi sento a disagio a farti sprecare tempo con questa roba, mentre potresti, che so, fare cose più interessanti.» Lei sorrise. «Mi piace aiutare la gente, Paul. E so per esperienza diretta che ascoltare può essere di grande aiuto.» Lui aveva sperato che lei dicesse qualcos'altro, qualcosa di più personale. Qualcosa che indicasse il suo interesse per lui. Voleva essere qualcosa di più della sua buona azione quotidiana. Ma forse sperava troppo. O forse era soltanto troppo presto. «Dunque... La prima cosa da fare è essere onesti con se stessi», riprese lei. «Non devi più vivere la tua vita in base ai desideri di papà. Se non credi di essere portato per l'alta finanza, allora trova qualcosa che t'interessi veramente.» «Credo di aver trovato la materia che voglio studiare.» «Splendido.» Lei s'illuminò. «Qual è?» Paul esitò. Shari avrebbe pensato che lui fingeva interesse solo per impressionarla, per far colpo su di lei? Non voleva rovinare tutto. «È una materia lontana milioni di chilometri dall'economia: l'archeologia biblica», rivelò. Lei lo fissò per un po', senza sorridere, ma neanche accigliata. Sembrava aver messo la sincerità di Paul su una bilancia e ne stesse osservando i piatti, che non si muovevano né da una parte né dall'altra. Alla fine, disse: «Suppongo che tu sappia come la penso io al riguardo. Non riesco a immaginare nulla di più affascinante. E, se vuoi entrare in quel campo, bene, ottima scelta. Ma sei certo di capire sino in fondo di che si tratta? Voglio dire, non ci si limita a scavare reperti e a scoprire da dove provengono. Questo lo fa qualsiasi archeologo. Consiste nel dimostrare la veridicità della Bibbia». Paul iniziò a elaborare una risposta, poi si fermò. Ne aveva una, almeno così credeva, ma non era sicuro di poterla tradurre in parole. No, non poteva affermare di essere un cristiano a tutti gli effetti. Non era neanche sicuro in che cosa credesse. Però, quando aveva visto le foto dell'ossario mo-
strate da Murphy in aula, quando lo aveva udito leggere la scritta, aveva sentito nel profondo di se stesso qualcosa di mai provato prima. Di una cosa sola era certo: voleva saperne di più. Un trillo interruppe il silenzio imbarazzato. Salvato dalla campanella, pensò lui. «Non capisco chi possa essere», disse Shari, vagamente irritata, mentre si alzava da tavola e andava verso la porta. Aprì il catenaccio. Poi ci fu un momento di silenzio e lei portò la mano alla bocca. Sulla soglia c'era un giovane con un ciuffo arruffato di capelli biondo sporco, la barba di due giorni e un ghigno antipatico. Facendosi largo con una spallata passò oltre Shari e si piantò in mezzo alla stanza. «Non vedo palloncini né stelle filanti...» Esaminò attentamente la stanza, guardando oltre Paul come se non ci fosse. «... e decisamente non vedo roba da bere. Ehi, dico, non è un granché come festa di bentornato, sorellina.» Non sai mai come sono le famiglie, pensava Paul, tornando verso il suo appartamento. Aveva confessato a Shari tutti i suoi problemi sul padre e sul proprio futuro, e lei sembrava la tranquilla, perfetta, saggia persona che lui si era immaginato. Ma, d'un tratto... bum! Era arrivato quel tipo orribile, che poi era il fratello di lei. In prigione per furto, era stato rilasciato in anticipo e le aveva fatto una sorpresa. E che sorpresa. Chuck Nelson non si era trattenuto a lungo. Giusto il tempo di cambiarsi d'abito e precipitarsi di nuovo fuori. Shari sembrava realmente sconvolta, così Paul aveva finito per rimanere ancora un'ora intera a parlare, ma stavolta solo di lei. Ascoltandola, Paul era rimasto ancora più colpito. «Ti ho già detto che i miei genitori sono morti in un incidente quando Chuck e io eravamo ragazzi. Non ci avevano mai portato in chiesa, perciò non conoscevo la parola di Dio. Comunque, iniziai a frequentare una comunità con la madre di un'amica e accadde una cosa meravigliosa. Accettai Cristo quale mio Signore e Salvatore e la mia vita cambiò. Il suo messaggio di salvezza mi diede qualcosa cui aggrapparmi quando ne avevo più bisogno. Chuck, invece, prese rapidamente una brutta strada.» Paul aveva scosso il capo. «Davvero brutta, per finire in prigione.» «Cominciò a frequentare i peggiori tipi del quartiere, commettendo vari crimini, dai furti allo spaccio di droga, e alla fine lo presero. Non mi volle più dare retta e si rifiutò di mettere il mio nome nella lista dei visitatori,
così smisi di andare a trovarlo. Ma non ho mai smesso di pregare per lui.» «Adesso che farai?» «Non lo so. Ormai ti è chiaro che tipo è. Lo hai visto precipitarsi dentro e correre fuori. Immagino che pensi di venire a vivere con me, e io non lo caccerei via, però non accetterò che torni alla sua vita turbolenta. Mi serve aiuto. Credo che parlerò con Laura Murphy e col reverendo Wagoner. E tu, Paul, sei stato splendido ad ascoltarmi.» Paul era arrossito. «Ehi, tu hai ascoltato me, io ho ascoltato te. Così fanno gli amici. Insomma, credo che questo significhi che siamo amici.» Shari gli aveva dato un'amichevole pacca sulla mano. «Bene, amico, sarà meglio che tu vada a casa. Ma, senti, perché non vieni in chiesa con noi, mercoledì sera? Ci saranno i Murphy e mi piacerebbe che tu conoscessi Laura. Può aiutare anche te. Inoltre dovresti entrare nello spirito della cosa arrivando presto e aiutando nel seminterrato a scegliere gli abiti che la chiesa distribuisce ai poveri. Diciamo mercoledì alle sei e mezzo?» Credo che mi piacerà, qui a Preston, pensava Paul, mentre tornava al suo appartamento senza smettere di fischiettare. 25 Le 191 bandiere dei Paesi membri delle Nazioni Unite sventolavano nella leggera brezza seratina proveniente dall'East River. Alle sei, mentre il tramonto si trasformava rapidamente in oscurità da un capo all'altro di Manhattan, i riflettori dell'ONU si accesero. In un lampo, migliaia di luci trasformarono i trentanove piani del Palazzo di Vetro in uno dei gioielli del panorama notturno di New York. Non essendo completamente buio, l'effetto delle luci. non era ancora al massimo, ma fu sufficiente a generare un'attenzione spasmodica. I clacson cominciarono a suonare e le macchine a fermarsi lungo la 1st Avenue. Anche i pedoni si bloccarono, rimanendo a bocca aperta, gridando e indicando la facciata di vetro dell'ONU. E, alle 18.02, la prima di molte chiamate telefoniche giunse al capo dell'Ufficio Sicurezza delle Nazioni Unite in quella che sarebbe stata una notte molto lunga. Perché, su metà delle finestre dal quinto al dodicesimo piano del Palazzo dell'ONU, dipinta in un rosso brillante che assumeva uno splendore ultraterreno nell'illuminazione notturna, tutto il mondo stava leggendo una scritta:
G316 Nella mezz'ora successiva furono rivolte verso il Palazzo di Vetro ancora più luci. I locali vennero sgomberati, come gli edifici e le strade adiacenti, in cui rimasero soltanto le auto di rappresentanza. Le unità mobili di quelle che sembravano tutti i network televisivi e radiofonici del mondo si ammassavano il più vicino possibile all'ONU. Sembrava la reazione a un evento catastrofico, ma in assenza dell'evento. Le squadre di ricerca e valutazione non riuscirono a trovare vittime né danni in nessun edificio dell'ONU, a eccezione di quello che pareva sangue meticolosamente spalmato su otto piani della facciata del Palazzo di Vetro. Ammesso che quella scritta fosse l'avviso di una prossima esplosione o di un imminente attacco terroristico, nel corso nelle lunghe ore necessarie per effettuare una ricerca accurata non vennero trovati altri indizi. I sette ettari su cui sorgeva il Palazzo dell'ONU formavano un'area extraterritoriale, dotata di una propria autonomia doganale e fiscale, dunque le operazioni erano dirette da Lars Nugent, capo dell'Ufficio Sicurezza delle Nazioni Unite; tuttavia squadre della polizia di New York, dell'FBI e di altre agenzie federali sciamavano tutt'intorno, prestando servizi e fornendo informazioni. Alle nove e venti, Nugent aveva riunito Burton Welsh, il funzionario FBI di grado più elevato presente a New York, il capo della polizia di New York e il sottosegretario di Stato, giunto in aereo da Washington, per coordinare i numerosi servizi governativi che sarebbero stati coinvolti in caso di attacco alle Nazioni Unite. Infatti, benché giuridicamente fosse un'organizzazione internazionale, se l'ONU fosse stata oggetto di un'aggressione, ciò sarebbe stato sia un pericolo sia una fonte d'imbarazzo per gli Stati Uniti. «Permettetemi di riassumere ciò che sappiamo», disse Burton Welsh, un uomo che sembrava molto più raffinato dei diplomatici che proteggeva. «Il messaggio è stato dipinto sulle finestre dal quinto al dodicesimo piano. Dobbiamo effettuare esami approfonditi, però abbiamo accertato che si tratta di vernice e non di sangue, come certi cronisti televisivi hanno ipotizzato. La vernice utilizzata è un composto, trasparente all'origine, che prende colore se colpito da una luce forte. Si tratta insomma di una specie di agente chimico che, quando viene illuminato, brilla.» «E lì come c'è finita, questa vernice?» intervenne il capo della polizia.
«Riteniamo che la scritta sia stata tracciata da un incaricato alla pulizia dei vetri. La piattaforma è stata in funzione nella giornata di oggi, ma finora i controlli di sicurezza non hanno rilevato nulla di strano. La polizia sta cercando di rintracciare l'addetto, un certo Joseph Farley, che vive ad Astoria. Non l'abbiamo ancora trovato, è vero, però Farley fa questo lavoro da dieci anni e non ha precedenti a suo carico, né qui né alla polizia.» Il sottosegretario alzò gli occhi dai suoi appunti. «Chiunque abbia dipinto quella roba voleva affermare qualcosa di fronte al mondo intero. Credo che ormai questo sia certo, anche perché l'ONU è l'organizzazione mondiale per antonomasia. Finora, tuttavia, non abbiamo ricevuto rivendicazioni da nessun gruppo terroristico.» Burton Welsh scosse il capo. «Non siamo necessariamente orientati su elementi stranieri», borbottò, aprendo la giacca a vento dell'FBI. Il sottosegretario inarcò le sopracciglia. «Pensate che si tratti di un terrorista o di un gruppo americano, come per la bomba di Oklahoma City? Ma perché l'ONU? Con quale scopo? Perché sfidare uno dei sistemi di sicurezza più affidabili al mondo?» Nugent agitò la mano con fare disgustato. «Oggi quella sicurezza ha fatto cilecca, a quanto pare. La scritta è stata analizzata?» Welsh prese il libro che aveva davanti. «Sì, ed è una scritta alquanto chiara ed essenziale.» Aprì il libro. «Riteniamo si riferisca alla Bibbia, Nuovo Testamento, 'G' sta per il Vangelo di Giovanni, '3' per terzo capitolo, '16' per versetto sedici: 'Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna'.» Nugent annuì. «Be', è uno dei passi della Bibbia più famosi in assoluto... Ma perché qui e perché ora?» Welsh prese il cellulare, che si era messo a suonare. «Abbiamo qualche idea... Però, se questa è la chiamata che stavo aspettando, allora potremo avvalerci di un aiuto esterno.» 26 Murphy continuava a provare. Aveva fissato così a lungo quei caratteri cuneiformi che i simboli cominciavano a danzargli davanti agli occhi, muovendosi con un ritmo regolare. A un certo punto, si rese conto che suonava il telefono. Mentre afferrava la cornetta, scosse il capo per cercare di schiarirsi le idee.
Era Laura, da casa. «Grazie a Dio sei ancora in laboratorio.» «Bella cosa da dire a tuo marito nel bel mezzo della notte.» «Murph, è venuto poco fa a cercarti un agente dell'FBI.» «L'FBI? Perché me, e perché proprio me a quest'ora?» «Sta venendo a prenderti in laboratorio, Murph. Ti vogliono interrogare.» Venti minuti più tardi, l'agente dell'FBI Hank Baines sedeva nell'ufficio di Murphy, premendo contro l'orecchio la cornetta del telefono, mentre Murphy camminava avanti e indietro. Laura gli aveva detto di accendere il televisore in sala docenti, e lui aveva obbedito, assistendo così agli aggiornamenti in diretta della BNN dalle Nazioni Unite. Era completamente stordito, come il resto dell'America, da quanto aveva visto. L'agente Baines aveva ricevuto ordine da Washington di correre dalla sezione FBI di Charlotte alla Preston University, e svegliare il professor Murphy. Tuttavia l'interrogatorio non sarebbe stato condotto da Baines, il quale doveva soltanto organizzare una conferenza telefonica con Burton Welsh, capo dell'ufficio di New York. «Mr Baines, questo non ha senso. Cosa c'entro io?» «Non credo che lei c'entri, signore.» «Be', lei si è precipitato qui a interrogarmi.» «Le ho già detto che non la interrogherò io, professor Murphy.» «Cosa ancora più illogica. Se tutto ciò si limita a una telefonata, che ci fa lei qui? Mi sparerà all'istante se sbaglio a rispondere?» Baines parlò nel ricevitore. «Agente Baines in posizione, New York. Metto subito il professore in linea.» A un cenno di Baines, Murphy prese la cornetta. «Professor Murphy, sono Burton Welsh, agente speciale dell'FBI in servizio alle Nazioni Unite. Lei è in vivavoce col capo dell'Ufficio Sicurezza dell'ONU, Lars Nugent. Grazie per la sua disponibilità.» Murphy si accigliò, poi disse: «Signori, non capisco cosa posso fare per voi». «Mr Murphy, mi spiace disturbarla, ma qui all'ONU abbiamo un'emergenza.» «Ho appena visto il servizio in TV. Ma io cosa c'entro?» «Signore, conosciamo la sua competenza riguardo alla Bibbia.» «Sciocchezze, agente Welsh. Non ho mai avuto a che fare con voi prima d'ora, ma ho sempre creduto che voi dell'FBI foste bravi tiratori, in tutti i
sensi. Avreste potuto interpellare decine di esperti che della Bibbia ne sanno più di me, compresi parecchi lì a New York, evitando di scomodare l'agente Baines per farmi da balia.» «Posso chiederle che cosa pensa del messaggio 'G 316'?» «Agente Welsh, sono un esperto di storia della Bibbia, non di graffiti moderni.» «Ci provi comunque, la prego, Mr Murphy.» Prima di rispondere, Murphy trasse un respiro profondo. «Giovanni, 3:16, come di certo saprete, è il versetto ritenuto da molti cristiani il più importante dell'intera Bibbia.» «Perché?» «Perché ci dice che, attraverso la fede nel Figlio di Dio, Gesù Cristo, riceveremo il dono della vita eterna.» «Lei ritiene quindi che tale scritta sia opera di un fanatico religioso», intervenne Nugent. «Accidenti, signori! Parlare di un fanatico religioso soltanto perché si tratta di una citazione dalla Bibbia? Capisco che qualcuno possa pensare a un fanatico, giacché chiunque abbia tracciato quella scritta sul Palazzo dell'ONU è andato incontro a guai seri. Però ci sono moltissimi individui, compreso il sottoscritto, che pensano a quella citazione ogni giorno della loro vita, e si sentirebbero offesi a essere descritti come fanatici religiosi.» «Ascolti, Mr Murphy.» Il pacato tono ufficiale dell'agente Welsh era scomparso. «Non ho tempo di discutere di semantica con lei. Ammetterà che ci sono molte frange di cristiani evangelici in questo Paese.» «Adesso capisco. Mi ha chiamato perché, nei suoi database, compaio come l'unico esperto biblico che è anche un noto cristiano evangelico. Fanatico religioso è la sua definizione di cristiano evangelico, vero? Credevo che all'FBI non ci fosse posto per stereotipi così ignobili.» «Suvvia, Murphy, abbiamo innumerevoli dossier su frange di gruppi cristiani che sbraitano e farneticano contro le Nazioni Unite. Non concorda sul fatto che uno di quei gruppi sembra sceso sul sentiero di guerra?» Murphy gettò un'occhiata a Baines, che ascoltava dalla derivazione, ma l'agente si stava stropicciando gli occhi, forse per evitare il suo sguardo. Attese qualche secondo per calmarsi poi replicò, in tono assai più misurato: «Personalmente non mi considero né una frangia di qualcosa né strambo né reazionario né matto, e rifiuto qualunque altra etichetta mi si voglia appiccicare a causa della mia fede. Non posso aiutarla». «Non può o non vuole?» ribatté Welsh.
Prima che Murphy potesse rispondere, la porta dell'ufficio si aprì e Laura entrò di slancio. «Murph, che succede? Cosa vuole da te l'FBI per questa pazzia alle Nazioni Unite?» «Tesoro, non lo so proprio. Ma c'è qualcosa di sporco in tutto questo, e non mi riferisco a quella roba che sporca le finestre dell'ONU.» Poi tornò a parlare al telefono: «Agente Welsh, mia moglie è qui e anche lei condivide la mia fede. Farà meglio a mandare rinforzi all'agente Baines... I fanatici religiosi sono in superiorità numerica. La metto in vivavoce». Laura sembrò prima sconcertata, poi perplessa dalla sfuriata del marito. «Professor Murphy... Mrs Murphy... Sono l'agente dell'FBI Burton Welsh a New York. Be', insomma, sembra ci sia stato un malinteso...» «Ora riaggancio, Welsh. Non capisco proprio come potrei aiutarla a risolvere il suo mistero, quando invece ho qui un manoscritto vecchio di qualche migliaio di anni col quale posso fare qualcosa di utile. A meno che non voglia far arrestare me e mia moglie dall'agente Barnes e poi ordinargli di fare una retata nella nostra chiesa, adesso la lascio.» Welsh si mosse sulla sedia, a disagio. «Va bene, Mr Murphy. Ma non si allontani troppo.» «E questo che significa?» L'agente Baines si protese a interrompere la comunicazione prima della risposta di Welsh. «Mi spiace, professor Murphy... Sembra che stasera le cose siano un po' sfuggite di mano...» Avvertendo un certo imbarazzo in quella esitazione, Laura chiese: «Agente Baines, c'è qualcos'altro che dovremmo sapere?» «No», rispose lui, abbassando lo sguardo. «Baines, con noi può parlare. Non siamo mostri, qualunque cosa pensino quelli di New York.» «No, signora, lo so. L'agente Welsh è un brav'uomo e un agente di prim'ordine. L'ho visto in azione a Quantico. Ma... io sono di queste parti, e so che la gente di città si fa spesso strane idee sulla religione. Non siamo tutti così, noi dell'FBI.» Murphy gli diede la mano. «Grazie, agente Baines. Talvolta ci vuole un uomo speciale per stare contemporaneamente dalla parte di Dio e del proprio lavoro. Lei sembra esserci riuscito, e per questo l'ammiro. Un po' del suo equilibrio mi sarebbe stato utile, stasera.» Laura posò una mano sul braccio del marito e glielo strinse con affetto. «Tu, scegliere l'equilibrio invece della collera? Se l'agente Baines te lo potesse insegnare, gli daremmo una cattedra qui a Preston. Agente Baines,
è stato un piacere conoscerla, anche se in circostanze un po' strane.» «Be', sono stato soltanto un messaggero... e francamente non mi dispiace star fuori della mischia, qualunque cosa stia accadendo a New York.» Laura mise tutt'e due le braccia intorno a Murphy. «Quel tizio dell'FBI non pensa che tu abbia qualcosa a che fare con la faccenda dell'ONU, vero, Murph?» «No, credo che stia disperatamente cercando di trovare una risposta logica al perché qualcuno abbia tracciato un riferimento alla Bibbia sul Palazzo di Vetro. In più, come tanti, considera noi credenti parte di un vasto complotto contro i liberi pensatori. Su un punto comunque ha ragione. Qualcuno si è cacciato in un mare di guai per dipingere quella roba lassù.» Murph rifletté, come aveva fatto per l'ultima mezz'ora, sul possibile motivo di quel gesto. In quell'unica frase, ispirata dallo Spirito Santo a san Giovanni, era racchiuso l'intero messaggio della Bibbia. Si era già parlato di quel passo anni prima, quando, durante la trasmissione televisiva di numerosi eventi sportivi, e in moltissime zone del Paese, un individuo aveva preso l'abitudine di portare un cartello con su scritto, in modo rudimentale e a grandi caratteri neri, GIOVANNI 3:16. Qualche tempo dopo, un professionista del wrestling - in modo assai idiota - ne aveva utilizzato una variante come parte del suo spettacolo. Ma adesso le cose stavano diventando preoccupanti. L'eccezionale copertura mediatica della notizia faceva temere che i mezzi d'informazione fossero pronti a sfruttare quel brano, il più bello e profondo dei passi biblici, che aveva portato la speranza a milioni di persone in tutte le epoche, all'interno di una campagna denigratoria nei confronti dei cristiani evangelici. Murphy scosse la testa, pensando all'aspetto ironico della situazione... «Giovanni 3:16... È un buon messaggio da affiggere lassù», disse Laura. «Sì», convenne Murphy. «Però qualcosa mi dice che a mettercelo non è stato un insegnante di catechismo.» 27 Il network BNN seguiva in diretta i fatti dell'ONU e Shane Barrington, solo nel suo appartamento, stava guardando la trasmissione. Era stato il direttore del canale news ad avvertirlo e aveva ordine di chiamarlo sulla linea personale qualora vi fossero sviluppi importanti. Naturalmente, il direttore non aveva idea che Barrington fosse, seppur marginalmente, coinvolto nella faccenda. Come potrebbe? pensò Barrin-
gton. Neanch'io sono sicuro di essere coinvolto. Le persone per cui adesso lavorava, quei Sette, insieme col loro atroce sicario, Artiglio, erano uno strano gruppo. Non osava fare domande e, anche volendo, non aveva modo di entrare in contatto con loro. Però sembravano conoscere tutto dei suoi affari... e probabilmente anche della sua vita privata, se l'avesse avuta. Barrington trascorreva molte serate nel suo appartamento a studiare rapporti e cifre. E quella sera non faceva eccezione. Grazie alla tranquillità finanziaria assicuratagli dai Sette, la sua avidità era ormai irrefrenabile: spingeva ogni settore delle sue aziende a espandersi, a rilevare altre attività, trovando nuovi modi per schiacciare la concorrenza. L'appoggio dei Sette gli consentiva anche di corrompere i pochi assistenti fidati che operavano all'interno dell'organizzazione, in modo da essere certo che non vi fossero inganni e tradimenti. Ovviamente c'erano delle talpe, preposte a informare i Sette, ma lui non se ne curava più, avendo ormai abbandonato ogni tentativo di modificare la loro linea di gestione degli affari. Quando lo avevano chiamato, sapevano benissimo che lui era un magnate senza scrupoli, che lavorava sodo, si batteva fino all'ultimo sangue e pensava solo al risultato finale. Eppure avrebbe voluto sapere di più su quei Sette. Qual era il loro scopo? Si arricchivano enormemente e miravano a costruire un impero tecnologico e mediatico praticamente senza confini... ma che ruolo aveva lui nei loro piani? Quella faccenda delle Nazioni Unite... Lui aveva ricevuto precise istruzioni da Artiglio, in base alle quali aveva ottenuto la lista delle misure di sicurezza dell'ONU e dei sistemi per aggirarle. Le informazioni erano state ottenute grazie a manovre molto complesse, eppure impossibili da rintracciare. Neppure le indagini a tappeto che sarebbero state condotte alle Nazioni Unite avrebbero portato alla luce qualcosa di significativo. Tuttavia, una volta trasmesse le informazioni ad Artiglio, Barrington non aveva più saputo nulla fino a quella sera. Era ovvio che, dietro quell'azione, c'erano in qualche modo Artiglio e i Sette, ma a che scopo? Come gli succedeva sempre, Barrington si meravigliò per la rapidità e la bravura dei suoi dirigenti televisivi, che avevano già ideato - e messo in sovrimpressione sui tutti i servizi - un logo che diceva: OLTRAGGIO ALL'ONU. A ogni buon conto, dipingere un messaggio sulla facciata dell'edificio sembrava più uno scherzo goliardico che una minaccia alla sicurezza mondiale. Il telefono si mise a suonare e Barrington, pensando che fosse il direttore
del canale news, rispose: «Jim, dammi le ultime notizie». «Non riceverai notizie stanotte, Barrington, sarai tu a fare notizia.» Era Artiglio. Suo malgrado, Barrington si sentì gelare. «Darai alla tua star, a quella Stephanie Kovacs, il grande scoop della serata.» «Io?» «Ascolta e scrivi. Nel Queens, all'incrocio tra la 164th Street e la 76th Avenue, c'è una casa affittata da Joe Farley, uno degli addetti alla pulizia delle finestre dell'ONU. Non è la sua abitazione, bensì una specie di rifugio segreto... così segreto che, in effetti, lui non sapeva nemmeno di averlo affittato, mi spiego? Di' alla Kovacs che un tuo amico, un pezzo grosso della polizia, ti ha informato che l'FBI sta per fare un'irruzione. L'FBI non lo sa ancora, così lei avrà un bel vantaggio.» «Ma di che si tratta? Quel tizio, Farley, si nasconde lì?» «Farley custodiva in quella casa un ampio assortimento di testi e documenti religiosi, Bibbie comprese... accanto ai progetti per far saltare in aria l'ONU.» «E tu come lo sai? Non puoi averlo dedotto dalle informazioni che ti ho dato.» «Diciamo che tutte queste informazioni me le sono date da solo.» «Vuoi dire che hai nascosto lì le prove per far arrestare questo Farley? Ma, quando l'FBI lo troverà, non sarà evidente che qualcuno lo ha incastrato?» «Ma l'FBI non troverà mai Farley. Né lo troverà nessun altro. E, credimi, mai è prima di quando qualcuno troverà te se mi fai anche solo un'altra domanda. Chiama la Kovacs, spiegale che sta per fare uno scoop, dille di andare lì col suo operatore e cominciare a riprendere. Troverà dopo una scusa per l'effrazione. Poi, domani, le ordinerai di raddoppiare gli sforzi nelle indagini su questi pazzoidi cristiani evangelici. Quello che hanno fatto a un simbolo internazionale come l'ONU è veramente disgustoso.» Barrington non sapeva se prendere quell'ultima frase come una battuta, ma la comunicazione fu interrotta. Quindi, mentre digitava il numero breve della Kovacs, decise di usare con lei le medesime parole di Artiglio. 28 «Qui Stephanie Kovacs, in diretta e in esclusiva mondiale per la BNN. Mi trovo in una strada apparentemente tranquilla nel Queens, a New York
City. In questa normalissima casa di mattoni a due piani che vedete dietro di me, aveva sede la cellula terroristica dell'ideatore della terribile aggressione avvenuta stasera alle Nazioni Unite.» Artiglio, che seguiva nella sua camera d'albergo, ridacchiò, pensando: È in gamba, quella donna. Probabilmente ha più ghiaccio nelle vene del suo stesso capo, Barrington. L'avrebbe tenuta d'occhio per esigenze future. Nell'Ufficio Sicurezza dell'ONU, Burton Welsh si precipitò da Nugent e accese il televisore. «Quella cronista della BNN, Stephanie Kovacs, sta trasmettendo dal nascondiglio segreto del pulitore di finestre.» Nugent imprecò, poi disse: «Come c'è arrivata?» Welsh si strinse nelle spalle. «I miei sostengono che ha detto di essere arrivata li grazie a 'voci di strada'. E probabilmente non riusciremo mai a sapere di più da lei. E guarda cos'ha trovato.» Alzò il volume. «... sebbene non vi sia traccia del presunto affittuario, Joseph Farley, la BNN ha trovato in casa sua la conferma che era un pulitore di vetri delle Nazioni Unite e che avrebbe potuto facilmente perpetrare la terribile aggressione. Ci è stato anche confermato che era nuovo della zona e che questa non era la sua residenza legale. Una vicina, però, mi ha detto di averlo visto entrare e uscire da questa casa a ore insolite.» La telecamera si allontanò dalla Kovacs e, nel freddo bagliore delle luci artificiali, zoomò sul tavolo di quella che sembrava una sala da pranzo, inquadrando pile di libri e carte. «Ecco cos'ha trovato la BNN, arrivando per prima in casa di Farley il Fanatico. Bibbie sottolineate nei passaggi chiave su Cristo e sulla resurrezione. Piante del Palazzo di Vetro, anche queste sottolineate in vista di quello che sarebbe potuto essere un attacco terroristico.» Nugent imprecò di nuovo. «Quanto ci vorrà prima che la polizia di New York arrivi a interrompere il servizio?» Welsh portò il cellulare all'orecchio. «Circa un minuto e mezzo. Non appena i poliziotti saranno sul posto, mi metteranno in contatto telefonico con la giornalista. Tutto ciò si sta trasformando in uno spettacolo da baraccone.» Artiglio non perse tempo ad ascoltare l'intervista della Kovacs alla vecchia scema che viveva nella casa accanto a quella che lui aveva affittato a nome di Farley. Sapeva che la Kovacs era troppo brava per lasciarsi sfug-
gire Mrs Sorcatini. Era mezza cieca ma una vera ficcanaso, e Artiglio aveva fatto in modo di essere visto da lei quando, a notte fonda e travestito da Farley, aveva compiuto due spedizioni per sistemare la casa. No, aveva visto abbastanza di quel sensazionalistico e assai soddisfacente servizio della BNN. E, a quanto pareva, lo stesso poteva dirsi del suo contatto al castello. Al secondo squillo, aprì il telefono criptato. Come previsto, la voce era quella di John Bartholomew, il suo principale contatto coi Sette. «Be', Artiglio, se Gesù avesse avuto a disposizione il miracolo della televisione via satellite ventiquattr'ore su ventiquattro non ci sarebbe stato bisogno degli evangelici. Immagino si possa dire che stasera hai praticamente iniziato a fare la stessa cosa, usando quella giornalista per incominciare un'opera di distruzione.» «Non saprei, signore», replicò Artiglio. «È solo un fuoco di paglia. Quando le autorità cominceranno le indagini, i fatti si riveleranno inconsistenti e Farley non potrà certo spuntare fuori a confermare il tutto.» «Via, Artiglio, non è questo il momento per fare il modesto. Sei stato l'artefice di un evento mediatico su scala mondiale e questo, al giorno d'oggi, è tutto ciò che conta. A nessuno importano i dettagli, le correzioni, il prosieguo... Quando arriveranno, la gente si sarà già buttata sullo scandalo successivo. Ma ricorderà che un 'cristiano da ricovero', come dicono nei talk-show, voleva far saltare in aria l'ONU. Direi che è stata una nottata proficua.» «Se lei è contento, lo sono anch'io. Vuole che anticipi il prossimo colpo?» «No, Artiglio, continua il lavoro di preparazione. Io e i miei colleghi dobbiamo decidere la strada da seguire e in base a quale tabella di marcia procedere. Ogni cosa dev'essere fatta in modo da mantenere il controllo. Se opportunamente orchestrato, il caos può essere un'attività meritoria. Altrimenti, è soltanto caos... almeno finché non si riesce a manipolarlo a proprio vantaggio. Ti richiamerò.» Burton Welsh urlava, costringendo Stephanie Kovacs a reggere il telefono a trenta centimetri dall'orecchio. Non era in onda, perché aveva passato la linea allo studio per il notiziario. «Mr Welsh, lei sa che non rivelerò le fonti che mi hanno consentito di battere sul tempo la polizia - e l'FBI - nel raggiungere la casa di Farley.» Welsh si rifiutò di abbassare la voce anche di un solo decibel. «Tutta la
libertà di stampa di questo Paese non la salverà da una denuncia per effrazione, Miss Kovacs. Lei non aveva nessun diritto di entrare in quella casa, e lo sa bene.» Stephanie assunse il suo tono più innocente. «Vede, agente Welsh, stavo sorvegliando la casa da dentro il furgone quando ci è sembrato di veder uscire del fumo dall'appartamento. Così ci siamo precipitati dentro per salvare chiunque fosse lì, facendo semplicemente il nostro dovere di bravi cittadini.» Welsh grugnì. «Fuoco un corno! Ci sarà del fuoco, glielo prometto, quando le brucerò il didietro in tribunale!» Stephanie Kovacs sorrise. «Mr Welsh, non crede che uno psicopatico sia più che sufficiente per stasera? Se ha altre domande, le può rivolgere all'ufficio legale della BNN. Ciao, FBI.» 29 «Ehi, Artiglio, giuro che è abbastanza per far credere che esista un potere superiore.» La voce di solito tetra di John Bartholomew sembrava quasi allegra sulla linea criptata. «La fase successiva del nostro piano ci è caduta tra le braccia. Fa' i bagagli.» Come sempre, Artiglio non dimostrò la minima emozione. «Dove vado?» «A rafforzare la tua nuova, appassionata devozione nel cristianesimo evangelico, amico mio.» «Stavolta spero che mi tocchi qualcosa di più dell'uso di qualche barattolo di vernice.» «Credo di sì, ma dovrai essere paziente, Artiglio. All'inizio di questa nuova fase, toccherà a qualcun altro fare il grosso del lavoro. Solo che lui ancora non lo sa.» «A chi?» domandò Artiglio in tono guardingo. «I nostri accordi prevedevano che avrei avuto il completo controllo di qualunque operazione negli Stati Uniti.» «Come sei diffidente... Lo avrai, sta' tranquillo. Dovrai solo tenere d'occhio il nostro uomo mentre, ignaro di tutto, affronterà le sue sfide. Ha certe abilità con le quali neanche tu puoi competere.» «Che tipo di abilità?» «Sa cercare cose... vecchie cose. Andrai a Preston, nel North Carolina, per tener d'occhio il professor Murphy.»
«Io vado a caccia, io uccido. Perché vuole che controlli un professore?» «Tu sei un uomo di poche parole, Artiglio, ma usi frasi chiare e colorite. Una delle nostre fonti in Medio Oriente ci ha detto che Murphy ha trovato qualcosa che vogliamo assolutamente.» «Allora vado a prendere ciò che volete e chiudiamo la faccenda.» «Oh, lo farai, ma non è così semplice. Quello che noi vogliamo è in pezzi, pezzi che probabilmente nessun altro uomo al mondo potrebbe trovare.» «Ma questo è ridicolo. Avete dimostrato di avere abbastanza potere e denaro per fare tutto ciò che volete.» «Murphy non può essere comprato. Ha moralità, principi... cose che non capiresti. E cerca di essere un buon cristiano, cosa che sicuramente non capisci. Eppure, sorprendentemente, corre anche dei rischi. È un po' come te, un uomo d'azione, talvolta pure avventato. Ecco perché mi piacerebbe proprio assistere al vostro scontro... Sarà un vero spettacolo.» «Non creda di spaventarmi.» «Non sto cercando di spaventarti, ti sto avvisando che dovrai sorvegliare un uomo molto diverso da un pulitore di vetri grassottello. È intelligente, capace e soprattutto è l'unica persona al mondo che dispone delle conoscenze, del coraggio e della motivazione necessari per riconoscere il valore dei reperti di cui ci vogliamo impadronire. E sa anche come trovarli.» «Ma cosa sono questi reperti che sta cercando per voi? Lui si occupa di roba vecchia, di ciarpame biblico, no?» «Colorita definizione, Artiglio. Sì, ritrova antichi manufatti che contribuiscono a confermare l'effettiva storicità di eventi citati nella Bibbia.» «E perché questo v'interessa? Credevo odiaste tutte le religioni.» «No, non è così. Un giorno, ben presto, avremo una nuova religione, e una soltanto. E, per favorire la conversione di milioni di cristiani alla nostra unica religione, useremo alcuni simboli della loro Bibbia. Se potremo dimostrare che Dio ci ha affidato tali simboli, acquisiremo una maggiore autorevolezza. Inoltre quei simboli serviranno a... distrarre i cristiani durante il processo di distacco dal loro vecchio Dio e di avvicinamento al nostro nuovo Dio.» «Ma perché quei manufatti devono essere autentici? Non potete fabbricarveli da soli?» «No, perché al mondo c'è gente come Murphy che sa riconoscere un falso. Senza contare che il reperto al quale lui sta dando la caccia possiede un suo reale potere, o almeno così si dice. Sto parlando del Serpente di Bron-
zo che Dio diede a Mosè...» «Mi sta dicendo che voi, i Sette, credete nei ricordini della Bibbia, sebbene disponiate di tutto il potere che il denaro può comprare?» «Be', Artiglio, quando Murphy avrà trovato le tre parti del Serpente e le avrà riunite, allora vedremo. Che quel manufatto abbia un potere oscuro oppure no, lo useremo a tempo debito come elemento portante per riunire i credenti della nostra religione. Perciò tu rimarrai vicino al professor Murphy mentre cerca le altre due parti, quindi le prenderai per noi. Capito?» «Tuttavia non mi limiterò a fare il baby-sitter, nel North Carolina, vero?» «Ah, le grandi menti ragionano allo stesso modo, Artiglio. Sai bene che abbiamo studiato le nostre prossime mosse per gli altri scopi che ci prefiggiamo di ottenere, cioè provocare un diffuso timore e una crescente sfiducia in tutte le organizzazioni e istituzioni mondiali. La nostra attenzione si è rivolta ai centri urbani, tuttavia, per la tua missione, abbiamo deciso di combinare vari bersagli. Porteremo il terrore in una cittadina. E continueremo la nostra offensiva contro i nostri fratelli e sorelle evangelici.» Per la prima volta nel corso della conversazione, Artiglio sembrò eccitato. «Mi faccia indovinare. La cittadina è Preston, nel North Carolina. E la chiesa evangelica è quella di Murphy.» «Molto bene, Artiglio. Sei il primo della classe. In effetti, sei pronto per l'università.» 30 Nabucodonosor ardeva d'impazienza. Daniele sembrava intento ad ascoltare una voce interiore. Infine parlò di nuovo. «Hai visto una grande effigie, o re. Hai sognato una statua.» «Una statua! Sì! La vedo!» Il re era in piedi e sorrideva come un cieco che avesse miracolosamente riacquistato la vista. Ignorando l'eccitazione del re, Daniele continuò: «La statua che hai visto nei tuoi sogni era colma di magnificenza, superba nella forma, maestosa. Una statua enorme che svettava su di te dall'alto dei suoi novanta cubiti. La testa della statua era d'oro, meravigliosamente brillante, come fuoco fuso, il petto e le braccia di argento splendente come luna piena...» Il re, fattosi innanzi, lo afferrò con forza per le spalle. Era come se la statua fosse davanti a loro, coperta da un gran velo nero, e Daniele lo
stesse rimuovendo a poco a poco con le sue parole. «L'addome e le cosce erano di bronzo, le gambe di ferro e i piedi di argilla e ferro mescolati insieme», disse, poi tacque, e il re rimase immobile, non osando muoversi né parlare nel timore che la visione svanisse. Nabucodonosor sedette sul trono di legno di cedro e bevve a grandi sorsi una coppa di vino. L'allegria che aveva provato nel ricordare il sogno era stata inebriante ma di breve durata. Adesso era tormentato dall'ansia di conoscere il significato nascosto in quella visione straordinaria. Alzò lo sguardo, e Daniele parve udire la domanda prima che gli venisse rivolta. «Le quattro parti della statua rappresentano quattro imperi. Prima l'oro, poi l'argento, poi il bronzo. Ogni impero è meno potente del precedente. L'ultimo impero, quello di ferro, sarà il più debole: le sue fondamenta, i piedi d'argilla e ferro mescolati insieme, saranno allo stesso modo divise.» «Quattro imperi?» chiese il re. «E solo quattro?» «Sì, ci saranno solo quattro imperi fino agli Ultimi Giorni. Questo è il modo in cui le genti sapranno che soltanto il Dio che è nei Cieli può svelare con esattezza la storia prima che si verifichi. Allora, negli Ultimi Giorni, dieci regni del mondo si riuniranno, cercando di ricostruire un regno simile al tuo, o re. Dopo di ciò, giungerà la fine.» Era straordinario. Nabucodonosor viveva in un mondo in cui la bugia era moneta corrente. Perfino quelli a lui più vicini - forse specialmente loro - non potevano essere ritenuti degni di fiducia. Ormai da molto tempo pensava che soltanto una persona legata e incatenata, che vede il ferro rovente avvicinarsi nella mano del torturatore, potesse dire la verità. Eppure non aveva il minimo dubbio: ogni parola pronunciata da Daniele sarebbe accaduta. Per la prima volta in vita sua, Nabucodonosor, il re d'innumerevoli nazioni, sentì che il suo mondo stava crollando. Ancora una volta, lo schiavo ebreo anticipò il suo pensiero. «E che ne sarà di Babilonia, che ne sarà di Nabucodonosor in tutto questo?» Daniele tornò a fissare il re negli occhi, e la sua voce, profonda e risonante, parve colmare la stanza. «Ecco l'interpretazione del sogno. Sei stato scelto da Dio per essere il re di tutte le cose e tutti gli uomini. Il Dio che e nei Cieli ti ha donato un regno, potere, forza e gloria. Prima dell'arrivo del Regno dei Cieli, il tuo sarà l'impero più grande che il mondo mai conoscerà. Tu, mio re, sei la Testa d'Oro della statua nel sogno. Quando nascerà il quarto regno, esso sarà forte come il ferro. Quel regno cadrà a
pezzi e schiaccerà tutti gli altri regni.» «Cadrà a pezzi?» urlò il re. «Quello è il resto del tuo sogno. Hai visto una pietra plasmata senza mani. La pietra ha colpito l'effigie con gran forza, mandando in frantumi i piedi di ferro e argilla. L'effigie è crollata al suolo. I pezzi di ferro, argilla, bronzo, argento e oro sono stati tutti schiacciati, diventando come pula sul suolo dell'aia. Poi ti vento si è alzato e li ha spazzati via, cosicché non ne è rimasta traccia. E la pietra che ha colpito l'effigie è diventata grande come una montagna, avvolgendo tutta la terra.» Il re si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro. «Mio re, i piedi che hai visto, fatti in parte di argilla e in parte di ferro, indicano un regno diviso, forte eppure fragile. Come sai, o mio re, il ferro non si mescola con l'argilla. E nei giorni di questo regno diviso, il Dio che è nei Cieli costruirà il Suo Regno, che non sarà mai distrutto. Non sarà governato da uomini comuni. Distruggerà tutti gli altri regni e vivrà in eterno.» Daniele fece una pausa, poi concluse: «Il Dio che è nei Cieli ti ha fatto conoscere queste cose, o re. Il sogno e la sua interpretazione sono sicuri». Nabucodonosor, dopo aver ordinato ai suoi uomini di offrire a Daniele doni e profumi, posò una mano sulla spalla del giovane. «Da oggi in poi sarai governatore di questa provincia e capo di tutti i saggi di Babilonia. Perché tu, Daniele, servi un Dio più grande di qualunque altro.» 31 Chuck Nelson infilò la mano nella tasca dei jeans, ne tirò fuori una manciata di banconote sgualcite e le guardò, irritato. Dieci dollari, più o meno. Abbastanza per un hamburger, forse anche un po' di chili. Scacciò dagli occhi un ciuffo di biondi capelli unti e fissò torvamente i soldi, come se fissandoli potesse cambiare qualcosa. No. Erano gli stessi dieci dollari che aveva in tasca quando i poliziotti lo avevano fermato a bordo della Chevrolet rubata. Come indossava gli stessi jeans macchiati d'olio, laceri alle ginocchia, la stessa felpa verde impataccata e le stesse scarpe da ginnastica infangate. Perlomeno gli avevano lavato i vestiti. Non sembrava avessero fatto lo stesso coi soldi. Il suo stomaco si mise a brontolare. Quand'era stata l'ultima volta che aveva mangiato un pasto degno di un essere umano, invece che di un maiale? Non lo rammentava. Un'abbondante porzione di chili sarebbe andata
bene. E aveva anche bisogno di bere qualcosa. Avrebbe speso fino all'ultimo centesimo, a meno che, mentre era in prigione, non avessero approvato una legge per la distribuzione gratuita di birra. La città distava solo tre chilometri e magari qualcuno si sarebbe fermato per dargli un passaggio. Ma ne dubitava. Bastava un'occhiata per capire che lui era una fonte di guai. E la brava gente di Preston i guai preferiva sempre evitarli, se possibile. Sentendo le prime gocce di pioggia, si strinse nel vecchio giubbotto della Preston High School e cominciò a camminare lungo la strada di campagna a due corsie. Prima la birra, poi alcuni conti da saldare. Due ore dopo, Chuck sedeva a un tavolo della Mooney's Tavern e beveva le ultime gocce di birra da un boccale ormai vuoto. Si sentiva un po' brillo, ma i soldi erano finiti e il barista, un tizio nuovo, probabilmente appena uscito dalla scuola professionale, non gli aveva fatto credito. Sbatté il boccale sul tavolo e sputò per terra. Quanti soldi aveva speso in quel posto pidocchioso negli ultimi anni, bevendo la loro schifosa birra annacquata? La matematica non era il suo forte, ma dovevano essere parecchi. E adesso il barista lo stava guardando come fosse qualcosa di disgustoso che si accingeva a raschiare da sotto le scarpe. Chuck sentiva crescere la sua rabbia e avvertì un formicolio alla punta delle dita, come se fosse stata accesa una miccia. Un grido stridulo, seguito da risate roche, distolse la sua attenzione dal barista. Voltandosi, Chuck vide una bionda carina, alla quale era andata di traverso la birra. Un'altra ragazza le batteva la mano sulla schiena e i due tipi seduti con loro davano manate sul tavolo, gridando forte. Non ebbe bisogno di leggere le parole PRESTON UNIVERSITY sulle loro felpe per capire che erano studenti. Lui si era ubriacato in quel posto quando loro portavano ancora l'apparecchio ai denti... eppure adesso era a lui che il barista lanciava occhiate di fuoco. Andò lentamente verso di loro e posò le mani sulle spalle dei due giovani. «Ehi, ragazzi, niente scuola, oggi, eh? Credo che alla vostra amichetta farebbe comodo una lezione su come si beve la birra.» Poi sorrise e diede loro una pacca amichevole. La biondina si pulì la bocca con la manica e lo guardò in cagnesco, mentre i ragazzi, scrollatisi di dosso le mani di Chuck, balzarono in piedi. Erano di qualche centimetro più bassi di lui e non sembravano in forma.
Troppa lettura e poco allenamento, pensò Chuck. Capì che non volevano far brutta figura davanti alle ragazze, ma lo sguardo preoccupato nei loro occhi gli rivelò pure che non gli avrebbero procurato guai. «Sentite qua. Voi due mi pagate un boccale di birra e io vi do una dimostrazione. Vi faccio vedere come si fa. Gratis. Che ne dite?» Lanciò loro il suo sorriso migliore e strizzò l'occhio alle ragazze, che continuavano a fissarlo, furiose come gatte selvatiche. Ehi, non è colpa mia se i vostri ragazzi sono così smidollati, pensò. Stava per ribadire il concetto quando si sentì tirare la giacca da dietro. Perse l'equilibrio, arretrò barcollando e cadde pesantemente addosso a un tavolo. Prima che potesse riaversi, qualcuno gli inchiodò le braccia sulla schiena, cominciando a spingerlo verso la porta. «Ehi, toglimi le mani di dosso.» Riuscì a liberarsi dalla presa e si voltò di scatto. Il barista non si era mosso e sogghignava, a braccia conserte. Accanto a lui c'era un tizio che Chuck non aveva visto prima. Era più massiccio e aveva la barba lunga e vari tatuaggi scoloriti sulle braccia. Dev'essere uscito dalla cucina, pensò. Il tizio si fece avanti e, fermandosi a qualche centimetro dal suo viso, sibilò: «Fuori. Subito. Prima che diventiamo cattivi. Qui dentro non vogliamo gentaglia come te». Chuck pensò che col barista ce l'avrebbe fatta, nessun problema. Ma il tizio della cucina era un'altra faccenda. Non era il caso di farsi pestare per un bicchiere di birra, anche se ne aveva una gran voglia. Se ne andò senza guardarsi indietro. Qualche minuto più tardi, l'uomo chiamato Artiglio lasciò sul tavolino d'angolo la propria birra - che peraltro non aveva neppure assaggiato - e uscì dal bar. Controllò la strada: nessun segno di Chuck in entrambe le direzioni. Ma non si preoccupò. Non era affatto difficile prevedere la sua prossima mossa. Annusò l'aria e poi girò a destra. Verso il fiume. Mentre attraversava la città, oltrepassando il piccolo emporio all'angolo, poi il negozio di roba usata con gli orsacchiotti di peluche in vetrina, si domandò quanto a lungo si sarebbe dovuto trattenere a Preston. Abbastanza per dare un contributo duraturo al luogo, ne era certo. Per apportare alcuni cambiamenti che sarebbero stati ricordati. Si fermò davanti all'Hey, Preston!, un negozio di articoli di magia con l'insegna dipinta a mano, raffigurante un coniglio che faceva capolino dalla falda di un cappello a cilindro, e sorrise. Oh, sì. Avrebbe mostrato loro qualche trucchetto nuovo,
prima che tutto fosse finito. Altri dieci minuti di cammino e i negozietti carini e i ristoranti per famiglie cominciarono a lasciar posto a negozi chiusi da assi e ad appezzamenti di terreno incolti. Anche Preston aveva la sua zona poco raccomandabile, dove l'illuminazione stradale non era così buona e le recinzioni di legno mancavano di qualche paletto e di una mano di vernice bianca. Cominciò a cercare un punto adatto. Lo trovò quasi subito. Un vicolo tra un ristorante cinese e un negozio di liquori. Una buona scorciatoia se non si aveva paura delle ombre o di qualcuno in agguato. Di qualcuno che aveva un gran bisogno di soldi e al quale non importava come trovarli, per esempio. Scrutò nell'oscurità. Si sentiva un fortissimo puzzo di verdure marce: senza dubbio era lì che il ristorante scaricava l'immondizia. Un rumore di passi affrettati gli rivelò che non era stato il primo ad avere quell'idea. S'inoltrò nel vicolo e ascoltò. Appena in tempo. Si addentrò per un'altra decina di metri in mezzo agli scatoloni, si rannicchiò dietro un cassonetto e tirò fuori il cellulare. Chuck immobilizzò il piccoletto contro il muro con una mano, mentre con l'altra cercava di aprire il portafoglio. L'uomo era così terrorizzato che non sarebbe mai riuscito a scappare e tantomeno a reagire. Ma Chuck non dimenticava le lezioni imparate in prigione: non voltare mai le spalle; non distrarti mai; non pensare che il tuo avversario sia sconfitto a meno che non abbia smesso di respirare. E c'era un'altra lezione: ascolta attentamente. Magari i guai non li vedi arrivare, tuttavia li puoi sentire. E infatti Chuck sentì una sirena. Difficile dire quanto fosse lontana, però il suono sembrava avvicinarsi. Doveva finire in fretta e andarsene. La luce di una torcia spazzò improvvisamente il vicolo e, per un istante, Chuck non vide più nulla. Dietro la luce c'era un poliziotto, col manganello pronto. «Fermo dove sei», gridò. «Scansati dal muro e tieni le mani davanti a te!» Chuck s'infilò il portafoglio nella giacca e lasciò il piccoletto, che si afflosciò contro il muro accasciandosi poi al suolo. E adesso? Era disarmato e il poliziotto continuava ad avanzare. Di lì a qualche secondo, gli sarebbe stato addosso. Se non escogitava qualcosa in fretta, ben presto sarebbe tornato nella cella 486, e stavolta avrebbero gettato via la chiave. Il poliziotto gli puntò di nuovo contro la torcia, abbagliandolo. Poi d'un
tratto si udirono un colpo secco e un acuto grido di dolore. La luce si perse nell'ombra. Mentre gli occhi si riabituavano all'oscurità, Chuck intravide una figura... Era un uomo alto, che sovrastava il poliziotto e teneva in mano qualcosa che sembrava un'asse di legno. Il poliziotto non emetteva più nessun suono. L'uomo si voltò verso Chuck. Aveva un viso spettrale e uno sguardo così vuoto da far rabbrividire. Con una mano guantata, fece segno a Chuck di avvicinarsi. «I suoi colleghi saranno qui tra un paio di minuti. È ora di andarsene, Chuck.» L'altro rimase assolutamente immobile, incerto su che cosa volesse davvero quel fantasma. Gli sembrava di avere il cervello bloccato. Lo spettro sembrò avvertire la sua ansia. Gettò l'asse di legno su un mucchio di scatoloni e spalancò le braccia. «Non aver paura di me, Chuck. Al contrario. In effetti, potresti considerarmi il tuo salvatore.» Poi rise. Un suono duro, animalesco, nient'affatto simile a una risata. Chuck continuava a non capire, ma il suono delle sirene era diventato più forte. Ormai i poliziotti erano a qualche isolato. «Andiamo, ho un posto dove ti puoi ripulire. Ho dei soldi. Ho persino un lavoro per te. A meno che tu non preferisca tornare in prigione, naturalmente.» Il cervello di Chuck si riattivò quanto bastava per capire che non aveva altra scelta. «Va bene, capo», disse. «Come vuoi tu. Credo sia meglio che tu faccia strada.» 32 Stephanie Kovacs si sorprese a guardar fuori della finestra per la terza volta nell'ultima mezz'ora. Perché mai stava lì, a parlare con uno degli uomini più noiosi del mondo, mentre doveva occuparsi di quella vicenda che, con sua grande sorpresa, si era rivelata tra le più scottanti della sua carriera? Dal momento del suo servizio dalla casa di Farley il Fanatico, il pulitore di vetri delle Nazioni Unite non ancora ricomparso, la stella di Stephanie alla BNN era infatti diventata sempre più splendente. Naturalmente non nuoceva il fatto che lo stesso Shane Barrington seguiva quella storia con un interesse che non aveva mai dimostrato per qualunque avvenimento precedente. Da quando aveva ricevuto la soffiata ed era corsa all'appartamento preso in affitto da Farley, Stephanie si era spesso interrogata sulla coincidenza tra il suo primo incontro con Barrington, in
cui lui le aveva praticamente ordinato d'indagare sul movimento cristiano evangelico, e quella scoperta sensazionale. E pensare che lei non prendeva in mano una Bibbia dall'età di dodici anni... Adesso invece la religione sembrava riempire le sue giornate. Come giornalista d'assalto, le seccava parecchio che, da quella scritta tracciata sulle finestre dell'ONU, non si fossero ancora delineate piste precise. Non era emerso infatti nessun legame di Farley con qualche noto gruppo evangelico o con qualsiasi altra prova di un complotto mirato a piazzare una bomba nel Palazzo di Vetro. Ma le sue rivelazioni di quella sera erano indelebilmente impresse nella memoria di tutti. La pista che lei stava seguendo veniva direttamente da Shane Barrington. Lui l'aveva chiamata per farle le congratulazioni - cosa mai successa prima -, lasciandosi sfuggire quello che certi personaggi importanti a Washington gli avevano confidato e cioè che l'FBI, in relazione all'attacco all'ONU, aveva interrogato nientemeno che il professor Michael Murphy. Stephanie si era limitata a osservare che probabilmente avevano parlato con lui in quanto esperto della Bibbia, nel tentativo di ottenere qualche chiarimento sul messaggio tracciato sulle finestre del Palazzo di Vetro. In fondo, tutti i network avevano i loro esperti in ogni campo... Barrington le aveva suggerito di recarsi lei stessa alla Preston University per raccogliere informazioni su Murphy. Dopotutto si trattava di un personaggio televisivo e, alle persone di quell'ambiente, niente piaceva di più di uno scandalo «interno», benché Murphy fosse soltanto il conduttore di polverosi special archeologici trasmessi dalla TV via cavo. E così Stephanie si era ritrovata nell'ufficio del preside Archer Fallworth, il quale si era lanciato in una noiosissima disamina sulla media dei voti universitari, sulle iniziative della comunità studentesca e sui servizi a essa offerti. Incerta su quale fosse il ruolo di Murphy nell'ambito della Preston University, Stephanie non aveva rivelato lo scopo della sua visita, ma ormai era tempo di tagliar corto. «Preside, che mi dice dei cristiani evangelici? Sono attivi nel campus?» Fallworth socchiuse le palpebre. «Gli evangelici? Be', sì, abbiamo qualche membro molto...» - agitò una mano, cercando la parola giusta - «... energico di quel particolare gruppo religioso, a Preston. Solo pochi, a dire il vero, ma tendono a fare molto rumore.» Fece balenare un sorriso che voleva essere da cospiratore. «Cosa le interessa esattamente?» «Diciamo soltanto che tra la gente comune c'è molta preoccupazione per questi gruppi evangelici, che stanno diventando troppo forti, e fanno paura.
Voglio scoprire quanto ciò riguardi la Preston University, un istituto che eccelle nell'insegnamento delle materie umanistiche moderne. Istituzioni come la vostra sono in prima linea nella battaglia contro il fanatismo religioso. I nostri telespettatori sarebbero interessati a saperlo.» Il sorriso di Fallworth divenne un sogghigno. «Mi piace pensare che facciamo del nostro meglio, combattendo una battaglia giusta contro l'ignoranza e l'intolleranza.» Intrecciò le dita e si sporse in avanti sulla scrivania. «Ma non è sempre facile. Sa, sono molto ben organizzati. E alcuni dei loro capi sono tremendamente scaltri.» Ci siamo, pensò Stephanie. «Qualcuno in particolare?» Fallworth strinse le labbra. «Non vorrei parlar male di nessun membro della facoltà, naturalmente...» «A meno che non sia una faccenda di pubblico interesse.» «Esattamente. Be', c'è un professore che considera suo compito provocare guai, riempiendo giovani menti impressionabili col peggior tipo di sciocchezze spiritualistiche. Il suo nome è Murphy.» Fece una smorfia come se Stephanie gli avesse estorto una confessione. «Professor Michael Murphy.» Tombola. Era il nome che Barrington le aveva fornito quando l'aveva chiamata, due sere prima. Soltanto un piccolo supplemento d'indagine, aveva detto. Per mettere a fuoco l'inchiesta. Stephanie non aveva idea del perché Barrington desiderasse inchiodare quell'uomo, ma la determinazione avvertita in lui era indiscutibile. Nel suo modo gelido, aveva praticamente sputato fuoco nel ricevitore. E Murphy sembrava altrettanto sgradito a Fallworth. Dev'essere proprio un bel tipo, pensò Stephanie, poi disse: «Allora, cosa insegna questo Murphy?» «Archeologia biblica, pensi un po'. La sua missione è dimostrare l'autenticità della Bibbia scovando reperti che la confermino. L'esatto opposto della scienza, secondo me.» «E ne ha trovati?» «Così dice.» «Le sue lezioni sono molto seguite?» «Temo di sì. Gli studenti tendono a considerarlo... carismatico. Qui al campus è simile a un oggetto di culto, e lo dico nel senso peggiore del termine. Forse perché è un individuo che ama l'aria aperta.» Al contrario dei veri studiosi come te, rifletté Stephanie, notando la pancetta e il colore cereo di Fallworth.
«Scalate, tiro con l'arco, tutta roba da fanatici», aggiunse il preside. Stephanie si alzò e prese la borsa. «Molto interessante. Se devo inseguire questi evangelici, sembra che Murphy sia la persona giusta da cui iniziare. Allora, dove posso trovarlo?» 33 L'uomo conosciuto come Artiglio entrò in casa e lasciò che la zanzariera sbattesse in faccia a Chuck che lo seguiva. Mentre annaspava per aprire la zanzariera ed entrare nel luogo in cui Artiglio aveva detto di abitare, Chuck era veramente perplesso. Quel tipo aveva un sacco di soldi - aveva tirato fuori un rotolo di biglietti di piccolo taglio a ogni negozio -, eppure viveva in una casa che, per Chuck, era due gradini al di sotto di un immondezzaio. E in più si trovava a trenta chilometri da Preston, quindi non era vicina a nulla, a eccezione di strade secondarie e foreste. La veranda era incurvata al punto che stava quasi per crollare, c'era un'infiltrazione dal tetto in due delle stanze da letto, e il lavandino del bagno aveva un rubinetto solo, incrostato da una mistura torbida di anni, ruggine e sporcizia. I riflessi di Chuck erano un po' lenti. Si sentiva molto stanco, avendo guidato per ben quattro ore portando in giro Artiglio. Si erano fermati in tre diversi ipermercati... ciascuno in una contea diversa, a chilometri di distanza. Nulla di ciò che avevano acquistato aveva senso per Chuck, ma soprattutto non aveva senso il fatto che non avessero acquistato tutto nello stesso posto. Artiglio, però, aveva messo subito in chiaro che non gradiva domande di nessun genere. «Comincia a portare qui buste e scatole», gli ordinò Artiglio. «Sono stanco morto. Non potremmo aspettare domattina?» «Scaricale. Ora. La lezione è cominciata.» Chuck aggrottò le ciglia. «Che lezione?» «Chiudi il becco e impara, genio. T'insegnerò io come dare una bella scossa a questa tua città di bifolchi.» Nell'ora successiva, il tavolo da gioco di quello che un tempo forse era il soggiorno si riempì di buste strappate e scatole rotte. Artiglio mostrò a Chuck come voleva che gli ingredienti grezzi venissero mescolati e lo sorprese, mostrandosi più loquace che in precedenza. «Tua sorella ha una cotta per il professor Murphy?»
«Te l'ho detto, non le ho parlato granché mentre ero dentro. Vivo da lei perché non mi posso ancora permettere di stare da solo, e casa sua è pulita, molto più pulita di questo posto. Comunque ne dubito. È proprio una santarellina, lo è sempre stata.» «Cosa sai di Murphy o della moglie?» «Non farmi ridere. Ti aspetti che io sappia qualcosa di un insegnante e della sua stupida moglie? Mia sorella lo ha conosciuto in chiesa, prima di andare all'università, non so altro. Ma perché t'interessa tanto Murphy?» «Un soldato studia sempre il nemico.» Artiglio spedì Chuck a casa per la notte, lasciandogli la macchina presa a nolo e dicendogli di tornare a prenderlo il mattino seguente, per un'altra giornata di commissioni. Quindi impugnò il telefono satellitare criptato e compose un numero di New York. Ci volle un po' prima che Shane Barrington rispondesse. «So che non sei religioso, Barrington, ma tira fuori il vestito da lutto», disse Artiglio. «Tra due giorni annuncerai la tragica morte del tuo unico figlio Arthur.» Barrington era ormai arrivato al punto da temere le chiamate di Artiglio. Unica consolazione: erano brevi... e poi sempre meglio una telefonata che una visita. «Sai benissimo di avere ucciso mio figlio da diversi giorni. Qualsiasi cosa tu abbia fatto del cadavere, come posso annunciare che è appena morto?» Artiglio tirò fuori la sua lista, per assicurarsi di non dimenticare nessun dettaglio. «È abbastanza semplice. Primo, sei ricco e potente, il che significa che in questo Paese puoi fare tutto ciò che vuoi, più o meno. Diamine, un ricco verme come te può perfino comprare la compassione dell'opinione pubblica americana. E questo è esattamente ciò che farai.» 34 «Attualmente ci troviamo nella migliore delle epoche o nella peggiore? Alzate la mano.» Murphy era davanti al leggio. «Prima i catastrofisti. Chi ritiene che stiamo vivendo nell'epoca peggiore?» Alcuni studenti alzarono la mano immediatamente, però molti sembravano esitare. «Avanti, ragazzi, la vostra risposta non influirà sul voto finale, almeno non in questo corso. Allora, l'epoca peggiore?» Circa metà degli studenti alzò la mano.
«Bene, ora tocca agli ottimisti. Quanti di voi ritengono di vivere nella migliore delle epoche?» Alzò la mano un po' meno della metà. «Concederò a quelli di voi che non hanno alzato la mano il beneficio del dubbio sul fatto che non siete neanche sicuri di essere vivi.» «Allora, qual è la risposta giusta?» gridò uno studente nell'ultima fila. «Be', non sono qui per esprimere la mia opinione, nonostante i timori del preside Fallworth, ma posso dirvi che dalla cacciata di Eva dal Paradiso Terrestre in poi molti individui in ogni generazione hanno creduto che le migliori epoche dell'umanità appartenessero al passato, che la civiltà come la intendevano loro, o forse come nostalgicamente preferivano ricordarla, fosse in declino, e che fossero in arrivo tempi ancora più cupi.» Una voce gridò: «La fine è vicina!» «Sì, molti di voi hanno probabilmente visto alcuni di quei pazzoidi che girano per le strade gridando: 'Pentitevi! La fine è vicina'. Bene, molti considerano tale convinzione tanto drastica da scadere nel ridicolo. Eppure in varie società, nel corso della storia, la gente ha trovato nei simboli, negli dei, nelle superstizioni, nella scienza - sì, nella scienza - il tramite per prevedere esattamente ciò che il futuro aveva in serbo, specie se le previsioni erano piuttosto catastrofiche. In molte di queste società, uomini e donne che potevano fornire interpretazioni e predizioni convincenti avevano un posto d'onore, almeno finché non si dimostrava che avevano avuto torto o, in certi casi, finché le loro previsioni impopolari non si avveravano. Tali 'professionisti' nel campo della conoscenza predittiva sono chiamati profeti. Probabilmente non ne avete mai incontrato uno, ma vi sorprenderà sapere che, al giorno d'oggi, molti vostri familiari, amici e vicini, milioni di persone di ogni età, di ogni condizione sociale, in ogni parte del Paese credono nelle profezie e in particolare credono che la fine sia vicina... e non perché lo hanno letto nelle interiora di una capra sacrificata in cortile o hanno parlato con una cartomante, e neanche perché hanno ricevuto segnali segreti inviati da piccoli marziani verdi... Ci credono in virtù di questo libro.» Murphy alzò la sua Bibbia. «Proprio così: la Bibbia non è soltanto la storia di ciò che accadde nei tempi antichi e un insieme di lezioni su come dovremmo vivere la nostra vita. La Bibbia è anche piena di profezie già verificate e contiene molte altre profezie che, nella convinzione di un altissimo numero di persone, si verificheranno. Gente tutt'altro che pazza, oserei dire. Gente come me. «Ecco, spero che l'università mi consenta un giorno di tenere un corso sulle profezie bibliche, poiché ritengo che sia una disciplina avvincente e
importante, anche a prescindere da ciò che quelle profezie ci presentano. Ma qui stiamo parlando della cara, vecchia archeologia biblica, dunque vi mostrerò come una certa scoperta archeologica - che spero di essere molto vicino a fare - possa contribuire ad avvalorare i fatti storici adombrati dalla profezia che, secondo molti, è la più importante della Bibbia, cioè la profezia di Daniele basata sul sogno di Nabucodonosor. Nabucodonosor era il più grande sovrano dell'impero babilonese e, sebbene avesse a disposizione i migliori profeti e gran sacerdoti del suo mondo pagano, nessuno di loro era riuscito a interpretare il sogno della statua. Invece uno degli schiavi ebrei, Daniele, gli aveva rivelato che il suo sogno era una visione inviatagli dall'unico vero Dio. L'enorme effigie del sogno era infatti una statua dello stesso Nabucodonosor, costruita su quattro livelli, ciascuno dei quali rappresentava uno degli imperi del mondo. Il primo era la Testa d'Oro che rappresentava Babilonia. Il secondo - il petto e le braccia d'argento - rappresentava l'impero medo-persiano, formato dalle due nazioni che avevano conquistato Babilonia. Poi c'era l'addome di bronzo, che rappresentava i greci, seguito dalle gambe di ferro, che simboleggiavano i romani. Più ci si avvicinava al tempo presente, più deboli diventavano gli imperi: ne era una prova la qualità via via peggiore del materiale utilizzato nella rispettiva parte della statua. «La profezia, che è storia scritta in anticipo, è uno dei modi di Dio per dimostrare che Egli esiste. Per esempio, il fatto che Dio, duemilaseicento anni or sono, abbia rivelato a Nabucodonosor che ci sarebbero stati soltanto quattro imperi sino agli 'Ultimi Giorni' è davvero sorprendente, perché, come sanno bene gli studenti di storia, ci sono stati soltanto quattro imperi da quello babilonese in poi. La cosa più sorprendente è che molti hanno provato a conquistare il mondo: Gengis Khan, Napoleone, Hitler, Stalin... Eppure hanno tutti fallito. Perché? Perché il Dio dei Cieli ha detto che, fino agli Ultimi Giorni, ci sarebbero stati soltanto quattro imperi mondiali. Ammetterete che non è niente male, come profezia, considerando che fu enunciata seicento anni prima di Cristo. Qual è dunque il motivo per cui tanti studiano la profezia di Daniele? Perché essa si è rivelata giusta nel passato e dunque ci sono tutte le ragioni per credere a ciò che dice del futuro. Di nuovo, il tempo e le necessità del corso non mi consentono di approfondire la cosa, ma, se verrete a trovarmi nel mio ufficio, sarò lieto di spiegarvi qualcosa di più. Per esempio perché, studiando la profezia di Daniele e di altri, si capisca come ci siano più ragioni basate sulla Bibbia per credere che Cristo ritornerà per costruire il suo Regno nel nostro tempo
piuttosto che in qualunque epoca precedente. «Ma che c'entra l'archeologia in tutto questo? Scommetto che tra voi ci sono alcuni scettici, i quali pensano che Daniele non sia mai esistito e che le sue profezie non siano basate su fatti. Bene, ricordate che, nella mia ultima lezione, vi ho parlato del Serpente di Bronzo fatto da Mosè su ordine di Dio, e vi ho anche mostrato una parte di esso come prova della sua veridicità? Bene, allora ricorderete pure che vi ho parlato dell'incredibile viaggio del Serpente di Bronzo attraverso i secoli e le civiltà, un viaggio che si è concluso a Babilonia, all'epoca della profezia di Daniele a Nabucodonosor. Ammetto di essermi rivolto a uno scienziato molto più ferrato di me per interpretare gli indizi che, in un prossimo futuro, mi condurranno al ritrovamento del resto del Serpente o così almeno spero... Ciononostante sono tornato a studiare il papiro che è stato l'inizio di tutto, la nuova interpretazione della vita e del tempo del Serpente di Bronzo. Una vita molto più lunga e un tempo molto più interessante di quelli noti finora.» Murphy proiettò una diapositiva sullo schermo dietro di lui. «Mi spiace, poltroni, il messaggio implicito non è affatto di natura religiosa. Eccolo, il messaggio: quando siete in dubbio su ciò che state facendo, studiate, studiate, studiate e studiate ancora. Io, per esempio, non riuscivo a capire quale legame ci fosse tra questo papiro, il profeta Daniele e ciò che sapevamo del Serpente di Bronzo. Ma poi ho trovato la coda del Serpente e ci sono riuscito grazie a un papiro che risaliva al tempo in cui Daniele viveva a Babilonia, un papiro probabilmente scritto dal più fidato gran sacerdote di Nabucodonosor, Dakkuri... Così mi sono convinto che si potesse collocare il Serpente al tempo di Daniele, anche se l'Antico Testamento non nomina mai il Serpente dopo la sua distruzione da parte di Ezechia, nel Secondo Libro dei Re. Badate bene, comunque: neanch'io affermerei che questa è la prova assoluta dell'esistenza storica di Daniele o che essa contribuisca ad avvalorare la profezia. «A ogni buon conto, mentre ero chino sul papiro, improvvisamente ho capito. A dire il vero, è accaduto durante una pausa in sala docenti, mentre, come mille altre volte, passavo davanti al cartello VIETATO FUMARE. Conoscete il simbolo internazionale, no? È un cerchio rosso, con un tratto diagonale sopra una sigaretta accesa... Ebbene, sulle prime, avevo pensato che questo segno sopra il simbolo del re - cioè Nabucodonosor -, questa linea che punta alla sua testa, fosse solo un segno di deterioramento o una traccia di sporco sul papiro. Poi mi sono reso conto che l'autore del papiro aveva tracciato la sua versione di VIETATO FUMARE... col significato di
'niente re'. Ma perché un gran sacerdote avrebbe 'annullato' il suo re? Non aveva senso. Cosa sarebbe successo se il papiro fosse caduto nelle mani dei suoi nemici? Quel 'niente re' si sarebbe ben presto trasformato in un 'niente testa' del gran sacerdote... A meno che Nabucodonosor non avesse autorizzato a cancellare la propria testa.» «Vuol dire che Nabucodonosor si è suicidato?» chiese qualcuno. «Non commise un suicidio come lo intendiamo noi, no, però si autodistrusse. Sempre dal Libro di Daniele, apprendiamo che il suo impero, cioè la Testa d'Oro della statua del sogno, lo rese pazzo. Nabucodonosor infatti fece costruire la statua e poi, adorando se stesso, impazzì. Dopo sette interi anni rinsavì e fece ammenda a Dio, facendola distruggere, più o meno come Ezechia aveva frantumato in tre pezzi il Serpente di Bronzo. Proprio così: Nabucodonosor andò fuori di testa - letteralmente - e, quando rinsavì, ritornò al potere, giurando rinnovata fede a Dio e ordinando che tutti gli idoli e le immagini fossero distrutti, compresi il Serpente di Bronzo, che aveva di nuovo spezzato in tre parti, e la sua gigantesca statua. Questa linea che scende verso la testa del re simboleggia quindi l'ordine di Nabucodonosor di distruggere la propria statua. È questa la sorprendente ed entusiasmante conclusione cui sono giunto, signore e signori. E credo che qui vi sia un indizio molto concreto di una scoperta e cioè che gli eventi narrati nel Libro di Daniele sono realmente accaduti. Infatti cosa dimostrano il papiro e il mio ritrovamento della coda del Serpente in base alle indicazioni fornite da quel papiro? Dimostrano che chiunque abbia scritto quel papiro ha segretamente trasgredito gli ordini di Nabucodonosor, recuperando i pezzi del Serpente di Bronzo dalla... discarica reale. E perché il gran sacerdote di Nabucodonosor, Dakkuri, avrebbe salvato i pezzi del Serpente di Bronzo? Perché così, un giorno, forse un uomo degno li avrebbe riportati alla luce, ricostruendo il Serpente, proprio come Dakkuri aveva fatto dopo che Ezechia lo aveva distrutto. E siccome Dakkuri trasgrediva gli espliciti ordini del suo re, il quale aveva appena rinnovato la propria fede in Dio, è probabile che il gran sacerdote non credesse nel Dio che è nei Cieli, bensì in qualche idolo. Oppure era convinto che il Serpente di Bronzo avesse dei poteri, molto probabilmente poteri oscuri. Se così è, nel papiro c'è un altro messaggio: chiunque troverà i pezzi del Serpente e li rimetterà insieme potrà acquisire gli stessi poteri nei quali credeva Dakkuri e che Nabucodonosor voleva cancellare. «Ma non è tutto. Sempre nel papiro, Dakkuri spiega che, oltre ai poteri speciali del Serpente, chiunque lo rimetterà insieme riceverà un premio
ancor più grande, un premio che Nabucodonosor cercava di nascondere al mondo. In qualche modo, il Serpente intero condurrà dunque all'altro oggetto che Dakkuri aveva conservato. Insomma sono convinto che, grazie al Serpente, si possa riportare alla luce la Testa d'Oro della statua di Nabucodonosor.» 35 Laura sedeva sulla panchina in cima alla collinetta che dominava il campus. Era una bella giornata; un venticello tiepido muoveva le foghe sull'erba, mentre gli storni cantavano nel boschetto di betulle dietro di lei. Insomma era il tipo di giornata nella quale ci si sorprende a sorridere senza motivo. Aspettava Shari per un pasto veloce dopo la lezione di Murphy. La tranquillità fu sconvolta da un'auto, che lei non riconobbe e che inchiodò davanti alla sua panchina. Laura si accigliò nel vedere che, alla guida, c'era Chuck Nelson, benché sapesse che quella non poteva essere la sua macchina. Doveva appartenere all'uomo pallido e magro, con gli occhiali da sole e vestito tutto di nero, che gli stava accanto. Nessuno dei due sembrava troppo contento di aver dato un passaggio a Shari, che stava scendendo dal sedile posteriore. «Grazie, Chuck. Sarai a casa per cena?» Senza rispondere, e senza nemmeno aspettare che la portiera posteriore si richiudesse, Chuck accelerò e filò via. Nonostante gli occhiali scuri, Laura aveva avuto la sensazione che lo sconosciuto l'avesse guardata come per studiarla. E fu contenta di non aver visto i suoi occhi, perché qualcosa nel suo viso e nei suoi modi l'aveva fatta rabbrividire, benché il sole fosse caldo. Ma non era l'unica a sentirsi a disagio. Non appena Shari le sedette accanto, Laura ebbe la sensazione che la giovane fosse molto preoccupata. Così, senza dire neppure una parola, si avvicinò a Shari e la strinse in un forte abbraccio. Poi, quando si tirò indietro, vide che la ragazza aveva gli occhi pieni di lacrime. Anche a Laura venne da piangere, ma si trattenne. Ripensò a tutte le volte in cui, nel suo ufficio, Shari le aveva parlato del dolore che provava ancora, benché fossero trascorsi vari anni dall'incidente automobilistico - un violento scontro fra cinque automobili, in autostrada - in cui erano morti il padre e la madre. Poi Shari aveva saputo che il padre stava guidando con in corpo quasi mezzo litro di whisky e Laura aveva fatto di tutto per aiutar-
la a superare quello shock. Grazie al lavoro e alle parole di Laura, Shari si era sforzata di superare la rabbia nei confronti del padre, prima cercando di ritrovare l'affetto che aveva sempre provato per lui e poi riconoscendo l'enorme gratitudine nei confronti di sua madre, gratitudine per tutto quello che lei era e sarebbe sempre stata. Ma, soprattutto, Laura l'aveva convinta a non respingere il fratello. Chuck si era messo nei guai dal giorno in cui aveva cominciato a camminare; all'età di sedici anni, i vicini avevano ormai smesso di scommettere su quanto gli ci sarebbe voluto prima di finire in galera. Nel corso della sua adolescenza inquieta aveva assunto coi genitori un atteggiamento che oscillava fra la torva indifferenza e l'aperto disprezzo... Shari era certa che il padre avesse fatto ricorso all'alcol per lenire il dolore, mentre la madre, col cuore spezzato, nascondeva la sua pena dietro un dolce sorriso. Quando Chuck si era reso conto che i suoi genitori se n'erano andati per sempre, aveva avuto una specie di trauma, quasi avesse improvvisamente compreso che ormai non c'era più modo di chiedere perdono. Per un breve periodo, Shari aveva addirittura pensato che quella tragedia potesse dare una svolta alla sua vita. Purtroppo, però, non appena superato il trauma, Chuck era peggiorato oltre ogni dire: alcol, risse, spaccio di droga... Impossibile dire chi volesse punire, se i genitori o se stesso. Di certo aveva imboccato il sentiero dell'autodistruzione e sarebbe stata solo questione di tempo prima che raggiungesse lo scopo. Per una ragazza ancora annichilita dal proprio dolore, vedere Chuck in quello stato era davvero troppo. Perciò, quando il giudice Johnson l'aveva spedito in galera - era stato fermato dalla polizia a bordo di un'auto rubata e piena di droga -, Shari in qualche modo si era tranquillizzata. Sapendo che lui non era più in pericolo, aveva finalmente ripreso a dormire, ma soprattutto a nutrire la speranza che le sue quotidiane preghiere per il fratello avrebbero avuto risposta. Ma il Chuck che si era ripresentato alla porta di Shari era peggio di prima. E c'era anche una preoccupazione in più: quel suo nuovo «amico». Laura aveva intuito che lo sconosciuto era la ragione per cui Shari le aveva chiesto di mangiare insieme. «L'ho appena incontrato e non l'ho neanche potuto vedere in faccia, per via di quegli spaventosi occhiali scuri e del cappello. Dal modo in cui Chuck ne parla è come se fosse una specie di padrino. Sostiene che gli fa fare lavori importanti.»
«Che genere di lavori?» «Non lo so, ma, quando lo dice, Chuck sogghigna, come se stesse preparando un grosso scherzo alle nostre spalle. Ma, qualunque cosa stiano facendo, non credo che si limitino a rubare qualche auto.» Strinse la mano di Laura. «Sono molto preoccupata, Laura. Non voglio che si faccia uccidere.» Laura gliela strinse a sua volta «Non ti preoccupare, Shari. Faremo in modo che non gli accada nulla di male.» Non aveva la più pallida idea su cosa fare, però sapeva di dover apparire fiduciosa e determinata. Shari aveva bisogno di sapere che i suoi amici erano abbastanza forti per aiutarla ad affrontare praticamente qualunque situazione. Dopo una pausa di riflessione, chiese: «Se quel tipo è un criminale, pensi che Chuck lo abbia incontrato in prigione? In tal caso, forse potremmo scoprire chi è». «Non credo. Chuck afferma di averlo conosciuto in città. E ha aggiunto che aveva avuto un problema a prelevare del denaro, e che quel tipo lo ha aiutato.» Si accigliò. «Però non vuol dirmi nient'altro.» «Perché non chiediamo a Rawley, il capo della polizia, di tenere d'occhio Chuck e il suo amico? Forse lui può scoprire qualcosa su quello che stanno combinando quei due.» «Laura, se Chuck capisse che lo faccio spiare dai poliziotti, si arrabbierebbe con me.» «Oh, Shari, sappiamo entrambe che probabilmente Chuck si arrabbierà comunque, che tu lo aiuti o no. Sei una sorella premurosa, ma non puoi subire più di tanto. Prima o poi dovrà assumersi le proprie responsabilità.» «Lo so. Io sono stata fortunata: quell'amica di mia madre che mi ha avvicinato alla religione dopo la morte dei miei genitori, Murphy, tu... Siete stati meravigliosi a prendervi cura di me.» «A proposito, che mi dici di te, Shari? Quand'è stata l'ultima volta che sei uscita con un amico... un ragazzo?» «Be', visto che me lo chiedi... Di recente ho invitato a cena Paul Wallach. Si è trasferito da poco qui a Preston ed è in classe con me, al corso di Archeologia biblica.» «Bene. E allora?» «Allora niente. Stiamo facendo conoscenza. Lui ha parecchi problemi... Il padre, che è morto alcuni mesi fa, lo aveva costretto a scegliere Economia aziendale, ma a lui non piaceva affatto.» «Perché non gli dici di venirmi a trovare?» «Oh, l'ho già fatto, Laura, specialmente perché il corso che lo entusia-
sma di più è quello di Murphy.» «Accidenti... Dalla miniera d'oro degli studi economici ai cumuli di polvere e ossa... Che salto!» «Be', tu ne sai qualcosa. Spero non ti dispiaccia se gli ho consigliato di discuterne con te.» «Dispiacermi? È per questo che sono qui. Altrimenti dovrei stare più a lungo sul campo col mio archeologo ideale.» «E non è lui che sta arrivando?» E infatti Murphy fece un giro con la sua Dodge davanti alla panchina e mise la testa fuori dal finestrino. «Signore, sareste interessate a una passeggiata nel North Woods, dove scoccherò qualche dozzina di frecce verso alberi ignari, tanto per tenermi in allenamento?» «Non credo che Shari abbia mai visto il tuo numero da Robin Hood, però noi stiamo andando a pranzo», rise Laura. «Murph, non è che stai scappando perché ti ho chiesto di tirar fuori i vestiti da dare alla chiesa, eh?» «Colpito e affondato. Lo farò più tardi.» E si allontanò a razzo prima di sentire la vibrante protesta di Laura, la quale scosse il capo e guardò Shari. «Lo vedi, con chi ho a che fare? Una volta abbiamo calcolato che Murphy sa dire 'più tardi' in dodici lingue, la maggior parte antiche quanto le sue promesse di fare i lavori di casa.» «Oh, ho strappato a Paul la promessa di venire alla riunione di mercoledì in chiesa, e gli ho detto che avrebbe potuto dare una mano a selezionare il vestiario nel seminterrato.» «Splendido. Ma ora sarà meglio andare a mangiare per mantenerci in forze. Se contiamo sugli uomini, mi sa che la cernita ci toccherà farla da sole.» Artiglio guardò Chuck con espressione minacciosa. «Ti ho detto di rallentare. Non voglio che ci fermino per eccesso di velocità.» «D'accordo, d'accordo. È solo che non guido da un pezzo. Dimmi perché andiamo fino a Raleigh per fare acquisti come ieri. Ci sono tanti negozi più vicini.» «Non voglio che qualcuno ricordi quello che abbiamo comprato.» «Perché hai voluto dare un passaggio a mia sorella? Si vede lontano un chilometro che non le piaci.» «Già, la cosa è reciproca. Ecco perché non devi dirle niente: lo riferirebbe subito ai poliziotti. Perciò acqua in bocca.» Lo sguardo annoiato di Chuck si ravvivò. «Non so nulla, perciò che le
posso dire? Ehi, amico, quando mi dici cosa stai preparando? Qualunque cosa sia, io ci sto.» Artiglio scosse il capo. «Certo che ci stai, idiota. Ora chiudi il becco e vai al centro commerciale. Dobbiamo comprare dei vestiti. Tanti vestiti.» «Vestiti? Fantastico! Mi serve un po' di roba.» «Non sono per te. Li regaliamo.» «Non capisco. Perché compriamo vestiti per poi regalarli? Dov'è il trucco?» «Non hai sentito tua sorella? Ha parlato della raccolta alla Preston Community Church.» «E allora? Mica mi farai andare in chiesa, eh?» Chuck quasi frenò, sebbene si trovassero in mezzo all'autostrada. «Che razza di stupidaggine sarebbe?» Artiglio colpì Chuck alla testa una volta soltanto, ma fu sufficiente. «Ti ho detto di stare zitto e guidare. Calmati. Questa settimana, noi due faremo una donazione speciale a quella chiesa.» 36 «Nonostante il dolore e lo smarrimento, dovevo farmi avanti e avvertire il popolo americano.» Sharie Barrington parlava davanti a decine di giornalisti. Normalmente sfuggiva l'attenzione dei media, ma stava svolgendo il suo incarico con particolare slancio. Perché era quella la più recente incombenza che gli aveva assegnato Artiglio: rendere pubblica la morte di suo figlio Arthur. Naturalmente la storia che Barrington stava raccontando era ben lontana dalla verità, per esempio non accennava affatto al modo orribile usato da Artiglio per uccidere il ragazzo. In compenso, Barrington aveva abbellito le sintetiche istruzioni di Artiglio e inventato di sana pianta la descrizione della morte di Arthur. Fissò le telecamere, chiedendosi se era il caso di far spuntare una lacrima. «Tre giorni or sono è stata recapitata al mio ufficio una richiesta di riscatto. In essa, c'era scritto che il mio unico figlio, Arthur, era stato rapito in pieno giorno nelle strade di New York. I rapitori chiedevano cinque milioni di dollari per riconsegnarmi Arthur sano e salvo... sempre che le autorità rimanessero all'oscuro di tutto. Come qualunque genitore, ero sconvolto, e il mio unico pensiero è stato di fare tutto il possibile per salvare mio figlio.» Cercando di non farsi distrarre dal ricordo di come lui fosse
rimasto assolutamente inerte mentre Artiglio assassinava Arthur, Barrington fissò le telecamere. «Senza voler mancare di rispetto ai nostri eccellenti tutori dell'ordine e allo scopo di fare quanto necessario per riavere mio figlio, ho dato istruzioni alla mia squadra addetta alla sicurezza di prendere contatto coi rapitori e pagare il riscatto. Così, ieri mattina, mi aspettavo di rivedere mio figlio vivo e vegeto... E invece gli uomini della sicurezza hanno rinvenuto il suo cadavere, orrendamente mutilato da quegli scellerati criminali.» Anche i giornalisti più cinici rimasero senza fiato alla rivelazione di Barrington. «Se mio figlio non è al sicuro in questo Paese, neanche i vostri lo sono», proseguì. «Mentre piango la perdita di Arthur, metto da parte il mio lutto così da poter impegnare tutte le mie energie e risorse personali per coadiuvare l'azione delle forze dell'ordine, allo scopo di porre fine all'incontrollato e allarmante diffondersi della violenza criminale nella nostra società. Grazie.» I giornalisti presero a gridare domande, ma lui si rivolse soltanto a quelli del suo network. «Mr Barrington! Può spiegare quale tipo di sforzo organizzerà nella sua campagna per reagire a questa ondata di violenza che ci minaccia?» Barrington diede una versione edulcorata della risposta di Artiglio a quella ovvia domanda. «Sono molte le azioni alle quali intendo dar corso, nei prossimi mesi, per la lotta dei cittadini contro la violenza nel nostro Paese. Come molti di voi, sono stanco dei politici che non fanno abbastanza.» «Mr Barrington, sta forse rivelando che intende presentarsi alle elezioni?» chiese qualcun altro. «Al popolo di questo Paese...» - Barrington fissò le telecamere - «... io faccio questa promessa. Se i politici non ci proteggono, allora metterò da parte il mio lavoro alla Barrington Communications e opererò per restituire sicurezza a questa nazione e ai suoi cittadini.» «I miei colleghi sono molto soddisfatti del nostro Mr Barrington.» Artiglio ascoltava John Bartholomew dei Sette al telefono satellitare. «Lo hai preparato bene, Artiglio. A tempo debito, sfrutteremo il tuo orribile delitto per costruire un potere politico completamente nuovo, se Barrington continuerà a obbedire agli ordini.» Artiglio sogghignò. «Se non lo farà, andrà incontro a un'incresciosa mor-
te prematura.» «Dunque, abbiamo esaminato il tuo ultimo aggiornamento sui progressi fatti a Preston. Una tua nota ha colpito uno dei miei colleghi, e si adatta molto bene a questa nuova fase riguardante Barrington.» «Cosa volete che faccia?» «Hai presente il giovane Wallach, quel giovanotto che vuole entrare nelle grazie di Murphy e della sorella del tuo tirapiedi? Be', abbiamo un piccolo cambiamento di programma per lui.» 37 Il mercoledì sera, Paul Wallach parcheggiò davanti alla Preston Community Church. Nella luce che si affievoliva, la facciata di legno imbiancato brillava in modo invitante. Il cuore sembrò mancare un battito, ma lui non sapeva se fosse perché stava per rivedere Shari o perché stava per decidere di entrare in chiesa per la prima volta. La porta era aperta, ma Paul non entrò, dirigendosi invece al seminterrato. Voleva dimostrare a Shari che era stato sincero, quando si era offerto di selezionare i vestiti. Si portò di fianco all'edificio accostandosi all'uscio di metallo che conduceva al seminterrato, lo aprì e scese la stretta scala di legno. A poco a poco i suoi occhi si abituarono all'oscurità e Paul capì di trovarsi in una stanza dal pavimento di cemento; in fondo a essa, c'erano ordinate cataste di assi di legno e alcuni scatoloni. Cercò sul muro l'interruttore e, quando lo azionò, una nuda lampadina illuminò il seminterrato, rivelando altri scatoloni e mucchi di vestiti che spuntavano da sacchi per l'immondizia. «Ehi, sono qui come volontario», chiamò. «Dove siete?» In un angolo c'era una vecchia caldaia e un passaggio a volta, che dava accesso a un'altra parte del seminterrato. Chinandosi sotto il soffitto basso, Paul si avviò da quella parte... e per poco non inciampò in un sacco di vestiti. Solo che non era un sacco di vestiti. Era un corpo. Paul s'inginocchiò e la faccia di un giovane dai lunghi capelli biondi lo fissò, cieca. Quindi Paul scorse un braccio, piegato a una strana angolazione. D'istinto indietreggiò, sbattendo la testa contro il muro, la bocca aperta per la sorpresa. Poi, respirando profondamente tornò a inginocchiarsi e
posò una mano tremante sulla carotide del giovane. Niente. Non sapeva che fare. Il suo cervello sembrava bloccato. Non aveva mai visto un cadavere prima di allora. Poi, nella sua mente, si formò un pensiero lucido, lancinante. «Shari!» Si rialzò barcollando e si guardò intorno, disperato. C'erano un tavolo d'acciaio con sopra un computer portatile, un mucchio di fili e altri scatoloni, e sotto il tavolo... Si avvicinò in fretta. Una ragazza. Non era Shari. Si sentì stringere la gola. Quel volto ovale, carino, circondato da una massa di capelli castano dorato gli era familiare. Dove l'aveva vista? Al campus? Da qualche parte in città? Cosa importava... Controlla il polso, idiota. Il polso si sentiva... Era debole, certo, però c'era. Accostò l'orecchio alla bocca di lei, sperando di avvertire un filo d'aria. «Ciao, Paul.» Rimase senza fiato. Chuck Nelson, vestito con un'ampia tuta, gli sorrideva, guardandolo dall'alto. «Chi è la tua amica? Credevo che fossi in calore per la mia sorellina. Rimarrà turbata quando lo saprà.» Scosse il capo. «E pure in chiesa, mandrillo.» «Chuck, che ci fai qui? Dov'è Shari?» Il sorriso scomparve. Chuck strinse le spalle. «Che ne so? E chi se ne frega?» Paul era combattuto: voleva dare un senso a quella strana situazione, ma anche aiutare la ragazza. «Senti, Shari mi ha detto d'incontrarci qui. Chuck, che succede?» Accostò di nuovo l'orecchio alla bocca della ragazza. «C'è bisogno d'aiuto. Hai un cellulare? Dobbiamo chiamare il 911.» «Accidenti, credo d'averlo lasciato a casa.» Chuck si stava divertendo. «Che peccato. Immagino che tocchi a te svegliare questa Bella Addormentata. Meglio sbrigarsi. Credo che se ne stia andando piuttosto in fretta.» Paul balzò in piedi e afferrò Chuck per la tuta. «Guarda che questo non è un gioco. Questa ragazza è gravemente ferita. Vai a cercare aiuto, mentre io tento di farla respirare.» Chuck si svincolò dalla presa. «Ha avuto tutto l'aiuto di cui aveva bisogno.» Fece un passo in avanti, impugnando qualcosa di scuro che aveva estratto dalla manica. «E il tuo piagnucolio comincia a seccarmi.» Paul arretrò d'un passo, sollevando una mano di fronte a sé in gesto di difesa. Almeno il cervello sembrava aver ripreso a funzionare. Se avesse
distratto Chuck per un paio di secondi, forse sarebbe riuscito ad arrivare alle scale. Si voltò di lato, cercando qualcosa da tirare in faccia a Chuck... poi vi fu un movimento rapido e qualcosa lo colpì, facendolo cadere a terra e battere la testa sul pavimento. Dopodiché per lui il mondo divenne buio. 38 Quando Murphy fermò la sua malconcia Dodge nel parcheggio davanti alla chiesa, constatò che lo spiazzo era quasi pieno. Scese dall'auto e si avvicinò alla portiera per aiutare Laura, ma lei lo scansò. «Lascia perdere, Murphy. Non vorrai dare il cattivo esempio alla comunità, eh?» Sulla porta della chiesa, con un sorriso di benvenuto, il reverendo Wagoner spalancò le braccia. «Laura, Michael... Lieto di vedervi.» Murphy lanciò un'altra occhiata al parcheggio. «Anche noi, reverendo. Pare che stasera ci sia il tutto esaurito. La promessa di hot-dog a volontà sembra funzionare.» Wagoner rise. Indossava una giacca sportiva sopra una polo verde, che rivelava un po' di pancetta, e un paio di pantaloni comodi. Il viso abbronzato spiccava per via dei radi capelli bianchi, dando l'impressione che Wagoner fosse appena uscito da un campo da golf... e così era, probabilmente. «Avevo bisogno di qualcosa che mi desse una marcia in più. In effetti, però, credo che siate voi due la ragione di questa grande affluenza. La scoperta di quel pezzo del Serpente ha incuriosito molta gente, Murphy.» «Però non mi chieda di andare sul pulpito a parlarne, Bob. Lo sa che vengo qui anche per staccare dal lavoro. Ma non mi faccia addormentare, d'accordo?» Laura gli diede una gomitata. «Non lo ascolti, Bob. È solo geloso. Ha un ottimo udito e sa riconoscere un predicatore ispirato.» «Be', grazie, mia cara. Ora mi ha messo in agitazione.» «Andiamo, Laura. Vediamo di trovare un posto in prima fila. Come la chiamano i ragazzi... la fila da sballo?» All'interno, tra le semplici panche di legno, c'era un'atmosfera di attesa. Laura e Murphy videro che Shari era seduta nelle prime file e stava cercando qualcuno con lo sguardo. Si avvicinarono a lei e Laura la abbracciò, poi notò lo sguardo preoccupato. «Che succede?» «Si tratta di Paul. Gli ho chiesto di venire qui stasera e lui mi ha assicu-
rato che sarebbe arrivato presto per aiutare col vestiario, nel seminterrato... Poi però sono rimasta bloccata in biblioteca, quindi sono venuta direttamente qui. Il suo cellulare sembra spento.» «Stiamo per cominciare... Teniamogli un posto. Se è come Murphy, probabilmente farà un'entrata teatrale all'ultimo momento, specialmente se c'era del lavoro da fare prima. Sono sicura che sarà qui a minuti.» Shari sorrise, ma dai suoi occhi la preoccupazione non scomparve. «Va bene, mi siederò qui con voi...» Se avesse dato retta al suo istinto, Artiglio avrebbe sbatacchiato il testone di Chuck contro il muro e magari così sarebbe riuscito a ottenere un po' di concentrazione. Ma aveva bisogno di lui e poco tempo a disposizione, quindi non poteva permettere che quella larva d'uomo si chiudesse a riccio e gli tenesse il broncio. Decise di trattenersi e si limitò a schiaffeggiarlo sonoramente un paio di volte. «Ehi, oh, ma che...!» «Chiudi il becco e ascolta. Abbiamo scaricato il ragazzo di tua sorella qui nel seminterrato, abbiamo sparpagliato i volantini che ho portato... Che ci rimane da fare?» Ansimando, Chuck si strofinava la guancia, senza dare ascolto ad Artiglio. Accidenti, basta un doloretto per fermarlo, pensò Artiglio. Poi sibilò: «Lo zaino, ricordi? Toglitelo, così lo posso riempire». «Va bene, va bene. Mi sta stretto sopra il giubbotto.» Chuck si sforzò di liberarsi dalle cinghie dello zaino, ma non riusciva a farle passare sopra il giubbotto della Preston University. «Allora apri la lampo», disse Artiglio, alzando gli occhi al cielo. «Non posso. È incastrata. La chiusura s'inceppa spesso.» «Come hai fatto a uscire dall'asilo?» Artiglio afferrò il giubbotto con tutt'e due le mani e tirò la lampo. Niente da fare. Allora cercò di strapparlo dalle cuciture. Fuori di sé, sollevò il braccio destro e, in un baleno, tagliò esattamente a metà la stoffa. Poi afferrò lo zaino. «Ehi, quello era l'unico giubbotto che avevo. Fa freddo stanotte», protestò Chuck. L'indice affilato tornò a colpire con violenza, stavolta trafiggendo la gola di Chuck. Poi Artiglio si spostò rapidamente di lato, lasciando che il corpo crollasse sul pavimento. «Non preoccuparti, Chuck. Dove vai tu fa caldo.» 39
Era una buona serata per la Preston Community Church, pensò il reverendo Wagoner, scrutando i volti dei fedeli che gremivano la chiesa. Sì, erano tutti silenziosi e in attesa, ma la cosa davvero bella era che quella gente poteva essere definita una comunità. Strinse il pulpito e si schiarì la gola. «Benvenuti, amici. Stasera siete venuti in tanti e questo è veramente meraviglioso. Voglio ringraziare Dio per averci qui riuniti anche se non è domenica. Molti di voi avranno già saputo della sorprendente scoperta archeologica che i nostri cari amici Michael e Laura Murphy hanno riportato dalla Terra Santa. Per quelli che ancora non sanno nulla, ecco la bella notizia. Hanno trovato un pezzo del Serpente di Bronzo di Mosè, quello che il re Ezechia distrusse, come viene narrato nel Secondo Libro dei Re, capitolo diciotto, versetto ventiquattro.» Si udirono alcune esclamazioni soffocate. Evidentemente qualcuno ignorava la notizia. «Non sono qualificato per spiegarvi il valore archeologico di questa scoperta e non lo farò. Ma le notizie sconvolgenti e allarmanti che sono giunte da New York, dal Palazzo dell'ONU, e le innumerevoli cose vergognose sul cristianesimo diffuse questa settimana dai media mi hanno convinto a parlarvi del significato che credo si possa trarre da ciò che la Bibbia ci dice sul Serpente di Bronzo.» Il reverendo Wagoner fece una pausa, e il suo sguardo sembrò posarsi su ciascuno dei presenti. «Ricorderete che gli ebrei fuggiti dall'Egitto in cerca della Terra Promessa non ebbero vita facile. Cominciarono così a porsi domande, dubitando dei progetti che il Signore aveva per loro. In poche parole, persero la fede...» Fu allora che giunse il lampo. Prima che l'esplosione lo travolgesse, Murphy ebbe il tempo di chiedersi perché mai il reverendo Wagoner stesse volando verso di loro. Poi lui stesso fu sollevato dall'onda d'urto e infine scaraventato nel corridoio tra le panche, mentre istintivamente allungava il braccio per cercare Laura. Quindi tutto sembrò accadere al rallentatore. Le vetrate policrome implosero in una pioggia color rosso e oro, e il pavimento si sollevò, rovesciando le panche e lanciando in aria le persone. I candelieri presero a oscillare violentemente, le luci tremolarono una volta e poi si spensero. Dopo, ci furono soltanto fumo, oscurità e i gemiti dei feriti. Con le orecchie che ronzavano, Murphy si rialzò e, d'istinto, si mosse a
tentoni verso le fiamme che cominciavano a salire dal grande squarcio dietro il pulpito distrutto. Per un istante ebbe l'impressione di guardare direttamente nelle profondità dell'inferno. Poi si fermò. Gli ci volle un'eternità per girare la testa verso il punto in cui era caduto. Coi polmoni riarsi dal fumo acre che invadeva la chiesa, si fece strada tra le macerie finché non trovò Laura. Le afferrò un braccio, si sentì, stringere dalle sue dita e capì che era viva. Fuori. Dobbiamo uscire, pensò, afferrando Laura e rimettendola in piedi. Non era sicuro di avere la forza per trasportarla di peso, ma poi comprese che lei riusciva a camminare. Così si mossero entrambi nella foschia in direzione della porta, scavalcando panche fracassate ed enormi pezzi d'intonaco. Aria, pensò Murphy. Aria e luce. Mentre varcavano la soglia, la frescura della notte li colpì. Con sollievo, tutti e due respirarono a pieni polmoni. Poi Murphy fece sedere Laura a terra il più delicatamente possibile e le s'inginocchiò accanto, soffiandole via schegge di legno intorno agli occhi chiusi e togliendole granelli bruciacchiati dalle guance e dai capelli. Laura tossì e aprì gli occhi: erano arrossati per via del fumo, colmi di paura e di lacrime. «Sto bene, Murphy», disse lei ansimando. «È stata un'esplosione?» «Credo di sì, ma non penso che sia saltata la caldaia. Ti sembra di esserti rotta qualcosa?» «Ho le ginocchia graffiate e il gomito mi fa un po' male... Tu stai bene?» «Probabilmente il mio aspetto è peggiore di come mi sento. Se mi prometti di stare qui a riprendere fiato, torno dentro a vedere se posso essere d'aiuto.» «Murph, certo che starò qui, ma credi che sia il caso di rientrare in chiesa? Non sappiamo cos'è successo e l'edificio sembra molto danneggiato. Chissà cos'altro può accadere. Rimani, ti prego.» «Cos'è successo non lo sappiamo, ma là dentro ci sono dei feriti e io devo assolutamente andare.» Si girò verso la chiesa. Dalle porte sgorgavano nuvole di fumo nero. Una decina di persone stava seduta o sdraiata sull'erba. Loro parevano incolumi. Ma quante ne rimanevano, dentro? Una figura minuta, coperta di polvere d'intonaco, si avvicinò a loro, barcollando. Era Shari. Murphy la raggiunse, pronto a sorreggerla, ma lei scosse la testa e lo respinse. «Paul...» mormorò la giovane con voce spezzata. «Dobbiamo trovare Paul.»
È in stato di shock, pensò Murphy. «Tranquilla, Shari, Paul non c'è, non era in chiesa.» Lei gli strinse il braccio in una morsa. «La sua auto è nel parcheggio. Dev'essere arrivato prima. È qui.» «Ma dove? Lo avremmo visto.» Lei sbarrò gli occhi. «Nel seminterrato!» Murphy le prese delicatamente le mani e le strinse fra le sue. «Va bene. Stai qui con Laura. Non ti preoccupare, lo troverò.» Tirò fuori il fazzoletto e si coprì il naso e la bocca mentre tornava verso l'inferno. Il fumo si stava diradando e, nel debole bagliore delle luci di emergenza, vide persone muoversi incespicando verso la porta, mentre altre si occupavano dei feriti. Sopra il crepitio delle fiamme e gli schiocchi, simili a spari, delle travi di legno che si spaccavano, sentì qualcuno lamentarsi. Scorse Wagoner chino su una figura accasciata e scavalcò una panca per raggiungerlo. «Bob... Grazie a Dio. Sta bene?» «Credo di avere un braccio rotto, e mi sento la testa come se me l'avessero sballottata, però sono tutto intero. Temo che non si possa dire lo stesso di Jenny», mormorò, indicando una donna di mezz'età con un vestito bianco ridotto a brandelli e striato di nero. Giaceva immobile, con gli occhi chiusi. Murphy accostò l'orecchio alla bocca della donna, poi cercò di sentirle il battito cardiaco. «Credo sia morta.» Wagoner chiuse gli occhi. «Mio Dio.» Murphy gli posò una mano sulla spalla «Qui abbiamo bisogno di aiuto, Bob.» «Ho chiamato l'ospedale. Stanno arrivando.» «Bene. Ce la fa fino alla porta?» «Io non vado da nessuna parte. Ci possono essere altre persone...» «I paramedici saranno qui a momenti e qui dentro non è sicuro. Le travi del tetto potrebbero cadere.» Sebbene riluttante, Wagoner si rialzò, incamminandosi verso l'entrata della chiesa. Poi si girò. «Michael, lei non viene?» Murphy si stava già muovendo verso il pulpito distrutto. «Arrivo subito. Prima devo fare una cosa.» E scomparve nel fumo. L'esplosione aveva aperto una grossa buca nel pavimento dietro l'altare e, attraverso le fiamme, Murphy vide brandelli di vestiti svolazzare in un guazzabuglio di metallo contorto e legno fracassato. Non aveva idea di quanto calore ci fosse laggiù e se ci fosse aria per respirare, ma riuscì a
scorgere un punto che sembrava libero dai rottami, quindi trasse un respiro profondo e saltò giù. Atterrò sulle gambe piegate, mentre le mani affondavano in un mucchio di vestiti che non avevano preso fuoco, poi si rialzò, col fazzoletto sul viso, gridando per soverchiare il frastuono del legname che crollava. «Paul! Mi senti? Paul!» Gli parve di cogliere un rumore - qualcosa di appena percettibile, ma umano - provenire dal retro del seminterrato, il punto più lontano da quello dell'esplosione. Schivando mucchi di barattoli di vernice anneriti e schedari rovesciati, si fece strada lungo il muro finché non vide una mano spuntare da sotto una montagna di scatoloni. Li spostò di lato e vide Paul. Stava raggomitolato e teneva una mano sotto il mento, come se dormisse. Murphy non aveva tempo di esaminarlo per capire se avesse qualche frattura e poteva soltanto sperare che il collo e la colonna vertebrale fossero intatti. Si piegò su un ginocchio, gli passò le braccia sotto il corpo, e si alzò vacillando. Per di là, pensò, girandosi verso il passaggio a volta. Speriamo che ci sia un'uscita. Udì un forte schianto alle sue spalle e sentì un'ondata di calore aggredirgli la nuca. Barcollò, urtando col ginocchio qualcosa di duro e quasi cadde, però ormai si trovava nella stanza principale del seminterrato e vedeva gli scalini di cemento. Con una smorfia di fatica, spostò la presa per trovare una posizione migliore sotto la spalla di Paul e posò un piede sul gradino inferiore. «Solo uno...» Mise il piede su quello successivo e spinse, sforzandosi come un sollevatore di pesi. «E... uh... un altro», grugnì. Teneva gli occhi chiusi, e si rese conto di essere arrivato in cima solo quando urtò col piede la parte inferiore della porta, producendo un rumore metallico. Armeggiando in modo da afferrare la maniglia senza abbandonare Paul, diede uno strattone. Niente. Il tempo di riempire i polmoni d'aria, poi ritentò con tutta la forza che aveva in corpo. La porta non si mosse. Forse era chiusa a chiave oppure l'esplosione l'aveva bloccata. Murphy si ritrasse, infuriato. Non aveva senso sprecare le ultime riserve di energia con quella porta. Doveva tornare da dov'era venuto, sperando che il fuoco non avesse invaso tutto. Magari poteva ripassare attraverso il buco nel pavimento prima che l'intera struttura crollasse... Stava per voltarsi e ridiscendere le scale quando udì uno stridente frastuono metallico. Un'ondata d'aria fresca lo travolse mentre la porta veniva scardinata. Si ritrovò a faccia a faccia con un giovane vigile del fuoco.
«Bene, Mr Murphy», disse quello, tendendo le braccia verso Paul. «Vi tiriamo fuori da questo inferno.» Due infermieri sollevarono Paul di peso e lo adagiarono su una barella. D'un tratto, Murphy sentì le braccia diventare leggere e tutti i suoi muscoli rilassarsi all'unisono. Cadde in ginocchio, chiuse gli occhi e stava per ringraziare Dio per essere riuscito a salvare Paul, quando un pensiero lo trafisse come un improvviso colpo alla tempia. Paul sembrava morto. 40 Quando su Preston cominciò ad albeggiare, gli automezzi dei vigili del fuoco e le ambulanze se n'erano ormai andati, lasciando davanti alla chiesa soltanto un gruppetto di auto della polizia. L'agente dell'FBI Burton Welsh alzò il bavero dell'impermeabile per ripararsi dal freddo mattutino e respirò l'odore nauseante della cenere bagnata. La struttura portante di legno era ancora intatta, il campanile torreggiava orgoglioso contro il cielo sfumato di rosa, ma ci sarebbe voluto un bel po' prima che, in quel guscio annerito, gli inni tornassero a risuonare. Dato che la natura dell'esplosione non era stata accertata, l'ipotesi più probabile era che si fosse trattato di una bomba. Così era stata chiamata l'FBI di Charlotte e Hank Barnes era tornato a Preston per svolgere qualche ricerca preliminare nel seminterrato della chiesa. Avendo trovato materiale sospetto, però, Baines si era subito rivolto a Welsh, distogliendolo dalle indagini sul fatto avvenuto alle Nazioni Unite. Giunto alla Preston Community Church, Welsh trovò ad attenderlo Rawley, il capo della polizia, che gli disse: «Il suo uomo è nel seminterrato». «Il numero dei cadaveri è cresciuto, nell'ultima ora?» «Sì, ne abbiamo rinvenuto un altro. Ancora non sappiamo chi sia... Probabilmente si trovava proprio nel punto dell'esplosione. A lui vanno aggiunti i due morti nel seminterrato e i due rinvenuti nella chiesa. Cinque vittime... È un miracolo, anche perché ieri sera la chiesa era piuttosto affollata. Non ci sono neppure molti feriti veramente gravi, a parte quel ragazzo estratto dal seminterrato, Paul Wallach.» «Come sta?» «Secondo le ultime notizie non ha ancora ripreso conoscenza.» «Be', mettiamoci al lavoro.» Welsh seguì Rawley lungo i gradini del seminterrato. Sebbene gran parte dell'acqua fosse stata pompata fuori,
mentre camminavano verso il punto dell'esplosione, i loro piedi affondarono in una poltiglia di ceneri fradice. Si fermarono vicino ai resti bruciacchiati e contorti di un tavolo di metallo, di cui erano rimaste solo le gambe. Sedie pieghevoli, che nello scoppio si erano fuse e parevano sculture moderne, erano sparse in giro, insieme con una quantità di utensili meccanici in frantumi. Welsh si chinò a osservare il piano del tavolo: i segni delle bruciature incisi sulla superficie erano inconfondibili. Anche Baines stava esaminando quei segni. «Salve, Baines. Ottimo lavoro, quel rapporto telefonico.» «Agente Welsh... Piacere di rivederla, signore. Quantico sembra così lontana. Che ne pensa? Avevo ragione?» Rawley aggrottò la fronte. «Ragione su cosa? Sull'esplosivo?» Welsh sbuffò. «Un disastro del genere non è stato sicuramente provocato da una fuga di gas.» «Pensa che abbiano usato del C-4?» chiese Rawley, per dimostrare che non era un semplice poliziotto di campagna. «No, del C-10. Lo si capisce da queste striature verdi.» Welsh esaminò il pavimento intorno al tavolo. «Vediamo che altro c'è.» Si chinò accanto a una busta da supermercato e tirò un filo penzolante. «Accidenti.» Esaminò attentamente alcune bobine di cavo telefonico, quindi portò alla luce un paio di detonatori e mimò l'inserimento delle sonde appuntite in un blocco di esplosivo al plastico. Rawley rimase a bocca aperta, mentre Welsh, continuando a rovistare, recuperava una scheda elettronica bruciacchiata e gli involucri semifusi di due cellulari di ultima generazione. Quindi prese di tasca una busta di plastica per la raccolta delle prove e c'infilò i resti dei telefonini. «Barnes, dica al laboratorio di cominciare subito a lavorare su questi. Non sono un tecnico, ma o la gente di qui lascia nelle tasche dei vestiti vecchi roba molto strana, oppure questa non è una 'semplice' raccolta d'indumenti.» Rawley assunse un'aria sdegnata. «Non posso negare l'evidenza, ma le dico che è impossibile.» «Finora ogni indizio che ho visto qui punta in un'unica direzione. Qualcuno ha usato la chiesa come fabbrica di bombe. Perlomeno lo ha fatto ieri sera.» «Welsh, le ripeto che è impossibile. Conosco bene questa gente. È dinamitarda come lei e me.» L'agente Welsh gli lanciò un'occhiata come per dire che era un argomento poco convincente. «E non si è nemmeno trattato di un'operazione da
quattro soldi. Non stavano preparando petardi.» «Allora lei crede che questo C-10 del cavolo non sia scoppiato accidentalmente?» «Certo, i terroristi si fanno sempre saltare in aria. Fa parte del gioco.» «Terroristi. Non posso neanche credere di aver pronunciato questa parola. Non qui a Preston.» «Oggigiorno i terroristi possono essere ovunque. Si guardi intorno: c'è un intero bazar di roba in grado di provocare un'esplosione... anzi più di una. Mi sembra improbabile che un terrorista abbia piazzato una bomba qui dentro. Ma può anche darsi che alcune persone - quelle per le quali lei metterebbe la mano sul fuoco - si siano divertite a giocare al 'piccolo terrorista', facendo così saltare il seminterrato. Succede abbastanza spesso, specialmente se sono veri dilettanti, quelli che si gingillano con roba del genere.» Poi scorse qualcosa sul pavimento e si chinò a raccoglierlo. Era un volantino bruciacchiato. Welsh lesse ad alta voce: «E TU, SARAI ESCLUSO?» «Per quel che vale, il reverendo Wagoner sostiene di non aver mai visto questo volantino né gli altri.» Baines indicò i pacchi di volantini e di opuscoli zuppi d'acqua. «Davvero? Cominciavo a credere di esser l'unico in America non incluso nell'elenco dei destinatari di queste frottole religiose. Tuttavia, a quanto pare, il reverendo avrebbe dovuto controllare il suo seminterrato un po' più spesso. Morti e feriti sono tutta gente del posto?» «A quanto mi risulta, sì. Tranne il ragazzo, Paul Wallach. Frequenta l'università, ma non so da dove venga.» «Mi dica una cosa, Rawley... In una piccola università di provincia come questa ci sono molti personaggi eccentrici, strani o con manie di grandezza? Scommetto di no e scommetto pure che lei non conosce questo Paul Wallach. Chi ci dice che non sia venuto qui per fare un po' di casino?» «Be', so è che è amico di Shari Nelson, una studentessa che lavora per Michael Murphy. È una bravissima ragazza... Non riesco neppure a immaginare che sia coinvolta in qualche frangia di fanatici.» «Frangia... Che termine singolare. Miss Nelson frequentava la chiesa?» «Sì, certo. Ma non penserà sul serio che Shari o qualcun altro di noi possa aver fabbricato bombe quaggiù, vero?» «Finché non ricostruiamo ogni movimento di questa roba e non troviamo il responsabile, l'unica persona non indiziata sono io... e soltanto perché questa è la prima chiesa in cui metto piede da quando avevo quindici
anni.» 41 Artiglio preferiva agire da vicino, guardare in faccia le sue vittime. Era più elegante e più rischioso. Inoltre il terrore che li pervadeva poco prima di essere squarciate era uno spettacolo indimenticabile. Ma ricavava anche un immenso piacere dal vedere in azione i falchi che aveva addestrato per lunghi anni. Adorava la loro precisione letale. Invece le esplosioni - anche con quelle nuove, sottili bombe ad altissimo potenziale - producevano soltanto un gran casino. L'esplosione di quella sera, però, era stata magnifica. Nascosto nel parcheggio, Artiglio si era proprio goduto lo spettacolo. Lo zaino conteneva abbastanza materiale deflagrante da far crollare metà edificio, benché quel materiale fosse contenuto in un foglio di plastica che sembrava un portatessera laminato. E c'era altro esplosivo nelle borse che lui e Chuck avevano piazzato in giro nel seminterrato, ma l'FBI non ci avrebbe messo molto a capire che erano lì soltanto per far scena. Artiglio era soddisfatto: aveva scatenato un vero inferno e ammazzato un po' di gente. Tutto il contrario di quel lavoretto a New York, così semplice e innocuo. E poco male se quell'idiota di Chuck non era lì ad assistere al risultato delle loro manovre. Artiglio aveva infilato il C-10 nello zaino soltanto dopo aver ucciso Chuck - sarebbe stato troppo rischioso farlo prima -, poi aveva messo lo zaino col timer sulle spalle del cadavere, si era assicurato che Paul Wallach si trovasse lontano dal centro dell'esplosione il ragazzo doveva sopravvivere al violento scoppio - e infine si era allontanato dal seminterrato. Caos e paura: ecco gli strascichi di quella serata. Terrore in una cittadina, non una grande città, e oltretutto in una chiesa. Ben presto, l'FBI avrebbe capito che non era stata un'esplosione accidentale in una fabbrica di bombe allestita in un seminterrato da un gruppo di cristiani evangelici. Proprio come ormai era chiaro che quella scritta sul Palazzo di Vetro non poteva essere opera di una cellula terroristica intenzionata a far saltare in aria le Nazioni Unite. Avrebbero ritrovato e identificato i resti del fratello di Shari, esaminato il legame tra la giovane, Murphy, gli altri membri della chiesa e Paul Wallach - il quale sarebbe stato subito etichettato come un provocatore giunto apposta a Preston -, generando così una valanga di articoli e di servizi tele-
visivi che sarebbe durata giorni interi. Si sarebbero anche chiesti chi era quell'uomo misterioso che era stato visto insieme con Chuck. Ma quando l'FBI si fosse reso conto che le «prove» rinvenute nella fabbrica di bombe erano soltanto una messinscena, ormai l'attenzione dei media sarebbe stata altrove. A tutto ciò avrebbe fatto seguito un periodo di chiacchiere e confusione, e la gente comune avrebbe soltanto conservato il ricordo dell'esistenza di una massa di pazzi evangelici dei quali aver paura. Niente male, per essere il lavoro di una sera. Poi Artiglio rammentò una cosa. Chuck, quel miserabile fallito, era riuscito a rovinare le cose anche da morto! Gli venne in mente il giubbotto, la lampo incastrata e il fatto che lui aveva dovuto tagliare la stoffa per levarglielo di dosso. Quel giubbotto era caduto a terra e Artiglio, troppo impegnato a sistemare le ultime cose prima dell'esplosione, aveva dimenticato di raccoglierlo. Ma in una tasca di quell'indumento c'erano le chiavi dell'auto, che avevano le sue impronte; inoltre era quasi sicuro di aver visto Chuck che s'infilava in tasca l'ultima lista della spesa. Le possibilità che il giubbotto fosse ancora intatto e che l'FBI riuscisse a rintracciarlo da ciò che era rimasto in quelle tasche erano minime... ma sufficienti da innervosire Artiglio. Doveva tornare indietro. Per fortuna, considerato l'andirivieni delle squadre di soccorso, non sarebbe stato troppo difficile. Artiglio varcò quella che un tempo era la porta del seminterrato. In quel mentre, Laura Murphy girava l'angolo del fabbricato, diretta verso la Dodge. Teneva sempre nel bagagliaio dell'auto bevande in abbondanza, la cassetta del pronto soccorso, coperte e altre provviste, nel caso lei e Murphy avessero deciso improvvisamente di fare un'esplorazione. Studiò la figura che stava entrando nel seminterrato: non sembrava un soccorritore, né certamente era un membro della chiesa. E non era neanche uno di Preston... però non si trattava di una faccia nuova. Era quel tizio sgradevole che lei aveva visto col fratello di Shari. Laura dimenticò le provviste e decise di seguire l'amico di Chuck. Voleva capire perché fosse sceso nel seminterrato. Poi un'idea la colpì, lasciandola inorridita. Ma...? Era mai possibile che quello sconosciuto e il povero, collerico, smarrito Chuck fossero coinvolti nell'esplosione? Benché le ginocchia ferite le dolessero, Laura scese i gradini del seminterrato. Poi udì un rumore nell'oscurità e si mosse zoppicando in quella direzione, pensando che il dolore alle gambe non le sarebbe passato molto presto... Un pensiero che fu subito cancellato da un dolore più intenso,
molto più intenso, che la attraversò come un'ondata. Un paio di mani incredibilmente forti le afferrò il braccio e la gola nell'oscurità. «Salve, Mrs Murphy. Dev'essere la sera della tombola in chiesa, perché ho appena vinto il primo premio.» La voce era roca. «Non posso far nulla a suo marito, dato che ci è ancora utile. Però nessuno mi ha detto che lei è necessaria. E, senza di lei, con più tempo a disposizione, forse suo marito lavorerà più in fretta.» Laura non sapeva cosa intendesse quel pazzo, ma non riusciva a parlare tanta era la pressione della mano sulla trachea. Artiglio decise che avrebbe fatto a meno del rasoio. Il risultato sarebbe stato lo stesso. Laura Murphy guardò Artiglio dritto negli occhi, rifiutando di dargli la soddisfazione di distogliere lo sguardo, sebbene fosse sgomenta all'idea di trovarsi al cospetto del male allo stato puro. Cominciò a pregare in silenzio e non mostrò nessun timore. 42 Rawley li fece entrare nella stanza degli interrogatori della stazione di polizia, che si trovava vicina alla chiesa, e indicò tre sedie sistemate su un lato del tavolo di metallo inchiavardato al pavimento spoglio. «Mi spiace non poter usare il mio ufficio, ma non credo saremmo stati comodi con tutto questo...» Indicò i due scatoloni al centro del tavolo. Dall'altro lato, Baines si alzò e, con aria impassibile, disse: «Reverendo Wagoner, professor Murphy...» Strinse la mano a ciascuno poi si risedette, puntando lo sguardo sugli scatoloni. Rawley li fece accomodare. «Come va il braccio, Bob? Lo sa, la gente dice che è un miracolo che lei sia vivo.» Wagoner fece una smorfia mentre si sedeva con cautela e sistemava il braccio ingessato. «Non sento granché, a essere sincero, Ed. Lo stesso si può dire della mia testa.» Si sfiorò il bendaggio sulla fronte. «Secondo Alma, il buon Dio sapeva cosa faceva quando l'ha creata di acero massiccio.» «E lei come va, Murphy?» «Oh, sto bene, Ed. Solo qualche ferita e alcuni lividi. Immagino che ci sia un po' di acero anche dentro di me.» Con un sorriso teso, Rawley si mosse, accostandosi a Welsh. Sembrava
riluttante a occupare la sedia vuota accanto a lui, come se volesse prendere le distanze da ciò che stava per accadere. «Noi siamo stati fortunati», disse Wagoner. «Quattro nostri cari amici sono morti. In più ci sono quel cadavere non ancora identificato e quel poveretto, Wallach, in coma...» La sua voce si affievolì. «Ma cominceremo la ricostruzione non appena possibile. E allora torneremo in quella bella chiesa, a lodare di nuovo il Signore.» «Niente ricostruzione per ora, reverendo», replicò Welsh in tono freddo. «Al momento la sua chiesa è considerata scena del delitto.» «Non capisco.» «Non si è trattato di un'esplosione accidentale. La vecchia caldaia è una delle poche cose non danneggiate dallo scoppio.» «E allora cos'è stato a provocarla?» Welsh lo fissò. «Speravo che me lo dicesse lei.» Murphy balzò in piedi, sporgendosi sul tavolo. «Cosa sta insinuando? Bob là dentro ha rischiato di morire.» Welsh non batté ciglio. Attese che Murphy tornasse a sedere, poi sollevò il lembo di uno scatolone. «L'esplosione è stata causata da una bomba. Esplosivo al plastico. E abbiamo trovato detonatori e varia attrezzatura per la costruzione di altri ordigni. Il seminterrato della sua chiesa è stato utilizzato come fabbrica di bombe, reverendo. I suoi parrocchiani costruivano bombe», dichiarò. Poi tacque, rimanendo a osservare Wagoner, che era impallidito, palesemente sconvolto dalla notizia. «È assurdo», disse Murphy. «Perché i membri di questa chiesa dovrebbero fabbricare bombe?» Welsh si grattò il mento con fare perplesso, come se non si fosse mai posto quella domanda. «Forse per far saltare l'ONU?» «L'ONU? Di cosa sta parlando?» «Quel ragazzo che hanno tirato fuori dal seminterrato, Paul Wallach, non è di qui, vero? Lo so, si suppone che sia uno studente, però mi risulta che frequenti l'università da poco, giusto?» «Cosa sta insinuando? Che Paul Wallach è in qualche modo responsabile dell'esplosione? È una pazzia. È solo un ragazzo.» Welsh sorrise, acido. «So per esperienza che i ragazzi fanno le cose più strane. Specialmente quando cadono sotto l'influsso di certi fanatici.» E pronunciò l'ultima parola come se stesse sputando qualcosa di sgradevole. Murphy si alzò di scatto. «Fanatici? E lei, Welsh, chi è, il McCarthy dei
federali? Vede complotti ovunque... Fanatici come chi?» «Come quelli che credono che le Nazioni Unite siano malvagie. Come i cristiani evangelici, per esempio.» «Non crediamo che le Nazioni Unite siano malvagie», lo interruppe Wagoner. «Anzi siamo convinti che facciano un buon lavoro: mantengono la pace in certi Paesi del Terzo Mondo dove altrimenti regnerebbe il caos, portano aiuti umanitari, si adoperano per avviare programmi sanitari e così via. Nutriamo una certa diffidenza sui loro sforzi di promuovere la globalizzazione unendo tutte le religioni a prescindere dalle loro fedi, e raccogliendo i governi del mondo sotto un'unica entità.» «Sta dicendo che si oppone al raggiungimento della pace mondiale attraverso l'unità globale?» «In passato ogni tentativo di affermare una religione o un governo mondiale è sfociato in un regime totalitario, causando la morte d'innumerevoli cittadini innocenti. Dobbiamo imparare dalla storia. Da solo, l'uomo è incapace di portare la pace su questo pianeta. E questo mondo non vedrà mai la pace finché Cristo stesso non giungerà a costruire il Suo Regno. La Bibbia è molto chiara al proposito.» «E forse qualcuno dei vostri ha pensato che qualche bomba poteva accelerare le cose.» «I nostri? I cristiani evangelici non sono dei dinamitardi, agente Welsh», replicò Wagoner, sbalordito. Welsh gli puntò il dito contro. «E che mi dice di quelli che gettano bombe nelle cliniche che si occupano di pianificazione familiare? Che uccidono i medici che praticano gli aborti? Sono cristiani o no?» «Non per me», rispose Wagoner con forza. «Sì, togliere la vita a chi non è ancora nato è una cosa terribile, ma rispondere con un altro omicidio è ugualmente terribile. La comunità cristiana si oppone all'assassinio.» Fino ad allora, Baines era rimasto in silenzio, ma a quel punto non riuscì più a trattenersi. «Signore, so di venir meno al mio dovere, però devo parlare», disse, rivolto a Welsh. «Non pretendo di conoscere tutti i fatti relativi a questa esplosione, e di certo alcune prove circostanziali rendono molto probabile l'ipotesi che, in quel seminterrato, stesse succedendo qualcosa di strano. Però io questa gente la conosco. Non queste persone in particolare, ovvio, ma conosco chi frequenta la chiesa in una comunità, perché anch'io appartengo a una comunità analoga. Conosco i loro cuori... Le assicuro che non potrebbero mai essere terroristi, dinamitardi o assassini per nessuna causa, per quanto giusta. Vede, qui a Preston è successa una cosa terribile.
Ci sono stati morti e feriti. E tutti vogliono sapere perché. Noi vogliamo sapere perché. Il professor Murphy ha rischiato la vita per salvare qualcuno. E questa sarebbe l'azione di un fanatico assassino? Il reverendo Wagoner è stato fortunato a non rimanere ucciso nell'esplosione. Insomma, non sono queste le persone cui dovremmo dare la caccia. So che si tratta di una sensazione, e non di una prova, ma talvolta dobbiamo cercare prove più consistenti di quelle che sono sotto i nostri occhi, no?» Welsh rivolse a Baines solo uno sguardo iroso, ma non ebbe la possibilità di replicare, perché, in quell'istante, Laura Murphy entrò incespicando nella stanza, con un'aria di profonda sofferenza stampata sul viso. Guardò davanti a sé per un istante, con gli occhi sbarrati, come se cercasse le parole giuste per comunicare qualcosa. Poi Murphy, inorridito, vide i suoi occhi rovesciarsi all'indietro e l'intero corpo afflosciarsi, come se lei fosse una marionetta cui avessero tagliato i fili. Laura protese una mano per sorreggersi, e Murphy la prese tra le braccia, mentre la sua sedia cadeva rumorosamente al suolo. «Chiami un'ambulanza!» urlò a Barnes. «Subito!» 43 Per la seconda volta in poche settimane gli dei della fortuna giornalistica le sorridevano, aveva pensato Stephanie Kovacs. Aveva deciso di trascorrere la serata in albergo, concentrandosi sulla sua ricerca. Il giorno dopo, sarebbe andata in giro per Preston, cercando altre informazioni sul professor Michael Murphy. Poi aveva sentito l'esplosione e, mentre si apprestava a chiamare sul cercapersone il suo cameraman, era stata raggiunta dalla telefonata del direttore nazionale della BNN. Dopo meno di un'ora dall'esplosione, aveva già mandato in onda il primo servizio. Erano poi arrivati in massa gli altri giornalisti, però lei era sempre stata un passo avanti a loro, grazie alle sue iniziative personali e alle soffiate dagli uffici di New York e Atlanta. E adesso - il giorno dopo la tragedia - era pronta per la prossima esclusiva. «Stephanie Kovacs, BNN, in diretta dall'orribile esplosione alla Preston Community Church di Preston, North Carolina. Mentre continuano la disperata ricerca delle vittime e l'accertamento dei danni, cominciano a emergere realtà preoccupanti. La notizia più sconvolgente è che non si tratta di un attacco terroristico a una comunità di fedeli innocenti, ma piuttosto di un incubo. Un incubo terribile, che coinvolge tutti i cittadini del nostro
Paese. Contrariamente alle prime notizie, che parlavano della chiesa come bersaglio di una bomba terrorista, le prove emerse dimostrano che la realtà è ben più terribile e meschina. Alcune fonti hanno infatti rivelato alla BNN che l'esplosione è stata provocata da una fabbrica di bombe nel seminterrato... Una fabbrica che è costata la vita a quattro membri di questa congregazione molto unita. Le stesse fonti hanno anche suggerito che gli indizi trovati tra le macerie, qui a Preston, siano collegati a un altro recente attacco terroristico.» Fece una pausa a effetto, come se avesse bisogno di ricomporsi prima della rivelazione cruciale. «Sebbene le autorità non abbiano ancora reso dichiarazioni ufficiali, ci è stato detto che alcuni membri del gruppo terroristico di questa chiesa avevano legami con Farley il Fanatico... Sì, stiamo parlando dell'uomo che la polizia sta ancora cercando, nel tentativo di chiarire quale ruolo abbia avuto nel recente attacco al Palazzo dell'ONU a New York. Ma la notizia più allarmante è un'altra: sembra che materiale simile a quello ritrovato nella casa di Farley il Fanatico - da dove, ricorderete, vi davo notizie pochi giorni fa - sia stato rinvenuto anche qui, nel seminterrato della Preston Community Church, a pochi metri da dove mi trovo. Tale materiale includerebbe pubblicazioni religiose, opuscoli di carattere evangelico e indizi che l'esplosione di una bomba all'ONU era un'agghiacciante possibilità. Una possibilità ancora valida, forse a opera di membri sopravvissuti della cellula terroristica, il cui complotto ha avuto un esito terribile, stasera in questa chiesa.» Con riluttanza, distolse lo sguardo dalla telecamera per rivolgersi a un uomo alto, un po' calvo, che indossava una polo nera e una giacca sportiva marrone. «Qui con me c'è il dottor Archer Fallworth, preside della facoltà di Studi umanistici della Preston University. Sono molti gli studenti e i docenti dell'università che frequentano questa chiesa...» Esibì un sorriso sincero e che intendeva mostrare il suo rammarico. «Grazie per averci concesso qualche minuto in questa circostanza così tragica, preside Fallworth.» Fallworth sembrò sul punto di replicare: «Ma è un piacere...» però si trattenne e annuì, stringendo le labbra. «Preside, siamo tutti sconvolti per queste rivelazioni: membri di una congregazione religiosa che fabbricano bombe e che forse sono legati a terroristi decisi a sferrare un attacco... Può gettare un po' di luce su quello che sta accadendo? Secondo lei, c'è un senso in questi avvenimenti?» Il preside Fallworth alzò lo sguardo con espressione compunta. «Non sono certo di poter spiegare ciò che è accaduto qui a Preston, Stephanie, e
ignoro se esista qualcuno in grado di farlo. Quando un gruppo di fanatici uccide brutalmente persone innocenti, credo che noi tutti... io...» Scosse il capo, evidentemente sopraffatto dall'emozione. Stephanie decise di trarlo d'impaccio. «Parlando di fanatici, preside Fallworth, cosa intende esattamente? Chi sono queste persone? Qual è il loro programma?» Fallworth si schiarì la voce. «Be', insegno in questa università da un bel po' di anni, e devo ammettere che, negli ultimi tempi, sono stato testimone di alcuni cambiamenti inquietanti.» Preoccupata, Stephanie corrugò la fronte. «Che genere di cambiamenti?» «Qui c'è sempre stata una forte presenza evangelica. Niente di anormale in questo, ovvio. Ma penso che gli elementi estremisti - fondamentalisti evangelici, se vuole - stiano gradualmente assumendo il controllo. E temo che simili personaggi siano all'origine della tragedia che ci ha sconvolto.» «Ovviamente lei conosce queste persone. In cosa credono, esattamente? E se quello che ci viene detto è vero - sebbene io, come molti nostri telespettatori, trovi difficile accettarlo - perché scelgono come bersaglio istituzioni come l'ONU?» «Stephanie, in qualsiasi cosa credano - nella prossima fine del mondo, nel Secondo Avvento o in qualsiasi altra cosa - semplicemente non accettano che lei o io possiamo avere un punto di vista diverso o una fede diversa... perfino una diversa fede cristiana. Questa è la cosa importante.» «Dunque cosa stanno cercando di fare? Di convertirci al loro credo a forza di bombe?» Fallworth le rivolse il sorriso condiscendente che era ben noto ai suoi studenti. «Ben detto, Stephanie. Sì, le cose stanno esattamente in questi termini.» E il titolo delle prime pagine di domani è fatto, pensò Stephanie. «Stephanie, il benessere dei nostri studenti è la mia principale preoccupazione. Dobbiamo impedire che qualcuno li influenzi in modo negativo o pericoloso.» «Secondo lei, Paul Wallach, il ragazzo in coma, è stato influenzato in tal modo?» Lui piegò il capo. «Tragicamente, credo di sì.» «E ha idea di chi possa essere responsabile della trasformazione di uno studente così dotato in un presumibile fanatico assassino?» Il preside ebbe un attimo di esitazione. Forse quella giornalista l'aveva forzato un po'. Ma ormai non poteva tirarsi indietro.
Avanti, pensò lei. Sai cosa devi fare. E hai una voglia matta di farlo. «Mi addolora profondamente doverlo dire, ma credo che uno dei membri della nostra facoltà sia il principale portavoce di questo pernicioso movimento.» Fece una smorfia, come a dimostrare l'intensità del suo sconforto. Stephanie gli avvicinò il microfono, come se fosse un pungolo. «Il professor Michael Murphy», disse Fallworth. Fingendo di essere sorpresa e inorridita, Stephanie chiese: «Quale materia insegna il professor Murphy?» «Archeologia biblica», rispose il preside col tono che avrebbe usato per nominare una malattia. «Almeno è ciò che ha fatto sino a oggi.» Si voltò, guardando la telecamera. «Nell'interesse degli studenti, raccomanderò al consiglio universitario la sospensione del professor Murphy almeno fino alla conclusione di un'opportuna inchiesta interna.» 44 Murphy si accoccolò sul pavimento dell'ambulanza e tenne Laura per mano, mentre un paramedico le metteva una flebo nel braccio e l'altro la avvolgeva nella coperta termica, chiedendo: «Ha avuto un collasso?» Le ultime ore gli sembravano come circondate dalla nebbia. Riusciva a malapena a pensare. «Sì, era in chiesa quand'è scoppiata la bomba. C'eravamo tutti e due. Però le avevano detto che stava bene. Solo qualche livido, niente di grave.» Mentre l'ambulanza schizzava lungo la Route 147, il paramedico si mise in contatto con l'equipe in attesa al centro traumatologico. Quando ebbe finito, avevano già lasciato la strada principale e imboccato a sirene spiegate quella che, attraversando il campus, conduceva all'ospedale. Murphy premette la mano fredda sulla guancia di Laura, mormorando: «Tieni duro, tesoro». Si fermarono con uno scossone. Quindi i paramedici fecero scorrere la barella sull'asfalto e la spinsero verso il centro traumatologico, come l'equipaggio di un bob che prende lo slancio. Le porte automatiche si aprirono e si chiusero come una bocca affamata, permettendo loro di entrare nella zona dell'accettazione, dove la squadra di pronto intervento circondò immediatamente la barella, coi carrelli d'acciaio satinato degli strumenti già pronti. Le vennero inseriti altri aghi endovenosi e fu collegata a un monitor per il controllo dei parametri vitali, che un'infermiera prese a leggere ad alta
voce, comunicando ai medici i dati sul battito cardiaco e sulla pressione arteriosa. E intanto la barella sfrecciava verso una serie di porte sulle quali era scritto: RISERVATO AL PERSONALE CENTRO TRAUMATOLOGICO. Murphy fu risucchiato nella scia e cercò di non perdere di vista il volto di Laura, mentre l'equipe medica le si affannava intorno. Poi la barella urtò le porte e una mano lo fermò con delicatezza. «Mi spiace, ma deve aspettare qui. La aggiorneremo sulle condizioni di sua moglie non appena avremo altri dati.» Murphy mormorò un ringraziamento e l'infermiera scomparve dietro la barella. Udì per un attimo l'incalzante passo dei medici, poi le porte si richiusero e lui rimase solo. «Professor Murphy, che succede? Cosa ci fa qui?» Shari aveva gli occhi rossi di pianto. «Si tratta di Laura. Ha avuto un collasso. C'è qualcosa che non va, però non sanno cos'è. Io...» La voce gli si spense. Shari crollò su una sedia e portò la mano alla bocca. «Oh, no. Oh, no. Anche Laura, no.» Murphy avvicinò la sua sedia e le passò un braccio intorno alle spalle. «Anche Paul è lì dentro, vero?» chiese, guardando verso la porta. Lei annuì, singhiozzando in silenzio. Rimasero così, Shari col capo sulla sua spalla, non sapendo cos'altro fare se non pregare in silenzio. I minuti passarono e Murphy perse ogni cognizione del tempo... Cominciò a discutere con Laura su qualcosa, poi lei si mise a ridere, e il cuore di lui ebbe un sobbalzo perché lei stava bene... Quindi lui si rese conto che stava sognando e si svegliò con un sussulto. Al suo fianco c'era il dottor Keller. «Nessun cambiamento nelle condizioni di Paul. Ma non ne aspettiamo, per ora», disse il medico, rivolto a Shari. Poi si girò verso Murphy. «Laura è stabile, ma purtroppo ignoriamo ancora il motivo del collasso. Sembrerebbe che qualcuno, dotato di una forza spaventosa, abbia cercato di schiacciarle la trachea. Stiamo facendo tutto il possibile e continueremo a farlo, ma, ora come ora, devo dirle che Laura sta... perdendo terreno.» Shari emise un respiro strozzato e Murphy istintivamente le strinse ancor più il braccio intorno alle spalle, sebbene fosse lui ad avere un disperato bisogno di conforto. Poi si alzò e tese a Keller una mano ferma. «Grazie, dottore. So che state facendo tutto ciò che potete. E altrettanto faremo noi.»
Keller gli strinse la mano e annuì gravemente prima di tornare nel centro traumatologico. Era una cosa strana, per lui, non aver trovato parole da dire a quell'uomo. Murphy si accorse che gli occhi di Shari erano profondamente segnati dalla stanchezza. «Vieni, sono sicuro che abbiamo bisogno tutti e due di un po' d'acqua o di un caffè. Dobbiamo pregare, pregare molto.» 45 Parecchie ore dopo, Murphy entrò nella stanza di Laura e le strinse la mano. Nonostante il respiratore, le flebo e i macchinari che la circondavano, sembrava la principessa di una fiaba. La sua pelle era bianca come porcellana e le labbra erano incredibilmente livide. Il sonnifero che le avevano dato era molto forte, però, guardandola, Murphy si accorse che le ciglia fremevano, indicando che era ancora lì, che stava lottando per uscire dalla sua prigione. Credette di aver sentito qualcosa oltre al sibilo del respiratore... un gemito di protesta, come se lei dicesse: «Per favore, qualcuno mi tiri fuori di qui...» ma non si poteva più fidare dei propri sensi. Si chinò e le baciò dolcemente la fronte. «Ehi, sono qui. Non preoccuparti. Andrà tutto bene.» Abbassò lo sguardo e fu sorpreso di vedere che stringeva nella mano una bustina trasparente con gli effetti personali di Laura. Doveva avergliela data il dottor Keller e lui non se n'era neppure accorto. C'era il sottile anello nuziale d'oro, l'orologio da polso, gli orecchini di perla, le chiavi. E la piccola croce di legno con la sua cordicella. Murphy immaginò di uscire dall'ospedale reggendo quella busta e le lacrime gli velarono immediatamente gli occhi. «Non mi lasciare, tesoro. Ti prego, non mi lasciare...» Sentì aprirsi la porta e provò una fitta d'imbarazzo, poi pensò: Che sciocchezza... per loro è ordinaria amministrazione. Ma non era l'infermiera. Sulla porta, c'era una donna dai capelli rossi. Indossava un lungo soprabito nero, troppo grande per lei, e guardava oltre lui, verso Laura, con un'espressione di tristezza infinita. «Mr Murphy...» esordì la donna con voce tremante. Aveva un accento cadenzato e familiare, però Murphy non lo riconobbe. «Sono Iside McDonald.» Il suo sguardo incrociò brevemente quello di Murphy, poi tornò su Laura. «Mi spiace davvero molto.» Lui la fissò, perplesso, come se fosse il personaggio di un sogno.
Murphy non riusciva a comprendere che ci faceva lì quella donna: sembrava reale, gli parlava proprio come se fosse vera... «Mi deve scusare», riprese lei. «Non sarei dovuta piombare qui così. Non volevo intromettermi nel suo... Non volevo immischiarmi. Non ci conosciamo nemmeno. È solo che io...» Murphy trasse un lungo respiro e cercò di rilassare le spalle. Poi le indicò la sedia. «Mi scusi. La prego, si sieda. Ha fatto un lungo viaggio.» Lei obbedì, stringendo sulle ginocchia una valigetta dall'aria malconcia. Sembrava incerta su cosa dire o fare. A rompere il silenzio imbarazzato provvide l'infermiera, che entrò reggendo un recipiente pieno di caffè. Vide Iside, la salutò con un cenno del capo, e porse una tazza a Murphy, sorridendogli amichevolmente. «A dire il vero non mi va», disse lui, mentre la porta si richiudeva alle spalle dell'infermiera. «Lo vuole? Niente latte né zucchero, temo.» Lei prese la tazza, grata per quel diversivo. «Grazie. Va bene così.» Rimasero in silenzio per quella che sembrò un'eternità. Entrambi guardavano Laura e ascoltavano il sibilo lieve del respiratore. «Senta... La ringrazio per il suo interesse», disse Murphy a un certo punto. «Però lei non conosce neppure mia moglie. Non vorrei essere scortese, ma... che ci fa qui?» Iside mise la tazza di caffè sul davanzale della finestra e posò le mani sulla valigetta. «Le ho portato qualcosa», rispose. Sganciò il fermaglio e tirò fuori una busta gialla imbottita. C'infilò la mano, la rovesciò e dalla busta uscì qualcosa. Con un bagliore opaco, la coda del Serpente cadde sulla valigetta. «Non capisco.» Lei gliela porse. «Ho pensato che la volesse. Che magari le sarebbe stata d'aiuto.» «E quale aiuto mi potrebbe dare?» Iside non riuscì a sostenere il suo sguardo. «Non dovrebbe... Lei non crede che abbia poteri curativi?» D'un tratto Murphy comprese. «No! Assolutamente no. È soltanto un pezzo di bronzo.» Lei sembrò sconcertata. «Solo un pezzo di bronzo? Ma lei ha rischiato la vita per averlo. Credevo che gli israeliti, quando venivano morsi dai serpenti velenosi, avessero attribuito a questo oggetto la capacità di guarirli. E ho pensato che lei ci credesse.» «Non è in questo che credo. Dio guarì quegli uomini per la loro fede... Il
potere era nella loro fede, non nel Serpente. E, quando iniziarono a adorarlo come se avesse poteri magici, Dio ordinò a Ezechia di distruggerlo.» Lei continuava a porgergli l'oggetto, come se lo invitasse a prenderlo. «Ma come fa a saperlo? Come può essere certo che non abbia nessun potere? Come sa che non aiuterà Laura?» Murphy si schiarì la gola. «Perché so che Dio non opera così. Lui non fa giochi di prestigio.» «E che mi dice dei guaritori? Mi sembra che loro li facciano, dei giochi di prestigio.» «No. Noi ignoriamo perché Dio guarisca alcune persone. Come non sappiamo perché... talvolta lascia che si ammalino.» Non poté trattenersi dal guardare Laura. «E parlo anche di brave persone. Delle persone migliori.» Iside si alzò e Murphy ebbe l'impressione che fosse decisa a mettergli in mano quella cosa, come se intendesse concludere rapidamente un affare. «Ma perché non provare? Magari non funzionerà, però male non può fare, vero? Non vale la pena di tentare?» Murphy posò le sue mani sulle braccia magre della donna e la guardò. «Sarebbe sbagliato», disse in tono implorante. «Sarebbe come dire a Dio: 'Ho più fiducia in questo pezzo di metallo di quanta ne abbia in Te'. Sarebbe un peccato.» «Che le importa di commettere un peccato per salvare la vita di Laura? Lei è un egoista che si preoccupa della purezza della sua anima, quando Laura potrebbe morire.» Arrossì e si portò la mano alla bocca. «Mi scusi, non avrei dovuto dirlo.» Lui non rispose. Prese la coda del Serpente, la infilò di nuovo nella busta, rimise la busta nella valigetta, la chiuse e gliela porse. «La riporti alla Fondazione e la chiuda in cassaforte. Poi, se vuole dire una preghiera per Laura...» Senza guardarlo, Iside prese la valigetta. «Si. Sì, va bene. Mi dispiace.» Sembrava una ragazzina sorpresa a fare una marachella. «Senta, c'è un'altra cosa. Ho finito di tradurre l'iscrizione. So che questo non è il momento adatto, ma l'ho portata con me. È... piuttosto straordinaria. Ho pensato che dovevo fargliela avere il prima possibile.» Lui la fissò con sguardo assente. «Quando tutto questo... sarà finito, la chiamerò.» Lei annuì e uscì, tenendo la valigetta contro il petto. Murphy prese la mano di Laura e ci appoggiò la guancia. «Sarebbe bello
se mi potessi parlare, tesoro. Tu sai sempre cosa fare.» Infine la stanchezza lo travolse, e lui scivolò in un son no inquieto. Venti minuti più tardi, fu ridestato dal cicalino del respiratore. Qualcosa nella stanza era cambiato. Murphy si guardò intorno, confuso, e poi capì. Il bip-bip-bip regolare del monitor di controllo dei parametri vitali era diventato un continuo suono d'allarme. Allora Murphy si alzò di scatto dalla sedia e stava per raggiungere la porta quando essa si aprì. Il dottor Keller, un altro medico e un'infermiera, che spingeva un carrello, irruppero nella stanza. Murphy li guardò mentre si chinavano su Laura. L'infermiera sollevò le piastre, aspettando l'assenso del dottor Keller all'uso del defibrillatore, poi due mani forti lo afferrarono e lui chiuse gli occhi. 46 I detective avevano lasciato la scena del delitto, l'ultimo nastro della polizia era stato rimosso e la Preston Community Church era di nuovo quello che era sempre stata: un luogo di preghiera. Riparare i danni materiali, tuttavia, avrebbe richiesto più tempo. Sebbene la struttura fosse stata rafforzata da puntelli d'acciaio posti sotto il pavimento pericolante, una sezione d'impalcatura sostenesse la parete orientale e teli di plastica coprissero quasi tutte le finestre infrante, il telaio della porta bruciato e annerito era lì a ricordare che, solo pochi giorni prima, l'interno della chiesa aveva avuto l'aspetto di una visione infernale. Soltanto il campanile, un dito di puro candore puntato verso il cielo, era rimasto indenne e, mentre i membri della congregazione entravano in fila, era difficile per loro non considerarlo un simbolo di speranza e sopportazione. All'ingresso, come la notte dell'esplosione, Wagoner dava il benvenuto ai fedeli. Con un braccio ancora al collo non poteva stringere i suoi parrocchiani in un abbraccio - come talvolta gli sembrava assolutamente necessario -, però la sua stretta di mano era forte e risoluta. La gente entrava e si andava a sedere nella dozzina di panche rimaste indenni, volgendo lo sguardo verso il pulpito di fortuna che aveva preso il posto di quello distrutto. Murphy sedeva in prima fila, accanto a Shari, la mano di lei nella sua. Dalla finestra che guardava a est, ora priva della vetrata colorata, scendeva obliquo un raggio di sole, che andava a colpire il bordo della bara, disposta di traverso ai piedi dell'altare, infiammando di colore la corona di fiori.
Seduto alla destra di Murphy, il padre di Laura guardava davanti a sé, concentrato su un luogo lontano che lui soltanto riusciva a vedere. Sua moglie gli stringeva il braccio, piangendo in silenzio. Osservando il viso di Laura, distesa nella bara aperta, era difficile credere che fosse morta. Il suo vestito color avorio sembrava luminescente e conferiva ai suoi lineamenti pallidi un fulgore palpitante, simile a quello dei fiori intorno alla bara e delle margherite intrecciate nei suoi capelli. Murphy sentì il cinguettio di alcuni uccelli e gli venne da chiedersi se anche loro non fossero stati ingannati dall'aspetto naturale di Laura. Qualcuno glielo dovrebbe dire, pensò. Devo parlare al reverendo Wagoner. Fece per alzarsi, però la mano di Shari lo trattenne e lui si risedette sulla panca. Forse era meglio lasciare che quegli uccelli cantassero. Quando l'avessero sepolta, di certo avrebbero smesso. Wagoner salì lentamente i gradini del pulpito improvvisato senza mai distogliere gli occhi da Laura, poi guardò l'assemblea di fedeli. «Questo è un momento difficile per tutti noi», esordì. «Talvolta sembra passata una vita intera dall'ultima volta in cui ci siamo riuniti qui. E talvolta sembrano trascorsi soltanto pochi istanti. Alcuni di noi hanno perso i loro cari o familiari, tutti hanno perso degli amici. E tutti noi portiamo i segni di quel terribile giorno... e non intendo le cicatrici fisiche. Intendo il dolore della perdita, un dolore che rimarrà con noi per sempre.» Tossì, coprendosi la bocca con una mano e, per qualche secondo, sembrò che la chiesa fosse nuovamente piena di fumo. Poi riprese a parlare, con la sua voce forte, e l'aria parve rischiararsi. «Se siete come me, alcuni momenti di quella nottata rimarranno confusi per qualche tempo», disse con un sorriso amaro. «Però rammento bene di cosa intendevo parlare nel mio sermone e cioè della fiducia che dobbiamo nutrire in Dio, in ciò che Egli tiene in serbo per noi. Della necessità di aver fede anche quando sembra che Dio ci abbia dimenticato.» Fece una pausa. «E credo che questo sia uno di quei momenti. Come può essere accaduta una cosa tanto tremenda? E perché coloro che hanno sofferto di più in questa tragedia sono accusati di crimini terribili? In televisione e sui giornali si parla di noi come di assassini e terroristi. Come può essere?» Si sistemò la fasciatura prima di continuare. «La verità è che non lo so. Dio non mi ha rivelato che cosa ha in mente per tutti noi. Tuttavia so per certo che Lui ha un progetto per noi. E so che ci osserva, per vedere come affrontiamo queste prove e queste tribolazioni.» Afferrò il bordo del pulpito con la mano sana. «E cosa vede Dio, quando ci guarda dall'alto? Be', vi
dirò cosa vedo io. Vedo persone che cominciano a ricostruire ciò che è stato distrutto. Vedo persone che tornano in un luogo sconsacrato da un terribile atto di violenza e che lo santificano di nuovo con le loro preghiere. Vedo persone che hanno conservato la fede. Perché il progetto divino ci sarà rivelato. Ci vorrà molto lavoro... ci vorranno tutta la cura, l'abilità e l'energia di cui disponiamo per riportare la chiesa a ciò che era prima. E ci vorrà ogni grammo della nostra fede in Dio per farci superare il tumulto che adesso la circonda. Ma insieme, con l'aiuto di Dio, ci riusciremo.» Trasse un respiro profondo e si asciugò la fronte con un fazzoletto. Sperava di essere riuscito a sollevare almeno un po' lo spirito dei presenti. Avrebbero avuto bisogno di una grande forza per ascoltare quello che lui stava per dire. Tutti gli occhi erano puntati sulla bara di Laura. La luce si era spostata e il suo viso si trovava in penombra. Anche la luminosità dei fiori si era attenuata. Wagoner si schiarì di nuovo la voce e ricominciò. «Non ho bisogno di dirvi che Laura Murphy era bella, dentro e fuori. Chiunque l'abbia vista sorridere e ridere, chiunque conosca in quale modo faceva ridere gli altri...» - sorrise - «... talvolta con battute a loro spese - e qui parlo per esperienza personale - sa che era una donna piena di gioia e capace d'infondere gioia nel prossimo. Era anche un'archeologa di talento con un brillante avvenire... ma lei aveva scelto di aiutare gli altri, gli studenti, a dare il meglio di se stessi. A Preston sono in molti ad avere un debito di gratitudine con lei. Mi riferisco a tutti quelli che Laura ha riportato sulla retta via o aiutato a uscire da quella sbagliata. Sono certo che alcuni di loro oggi sono qui. E so che tanti di voi si stanno chiedendo perché una donna così meravigliosa, che aveva così tanto da offrire, sia morta... A tutti dico: cercate di pensare a ciò che Laura vi ha dato. Quanti danno così tanto nella loro vita?» Sentì alcuni singhiozzi e un pianto soffocato, e concesse ai presenti un momento per riprendersi. Oppure doveva riprendersi lui stesso? Quante volte l'aveva fatto... Quante parole di conforto aveva dispensato ai familiari di un defunto? E quante volte, segretamente, aveva avuto bisogno lui stesso di essere confortato? Ma quello era l'incarico affidatogli da Dio, e per fortuna gli era stata data la forza per adempierlo. «Laura amava la vita e amava Dio... e amava suo marito, Michael.» Chinò lo sguardo su Murphy, i cui occhi erano fissi su Laura. Aveva uno strano sorriso a fior di labbra, come se non si fosse reso pienamente conto che
lei non c'era più. «Soltanto coloro che hanno perso una persona amata sanno cosa sta provando Michael. I nostri cuori sono con lui. Preghiamo Dio affinché gli dia la forza di sopportare il tremendo dolore che lo affligge.» Si raddrizzò per quanto poteva. Teneva aperta davanti a sé una vecchia Bibbia rilegata in pelle, ma non aveva bisogno di consultarla. «Agli albori del cristianesimo, se qualcuno moriva, i vivi non sapevano bene cosa sarebbe successo allorché Cristo fosse tornato a prenderli per ascendere al Cielo. San Paolo, nella Prima Lettera ai Tessalonicesi - da 4:16 a 4:18 scrive che, quando Gesù verrà dal Cielo 'prima risorgeranno i morti in Cristo. Quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell'aria, e così saremo sempre col Signore. Confortatevi dunque a vicenda con queste parole'. E quale conforto più grande ci può essere? Laura è con Gesù. Non è triste e non sente dolore, come noi. Il suo corpo può essere spezzato, ma la sua anima, la sua anima perfetta, è in paradiso. Ed è promessa di Dio che, se crediamo nella morte e nella risurrezione di Suo Figlio, rivedremo lei e tutti gli altri credenti e 'saremo sempre col Signore'. Nessuna meraviglia dunque che l'apostolo dica: 'Confortatevi dunque a vicenda con queste parole', perché voi rivedrete Laura.» Pronunciò lentamente quell'ultima frase, guardando Murphy in viso. Poi Wagoner prese il Libro degli Inni. Murphy si alzò e il dolce suono delle voci unite nel dolore e nel ringraziamento salì dalle panche rovinate. Infine lui si avvicinò alla bara per un ultimo sguardo a Laura. Mentre la fissava, notò qualcosa, ma gli ci volle qualche istante per capire che le lacrime non avevano distorto la sua visione. Allora tese una mano e le sue dita confermarono quel fatto sconvolgente. Qualcuno aveva spezzato la croce di legno che Murphy aveva messo intorno al collo di Laura. E infatti la croce penzolava dal laccio di pelle, rotta in tre frammenti. 47 Fu quando vide l'ultima palata di terra cadere sulla bara che Murphy si rese conto che Laura non c'era più. Il corpo nel feretro, sebbene ancora bello, non era la sua adorata moglie. Lei era da qualche altra parte, un luogo al quale Murphy aveva pensato molto nel corso degli anni, ma che adesso non riusciva proprio a immaginare. Sapeva che là non sarebbe mai invecchiata. Sarebbe sempre stata come l'aveva vista l'ultima volta. Perfetta.
I genitori di Laura si tenevano abbracciati vicino alla tomba. Lui cercò di capire se poteva fare qualcosa per loro, ma, guardando dentro se stesso, trovò soltanto un grande vuoto e comprese che, se avesse tentato di consolarli, non avrebbe mai trovato le parole giuste. Shari gli si avvicinò. «Riporto Kurt e Susan in albergo. Lei ha bisogno di riposo e posso rimanere un po' con loro, se lo desiderano.» Murphy annuì, grato a quella ragazza così schietta e sincera che riusciva a leggere i suoi pensieri. Sulla porta della chiesa, Wagoner si accomiatava con strette di mano dai partecipanti alle esequie e offriva le ultime parole di conforto dalla sua riserva apparentemente inesauribile. Murphy si rese conto che ormai non aveva più nulla da fare in quel luogo. Salito in auto si concesse qualche istante d'immobilità, poi avviò il motore e uscì lentamente dal parcheggio. Non poteva tornare a casa. Non ancora. La presenza di Laura sarebbe stata troppo forte: vedere una spazzola per capelli o una tazzina da caffè appoggiata dove lei l'aveva lasciata lo avrebbe paralizzato dal dolore. Guidò per un po' senza meta, finché non si trovò sulla strada che conduceva all'università. Neanche quello andava bene. Svoltò a destra, sperando di trovare un posto dove non ci fossero ricordi, un posto in cui Laura non fosse mai stata e che non avrebbe gridato il suo nome mentre lui si avvicinava. Continuando a guidare, si trovò su una strada sconosciuta e decise di proseguire finché... Finché qualcosa non fosse cambiato, forse. Oltrepassò una stazione di servizio e una fila di officine e, quando vide un cartello che diceva ottanta chilometri a un posto qualunque, pigiò sull'acceleratore. Il volante sembrò diventare leggerissimo e il mondo cominciò a scorrere alle sue spalle. Perse completamente il senso del tempo. Udì strombazzare un clacson e sterzò a destra, mancando per un pelo un autotreno che arrivava in senso inverso. Accostò bruscamente e appoggiò la testa sul volante, aspettando che il cuore smettesse di martellare. Non serviva a niente. Fuggire era inutile. Sapeva dove doveva andare. Si rinfilò nel traffico e tornò da dov'era venuto. Mezz'ora più tardi, si fermò davanti alla chiesa e scese dall'auto. Fu contento di vedere che il parcheggio era vuoto, eccetto che per il vecchio pickup di Wagoner. Tornò alla tomba e rimase lì, a guardare la lapide chiara col suo semplice epitaffio. Un giorno porterò qui i fiori e il tempo l'avrà levigata, pensò. Il muschio crescerà nelle fenditure.
Alzò lo sguardo e, sull'altro lato della tomba, scorse Bob Wagoner, le mani conserte davanti a sé. «Sapevo che saresti tornato», disse il reverendo. Murphy sentì qualcosa dentro e comprese il motivo per cui si trovava lì. «Continuo a pensare a ciò che lei ha detto sul progetto divino, e io... proprio non riesco ad accettarlo. Come può Dio aver fatto questo? Come può aver lasciato che accadesse? Fossi rimasto ucciso io in Samaria, o nell'incendio... ma Laura? Era una donna dalla fede così salda. Non aveva un solo pensiero cattivo. Era... un angelo.» Wagoner gli si avvicinò, passandogli un braccio intorno alle spalle. «Dio comprende il tuo dolore, Michael. E non è offeso dai tuoi dubbi. Ricorda, persino Suo Figlio dubitò di Lui.» Notò che Murphy aveva in mano la piccola croce di legno che Laura aveva portato al collo. «Hai la risposta sul palmo della mano, Michael. Quando Gesù stava morendo sulla croce, domandò a Suo Padre: 'Perché mi hai abbandonato?' Sì, si sentiva abbandonato, proprio come te. Ma Dio non lo aveva abbandonato. Devi avere fede in Lui, Michael. È difficile, lo so. Ma è proprio quando ci sembra di aver toccato il fondo che dobbiamo aggrapparci alla nostra fede. Preghiamo insieme, Michael, e Dio ci ascolterà.» «Davvero, Bob? Ascoltava quando noi tutti urlavamo di dolore e terrore la sera dell'esplosione? Ascoltava quando l'individuo che ha distrutto la nostra chiesa ha ritenuto di non aver fatto abbastanza male per una sola notte? Quando Laura è stata aggredita nel seminterrato e quell'assassino si è assicurato che le ci volesse del tempo a morire? E non si è neanche fermato lì.» Murphy gli mostrò la croce. «Ecco l'oltraggio finale. Il responsabile di tutto ciò è entrato in chiesa di nascosto e ha spezzato la sua croce in tre parti, come se essa fosse collegata alla ricerca dei tre pezzi del Serpente, sebbene io non riesca neppur lontanamente a immaginare quale nesso diabolico possa esistere fra questi due eventi. Ma soprattutto, Bob, non capisco il motivo di tante sofferenze. Ho perso la cosa più importante della mia vita. Cosa può fare Dio per me, ora?» Il reverendo Wagoner sospirò. «È naturale che tu mi faccia questa domanda in un momento così terribile. Posso dirti soltanto che, per me, non è una novità. Ciò che Dio può fare ora, di fronte alla tragedia più grande e all'angoscia più profonda, è concederci quella che io definisco la forza di resistere. Lui ci dà la forza di cui abbiamo bisogno, la forza di superare il dolore e portare a termine i progetti che ha in serbo per noi.» Murphy sbuffò. «Crede che Dio abbia ancora dei progetti per me?»
«Ne sono sicuro», rispose Wagoner in tono risoluto. «Be', io invece non sono affatto sicuro che me ne importi qualcosa.» «Ascolta, Michael. Laura era una persona speciale. Ma lo sei anche tu. Hai un coraggio particolare, non hai paura d'incontrare il male. E credo che tu debba farlo proprio ora. Noi tutti confidiamo in te.» Murphy lo guardò, perplesso. «Ma che sta dicendo?» «L'hai detto tu stesso, Michael: qualcuno ha cercato di distruggere la chiesa, letteralmente e metaforicamente. Sono sicuro che, da quando Laura è morta, non hai acceso il televisore né letto un giornale, ma, se lo avessi fatto, avresti visto titoli che parlano di 'terroristi evangelici' e 'cospirazioni dinamitarde cristiane'. Qualcuno sta cercando di screditarci... e finora sta facendo davvero un buon lavoro, a giudicare da come i mezzi d'informazione hanno sposato la causa.» Murphy rifletté. «Ma cosa posso fare? Sono solo un archeologo.» «Non ne sono sicuro, Michael, però credo che Dio abbia per te un compito speciale. E credo pure che, se lo lascerai fare, Lui ti dirà cos'è.» «Ci proverò, Bob. Ma ora credo di essere troppo in collera per la morte di Laura, per starlo ad ascoltare.» Wagoner gli batté una mano sulla spalla. «Ora vado a casa, Michael. Ma domani sarò qui. C'è ancora molto lavoro da fare per rimettere a posto la chiesa. Dobbiamo dimostrare che il male non può vincere.» Murphy chinò lo sguardo sul cumulo di terra davanti a loro. «Forse ha già vinto, Bob.» «Sciocchezze, Michael. Laura è col suo Dio, ricorda. Forse anche tu dovresti andare a casa. Va' a casa e prega. Lui ti darà ciò di cui hai bisogno.» Murphy si trattenne accanto alla tomba, ascoltando i passi di Wagoner che si allontanava. Le ombre delle lapidi si allungavano sull'erba e il sole cominciava a scendere dietro le cime degli alberi. Dopo un po', una colomba bianca si posò sulla tomba di Laura, apparentemente ignara dell'uomo, e si mise a tubare, lisciandosi le perfette ali bianche. Murphy si sorprese a sorridere. «Dio ti benedica, tesoro», sussurrò. Poi si mise la croce di lei intorno al collo. La colomba piegò il capo guardandolo, poi d'improvviso volò via e, sorvolando le tombe, scomparve dietro la chiesa. Murphy alzò lo sguardo per vedere cosa l'avesse spaventata e scorse, appollaiato sui rami di un albero, un imponente uccello da preda, che si beccava gli artigli col rostro ricurvo. L'uccello emise un grido stridulo, poi si lanciò pigramente nell'aria e il suo lento batter d'ali lo riportò verso l'oscu-
rità dei boschi. Murphy lo guardò svanire e tornò con passo stanco verso la chiesa. Aveva deciso di fermarsi lì perché sapeva che sarebbe stato solo e non tollerava l'idea di tornare a casa. Pensò pure che, in un luogo di preghiera, gli sarebbe stato più facile ascoltare ciò che Dio voleva comunicargli. Ma si sentiva stanco e confuso. Dio voleva che lui comprendesse il Suo disegno? Allora doveva parlare forte e chiaro, altrimenti il messaggio non sarebbe arrivato a destinazione. 48 Se fosse stata una conversazione a faccia a faccia, uno degli uomini più potenti del mondo sarebbe crollato a terra, morto, nel giro di un minuto. Invece Artiglio dovette ascoltare le urla veementi di John Bartholomew dei Sette senza reagire, tranne graffiare il tavolo nella stanza del motel col suo dito affilato, avanti e indietro, avanti e indietro. E, con quei fendenti, se la conversazione fosse durata più di due minuti, probabilmente il tavolo sarebbe stato tagliato in due. «Artiglio, ti avevo detto esplicitamente di non far del male a Murphy.» «E io infatti non l'ho toccato. Ho ucciso sua moglie.» «Se tu possedessi qualche gene normale, capiresti che, quando si perde una persona amata, la cosa può avere conseguenze devastanti. Non c'interessa che sia morta, ma, se ciò distrarrà Murphy dal recuperare le ultime due parti del Serpente, avrai fallito. E perfino tu dovrai temerne le conseguenze.» «Ho dovuto prendere una decisione al volo. Si era messa in mezzo e avrebbe potuto denunciarmi. Era solo questione di tempo. Inoltre me ne stavo lì a ciondolare con solo un archeologo da tener d'occhio, figurarsi, e un piano che non dava... soddisfazione personale.» «Questa conversazione non si ripeterà più, Artiglio. Siamo intesi?» Prova a dirmelo in faccia e vedrai quanto dura la prossima conversazione, pensò Artiglio. «Quella donna della Parchments of Freedom Foundation ha fatto visita a Murphy in ospedale, e l'ho sentita dire che ha tradotto la scritta sulla coda.» «Ragione di più perché Murphy torni al lavoro. Poi quel pezzo potrà essere nostro. Credo che il professore si riprenderà presto e, non appena lo farà, potrai tornare in azione, ma senza far del male a Murphy. È tempo che recuperiamo la prima parte del Serpente.» «Di nuovo in azione? Ecco quello che mi piace.»
Murphy scoccò la cinquantesima freccia del pomeriggio. E lo fece nello stesso modo in cui aveva lanciato le altre: senza mirare, tendendo solo la corda e mandandola verso gli alberi. Normalmente, quando tirava con l'arco, Murphy era assai concentrato e preciso. Era stato un buon tiratore sin da ragazzo e talvolta era andato anche a caccia. Ma era il tiro a segno che stimolava veramente il suo impulso competitivo. Anche nella nebbia inquieta della sua collera, Murphy compiva tutti i movimenti di un tiratore professionista. Regolò la protezione di plastica intorno al braccio sinistro prima di estrarre una freccia dalla custodia appesa alla vita. Poi tirò lentamente indietro la corda del suo arco con l'asta in fibra di carbonio con l'anima di alluminio. In piena estensione, le due pulegge, poste all'estremità di ogni braccio flessibile, davano alle dita di Murphy una potenza tremenda. Doveva soltanto lasciare andare la freccia, che sarebbe partita verso il bersaglio alla velocità di cento metri al secondo. Tuttavia, quel pomeriggio, le lacrime che gli sgorgavano dagli occhi nei momenti più inattesi, la rabbia che gli mulinava nel cervello e il residuo dolore alla spalla facevano sì che le frecce saettassero tra gli alberi in modo irregolare e sempre pericolosissimo. Rischiavano di essere addirittura letali. Murphy non sembrava badarci. Il sollievo dei suoi muscoli a ogni freccia scoccata sembrava tanto naturale quanto involontario, come le sue lacrime. L'uomo conosciuto come Artiglio aveva seguito Murphy senza dare nell'occhio e, tenendosi a debita distanza, lo osservava con un binocolo. I Sette erano stati chiari: Murphy era ancora intoccabile, dunque lui sapeva di non poterlo uccidere quel pomeriggio. Così, non potendo trasformare la sua abilità omicida in azione immediata, Artiglio si sorprese ad ammirare l'evidente forza di Murphy, ma soltanto la sua forza fisica - i muscoli delle braccia e la coordinazione necessaria anche soltanto per tendere l'arco, pur tirando a vuoto - e non quella di carattere, dato che Artiglio era assolutamente incapace d'immedesimarsi nelle emozioni altrui, quindi non avrebbe mai potuto capire quanto l'altro fosse dilaniato dal dolore. Artiglio smise di fissarlo quando colse un movimento alle spalle di Murphy. Sulle prime non riuscì a capire cosa fosse e allora decise di avvicinarsi. D'improvviso sentì una voce, ma continuava a vedere soltanto la
figura di Murphy. E allora, per un attimo, si convinse che l'altro, mentalmente distrutto, stesse gridando di dolore. «Accidenti! E quello lo chiami tirare, Murphy? Ho visto ciechi andare più vicini al bersaglio», disse Levi Abrams, facendosi rumorosamente strada fra gli alberi e fermandosi accanto a Murphy. «Levi, vai via. Ti prego.» «Non posso. Mi ha mandato l'orso Yoghi a proteggere le piante. Tiri tante di quelle frecce con tanta di quella rabbia che rischi di distruggere più alberi tu di un incendio.» «Levi, non sono in vena. Lasciami in pace.» «Non ci penso nemmeno, Murphy. Resterò qui a rischiare la pelle finché non rimarrà un solo ramo in tutta la foresta... Non voglio usare giri di parole, Murphy. Quello che è accaduto a Laura è orribile. Io posso soltanto immaginare il tuo dolore.» Come un automa, Murphy continuò a tirare frecce verso gli alberi. Ormai gliene rimanevano poche. «No, a dire il vero, Murphy, riesco a fare di più. Quando la mia prima moglie e mia figlia saltarono in aria su un autobus a Tel Aviv cinque anni fa, non credevo di poter andare avanti. Invece di scoccare frecce, sparai duecentodieci colpi al poligono di tiro, mentre mi scolavo un litro di whisky a tempo di record. E quella fu solo la prima sera. Mi ci vollero sei mesi per rinsavire. E la sai una cosa?» Murphy scagliò la sua ultima freccia. Per la prima volta in tutto il pomeriggio colpì in pieno un tronco d'albero, l'albero più vicino a dove stava Levi. Poi gettò a terra l'arco e si mise di fronte all'amico, fissandolo con ira. «Cosa?» «Furono sei mesi sprecati. Stavo lasciando che quei cani arabi prendessero nelle loro sudice mani insanguinate di assassini i dolci ricordi che avevo di mia moglie e di mia figlia, trasformandole in vittime. Tu non vuoi che questo accada a Laura. Lei era superiore a tutto ciò. E anche tu lo sei, amico mio.» Murphy si voltò dall'altra parte e smise di piangere. «Levi, quello che è successo non ha senso...» Levi passò un braccio intorno alle spalle dell'amico. «Lo so, Murphy. Non sono un esperto, ma ho contattato un paio di persone che possono aiutarti a riprenderti, com'è tuo dovere. Ho parlato al reverendo Bob. In quanto cristiano, tu credi nella resurrezione, nella vita dopo la morte, nel fatto che sarai di nuovo insieme con Laura e per sempre. Aspetta con fede
quell'evento e, nel frattempo, rimettiti al lavoro. Sai che questo è ciò che Laura avrebbe voluto. Non pretendo di capire quell'aspetto della tua fede, ma so che tu puoi, e devi agire di conseguenza. Ah, c'è un'altra cosa. Ho parlato con Iside McDonald. È disposta a rivedere con te la traduzione della scritta sulla coda del Serpente. Ti ho prenotato un volo per Washington oggi pomeriggio.» Murphy raccolse l'arco. «Grazie, amico mio. Saresti un buon cristiano... e sai che prego perché tu lo diventi. Accetto la tua offerta per l'aereo, ma prima mi devo fermare in un certo posto.» Artiglio osservò i due uomini attraversare il bosco. Bene, pensò. Anche lui pregustava il momento di tornare in azione. A Washington. 49 Laura sarebbe rimasta mortificata - ma non sorpresa - nel vedere Michael non rasato, sporco ed esausto camminare deciso verso il pulpito della chiesa. Il reverendo Wagoner gli tese la mano in segno di benvenuto. «Posso dire qualche parola alla congregazione?» mormorò Murphy. «Certamente, Michael.» «Amici... Molti di voi sono davvero amici miei, un legame che diventa ancora più importante quando si è afflitti. Però, dopo la morte di Laura, non me la sono sentita di stare in mezzo alla gente. E ciò perché lei è stata uccisa da una sottospecie d'uomo, da un demone incarnato che non ho potuto fermare. Ecco perché ho fuggito la compagnia di tutti... perfino di me stesso. Ma, peggio ancora, non ho voluto avvicinarmi a Dio, perché ero in collera con Lui: mi aveva deluso. Però ora mi rendo conto che Dio ha un progetto per me e che devo rassegnarmi al fatto che una parte di tale progetto mi abbia causato tanta sofferenza. Probabilmente ho cominciato a capirlo quando una mia collega - animata da buone intenzioni - mi ha portato in ospedale il pezzo del Serpente di Bronzo che Laura e io abbiamo trovato durante la nostra ultima grande avventura insieme. Per un momento, ho quasi provato la tentazione di abbandonare il mio Dio, come lei suggeriva, e riporre invece la mia fede in quel falso idolo. «Oggi invece mi sono reso conto che quel Serpente, per me, è un segnale: non devo rinunciare alla mia fede, devo rinnovarla. Era quello che il reverendo Wagoner stava per dire l'altra sera, quand'è esplosa la bomba. E,
pensate un po', l'ho capito grazie al mio amico israeliano, Levi Abrams. Immagino che questo ci dimostri come la guida e l'ispirazione possano venire da qualsiasi parte, se ci mostriamo disponibili. Qui, davanti al più gran dolore e al più imperscrutabile mistero della mia vita - la perdita della mia diletta moglie -, la mia fede è stata messa a dura prova, proprio com'è accaduto a Mosè col Serpente. E io non mi sottrarrò alle mie responsabilità e ai miei doveri. «Cari amici, vi annuncio che desidero riporre la mia fiducia in Dio per il futuro e credere fermamente che Lui abbia ancora un progetto per la mia vita. Con la forza e la speranza che vorrà darmi, potrò mettere da parte questa tragedia e tornare al lavoro. Vi ringrazio per le vostre preghiere e per avermi dato la possibilità di sfogarmi. Partirò per trovare gli altri due pezzi del Serpente di Bronzo. Sono certo che Dio e Laura vogliono che lo faccia.» 50 Fu un giorno di emozioni contrastanti. Paul era ancora in coma e Shari lo vegliava. Poi il giovane aveva cominciato a muoversi e infine aveva aperto gli occhi. Pur essendo molto debole, era riuscito a parlare e sembrava abbastanza lucido. Le aveva perfino sorriso. I medici e le infermiere erano accorsi e, dopo aver chiesto a Shari di uscire, si erano messi a esaminarlo. Nel corridoio dell'ospedale, Shari trovò ad attenderla l'agente Baines, che le comunicò una notizia terribile. Tuttavia, mentre Shari vedeva prendere corpo uno dei suoi incubi peggiori, provò anche una singolare sensazione di sollievo. Gli esami sull'ultima vittima rinvenuta nel seminterrato della chiesa si erano conclusi. Tra mille difficoltà - del cadavere era rimasto davvero poco - si era giunti a un'identificazione grazie all'esame del DNA e l'FBI era convinto che si trattasse di Chuck. E sempre l'FBI riteneva che Chuck avesse fatto detonare la bomba, contenuta in una sorta di zaino portato sulle sue spalle. Shari non aveva più visto Chuck dalla mattina precedente la tragedia e ovviamente si era chiesta dove fosse, arrivando addirittura a pensare che fosse in qualche modo coinvolto nell'esplosione, benché non conoscesse nessuno meno religioso e meno politicizzato di lui. Si era augurata che fosse andato a far baldoria altrove col suo nuovo amico... E in quel momento, mentre Baines le rivelava la verità, sentì le lacrime bagnarle le
guance. Cosa mai poteva averlo indotto a far saltare la chiesa? Doveva essere stato quel suo strano amico a istigarlo. Shari si preparò all'inevitabile sequela di domande che l'agente Baines le avrebbe posto, ma, con sua sorpresa, lui fu molto gentile. «Miss Nelson, mi spiace per la sua perdita. Sono molti gli interrogativi che lei può aiutarci a sciogliere su suo fratello, sul come e sul perché abbia fatto esplodere quella bomba, ma, se ha bisogno di tempo per riprendersi, io non ho problemi ad aspettare.» Shari guardò l'equipe medica che assisteva Paul e capì che probabilmente non lo avrebbe rivisto per ore. Rincuorata dal fatto che il giovane si fosse svegliato, guardò Baines. «Grazie, agente, ma occupiamoci subito di Chuck. Vediamo di chiarire almeno qualche aspetto di questa tragedia.» Non ci volle molto per capire che Chuck era probabilmente stato più una vittima dell'attentato che non il suo perverso ideatore. In base alla sua fedina penale, l'FBI concluse che non aveva né l'esperienza né l'intelligenza per manipolare esplosivi, e Shari confermò la sua totale mancanza d'interesse per qualsiasi gruppo religioso. E neppure lo scetticismo dell'FBI sull'ipotesi che, in quel seminterrato, ci fosse una fabbrica di bombe gestita da fondamentalisti religiosi - uno scetticismo rafforzato dall'analisi delle macerie e dai vari interrogatori effettuati - rendeva più probabile il suo coinvolgimento. L'agente Baines riportò Shari in ospedale un'ora dopo. «Per strano che possa sembrare, avrei quasi preferito che foste tutti una massa di fanatici religiosi, come dice la stampa. Un gesto così eclatante sembra proprio avere un unico scopo: compromettere la reputazione dei cristiani evangelici. E lo stesso si può dire del messaggio tracciato sul Palazzo di Vetro. Quale sia il vero scopo, oltre a quello di turbare la civile convivenza, lo ignoriamo. Ma lo scopriremo e li prenderemo.» «Lo spero proprio, agente Baines. Proveremo tutti un gran sollievo quando potremo sottrarci alla luce di questo accecante riflettore che qualcuno sta puntando sulla nostra fede per far del male a persone innocenti e mettere noi in difficoltà.» Quando Shari rientrò in camera di Paul, fu lieta di vedere che i medici erano usciti, ma il giovane non era solo. Un signore assai distinto, con indosso uno splendido abito fatto su misura, chino accanto a Paul, gli stava parlando in tono molto serio.
«Ciao, Paul.» Lui la accolse con un sorriso. «Oh, Shari, che bello, sei tornata. Ti presento Shane Barrington... il famoso Sharie Barrington. È venuto a farmi visita, ci crederesti?» «Piacere, Miss Nelson. Paul mi ha raccontato che lei è stata davvero un'amica per lui. È già arduo per un giovane dover lottare con le normali incertezze dell'esistenza, ma Paul ha superato prima un anno difficilissimo, e poi è stato costretto ad affrontare quest'altra prova drammatica.» C'era qualcosa in Barrington che indusse Shari a essere prudente. «Sì, Mr Barrington. Mi scusi... Perché una persona ricca e potente come lei s'interessa a ciò che accade nella vita di Paul?» Alla domanda di Shari, il pallore già notevole di Paul si accentuò. «Shari, non c'è motivo di essere scortese.» «Oh, non la prendo come una scortesia, Paul. Di recente, la mia famiglia è stata oggetto di un terribile atto di violenza, che mi ha strappato il mio unico figlio. Quando ho saputo dell'esplosione e di cos'era accaduto al professor Murphy e a te, ho sentito il dovere di venire qui a offrire il mio sostegno, perché questo è ciò che ho annunciato nella mia conferenza stampa. Voglio aiutare le vittime dei crimini e combattere gli individui che li hanno perpetrati.» Paul sorrise. «Be', è stato certamente gentile a venire, signore.» Barrington gli batté la mano sulla spalla. «La mia non è soltanto una visita di cortesia, Paul. I miei incaricati hanno esaminato a fondo la tua storia ed essa mi ha fatto pensare a mio figlio, alle possibilità che lui non avrà più, e, mi duole dirlo, al fatto che non gli sono stato accanto quando cresceva e aveva dei problemi.» Estrasse di tasca una busta. «Mi sono quindi preso la libertà d'istituire per te una borsa di studio speciale della Barrington Communications alla Preston University. Per tutto il corso dei tuoi studi non avrai più problemi finanziari.» Lacrime di gratitudine salirono agli occhi di Paul, ma quell'improvvisa sollecitudine di Barrington nei confronti del ragazzo insospettì ulteriormente Shari. Sì, era stata proprio una giornata piena di avvenimenti. 51 Nabucodonosor si ergeva sulla sommità degli spalti del palazzo, mentre la brezza primaverile, proveniente dal fiume, gli muoveva dolcemente la tunica e gli riempiva le narici dei profumi della nuova vita. Come sono
strani i pensieri, rifletté. Solo pochi mesi prima era tormentato dal sogno della grande statua, e l'impossibilità di ricordarne il pur minimo dettaglio lo schiacciava. Poi quello schiavo ebreo, Daniele, glielo aveva riportato alla mente e, da quel giorno, aveva sognato la statua ogni notte. Le immagini erano vivide in modo quasi insopportabile e, al risveglio, non lo lasciavano svuotato e confuso come prima, bensì smanioso e rinvigorito. Da quando Daniele gli aveva spiegato il significato del sogno - nella storia del mondo non ci sarebbe stato nessun impero più grande di Babilonia, e nessuno più grande di lui -, Nabucodonosor, re dei re, aveva sentito una nuova energia scorrergli nelle vene, una sensazione di potere inebriante e impetuosa, quasi sovrumana. Nessuno avrebbe potuto resistergli; ogni tribù, ogni nazione, dalle lontane montagne dove sorgeva il sole ai lidi sconosciuti degli antipodi dove esso s'inabissava, avrebbe riconosciuto il suo dominio e si sarebbe prostrata davanti al suo imperiale potere, sentendone il peso schiacciante. Guardando verso la pianura, vedeva molti dei suoi sudditi lavorare duramente nel calore primaverile. Centinaia, migliaia di uomini - simili a formiche brulicanti sul terreno arido - tiravano funi e sollevavano enormi travi. Persino a quella distanza si sentiva lo schiocco delle fruste e s'intuiva il morso del cuoio sulla pelle nuda, mentre i capisquadra spingevano quella massa umana oltre il punto di sfinimento. Era soltanto immaginazione, oppure riusciva a fiutare nel vento il sudore della loro fatica? Sua moglie, Amytis, aveva riempito i giardini di ogni specie di fiori e arbusti che le ricordavano i parchi lussureggianti della nativa Persia, e spesso lui vi passeggiava, colmandosi i polmoni d'intense fragranze. Ma neppure i fiori più esotici possedevano un profumo così dolce, quello del sudore degli uomini che sarebbero morti al solo scopo di magnificare il suo nome. Mentre il sole saliva e l'aria cominciava a tremolare per il caldo crescente, i suoi occhi si alzarono dalle formicolanti moltitudini di lavoratori all'enorme oggetto al centro della pianura. Giaceva come un gigante atterrato, legato da una grande ragnatela di funi. Ma le funi non servivano a tenerlo fermo. Erano invece lì per sollevarlo. E, mentre udiva le grida dei capisquadra e il crudele suono delle fruste cresceva d'intensità, vide che la statua stava per essere collocata nel luogo che le era stato riservato. Il suo sogno finalmente diventava realtà. Per un po' l'enorme simulacro non si mosse e, per un terribile istante, Nabucodonosor si domandò se i suoi ingegneri non avessero sbagliato i
calcoli, se non fosse impossibile sollevare quel peso immane dal terreno a prescindere da quanti schiavi si avesse al proprio comando. Un'impresa tanto ambiziosa non era mai stata tentata fino ad allora e neanche mai immaginata. Poi però il gemito di centinaia di metri di canapa attorcigliata, mescolato alle grida di sofferenza di muscoli sollecitati al di là di ogni sopportazione, fu sostituito da un rumore più profondo, mentre la statua sembrava sollevarsi da sola dalla polvere e fluttuare verso l'alto. Il re spalancò la bocca, sgomento, incapace di scrollarsi di dosso la convinzione che la statua fosse viva e gli si slanciasse contro. Urla di orrore e di sofferenza si levarono improvvisamente allorché numerose funi attaccate all'enorme busto della statua si spezzarono, e decine di operai furono scagliate a terra dal violento contraccolpo. Il simulacro parve esitare; poi, mentre Nabucodonosor, a denti stretti, s'illudeva di poterlo spingere con la sua volontà, esso parve riguadagnare slancio e, con un ultimo sforzo, i grandi piedi piombarono al loro posto con un rumore sordo, sollevando un'enorme nuvola di polvere gialla. Nabucodonosor non udì il suono di migliaia di uomini che gridavano per il dolore dei muscoli straziati e dei tendini spezzati o per il semplice sollievo che il loro tormento fosse finito. Riusciva a sentire soltanto il battito furioso del suo cuore e l'ansito del suo respiro mentre, artigliando la parete, cercava affannosamente di riempirsi d'aria i polmoni. Con angosciosa lentezza, la polvere che avviluppava la statua iniziò a disperdersi e il simulacro, a poco a poco, si mostrò in tutto il suo fulgore. Come se qualcuno avesse toccato con una fiamma un calderone d'olio in una stanza buia, il sole colpì l'ampia distesa della fronte e immediatamente la grande testa esplose in una luce dorata. Riparandosi gli occhi da quel riflesso abbacinante, Nabucodonosor si abbandonò a lunghi singhiozzi di esaltazione, osservando il resto della statua che si rivelava. Prima il petto e le braccia d'argento, poi l'addome e le cosce di bronzo, e infine le gambe di ferro, a cavalcioni di un ammasso d'impalcature rotte e di cadaveri sanguinanti. Alta novanta cubiti, il corpo muscoloso scolpito in dure fattezze metalliche, la statua incombeva su Babilonia come una divinità gigantesca e crudele. Mentre gli occhi del re si adattavano al bagliore, egli riuscì finalmente a distinguere i lineamenti del viso dorato. Le labbra s'incurvavano all'ingiù in un ghigno vendicativo e le vuote pupille sfolgoravano di ferocia.
Con uno scroscio di risa che riecheggiò sulla pianura, Nabucodonosor riconobbe il proprio volto. 52 Iside diede un'ultima occhiata alla coda del Serpente, le cui scaglie bronzee scintillavano sotto le luci alogene, e la lasciò cadere dentro una busta di nylon. Prese una chiave magnetica che portava al collo e la inserì in una pesante porta d'acciaio, che si aprì con un sibilo leggero. All'interno, la grigia scaffalatura metallica era in gran parte vuota. In quella cassaforte, infatti, c'erano soltanto una collana d'inestimabile valore, rinvenuta negli scavi di Troia, e due tubi di metallo pieni di papiri provenienti dalla tomba, recentemente dissotterrata, di una principessa egizia della terza dinastia. Mise la busta fra i tubi e chiuse accuratamente la porta. «Questo posto è una specie di Fort Knox», mormorò. «Non riesco a immaginare come persone non autorizzate possano giungere quaggiù. Anche se riuscissero a superare gli allarmi, il servizio di sicurezza e tutto il resto, dovrebbero valicare questa.» Batté le nocche sulla porta. «Ogni tanto ho l'incubo di rimanere chiusa qui dentro per errore. Una volta che fossero riusciti ad aprire la porta, rischierebbero di trovare soltanto una mummia rinsecchita», concluse, rabbrividendo. «Sarebbe ironico, no?» disse Murphy. «Come?» «Lei che si trasforma in un reperto...» Lei sbuffò. «Se fossi un'archeologa, forse sì. Sarebbe più adatta a lei, come fine.» Fece una smorfia e si portò una mano alla fronte. «Senta, mi dispiace...» Murphy le toccò il braccio. «Cerchiamo di essere chiari. Non c'è bisogno che misuri le parole col bilancino, che non pronunci le parole 'morte' o 'fine' perché altrimenti cadrei a pezzi. Può anche parlare di Laura, se vuole.» Lei sospirò di sollievo. «Bene. Mi piacerebbe. Parlare di Laura, intendo.» Si avvicinò a una porta ricavata nella rete metallica alta fino al soffitto e l'aprì con la chiave magnetica. Mentre il battente si chiudeva automaticamente dietro di loro, Murphy diede un'occhiata alla targa di metallo con su scritto: AREA DEPOSITO DI SICUREZZA - VIETATO L'INGRESSO AL PERSONALE NON AUTORIZZATO. Poi Iside scomparve dietro un
angolo e lui si affrettò a raggiungerla. Si rese conto che non sarebbe mai riuscito a orientarsi da solo in quel labirinto sotterraneo. «Questo posto è stato progettato dallo stesso tipo che costruì la piramide di Annacherib?» «Quella con tutti quei vicoli ciechi e coi falsi corridoi? Come la chiamano... il Labirinto dell'Oblio?» Iside rise. «Non mi sorprenderebbe.» Lo guidò lungo una scala fino a una porta che, con sorpresa di Murphy, si apriva sul parcheggio del personale. Iside si accorse che l'archeologo aveva notato il gabbiotto degli addetti alla sicurezza, di fianco alla porta. «Ce n'è uno a ogni ingresso», gli spiegò. «Gli addetti alla sicurezza sono in contatto radio con la centrale nell'edificio principale. È lì che sono monitorati tutti i sistemi di sorveglianza elettronica.» Murphy parve soddisfatto. «Bene, dove andiamo?» «Mangio fuori di rado, quindi temo di non essere esperta in ristoranti locali. Di solito mi faccio portare una pizza in ufficio.» «E la sera?» Lei sembrò imbarazzata. «Lo stesso.» «Sempre la pizza?» «Perché no? Puri carboidrati. Nutrizione minimalista. Potrebbe essere il piatto nazionale scozzese.» «E pizza sia, allora.» Iside increspò le labbra. «Credo che si possa fare di meglio. Che ne direbbe del secondo piatto nazionale scozzese in ordine di preferenza, vale a dire il curry?» «Qualsiasi cosa calda mi sembra appetitosa.» «Potrebbe pentirsene», replicò lei. Percorsero in taxi la 12th Street Expressway, il tunnel che passava sotto il Mall, l'arteria principale della città, quella su cui si affacciavano monumenti e edifici pubblici. Emersero su E Street e puntarono verso Chinatown. Il ristorante Star of India, rannicchiato tra lo Yip Noodle House e il Jade Palace, era buio e quasi deserto. Mentre sorbivano un tè accompagnato da poppadum croccante, diedero una scorsa al menu, al suono delle più recenti melodie hindi. Iside scelse un piatto di gamberetti in salsa vindaloo, mentre Murphy andò sul sicuro, ordinando un pollo al curry. «Allora, mi parli dell'iscrizione.» «Credevo che non me lo avrebbe mai chiesto», disse lei, liberando un po' di spazio sul tavolo. Estrasse dalla borsetta un pezzo di carta sgualcito e lo
spianò. «Mi ci è voluta un'eternità. È senza dubbio il brano caldeo più complesso che mi sia mai capitato di vedere. Ma, dopo la sua telefonata, sono riuscita a decifrarlo o almeno a capire le parti più importanti. Credo che la sua teoria sia giusta: il gran sacerdote Dakkuri ha scritto questo rompicapo per due motivi. Da un lato, voleva che il lettore fosse in grado di ritrovare il resto del Serpente; dall'altro, si è preoccupato che non finisse in mano alle persone sbagliate. Così stese su tutto una specie di velo, usando un linguaggio metaforico molto difficile da penetrare. Come se avesse messo un guscio intorno al suo messaggio.» «Chi sarebbero le persone sbagliate?» «Difficile dirlo. Sappiamo che Nabucodonosor ordinò a Dakkuri di disfarsi del Serpente, insieme con tutti gli altri idoli. Se qualcuno, fedele al re, avesse trovato l'oggetto, allora lo avrebbe distrutto... e lo stesso Dakkuri avrebbe fatto una brutta fine.» «Logico. Ma le persone giuste chi sono? Dakkuri voleva che il Serpente venisse ritrovato, ma da chi?» «Bella domanda.» Iside seguì col dito le righe fino a trovare ciò che cercava. «Ecco. C'è un incantesimo convenzionale. Piuttosto comune. Lo si vede in ogni sorta d'iscrizioni. Qualcosa del genere: 'Soltanto i puri di cuore troveranno quello che cercano'.» «Sembra che siano i buoni.» «Ho detto che è qualcosa del genere. In effetti, lui ha sostituito 'puri' con un'altra parola. Non ha molto senso, ma la frase che gli somiglia di più è: 'Solo il buio del cuore', oppure: 'Solo quelli con l'oscurità nel loro cuore'.» Sorrise. «Temo che questo riduca drasticamente le sue possibilità, vero?» «Rimarrebbe sorpresa dal sapere quanta oscurità c'è nel mio cuore, in questo momento», replicò Murphy. Lei lo guardò e si morse il labbro. Murphy indicò il foglio. «Continui. Cos'altro dice?» «Be', ci sono altri incantesimi rivolti ad alcune divinità babilonesi meno note... e poi veniamo al sodo.» Indicò un paragrafo. «Le parti del sacro Serpente sono disperse lontano, ma ancora unite. Colui che è abbastanza saggio - però 'scaltro' forse è la parola più adatta - da trovare la prima, ha già in mano la seconda. Trova la terza, e il mistero ritornerà. Quest'ultima parte mi ha lasciato un po' perplessa. Ancora non sono sicura di averla interpretata bene. Ma non vedo alternative a quel 'mistero'.» «Un mistero...» ripeté Murphy. «Dice insomma che ciascun pezzo del Serpente ha un'iscrizione che spiega dove trovare il successivo.» «Credo di sì.»
Lui sorrise. «Allora... dov'è il secondo pezzo?» Iside girò il foglio. «È scritto proprio alla fine, come se Dakkuri ritenesse che soltanto una persona degna sarebbe arrivata a quel punto. Ecco qua. Guarda il deserto e il padrone di Erigai ti prenderà la mano sinistra.» «Cosa significa?» «Be', Erigai è un demone babilonese, fra i meno importanti. Alcuni specialisti non lo includono neanche nei testi. Ma mio padre era un po' più accurato di molti altri», disse con orgoglio. «L'ho cercato in uno dei suoi quaderni di appunti... Erigai faceva qualche lavoretto per conto di Shamash, la più importante divinità babilonese, in campo maschile, perlomeno. Però io non ho capito cosa intendesse Dakkuri finché non mi sono resa conto che Shamash in origine era una divinità solare.» «E allora?» «Allora, il padrone di Erigai - Shamash - che prende la mano potrebbe significare il sole che sorge.» «E, se prende la mano sinistra, si guarderebbe verso sud.» «Già.» «E, se si fosse vicino a Babilonia e si guardasse a sud, allora si vedrebbe... l'Arabia Saudita.» «Il deserto.» Un cameriere in smagliante camicia bianca e farfallino nero arrivò a deporre i piatti davanti a loro, e Iside tolse il foglio dal tavolo. Sentendo l'aroma delle pietanze, Murphy si rese conto di quanto era affamato. Ma non poteva mangiare finché non avesse avuto la risposta. «Il deserto è grande...» mormorò. «Ci si potrebbe smarrire un esercito, figurarsi un pezzo di bronzo lungo trenta centimetri.» «Dakkuri va un po' più nello specifico», precisò lei, irritata, come se Murphy le avesse rivolto una critica personale. «Infatti continua dicendo che a venti giorni da qui, il cercatore spegnerà la propria sete. E sotto i suoi piedi sarà trovato.» Murphy la guardò, perplesso. «Non capisce? Parla di un'oasi che sorge venti giorni a sud di Babilonia.» Incrociò le braccia con aria trionfante. Murphy sogghignò. «Quel posto ha un nome?» «Ah», disse lei, rabbuiandosi. «Questo è il problema. Certo che ha un nome. E ha anche una popolazione di circa un milione di abitanti. Se il secondo pezzo del Serpente è sotto Tar-Qasir, per trovarlo le toccherà scavare nel bel mezzo di una città moderna.»
53 «Le sono grato per tutto ciò che ha fatto.» Nella confusione dell'ufficio di Iside McDonald, Murphy si sentiva a casa propria. «Vorrei che ci fosse un modo per ricompensarla. Ma farla venire a Tar-Qasir è fuori discussione. Lascerò la coda del Serpente qui alla Fondazione, in custodia, poi organizzerò un viaggio in Medio Oriente per trovare il resto. Da solo.» «Ma, se troverà il secondo pezzo a Tar-Qasir, allora cosa farà?» insistette Iside. «Avrà bisogno di me per tradurre quello che c'è scritto sopra. Sono l'unica a poterlo fare.» Si rendeva conto che la collera crescente rendeva la sua voce sempre più stridula, ma non le importava. «Mi ha spiegato come interpretare l'iscrizione sulla coda. Adesso credo di aver capito come funziona. La chiamerò se non riesco ad andare avanti.» Lei sbuffò, sprezzante. «Ah! Non saprebbe nemmeno da dove cominciare. Credo che non distinguerebbe questo genere di cuneiforme da un buco in terra... il che, considerato che lei è un archeologo e io una filologa, ha senso, non crede?» Lui sospirò. «Non capisco perché ne sta facendo un simile dramma. Lei non è una ricercatrice sul campo.» In effetti non lo capiva neanche lei. Fino a pochi giorni prima, per Iside «ricerca sul campo» significava disseppellire libri e documenti dalle pile polverose che le ingombravano l'ufficio. Adesso invece si stava offrendo volontaria per andare dall'altra parte del globo alla ricerca di un reperto che, se non proprio maledetto, almeno era circondato da un'aura assai sgradevole. Trasse un respiro profondo e cercò di mettere a fuoco il miscuglio di emozioni che le si agitavano dentro. «Sono sicura che lei sta cercando di essere cavalleresco e sciocchezze simili... Lo ammetta, su: se vuole davvero trovare tutti i pezzi, ha bisogno di me.» Murphy si astenne dal replicare. «Lo so che mi considera soltanto una donnetta smidollata che ha passato tutta la vita con la testa infilata in vecchi libri.» Notò che Murphy aveva sorriso. «E forse ha ragione. Ma può darsi che io abbia deciso che sia tempo di togliere qualche ragnatela e anche di dimostrare al mondo che mio padre non era l'unico McDonald disposto ad affrontare rischi per ottenere ciò che voleva.»
E guardi cosa gli è successo, pensò Murphy, ma invece disse: «Lei è una donna testarda, lo sa?» «Sì, sono testarda, ma anche piena di risorse. Ieri mi sono presa la libertà di parlare col presidente della PFF e lui si è detto d'accordo che la PFF metta a disposizione il proprio aereo e i finanziamenti per la sua spedizione - la nostra spedizione -, ricevendo in cambio la possibilità di esporre il Serpente qui, nel museo della PFF. Ammesso ovviamente che il corpo e la testa di questo Serpente esistano, che li troviamo e riusciamo a portarceli via.» «Iside, lei sa bene di essersi comportata scorrettamente nei miei confronti, cercando di ottenere il finanziamento prima che io accettassi di portarla con me.» Murphy trasse un lungo sospiro. «Comunque la ringrazio, perché non credo che riuscirei a raggiungere Tar-Qasir senza la generosità della Fondazione.» Iside lo guardò nervosamente, in attesa. «Va bene», sorrise Murphy. «Andiamo a Tar-Qasir. Ma se le cose si mettono male lei se ne va col primo aereo, senza discussioni. Affare fatto?» 54 Il pomeriggio in cui Iside McDonald e Michael Murphy volarono verso il Medio Oriente, l'addetto alla sicurezza del gabbiotto all'entrata della PFF non notò la coppia di falchi pellegrini che si staccò dal tetto di un furgone nero che stava nel parcheggio. Dopotutto il suo era un lavoro monotono, in cui bisognava mantenere a lungo la concentrazione in assenza di stimoli esterni, ed era possibile che, verso la fine di quella lunga giornata, lui cominciasse a essere stanco di fissare i monitor e controllare i registri. Se avesse notato i falchi, avrebbe visto le sagome snelle e scure alzarsi verso il cielo nel tipico movimento a spirale, che sfruttava le correnti ascensionali, create dall'asfalto battuto dal sole, per incrementare il battito regolare delle ali possenti. Se fosse stato un esperto di volatili, avrebbe immediatamente riconosciuto le loro sagome eleganti e, nel guardarli, avrebbe probabilmente sorriso fra sé, rapito da quella vista inattesa. Non era strano che l'avidità e la prepotenza umana avessero cacciato da molti dei loro habitat naturali i falchi pellegrini, personificazioni della bellezza selvaggia e indomita. Eppure essi si erano sorprendentemente ben adattati alla vita nel cuore delle città più moderne e più densamente popo-
late. In natura, preferivano costruire i loro nidi su alte rocce e cacciare gli uccelli; in città, grattacieli e piccioni provvedevano alle loro necessità con abbondanza quasi miracolosa. Se avesse saputo rutto ciò e se fosse stato incline alla meditazione, l'addetto alla sicurezza magari si sarebbe fermato a riflettere, ipotizzando che, in un futuro neanche troppo lontano, il mondo sarebbe caduto in preda al caos e, nelle città abbandonate, i falchi avrebbero occupato i grattacieli deserti come se fossero appartenuti loro da sempre. Mai però avrebbe potuto immaginare che, entro pochi minuti, uno di quei falchi lo avrebbe ucciso. Il suo collega, in servizio davanti alla porta dalla quale erano usciti Murphy e Iside, era ugualmente inconsapevole. Nel momento in cui i due uccelli raggiunsero il culmine della loro ascesa, a circa trecento metri dal suolo, la sua mente si stava arrovellando sul solito rompicapo. Il suo magro stipendio non era sufficiente a coprire i debiti di gioco e tantomeno a mantenere una moglie che accusava lui del fatto di stare invecchiando e si vendicava usando indiscriminatamente le sue carte di credito. Eppure lui era l'addetto alla sicurezza di una miniera d'oro, di cui peraltro aveva le chiavi - o almeno alcune delle tante chiavi - in mano. Sapeva bene che ci sarebbe voluto qualcuno molto più furbo e con più inventiva di lui per trasformare quel fatto in denaro sonante, ma, nel contempo, proprio come certe persone masticano tabacco o fanno scarabocchi, considerava rilassanti quelle futili rimuginazioni. Ed era piuttosto rilassato quando l'uccello più grande, la femmina, si fermò in aria con un palpito d'ali e puntò lo sguardo penetrante sull'alta figura che stava nel parcheggio, trecento metri più in basso. Era vestita di nero dalla testa ai piedi e, se qualcuno avesse guardato verso il parcheggio, probabilmente non l'avrebbe vista, confusa com'era con le ombre che si allungavano. Per il falco, tuttavia, era come un faro. In parte per la sua vista acuta e in parte perché conosceva benissimo quell'uomo e sapeva che cosa si aspettava da lui. L'uomo teneva un guanto da falconiere sopra la testa. Sembrava che stesse chiamando un taxi... cosa in effetti un po' strana da fare nel bel mezzo di un parcheggio. E infatti stava facendo qualcosa di molto più strano. Stava chiamando la morte dall'aria. Artiglio alzò lo sguardo e vide il puntino nero contro il rosa delicato del cielo. Il falco sembrava librarsi senza peso nell'aria e lui quasi ne avvertiva l'impazienza. L'animale voleva che l'uomo tagliasse il filo invisibile che lo
tratteneva, lasciandolo così libero. E fu proprio quello che l'uomo fece, abbassando bruscamente il guanto lungo il fianco. Vedendo il gesto, l'uccello roteò una volta per prepararsi, fissò gli occhi sul bersaglio e raccolse le ali sotto di sé. La gravità fece il resto. E il falco scese in picchiata, raggiungendo una velocità di quasi trecentoventi chilometri all'ora. L'occhio umano non poteva scorgerlo; l'unico modo per seguire la sua traiettoria era il rumore dell'aria lacerata da quel proiettile fatto di muscoli, penne e ossa. Artiglio preferì osservare il bersaglio e attendere l'inevitabile. Mentre indulgeva nelle sue fantasticherie su come arricchirsi in fretta, l'addetto alla sicurezza notò un uomo vestito di nero che, tra due file di auto, lo fissava. Era la sua immaginazione, un effetto della luce che si affievoliva oppure sul volto dell'uomo aleggiava davvero un'aria di attesa divertita? Un'espressione che sembrava dire: So qualcosa che tu non sai? Notando con la coda dell'occhio un movimento confuso, l'addetto si girò istintivamente verso destra, ma i rasoi fissati agli artigli del falco gli si conficcarono in gola con la velocità del lampo. Mentre il sangue fluiva, lui fece un paio di passi, con una mano sulla laringe frantumata, poi stramazzò a terra, in un mucchio scomposto e fremente. Artiglio attese finché non fu tutto finito, poi si avvicinò a esaminare il cadavere, attento a evitare la pozza di sangue che si allargava. Infilando la mano nella giacca, prese un mazzo di chiavi e cominciò a tastarlo, cercando la forma desiderata. Poi udì dietro di sé alcuni passi, provenienti dal gabbiotto della sicurezza. Dapprima lenti e guardinghi, i passi ben presto accelerarono. Allora Artiglio mise le chiavi in una tasca e attese. «Bene, amico. Alzati lentamente e girati. Tieni le mani in vista.» Artiglio sollevò le mani e inalberò il suo miglior sorriso, come se dicesse: Chi, io? L'addetto alla sicurezza lo tenne sotto tiro e scoccò una rapida occhiata al corpo accasciato. Poi tuttavia si rese conto che non poteva prestare soccorso al collega e controllare Artiglio nel contempo, quindi fece per afferrare la radio alla cintura. Artiglio lasciò ricadere un braccio di fianco. «Ho detto tieni le mani...» Ma le parole gli morirono in gola quando il secondo falco lo aggredì alla nuca, spezzandogli la colonna cervicale. Artiglio si spostò di lato, mentre la guardia crollava pesantemente sull'asfalto. Quindi prese una busta di plastica, ne estrasse due colombe morte e le tenne a debita distanza. Dopo pochi secondi, entrambi i falchi discesero in
picchiata dall'ombra e gli si posarono sui polsi, divorando l'inatteso regalo, mentre i loro artigli affondavano nelle fasce di pelle che lui indossava sotto la giacca. Tornò al furgone e sistemò la femmina sul suo trespolo. Il volatile sibilò, adirato, mentre lui gli infilava il cappuccio in testa, poi immediatamente si calmò, placato dal bozzolo di oscurità che d'un tratto l'aveva circondato. Tenne il maschio, più piccolo, per i legacci di cuoio e si diresse verso il gabbiotto, schioccando piano la lingua. «Hai ancora del lavoro da fare, piccolo.» Dentro, trovò alla svelta ciò che cercava. La porta del museo della PFF si aprì con uno scatto soddisfacente, e Artiglio sgusciò all'interno. Era sabato, ma Fiona Carter aveva deciso di approfittare dell'assenza della dottoressa McDonald per mettere in ordine l'ufficio. Prima, però, aveva deciso di concedersi un pranzo in un vero ristorante, una cosa che faceva raramente quando doveva badare a lei. Fiona si chiedeva come stessero andando le cose in Medio Oriente per il suo capo e per il professor Murphy e chi dei due avrebbe vissuto l'emozione più grande. Poi anche lei scoprì qualcosa che la lasciò a bocca aperta. I corpi dei due addetti alla sicurezza giacevano a terra, avvinghiati, come se, quando l'assassino aveva colpito, stessero ballando un macabro tango. Fiona si chinò, cercando invano di capire che cos'era successo, ma, se non altro, si trattenne dal fuggire urlando. Al contrario, si fece forza ed entrò nell'edificio per chiamare il 911. Nei corridoi regnava un inquietante silenzio. Era assai probabile che nessuno lavorasse a quell'ora nel fine settimana, però il silenzio le sembrò troppo profondo, come se l'intero edificio avesse smesso di respirare. L'istinto portò Fiona verso la zona in cui c'era la cassaforte. Voltato l'angolo, vide che la porta nella rete metallica era aperta. E il massiccio battente della camera blindata era spalancato. Intuì subito che cosa avrebbe trovato. O, meglio, cosa non avrebbe trovato. La coda del Serpente era scomparsa. Al suo posto, intagliata con segni profondi sulla scaffalatura metallica del deposito, c'era l'immagine di un serpente, tracciata in fretta. Il serpente era diviso in tre parti... testa, corpo e coda. Vicino a esso, poi, c'era un simbolo inquietante. Doveva immediatamente avvertire il presidente della PFF, Mr Compton. E poi rintracciare il professor Murphy e la dottoressa McDonald. Sperando che non fosse troppo tardi per farli tornare indietro.
55 La prima tappa del viaggio li aveva portati da Washington a Londra, all'aeroporto di Heathrow, dove l'aereo era stato rifornito di carburante e il personale di bordo sostituito. Murphy e Iside si diressero verso il loro gate. La snella figura di lei era appesantita da una voluminosa valigetta in pelle zeppa di libri - edizioni rare che non si sentiva di far viaggiare coi bagagli , che le rallentava il passo. Ma le ripetute offerte di alleviarla di quel fardello avevano incontrato un'accanita resistenza. «Ce la faccio benissimo, grazie. E comunque lei ha già il suo prezioso carico cui badare.» Era vero: l'arco da competizione nella custodia anti-urto, sebbene non fosse pesante, era scomodo da trasportare, e Iside non voleva scaricare su Murphy anche i suoi libri. Perlomeno Murphy aveva smesso di discutere sull'opportunità che lei lo seguisse in quel viaggio... E Iside, che pur si considerava a tutti gli effetti una professionista qualificata per quella spedizione, aveva avuto modo di riflettere a lungo sul dolore dell'archeologo, rammentando la morte del proprio padre. E aveva concluso che lo capiva benissimo anche sul piano umano. Murphy e Iside non parlarono molto nel corso del lungo viaggio verso Tar-Qasir. Murphy aveva dormito durante quasi tutto il volo per Londra e quell'incoscienza gli era sembrata un'inattesa benedizione. Poi, mentre attendeva che l'aereo venisse rifornito di carburante, aveva camminato a lungo nei cavernosi corridoi dell'aeroporto, come se stesse provando un paio di scarpe nuove, ma senza pensare a qualcosa in particolare. Si stava semplicemente abituando alla sua nuova esistenza: quella senza Laura. Iside aveva avuto il buonsenso di lasciarlo solo, consapevole che quell'uomo aveva bisogno di tempo per raccogliere le forze in vista dell'immediato futuro. Inoltre era più che contenta d'immergersi nei suoi libri. Benché non lo volesse ammettere, sapeva che la sua presenza avrebbe rallentato Murphy e quindi era decisa a mantenere almeno la propria abilità linguistica affilata come un rasoio. Voleva avere l'assoluta certezza di poter svelare i segreti del secondo pezzo del Serpente, sempre ammesso che l'avessero trovato. In particolare, stava rileggendo un vecchio volume appartenuto al padre: Scritti apocrifi minori caldei, a cura del vescovo Henry Merton. Ovvia-
mente lo aveva già letto, ma non con sufficiente attenzione, forse perché lo studio di Merton su alcuni dei lati più oscuri delle antiche credenze religiose mesopotamiche non le era mai sembrato troppo importante. In quel momento, tuttavia, l'esauriente analisi dell'idolatria babilonese sembrava scritta apposta per soddisfare le sue necessità. Quando aveva steso quel libro, Merton non era ancora un vescovo, ma soltanto un giovane parroco di campagna in una dimenticata parrocchia del Dorset, nel sonnolento sudovest dell'Inghilterra. Era stato li che il padre di Iside l'aveva conosciuto; aveva spesso raccontato alla figlia del loro primo incontro. Si trovavano a Dorchester, in un negozio di libri usati, ed entrambi avevano allungato la mano per prendere la prima edizione del Ramo d'oro di Frazer. Dopo una lunga discussione, durante la quale avevano tutti e due insistito che l'altro aveva diritto al libro, il padre l'aveva avuta vinta - la ferrea abnegazione scozzese era prevalsa sulla cortesia inglese - e aveva praticamente spinto il giovane sacerdote verso la cassa. Dopodiché, naturalmente, Merton non si era potuto esimere dall'invitare il suo benefattore a prendere il tè nella piccola pasticceria dietro l'angolo. E proprio lì, tra chintz e porcellane, era emerso il suo interesse per gli oscuri rituali di religioni dimenticate. Un interesse - ricordava il padre - che sconfinava nell'ossessione. Nulla di sbagliato o di strano, ovvio... a parte il fatto che Merton era un membro della Chiesa Anglicana. «Era un giovanotto davvero singolare: il suo compito era guidare le anime a Gesù, eppure parlava con passione e slancio dei demoni che abitavano le più oscure profondità dell'oltretomba sumerico», aveva detto il padre di Iside. Nonostante l'istintiva perplessità dell'archeologo più anziano, tra i due era iniziata una fitta corrispondenza. Era davvero impossibile resistere al fascino dell'immensa erudizione di Merton. Dopo qualche mese, però, il padre di Iside aveva smesso di rispondere alle lettere di Merton e lei, sebbene adolescente, aveva capito che era successo qualcosa di grave. Cosa fosse, tuttavia, lei non l'aveva mai capito. D'un tratto, mentre sfogliava lentamente le pagine degli Scritti apocrifi minori caldei, le era venuto in mente che quello era proprio il volume che suo padre stringeva a sé, quando l'avevano trovato. Con un brivido, Iside aveva afferrato d'istinto l'amuleto che portava al collo. Era la testa della dea babilonese Ishtar, un regalo del padre, e le era sempre stato di gran conforto nei momenti difficili. Poi aveva scosso la testa, tornando al libro. Qualunque fosse la verità sul vescovo Merton, non c'erano dubbi che lui conoscesse i riti caldei e che
quindi sarebbe stato un alleato prezioso per entrare nella mente di Dakkuri. Murphy non aveva interrotto la lettura di Iside neanche durante il volo da Londra a Riad. E lei ne aveva approfittato per ricaricare le batterie... ne aveva certamente bisogno, dopo il logorio psicofisico degli ultimi giorni. Infatti, terminato il lungo viaggio in taxi attraverso il deserto fino a TarQasir e sistematisi in un grande albergo moderno chiamato, piuttosto opportunamente, Oasis, Iside si sentiva piena di energia. Murphy, invece, non appena sdraiatosi sulle fresche lenzuola bianche, si era addormentato, prima ancora di chiedersi quale sarebbe stata la loro prossima mossa. Si svegliò qualche ora dopo, strappato bruscamente a un sonno senza sogni da un secco bussare alla sua porta, un rumore che gli sembrò la diretta espressione dello spirito irrequieto di Iside. Fatta la doccia, cambiatosi d'abito e di nuovo concentrato, Murphy la raggiunse nella grande hall. «Credo che dovrebbero ribattezzare questo albergo 'la dimora del vuoto'», scherzò. «Crede che siamo gli unici ospiti?» «Tar-Qasir non è esattamente una destinazione turistica», ammise Iside. «Ma non si può dire che non abbia i suoi lati interessanti.» «Per esempio?» «Mentre lei riposava ho fatto qualche ricerca», replicò lei, con un lampo negli occhi, come a dire che il sonno era qualcosa che lei si concedeva raramente, come un drink. «Sappiamo che, in origine, questo luogo era un'oasi, un comodo punto d'incontro di varie carovane attraverso il deserto. Poi i mercanti hanno cominciato a stabilirsi qui e, a poco a poco, l'oasi è diventata la sede di un mercato. Già nel Medioevo era una città con tutti i crismi. In realtà, piuttosto unica e insolita.» Si stava chiaramente divertendo, e Murphy ne era felice. «Unica e insolita? Mi faccia indovinare, avevano delle gelaterie? No, qui hanno inventato il baseball!» Lei scosse il capo. «Ancora più interessante. Avevano fogne sotterranee. Vede, la sorgente che alimentava l'oasi originaria forniva abbastanza acqua per un sistema straordinariamente efficiente.» Murphy si grattò il mento. «Ed è tuttora in funzione?» «Santo cielo, no. Ma forse le gallerie dell'epoca sono ancora intatte. A quei tempi, le cose dovevano durare parecchio. Se vogliamo scoprire cosa c'è sotto la superficie di Tar-Qasir, le fogne potrebbero essere la risposta.» «A parte che neanche lei mi sembra certissima di quello che dice... come ci entriamo? E, una volta laggiù, come la troviamo la strada?» Iside sollevò lo zaino e si alzò. Indossava pantaloncini militari e scarpo-
ni, ma, chissà perché, sembrava comunque più una filologa che un'escursionista. «Suggerirei di far visita alla biblioteca municipale di Tar-Qasir e vedere cosa troviamo.» Murphy sospirò, pensando: Una biblioteca, ovvio. E dove altro poteva suggerire di andare? In strada, il calore li colpì come un muro massiccio. Pochi istanti dopo, però, un taxi dotato di aria condizionata si fermò davanti a loro e li prese a bordo. Tuttavia, mentre la camicia di Murphy era già fradicia di sudore, Iside sembrava fresca come se avesse fatto un'escursione sulle sue Highlands. Forse essere una donna di ghiaccio ha i suoi vantaggi, pensò Murphy. Dall'esterno, la biblioteca di Tar-Qasir non sembrava molto promettente. La facciata in stile vittoriano del modesto edificio a tre piani aveva più personalità dei blocchi di cemento dipinti di bianco che sembravano riempire gran parte del centro cittadino, ma le finestre rotte e l'atrio polveroso suggerivano che i suoi giorni migliori fossero trascorsi da un pezzo. Un'impressione confermata dall'unico uomo presente. «Abbiamo bisogno di qualche rifacimento, è vero», ammise Salirti Omar, lisciandosi la barbetta. «Tar-Qasir è una città moderna che guarda al futuro, non al passato, e tutto questo» - indicò gli scaffali e le pile di libri che riempivano la stanza - «è considerato irrilevante e indegno di essere studiato.» Sospirò. «È un peccato. Per quanto mi riguarda, credo che sia soltanto scrutando profondamente nel passato che possiamo capire cosa ci riserva il futuro.» Murphy bevve un sorso dal fumante bicchiere di tè alla menta e annuì. «Sono d'accordo con lei, Omar.» Sentì un'ondata di solidarietà per quel bibliotecario dalla voce pacata, che sembrava naufragato su un isolotto del passato, mentre la marea della modernità scorreva veloce accanto a lui. Avrebbe voluto trascorrere un po' di tempo in quel luogo a bere altro tè e ad ascoltare la sua storia. Ma Iside puntava al sodo. «Le fogne, Omar. C'interessano le fogne.» Omar la guardò, perplesso. Lei non capì se fosse sorpreso dal fatto che qualcuno volesse conoscere cose del genere, oppure se fosse sconcertato nell'udire una donna manifestare un interesse. «Dottoressa McDonald, è già abbastanza raro che qualcuno venga qui a cercare un libro. E adesso arrivate voi due dalla lontana America, vi presentate alla mia porta e mi chiedete informazioni sulle fogne. Be', lo trovo molto strano.» «Sono stupita», esclamò Iside con espressione seria, o almeno così parve
a Murphy. «Senza dubbio tutti conoscono le fogne di Tar-Qasir.» Omar la guardò come se fosse pazza. «Forse, ma pochi si spingono fin qui per vedere cosa ne è rimasto.» «Appunto, che cosa ne è rimasto?» domandò Murphy. Omar allargò le braccia. «Chi lo sa? Nessuno scende laggiù da molti anni.» «E se qualcuno volesse andarci? Esiste una mappa o un documento sulla loro costruzione? C'è un modo per orientarsi?» Omar guardò il telefono impolverato e Murphy, per un momento, si convinse che stesse per chiamare la polizia e denunciare quei due stranieri che avevano manifestato un sospetto interesse per le fogne. Di certo, sembrava estremamente nervoso. «Niente da fare. Gallerie crollate e cose del genere. Non posso aiutarvi.» Murphy fece per alzarsi, ma Iside gli posò una mano pallida sul braccio e sorrise all'arabo. «Omar... Se lei ci aiutasse, saremmo ben felici di contribuire al restauro della sua bella biblioteca.» Omar socchiuse gli occhi. «Qualche scaffale in più ci farebbe comodo. E un po' di assistenza nella catalogazione...» Iside continuò a sorridere. «Quanto?» Omar si adombrò, come se affrontare certi argomenti fosse indegno di lui. «Diciamo mille dollari?» «Cinquecento», ribatté Iside. «Certi scaffali sono davvero pericolosi. Ho fatto una brutta caduta neanche una settimana fa. Ottocento.» «Seicento.» «Settecentocinquanta.» «D'accordo.» Prima che Murphy riuscisse a capacitarsi del repentino cambiamento di Iside - non aveva mai sospettato che potesse essere così decisa ed energica - lei aveva infilato le mani nello zaino e contato un ordinato pacchetto di banconote. Omar le sfogliò senza nessun commento, poi si alzò, facendo segno di seguirlo. Varcando una porticina in fondo alla stanza, entrarono in una caotica grotta di Aladino, piena di libri e manoscritti accatastati lungo le pareti. Dopo aver frugato per svariati minuti, Omar riemerse finalmente col suo premio. Soffiò via la polvere da un libro rilegato in marocchino e, con un gesto teatrale, lo consegnò a Iside, dicendo: «Un vero tesoro. La prima edizione del 1844 di Una curiosa storia dell'antica Arabia del conte Charles-Alexis-Henri Clérel de Tocqueville. Credo che vi
troverete alcune eccellenti illustrazioni del sistema fognario di Tar-Qasir com'era nel XIX secolo». Iside sfogliò le pagine rigide e ingiallite. Murphy ebbe l'impressione che fosse stata catapultata nel paradiso dei filologi. «Una prima edizione», sussurrò lei. «Credevo che non ne esistesse più nessuna edizione. Mio padre avrebbe...» Murphy la ricondusse verso la porta, nel timore che, se fossero rimasti più a lungo in quel luogo pieno di tesori, lei non ne sarebbe uscita mai più. «Grazie per il suo aiuto, Omar. E buona fortuna per il restauro.» Omar annuì. «Buona fortuna anche a voi», dichiarò solennemente. Dopo che la pesante porta si fu richiusa dietro di loro, Omar sedette alla sua scrivania, e si versò un'altra tazza di tè, sorseggiandola. Poco dopo, un giovane che indossava una djellaba bianca scivolò fuori silenziosamente da dietro una pila di libri e cominciò a sfogliare gli appunti sulla scrivania di Omar. «Li hai lasciati andare?» Omar strinse le spalle. «Che potevo fare? Sembravano proprio decisi.» «La donna era bellissima. Non ho mai visto una carnagione così pallida. Credi che li rivedremo?» Omar posò la tazza. «Con quello che c'è là sotto? Vuoi scherzare?» Il giovane sospirò. «Peccato. Era davvero bella.» 56 Artiglio superò l'arcata riccamente scolpita che immetteva nella grande sala e si chiese se stesse per morire. Nei due anni al servizio dei Sette, era stato convocato al castello solo in rare occasioni e, ogni volta che si era ritrovato nella cripta, loro erano seduti dietro un enorme tavolo di ossidiana: sette figure nere di cui era impossibile cogliere i lineamenti. Quella volta, invece, un valletto cieco, che sembrava orientarsi nel castello grazie a facoltà extrasensoriali, gli indicò una sedia all'estremità di un lungo tavolo di quercia, dove i Sette sedevano in piena luce a volto scoperto. Se a loro non importava più di essere identificati, allora le possibilità erano due: o si fidavano completamente di lui o non lo avrebbero fatto uscire vivo dal castello. Nel secondo caso, comunque, sapeva fin troppo bene che sarebbe stato vano elaborare un piano di fuga. Ma in che modo l'avrebbero ucciso? In un modo semplice e pulito, ma con qualche tocco teatrale. I Sette amavano le azioni eclatanti, era evidente. In più possedevano anche una particolare sensibilità per la storia. A-
vrebbero usato qualcosa di medievale, in armonia con l'ambiente del castello? Forse un armigero in cotta di maglia attendeva dietro la sua sedia proprio in quel momento, pronto a decapitarlo con un'alabarda affilata come un rasoio? Oppure avrebbero fatto ricorso a qualcosa di più... religioso? L'avrebbero scorticato vivo come san Bartolomeo o gli avrebbero spezzato le membra su una ruota chiodata come a santa Caterina? Sì, di certo sarebbe stato spettacolare. Strano a dirsi, Artiglio era quasi ansioso di capire come. All'altra estremità del lungo tavolo, un uomo dai capelli grigi, con lo sguardo severo e il naso affilato, gli sorrideva, come se potesse leggergli nel pensiero. «Benvenuto, Artiglio.» Parlava con voce pacata, ma abbastanza energica da riempire la sala. «Ti chiederai senza dubbio perché sei qui. O, in particolare, perché ti sia consentito vederci senza la maschera di qualche... trucco tecnologico. Ti assicuro che non è perché abbiamo deciso di fare a meno dei tuoi servigi. Al contrario, ti sei rivelato molto efficiente e degno di fiducia. Perfino indispensabile.» Dagli altri giunsero vari cenni d'assenso. «In sintonia coi nostri obiettivi di governo globale, intendo, e sempre operando in nome della pace mondiale. Se rutto andrà secondo i piani, ci sarà molto da fare per te in futuro... un futuro che non puoi neppure lontanamente immaginare. Ma ti prometto che lo troverai alquanto soddisfacente.» Artiglio rimase in silenzio. Non cambiò neppure espressione, mantenendo la sua solita maschera impassibile. Non voleva credessero che a lui sarebbe importato morire. Né voleva che cogliessero la sua eccitazione alla possibilità di uccidere ancora. Sebbene loro fossero pronti a svelarsi a lui, Artiglio non era certo di sentirsi pronto a restituire il favore. Notò che un uomo paffuto, con gli occhiali, alla sinistra di chi stava parlando, sembrava un po' agitato. «Credo sia giunto il momento di vedere cosa ci ha portato Artiglio, non credete?» disse costui. L'uomo dai capelli grigi annuì e il valletto cieco fu subito a fianco di Artiglio, che estrasse dalla giacca un sacchetto di cotone e glielo consegnò. Tenendolo a braccia tese davanti a sé, come se fosse di vetro, il valletto s'incamminò lentamente verso l'estremità opposta del tavolo e lì lo depose. Mentre tutti fissavano il sacchetto, Artiglio ebbe agio di esaminare ogni membro del consiglio. Il più vicino, alla sua sinistra, era un asiatico che indossava un abito fatto su misura e sedeva eretto, con lo sguardo neutro, imperscrutabile. Veniva poi una donna corpulenta, dai lineamenti severi e coi capelli biondi tirati all'indietro. Anche lei sembrava solo vagamente
interessata a ciò che Artiglio aveva portato. Ma il successivo membro del consiglio, un ispanico che portava una giacca di colore blu elettrico e aveva i baffi ben curati, sedeva rilassato, sogghignando. A capotavola, l'uomo dai capelli grigi manteneva inchiodato su Artiglio il suo sguardo gelido. A giudicare dall'apparenza, nulla sembrava unire quelle sette persone così diverse tra loro. Eppure Artiglio conosceva per esperienza la forza del loro comune proposito. Qualcosa li aveva uniti. Qualcosa che richiedeva enormi risorse, ma anche un'assoluta segretezza. Qualcosa per cui valeva la pena di spargere molto sangue. Qualcosa che risaliva ai tempi della Bibbia e che faceva dei cristiani evangelici i loro mortali nemici. Mentre rimuginava tutto ciò, cercando quel legame sfuggente, si domandò se avrebbe dovuto guardare nel proprio cuore. Dopotutto sembrava che ormai i Sette lo considerassero quasi uno di loro. Cosa vedeva, dunque, scrutando nel suo animo? Si concesse un vago sorriso. Vedeva le stesse cose di sempre: sangue, orrore e buio. Artiglio era affascinato dal male e dalle azioni malvagie. Il suo interesse nei progetti globali dei Sette nasceva unicamente dal fatto che potevano fornirlo di mezzi e risorse illimitate per soddisfare le proprie brame depravate. Poi una donna spigolosa, che indossava un fantastico abito verde smeraldo e aveva una gran massa scarmigliata di capelli rosso fiamma, posò la mano sul braccio dell'uomo dal viso tondo che le sedeva accanto e sibilò: «Vediamolo. Abbiamo aspettato abbastanza». Lentamente, Sir Merton tese la mano ed estrasse dal sacchetto il pezzo di bronzo lungo trenta centimetri. Mentre lo sollevava, la mano grassoccia gli tremò. Poi accadde una cosa strana. L'aria sembrò farsi più densa, si udì una scarica elettrica, e la mano di Merton riacquisì fermezza. Doveva essere un effetto della luce, pensò Artiglio, ma gli occhi dell'uomo parvero mutare colore, dal grigio a un profondo blu notte. E, quando parlò, l'accento inglese era scomparso, sostituito da qualcosa di più profondo e più difficile da definire. «Ben presto sarete di nuovo uno. Com'era in principio. E il sacrificio tornerà a essere vostro.» Poi chiuse gli occhi, emise un lungo respiro e sembrò sgonfiarsi, diventando più piccolo. Quando riaprì gli occhi, aveva di nuovo l'aspetto di un corpulento ecclesiastico inglese. Artiglio aveva avuto tempo a sufficienza per esaminare la coda del Serpente, ma adesso la guardava con rinnovata curiosità. Se quello era il potere di un unico pezzo, cosa sarebbe accaduto quando li avessero avuti tutti e tre?
Merton si era tolto gli occhiali e fissava con intensità il Serpente. Intorno al tavolo aleggiava un'atmosfera di attesa. «Sì, sì», disse infine Merton. «Sì, non c'è dubbio. Splendido, splendido.» Posò la coda sul tavolo e intrecciò le mani sull'addome, con un sorriso soddisfatto. «Allora?» disse John Bartholomew. «Murphy sta ancora lavorando con Iside... con la dottoressa McDonald?» Bartholomew annuì. «L'ultima volta che sono stati visti erano in viaggio per Riad.» «Il Regno del Deserto. Naturalmente, naturalmente. Bene, se Iside è davvero figlia di suo padre, allora non dovrebbe aver problemi a decifrare il piccolo rompicapo di Dakkuri. Forse Murphy ha già il secondo pezzo fra le mani, mentre parliamo», ridacchiò Merton. Il generale Li volse leggermente la testa verso Merton. «In tal caso, non dovremmo sottrarglielo immediatamente?» Merton non sembrò turbato dal tono del generale. «Certo che no. Non credo. Iside deve avere il tempo di tradurre la parte successiva dell'indovinello. Come sapete, il secondo pezzo porta al terzo, e il terzo porta... Be', non c'è bisogno che vi dica dove porta.» Gli sguardi di avida attesa intorno al tavolo confermarono che non era necessario. «Bisogna essere pazienti. Quando Murphy avrà in mano l'ultimo pezzo...» - accennò ad Artiglio -, «... quello sarà il momento di colpire. E allora, forse, la dottoressa McDonald e io potremo abbandonarci un po' ai ricordi», concluse con aria lasciva. 57 Murphy strinse l'anello di ferro con entrambe le mani, si puntellò contro il muro del vicolo e tirò. Gocce di sudore gli corsero lungo la fronte e le braccia iniziarono a tremargli per lo sforzo, ma la lastra di pietra rimase al suo posto, esattamente dov'era stata per un tempo da lui stimato in parecchi secoli. «È sicura che sia questa la via di entrata migliore?» grugnì. «Senz'altro. Ci porterà direttamente alla fogna principale.» «Sempre che esista ancora.» «Abbia un po' di fede, Murphy. Avanti, è sicuro che non può sforzarsi un po' di più?» Murphy le lanciò un'occhiata in tralice, mentre lei, sotto la luce della lu-
na, gli si chinava accanto, stringendo le labbra. Se Iside avesse avuto una frusta, di certo l'avrebbe usata su di lui. Stava per chiederle di darle una mano, quando sentì la grande lastra muoversi un poco. Trasse un respiro profondo senza lasciare la presa e strinse i denti. A poco a poco, la lastra si spostò. «Mi dia la torcia», chiese Murphy, inginocchiatosi davanti al buco scuro. Lei obbedì, poi domandò: «Cosa vede?» La tenebra sembrava assorbire avidamente il raggio di luce. «Non molto. La muratura sembra abbastanza intatta in cima, ma più giù... non so. Immagino ci sia solo un modo per saperlo.» Lei sembrava un po' nervosa. «Come facciamo a...?» «Se sei in dubbio, saltaci dentro. Questa è la mia filosofia.» L'entusiasmo di Iside stava rapidamente svanendo. «Non dirà sul serio, vero? Il fondo potrebbe essere a trenta metri.» Murphy infilò le gambe nel buco e si aggrappò ai lati. «Mi pare di ricordare che questa è stata una sua idea. Andiamo.» Vide il panico sul volto di lei e si addolcì. «Tranquilla. Ci sono dei piccoli appigli. Faccia piano e mi segua.» Non erano affatto trenta metri e, cosa straordinaria, gli appigli di ceramica erano quasi tutti intatti. A parte le poche volte in cui Iside mise un piede in fallo, colpendo la spalla di Murphy, scesero senza incidenti. Toccarono terra all'incrocio di quattro gallerie. Murphy concesse a Iside qualche istante per riprendere fiato, poi chiese: «E adesso dove andiamo?» Iside sfogliò il volume di Tocqueville, mentre la sua torcia le illuminava il viso, facendolo sembrare un'apparizione. «Be', il posto più probabile è alla sorgente del pozzo originale. Certamente Dakkuri si riferiva a quella.» Murphy afferrò una manciata di polvere e la lasciò scivolare tra le dita. «Come facciamo a trovarla? Quaggiù è completamente asciutto.» La sua occhiataccia la fece sembrare ancora più spettrale. «Dobbiamo individuare la direzione della corrente, poi seguirla a ritroso.» Murphy si accovacciò e mosse il fascio di luce sul suolo. «Quando l'acqua si è asciugata avrà lasciato delle striature nel fango... Magari si sono conservate.» Avanzò a tentoni per pochi passi e indirizzò la luce su quella che sembrava una pietra, lunga e piatta. «Ecco qua. A meno che non mi sbagli di grosso, dobbiamo andare da questa parte.» Lei lo seguì nel buio, guidata dal fascio ondeggiante della torcia. Muovendosi lentamente nello stretto passaggio di mattoni, inspirando l'aria
stantia, vecchia di centinaia di secoli, Iside cominciò a ricordare perché non aveva mai voluto diventare un'archeologa. L'albergo pulito e moderno da qualche parte sopra la loro testa sembrava mille chilometri e mille anni lontano. Urtò la schiena di Murphy. «Vicolo cieco», spiegò lui. Ritornarono sui loro passi fino all'incrocio, ed esaminarono il suolo cercando altre tracce del passaggio dell'acqua. Murphy indicò un'altra galleria. «È sicuro?» domandò Iside. «Non so lei, ma questa è la prima volta che m'infogno in una fogna. A dire il vero, sto andando a naso.» «Mi pare un ottimo sistema», replicò Iside. «In una fogna, intendo.» Un po' meno fiduciosi, s'incamminarono lungo la galleria, sperando in un segno rivelatore. Dopo parecchi minuti di lento cammino, Murphy si fermò, puntando la luce sul terreno. «Cos'è, secondo lei?» Sembrava soltanto un'ombra. Poi Iside, con un sussulto, esclamò: «È un'orma!» «Già, come pensavo. E sembra fresca. Probabilmente significa che stiamo andando nella direzione giusta.» Per Iside significava tutt'altro e cioè che laggiù c'era qualcuno, oltre a loro due. Forse Omar aveva mandato un sicario a prendere il resto del denaro. Iside aveva un unico desiderio: tornare indietro il più rapidamente possibile... alla luce, alla gente e al XXI secolo. Ma non ci avrebbe provato da sola. Diede al suo amuleto una tiratina nervosa e si affrettò a seguire le spalle di Murphy che stavano scomparendo. Dopo alcuni minuti videro un'altra impronta. Poi un'altra ancora. Le orme adesso apparivano in gruppi, sovrapponendosi l'una all'altra, come le tracce di un branco di animali. Iside tirò Murphy per la manica. «Crede davvero che dovremmo seguirle? Sembra che ce ne siano tante.» «Ha un'idea migliore?» «A parte tornare indietro, vuol dire?» Murphy si voltò a guardarla. «Senta, potrebbe anche rivelarsi una ricerca inutile, ma al momento non abbiamo alternative. Almeno sappiamo che non ci stiamo cacciando in un altro vicolo cieco. Queste tracce andranno pure da qualche parte, no?» Agitò la torcia nella direzione dalla quale erano venuti e, quando il raggio si posò sul viso di lei, sui lineamenti minuti della donna era dipinta la paura. «Non intendo costringerla a proseguire. Vuole davvero tornare indietro?»
Lei fu attraversata da un'ondata di sollievo, seguita da una strana sensazione di vuoto, come se in quell'istante la sua vita avesse perso significato. Trasse un respiro profondo, poi fece girare Murphy e gli diede una piccola spinta. «No, no. Mi sono sentita un po' disorientata per un istante. Forse è colpa della polvere. Ora sto bene.» Lui grugnì, e ripresero a camminare. Lei puntava il fascio di luce della torcia dritto davanti a sé; non voleva vedere altre tracce dei loro invisibili compagni. Arrivati a un nuovo incrocio, con gallerie che si diramavano a destra e a manca, Iside chiuse gli occhi e si concentrò per tenere sotto controllo il respiro. «Si restringe», spiegò Murphy, girandosi a sbirciarla. «Tutto bene?» «Non soffro mica di claustrofobia, sa?» esclamò lei con tutta l'indignazione che aveva in corpo. Era vero, non aveva mai avuto paura degli spazi angusti. Una volta, quando Miss McTavish l'aveva rinchiusa in un armadio per un intero pomeriggio, non aveva provato nient'altro che un beato senso di sollievo, a starsene lontana per qualche ora dalle grinfie delle compagne di scuola, lasciando vagare la mente tra gli dei e le creature mitologiche che già le affollavano l'immaginazione. Ma stavolta era diverso. Si trovavano in una catacomba di tunnel tenebrosi e sempre meno ventilati e... non erano soli. Secondo Omar, nessuno scendeva laggiù da generazioni. Allora di chi erano le impronte? L'ansia di Iside era acuita dalla disinvoltura di Murphy. Evidentemente lui aveva l'abitudine di procedere alla cieca, confidando che qualche potere superiore gli avrebbe impedito di cadere dentro un buco molto profondo. E lei era così furba da andargli dietro? Si fece forza per affrontare la galleria successiva, ma Murphy non accennava a muoversi. «Sente qualcosa?» le domandò. Iside piegò la testa di lato. «Qualcosa come?» «Non so. Il vento, forse?» Lei si mise una mano davanti al viso e scrollò il capo. «Neanche un filo. No, sembra... acqua.» Murphy annuì. «E le impronte vanno nella stessa direzione. Guardi.» S'incamminò lungo il tunnel di sinistra, rannicchiato per non sbattere la testa contro il soffitto. Iside, rinunciando definitivamente al contegno, gli si aggrappò a un braccio. Mentre s'inoltravano, il rumore scrosciante aumentò finché lei non fu certa di sentire l'odore dell'acqua sopra quello di polvere e marciume.
Quando però udirono un altro suono, si fermarono di colpo. Stavolta sapevano entrambi cos'era. Arrivava a ondate, più forte, più debole, poi ancora più forte. Iside toccò l'amuleto con mano tremante e attese che Murphy dicesse qualcosa. «Capisce di che lingua si tratta? Non sembra arabo.» Lei si sforzò di ascoltare. Era una strana cantilena, un ritmo preciso, come se stessero salmodiando. «Io... non lo so. C'è un accenno di aramaico, forse. Ma potrebbe essere la mia immaginazione. Che facciamo?» «Saremo prudenti», rispose Murphy, avanzando. Lei lo seguì, incerta, la mente avvolta in un turbine di pensieri. Aveva chiuso a chiave lo schedario, quello in cui conservava il suo diario privato? Si era ricordata di restituire al professor Hitashi la copia del commento di Gilroy all'Epopea di Gilgamesh? Aveva tolto tutte le trappole per topi che Fiona aveva insistito a piazzare in ufficio? Con un tuffo al cuore, si rese conto che non si aspettava di tornare a Washington. Era convinta di morire. Be', in tal caso, perlomeno non si sarebbe lasciata alle spalle una famiglia. Ma allora chi sarebbe andato al suo funerale? Non molte persone, probabilmente. Però il suo corpo non sarebbe mai stato ritrovato, quindi niente funerale. L'avrebbero considerata dispersa, per sempre. Come un'anima perduta... Murphy le stava toccando la spalla e indicava in avanti. C'era un rumore scrosciante, come acqua che scivolasse rapidamente sulla pietra, e la cantilena sembrava minacciosamente vicina. E c'era anche una luce, un tremolio spettrale contro le pareti della galleria. Avanzarono lentamente e Iside toccò con l'alluce qualcosa di duro. Il suolo della galleria era formato da mattoni. Sollevando lo sguardo, vide sulla parete un foro irregolare. Le gambe la portarono in quella direzione, indipendentemente dalla sua volontà. Non aveva più paura e non pensava più nulla, come se il suo cervello funzionasse soltanto per tenere il corpo in movimento. L'ultimo suo pensiero fu che probabilmente gli zombie si sentivano proprio così. Murphy la scosse, facendola tornare in sé. Nella luce incerta, la fissò con espressione severa e portò un dito alle labbra. Lei annuì e girò la testa per guardare attraverso il foro nella parete. Sembrava che gli occhi le si fossero chiusi automaticamente. Li riaprì con uno sforzo. La prima cosa che vide furono i teschi. Ce n'erano sette, disposti in un approssimativo semicerchio, come zucche di Halloween, le orbite infiammate da lampade a olio che riversavano la loro luce su un corpo disteso a
terra. Il corpo, rigido, apparteneva a una ragazzina di non più di dieci anni, rivestita quasi per intero da un lacero telo di cotone. Il suo viso minuto sembrava di cera, ma si coglievano gli accenni della bellezza che sarebbe sbocciata col tempo. A meno che non fosse già morta. Nudi fino alla cintola, tre uomini ondeggiavano avanti e indietro, spinti dalla ritmica nenia che permeava l'ambiente oscuro. Nello scorgere il lungo coltello da macellaio che ciascuno stringeva in grembo, Iside emise un respiro strozzato e Murphy le posò una mano sulla bocca. Poi lei trasse un respiro profondo e allora lui tolse lentamente la mano, indicando poi oltre i teschi. In cima a un palo, infilato a terra, balenava uno spesso pezzo di metallo a forma di S. La parte centrale del Serpente di Bronzo! Osservandolo, Iside si sentì risucchiare attraverso i secoli, in un mondo di primitiva oscurità. Era come trovarsi nell'armadio di Miss McTavish, ma stavolta insieme coi veri dei e coi veri demoni e senza speranza di uscire. Un gemito le salì in gola e lei riuscì a malapena a soffocarlo. Poi Murphy la trascinò nella galleria e Iside si rilassò di colpo. Stavano tornando indietro. Sarebbero sopravvissuti. 58 Murphy prese Iside per le spalle e la studiò. Nell'oscurità della galleria, riuscì a vedere soltanto i suoi occhi imploranti. «Pensa di farcela?» le chiese. Dalla gola di lei uscì un sussurro. Era un sì? La strinse più forte, quasi scuotendola, e Iside annuì. Doveva bastare. Non c'era tempo per altre domande. Murphy tornò ad avanzare lentamente verso il foro nella parete e lei lo vide soffermarsi, aspettando il momento buono. Poi scivolò nelle ombre tremolanti. Muovendosi a tentoni dietro di lui, si accovacciò all'entrata, una mano sulla bocca per impedirsi di gridare. Non riusciva a distogliere gli occhi e, nel contempo, aveva paura di guardarlo. Se lo avesse perso di vista sarebbe stata veramente sola. Strinse la torcia come se stesse affogando e quella fosse un salvagente. Mentre avanzava, strisciando sul ventre, sull'altro lato della galleria, tra sassi e mattoni, Murphy si lanciò un'occhiata alle spalle. Gli parve di senti-
re gli occhi di Iside su di sé, ma, a parte quello, lei era soltanto una vaga ombra che si confondeva nell'oscurità. Sperava che la polvere sul terreno avrebbe attutito il rumore dei suoi spostamenti, ma, quando colpì un mattone col ginocchio e lo fece rotolare nel buio, s'irrigidì di botto. Affondò il viso nella terra, non osando guardare in alto, respirando appena. Ma il canto dei tre carnefici mantenne il suo ritmo funereo. Sembravano in trance, e forse erano sotto l'influenza di qualcosa... Però lui sapeva che, a un certo punto, il canto sarebbe cessato e quei lunghi coltelli dall'aria minacciosa sarebbero entrati in azione. Si diede dell'idiota per aver lasciato l'arco in albergo. Vero, non poteva sapere che avrebbe dovuto interrompere un sacrificio umano in una fogna medievale, ma ormai doveva avere imparato che l'imprevisto era sempre dietro l'angolo. Ripensò alla telefonata di Mathusalem. Se avesse saputo dove quel reperto lo avrebbe portato, avrebbe detto al vecchio dove cacciarsi il suo indizio, Daniele o non Daniele? Gli omicidi, l'esplosione nella chiesa, Laura... In un certo senso, tutto era cominciato con quella telefonata. Ma sapeva pure che era inutile rimuginarci sopra. Era ormai sicuro che Dio lo aveva indirizzato su una certa strada e lui poteva soltanto seguirla sino in fondo. A qualunque costo. L'immagine della giovinetta che stava per essere immolata gli tornò in mente, rinnovando il suo coraggio. Iside sarebbe stata in grado di fare la sua parte? Quando l'aveva incontrata per la prima volta, gli era sembrata tesa come la corda di un arco. Ora, strappata al suo bozzolo accademico, poteva trovarsi sull'orlo di un completo crollo emotivo. Pregò che le reggessero i nervi. Riprese a muoversi, tenendosi il più lontano possibile dai tre corpi oscillanti. Era la sua immaginazione oppure il rumore scrosciante stava diventando più forte? Non voleva essere la vittima sacrificale fuori programma, ma non intendeva neppure scomparire in un torrente sotterraneo. Se avessero girato la testa verso destra, sarebbe stato nel loro campo visivo. Non poteva contare più a lungo sulla loro condizione alterata. Era ormai certo che i tre carnefici avrebbero concluso le loro preghiere da un momento all'altro e allora sarebbe stato troppo tardi. Continuate, ragazzi. Ancora qualche versetto. Fissò l'attenzione sul suono ossessionante e sentì che la concentrazione lo stava abbandonando. Desiderò che le lancette dell'orologio si muovessero più in fretta. Poi, mentre la testa cominciava a martellargli e l'autocontrollo stava per abbandonarlo,
udì un rumore di polvere e rocce e girò il collo per guardare indietro. Ciò che vide gli fece balzare il cuore in gola. Inquadrata nella breccia in cui, fino a poco prima, si trovava Iside, c'era un'apparizione terribile, come se il canto pagano avesse evocato una diavolessa. Illuminato dal basso dalla torcia elettrica, il suo volto cadaverico sembrava emettere un bagliore innaturale e fluttuava nell'oscurità, apparentemente senza sostegno. Per un assurdo istante non fu sicuro che si trattasse proprio di Iside... Poi si riscosse e scattò in avanti. Come aveva sperato, i tre uomini, ora in silenzio, stavano gesticolando verso Iside, terrorizzati. Lui li oltrepassò, incespicando in direzione del palo e del Serpente e loro sembrarono non accorgersi di nulla, ma... Per quanto tempo ancora avrebbero creduto a quel numero da baraccone? Murphy si chinò ad afferrare per la spalla la ragazzina svenuta e scoprì che non era affatto legata, però era rigida come un angelo di pietra. Speriamo che ancora non lo sia diventata, pensò. Se era ancora viva, allora dovevano averla ridotta all'incoscienza con chissà quale droga ed era un rischio svegliarla all'improvviso... Sempre meglio, però, che farsi massacrare dagli adoratori del Serpente... Dopo due scossoni, la ragazzina spalancò gli occhi e, vedendo Murphy, prese a urlare. Sperando che gli uomini fossero ancora «stregati» da Iside, lui le coprì la bocca con una mano, e portò alle proprie labbra l'altra, facendole segno di tacere. La ragazzina aveva gli occhi quasi fuori dalle orbite per la paura, ma non sembrava drogata. Accennò a Murphy di aver capito e rimase in silenzio. Lui si alzò, girandosi verso il palo che sosteneva il corpo del Serpente, avvampante d'ipnotici bagliori nel riflesso delle torce fiammeggianti. Tese le braccia e, con dita tremanti, cominciò a sciogliere le corde di canapa che assicuravano il pezzo di bronzo. Quando lo ebbe fra le mani fu sorpreso nel constatare che il suo peso sembrava identico a quello della coda. Ma le sue considerazioni furono interrotte dall'urlo che si era levato dai tre carnefici, che avevano scorto la ragazza in fuga verso il foro nel muro. Smisero di gesticolare nella direzione della vittima allorché uno di loro scorse Murphy con l'idolo in mano. Allora, del tutto dimentichi delle due donne, rivolsero la loro furia contro di lui, determinati a punirlo per quel sacrilegio. Avanzarono verso Murphy grugnendo di rabbia, brandendo i coltelli e senza mostrare la minima traccia dell'inerzia palesata poco prima, quando
sembravano in stato di trance. Murphy non sapeva che fare. Non voleva fuggire, abbandonando Iside alla loro mercé. Affrontare quei pazzi armati di coltello e sperare di cavarsela era assurdo. Aveva fatto del suo meglio e non poteva fare altro. Sperò che Iside avesse la presenza di spirito di scappare per la strada percorsa all'andata. Cercò di vincere la paura e cominciò a pregare. Tra pochi minuti avrebbe rivisto Laura. A distoglierlo dalle sue riflessioni fu la ripresa della cantilena. Però adesso era diversa. Più acuta. Era una voce di donna. Guardò oltre gli aggressori e si rese conto che era stata Iside a intonare quel canto. Poi lei cominciò a parlare con un tono autoritario, alzando nel contempo una mano e puntandola imperiosamente nella sua direzione. Le parole che pronunciava non avevano il minimo senso per Murphy. Invece i tre si erano fermati e la fissavano a bocca aperta, come se non credessero alle proprie orecchie. Murphy ne approfittò per muoversi, però, mentre li oltrepassava di corsa, una mano si agitò, fulminea, e lui sentì un dolore lancinante al fianco. Cadde su un ginocchio, in attesa che il colpo seguente gli squarciasse la gola. Poi un suono a metà tra un urlo e un ringhio attraversò l'oscurità e i tre uomini caddero al suolo. Iside ormai sbraitava furiosamente, agitando in ampi cerchi le braccia sottili. Qualunque cosa stesse dicendo, i tre sembrarono afferrare il messaggio. Gettando al vento la prudenza, Murphy la superò di scatto e s'infilò nel tunnel, poi la afferrò per un braccio e lei gli scoccò un'occhiata furibonda, come se fosse una dea offesa dal contatto con un semplice mortale. «Avanti, dea, ritorni in sé», le mormorò. «Dobbiamo uscire di qui prima che i suoi ammiratori si rendano conto di essere stati presi in giro.» Iside rise con disprezzo, ma si lasciò guidare. «Credo che non andranno da nessuna parte, a meno che non vogliano finire in pasto agli uominiscorpione.» «Credevo che non parlasse il loro... gergo», borbottò Murphy, mentre la spingeva lungo la galleria. «Me lo sono improvvisamente ricordato... È un dialetto di Terammasic... estinto da un millennio. Almeno così si pensava.» «E guarda caso lei lo parla.» «L'ho imparato all'università, per divertimento. Mi sembrava così strano che mi sono detta: 'Qualcuno deve mantenerlo in vita'.»
«Ma si può sapere che cosa gli stava urlando?» Si stavano avvicinando rapidamente all'incrocio da cui erano entrati nelle gallerie. Murphy non udiva nessun rumore d'inseguimento. «Gli ho semplicemente ricordato che dovevano la loro miserabile esistenza alla dea della creazione e che, se avessero toccato lo spirito-cane mio amico, se ne sarebbero pentiti.» Murphy l'aiutò a salire sul primo appiglio. «Il suo spirito-cane? Non le è venuto in mente nulla di meglio per me che il suo spirito-cane?» «Stavo per definirla il mio spirito-serpente, ma ho pensato che lei non aveva un aspetto abbastanza malvagio.» «Immagino di doverla ringraziare.» «Murphy, posso anche tornare indietro e dire loro che lei è un archeologo biblico, se preferisce.» «Ripensandoci, spirito-cane va benissimo», grugnì lui. Iside sgusciò all'esterno e, mentre Murphy la imitava, lei prese la parte centrale del Serpente dalla mano di lui. Sollevarono insieme la lastra di pietra, risistemandola al suo posto, e si sedettero con le spalle alla parete. Il mondo terribile che avevano appena lasciato era già scomparso, come un sogno spaventoso. «Cosa crede sia successo a quella povera ragazza?» chiese Iside dopo un po'. Murphy le mostrò un lembo di stoffa. «A quanto pare, ce l'ha fatta. Questo è un pezzetto del vestito che indossava, rimasto attaccato nel bordo di un appiglio.» Fissò Iside. Con gli occhi chiusi e sotto la luce della luna, il suo viso continuava ad apparire spettrale. «Ottimo lavoro, dottoressa McDonald. Ha messo in scena proprio un gran bel numero.» Lei balzò in piedi e cominciò a spazzolarsi la polvere dai pantaloni. «Roba da niente. Mio padre diceva sempre che sono la reincarnazione di una dea, o qualcosa del genere. Immagino che mi venga naturale.» Sembrava imbarazzata, come se Murphy l'avesse vista nuda e la loro amicizia fosse mutata per sempre. «Su, torniamo in albergo», gli disse. «Non so lei, ma io ho proprio bisogno di un bicchiere di scotch.» Murphy non rispose e Iside si domandò se disapprovasse quell'accenno all'alcol. Stava per dirgli che ne avrebbe bevuta anche una bottiglia intera, se ne avesse avuto voglia, dopo tutto quel che le aveva fatto passare, quando si accorse che lui aveva gli occhi chiusi. Poi, mentre lo guardava, Murphy scivolò lentamente lungo il muro e cadde al suolo. Soltanto allora lei si accorse del sangue.
59 «C'è Miss Kovacs, signore.» Shane Barrington l'aveva attesa con ansia. «La faccia entrare. E non voglio essere disturbato.» La donna che si fermò sulla soglia sembrava un po' diversa dalla Stephanie Kovacs che era entrata in quell'ufficio un mese prima. Vestiva ancora in un modo provocante eppure discreto: i tacchi a spillo e la gonna corta erano bilanciati dalla giacca e dal maglione nero a collo alto. L'abbigliamento, i capelli spettinati ad arte e il trucco leggero rafforzavano l'immagine di una donna attraente che aveva cose ben più importanti da fare che occuparsi del suo aspetto. Mentre si avvicinava all'unica sedia davanti alla scrivania, la sua andatura era sicura, autoritaria, quasi aggressiva. Ma, quando si sedette e Barrington la guardò negli occhi, lui vide subito il drammatico cambiamento avvenuto in lei dal loro ultimo incontro. Invece di brillare di quel bagliore di superiorità morale che i suoi telespettatori avevano imparato ad amare, erano vuoti e vaghi, come se qualcosa in loro fosse morto. Erano gli occhi di qualcuno che aveva venduto l'anima. «Sono lieto che sia venuta, Stephanie. Volevo ringraziarla personalmente per il lavoro svolto.» Lei lo scrutò, guardinga. «Mi spiace che la storia della bomba nella chiesa non sia andata per il verso giusto. All'inizio, l'FBI era come assatanata; adesso invece è molto più prudente. E il preside Fallworth è soltanto un pallone gonfiato. Niente di ciò che mi ha fornito è stato sufficiente a inchiodare Murphy come voleva lei. Mi creda, io...» Barrington la interruppe con un gesto sprezzante. «Non importa, Stephanie. Ha lavorato bene. Noi volevamo semplicemente tenere impegnato Murphy e piantare qualche seme nell'opinione pubblica. Inoltre, a tempo debito, scoprirà altre rivelazioni sui nostri amici evangelici.» Stephanie gli rivolse uno sguardo in cui si leggeva l'annoiata indifferenza di una persona che aveva già perso la cosa più importante che possedeva. «Ha detto noi... Mi sono chiesta chi c'è veramente dietro tutto questo. Lei non mi sembra il tipo che si prende a cuore le istanze religiose, Mr Barrington.» Lui sorrise. «Sempre l'intrepida cronista investigativa, eh? Immagino che il suo naso da segugio non smetta mai di fiutare in giro. Anche se le ho messo guinzaglio e museruola», aggiunse, godendosi l'improvviso rossore
che era salito alle guance della donna. Si alzò e andò a un mobiletto dai vetri affumicati. «Le preparo qualcosa da bere?» Lei scosse il capo. «Non bevo mentre lavoro.» Barrington rise. «Suvvia...» Tirò fuori una bottiglia scura e cominciò ad allentare la reticella metallica intorno al tappo. «Un bicchiere di champagne.» «Champagne? Festeggiamo qualcosa?» «Spero di sì, Stephanie. Lo spero proprio.» Liberò il turacciolo dentro una salvietta con un leggero pop, versò lo champagne in due bicchieri e gliene porse uno. «Allora, a cosa brindiamo?» chiese lei, in tono inespressivo. Barrington alzò il bicchiere con un sorriso cupo. «Al dominio del mercato, naturalmente.» Toccarono i calici. «A questo bevo sempre», commentò lei in tono ironico. Posato il bicchiere, Barrington si appoggiò alla scrivania, davanti a lei. Stephanie sembrò imbarazzata da quell'improvvisa vicinanza. «Potrebbe essere ben presto una realtà. Come lei sa, la Barrington Communications è l'azienda più potente del pianeta nel campo delle comunicazioni. Ma questo è solo l'inizio. Tra poco, ci sarà molto di più.» Lei lo guardò con aria scettica. «Intende candidarsi per la presidenza?» «Sto parlando di potere vero, Stephanie. Quello che si può soltanto sognare.» Lei sorseggiò il suo champagne. «Bene, salute a lei, Mr Barrington. Ma non capisco cosa c'entro io.» «Ti prego, chiamami Shane.» Andò alla finestra. «Potere e ricchezza possono darti molte cose, Stephanie. Ma sarò sincero: si è soli, lassù in cima. Certo, dopo il mio divorzio, ho avuto alcune donne, ma, quando si è ricchi come me, è difficile trovare qualcuno di cui fidarsi davvero. Qualcuno con cui si possa veramente condividere tutto. Mi capisci?» Stephanie aveva capito benissimo. Quell'uomo aveva comprato la sua anima, e adesso voleva ciò che restava di lei. La sua prima reazione fu di panico, ma poi ci rifletté. Forse non sarebbe stato un cattivo affare. Se ci si vende, è meglio farlo quando la tua quotazione è al massimo. Barrington sembrava convinto di poter diventare il re del mondo. Diventare la sua regina? Be', le potevano capitare cose peggiori. Gli si avvicinò e insieme fecero correre lo sguardo sulla città. Dopo un po', a Stephanie venne in mente quel passo del Vangelo di Matteo in cui il
diavolo porta Gesù in cima alla montagna e gli offre tutti i regni del mondo, a patto che si prostrasse, adorandolo. Posò la testa sulla spalla di Barrington. Certo, lei era molto più furba. Mr Barrington... Shane... non se lo sarebbe fatto dire due volte. 60 Iside guardò il dottor Aziz sparire nell'ascensore con la rigonfia borsa nera sotto il braccio e richiuse la porta. L'ultima volta che aveva fatto il conto, aveva scoperto di poter parlare una dozzina di dialetti arabi oltre ad altre dieci diverse lingue del Vicino e Medio Oriente, per un totale di chissà quanti milioni di parole. Ma cominciava a capire che solo una contava veramente. Bakshish. Mancia. Per pochi dollari, il giovanotto della reception era stato ben lieto di chiamare il dottor Aziz, assicurandole che era «molto riservato». E il medico, per un'altra ragionevole ricompensa, era stato felicissimo di rattoppare Murphy. Mentre Iside lo accompagnava alla porta, lui le aveva rivolto un sorriso da vecchio libertino, mostrando i denti d'oro. «Niente polizia, niente polizia!» aveva detto, mettendo un dito sulle labbra. Ma davvero quei due non stavano facendo il doppio gioco? E se avessero chiamato la polizia, che sarebbe successo? Iside non lo sapeva. All'atto pratico, in effetti, lei e Murphy non avevano commesso nulla d'illegale: nessuno era stato ucciso e, quanto al Serpente, sarebbe stato difficile stabilire a chi veramente apparteneva. Forse l'idea migliore l'aveva avuta Ezechia, che aveva spezzato quell'oggetto in modo che non finisse in mano a nessuno. Si appoggiò alla porta; cominciava ad accusare la stanchezza. «Ce la farà, a quanto pare. Il medico mi ha dato certi antidolorifici dall'aspetto orribile che, a occhio e croce, devono essere roba da cavalli, ma lei è testardo come un mulo... Murphy?» Aveva gli occhi chiusi ed era pallidissimo, ma a lei sembrò che il petto si muovesse al ritmo del respiro. Si avvicinò al letto e le venne voglia di toccarlo. Solo per controllare se è vivo, si disse. La pelle era fredda, però il battito c'era. «Buonanotte, Murphy», sussurrò. «Sogni d'oro.» Tornata nella sua stanza, si sdraiò sul letto e chiuse gli occhi per qualche minuto, lasciando che la confusa ondata di emozioni le turbinasse nella
mente. Alla fine trasse un respiro profondo, espirò lentamente e si tirò a sedere. Lavoro. Quello era l'unico modo per riacquistare l'equilibrio. Si versò un bicchiere di Famous Grouse, preparò una dozzina di matite bene appuntite vicino a un blocco di fogli gialli a righe, poi mise la parte centrale del Serpente sotto la luce della lampada da tavolo. Sarebbe stata una lunga notte. Si svegliò al rumore di vetri infranti. Fogli gialli volavano per la stanza, mentre il vento irrompeva dalla finestra aperta, soffiando via le coltri e strappandole lunghi brividi. La lampada finita a terra si accendeva e spegneva con un rumore sfrigolante. Qualcuno bussava forte alla porta e lei istintivamente cercò di coprirsi. Avvertì sotto le dita il cotone della camicia da notte. Confusa, allungò la mano verso la lampada sul comodino. Ogni cosa era al suo posto. La lampada sulla scrivania. I fogli ordinatamente impilati con sopra il Serpente. La finestra chiusa. A parte il suo respiro affannoso, il silenzio regnava. Ridendo di sollievo, Iside andò alla scrivania e lesse ciò che aveva scritto sul primo foglio. Quello almeno non l'aveva sognato. Lo rilesse da cima a fondo ancora una volta, cercando di fissarselo in mente, poi s'infilò tra le lenzuola. Si addormentò prima di ripeterlo per la seconda volta. Il mattino seguente, Murphy non mostrava segni della terribile avventura. Quando lei lo raggiunse all'unico tavolo occupato dell'enorme ristorante, stava allegramente banchettando con panini e caffè. «Sembra vispo come un fringuello», gli disse. Lui fece occhiolino. «Il sonno del giusto.» «Bene, non si stanchi. Il dottor Aziz ha detto che dovrebbe restare a letto per un paio di giorni.» Murphy sbuffò. «Stava solo cercando di spillarle qualche altro dollaro facendola sembrare una questione di vita o di morte. Non è che un graffio. In ogni caso, abbiamo del lavoro da fare.» Iside infilò una mano nella borsa con aria trionfante. «Si rilassi. Tutto fatto.» Lui prese il foglio di carta spiegazzato e lo lesse. «Comincio a credere che suo padre avesse ragione. Ma ha dormito un po'?» Lei fissò la tovaglia. «Non c'è voluto molto.» «Ed è sicura di aver capito bene?» Cercò di strappargli il foglio di mano, ma lui glielo sottrasse. «Scherzavo!» Lo rilesse. «Nella terra del diluvio giace con una regina. 'La terra del
diluvio.' Potrebbe trattarsi del diluvio biblico.» Lei annuì. «Nella letteratura babilonese è citato un po' ovunque. La domanda è: dove esattamente?» «Molta gente crede che l'Arca si sia fermata sul monte Ararat. Forse in Anatolia, dunque. Conosciamo qualche regina da quelle parti?» «Non di quel periodo. Troppo a nord.» «Forse allora non intendeva il diluvio, ma soltanto un luogo di frequenti alluvioni.» Lei si versò del tè e aggiunse un po' di latte. «Dove, per esempio?» «Che ne dice dell'Egitto? Il Nilo straripa tutti gli anni, con la precisione di un orologio. Senza di esso non ci sarebbe stata la civiltà egizia. Nessuna Sfinge né piramidi.» «Forse. Legga il brano seguente.» «Sepolto nella pietra, si libra in aria.» Murphy scosse la testa. «Non capisco.» Lei posò la tazza. «Un momento. Se lei ha ragione e Dakkuri parla dell'Egitto, allora 'sepolto nella pietra' e 'giace con una regina' fanno riferimento a una piramide, giusto?» «Sì.» «Be', l'archeologo è lei. Quante piramidi ci sono?» «Più di quante pensa.» «Ma questa non è una piramide qualunque.» Lui batté la mano sul tavolo. E un cameriere si precipitò dalla cucina a vedere cosa stava succedendo. Iside lo rispedì indietro con un'occhiataccia. «Mai sentito parlare della Piramide dei Venti?» «Non credo. Sicuro di non essersela inventata?» Lui sogghignò. «Esiste veramente. È sull'altopiano di Giza appena a ovest del Cairo, sola soletta. Non abbastanza vicina alle tre grandi - Cheope, Chefren e Micerino - per finire sulle cartoline, perciò nessuno ci fa molto caso.» «E questo nome fantasioso da cosa viene?» «Secondo la leggenda, al centro della piramide c'è una corrente ascensionale così forte che potrebbe tenere un uomo sospeso in aria in eterno.» «Un uomo... o la testa di un Serpente di Bronzo», disse lei. «Perché no? Se ricordo bene, è anche il luogo dove riposa la regina Hephrat II.» «Ecco! Sepolta nella pietra ma librata in aria. E adesso che facciamo?» «Ci diamo un'occhiata, ovviamente. Venga.»
Tornarono nella stanza di Murphy e lei rimase a osservare mentre l'archeologo accendeva il computer portatile e si collegava al database della Preston University. Dopo alcuni secondi, sul monitor apparve un modello tridimensionale dell'interno della Piramide dei Venti. Iside indicò la serie di fori quadrati che circondavano la base della piramide. «Cosa sono?» «Condotti di ventilazione. L'aria è risucchiata nella grande stanza - cioè nel grande spazio vuoto al centro della piramide, sopra la camera mortuaria di Hephrat - ed esce di qui, da questi fori più piccoli a due terzi d'altezza.» «Molto interessante. Si direbbe che gli antichi egizi abbiano inventato l'aria condizionata con tremila anni d'anticipo.» «Solo per la famiglia reale», precisò Murphy. «E dovevano morire prima di godersela. Forse questo tipo di logica spiega perché la civiltà egizia non è durata.» Iside gli rivolse un sorriso sarcastico. «Allora, da dove viene la leggenda delle cose che fluttuano a mezz'aria?» «Ricordo a malapena la fisica studiata a scuola, ma la mia teoria è questa. L'aria viene risucchiata all'interno dai fori alla base. Si scalda nella grande stanza, sale e viene compressa man mano che la piramide si restringe. Ciò ne aumenta la velocità e la spinge fuori dalle aperture in alto, risucchiando al tempo stesso altra aria dal basso. Una specie di ciclo continuo.» «Quindi lei crede che la testa del Serpente si libri a mezz'aria nella grande stanza?» «Ne dubito. La mia opinione è che si trovi nella camera mortuaria o in uno dei condotti di ventilazione.» Iside studiò il monitor con aria scettica. «Come le ho detto non soffro di claustrofobia, ma quei condotti di ventilazione mi sembrano piuttosto stretti. Come faremo a...?» Murphy digitò qualcosa e la Piramide dei Venti scomparve. Al suo posto, apparve un altro modello tridimensionale: sembrava una specie di aspirapolvere ad alta tecnologia. «Ecco a voi il Pyramid Crawler. Un robot controllato a distanza e progettato specificamente per attraversare i condotti di ventilazione delle piramidi.» «Vuole scherzare? Esiste una ditta che costruisce quegli aggeggi?» «Non so se sia il modello più venduto della iRobot Corporation, ma in questo momento è proprio ciò che ci serve. Di che colore lo vuole? Credo
che la scelta sia grigio scuro oppure un grigio un po' più scuro.» Iside stava leggendo le caratteristiche dell'apparecchiatura: controllo computerizzato, veicolo a trazione quadrupla con due serie di cingoli collocati l'uno sopra l'altro, in modo che una serie fosse a contatto del suolo e l'altra del soffitto. Una serie di sensori, luci e microtelecamere completava il quadro. «Anche ammettendo di avere a disposizione uno di quei marchingegni, ancora non capisco come possiamo entrare nella piramide. So che lei è allergico alla burocrazia, ma non può semplicemente affittare un paio di cammelli e mettersi a scavare.» Murphy parve offeso. «Crede che non abbia qualche contatto? Ha mai sentito parlare del dottor Boutrous Hawass, il segretario generale delle Antichità egizie, chiamato anche il 'direttore delle piramidi'? Be', il mio migliore amico all'università era un certo Jassim Amram, che ora è docente di Archeologia all'American University of Cairo, nonché, guarda caso, braccio destro di Hawass. Se conosco Jassim, avrà già insegnato a uno di quei Pyramid Crawler a preparare un martini e a portarglielo davanti al televisore.» «Bene», disse Iside, aprendo la porta. «Organizzi le cose col suo amico professor Amram, mentre io cerco il nostro pilota e gli dico di prepararsi a partire per il Cairo.» Murphy aveva chiuso il portatile e stava già mettendo i vestiti nello zaino. «Ottima idea.» Non appena Iside entrò in camera sua, squillò il telefono. «Oh, grazie a Dio, dottoressa McDonald. Le passo il presidente Compton.» «Iside.» La voce di Harvey Compton era piuttosto tesa, pensò Iside. Probabilmente temeva che lei gli avesse rovinato la tappezzeria dell'aereo. Doveva rassicurarlo, spiegandogli che i soldi della Fondazione erano stati ben spesi. «Harvey, abbiamo trovato il secondo pezzo del Serpente e scoperto dove si trova la testa.» «Ah, be'... Ti chiamo per un'altra cosa, Iside. Qualcuno ha ammazzato due addetti alla sicurezza e rubato la coda del Serpente. Tu e il professor Murphy dovete interrompere il viaggio e rientrare immediatamente.» 61 Era strano. Strano e orribile. L'assassinio dei due addetti alla sicurezza
era avvenuto dall'altra parte dell'oceano, eppure Iside era distrutta come se vi avesse assistito. Aveva lavorato con quei due uomini e li conosceva bene. «Iside, mi spiace di aver coinvolto lei e la Fondazione in tutto questo», disse Murphy pur sapendo di non poterle recare nessun conforto. «E Compton ha ragione: dobbiamo tornare.» Iside, seduta, fissava il muro. «No, Murphy. Non torneremo a casa adesso. Chiunque stia cercando d'impossessarsi del Serpente dev'essere fermato.» «Iside, lei è sotto shock. E rischia di cacciarsi in un pericolo ancor più grande di quello che abbiamo corso qui a Tar-Qasir, il che è tutto dire. Faccia i bagagli.» «No, Murphy. Manteniamo la rotta. Compton è troppo lontano per fermarci. Inoltre, c'è qualcosa che non le ho detto su ciò che è accaduto alla Fondazione.» «Cosa?» «Murphy, chiunque abbia preso la coda del Serpente di Bronzo ha anche una faccia di bronzo. Si è preso la briga di lasciare un messaggio beffardo, che di certo è destinato a lei. Ha inciso il simbolo di un serpente sullo scaffale metallico dov'era conservata la coda. Un serpente diviso in tre pezzi.» Murphy andò alla finestra. Dopo qualche momento di riflessione si voltò e disse: «Be', chiunque abbia preso la coda del Serpente sa benissimo cosa stiamo cercando. Ma le poche persone alle quali abbiamo confidato i particolari della nostra spedizione non sono né assassini né ladri». «Almeno non finora, aggiungerei. In questo Serpente c'è qualcosa che, per secoli, ha indotto un mucchio di gente a fare un sacco di cose strane.» «Mi sento comunque di escludere che un altro archeologo, un mio rivale, sia disposto a uccidere e a rubare per quella coda. Direi piuttosto che i nostri nemici sono animati da una forza potente e malvagia.» Iside prese la mano di Murphy e, con uno sguardo preoccupato, aggiunse: «C'è un'altra cosa che devo rivelarle su ciò che è accaduto alla Fondazione. Lei mi ha parlato del ciondolo a forma di croce che aveva regalato a Laura e del fatto che, poco prima del funerale, qualcuno lo aveva spezzato in tre parti. Be', vicino al Serpente tracciato sullo scaffale, l'assassino ha inciso una croce spezzata in tre parti». Murphy si mise a sedere, scosso da quella notizia. Poi andò alla parete e la colpì tre volte col pugno. «È la conferma dei miei peggiori sospetti. Se si esaminano gli indizi, si rinviene una logica perversa, un legame tra mol-
te delle cose accadute di recente: quello sconosciuto giunto a Preston che si fa amico Chuck Nelson, la bomba alla chiesa, il furto della coda...» Al pensiero del successivo anello di quella perfida catena, la voce gli si spezzò. Iside completò il ragionamento. «Il fatto che Laura non sia rimasta uccisa nell'esplosione, ma sia stata deliberatamente assassinata.» «Iside, tutto ciò va oltre l'archeologia, la fede e l'autenticazione della Bibbia. È diventata una faccenda personale. Troveremo la testa del Serpente anche a rischio della vita. E, se continuiamo la nostra ricerca, prima o poi ci troveremo anche a faccia a faccia con questo diabolico sconosciuto.» 62 «Allora, cosa faremo una volta trovata la testa del Serpente?» Murphy era concentrato sul quel vociante, polveroso, coloratissimo caos che era la città del Cairo, mentre il taxi avanzava faticosamente fra le auto, le biciclette, i pedoni e persino qualche bue, che affollavano le vie anguste. La domanda lo colse di sorpresa. «Voglio dire... Lei non potrà ricostruire l'oggetto originale, dato che il ladro si è impadronito della coda», continuò Iside. «Insomma, mi rendo conto del problema, ma per avvalorare il racconto biblico basterebbero due pezzi. Tuttavia non è questo il motivo per cui siamo qui, vero?» Da quand'erano in Medio Oriente aveva preso un po' di sole, e ciò le donava molto. Appariva più sicura di sé e non sembrava più una creatura della notte pronta a rifugiarsi nella sua tana non appena il mondo esterno si avvicinava troppo. Lui però non era certo di voler affrontare quella sua nuova determinazione. Non in quel momento. «Dimostrare la veridicità della Bibbia è il mio mestiere. Non credo esista nulla di più importante.» Lei lo guardò, scettica, poi si aggrappò alla maniglia della portiera mentre l'autista sterzava per evitare un uomo anziano che avanzava ondeggiando in bicicletta. Riprendendo l'equilibrio, chiese: «No? E la profezia?» «Rientra in quell'ambito. Se si dimostra che i testi dei profeti dell'Antico Testamento risalgono a quell'epoca, si proverebbe che sono autentici.» «Non la seguo.» Controvoglia, Murphy distolse lo sguardo dalla rumorosa confusione delle strade. «Alcune delle loro profezie si sono compiute, è vero, ma, secondo gli scettici, ciò è stato possibile perché loro scrivevano dopo che gli
eventi erano accaduti e non prima. È quindi importante dimostrare che i loro scritti avevano un reale carattere profetico.» «E perché è importante?» «Per le predizioni che non si sono ancora avverate. In tal modo, la gente può essere certa che si avvereranno.» Lei annuì, come se Murphy avesse confermato qualcosa che già sapeva. «E allora mi racconti la parte del Libro di Daniele che ancora non si è verificata.» «Daniele? Pensavo che fosse più interessata a Marduk, Ereshkigal e compagnia bella.» Iside lo guardò con un'intensità che Murphy non aveva mai visto e che lo indusse a pensare di essere stato troppo duro con lei. Notò pure che non indossava più l'amuleto. «Mi scusi. Sì, le parlerò di Daniele, se vuole. Ma perché proprio ora?» «Mi ha detto che la sua ricerca del Serpente di Bronzo è cominciata con un misterioso messaggio su Daniele. Tutto ruota intorno a quel messaggio, no? Quindi ho pensato che mi piacerebbe capire per che cosa sto rischiando la pelle.» Aveva usato un tono impertinente, però Murphy non si lasciò impressionare. «Tramite Daniele, Dio disse a Nabucodonosor che, nella storia, ci sarebbero stati quattro imperi: il suo, quello babilonese - rappresentato dalla Testa d'Oro della statua -, l'impero medo-persiano, quello greco e infine quello romano. Ciascuno di essi sarebbe diventato sempre più debole, finché, coi romani, non si sarebbe diviso in due parti... come le gambe della statua.» «Roma e Bisanzio.» «Esatto. Dunque, quattro imperi mondiali. Solo quattro. Dopo i romani, nessuno - né Napoleone, né Hitler - è riuscito a fondare il quinto.» Lo guardò, sorpresa. «Ma qual è la predizione che non si è ancora avverata?» «La statua di Nabucodonosor aveva un altro pezzo: le dieci dita dei piedi. Gli esperti di profezie sostengono che le dita - fatte di argilla e ferro rappresentano una forma di governo instabile che, in un prossimo futuro, sostituirà le odierne nazioni-Stato. Probabilmente dieci monarchi o governanti di qualche tipo spianeranno la strada all'Anticristo.» Lei distolse lo sguardo, concedendosi una pausa per assimilare ciò che Murphy le aveva detto. Stavano viaggiando lungo la Comiche al-Nil, la principale arteria automobilistica che correva parallela alla riva orientale del Nilo, e i sontuosi palazzi della zona delle ambasciate si succedevano
come in processione. «E lei pensa che il mistero di cui parla Dakkuri abbia qualcosa a che fare con questa profezia?» Murphy si strinse nelle spalle. «Il mio istinto mi dice che c'entra con le predizioni di Daniele, anche se mi ci è voluto un bel po' per capirlo. Nel Libro dell'Apocalisse, la parola che lei ha usato - mistero - è legata a Babilonia. Dakkuri ha scritto che il mistero sarebbe ritornato.» «Non capisco. Babilonia ritornerà?» Murphy annuì. «Il potere di Babilonia, sì. Quando l'Anticristo fonderà il suo governo mondiale.» Lei si passò una mano tra i capelli. «Ora non la seguo più. Torniamo al Serpente. Se ci dobbiamo basare su quello che abbiamo visto nelle fogne, qualcuno lo ha adorato in segreto per anni, forse per secoli. Dio sa quanti innocenti sono stati sacrificati in nome di quel Serpente.» «È incredibile, lo so. Terrificante.» «E questo culto sarebbe in relazione col... ritorno di Babilonia?» Lui si grattò il mento. «Diciamo che c'è un forte legame di base: le forze oscure, il male... In fondo, è la stessa cosa.» «Così noi due ci stiamo cacciando proprio nelle fauci del drago, vero?» Murphy cercò di dire qualcosa per rassicurarla, ma in quell'istante il taxi si fermò davanti all'edificio principale dell'American University, e un uomo alto, in abito bianco e con un sorriso smagliante, aprì la portiera, facendoli scendere nell'aria calda come una fornace. «Murphy, vecchio filibustiere! Bentornato al Cairo.» Dieci minuti dopo, Jassim si era seduto su una sedia di metallo dall'aria scomoda che, in qualche modo, sembrava adattarsi perfettamente alla sua figura allampanata. Sorseggiò con aria soddisfatta il suo martini. «Sicuro che non ne vuoi?» «Ma scherziamo? So cosa ci metti dentro. L'alcol è il meno.» Jassim scoppiò in una risata. «Il solito, vecchio Murphy.» «Il solito, vecchio Jassim», ribatté Murphy, sollevando il bicchiere di limonata. «Sì, purtroppo sono un pessimo musulmano.» «Mah, per me sei una gran brava persona. La tua lettera dopo la morte di Laura mi è stata di grande conforto.» L'espressione allegra di Jassim si spense. «Non credo proprio, però dovevo dirti cos'avevo nel cuore.» Bevvero in silenzio per un po', persi nel ricordo di Laura. Poi Jassim riprese: «La dottoressa McDonald sta bene? L'ho trovata as-
sai cordiale, ma forse un po'... assente». Iside era andata direttamente all'alloggio che Jassim aveva fatto allestire per loro nell'area riservata ai professori in visita e alle loro famiglie. «Ha mille pensieri», spiegò Murphy. Jassim non insistette. «Spero comunque che stia bene e sia pronta per domani. Ci aspetta una giornata impegnativa.» Si agitò sulla sedia, felice come un bimbo la Vigilia di Natale. «Dunque il professor Hawass è d'accordo?» «Assolutamente. Negli anni '60, quando passarono ai raggi X la tomba della regina Hephrat, era completamente vuota. I ladri di tombe ci avevano battuti ancora una volta.» «Battuti di circa duemila anni», commentò Murphy. Jassim rise. «Tutto ciò che restava era una buca profonda e oscura alla base della piramide. L'idea che ci sia qualcosa dentro, qualcosa che i ladri potrebbero non aver trovato, qualcosa che un sacerdote caldeo del tempo di Nabucodonosor potrebbe aver nascosto lì - la testa del Serpente di Bronzo di Mosè, nientemeno! - è davvero straordinaria ed eccitante. Il professor Hawass è stato felicissimo di mettere le nostre umili risorse al vostro servizio.» «Potremmo lasciare qui la parte centrale del Serpente? Dopo ciò che è successo a Washington, capirei benissimo se ti rifiutassi di...» Jassim agitò una mano. «Non ci spaventiamo facilmente, qui. Custodiremo il pezzo con discrezione. Anzi ne saremo onorati.» «Ah, che sollievo. Magnifico. Allora, mi hai procurato il Pyramid Crawler?» «Oh, sì. E sono impaziente di vederlo in azione. I ladri di tombe usavano bambini o addirittura nani per entrare in quegli angusti passaggi...» Scosse il capo. «Purtroppo accadeva spesso che quegli sventurati non riuscissero più a tornare indietro. Se tutto andrà bene, col Pyramid Crawler riusciremo a penetrare nei più riposti angoli della nostra piramide senza rischiare perdite umane!» «Spero di sì, Jassim», borbottò Murphy, oscurandosi in viso. «Spero proprio di sì.» 63 S'incontrarono il giorno dopo, di primo mattino, e salirono sulla Land Rover di Jassim - carica di attrezzature -, pronti al viaggio verso la pirami-
de. Iside era stata quasi sempre in silenzio, però il modo rilassato eppure efficiente in cui aveva controllato l'equipaggiamento aveva colpito Murphy. Iside sembrava aver raggiunto una calma interiore del tutto nuova per lei. Mentre varcavano il Nilo sul ponte dell'isola di Rodah e traversavano il quartiere di Giza fino al confine col deserto, si domandò perché non si sentiva anche lui così. Dopo una manciata di ore passate a rigirarsi nel letto, in preda a sogni quasi deliranti, aveva rinunciato a dormire e trascorso il resto della notte camminando avanti e indietro nel giardino sul retro dell'alloggio. Aveva sperato di ricevere un segno che gli confermasse che quella era la cosa giusta, che la sua presenza in quel luogo rientrava nel progetto divino. Ma, quando era spuntata l'alba, lui era solo più stanco di prima. Iside ascoltava Jassim, impegnato a raccontare storie ridicole su mummie maledette e scarabei fantasma, e sul suo volto era apparso un sorriso da Sfinge. Osservandola, Murphy si disse che forse Dio aveva scelto di mandare un segno a quella donna, invece che a lui, un po' come nella parabola del figliol prodigo... Non la invidiava, però. Se qualcuno sapeva che erano sulla strada giusta, per lui andava benissimo. Pyramid Road: così era chiamato il percorso di avvicinamento al deserto. E quando l'aveva percorsa con Laura per la prima volta - a bordo della loro malconcia Citroen - c'erano ancora tracce di acacie lussureggianti, di tamarindi e di boschetti di eucalipti. Ma poi l'ondata di sviluppo urbano aveva cancellato ogni elemento naturale. Quando infine gli edifici di cemento si diradarono e le tre piramidi di Giza apparvero all'orizzonte, suscitando una sommessa esclamazione di meraviglia da parte di Iside e un risolino compiaciuto di Jassim, Murphy si domandò se quella straordinaria giustapposizione di antico e moderno non fosse proprio il segno che stava aspettando. Lì, al Cairo, la gente era lanciata verso il futuro, mentre quei monumenti antichissimi rimanevano a guardare, immutabili, come per dire: Se vuoi sapere cos'hai veramente davanti a te, guardati indietro. La strada si arrampicò fino in cima al pianoro - che si estendeva per più di due chilometri quadrati - e curvò intorno alla Sfinge. Quindi apparvero le tre maestose piramidi reali, che ospitavano rispettivamente Cheope, il padre, Chefren, suo figlio e Micerino, suo nipote. Raggruppate intorno alle Tre Grandi, le piramidi più piccole di regine e principesse contribuivano ad accrescere la maestosità di quello spettacolo incredibile.
Mentre la Land Rover proseguiva, curvando verso il lato nordorientale del pianoro, le grandi piramidi tornarono a rimpicciolire in lontananza. Iside allungava il collo, cercando d'imprimersi nella mente ogni dettaglio di quello straordinario panorama, ma, a un certo punto, Jassim le toccò una spalla e indicò davanti a loro. La Piramide dei Venti, che sorgeva isolata a un'estremità del pianoro, sembrava appena costruita, tanto appariva perfetta nella sua antica geometria. Più piccola delle altre, era tuttavia imponente, con le lisce pareti di blocchi di pietra perfettamente aderenti, a testimonianza del genio eterno dei suoi creatori. «È davvero sorprendente», disse Iside, sgusciando fuori della Land Rover e socchiudendo gli occhi nell'abbacinante foschia. «Una delle più grandi imprese d'ingegneria al mondo», convenne Jassim. «Be', avere un esercito di schiavi che trascinano i blocchi di pietra aiuta non poco», borbottò Murphy. «Ovviamente. Ecco perché i nostri edifici moderni sono così fragili, se paragonati a questa piramide», rise Jassim. «Oggigiorno, di schiavi non se ne trovano più.» Iside srotolò la mappa tridimensionale dell'interno della piramide, mentre Jassim e Murphy controllavano che il Pyramid Crawler fosse pronto. «Bene!» dichiarò infine Jassim, osservando l'immagine nitidissima della piramide sul monitor del computer portatile che lui teneva in equilibrio sulle ginocchia. «E sembra pure che risponda correttamente ai miei comandi.» Accarezzò il Crawler, come fosse un cane fedele, lo orientò verso la piramide e, scherzando, gli ordinò: «Su, vai!» Reggendo il Crawler, Murphy prese a salire gli enormi blocchi di calcare, verso l'entrata del primo condotto di ventilazione. «Il vento soffia in prevalenza da sud, dunque è questo il condotto che probabilmente riceve il flusso d'aria più forte. Ci è sembrato il punto migliore per iniziare», spiegò Iside a Jassim. L'altro annuì. «Speriamo che il vento non lo abbia riempito di sabbia.» Murphy indietreggiò e Jassim fece partire il Crawler per il suo viaggio all'interno del condotto di ventilazione. Da sopra la spalla di Jassim, Murphy e Iside osservarono le immagini sgranate riempire lentamente lo schermo. «Sembra libero. Il Crawler si muove senza problemi. Dovrebbe raggiungere la fine del condotto in circa tre minuti. Finora non sembra che ci siano
ostacoli sulla sua strada.» Tre minuti sembrarono trenta mentre, stipati nell'abitacolo climatizzato della Land Rover, i tre cercavano d'interpretare le immagini che il Crawler trasmetteva grazie alle sue microtelecamere. Alla fine, Jassim pigiò un tasto e lo fermò. «Basta così. Dev'essere vicino al bordo del condotto e, se avanza ancora, rischiamo di perderlo. Se là dentro ci fosse qualcosa, a quest'ora l'avremmo visto.» «Lascialo proseguire per qualche altro centimetro, Jassim», disse Murphy, fissando intensamente il monitor. «Che roba è? Ho visto muoversi qualcosa.» Jassim, con riluttanza, fece avanzare il Crawler. «Potrebbe essere un animaletto, forse un topo, anche se dubito che nella tomba sia rimasto qualcosa da rosicchiare.» «Bene, fermo. Eccolo di nuovo. C'è qualcosa che si muove all'estremità del condotto, ne sono sicuro.» Jassim regolò la messa a fuoco delle microtelecamere gemelle. «Vediamo... Va meglio, così?» Murphy annuì. «Dev'essere qualcosa al di là del condotto. Qualcosa che si trova nella grande stanza.» «Come la testa di un Serpente di Bronzo che fluttua a mezz'aria?» rise Jassim. Murphy gli rivolse un'occhiataccia. «C'è un modo solo per scoprirlo.» Mentre Jassim ritraeva il Crawler dal condotto, borbottando tra i denti, Murphy si accertò di avere tutto il necessario. Corda, torcia elettrica, coltellino svizzero... e il suo arco. Jassim lo guardò come se fosse impazzito. «E quello a che diavolo ti serve?» «L'ultima volta che sono sceso in un buco per cercare una parte del Serpente mi sarebbe tornato utile. Non ripeterò lo stesso errore.» Mentre si avvicinavano alla base della piramide, Iside non disse nulla, però, quando Murphy si apprestò ad arrampicarsi all'entrata del condotto, gli posò una mano sul braccio. «Sia prudente.» Lui la guardò negli occhi. «Be', io ci provo a essere prudente, sempre.» Ma il sorriso spavaldo gli morì sulle labbra. «Dico sul serio», insistette lei. Con l'arco aderente al corpo e con le ginocchia, le spalle e i gomiti premuti contro le pareri del condotto, Murphy cominciava a capire perché i ladri di tombe avessero fatto ricorso a bambini e a nani per compiere i loro
misfatti. Ma un'estate di spedizioni archeologiche in Messico gli aveva insegnato che anche un uomo di corporatura media poteva infilarsi in uno spazio sorprendentemente angusto, posto che riuscisse a rimanere calmo. Il più delle volte, infatti, l'idea di essere intrappolato scaturiva dal panico e non dalle dimensioni del buco in cui ci si trovava. Si concesse un momento per rallentare la respirazione, cercò di rilassare i muscoli, e avanzò lentamente, avvertendo il risucchio dell'aria calda. Forse non ce la farò mai a uscire di qui, ma almeno non morirò soffocato, pensò. Dopo dieci minuti, aveva le ginocchia e i gomiti escoriati. Si sorprese a chiedersi se non fosse stato un errore portarsi appresso quell'arco così ingombrante. Senza di esso, avrebbe raggiunto il bordo del condotto da un bel pezzo... Chiuse gli occhi, sapendo per esperienza che il buio totale avrebbe paradossalmente diminuito il senso di claustrofobia, e riprese a scivolare in avanti. Pochi minuti più tardi afferrò il bordo del condotto e aprì gli occhi, protendendosi a guardare nell'abisso sottostante. Da qualche parte, nell'oscurità, c'era la tomba della regina Hephrat, ma l'inclinazione delle pareti rendeva impossibile tentare la scalata. Non riusciva a immaginare come i primi ladri di tombe ci fossero riusciti. Sgusciò fuori e rotolò su una stretta sporgenza. Quando fu certo di poter stare in piedi senza capitombolare nel buio, alzò lo sguardo. Le correnti d'aria gli turbinavano intorno, scompigliandogli i capelli, ma la loro intensità non sarebbe stata sufficiente a farlo volare via dal suo appoggio. Mentre cominciava ad abituarsi a quelle correnti, si accorse che l'oscurità intorno a lui non era assoluta. Da uno dei condotti in cima alla piramide scendeva infatti un sottile raggio di luce, che si perdeva nell'abisso. Una luce che sembrava studiata per esaltare una scena incredibile. A non più di trenta metri dal punto in cui si trovava Murphy, in alto, c'era un oggetto che palpitava miracolosamente nel vuoto. E il raggio di luce traeva un bagliore opaco da quello che sembrava un pezzo di metallo grande come un pugno e roteante a mezz'aria. Un pezzo di metallo che aveva tutta l'aria di essere la testa del Serpente di Bronzo. Indifferente allo scorrere del tempo, Murphy rimase lì, come pietrificato dalla vista di quell'oggetto che danzava in aria come aveva fatto, inosservato, per migliaia d'anni. Gli sembrava impossibile distogliere lo sguardo: non avrebbe mai visto nulla di più straordinario in vita sua, ne era sicuro. Come se qualcuno gli avesse letto nella mente, una voce mandò in frantumi il suo sogno a occhi aperti.
«Uno spettacolo magnifico, Murphy. Ma chiediti una cosa: sarà l'ultimo, per te?» 64 Murphy spinse lo sguardo oltre la testa del Serpente librata in aria, nell'oscurità circostante, cercando di capire da dove era giunta la voce. Poi, sul ripiano di fronte, riuscì a scorgere i contorni di una figura umana. «Chi sei?» «Mi chiamo Artiglio. L'ho detto a tua moglie, ma immagino che non abbia avuto tempo di passarti l'informazione.» Il male che aveva ucciso Laura aveva finalmente un nome e un volto. Ogni fibra in Murphy gridava vendetta; se la rabbia da sola avesse potuto dargli forza, lui avrebbe superato il vuoto d'un balzo, avventandosi alla gola di Artiglio. Invece cercò di controllare la sua furia e di riflettere sulla situazione in cui si trovava. «Mostro maledetto... Dunque avevo ragione. Sei tu l'unico responsabile di tutti gli orrori delle ultime settimane.» «Chi avrebbe mai pensato che un archeologo sarebbe stato così attivo, eh? Hai fatto molta strada, Murphy, te lo concedo, ma io dispongo di sufficiente denaro e potere per svelare qualsiasi segreto, tuo o di qualche antica civiltà.» «Cosa vuoi fare col Serpente? Vale così tanto da giustificare una lunga serie di assassini?» «Non devo certo rivelare i miei segreti a te, Murphy. Ti basti sapere che, grazie a te, avrò la testa del Serpente. Poi tornerò all'American University, dove hai depositato il pezzo centrale.» «Hai una grande fiducia in te stesso, Artiglio, però non mi sembri più vicino a prendere la testa del Serpente di quanto lo sia io. Tutto il denaro e il potere di cui ti vanti non stanno all'altezza di un'ingegnosa mente antica e un po' di vento.» Artiglio rise. «È qui che ti sbagli, professore. Sei tu, quello che non sa come prendere la testa, mentre io ho una soluzione, che è quasi più antica della piramide stessa.» Murphy colse un frullio d'ali e, per un istante, gli sembrò che due oggetti fossero stati lanciati in aria. Uno era la testa del Serpente; l'altro si muoveva da solo, lottando contro il vento. Un uccello... un falco! Ma certo, pensò. Suo malgrado, dovette ammettere che Artiglio aveva trovato un modo
ingegnoso per recuperare la testa del Serpente. Persino in quella luce fioca, Murphy vide che si trattava di una creatura magnifica. Riuscì a scorgere la lucentezza marrone delle ali, le chiazze color crema del petto. Era un gheppio. Gli venne in mente che, nelle epoche passate, quell'uccello era chiamato «il veleggiatore»... Un nome appropriato, dato che il falco, in quel momento, si era fermato a un metro dal vortice. È abituato a sfruttare le correnti ascensionali e quelle trasversali, ma questa è una cosa nuova, per lui, pensò Murphy. Probabilmente gli sembra di trovarsi in una bufera. Però impara in fretta. Ancora un paio di passaggi e poi la afferrerà. Senza riflettere, estrasse l'arco dalla custodia e incoccò una freccia. Mirò al falco, che ormai si trovava a pochi centimetri dalla testa fluttuante. Poi, sentendo venir meno la forza di volontà, spostò la mira sull'altro bersaglio: Artiglio. Tirò indietro la corda finché ogni molecola dell'arco non sembrò implorarlo di lasciare la presa. Gli bastava allentare le dita e una freccia sarebbe volata attraverso lo spazio che separava i due uomini, trafiggendo il nero cuore di Artiglio. Mia è la vendetta. L'assassino di Laura era lì. Ma... Artiglio stava forse ridendo? Sa che lo tengo sotto tiro, pensò Murphy. Crede che non lo colpirò? Tremava per lo sforzo di non lasciare che la freccia scattasse, come se fosse dotata di volontà propria. Il tempo sembrò fermarsi in attesa della decisione di Murphy. Poi, d'un tratto, echeggiò il battito delle mani di Artiglio. «Avanti, Murphy, fallo! Cosa ti trattiene? Siamo soltanto noi due. Il tuo prezioso Dio non può vederti! Fallo!» Il dito sulla corda tremava. Non poteva trattenerlo ancora molto a lungo. Spostò l'arco verso l'alto, a sinistra, e scoccò. A dispetto delle correnti d'aria, la freccia colpì il bersaglio. Il falco. Murphy non poteva togliere la vita a un essere umano, neppure al mostro che aveva ucciso Laura. Inoltre si era reso conto che Artiglio stava tentando di distogliere la sua attenzione dal falco, che ormai aveva ghermito la testa del Serpente. E lui non poteva lasciare che quell'essere diabolico s'impadronisse di quel pezzo di bronzo. Il gheppio si era lanciato nella corrente d'aria ad artigli spalancati. Aveva afferrato la testa all'altezza della sottile curva bronzea che l'avrebbe connessa al tratto centrale e, battendo furiosamente le ali, si era girato verso Artiglio.
La freccia di Murphy colpì il falco proprio sul margine dell'ala sinistra. Con un orribile grido che riecheggiò nello spazio buio, il volatile si lasciò sfuggire la testa, che rimase sospesa nell'aria per un istante, come se avesse sconfitto la forza di gravità, poi sprofondò nell'oscurità, ormai libera di precipitare nel vuoto. Il gheppio ferito cadde quasi altrettanto rapidamente. Il pezzo di bronzo passò così vicino a Murphy che lui ebbe l'impressione di poterlo toccare allungando una mano. Il Serpente non sarebbe mai più stato completo. Si voltò verso Artiglio, ma l'ombra lo aveva inghiottito. Poi sentì un dolore lancinante alla nuca e udì uno stridio fortissimo e raccapricciante. Artiglio gli aveva aizzato contro un secondo falco. Murphy si riprese in tempo per scrollarselo di dosso, poi quello sembrò distratto dalla caduta del primo falco e volò via, forse per aiutarlo. Murphy lo vide allontanarsi: tra gli artigli, stringeva la croce di Laura. Gliel'aveva strappata via dal collo. 65 La risalita attraverso il condotto di ventilazione fu come un incubo. Ogni piccolo movimento sembrava durare un'eternità, anche perché Murphy temeva che Iside e Jassim fossero già stati massacrati da Artiglio. Mentre, coperto di lividi e sanguinante, si spingeva attraverso il condotto, un pensiero lo ossessionava: Avrei potuto fermarlo... Quando infine sgusciò fuori, ruzzolando sulla sabbia, fu accecato per qualche istante dalla violenta luce del sole. Poi sentì delle braccia che lo rialzavano e udì voci eccitate. Iside e Jassim stavano bene. Tornato alla Land Rover, tra un sorso e l'altro di una bottiglia d'acqua minerale, Murphy raccontò cos'era successo nella piramide. «Per tua fortuna so che sei del tutto privo d'immaginazione, altrimenti sarei certo che ti sei inventato tutto», disse Jassim. «Un falco addestrato ad afferrare la testa del Serpente, sottraendola al flusso d'aria in cui essa ha roteato per millenni? Be', faccio comunque fatica a crederti.» «Bada piuttosto che non spunti fuori un altro veicolo», disse Murphy. «Artiglio dev'essersi avvicinato alla piramide dal lato opposto.» «Come faceva a sapere che eravamo qui? Proprio non lo capisco», esclamò Iside. Murphy scrollò il capo. «Neanch'io.» Chiuse gli occhi, d'un tratto esausto. «Ho fallito», mormorò, più a se stesso che agli altri. «Credevo che Dio
mi avesse affidato il compito di trovare il Serpente...» Col suo sorriso da Sfinge, Iside sussurrò: «E cosa le fa credere di aver fallito?» Murphy diede un pugno al finestrino. «Ho perso la testa del Serpente! Ora è in fondo alla piramide. Nessuno la troverà più.» «Forse è meglio così», disse Iside. «Credo che il Serpente - ogni parte di esso - non fosse altro che male. Magari il compito che Dio le aveva affidato era un altro e cioè trovare l'iscrizione, il messaggio finale di Dakkuri.» «Be', anche quello è in fondo alla piramide, caso mai non se ne fosse accorta.» Iside ignorò quel commento sarcastico. «Non necessariamente.» «Ma che sta dicendo?» «La microtelecamera del Crawler è rimasta puntata sulla testa per un paio di minuti. Le immagini non saranno chiarissime, ma, siccome la testa roteava, l'avrà certamente ripresa da ogni angolazione. Se il laboratorio possiede anche solo metà delle attrezzature che Jassim sostiene di avere, possiamo ricostruire e migliorare ogni fotogramma. Forse riusciremo a mettere insieme un'immagine composita... comunque quanto basta per leggere i caratteri cuneiformi.» «Certo che sì», confermò Jassim. Durante il viaggio di ritorno all'American University, Murphy riesaminò la successione degli eventi all'interno della piramide. Stava per uccidere Artiglio. Non ricordava di aver cambiato idea. Non ricordava nemmeno di aver puntato al falco, come se fosse stato l'arco stesso a prendere la mira, e non il contrario. Un tiro perfetto gli dava sempre quella sensazione, come se fosse scaturito da un'ispirazione divina. Be', forse lo era stata, pensò. Jassim era impaziente quanto Iside di vedere cosa avrebbe rivelato la registrazione del Crawler e spinse l'acceleratore a tavoletta, anche quando il traffico dell'ora di punta si fece sempre più congestionato. Iside teneva le mani strette in grembo e gli occhi chiusi. Quando finalmente giunsero davanti all'elegante edificio, decorato a stucco, che ospitava il laboratorio di Jassim, questi insistette per preparare ogni cosa mentre loro andavano a farsi una doccia. Murphy ne approfittò anche per cambiarsi la fasciatura sulla ferita alla mano e incerottare il suo assortimento di tagli ed escoriazioni. Mezz'ora dopo erano chini sul monitor del computer e le lunghe dita di
Jassim volavano sulla tastiera. Dopo qualche istante, apparve un'immagine sgranata della testa del Serpente, che balenava debolmente nella luce fioca dell'interno della piramide. «E pensare che è stata lì per duemilacinquecento anni», borbottò, schioccando la lingua. «E adesso... puf. È scomparsa.» «Però noi abbiamo le foto ed è quello che conta», disse Murphy. «Ma non mostrano nulla. Non ancora», borbottò Iside. «Vada avanti... lentamente.» Jassim fece avanzare la ripresa digitale fotogramma per fotogramma finché non cominciò a diventare visibile la parte inferiore della testa. «Fermo lì!» ordinò Iside, e Murphy non poté fare a meno di ricordare l'effetto che la voce di quella donna aveva avuto sui tre assassini nelle fogne di TarQasir. «Ingrandisca più che può.» L'immagine crebbe fino a riempire lo schermo. Poi, mentre Jassim la ingrandiva ulteriormente, il contorno scomparve. Rimase soltanto un bronzeo paesaggio sfregiato e butterato, simile alla superficie di una lontana luna gialla. Jassim scosse il capo. «Questo è più o meno quanto...» «Lì!» strillò Iside. Murphy si chinò di più. Aveva ragione. Quelli che, pochi istanti prima, sembravano i graffi e le fessure casuali di un qualsiasi pezzo di metallo esposto alle intemperie, avevano improvvisamente assunto la forma regolare delle tipiche incisioni cuneiformi di Dakkuri. Jassim si preparò a stampare l'immagine, borbottando: «Mi sa proprio che sarà qualcos'altro cui non riuscirò a credere... Ma forse è venuto il momento che mi spieghiate un po' che razza di storia è questa». Murphy posò una mano sulla spalla dell'amico. «Abbi pazienza finché Iside non ha scoperto cosa significa. Poi ti prometto che ti dirò tutto.» Jassim annuì, mentre Iside praticamente strappava l'immagine alla stampante. Nessuno fiatò. Anche se ci fossero voluti giorni per decifrare la scritta, i tre non si sarebbero mossi di lì. «Perlomeno è breve», disse Iside dopo un po'. «Immagino abbia pensato che, se si riusciva ad arrivare fin qui, non c'era motivo di fare altri giochetti.» I suoi occhi saettavano avanti e indietro sul pezzo di carta, e a Murphy sembrava quasi di sentire il suo cervello al lavoro. Le labbra della donna si muovevano in silenzio, formulando le parole più e più volte finché non acquisivano senso. Infine posò delicatamente il foglio sul tavolo. «Allora?» Jassim sembrava ancora più agitato di Murphy. A Iside ci volle un momento per riprendersi, poi disse: «Inizia con una
esortazione rituale, come al solito. I servi del Serpente hanno mantenuto questo segreto. Onore e potere a loro in eterno». Tossicchiò. «Poi viene la parte importante.» Le grandi torri di Babilonia sono polvere, il vento le disperde dove a esso piace. Ma trova la testa e il corpo poi risorgerà, gettando di nuovo la sua ombra su tutta la terra. È d'oro e rappresenta un re, il più potente. La troverai nella dimora di Marduk. O fedele servo del buio, ti ordino di rialzarla. Dalla polvere anche Babilonia si rialzerà per regnare di nuovo. Il silenzio si prolungò finché Iside non disse: «È tutto». «È abbastanza», replicò Murphy con un filo di voce. «Ma cosa significa?» domandò Jassim. «Significa che Babilonia risorgerà. O, perlomeno, accadrà se le persone sbagliate s'impossesseranno della Testa d'Oro.» Iside lo guardò, pensosa, ma Jassim balzò in piedi, torcendosi le mani per la frustrazione. «Stai parlando per enigmi, Murphy. Come può risorgere Babilonia? Cos'è questa Testa d'Oro? Credevo che cercassi la testa del Serpente di Bronzo, un oggetto che, tra parentesi, hai appena perso per sempre...» «Scusa, Jassim. Adesso provo a spiegarti. Secondo l'interpretazione data da Daniele del sogno di Nabucodonosor, l'impero di Babilonia era il più potente che il mondo avrebbe mai conosciuto. Quel potere era simboleggiato dalla Testa d'Oro della statua... quella che lui poi fece costruire. Quando Nabucodonosor riconobbe i propri errori, la fece distruggere. Ma scommetto che la Testa fu sepolta da qualche parte dagli adoratori del Serpente di Bronzo.» «Ma perché? Se volevano distruggerla, perché non fonderla? L'oro doveva valere una fortuna incredibile.» «Credevano che, se avessero conservato la Testa, un giorno qualcuno l'avrebbe ritrovata e Babilonia sarebbe risorta. Ne sono abbastanza sicuro.» Jassim si stropicciò gli occhi, come per assicurarsi di non stare sognando. «E cosa significa: Babilonia risorgerà? L'antica città sarà ricostruita?» «Non solo», rispose Murphy. «Significa che pure il potere di Babilonia sarà ricostruito. Stavolta come potere malvagio che dominerà il mondo.»
Jassim si rivolse a Iside. «Vorrei sapere cosa ne pensa di tutto questo, dottoressa McDonald. Lei è una persona ragionevole, come me, ritengo. Crede sul serio che gli adepti di un culto malvagio abbiano nascosto la Testa di Nabucodonosor per duemilacinquecento anni, in attesa dell'opportunità di conquistare il mondo?» Iside esitò prima di rispondere. «Non sono sicura. Ultimamente ho cambiato idea su cosa è possibile o impossibile e su cosa è reale e cosa non lo è. E questo perché ora credo di avere visto il male in azione... il male vero, allo stato puro. Persone innocenti uccise per un pezzo di bronzo.» I suoi occhi incontrarono per un istante quelli di Murphy. «Non so cosa pensare della Testa d'Oro, del ritorno di Babilonia e di tutto il resto. So soltanto che ho paura. Più paura di quanta ne abbia mai avuta in vita mia.» Jassim annuì con aria grave, poi si rivolse a Murphy. «Concordo con la dottoressa McDonald. Neanch'io so più a cosa credere. Ma, tanto per non correre rischi, penso che sarebbe meglio trovare questa Testa d'Oro prima che lo faccia qualcun altro.» «Approvo», disse Murphy. «Allora, dove credete che sia la dimora di Marduk?» «Niente di più facile», rispose Iside. «Il Tempio di Marduk sorgeva a Babilonia.» «Il che significa...» Murphy annuì. «... che dovrò chiedere aiuto a tutti: alla Parchments of Freedom Foundation, all'American University, al mio amico Levi... Bisognerà che ci spianino la strada. Perché dobbiamo andare in Iraq.» 66 «I Giardini Pensili di Babilonia», disse Iside con aria sognante, mescolando il suo tè ghiacciato. «Non riesco a immaginare cinque parole più misteriose e seducenti. Sembrano così familiari... però nessuno sa realmente com'erano.» Murphy la guardò. «Ne è sicura? Non ricorda di averci passeggiato, duemilacinquecento anni fa?» Iside prese un pezzetto di ghiaccio e glielo tirò. «La smetta.» Jassim aggrottò la fronte. Aveva scelto quel ristorante perché era tranquillo e aveva dei séparé in cui era possibile parlare senza essere ascoltati. Non era in vena di scherzi. «Dunque è lì che si trova il Tempio di Marduk? Nei Giardini Pensili?»
«O sopra di essi. Non lo sapremo finché non saremo Il», rispose Murphy. «La fai sembrare una passeggiata. Non è che basti arrivare in quel posto e mettersi a scavare. Hai idea di quanti reperti siano già stati saccheggiati?» «Questo è il punto, Jassim. Ora come ora, il luogo migliore per custodire gli antichi tesori dell'Iraq è qualche museo lontanissimo da qui. Quando la legge e l'ordine saranno stati ripristinati e i musei iracheni potranno riaprire, allora ogni cosa verrà restituita e il popolo iracheno sarà messo in grado di apprezzare il suo antico patrimonio nazionale senza che qualche delinquente lo trafughi e lo metta in vendita al migliore offerente.» Jassim sembrava scettico. «È difficile credere che una cosa così grossa come quella Testa d'Oro - mi hai detto che è alta quattro metri e mezzo e larga intorno ai due metri, no? - possa essere sfuggita ai saccheggiatori. Sia quelli che sono arrivati dopo la guerra sia quelli che hanno governato il Paese per trent'anni. Secondo me, è assai probabile che l'abbiano fusa e trasformata in rubinetti d'oro per i bagni di Saddam.» «Be', ne vengono fuori un sacco, di rubinetti», disse Murphy. «Saddam aveva un sacco di bagni.» Murphy sorseggiò la sua acqua. «Finora Dakkuri ha dimostrato di essere molto furbo», commentò poi. «È riuscito a nascondere un manufatto biblico in modo che nessuno lo trovasse fino... al momento giusto. Scommetto che ha nascosto molto bene anche la Testa.» «E ora è il momento giusto per trovarla?» «Non sono sicuro che esista un momento giusto per trovare una cosa del genere. Ma qualunque momento è giusto per impedire alle persone sbagliate d'impadronirsene.» Iside controllò il suo orologio e raccolse lo zaino dal pavimento. «Allora diamoci una mossa. Il nostro aereo parte tra due ore.» Jassim le posò una mano sul braccio. «Aspetti un momento, la prego, dottoressa McDonald.» «Mi chiami Iside, la prego.» Era strano, ma adesso che le sue dee non le sembravano più tanto reali, il suo nome la metteva meno a disagio. «Cosa c'è, Jassim?» Lui sembrava imbarazzato. «Tu, Murphy, sei un uomo coraggioso o forse soltanto avventato... ma non importa. Probabilmente è la stessa cosa. E lei, Iside, ha sopportato esperienze veramente terribili con una forza d'animo straordinaria. Io, d'altro canto, sono tutt'altro che un eroe. Le persone
che si vogliono impadronire della Testa d'Oro sono molto potenti e del tutto prive di scrupoli. È una combinazione che non mi piace.» «Ti capisco bene, Jassim», disse Murphy. «E se non te la senti di venire con noi in Iraq, non posso biasimarti. Ammetto che il nostro compito sarà più arduo senza il tuo aiuto logistico. Ma ce la faremo. Tuttavia, secondo me, ci sono due motivi per essere certi che non ci troveremo ad affrontare gente della risma del nostro falconiere. Anzitutto lui non è riuscito a vedere l'iscrizione sulla testa del Serpente, e tu hai distrutto la ripresa e cancellato tutto dal computer. Siamo le uniche tre persone che sanno dov'è la Testa d'Oro.» «Magari potessi condividere la tua fiducia.» Jassim volse lo sguardo sul ristorante con aria nervosa. «Quest'uomo terribile, questo Artiglio, ti è stato alle calcagna fin dall'inizio. Come possiamo essere certi che, in questo preciso momento, non stia ascoltando la nostra conversazione?» «Può anche darsi che lo stia facendo», ammise Murphy. «Ma ecco il secondo motivo. Quando arriveremo al Tempio di Marduk non saremo soli, bensì in compagnia di un'unità dei marine, che sta rendendo sicuro il posto.» Jassim si accarezzò il mento. «Bene, spero che abbiano ordine di sparare a vista a qualsiasi tipo sospetto... e anche a qualsiasi rapace sospetto, se è per questo.» «Sono certo che lo faranno, Jassim. Allora, sei con noi?» «Mi sa che sono un vero idiota», sospirò. «Ma se tu trovassi la Testa e io non fossi lì a condividere la più grande scoperta archeologica dei tempi moderni, mi dovrei comunque suicidare. Perciò, sì, ci sto.» 67 Mentre la Land Cruiser sobbalzava lentamente attraverso le rovine dell'antica città, Iside si dovette dare dei pizzicotti per essere certa che non stava sognando. Da quando il suo amato padre era morto, lei aveva passato la vita a nascondersi. I suoi studi accademici erano stati un modo per evitare tutte le cose della vita che la impaurivano e il suo piccolo ufficio alla Fondazione era in realtà una specie di bunker, dal quale era riuscita a tenere a bada il mondo esterno. Finché nella sua vita non era entrato Murphy. Nello spazio di pochi giorni, era stata esposta al pericolo, alla paura e alla morte. Si era letteralmente avventurata nell'ignoto. Aveva viaggiato nel-
l'oscuro cuore sotterraneo di una città medievale. Aveva visto l'interno di una piramide. E ora stava per calcare il suolo di Babilonia. Sulle mura che fiancheggiavano la famosa Porta Ishtar, draghi feroci sopravvissuti a tremila anni di pioggia, vento e tempeste di sabbia incrociavano il suo sguardo attonito. Ma il suo cuore non sobbalzava come lei si era aspettata. Forse, dopo una vita trascorsa a studiare le molteplici e multiformi divinità adorate dagli uomini nel corso dei secoli, aveva finalmente intravisto qualcosa di più grande. «Eccoli là.» Murphy stava indicando una collina, dove muri diroccati ancora si alzavano dalle terrazze a gradoni che risalivano al progetto originale della regina Amytis. In cima, il Tempio di Marduk era segnato da un solitario pinnacolo di arenaria. Come previsto da Jassim, sembrava che quel luogo fosse stato depredato dagli sciacalli molto tempo prima. Intere porzioni della collina erano crollate, coprendo di terra e detriti quelli che un tempo erano i resti di antiche porte e scale. Ogni avanzo di pietra con qualsiasi tipo d'iscrizione o di disegno era stato asportato, da frammenti della grandezza di una mano a interi pilastri. Murphy stava contemplando quella devastazione quando un abbronzato marine con occhialoni da aviatore salì a passi veloci la collina per presentarsi. «Colonnello Davis, marine degli Stati Uniti. Lei dev'essere il professor Murphy.» Murphy dovette subire una stretta di mano da stritolare le ossa. «Piacere, colonnello.» Per la prima volta, notò un manipolo di soldati in tuta mimetica che formavano un ampio perimetro intorno alla collina. «E piacere di vedere i suoi uomini.» «Piacere nostro. Per qualunque necessità, cacci un urlo.» «Non so da dove cominciare», ammise Murphy. «Dobbiamo vedere cosa c'è sotto i detriti. Stiamo cercando una specie di stanza sotterranea.» Il colonnello sorrise. «Me l'immaginavo... Così, quando siamo arrivati, ho fatto scavare un po' qui intorno. Chi ha ripulito questo posto ha lasciato un paio di cose che non gli sarebbero servite al mercato nero.» Murphy s'illuminò. «Quali cose?» «Le tornerebbe comoda una slitta sonar?» Murphy scoppiò a ridere. «Eccome, colonnello.» Mezz'ora dopo Murphy e Jassim trascinavano lentamente la slitta - un oggetto oblungo di plastica della grandezza di un materasso per bambini sul terreno franato, mentre, qualche metro più in là, Iside osservava le im-
magini sul monitor del computer portatile di Murphy. Fino ad allora aveva visto soltanto nebulosi contorni di stanze crollate e cripte vuote. Poi la sua attenzione fu catturata dall'eccezionale simmetria di due scure linee parallele comparse sul monitor. «Fermi! Potete tornare un po' indietro?» Murphy e Jassim guidarono la slitta sulle rocce lungo un percorso a zigzag. Impossibile ingannarsi. A tre metri e mezzo di profondità giaceva un oggetto fatto dall'uomo. E non era piccolo. Murphy e Jassim si avvicinarono e guardarono lo schermo. Jassim annuì. «Una porta a due battenti, forse? Un ingresso di qualche genere, comunque.» «Ma come ci arriviamo?» domandò Iside. Il colonnello Davis era rimasto in disparte, osservando il lavoro di Iside. «Mi scusi, signora, ma un bulldozer tornerebbe utile?» Se ne andò senza attendere risposta e, qualche minuto più tardi, udirono il gemito del motore del bulldozer che si arrampicava sulla collina. Si fermò a qualche metro dal punto in cui Murphy e Jassim avevano lasciato la slitta. Murphy alzò i pollici in segno d'intesa e il bulldozer cominciò a spostare i detriti. Il primo passaggio sembrò intaccare a malapena la superficie, ma ben presto il giovane marine appollaiato in cabina s'infervorò nel lavoro e, dopo venti minuti, Murphy diede il segnale di fermarsi. Andò verso la zona di terreno appena scavata, poi si rivolse al colonnello Davis. «Ora tutto quel che ci serve è qualche pala.» Davis fece un saluto elegante. «Arrivano subito. E ho venti uomini esperti a scavare buche, se ne ha bisogno.» Dopo aver raggiunto una profondità di circa tre metri, a Murphy e Jassim cominciava a girare la testa per lo sforzo, ma la mezza dozzina di marine accanto a loro non sudava nemmeno. «Accidenti, sembra rumore di metallo», disse uno di loro quando la sua pala rimbalzò su qualcosa di duro. Carponi, spostarono il resto della terra smossa e poi si misero da parte. Raggiunti da Iside, Murphy e Jassim chinarono lo sguardo verso un'enorme porta di bronzo a due battenti. Incrostati da depositi minerali e da una patina di sedimenti sbiaditi, i pannelli scolpiti avevano ancora il potere di sbalordire: raffiguravano alcune delle molte conquiste di Nabucodonosor e non avevano visto la luce da tremila anni. E lì, torreggiante persino sul grande Nabucodonosor, c'era l'effigie di Marduk, il dio guerriero. Per qualche istante nessuno parlò. Poi Jassim ruppe il silenzio. «Direi che siamo proprio nella dimora di Marduk, non c'è dubbio. Entriamo?»
Le porte quasi orizzontali davano l'idea di essere rimaste chiuse per tutti quei secoli e, anche se fossero riusciti ad aprirle, non c'era modo di sapere se dall'altra parte ci fosse qualcosa di più della terra. L'intera struttura si era spostata dalla posizione verticale molto tempo prima, forse durante uno dei frequenti terremoti cui era soggetta la regione, ed era quindi possibile che le porte si aprissero sul nulla. Su indicazione di Murphy, tre marine salirono su una delle porte e cercarono di aprire l'altra, facendo leva con le pale. Ben presto anche loro cominciarono a sudare, e Murphy ebbe l'impressione che quelle porte fossero state astutamente progettate per suggerire la presenza di una stanza che di fatto non esisteva. Poi all'improvviso si udì il rumore di uno strappo brusco e una pala volò via dalle mani di un soldato. Apparve una fessura, dalla quale uscì un flusso di aria viziata. Aggrappandosi al bordo della porta, i marine tirarono, ed essa si aprì lentamente verso l'alto, con un cigolio di cardini antichi. Tenendosi a una delle porte, Murphy si calò prudentemente nell'oscurità, con le gambe penzoloni nel vuoto. Dunque le porte si aprivano su qualcosa. L'aria fetida era insopportabile: un puzzo acre di decomposizione più forte di qualsiasi altro avesse mai percepito. Avvertì un'ondata di nausea e quasi gli si rivoltò lo stomaco, mentre i polmoni si contraevano spasmodicamente. Quando le dita gli scivolarono dal bordo della porta, Murphy sentì Iside gridare, poi ruzzolò verso il basso. Murphy si sentiva come chi, sul punto di annegare, vede la propria vita scorrere davanti agli occhi in una frazione di secondo. Poi un impatto fortissimo gli mandò una lancinante fitta di dolore lungo le gambe. Prima di poter urlare, batté il capo contro qualcosa di duro e una nube nera gli si gonfiò come un pallone dentro la testa, cancellando tutto. Quando rinvenne, udì delle voci dall'alto. Per un istante furono soltanto rumori, poi i suoni ridiventarono parole e capì che Iside e Jassim gli stavano chiedendo se stesse bene. Poi intuì che la seconda porta stava per essere aperta. «Sto bene», riuscì a dire, mettendosi carponi. Fu colto da un accesso di tosse mentre altra aria putrida gli s'introduceva a forza nei polmoni ansimanti e sentì gli occhi brucianti di lacrime. Attese che passasse, poi si ripulì il viso col dorso della mano. La testa gli fischiava, ma il dolore alle gambe si era attenuato, diventando un pulsare costante. Aprì gli occhi. Ma li richiuse subito perché la testa sembrava essersi riempita di una luminosità lancinante. Il colpo alla testa, pensò. Sono cieco. Lottando per
non farsi prendere dal panico, calmò la respirazione e sbirciò attraverso le palpebre socchiuse. La luce dorata era ancora insopportabile, ma lui si sforzò di tenere gli occhi aperti e, a poco a poco, l'ardente foschia che lo aveva accecato si trasformò in un oggetto. Stava fissando l'iride di un enorme occhio d'oro. Ancora carponi, indietreggiò nella terra finché non mise a fuoco il resto dell'oggetto. All'inizio le massicce nervature e le Enee ricurve del metallo scolpito non avevano senso... Sembravano piuttosto il guazzabuglio di lineamenti di un gigantesco quadro di Picasso. Poi la sua prospettiva si adattò alla posizione orizzontale e la faccia di Nabucodonosor lo guardò, furiosa, attraverso un abisso millenario. Murphy si ritrasse ancora, appoggiandosi alla parete di terra, e guardò il volto del re. Non aveva modo di sapere se lo scultore avesse fedelmente riprodotto i lineamenti del re, tuttavia la scultura era di un realismo impressionante. I grandi occhi sembravano trafiggere Murphy come raggi laser e il ghigno scolpito sulla bocca enorme sembrava dire: Rialzami, cane! Sono stato nella polvere abbastanza a lungo! Murphy perse la cognizione del tempo. Rimase lì, ipnotizzato dallo sguardo imperioso del re morto da molti secoli, prima di udire accanto a sé il rumore di scarponi e il suono eccitato di voci meravigliate e sgomente. Poi alcune mani forti lo sollevarono e lui richiuse gli occhi, grato di non dover più guardare in faccia il male. 68 Shari diede uno strattone alla mano di Paul. Era ancora indebolito dalla lunga permanenza in ospedale. «Ehi!» protestò lui. «Mi hanno tolto il gesso solo ieri. Non vorrai mica slogarmela, eh?» «Smettila di piagnucolare», replicò lei. «Il dottor Keller ha detto che troppa compassione non va bene. Impedirebbe il processo di guarigione. Guarda... eccolo!» Paul aveva acconsentito di seguire Shari fino a Washington, per attendere l'aereo da carico della PFF. Non erano stati loro a organizzare l'ampio schieramento di telecamere e cronisti, ma era difficile nascondere alla stampa l'arrivo di un reperto così spettacolare. Quando l'aereo toccò terra, Shari iniziò a salutare freneticamente con la mano prima ancora che Murphy scendesse saltellando la scaletta. «Profes-
sor Murphy!» Lui si voltò con espressione sorpresa, poi andò loro incontro, raggiante. «Va bene, agente. Li lasci passare. Se lo meritano.» Non molto convinto, il poliziotto si fece da parte e Murphy e Shari si abbracciarono. Non dissero neppure una parola, tuttavia Paul colse benissimo tutti i significati nascosti in quell'abbraccio. Poi si separarono e Shari disse: «Non riesco a credere che ce l'abbia fatta. Non riesco a credere che sia veramente qui. Negli Stati Uniti!» Murphy fece un gran sorriso. «Non è stato facile. Abbiamo dovuto persuadere un mucchio di persone che era la cosa giusta da fare. Non ci sarei riuscito senza i miei amici qui presenti...» Indicò una donna minuta coi capelli rossi e coi lineamenti da elfo e un uomo elegante, dalla carnagione scura, che indossava un abito color panna. Entrambi stavano discutendo animatamente con la squadra addetta al trasporto. «Sono stati loro che hanno messo la Parchments of Freedom Foundation e l'American University of Cairo al servizio dell'operazione. Sai bene che non sono bravo a lisciare i burocrati.» «Però c'è riuscito!» «Ho perfino avuto un aiuto 'dietro le quinte' da un posto assai speciale, da qualcuno che mi aveva già aiutato in modo fantastico.» Murphy estrasse una lettera dalla tasca della giacca. «Aspettate di leggere questa, ragazzi. L'arrivo della Testa d'Oro è importante, ma c'è un altro motivo per festeggiare. Quando sono salito in aereo, ho trovato questa lettera ad aspettarmi.» Caro professor Murphy, grazie per aver onorato la mia casa con la sua visita e avermi consentito di aiutarla nella ricerca di ciò che so essere il Serpente di Bronzo, che a sua volta l'ha portata alla Testa d'Oro di Nabucodonosor. Sono doppiamente onorato per aver avuto un piccolo ruolo nell'organizzarne l'uscita dal Paese per una sistemazione temporanea sotto la vostra custodia. Ma, soprattutto, grazie per aver trovato il tempo di spiegarmi perché il cristianesimo è l'unica vera via che porta a Dio. Dopo che lei andò a riposare, quella notte, mi sono seduto da solo nella mia stanza a considerare quello che lei mi aveva detto sulla natura di Dio. Per la prima volta, ho capito che Gesù Cristo era morto per i miei peccati e per i peccati del mondo e che poi era resuscitato. Quella notte, ho ricevuto Gesù attraverso la fede, come lei mi aveva sol-
lecitato a fare, e l'ho invitato a entrare nella mia vita. Se non la rivedrò in questa vita, certamente la vedrò nella prossima, in paradiso. Suo, SCEICCO OMAR AL-KHALIQ Shari fece un gran sorriso. «Oh, professor Murphy, la consapevolezza di aver aiutato lo sceicco nella sua ricerca dev'essere una sensazione fantastica.» Murphy l'abbracciò e poi si rivolse a Paul, stringendogli la mano. «Ehi, che piacere rivederti, Paul. Hai una buona cera. E ho saputo che hai ottenuto una borsa di studio dalla Barrington Communications. Spero che questo ti permetta d'impegnarti davvero a fondo e di trovare un corso di studi che t'interessi più di Economia.» «Sì, signore. Shari non mi avrebbe permesso di accettarla, altrimenti. Mi è stata di grande aiuto.» Arrossì e la ragazza gli diede una gomitata. «Vacci piano, Shari», disse Murphy. «È ancora giovane. Gli ci vorrà ancora un po' per capire che deve lasciare la maggior parte delle decisioni della vita a Dio e a una brava donna, in quest'ordine.» Lei agitò un dito. «Professor Murphy!» La figura dinoccolata del preside Fallworth sgusciò fuori dall'hangar e si piazzò davanti a Murphy. Prima che questi potesse reagire, Fallworth gli prese la mano e cominciò a stringergliela calorosamente. «Murphy, è splendido riaverla tra noi. Il consiglio universitario e io siamo estremamente orgogliosi di ciò che ha fatto per la Preston University. Questo è un giorno davvero grandioso per noi tutti: uno dei nostri membri migliori al centro dell'interesse dei media.» Un sorriso imbarazzato sostituì quello da commesso viaggiatore e il preside abbassò la voce così che soltanto Murphy lo udisse. «Spero che il nostro piccolo malinteso sia ormai un ricordo. Sa, i miei commenti in quell'intervista sono stati riferiti completamente fuori contesto. Infatti, sto considerando l'opportunità di un reclamo formale contro la BNN e quell'orribile giornalista. Praticamente mi ha messo le parole in bocca.» Murphy non sapeva davvero cosa dire. Avrebbe fatto i conti con Fallworth a tempo debito. Per il momento, era soltanto sollevato per aver riottenuto il suo posto all'università. Una volta che tutta la confusione e la pubblicità si fossero calmate, sarebbe potuto tornare al suo vero compito,
quello di essere d'ispirazione agli studenti. Sapeva che quella era la volontà di Laura. Diede un'occhiata a Fallworth per fargli capire che non aveva intenzione di discutere, ma che non s'illudesse di averla passata liscia. «Ci vediamo più tardi, preside.» E passò oltre, lasciandolo lì impalato a sorridere. «Iside, Jassim, voglio presentarvi Shari Nelson e Paul Wallach, due bravi studenti nonché buoni amici.» Mentre Iside impartiva le ultime istruzioni a un uomo della squadra che si preparava ad aprire la cassa, Jassim tese la mano a entrambi. «Il piacere è tutto mio», disse. «Ho sentito parlare bene di voi. La Preston University è fortunata ad avere studenti di archeologia eccezionali come voi, specialmente in considerazione delle abitudini... non convenzionali del nostro professore.» Indicò Murphy strizzando l'occhio. Iside si unì a loro. «Non fate caso a Jassim. Sta sfruttando al massimo le luci della ribalta. Forse pensa che qualche pezzo grosso di Discovery Channel gli chiederà una serie sui segreti delle piramidi.» «Perché no?» esclamò Jassim, facendo del suo meglio per sembrare offeso. «Sono un eccellente comunicatore, ritengo, e ho il tipo di faccia che piace in TV. Che ne dice, Miss Nelson?» «Io lo guarderei, il suo programma», rispose Shari, ridendo. «Dopo tutto quello che ha fatto per aiutare Murphy a trovare la Testa d'Oro, sarebbe il minimo.» Murphy tossicchiò. «A proposito, cominciamo a scaricarla.» Ci volle quasi un'ora per scaricare la cassa dalla stiva e sistemarla su un enorme autotreno senza sponde. Alla fine, la cassa giaceva al centro del pianale come un enorme pezzo d'arte moderna. Murphy diede il segnale e la squadra addetta al carico, sistemata intorno alla cassa, tirò le corde che assicuravano i pannelli sui quattro lati. I pannelli di legno caddero al suolo contemporaneamente. Un gruppo della PFF corse a tagliare la copertura protettiva di stoffa e plastica e, mentre l'ultimo strato d'imbottitura cadeva, Murphy si avvicinò al microfono sistemato accanto alla Testa. «Signore e signori... Ci sarebbe molto da dire su questa grande scoperta, su come siamo giunti a trovarla, a recuperarla e a comprenderne il significato. Ma tutto ciò dovrà aspettare finché essa non sarà felicemente sistemata nella sua dimora temporanea, il museo della PFF, che ha generosamente messo a disposizione i fondi perché questo grandioso manufatto
possa essere studiato in maniera rapida ed esaustiva. Voglio ringraziare Dio per averci guidato e infuso vigore durante l'intera operazione. Avremo presto il piacere di condividere con voi le meraviglie e i segreti della Testa d'Oro. Grazie.» Era un momento di trionfo, per Murphy, eppure lui non riusciva a dimenticare la morte di Laura, quella degli addetti alla sicurezza della PFF e tutti gli altri terribili eventi che si erano succeduti lungo la strada di quel ritrovamento eccezionale. Si scopri a rabbrividire, pensando al responsabile di così tante sofferenze. Artiglio era ancora libero e probabilmente ansioso d'impossessarsi della Testa d'Oro di Nabucodonosor, proprio come non si era fermato davanti a nulla per impadronirsi del Serpente di Bronzo. E forse era ancora più deciso a rubarla, dato che Murphy aveva sventato il suo tentativo di riunire le parti del Serpente. E se Artiglio era interessato a tali simulacri per gli oscuri poteri che, a detta di alcuni, ancora possedevano, allora c'era un grave pericolo all'orizzonte. Le ultime settimane erano state dense di avvenimenti, eppure, pensò Murphy, il futuro poteva presentare sfide ancora più grandi. Con l'aiuto e la protezione di Dio, lui sarebbe stato pronto. 69 Gli schiavi tirarono le funi all'unisono, tendendole con tutta la loro forza. Alla fine il massiccio pezzo d'oro rovinò al suolo. L'idolo che aveva portato al re e ai suoi sudditi tante afflizioni ora giaceva in rovina, avvolto da un turbine di polvere. E la Testa spiccata sembrava guardare l'uomo a cui immagine era stata forgiata come se lui l'avesse tradita. Nabucodonosor ordinò che i pezzi venissero raccolti, portati in città e consegnati a Dakkuri, il gran sacerdote caldeo. L'oro sarebbe stato utilizzato per fare vasi sacri. Almeno così era stato detto al re. Il re era pazzo, su quello Dakkuri non aveva dubbi. Per sette anni Nabucodonosor si era rotolato nella sporcizia, vivendo come una bestia nell'ombra del proprio palazzo, il suo senno sparso ai quattro angoli di un impero appeso a un filo, mentre vicini invidiosi complottavano per abbatterlo. Eppure, ora che il re era tornato in sé, ora che parlava e agiva di nuovo come un uomo, Dakkuri aveva la strana sensazione che fosse più pazzo che mai. Cos'altro poteva spiegare il suo decreto che ordinava di distruggere tut-
ti gli idoli? In qualche modo, Daniele e il suo Dio tenevano il re sotto incantesimo. Dakkuri rabbrividì e non solo per l'aria umida della sua stanza. Se l'adorazione degli idoli fosse cessata, a chi si sarebbe rivolto il popolo in tempi di pericolo e incertezza, quando flagelli e pestilenze colpivano, quando il raccolto veniva meno o i fiumi straripavano dagli argini? Da chi avrebbero ricevuto la forza di distruggere i nemici, di radere al suolo le loro città e rendere schiavi i loro figli? Chi avrebbe dato loro il potere di governare il mondo? E, più esattamente, da dove sarebbero venuti potere e prestigio per Dakkuri? Quando guardava il sacro fuoco, era lui - e lui solo - che sapeva interpretare le forme mutevoli nella luce. Se Nergal, il feroce dio del mondo dei morti, era furioso, solo Dakkuri ne sapeva interpretare i segni. Se l'ira di Nergal poteva essere saziata soltanto da sacrifici umani, era Dakkuri che sceglieva le vittime. Se i demoni entravano in città, solo lui poteva decidere chi era posseduto e chi no, chi doveva essere lapidato e chi risparmiato. Talvolta - si diceva compiaciuto - la gente comune temeva più lui che il sovrano, per quanto crudele. E le ricompense erano in armonia col suo rango. Tuniche tessute con fili d'oro che scintillavano come il sole. I dolci più rari, i vini più prelibati, ogni volta che li desiderava. E naturalmente aveva la scelta delle danzatrici del tempio. Ma, in un mondo senza idoli, tutto ciò sarebbe finito. Alzò gli occhi. La lampada tremolava contro il muro di pietra nuda. E lì, scintillante nell'ombra, c'era il Serpente. Non ricordava più quale impulso l'avesse spinto a risaldare le parti spezzate, a elevare il Serpente assegnandogli un posto d'onore tra i molti dei di Babilonia. Eppure, vedendolo di nuovo intero, aveva avvertito un potere oscuro che riempiva il suo corpo... come una coppa che venisse colmata di vino forte sino all'orlo. La mente era stata invasa dalla luce e un fuoco delizioso e insopportabile si era messo a ribollire nelle sue vene. Si era sentito un gigante. Nulla gli era precluso. Una lama di coltello infissa nel suo cuore sarebbe stata fusa dall'energia che avvampava dentro di lui. Era un dio. E, da quel momento, Dakkuri divenne lo schiavo del Serpente. Respirando profondamente e lentamente, si concentrò sulla sinuosa figura di bronzo che gli stava davanti. Sembrava enorme nella semioscurità; la sua ombra si contorceva sul muro come una cosa viva. Spalancò la
mente, sentì la volontà defluire come acqua da una brocca rotta. Mentre l'estasi ormai familiare lo invadeva, chiuse gli occhi e sorrise. «Dimmi cosa devo fare», mormorò. Per Nabucodonosor, Dakkuri era degno di fiducia. Aveva servito fedelmente per molti anni nel palazzo reale. Ma Dakkuri aveva un segreto. Adorava quello che in passato era stato l'Angelo della Luce, ribellatosi al Creatore. Dakkuri il caldeo apparteneva a Lucifero: era un servitore dell'Angelo Nero. Nei sotterranei del tempio, Dakkuri si rivolse a tre dei suoi più fidati discepoli. In quel buio e sinistro luogo giacevano le parti infrante del simulacro di Nabucodonosor insieme con altri oggetti di adorazione, sacri e profani. Molti di tali oggetti inestimabili erano stati catturati dall'esercito di Nabucodonosor durante la razzia di Gerusalemme molti anni prima. Dakkuri parlò con controllata intensità ai tre seguaci di Lucifero. Ciascuno di essi aveva pronunciato il giuramento di assolvere il compito che stava per essergli assegnato. Era un piano che avrebbe cambiato per sempre il corso della storia umana. «Compagni servi di Lucifero, ascoltatemi. La Testa d'Oro di Nabucodonosor dev'essere nascosta al mondo fino agli Ultimi Giorni.» Prese il Serpente di Bronzo magnificamente scolpito. «Ho inciso su questo Serpente le parole che conducono al luogo esatto in cui la Testa d'Oro verrà sepolta.» Posò il Serpente sul banco da lavoro e lo spezzò in tre parti con un pesante martello. Poi consegnò una parte a ognuno dei tre discepoli. «Ciascuno di voi dovrà recarsi nella zona prestabilita e nascondere la propria parte del Serpente come gli è stato ordinato. Naturalmente ogni pezzo del Serpente sarà inutile senza gli altri due.» Uno dei discepoli si alzò e chiese: «Maestro, perché la Testa d'Oro deve rimanere nascosta?» «In questo momento il mondo non ha bisogno della Testa d'Oro. Ma verrà il tempo in cui il condottiero del mondo avrà bisogno di tutto il potere che la Testa d'Oro rappresenta. Quel tempo è ancora nel futuro. È il tempo descritto da Daniele il profeta nella sua interpretazione del sogno del re...» Dakkuri fece una pausa, come per riflettere sulle implicazioni delle sue parole, poi concluse: «È il tempo in cui Babilonia risorgerà per governare il mondo intero». 70
I Sette si trovavano nella loro sala, nei sotterranei del castello. Davanti a loro sedeva l'uomo chiamato Artiglio, il quale, però, non mostrava timore per non aver portato a termine il suo incarico. Anzi rispondeva alle domande con palese insofferenza. «Murphy ha avuto fortuna. È stato aiutato dai marine... Inoltre siete stati voi a ordinarmi di non ucciderlo e di non recare danno ad altri del suo gruppo.» «Sì.» La voce inglese conduceva l'interrogatorio. «È stata una delusione. Non sapremo mai quali poteri avesse il Serpente di Bronzo. Quali che fossero, tuttavia, non ne abbiamo bisogno per procedere.» «Be', è servito al suo scopo», replicò Artiglio con disinvoltura, concentrando la propria attenzione sull'oggetto che teneva in mano e con cui si gingillava, colpendolo con la punta del dito tagliente. «Ha condotto Murphy alla vostra preziosa Testa d'Oro.» «Infatti. Ha condotto Murphy alla Testa d'Oro, non te. Dobbiamo rivedere la nostra strategia, giacché la Testa d'Oro, da lui riportata alla luce, è ormai nota in tutto il mondo. Ciò richiederà qualche ripensamento e un'accurata pianificazione. Ma la buona notizia, Artiglio, è un'altra: con tutta questa notorietà, quando riusciremo a impadronircene - e lo faremo - essa sarà diventata un simbolo di potere e di gloria ancora più grande. Il che spiega per quale motivo tu goda ancora del nostro favore.» Artiglio si alzò. «Bene, fatemi sapere come procedere. Tenetevi pure il potere e la gloria.» Si voltò per uscire, continuando a far dondolare l'oggetto: una strisciolina di pelle con appesa una croce. Una croce che lui aveva spezzato in tre parti, e che poi aveva riunito. Incamminandosi, mormorò: «Ormai per me è una faccenda personale». POSTFAZIONE Spero che abbiate gradito Il Serpente di Bronzo. Creare quest'avventura è stato per me fonte di grande piacere, e non vedo l'ora di presentarvi il prossimo libro della serie. Lo sto scrivendo proprio adesso ed è un'esperienza più emozionante di quella vissuta nella stesura del primo volume, il che è tutto dire. Nel frattempo, vi prego di condividere con me le vostre impressioni su questo romanzo e cercare altre informazioni e aggiornamenti sul mio sito web:
www.timlahaye.com V'invito anche a visitare www.babylonrisingbook.com, il sito ufficiale della serie, il cui scopo è quello di rendere più ricca la vostra esperienza di lettura... almeno questa è stata l'intenzione mia e della Bantam Books nel crearlo. Nei prossimi mesi vi troverete informazioni aggiuntive sulla serie, sui personaggi e sulle rivelazioni presenti nei romanzi. Potrete anche iscrivervi alla mailing list, leggere qualche anticipazione dei prossimi volumi, inviarci le vostre osservazioni e spedire cartoline elettroniche con un messaggio personale. Grazie ancora per aver letto Il Serpente di Bronzo. RINGRAZIAMENTI Nessun uomo è un'isola! Questo è certamente vero per gli autori. A dire la verità, siamo stati tutti influenzati da moltissime persone che ci hanno aiutato a sviluppare la nostra abilità e le nostre conoscenze, così da avere qualcosa d'interessante e di significativo da condividere con milioni di potenziali lettori. In particolare voglio ringraziare Joel Gotler, il mio agente, la cui lungimiranza, la cui fiducia e le cui conoscenze mi hanno messo in contatto con Irwyn Applebaum della Bantam, l'editore più positivo e pieno d'iniziativa che abbia mai incontrato. Molti ringraziamenti anche al mio editor, Bill Massey, che ha profuso in questo libro la sua esperienza e la sua grande abilità professionale. Sono anche grato al mio agente per avermi presentato Greg Dinallo, un grande romanziere che ha capito la mia intuizione di amalgamare istruttive e stimolanti profezie con avventure entusiasmanti. È stato un piacere lavorare con lui. Infine, voglio esprimere il mio più profondo apprezzamento e ringraziamento a David Minasian, il mio assistente personale nelle ricerche, che condivide con me l'amore per le Sacre Scritture e mi ha fornito un aiuto prezioso nel rinvenire, elaborare e proporre materiale in ogni fase di questo progetto editoriale. FINE