Prologo Plain of Angels - Idaho Era la prescelta. Osservava la ragazza da mesi, da quando lei e la sua famiglia si eran...
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Prologo Plain of Angels - Idaho Era la prescelta. Osservava la ragazza da mesi, da quando lei e la sua famiglia si erano trasferite nel centro. Il padre era George Sheldon, un mediocre carpentiere che lavorava nella squadra edile. La madre, una donna scialba e insignificante, era stata destinata al panificio della comunità. Quando erano entrati per la prima volta nella sua chiesa a Idaho Falls in cerca di conforto e di salvezza, erano entrambi disoccupati e disperati. Jeremiah li aveva guardati negli occhi e aveva visto ciò che aveva bisogno di vedere: due anime perse in cerca di un'ancora, una qualsiasi. Due frutti maturi pronti per essere colti. Ora gli Sheldon e la loro figlia, Katie, vivevano nel Cottage C, nel settore appena costruito di Calvary. Ogni sabato si sedevano sulla panca loro assegnata in quattordicesima fila. Nel giardino anteriore avevano piantato malvoni e girasoli, le stesse piante dai colori vivaci che ornavano tutti gli altri giardini anteriori. Per molti aspetti si erano amalgamati bene con le altre sessantaquattro famiglie della Raccolta che lavoravano insieme, pregavano insieme e ogni sabato sera spezzavano il pane insieme. Ma sotto un profilo importante gli Sheldon erano unici. Avevano una figlia straordinariamente bella. Una figlia che non riusciva a smettere di guardare. Dalla sua finestra Jeremiah la vedeva nel cortile della scuola. Era l'intervallo di mezzogiorno e gli studenti passeggiavano godendosi la tiepida giornata di settembre, i maschi con le camicie bianche e i pantaloni neri, le femmine con i lunghi abiti color pastello. Avevano un aspetto sano, baciato dal sole, come tutti i giovani dovrebbero avere. Anche tra quelle ragazze simili a cigni, Katie Sheldon spiccava con i suoi ricci indomabili e la sua risata argentina. Come cambiano in fretta le ragazze, pensò. In un solo anno la bambina si era trasformata in una fanciulla alta e sottile. Gli occhi luminosi, i capelli lucidi e le guance rosee erano tutti segni di fertilità. Stava con altre due ragazze all'ombra di una quercia. Tenevano la testa china come le Tre Grazie e si sussurravano segreti. Attorno a loro fluiva l'energia del cortile dove gli studenti chiacchieravano, giocavano a campana e tiravano calci a un pallone. All'improvviso notò un ragazzo attraversare il cortile nella loro direzione e si accigliò. Aveva circa quindici anni, una massa di capelli biondi e due gambe lunghe già troppo cresciute per i pantaloni. A metà cortile si fermò come per trovare il coraggio di proseguire. Poi sollevò il capo e andò dritto verso
le ragazze. Verso Katie. Jeremiah si accostò di più alla finestra. Mentre il ragazzo si avvicinava, Katie alzò lo sguardo e sorrise. Era un sorriso dolce e innocente, rivolto a un compagno di classe che quasi certamente aveva una sola cosa in mente. Oh, sì, Jeremiah sapeva cosa ci fosse nella testa di quel giovane. Il peccato. La sconcezza. Adesso stavano parlando, Katie e il ragazzo, mentre le altre due si erano defilate di proposito. Non riusciva a udire la conversazione in mezzo al baccano del cortile, ma vide Katie inclinare attenta la testa, scostarsi i capelli dalle spalle con atteggiamento seduttivo. Vide il ragazzo avvicinarsi come per annusare, per assaporare il suo profumo. Era quella peste di McKinnon? Adam o Alan o qualcosa del genere. Adesso c'erano tante famiglie che vivevano nel centro e tanti ragazzi che non riusciva a ricordare il nome di tutti. Li guardò furioso afferrando il telaio della finestra con forza tale da conficcare le unghie nella vernice. Si girò e uscì dallo studio scendendo con passo pesante le scale. A ogni gradino contraeva un po' di più la mascella e l'acido gli bruciava sempre più lo stomaco. Uscì a precipizio dall'edificio, ma davanti al cancello della scuola si bloccò sforzandosi di recuperare il controllo. Quello non andava bene. Mostrare rabbia era disdicevole. La campanella della scuola suonò richiamando gli studenti alla fine dell'intervallo. Jeremiah rimase lì per calmarsi, facendo profondi respiri. Si concentrò sul profumo del fieno appena tagliato, del pane che cuoceva nella cucina comune nelle vicinanze. Dalla parte opposta del centro, dove stavano realizzando la nuova sala di culto, provenivano il gemito di una sega e gli echi di una decina di martelli che pestavano chiodi. Rumori virtuosi di un lavoro onesto, di una comunità che faticava per conquistarsi la gloria più grande del Padre. E io sono il loro pastore, pensò, io li guido. Quanta strada avevano già fatto! Bastava una sola occhiata al villaggio in espansione, alla decina di nuove case in costruzione per capire che la congregazione stava prosperando. Aprì infine il cancello e passò per il cortile. Superò la classe elementare dove i bambini stavano cantando la canzone dell'alfabeto ed entrò in quella delle medie. L'insegnante lo vide e, sorpresa, si alzò di scatto dalla cattedra. «Profeta Goode, che onore!» esclamò con eccessivo entusiasmo. «Non sapevo che oggi sarebbe venuto a trovarci.» Lui sorrise e la donna arrossì, deliziata dalla sua attenzione. «Sorella Janet, non c'è bisogno di agitarsi tanto per me. Volevo solo fermarmi a salutare la sua classe. E vedere se sono tutti contenti del nuovo anno scolastico.» Lei sorrise radiosa agli allievi. «Non è un onore avere qui da noi in visita il profeta Goode in persona?
Dategli il benvenuto, per favore!» «Benvenuto, profeta Goode», risposero all'unisono gli studenti. «L'anno scolastico sta andando bene per tutti?» domandò lui. «Sì, profeta Goode», risposero di nuovo all'unisono, in modo tanto perfetto che sembrava avessero fatto le prove. Katie Sheldon, notò, era seduta in terza fila. Notò anche il ragazzo biondo che aveva flirtato con lei, seduto due posti dietro. Si incamminò lento per la classe annuendo e sorridendo mentre osservava i disegni e i saggi degli studenti appesi alle pareti. Come se gliene importasse davvero qualcosa. La sua attenzione era solo per Katie, che se ne stava seduta schiva al suo banco con lo sguardo basso come si conveniva a una ragazza pudica. «Non volevo interrompere la lezione», disse. «La prego, continui ciò che stava facendo. Faccia come se non ci fossi.» «Uhm, sì.» L'insegnante si schiarì la gola. «Ragazzi, aprite il libro di matematica a pagina duecentotré. Fate gli esercizi dal numero dieci al sedici. Quando avrete finito, li controlleremo insieme.» Jeremiah si aggirò per la classe tra il grattare delle matite e il frusciare dei fogli. Gli studenti erano troppo intimoriti per guardarlo e tenevano gli occhi fissi sui banchi. La materia era algebra, una cosa che lui non si era mai curato di imparare bene. Si fermò accanto al banco del ragazzo biondo che aveva mostrato un chiaro interesse per Katie, e guardando al di sopra della sua spalla, vide il nome scritto sul manuale. Adam McKinnon. Un combina guai di cui alla fine si sarebbe dovuto occupare. Proseguì verso il banco di Katie. Si fermò e la guardò dall'alto. Lei scribacchiò nervosa una risposta, poi la cancellò. Tra i capelli si intravedeva un tratto di collo nudo in cui la pelle diventò di un rosso intenso, come bruciata dal suo sguardo. Jeremiah si chinò, ne respirò il profumo e un calore improvviso gli pervase i lombi. Non c'era niente di tanto grazioso come il profumo della carne giovane, e il profumo di quella ragazza era il più dolce di tutti. Attraverso la stoffa del corpino scorgeva appena la curva dei seni che si stavano sviluppando. «Non ti crucciare troppo, cara», sussurrò. «Nemmeno io ero molto bravo in algebra.» Lei alzò lo sguardo e gli rivolse un sorriso così incantevole da lasciarlo senza fiato. Sì, questa ragazza è proprio quella giusta. Fiori e nastri addobbavano le panche e ricadevano dalle travi inclinate verso l'alto della neo costruita sala di culto. C'erano tanti fiori che la sala pareva il giardino dell'Eden, tutta profumata e scintillante. Mentre la luce del mattino
entrava dalle finestre tonde, duecento voci gioiose cantavano inni di lode. Siamo tuoi, o Signore. Fecondo è il tuo gregge e abbondante il tuo raccolto. Le voci si affievolirono e l'organo d'un tratto intonò una fanfara. La congregazione si voltò a guardare Katie Sheldon, che stava impietrita sulla soglia e batteva le palpebre disorientata di fronte a tutti gli sguardi che la fissavano. Indossava l'abito bianco ornato di pizzo che la madre le aveva cucito e dall'orlo le spuntavano le scarpine bianche nuove di satin. In testa portava una coroncina di rose bianche. L'organo continuò a suonare e la congregazione attese ansiosa, ma Katie non riusciva a muoversi. Non voleva muoversi. Fu suo padre a costringerla a compiere il primo passo. La prese per il braccio ficcandole le unghie nella carne come per impartire un ordine inequivocabile. Non osare mettermi in imbarazzo. Lei iniziò a camminare verso l'altare che incombeva di fronte. Verso l'uomo che Dio stesso aveva proclamato sarebbe stato suo marito. Tra le panche scorse alcune facce familiari: gli insegnanti, gli amici, i vicini. C'erano sorella Diane che lavorava nel panificio con la madre e fratello Raymond che accudiva le mucche, di cui amava accarezzare i morbidi fianchi. E là in piedi proprio in prima fila, dove non era mai stata, c'era sua madre. Era un posto d'onore, una fila dove potevano sedere solo i privilegiati della congregazione. Appariva fiera, oh, così fiera, regale come una sovrana con la sua corona di rose. «Mamma», sussurrò Katie, «mamma.» Ma la congregazione si era lanciata in un nuovo inno e nessuno la udì al di sopra del canto. All'altare il padre le lasciò il braccio. «Fa' la brava», borbottò e si allontanò per raggiungere la madre. Lei si girò per seguirlo, ma le bloccarono la via di fuga. A sbarrarle il passo c'era il profeta Jeremiah Goode. La prese per mano. Com'erano calde le dita di lui a contatto con la sua pelle gelida. E come le sembrava grande quella mano che avvolgeva la sua, quasi fosse bloccata nella stretta di un gigante. La congregazione intonò il canto nuziale. Unione di gioia benedetta nei cieli, suggellata per sempre davanti ai Suoi occhi! Il profeta Goode l'attirò al suo fianco e lei emise un piagnucolio di dolore quando le sue dita le si conficcarono come artigli nella pelle. Adesso sei mia, legata a me per volontà di Dio, diceva quella stretta. Obbedirai. Si voltò a guardare il padre e la madre.
Li implorò in silenzio di portarla via da quel posto, di portarla a casa sua, al luogo a cui apparteneva. Erano entrambi raggianti mentre cantavano. Scrutò la sala in cerca di qualcuno che potesse strapparla da quell'incubo, ma vide solo una marea di sorrisi di approvazione e di teste che annuivano. Una sala in cui la luce del sole brillava sui petali dei fiori e il canto di duecento voci s'intensificava via via. Una sala dove nessuno udiva, dove nessuno voleva udire, le grida silenziose di una tredicenne.
Sedici anni dopo La loro storia era arrivata alla fine, ma nessuno dei due voleva ammetterlo. Parlavano invece delle strade inondate di pioggia, del traffico terribile che c'era quel mattino e della probabilità che il suo volo dall'aeroporto Logan venisse ritardato. Non parlavano di ciò che li affliggeva, anche se Maura Isles lo percepiva nella voce di Daniel Brophy e anche nella sua, così monotone, così sommesse. Cercavano entrambi di fingere che niente tra loro fosse cambiato. No, erano semplicemente sfiniti per essere rimasti in piedi per metà della notte, impantanati nello stesso penoso discorso che rappresentava il prevedibile finale del loro atto d'amore. Il discorso che la lasciava sempre con una sensazione di bisogno e un atteggiamento di pretesa. Se solo potessi star qui con me ogni notte. Se solo potessimo svegliarci insieme ogni mattino. Mi hai qui ora, Maura. Ma non completamente. Non finché non farai una scelta. Guardò dal finestrino le auto che avanzavano sotto il diluvio. Daniel non riesce a decidersi, pensò. E anche se scegliesse me, anche se lasciasse il sacerdozio e la sua preziosa chiesa, in camera con noi ci sarebbe sempre il senso di colpa a guardarci infuriato come un amante invisibile. Osservò i tergicristalli sferzare ritmici la coltre d'acqua mentre fuori la luce cupa rispecchiava il suo stato d'animo. «Ce la farai per un pelo», osservò lui. «Hai fatto il check-in online?» «Ieri. Ho la carta d'imbarco.» «Bene. Ti farà risparmiare minuti preziosi.» «Ma devo fare il check-in per la valigia. Non sono riuscita a mettere i vestiti invernali nel bagaglio a mano.» «Penseresti che per un congresso medico scelgano posti caldi e soleggiati. Perché il Wyoming a novembre?» «Si dice che Jackson Hole sia splendida.» «Anche le Bermuda.» Si azzardò a guardarlo. La penombra dell'auto gli nascondeva le rughe di preoccupazione sul viso, ma riuscì a scorgere l'argento sempre più diffuso tra i suoi capelli. In un anno soltanto quanto siamo invecchiati, pensò. L'amore ci ha fatti sfiorire entrambi. «Quando torno, andiamo insieme in un posto caldo», disse. «Solo per un fine settimana.» Rise con noncuranza. «Accidenti, scordiamoci il mondo e andiamocene per un mese intero.» Lui
restò in silenzio. «O è chiedere troppo?» domandò con dolcezza. Daniel emise un sospiro stanco. «Per quanto ci piaccia scordarci del mondo, è sempre là. E dobbiamo tornarci.» «Non dobbiamo fare proprio niente.» L'occhiata che le lanciò era di infinita tristezza. «Non lo credi veramente, Maura.» Rivolse di nuovo lo sguardo alla strada. «E nemmeno io.» No, pensò lei. Crediamo entrambi nella necessità di essere maledettamente responsabili. Io vado al lavoro tutti i giorni, pago le tasse alla scadenza esatta e faccio tutto quello che il mondo si aspetta da me. Posso blaterare quanto voglio di scappar via con lui e di fare qualcosa di pazzo, di sconsiderato, ma so che non lo farò mai. E neanche Daniel. Brophy si fermò al terminal delle partenze. Per un istante rimasero seduti senza guardarsi. Maura si concentrò invece sui suoi compagni di viaggio in coda per il check-in sul marciapiede, tutti avvolti negli impermeabili come i partecipanti a un funerale in una tempestosa mattina di novembre. In realtà non aveva voglia di uscire dall'auto calda e di unirsi alle folle afflitte di viaggiatori. Anziché prendere l'aereo potrei chiedergli di riportarmi a casa, pensò. Se avessimo ancora qualche ora per parlarne, forse potremmo trovare il modo di far funzionare le cose tra noi. Un paio di nocche batterono sul parabrezza. Maura alzò lo sguardo e vide un poliziotto dell'aeroporto che li guardava seccato. «Qui è permesso solo scaricare», abbaiò. «Dovete spostare la macchina.» Daniel abbassò il finestrino. «La sto solo accompagnando.» «Be', non ci metta tutto il giorno.» «Ti prendo la valigia», disse Daniel e uscì dall'auto. Per un momento rimasero sul marciapiede tremanti, in silenzio, in mezzo a una cacofonia di rombi di autobus e di fischietti che regolavano il traffico. Se fosse mio marito, pensò, adesso ci daremmo un bacio di saluto. Per troppo tempo avevano scrupolosamente evitato qualsiasi manifestazione pubblica d'affetto e anche se quel mattino non portava il colletto clericale, persino un abbraccio sembrava rischioso. «Non devo andare per forza al congresso», disse Maura. «Potremmo passare la settimana insieme.» Lui sospirò. «Maura, non posso scomparire così per una settimana.» «Quando puoi farlo?» «Mi serve tempo per organizzarmi. Andremo via, te lo prometto.» «Ma dovrà sempre essere in qualche altro posto, vero? Un posto in cui nessuno ci conosca. Per una volta vorrei passare una settimana con te senza
dover andare via.» Daniel lanciò uno sguardo al poliziotto che stava tornando verso di loro. «Ne parleremo quando tornerai la prossima settimana.» «Ehi, signore!» gridò l'agente. «Sposti subito l'auto.» «Certo che parleremo.» Maura scoppiò a ridere. «Siamo bravi a parlare, no? È la cosa che sappiamo fare meglio.» Afferrò la valigia. Lui l'afferrò per un braccio. «Maura, ti prego. Non salutiamoci così. Sai che ti amo. Ho solo bisogno di tempo per trovare una soluzione.» Maura gli vide il dolore impresso sul volto. Tutti quei mesi di sotterfugi, l'indecisione e il senso di colpa avevano lasciato cicatrici, offuscato la gioia che aveva trovato con lei. Avrebbe potuto consolarlo con un sorriso, con una stretta rassicurante sul braccio, ma in quell'istante non vedeva al di là del suo dolore. L'unica cosa a cui pensava era la vendetta. «Per noi il tempo è scaduto», rispose e si allontanò entrando nel terminal. Nell'istante stesso in cui le porte di vetro si chiusero alle sue spalle con un sibilo si pentì di quelle parole. Ma quando si fermò a guardare dal vetro, lui stava già salendo in macchina.
1 Le gambe dell'uomo erano divaricate e lasciavano esposti i testicoli lacerati e la pelle ustionata delle natiche e del perineo. La foto autoptica apparve sullo schermo senza alcun preavviso da parte del conferenziere, eppure nella buia sala conferenze dell'albergo nessuno fiatò. Quel pubblico era avvezzo alla vista di corpi devastati e smembrati. Per chi ha visto e toccato carne carbonizzata, per chi ha familiarità con il suo lezzo, un'asettica presentazione Power-Point racchiude ben pochi orrori. In effetti l'uomo dai capelli bianchi seduto accanto a Maura si era appisolato più volte e nella semioscurità lei vedeva la sua testa dondolare mentre lottava tra il sonno e la veglia, indifferente alla sequela di immagini raccapriccianti che apparivano sullo schermo. «Quelle che osservate qui sono le tipiche lesioni causate da un'autobomba. La vittima era un uomo d'affari russo di quarantacinque anni che un mattino è salito sulla sua Mercedes... una Mercedes molto bella, potrei aggiungere. Quando ha girato la chiave, ha azionato la trappola esplosiva posta sotto il sedile. Come vedete dai raggi X...» L'oratore cliccò con il mouse e sullo schermo comparve la successiva alide di Power-Point. Era la radiografia di una pelvi spezzata all'altezza del pube. I tessuti molli erano costellati di schegge ossee e metalliche. «La forza dell'esplosione ha spinto alcuni frammenti dell'auto fino nel perineo lacerando lo scroto e tranciando le tuberosità ischiatiche. Mi spiace dover dire che vediamo sempre più spesso danni simili da esplosione, soprattutto in quest'epoca di attacchi terroristici. Era una bomba piuttosto piccola, concepita per uccidere solo il guidatore. Quando passiamo al mondo del terrorismo, parliamo di esplosioni molto più potenti con maggiori vittime.» Cliccò di nuovo con il mouse e apparve una foto di organi resecati, che luccicavano come pezzi di carne in una macelleria sul telo chirurgico verde. «Talvolta non si trovano molte tracce di danni esterni, anche quando i danni interni sono letali. Questo è il risultato di un attentato kamikaze in un caffè di Gerusalemme. La giovane di quattordici anni ha subito lesioni massive da concussione dei polmoni nonché perforazione dei visceri addominali. Il volto è integro. Quasi angelico.» La foto che comparve in seguito suscitò la prima reazione udibile dal pubblico: mormorii di tristezza e d'incredulità. La ragazza sembrava riposare serena, il volto perfetto senza rughe e ombre di preoccupazione, gli occhi scuri che guardavano sotto le ciglia folte. Alla fine non fu il sangue a scuotere la sala di patologi, ma la bellezza. A quattordici anni, quando era
morta, pensava forse a un compito scolastico. O a un bel vestito. O a un ragazzo che aveva intravisto per strada. Non avrebbe immaginato che di lì a poco i suoi polmoni, il suo fegato e la sua milza sarebbero stati disposti su un tavolo autoptico o che un giorno una sala di duecento patologi avrebbe fissato imbambolata la sua immagine. Quando si accesero le luci, il pubblico era ancora mesto. Mentre gli altri si accodavano per uscire, Maura rimase al suo posto a osservare gli appunti che aveva preso su bombe riempite di chiodi e pacchi bomba, autobombe e ordigni sepolti. Quando si trattava di causare sofferenza, l'ingegnosità umana non conosceva limiti. Siamo così bravi ad ammazzarci tra noi, pensò. Eppure in amore falliamo miseramente. «Mi scusi, lei è Maura Isles?» Guardò l'uomo che si era alzato dal suo posto, due file più avanti. Era circa della sua età, alto e atletico, molto abbronzato, con i capelli biondi schiariti dal sole che la indussero subito a pensare: è californiano. Aveva un volto vagamente familiare ma non ricordava dove lo avesse conosciuto, il che era sorprendente. Era un volto di cui qualsiasi donna si sarebbe di certo ricordata. «Lo sapevo! Sei tu, vero?» Scoppiò a ridere. «Ti ho riconosciuta appena sei entrata in sala.» Lei scosse la testa. «Mi spiace. E' davvero imbarazzante, ma non credo di ricordarmi di lei.» «Perché è stato molto tempo fa. E non ho più la coda di cavallo. Douglas Comley, corso propedeutico alla facoltà di medicina alla Stanford. Sono passati... quanti? Vent'anni? Non mi stupisce che tu mi abbia dimenticato. Diamine, io stesso mi sarei scordato di me.» D'un tratto le balenò in mente il ricordo di un giovane con i capelli biondi lunghi e un paio di occhiali scuri sul naso bruciato dal sole. A quel tempo era molto più allampanato, un piccolo levriero in blue jeans. «Eravamo in laboratorio insieme?» domandò. «Analisi quantitativa. Terzo anno.» «Te lo ricordi anche dopo vent'anni? Sono sbalordita.» «Non mi ricordo un accidenti di niente di analisi quantitativa. Ma mi ricordo di te. Avevi il banco da laboratorio proprio di fronte al mio e hai ottenuto il punteggio più alto della classe. Non sei finita alla facoltà di medicina della UC a San Francisco?» «Sì, ma adesso vivo a Boston. E tu?» «UC a San Diego. Non sono riuscito a lasciare la California. Sono sole e surf dipendente.» «Il che mi pare ottimo in questo momento. E' solo novembre e sono già stanca del freddo.» «Io invece mi sto proprio godendo la neve. E' uno spasso.»
«Solo perché non devi conviverci per quattro mesi all'anno.» La sala conferenze si era ormai svuotata e i camerieri dell'albergo stavano impilando le sedie e portando via le attrezzature audio. Maura infilò gli appunti nella borsa e si alzò. «Ti vedo stasera al party?» gli chiese mentre si spostavano entrambi lungo file parallele verso l'uscita. «Sì, credo che ci sarò. Ma per cena siamo liberi, vero?» «Così dice il programma.» Uscirono insieme dalla sala piombando nell'atrio dell'hotel affollato di altri medici che portavano le stesse targhette bianche con il nome e le stesse borse del convegno. Aspettarono insieme agli ascensori sforzandosi di continuare il dialogo. «Allora, sei qui con tuo marito?» domandò lui. «Non sono sposata.» «Mi sembrava di aver visto l'annuncio delle tue nozze sulla rivista degli ex alunni.» Lei lo guardò stupita. «Segui a tal punto le vicende di tutti?» «Sono curioso di sapere dove finiscono i miei compagni di classe.» «Per quanto mi riguarda ho divorziato. Quattro anni fa.» «Oh, mi spiace.» Lei scrollò le spalle. «A me no.» Salirono in ascensore al terzo piano dove uscirono entrambi. «Ci vediamo al party», disse lei salutandolo ed estraendo la chiave dell'albergo. «Ceni con qualcuno? Perché io sono libero. Se ti fa piacere, ti porto in un buon ristorante. Fammi uno squillo.» Maura si girò per rispondergli, ma lui si stava già avviando in corridoio con la borsa gettata sulla spalla. Mentre lo osservava allontanarsi, le balenò all'improvviso in testa un altro ricordo di Douglas Comley. Un'immagine di lui in blue jeans che se ne andava in giro zoppicando per il cortile interno del campus. «Non ti eri rotto la gamba quell'anno?» gli chiese. «Mi sembra proprio prima degli esami finali.» Douglas si voltò ridendo verso di lei. «Questo è quello che ricordi di me?» «Adesso comincia a tornarmi tutto in mente. Avevi avuto un incidente di sci o qualcosa del genere.» «Qualcosa del genere.» «Non è stato un incidente di sci?» «Oh, cavolo.» Douglas scosse la testa. «Mi imbarazza troppo parlarne.»
«Be', adesso me lo devi dire.» «Se cenerai con me.» Maura tacque quando le porte dell'ascensore si aprirono e un uomo e una donna uscirono. Percorsero il corridoio abbracciati: stavano chiaramente insieme e non erano per nulla intimoriti di mostrarlo. Come dovrebbe fare una coppia, pensò, mentre entravano in una stanza e chiudevano la porta. Guardò Douglas. «Mi piacerebbe conoscere la storia.»
2 Scapparono via presto dal party dei patologi e cenarono al Four Seasons Resort di Teton Village. Dopo otto ore di fila di interventi su pugnalate e bombe, proiettili e mosconi azzurri della carne, Maura non ne poteva più di sentir parlare di morte e fu sollevata di tornare nel mondo normale in cui una chiacchierata non implicava discorsi sulla putrefazione e in cui il problema più serio della serata era la scelta del vino. «Allora, come ti sei rotto la gamba alla Stanford?» chiese mentre Douglas versava il Pinot Nero nel bicchiere. Lui sussultò. «Speravo te ne fossi dimenticata.» «Avevi promesso di dirmelo. E il motivo per cui sono venuta a cena.» «Non sei qui allora per il mio spirito brillante? Per il mio fascino giovanile?» Maura scoppiò a ridere. «Be', anche per quello. Ma soprattutto per sentire il racconto della gamba rotta. Ho la sensazione che sarà divertente.» «D'accordo.» Douglas sospirò. «La verità? Stavo facendo il cretino sul tetto della Wilbur Hall e sono caduto.» Lei lo fissò. «Mio Dio, è un bel salto.» «Me ne sono accorto.» «Presumo c'entrasse l'alcol.» «Certo.» «Quindi è stata solo una tipica e stupida bravata da college.» «Perché sembri così delusa?» «Mi aspettavo qualcosa di meno... oh, convenzionale.» «Be'», ammise lui, «ho tralasciato qualche dettaglio.» «Per esempio?» «Il costume da ninja che indossavo. La maschera nera. La spada di plastica.» Scrollò imbarazzato le spalle. «E l'umiliante corsa in ambulanza all'ospedale.» Lei lo studiò con sguardo calmo, professionale. «E oggi ti piace ancora vestirti da ninja?» «Vedi?» Scoppiò in una fragorosa risata. «E' per questo che metti così soggezione! Chiunque altro avrebbe riso di me, tu invece rispondi con una domanda molto logica, molto assennata.» «C'è una risposta assennata?» «Neanche una, maledizione.» Alzò il bicchiere per un brindisi. «Agli stupidi scherzi da college. Per non dimenticarli mai.» Maura bevve un sorso e posò il vino. «Cosa intendevi quando dici che metto soggezione?»
«Lo hai sempre fatto. Io ero là, un imbecille che prendeva il college con tutta calma. Che ci dava troppo dentro alle feste e si alzava troppo tardi. Ma tu... tu eri così determinata, Maura. Sapevi esattamente cosa volevi essere.» «E questo metteva soggezione?» «Atterriva anche. Perché avevi tutto sotto controllo e io no.» «Non sapevo di avere quell'effetto sulla gente.» «Lo hai ancora.» Maura rifletté sull'affermazione. Pensò agli agenti di polizia che ammutolivano sempre quando arrivava sulla scena di un crimine. Alle feste di Natale in cui si limitava a un solo calice di champagne mentre tutti gli altri facevano baldoria. La gente non avrebbe mai visto la dottoressa Maura Isles ubriacarsi, far chiasso o comportarsi in modo sconsiderato. Avrebbe visto solo quello che lei permetteva vedesse. Una donna padrona di sé. Una donna che atterriva. «Ma essere determinati non è un difetto», rispose a sua difesa. «È l'unico modo in cui si riesce a realizzare qualcosa a questo mondo.» «Il che spiega probabilmente perché io abbia impiegato tanto a farlo.» «Sei arrivato alla facoltà di medicina.» «Alla fine. Dopo aver passato due anni a perdere tempo, cosa che ha fatto impazzire mio padre. Ho lavorato come barista nella Baja California. Ho insegnato surf a Malibù. Fumavo troppa erba e mi scolavo litri di vino scadente. Era fantastico.» Sorrise. «Tu, dottoressa Isles, non avresti approvato.» «Non è una cosa che avrei fatto.» Maura bevve un altro sorso di vino. «Non allora, in ogni caso.» Lui alzò un sopracciglio. «Intendi che lo faresti adesso?» «Le persone cambiano, Douglas.» «Sì, guarda me! Non avrei mai immaginato che un giorno sarei diventato un noioso patologo sepolto nel seminterrato di un ospedale.» «Ma allora com'è successo? Cosa ti ha trasformato da tipo da spiaggia in medico rispettabile?» La conversazione si interruppe quando il cameriere servì loro il piatto principale. Anatra arrosto per Maura, costolette d'agnello per Douglas. Tacquero per macinare come d'obbligo il pepe e riempirsi di nuovo i bicchieri. Solo dopo che il cameriere se ne fu andato, Douglas rispose alla domanda. «Mi sono sposato», disse. Maura non aveva notato alcuna fede al dito ed era la prima volta che lui accennava a un legame. Alzò lo sguardo sorpresa di fronte a quella rivelazione, ma lui non la stava guardando. Stava fissando un altro tavolo, una famiglia con due bambine piccole. «Un'unione sbagliata fin dall'inizio», ammise. «L'avevo incontrata a una festa. Una bionda favolosa, occhi azzurri, gambe
chilometriche. Aveva sentito che volevo far domanda per entrare a medicina e aveva in testa di diventare la moglie di un ricco dottore. Non si era resa conto che avrebbe finito per passare i fine settimana sola mentre io lavoravo in ospedale. Quando terminai l'internato di patologia, si era già trovata un altro.» Douglas affondò il coltello in una costoletta. «Ma dovevo tenermi Grace.» «Grace?» «Mia figlia. Tredici anni, splendida in tutto e per tutto come la madre. Spero solo di riuscire a indirizzarla verso scelte più intellettuali rispetto a quelle fatte dalla madre.» «Dov'è adesso la tua ex moglie?» «Si è risposata con un banchiere. Vivono a Londra e ci va bene se la sentiamo due volte l'anno.» Posò coltello e forchetta. «Così sono diventato Mr Mammo. Adesso ho una figlia, un mutuo e un lavoro al Centro per veterani di San Diego. Chi potrebbe chiedere di più?» «Sei felice?» Scrollò le spalle. «Non è la vita che mi immaginavo quando ero alla Stanford e giocavo a fare il ninja sui tetti, ma non mi posso lamentare. La vita è imprevedibile e ti ci devi adattare.» Le sorrise. «Beata te, sei proprio quello che ti eri figurata. Hai sempre voluto diventare patologa ed eccoti qui.» «Ho anche sempre voluto sposarmi. In quello ho fallito miseramente.» Lui la studiò. «Trovo così difficile credere che adesso non ci sia un uomo nella tua vita.» Maura giocherellò con i pezzetti d'anatra nel piatto, di colpo senza più fame. «A dire il vero mi vedo con qualcuno.» Douglas si protese e la fissò intensamente. «Dimmi qualcosa di più.» «Va avanti da circa un anno.» «Sembra una cosa seria.» «Non lo so.» Il suo sguardo la metteva in imbarazzo e tornò a concentrarsi sul cibo. Sentiva che la stava studiando, cercando di cogliere ciò che non diceva. Quella che era iniziata come una conversazione spensierata si era trasformata all'improvviso in un discorso molto personale. Erano comparse le lame da dissezione e stavano venendo fuori i segreti. «Abbastanza da far suonare le campane nuziali?» domandò. «No.» «Perché no?» Maura lo guardò. «Perché non è disponibile.» Lui si appoggiò allo schienale, sorpreso.
«Non avrei mai pensato che una donna equilibrata come te si innamorasse di un uomo sposato.» Lei fece per correggerlo, poi si bloccò. Dal punto di vista pratico Daniel Brophy era senza dubbio un uomo sposato, sposato con la sua chiesa. Non c'era sposa più gelosa, più esigente. Avrebbe avuto maggiori possibilità di averlo se fosse stato legato a un'altra donna. «Evidentemente non sono equilibrata come credi», rispose. Douglas scoppiò in una risata stupita. «Devi avere una vena di pazzia di cui non mi sono mai accorto. Com'è che alla Stanford mi è sfuggita?» «E' stato tanto tempo fa.» «La personalità di base non cambia molto in realtà.» «Tu sei cambiato.» «No. Sotto questo blazer Brooks Brothers batte ancora il cuore di un tipo da spiaggia. La medicina è solo il mio lavoro, Maura. Paga i conti. Non è quello che sono.» «E secondo te io cosa sono?» «La stessa persona che eri alla Stanford. Competente. Professionale. Una che non fa errori.» «Vorrei fosse vero. Vorrei non aver fatto errori.» «Quest'uomo con cui ti vedi è un errore?» «Non sono pronta ad ammetterlo.» «Ti sei pentita?» La domanda la indusse a tacere, non perché non sapesse cosa rispondere. Sapeva di non essere felice. Sì, c'erano momenti di gioia quando sentiva l'auto di Daniel nel vialetto o lui che bussava alla porta. Ma c'erano anche sere in cui se ne stava seduta sola al tavolo di cucina a bere troppi bicchieri di vino. A covare troppi risentimenti. «Non lo so», disse infine. «Io non mi sono mai pentito di niente.» «Nemmeno del matrimonio?» «Nemmeno di quel disastro che è stato il mio matrimonio. Credo che ogni esperienza, ogni decisione sbagliata ci insegni qualcosa. Per questo non dovremmo aver paura di commettere errori. Io mi butto a testa bassa nelle cose e a volte mi scotto. Ma alla fine c'è una soluzione per tutto.» «Quindi ti fidi dell'universo?» «Sì. E la notte dormo sonni tranquilli. Niente dubbi, niente armadi pieni di ansie. La vita è troppo breve per quello. Dovremmo semplicemente starcene seduti e goderci il viaggio.» Il cameriere sopraggiunse per portare via i piatti. Se Maura aveva mangiato solo metà del cibo, Douglas aveva pulito il piatto divorando le costolette d'agnello come sembrava divorare la vita stessa, con allegro trasporto. Ordinò cheese-cake e caffè come dessert; Maura chiese solo una camomilla.
Quando il tutto arrivò, Douglas divise il cheese-cake a metà. «Dai», disse, «so che ne vuoi un po'.» Ridendo Maura afferrò la forchetta e ne prese un bel boccone. «Hai una cattiva influenza.» «Se ci comportassimo tutti bene, quanto sarebbe noiosa la vita? Inoltre il cheese-cake è un peccato minore.» «Quando tornerò a casa, dovrò pentirmi.» «Quando rientri?» «Non prima di domenica pomeriggio. Pensavo di rimanere un giorno in più e godermi un po' il paesaggio. Jackson Hole è decisamente splendida.» «Giri sola?» «A meno che qualche bell'uomo non si offra di farmi da guida.» Douglas mangiò un boccone di torta senza masticarlo, facendosi pensieroso per un istante. «Per quanto riguarda il bell'uomo non saprei», rispose. «Ma ti potrei offrire un'alternativa. Mia figlia Grace è qui con me. Stasera è al cinema con due miei amici di San Diego. Sabato avevamo intenzione di andare a un lodge per sciatori escursionisti e di passarci la notte. Torneremo domenica mattina. Nel Suburban c'è posto per te. E sono sicuro che ci sia posto anche al lodge, se ti fa piacere unirti a noi.» Maura scosse la testa. «Sarei di troppo.» «Per niente. Piaceresti a tutti loro. E credo anche che loro piacerebbero a te. Ario è uno dei miei migliori amici. Di giorno è un noioso commercialista, ma la sera...» La voce di Douglas si abbassò tramutandosi in un sinistro borbottio. «Si trasforma in una celebrità conosciuta come Misterioso Mr Chops.» «Come chi?» «E' solo uno dei blogger più famosi del web in tema di cibo e vini. Ha mangiato in ogni ristorante d'America segnalato dalla Guida Michelin e ora sta procedendo alla conquista dell'Europa. Io lo chiamo semplicemente Squalo.» Maura scoppiò a ridere. «Sembra divertente. E l'altro amico?» «Elaine, la ragazza che frequenta da anni. Si occupa di design d'interni o qualcosa del genere, non so con precisione. Credo che voi due andreste d'accordo. In più, conosceresti Grace.» Maura mangiò un altro boccone di cheese-cake e si prese un po' di tempo per masticare. Per riflettere. «Ehi, non ti sto proponendo di sposarmi», la prese in giro Douglas. «E' solo una gita in macchina di un giorno con mia figlia tredicenne che ci farà da chaperon.» Le si avvicinò di più e la fissò intensamente con i suoi occhi azzurri.
«Dai. Le mie idee pazze e scatenate finiscono quasi sempre per essere divertenti.» «Quasi sempre?» «C'è il fattore imprevedibilità, la possibilità che accada qualcosa di inatteso, di sorprendente. È proprio questo che rende la vita un'avventura. A volte devi saltare a bordo e fidarti dell'universo.» In quell'istante, mentre lo guardava negli occhi, sentì che Douglas Comley la vedeva come poche persone riuscivano a farlo. Vedeva oltre la corazza difensiva e scorgeva la donna che c'era dentro. Una donna che aveva sempre avuto paura di dove il cuore l'avrebbe portata. Guardò il piatto con il dessert. Il cheese-cake era sparito. Non si era accorta di averlo mangiato. «Fammici pensare un po'», rispose. «Certo.» Douglas scoppiò a ridere. «Non saresti Maura Isles se non lo facessi.» Quella sera, tornata in camera, chiamò Daniel. Dal tono di voce capì che non era solo. Era educato ma impersonale, come se parlasse a un parrocchiano qualsiasi. In sottofondo Maura udiva alcune voci discutere del prezzo del gasolio da riscaldamento, del costo della riparazione del tetto, del calo delle donazioni. Era una riunione per discutere del budget della chiesa. «Com'è lassù?» domandò. Gradevole e neutro. «Fa molto più freddo che a Boston. C'è già la neve.» «Qui continua a piovere.» «Arrivo domenica sera. Ce la fai lo stesso a venirmi a prendere in aeroporto?» «Ci sarò.» «E dopo? Potremmo goderci una cena a tarda sera a casa mia, se ti va di restare per la notte.» Silenzio. «Non sono sicuro di potere. Devo vedere.» Era quasi la stessa risposta che lei aveva dato a Douglas quella sera. E si ricordò di quanto le aveva detto. A volte devi saltare a bordo e fidarti dell'universo. «Posso richiamarti sabato?» disse. «A quel punto saprò i miei impegni.» «D'accordo. Ma se non riuscirai a raggiungermi, non ti preoccupare. Potrei essere in una zona senza segnale.» «Ci sentiamo sabato allora.» Non ci fu alcun ti amo di saluto, solo un semplice ciao e la conversazione terminò. L'unica intimità che si godevano era dietro una porta chiusa.
Ogni incontro era programmato in anticipo e, dopo, ripetutamente analizzato. Troppo concettuale, avrebbe detto Douglas. Tutta quella concettualità non l'aveva resa felice. Prese il telefono dell'albergo e fece il numero dell'operatore. «Per piacere, può passarmi la stanza di Douglas Comley?» Lui impiegò quattro squilli a rispondere. «Pronto?» «Sono io», disse Maura. «L'invito è ancora valido?»
3 L'avventura iniziò abbastanza bene. Venerdì sera i compagni di viaggio si incontrarono per bere qualcosa. Quando Maura entrò nella sala da cocktail dell'albergo, trovò Douglas e gli altri già seduti a un tavolo. Ario Zielinski sembrava proprio il tipo che metteva in pratica i consigli della Guida Michelin: grassoccio e con un principio di calvizie. Un uomo dall'appetito robusto e con una risata che non era da meno. «Più siamo meglio è! E adesso abbiamo una scusa per ordinare due bottiglie di vino a cena», esclamò. «Resta con noi, Maura, e ti assicuro che ti divertirai, soprattutto quando è Douglas a pensare a tutto.» Si protese e le sussurrò: «Garantisco per la sua moralità, da anni gli faccio la dichiarazione dei redditi e se c'è qualcuno che conosce i tuoi segreti, quello è il tuo commercialista». «Cosa state bisbigliando voi due?» chiese Douglas. Ario sollevò lo sguardo con aria innocente. «Dicevo solo che la giuria è stata interamente manipolata per darti contro. Non avrebbero mai dovuto condannarti.» Maura scoppiò a ridere. Sì, le piaceva l'amico di Douglas. Non sapeva tuttavia se dire altrettanto di Elaine Salinger. Malgrado durante la conversazione fosse rimasta seduta con un sorriso sulle labbra, era un sorriso tirato. Tutto in lei sembrava in certo qual modo tirato, dai pantaloni da sci neri aderenti al suo viso stranamente privo di rughe. Aveva quasi la stessa età e la stessa altezza di Maura ed era magra come una modella, con un giro vita invidiabile e un autocontrollo tale da mantenerlo. Mentre Douglas, Maura e Ario si dividevano una bottiglia di vino, Elaine sorseggiò solo acqua minerale con una fetta di lime ed evitò virtuosa la ciotola di noccioline in cui Ario pescava con tanto entusiasmo. Maura non capiva cosa avessero in comune quei due; di sicuro non riusciva a immaginarli come coppia. La figlia di Douglas, Grace, era un altro mistero. Le aveva descritto l'ex moglie come una gran bella donna e i fortunati geni erano chiaramente passati alla figlia. A tredici anni Grace era già una bionda strepitosa dalle gambe lunghe, con sopracciglia arcuate e occhi azzurri cristallini. Ma era una bellezza distante, fredda, senza fascino. La ragazza non aveva quasi partecipato alla conversazione. Era rimasta seduta con gli auricolari dell'iPod tenacemente infilati nelle orecchie. Ora emise un sospiro enfatico e allungò il corpo dinoccolato sulla sedia. «Papà, posso tornare in camera?» «Dai, tesoro, resta qui», insistette Douglas.
«Non siamo mica così noiosi.» «Sono stanca.» «Hai solo tredici anni», la prese in giro Ario. «Alla tua età dovresti essere entusiasta di venire con noi a divertirti.» «Non sembra che abbiate bisogno di me qui.» Douglas guardò accigliato l'iPod notandolo per la prima volta. «Spegnilo, d'accordo? Cerca di partecipare alla conversazione.» La ragazza gli lanciò uno sguardo di puro disprezzo adolescenziale e si accasciò di nuovo sulla sedia. «... perciò ho passato in rassegna tutti i possibili ristoranti della zona e non c'è niente che valga la pena di una sosta», dichiarò Ario. Si cacciò un'altra manata di noccioline in bocca e si pulì le mani piccole e tozze dal sale. Si tolse gli occhiali e pulì anche quelli. «Penso che dovremmo andare dritti al lodge e pranzare lì. Almeno hanno le bistecche nel menù. Quant'è difficile cucinare una bistecca decente?» «Abbiamo appena cenato, Ario», osservò Elaine. «Non posso credere che tu stia già pensando al pranzo di domani.» «Mi conosci, sono un pianificatore. Come si suol dire, mi piace mettere tutte le mie anatre in fila.» «Soprattutto se sono glassate all'arancia.» «Papà», piagnucolò Grace, «sono davvero stanca. Posso andare a letto?» «Oh, va bene», rispose lui. «Ma ti voglio sveglia alle sette. Vorrei caricare la macchina ed essere pronto a partire per le otto.» «Mi sa che anche noi dovremmo andare a nanna», affermò Ario. Si alzò scrollandosi le briciole dalla camicia. «Vieni, Elaine.» «Sono solo le nove e mezzo.» «Elaine», ripetè lui e inclinò la testa in modo eloquente verso Maura e Douglas. «Oh.» Elaine lanciò uno sguardo indagatore a Maura, poi si alzò flessuosa come un ghepardo. «E' stato un piacere conoscerti, Maura», disse. «Ci vediamo domani mattina.» Douglas attese che i tre se ne andassero, poi le disse: «Mi spiace che Grace sia stata così antipatica». «E' una splendida ragazza, Douglas.» «Ha anche una bella testa. Un QI di centotrenta. Non che stasera tu abbia potuto notarlo. Di solito non è così silenziosa.» «Forse è perché vengo con voi. Probabilmente non le fa molto piacere.» «Non pensarlo neanche, Maura. Se ha qualche problema, dovrà risolverselo.» «Se il fatto che mi unisca a voi appare in qualche modo strano...»
«Per te lo è?» Il suo sguardo era così inquisitorio che si sentì costretta a dire la verità. «Un po'», ammise. «Ha tredici anni. Tutto quello che riguarda i tredicenni è strano. Non posso permettere che questo condizioni la mia vita.» Alzò il bicchiere. «Quindi alla nostra avventura!» Lei ricambiò il brindisi e sorseggiarono il vino sorridendosi. Nella penombra della sala da cocktail Douglas sembrava lo studente di college che ricordava, il giovane spericolato che saliva sui tetti e indossava gli abiti da ninja. Anche lei si sentì di nuovo giovane. Audace, impavida e pronta per quell'avventura. «Tranquilla», esclamò Douglas. «Ci divertiremo tantissimo.» Nella notte aveva iniziato a nevicare e quando caricarono i bagagli nel retro del Suburban dieci centimetri di farina bianca rivestivano le macchine nel parcheggio, un manto primordiale che con la sua bellezza suscitò le grida di stupore del gruppetto di San Diego. Douglas e Ario insistettero per scattare qualche foto delle tre signore in posa davanti all'ingresso dell'albergo, tutte sorridenti e con le guance rosse nei loro indumenti da sci. La neve non era una novità per Maura, ma ora la vedeva come quei californiani, con un senso di meraviglia per il suo biancore e la sua pulizia, per la dolcezza con cui le si posava sulle ciglia, per il silenzio con cui scendeva vorticando dal cielo. Nei lunghi inverni di Boston la neve significava spalature estenuanti, scarpe bagnate e strade piene di fanghiglia. Era una semplice realtà della vita che andava affrontata fino a primavera. Quella neve tuttavia sembrava diversa: era la neve delle vacanze e Maura sorrise al cielo sentendosi leggera come i compagni, incantata da un mondo che d'un tratto le appariva nuovo e splendente. «Ragazzi, ci divertiremo come matti!» dichiarò Douglas mentre fissava gli sci da escursionismo noleggiati sul tetto del Suburban. «Neve fresca. Compagnia deliziosa. Cena davanti a un fuoco scoppiettante.» Tirò per l'ultima volta le cinghie sul tetto. «Bene, amici. Andiamo.» Grace salì sul sedile anteriore. «Ehi, tesoro», le disse Douglas, «ti dispiace se si siede Maura vicino a me?» «Ma questo è sempre stato il mio posto.» «E' nostra ospite. Permettile di stare davanti.» «Douglas, lasciala lì», disse Maura. «Sto benissimo dietro.» «Ne sei sicura?» «Certo.» Maura si sistemò su un sedile nella parte posteriore del Suburban. «Qui va benone.»
«D'accordo. Magari potete scambiarvi di posto dopo.» Douglas lanciò un'occhiata di disapprovazione alla figlia, ma Grace si era già messa gli auricolari e guardava fuori dal finestrino ignorandolo. In realtà a Maura non dispiaceva affatto starsene seduta sola in terza fila, proprio alle spalle di Ario e di Elaine, dove si godeva la vista della pelata di lui e dei capelli scuri tagliati alla moda di lei. Si era aggiunta all'ultimo minuto al quartetto, non conosceva le loro storie e il loro modo di scherzare ed era contenta di essere una semplice osservatrice mentre uscivano da Teton Village e si dirigevano a sud sotto la neve che cadeva sempre più fitta. I tergicristalli andavano avanti e indietro spazzando via la cascata di fiocchi. Maura si appoggiò allo schienale e osservò il paesaggio che scorreva via. Non vedeva l'ora di pranzare accanto al fuoco del lodge e di sciare nel pomeriggio. Avrebbero fatto sci escursionismo, non discesa, perciò non doveva temere gambe rotte, crani fratturati né cadute imbarazzanti. Una tranquilla attraversata nel bosco silenzioso con il fruscio degli sci che scivolavano sul manto farinoso e il piacevole pizzicore dell'aria fredda nei polmoni. Durante il congresso di patologia aveva visto fin troppe immagini di corpi devastati. Era lieta di fare una gita che non avesse nulla a che fare con la morte. «Nevica bene», commentò Ario. «Questo giocattolino ha buone gomme», rispose Douglas. «L'impiegato della Hertz ha detto che ce la fa con questo tempo.» «A proposito del tempo, hai visto le previsioni?» «Sì, neve. Che sorpresa!» «Dimmi solo che raggiungeremo il lodge in tempo per il pranzo.» «Lola dice che arriveremo alle undici e trentadue. E Lola non si sbaglia mai.» «Chi è Lola?» chiese Maura. Douglas indicò il gps portatile che aveva fissato al cruscotto. «Eccola.» «Perché ai gps ci si riferisce sempre al femminile?» domandò Elaine. Ario scoppiò a ridere. «Perché le donne dicono sempre agli uomini dove andare. Dato che Lola dice che arriveremo prima di mezzogiorno, possiamo pranzare presto.» Elaine sospirò. «Ma pensi sempre a mangiare?» «La parola giusta è pranzare. Nell'arco della vita puoi consumare solo un certo numero di pasti, perciò tanto vale...» «...far si che ognuno sia degno», terminò Elaine per lui. «Sì, Ario, conosciamo la tua filosofia di vita.» Ario si girò sul sedile per guardare Maura. «Mia mamma era un'ottima cuoca. Mi ha insegnato a non sprecare mai il mio appetito con cibi mediocri.» «Allora sarà per questo che sei così magro», osservò Elaine. «Ouch», replicò lui.
«Oggi sei strana. Pensavo non vedessi l'ora di fare questa gita.» «Sono solo stanca. Hai russato per metà della notte. Dovrò insistere per avere una stanza tutta per me.» «Uff, dai. Ti comprerò un paio di tappi.» Ario la cinse con un braccio e l'attirò a sé. «Dolcezza. Tesoro. Non lasciarmi dormire solo.» Elaine si liberò. «Mi stai facendo venire il torcicollo.» «Ehi, ragazzi, guardate che neve splendida!» esclamò Douglas. «E' un paese invernale delle meraviglie!» A un'ora da Jackson videro un cartello: ultima possibilità di rifornimento carburante. Douglas entrò nella Grubb's Gas Station and General Store e uscirono tutti dall'auto per andare in bagno e fare un giro negli stretti corridoi a guardare snack, riviste impolverate e raschietti per il ghiaccio. Ario era fermo di fronte a un espositore di bastoncini di carne di manzo sottovuoto e rise. «Ma chi mai mangia questa roba? Conterranno il novantanove per cento di nitrito di sodio e il resto è colorante rosso numero due.» «Hanno le tavolette di cioccolato Cadbury», annunciò Elaine. «Ne prendiamo un po'?» «Probabilmente avranno dieci anni. Oh, che schifo, ci sono i bastoncini di liquirizia. Quando ero piccolo, ne ho mangiati tanti da star male. Sembra di essere tornati negli anni Cinquanta.» Mentre Ario ed Elaine ridacchiavano davanti agli snack, Maura prese un quotidiano e andò alla cassa a pagare. «Sai che è di una settimana fa, vero?» disse Grace. Maura si girò, sorpresa che la ragazza le avesse parlato. Per una volta non aveva le cuffie, ma l'iPod era ancora acceso e la musica suonava come un gemito metallico. «E' il giornale della scorsa settimana», precisò Grace. «Tutto in questo negozio è scaduto. Le patatine saranno di un anno fa. Scommetto che persino il carburante è di cattiva qualità.» «Grazie per avermelo fatto notare. Ma ho bisogno di qualcosa da leggere e questo andrà bene.» Maura prese il portafoglio meravigliandosi che un'adolescente si esprimesse in quel modo. Ma quello era soltanto l'ennesimo particolare di Grace che la sconcertava. La ragazza varcò la porta dondolando leggermente le anche ossute nei jeans aderenti, inconsapevole dell'effetto che aveva sugli altri. L'anziano alla cassa la guardò a bocca aperta, come se non avesse mai visto una creatura esotica simile nel suo negozio. Quando Maura uscì, Grace era già nel Suburban, ma stavolta sul sedile posteriore. «La principessa ha infine rinunciato al suo trono», mormorò Douglas a Maura mentre le apriva la portiera.
«Dovrai sederti davanti con me.» «Non mi dispiaceva stare dietro.» «Be', a me sì. Ho scambiato due parole con lei e adesso è tranquilla.» Elaine e Ario uscirono dal negozio ridendo e si sistemarono ai loro posti. «Sembrava una capsula del tempo», disse Ario. «Hai visto i dispenser Pez? Avranno avuto vent'anni. E il vecchio dietro il banco sembrava un personaggio di Ai Confini della Realtà.» «Sì, era strano», convenne Douglas avviando il motore. «Direi piuttosto che dava i brividi. Ha detto che sperava non fossimo diretti a Verrà il Regno.» «Cosa dovrebbe significare?» «Siete peccatori!» tuonò Ario con il tono da televangelista più convincente che gli riuscì. «E siete sulla strada per l'inferno!» «Forse voleva solo avvertirci di stare attenti», affermò Elaine. «Con la neve e tutto il resto.» «Sembra stia diminuendo.» Douglas si protese per scrutare il cielo. «In effetti mi sembra di vedere una chiazza d'azzurro lassù.» «Sempre ottimista il nostro Douglas», osservò Ario. «Penso positivo. Funziona sempre.» «Facci solo arrivare in tempo per pranzo.» Douglas guardò il gps. «Lola dice che l'arrivo è previsto per le undici e quarantanove. Non morirai di fame.» «Sto già morendo di fame e sono solo le dieci e mezzo.» La voce femminile del gps ordinò: «Al prossimo bivio svoltare a sinistra». Ario prese a cantare. «Qualsiasi cosa Lola voglia...» «Lola ottiene», gli fece eco Douglas e al bivio girò a sinistra. Maura guardò dal finestrino, ma non scorse nessuna chiazza di cielo azzurro. Tutto ciò che vide erano nubi basse e i fianchi bianchi delle montagne in lontananza. «Ricomincia a nevicare», affermò Elaine.
4 «Abbiamo sbagliato a svoltare», esclamò Ario. La neve scendeva più fitta che mai e tra una passata e l'altra dei tergicristalli il vetro veniva subito ricoperto da una spessa coltre di fiocchi. Risalivano ormai costantemente la montagna da quasi un'ora e la strada era da tempo scomparsa sotto un tappeto bianco sempre più alto. Douglas guidava con il collo proteso cercando di distinguere ciò che si trovava davanti. «Sei sicuro che sia la strada giusta?» domandò Ario. «Lo ha detto Lola.» «Lola è una voce incorporea in una scatola.» «L'ho programmata per l'itinerario più diretto. È questo.» «Ma è quello più veloce?» «Ehi, vuoi guidare tu?» «Dai, amico, era solo una domanda.» «Da quando abbiamo imboccato questa strada non abbiamo visto altre macchine», commentò Elaine. «Non dopo quella strana stazione di servizio. Perché non c'è nessuno?» «Avete una cartina?» domandò Maura. «Ce ne dev'essere una nel cruscotto», rispose Douglas. «In dotazione con l'auto a noleggio. Ma il gps dice che ci troviamo proprio dove dovremmo essere.» «Sì. In mezzo al nulla», borbottò Ario. Maura prese la cartina e la aprì. Impiegò un istante a orientarsi in quella geografia sconosciuta. «Qui non vedo questa strada», annunciò. «Sei sicura di sapere dove ci troviamo?» «Qui non c'è.» Douglas le strappò la carta di mano e la appoggiò sul volante mentre guidava. «Ehi, un suggerimento utile dal sedile posteriore?» esclamò Ario. «Che ne dici di tenere gli occhi sulla strada?» Douglas gettò la mappa di lato. «Fa schifo. Non è abbastanza dettagliata.» «Forse Lola si sbaglia», disse Maura. Dio, adesso chiamo il gadget con quello stupido nome. «E' più aggiornata di quella carta», replicò Douglas. «Potrebbe essere una strada stagionale. O una strada privata.» «Non c'era scritto che era privata quando la abbiamo imboccata.» «Sai, secondo me dovremmo tornare indietro», disse Ario. «Sul serio, amico.» «Sono cinquanta chilometri fino al bivio. Vuoi farcela per pranzo o no?»
«Papà, che succede?» esclamò Grace dal sedile posteriore. «Niente, tesoro. Stiamo solo discutendo sulla strada da prendere.» «Vuoi dire che non la sai?» Douglas emise un sospiro di frustrazione. «La so e va tutto bene! Stiamo tutti bene! Se solo ci dessimo una calmata, potremmo iniziare a divertirci.» «Torniamo indietro, Douglas», insistette Ario. «La strada sta diventando davvero orribile.» «D'accordo», rispose lui. «E' ora di votare. Cosa dite?» «Io voto per tornare indietro», rispose Ario. «Elaine?» «Deve decidere il guidatore», affermò lei. «Qualsiasi cosa decidi tu, Douglas, a me va bene.» «Grazie, Elaine.» Douglas lanciò un'occhiata a Maura. «Tu cosa voti?» In quella domanda c'era più di quello che sembrava. Glielo leggeva negli occhi, uno sguardo che diceva Sostienimi, credi in me. Uno sguardo che le rammentò quello che era vent'anni prima, uno studente di college spensierato con la sua camicia hawaiana stinta. Non preoccuparti, sii felice. Quello era Douglas, l'uomo che sopravviveva a una caduta da un tetto e a una gamba rotta senza mai perdere l'ottimismo. Adesso le chiedeva di fidarsi di lui e lei voleva farlo. Ma non poteva ignorare il suo istinto. «Secondo me dovremmo tornare indietro», disse e la risposta sembrò ferirlo profondamente, come un insulto. «Va bene.» Sospirò. «Riconosco un ammutinamento quando lo vedo. Girerò appena trovo il punto adatto. E ripercorrerò i cinquanta chilometri che abbiamo appena fatto.» «Io ero dalla tua parte, Douglas», disse Elaine. «Non scordartelo.» «Ecco, qui sembra abbastanza largo.» «Aspetta», osservò Maura. Voleva aggiungere: Là potrebbe esserci un fosso, ma Douglas stava già sterzando e facendo un'ampia inversione a U. All'improvviso la neve cedette sotto il pneumatico destro e il Suburban sbandò scagliando Maura contro la portiera. «Gesù!» gridò Ario. «Che diavolo combini?» Si erano fermati di colpo con il Suburban quasi rovesciato sulla fiancata. «Merda. Merda. Merda!» esclamò Douglas. Premette l'acceleratore a tavoletta e il motore urlò con le ruote che slittavano nella neve. Inserì la retromarcia e cercò di indietreggiare. L'auto si spostò di pochi centimetri,
poi si bloccò con uno scossone e le ruote slittarono di nuovo. «Prova con piccoli colpi in avanti e all'indietro», suggerì Ario. «E' quello che sto cercando di fare!» Douglas inserì la marcia più bassa e cercò di avanzare. Le ruote gemettero ma non si mossero. «Papà?» La voce di Grace era fievole per il panico. «È tutto a posto, tesoro. Andrà tutto bene.» «Cosa faremo?» piagnucolò la ragazza. «Chiameremo aiuto, ecco cosa. Chiederemo un carro attrezzi che ci tiri fuori e riprenderemo il viaggio.» Douglas prese il cellulare. «Perderemo forse il pranzo, ma che cavolo, è tutta un'avventura. Avrai qualcosa da raccontare quando tornerai a scuola.» Tacque guardando accigliato il telefono. «Qualcuno ha segnale?» «Vuoi dire che tu non ce l'hai?» disse Elaine. «Potete controllare?» Maura estrasse il cellulare dalla borsetta. «Io non ho nessuna tacca.» «Nessun segnale neanch'io», disse Elaine. «Idem», aggiunse Ario. «Grace?» Douglas si girò a guardare la figlia. Lei scosse la testa e frignò: «Siamo bloccati qui?» «Calmiamoci tutti quanti. Possiamo trovare una soluzione.» Douglas fece un profondo respiro. «Se non possiamo chiamare aiuto, dobbiamo uscirne con le nostre forze. Rimetteremo la bastarda in strada.» Douglas mise in folle. «Bene, scendete tutti. Possiamo farcela.» La portiera di Maura era bloccata dalla neve e dalla sua parte non poteva uscire. Strisciò sopra il cambio, passò sul sedile del guidatore e Douglas l'aiutò a scendere dal suo lato. Atterrò in una neve alta fino al polpaccio. Solo allora, in piedi accanto all'auto inclinata, capì l'entità del problema. Il Suburban era finito in un fosso profondo. Le ruote di destra erano sepolte fino al telaio. Quelle di sinistra non toccavano nemmeno il fondo stradale. Non c'è modo di tirar fuori questo mostro. «Possiamo farcela», esclamò Douglas in un empito d'entusiasmo. «Venite, ragazzi. Uniamo le forze.» «Per far cosa esattamente?» disse Ario. «Ci serve un carro attrezzi per tirar fuori questa bastarda da lì. «Be', io sono disposta a tentare», affermò Elaine. «Non sei quella che ha la schiena a pezzi.» «Piantala di lamentarti, Ario. Diamoci da fare.» «Grazie, Elaine», affermò Douglas. Prese di tasca i guanti. «Grace, sali al
posto di guida. Dovrai girare il volante.» «Non so guidare!» «Devi solo girarlo verso la strada, tesoro.» «Non può farlo qualcun altro?» «Tu sei la più piccola e noi dobbiamo spingere. Dai, ti aiuto a salire.» Grace aveva un'aria terrorizzata, ma si arrampicò sul sedile del guidatore. «Brava ragazza», esclamò Douglas. Scese nel fosso finendo sepolto dalla neve fino alle anche e premette le mani protette dai guanti sul retro del veicolo. «Allora?» chiese guardando gli altri adulti. Elaine fu la prima a scendere nel fosso accanto a lui. Dopo arrivò Maura. La neve le inzuppò i pantaloni e le entrò negli scarponi. I suoi guanti erano ancora da qualche parte in macchina, perciò mise le mani nude contro un acciaio tanto gelido che le sembrò le bruciasse la pelle. «Mi massacrerò la schiena», disse Ario. «Puoi scegliere», rispose Elaine. «O così o morire congelato. Allora vieni qui?» Ario prese tempo, infilandosi i guanti e un berretto di lana. Si avvolse quindi laboriosamente una sciarpa attorno al collo. Solo allora, ben vestito contro il freddo, scese nel fosso. «Bene, tutti insieme», disse Douglas. «Spingete!» Maura si gettò di peso contro il Suburban e gli scarponi le scivolarono indietro nella neve. Sentiva Ario grugnire al suo fianco e percepì l'auto che cominciava a muoversi. «Sterza, Grace!» urlò Douglas. «Gira a sinistra!» La parte anteriore del Suburban iniziò a muoversi verso l'alto, verso la strada. Continuarono a spingere. Maura stava facendo una tale fatica che le braccia le tremavano e i tendini del ginocchio le dolevano. Chiuse gli occhi con il respiro bloccato in gola. Ogni minimo sforzo mirava a smuovere tre tonnellate d'acciaio. Sentì i talloni scivolare. All'improvviso anche il Suburban scivolò tornando indietro verso di loro. «Attenti!» gridò Ario. Maura incespicò buttandosi di lato proprio mentre l'auto tornava indietro e si girava sul fianco nel fosso. «Gesù!» urlò Ario. «Saremmo potuti finire schiacciati!» «Papà! Papà, sono bloccata dalla cintura!» Douglas salì a fatica sulla macchina. «Resisti, tesoro. Ti tirerò fuori.» Spalancò la portiera e si allungò all'interno per estrarre Grace. Lei si accasciò ansimante nella neve. «Oh, cazzo, siamo fottuti alla grande», commentò Ario. Uscirono tutti dal fosso e rimasero sulla strada a fissare il Suburban. Adesso
giaceva sulla fiancata, semisepolto nella neve. Ario scoppiò in una risata vagamente isterica. «Una cosa è certa. Perderemo il pranzo.» «Ragioniamo», affermò Douglas. «Cosa c'è da ragionare? Non abbiamo modo di tirar fuori quel carro armato.» Ario si strinse di più la sciarpa. «E qua fuori si gela.» «Quanto è lontano il lodge?» domandò Maura. «Secondo Lola ci vogliono ancora quaranta chilometri.» «Abbiamo percorso quasi cinquanta chilometri da quando abbiamo lasciato la stazione di servizio.» «Sì, siamo proprio a metà.» «Wow», esclamò Ario. «Non potevamo escogitarla meglio.» «Ario», disse Elaine, «sta' zitto.» «Ma i cinquanta chilometri che abbiamo percorso sono perlopiù in discesa da qui», osservò Douglas. «Questo rende le cose più semplici.» Ario lo fissò. «Cammineremo per cinquanta chilometri sotto una tormenta?» «No. Tu resterai qui con le donne. Potete risalire in macchina e restare al caldo. Io prenderò gli sci sul tetto e andrò in cerca d'aiuto.» «È troppo tardi», affermò Maura. «Posso farcela.» «È già mezzogiorno. Hai solo poche ore di luce e non puoi sciare al buio. Potresti cadere giù dalla montagna.» «Ha ragione», convenne Elaine. «Ti servirebbe un giorno intero, forse due, per arrivare così lontano. E la neve è alta, ti rallenterà.» «Sono stato io che ho cacciato tutti in questa situazione. Sarò io a trovare una soluzione.» «Non essere idiota. Resta con noi, Douglas.» Lui però stava già tornando nel fosso per staccare gli sci dal tetto. «Per la miseria, non dirò mai più niente di male sui bastoncini di carne», bofonchiò Ario. «Avrei dovuto comperarne un po'. Almeno erano proteine.» «Non puoi andare, Douglas», insistette Elaine. «Non a un'ora così tarda del giorno.» «Mi fermerò quando farà buio. Mi scaverò una truna o roba del genere.» «Sai come scavare una truna?» «Quanto sarà difficile?» «Morirai congelato là fuori.» «Papà, non farlo.» Grace scese incespicando nel fosso, lo afferrò per un braccio e lo allontanò dagli sci. «Ti prego.» Douglas guardò gli adulti sulla strada e la sua voce si trasformò in un urlo di
frustrazione. «Sto cercando di risolvere la situazione, d'accordo? Non lo capite? Sto cercando di tirare tutti fuori di qui e voi non mi semplificate affatto le cose!» Il suo scoppio di rabbia li fece sussultare e ammutolirono, restando a tremare nel freddo. La gravità della situazione cominciava a farsi strada nelle loro menti. Potremmo morire qua fuori. «Passerà qualcuno, giusto?» disse Elaine lanciando un'occhiata ai compagni in cerca di rassicurazione. «Voglio dire, questa è una strada pubblica, perciò passerà uno spazzaneve o qualcosa del genere. Non possiamo essere gli unici a percorrerla.» «Avete visto qualcuno?» disse Ario. «Non è tanto lontana dalla strada battuta.» «Guarda la neve. Ci sono già più di trenta centimetri e aumenta ancora. Se la spalassero, lo avrebbero già fatto.» «Che vuoi dire?» «Dev'essere una strada stagionale», concluse Ario. «Per questo non è sulla mappa. Quel dannato gps ci ha mandato per la strada più breve, d'accordo... dritti su per la montagna.» «Alla fine qualcuno passerà di qui.» «Si. A primavera. Vi ricordate di quella storia qualche anno fa, di quella famiglia nell'Oregon rimasta bloccata dalla neve? Credevano di essere sulla strada principale ed erano finiti in mezzo al nulla. Nessuno andò a cercarli. Una settimana dopo l'uomo decide di allontanarsi a piedi per salvare la famiglia e muore congelato.» «Sta' zitto, Ario», affermò Douglas. «Spaventi Grace.» «Spaventa me», replicò Elaine. «Elaine, sto solo cercando di cacciarti in testa che questa non è una faccenda che Douglas qui può sistemare allegramente per noi», replicò Ario. «Lo so», ribatté lei. «Credi non lo sappia?» Il vento soffiava a folate sulla strada scagliando loro in faccia mulinelli di neve. Maura batté le palpebre per il bruciore. Quando riaprì gli occhi, tutti si trovavano nello stesso posto esatto, come paralizzati dal freddo, dalla disperazione. Una nuova folata li investì e lei si girò per proteggersi il viso. Solo allora vide una chiazza verde, vivida stagliarsi contro il bianco inesorabile dello sfondo. Si avviò verso di essa avanzando per la strada in mezzo alla neve che le risucchiava gli scarponi e la stringeva nella sua morsa. «Maura, dove vai?» chiese Douglas. Lei proseguì anche se lui continuò a chiamarla. Mentre si avvicinava, notò che la chiazza verde era un cartello con la superficie seminascosta dalla neve che vi si era attaccata.
Scostò i fiocchi. STRADA PRIVATA - SOLO RESIDENTI - AREA SORVEGLIATA Era caduta tanta neve che non vedeva il fondo stradale, solo uno stretto passaggio che fendeva gli alberi e si allontanava tortuoso nella fitta coltre del bosco. Una catena era appesa ai due lati dell'accesso con gli anelli metallici rivestiti di una soffice farina bianca. «Qui c'è una strada!» gridò. Mentre gli altri la raggiungevano a fatica, indicò il cartello. «Dice solo residenti. Questo significa che su questa strada ci devono essere delle case.» «La catena è chiusa», osservò Ario. «Dubito che ci sia qualcuno.» «Ma ci sarà un riparo. In questo momento è tutto ciò che ci serve.» Douglas scoppiò in una risata e strinse Maura in un abbraccio, schiacciandola contro la giacca di piumino. «Sapevo che era una buona idea portarti con noi! Ottima vista, dottoressa Isles! Noi non avremmo mai notato questa strada.» Mentre la lasciava, Maura si accorse che Elaine li stava fissando e restò turbata perché non si trattava di un'occhiata amichevole. D'un tratto Elaine distolse lo sguardo e si voltò verso il Suburban. «Prendiamo le nostre cose dall'auto», disse. Non sapevano fin dove avrebbero dovuto portare i bagagli, perciò Douglas suggerì di prendere solo il necessario per la notte. Maura lasciò la valigia, afferrò la borsetta e una borsa capiente in cui cacciò gli articoli da bagno e una maglia in più. «Elaine, non penserai di portarti dietro la valigia», osservò Ario. «E' solo un trolley. Ci sono i gioielli e i cosmetici.» «Siamo in una fottuta zona selvaggia.» «Ci sono anche altre cose.» «Quali cose?» «Altre cose. Altra roba.» Si avviò per la strada privata con il trolley che creava un solco nella neve alle sue spalle. «Suppongo di dovertela portare», disse Ario con un sospiro e le prese di mano la valigia. «Tutti hanno il necessario?» esclamò Douglas. «Aspetta», disse Maura. «Dobbiamo lasciare un biglietto in caso qualcuno trovi il Suburban.» Prese notes e penna dalla borsetta e scrisse: Siamo in panne, per cortesia chiamate aiuto. Prendiamo la strada privata. Lo lasciò in piena vista sul cruscotto e chiuse la portiera. «Va bene», disse infilandosi i guanti. «Sono pronta.» Scavalcarono a fatica la catena e si incamminarono per la strada con Ario
che soffiava e sbuffava mentre si trascinava dietro il trolley di Elaine. «Douglas, quando torneremo a casa», disse ansimando, «mi devi una cena come si deve. Sottolineo, come si deve. Veuve Clicquot. Caviale. E una bistecca grande come Los Angeles.» «Smettila», disse Elaine. «Ci stai facendo venire fame.» «Non avevi già fame?» «Parlarne non aiuta.» «La fame non sparisce se non ne parliamo.» Ario avanzava lento con la valigia che grattava sulla neve. «E adesso perderemo anche la cena.» «Ci dovrà essere del cibo laggiù», osservò Douglas. «Anche se chiudi una casa per l'inverno, di solito lasci qualcosa nella dispensa. Burro d'arachidi. O maccheroni in scatola.» «Cavolo, questo sì che significa essere disperati. Quando cominciano a sembrarti buoni i maccheroni in scatola.» «E' un'avventura, ragazzi. E' come saltare da un aereo e fidarsi che le Parche vi conducano sani e salvi a terra.» «Io non sono come te, Douglas», replicò Ario. «Io non salto dagli aerei.» «Non sai cosa ti perdi.» «Il pranzo.» Ogni passo era una dura fatica. Nonostante la temperatura stesse calando, Maura sudava sotto il parka da sci. A ogni boccata d'aria fredda sentiva male alla gola. Troppo stanca per tracciare la pista nella neve fresca, si accodò a Douglas lasciando che ci pensasse lui e piantando i piedi nei crateri che creava con i suoi scarponi. Ora era questione di continuare a marciare stoicamente, sinistra-destrasinistra, ignorando i muscoli dolenti, il male al petto e l'orlo fradicio dei pantaloni. Mentre arrancavano su un lieve pendio, Maura teneva lo sguardo fisso per terra sulla traccia battuta. Quando Douglas si fermò all'improvviso, per poco non gli finì addosso. «Ehi, voi!» gridò indietro agli altri. «Andrà tutto bene!» Maura lo affiancò e iniziò a scendere in una valle, in direzione dei tetti di una decina di case. Da nessun cammino usciva fumo; la strada era coperta di neve vergine. «Non vedo segni di vita», disse. «Forse dovremo forzare la porta di uno di quegli edifici. Ma avremo finalmente un posto dove passare la notte. Sembra una discesa di circa tre chilometri, perciò ce la faremo prima che faccia buio.» «Ehi, guardate», esclamò Ario. «Là c'è un altro cartello.»
Avanzò lungo la strada e lo ripulì. «Cosa dice?» domandò Elaine. Per un istante Ario rimase muto a fissare il cartello come se fosse scritto in una lingua che non capiva. «Adesso so cosa intendeva il vecchio della stazione di servizio», rispose. «Di che parli?» «È il nome di quel villaggio laggiù.» Ario si scostò e Maura vide la scritta sull'insegna. VERRA' IL REGNO
5 «Non vedo linee elettriche», osservò Ario. «Vuoi dire che non potrò ricaricare il mio iPod?» chiese Grace. «Potrebbero avere linee interrate», suggerì Douglas. «O generatori. Siamo nel ventunesimo secolo. Nessuno può vivere senza elettricità.» Si sistemò lo zaino. «Venite, c'è da camminare parecchio. Sarà meglio arrivare laggiù prima che faccia buio.» Si avviarono lungo il pendio dove il vento pungeva come aghi e i cumuli di neve trasformavano ogni passo in una fatica improba. Douglas faceva strada tracciando una pista nella neve alta con Grace, Elaine e Ario che lo seguivano in fila. Maura chiudeva la coda. Anche se stavano scendendo, la neve sempre più fonda rendeva estenuante camminare. Adesso nessuno parlava; impiegavano tutte le energie per avanzare. Niente di quella giornata era andato come Maura si attendeva. Se solo avessimo ignorato il gps e seguito la cartina, pensò. A quest'ora saremmo al lodge a sorseggiare un bicchiere di vino davanti al fuoco. Se solo avessi rifiutato l'invito di Douglas, non sarei bloccata qui con queste persone. Sarei nel mio albergo, al caldo e al sicuro per la notte. La sicurezza era l'alternativa che sceglieva sempre. Investimenti sicuri, auto sicure, viaggi sicuri. Gli unici rischi che aveva corso erano stati con gli uomini e in tutti i casi era finita male. Daniel e adesso Douglas. Promemoria: in futuro evitare gli uomini che hanno un nome che inizia per D. A parte ciò, i due non potevano essere più diversi. Quello era il fascino di Douglas, la sua follia e la sua spericolatezza. L'aveva indotta a voler essere anche lei spericolata. Questo è il risultato, pensò mentre scendeva incespicando il fianco della montagna. Ho lasciato che un uomo impulsivo mi mettesse in questo pasticcio. Peggio ancora, si rifiutava di riconoscere la gravità della situazione, che tra l'altro pareva solo peggiorare. Nel roseo mondo di Douglas tutto si sarebbe sempre risolto bene. La luce cominciava a svanire. Avevano percorso almeno un chilometro e mezzo e Maura si sentiva le gambe pesanti come piombo. Se fosse crollata lì per lo sfinimento, gli altri non l'avrebbero nemmeno udita. Quando fosse calato il buio, nessuno sarebbe riuscito a trovarla. Il mattino dopo sarebbe stata ricoperta di neve. Quanto era facile scomparire laggiù. Ti perdi in una tempesta di neve, sparisci sotto a un cumulo e il mondo non ha idea di che fine tu abbia fatto. Non aveva detto a nessuno a Boston di quella gita. Per una volta aveva
cercato di essere spontanea, di saltare a bordo e di godersi il viaggio, come le aveva consigliato Douglas. Ed era l'occasione per togliersi di testa Daniel e dichiarare la sua autonomia. Per convincersi di essere ancora una donna indipendente. La borsa le scivolò dalla spalla e il cellulare le cadde nella neve. Lo afferrò, lo ripulì dai fiocchi ghiacciati e controllò la ricezione. Ancora nessuna tacca. Un inutile rottame da queste parti, pensò, e lo spense per risparmiare la batteria. Si chiese se Daniel avesse chiamato. Si sarebbe allarmato quando non avesse risposto a nessuno dei suoi messaggi in segreteria? O avrebbe pensato che lo ignorava di proposito? Avrebbe aspettato che uscisse dal suo silenzio? Se aspetti troppo, potrei essere morta. Infuriata d'un tratto con Daniel, con Douglas e per la giornata rovinata, attaccò l'ultimo cumulo e caricò come un toro nella neve alta fino alle anche. Ne uscì barcollando e seguì gli altri su un terreno pianeggiante, dove si fermarono tutti per riprendere fiato emettendo sbuffi ghiacciati. I fiocchi scendevano svolazzando come bianche falene e atterravano con un sommesso ticchettio. Due file di case identiche si stagliavano buie e silenziose nell'oscurità crescente. Tutti gli edifici avevano lo stesso tetto inclinato, lo stesso garage annesso, lo stesso portico, addirittura lo stesso dondolo da portico. Persino per quanto riguardava il numero di finestre erano cloni inquietantemente perfetti. «Salve!» gridò Douglas. «C'è qualcuno?» La sua voce riecheggiò contro le montagne circostanti e svanì inghiottita dal silenzio. «Veniamo in pace! E abbiamo carte di credito!» urlò Ario. «Non è divertente», osservò Elaine. «Potremmo morire congelati.» «Nessuno morirà congelato», affermò Douglas. Salì con passo pesante i gradini del portico coperto della casa più vicina e picchiò sulla porta. Attese alcuni secondi e picchiò di nuovo. L'unico rumore fu il cigolio del dondolo con il sedile incrostato di neve portata dal vento. «Entriamo», disse Elaine. «E' un'emergenza.» Douglas girò la maniglia e la porta si aprì. Lanciò un'occhiata agli altri. «Speriamo che ad attenderci non ci sia qualcuno col fucile.» Dentro l'abitazione non faceva più caldo. Rimasero tutti tremanti al buio a esalare nubi di vapore come cinque draghi che sputassero fuoco. L'ultima luce grigia del giorno stava scomparendo al di là della finestra.
«Qualcuno ha per caso una torcia?» chiese Douglas. «Forse io», rispose Maura frugando nella borsa in cerca della mini Maglite che portava sempre con sé quando era al lavoro. «Maledizione», borbottò. «Mi sono appena ricordata che l'ho lasciata a casa. Non credevo che mi servisse a un congresso.» «C'è un interruttore da qualche parte?» «Su questa parete niente», rispose Elaine. «Non riesco a trovare una presa», esclamò Ario. «Non c'è niente di collegato alla corrente, da nessuna parte.» Tacque. «Sapete una cosa? Mi sa che questo posto non ha l'elettricità.» Per un istante rimasero lì muti, troppo demoralizzati per dire anche solo una parola. Non udirono alcun orologio ticchettare, alcun frigorifero ronzare. C'era solo il vuoto di uno spazio morto. Un improvviso suono metallico fece sussultare Maura. «Scusami», disse Ario accanto al caminetto. «Ho urtato un attizzatoio.» Tacque. «Ehi, qui ci sono dei fiammiferi.» Sentirono lo sfrigolio di un fiammifero che veniva sfregato. Alla luce tremolante della fiamma videro della legna da ardere impilata accanto al caminetto di pietra. Poi il fiammifero si spense. «Accendiamo un fuoco», propose Douglas. Maura si ricordò del giornale che aveva comprato alla stazione di servizio e lo prese dalla borsa. «Ti serve un po' di carta per accenderlo?» «No, qui ce n'è una pila.» Al buio sentirono Douglas frugare in cerca di giornali da usare per l'accensione. Sfregò un altro fiammifero e la carta prese fuoco. «Che la luce sia», esclamò Ario. E la luce fu. E anche il calore, che arrivava a piacevoli ondate mentre la carta s'illuminava. Douglas aggiunse due ciocchi al fuoco e tutti gli si avvicinarono assaporandone il tepore e l'allegra luminosità. Adesso vedevano una parte più ampia della stanza. Gli arredi erano di legno, essenziali e molto semplici. Un grande tappeto intrecciato ricopriva il pavimento di legno vicino al caminetto. Le pareti erano spoglie tranne per un poster in cornice di un uomo con due occhi neri come pece, una chioma folta di capelli scuri e lo sguardo riverente rivolto al cielo. «Qui c'è una lampada a cherosene», annunciò Douglas. Accese lo stoppino e sorrise mentre la stanza si rischiarava. «Abbiamo la luce e una bella catasta di legna. Se riusciamo a tenere vivo il fuoco, qui dentro dovrebbe scaldarsi.» Alla vista del caminetto, ancora sporco di vecchie ceneri, Maura si accigliò. Il fuoco bruciava bene, le fiamme s'innalzavano come denti seghettati.
«Non abbiamo aperto la canna fumaria», disse. «Sembra che bruci bene», replicò Douglas. «Non c'è fumo.» «E' quello che pensavo.» Maura si accovacciò e guardò nel camino. La canna era già aperta. «E' strano.» «Perché?» «Quando chiudi casa per l'inverno, di solito non togli la vecchia cenere e chiudi la canna? Non chiudi a chiave la porta?» Rimasero in silenzio per un istante mentre il fuoco ardeva consumando il legno che sibilava e scoppiettava. Maura vide gli altri lanciare occhiate nervose alle ombre circostanti e capì che stavano formulando lo stesso pensiero. Gli occupanti se ne sono mai andati? Douglas si alzò e prese la lampada a cherosene. «Vado a controllare il resto della casa.» «Vengo con te, papà», disse Grace. «Anch'io», aggiunse Elaine. Adesso erano tutti in piedi. Nessuno voleva restare indietro. Douglas fece strada lungo il corridoio e la luce della lampada a cherosene proiettò ombre guizzanti sulle pareti. Entrarono in una stanza con le assi del pavimento e gli armadietti di pino, e una cucina a legna. Sopra il lavandino di pietra saponaria c'era una pompa a mano per prelevare l'acqua dal pozzo. Ma ciò che attirò l'attenzione di tutti fu la tavola da pranzo. Sopra c'erano quattro piatti, quattro forchette e quattro bicchieri di latte congelato. Il cibo si era gelato nei piatti: un ammasso scuro e gommoso con accanto mucchi solidi di purea di patate, il tutto rivestito da un sottile strato di brina. Ario toccò uno di quei mucchi scuri con una forchetta. «Sembrano polpette. Secondo voi qual è il piatto di Piccolo Orso?» Nessuno rise. «Hanno lasciato qui la cena», osservò Elaine. «Hanno versato il latte nei bicchieri, messo il cibo in tavola. E poi...» S'interruppe e guardò Douglas. Nel buio la lampada a cherosene tremolò all'improvviso mentre una corrente investiva la cucina. Douglas si avvicinò alla finestra, lasciata aperta, e la chiuse. «Anche questo è strano», disse guardando accigliato lo strato di neve che si era accumulato nel lavandino. «Chi lascia le finestre aperte quando fuori si gela?» «Ehi, guardate. Qui c'è da mangiare!» Ario aveva aperto la dispensa scoprendo varie mensole zeppe di provviste. «C'è farina. Fagioli secchi. Mais, pesche e sottaceti in scatola sufficienti a farci arrivare al giorno del giudizio.»
«Quando si tratta di trovare da mangiare, basta lasciar fare ad Ario», commentò Elaine. «Definitemi pure l'ultimo cacciatore-raccoglitore. Almeno non moriremo di fame.» «Come se tu lo permettessi.» «Se accendiamo quella cucina a legna», aggiunse Maura, «riscalderemo più in fretta questo posto.» Douglas guardò verso il primo piano. «Sperando che non abbiano lasciato altre finestre aperte. Dovremmo controllare il resto della casa.» Di nuovo nessuno volle essere lasciato indietro. Douglas fece capolino nel garage vuoto, poi si portò ai piedi delle scale. Sollevò la lampada a cherosene, ma la luce rivelò solo gradini indistinti che salivano nel buio. Si incamminarono, Maura in fondo, dove l'oscurità era maggiore. Nei film dell'orrore era sempre la retroguardia a essere fatta fuori, lo sfortunato personaggio in coda a prendersi una freccia nella schiena o il primo colpo d'ascia. Guardò dietro di sé, ma tutto ciò che vide fu un pozzo d'ombra. La prima stanza davanti a cui Douglas si fermò era una camera da letto. Si accalcarono tutti sulla soglia e vi trovarono un grande letto con le spalliere svasate, costruito con cura. Ai suoi piedi c'era un baule di legno da corredo su cui era stato gettato un paio di blue jeans. Una taglia trentasei da uomo, con una cintura di cuoio logora. Sul pavimento c'era una spolverata di neve, entrata da un'altra finestra aperta. Douglas la chiuse. Maura si avvicinò al cassettone e prese una foto incorniciata. Quattro facce ricambiarono il suo sguardo: un uomo e una donna, con accanto due bambine di circa nove o dieci anni con i capelli biondi raccolti in trecce ordinate. L'uomo aveva i capelli lisciati all'indietro e uno sguardo inflessibile che sembrava sfidare chiunque a mettere in dubbio la sua autorità. La donna era bruttina e pallida con i capelli biondi raccolti a treccia e i tratti tanto anonimi che parevano scomparire nello sfondo. Maura se la figurò mentre lavorava in cucina con alcune ciocche di quel biondo quasi bianco che le sfuggivano dalla treccia e le incorniciavano il volto. La immaginò mentre disponeva piatti e forchette e serviva il cibo. Un mucchietto di purè di patate, una porzione di carne con la salsa. E poi cos'era successo? Cosa aveva spinto una famiglia ad abbandonare il pasto e a lasciarlo congelare? Elaine afferrò Douglas per un braccio. «Hai sentito?» mormorò. Si bloccarono tutti. Solo allora Maura udì un cigolio come di passi sul pavimento. Douglas uscì in corridoio e si incamminò verso la seconda stanza scoprendo che era un'altra camera da letto.
All'improvviso Elaine scoppiò a ridere. «Dio, siamo degli idioti!» Indicò l'armadio, la cui anta si muoveva cigolando spinta dalle folate che entravano dalla finestra aperta. Sprofondò sollevata su uno dei due letti identici. «Una casa vuota, ecco cos'è e basta! E noi siamo riusciti a spaventarci a morte.» «Parla per te», disse Ario. «Oh, certo. Come se tu non avessi avuto paura.» Maura chiuse la finestra e guardò la notte. Non vide luci, non vide nessun segno che qualcun altro al mondo fosse vivo tranne loro. Sul tavolo c'era una pila di manuali scolastici. Programma per autodidatti. Livello 4. Aprì la copertina e lo sfogliò fino a una pagina di esercizi di sillabazione. Dentro la copertina c'era scritto il nome dell'allieva: Abigail Stratton. Una delle due bambine nella foto, pensò. Questa è la loro camera. Ma guardando le pareti vide poco che indicasse che le due ragazzine preadolescenti vivessero lì. Non c'erano poster di film né foto di personaggi famosi. Solo due letti identici ben fatti e quei manuali scolastici. «Credo che ora possiamo dire che la casa sia tutta nostra», affermò Douglas. «Dobbiamo solo resistere finché qualcuno verrà a cercarci.» «E se non lo fa nessuno?» domandò Elaine. «Qualcuno noterà la nostra assenza. Avevamo una prenotazione in quel lodge.» «Penseranno semplicemente che abbiamo dato buca. E non dobbiamo tornare al lavoro che dopo il Giorno del ringraziamento. Cioè tra nove giorni.» Douglas guardò Maura. «Tu devi tornare a casa domani, giusto?» «Sì, ma nessuno sa che sono venuta con te, Douglas. Non sapranno dove iniziare a cercare.» «Perché diavolo qualcuno dovrebbe venire a controllare qui?» sottolineò Ario. «Siamo in mezzo al nulla! La strada verrà pulita solo a primavera, il che significa che potrebbero passare mesi prima che ci trovino.» Si accasciò sul letto accanto a Elaine e si prese la testa fra le mani. «Gesù, siamo fottuti.» Douglas guardò i compagni scoraggiati. «Be', io non mi faccio prendere dal panico. Abbiamo cibo e legna, perciò non moriremo di fame e non congeleremo.» Diede ad Ario una calorosa pacca sulla schiena. «Dai, amico. E' un'avventura. Potrebbe essere molto peggio.» «Quanto peggio?» disse Ario. Nessuno ebbe voglia di rispondere.
6 Quando la detective Jane Rizzoli arrivò sulla scena, si era già formato un crocchio di spettatori, richiamati dai lampeggiatori delle auto del Dipartimento di polizia di Boston e da quel misterioso istinto che sembrava sempre attrarre la gente nei posti dove era successo qualcosa. La violenza emanava un suo genere di feromoni; quelle persone ne avevano colto l'odore e ora se ne stavano accalcate contro il recinto di rete metallica dell'UStoreMore sperando di capire che cosa aveva portato la polizia nel loro quartiere. Jane parcheggiò e scese dall'auto abbottonandosi la giacca per il freddo. Quel mattino aveva smesso di piovere, ma il rischiararsi del cielo era stato accompagnato da un calo delle temperature e Jane si rese conto di non aver preso un paio di guanti caldi, solo quelli di lattice. Non era ancora pronta per l'inverno, non aveva messo in macchina il raschietto per il ghiaccio e la scopa per la neve. Ma quella sera l'inverno stava decisamente arrivando, portato dal vento. Varcò il cancello e attraversò il terreno per parlare con il poliziotto di guardia. La gente la stava guardando con in mano i cellulari per scattare foto. Ehi ma', guarda le mie foto della scena del crimine. Onestamente ragazzi, pensò, trovate qualcosa di meglio da fare. Mentre attraversava il terreno ghiacciato verso il box 22, si sentì le macchine fotografiche puntate addosso. Tre poliziotti tutti infagottati si trovavano davanti alla porta con le mani in tasca e i berretti bene calcati per il freddo. «Ehi, detective», esclamò uno di loro. «E' là dentro?» «Sì. Il detective Frost è già all'interno con la direttrice.» L'agente afferrò la maniglia e tirò la porta d'alluminio. Questa si aprì vibrando e nello spazio ingombro al di là di essa Jane vide il collega, Barry Frost, con una donna di mezza età. La donna indossava una giacca di piumino bianca tanto voluminosa che sembrava si fosse legata al petto dei cuscini. Frost le presentò. «Questa è Dottie Dugan, direttrice dell'UStoreMore. E questa è la mia collega, la detective Jane Rizzoli», disse. Tennero tutti le mani in tasca; faceva troppo freddo per le consuete cortesie. «È stata lei a chiamarci?» domandò Jane. «Sì, signora. Stavo proprio dicendo al detective Frost quanto sono rimasta scioccata quando ho scoperto cosa c'era qua dentro.» Una folata di vento investì alcuni pezzi di carta che svolazzarono sul pavimento di cemento. «Può chiudere la porta?» disse Jane all'agente che stava fuori. Attesero finché la porta d'alluminio non si richiuse vibrando, sigillandoli in
uno spazio freddo quanto l'esterno ma almeno riparato dal vento. Sopra di loro dondolava un'unica lampadina e la sua luce violenta metteva in risalto le borse sotto gli occhi di Dottie Dugan. In quella luce persino Frost, neanche quarantenne, appariva tirato e di mezza età, con un volto tanto pallido da sembrare anemico. Il vano era stipato di mobili malandati. Jane vide un divano consunto coperto di una stoffa floreale sgargiante, una poltrona reclinabile macchiata e varie sedie di legno, tutte disassortite. C'erano così tanti mobili che formavano pile alte tre metri contro i muri. «Pagava sempre puntuale», affermò Dottie Dugan. «Ogni ottobre ricevevo un assegno per l'affitto per l'intero anno. E questa è una delle nostre unità più grandi, tre per nove. Non è propriamente economica.» «Chi è l'affittuaria?» chiese Jane. «Betty Ann Baumeister», rispose Frost. Sfogliò il notes e lesse le informazioni che aveva già appuntato. «Ha affittato quest'unità per undici anni. Risiedeva a Dorchester.» «Risiedeva?» «E' morta», spiegò Dottie Dugan. «Ho sentito che si è trattato di un attacco cardiaco. È successo un po' di tempo fa, ma non l'ho scoperto finché non ho cercato di riscuotere l'affitto. Era la prima volta che non mi mandava un assegno, perciò ho capito che qualcosa non andava. Ho tentato di rintracciare i parenti, ma l'unico che ho trovato è un vecchio zio nella Carolina del Sud. Lei veniva da lì. Aveva un accento del Sud, davvero dolce e grazioso. Ho pensato che fosse un peccato che fosse venuta fin quassù a Boston per morire sola. Questo, comunque, è quanto ho pensato in quel momento.» Scoppiò in una mesta risata e rabbrividì nella sua giacca di piumino. «Non si può mai dire, vero? Una signora del Sud dall'aspetto così dolce. Mi sono sentita in colpa a mettere all'asta la sua roba, ma non potevo lasciarla qui.» Si guardò attorno. «Non che valga molto.» «Dove lo ha trovato?» chiese Jane. «Contro quel muro lì. Là c'è la presa elettrica.» Dottie Dugan li condusse nel canyon formato dalle sedie impilate fino a un grande congelatore orizzontale. «Pensavo conservasse carni costose o cose del genere. Voglio dire, perché tenere acceso questo aggeggio tutto l'anno se non hai qualcosa che valga la pena di essere congelato?» Tacque e guardò Jane e Frost. «Se non vi spiace, mi toglierei volentieri di mezzo, non desidero proprio rivederlo.» Si girò e batté in ritirata verso la porta. Jane e Frost si scambiarono un'occhiata. Fu Jane a sollevare il portello. Una
nube fredda si alzò dal freezer nascondendo ciò che si trovava dentro. Poi la nebbiolina svanì e il contenuto apparve alla vista. Avvolto nella plastica, il volto di un uomo li fissò con le ciglia e le sopracciglia ricoperte di brina. Il suo corpo nudo era in posizione fetale, le ginocchia ben avvicinate al petto per entrare meglio in quello spazio angusto. Anche se aveva le guance ustionate dal gelo del freezer, la pelle era priva di rughe, la carne giovane conservata come un buon taglio da macellaio, avvolta, congelata e messa da parte per un uso successivo. «Quando ha affittato questo box, l'unica cosa su cui ha insistito è stata una presa della corrente affidabile», spiegò Dottie con la faccia girata per non vedere l'occupante del congelatore. «Ha detto che non poteva permettersi che saltasse l'elettricità. Adesso capisco perché.» «Sa qualcos'altro della signora Baumeister?» domandò Jane. «Solo quello che ho già detto al detective Frost. Pagava puntuale e i suoi assegni erano sempre coperti. I miei affittuari sono tutte persone che perlopiù vanno e vengono, in genere non hanno molta voglia di chiacchierare. Molti hanno una storia triste alle spalle. Perdono la casa e la loro roba finisce qui. Non c'è quasi mai niente di buono da vendere all'asta. Quasi sempre sono oggetti del genere.» Indicò con un gesto i vecchi mobili impilati contro le pareti. «Preziosi solo per i loro proprietari.» Jane esaminò lentamente gli oggetti che Betty Ann Baumeister aveva ritenuto degni di essere conservati in quegli ultimi undici anni. A 250 dollari al mese, le era costato 3000 dollari all'anno; in più di dieci anni significava pagare 30.000 dollari solo per tenere quei beni. C'erano abbastanza cose per arredare una casa di quattro stanze, anche se non in modo elegante. Cassettoni e scaffali erano di compensato deformato. I paralumi ingialliti sembravano fragili al punto da disintegrarsi al minimo tocco. Cianfrusaglie prive di valore agli occhi di Jane. Ma quando Betty Ann guardava il divano consunto e le sedie traballanti vedeva tesori o ciarpame? E a quale categoria apparteneva l'uomo nel freezer? «Pensa che l'abbia ucciso?» chiese Dottie Dugan. Jane la guardò. «Non lo so, signora, non sappiamo nemmeno chi sia. Dovremo aspettare di vedere che dice il medico legale.» «Se non lo ha ucciso, perché lo ha messo nel freezer?» «Si stupirebbe se sapesse tutto quello che fa la gente.» Jane chiuse il portello, contenta di nascondere quel volto congelato con le ciglia incrostate di ghiaccio. «Forse non voleva perderlo.» «Immagino che voi detective abbiate visto un bel po' di stranezze.»
«Più di quanto io stessa immagini.» Jane sospirò emettendo uno sbuffo di condensa. Non aveva molta voglia di passare al setaccio quel box gelido in cerca di prove. Almeno il tempo non giocava contro di loro; né le prove né il sospetto rischiavano di scappare. In quell'istante le suonò il cellulare. «Mi scusi», disse allontanandosi di qualche passo per rispondere. «Detective Rizzoli.» «Mi spiace disturbarla a quest'ora tarda», esordì padre Daniel Brophy. «Ho appena parlato con suo marito e ha detto che era su una scena.» Non si stupì di sentire Brophy. In qualità di sacerdote assegnato al Dipartimento di polizia di Boston, veniva spesso chiamato sulle scene del crimine per assistere i sofferenti. «Qui è tutto a posto, Daniel», rispose. «Non sembra ci siano familiari bisognosi d'aiuto.» «A dire il vero chiamo per Maura.» Tacque. Era un argomento che aveva indubbiamente difficoltà a toccare, il che non stupiva. La sua storia con Maura non era affatto un segreto per Jane e Daniel sapeva che disapprovava, anche se non glielo aveva mai detto in faccia. «Non risponde al cellulare», affermò. «Sono preoccupato.» «Forse non vuol ricevere chiamate.» Le tue chiamate, pensò. «Ho lasciato cinque o sei messaggi in segreteria. Mi chiedevo se lei fosse riuscita a raggiungerla.» «Non ci ho mai provato.» «Voglio essere sicuro che stia bene.» «E' andata a un congresso, vero? Forse ha spento il telefono.» «Quindi non sa dove sia ora.» «Penso sia da qualche parte nel Wyoming.» «Sì, so dove dovrebbe essere.» «Ha provato a chiamare l'albergo?» «E' proprio quello che ho fatto. Lo ha lasciato stamattina.» Jane si voltò mentre la porta del box si riapriva e faceva capolino il medico legale. «Al momento sono un po' presa», disse a Brophy. «Non doveva ripartire fino a domani.» «Quindi ha cambiato idea. Ha fatto altri programmi.» «Non me lo ha detto. Quello che mi preoccupa è che non riesco a contattarla.» Jane salutò il medico legale, che si infilò tra le montagne di mobili e raggiunse Frost accanto al freezer. Impaziente di tornare al lavoro, esclamò brusca: «Forse non vuole essere
contattata. Ha considerato la possibilità che abbia bisogno di stare sola per qualche tempo?» Lui restò in silenzio. Era stata una domanda crudele e le dispiacque di averla fatta. «Sa», aggiunse con maggior gentilezza, «quest'anno è stato duro per lei.» «Lo so.» «Lei ha tutte le carte in mano, Daniel. Tutto si basa sulla sua decisione, sulla sua scelta.» «E secondo lei sapere che sono quello che deve scegliere rende le cose più facili per me?» Jane percepì il suo dolore e pensò: perché le persone si fanno questo? Perché esseri umani degni e intelligenti si rinchiudono in una simile gabbia d'infelicità? Mesi prima aveva previsto che si sarebbe arrivati a questo, che placati gli ormoni e spente le scintille della nuova storia, sarebbero rimasti con il rimpianto come amaro compagno. «Desidero solo essere sicuro che stia bene», affermò. «Non l'avrei disturbata se non fossi preoccupato.» «Non seguo tutti i suoi spostamenti.» «Potrebbe però accertarsene per me?» «Come?» «La chiami. Forse ha ragione, magari evita le mie chiamate. La nostra ultima conversazione non è stata...» Tacque. «Sarebbe potuta finire meglio.» «Avete litigato?» «No. Ma l'ho delusa. Lo so.» «Il che potrebbe averla indotta a non rispondere alle sue chiamate.» «Ciò nonostante, non è da lei essere irraggiungibile.» Su quel punto aveva ragione. Maura era troppo coscienziosa per rimanere a lungo lontana da qualsiasi contatto. «Le farò uno squillo», rispose Jane e riagganciò, grata che la sua vita fosse così stabile. Niente lacrime, niente drammi, niente alti e bassi da capogiro. Solo la serena certezza che in quel momento suo marito e sua figlia erano a casa ad attenderla. Tutt'intorno a lei sembrava che i tumulti del cuore stessero distruggendo la vita delle persone. Suo padre aveva lasciato la madre per un'altra donna. Il matrimonio di Barry Frost era da poco andato in pezzi. Nessuno si comportava più come un tempo, come avrebbe dovuto. Mentre componeva il numero di cellulare di Maura, si chiese: sono l'unica in giro a essere ancora sana di mente? Squillò quattro volte, poi udì il messaggio registrato: «Sono la dottoressa Isles. In questo momento non sono disponibile, ma se lasciate un messaggio,
vi richiamerò il prima possibile». «Ehi, dottoressa, ci stavamo chiedendo dove fossi», disse Jane. «Dammi un colpo, d'accordo?» Terminò la telefonata e fissò il cellulare pensando a tutte le ragioni per cui Maura non aveva risposto. Non aveva campo. Aveva la batteria scarica. O forse si stava divertendo troppo in Wyoming, lontana da Daniel Brophy. Lontana dal lavoro con tutti i suoi richiami alla morte. «Va tutto bene?» gridò Frost. Jane infilò il telefono in tasca e lo guardò. «Sì», rispose. «Sono sicura di sì.»
7 «Allora secondo voi cos'è successo qui?» chiese Elaine con la voce un po' impastata per il troppo whisky. «Dove sarà andata questa famiglia?» Erano seduti vicini attorno al caminetto, infagottati nelle coperte che avevano preso dalle camere da letto di sopra, con i resti della cena sparsi sul pavimento attorno a loro. Avevano mangiato maiale e fagioli, maccheroni al formaggio in scatola, cracker salati e burro di arachidi. Un banchetto ad alto contenuto di sodio, annaffiato da una bottiglia di whisky scadente che avevano trovato proprio in fondo alla dispensa, nascosta tra i sacchi di farina e di zucchero. Doveva essere il whisky di lei, pensò Maura, ricordando la donna della fotografia con gli occhi spenti e l'espressione assente. La dispensa era il luogo in cui una donna teneva una scorta segreta di liquore, il luogo in cui il marito non si sarebbe mai curato di guardare, non se considerava cucinare un compito femminile. Maura bevve un sorso e mentre il whisky le bruciava la gola, si domandò che cosa spingesse una donna a bere in segreto, quale infelicità la inducesse a cercare il conforto ottenebrante dell'alcol. «Va bene», disse Ario. «Posso fornire una spiegazione logica a proposito della sorte di questa gente.» Elaine si riempì il bicchiere e aggiunse solo uno spruzzo d'acqua. «Sentiamola.» «È ora di cena. La moglie con la brutta pettinatura mette il cibo in tavola e stanno tutti per sedersi e ringraziare Dio, o qualsiasi cosa facciano qui. Il marito all'improvviso si stringe il petto e grida: 'Ho un infarto!' Perciò s'infilano tutti in macchina e corrono in ospedale.» «Senza chiudere a chiave la porta?» «Perché preoccuparsi di chiuderla? Cosa c'è qua dentro da rubare?» Ario indicò con sprezzo i mobili. «Inoltre, non c'è nessuno per chilometri e chilometri che si prenderebbe la briga di scassinare questa casa.» Tacque e alzò il bicchiere di whisky per brindare sarcastico. «Eccetto i presenti.» «Mi sembra che manchino da giorni. Perché non sono tornati?» «Le strade», rispose Maura. Prese il giornale che quel giorno aveva comprato alla Grubb's Gas Station and General Store. Le pareva fosse trascorso un secolo. Lo distese e lo avvicinò alla luce del fuoco in modo che potessero leggere il titolo, che aveva notato quando lo aveva pagato. Torna il freddo dopo una settimana di caldo anomalo per la stagione, con
temperature che hanno superato i quindici gradi, sembra che un'ondata di freddo invernale stia per arrivare nelle nostre zone. I meteorologi prevedono che martedì notte potrebbero cadere dai cinque ai dieci centimetri di neve. Una bufera più intensa giungerà subito dopo, accompagnata da potenziali nevicate più intense sabato. «Forse non sono riusciti a tornare qui», osservò Maura. «Magari sono partiti prima della tormenta di martedì, quando la strada era ancora sgombra.» «Spiegherebbe perché le finestre erano aperte», intervenne Douglas. «Perché faceva ancora caldo quando sono partiti. Poi è arrivata la tormenta.» Indicò Maura con un cenno del capo. «Non vi avevo detto che era brillante? La dottoressa Isles trova sempre spiegazioni logiche.» «Significa che queste persone hanno intenzione di tornare», disse Ario. «Quando la strada verrà ripulita.» «A meno che non cambino idea», suggerì Elaine. «Hanno lasciato la casa senza chiudere la porta a chiave e con tutte le finestre aperte. Devono tornare.» «In questo posto? Senza elettricità, senza vicini? Quale donna sana di mente lo sopporterebbe? E comunque, dove sono tutti i vicini?» «Questo è un brutto posto», disse piano Grace. «Io non ci tornerei.» La guardarono tutti. La ragazza se ne stava seduta in disparte, avvolta tanto strettamente in una coperta che nell'ombra sembrava una mummia. Era stata zitta, persa in qualsiasi musica riproducesse il suo iPod, ma ora si era tolta gli auricolari, si era abbracciata le gambe e fissava la stanza con occhi sgranati. «Ho guardato nel loro armadio», disse Grace. «La stanza in cui dormivano la madre e il padre. Sapete che lui ha sedici cinture? Sedici cinture di cuoio, ognuna appesa a un gancio. E c'era anche una corda. Perché tenere una corda nell'armadio?» Ario emise una risatina nervosa. «Per nessuno scopo menzionabile davanti ai minori che mi venga in mente.» Elaine gli diede una pacca. «Non credo fosse un uomo buono.» Grace fissò il buio in agguato al di là del fuoco. «Forse la moglie e le figlie sono scappate. Forse hanno intravisto un'occasione e sono fuggite.» Tacque. «Se hanno avuto fortuna. Se prima non le ha uccise.» Maura rabbrividì sotto la coperta di lana. Nemmeno il whisky riusciva a disperdere il gelo che d'un tratto era calato sulla stanza. Ario si allungò per prendere la bottiglia. «Accidenti, se ci mettiamo a raccontare storie di paura, sarà meglio avere a bordo un po' di sedativo.» «Ne hai già abbastanza a bordo», commentò Elaine.
«Chi altro ha una storia di paura da raccontare davanti al fuoco?» Ario guardò Maura. «Con il tuo lavoro ne conoscerai a tonnellate.» Maura guardò Grace che si era rifugiata nel suo silenzio. Se io sono terrorizzata dalla situazione, quanto spaventoso dev'essere per una tredicenne? «Non è il momento di raccontare storie di paura», rispose. «Be', che ne dici allora di qualche storia divertente? I patologi non sono noti per il loro umorismo macabro?» Maura sapeva che sperava solo in un po' di svago per far passare la notte lunga e gelida, ma non era nello stato d'animo di essere spiritosa. «Non c'è niente di divertente in ciò che faccio», disse. «Credimi.» Calò un lungo silenzio. Grace si avvicinò di più al caminetto e fissò nel fuoco. «Era meglio rimanere in albergo. Non mi piace questo posto.» «Be', sono con te, tesoro», disse Elaine. «Questa casa mi dà i brividi.» «Oh, non lo so», esclamò Douglas offrendo come sempre una valutazione rosea. «E' una casa bella, solida. Ci comunica che tipo di persone vivevano qui.» Elaine scoppiò in una risata sarcastica. «Persone con un gusto davvero pessimo per i mobili.» «Per non parlare del gusto per i cibi», aggiunse Ario indicando la scatola vuota di maiale con fagioli. «L'hai mangiata piuttosto in fretta.» «E' un caso di sopravvivenza, Elaine. Per restare vivi fai quello che è necessario.» «E avete visto gli abiti negli armadi? Solo percalle e colletti alti. Sono abiti da pionieri.» «Aspettate, aspettate. Ho un'immagine mentale di queste persone.» Ario si premette le dita alle tempie e chiuse gli occhi come un guru indiano in preda a una visione. «Vedo personaggi come nella serie...» «American Gothic!» buttò lì Douglas. «No, i Beverly Hillibillies!» replicò Elaine. «Ehi, ma'», esclamò Ario strascicando le parole, «passami un altro po' di quello stufato di scoiattolo.» I tre vecchi amici scoppiarono a ridere, carburati dal whisky e dal divertimento di deridere persone che non avevano mai conosciuto. Maura non si unì a loro. «E tu cosa vedi, Maura?» domandò Elaine. «Dai», la pungolò Ario. «Gioca con noi. Secondo te chi è questa gente?» Maura guardò la stanza, le pareti spoglie a parte il poster incorniciato dell'uomo bruno con gli occhi ipnotici e lo sguardo riverente rivolto al cielo. Non c'erano tendine né ninnoli. Gli unici libri erano manuali per il fai da te.
Come riparare un motore diesel. Idraulica di base. Manuale di veterinaria domestica. Quella non era la casa di una donna, quello non era il mondo di una donna. «È lui qui ad avere il totale controllo», disse. «Il marito.» Gli altri la osservarono aspettando che continuasse. «Vedete come tutto in questa stanza è freddo e funzionale? Qui dentro non c'è alcuna traccia della moglie. E' come se non esistesse, come se fosse invisibile. Una donna che non conta, che è in trappola e non riesce a trovare una via d'uscita se non nella bottiglia di whisky.» Tacque pensando d'un tratto a Daniel e il suo sguardo si velò di lacrime. Anch'io sono in trappola. Innamorata e incapace di andarmene. Come bloccata in una valle tutta mia. Batté le palpebre e quando la vista le si schiarì scoprì che la stavano fissando. «Wow», disse piano Ario. «Che analisi per una casa.» «Avete chiesto il mio parere.» Maura bevve l'ultimo whisky e posò il bicchiere con un forte tonfo. «Sono stanca. Vado a dormire.» «Abbiamo tutti bisogno di dormire un po'», convenne Douglas. «Io starò sveglio per un po' e terrò acceso il fuoco. Non possiamo lasciare che si spenga, perciò dovremmo fare dei turni.» «Io farò il prossimo», si offrì volontaria Elaine. Si appallottolò sulla stuoia e si avvolse nella coperta. «Svegliatemi quando è ora.» Il pavimento scricchiolò mentre si sistemavano cercando di mettersi comodi sulla stuoia intrecciata. Anche con il fuoco che ardeva nel caminetto la stanza era gelida. Sotto la coperta Maura indossava ancora la giacca. Dai letti di sopra avevano preso alcuni cuscini, e il suo puzzava di sudore e di dopobarba. Il cuscino del marito. Con il suo odore contro la guancia si addormentò e sognò un uomo dai capelli scuri con gli occhi duri, che incombeva su di lei e la guardava dormire. Colse una minaccia nel suo sguardo, ma non poteva muoversi, non poteva difendersi, il suo corpo era paralizzato dal sonno. Si svegliò con un ansito, gli occhi sgranati dal terrore, il cuore che le martellava nel petto. Sopra di lei non incombeva nessuno. Guardò in alto la tenebra vuota. La coperta le era scivolata di dosso e la stanza si stava raffreddando. Osservò il caminetto e vide che le fiamme si erano ridotte a pochi tizzoni incandescenti. Ario russava, seduto con la schiena appoggiata al caminetto e la testa che gli penzolava in avanti. Aveva lasciato morire il fuoco. Tremante e rigida per il pavimento freddo, si alzò e mise un altro ciocco nel caminetto. Il legno prese quasi subito e le fiamme ben presto scoppiettarono
emanando deliziose ondate di calore. Fissò indignata Ario che non si era nemmeno mosso. Incapaci, pensò. Non posso nemmeno contare su di loro perché mantengano acceso il fuoco. Che errore era stato condividere le sorti di quella gente. Era stanca delle spiritosaggini di Ario, dei piagnistei di Grace e dell'ottimismo fastidiosamente incrollabile di Douglas. Ed Elaine la inquietava, anche se non sapeva perché. Ricordava come la avesse guardata quando Douglas l'aveva abbracciata sulla strada. Io sono l'intrusa, quella che non fa parte di questo felice quartetto, pensò. Ed Elaine ce l'ha con me. Adesso il fuoco ardeva caldo e vivo. Maura guardò l'orologio e notò che erano le quattro del mattino. Era quasi l'ora del suo turno per sorvegliare il fuoco, perciò sarebbe anche potuta restare sveglia fino all'alba. Mentre si alzava per stirarsi, un luccichio riflesso ai margini della luce gettata dalle fiamme attirò la sua attenzione. Avvicinandosi vide che sul pavimento di legno si erano formate alcune goccioline d'acqua. Poi lontano nell'ombra scorse una lieve spolverata di bianco. Qualcuno aveva aperto la porta lasciando entrare una folata di neve. Si diresse alla porta dove la neve non si era ancora sciolta e fissò la polvere fine. Impressa in quella polvere c'era un'unica impronta di scarpa. Si voltò di scatto e scrutò rapida la stanza contando le sagome addormentate. Erano tutti presenti all'appello. La porta non era chiusa a chiave; nessuno si era preoccupato di bloccarla la sera prima, ma perché avrebbero dovuto farlo? Chi mai dovevano cercare di chiudere fuori? Azionò il chiavistello e andò alla finestra per guardare fuori. Anche se la stanza si stava di nuovo scaldando, tremava sotto la coperta. Il vento gemeva nel camino e udì la neve sibilare contro il vetro. Fuori non vide nulla tranne il nero. Ma chiunque fosse stato là sarebbe stato in grado di vedere lei, illuminata da dietro dal bagliore del fuoco. Arretrò dalla finestra e si sedette rabbrividendo sulla stuoia. La neve accanto alla porta si sciolse portando via con sé gli ultimi resti dell'orma. Forse la porta si era aperta per il vento durante la notte e uno di loro si era alzato a chiuderla lasciando l'impronta. Forse qualcuno era andato fuori a controllare il tempo o a far pipì nella neve. Ormai ben sveglia, restò seduta a fare la guardia mentre la notte cedeva a poco a poco il passo all'alba, mentre la coltre nera si sollevava lasciando il posto al grigio. I suoi compagni non si mossero. Quando si alzò per alimentare di nuovo il fuoco, vide che erano rimasti con gli ultimi ciocchi. Fuori nel capanno c'era molta legna ma probabilmente umida. Per asciugarla, qualcuno avrebbe dovuto portarne subito dentro un po'. Guardò i compagni addormentati e sospirò.
Quel qualcuno dovrò essere io. Si infilò scarponi e guanti, si avvolse la sciarpa attorno alla faccia e fece scorrere il chiavistello. Si preparò ad affrontare il freddo e uscì chiudendo la porta alle sue spalle. Il vento spazzava il portico, pungente come una miriade di aghi. Il dondolo cigolò in segno di protesta. Guardando in basso non vide impronte di scarpe, ma il vento avrebbe cancellato qualsiasi cosa. Un termometro fissato al muro indicava meno undici. Sembrava molto più freddo. I gradini erano sepolti dalla neve e mentre posava lo scarpone su quello che riteneva fosse il primo, scivolò e cadde. L'impatto le si propagò come un fulmine lungo la colonna vertebrale e le esplose nel cranio. Rimase seduta stordita per un momento, a battere le palpebre nella luce dell'alba. Il sole splendeva nel cielo azzurro, vivido sopra un mondo diventato accecante. Il vento le gettò in faccia una manciata di neve farinosa e Maura starnutì, il che contribuì solo a peggiorare il dolore alla testa. Si alzò e si ripulì i pantaloni. Socchiudendo gli occhi, osservò la neve che luccicava sui tetti. Tra le due file di case c'era un tratto di un bianco immacolato che la invitava a calpestare per prima la sua superficie integra, perfetta. Ignorò l'impulso e girò invece l'angolo dell'abitazione lottando nella neve alta fino al ginocchio per raggiungere la legnaia. Cercò di staccare un ciocco dalla sommità della catasta ma era congelato. Puntò un piede contro il mucchio e tirò con più forza. Con un forte schiocco la corteccia gelata cedette e lei barcollò. Lo scarpone le si impigliò in qualcosa di sepolto e lei cadde. Due cadute in un giorno. E la mattina era ancora giovane. Le faceva male la testa e gli occhi le bruciavano per la luce del sole. Aveva fame e nel contempo nausea, risultato del troppo whisky bevuto la sera prima. La prospettiva di mangiare maiale e fagioli a colazione non la faceva star meglio. Si rimise a fatica in piedi e si guardò attorno in cerca del ciocco che aveva perso. Mentre spostava la neve attorno a sé con i piedi, cozzò contro un ostacolo. Scavò con le mani protette dai guanti e sentì una massa dura. Non era il ciocco ma qualcosa di più grosso, qualcosa di congelato sul terreno. In quello si era impigliato lo scarpone. Scostò altra neve e s'immobilizzò all'improvviso fissando ciò che aveva scoperto. Disgustata, indietreggiò. Poi si voltò e corse in casa.
8 «Lo avranno lasciato fuori ed è morto congelato», commentò Elaine. Erano radunati in un cerchio solenne attorno al cane morto come cinque persone in lutto davanti a una tomba, sferzate dal vento tagliente come vetro. Douglas aveva usato una pala per allargare il buco e ora il cane giaceva completamente esposto con il pelo luccicante per la neve. Un pastore tedesco. «Chi lascerebbe fuori un cane con questo tempo?» osservò Ario. «È crudele.» Maura si inginocchiò e premette la mano con il guanto sul fianco dell'animale. Il corpo era completamente congelato, la carne dura come pietra. «Non vedo lesioni. Non è un randagio», disse. «Sembra ben nutrito e ha un collare.» Sulla targhetta d'acciaio era inciso l'improbabile nome: lucky. «È ovviamente il cane di qualcuno.» «Forse si è allontanato dalla casa e i proprietari non lo hanno trovato in tempo», suggerì Douglas. Grace alzò gli occhi, affranta. «E lo hanno lasciato qui, tutto solo?» «Forse sono dovuti partire in fretta.» «Come si può fare una cosa del genere? Noi non lo faremmo mai a un cane.» «Non sappiamo cosa sia successo veramente qui, tesoro.» «Lo seppellirai, vero?» «Grace, è solo un cane.» «Non puoi lasciarlo qua fuori.» Douglas sospirò. «D'accordo, ci penserò io, te lo prometto. Tu vai dentro e tieni acceso il fuoco. Io penserò a tutto il resto.» Attesero finché Grace si fu riparata in casa. Poi Elaine disse: «Non ti prenderai davvero la briga di seppellire il cane, no? Il terreno è gelato». «Hai visto com'è spaventata.» «Non è l'unica», dichiarò Ario. «Lo coprirò semplicemente con la neve. E' tanto alta che non saprà che il cane è ancora qui.» «Torniamo tutti in casa», affermò Elaine. «Sto congelando.» «Non capisco», esclamò Maura, ancora accovacciata accanto all'animale morto. «I cani non sono stupidi, soprattutto i pastori tedeschi. E' ben nutrito e ha uno spesso mantello invernale.» Si alzò e scrutò il paesaggio socchiudendo gli occhi per il bagliore del sole
riflesso. «Questo è il muro rivolto a nord. Perché è finito qui a morire?» «Rispetto a dove?» chiese Elaine. «Maura ha fatto una buona osservazione», convenne Douglas. «Non capisco», proseguì Elaine chiaramente seccata che nessuno la seguisse in casa. «I cani hanno buon senso», rispose lui. «Sanno che bisogna ripararsi dal freddo. Si sarebbe potuto rannicchiare nella neve o infilare sotto il portico. Avrebbe potuto trovare un sacco di posti dove proteggersi meglio dal vento, ma non lo ha fatto.» Guardò il cane. «Invece è finito qui. Totalmente esposto al vento, come se fosse crollato a terra morto.» Rimasero in silenzio mentre un refolo sferzava i loro abiti e sibilava tra gli edifici sollevando mulinelli di un bianco scintillante. Maura fissò gli alti cumuli che ricoprivano il paesaggio come gigantesche onde bianche e si chiese: quali altre sorprese ci saranno sepolte sotto la neve? Douglas si voltò a guardare le altre costruzioni. «Forse dovremmo dare un'occhiata all'interno delle altre case», disse. I quattro si avviarono in fila indiana verso la casa accanto con Douglas che faceva strada come sempre e batteva la traccia nella neve fonda. Salirono sui primi gradini. Come quella in cui avevano dormito la notte precedente, aveva un portico e un dondolo identico. «Credete abbiano ottenuto uno sconto quantità?» domandò Ario. «Comprate undici dondoli e il dodicesimo è gratis.» Maura pensò alla donna dallo sguardo spento nella foto di famiglia. Si figurò un intero villaggio di donne pallide e mute sedute su quei dondoli, che ondeggiavano meccanicamente come bambole a molla. Case cloni, donne cloni. «Anche questa porta non è chiusa a chiave», annunciò Douglas e la spalancò. Nella stanza c'era una sedia rovesciata. Per un istante rimasero sulla soglia a interrogarsi su quella sedia ribaltata. Douglas la prese e la raddrizzò. «Be', che cosa strana.» «Guardate», disse Ario. Si avvicinò al ritratto in cornice appeso alla parete. «E' lo stesso tipo.» La luce del mattino illuminava come un raggio celeste il viso dell'uomo rivolto al cielo, come se Dio stesso approvasse la sua devozione. Studiando il ritratto, Maura notò altri particolari che prima le erano sfuggiti. Lo sfondo di grano dorato alle sue spalle. La camicia bianca da contadino, con le maniche arrotolate fino ai gomiti come se avesse lavorato nei campi. E gli
occhi, penetranti e neri come l'ebano, che fissavano una qualche eternità remota. «E riunirà i giusti», disse Ario leggendo la targa sulla cornice. «Mi chiedo comunque chi sia questo tipo. E perché tutti hanno il suo ritratto in casa?» Maura vide quella che sembrava una Bibbia aperta sul tavolino. La chiuse e scorse il titolo, impresso in rilievo d'oro sulla copertina di pelle. Le parole del nostro Profeta La saggezza della Raccolta «Credo sia una specie di comunità religiosa», rispose. «Forse lui è il capo spirituale.» «Questo spiegherebbe alcune cose», osservò Douglas. «La mancanza di elettricità. La semplicità dello stile di vita.» «Amish in Wyoming?» domandò Ario. «In questi tempi sembra che molti anelino a una vita più semplice. E qui in questa valle la puoi trovare. Ti coltivi il cibo, chiudi fuori il mondo. Niente televisione, niente tentazioni esterne.» Elaine scoppiò a ridere. «Se la doccia e la luce elettrica sono opera del demonio, allora mettetemi in lista per l'inferno.» Douglas si girò. «Vediamo il resto della casa.» Avanzarono in corridoio, entrarono in cucina e trovarono gli stessi armadietti di pino, la stessa cucina a legna, la stessa pompa a mano per l'acqua che avevano visto nella prima casa. Anche lì la finestra era aperta ma la zanzariera aveva tenuto fuori la neve consentendo solo al vento e ad alcuni granellini scintillanti di entrare. Elaine attraversò la stanza per chiudere la finestra e d'un tratto restò senza fiato. «Che c'è?» chiese Douglas. Indietreggiò indicando il lavandino. «C'è... c'è qualcosa di morto là dentro!» Mentre le si accostava, Maura vide il coltello da macellaio con la lama sporca di sangue. Nel lavandino c'erano macchie congelate di sangue e mucchi di pelo grigio. «Sono conigli», disse e indicò una ciotola di patate pelate posta lì vicino. «Credo che qualcuno si accingesse a cucinarli.» Ario rise. «Bel colpo, Salinger. Spaventarci a morte con la cena di qualcuno.» «Cosa sarà successo alla cuoca?» Elaine si teneva ancora lontana, come se le carcasse nel lavandino potessero rianimarsi e diventare pericolose. «Sta scuoiando i conigli e poi? Se ne va e li lascia qui?» Elaine guardò tutti in volto. «Qualcuno mi risponda. Mi dia una spiegazione logica.» «Forse è morta», disse una voce sommessa. «Forse sono tutti morti.» Si voltarono e videro Grace sulla soglia. Non l'avevano sentita entrare.
Teneva le braccia conserte e tremava nella cucina gelida. «E se sono tutti sepolti dalla neve come quel cane? Se semplicemente non li vediamo?» «Grace, tesoro», affermò con gentilezza Douglas, «torna nell'altra casa.» «Non voglio stare sola.» «Elaine, l'accompagni?» «Cosa avete intenzione di fare?» chiese lei. «Portala con te e basta, d'accordo?» ribatté secco Douglas. Elaine trasalì di fronte al suo tono. «Va bene, Douglas», rispose tesa. «Farò tutto quello che vuoi. Non è sempre così?» Prese Grace per mano e uscirono entrambe dalla cucina. Douglas sospirò. «Amici, la cosa si fa sempre più strana.» «E se Grace avesse ragione?» chiese Ario. «Non ti ci mettere anche tu.» «Chi sa cosa c'è sotto tutta questa neve. Potrebbero esserci dei corpi.» «Sta' zitto, Ario.» Douglas si girò verso la porta del garage. «Perché da qualche tempo sembra essere la frase preferita di tutti? Sta zitto, Ario.» «Controlliamo le altre case. Vediamo se c'è qualcosa che possiamo utilizzare. Una radio, un generatore.» Entrò in garage e si bloccò di colpo. «Mi sa che ho appena trovato il modo di uscire di qui», annunciò. Dentro c'era parcheggiata una Jeep Cherokee. Si precipitò verso la portiera del guidatore e la spalancò. «Ci sono le chiavi nel cruscotto!» «Douglas guarda!» disse Maura indicando un mucchio di catene metalliche su una mensola. «Sono catene da neve!» Douglas scoppiò in una risata di sollievo. «Se riusciamo a portare questa bellezza sulla strada principale, potremmo ridiscendere la montagna.» «Perché loro non l'hanno fatto?» chiese Ario. Fissava la Jeep come se fosse una cosa aliena, non appartenente a quel mondo. «La gente che viveva qui. La gente che stava per cucinare i conigli, perché ha lasciato qui questa bella macchina?» «Probabilmente ne avevano un'altra.» «E' un garage per un'auto sola, Douglas.» «Forse se ne sono andati con gli abitanti della prima casa. Nel loro garage non c'erano macchine.» «Stai solo facendo ipotesi. E' una casa abbandonata con un suv tutto nuovo, alcuni conigli morti nel lavandino e neanche un abitante. Dove sono finiti tutti?»
«Non importa! Quello che importa è che ora abbiamo un modo per uscire di qui. Perciò mettiamoci al lavoro. Se guardiamo negli altri garage, dovremmo trovare delle pale. E forse una tronchese per tagliare la catena all'inizio della strada.» Si avvicinò alla porta del garage e girò la maniglia. L'improvviso bagliore della luce del sole sulla neve indusse tutti a socchiudere gli occhi. «Se trovate qualsiasi cosa che pensate ci possa essere utile, prendetela. Sistemeremo dopo la faccenda con la gente di qui.» Ario si strinse meglio la sciarpa e si incamminò nella neve verso la casa di fronte. Maura e Douglas raggiunsero faticosamente la casa accanto. Douglas cercò nella neve la maniglia e sollevò la porta del garage. Si aprì cigolando e restarono entrambi impietriti. All'interno era parcheggiato un pick-up. Maura si voltò e guardò dall'altra parte della strada dove Ario aveva appena aperto un altro garage. «Ehi, qui c'è una macchina!» gridò. «Che diavolo è successo qui?» bofonchiò Douglas. Corse alla casa vicina nella neve alta fino al ginocchio e aprì la porta del garage. Diede un'occhiata all'interno e si precipitò oltre, verso la casa successiva. «Anche qui c'è un'auto nel garage», esclamò Ario. Il vento urlava come di dolore e una folata li colpì come un branco di stalloni bianchi sollevando la neve. Maura batté le palpebre mentre la nube scintillante le pungeva il volto. D'un tratto il vento calò lasciando un silenzio strano, gelido. Osservò la fila di case di fronte con ormai tutti i garage aperti. In ognuno c'era un veicolo.
9 «Non so spiegarlo», affermò Douglas mentre raccoglieva una palata di neve e la gettava di lato liberando lo spazio dietro la Jeep per poter montare le catene. «Tutto quello che mi interessa ora è andar via di qui.» «Non ti preoccupa neanche un po' il fatto che non sappiamo cosa sia successo a questa gente?» «Ario, dobbiamo concentrarci sull'obiettivo.» Douglas si raddrizzò rosso in volto per lo sforzo e guardò il cielo. «Voglio raggiungere la strada principale prima che faccia buio.» Avevano spalato tutti e ora si fermarono a riposare con le facce avvolte dalla condensa del loro respiro. Maura osservò la strada tortuosa che usciva dalla valle. C'erano grossi mucchi di neve lungo il tragitto, e anche se fossero riusciti ad arrivare là dove avevano abbandonato il Suburban avrebbero dovuto percorrere ancora cinquanta chilometri per scendere la montagna. Cinquanta chilometri durante i quali potevano di nuovo restare bloccati. «Potremmo anche rimanere dove siamo», disse. «E aspettare che ci vengano a salvare?» sbuffò Douglas. «Questo non è trovare una via d'uscita. Mi rifiuto di restare fermo, passivo.» «Io dovrei tornare a Boston stasera. Quando non mi vedranno, capiranno che c'è qualcosa che non va. Inizieranno a cercarmi.» «Hai detto che nessuno sa che sei venuta con noi.» «Il punto è che si metteranno a cercare. Qui abbiamo cibo e un riparo. Possiamo resistere finché vogliamo. Perché correre rischi?» Il volto di Douglas divenne di un rosso ancor più vivo. «Maura, è colpa mia se ci siamo cacciati in questo casino. Ora tirerò fuori tutti quanti. Fidati di me.» «Non dico che non mi fido di te. Faccio solo presente l'alternativa al rischio di rimanere bloccati su quella strada dove potremmo non trovare riparo.» «L'alternativa? Stare qui e aspettare per Dio solo sa quanto?» «Almeno siamo al sicuro.» «Lo siamo davvero?» Era stato Ario a porre la domanda. «Voglio dire, la butto lì perché ci pensiate un po' tutti, dato che sono l'unico che pare angosciato. Ma questo posto. Questo posto...» Si guardò attorno osservando le case disabitate e rabbrividì. «Qui è successo qualcosa di brutto. Qualcosa che forse non è ancora finito. Voto per tagliare la corda prima possibile.» «Anch'io, papà», aggiunse Grace. «Elaine?» chiese Douglas.
«Qualsiasi cosa decidi tu, Douglas, a me va bene.» Così ci siamo cacciati in questo pasticcio, pensò Maura. Ci siamo tutti fidati di Douglas. Lei però era l'estranea, una contro quattro, e niente di ciò che potesse dire avrebbe modificato gli equilibri. E forse avevano ragione. In quel posto c'era qualcosa che non andava; lo sentiva. Vecchi echi di un male che sembrava sussurrare nel vento. Maura sollevò di nuovo la pala. Lavorando tutti insieme impiegarono solo pochi minuti ancora a liberare lo spazio dietro alla Jeep. Douglas avvicinò le catene e le stese dietro alle ruote posteriori. «Sono piuttosto malconce», notò Ario guardando accigliato il metallo arrugginito. «E' tutto quello che abbiamo», rispose Douglas. «Alcuni segmenti sono rotti. Queste catene potrebbero non farcela.» «Devono reggere soltanto fino alla stazione di servizio.» Douglas salì sulla Jeep e girò la chiave. Il motore partì al primo colpo. «Bene, fin qui ci siamo!» Sorrise dal finestrino. «Voi signore perché non prendete un po' di provviste? Qualsiasi cosa pensiate ci possa servire per strada. Io e Ario ci occuperemo delle catene.» Quando Maura uscì dalla casa con una pila di coperte, le catene erano montate e Douglas aveva girato la Jeep mettendola con il muso in direzione della strada. Era già mezzogiorno passato e si affrettarono a caricare cibo e candele, le pale e la tronchese. Quando si furono tutti infilati nella Jeep, si fermarono per un istante in silenzio, come per recitare contemporaneamente una preghiera per la riuscita dell'impresa. Douglas fece un respiro e inserì la marcia. Iniziarono a muoversi con le catene che sferragliavano e macinavano neve. «Secondo me funzionerà», mormorò Douglas. Maura udì una nota di stupore nella sua voce, come se anche lui avesse dubitato delle loro possibilità. «Dio, secondo me funzionerà davvero!» Si lasciarono alle spalle le case e cominciarono a risalire la valle percorrendo lo stesso cammino che avevano sceso con fatica a piedi il giorno prima. La neve fresca aveva coperto le impronte e non sapevano dove si trovassero i bordi della strada, ma la Jeep continuò ad avanzare di gran carriera salendo costantemente. Dal sedile posteriore proveniva la sommessa cantilena di Ario, la stessa parola ripetuta all'infinito. Vai. Vai. Vai. Elaine e Grace si unirono a lui. Le loro voci erano sincronizzate con il ritmo delle catene che sbattevano contro il fuoristrada. Vai. Vai. Vai.
Mentre salivano sempre più, si trovavano quasi a metà valle, la cantilena si mescolò alle risate. La strada, diventata più ripida, faceva diversi tornanti e sentirono la neve grattare il sotto-scocca. Vai. Vai. Vai. Persino Maura si ritrovò a mormorare quelle parole anche se più che pronunciarle ad alta voce, le pensava. Si ritrovò a sperare che sì, sarebbe finita bene. Sarebbero usciti dalla valle e scesi lungo la strada principale sferragliando per tutto il percorso fino a Jackson. Che storia avrebbero avuto da raccontare, proprio come previsto da Douglas. L'avrebbero sfruttata per anni nelle varie cene ricordando quell'avventura in uno strano paese chiamato Verrà il Regno. Vai. Vai. Vai... All'improvviso la Jeep si fermò con un sobbalzo scagliandola in avanti contro la cintura di sicurezza. Lanciò un'occhiata a Douglas. «Sta' calma», disse e inserì la retromarcia. «Torneremo indietro. Partiremo con un po' più di spinta.» Premette l'acceleratore. Il motore gemette, ma la Jeep non si mosse. «Qualcuno non sta vivendo un brutto déjà-vu?» chiese Ario. «Ah, ma stavolta abbiamo le pale!» Douglas scese e guardò il paraurti anteriore. «Siamo solo finiti in un punto di neve più alta. Possiamo uscirne spalando. Forza, diamoci da fare.» «Io ho proprio un déjà-vu», bofonchiò Ario mentre scendeva e afferrava una pala. Quando iniziarono a spalare, Maura si accorse che il problema era peggiore di quanto annunciato da Douglas. Erano usciti di strada e nessuna delle due gomme posteriori toccava il terreno. Rimossero la neve dal paraurti anteriore, ma anche allora la Jeep non si mosse: le ruote anteriori slittavano sul fondo ghiacciato. Douglas scese di nuovo dal sedile del guidatore e guardò frustrato le gomme posteriori sollevate, avvolte dalle catene arrugginite. «Maura, mettiti al volante», disse. «Io e Ario spingeremo.» «Fino a Jackson?» disse Ario. «Hai un'idea migliore?» «Se non ci muoviamo, non ce la faremo per il tramonto.» «Allora che vuoi fare?» «Dico solo...» «Cosa, Ario? Vuoi che torniamo nella casa? Che ce ne stiamo con le mani in mano e aspettiamo che qualcuno ci venga a salvare?» «Ehi, amico, calmati.» Ario scoppiò in una risata nervosa. «Non sto incitando all'ammutinamento.»
«Forse dovresti. Forse dovresti prendere una decisione difficile invece di lasciare che pensi a tutto io.» «Non ho mai chiesto di assumere il comando.» «No, succede di default. Buffo come sembra sempre andare così. Io compio scelte difficili, tu te ne stai in disparte e mi dici dove sbaglio.» «Douglas, dai.» «Non è così che va di solito?» Douglas guardò Elaine. «No?» «Perché lo chiedi a lei? Sai già cosa dirà.» «Che vorresti dire?» chiese Elaine. «Qualsiasi cosa decidi tu, a me va bene», le fece il verso Ario. «Fottiti, Ario», ribatté secca lei. «E' Douglas quello che vorresti fotterti!» Le sue parole li fecero ammutolire tutti per lo shock. Si fissarono a vicenda mentre il vento spazzava il pendio e la neve sollevata li bersagliava in volto. «Io giro il volante», disse pacata Maura e salì al posto di guida, lieta di evitare lo scontro. Qualsiasi storia avessero alle spalle quei tre amici, lei non ne faceva parte. Era solo una spettatrice casuale, la testimone di uno psicodramma iniziato molto prima che si unisse a loro. Quando infine Douglas parlò, la sua voce era pacata e misurata. «Ario, mettiamoci dietro a questo coso e spingiamo. Altrimenti non usciremo mai di qui.» I due uomini si piazzarono dietro alla Jeep, Ario accanto al paraurti posteriore destro, Douglas a quello sinistro. Erano entrambi chiusi in un cupo mutismo, come se lo scoppio di rabbia di Ario non ci fosse mai stato. Maura tuttavia aveva visto l'effetto sulla faccia di Elaine, l'aveva notata irrigidirsi e tramutarsi in una maschera di umiliazione. «Dalle un po' di brio, Maura», gridò Douglas. Maura inserì la prima e premette delicatamente l'acceleratore. Udì le ruote gemere, i segmenti liberi delle catene sbattere contro il sotto-scocca. La Jeep avanzò di poco, spinta dalla pura forza muscolare mentre Douglas e Ario si gettavano con tutto il loro peso contro il veicolo. «Continua a dare gas!» ordinò Douglas. «Ci stiamo muovendo.» La Jeep andava un po' avanti e un po' indietro, con la gravità che l'attirava al di là del bordo della strada. «Non ti fermare!» gridò Douglas. «Ancora gas!» Maura ebbe una fugace visione del viso di Ario nel retrovisore, rosso per lo sforzo mentre tentava di spingere l'auto. Schiacciò l'acceleratore. Udì il motore rombare, le catene sbattere più veloci nei vani ruote. La Jeep diede un brusco strattone e all'improvviso si sentì un
rumore del tutto diverso. Un tonfo sordo che Maura percepì più che udire, come se l'auto fosse finita contro un tronco abbattuto. Poi giunsero le grida. «Spegni il motore!» Elaine pestò sulla portiera. «Oh, mio Dio, spegni!» Maura lo spense subito. Le grida erano di Grace. Gemiti acuti, laceranti che non sembravano umani. Maura si voltò a guardarla ma non vide perché stesse urlando. Grace si trovava sul margine della strada con le mani sulla testa. Teneva le palpebre ben chiuse, come se cercasse disperatamente di cancellare qualcosa di terribile. Maura spalancò la portiera e si buttò giù dalla Jeep. Il bianco della neve era sporco di sangue, segnato da strisce di un rosso spaventosamente intenso. «Tenetelo fermo!» urlò Douglas. «Elaine, devi tenerlo fermo!» Le urla di Grace si attenuarono tramutandosi in singhiozzi strozzati. Maura si precipitò verso il retro della Jeep dove il terreno era ricoperto da altro sangue che fumava sulla neve calpestata. Non ne vedeva la fonte perché Douglas ed Elaine le oscuravano la visuale, inginocchiati accanto alla ruota posteriore destra. Solo quando si chinò sopra la spalla di Douglas vide Ario supino con la giacca e i pantaloni inzuppati. Elaine lo stava tenendo fermo per le spalle mentre Douglas faceva pressione sull'inguine esposto. Maura scorse la gamba sinistra di Ario, quello che ne rimaneva, e barcollò all'indietro nauseata. «Mi serve un laccio emostatico!» urlò Douglas lottando per tenere i palmi viscidi di sangue sull'arteria femorale. Maura si slacciò rapida la cintura e se la sfilò con uno strattone. Gettandosi in ginocchio nella neve insanguinata, sentì quella poltiglia ghiacciata impregnarle i pantaloni. Nonostante la pressione che Douglas esercitava sull'arteria, un flusso rosso costante penetrava nella neve. Maura infilò la cintura sotto la coscia e il sangue le macchiò la manica della giacca lasciando una striscia impressionante sul nylon bianco. Mentre chiudeva la cintura, sentì Ario tremare, il suo corpo stava rapidamente andando in shock. Tirò il laccio per stringerlo bene e il flusso di sangue rallentò tramutandosi in un gocciolio. Solo allora, controllata l'emorragia, Douglas mollò la presa sull'arteria. Vacillò all'indietro e fissò la carne lacerata, l'osso sporgente, un arto tanto contorto che il piede puntava in una direzione e il ginocchio in un'altra. «Ario?» disse Elaine. «Ario?» Lo scosse ma lui non dava segni di vita, incapace di reagire. Douglas gli tastò il collo. «C'è il battito. E respira. È solo svenuto.» «Oh, mio Dio.» Elaine si alzò e si allontanò incespicando.
La sentirono vomitare nella neve. Douglas si guardò le mani e con un brivido raccolse un po' di neve e si pulì frenetico il sangue. «La catena», borbottò sfregandosi la neve sulla pelle, come se potesse in qualche modo purificarsi da quell'orrore. «Uno dei segmenti rotti deve esserglisi impigliato nei pantaloni. Ha fatto girare la gamba attorno all'asse...» Douglas arretrò con il busto ed emise un respiro che era in parte un sospiro, in parte un singhiozzo. «Non tireremo mai fuori la Jeep da qui. La catena è da buttare.» «Douglas, dobbiamo riportarlo alla casa.» «Alla casa?» La guardò. «Quello che gli serve è una cazzo di sala operatoria!» «Non può restare qua fuori al freddo. E' sotto shock.» Si alzò e si guardò attorno. Grace se ne stava rannicchiata tutta sola dando loro la schiena. Elaine era accucciata nella neve, come se fosse troppo stordita per restare in piedi. Nessuna delle due sarebbe stata di alcun aiuto. «Tornerò presto», disse Maura. «Tu resta con lui.» «Dove vai?» «Ho visto una slitta in uno dei garage. Possiamo trasportarlo con quella.» Li lasciò e si avviò di corsa verso il villaggio con gli scarponi che scivolavano di qua e di là nei solchi tracciati dalla Jeep in salita. Era un sollievo gettarsi alle spalle la neve insanguinata e i compagni storditi, concentrarsi su un compito concreto che richiedeva solo velocità e muscoli. Paventava ciò che sarebbe accaduto dopo, una volta riportato Ario nella casa, quando avrebbero per forza preso atto di quanto restava della sua gamba, poco più di un ammasso di carne maciullata e di ossa spezzate. La slitta. Dove ho visto la slitta? Alla fine la trovò nel terzo garage, appesa ai pioli sulla parete accanto a una scala e una serie di attrezzi. Chiunque fosse vissuto lì aveva organizzato bene la casa e mentre la tirava giù, immaginò il proprietario che inseriva i pioli con il martello, che appendeva gli attrezzi abbastanza in alto in modo che nessuna piccola mano li raggiungesse. La slitta era di betulla e non aveva etichette della ditta produttrice. Fatta a mano, realizzata con cura, i pattini scartavetrati fino a risultare lisci e da poco lucidati in previsione dell'inverno. Maura notò tutto questo con una sola occhiata. L'adrenalina le aveva acuito la vista e le faceva vibrare i nervi come cavi dell'alta tensione. Scrutò il garage in cerca di qualsiasi altra cosa utile. Trovò dei bastoni da sci e una corda, un coltellino tascabile e un rotolo di nastro adesivo. La slitta era pesante, mentre la trascinava su per la strada ripida cominciò
ben presto a sudare. Ma meglio faticare come un cavallo da tiro che stare inutilmente inginocchiato accanto al corpo maciullato del tuo amico a chiederti angosciato che fare. Ora ansimava, saliva con difficoltà la strada scivolosa e si chiese se Ario sarebbe stato ancora vivo al suo arrivo. Un pensiero vagante le s'insinuò in testa. Una vocina che le sussurrava una logica crudele: Forse sarebbe meglio se morisse. Tirò con più forza la corda usando tutto il suo peso per vincere la resistenza della neve e della gravità. Continuò a salire a fatica con le mani strette attorno alla corda mentre superava i tornanti, mentre passava accanto ai pini che con i loro rami carichi di neve le nascondevano il tratto successivo. Ormai sarebbe dovuta arrivare. Non saliva già da molto? Ma i segni delle gomme della Jeep continuavano a fare curve su curve e vide le impronte che aveva lasciato quando, poco tempo prima, era scesa correndo. Un urlo squarciò il bosco, un grido sconvolto di dolore che terminò con un singhiozzo. Non solo Ario era ancora vivo, ora era anche sveglio. Maura fece la curva e li trovò proprio dove li aveva lasciati. Grace se ne stava rannicchiata con le mani premute sulle orecchie per non sentire i singhiozzi di Ario. Elaine era acquattata contro la Jeep e si abbracciava come se fosse lei a soffrire. Mentre Maura avvicinava la slitta, Douglas la guardò con aria profondamente sollevata. «Hai portato qualcosa per legarlo alla slitta?» domandò. «Ho trovato una corda e del nastro adesivo.» Mise la slitta accanto ad Ario i cui singhiozzi si erano trasformati in piagnucolii. «Tu prendilo per i fianchi», affermò Douglas. «Io sposto le spalle.» «Prima dobbiamo bloccare la gamba. Per questo ho portato i bastoni da sci.» «Maura», disse piano lui. «Non è rimasto niente da immobilizzare.» «Deve restare rigida. Non possiamo lasciare che sbatta di qua e di là per tutta la discesa.» Douglas fissò l'arto mutilato di Ario, ma riuscì a muoversi. Non voleva toccarlo, pensò Maura. E nemmeno lei. Erano tutti e due medici, patologi abituati a incidere tronchi e ad aprire crani con la sega. Ma la carne viva era diversa. Era calda, sanguinava e trasmetteva il dolore. Al solo contatto della sua mano con la gamba, Ario riprese a urlare. «Fermatevi! Per favore, non fatelo! Non fatelo!»
Mentre Douglas teneva fermo l'amico che si agitava, Maura isolò la gamba con alcune coperte piegate ricoprendo le ossa spezzate, i legamenti lacerati e la carne esposta che al freddo stava già diventando purpurea. Imbozzolato l'arto, vi fissò i due bastoni da sci. Quando ebbe finito di bloccarlo, Ario emetteva solo sommessi singhiozzi con il volto segnato da strisce luccicanti di bava e di muco. Non oppose resistenza quando lo spostarono di lato sulla slitta e lo legarono con il nastro. Dopo l'atroce sofferenza che gli avevano inflitto, era impallidito fino ad assumere il colorito giallo cereo tipico di uno shock imminente. Douglas afferrò la corda e si avviarono tutti di nuovo verso la valle. Verso Verrà il Regno.
10 Quando lo portarono in casa, Ario aveva di nuovo perso i sensi. Era una benedizione considerato ciò che dovevano fare. Con il coltellino tascabile e le forbici, Maura e Douglas tagliarono ciò che restava dei suoi abiti. Aveva perso il controllo della vescica e sentirono il puzzo d'ammoniaca dell'urina che gli aveva impregnato i pantaloni. Lasciando solo il laccio emostatico, tolsero i pezzi sbrindellati e insanguinati di tessuto finché rimase nudo con i genitali penosamente in vista. Era uno spettacolo inadatto per una ragazzina tredicenne e Douglas si girò verso, la figlia. «Grace, ci serve molta più legna per il fuoco. Esci e vai a prenderne un po'.» Le sue brusche parole la scossero. Annuì stordita e abbandonò la casa facendo entrare una folata fredda mentre la porta si richiudeva alle sue spalle. «Gesù», mormorò Douglas rivolgendo tutta l'attenzione alla gamba sinistra di Ario. «Da dove iniziamo?» Da dove iniziamo? Restava così poco su cui lavorare, solo cartilagini contorte e muscoli lacerati. La caviglia era stata ruotata di quasi centottanta gradi, ma il piede era assurdamente integro, pur di un blu senza vita. Sembrava di plastica se non, fosse stato per la spessa e fin troppo reale callosità sul tallone. Sta andando, pensò Maura. Nell'arto, nel tessuto stesso la circolazione era assente a causa del laccio emostatico. Non aveva bisogno di toccare il piede per sapere che era freddo e privo di battito. «Perderà la gamba», affermò Douglas facendo eco ai suoi pensieri. «Dobbiamo allentare il laccio.» «Non riprenderà a sanguinare?» domandò Elaine. Era rimasta in fondo alla stanza con lo sguardo rivolto altrove. «Lui vorrebbe che gli salvassimo la gamba, Elaine.» «Se togliete il laccio emostatico, come impedirete che sanguini?» «Dovremo legare l'arteria.» «Cosa significa?» «Isolare il vaso lacerato e chiuderlo. Interromperà in parte il flusso sanguigno all'arto inferiore ma avrà sempre una circolazione alternativa sufficiente a tenere in vita i tessuti.» Fissò la gamba riflettendo. «Ci serviranno strumenti. Una sutura. Ci sarà un cestino per il cucito in questa casa. Un paio di pinzette, un coltello affilato. Elaine, metti a bollire dell'acqua.» «Douglas», disse Maura.
«Probabilmente ha più vasi lacerati. Anche se ne leghiamo uno, potrebbe sanguinare dagli altri. Non possiamo esporli e legarli tutti. Non senza anestesia.» «Allora possiamo anche amputare subito. E' questo che vuoi indurci a fare? A rinunciare?» «Almeno sarebbe vivo.» «E senza gamba. Non è quello che vorrei se fossi in lui.» «Tu non sei in lui. Non puoi prendere questa decisione per lui.» «Neanche tu, Maura.» Lei guardò Ario e valutò la prospettiva di incidere la gamba. Di scavare in una carne ancora viva e sensibile. Non era un chirurgo. Dai soggetti che finivano sul suo tavolo non zampillava sangue quando tagliava. Non si levavano grida. Questa faccenda potrebbe trasformarsi in un maledettissimo pasticcio. «Senti, abbiamo due possibilità», proseguì Douglas. «O cerchiamo di salvare la gamba o la lasciamo com'è, e andrà in necrosi e in cancrena. Il che potrebbe ucciderlo comunque. Non vedo alternative. Dobbiamo fare qualcosa.» «Per prima cosa non nuocere. Non credi che si applichi al caso?» «Credo che rimpiangeremo la scelta di non intervenire. E' nostra responsabilità fare almeno un tentativo di salvare la gamba.» Guardarono entrambi Ario mentre respirava in modo irregolare e gemeva. Ti prego non ti svegliare, pensò lei. Non costringerci a tagliarti mentre urli. Invece gli occhi di Ario si aprirono lentamente; anche se aveva lo sguardo annebbiato per la confusione, era chiaramente cosciente e cercava di mettere a fuoco il suo viso. «Preferirei... preferirei essere morto», sussurrò, «oh, Dio, non posso sopportarlo.» «Ario», disse Douglas. «Ehi amico, ti daremo qualcosa per il dolore, d'accordo? Vediamo cosa riusciamo a trovare.» «Vi prego», mormorò lui. «Vi prego, uccidetemi.» Ora piagnucolava e le lacrime gli sgorgavano dagli occhi mentre tutto il suo corpo tremava con tale violenza che Maura pensò avesse le convulsioni. Il suo sguardo tuttavia rimase fisso su di loro, supplicante. Gli gettò una coperta sul corpo nudo. Adesso il fuoco ardeva intenso nel caminetto, ravvivato da un nuovo carico di legna, e all'aumentare del calore il puzzo di urina si fece più forte. «Ho l'Advil in borsa», disse a Douglas. «L'ho lasciata nella Jeep.» «L'Advil? Non farà un bel niente.»
«Io ho del Valium», gemette Ario. «Nello zaino...» «Anche quello è nella Jeep.» Douglas si alzò. «Ritorno su a prendere le nostre cose.» «Io frugo nelle case», affermò Maura. «Ci sarà qualcosa in questa valle che possiamo usare.» «Vengo con te, Douglas», esclamò Elaine. «No. Devi stare qui con lui», replicò lui. Con riluttanza lei abbassò lo sguardo su Ario. Era chiaramente l'ultimo posto in cui voleva essere, intrappolata lì con un uomo singhiozzante. «E fa' bollire dell'acqua», aggiunse Douglas mentre si avviava verso la porta. «Ci servirà.» Fuori il vento sferzò il viso di Maura gettandole addosso sbuffi pungenti di neve, ma fu contenta di essere all'esterno e di respirare aria fresca che non puzzasse di sangue e di urina. Mentre si dirigeva verso la casa accanto, udì dei passi scricchiolare alle sue spalle, si girò e vide che Grace l'aveva seguita. «Posso aiutarti a cercare», disse. Maura la fissò per un istante pensando che probabilmente sarebbe stata più d'impiccio. Ma in quel momento la ragazza sembrava perduta, solo una bambina spaventata che avevano ignorato fin troppo a lungo. Assentì. «Potresti essere di grande aiuto, Grace. Vieni con me.» Salirono i gradini del portico ed entrarono in casa. «Che tipo di medicine stiamo cercando?» domandò mentre si dirigevano su per le scale al primo piano. «Qualsiasi. Non perdere tempo a leggere le etichette. Prendi tutto.» Maura entrò in una stanza da letto e prese due federe. Ne gettò una a Grace. «Tu cerca nei cassettoni e nei comodini. Guarda in qualsiasi posto possano esserci delle pillole.» In bagno passò in rassegna il contenuto dell'armadietto dei medicinali buttandone alcuni nella federa. Lasciò le vitamine, ma prese tutto il resto. Lassativi. Aspirina. Perossido di idrogeno. Qualsiasi cosa potesse risultare utile. Sentiva Grace nella stanza accanto che apriva e chiudeva cassetti. Passarono alla casa seguente con le federe che tintinnavano, piene di flaconi. Maura fu la prima a varcare la porta d'ingresso e a entrare in una casa in cui il silenzio incombeva greve come l'oscurità. Non era entrata prima in quell'abitazione e si fermò a osservare il soggiorno. L'ennesima copia dell'ormai familiare ritratto appeso al muro. «Di nuovo quell'uomo», disse Grace. «Sì. Non riusciamo a liberarcene.» Maura fece qualche passo nella stanza e si bloccò di colpo. «Grace», disse con calma. «Che c'è?» «Porta le pillole a Elaine. Ario ne ha bisogno.»
«Non abbiamo ancora guardato in questa casa.» «Lo farò io. Tu torna indietro, d'accordo?» Le porse la sua federa di flaconi e la spinse con gentilezza verso la porta. «Per favore, ora va'.» «Ma...» «Va'.» Solo dopo che la ragazza ebbe lasciato la casa attraversò la stanza. Fissò ciò che Grace non aveva visto. La prima cosa che aveva notato era una gabbia per uccelli con il canarino morto sul fondo, un minuscolo mucchietto giallo sul giornale che lo ricopriva. Si girò e si concentrò sul pavimento, sulla cosa che l'aveva indotta a bloccarsi: una scia marrone sulle assi di pino. Seguendo quei segni di trascinamento, arrivò in corridoio e giunse infine alle scale. Lì si fermò a fissare una pozza congelata di sangue. Mentre sollevava lo sguardo verso il primo piano, si immaginò un corpo che rotolava da quei ripidi gradini, sentì quasi lo schianto del cranio mentre rimbalzava su di essi e si fracassava sul pavimento accanto ai suoi piedi. Qui qualcuno è caduto, pensò. O era stato spinto. Quando tornò nella loro casa, Douglas era già ricomparso con le cose prese dalla Jeep. Aprì la cerniera dello zaino di Ario e ammucchiò il contenuto sul tavolino. Maura vide alcune compresse contro il raffreddore e uno spray nasale, una lozione solare e uno stick di burro-cacao, più un'intera serie di articoli da toilette degna di un drugstore. Tutto ciò che serviva a un uomo per tenersi in ordine, niente che lo avrebbe aiutato a tenersi in vita. Solo quando Douglas aprì la tasca laterale dello zaino, trovò il flacone delle pillole. «Valium, cinque milligrammi. Contro gli spasmi del dorso, a seconda delle necessità», lesse. «Lo aiuterà a sopportare.» «Douglas», disse piano Maura. «In una delle case ho trovato...» S'interruppe quando Grace ed Elaine entrarono nella stanza. «Hai trovato cosa?» le domandò lui. «Te lo dico dopo.» Douglas dispose tutte le medicine che avevano raccattato. «Tetraciclina. Amoxicillina.» Scosse la testa. «Se la gamba si infetta, avrà bisogno di antibiotici migliori di questi.» «Almeno abbiamo trovato un po' di Percocet», osservò Maura aprendo la boccetta. «Ma ne restano solo una decina di pillole. Abbiamo altro?» «Ho sempre un po' di codeina nella mia...» disse Elaine e si fermò guardando accigliata ciò che Douglas aveva riportato dalla Jeep. «Dov'è la
mia borsa?» «Ne ho trovata solo una.» Douglas la indicò. «Quella è di Maura. Dov'è la mia?» «Elaine, è tutto quello che ho visto nella Jeep.» «Allora ti è sfuggita. Lì c'è la codeina.» «Tornerò dopo a cercarla, va bene?» Si inginocchiò accanto ad Ario. «Ti darò alcune pillole, amico.» «Stordiscimi», piagnucolò lui. «Non posso sopportare questo dolore.» «Questo dovrebbe aiutare.» Douglas gli sollevò con delicatezza la testa, gli infilò due Valium e due Percocet in bocca e gli diede una sorsata di whisky. «Ecco. Per prima cosa aspetteremo un po' che le medicine agiscano.» «Per prima cosa?» Ario tossì per il whisky e nuove lacrime gli sgorgarono dagli occhi. «Cosa intendi?» «Dobbiamo intervenire sulla gamba.» «No. No, non toccatela.» «La circolazione è bloccata dal laccio emostatico. Se non lo allentiamo, la gamba morirà.» «Cosa farete?» «Legheremo l'arteria lacerata e controlleremo in quel modo l'emorragia. Credo tu abbia l'arteria tibiale posteriore, o quella anteriore, danneggiata. Se una delle due è ancora integra, potrebbe essere sufficiente a rifornire la gamba di sangue. E a tenerla in vita.» «Questo significa che dovrete scavare lì dentro.» «Dobbiamo isolare qualsiasi arteria sanguini.» Ario scosse la testa. «Assolutamente no.» «Se è la tibiale anteriore, dobbiamo solo infilarci tra qualche muscolo poco al di sotto del ginocchio.» «Scordatelo. Non toccatemi.» «Sto pensando a cosa è meglio per te. Sentirai un po' di dolore ma alla fine sarai contento che io...» «Un po'? Un po'?» Ario scoppiò in una risata roca, disperata. «Stai lontano da me, cazzo!» «Ascolta, so che fa male, ma...» «Tu non sai un accidente, Douglas.» «Ario.» «Sta' lontano! Elaine, per amor di Dio, fallo stare lontano.» Douglas si alzò. «Ti lasciamo riposare, va bene? Grace, sta' qui con lui.» Guardò Maura ed Elaine. «Andiamo nell'altra stanza.»
Si riunirono in cucina. Elaine aveva messo a scaldare una pentola d'acqua sulla cucina a legna e ora stava sobbollendo, pronta a sterilizzare gli strumenti. Dalla finestra appannata per il vapore Maura vedeva che il sole stava già calando all'orizzonte. «Non puoi costringerlo a subire tutto questo», osservò. «E' per il suo bene.» «Chirurgia senza anestesia? Pensaci, Douglas.» «Diamo al Valium un po' di tempo perché agisca. Lo calmerà.» «Ma non sarà in stato di incoscienza. Sentirà sempre l'incisione.» «Dopo ci ringrazierà. Fidati.» Douglas si voltò verso Elaine. «Tu sei d'accordo con me, vero? Non possiamo rinunciare così a salvargli la gamba.» Lei esitò, palesemente in conflitto tra due alternative terribili. «Non lo so...» «Legare l'arteria è l'unico modo che abbiamo per togliere il laccio emostatico. L'unico modo per ripristinare in parte il flusso sanguigno.» «Pensi davvero di riuscirci?» «E' una procedura semplice. Io e Maura conosciamo l'anatomia.» «Ma si muoverà», osservò Maura. «Potrebbe esserci una perdita di sangue ancora più grande. Io non sono d'accordo, Douglas.» «L'alternativa è sacrificare la gamba.» «Penso che la gamba sia già una causa persa.» «Be', io no.» Douglas si girò di nuovo verso Elaine. «Dobbiamo metterlo ai voti. Cerchiamo di salvargli la gamba o no?» Elaine fece un respiro e annuì. «Suppongo di essere con te.» Ovviamente. Ario aveva ragione. Prende sempre le parti di Douglas. «Maura?» domandò lui. «Sai cosa penso.» Lui guardò dalla finestra. «Non abbiamo molto tempo. La luce del giorno se ne sta andando e non so se riusciremo a vedere abbastanza con la lampada a cherosene.» Guardò Maura. «Io ed Elaine votiamo entrambi per andare avanti.» «Hai dimenticato un voto. C'è Ario e lui ha detto in modo piuttosto chiaro ciò che vuole.» «In questo momento non ha le capacità per prendere nessuna decisione.» «E' la sua gamba.» «E noi possiamo salvarla! Ma ho bisogno del tuo aiuto, Maura. Non posso farlo senza di te.» «Papà?» Grace era sulla porta della cucina. «Non sembra stia tanto bene.»
«Cosa intendi?» «Non parla più. E russa molto forte.» Douglas assentì. I farmaci devono aver fatto effetto. «Mettiamo a bollire un po' di strumenti. E ci serviranno anche aghi. Un rocchetto di filo.» Guardò Maura. «Stai con me o no?» Non conta ciò che dico, pensò lei. Lo farà comunque. «Vedo cosa riesco a trovare», rispose. Impiegarono un'ora a recuperare e sterilizzare tutti gli oggetti che erano riusciti a trovare. A quel punto la finestra lasciava entrare solo una pallida luce pomeridiana. Accesero la lampada a cherosene e alla luce della sua fiamma sibilante gli occhi di Ario apparvero sprofondati nell'ombra, come se i tessuti molli stessero collassando, se il suo corpo si stesse consumando. Douglas scostò la coperta spargendo l'odore acre della stuoia impregnata d'urina. La gamba era pallida come uno stinco freddo in una macelleria. Per quanto grattassero, non sarebbero mai riusciti a rimuovere tutti i batteri dalle loro mani, tuttavia Douglas e Maura ci provarono lo stesso, insaponandosi e sciacquandosi fino a irritarsi la pelle. Solo allora Douglas prese la lama. Era uno sbucciatore, il più fine che erano riusciti a trovare, e prima di sterilizzarlo lo avevano affilato. Mentre si inginocchiava accanto alla gamba, gli balenò negli occhi il primo sussulto d'incertezza. Guardò Maura. «Pronta ad allentare il laccio emostatico?» chiese. «Non avete ancora legato l'arteria», osservò Elaine. «Dobbiamo individuare quale arteria sia. E l'unico modo è vedere da dove sanguini. Devi tenerlo fermo, Elaine. Perché si sveglierà.» Lanciò un'occhiata a Maura e annuì. Lei allentò appena il laccio e uno zampillo di sangue sgorgò dalla ferita imbrattando la guancia di Douglas. «E' la tibiale anteriore», affermò lui. «Ne sono sicuro.» «Stringi la cintura!» disse Elaine in preda al panico. «Sanguina troppo!» Maura strinse di nuovo il laccio e guardò Douglas. Lui fece un respiro e iniziò a tagliare. Alla prima incisione Ario si risvegliò di scatto urlando. «Tenetelo! Tenetelo fermo!» gridò Douglas. Ario continuò a urlare e a respingerli, con i tendini del collo tanto tesi che parevano sul punto di spezzarsi. Elaine lo spinse di nuovo a terra per le spalle, ma non riuscì a impedirgli di agitare le braccia e di sferrare calci ai suoi aguzzini. Maura cercò di bloccargli le cosce, ma il sangue e il sudore avevano reso scivolosa la pelle, perciò si buttò di peso sui suoi fianchi. L'urlo di Ario divenne tanto acuto da
penetrarle nelle ossa, tanto lacerante che ebbe la sensazione che provenisse dal suo stesso corpo, come se anche lei stesse gridando. Douglas disse qualcosa, ma con quell'urlo non lo sentì. Solo quando alzò lo sguardo vide che aveva posato il coltello. Aveva un'aria sfinita e il volto lucido di sudore anche in quella stanza fredda. «Fatto», disse. Indietreggiando con il busto si pulì la fronte con la manica. «Forse ce l'ho fatta.» Ario emise un gemito angosciato. «Fottiti Douglas. Fottetevi tutti quanti.» «Ario, dovevamo farlo», spiegò lui. «Maura, allenta il laccio emostatico. Vediamo se siamo riusciti a controllare l'emorragia.» Maura allentò lentamente la cintura aspettandosi quasi di veder scaturire un altro zampillo di sangue. Ma non ci fu nessun gocciolio, neanche un lento stillicidio. Douglas toccò il piede di Ario. «La pelle è ancora fredda, ma credo inizierà a riprendere un colore roseo.» Lei scosse la testa. «Non vedo segni di perfusione.» «No, guarda. Sta indubbiamente cambiando colore.» Premette la mano sulla carne. «Credo si stia scaldando.» Maura guardò accigliata la pelle che sembrava pallida e morta come prima, ma non disse nulla. Ciò che pensava non aveva importanza; Douglas era convinto che l'operazione fosse riuscita, che avevano fatto proprio ciò che dovevano. Che tutto sarebbe andato bene. Nel mondo di Douglas tutto finiva sempre bene. Perciò fai il temerario, buttati dagli aerei, lascia che l'universo si prenda cura di te. Almeno ora il laccio emostatico non c'era più. Almeno non sanguinava più. Si alzò con il puzzo acre del sudore di Ario sugli abiti. Sfinito dall'ardua prova, questi ora era calmo e stava di nuovo sprofondando nel sonno. Massaggiandosi il collo dolente, Maura andò alla finestra e guardò fuori sollevata all'idea di poter rivolgere l'attenzione a qualcos'altro, a qualsiasi cosa che non fosse il loro paziente. «Tra un'ora farà buio», disse. «Non possiamo andarcene ora.» «Non con la Jeep», convenne Douglas. «Non con quella catena rotta.» Lo sentiva frugare tra i flaconi delle pillole. «Abbiamo abbastanza Percocet da tenerlo tranquillo per almeno un altro giorno. Inoltre Elaine dice di avere la codeina in borsa, se solo riesco a trovarla.» Maura diede le spalle alla finestra. Apparivano tutti esausti come lei. Elaine si era accasciata contro il divano.
Douglas fissava indifferente la sfilza di flaconi. E Grace... Grace era da tempo scappata via dalla stanza. «Va portato in ospedale», affermò Maura. «Hai detto che ti aspettano a Boston stasera», disse Elaine. «Ti cercheranno.» «Il problema è che non sanno dove.» «C'è quel vecchio della stazione di servizio. Quello che ti ha venduto il giornale. Si ricorderà di noi. Quando saprà che sei scomparsa, chiamerà la polizia. Alla fine qualcuno verrà qui.» Maura guardò Ario che si era di nuovo addormentato. Ma non abbastanza presto per lui.
11 «Cosa volevi mostrarmi?» chiese Douglas. «Vieni con me», gli sussurrò Maura. Fermandosi sulla porta, lanciò un'occhiata nella stanza dove gli altri si erano addormentati. Era il momento giusto per sgattaiolare via. Prese la lampada a cherosene e uscì nella notte. Era sorta la luna piena e il cielo era inondato di stelle. Non ebbe bisogno della lampada per vedere il cammino; la neve stessa sembrava luminescente sotto gli scarponi. Il vento era svanito e l'unico rumore era quello dei loro passi che scricchiolavano sulla crosta ghiacciata che ricopriva la neve come una meringa. Fece strada lungo la fila di case silenziose. «Mi vuoi spiegare?» domandò lui. «Non volevo parlarne di fronte a Grace, ma ho trovato qualcosa.» «Cosa?» «E' in questa casa.» Maura si fermò davanti al portico e alzò lo sguardo verso le finestre nere che non riflettevano la luce delle stelle né della luna, come se il buio all'interno inghiottisse anche il più flebile barlume. Risalì i gradini e spinse la porta. La lampada gettò una pallida chiazza di luce attorno a loro mentre attraversavano il soggiorno. Al di là di quella chiazza, oltre la circonferenza buia, se ne stavano in agguato le sagome scure dei mobili e un baluginio riflesso dall'immagine incorniciata. L'uomo bruno li fissava dal ritratto con due occhi quasi vivi nelle tenebre. «Questa è la prima cosa che ho notato», spiegò Maura indicando la gabbia dell'uccellino nell'angolo. Douglas si avvicinò e scrutò dentro la gabbia, il canarino steso sul fondo. «Un altro animale domestico morto.» «Come il cane.» «Chi lascia morire di fame un canarino?» «Quell'uccellino non è morto di fame», disse Maura. «Cosa?» «Guarda, ci sono molti semi.» Avvicinò la lampada alla gabbia e gli mostrò che la mangiatoia era piena di semi per uccelli e che nel dispenser dell'acqua si era formato il ghiaccio. «Anche in questa casa hanno lasciato le finestre aperte», aggiunse. «È morto congelato.» «C'è dell'altro.» Maura proseguì in corridoio e indicò la striscia sulle assi di pino, come se qualcuno vi avesse passato un pennello. Nella fioca luce la macchia sembrava più nera che marrone. Douglas fissò la traccia di trascinamento e non cercò di spiegarla. Non disse
nulla. La seguì in silenzio a mano a mano che si allargava, fino alla scala. Lì si fermò e fissò la pozza secca di sangue ai suoi piedi. Maura alzò la lampada e la luce rivelò alcune chiazze scure sui gradini. «Gli schizzi iniziano circa a metà», disse. «Qualcuno è caduto da quelle scale picchiando sui gradini. Ed è atterrato qui.» Abbassò la lampada illuminando la pozza secca ai suoi piedi. Qualcosa luccicava nel sangue, un filo argenteo che prima, quel pomeriggio, le era sfuggito. Si accovacciò e notò che era un lungo capello biondo, in parte intrappolato nel sangue secco. Una donna. Una donna che era rimasta stesa lì mentre il cuore continuava a pompare almeno per alcuni minuti. Per un tempo sufficiente affinché dal corpo fuoriuscisse un lago di sangue. «Un incidente?» suggerì Douglas. «O un omicidio.» Nella debole luce vide la sua bocca torcersi in un mezzo sorriso. «Sta parlando il medico legale. Quello che vedo qui non è per forza una scena del crimine. E' solo sangue.» «Parecchio sangue.» «Ma non c'è un corpo. Non c'è niente che in un modo o nell'altro ci dica come sia andata.» «Quello che mi preoccupa è la mancanza del corpo.» «Io mi preoccuperei molto di più della sua presenza.» «Dov'è? Chi lo ha preso?» «La famiglia? Forse l'hanno portata in ospedale. Questo spiegherebbe il canarino dimenticato.» «Avrebbero trasportato una donna ferita, Douglas. Non l'avrebbero trascinata sul pavimento come una carcassa. Ma se stavano cercando di liberarsi di un corpo...» Douglas seguì con lo sguardo i segni di trascinamento finché svanirono nell'ombra del corridoio. «Non sono mai tornati a pulire il sangue.» «Forse avevano intenzione di farlo», disse Maura. «Forse non sono riusciti a tornare nella valle.» Lui la guardò. «La tempesta di neve glielo ha impedito.» Lei assentì. La fiamma della lampada tremolò, come se fosse stata investita da un alito spettrale. «Ario aveva ragione. In questo villaggio è accaduto qualcosa di terribile, Douglas. Qualcosa che ha lasciato macchie di sangue, animali domestici morti e case vuote.» Guardò il pavimento. «E prove. Prove che raccontano una storia. Noi continuiamo a sperare che qualcuno torni qui e ci trovi.» Lo guardò.
«Ma se non venissero a salvarci?» Douglas si scrollò come se cercasse di scuotersi da un incantesimo. «Stiamo parlando di un'intera comunità scomparsa, Maura», replicò. «Di dodici case, di dodici famiglie. Se fosse successo qualcosa a così tante persone, non ci sarebbe modo di nasconderlo.» «In questa valle sì. Potresti nascondere molte cose.» Maura guardò le ombre che li circondavano, pensò a quello che poteva nascondersi oltre la luce della lampada e si strinse di più la giacca. «Non possiamo restare in questo posto.» «Sei tu quella che pensava che dovessimo aspettare di essere salvati. Lo hai detto stamattina.» «Da stamattina le cose sono precipitate.» «Sto cercando di tirare tutti fuori di qui. Sto facendo del mio meglio.» «Non ho detto il contrario.» «Ma è quello che pensi, vero? Che sia soltanto colpa mia. Questo è quello che pensate tutti.» Emise un forte sospiro e si girò. «Te lo prometto, troverò un modo per portare tutti fuori di qui.» «Non ti sto incolpando.» Lui scosse la testa nel buio. «Invece dovresti.» «È andato tutto storto, erano cose che nessuno poteva prevedere.» «Ora siamo in trappola e Ario perderà probabilmente la gamba. Se non peggio.» Le dava ancora le spalle, come se non potesse sopportare il suo sguardo. «Mi spiace di averti convinta a venire. Non è sicuramente il viaggio che speravo, non con te. Soprattutto non con te.» Si voltò a guardarla e la luce della lampada rese ancor più profonda ogni concavità del suo volto. Non era lo stesso uomo che le aveva ammiccato al ristorante, che le aveva spiegato tanto disinvoltamente di aver fiducia nell'universo. «Oggi ho avuto bisogno di te, Maura», disse. «Sarà forse egoistico da parte mia, ma per il mio bene e per quello di Ario sono contento che tu sia qui.» Lei riuscì ad abbozzare un sorriso. «Non posso dire di condividere il sentimento.» «No, sono più che certo che in questo momento preferiresti essere da qualsiasi altra parte. Per esempio su quell'aereo diretto a casa.» Da Daniel. Il suo volo era probabilmente atterrato e lui ormai sapeva che non lo aveva preso. Era fuori di sé? O pensava fosse il suo modo di punirlo per tutte le volte che le aveva spezzato il cuore? Mi conosci bene. Se mi ami, dovresti sapere che sono nei
guai. Lasciarono il corridoio sporco di sangue, tornarono nella stanza anteriore buia e uscirono fuori, in un paesaggio illuminato dalla luna e dalle stelle. Videro la luce del fuoco brillare nella casa dove gli altri ora dormivano. «Sono stanco di dovermi sempre assumere la responsabilità delle decisioni», disse Douglas fissando la finestra. «Stanco di dover sempre indicare la strada. Ma loro se lo aspettano. Quando le cose non vanno bene, Ario frigna ma non si fa mai avanti per assumere il comando. Preferisce starsene da parte e lamentarsi.» «Ed Elaine?» «Hai visto com'è. Sempre: Decidi tu, Douglas.» «Questo perché è innamorata di te.» Lui scosse la testa. «Non me ne sono mai accorto. Siamo solo amici.» «Non c'è mai stato niente di più?» «Non da parte mia.» «Lei prova sentimenti diversi. E Ario lo sa.» «Non l'ho mai incoraggiata, Maura, non gli farei mai una cosa simile.» Si voltò verso di lei e i suoi tratti risaltarono più nitidi, più duri alla luce della lampada. «Sei tu quella che volevo.» Si allungò per toccarle il braccio. Fu poco più di un lieve contatto del guanto sulla manica, un tacito invito con cui le diceva che la mossa successiva spettava a lei. Maura si scostò togliendosi di proposito dalla sua portata. «Dobbiamo tornare da Ario.» «Allora tra noi non c'è niente, giusto?» «Non c'è mai stato.» «Perché hai accettato l'invito? Perché sei venuta con noi?» «Mi hai colta in un momento molto particolare, Douglas. Un momento in cui avevo bisogno di fare qualcosa di pazzo, di impulsivo.» Soffocò le lacrime che avevano già reso indistinta la luce della lampada trasformandola in un alone dorato. «E' stato un errore.» «Quindi non riguardava per nulla me.» «Riguardava un'altra persona.» «L'uomo di cui mi hai parlato a cena. L'uomo che non puoi avere.» «Sì.» «Quella situazione non è cambiata, Maura.» «Ma io sì», rispose lei e si allontanò. Quando entrò, scoprì che tutti dormivano ancora e che il fuoco era diminuito riducendosi a un mucchio di tizzoni incandescenti. Vi aggiunse un
ciocco e rimase davanti al caminetto mentre le fiamme riprendevano vita sibilando e crepitando. Sentì Douglas entrare dietro di lei e chiudere la porta, e l'improvvisa folata di aria fresca fece tremolare le fiamme. Ario aprì gli occhi e mormorò: «Acqua. Acqua, per favore». «Certo, amico», rispose Douglas. Si inginocchiò e gli tenne la testa mentre gli avvicinava la tazza alle labbra. Ario ne bevve avidamente alcune sorsate rovesciandosene metà sul mento. Appagato, crollò di nuovo sul cuscino. «Cos'altro ti posso portare? Hai fame?» chiese Douglas. «Freddo. Fa tanto freddo.» Douglas prese una coperta dal divano e lo coprì con delicatezza. «Aumenteremo il fuoco. Starai meglio.» «Ho fatto dei sogni», mormorò Ario. «Sogni così strani. Qui dentro c'erano tutte quelle persone che mi guardavano. Se ne stavano in piedi a osservare. In attesa di qualcosa.» «I narcotici causano brutti sogni.» «Non sono brutti a dire il vero. Solo strani. Forse sono angeli. Angeli con abiti bizzarri come l'uomo di quell'immagine.» Girò gli occhi infossati verso Maura, ma non sembrò guardarla. Era concentrato su un punto al di là della sua spalla, come se una presenza stesse in agguato proprio dietro di lei. «O forse sono fantasmi», bisbigliò. Chi sta guardando? Maura si girò e fissò l'aria vuota, tranne per il ritratto dell'uomo con gli occhi color pece che ricambiò il suo sguardo. Lo stesso ritratto era appeso in ogni casa di Verrà il Regno. Il suo volto brillava per la luce riflessa del fuoco, come se dentro di lui ardesse una fiamma sacra. «E riunirà i giusti», disse Ario citando la targa sulla cornice del ritratto. «Se fosse vero?» «Cosa?» chiese Douglas. «Forse è là che sono andati. Li ha riuniti e guidati.» «Via dalla valle, intendi?» «No, in cielo.» La legna scoppiettò nel caminetto facendoli trasalire come uno sparo. Maura pensò a un quadretto ricamato a punto croce che aveva visto appeso in una delle stanze da letto, preparati per l'eternità. «E' strano, non credete, che qui non funzioni alcuna autoradio?» proseguì Ario. «Solo scariche statiche. Non ci sono stazioni. E non abbiamo campo sui cellulari. Niente.» «Siamo in mezzo al nulla», affermò Douglas. «E siamo in una valle. È normale che non ci sia campo.» «Sei sicuro chi sia solo questo?»
«Cos'altro dovrebbe essere?» «E se qualcosa di davvero brutto fosse successo là fuori nel mondo? Bloccati qui, non lo sapremmo.» «Cosa per esempio? Una guerra nucleare?» «Douglas, non è venuto nessuno a cercarci. Secondo te non è strano?» «Non si sono ancora accorti della nostra scomparsa.» «O forse è perché là fuori non è rimasto nessuno. Se ne sono andati tutti.» Gli occhi infossati di Ario osservarono lentamente la stanza in cui le ombre tremolavano. «Penso di sapere chi fossero quelle persone, Douglas. Le persone che vivevano qui. Penso di aver visto i loro fantasmi. Aspettavano la fine del mondo. L'Estasi. Forse è arrivata e noi ancora non lo sappiamo.» Douglas scoppiò a ridere. «Fidati, Ario. L'Estasi non è quello che è capitato a questa gente.» «Papà?» domandò sommessamente Grace dall'angolo. Si mise a sedere e si strinse la coperta attorno a sé. «Di cosa parla?» «Le pillole lo hanno stordito, nient'altro.» «Cos'è l'Estasi?» Douglas e Maura si guardarono, e lui sospirò. «E' solo una superstizione, tesoro. La folle convinzione che il mondo come lo conosciamo sia destinato a finire con l'Armageddon. Quando ciò accade, i prescelti da Dio vengono portati dritti in cielo.» «Cosa succede a tutti gli altri?» «Tutti gli altri restano intrappolati sulla terra.» «E vengono sterminati», sussurrò Ario. «Tutti i peccatori lasciati indietro vengono sterminati.» «Cosa?» Grace guardò il padre con occhi spaventati. «Tesoro, sono sciocchezze. Lascia perdere.» «Ma alcune persone ci credono veramente? Credono che arriverà la fine del mondo?» «Alcune persone credono anche nei rapimenti da parte degli alieni. Usa la testa, Grace! Secondo te è davvero possibile che le persone vengano trasportate in cielo per magia?» La finestra vibrò come se qualcosa artigliasse il vetro per cercare di entrare. Una corrente d'aria gemette nel camino muovendo le fiamme e gettando uno sbuffo di fumo nella stanza. Grace si strinse le ginocchia avvicinandole al petto. Fissò le ombre tremolanti e mormorò: «Allora dov'è andata tutta questa gente?»
12 La bambina era undici chili di no! niente letto! niente dormire! No, no, no! Jane e Gabriel erano crollati sul divano con lo sguardo appannato a osservare la figlia, Regina, che girava all'infinito su se stessa come un derviscio pigmeo. «Quanto potrà restare sveglia?» domandò Jane. «Più di noi.» «Magari le verrà la nausea e vomiterà.» «Magari», rispose Gabriel. «Qui qualcuno deve prendere il controllo.» «Sì.» «Qualcuno deve fare il genitore.» «Sono perfettamente d'accordo.» Guardò Jane. «Cosa?» «Tocca a te fare il poliziotto cattivo.» «Perché a me?» «Perché sei bravissima a farlo. Inoltre, io l'ho messa a letto le ultime tre volte. A me semplicemente non dà ascolto.» «Perché ha capito che Mr FBI è un emerito pappa-molla.» Lui guardò l'orologio. «Jane, è mezzanotte.» La bambina prese a girare ancora più rapida. Quando avevo la sua età, ero così sfiancante? si chiese Jane. Quello doveva significare il termine giustizia poetica. Un giorno avrai una figlia proprio come te, soleva lamentarsi la madre. Ed eccola lì. Con un gemito Jane si tirò su dal divano e il poliziotto cattivo finalmente entrò in azione. «È ora di andare a letto, Regina», disse. «No.» «Sì, invece.» «No!» Il diavoletto sgambettò via con i riccioli neri che le rimbalzavano sulla testa. Jane la bloccò in cucina e la prese in braccio. Era come cercare di tenere un pesce che si dibatteva: lottava con ogni muscolo e ogni fibra del corpo. «No letto! No letto!.» «Sì letto», ribatté Jane portando la figlia verso la sua cameretta mentre questa agitava braccia e gambe. L'adagiò sul lettino, spense la luce e chiuse la porta. Il che ebbe l'unico effetto di rendere le urla più laceranti. Non erano gemiti di sofferenza ma di pura furia. In quell'istante squillò il telefono. Oh accidenti, sono i vicini, chiamano di
nuovo per protestare. «Di' che darle il Valium non è un'alternativa!» esclamò mentre Gabriel andava in cucina a rispondere. «Siamo noi quelli che hanno bisogno del Valium», rispose, poi sollevò il ricevitore. «Pronto?» Troppo stanca per stare in piedi, Jane si accasciò contro la porta della cucina immaginandosi la diatriba che sarebbe scaturita al ricevitore. Dovevano essere i Windsor Miller, i due trentenni che erano arrivati nel palazzo soltanto un mese prima. Avevano già chiamato almeno una decina di volte per protestare. Vostra figlia ci tiene svegli tutta la notte. Abbiamo tutti e due un lavoro impegnativo, sa. Non riesce a controllarla? I Windsor Miller non avevano figli, perciò non riuscivano a capire che una bambina di diciotto mesi non poteva essere accesa e spenta come un televisore. Una volta Jane aveva dato un'occhiata al loro appartamento, ed era immacolato. Divano bianco, moquette bianca, pareti bianche. L'appartamento di una coppia che inorridiva al pensiero di due manine appiccicose sui suoi preziosi mobili. «E' per te», disse Gabriel porgendole il ricevitore. «I vicini?» «Daniel Brophy.» Lei guardò l'orologio della cucina. Chiamava a mezzanotte? Doveva esserci qualcosa che non andava. Prese il telefono. «Daniel?» «Lei non era sull'aereo.» «Cosa?» «Vengo dall'aeroporto. Maura non era sul volo che aveva prenotato. E non mi ha mai chiamato. Non so cosa...» Tacque e Jane sentì un clacson. «Dov'è?» chiese. «Sto entrando nel Sumner Tunnel proprio ora. Tra poco la perderò.» «Perché non viene qui?» fece Jane. «Intende subito?» «Io e Gabriel siamo svegli. Dovremmo parlarne. Pronto? Pronto?» Il tunnel aveva interrotto la comunicazione. Riagganciò e guardò il marito. «Mi sa che abbiamo un problema.» Mezz'ora dopo padre Daniel Brophy arrivò. A quel punto Regina aveva esaurito le lacrime e si era addormentata; l'appartamento era tranquillo quando entrò. Jane aveva visto quell'uomo nelle circostanze più logoranti, su scene del crimine in cui i parenti disperati lo cercavano per avere un po' di conforto. Aveva sempre trasmesso un'immagine di forza pacata e con un semplice gesto o poche parole dolci riusciva a calmare anche i più sconvolti. Quella sera era lui ad apparire sconvolto. Si tolse il cappotto nero e Jane notò che non indossava il colletto clericale ma un maglione blu e una
camicia Oxford. Abiti civili che lo facevano sembrare più vulnerabile. «Non è mai arrivata», disse. «Ho aspettato all'aeroporto per quasi due ore. Il suo volo è atterrato e tutti i bagagli sono stati ritirati. Ma lei non c'era.» «Forse non vi siete visti», suggerì Jane. «Magari è scesa dall'aereo e non è riuscita a trovarla.» «Mi avrebbe telefonato.» «Ha provato a chiamarla?» «Più volte. Nessuna risposta. Non sono riuscito a raggiungerla per tutto il week-end. Non dopo che ho parlato con lei.» E io ho sminuito le sue ansie, pensò Jane sentendo una fitta di senso di colpa. «Faccio un po' di caffè», disse. «Ci servirà.» Si sedettero in soggiorno, Jane e Gabriel sul divano, Brophy in poltrona. Il caldo dell'appartamento non aveva conferito neanche un po' di colore alle sue guance; era ancora giallognolo e teneva le mani chiuse a pugno sulle ginocchia. «Allora la sua ultima conversazione con Maura non è stata propriamente allegra», affermò Jane. «No. Io... io ho dovuto interromperla bruscamente», ammise Brophy. «Perché?» Il suo volto si tese ancor di più. «Dobbiamo parlare di Maura, non di me.» «Stiamo parlando di lei. Sto cercando di capire il suo stato d'animo. Crede si sia sentita offesa quando ha interrotto la telefonata?» Lui abbassò lo sguardo. «E' probabile.» «L'ha richiamata?» domandò Gabriel con il suo tono da attieniti solo ai fatti. «Non quella sera. Era tardi. Non ho cercato di chiamarla fino a sabato.» «E non ha risposto.» «No.» «Forse è solo seccata con lei», osservò Jane. «Sa, è stata dura per Maura in quest'ultimo anno. Dover nascondere quello che c'è tra voi.» «Jane», la interruppe Gabriel. «Questo non aiuta.» Brophy sospirò. «Però me lo merito», disse piano. Certo. Hai infranto i tuoi voti e adesso fai lo stesso con il suo cuore. «Secondo lei lo stato d'animo di Maura può spiegare tutto questo?» domandò Gabriel di nuovo con il suo tono distaccato da rappresentante delle forze dell'ordine. Dei tre era l'unico che sembrava affrontare il problema in modo logico. Jane lo aveva visto reagire esattamente nello stesso modo in altre situazioni di tensione, aveva osservato il marito diventare sempre più calmo e concentrato mentre tutto e tutti attorno a lui cedevano. Dategli in mano
una crisi e Gabriel Dean poteva trasformarsi in un attimo da padre sfinito in quell'uomo del Bureau che talvolta si scordava di essere. Stava studiando Brophy con occhi da cui non traspariva nulla, ma che coglievano ogni cosa. «Era sconvolta al punto da fare qualcosa di avventato?» chiese Gabriel. «Da farsi del male? O peggio?» Brophy scosse la testa. «Non Maura.» «Le persone fanno cose incredibili sotto stress.» «Lei no. Suvvia, Gabriel. La conosce. La conoscete entrambi.» Brophy guardò Jane, poi di nuovo Gabriel. «Pensate davvero che sia così immatura? Che scomparirebbe solo per punirmi?» «Ha già compiuto atti imprevedibili», affermò Jane. «Si è innamorata di lei.» Lui arrossì e finalmente le sue guance assunsero un po' di colore. «Ma non si comporterebbe da irresponsabile. Scomparire così.» «Scomparire? O solo stare lontana da lei?» «Aveva prenotato un posto su quel volo. Mi ha chiesto di andarla a prendere all'aeroporto. Quando Maura dice che fa una cosa, la fa. E se non ci riesce, chiama. Per quanto possa essere infuriata con me, non si comporterebbe mai diversamente. Lei lo sa, Jane. Lo sappiamo entrambi.» «Ma se fosse davvero sconvolta?» insistette Gabriel. «La gente fa cose terribili.» Jane lo guardò accigliata. «Di cosa stai parlando? Di suicidio?» Gabriel guardò fisso Brophy. «Cos'è successo esattamente tra voi negli ultimi tempi?» Brophy abbassò la testa. «Penso che ci siamo resi conto tutti e due che... qualcosa debba cambiare.» «Le ha detto che aveva intenzione di chiudere?» «No.» Brophy alzò lo sguardo. «Lei sa che l'amo.» Ma questo non basta, pensò Jane. Non basta per costruire una vita. «Non si farebbe del male.» Brophy si raddrizzò in poltrona e il suo volto si indurì assumendo un'aria di certezza. «Non si metterebbe a fare giochini. C'è qualcosa che non va e non posso credere che non la prendiate seriamente.» «Lo stiamo facendo», replicò calmo Gabriel. «Perciò le poniamo queste domande, Daniel. Perché sono le stesse domande che la polizia le porrà nel Wyoming. A proposito del suo stato d'animo. Dell'eventualità che abbia scelto di scomparire. Voglio solo essere sicuro che lei conosca le risposte.» «In che albergo alloggiava?» domandò Jane. «Al Mountain Lodge di Teton Village. Li ho già chiamati e hanno detto che lo ha lasciato sabato mattina. Un giorno prima.» «Sanno dove sia andata?» «No.»
«Potrebbe essere rientrata prima? Forse è già tornata a Boston.» «L'ho chiamata a casa. Ci sono persino passato davanti. Là non c'è.» «Sa qualcos'altro a proposito dei suoi programmi di viaggio?» chiese Gabriel. «Ho i numeri dei suoi voli. So che ha noleggiato un'auto a Jackson. Aveva intenzione di fare un giro in zona dopo il congresso.» «Con quale agenzia?» «La Hertz.» «Sa se abbia parlato con qualcuno a parte lei? Con i colleghi dell'ufficio, per esempio? Con la segretaria?» «Ho chiamato Louise sabato e neanche lei ha sentito niente. Non ho indagato oltre perché presumevo...» guardò Jane. «Pensavo sarebbe intervenuta.» C'era una nota d'accusa nella sua voce, ma era anche giusto così. Jane si sentì arrossire in preda al senso di colpa. Lui le aveva telefonato e lei aveva gettato la spugna perché la sua mente era altrove, su un corpo messo in un freezer. Su una bambina ribelle. Non aveva creduto che fosse davvero successo qualcosa, aveva ritenuto si trattasse di un litigio tra innamorati seguito dalla terapia del silenzio. Sono cose che accadevano di continuo, no? Inoltre c'era il fatto che Maura aveva lasciato l'albergo un giorno prima. Non sembrava un rapimento, ma un cambiamento volontario di programma. Tuttavia Jane non poteva sentirsi assolta per quell'unica chiamata sul cellulare di Maura. Ora erano passati quasi due giorni, le quarantotto ore auree, quella finestra di opportunità in cui hai maggiori probabilità di trovare una persona scomparsa e identificare un criminale. Gabriel si alzò. «È ora di fare qualche telefonata», disse e andò in cucina. Lei e Brophy rimasero in silenzio ad ascoltarlo parlare nell'altra stanza. Usava la sua voce da FBI, come amava chiamarla Jane, quel tono pacato e autoritario che adottava per le questioni ufficiali. Udendolo in quel momento, trovò difficile credere che quella voce appartenesse allo stesso uomo che era stato sconfitto con tanta facilità da una bambina cocciuta. Dovrei essere io a telefonare, pensò. Sono io la poliziotta che non si è interessata. Sapeva però che il solo fatto di sentire quelle lettere, FBI, avrebbe messo sull'attenti chiunque si trovasse all'altro capo del telefono. Quando hai un marito nell'FBI, puoi anche approfittarne. «... donna, età quarantadue anni. Capelli neri, altezza poco meno di uno e settanta, peso circa cinquantacinque chili...» «Perché lasciare l'albergo il giorno prima?» chiese con voce sommessa Brophy. Sedeva rigido in poltrona e fissava dritto davanti a sé. «È quello che non ho ancora capito, perché lo abbia fatto. Dove andava, in
un'altra città, in un altro albergo? Perché cambiare programma all'improvviso?» Forse ha incontrato qualcuno. Un uomo. Jane non voleva dirlo, ma fu il primo pensiero che le era venuto in mente, il primo che sarebbe venuto in mente a qualsiasi poliziotto. Una donna sola in un viaggio di lavoro. Una donna che era stata appena delusa dall'amante. Arriva uno sconosciuto affascinante che le propone un giro fuori città. Lasci perdere il vecchio programma e ti godi una piccola avventura. Forse ha avuto un'avventura con l'uomo sbagliato. Gabriel tornò in soggiorno con il telefono. «Ci richiamerà subito.» «Chi?» domandò Brophy. «Il detective di Jackson. Ha detto che nel week-end non ci sono state vittime di incidenti stradali e non gli risulta ci siano pazienti non identificati ricoverati in ospedale.» «E per quanto riguarda...» Brophy s'interruppe. «Neanche corpi.» Lui deglutì e si accasciò di nuovo in poltrona. «Almeno sappiamo questo. Non è in qualche ospedale.» O all'obitorio. Era un'immagine che Jane cercava di scacciare, eppure era lì: Maura stesa su un tavolo come tanti altri corpi che aveva visto. Chiunque fosse entrato in una sala autopsie e avesse assistito a un esame necroscopico, si era di certo immaginato la scena da incubo di un conoscente o di un proprio caro steso su quel tavolo. E non c'era dubbio che ora quella stessa immagine tormentasse Daniel Brophy. Jane preparò dell'altro caffè. Nel Wyoming erano le undici di sera. Il telefono restò sinistramente muto mentre fissavano l'orologio. «Non si sa mai, Maura potrebbe sorprenderci.» Jane rise, nervosa per la troppa caffeina e il troppo zucchero. «Domani potrebbe presentarsi al lavoro perfettamente puntuale, spiegandoci che ha perso il cellulare o qualcosa del genere.» Era una teoria che non stava in piedi e nessuno dei due uomini si curò di risponderle. Lo squillo del telefono li fece scattare tutti sull'attenti. Gabriel prese il ricevitore. Non disse molto, né dal suo volto si capiva che informazioni stesse ricevendo. Quando riagganciò e guardò Jane, lei capì tuttavia che le notizie non erano buone. «Non ha mai restituito l'auto a noleggio.» «Hanno controllato alla Hertz?» Gabriel assentì. «L'ha presa martedì all'aeroporto e doveva restituirla stamattina.»
«Quindi manca anche l'auto.» «Esatto.» Jane non guardò Brophy; non voleva vedere la sua faccia. «Con questo è deciso», affermò Gabriel. «C'è solo una cosa da fare.» Jane assentì. «Chiamo mia mamma domani mattina. Sono sicura che sarà contenta di badare a Regina. Possiamo lasciargliela mentre andiamo in aeroporto.» «Andate a Jackson?» domandò Brophy. «Se riusciamo a trovare due posti su un volo domani mattina», rispose Jane. «Tre», replicò Brophy. «Vengo anch'io.»
13 Maura si svegliò al rumore dei denti di Ario che battevano. Aprì gli occhi, vide che era ancora buio, ma percepì che l'alba era vicina, che il nero della notte stava appena iniziando a tramutarsi in grigio. Alla luce del caminetto contò i corpi addormentati: Grace raggomitolata sul divano, Douglas ed Elaine che dormivano vicini, quasi a contatto. Quasi sempre a contatto. Immaginava chi fosse migrato verso chi nella notte. Era così ovvio, ora che se ne era resa conto: dal modo in cui Elaine lo guardava, dal modo in cui lo toccava tanto spesso, dallo zelo con cui assentiva a tutte le sue proposte. Ario era steso solo accanto al caminetto con la coperta avvolta addosso come un sudario. Batteva i denti mentre un nuovo gelo gli attanagliava il corpo. Maura si alzò con la schiena indolenzita a causa del pavimento e mise altra legna nel caminetto. Ci si accovacciò vicino e si scaldò mentre il fuoco riprendeva vita scoppiettando, fulgido e intenso. Si girò e guardò Ario, il cui volto ora era illuminato dalle fiamme. Aveva i capelli unti e rigidi per il sudore. La pelle aveva assunto il colorito giallognolo dei cadaveri. Se non fosse stato per i denti che battevano, avrebbe pensato che fosse già morto. «Ario», mormorò. A poco a poco lui sollevò le palpebre. Il suo sguardo sembrava provenire da un abisso scuro e profondo, come se fosse precipitato al di là di ogni possibilità di salvezza. «Così... freddo», mormorò. «Ho attizzato di nuovo il fuoco. Tra poco farà più caldo.» Gli toccò la fronte. Il calore della pelle era sorprendente, tanto che credette di essersi scottata la mano. Andò subito al tavolino, dove avevano disposto tutti i medicinali in fila e si sforzò di leggere le etichette al buio. Trovò i flaconi dell'amoxicillina e del Tylenol e si versò qualche compressa in mano. «Ecco. Prendi queste.» «Cos'è?» grugnì Ario mentre gli sollevava la testa per aiutarlo a inghiottire le pillole. «Hai la febbre. Per questo tremi. Queste dovrebbero farti star meglio.» Lui le inghiottì e si accasciò di nuovo per terra, scosso da un altro brivido tanto violento che Maura pensò avesse le convulsioni. Aveva tuttavia gli occhi aperti e lo sguardo vigile. Gli cedette la sua coperta stendendo un ulteriore strato di lana sul suo corpo. Sapeva che avrebbe dovuto controllare le condizioni della gamba, ma la stanza era ancora troppo buia e non voleva accendere la lampada a cherosene, non quando tutti gli altri dormivano. Già la finestra si era rischiarata. Nel giro di un'ora o poco più sarebbe arrivata
l'alba e avrebbe potuto esaminare l'arto. Sapeva già tuttavia cosa avrebbe trovato. La febbre significava che la gamba era quasi certamente infetta e che i batteri avevano invaso il flusso sanguigno. Sapeva anche che l'amoxicillina non era un antibiotico abbastanza forte da salvarlo. Ne avevano ancora solo venti compresse, in ogni caso. Lanciò un'occhiata a Douglas, tentata di svegliarlo per dividere il fardello con lui, ma era ancora profondamente addormentato. Perciò rimase sola seduta accanto ad Ario a tenergli la mano, ad accarezzargli il braccio sopra la coperta. Anche se aveva la fronte calda, la mano era inquietantemente gelida, più simile a carne morta che viva. E io so bene come sia la carne morta. Fin da quando era studentessa di medicina la sala autoptica, non il capezzale dei pazienti, era stata il luogo in cui si sentiva più a suo agio. I morti non si aspettano che chiacchieri o ascolti le loro interminabili lamentele o che li guardi mentre si contorcono per il dolore. I morti sono oltre il dolore, non si aspettano che tu compia miracoli di cui sei incapace. Attendono pazienti senza protestare per tutto il tempo che ti serve per terminare il lavoro. Guardando il viso sconvolto di Ario pensò: non sono i morti che mi mettono a disagio ma i vivi. Eppure rimase al suo fianco tenendogli la mano mentre sorgeva l'alba e i suoi brividi a poco a poco diminuivano. Adesso respirava meglio e alcune gocce di sudore gli luccicavano sulla faccia. «Credi nei fantasmi?» le domandò con voce sommessa osservandola con gli occhi lucidi per la febbre. «Perché me lo chiedi?» «Per il tuo lavoro. Se mai qualcuno ha visto un fantasma, quel qualcuno sei tu.» Lei scosse la testa. «Non ne ho mai visto uno.» «Allora non ci credi.» «No.» Fissò al di là di lei, focalizzandosi su qualcosa che Maura non poteva vedere. «Ma sono qui, in questa stanza. Ci osservano.» Lei gli toccò la fronte. La pelle era già più fredda al tatto, la febbre stava calando. Però era chiaramente delirante e muoveva gli occhi nella stanza come se seguisse il movimento di spettri che fluttuassero attorno a loro. Ora c'era abbastanza luce per poter guardare la gamba. Ario non protestò mentre sollevava la coperta. Era nudo dalla vita in giù, il pene raggrinzito e quasi scomparso nel viluppo di peli pubici castani. Nella notte si era orinato addosso e gli asciugamani che gli avevano messo sotto erano tutti zuppi. Maura levò strati e strati di bende dalla ferita e l'ansito le uscì dalla gola prima che potesse soffocarlo. Aveva esaminato la ferita solo sei ore prima alla luce della lampada a cherosene. Ora, nel bagliore implacabile del giorno che si faceva via via più chiaro, vide i bordi anneriti
della pelle, i tessuti gonfi. E sentì una zaffata maleodorante di carne in putrefazione. «Dimmi la verità», supplicò Ario. «Voglio saperla. Morirò?» Lei si sforzò di trovare parole rassicuranti, una risposta a cui non credeva veramente. Prima che potesse dire una parola una mano le si posò all'improvviso sulla spalla e lei si girò sorpresa. «Ovviamente non morirai», rispose Douglas in piedi alle sue spalle. «Perché non te lo permetterò, Ario. Per quanti dannati problemi tu mi dia.» Ario riuscì ad abbozzare un flebile sorriso. «Sei sempre stato un ballista, amico», mormorò e chiuse gli occhi. Douglas si inginocchiò e fissò la gamba. Non ebbe bisogno di dirlo; Maura gli lesse in faccia la stessa cosa che stava pensando lei. La gamba sta marcendo davanti ai nostri occhi. «Andiamo nell'altra stanza», disse. Entrarono in cucina, fuori dalla portata d'udito degli altri. L'alba aveva lasciato il posto a una mattina di una luminosità accecante e la luce che si riversava dalla finestra cancellava i tratti di Douglas facendo risaltare ogni pelo grigio della barba incolta. «Stamane gli ho dato l'amoxicillina», disse Maura. «Per quel che gli può fare.» «Quello che gli serve è un intervento chirurgico.» «Sono d'accordo. Vuoi essere tu quello che gli taglia la gamba?» «Gesù.» Douglas prese a camminare su e giù in cucina, tutto agitato. «Legare un'arteria è una cosa. Ma effettuare un'amputazione...» «Anche se potessimo effettuarla, non basterebbe. E' già in sepsi. Ha bisogno di dosi massicce di antibiotici per endovena.» Douglas si girò verso la finestra e socchiuse gli occhi al riflesso intenso del sole sulla neve ricoperta da una crosta di ghiaccio. «Ho otto ore piene, forse nove di luce. Se parto ora, potrei arrivare ai piedi della montagna quando fa buio.» «Con gli sci?» «A meno che tu non abbia un'idea migliore.» Maura pensò ad Ario che sudava e tremava nell'altra stanza mentre la gamba gonfia e la ferita si putrefacevano a poco a poco. Pensò ai batteri che pullulavano nel sangue e invadevano ogni organo. E pensò a un cadavere che una volta aveva sezionato, di una donna morta di shock settico: ricordava le emorragie a chiazze nella pelle, nel cuore, nei polmoni. Lo shock causava deficit di più apparati bloccando cuore, reni e cervello. Ario mostrava già segni di delirio. Vedeva persone che non esistevano, fantasmi che aleggiavano sopra di lui. Ma almeno produceva ancora urina; fintantoché i reni non avessero ceduto, aveva una possibilità di sopravvivere.
«Ti preparo un po' di cibo», disse Maura. «E avrai bisogno di un sacco a pelo, in caso non ce la facessi prima del buio.» «Arriverò il più lontano possibile entro sera», affermò Douglas. Lanciò un'occhiata verso la stanza dove Ario stava morendo. «Purtroppo devo lasciarlo nelle tue mani.» Grace non voleva che il padre andasse. Si aggrappò alla sua giacca mentre questi era fuori sul portico, lo supplicò di non abbandonarli, gli ricordò frignando che era suo padre, e come poteva lasciarla lì comportandosi nello stesso modo della madre? Che razza di padre lo avrebbe fatto? «Ario sta veramente male, tesoro», spiegò Douglas staccandole le mani dalla manica. «Se non vado a chiedere aiuto, potrebbe morire.» «Se te ne vai, sono io l'unica che morirà!» replicò. «Non sei sola. Elaine e Maura si prenderanno cura di te.» «Perché devi andare tu? Perché non può andare lei?» Grace indicò Maura con un gesto tanto aggressivo che parve d'accusa. «Smettila, Grace. Piantala.» Afferrò la figlia per le spalle e le diede un violento scossone. «Io sono il più forte. Ho maggiori probabilità di farcela. E Ario è mio amico.» «Ma tu sei mio padre», ribatté lei. «Devi crescere. Devi renderti conto che non sei al centro dell'universo.» Si mise lo zaino in spalla. «Ne parleremo quando tornerò. Adesso dammi un bacio, d'accordo?» Grace indietreggiò. «Non c'è da stupirsi che la mamma ti abbia lasciato», disse ed entrò in casa sbattendo la porta. Douglas rimase stordito a fissare incredulo la porta chiusa. Quello sfogo tuttavia non avrebbe dovuto stupirlo. Maura aveva visto con che smania Grace rivaleggiava per ottenere l'attenzione del padre e con che arte usasse il senso di colpa come arma per controllarlo. Ora Douglas sembrava sul punto di seguire la figlia in casa, il che era proprio ciò che lei voleva e che senza dubbio si aspettava. «Non ti preoccupare per Grace», disse Maura. «Ti prometto che mi occuperò di lei. Starà perfettamente bene.» «Con te al comando so che sarà così.» La strinse in un abbraccio d'addio. «Mi dispiace, Maura», sussurrò. «Mi dispiace per tutto quello che è andato storto.» Si scostò e la guardò. «Quando eravamo alla Stanford, mi ritenevi di sicuro un incapace. Suppongo
di non aver fatto molto per indurti a cambiare idea.» «Tiraci fuori di qui, Douglas, e rivedrò la mia opinione.» «Ci puoi contare.» Douglas strinse la cinghia pettorale dello zaino. «Mantieniti forte, dottoressa Isles. Ti prometto che tornerò con la cavalleria.» Lei lo guardò dal portico mentre si avviava su per la strada. La giornata si era già fatta più calda, c'erano pochi gradi sotto lo zero e in cielo non si vedeva neanche una nuvola. Se doveva tentare la traversata, quello era il giorno giusto. La porta si aprì all'improvviso ed Elaine si precipitò fuori. Aveva già salutato Douglas qualche istante prima, ma eccola lì di nuovo, correva per raggiungerlo come se da ciò dipendesse la sua vita. Maura non potè udire la loro conversazione, ma vide Elaine togliersi la sciarpa di cachemire che portava sempre e avvolgerla con delicatezza attorno al collo di Douglas come dono di addio. Si abbracciarono in una stretta che sembrò durare per sempre. Poi Douglas si incamminò risalendo la strada che usciva dalla valle. Solo quando superò la curva e scomparve dietro gli alberi Elaine si voltò verso la casa. Risalì i gradini del portico dirigendosi verso il punto in cui si trovava Maura, ma non disse una parola, le passò semplicemente accanto, ed entrò chiudendo la porta.
14 Prima ancora che il detective Queenan si presentasse, Jane lo aveva inquadrato come poliziotto. Era accanto a una Toyota coperto di neve nel parcheggio del Mountain Lodge e conversava con un uomo e una donna. Mentre Jane e il suo gruppetto scendevano dall'auto a noleggio e si avvicinavano alla Toyota, fu Queenan a voltarsi a guardarli. Li scrutò con lo sguardo vigile tipico di un uomo il cui lavoro era osservare. Da ogni altro punto di vista sembrava un individuo comune: aveva un principio di calvizie, era in sovrappeso e i baffi già un po' screziati di grigio. «Lei è il detective Queenan?» chiese Gabriel. L'uomo annuì. «Lei deve essere l'agente Dean.» «E io sono il detective Rizzoli», affermò Jane. Queenan la guardò accigliato. «Dipartimento di polizia di Boston?» «Omicidi», rispose lei. «Omicidi? Voi ragazzi non state correndo un po' troppo? Non sappiamo se sia stato commesso un crimine.» «La dottoressa Isles è una nostra amica», spiegò Jane. «E' una professionista affidabile e non sparirebbe per capriccio. Siamo tutti preoccupati per lei.» Queenan si voltò a guardare Brophy. «Anche lei è del Dipartimento di polizia di Boston?» «No, signore», rispose lui. «Sono un sacerdote.» Al che Queenan scoppiò in una risata sorpresa. «Un agente dell'FBI, una poliziotta e un prete. Questa sì che è una squadra che non ho mai visto prima.» «Cosa avete finora?» domandò Jane. «Be', questa», rispose lui e indicò la Toyota parcheggiata là dove si trovavano le due persone che assistevano alla conversazione. L'uomo si chiamava Finch e lavorava come addetto alla security del lodge. La donna era impiegata all'agenzia di noleggio Hertz. «Questa Toyota è parcheggiata qui da venerdì sera», spiegò Finch. «Non è stata spostata.» «I video della sorveglianza gliel'hanno confermato?» domandò Jane. «Uh, no, signora. Le telecamere non coprono questo parcheggio.» «Allora come sa che è qui da così tanto?» «Guardi la neve accumulata sopra. Abbiamo avuto una grossa bufera sabato, con più di mezzo metro di neve, che è più o meno quello che vedo su questa macchina.» «E' l'auto di Maura?»
«Il contratto di noleggio del veicolo è stato emesso a una certa dottoressa Maura Isles. La prenotazione è stata effettuata online tre settimane fa e lei lo ha ritirato martedì scorso. Ha pagato con una carta American-Express. Doveva essere riconsegnato ieri mattina al nostro parcheggio dell'aeroporto», rispose l'impiegata della Hertz. «Non ha chiamato per prolungare il noleggio?» domandò Gabriel. «No, signore.» La donna estrasse un portachiavi dalla tasca e guardò Queenan. «Questa è la chiave che voleva, detective.» Queenan si infilò un paio di guanti di lattice e aprì la portiera anteriore del passeggero. Si chinò cauto all'interno e aprì il cruscotto dove trovò il contratto di noleggio. «Maura Isles», confermò scorrendo i documenti. Guardò il contachilometri. «Sembra che abbia fatto circa centocinquanta chilometri. Non molto per un noleggio di sei giorni.» «Era qui per un congresso medico», spiegò Jane. «E si era fermata in questo albergo. Probabilmente non ha avuto molte occasioni di andare in giro.» Jane guardò dal finestrino, attenta a non toccare il vetro. A parte un usa Today piegato sul sedile anteriore del passeggero, l'interno sembrava immacolato. Ovviamente. Maura era maniaca dell'ordine e Jane non aveva mai notato più di un Kleenex nella sua Lexus. «Che data ha il giornale?» domandò. Queenan lo aprì. «E' di martedì scorso.» «Il giorno dell'arrivo», affermò Brophy. «Deve averlo preso in aeroporto.» Queenan si raddrizzò. «Diamo un'occhiata nel bagagliaio», disse. Si portò sul retro, scostò la neve e premette il pulsante di apertura sul telecomando. Gli si raccolsero tutti attorno per vedere e Jane si accorse che Queenan esitò prima di abbassare la mano protetta dal guanto e aprirlo. In quel momento avevano tutti probabilmente in testa lo stesso pensiero. Una donna scomparsa. Un veicolo abbandonato. Troppe sorprese erano comparse nei bagagliai delle auto, troppi orrori raggomitolati come embrioni in grembi d'acciaio. A quelle temperature gelide non ci sarebbero stati odori in grado di allarmare chicchessia, né indizi olfattivi di ciò che si sarebbe potuto trovare all'interno. Mentre Queenan apriva il bagagliaio, Jane sentì il respiro bloccarsi in gola. Fissò nel vano. «Vuoto e pulito a specchio», affermò il detective e Jane percepì il sollievo nella sua voce. Guardò Gabriel. «Perciò abbiamo un'auto a noleggio che sembra essere in buone condizioni e niente bagagli. Ovunque sia andata la vostra amica, ha portato con sé la sua roba. A me pare si tratti di una gita programmata.»
«Allora dov'è?» chiese Jane. «Perché non risponde al cellulare?» Queenan la guardò come se fosse una fonte irritante di fastidi. «Non conosco la vostra amica. Forse voi sapete rispondere alla domanda meglio di me.» «Quando possiamo riavere il veicolo? Fa parte della nostra flotta», osservò l'impiegata della Hertz. «Dobbiamo trattenerlo per un po'», rispose il detective. «Per quanto?» «Finché non stabiliamo se sia stato effettivamente commesso un crimine. Al momento non lo so.» «Allora come spiega la sua scomparsa?» domandò Jane. Quando la guardò, nei suoi occhi guizzò di nuovo un lampo d'irritazione. «Ho detto che non ne sono sicuro. Tengo aperte tutte le possibilità, signora. Perché non proviamo a farlo tutti?» «Non posso dire di ricordare veramente quell'ospite specifica», affermò Michelle, l'addetta alla reception del Mountain Lodge. «D'altronde, la scorsa settimana avevamo duecento medici più le loro famiglie. Non posso ricordarmi di tutti.» Erano accalcati nell'ufficio del direttore, grande a malapena da contenerli tutti. Questi stava con le braccia conserte accanto alla porta e assisteva al colloquio. La sua presenza, più che le domande, sembrava innervosire Michelle che continuava a lanciare occhiate al capo, quasi temesse che disapprovasse le sue risposte. «Allora non riconosce la sua foto?» domandò Queenan picchiettando la fotografia ufficiale che Jane aveva stampato dal sito web dell'ufficio del medico legale del Massachusetts. Era il ritratto di una professionista austera. Maura guardava l'obiettivo senza sorridere, con un'espressione neutra sulle labbra, consona al lavoro che svolgeva. Quando il tuo lavoro implicava fare a fette i morti, sfoderare un ampio sorriso avrebbe destato inquietudine. Imbarazzata, Michelle studiò di nuovo la foto con cura. Era giovane, sui venticinque anni; chiunque avrebbe avuto difficoltà a concentrarsi con addosso lo sguardo di tante persone. Soprattutto quando una di queste è il tuo capo. «Le dispiacerebbe uscire, signore?» chiese Jane al direttore. «Questo è il mio ufficio.» «Ci serve in prestito solo per poco.» «Dato che la questione riguarda il mio albergo, credo debba sapere esattamente che succede.» Guardò l'impiegata. «Se la ricorda o no, Michelle?» La giovane alzò smarrita le spalle.
«Non posso esserne certa. Ci sono altre foto?» Dopo un attimo di silenzio Brophy affermò pacato: «Io ne ho una». La estrasse dalla tasca interna della giacca. Era un'immagine spontanea di Maura seduta al tavolo di cucina con un bicchiere di vino rosso davanti. Rispetto alla foto cupa dell'ufficio del medico legale, sembrava una donna completamente diversa, con il volto rosso per l'alcol e le risate. Aveva i bordi logori, tanto era stata maneggiata; era una cosa che probabilmente portava sempre con sé, che guardava nei momenti di solitudine. Momenti che per Daniel Brophy dovevano essere numerosi, segnati dal conflitto tra il dovere e il desiderio, tra Dio e Maura. «Le dice qualcosa?» domandò Queenan a Michelle. La giovane si accigliò. «È la stessa donna? Sembra così diversa in questa foto.» Più felice. Innamorata. Michelle alzò lo sguardo. «Sa, credo proprio di ricordarmela. Era qui con il marito?» «Non è sposata», rispose Jane. «Oh. Be', allora forse ho in mente la donna sbagliata.» «Ci dica della donna che ricorda.» «Era con quell'uomo. Un uomo davvero attraente con i capelli biondi.» Jane evitò di guardare Brophy; non voleva vedere la sua reazione. «Cos'altro ricorda di loro?» «Andavano a cena insieme. Ricordo che si sono fermati al banco e che lui ha chiesto indicazioni per il ristorante. Ho presunto fossero sposati.» «Perché?» «Perché lui rideva e ha detto qualcosa tipo: 'Vedi? Ho imparato a chiedere indicazioni'. Voglio dire, è una cosa che un uomo direbbe a sua moglie, giusto?» «Quando ha visto la coppia?» «Deve essere stato giovedì sera. Perché venerdì ero libera.» «E sabato, il giorno in cui ha lasciato l'albergo? Lavorava quel mattino?» «Sì, ma eravamo in molti in servizio. Il congresso terminava e tutti gli ospiti se ne andavano. Non ricordo di averla vista allora.» «Qualcuno al banco l'avrà assistita.» «A dire il vero no», intervenne il direttore. Produsse una stampata di computer. «Aveva detto che voleva il conto della sua stanza, perciò ne ho fatto una copia. Sembra abbia usato la modalità di check-out diretto sul terminale della camera. Quando se n'è andata, non doveva quindi fermarsi al banco.» Queenan prese la stampata. Sfogliando le pagine, lesse a voce alta tutte le voci. «Tasse. Ristorante. Internet. Ristorante. Qui non vedo niente di insolito.»
«Se ha effettuato il check-out dalla camera», osservò Jane, «come sappiamo che sia stata davvero lei?» Queenan non cercò nemmeno di trattenersi dallo sbuffare. «Intende dire che qualcuno sarebbe entrato nella sua stanza? Che avrebbe fatto i bagagli e il check-out per lei?» «Sottolineo solo che non abbiamo le prove che sabato mattina, il giorno in cui se ne è apparentemente andata, fosse davvero qui.» «Che genere di prove le servono?» Jane si voltò verso il direttore. «Ha una telecamera di sicurezza sopra il banco della reception. Per quanto tempo conserva le registrazioni?» «Abbiamo ancora il video della scorsa settimana. Ma parliamo di ore e ore di registrazioni. Di centinaia di persone che passano nell'atrio. Dovrebbe star qui tutta la settimana per guardarle.» «In base al conto a che ora se n'è andata?» Queenan guardò la stampata. «Alle sette e cinquantaquattro del mattino.» «Allora partiamo da lì. Se è uscita dall'albergo con le sue gambe, dovremmo essere in grado di individuarla.» Nella vita niente obnubila di più la mente che esaminare video di sorveglianza. Dopo trenta minuti soltanto Jane aveva male al collo e alle spalle per la posizione protesa, per lo sforzo di osservare tutte le persone che passavano sul monitor. Né giovava il fatto che Queenan continuasse a sospirare e a dimenarsi sulla sedia, come per chiarire a tutti nella stanza che la ritenesse un'impresa idiota. Forse lo è, pensò Jane mentre osservava le figure agitarsi sullo schermo, i gruppi riunirsi e disperdersi. Via via che l'orologio del nastro si avvicinava alle otto e decine di ospiti dell'albergo convergevano al banco della reception per lasciare le stanze, la sua attenzione veniva attirata in troppe direzioni nello stesso momento. Fu Daniel a notarla. «Eccola!» disse. Gabriel bloccò la registrazione. Jane contò almeno una ventina di persone in quell'inquadratura dell'atrio, perlopiù in piedi accanto al banco. Altre si trovavano sullo sfondo, raggruppate nei pressi delle poltrone. Due uomini parlavano al cellulare e guardavano contemporaneamente l'orologio. Benvenuti nell'era del multitasking compulsivo. «Non la vedo», osservò Queenan. «Torna indietro», affermò Daniel. «Sono sicuro fosse lei.» Gabriel tornò indietro, inquadratura dopo inquadratura. Osservarono le persone camminare all'indietro, i gruppi disgregarsi e altri crocchi formarsi. Uno degli uomini che parlava al cellulare si piegava di qua e di là, come se danzasse a un ritmo strano che gli giungeva dal ricevitore. «E' lei», disse piano Daniel.
La donna dai capelli scuri si trovava proprio ai margini dello schermo, di profilo. Non c'era da stupirsi che Jane non l'avesse vista la prima volta: Maura stava avanzando con cinque o sei persone poste tra lei e la telecamera. Solo in quell'istante, mentre passava in un varco tra la folla, l'obiettivo aveva catturato la sua immagine. «Non è un'immagine molto chiara», commentò Queenan. «So che è lei», ribadì Daniel fissando Maura palesemente afflitto. «È la sua faccia, il suo taglio di capelli. E riconosco il parka.» «Vediamo se riusciamo a trovare altre immagini», disse Gabriel. Fece avanzare la registrazione inquadratura per inquadratura. I capelli scuri di Maura riapparivano e scomparivano alla vista mentre si muoveva. Solo in corrispondenza del margine dello schermo riemerse dalla folla. Indossava un paio di pantaloni scuri e un parka bianco da sci con il cappuccio di pelo. Gabriel avanzò ancora di un'immagine e la testa di Maura uscì dallo schermo, anche se metà tronco era ancora visibile. «Be', guardate là», osservò Queenan. «Sta trainando una valigia.» Fissò Jane. «Credo che questo chiarisca la faccenda, no? Ha fatto i bagagli e se n'è andata. Non è stata trascinata a forza fuori dall'edificio. Sabato alle otto e cinque era viva e vegeta e lasciava l'albergo con le sue gambe.» Guardò l'orologio e si alzò. «Chiamatemi se scoprite qualcos'altro di rilevante.» «Non resta?» «Signora, ho mandato la sua foto a ogni quotidiano e a ogni stazione televisiva dello stato del Wyoming. Rispondiamo a tutte le chiamate che riceviamo. Il problema è che lei, o qualcuna che le assomiglia, è stata avvistata pressoché ovunque.» «Dove con precisione?» chiese Jane. «Dica un posto e lei era là. Al Dinosaur Museum di Thermopolis. Al Grubb's General Store nella contea di Sublette. A cena all'Irma Hotel a Cody. In una decina di luoghi diversi in tutto lo stato. Al momento non so che altro fare. Ora, non conosco la vostra amica scomparsa. Non so che tipo di donna sia. Ma credo abbia incontrato un uomo, forse uno di quei dottori qui. Fa la valigia, lascia l'albergo un giorno prima e decidono di andare da qualche parte insieme. Non conviene che sia la spiegazione più probabile? Che si sia imbucata in qualche stanza d'albergo con quell'uomo e che ci abbiano dato dentro al punto da scordarsi del calendario?» «Non farebbe una cosa simile», replicò Jane penosamente consapevole di avere Daniel accanto. «Non sa quante volte mi sono sentito rispondere così o con qualche variante del genere. E' un bravo marito. Non lo farebbe mai. Oppure: quella donna non lascerebbe mai i suoi figli. Il punto è che le persone ti
sorprendono. Fanno qualcosa di folle e all'improvviso ti rendi conto di non averle mai conosciute davvero. Lei stessa si sarà ritrovata ad affrontare questa situazione, detective.» Jane non potè negarlo. Se i loro ruoli fossero stati invertiti, avrebbe tenuto probabilmente lo stesso discorsetto. Sul fatto che le persone non sono veramente quelle che pensi, nemmeno le persone che ami da una vita. Pensò ai suoi genitori, il cui matrimonio dopo trentacinque anni era andato in pezzi quando il padre aveva iniziato una relazione con un'altra donna. Pensò alla sbalorditiva metamorfosi della madre, da casalinga trasandata a divorziata piena di vita che adorava gli abiti corti. No, troppo spesso le persone non sono quelle che pensi. A volte fanno cose assurde e inspiegabili. A volte si innamorano di un prete cattolico. «Il punto è che non abbiamo ancora le prove di un crimine», affermò Queenan indossando il giaccone. «Niente sangue, niente che suggerisca che qualcuno l'abbia costretta a fare alcunché.» «C'era quell'uomo. Quello che l'impiegata dell'albergo ha visto con Maura.» «E allora?» «Se Maura se n'è andata con lui, vorrei sapere chi sia. Non dovremmo almeno controllare i video di giovedì sera?» Queenan rimase in piedi corrucciato mentre valutava se togliersi di nuovo il giaccone. Alla fine sospirò. «D'accordo. Controlliamo giovedì sera. L'impiegata ha detto che sono usciti a cena, perciò possiamo far partire la registrazione all'incirca dalle cinque.» Stavolta fu facile individuare il bersaglio. Secondo Michelle la coppia si era avvicinata al banco della reception per chiedere indicazioni per il ristorante. Mandarono avanti il video fermandosi solo quando qualcuno si accostava al banco. I passanti sfrecciavano di qua e di là sullo schermo. L'orologio del nastro avanzò verso le sei e la folla aumentò via via che gli ospiti si preparavano per andare a cena, le donne adorne di collane e orecchini, gli uomini in giacca e cravatta. Alle sei e quindici un uomo biondo apparve davanti al banco. «Eccolo», disse Jane. Per un istante ci fu silenzio mentre tutti si concentravano sulla donna dai capelli scuri al suo fianco. Non c'erano dubbi sulla sua identità. Era Maura e stava sorridendo. «E' la vostra amica, no?» domandò Queenan. «Sì», rispose piano Jane. «Non mi sembra molto afflitta. Sembra una donna in procinto di andare in un bel ristorante, che ne dite?» Jane fissò l'immagine di Maura e l'uomo senza nome. Queenan ha ragione, pensò. Maura aveva un'aria felice.
Non ricordava l'ultima volta che aveva visto un simile sorriso sul volto dell'amica. Negli ultimi mesi Maura era diventata smorta e sempre più chiusa in sé, come se evitando le domande di Jane potesse anche evitare di affrontare la verità: che l'amore l'aveva resa più infelice che mai. E la ragione di quell'infelicità si trovava ora accanto a Jane e fissava il video della coppia sorridente. Una coppia davvero affascinante. L'uomo era alto e magro con i capelli biondi arruffati come un ragazzino. Anche se non era un'immagine ad alta risoluzione, Jane si figurò il luccichio dei suoi occhi e capì perché l'impiegata si fosse ricordata di lui. Chiunque fosse quell'uomo, sapeva come attirare l'attenzione di una donna. Daniel lasciò la stanza. La sua uscita improvvisa indusse Queenan a fissarlo con aria meditabonda. «E' stato per qualcosa che ho detto?» domandò. «La sta prendendo male», disse Jane. «Speravamo tutti di trovare una risposta.» «Credo che questo video possa essere la vostra risposta.» Di nuovo si alzò e fece per prendere la giacca. «Continueremo a rispondere a tutte le chiamate che arrivano. E spero che la vostra amica decida di ricomparire per conto suo.» «Voglio sapere chi è quell'uomo», affermò Jane indicando il monitor. «Un tipo interessante. Non c'è da stupirsi che la vostra amica abbia un gran sorriso sul volto.» «Se è un ospite dell'albergo», affermò Gabriel, «potremo controllare i nomi.» «La scorsa settimana eravamo pieni», disse il direttore. «Parliamo di quasi duecentoquaranta camere.» «Scartiamo le donne e concentriamoci sugli uomini che hanno prenotato una singola.» «Era un congresso medico. C'erano molti uomini che avevano prenotato una singola.» «Allora sarà meglio cominciare subito, non crede?» replicò Gabriel. «Ci servono nomi, indirizzi, numeri telefonici.» Il direttore guardò Queenan. «Non hanno bisogno di un mandato? Abbiamo un problema di privacy, detective.» Jane indicò il viso di Maura sul monitor. «Ha anche una donna scomparsa che è stata vista per l'ultima volta nel suo albergo. In compagnia di uno dei suoi ospiti.» Il direttore emise una risata incredula. «Era un gruppo di dottori! Pensa davvero che uno di loro...» «Se è stata rapita», disse Jane, «abbiamo solo poco tempo per agire.» Si avvicinò al direttore, abbastanza da farlo indietreggiare contro la porta.
Da vedere le sue pupille dilatarsi. «Non ci faccia perdere neanche un minuto.» Lo squillo del cellulare di Queenan ruppe il silenzio. «Detective Queenan», rispose. «Cosa? Dove?» Il tono della sua voce indusse tutti a voltarsi e a seguire la conversazione. Quando terminò, era cupo in volto. «Che succede?» domandò Jane paventando la risposta. «Dovete andare nella contea di Sublette. Al Circle B Guest Ranch. Non è la mia giurisdizione, perciò quando arriverete, dovrete parlare con lo sceriffo Fahey.» «Perché?» «Hanno appena trovato due corpi», disse Queenan. «Un uomo e una donna.»
15 In tutti gli anni trascorsi come detective alla Omicidi Jane Rizzoli non si era mai sentita tanto restia a recarsi su una scena del crimine. Lei e Gabriel erano seduti nell'auto a noleggio di fronte al Circle B Guest Ranch a guardare mentre l'ennesimo veicolo del Dipartimento dello sceriffo della contea di Sublette si fermava, unendosi al gruppo di auto e furgoni ufficiali parcheggiati davanti al cottage della reception. Sul viale d'accesso una donna con un microfono parlava a una telecamera del telegiornale con i capelli biondi irrimediabilmente scompigliati dal vento. Sembrava la solita calca di poliziotti e reporter che Jane era abituata a fendere in ogni scena del crimine, ma stavolta pensò a quella dura prova con orrore. Grazie a Dio abbiamo convinto Daniel a rimanere in albergo. Non è un supplizio a cui deve essere sottoposto. «Non posso credere che Maura sia venuta in un posto del genere», osservò Gabriel. Jane guardò dall'altra parte della strada, l'insegna che pubblicizzava prezzi settimanali e mensili superconvenienti! informazioni all'interno! C'era disperazione in quell'insegna, un appello da ultima spiaggia per restare in attività. No, non riusciva a credere che Maura si fosse fermata in uno di quegli chalet cadenti. Gabriel la prese per il braccio mentre attraversavano la strada ghiacciata. Sembrava stranamente calmo ed era proprio ciò di cui lei aveva bisogno in quel momento. Quello era il Gabriel che aveva conosciuto due estati prima, quando avevano lavorato insieme al loro primo caso di omicidio, un uomo la cui fredda efficienza lo faceva apparire distaccato e senza cuore. Era però solo la veste che assumeva quando la situazione si faceva cupa. Guardò il marito e la sua risolutezza le placò i nervi. Si avvicinarono a un uomo dello sceriffo che stava discutendo con una giovane donna. «Devo parlare con Fahey», insistette questa. «Ci servono più informazioni altrimenti non possiamo svolgere il nostro lavoro.» «Al momento lo sceriffo è un po' occupato, Cathy.» «Devo prendermi cura di lei. Dimmi almeno i loro nomi. Chi sono i parenti più prossimi?» «Lo saprai quando anche noi lo sapremo.» «La coppia è di Plain of Angels, giusto?» L'agente la guardò accigliato. «Come fai a saperlo?» «Tengo d'occhio quelle persone. Cerco di sapere quando arrivano in città.» «Forse dovresti pensare agli affari tuoi tanto per cambiare e lasciare in pace
quella gente.» Lei sbuffò. «Forse dovresti cercare di fare il tuo lavoro, Bobby. Fingi almeno di ascoltare le mie proteste.» «Vattene ora.» «Di' allo sceriffo Fahey che lo chiamerò.» La donna emise uno sbuffo tanto violento che la condensa le avvolse il viso mentre si girava. Si bloccò sorpresa di trovare Jane e Gabriel proprio alle sue spalle. «Spero che con quelli abbiate più fortuna», bofonchiò e si avviò a lunghi passi lungo il vialetto. «Era una reporter?» domandò Gabriel con l'atteggiamento comprensivo di un collega. «No, un'assistente sociale della contea. Quei cuori teneri sono una vera seccatura.» L'agente squadrò Gabriel dall'alto in basso. «Posso aiutarla, signore?» «Lo sceriffo Fahey ci aspetta. Il detective Queenan ha chiamato per avvisarlo del nostro arrivo.» «Siete quelli di Boston?» «Sì, signore. L'agente Dean e il detective Rizzoli.» Gabriel infuse la giusta dose di rispetto a sottolineare che sapeva di chi fosse la giurisdizione in cui si trovavano. E chi fosse il responsabile. L'agente, che non aveva più di venticinque anni, era abbastanza giovane da sentirsi lusingato dal suo approccio. «Venga con me, signore. Signora.» Lo seguirono nella reception del Circle B. Dentro, un fuoco crepitava nel caminetto e le travi basse di pino del soffitto rendevano lo spazio claustrofobico come una grotta buia. Il vento freddo aveva intorpidito la faccia di Jane che si mise davanti al fuoco; a poco a poco il calore le ridonò la sensibilità alle guance. La stanza sembrava una capsula del tempo degli anni Sessanta, le pareti adorne di fruste, speroni e dipinti di cowboy dai colori spenti. Udì alcune voci parlare nel retro, due uomini, pensò, finché non si affacciò sulla soglia e vide che una era una donna bionda con la pelle segnata dalle intemperie e una tosse secca da fumatrice. «...non ho mai visto la moglie», dichiarò. «E' lui che ha fatto il check-in» «Perché non ha chiesto un documento di identità?» «Ha pagato in contanti e firmato. Qui non siamo in Russia, sa. Da quel che mi risulta, in questo paese la gente è libera di andare e venire. Inoltre sembravano brave persone.» «Da cosa?» «Erano educati e rispettosi. Sono arrivati sabato durante la bufera e hanno detto che avevano bisogno di un posto dove fermarsi in attesa che
spazzassero le strade. Mi è sembrata una cosa logica.» «Sceriffo?» esclamò l'agente. «Sono arrivati i signori di Boston.» Fahey fece loro un gesto al di là della porta. «Aspettate un attimo», disse e continuò la conversazione con la direttrice. «Si sono registrati due giorni fa, Marge. Quando è stata l'ultima volta che hai pulito il loro chalet?» «Non ne ho mai avuto l'occasione. Sabato e domenica avevano appeso alla maniglia il cartello non disturbare. Ho immaginato che volessero un po' di privacy perciò li ho lasciati in pace. Stamattina ho notato che il cartello non c'era più. Perciò verso le due sono entrata nella stanza per pulirla. È stato allora che li ho trovati.» «Quindi l'ultima volta che hai visto quell'uomo vivo è stata quando si è registrato?» «Non possono essere morti da allora. Hanno tolto il cartello non disturbare dalla porta, no? Oppure lo ha fatto qualcun altro.» «Va bene.» Fahey sospirò e si chiuse la cerniera della giacca. «Arriveranno quelli del DIC per dare una mano, quindi verranno a parlare anche con te.» «Sì?» La donna ebbe un colpo di tosse. «Allora forse avranno bisogno di stanze per la notte. Ho camere libere.» Fahey uscì dall'ufficio e fece un cenno ai nuovi arrivati. Era un uomo robusto sulla cinquantina e come l'agente più giovane esibiva un taglio corto alla militare. Il suo sguardo duro ignorò Jane e si posò invece su Gabriel. «Siete stati voi a segnalare la scomparsa di quella donna?» «Speriamo non sia lei», rispose Gabriel. «E' scomparsa sabato, giusto?» «Sì, da Teton Village.» «Be', la tempistica corrisponde. Queste persone sono arrivate sabato. Perché non venite con me?» Li condusse per un sentiero battuto nella neve, oltre altri chalet bui e chiaramente liberi. Fatta eccezione per la reception, c'era solo un altro edificio con le luci accese e si trovava in fondo alla proprietà. Quando raggiunsero lo chalet numero otto, lo sceriffo si fermò per dar loro guanti di lattice e soprascarpe di carta, capi d'obbligo su ogni scena del crimine. «Prima che entriate devo avvertirvi», disse Fahey. «Non sarà piacevole.» «Non lo è mai», osservò Gabriel. «Quello che intendo è che sarà difficile identificarli.» «Sono sfigurati?» Gabriel lo chiese con tanta calma che lo sceriffo lo guardò
corrucciato. «Sì, si potrebbe dire così», rispose infine e aprì la porta. Dalla soglia Jane guardò nello chalet numero otto. Anche dalla porta vedeva il sangue, chiazze inquietanti disposte ad arco sul muro. Entrò senza dire una parola e quando vide il letto sfatto capì la fonte di tutto quel sangue. Il corpo accanto al letto era supino sul pavimento di pino grezzo. Aveva un principio di calvizie e almeno una ventina di chili di troppo, indossava pantaloni neri, camicia bianca e calzini di cotone bianco. Ma fu la faccia, o meglio la sua mancanza, ad attirare lo sguardo inorridito di Jane. Era stata cancellata. «Un'aggressione scatenata da pura rabbia. Se volete saperlo, a questo vi trovate di fronte», affermò un uomo dai capelli argentei appena emerso dal bagno. Indossava abiti civili e pareva scosso dagli orrori che lo circondavano. «Altrimenti perché prendere a martellate il volto di qualcuno? Fracassargli ogni osso, ogni dente? Adesso è una poltiglia. Cartilagine, cute, ossa, tutto ridotto a una pappa insanguinata a forza di colpi.» Con un sospiro sollevò un guanto sporco di sangue in segno di saluto. «Sono il dottor Draper.» «Il medico legale?» domandò Gabriel. Lui scosse la testa. «No, signore, solo il coroner della contea. Non abbiamo un medico legale nello stato del Wyoming. Un patologo forense arriverà dal Colorado.» «Sono qui per identificare la donna», spiegò lo sceriffo Fahey. Il dottor Draper indicò il bagno con un cenno del capo. «E' là dentro.» Jane fissò la soglia, ma non riuscì a convincersi a fare il primo passo. Fu Gabriel ad avvicinarsi al bagno. Rimase a lungo a fissare nella stanza accanto senza dir nulla e Jane sentì il terrore attanagliarle lo stomaco. Si avvicinò a poco a poco e sussultò vedendo il suo riflesso che la osservava dallo specchio del bagno, il volto pallido e tirato. Gabriel si scostò e lei guardò nel box doccia. La donna morta era accasciata con la schiena appoggiata alle piastrelle coperte di muffa. Aveva le gambe nude divaricate, il pube coperto solo dalla tenda di plastica che le era caduta addosso. Aveva la testa riversa in avanti, il mento appoggiava quasi sul petto e il volto nascosto dai capelli. Capelli neri, sporchi di sangue e di cervello. Troppo lunghi per essere quelli di Maura. Jane registrò altri particolari. La fede d'oro sulla mano sinistra. Le cosce pesanti, segnate dalla cellulite. Il grosso neo sull'avambraccio. «Non è lei», disse. «Ne è sicura?» domandò Fahey. Jane si accovacciò per fissare il viso. A differenza di quelli dell'uomo, i suoi tratti non erano stati cancellati. Il
colpo era stato sferrato sul lato del cranio che si era infossato, ma la ferita letale non era stata seguita da mutilazioni. Jane emise un profondo respiro e mentre lo faceva ogni tensione le svanì all'improvviso dal corpo. «Questa non è Maura Isles.» Si alzò e guardò la vittima di sesso maschile al di là della porta. «E quello non è assolutamente l'uomo che abbiamo visto nel video di sorveglianza dell'albergo.» «Il che significa che la sua amica è tuttora scomparsa.» Sempre molto meglio scomparsa che morta. Solo ora, mentre le paure svanivano, Jane iniziò a osservare la scena del crimine con occhi da poliziotta. D'un tratto notò dettagli che prima le erano sfuggiti. Un odore persistente di fumo di sigaretta. Le chiazze di neve sciolta e le numerose impronte di scarpe sul pavimento, lasciate dal personale delle forze dell'ordine. E una cosa che avrebbe dovuto notare non appena entrata nello chalet: la piccola culla portatile, cacciata nell'angolo in fondo. Guardò Fahey. «Qui c'era un bambino?» Lui annuì. «Una bambina. Di circa otto, nove mesi secondo l'assistente sociale della contea. L'hanno presa in custodia.» Jane si ricordò della donna che aveva visto poco prima all'esterno. Adesso capiva perché sulla scena ci fosse un'assistente sociale. «Quindi la bambina era viva», disse. «Sì. Il killer non l'ha toccata. E' stata trovata in quella culla laggiù. Aveva il pannolino fradicio, ma per il resto era in buone condizioni.» «Dopo essere rimasta senza mangiare per uno, due giorni?» «C'erano quattro biberon vuoti nella culla. Non si sarebbe mai disidratata.» «Avrà urlato», affermò Gabriel. «Nessuno l'ha sentita?» «Erano gli unici ospiti del Circle B. E come vedete questo chalet è lontano dagli altri. Ben isolato, con le finestre chiuse. Fuori è possibile che non si senta niente.» Jane si avvicinò di nuovo al cadavere dell'uomo. Restò a guardare una faccia tanto devastata che era difficile dire se fosse stata umana. «Non ha reagito», osservò. «Probabilmente il killer lo ha colto di sorpresa.» «La donna, capisco. Era sotto la doccia, perciò forse non poteva sentire una persona che entrava. Ma l'uomo?» Guardò Fahey. «La porta è stata forzata?» «No. Le finestre erano tutte chiuse con il fermo. O le vittime hanno lasciato la porta aperta o hanno fatto entrare l'assassino.» «La vittima è rimasta sorpresa a tal punto da non difendersi? Anche quando
le sfondavano la testa?» «Questo lascia perplesso anche me», affermò il dottor Draper. «Non ci sono evidenti ferite da difesa. Ha lasciato entrare l'assassino, gli ha dato le spalle ed è stato massacrato.» Bussarono alla porta e si girarono tutti. L'agente fece capolino nello chalet. «Abbiamo appena avuto conferma delle targhe. L'identità del proprietario dell'auto corrisponde a quella della vittima. Si chiama John Pomeroy. Di Plain of Angels, Idaho.» Ci fu silenzio. «Oh, mio Dio», esclamò il dottor Draper. «Quella gente.» «Quale gente?» chiese Jane. «Si chiamano la Raccolta. E' una specie di comune religiosa dell'Idaho. Di recente si sono trasferiti nella contea di Sublette.» Il coroner guardò Fahey. «Quei due dovevano essere diretti nel nuovo insediamento.» «Non è là che stavano andando», disse l'agente. Il dottor Draper lo guardò. «Mi sembra piuttosto sicuro, agente Martineau.» «Perché ci sono stato proprio la settimana scorsa. La valle è deserta. Hanno fatto i bagagli e se ne sono andati per l'inverno.» Fahey guardò corrucciato il morto. «Allora perché questi due sono qui in città?» «Le posso assicurare che non stavano andando a Verrà il Regno», affermò l'agente Martineau. «La strada è chiusa da sabato e non verrà riaperta fino a primavera.»
16 Idratare, idratare, idratare. Era il mantra che continuava a girarle in testa mentre cercava di persuadere con le lusinghe Ario a bere acqua e ancora acqua. In ogni tazza mescolava una presa di sale e un cucchiaio di zucchero, la versione povera di un Gatorade. Costringendolo ad assumere liquidi, manteneva la pressione sanguigna e i reni in funzione. Questo implicava cambiare ripetutamente gli asciugamani che si impregnavano di urina, ma l'urina era una buona cosa. Se avesse cessato di produrla, avrebbe significato che stava per entrare in shock e quindi per morire. Forse sarebbe morto lo stesso, pensò mentre lo osservava inghiottire le ultime due capsule di antibiotico. L'amoxicillina era poco più di un rimedio magico contro l'infezione che ormai imperversava nella sua gamba. Sentiva già l'odore dell'imminente cancrena, vedeva avanzare i margini del tessuto necrotico nel polpaccio. Un altro giorno, forse due, e non le sarebbe rimasta altra scelta se voleva salvarlo. La gamba andava amputata. Posso farlo davvero? Amputare quella gamba senza anestesia? Conosceva l'anatomia. Avrebbe potuto trovare gli strumenti necessari nelle cucine e nei garage. Tutto ciò che le serviva erano dei coltelli affilati e una sega sterilizzata. Non era la meccanica dell'amputazione che le faceva sudare le mani e le chiudeva lo stomaco. Erano le urla. Pensava all'osso che veniva segato implacabilmente mentre il paziente gridava e si contorceva. Ai coltelli resi scivolosi dal sangue. E durante l'intera procedura avrebbe dovuto fare affidamento su Elaine e Grace perché lo tenessero fermo. Devi mandare presto i soccorsi, Douglas. Perché non credo di poterlo fare. Non posso torturare quest'uomo. «Mi fa così male», sussurrò Ario. «Ho bisogno di altre pillole.» Lei si inginocchiò al suo fianco. «Mi dispiace, ma abbiamo finito il Percocet, Ario», disse. «Però ho il Tylenol.» «Non fa niente.» «La codeina è in arrivo. Elaine è andata a cercare la borsa su per la strada. Dice di averne un flacone, abbastanza perché tu resista in attesa dell'arrivo dei soccorsi.» «Quando arriveranno?» «Presto. Forse anche stasera.» Maura guardò la finestra e vide che era
pomeriggio. Douglas era partito il mattino del giorno prima. Doveva ormai aver ridisceso la montagna. «Lo conosci. Probabilmente arriverà qui con grande stile, con le telecamere delle televisioni e tutto il resto.» Ario emise una risata stanca. «Sì, quello è il nostro Douglas. Nato sotto una stella fortunata. Riesce sempre a scivolare sulle onde della vita senza farsi quasi un graffio mentre io...» sospirò. «Lo giuro, se sopravvivo a questo, non lascerò mai più casa mia.» La porta principale si spalancò e l'aria fredda si riversò all'interno mentre Elaine rientrava con passo pesante. «Dov'è Grace?» chiese. «E' uscita», rispose Maura. Elaine notò lo zaino di Grace nell'angolo. Si inginocchiò e lo aprì. «Cosa fai, Elaine?» «Non riesco a trovare la mia borsa.» «Hai detto di averla lasciata su nella Jeep.» «Proprio così, ma Douglas ha detto di non averla mai vista. L'ho cercata su e giù per la strada, in caso fosse caduta da qualche parte nella neve.» Cominciò a frugare nello zaino e a sparpagliarne il contenuto sul pavimento. Emersero l'iPod di Grace, gli occhiali da sole, una felpa, un cellulare. In preda alla frustrazione rovesciò lo zaino e alcuni spiccioli tintinnarono per terra. «Dove diavolo è la mia borsa?» «Pensi davvero che l'abbia presa Grace?» «Non riesco a trovarla da nessuna parte. Deve essere stata lei.» «Perché lei?» «E' un'adolescente. Tu riesci a capire gli adolescenti?» «Sei sicura di non averla lasciata da qualche parte in casa?» «Sì.» Delusa, Elaine gettò da parte lo zaino vuoto. «So che era con me nella Jeep quando abbiamo risalito la strada ma dopo l'incidente ci siamo fatti prendere tutti dal panico. Io ero concentrata solo su Ario. L'ultima volta che ricordo di averla vista era sul sedile posteriore accanto a Grace.» Scrutò la stanza in cerca di nascondigli in cui potesse essere stata infilata. «E' l'unica che aveva la possibilità di prenderla. Tu sei corsa giù per la montagna a recuperare la slitta. Io e Douglas stavamo cercando di bloccare l'emorragia. Nessuno sorvegliava Grace.» «Potrebbe essere caduta fuori dalla Jeep.» «Te l'ho detto, ho guardato su e giù per la strada.» «Forse è sepolta sotto la neve.» «Non nevica da due giorni ed è tutto ricoperto da una crosta di ghiaccio.»
Elaine si raddrizzò di scatto quando la porta d'ingresso si aprì. Era stata colta in una posizione inequivocabilmente colpevole, inginocchiata accanto allo zaino vuoto con il contenuto sparso sul pavimento. «Che fai?» disse Grace chiudendo la porta con forza. «Sono le mie cose.» «Dov'è la mia borsa, Grace?» chiese Elaine. «Perché cerchi nel mio zaino?» «Ci sono le mie pillole. Il flacone di codeina. Ario ne ha bisogno.» «E pensavi di trovarla tra le mie cose?» «Dimmi solo dov'è.» «Come faccio a saperlo?» Grace afferrò lo zaino e cominciò a cacciarvi dentro la roba. «Come fai a sapere che non l'ha presa lei?» Non aveva bisogno di fare nomi. Sapevano tutti che si riferiva a Maura. «Grace, ti sto facendo una domanda semplice.» «Non ti sei neanche fermata a pensare che possa essere stato qualcun altro. Hai solo presunto che fossi stata io.» Elaine sospirò. «Sono troppo stanca per discutere. Dimmi solo se sai dov'è.» «Perché dovrei dirti qualcosa? Non mi crederesti comunque.» Grace chiuse la cerniera dello zaino e se lo gettò in spalla mentre si dirigeva verso la porta. «Qui ci sono altre undici case. Non vedo perché debba restare in questa.» «Grace, dobbiamo rimanere insieme», disse Maura. «Ho promesso a tuo padre che avrei badato a te. Ti prego resta qui.» «Perché dovrei? Ero venuta a dirvi quello che ho trovato e la prima cosa che sento quando supero la porta è: Sei una ladra.» «Non ho detto questo!» protestò Elaine. Maura si alzò e si avvicinò con calma alla ragazza. «Cosa hai trovato, Grace?» «Come se vi interessasse.» «A me sì. Voglio sapere cosa hai trovato.» La ragazza si fermò, lottando tra l'orgoglio ferito e l'ansia di dare la notizia. «E' fuori», rispose infine. «Vicino al bosco.» Maura si infilò giacca e guanti e la seguì all'esterno. La neve, pestata in precedenza dal loro viavai, si era gelata a formare una crosta piena di gobbe e Maura avanzò cauta sulla superficie scivolosa mentre insieme a Grace raggiungeva il retro della casa e iniziava ad attraversare la distesa innevata verso gli alberi. «Questa è la cosa che ho visto per prima», spiegò la ragazza indicando la
neve. «Le orme.» Erano orme di un animale. Un coyote, pensò Maura, o forse un lupo. Anche se la neve portata dal vento le aveva a tratti cancellate, era ovvio che procedevano in linea retta verso la loro casa. «Deve aver lasciato le impronte ieri notte», affermò Grace. «O forse la notte prima. Perché adesso sono tutte congelate.» Si voltò verso il bosco. «E c'è un'altra cosa che ti voglio mostrare.» Grace attraversò il campo seguendo la pista verso un cumulo di neve. Era una semplice collinetta bianca che si confondeva nel vasto paesaggio innevato dove tutto era bianco, dove cespugli e massi erano indistinguibili sotto la spessa coltre invernale. Solo quando si avvicinarono, Maura notò la striscia gialla che spuntava là dove Grace aveva tolto la neve per vedere cosa ci fosse sotto. Un bulldozer. «Lo hanno lasciato qui fuori all'aperto», disse Grace. «Come se stessero scavando qualcosa e si fossero... bloccati.» Maura spalancò la portiera e guardò nella cabina di guida. Non c'erano chiavi nel cruscotto. Se fossero in qualche modo riuscite a farlo partire, avrebbero potuto risalire la strada. Guardò Grace. «Non sai come far partire un motore senza la chiave, vero?» «Se avessimo Google, potrei cercare delle istruzioni.» «Se avessimo Google, ce ne saremmo andati da tempo da questo posto.» Con un sospiro Maura chiuse la portiera. «Vedi queste orme?» disse Grace. «Vanno dritte di qui e si dirigono verso il bosco.» «Siamo in mezzo alla natura selvaggia. E' normale trovare tracce di animali.» «Sa dove siamo.» Grace si guardò attorno a disagio. «Ci annusa.» «Allora la notte staremo dentro, va bene?» Maura le strinse rassicurante il braccio. Era così magro, così fragile sotto la giacca, le ricordava che quella ragazzina aveva in fondo solo tredici anni. Una ragazzina che non aveva né il padre né la madre a confortarla. «Te lo prometto, combatterò contro qualsiasi lupo che arrivi alla nostra porta», disse Maura. «Non può esserci un solo lupo», precisò lei. «Sono animali che vivono in branco. Se attaccassero tutti, non potresti combatterli.» «Grace, non ti preoccupare. I lupi attaccano di rado le persone. Probabilmente hanno più paura loro di noi.» La ragazza non sembrava convinta. Per dimostrarle che non aveva paura,
Maura seguì le orme verso gli alberi in una neve che era diventata più alta, tanto che all'improvviso le arrivò sopra il ginocchio. Per questo i cervi diventano facili vittime d'inverno: gli animali pesanti affondano di più nella neve e non riescono a battere in velocità i lupi più leggeri e agili. «Non sono stata io, sai!» le gridò dietro Grace. «Non ho preso la sua stupida borsa. Come se poi la volessi.» All'improvviso Maura individuò una nuova serie di impronte e si fermò ai margini degli alberi a fissarle. Quelle non erano state lasciate dai lupi. Quando si rese conto di ciò che stava guardando, un brivido l'attraversò. Impronte di racchette da neve. «Cosa me ne farei in ogni caso della sua borsa?» esclamò Grace ancora accanto al bulldozer. «Tu mi credi, no? Almeno tu mi tratti da adulta.» Maura scrutò il bosco cercando di distinguere cosa si nascondesse dietro i pini. Ma gli alberi erano troppo fitti e tutto ciò che vide erano rami pendenti e un sottobosco intricato, una cortina tanto folta che una miriade di occhi avrebbe potuto osservarla in quel momento e lei non se ne sarebbe accorta. «Elaine fa tutta la dolce e l'affettuosa con me, ma solo quando c'è papà in giro», proseguì Grace. «Mi fa vomitare.» A poco a poco Maura indietreggiò. Ogni passo le sembrava inquietantemente rumoroso e goffo. Gli scarponi scricchiolavano sulla crosta di neve e spezzavano i ramoscelli morti. E alle sue spalle Grace continuava. «E' carina con me solo per via di lui. Le donne iniziano sempre con l'essere carine e poi non vedono l'ora di sbarazzarsi di me.» «Torniamo in casa, Grace», disse pacata Maura. «E' solo una recita e papà è troppo cieco per accorgersene.» Grace tacque quando vide d'un tratto la faccia di Maura. «Che c'è?» «Niente.» Maura la prese per un braccio. «Sta diventando freddo. Torniamo dentro.» «Sei incazzata con me?» «No, Grace. Non lo sono.» «Allora perché mi stringi con tanta forza?» Maura le lasciò subito il braccio. «Dobbiamo rientrare prima che faccia buio. Prima che tornino i lupi.» «Ma hai appena detto che non attaccano le persone.» «Ho promesso a tuo papà di badare a te ed è quello che sto cercando di fare.» Riuscì ad abbozzare un sorriso. «Vieni, preparerò una cioccolata calda.» Maura non voleva spaventare la ragazza più di quanto non lo fosse già. Non le disse niente di ciò che aveva
appena visto nel bosco. A Elaine tuttavia avrebbe dovuto dirlo. Dovevano essere preparate ora che lei sapeva la verità. Non erano soli in quella valle. «Se là fuori c'è qualcuno, perché non lo abbiamo visto?» domandò Elaine. Erano rimaste sveglie fino a tarda notte, pronte a cogliere ogni cigolio, ogni fruscio. Grace dormiva profondamente sul divano, ignara dei loro bisbiglii tesi, delle loro ansiose congetture. Quando Maura aveva sbarrato la porta e vi aveva piazzato contro una sedia, Grace aveva immaginato che fosse per non far entrare i lupi. Ma non era dei predatori a quattro zampe che quella sera Maura ed Elaine avevano paura. «Le impronte sono recenti», disse Maura. «Se avessero più di un giorno o due il vento e la neve le avrebbero coperte.» «Perché non abbiamo visto altre impronte?» «Forse è riuscito a cancellarle. Oppure ci osserva a distanza.» «Quindi non vuole farci sapere che è là fuori.» Maura assentì. «Potrebbe essere.» Elaine rabbrividì e guardò il caminetto. «Be', saprà con certezza che siamo qui. Probabilmente riesce a vedere la nostra luce da più di un chilometro.» Maura lanciò un'occhiata alla finestra, al buio esterno. «In questo momento forse ci sta osservando.» «Potresti sbagliarti. Forse non erano racchette da neve.» «Lo erano, Elaine.» «Be', io non ero là a vedere.» Scoppiò in una risata improvvisa, isterica. «E' come se avessi inventato una storia assurda da raccontare davanti al fuoco solo per spaventarmi.» «Non lo farei mai.» «Lei sì.» Elaine indicò Grace che continuava a dormire inconsapevole. «E se la gode. È stata una sua idea quella di farmi questo scherzo? Perché non è affatto divertente.» «Te l'ho detto, lei non lo sa. Non ho voluto impaurirla.» «Se c'è qualcuno là fuori, perché non viene qui e si presenta? Perché si nasconde nel bosco?» Socchiuse gli occhi. «Sai, Maura, qua fuori finiremo per impazzire un po' tutti quanti. Ario vede i fantasmi. Io non riesco a trovare la mia borsa. Anche tu stai impazzendo. Forse la vista ti inganna e quelle non erano tracce di racchette. Non c'è nessuno che ci osserva nel bosco.» «Qualcun altro si trova in questa valle. Qualcuno che sa di noi da quando siamo arrivati.» «Hai trovato quelle tracce solo oggi.» «C'è un'altra cosa che non ti ho detto. E' successa la prima notte che siamo arrivati qui.»
Maura guardò di nuovo Grace per avere la conferma che dormisse ancora. Abbassò la voce riducendola a un sussurro. «Mi sono svegliata nel cuore della notte e c'era della neve sparsa sul pavimento. E un'impronta di piede. Ovviamente qualcuno ha aperto la porta lasciando entrare il vento. Ma tutti voi eravate più che addormentati. Perciò chi ha aperto quella porta, Elaine? Chi è entrato in questa casa?» «Non lo hai mai detto prima. Perché lo dici solo adesso?» «In quel momento ho pensato che uno di voi fosse uscito di notte. Il mattino dopo l'impronta non c'era più e non erano rimaste tracce. Ho pensato che forse avevo sognato tutto.» «Probabilmente è così. Probabilmente hai creato dal nulla questa fantasia paranoide. E adesso mi stai spaventando a morte per alcune impronte che pensi di aver visto nel bosco.» «Ti sto dicendo questo perché dobbiamo essere entrambe vigili. Dobbiamo stare attente ad altri segni.» «Siamo in mezzo al nulla. Chi altro potrebbe trovarsi qua fuori, l'abominevole uomo delle nevi?» «Non lo so.» «Se è stato in questa casa, se si aggira furtivo e ci osserva, perché nessuno di noi lo ha visto?» «Io sì», rispose una voce sommessa. «Io l'ho visto.» Maura non si era accorta che Ario era sveglio. Si girò e notò che le stava guardando con occhi spenti e infossati. Gli si avvicinò di più per poter mormorare. «Cosa hai visto?» domandò. «Te l'ho detto ieri. Credo fosse ieri...» Deglutì sussultando per lo sforzo. «Dio, non so più quanto tempo sia passato.» «Non ricordo che tu abbia detto qualcosa», intervenne Elaine. «Era buio. C'era una faccia che guardava.» «Oh.» Elaine sospirò. «Parla di nuovo di quei fantasmi. Di tutte quelle persone che continua a vedere nella stanza.» Gli si inginocchiò accanto e gli rimboccò la coperta. «Fai dei brutti sogni e basta. La febbre ti fa vedere cose che non esistono.» «Non l'ho immaginato.» «Nessun altro lo ha visto. Sono quelle pillole per il dolore. Tesoro, sei confuso.» Di nuovo Ario cercò di deglutire, ma aveva la bocca secca e non ci riuscì. «Era là», mormorò. «L'ho visto.» «Devi bere ancora un po'», disse Maura. Gli riempì una tazza e gliela avvicinò alle labbra. Lui riuscì a inghiottire solo alcune sorsate prima di mettersi a tossire e l'acqua gli gocciolò ai lati della
bocca. Allontanò debolmente la tazza e crollò di nuovo a terra con un gemito. «Basta.» Maura posò la tazza e lo studiò. Non urinava da ore e il rumore del suo respiro era cambiato. Se si fosse indebolito ancora, costringerlo a bere sarebbe stato pericoloso, ma l'alternativa era che si disidratasse ed entrasse in shock. Comunque sia, pensò Maura, lo stiamo perdendo. «Ripetimi quello che hai visto», disse. «Facce.» «Gente nella stanza?» Lui fece un altro respiro secco. «E alla finestra.» Adesso là c'è qualcuno? Un alito freddo le sfiorò la schiena e Maura si girò di scatto a guardare la finestra. Tutto ciò che vide al di là del vetro fu oscurità. Nessuna faccia spettrale, nessun occhio demoniaco ricambiò il suo sguardo. Elaine scoppiò in una risata sprezzante. «Vedi? State tutti e due perdendo il controllo! Comincio a pensare di essere l'unica persona sana di mente rimasta in questa casa.» Maura si avvicinò alla finestra. Fuori la notte era scura come un drappo di velluto e celava qualsiasi segreto si nascondesse nella valle. Ma l'immaginazione le fornì i dettagli che non riusciva a vedere, tingendoli di sangue e d'orrore. Qualcosa aveva spinto gli abitanti del villaggio a scappare lasciando porte aperte, finestre spalancate e tavole imbandite. Qualcosa di terribile li aveva costretti ad abbandonare gli adorati animali domestici al freddo e alla morte per fame. La cosa che li aveva fatti fuggire era ancora lì? O là fuori non c'era niente se non le sue cupe fantasie, scaturite dalla paura e dall'isolamento? E questo posto. Gioca con la nostra mente, la priva della lucidità. Pensò alla sequela inesorabile di sventure che li aveva condotti lì, in quel guaio. La tempesta di neve, la strada sbagliata. Il Suburban nel fosso. Era come se fossero destinati a finire là, attirati come prede innocenti nella trappola di Verrà il Regno, e qualsiasi tentativo di fuga si sarebbe risolto in ulteriori sciagure. L'incidente di Ario non era la dimostrazione di quanto fosse stato folle cercare di scappare? E dov'era Douglas? Aveva lasciato la valle quasi due giorni prima. I soccorsi ormai sarebbero dovuti arrivare. Il che significava che non ce l'aveva fatta. Verrà il Regno non aveva permesso neanche a lui di scappare. Maura si scosse e diede le spalle alla finestra, improvvisamente disgustata di sé per aver accarezzato simili pensieri di natura soprannaturale. Questo faceva lo stress anche alle menti più logiche: creava mostri che non esistevano. Ma so di aver visto quell'impronta nella neve. E Ario ha visto una faccia alla finestra.
Andò alla porta, spostò la sedia che vi aveva sistemato contro e fece scorrere il chiavistello. «Che fai?» chiese Elaine. «Voglio scoprire se immagino le cose.» Maura indossò la giacca e chiuse la cerniera. «Vai fuori?» «Perché no? Sei tu quella che crede che stia impazzendo. Continui a insistere che là fuori non ci sia nulla.» «Cosa hai intenzione di fare?» «Ario ha visto una faccia alla finestra. Non nevica da tre giorni. Se là fuori c'era qualcuno, potrebbero ancora esserci le impronte.» «Puoi restare dentro per favore? Non devi dimostrarmi niente.» «Voglio dimostrarlo a me stessa.» Maura prese la lampada a cherosene e allungò la mano verso la porta. Nello stesso momento in cui afferrò la maniglia, dovette soffocare la paura che le urlava: Non uscirei Chiudi il chiavistello! Ma erano paure illogiche. Nessuno aveva tentato di far loro del male. Erano stati loro a tirarsi addosso tutte le sventure con una serie di decisioni sbagliate. Aprì la porta e uscì. La notte era immobile e silenziosa. Non soffiava il vento e non c'erano fruscii tra gli alberi. Il rumore più forte era quello del suo cuore che le batteva nel petto. La porta si riaprì all'improvviso ed Elaine comparve con addosso la giacca. «Vengo anch'io.» «Non è necessario.» «Se trovi altre impronte, voglio vederle con i miei occhi.» Si diressero insieme sul lato della casa dove si trovava la finestra. Prima non erano passate di lì e scrutando la neve alla luce della lampada Maura non vide impronte, solo neve vergine. Quando tuttavia raggiunsero la finestra, si bloccò e fissò la prova lampante rivelata dalla luce. Adesso anche Elaine la vide e trattenne il respiro. «Sembrano orme di lupo.» Come in risposta un ululato lontano squarciò la notte, seguito da un coro di guaiti e lamenti che diedero i brividi a Maura. «Sono proprio sotto la finestra», disse. D'un tratto Elaine scoppiò a ridere. «Be', questo spiega la faccia vista da Ario, no?» «Come?» «Non è ovvio?» Elaine si girò verso il bosco e la sua risata suonò selvaggia e irrefrenabile come i lamenti che provenivano dalla foresta. «Lupi mannari!» Gli ululati cessarono all'improvviso. Il silenzio che seguì fu tanto assoluto, tanto inspiegabile che Maura sentì la
pelle formicolarle. «Torniamo dentro», mormorò. «Subito.» Corsero sulla neve crostosa, guadagnarono il portico ed entrarono in casa. Maura fece scorrere il chiavistello e vi mise contro la sedia. Per un istante rimasero in piedi ansimanti, senza dire nulla. Nel caminetto un ciocco precipitò sul letto di ceneri ardenti sollevando scintille. Elaine e Maura si irrigidirono e si guardarono l'un l'altra quando udirono il suono echeggiare nella valle. Erano i lupi, stavano di nuovo ululando.
17 Prima che il sole sorgesse il giorno seguente, Maura capì che Ario stava morendo. Lo sentiva nel suo respiro, nel gorgoglio bagnato che gli usciva dalla gola, come se faticasse a immettere aria attraverso un tubo pieno d'acqua. I suoi polmoni stavano annegando in mezzo ai fluidi. A quel rumore si svegliò e si voltò a guardarlo. Nella luce del fuoco vide che Elaine era china su di lui e gli puliva con delicatezza il volto con un panno. «Oggi è il giorno, Ario», mormorò Elaine. «Verranno a salvarci, lo so. Non appena sarà chiaro.» Ario fece un respiro stentato. «Douglas...» «Sì, sono sicuro che ormai ce l'abbia fatta. Sai come è. Non mollare mai, non arrenderti mai. Questo è il nostro Douglas. Devi solo resistere, d'accordo? Ancora qualche ora. Guarda, sta già rischiarando.» «Douglas. Tu.» Ario fece un altro respiro faticoso. «Non ho mai avuto alcuna chance. Vero?» «Cosa intendi?» «L'ho sempre saputo.» Ario emise un singhiozzo strozzato. «Ho sempre saputo che avevi scelto lui.» «Oh, Ario. Non è come pensi.» «È tempo di essere onesti. Ti prego.» «Tra me e Douglas non è mai successo nulla. Te lo giuro, tesoro.» «Ma volevi succedesse.» Il silenzio che seguì fu una risposta più onesta di qualsiasi cosa Elaine avrebbe potuto dire. Maura rimase muta e immobile, scomoda testimone della penosa confessione. Ario doveva sapere di avere poco tempo. Quella per lui era forse l'ultima possibilità di sentire la verità. «Non importa.» Sospirò. «Non ora.» «Invece sì», replicò lei. «Io ti amo ancora.» Ario chiuse gli occhi. «Volevo... lo sapessi.» Elaine si portò una mano sulla bocca per soffocare i singhiozzi. La prima luce dell'alba illuminò la finestra investendola mentre stava inginocchiata accanto a lui, scossa dal dolore e dal senso di colpa. Fece un respiro tutto tremante e si raddrizzò. Solo allora notò che Maura era sveglia e li stava osservando, al che si girò imbarazzata. Per un momento le due donne non parlarono. L'unico rumore fu quello aspro del respiro di Ario che entrava e usciva, entrava e usciva rantolando
tra grumi di catarro. Anche dall'altra parte della stanza Maura vedeva che il suo volto era cambiato, che aveva gli occhi più infossati, che ora la pelle aveva assunto un malsano colorito verde. Non voleva guardare la gamba, ma adesso c'era abbastanza luce per poterla esaminare e sapeva di doverlo fare. Era una sua responsabilità, anche se non voleva assumersela, ma era lei il dottore. Eppure tutta la sua formazione medica si era rivelata inutile senza farmaci moderni, strumenti chirurgici puliti e la fredda determinazione a fare quant'era necessario: tagliare la gamba a un uomo urlante. Perché quello era ciò che andava fatto. Lo capì prima ancora di esporre l'arto, prima di sentire il fetore di ciò che suppurava sotto la coperta. «Oh, Dio», gemette Elaine e si allontanò incespicando. Maura udì la porta principale chiudersi mentre Elaine scappava dalla stanza fetida in cerca d'aria fresca. Va fatto oggi, pensò Maura fissando la gamba in putrefazione. Ma non poteva agire da sola; aveva bisogno che Elaine e Grace lo tenessero giù, altrimenti non sarebbe mai stata in grado di controllare l'emorragia. Guardò la ragazzina, ancora profondamente addormentata sul divano. Poteva contare su Grace? Elaine avrebbe avuto la forza d'animo di tenerlo fermo nonostante le urla e l'inesorabile grattare della sega? Se avessero ceduto, Maura avrebbe forse finito per ucciderlo. Si mise giacca e guanti e uscì. Trovò Elaine in piedi sul portico che inspirava profonde boccate d'aria fredda come per ripulirsi i polmoni dal lezzo del corpo marcescente di Ario. «Quanto tempo ha secondo te?» le domandò con voce sommessa. «Non voglio parlare di conti alla rovescia, Elaine.» «Ma sta morendo. Vero?» «Se non si fa niente.» «Tu e Douglas avete già fatto qualcosa. Non è servito.» «Perciò dobbiamo passare alla fase successiva.» «Cioè?» «L'amputazione.» Elaine si girò e la fissò. «Non dirai sul serio.» «Le cose sono peggiorate parecchio. Adesso non è più la gamba che vogliamo salvare. E' la sua vita. Ho bisogno che tu lo tenga fermo.» «Non posso farcela da sola!» «Grace dovrà dare una mano.» «Grace?» Elaine sbuffò. «Secondo te quella peste viziata può essere utile a qualcosa?» «Se glielo spieghiamo. Se chiariamo quant'è importante.» «La conosco meglio di te, Maura. Tiene Douglas completamente in pugno e lui fa tutto per la sua principessina. Tutto ruota sul fatto di renderla felice, di compensare l'abbandono della madre.» «Non le dai il giusto credito. Sarà anche solo una ragazzina, ma è
intelligente. Capirà cosa c'è in gioco.» «A lei non importa. Non lo hai capito? A lei non importa un cazzo di nessuno, solo di se stessa.» Elaine scosse la testa. «Non contare su Grace.» Maura sospirò. «Se sarai l'unica ad aiutarmi, allora avremmo bisogno di una corda. Di qualcosa che lo tenga legato al tavolo.» «Hai davvero intenzione di farlo?» «Cosa dovrei fare? Restare a guardarlo morire?» «Potrebbero venirci a soccorrere oggi. Potrebbero essere qui tra poche ore.» «Elaine, dobbiamo essere realiste.» «Un altro giorno non farà differenza, no? Se arrivassero domani, sarebbe ancora sufficiente.» «Douglas è partito da due giorni. Qualcosa è andato storto.» Tacque, riluttante ad ammettere quanto era ovvio. «Secondo me non ce l'ha fatta», disse calma. «Siamo rimaste noi.» Gli occhi di Elaine luccicarono, colmi di lacrime, e lei si girò a guardare la neve. «E se lo fai? Se gli tagli la gamba, che probabilità ci sono che muoia ugualmente?» «Senza antibiotici temo che non abbia molte possibilità. Al di là di quello che facciamo.» «Allora perché sottoporlo a questo? Se morirà comunque, perché torturarlo?» «Perché non ho altri trucchi nel cappello, Elaine. Resta questo o l'alternativa di rinunciare.» «Douglas potrebbe inviarci i soccorsi...» «Sarebbero già arrivati.» «Devi dargli tempo.» «Quanto dobbiamo aspettare perché accetti l'ovvio? I soccorsi non arriveranno.» «Non mi interessa quanto! Gesù Cristo, ascolti quello che dici? Parli sul serio: vuoi tagliargli quella cazzo di gamba?» Elaine si accasciò contro il palo del portico, come se fosse troppo stanca per reggere il suo stesso peso. «Non ti aiuterò», disse piano. «Mi dispiace.» Maura si girò e guardò la strada che usciva dalla valle. Era un'altra giornata meravigliosamente tersa e socchiuse gli occhi alla luce intensa del sole del mattino sulla neve. Abbiamo un'ultima opzione, pensò. Se non l'avesse scelta, Ario sarebbe morto. Forse non quel giorno, forse neanche il giorno dopo, ma in quella stanza sentiva l'odore dell'inevitabilità di quanto sarebbe
accaduto a meno che non avesse agito. «Devi mantenerlo idratato», disse. «A condizione che resti abbastanza cosciente da poter bere, continua a dargli sorsi d'acqua zuccherata. E cibo, se è in grado di assumerlo. Tutto ciò che ci resta per il dolore è il Tylenon, ma di quello ne abbiamo parecchio.» Elaine la guardò accigliata. «Perché mi stai dicendo questo?» «Perché adesso il comando passa a te. Dagli conforto, è il meglio che puoi fare.» «E tu?» «I miei sci da escursionismo sono ancora sul Suburban. Prenderò qualcosa per la notte in caso non ce la faccia prima che cali il buio.» «Hai intenzione di scendere la montagna con gli sci?» «Preferisci farlo tu?» «Se non ci è riuscito Douglas...» «Potrebbe aver avuto un incidente. Potrebbe trovarsi da qualche parte con una gamba rotta. Nel qual caso è ancor più importante che parta ora, quando ho ancora tutto il giorno davanti.» «E se neanche tu torni?» domandò Elaine con la disperazione nella voce. «Avete parecchio cibo e legna da ardere. Tu e Grace potreste resistere qui per mesi.» Si girò. «Aspetta. Devo dirti una cosa.» Maura si fermò sul portico e si voltò a guardare. «Sì?» «Io e Douglas... noi non siamo mai stati insieme.» «Ho sentito che lo dicevi ad Ario.» «È la verità.» «Perché è importante?» «Pensavo volessi saperlo.» «A essere onesta, Elaine, quello che è successo o non è successo fra te e Douglas per me non fa assolutamente differenza.» Maura si voltò verso la casa. «Tutto quello che m'importa ora è che usciamo tutti vivi da questo posto.» Impiegò quasi un'ora a fare lo zaino. Vi mise dentro cibo, calzettoni e guanti di scorta e una maglia. In garage trovò una cerata e un sacco a pelo, articoli di cui sperava di non aver bisogno. Con un po' di fortuna sarebbe potuta arrivare ai piedi della montagna al calar della sera. La batteria del suo cellulare si era esaurita del tutto, perciò lo affidò a Elaine insieme alla borsa; prese con sé solo i contanti e i documenti. In un viaggio di cinquanta chilometri non c'era posto neanche per un grammo superfluo. Nonostante ciò, lo zaino le pesava in spalla quando si avviò su per la strada della valle. A ogni passo superava le tracce del precedente e sciagurato tentativo di abbandonare quel posto. Lì c'erano i solchi creati dalla Jeep
mentre saliva a fatica in mezzo alla neve. Lì le impronte che avevano lasciato quando avevano abbandonato l'auto bloccata ed erano scesi trascinando Ario sulla slitta. Dopo un altro centinaio di metri e qualche altro tornante iniziò a notare il sangue di Ario sulla neve, portato in giro dai loro scarponi. Un'altra curva ed ecco la Jeep bloccata con la catena rotta. E altro sangue. Si fermò a riprendere fiato e fissò la neve smossa, tinta di diverse tonalità di rosso e rosa, come i frullati ghiacciati che tracannavi nelle giornate calde d'estate. Il tutto le riportò alla mente le urla e il panico; il cuore le batteva forte sia per quel terribile ricordo sia per la faticosa salita sulla montagna. Si lasciò la Jeep alle spalle e continuò a camminare. Lì la neve era pestata solo dalle impronte di Douglas. Negli ultimi tre giorni si erano in parte sciolte al sole e indurite a formare una crosta ghiacciata. Continuò a salire, sconvolta al pensiero di seguirne le orme, all'idea che ogni passo che faceva lo aveva fatto anche lui due mattine prima. Fino a che punto della discesa sarebbe stata in grado di seguirne la pista? Ci sarebbe stato un punto in cui questa si sarebbe interrotta all'improvviso, in cui avrebbe scoperto che fine avesse fatto? Mi aspetta lo stesso destino? La strada divenne più ripida e Maura sudava con i suoi abiti pesanti. Si aprì la cerniera della giacca e si tolse guanti e berretto. Quella salita sarebbe stata la più dura del percorso. Quando avesse raggiunto la strada principale, si sarebbe trattato più che altro di scivolare in discesa sugli sci. Almeno in teoria. Eppure Douglas non era riuscito a farcela. Iniziava ora a chiedersi se fosse stata avventata nel tentare un'impresa che Douglas, così atletico e in forma, era stato incapace di portare a termine. Poteva ancora cambiare idea. Poteva girarsi e tornare indietro verso la casa, dove avevano abbastanza cibo per arrivare a primavera. Raggiunse un punto panoramico da cui vedeva l'insediamento molto più in basso, con il fumo che saliva a spirale dal camino dell'abitazione. Non era neanche arrivata alla strada principale ed era già sfinita, con le gambe che le tremavano e le dolevano. Douglas si era sentito altrettanto stanco quando aveva raggiunto quel punto della salita? Si era fermato proprio lì, aveva guardato la valle e si era chiesto se fosse saggio proseguire? Sapeva cosa aveva scelto; le sue impronte erano la testimonianza della sua decisione. Proseguivano su per la strada. Cosa che fece anche lei. E per Ario, pensò. Il suo nome divenne una silenziosa cantilena mentre camminava. Salva Ario. Salva Ario. I pini ben presto nascosero la vista e la valle scomparve alle sue spalle. Lo zaino sembrava diventare più pesante a ogni passo e considerò l'idea di gettar via parte del contenuto. Aveva davvero bisogno di quelle tre scatole di
sardine? Il mezzo barattolo di burro di arachidi non le avrebbe fornito energia sufficiente a condurla ai piedi della montagna? Valutò la questione mentre sbuffava su per la strada con le scatolette che tintinnavano nello zaino. Era un brutto segno che, a meno di due ore dall'inizio del viaggio, prendesse già in esame una simile mossa. La strada si fece pianeggiante e notò il cartello davanti a lei, che indicava il punto panoramico da cui cinque giorni addietro avevano scorto per la prima volta Verrà il Regno. Adesso la valle era molto più in basso e l'insediamento sembrava un villaggio giocattolo. Ma il fumo nel camino era reale, come lo erano le persone in quella casa e una di loro stava morendo. Si girò per continuare, fece due passi e si bloccò di colpo. Fissando la neve vide le impronte di Douglas che tracciavano la pista davanti a lei. Seguite da un'altra serie di impronte. Racchette da neve. Sapeva che erano state lasciate dopo che Douglas era passato di lì perché si sovrapponevano a quelle dei suoi scarponi. Ma quanto dopo? Ore dopo o un giorno dopo? O l'inseguitore di Douglas gli stava proprio alle calcagna e si avvicinava sempre più? Adesso è dietro di me? Si voltò di scatto con il cuore che le martellava nel petto e scrutò l'ambiente circostante. Gli alberi sembravano più vicini, come se in qualche modo fossero avanzati verso la strada quando non guardava. La luce intensa del sole l'aveva resa mezza cieca nella penombra, sotto quei rami pesanti, e il suo sguardo riuscì a penetrare solo per alcuni metri nel bosco prima che le ombre le celassero la vista. Su quella strada silenziosa non udì niente. Niente vento, niente passi, solo il rumore del suo respiro frenetico. Prendi gli sci. Scendi da questa montagna. Iniziò a correre seguendo la pista tracciata da Douglas. Lui non aveva corso. Il suo passo continuava come prima, costante e uniforme, le sue suole avevano lasciato impronte profonde nella neve. A quel punto non si era reso conto di essere seguito. Probabilmente pensava solo al compito che lo attendeva. A prendere gli sci e a iniziare la discesa lungo la montagna. Non gli sarebbe mai venuto in mente di essere seguito. Le faceva male il petto e la gola le bruciava per l'aria fredda. Ogni passo che faceva le sembrava tanto rumoroso da risultare assordante mentre gli scarponi spaccavano la crosta ghiacciata. Chiunque nei paraggi avrebbe pensato che stesse arrivando un elefante. Un elefante goffo, ansimante. Finalmente individuò la catena all'ingresso della strada privata. Mancava poco. Seguì le impronte degli scarponi di Douglas per l'ultima decina di metri, oltre la catena, oltre il cartello strada privata, solo residenti e vide il Suburban ancora inclinato sul fianco nel fosso. Dal portasci sul tetto mancava un paio di sci.
Quindi Douglas era arrivato fin lì. Vide le tracce parallele lasciate dai suoi sci quando aveva ridisceso la strada. Entrò nel fosso affondando nella neve fino alla coscia e sganciò il secondo paio dal portasci. Recuperare gli scarponi avrebbe richiesto più tempo. Erano all'interno del Suburban e con il fuoristrada rovesciato sul fianco fu una lotta sollevare la portiera pesante. Quando infine riuscì ad aprirla, era senza fiato e ansava fortemente. All'improvviso udì un rombo lontano. Si immobilizzò e rimase in ascolto al di sopra del martellare del suo cuore, temendo di esserselo immaginato. No, c'era: il rumore di un motore. Uno spazzaneve stava risalendo la montagna. Ce l'aveva fatta. Douglas ce l'aveva fatta e ora sarebbero stati salvati. Lanciò un urlo di gioia e lasciò che la portiera del Suburban si richiudesse. Non vedeva lo spazzaneve, ma il rumore era più forte, più vicino e lei rideva e piangeva nello stesso tempo. Di nuovo nella civiltà, pensò. Di nuovo docce calde, luci elettriche e telefoni. Ma, cosa più importante, di nuovo ospedali. Ario sarebbe sopravvissuto. Risalì a fatica sulla strada e rimase in attesa dei soccorsi. Sentì il sole sulla faccia con la gioia che le scorreva nelle vene. Questo è il momento in cui tutto volge al bene, pensò. Questo è il momento in cui l'incubo finisce. Poi, oltre il rombo in avvicinamento dello spazzaneve, udì il sommesso scricchiolio di un peso che si posava sulla neve. Il rumore era proprio alle sue spalle. Inspirò sorpresa e l'aria le fluì nei polmoni come un vento freddo. Solo allora vide l'ombra avanzare per inghiottirla. Chi ci osserva è nel bosco. E' qui.
18 Jane trovò Daniel Brophy seduto chino a un tavolo della sala da cocktail vuota dell'albergo. Non la guardò, tenne invece lo sguardo sul tavolo segnalandole chiaramente che voleva star solo. Lei si sedette lo stesso. «Non l'abbiamo vista a pranzo», disse. «Ha mangiato qualcosa?» «Non ho fame.» «Sto ancora aspettando notizie da Queenan. Ma credo che per oggi non abbia niente di nuovo da dirci.» Lui assentì, sempre senza guardarla. Sempre inviandole il segnale Va' via. Non voglio parlare. Anche nella penombra clemente della sala, sembrava visibilmente più vecchio. Stanco e prostrato. «Daniel», esclamò. «Io non rinuncio. E nemmeno lei dovrebbe.» «Abbiamo attraversato cinque contee», rispose. «Parlato in diretta a sei stazioni radio. Guardato ogni minuto di quei video di sorveglianza.» «Potrebbe esserci qualcosa che ci è sfuggito. Qualcosa che noteremo, se li guardiamo ancora.» «Sembrava felice in quei video, no?» Sollevò la testa e Jane vide la pena nei suoi occhi. «Sembrava felice con quell'uomo.» «Sì, è vero», ammise lei dopo un attimo di silenzio. Le telecamere di sorveglianza avevano colto diverse inquadrature di Maura e dell'uomo biondo nell'atrio. Ma erano immagini fugaci, al massimo di qualche secondo, dopodiché lei scompariva. Guardare quelle immagini sul monitor era come osservare un fantasma. Un fantasma che rivivesse all'infinito i suoi ultimi istanti sulla terra. «Non sappiamo il senso di tutto ciò», osservò Jane. «Lui potrebbe essere un vecchio conoscente.» «Un conoscente che ha saputo farla sorridere.» «Era un congresso medico. Un gruppo di patologi che probabilmente si conoscono tra loro. Forse quell'uomo non ha niente a che fare con la sua scomparsa.» «Oppure Queenan ha ragione. In questo momento se ne stanno imbucati in qualche albergo e ci danno dentro...» Si bloccò. «Almeno significherebbe che è viva.» «Sì. Significherebbe che è viva.» Tacquero entrambi. Erano solo le tre del pomeriggio, troppo presto per un drink. Tranne per un barista che impilava i bicchieri dietro al banco, erano gli unici nella sala
semibuia. «Se è andata via con un altro uomo», disse calma Jane, «lei dovrebbe sapere perché è successo.» «Mi odio», rispose lui, «perché non sono quell'uomo. E non posso fare a meno di chiedermi...» «Cosa?» «Se sia venuta qui per vederlo.» «Ha ragione di crederlo?» «Guardi come si sorridono. Quanto sembrano a loro agio.» «Potrebbero essere vecchi amici.» O vecchi amanti fu ciò che non disse. Non ne ebbe la necessità; quel pensiero tormentava probabilmente anche Brophy. «Sono solo teorie basate sul nulla», disse. «Tutto ciò che abbiamo è il video di lei che va a cena con lui. Che lo incontra nell'atrio.» «E sorride.» Il dolore gli incupì lo sguardo. «Io non potevo farlo per lei. Non potevo darle ciò di cui aveva bisogno.» «Quello di cui ora Maura ha bisogno è che non perdiamo la speranza. Che continuiamo a cercarla. Io non ho intenzione di mollare.» «Mi dica la verità.» Daniel incrociò il suo sguardo. «È detective nella Omicidi da abbastanza tempo per saperlo. Cosa le dice l'istinto?» «L'istinto può sbagliare.» «Se non fosse un'amica, se fosse solo l'ennesimo caso di una persona scomparsa, cosa penserebbe in questo momento?» Jane esitò e l'unico rumore nella sala fu il tintinnio dei bicchieri mentre il barista riordinava dietro al banco in attesa dell'ora imminente dei cocktail. «Dopo così tanto tempo?» Scosse la testa. «Sarei costretta a pensare al peggio.» Lui non parve sorpreso dalla risposta. Ormai era giunto alla stessa conclusione. Il cellulare di Jane squillò ed entrambi si irrigidirono. Guardò il numero. Queenan. Non appena udì la sua voce, capì che non era una chiamata che era contento di fare. E che lei era contenta di ricevere. «Mi spiace doverle dare la notizia», affermò. «Che c'è?» «Dovreste andare al Saint John's Medical Center di Jackson. Il dottor Draper vi aspetta lì.» «Il dottor Draper? Intende il coroner della contea di Sublette?» Ci fu un silenzio lungo, straziante. «Temo abbiano trovato la vostra amica.»
«Credo sia meglio non la vediate», annunciò il dottor Draper guardando cupo i tre amici di Maura seduti dall'altra parte del tavolo da riunione. «Dovreste ricordarla com'era. Sono certo che anche lei lo vorrebbe.» Il Saint John's era stato costruito per servire i vivi, non i morti, e oltre la porta chiusa della sala conferenze sentivano i rumori di una normale giornata ospedaliera: i telefoni che suonavano, il campanello di un ascensore, i vagiti lontani di un bambino piccolo in pronto soccorso. Rumori che ricordavano a Jane che, dopo una tragedia, la vita andava comunque avanti. «L'auto è stata scoperta solo stamattina, uscita di strada in una zona scarsamente abitata», annunciò Draper. «Non sappiamo con certezza da quanto si trovasse in quel burrone. Ci sono molti danni provocati dal fuoco. E in seguito dagli animali...» Tacque. «È un territorio selvaggio.» Non ebbe bisogno di approfondire. Nel mondo naturale diverse creature strisciavano furtive nell'ombra della Morte, in attesa di nutrirsi con becchi, artigli e denti aguzzi. Persino nei parchi periferici di Boston un cadavere attirava cani e procioni, ratti e avvoltoi collorosso. Tra le aspre montagne del Wyoming occidentale c'era probabilmente una schiera ancora più folta di mangiatori di carogne pronti a far festa, di bestie che avrebbero potuto staccare a morsi una faccia, mozzare una mano e sparpagliare gli arti in giro. Jane pensò alla pelle eburnea di Maura, ai suoi zigomi regali e si chiese cosa rimanesse di quei tratti. No, non voglio vederla. Non voglio sapere com'è diventata la sua faccia. «Se i resti sono gravemente danneggiati, come ha fatto a identificarla?» chiese Gabriel. Almeno lui ragionava ancora da investigatore, riusciva ancora a concentrarsi sulle domande da fare. «Sul luogo dell'incidente c'erano prove sufficienti per effettuare l'identificazione.» «Prove?» «Quando l'auto è precipitata nel burrone, vari oggetti sono stati scagliati fuori. Diverse valigie e altri effetti personali si sono salvati dal fuoco.» Si allungò verso una grossa scatola di cartone che aveva portato nella stanza. Quando aprì il coperchio, uscì un odore di plastica bruciata. Anche se gli oggetti all'interno erano chiusi in buste per le prove, il puzzo del fuoco e del fumo era abbastanza forte da oltrepassare persino un sacchetto dotato di cerniera. Draper attese un istante fissando l'interno della scatola, quasi si fosse chiesto d'un tratto se fosse un errore mostrarne il contenuto. Ma ormai era troppo tardi per chiuderla, per negare loro le prove che aveva promesso. Prese la prima busta e la posò sul tavolo. Attraverso la plastica trasparente videro un'etichetta di pelle per bagagli. Il
medico la girò e mostrò il nome scritto con precisione in lettere maiuscole. DR MAURA ISLES «Immagino che l'indirizzo sull'etichetta sia corretto», disse. Jane deglutì. «Sì», mormorò. Non osò guardare Daniel seduto accanto a lei. Non voleva vedere la devastazione sul suo volto. «Questa era attaccata a una delle valigie scaraventate fuori dall'auto», spiegò Draper. «Potete esaminare anche la valigia se volete. E' custodita presso il Dipartimento dello sceriffo della contea di Sublette insieme agli oggetti più grandi.» Infilò la mano nella scatola ed estrasse altre buste per le prove disponendole sul tavolo. C'erano due cellulari, uno bruciato. Un'altra etichetta per bagagli, questa con il nome del Dr Douglas Comley. Un astuccio da toilette da uomo. Un flacone di lovastatina prescritto a un certo Ario Zielinski. «Il Suburban era stato noleggiato da un certo Douglas Comley di San Diego», disse Draper. «Lo aveva prenotato per dieci giorni. Presumiamo ci fosse il dottor Comley al volante quando l'auto è uscita di strada. In quel punto la strada curva bruscamente e se era notte o nevicava, la visibilità poteva essere scarsa. Anche la strada ghiacciata potrebbe aver contribuito.» «Quindi presumete sia stato un incidente», affermò Gabriel. Lui si accigliò. «Anziché?» «Ci sono sempre altre possibilità da considerare.» Il coroner sospirò. «Visto il campo in cui lavora, agente Dean, immagino sia naturale che pensi alle altre possibilità. Ma lo sceriffo Fahey ha concluso che sia stato un incidente. Ho già guardato le radiografie. I corpi presentano fratture multiple, il che è quello che ci si aspetterebbe. Non ci sono frammenti di proiettili, niente che indichi qualcosa di diverso da quant'è successo. Il veicolo ha perso il controllo su una strada di montagna in curva. E' precipitato per una quindicina di metri in un burrone dove ha preso fuoco. Dubito che qualcuno dei passeggeri sia sopravvissuto allo schianto iniziale, perciò possiamo presumere con certezza che la vostra amica sia morta nell'impatto.» «C'è stata una tempesta di neve lo scorso sabato, vero?» chiese Gabriel. «Sì. Perché?» «Se c'era molta neve sull'auto, potrebbe indicare quando è accaduto.» «Ho visto solo una lieve spolverata», rispose Draper. «Il fuoco, d'altronde, può aver sciolto la copertura nevosa.» «Oppure l'incidente è avvenuto più di recente.» «Questo però non spiega dove sia stata la vostra amica negli ultimi sette
giorni. È quasi impossibile stabilire l'ora della morte. Tenderei a dire quando le vittime sono state viste vive per l'ultima volta, cioè sabato.» Guardò le facce angosciate attorno al tavolo. «Capisco che tutto ciò lasci molte domande senza risposta. Ma almeno sapete cos'è successo e potete tornare a casa con un senso di conclusione. Sapete che la sua morte è stata rapida e che probabilmente non ha sofferto.» Sospirò. «Mi spiace tanto che sia finita così.» Draper si alzò con un'aria più vecchia e stanca rispetto a mezz'ora prima, quando erano entrati. Anche quando il dolore non è tuo, il solo fatto di trovartici a contatto ti prosciuga l'anima e lui probabilmente lo aveva sperimentato un'infinità di volte. «Vi accompagno.» «Possiamo vedere i resti?» domandò Gabriel. Lui lo guardò accigliato. «Non ve lo consiglio.» «Ma va fatto.» Jane quasi sperò che si rifiutasse, che le risparmiasse quella dura prova. Conosceva l'aspetto di Maura da viva; quando avesse visto ciò che era diventata, non avrebbe potuto cancellare quell'immagine, non avrebbe potuto riportare indietro l'orologio dell'orrore. Guardando il marito, si chiese come potesse restare tanto calmo. «Vi mostrerò le radiografie», affermò Draper. «Forse basteranno a convincervi dell'attendibilità dei reperti.» «È meglio che aspetti qui», disse Gabriel a Brophy. Lui assentì e restò dov'era con la testa china, solo con il suo dolore. Mentre Jane e Gabriel seguivano Draper verso l'ascensore, lei sentì il terrore ribollirle come acido nello stomaco. Non voglio vedere, pensò. Non ho bisogno di vedere. Ma Gabriel continuò ad avanzare risoluto a grandi passi e lei era troppo orgogliosa per non seguirlo. Quando entrarono nell'obitorio, fu sollevata nel vedere che il tavolo autoptico era vuoto e i cadaveri riposti al sicuro, celati alla vista. Draper frugò in un fascio di radiografie e ne appese diverse allo schermo luminoso. Accese l'interruttore e le immagini dello scheletro si stagliarono contro la luce. «Come potete vedere, ci sono ampie prove di traumi», affermò. «Fratture del cranio, di più costole. Il femore sinistro è incastrato nell'articolazione dell'anca. Gli arti sono contratti in posizione da pugile a causa del fuoco.» La sua voce assunse il tono monotono, neutro di un professionista che riferiva dati ai colleghi. Come se, entrando in quella stanza e notando il freddo luccichio dell'acciaio inossidabile, avesse indossato la divisa del coroner. «Ho spedito per e-mail queste immagini al nostro patologo forense del Colorado. Ha concluso che si tratti di una donna di età compresa tra i trenta e i quarantacinque. Ha
stimato avesse un'altezza di un metro e sessantasette o sessantotto. E a giudicare dall'articolazione sacroiliaca, era nullipara. Non ha mai partorito.» Tacque e guardò Jane. «Corrisponde alla vostra amica?» Jane annuì stordita. «Sì», mormorò. «E ha denti molto ben curati. C'è una corona, qui sul molare inferiore destro. Ci sono diverse otturazioni.» Guardò di nuovo Jane, come se fosse lei ad avere tutte le risposte. Lei fissò la mandibola illuminata sullo schermo. Come faccio a saperlo? Non aveva studiato la bocca di Maura, non le aveva contato le corone e le otturazioni. Maura era una collega e un'amica. Non una serie di denti e ossa. «Mi dispiace», affermò Draper. «Forse è una quantità eccessiva di informazioni perché possiate assimilarle. Volevo solo che foste certi dell'identificazione.» «Allora non ci sarà un'autopsia», affermò Jane con tono sommesso. Lui scosse la testa. «Non ce n'è motivo. Il patologo in Colorado è convinto dell'identificazione. Abbiamo l'etichetta del bagaglio e le radiografie corrispondono a quelle di una donna della sua età e della sua altezza. Queste lesioni coincidono con quanto trovereste in una passeggera senza cintura di sicurezza soggetta a una decelerazione ad alta velocità.» Jane impiegò alcuni secondi a registrare quanto aveva sentito. Batté le palpebre per soffocare le lacrime e la radiografia appesa allo schermo luminoso tornò d'un tratto a fuoco. «Una passeggera senza cintura di sicurezza?» chiese. «Sì.» «E' sicuro che non avesse la cintura?» «Certo. Nessuno dei deceduti l'aveva.» «Non può essere. Maura non si sarebbe mai scordata di allacciarsi la cintura. Era una persona così.» «Mi spiace, ma stavolta ha tralasciato di farlo. Comunque, probabilmente la cintura non l'avrebbe salvata. Non in un incidente tanto traumatico.» «Non è questo il punto. Il punto è che qui c'è qualcosa che non torna», dichiarò Jane. «Non è per niente in linea con la sua indole.» Draper sospirò e spense lo schermo luminoso. «Detective, so che deve essere difficile accettare la morte di una cara amica. Che avesse o no la cintura, non cambia il fatto che è morta.» «Ma com'è successo? Perché?» «Fa davvero qualche differenza?» osservò pacato lui. «Sì.»
Di nuovo Jane sentì le lacrime pungerle gli occhi. «Per me non ha senso. Devo capire.» «Jane», disse Gabriel, «potrebbe non avere mai senso. Forse dovremmo accettarlo e basta.» La prese delicatamente per un braccio. «Abbiamo visto abbastanza. Torniamo in albergo.» «Non ancora.» Jane si scostò da lui. «C'è un'altra cosa che devo vedere.» «Se insistete per vedere i resti», disse Draper, «ve li posso mostrare. Ma non riuscirete a riconoscere niente. Non c'è molto se non carne bruciata e ossa.» Tacque e quindi aggiunse piano: «Credetemi. E' meglio che non la vediate. Portatela solo a casa». «Ha ragione», affermò Gabriel. Non abbiamo bisogno di vedere il corpo.» «Non il corpo.» Jane fece un respiro e si raddrizzò. «Voglio vedere il luogo dell'incidente. Voglio vedere dove è successo.»
19 Il mattino dopo, quando Gabriel e Jane scesero dall'auto e si incamminarono verso il ciglio della strada, stava nevicando leggermente. Rimasero lì in silenzio a fissare il burrone dove si trovava ancora l'ammasso bruciato del Suburban. Una traccia battuta nella neve contrassegnava l'itinerario serpeggiante seguito dalla squadra di soccorso scesa il giorno prima a recuperare i corpi. Doveva essere stata una salita estenuante fin sulla strada, con le barelle portate a zigzag su quel pendio scosceso e gli scarponi che scivolavano sulle rocce ghiacciate. «Voglio andare più vicino», disse Jane avviandosi lungo il sentiero. «Laggiù non c'è niente da vedere.» «Glielo devo. Devo vedere dov'è morta.» Continuò a camminare con lo sguardo fisso sulla traccia sdrucciolevole. Sotto la spolverata di neve fresca, il fondo era ghiacciato, insidioso e dovette muoversi lentamente. Ben presto le fecero male le cosce per la ripida discesa e i fiocchi di neve che,si scioglievano, mescolati al sudore, le colavano sulle guance. Iniziò a individuare i rottami dell'incidente, sparpagliati sul pendio: un frammento di metallo contorto, una scarpa da tennis solitaria, un pezzetto di stoffa blu. Cominciavano a scomparire sotto la neve fresca. Quando raggiunse infine l'auto annerita, era coperta da un leggero strato di neve. L'odore del fuoco aleggiava ancora in quell'aria fredda, pura e Jane vide i segni lasciati dal fuoco: i cespugli carbonizzati e i rami dei pini bruciati. Pensò alla traiettoria spaventosa seguita dal Suburban mentre precipitava. Immaginò le grida mentre le ultime frazioni di secondo di vita passavano davanti agli occhi di Maura. Si bloccò e fece un respiro tremolante mentre osservava la neve cancellare a poco a poco le infami tracce della morte. Alcuni passi si avvicinarono scricchiolando e un attimo dopo Gabriel si fermò al suo fianco. «E' così difficile da credere», disse Jane. «Ti svegli il mattino e pensi che sia soltanto un'altra giornata. Sali in macchina con un gruppo di amici e all'improvviso è finita. Tutto ciò che sapevi, che pensavi, che provavi in un istante è sparito.» Lui le si accostò. «Per questo dobbiamo goderci ogni minuto.» Jane tolse un po' di neve dalla macchina e mise a nudo una striscia di metallo annerito. «Non lo sai mai, vero? Quale piccola decisione finirà per cambiare la tua vita. Se non fosse venuta a questo congresso, non avrebbe incontrato Douglas Comley. Non sarebbe salita nella sua auto.»
Di colpo sollevò la mano dal Suburban come se bruciasse. Fissando il fuoristrada distrutto, immaginò gli ultimi giorni di vita di Maura. Adesso sapevano che era Comley quello che avevano visto con lei sul nastro della sorveglianza. Avevano esaminato la sua fotografia sul sito web del personale medico dell'ospedale di San Diego dove lavorava come patologo. Quarantadue anni, padre single divorziato, era presente allo stesso congresso medico. Un uomo attraente nota una donna altrettanto attraente e la natura fa il suo corso. Una cena, una conversazione, ogni sorta di possibilità passa loro per la mente. Qualsiasi donna sarebbe stata tentata, anche una equilibrata come Maura. In fondo, che futuro poteva offrirle Daniel Brophy se non una vita di incontri furtivi, di delusioni e di rimpianti? Se Daniel le avesse dato ciò di cui aveva bisogno, Maura non si sarebbe lasciata distrarre. Non avrebbe seguito Douglas Comley in quell'escursione fatale. Sarebbe ancora viva. Daniel era senza dubbio tormentato dagli stessi pensieri. Lo avevano lasciato in albergo senza dirgli dove andavano. Non era una visita che doveva fare. Ora, sotto la neve che cadeva delicata, anche Jane dubitò dell'opportunità della sua scelta. A che scopo vedere quell'ammasso annerito, immaginare l'auto che precipitava nel vuoto, i vetri che volavano via, l'esplosione del fuoco? Ma ora l'ho visto, pensò. E posso andare a casa. Insieme a Gabriel si girò e si diresse su per il sentiero. Il vento era aumentato e la neve sottile le mulinava in faccia pungendole gli occhi. Starnutì e quando riaprì gli occhi qualcosa di azzurro le svolazzò davanti. Lo raccolse e vide che era la busta strappata di un biglietto aereo con i bordi anneriti dal fuoco. Dentro c'era ancora un pezzo di carta d'imbarco, ma solo le ultime cinque lettere del nome risultavano visibili. inger. Guardò Gabriel. «Qual era il nome dell'altro uomo in macchina?» domandò. «Zielinski.» «E' quello che pensavo.» Lui guardò corrucciato il frammento della carta d'imbarco. «Hanno identificato tutti e quattro i corpi. Comley e la figlia. Zielinski e Maura.» «Allora a chi appartiene questo biglietto?» chiese lei. «Forse è rimasto lì, lasciato da un cliente precedente.» «E un'altra cosa che non quadra. Questo e la cintura di sicurezza.» «Potrebbero essere del tutto scollegati.» «Perché la cosa non ti preoccupa, Gabriel? Non posso credere che tu la accetti e basta!» Lui sospirò. «Ti complichi soltanto le cose.»
«Ho bisogno del tuo sostegno.» «Cerco di farlo.» «Ignorando quello che dico?» «Oh, Jane.» La cinse con le braccia, ma lei rimase rigida, insensibile al suo abbraccio. «Abbiamo fatto il possibile. Adesso dobbiamo tornare a casa. Dobbiamo andare avanti con la nostra vita.» Mentre Maura non può farlo. Ebbe l'improvvisa, dolorosa consapevolezza di tutte le sensazioni che Maura non avrebbe più provato. L'aria fredda che le entrava e le usciva dai polmoni. Il calore delle braccia di un uomo attorno al suo corpo. Posso essere pronta a tornare a casa, ma non ho finito di fare domande. «Ehi!» urlò una voce dall'alto. «Cosa fate laggiù?» Alzarono entrambi lo sguardo e videro un uomo sulla strada. Gabriel gli fece segno con la mano e gridò di rimando: «Ora saliamo!» La salita fu molto più difficoltosa della discesa. Il nuovo strato di neve polverosa mascherava il ghiaccio infido e il vento continuava a gettare loro neve in faccia. Gabriel fu il primo a raggiungere la strada e Jane lo seguì a fatica con il respiro affannoso. Un pick-up tutto ammaccato era parcheggiato a lato della strada. Accanto c'era un uomo dai capelli argentei con in mano un fucile dalla canna puntata verso terra. Aveva il volto profondamente segnato dalle intemperie, come se avesse passato l'intera vita all'aperto in un ambiente aspro; i suoi scarponi e il suo giaccone avevano un'aria altrettanto logora. Sembrava avere una settantina d'anni, ma se ne stava dritto e inflessibile come un pino. «Quello è il luogo di un incidente», disse l'uomo. «Non un posto per turisti.» «Lo sappiamo, signore», rispose Gabriel. «E' anche una proprietà privata. La mia proprietà.» L'uomo strinse la presa sul fucile. Anche se lo teneva puntato a terra, dalla posizione si capiva che era pronto a sollevarlo in un baleno. «Ho chiamato la polizia.» «Per amor del cielo», esclamò Jane. «E' ridicolo.» L'uomo spostò lo sguardo truce su di lei. «Non avete alcun diritto di rovistare laggiù.» «Non stavamo rovistando.» «Ieri sera ho messo in fuga una banda di adolescenti da quel burrone. Erano a caccia di souvenir.» «Apparteniamo alle forze dell'ordine», disse Jane.
L'uomo lanciò un'occhiata dubbiosa alla loro auto a noleggio. «Di fuori città?» «Una delle vittime era nostra amica. E' morta in quel burrone.» La notizia parve coglierlo alla sprovvista. La fissò a lungo, come per cercare di stabilire se crederle. Tenne lo sguardo puntato su di loro anche quando un mezzo del Dipartimento dello sceriffo della contea di Sublette superò la curva e si fermò dietro al pick-up Ne uscì un agente dal volto familiare. Era Martineau, che avevano incontrato sulla scena del duplice omicidio poche sere prima. «Ehi, Monty», gridò, «che succede qui?» «Ho sorpreso queste persone mentre sconfinavano nella mia proprietà, Bobby. Sostengono di appartenere alle forze dell'ordine.» Martineau guardò Jane e Gabriel. «Uh, effettivamente è così.» «Cosa?» L'agente salutò con un cenno educato Jane e Gabriel. «E' l'agente Dean, giusto? Salve, signora. Mi spiace per l'equivoco, ma il signor Loftus è un po' irritabile con chi sconfina. Soprattutto dopo quei ragazzi, ieri sera.» «Monty, loro sono a posto. Li ho visti su a Circle B quando sono venuti a parlare con Fahey.» Si rivolse a Jane e Gabriel e la sua voce si addolcì. «Mi spiace davvero per quanto è capitato alla vostra amica.» «Grazie, agente», rispose Gabriel. Loftus emise un grugnito conciliatorio. «Allora immagino di dovervi delle scuse.» Tese la mano. Gabriel gliela strinse. «Non c'è bisogno di scuse, signore.» «È solo che avevo visto la vostra auto e pensato che laggiù ci fossero altri cacciatori di souvenir. Di quei ragazzini fuori di testa, che pensano solo alla morte e alle sciocchezze sui vampiri.» Loftus guardò il Suburban carbonizzato nel burrone. «Non è più come quando io ero giovane. Quando la gente rispettava i diritti di proprietà. Adesso chiunque pensa di poter venire a caccia sulla mia terra. Mi lasciano spalancato il cancello.» Jane colse l'espressione che balenò sul volto di Martineau: è la millesima volta che glielo sento dire. «E tu non arrivi mai in tempo per fare qualcosa, Bobby», aggiunse Loftus. «Adesso sono qui, no?» protestò Martineau. «Dopo passa da me e ti mostrerò cos'hanno fatto al mio cancello. Bisogna fare qualcosa.» «Va bene.»
«Intendo oggi, Bobby.» Loftus salì nel pick-up e il motore si accese sferragliando. Con un burbero saluto gridò a denti stretti: «Mi spiace ancora, amici», e si allontanò. «Chi è quell'uomo?» domandò Jane. Martineau scoppiò a ridere. «Montgomery Loftus. La sua famiglia possedeva una marea di acri qui attorno. Il Ranch Doublé L.» «Era parecchio incazzato con noi. Pensavo ci volesse sparare con quel fucile.» «In questi giorni è incazzato per tutto. Sapete com'è con certi anziani. Si lamentano sempre che non è più com'era.» Non lo è mai, pensò Jane mentre osservava Martineau risalire in macchina. E neanche a Boston lo sarà più. Non senza Maura. Mentre tornavano in albergo, Jane guardò dal finestrino pensando all'ultima conversazione che aveva avuto con lei. Era stata in obitorio e si trovavano accanto al tavolo settorio mentre Maura sezionava un cadavere. Aveva parlato del viaggio imminente nel Wyoming. Del fatto che non c'era mai stata, di come desiderasse vedere alci, bufali e forse anche qualche lupo. Avevano parlato della madre di Jane e del divorzio di Barry Frost, e di come la vita continua a sorprenderti. Non sai mai, aveva detto Maura, cosa c'è dietro l'angolo. No, non lo sai mai. Non avevi idea che saresti tornata a casa dal Wyoming in una bara. Entrarono nel parcheggio dell'albergo e Gabriel spense il motore. Per un istante rimasero seduti senza parlare. C'erano ancora così tante cose da fare, pensò Jane. Telefonate, firme sui documenti. Organizzare il trasporto della bara. Al solo pensiero si sentì sfinita. Ma almeno ora sarebbero tornati a casa. Da Regina. «So che è solo mezzogiorno», disse Gabriel, «ma credo che potremmo farci un drink.» Lei annuì. «Ci sto.» Spalancò la portiera e uscì nella neve che cadeva silenziosa. Si sorressero a vicenda mentre attraversavano il parcheggio cingendosi stretti la vita. Quanto più duro sarebbe stato questo giorno senza lui qui, pensò Jane. La povera Maura ha perso tutto, mentre io ho ancora la benedizione di avere quest'uomo. Di avere un futuro. Entrarono nel bar dell'albergo dove la luce era tanto soffusa che all'inizio non notò Brophy seduto a un tavolo. Soltanto quando i suoi occhi si adattarono alla penombra lo vide. Non era solo. Seduto al tavolo con lui c'era un uomo che si alzò, una figura alta e
minacciosa vestita di nero. Anthony Sansone era notoriamente un solitario, tanto paranoico nei confronti della sua privacy che usava farsi vedere solo di rado in pubblico. Eppure era là, nel bar del loro hotel, palesemente addolorato. «Avrebbe dovuto chiamarmi, detective», disse Sansone. «Avrebbe dovuto chiedere il mio aiuto.» «Mi dispiace», rispose Jane. «Non ci ho pensato.» «Maura era anche amica mia. Se avessi saputo che era scomparsa, sarei tornato in un lampo dall'Italia.» «Non c'è niente che avrebbe potuto fare. Nessuno di noi avrebbe potuto fare niente.» Guardò Brophy, impassibile e muto. Quei due uomini non si erano mai piaciuti eppure erano là, dopo essersi dichiarati tregua in memoria di Maura. «Il mio jet è in attesa all'aeroporto», disse Sansone. «Possiamo tornare tutti insieme, non appena metteranno a disposizione il corpo.» «Sarà questo pomeriggio.» «Allora informerò il pilota.» Il sospiro che emise era pieno di tristezza. «Chiamatemi quando sarà il momento di trasferirlo. E porteremo Maura a casa.»
20 Nel jet di Anthony Sansone, come avvolti in un comodo bozzolo, i quattro passeggeri rimasero in silenzio mentre volavano verso est, verso la notte. Forse come Jane, pensavano tutti alla compagna che viaggiava nascosta nella stiva, chiusa in una bara, riposta in un comparto buio e freddo. Era la prima volta che Jane volava in un jet privato. In qualsiasi altra occasione avrebbe apprezzato i morbidi sedili di pelle, l'ampio spazio per le gambe, i numerosi comfort a cui i viaggiatori molto ricchi erano avvezzi. Invece notò a stento il sapore del sandwich con un roastbeef perfettamente rosato che lo steward le aveva porto su un piatto di porcellana. Anche se aveva saltato pranzo e cena, mangiò senza alcun piacere rifornendosi di energie solo perché il corpo lo richiedeva. Daniel Brophy non mangiò nulla. Il suo sandwich rimase intatto mentre guardava fuori nella notte, con le spalle curve per il peso del dolore. E sicuramente anche del senso di colpa. Per ciò che sarebbe potuto essere se avesse scelto l'amore al posto del dovere, Maura al posto di Dio. Ora la donna del suo cuore era carne bruciata, chiusa in un vano sotto i loro piedi. «Una volta tornati a Boston», disse Gabriel, «dovremo prendere alcune decisioni.» Jane guardò il marito e si chiese come riuscisse a restare concentrato su quanto andava fatto. Erano proprio momenti del genere a ricordarle di aver sposato un marine. «Decisioni?» chiese. «Il funerale. Comunicazioni varie. Ci sarà qualche parente da avvertire.» «Non ha famiglia», osservò Brophy. «C'è solo sua ma...» Si bloccò senza terminare la parola madre. Né disse il nome a cui tutti stavano pensando: Amalthea Lank. Due anni prima Maura aveva rintracciato la madre naturale di cui non conosceva l'identità. Le indagini l'avevano infine condotta in un carcere femminile a Framingham. Da una donna colpevole di crimini indicibili. Amalthea era una madre che nessuno avrebbe voluto avere e Maura non ne parlava mai. «Non ha famiglia», ripetè Daniel con maggior fermezza. Aveva solo noi, pensò Jane. I suoi amici. Mentre lei aveva un marito e una figlia, genitori e fratelli, Maura aveva pochi legami stretti. Aveva un amante che vedeva solo in segreto e amici che non la conoscevano veramente. Era una verità che ora Jane doveva ammettere: non la conoscevo davvero. «E l'ex marito?» domandò Sansone. «Credo viva ancora in California.» «Victor?» Brophy rise disgustato.
«Maura lo disprezzava. Non lo vorrebbe neanche nei paraggi del suo funerale.» «Sappiamo cosa volesse? Quali fossero i suoi ultimi desideri? Non era religiosa, quindi presumo vorrebbe una funzione laica.» Jane lanciò un'occhiata a Brophy che si era irrigidito. Non riteneva che l'osservazione di Sansone fosse una frecciata al sacerdote, ma l'aria tra i due divenne all'improvviso elettrica. «Anche se si era allontanata dalla Chiesa, la rispettava», rispose teso Brophy. «Era una scienziata, padre Brophy. Il fatto che rispettasse la Chiesa non significa che ci credesse. Probabilmente le sembrerebbe strano avere una funzione religiosa al suo funerale. Dato che non era credente, non le verrebbe comunque negato un funerale cattolico?» Brophy distolse lo sguardo. «Sì», ammise. «Questa è la politica ufficiale.» «C'è anche la questione della sepoltura o della cremazione. Sappiamo cosa desiderasse? Ha mai affrontato l'argomento con lei?» «Perché avrebbe dovuto? Era giovane.» La voce di Brophy si ruppe. «Quando hai soltanto quarantadue anni, non pensi a come disporre del tuo corpo in caso di morte! Non pensi chi dovrebbe o non dovrebbe essere invitato al tuo funerale. Sei troppo occupato a vivere.» Fece un profondo respiro e distolse lo sguardo. Per un bel po' nessuno aprì bocca. L'unico rumore fu quello dei motori a reazione. «Quindi dobbiamo prendere queste decisioni per lei», concluse infine Sansone. «Dobbiamo?» chiese Brophy. «Cerco solo di dare il mio aiuto. E i fondi necessari.» «Non tutto può essere comprato e pagato.» «E' questo che crede stia cercando di fare?» «Per questo è qui, no? Per questo è arrivato con il suo jet privato e ha assunto il controllo? Perché può farlo?» Jane si allungò per toccare il braccio di Brophy. «Daniel. Ehi, si calmi.» «Sono qui perché anch'io tenevo a Maura», rispose Sansone. «E lo ha fatto più che chiaramente presente a tutti noi.» «Padre Brophy, mi è sempre stato chiaro a chi fosse rivolto l'affetto di Maura. Niente di quello che avrei potuto fare né di quello che avrei potuto offrirle avrebbe cambiato il fatto che amasse lei.» «Però era sempre in attesa nell'ombra. Nella speranza di avere una possibilità.» «Una possibilità di offrirle il mio aiuto se mai ne avesse avuto bisogno. Un
aiuto che non ha mai chiesto quando era viva.» Sansone sospirò. «Se solo lo avesse fatto. Avrei potuto...» «Salvarla?» «Non posso riscrivere la storia. Ma sappiamo tutti e due che forse le cose sarebbero andate in modo diverso.» Guardò Brophy dritto in faccia. «Forse sarebbe stata più felice.» Daniel arrossì violentemente. Sansone aveva appena detto la più crudele delle verità, ma era una verità ovvia a chiunque conoscesse Maura, a chiunque l'avesse osservata negli ultimi mesi e avesse notato come la sua figura sottile fosse diventata più magra, come la tristezza le avesse appannato il sorriso. Non era sola nel suo dolore: Jane aveva visto la stessa tristezza negli occhi di Daniel Brophy, mescolata al senso di colpa. Amava Maura ma l'aveva resa infelice, fatto che per lui era ancor più duro da sopportare perché era Sansone a farglielo notare. Brophy fece per alzarsi con le mani strette a pugno e Jane lo afferrò per un braccio. «Smettetela», esclamò. «Tutti e due! Perché fate così? Non è una gara a chi l'amasse di più. Tutti le volevamo bene. Non conta chi l'avrebbe resa più felice. E' morta e non c'è modo di cambiare la storia.» Brophy sprofondò di nuovo sul sedile mentre la rabbia gli svaniva dal corpo. «Si meritava di meglio», disse. «Rispetto a me.» Si voltò e prese a fissare dal finestrino rifugiandosi nella sua sofferenza. Jane fece per toccarlo di nuovo, ma Gabriel la bloccò. «Lascialo tranquillo», sussurrò. Così fece. Lasciò Brophy al suo silenzio e ai suoi rimpianti e si avvicinò al marito dall'altra parte del corridoio. Anche Sansone si alzò e andò in fondo all'aereo ritirandosi con i suoi pensieri. Per il resto del volo rimasero seduti distanti e in silenzio mentre l'aereo con il corpo di Maura volava verso est, verso Boston. Oh, Maura, se solo fossi qui a vedere. Jane era davanti all'ingresso della Emmanuel Episcopal Church e guardava il flusso costante di persone in lutto che arrivavano per porgere l'ultimo saluto alla dottoressa Maura Isles. Maura sarebbe rimasta sorpresa da tutto quel movimento. Colpita e forse anche un po' imbarazzata: non le era mai piaciuto essere al centro dell'attenzione. Jane ne riconobbe molte perché provenivano dallo stesso mondo suo e di Maura, un mondo che ruotava
attorno alla morte. Individuò i dottori Bristol e Costas dell'ufficio del medico legale; salutò in silenzio la segretaria di Maura, Louise, e il suo assistente in obitorio, Yoshima. C'erano anche i poliziotti: il collega di Jane, Barry Frost, e buona parte della Omicidi. Tutti loro conoscevano bene la donna che chiamavano in segreto la Regina dei morti. Una regina che ora era entrata in quel regno. Ma l'unico uomo che Maura amava più degli altri non era lì e Jane capiva perché. Daniel Brophy, sprofondato nel dolore, si era isolato e non avrebbe presenziato alla funzione. Aveva detto privatamente addio a Maura; esporre la sua pena in pubblico era più di quello che chiunque potesse chiedergli. «Sarà meglio prendere posto», disse Gabriel con gentilezza. «Stanno per iniziare.» Jane seguì il marito lungo il corridoio fino alla prima panca. La bara chiusa si stagliava proprio di fronte a lei, incorniciata da grossi vasi di gigli. Anthony Sansone non aveva badato a spese e la superficie di mogano della bara era stata lucidata al punto che Jane vi si vedeva riflessa. Entrò il prete ufficiante, non Brophy ma il reverendo Gail Harriman della chiesa episcopale. Maura avrebbe apprezzato il fatto che il suo servizio funebre venisse tenuto da una donna. Le sarebbe anche piaciuta quella chiesa, nota per la politica d'apertura con cui accoglieva tutti tra le sue braccia. Non credeva in Dio, ma credeva nella fraternità, e avrebbe approvato. Mentre il reverendo Harriman iniziava a parlare, Gabriel prese la mano di Jane. Lei sentì un nodo in gola e lottò per reprimere le lacrime. Nei quaranta minuti di omelia, inni e discorsi commemorativi, si sforzò di mantenere il controllo con i denti stretti e la schiena premuta rigidamente contro la panca. Quando finalmente il servizio terminò, aveva ancora gli occhi asciutti ma le dolevano tutti i muscoli come se avesse appena abbandonato a fatica un campo di battaglia. I sei portatori, tra cui Gabriel e Sansone, si alzarono e condussero il feretro in lenta processione lungo il corridoio, verso il carro funebre che attendeva fuori. Mentre gli altri presenti uscivano in fila dall'edificio, Jane non si mosse. Rimase al suo posto immaginandosi l'ultimo viaggio di Maura. Il tragitto solenne fino al crematorio. La bara che scivolava tra le fiamme. La metamorfosi finale delle ossa in cenere. Non posso credere che non ti rivedrò più. Sentì il cellulare. Durante il servizio funebre aveva tolto la suoneria e l'improvvisa vibrazione le ricordò con un sussulto che il dovere richiedeva sempre la sua attenzione. La chiamata aveva un prefisso del Wyoming. «Detective Rizzoli», rispose calma. Dall'altro capo udì la voce di Queenan.
«Il nome Elaine Salinger le dice qualcosa?» domandò. «Dovrebbe?» «Allora non lo ha mai sentito prima.» Lei sospirò. «Sono appena stata al servizio funebre di Maura. Mi spiace, non riesco a seguirla.» «Hanno appena denunciato la scomparsa di una donna chiamata Elaine Salinger. Doveva tornare al lavoro a San Diego ieri, ma sembra non sia mai rientrata dalla vacanza. Non ha mai preso il volo di ritorno da Jackson Hole.» San Diego. Anche Douglas Comley era di San Diego. «E' emerso che si conoscevano», proseguì Queenan. «Elaine Salinger, Ario Zielinski e Douglas Comley. Erano amici e avevano tutti una prenotazione di ritorno nello stesso giorno.» Jane sentì aumentare il battito del cuore. All'improvviso le balenò in mente un'immagine, di una carta d'imbarco strappata che aveva raccolto nel burrone. Il pezzetto di carta con il frammento di un nome: inger. Salinger. «Che aspetto aveva questa donna?» domandò. «Età? Altezza?» «E' quello che ho cercato di scoprire nell'ultima ora. Elaine Salinger aveva trentanove anni. Un metro e sessantotto, cinquantacinque chili. Bruna.» Jane schizzò in piedi. La chiesa non si era ancora svuotata e dovette farsi strada a forza, tra i ritardatari in corridoio, verso l'uscita. Arrivò alla porta appena in tempo per vedere il carro funebre avviarsi. «Fermalo!» urlò. Gabriel si voltò verso di lei. «Jane?» «Come si chiama l'impresa di pompe funebri? Qualcuno lo sa?» Sansone la guardò perplesso. «Ho organizzato tutto io. Qual è il problema, detective?» «Li chiami, subito. Dica che il corpo non può essere cremato.» «Perché no?» «Deve essere portato dal medico legale.»
21 Il dottor Abe Bristol fissò il cadavere rivestito da un telo, ma non accennò a scoprirlo. Per essere un uomo che passava le giornate lavorative a sezionare morti, sembrava scosso all'idea di scostare il lenzuolo. Molte delle persone nella sala erano veterani, avevano visto numerose scene di morte, eppure erano tutte sgomente di fronte a ciò che si trovava sotto il telo. Fino a quel momento solo Yoshima aveva dato un'occhiata al corpo, quando aveva effettuato le radiografie dopo il suo arrivo. Ora restava lontano dal tavolo, quasi fosse tanto traumatizzato da non volerci più avere a che fare. «Questa è un'autopsia che proprio non mi va di effettuare», dichiarò Bristol. «Qualcuno deve guardare il corpo. Qualcuno deve darci una risposta definitiva.» «Il problema è che non sono sicuro che la risposta sia la più gradita.» «Non l'ha nemmeno guardata.» «Ma vedo le radiografie.» Indicò le immagini del cranio, della colonna vertebrale e della pelvi che Yoshima aveva appeso allo schermo luminoso. «Vi posso dire che sono del tutto corrispondenti a quelle di una donna dell'età e dell'altezza di Maura. E le fratture sono esattamente ciò che trovereste in caso di lesioni subite da un passeggero privo di cintura.» «Maura portava sempre la cintura di sicurezza», osservò Jane. «Era maniaca al riguardo. Sa com'era.» Era. Non riesco a smettere di usare il passato. Non riesco davvero a credere che questo esame cambi qualcosa. «Vero», affermò Bristol. «Non usare la cintura di sicurezza non è da lei.» S'infilò i guanti e con riluttanza scostò il lenzuolo. Ancor prima di vedere il corpo, Jane ebbe un sussulto e si allontanò portando la mano al naso per proteggersi dall'odore di carne bruciata. In preda ai conati, si girò e vide la faccia di Gabriel. Almeno lui sembrava mantenere il controllo, ma lo sguardo di terrore che aveva negli occhi era inequivocabile. Jane si costrinse a girarsi di nuovo verso il tavolo. A vedere il corpo che avevano creduto fosse di Maura. Non era la prima volta che Jane vedeva dei resti carbonizzati. Una volta aveva assistito all'autopsia di tre vittime di un incendio doloso, due bambini piccoli e la loro madre. Ricordava quei tre cadaveri stesi sui tavoli con gli arti piegati, le braccia protese come pugili smaniosi di combattere. La donna che ora osservava era paralizzata nella stessa posa da pugile, con i tendini contratti per l'intenso calore.
Jane fece un altro passo in avanti e guardò quello che sarebbe dovuto essere un volto. Cercò di scorgere qualcosa, qualsiasi cosa, di familiare ma tutto ciò che vide fu una maschera irriconoscibile di carne bruciata. Qualcuno ansimò sorpreso alle sue spalle. Si voltò e vide la segretaria di Maura, Louise, sulla porta. Louise si avventurava di rado in sala autopsie e Jane fu sorpresa di vederla là, a un'ora così tarda del giorno. La donna indossava il cappotto e i capelli grigi scompigliati erano cosparsi di fiocchi di neve che si stavano sciogliendo. «Forse è meglio se non si avvicina, Louise», disse Bristol. Ma era troppo tardi. Louise aveva scorto il cadavere e si era bloccata, troppo inorridita per fare un altro passo nella stanza. «Dott... Dottor Bristol...» «Che c'è?» «Aveva chiesto del dentista. Di quello da cui andava la dottoressa Isles. Mi sono ricordata che mi aveva chiesto di fissarle un appuntamento, perciò ho guardato il calendario. Era circa sei mesi fa.» «Ha trovato il nome del dentista?» «Ancor meglio.» Louise sollevò una busta marrone. «Ho le sue radiografie. Quando gli ho spiegato perché ne avevamo bisogno, mi ha detto che potevo andare dritta da lui a prenderle.» Bristol attraversò la stanza con pochi rapidi passi e afferrò la busta dalla mano di Louise. Yoshima stava già togliendo le radiografie craniche dallo schermo luminoso. Le lastre ingombranti vibrarono mentre le strappava in fretta dalle clip per fare spazio. Bristol estrasse le radiografie dentali dalla busta. Non erano panoramiche da obitorio, ma piccole radiografie odontoiatriche che apparivano minuscole nelle grosse mani del medico. Mentre le appendeva allo schermo, Jane notò il nome della paziente sull'etichetta. ISLES, MAURA «Queste radiografie sono state tutte effettuate negli ultimi tre anni», osservò Bristol. «Abbiamo parecchio qui per l'identificazione. Corone d'oro sui molari inferiori destri e sinistri. Un canale di una vecchia radice qui...» «Ho delle panoramiche del corpo», affermò Yoshima. Frugò tra le radiografie che aveva fatto del cadavere bruciato. «Ecco.» Le applicò allo schermo proprio accanto alle piccole lastre di Maura. Tutti vi si accalcarono davanti. Per un istante nessuno disse una parola mentre gli sguardi guizzavano tra le due serie di radiografie. Poi Bristol disse: «Penso sia piuttosto chiaro».
Si voltò verso Jane. «Il corpo su quel tavolo non è di Maura.» Il respiro le uscì dai polmoni con un sibilo. Yoshima si accasciò contro un banco, come se fosse di colpo troppo debole per reggersi. «Se questo corpo è di Elaine Salinger», affermò Gabriel, «allora restiamo con lo stesso interrogativo di prima. Dov'è Maura?» Jane prese il cellulare e compose un numero. Dopo tre squilli rispose una voce. «Detective Queenan.» «Maura Isles è tuttora dispersa», disse Jane. «Torniamo nel Wyoming.»
22 Maura si svegliò al crepitio della legna che ardeva. La luce del fuoco danzò sulle sue palpebre chiuse e le giunse un odore dolce di melassa e bacon, di maiale e fagioli che borbottavano sul fuoco. Anche se rimase perfettamente immobile, il suo carceriere si accorse che non stava più dormendo. I suoi scarponi si avvicinarono strisciando e quando si chinò su di lei la sua ombra oscurò la luce del fuoco. «Devi mangiare», grugnì e le avvicinò una cucchiaiata di fagioli. Lei si girò, nauseata dall'odore. «Perché lo fai?» sussurrò. «Cerco di tenerti in vita.» «C'è un uomo nel villaggio che ha bisogno di andare all'ospedale. Devi lasciare che lo aiuti.» «Non puoi.» «Slegami. Ti prego.» «Finiresti solo per scappare.» Rinunciò a costringerla a mangiare e si ficcò invece il cucchiaio in bocca. Lei guardò la faccia che la fissava dall'alto. Illuminati da dietro dal fuoco, i tratti erano invisibili. Tutto ciò che vide fu il profilo della testa, spaventosamente grossa nel cappuccio bordato di pelo. Da qualche parte nell'ombra un cane uggiolò e si udì un grattare di unghie. L'animale si avvicinò e ne avvertì l'alito caldo, sentì la sua lingua leccarle il viso. Era un cane enorme dal pelo ispido, simile a un lupo, e malgrado sembrasse amichevole, Maura rifuggì dalle sue attenzioni. «Piaci a Bear. In genere molte persone non gli piacciono.» «Forse ti vuol dire che sono a posto», replicò lei. «E che dovresti lasciarmi andare.» «Troppo presto.» Si voltò e si avvicinò al fuoco. Pescando i fagioli dalla pentola, se li cacciò a cucchiaiate in bocca con voracità animalesca. Offuscato dal fumo, sembrava un essere primitivo accucciato alla luce di un antico fuoco da campo. «Che intendi con 'troppo presto'?» domandò Maura. Lui continuò a mangiare sorbendo rumorosamente i fagioli dal cucchiaio, tutto concentrato a riempirsi il ventre. Era un animale, puzzava di fumo e di sudore, non era più civilizzato del cane. Maura aveva i polsi abrasi per le corde, i capelli aggrovigliati e infestati di pulci. Ansimava e tossiva da giorni nel fumo denso del rifugio. Soffocava là dentro mentre quel sordido essere se ne stava tranquillamente seduto a riempirsi la bocca di cibo, senza curarsi di lei. «Maledizione a te», disse. «Lasciami andare.»
Il cane emise un ringhio sordo e si spostò accanto al padrone. La figura accucciata davanti al fuoco si girò a poco a poco verso di lei e nell'ombra indefinita del suo volto Maura immaginò un male ancor più spaventoso perché non poteva vederlo. Lui si allungò in silenzio verso lo zaino. Quando vide cosa aveva estratto, si irrigidì. Il riflesso della luce del fuoco brillò sulla lama e gettò una serie di ombre ondulate sulla dentellatura. Un coltello da caccia. Maura aveva visto sul tavolo settorio cosa poteva fare un coltello del genere alla carne umana. Aveva esaminato la cute incisa, usato un righello per misurare le ferite che penetravano nei muscoli e nei tendini, talvolta anche nelle ossa. Fissò la lama sospesa sopra di lei e si fece piccola quando lui abbassò il coltello. Con un movimento brusco l'uomo tagliò la corda che le legava i polsi, poi le liberò le caviglie. Il sangue affluì di nuovo nelle mani. Maura si allontanò in fretta ritirandosi in un angolo buio. Lì si raggomitolò respirando affannosamente con il cuore che le batteva forte per l'insolito sforzo. Era stata immobilizzata per giorni, si era potuta alzare solo quando aveva dovuto usare il secchio. Adesso si sentiva debole, stordita e il ricovero sembrava dondolare come una nave in alto mare. L'uomo le si avvicinò di più fino a porsi proprio davanti a lei e Maura sentì un puzzo di lana umida. Fino a quel momento la sua faccia era rimasta nascosta nell'ombra. Adesso distinse due guance magre sporche di fuliggine e una mascella glabra. Due occhi famelici, incassati. Fissò quel viso scarno ed ebbe una rivelazione stupefacente: era solo un ragazzo, aveva al massimo sedici anni. Ma possedeva corporatura e forza tali da ucciderla con un solo colpo di coltello. Il cane si accostò al padrone e come ricompensa ricevette una carezza sulla testa. Ragazzo e cane la fissarono entrambi osservando la strana creatura che avevano catturato per strada. «Lasciami andare», disse Maura. «Mi cercheranno.» «Non più.» Il ragazzo infilò il coltello nella cintura e tornò vicino al fuoco. Stava languendo e già il gelo aveva cominciato a insinuarsi nel rifugio. Vi gettò sopra un altro ciocco e le fiamme si ravvivarono nel cerchio di pietre. Mentre il fuoco si intensificava, Maura distinse altri particolari del tugurio in cui era imprigionata. Da quanti giorni sono qui? Non lo sapeva. Non c'erano finestre e non riusciva a vedere se fuori fosse giorno o notte. I muri erano di tronchi sgrossati, sigillati con fango secco. Un giaciglio di ramoscelli con sopra varie coperte gli serviva da letto. Accanto al fuoco c'era
un'unica pentola per cucinare e varie lattine di cibo impilate in un'ordinata piramide. Individuò un barattolo di burro di arachidi dall'aspetto familiare; era lo stesso che aveva nello zaino. «Perché lo fai?» domandò. «Cosa vuoi da me?» «Sto cercando di aiutarti.» «Trascinandomi qui? Tenendomi prigioniera?» Non potè trattenersi dal ridere sprezzante. Lui socchiuse gli occhi e assunse uno sguardo tanto cupo, tanto penetrante che Maura si chiese se non avesse tirato troppo la corda. «Ti ho salvato la vita», disse. «Mi cercheranno. E continueranno a farlo per tutto il tempo necessario. Se non mi lasci andare...» «Nessuno ti cerca, signora. Perché sei morta.» Quelle parole, pronunciate con tanta calma, la gelarono fino al midollo. Sei morta. Per un attimo, in preda alla frenesia e allo sconcerto, pensò che forse era vero, che era morta. Che quello era il suo inferno, la sua punizione, intrappolata per sempre in un luogo selvaggio, buio e freddo di sua invenzione con quello strano compagno che era per metà un ragazzo e per metà un uomo. Lui osservò il suo smarrimento con serenità inquietante, senza dir nulla. «Cosa intendi?» mormorò. «Hanno trovato il tuo corpo.» «Ma io sono qui. Sono viva.» «Non è quello che hanno detto alla radio». Gettò un altro ciocco sul fuoco e le fiamme crebbero subito riempiendo il rifugio di un fumo acre che le fece lacrimare gli occhi e le bruciò la gola. Poi andò nell'angolo dove si chinò su un cumulo di abiti e zaini. Frugando nel mucchio estrasse una radiolina. L'accese e da questa provenne una musica metallica, intercalata da scariche statiche. Una canzone country cantata da una donna che piangeva per amore e per un tradimento. Le porse la radio. «Aspetta le notizie.» Il suo sguardo restò tuttavia fisso sul mucchio di cose nell'angolo. Vide il suo zaino, quello che indossava quando aveva lasciato l'ultima volta la valle. E notò qualcos'altro che la fece trasalire. «Hai preso la borsa di Elaine», disse. «Sei un ladro.» «Volevo sapere chi ci fosse nella valle.» «Quelle erano le tracce delle tue racchette da neve. Ci stavi osservando.» «Aspettavo che qualcuno tornasse. Ho visto il fuoco.» «Perché non sei venuto a parlarci? Perché aggirarti di nascosto nei paraggi?» «Non sapevo se fossi una di quelli. Una di loro.» «Di loro chi?»
«Della Raccolta», rispose con voce sommessa. Maura si ricordò delle parole stampigliate in oro sulla Bibbia rilegata in pelle. Le parole del nostro Profeta. La saggezza della Raccolta. E si ricordò anche del ritratto appeso in ogni casa. Una di quelli, aveva detto il ragazzo. Il profeta. La canzone country si affievolì. Quando si udì la voce del DJ, si girarono entrambi verso la radio. «Giungono altri dettagli sul veicolo bruciato a Skyview Road. Quattro turisti sono rimasti uccisi la scorsa settimana quando il Suburban che avevano noleggiato è uscito di strada ed è precipitato per una quindicina di metri in un burrone. Le vittime sono state identificate: sono Ario Zielinski e il dottor Douglas Comley di San Diego, e anche la figlia tredicenne del dottor Comley, Grace. La quarta vittima è la dottoressa Maura Isles di Boston. I dottori Isles e Comley erano entrambi in città per partecipare a un congresso medico. Le strade ghiacciate e la scarsa visibilità durante la bufera di sabato scorso potrebbero aver contribuito all'incidente.» Il ragazzo spense la radio. «Sei tu, vero? Tu sei il medico di Boston.» Frugò nello zaino di Maura e prese il portafoglio. «Ho trovato la tua patente.» «Non capisco», mormorò. «C'è stato un terribile errore. Loro non sono morti. Erano vivi quando li ho lasciati. Grace, Elaine e Ario, erano vivi.» «Credono sia tu.» Indicò la borsa di Elaine. «Non c'è mai stato alcun incidente! E Douglas è partito con gli sci giorni fa!» «Non se l'è cavata.» «Come lo sai?» «Hai sentito quello che hanno detto alla radio. Lo hanno preso prima che arrivasse ai piedi della montagna. Nessuno se l'è cavata tranne te. E solo perché non eri là quando sono arrivati.» «Ma stavano venendo a salvarmi. C'era uno spazzaneve. L'ho sentito, risaliva la strada. Poco prima che tu...» Improvvisamente sconcertata, abbassò la testa tra le ginocchia. E'sbagliato, è tutto sbagliato. Il ragazzo le stava mentendo. La stava confondendo, spaventando in modo che restasse con lui. Ma come poteva sbagliarsi anche la radio? Un Suburban uscito di strada con quattro persone morte, aveva detto il notiziario. Una delle vittime era la dottoressa Maura Isles di Boston. La testa le pulsava, conseguenza del colpo che il ragazzo le aveva sferrato per zittirla. L'ultimo ricordo che aveva prima di quel colpo era della sua mano stretta sulla bocca mentre agitava le braccia e scalciava e lui la trascinava via dalla strada, via dalla luce intensa del sole verso l'oscurità
degli alberi. Lì nel bosco il ricordo s'interrompeva all'improvviso. Si premette le mani sulle tempie cercando di ragionare nonostante il dolore, di comprendere quanto aveva udito. Devo avere le allucinazioni, pensò. Forse mi ha colpito con tanta forza da rompere un vaso. Per questo niente ha senso. Devo concentrarmi. Devo focalizzarmi su quello che so effettivamente, su quello che sono del tutto certa sia vero. So di essere viva. So che Elaine e Grace non sono morte in un incidente d'auto. La radio si sbaglia. Il ragazzo mente. A poco a poco, con fatica si mise in piedi. Il cane e il ragazzo la guardarono mentre si alzava traballante come un vitello appena nato. Ci volevano solo alcuni passi per raggiungere la porta grezza ma dopo giorni di reclusione le sue gambe erano deboli e instabili. Se avesse cercato di fuggire, sapeva che non ce l'avrebbe fatta. «Non andartene», disse lui. «Non puoi tenermi prigioniera.» «Se vai via, ti troveranno.» «Ma non hai intenzione di fermarmi?» Lui sospirò. «Non posso, signora. Se non vuoi essere salvata.» Guardò il cane come per cercare conforto. Percependo l'angoscia del padrone, questo uggiolò e gli leccò la mano. Maura avanzò lenta verso la porta aspettandosi quasi che lui la allontanasse con uno strattone. Il ragazzo rimase immobile mentre spalancava la porta e usciva in una notte nera come la pece. Sprofondò nella neve alta fino alla coscia. Si raddrizzò barcollando e si ritrovò di fronte al nero assoluto del bosco. Alle sue spalle il fuoco brillava invitante nella porta aperta. Guardando indietro, vide il ragazzo in piedi che la osservava con la luce del fuoco che lo illuminava da dietro. Guardò di nuovo davanti a sé, verso gli alberi, fece due passi e si fermò. Non so dove sono e dove sto andando, non so cosa mi aspetta in quel bosco. Non vide una strada, un veicolo, non vide nulla tranne gli alberi claustrofobici che circondavano la piccola, squallida casupola. Di certo Verrà il Regno doveva essere raggiungibile a piedi. Quanta strada poteva coprire un ragazzo denutrito trasportandola priva di sensi? «Sono cinquanta chilometri fino alla città più vicina», disse. «Torno nella valle. È li che mi cercheranno.» «Ti perderai prima di arrivarci.» «Devo trovare i miei amici.» «Al buio?» Lei osservò gli alberi e l'oscurità. «Dove diavolo sono?» sbottò frustrata. «Al sicuro, signora.» Maura si girò verso di lui. Con passo più sicuro ora gli si avvicinò ricordandosi che era solo un ragazzo. Cosa che lo faceva
sembrare meno minaccioso. «Chi sei?» domandò. Lui restò zitto. «Non vuoi dirmi neanche il tuo nome?» «Non ha importanza.» «Cosa fai qui tutto solo? Non hai una famiglia?» Il ragazzo inspirò ed espirò con fare greve. «Vorrei sapere dove sono.» Maura batté le palpebre quando il vento le gettò la neve in faccia. Alzò lo sguardo mentre i fiocchi cominciavano a cadere, fini come polvere. La neve le atterrava sul viso come una miriade di aghi freddi. Il cane spuntò dalla casupola e affondando nella neve si avvicinò per leccarle le mani nude. La sua lingua le lasciò tracce viscide che si raffreddarono e le gelarono la pelle. Sembrava chiedesse una carezza e lei gli posò la mano sul pelo folto. «Se vuoi morire congelata là fuori», disse il ragazzo, «non posso fermarti. Ma io entro.» Guardò il cane. «Vieni, Bear.» Il cane s'immobilizzò di colpo. Maura sentì il pelo del collo rizzarsi e ogni muscolo del suo corpo parve contrarsi. Girandosi verso gli alberi, Bear emise un basso ringhio che le scatenò un brivido su per la schiena. «Bear?» disse il ragazzo. «Che c'è?» domandò Maura. «Perché fa così?» «Non lo so.» Fissarono entrambi la notte cercando di vedere cosa avesse allarmato l'animale. Udirono il vento, il fruscio degli alberi ma nient'altro. Il ragazzo prese a indossare le racchette da neve. «Vai dentro», esclamò. Poi lui e il cane si allontanarono in mezzo al bosco. Maura indugiò solo per pochi istanti. Ancora un po' e sarebbe rimasta troppo indietro per individuarli al buio. Con il cuore che le martellava, li seguì. All'inizio non riuscì a vederli ma sentì lo scricchiolio delle racchette e il rumore del cane che avanzava nel sottobosco. Via via che si addentrava, i suoi occhi si adattarono al buio e cominciò a distinguere più particolari. I tronchi incombenti dei pini. E le due figure che si muovevano davanti a lei, il ragazzo che camminava deciso a lunghi passi e il cane che procedeva a balzi per evitare la neve fonda. Più in là attraverso gli alberi vide qualcos'altro: un vago bagliore di un arancione diafano tra i fiocchi che cadevano. Sentì odore di fumo. Le gambe le tremavano per lo sforzo di tenere il passo ma continuò ad
avanzare nel timore di essere lasciata indietro, di dover vagabondare e di perdersi. Il ragazzo e il cane sembravano infaticabili e proseguivano coprendo quella che le pareva una distanza infinita mentre lei era sempre più distaccata. Ma adesso non li avrebbe persi perché vedeva dov'erano diretti. Erano tutti attirati da quel bagliore che si faceva sempre più intenso. Quando alla fine li raggiunse, il ragazzo era perfettamente immobile e le dava la schiena con lo sguardo fisso in lontananza nella valle. Molto più in basso rispetto a loro il paese di Verrà il Regno era avvolto dalle fiamme. «Oh, mio Dio», sussurrò Maura. «Cos'è successo?» «Sono tornati. Sapevo che lo avrebbero fatto.» Osservò le due file identiche di fiamme, ordinate e regolari come fuochi di un campo militare. Non era stato un incidente, pensò. Le fiamme non si erano diffuse di tetto in tetto. Qualcuno aveva deliberatamente appiccato il fuoco alle case. Il ragazzo si portò sull'orlo del dirupo, tanto vicino al precipizio che in un attimo di panico Maura pensò che stesse per saltar giù. Fissò in basso, ipnotizzato dalla distruzione di Verrà il Regno. Il potere seduttivo del fuoco catturò anche lo sguardo di Maura. Immaginò le fiamme che lambivano i muri della casa in cui si era rifugiata trasformando tutto in cenere. I fiocchi cadevano sciogliendosi sulle sue guance e mescolandosi alle lacrime. Lacrime per Douglas e Ario, per Elaine e Grace. Solo ora, vedendo il fuoco bruciare, credette veramente che fossero morti. «Perché ucciderli?» sussurrò. «Grace aveva solo tredici anni... era solo una ragazzina. Perché?» «Fanno qualsiasi cosa lui voglia.» «Qualsiasi cosa voglia chi?» «Jeremiah. Il profeta.» Sulle labbra del ragazzo il nome suonò più come una maledizione. «L'uomo del dipinto», disse Maura. «Ed egli riunirà i giusti. E li condurrà tutti all'inferno.» Si tolse il cappuccio bordato di pelo e Maura vide il suo profilo nella penombra, la mascella contratta per la rabbia. «Di chi erano quelle case?» chiese. «Chi viveva a Verrà il Regno?» «Mia madre. Mia sorella.» La sua voce si ruppe e abbassò la testa addolorato per il paese che veniva ingoiato dalle fiamme. «Le prescelte.»
23 Quando Jane, Gabriel e Sansone arrivarono nel luogo dell'incidente, trovarono la squadra di ricerca già in attesa sul ciglio della strada. Jane riconobbe lo sceriffo Fahey e l'agente Martineau, nonché quel vecchio strambo di Montgomery Loftus che possedeva la terra e che salutò i nuovi arrivati con un cenno riluttante. Almeno stavolta non brandiva un fucile. «Avete portato gli oggetti?» domandò Fahey. Jane sollevò una borsa a tracolla. «Abbiamo preso diverse cose da casa sua. Ci sono alcune federe e alcuni indumenti della cesta della biancheria. Dovrebbero bastare perché percepiscano l'odore.» «Possiamo tenerli?» «Sì. Per tutto il tempo che servirà a trovarla.» «Questo è il posto logico da cui iniziare.» Fahey porse la borsa all'agente Martineau. «Se è riuscita a sopravvivere all'incidente e si è allontanata, i cani potrebbero percepire il suo odore laggiù.» Jane e Gabriel si accostarono al bordo della strada e guardarono nel burrone. La carcassa del Suburban era ancora lì accartocciata, con la superficie bruciata ora ricoperta di neve. Jane non vedeva come qualcuno potesse essere sopravvissuto all'incidente, tanto più essersi allontanato. Ma i bagagli di Maura erano in quell'auto, perciò per logica bisognava presumere che viaggiasse nello sfortunato suv quando era precipitato dal dirupo. Cercò di immaginare come potesse essere miracolosamente sopravvissuta. Forse era stata scagliata fuori dal veicolo prima dell'impatto ed era atterrata sulla neve morbida evitando di finire incenerita. Forse si era allontanata dal rottame sotto shock e in preda a un'amnesia. Jane scrutò il terreno accidentato e si sentì ben poco ottimista all'idea di trovarla viva. Per questo non aveva informato Daniel Brophy che sarebbero tornati in Wyoming. Anche se fosse riuscita a superare il muro di isolamento che lo circondava, non poteva offrirgli la speranza di un esito diverso, la possibilità che le ricerche cambiassero la risposta finale. Se Maura era salita su quel Suburban, era quasi sicuramente morta. E il motivo per cui erano lì era trovarne il corpo. Cani e uomini cominciarono a scendere verso la carcassa fermandosi ogni pochi metri mentre i primi annusavano l'aria cercando l'odore che erano stati stimolati a seguire. Sansone li accompagnava anche se si teneva in disparte, come se fosse consapevole che la squadra lo considerava un intruso.
Il che non stupiva. Era un uomo di pochi sorrisi, una figura cupa e inavvicinabile a cui le tragedie passate sembravano appiccicarsi addosso come mosche. «Quel tizio è un altro prete?» Jane si girò e vide Loftus al suo fianco che osservava corrucciato gli invasori della sua proprietà. «No, è soltanto un amico», rispose. «L'agente Martineau mi ha detto che l'altra volta siete venuti con un prete. E adesso quel tizio. Huh», grugnì Loftus. «Che amici interessanti aveva.» «Maura era una persona interessante.» «Probabilmente sì, ma finiamo tutti nello stesso modo.» Si tirò giù la tesa del cappello, fece loro un cenno e si avviò verso il pick-up lasciando Jane e Gabriel soli sul bordo della strada. «La prenderà male quando troveranno il corpo», disse Gabriel fissando Sansone. «Tu credi sia laggiù.» «Dobbiamo essere pronti all'inevitabile.» Guardò mentre Sansone scendeva con passo deciso nel burrone. «E' innamorato di lei, vero?» Jane scoppiò in una triste risata. «Tu pensi?» «Qualsiasi siano le sue ragioni per essere qui, sono contento che sia venuto. Ha reso le cose molto più semplici.» «I soldi di solito lo fanno.» Il jet privato di Sansone li aveva portati dritti da Boston a Jackson Hole risparmiando loro il supplizio di prenotare i voli, di attendere ai controlli di sicurezza e di riempire le carte necessarie per spedire le armi. Sì, i soldi rendevano le cose più semplici. Ma non ti rendevano più felice, pensò Jane osservando Sansone tetro come se fosse in lutto davanti alla carcassa del Suburban. La squadra di ricerca si stava ora muovendo attorno all'auto in cerchi via via più ampi senza chiaramente captare alcun odore. Quando infine Martineau e Fahey presero a risalire il sentiero portando la borsa con gli effetti di Maura, Jane capì che avevano rinunciato. «Non hanno individuato niente?» domandò Gabriel quando spuntarono sulla strada, entrambi con il fiato grosso. «Neanche la minima traccia.» Martineau gettò la borsa in macchina e sbatté la portiera. «Credete sia passato troppo tempo?» chiese Jane. «Forse l'odore è svanito.» «Uno di quei cani è addestrato a trovare cadaveri e non ha ancora segnalato niente. Il conduttore pensa che il vero problema sia il fuoco. L'odore di benzina e di fumo riempie loro le narici. E poi c'è stata la forte nevicata.»
Guardò la squadra di ricerca che stava iniziando a salire verso di loro. «Se è laggiù, la troveremo a primavera.» «Rinunciate?» domandò Jane. «Che altro possiamo fare? I cani non trovano niente.» «Quindi lasciamo il suo corpo laggiù? Dove i mangiatori di carogne possono raggiungerlo?» Fahey reagì al suo sgomento con un sospiro stanco. «Dove ci suggerisce di iniziare a scavare, signora? Ci indichi il punto e lo faremo. Ma deve accettare il fatto che adesso si tratta di un recupero, non di un salvataggio. Anche se fosse sopravvissuta all'incidente, non sarebbe sopravvissuta al gelo. Non dopo tutto questo tempo.» La squadra raggiunse a fatica la strada e Jane vide volti arrossati ed espressioni abbattute. I cani sembravano altrettanto scoraggiati, non dimenavano più la coda. L'ultimo a risalire il sentiero fu Sansone e aveva l'aria più cupa di tutti. «Non hanno dedicato abbastanza tempo alla ricerca», commentò. «Anche se i cani la trovassero», sottolineò con calma Fahey, «l'esito non cambierebbe.» «Ma almeno lo sapremmo. Avremmo un corpo da seppellire», osservò Sansone. «So che il fatto di non avere una conclusione è difficile da accettare. Ma così va a volte da queste parti, signori. Un cacciatore ha un attacco cardiaco. Un escursionista si perde. Un piccolo aereo cade. A volte non troviamo i resti per mesi, addirittura per anni. Madre natura sceglie quando restituirli.» Fahey alzò lo sguardo mentre la neve riprendeva a cadere, secca e polverosa come talco. «E non è ancora pronta a restituire questo corpo. Non oggi.»
24 Aveva sedici anni, era nato e cresciuto nel Wyoming e si chiamava Julian Henry Perkins. Ma solo gli adulti gli insegnanti, i genitori adottivi e l'assistente sociale, lo chiamavano così. A scuola nei giorni buoni i compagni di classe lo chiamavano Julie Ann. In quelli cattivi Annie Facciadiculo. Odiava il suo nome, ma era quello che la madre aveva scelto per lui dopo aver visto un film il cui protagonista si chiamava Julian. Era tipico di sua madre, fare cose stravaganti come dare al figlio un nome che nessun altro aveva. Oppure scaricare lui e la sorella dal nonno per andarsene con un batterista. O, dieci anni più tardi, tornare a riprendersi i figli dopo aver scoperto il vero significato della vita con un profeta chiamato Jeremiah Goode. Il ragazzo raccontò tutto questo a Maura mentre scendevano lentamente il pendio con il cane che ansimava dietro a loro. Era passato un giorno da quando avevano visto il fuoco bruciare a Verrà il Regno; solo ora il ragazzo aveva ritenuto sicuro scendere nella valle. Agli scarponi di Maura aveva legato un paio di racchette da neve improvvisate, fabbricate con gli attrezzi trovati nelle case lasciate provvidenzialmente aperte nella cittadina di Pinedale. Maura pensò di ricordargli che quello era rubare, non trovare, ma concluse che lui non avrebbe colto la differenza. «Allora come vuoi essere chiamato dato che il nome Julian non ti piace?» gli chiese mentre scendevano con passo pesante verso Verrà il Regno. «Non m'importa.» «Alla maggior parte delle persone importa come le chiamano.» «Non vedo perché le persone debbano avere un nome.» «Per questo continui a chiamarmi signora?.» «Gli animali non usano nomi e se la cavano bene. Meglio di gran parte della gente.» «Ma non puoi continuare a dire: 'Ehi, tu'.» Proseguirono per un po' con le racchette da neve che scricchiolavano e il ragazzo che faceva strada. Appariva tutto sbrindellato mentre si muoveva in quel paesaggio bianco con il cane che lo tallonava ansimando. E lei era lì, seguiva volontariamente quelle due creature sudice e selvagge. Forse era la sindrome di Stoccolma; qualsiasi fosse la ragione, aveva rinunciato all'idea di fuggire dal ragazzo. Contava su di lui per mangiare e trovare riparo, e fatta eccezione per il colpo sulla testa il primo giorno, quando aveva freneticamente tentato di zittirla, non le aveva mai fatto del
male. Anzi, non accennava nemmeno a toccarla. Perciò si era calata con circospezione nel ruolo in parte della prigioniera in parte dell'ospite e in tale ruolo lo seguiva nella valle. «Rat», disse all'improvviso il ragazzo girando la testa. «Cosa?» «Così mi chiama mia sorella Carrie.» «Non è un nome molto bello.» «Mi piace. Viene dal film, quello del ratto che cucina.» «Intendi Ratatouille» «Sì. Il nonno ci aveva portati a vederlo. Mi piaceva quel film.» «Anche a me», disse Maura. «Comunque, ha iniziato a chiamarmi Rat perché a volte il mattino le preparavo la colazione. Ma è l'unica che mi chiama in quel modo. E' il mio nome segreto.» «Allora immagino di non poterlo usare.» Lui continuò a camminare per un po' con le racchette da neve che frusciavano sul pendio. Dopo un lungo silenzio si fermò e si voltò a guardarla, come se in seguito a intense riflessioni fosse finalmente giunto a una decisione. «Puoi usarlo anche tu», rispose proseguendo. «Ma non devi dirlo a nessuno.» Un ragazzo chiamato Rat e un cane chiamato Bear. Magnifico. Maura iniziava a prendere il ritmo della camminata con le racchette da neve, si muoveva con maggior naturalezza, ma faticava ancora a tenere il passo del ragazzo e del cane. «Quindi tua mamma e tua sorella vivevano qui nella valle. E tuo padre?» domandò. «E' morto.» «Oh, mi spiace.» «E' morto quando avevo quattro anni.» «Dov'è tuo nonno?» «E' morto l'anno scorso.» «Mi spiace», ripetè automaticamente. Lui si fermò e guardò indietro. «Non c'è bisogno che continui a ripeterlo.» Ma mi spiace, pensò lei osservando quella figura solitaria in piedi contro l'ampio sfondo bianco. Mi spiace che gli uomini a cui volevi bene se ne siano andati. Che a quanto pare tua madre entri ed esca dalla tua vita quando le fa comodo. Che l'unico su cui sembri poter fare affidamento, l'unico che ti stia accanto abbia quattro zampe e una coda. Si abbassarono ancora nella valle entrando nella zona devastata. Mentre scendevano dalla cresta, il puzzo degli edifici bruciati li aveva investiti a
zaffate. A ogni passo che facevano i danni apparivano più terrificanti. Ogni casa era ridotta a un ammasso di rovine annerite, il villaggio era completamente distrutto come se vi fossero passati dei conquistatori decisi a cancellarlo dalla faccia della terra. Tranne per lo scricchiolio delle racchette da neve e il rumore del loro respiro, il mondo era del tutto silenzioso. Si fermarono davanti ai resti della casa in cui Maura e i suoi compagni avevano trovato riparo. D'un tratto, mentre fissava il legno carbonizzato e i vetri in frantumi, le lacrime le offuscarono la vista. Rat e Bear avevano proseguito lungo la fila di abitazioni bruciate, ma lei era rimasta dov'era e nel silenzio sentì la presenza dei fantasmi. Di Grace e di Elaine, di Ario e di Douglas, persone che non aveva particolarmente apprezzato ma con le quali aveva lo stesso instaurato un legame. Erano ancora là e le mormoravano avvertimenti dalle rovine. Lascia questo posto. Finché puoi ancora farlo. Abbassando lo sguardo vide alcune tracce di pneumatici. Quella era la prova di un incendio doloso. Mentre i roghi imperversavano sciogliendo la neve, un fuoristrada aveva lasciato il segno del suo passaggio ben impresso nel fango ora congelato. Udì un grido d'angoscia e si girò allarmata. Rat cadde in ginocchio accanto a una casa bruciata. Mentre gli si avvicinava, vide che in entrambe le mani stringeva qualcosa di simile a un rosario. «Non lo avrebbe lasciato!» «Che c'è, Rat?» «E' di Carrie. Glielo aveva dato il nonno e non se lo toglieva mai.» Aprì lentamente le mani e mostrò un pendente a forma di cuore ancora attaccato a un pezzo rotto di catenina d'oro. «E' di tua sorella?» «Qualcosa non torna. Anzi, non torna un bel niente.» Si alzò agitato e cominciò a scavare tra i resti carbonizzati della casa. «Cosa fai?» domandò Maura. «Questa era casa nostra. Di mamma e di Carrie.» Frugò fra la cenere e i suoi guanti divennero ben presto neri di fuliggine. «Il pendente non sembra essere stato toccato dal fuoco, Rat.» «L'ho trovato sulla strada. Come se lo avesse lasciato cadere.» Afferrò un pezzo di legno bruciato e con un grugnito disperato sparpagliò la cenere. Maura guardò il terreno, ora ridotto a fanghiglia dopo che il calore del fuoco aveva sciolto il manto nevoso. Il pendente poteva essere lì da giorni, pensò. Che cos'altro aveva nascosto loro la neve? Mentre il ragazzo continuava ad aggredire le rovine della casa strappando le assi carbonizzate in cerca di frammenti della madre e della sorella, Maura fissò il pendente di Carrie nel tentativo di capire come qualcosa di tanto amato fosse finito abbandonato sotto la neve. Si ricordò di quanto avevano trovato dentro le case. I pasti
intatti, il canarino morto. E il sangue. La pozza ai piedi delle scale, lasciata coagulare e congelare sulle assi di legno dopo che il corpo era stato rimosso. Le famiglie non si sono semplicemente allontanate, pensò. Sono state costrette a lasciare casa loro tanto in fretta che hanno abbandonato il cibo e che una ragazzina non ha potuto fermarsi a recuperare una collanina che le era preziosa. Per questo è stato appiccato l'incendio, pensò. Per occultare ciò che è successo alle famiglie di Verrà il Regno. Bear emise un ringhio sommesso. Maura lo guardò e vide che era accucciato con i denti scoperti e le orecchie tirate indietro. Guardava verso la strada della valle. «Rat», disse. Il ragazzo non la stava ascoltando. Era concentrato a scavare tra i resti della casa dov'erano vissute la madre e la sorella. Il cane emise un altro ringhio più fondo, più insistente e rizzò il pelo della collottola. Qualcosa stava arrivando dalla strada. Qualcosa che lo spaventava. «Rat.» Finalmente il ragazzo alzò gli occhi, tutto sporco di fuliggine. Vide il cane e il suo sguardo guizzò subito verso la strada. Solo allora udirono il debole brontolio di un veicolo in avvicinamento nella valle. «Stanno tornando», disse. L'afferrò per un braccio e la trascinò verso la copertura degli alberi. «Aspetta.» Maura si liberò con uno strattone. «E se fosse la polizia che mi cerca?» «Non vorresti mai che ti trovassero qui. Scappa, signora!» Si girò e partì di corsa, più veloce di quanto Maura credesse possibile con le racchette da neve. Il veicolo in arrivo aveva tagliato loro la via più facile per uscire da Verrà il Regno e qualsiasi tracciato in salita sul pendio li avrebbe lasciati totalmente esposti. Il ragazzo stava scappando nell'unica direzione rimasta, nel bosco. Per un attimo Maura esitò, come del resto il cane. Bear lanciò nervoso un'occhiata al padrone che si allontanava, poi guardò Maura come per dirle Che aspetti? Se seguo il ragazzo, pensò lei, potrei allontanarmi dai soccorritori. Ho subito un tale lavaggio del cervello da voler restare con il mio rapitore? E se il ragazzo avesse ragione? Se la Morte stesse arrivando per me da quella strada? All'improvviso Bear scattò dietro il padrone. Il che infine la indusse a decidere. Quando anche un cane aveva il buon senso di fuggire, sapeva che era il momento di imitarlo. Li inseguì con le racchette da neve che ticchettavano sul fango congelato. Dopo l'ultima casa bruciata questo cedette di nuovo il posto alla neve alta.
Rat era molto più avanti e si stava addentrando nel bosco. Maura faticava a raggiungerli, già senza fiato mentre cercava freneticamente di metterci più energia. Proprio quando arrivò agli alberi udì un cane abbaiare. Un cane diverso, non Bear. Si nascose dietro un pino e guardò Verrà il Regno. Un suv nero si fermò tra le rovine e ne balzò fuori un grosso cane. Uscirono quindi due uomini armati di fucile e si misero a scrutare il villaggio bruciato. Erano troppo lontani perché Maura ne distinguesse i volti, ma sembravano chiaramente cercare qualcosa. All'improvviso sentì una zampa sulla schiena. Con un ansito si girò e si ritrovò faccia a faccia con Bear e la sua lingua rosea penzoloni. «Adesso mi credi?» mormorò Rat che si era accovacciato alle sue spalle. «Potrebbero essere cacciatori.» «Conosco i cani. Quello che hanno lì è un segugio.» Un uomo si allungò all'interno del suv e ne estrasse una borsa a tracolla. Si accucciò accanto al cane e gliene fece annusare il contenuto. «Gli sta facendo annusare l'odore», spiegò Rat. «Chi stanno cercando?» Adesso il segugio si stava muovendo, si aggirava tra le rovine con il naso per terra. Ma l'odore del fuoco sembrò confonderlo e si bloccò accanto ai legni anneriti dove Maura e Julian si erano soffermati in precedenza. Mentre gli uomini aspettavano, il cane girava in cerchio cercando di cogliere una traccia della preda. Poi i due si disposero a ventaglio e iniziarono a perlustrare la zona. «Ehi», gridò uno indicando il terreno. «Impronte di racchette da neve!» «Hanno trovato le nostre tracce», affermò Rat. «Adesso non hanno bisogno di un cane per individuarci.» Indietreggiò. «Andiamo.» «Dove?» Il ragazzo si era già addentrato nel bosco senza voltarsi a guardare se Maura lo stesse seguendo, senza curarsi del rumore secco delle racchette nel sottobosco. Il segugio cominciò ad abbaiare e tirare nella loro direzione. Maura corse dietro al ragazzo. Rat si muoveva come un cervo in preda al panico scostando con forza i rami per passare, sparpagliando la neve sulla sua scia. Maura sentiva gli uomini all'inseguimento, percepiva le loro grida e gli ululati eccitati del segugio. Eppure, mentre correva affannosamente nel bosco, il dubbio le dilaniava ancora la mente. Sto scappando dai miei soccorritori? Il colpo di fucile rispose alla sua domanda. Da un albero accanto alla sua testa saltò via un pezzo di legno e Maura udì il segugio abbaiare più vicino. Il terrore le infuse una nuova carica di energia. D'un tratto i suoi muscoli presero a contrarsi frenetici e le gambe a macinare terreno in mezzo al bosco. Esplose un altro colpo di fucile. E un altro pezzo di corteccia si staccò da un
albero. Poi udì un'imprecazione e lo sparo seguente mancò il bersaglio. «Neve del cazzo!» gridò uno degli uomini. Senza racchette affondavano restando bloccati nei cumuli. «Sciogli il cane! La fermerà!» «Va', bello. Prendila.» Una nuova ondata di panico spronò Maura a correre a precipizio, ma sentiva il segugio guadagnare terreno. Con le racchette da neve poteva battere gli inseguitori umani, ma non un cane. Disperata, scrutò gli alberi cercando di scorgere Rat. Come aveva fatto ad allontanarsi tanto? Adesso era sola, una preda isolata e il segugio si stava avvicinando. Le racchette la rendevano goffa e lì la vegetazione del sottobosco era troppo fitta, si impigliava nel loro telaio. Davanti a sé vide un'apertura tra gli alberi. Da un groviglio di rami balzò in un'ampia radura. Notò con una rapida occhiata lo scheletro di tre case nuove, congelate a metà costruzione. Sul margine più lontano della radura era parcheggiata una scavatrice con la cabina semisepolta dalla neve. Accanto c'era Rat che gesticolava concitato verso di lei. Maura si avviò nella sua direzione, ma a metà capì di non poter andare più veloce del cane. Lo sentiva sfrecciare rumoroso nel sottobosco. Le piombò come un'incudine sulle spalle e lei volò in avanti. Allungò le mani per attutire la caduta e affondò con le braccia nella neve fino ai gomiti. Mentre atterrava, udì uno strano rumore sordo sotto di lei, sentì qualcosa tagliarle il guanto della mano. Sputacchiando, con il volto coperto di neve farinosa ghiacciata, cercò di tirarsi su ma i rottami scivolarono sotto il suo peso e prese a dimenarsi impotente, come intrappolata nelle sabbie mobili. Il segugio si girò e spiccò di nuovo un balzo verso di lei. Maura alzò debolmente un braccio per proteggersi la gola e si aspettò di sentire i denti affondare nella carne. In quell'istante un lampo grigio saettò in cielo e Bear si scontrò a mezz'aria con il segugio. Il guaito fu impressionante come un grido umano. I due cani si dibatterono e rotolarono strappandosi il pelo con ringhi tanto selvaggi che Maura non potè fare altro che raggomitolarsi in preda al terrore. Alcuni schizzi rossi imbrattarono la neve, inquietantemente vividi. Il segugio cercò di allontanarsi, ma Bear non gli diede la possibilità di battere in ritirata e gli si gettò addosso. Rotolarono entrambi per terra scavando un solco insanguinato nella neve. «Fermo, Bear!» ordinò Rat. Arrivò nella radura stringendo un ramo, pronto a usarlo. Ma il segugio ne aveva avuto abbastanza e non appena Bear lo mollò fuggì verso il fuoristrada, lanciandosi terrorizzato nel sottobosco. «Sanguini», osservò Rat.
Lei si strappò il guanto insanguinato e si fissò il palmo lacerato. Il taglio era netto e profondo, fatto da qualcosa di affilato come un rasoio. Nella neve smossa vide alcuni frammenti di lamine metalliche e un'accozzaglia di fusti grigi opachi, riportati alla luce dai cani quando si erano dibattuti e rotolati. Tutto intorno c'erano mucchi coperti di neve e capì di trovarsi inginocchiata in un campo pieno di rifiuti e resti del cantiere edile. Si guardò la mano sanguinante. Il posto adatto per prendersi il tetano. Un colpo di fucile la fece drizzare di scatto. Gli uomini non avevano rinunciato all'inseguimento. Rat la fece alzare e tornarono a precipizio nel bosco. Le loro tracce erano facili da seguire, ma gli inseguitori non sarebbero stati in grado di tenere il passo nella neve alta. Bear faceva strada con la pelliccia sporca di sangue che ondeggiava come una bandiera scarlatta davanti a loro mentre si addentrava svelto nella valle. Il sangue continuava a uscirle dal palmo tagliato e Maura si premette il guanto già saturo contro la ferita, ossessionata da pensieri irrazionali di batteri e cancrene. «Quando li seminiamo», disse Rat, «dobbiamo tornare su per la cresta.» «Ci seguiranno fino al tuo ricovero.» «Non possiamo restare là. Prenderemo tutto il cibo che potremo portare e continueremo a muoverci.» «Chi erano quegli uomini?» «Non lo so.» «Erano della Raccolta?» «Non lo so.» «Maledizione, Rat. Cosa sai?» Lui le lanciò un'occhiata. «Come restare vivo.» Adesso stavano salendo, portandosi sempre più in alto sulla cresta e ogni passo era una fatica. Maura non capiva come il ragazzo guadagnasse terreno con tanta rapidità. «Devi portarmi a un telefono», disse. «Lasciare che chiami la polizia.» «Lui la tiene in pugno. Fanno quello che vuole.» «Parli di Jeremiah?» «Nessuno si mette contro il profeta. Nessuno reagisce, neanche mia mamma. Neanche quando...» S'interruppe e concentrò tutte le energie sull'attacco alla cresta. Maura si fermò sul pendio, senza fiato. «Cos'hanno fatto a tua mamma?» Lui continuò a salire, e la rabbia gli conferì una velocità micidiale. «Rat.» Maura si affannò a raggiungerlo. «Ascoltami. Ho degli amici, persone fidate. Portami a un telefono.»
Il ragazzo si fermò. Il suo respiro formava nubi di condensa nell'aria come un motore a vapore. «Chi hai intenzione di chiamare?» Daniel fu il primo pensiero, ma si ricordò di tutte le volte in cui non era riuscita a raggiungerlo, di tutte le conversazioni telefoniche imbarazzate quando altri ascoltavano e lui era stato costretto a parlare in codice. Ora, quando ne aveva più bisogno, non sapeva se potesse fare affidamento su di lui. Forse non potrò mai farlo. «Chi è questo amico?» insistette Rat. «Si chiama Jane Rizzoli.»
25 Lo sceriffo Fahey non sembrava contento di rivedere Jane. Glielo lesse in faccia persino in fondo alla stanza, al di là del divisorio di vetro: aveva un'aria seccata, come se si attendesse altre richieste. Si alzò dalla scrivania e rimase rassegnato in attesa sulla soglia mentre gli si avvicinava superando altri membri delle forze dell'ordine che ormai conoscevano i tre visitatori di Boston. Prima che potesse fargli la domanda prevista, Fahey la prevenne con la stessa risposta che le aveva dato per due giorni di fila. «Non ci sono nuovi sviluppi», disse. «Non sono venuta qui aspettandomi nuovi sviluppi», replicò Jane. «Mi creda, la chiamerò se cambia qualcosa. Non è davvero il caso che continuiate a venire.» Lanciò un'occhiata al di là della sua spalla. «Allora dove sono oggi gli altri due signori?» «Sono in albergo a fare le valigie. Avevo pensato di passare a ringraziarla prima di andare in aeroporto.» «Partite?» «Torniamo a Boston questo pomeriggio.» «Ho sentito che c'è di mezzo un jet privato. Dev'essere bello.» «Non è mio.» «E' suo, huh? Di quell'uomo in nero. E' un tipo strano.» «Sansone è una brava persona.» «A volte è difficile dirlo. Da queste parti vediamo molta gente piena di soldi. Personaggi di Hollywood, pezzi grossi della politica. Si comprano qualche centinaio di acri, si definiscono proprietari di ranch e pensano di avere il diritto di dirci come fare il nostro lavoro.» Malgrado si riferisse a persone senza nome, le sue parole erano in realtà dirette a lei, agli intrusi di Boston che erano piombati nella sua contea e avevano catalizzato tutta la sua attenzione. «Era nostra amica», disse Jane. «Certo capirà perché abbiamo voluto fare tutto il possibile per trovarla.» «Aveva proprio un bel gruppo di amici. Poliziotti, un prete. Un uomo ricco. Doveva essere una donna speciale.» «Sì.» Jane abbassò lo sguardo quando le suonò il cellulare e vide un prefisso del Wyoming ma non riconobbe il numero. «Mi scusi», disse a Fahey e rispose alla chiamata. «Detective Rizzoli.» «Jane?»
La voce era quasi un singhiozzo. «Grazie a Dio hai risposto!» Per un attimo Jane non riuscì a proferire suono. Rimase muta, paralizzata con il cellulare premuto all'orecchio e il rumore dell'ufficio dello sceriffo sovrastato dal martellare del suo polso. Sto parlando con un fantasma. «Credevo fossi morta!» esclamò d'impulso Jane. «Sono viva. Sto bene!» «Gesù, Maura, abbiamo organizzato il tuo servizio funebre!» Le lacrime le bruciarono gli occhi e se le asciugò spazientita con la manica. «Dove diavolo sei? Hai idea di cosa...» «Ascolta. Ascoltami.» Jane trattenne il fiato. «Sono qui.» «Devi venire nel Wyoming. Ti prego vieni a prendermi.» «Siamo già qui.» «Cosa?» «Abbiamo lavorato con la polizia per trovare il tuo corpo.» «Quale polizia?» «Lo sceriffo della contea di Sublette. In questo momento sono nel suo ufficio.» Si girò e scoprì che Fahey era proprio accanto a lei con lo sguardo pieno di interrogativi. «Dicci solo dove sei e veniamo a prenderti.» Non ci fu risposta. «Maura? Maura?» La comunicazione era stata interrotta. Riagganciò e fissò il numero nell'elenco chiamate ricevute. «Mi serve un indirizzo!» urlò e ripetè a memoria il numero. «E' un prefisso del Wyoming!» «Era lei?» domandò Fahey. «E' viva!» Jane scoppiò in una risata di gioia mentre componeva il numero. Suonò e suonò senza che nessuno rispondesse. Jane terminò la chiamata e ricompose il numero. Di nuovo nessuna risposta. Fissò il cellulare desiderando che suonasse ancora. Fahey tornò alla scrivania e tentò di chiamare dal suo telefono. Ormai tutti nell'ufficio erano stati attratti dalla conversazione e lo osservarono mentre componeva il numero. Rimase in piedi tamburellando le dita sul tavolo e infine riagganciò. «Neanch'io ho avuto risposta», disse. «Ma mi ha appena chiamato da quel numero.» «Cosa ha detto?» «Mi ha chiesto di andare a prenderla.» «Le ha dato un'idea di dove si trovi? Di cosa le sia successo?» «Non ce l'ha fatta. Siamo state interrotte.» Jane guardò il cellulare muto come se l'avesse tradita.
«Ho l'indirizzo!» esclamò un agente. «Il telefono è intestato a una certa Norma Jacqueline Brindell su a Doyle Mountain.» «Dov'è?» chiese Jane. «Ad almeno otto chilometri dal luogo dell'incidente, verso ovest. Come diavolo è finita lassù?» «Me lo mostri sulla carta.» Si avvicinarono alla carta della contea appesa al muro e lui picchiettò un dito su un angolo remoto. «Non c'è niente tranne qualche chalet aperto stagionalmente. Dubito che in questo periodo dell'anno ci viva qualcuno.» Guardò l'agente che aveva dato loro l'indirizzo. «È sicuro del luogo?» «La chiamata è arrivata da lì, signora.» «Continuate a chiamare. Vedete se qualcuno risponde», disse Fahey. Guardò l'operatrice del centralino. «Guarda chi abbiamo in zona in questo momento.» Jane osservò di nuovo la mappa e notò ampie distese con poche strade e aspri rilievi. Come aveva fatto Maura a finire lassù, così lontana dalla carcassa del Suburban? Studiò la carta spostando lo sguardo più volte tra il luogo dell'incidente e Doyle Mountain. Otto chilometri a ovest. Si immaginò valli coperte di neve e dirupi altissimi. Un posto panoramico, certo, ma niente paesi, niente ristoranti, niente che attragga un turista della East Coast. L'operatrice esclamò: «L'agente Martineau si è appena messo in contatto via radio. Dice che prende lui la chiamata. Si sta dirigendo ora a Doyle Mountain».
26 Il telefono in cucina non smetteva di suonare. «Fammi rispondere», disse Maura. «Dobbiamo andarcene.» Il ragazzo stava svuotando gli armadietti della dispensa e gettando il cibo nello zaino. «Ho visto una pala sul portico posteriore. Prendila.» «È la mia amica, cerca di raggiungermi.» «Arriverà la polizia.» «È tutto a posto, Rat. Ti puoi fidare di lei.» «Ma di loro no.» Il telefono stava di nuovo suonando. Maura si girò per rispondere, ma il ragazzo afferrò il filo e lo strappò dal muro. «Vuoi morire?» urlò. Maura lasciò cadere il ricevitore muto e indietreggiò. In preda al panico il ragazzo incuteva paura, sembrava addirittura pericoloso. Lanciò un'occhiata al cavo che gli penzolava dal pugno. Un pugno abbastanza possente da massacrare una faccia, da fracassare una trachea. Gettò a terra il cavo e fece un respiro. «Se vuoi venire con me, dobbiamo partire ora.» «Mi dispiace, Rat», rispose calma. «Ma non vengo con te. Aspetterò qui la mia amica.» Ciò che vide nei suoi occhi non era rabbia ma dolore. Si legò lo zaino in silenzio e prese le sue racchette, di cui Maura non avrebbe più avuto bisogno. Senza voltarsi a guardare, senza nemmeno un saluto si girò verso la porta. «Andiamo Bear», esclamò. Il cane esitò guardando ora l'uno ora l'altra come se cercasse di capire quei pazzi umani. «Bear.» «Aspetta», disse Maura. «Resta con me. Torneremo in città insieme.» «La città non è il mio mondo, signora. Non lo è mai stato.» «Non puoi vagabondare là fuori da solo.» «Io non vagabondo là fuori. So dove andare.» Guardò di nuovo il cane e stavolta Bear lo seguì. Maura osservò il ragazzo uscire dalla porta posteriore con il cane alle calcagna. Dalla finestra rotta della cucina li vide arrancare nella neve verso il bosco. Il ragazzo selvaggio e il suo compagno che tornavano tra i monti. Un attimo dopo scomparvero tra gli alberi e si chiese se fossero mai esistiti. Se nella sua paura e nel suo isolamento non si fosse inventata due salvatori immaginari. Ma no, vedeva le impronte sulla neve. Il ragazzo era reale.
Reale come la voce di Jane al telefono. Il mondo esterno, dopotutto, non era scomparso. Al di là di quei monti c'erano ancora città, ancora persone che svolgevano le loro normali attività. Persone che non si rintanavano nei boschi come animali braccati. Per troppo tempo era rimasta bloccata in compagnia del ragazzo, aveva quasi iniziato a credere come lui che la natura selvaggia fosse l'unico luogo sicuro. Era tempo di tornare al mondo reale. Al suo mondo. Studiò il telefono e vide che il cavo era troppo danneggiato per poter essere ricollegato, ma non dubitava che Jane sarebbe riuscita a individuare lo stesso il posto in cui si trovava. Ora tutto quello che devo fare è aspettare, pensò. Jane sa che sono viva. Qualcuno verrà a prendermi. Andò in soggiorno e si sedette sul divano. Lo chalet non era riscaldato e il vento entrava dalla finestra rotta della cucina, perciò tenne la giacca chiusa. Si sentiva in colpa per la finestra che Rat aveva fracassato per poter entrare. Poi c'era il cavo danneggiato del telefono e la dispensa saccheggiata, tutti danni che ovviamente avrebbe pagato. Avrebbe spedito un assegno accompagnato da scuse sincere. Seduta nella casa di uno sconosciuto, in cui si era introdotta illegalmente, fissò le fotografie sulle mensole dei libri. Vide le immagini di tre bambini piccoli in varie pose e una donna dai capelli grigi che sollevava fiera una trota impressionante. I libri della biblioteca erano letture leggere per l'estate. Mary Higgins Clark e Danielle Steel, la raccolta di una donna dai gusti tradizionali che amava le storie d'amore e i gattini di ceramica. Una donna che probabilmente non avrebbe mai incontrato di persona ma a cui sarebbe sempre stata grata. Il tuo telefono mi ha salvato la vita. Qualcuno batté sulla porta d'ingresso. Maura schizzò in piedi. Non aveva sentito l'auto fermarsi davanti alla casa, ma dalla finestra del soggiorno vide un suv del Dipartimento dello sceriffo della contea di Sublette. Finalmente l'incubo è finito, pensò mentre apriva la porta. Torno a casa. Sul portico c'era un giovane agente con la targhetta Martineau. Aveva i capelli rasati e il portamento severo di un uomo che prendeva sul serio il suo lavoro. «Signora?» disse. «E' stata lei a telefonare?» «Sì! Sì, sì, sì.» Maura avrebbe voluto gettargli le braccia al collo, ma non sembrava un poliziotto amante degli abbracci. «Non ha idea di quanto sia contenta di vederla!» «Posso sapere il suo nome per favore?» «Sono la dottoressa Maura Isles. Credo si siano diffuse voci premature sulla mia morte.» La sua risata suonò smodata, folle.
«Ovviamente non sono vere!» Lui guardò attentamente alle sue spalle, all'interno della casa. «Come è arrivata in questa abitazione? Qualcuno l'ha fatta entrare?» Maura si sentì arrossire in preda al senso di colpa. «Mi spiace, abbiamo dovuto rompere una finestra per entrare. E c'è qualche altro danno. Ma prometto che pagherò tutto.» «Abbiamo?» Maura tacque temendo all'improvviso di aver messo nei guai il ragazzo. «Non avevo scelta», rispose. «Dovevo raggiungere un telefono. Perciò mi sono introdotta in casa. Spero che da queste parti non sia un reato da impiccagione.» Il poliziotto alla fine sorrise, ma in quel sorriso c'era qualcosa di strano. Non gli sfiorò nemmeno gli occhi. «Ora la riporteremo in città», disse. «Potrà raccontarci tutto.» Mentre saliva sul sedile posteriore e chiudeva la portiera, Maura cercava ancora di capire che cosa la inquietasse di quel giovane agente. Il suv era un mezzo del Dipartimento dello sceriffo e una grata metallica la isolava sul sedile di dietro, bloccandola in una gabbia concepita per trattenere un prigioniero. Quando l'agente si mise al volante, la radio si animò con un crepitio. «Bobby, qui la centrale», disse una voce femminile. «Sei già arrivato a Doyle Mountain?» «Dieci quattro, Jan. Ho appena controllato l'intera casa», rispose l'agente Martineau. «L'hai trovata? Perché quella poliziotta di Boston ci sta col fiato sul collo.» «No, mi spiace.» «Non c'era nessuno?» «Dev'essere stato uno scherzo perché qui non c'è nessuno. Adesso lascio la scena, dieci diciassette.» Maura fissò oltre la grata e d'un tratto incrociò lo sguardo dell'agente nel retrovisore. L'occhiata che le diede le gelò il sangue nelle vene. Lo avevo visto nel suo sorriso. Sapevo che qualcosa non andava. «Sono qui!» gridò Maura. «Aiutatemi! Sono quii» L'agente Martineau aveva già spento la radio. Si allungò verso la maniglia della portiera, ma non c'era niente da afferrare. Un'auto della polizia. Non c'era modo di uscire. Picchiò frenetica sui finestrini gridando, ignara del dolore dei pugni che sbattevano contro il vetro. Lui avviò il motore. Cosa sarebbe accaduto dopo, un viaggio verso una località solitaria e l'esecuzione? Il suo corpo lasciato alla mercé dei mangiatori di carogne? Afferrò la grata in preda al panico, ma ossa e carne non potevano reggere il confronto con
l'acciaio. Il poliziotto girò il suv sulla stradina e schiacciò all'improvviso il freno. «Merda», bofonchiò. «Tu da dove spunti?» Il cane era in mezzo alla strada e bloccava l'auto. L'agente Martineau si chinò sul clacson. «Togliti dai piedi, cazzo!» urlò. Anziché battere in ritirata, Bear si alzò sulle zampe posteriori, piantò due zampe sul cofano e iniziò ad abbaiare. Per un momento l'agente fissò l'animale chiedendosi se premere l'acceleratore e investirlo. «Merda. Non ha senso sporcare di sangue tutto il paraurti», brontolò e scese dal suv. Bear si rimise a quattro zampe e avanzò lento verso di lui ringhiando. Il poliziotto sollevò l'arma e prese la mira. Era tanto concentrato a colpire il bersaglio che non notò la pala che si stava avvicinando alla sua testa. Questa gli si abbatté sul cranio e lui barcollò finendo contro l'auto mentre l'arma volava nella neve. «Nessuno spara al mio cane», affermò Rat. Spalancò la portiera di Maura. «E' ora di andare, signora.» «Aspetta, la radio! Possiamo chiamare aiuto!» «Non mi ascolti proprio mai ?» Lei si affannò a uscire dal suv e vide che l'agente era in ginocchio, e aveva recuperato l'arma. Proprio mentre la sollevava, il ragazzo gli si gettò addosso. I due piombarono a terra. Rotolarono più volte nella neve lottando per prendere la pistola. L'esplosione sembrò fermare il tempo. Nel silenzio improvviso il cane si bloccò. Poi lentamente Rat rotolò via e si rimise in piedi vacillando. Aveva la parte davanti della giacca schizzata di rosso. Ma non era il suo sangue. Maura si inginocchiò accanto al poliziotto. Era ancora vivo con gli occhi aperti e lo sguardo sconvolto. Il sangue gli zampillava dal collo. Fece pressione sulla ferita per arrestare il fiotto arterioso, ma già il sangue stava impregnando la neve. Già la luce gli stava svanendo dagli occhi. «Va' alla radio», gridò al ragazzo. «Chiedi aiuto.» «Non volevo», mormorò lui. «La pistola ha sparato...» Dalla gola dell'uomo provenne un gorgoglio. L'ultimo alito gli uscì dal corpo, e con esso l'anima. Maura guardò i suoi occhi offuscarsi, i muscoli del collo diventare flaccidi. Il sangue che sgorgava dalla ferita rallentò fino a trasformarsi in un gocciolio. Troppo stordita per muoversi, restò in ginocchio nella neve pestata e non sentì il veicolo in avvicinamento.
Rat invece sì. La tirò su per un braccio con forza tale da rimetterla dritta in piedi. Solo allora scorse il pick-up svoltare nella stradina. Rat raccolse l'arma del poliziotto proprio mentre il colpo di fucile centrava il suv. Un secondo colpo fece saltare il finestrino e la gragnola di frammenti di vetro la investì sulla testa. Non sono colpi di avvertimento; cerca di uccidere. Rat scattò verso gli alberi e lei gli fu subito alle calcagna. Quando il pick-up si fermò dietro l'auto dell'agente, stavano già correndo affannosamente nel bosco. Maura sentì un terzo colpo di fucile, ma non si voltò a guardare. Tenne lo sguardo fisso su Rat che li stava conducendo sempre più al riparo, appesantito dall'ingombrante zaino. Si fermò solo per porgerle le racchette da neve. In un secondo le indossò. Poi ripresero a muoversi con il ragazzo che faceva strada via via che si addentravano nella natura selvaggia.
27 Jane fissò il punto dove era stato trovato il corpo dell'agente e cercò di interpretare la neve. Il cadavere era già stato rimosso. Il personale sia dell'ufficio dello sceriffo della contea sia del DIE, il Dipartimento indagini criminali del Wyoming, aveva ispezionato il luogo calpestando la neve e si distinguevano almeno cinque o sei impronte di scarpe diverse. Ciò che attirò la sua attenzione, e anche quella degli altri investigatori, furono le tracce delle racchette. Si allontanavano dal suv dell'agente morto e puntavano verso il bosco. Nella stessa direzione andavano le impronte di un cane e anche quelle di un paio di scarponi, un numero trentotto da donna, forse di Maura. Le tre tracce si inoltravano nel bosco dove, un po' più in là, quelle degli scarponi terminavano. Lì iniziava un'altra serie di impronte di racchette. Maura si è fermata tra questi alberi per indossare le racchette da neve. E poi ha continuato a correre. Jane cercò di immaginare una scena che potesse spiegare le orme. La sua teoria iniziale era che chiunque avesse ucciso Martineau avesse preso l'arma del poliziotto e costretto Maura a fuggire nel bosco con lui. Ma quelle orme la smentivano. Mentre fissava la neve, individuò un'impronta di scarpone sovrapposta alla traccia delle racchette. Il che significava che Maura aveva seguito il presunto carceriere, non che camminava spinta davanti a lui. Jane rimase a rimuginare il mistero cercando di far combaciare quanto osservava con quanto aveva senso. Perché Maura avrebbe seguito volontariamente l'assassino di un poliziotto nel bosco? Perché in primo luogo aveva fatto quella telefonata? Era stata costretta ad attirare un agente in trappola? «Hanno rilevato impronte dappertutto», affermò Gabriel. Si voltò verso il marito che era appena uscito dalla casa. «Dove?» «Sulla finestra rotta, sugli armadietti di cucina. Sul telefono.» «Da cui ha fatto la chiamata.» Gabriel assentì. «Hanno strappato il filo dal muro. Ovviamente qualcuno ha voluto interrompere la conversazione.» Indicò l'auto del poliziotto assassinato. «Hanno preso impronte anche sulla portiera della macchina. Ci sono buone probabilità che sapremo con chi abbiamo a che fare.» «E' sicuro come l'oro che la donna non si sia comportata da ostaggio», insistette una voce. «Ve lo dico, è corsa verso quegli alberi. Nessuno la stava trascinando.» Jane si girò per assistere alla conversazione tra il detective del DIE del
Wyoming e Montgomery Loftus, che aveva denunciato l'uccisione. La voce del vecchio proprietario era salita di tono per l'agitazione attirando l'attenzione di tutti. «Li ho visti là, chini sul suo corpo come due avvoltoi. Un uomo e una donna. L'uomo... lui raccoglie l'arma e si gira verso di me. Temo che voglia sparare alla mia macchina, perciò faccio partire un colpo.» «Più di uno, mi sembra», disse il detective. «Sì, be', saranno stati tre o quattro.» Loftus lanciò uno sguardo al finestrino in frantumi del suv. «Mi sa che quello è colpa mia. Ma che diavolo vi aspettavate facessi? Che non mi difendessi? Non appena ho sparato i primi colpi, sono scappati tutti e due nel bosco.» «Autonomamente? O la donna è stata costretta?» «Costretta?» Loftus sbuffò. «Gli è corsa dietro. Nessuno l'ha costretta a farlo.» Nessuno tranne un vecchio allevatore incazzato che le sparava addosso. A Jane non piacque il modo in cui veniva raccontata quella storia, come se Maura fosse parte di una coppia alla Bonnie e Clyde. Eppure non poteva contestare quanto indicavano le impronte nella neve. Maura non era stata trascinata nel bosco, era fuggita. «Come mai si trovava in questa proprietà, signor Loftus?» chiese Sansone. Si girarono tutti a guardarlo. Fino a quel momento era rimasto zitto, una figura inavvicinabile che aveva suscitato occhiate di curiosità da parte del personale del DIE, ma nessuno aveva osato mettere in discussione la sua presenza sulla scena del crimine. Anche se la domanda di Sansone era stata posta in modo rispettoso, Loftus s'irritò. «Che cosa vuole insinuare, signore?» «Mi sembra un luogo piuttosto fuori mano in cui capitare per caso. Mi chiedevo perché si trovasse qui.» «Perché Bobby mi ha chiamato.» «L'agente Martineau?» «Ha detto che era su a Doyle Mountain e pensava di avere un problema. Io vivo poco a est di qui, perciò mi sono offerto di passare in caso avesse bisogno di una mano.» «E' una procedura normale per un agente delle forze dell'ordine chiamare un civile se ha bisogno di assistenza?» «Non so come vadano le cose a Boston, signore. Ma quassù, quando qualcuno si caccia in un pasticcio, la gente è pronta a intervenire e ad aiutare. Soprattutto quando è un rappresentante della legge.» «Sono sicuro che il signor Loftus volesse solo comportarsi da bravo cittadino, signor Sansone. Abbiamo una vasta contea da coprire, un bel po'
di territorio. Quando i rinforzi più vicini si trovano a trenta chilometri, ci riteniamo fortunati ad avere persone come lui a cui rivolgerci», spiegò lo sceriffo Fahey. «Non intendevo mettere in dubbio le motivazioni del signor Loftus.» «Ma è quello che stava facendo», affermò questi. «Accidenti, dove finiremo? Adesso mi chiederà se sono stato io a uccidere Bobby.» Si avvicinò a grandi passi al pick-up e prese il fucile. «Ecco, detective Pasternak!» Porse l'arma all'investigatore del DIE. «Lo sequestri pure. Lo esamini nel vostro laboratorio speciale.» «Dai, Monty», sospirò Fahey. «Nessuno pensa che tu abbia ucciso Bobby.» «Queste persone di Boston non mi credono.» Jane intervenne allora nella conversazione. «Signor Loftus, non è affatto così. Stiamo solo cercando di capire cosa sia successo qui.» «Vi ho detto quello che ho visto. Hanno lasciato che Bobby Martineau morisse dissanguato. E sono scappati.» «Maura non lo farebbe.» «Lei non c'era. Non l'ha vista scappare nel bosco. Accidenti se si è comportata come una che ha fatto qualcosa di male.» «Allora ha frainteso i fatti.» «Ho visto quello che ho visto.» «Molte di queste domande potranno trovare risposta grazie alla telecamera montata sul cruscotto», rispose Gabriel. Guardò lo sceriffo Fahey. «Dobbiamo dare un'occhiata al video dell'agente.» D'un tratto Fahey apparve a disagio. «Temo ci sia un problema.» «Un problema?» «La telecamera nell'auto dell'agente Martineau non stava riprendendo.» Jane fissò incredula lo sceriffo. «Com'è accaduto?» «Non sappiamo come sia accaduto. Era spenta.» «Perché Martineau l'avrebbe spenta? Dovrebbero esserci regolamenti che lo proibiscono.» «Forse non è stato lui», rispose Fahey. «Forse l'ha spenta qualcun altro.» «Non mi dica», bofonchiò Jane. «Incolperà Maura anche di questo?» Fahey arrossì. «Be', visto che lavora con le forze dell'ordine, doveva essere al corrente delle telecamere sul cruscotto.» «Mi scusi», s'intromise il detective Pasternak del DIE. «Sto raccogliendo informazioni sulla dottoressa Isles. Vorrei sapere di più su di lei.» Nonostante si fosse presentato in precedenza, era la prima volta che Jane
rivolgeva tutta la sua attenzione a Pasternak. Pallido e intento a tirare su col naso, con il collo da cicogna esposto al freddo, sembrava ansioso di trovarsi in un ufficio caldo anziché lì a tremare, su quella stradina spazzata dal vento. «Posso aiutarla io», rispose Jane. «Fino a che punto la conosce?» «Siamo colleghe. Ne abbiamo passate parecchie insieme.» «Può tracciarmi un quadro completo?» Jane pensò quanto fosse facile condizionare in un modo o nell'altro l'impressione che quell'uomo avrebbe avuto di Maura. Tutto stava nei particolari che avesse scelto di rivelare. Sottolinea la sua professionalità e lui vedrà una scienziata, affidabile e rispettosa della legge. Divulga altri particolari e il ritratto diventa più torbido, i tratti vengono offuscati dalle ombre. La sua storia familiare cupa, sanguinaria. La sua relazione illecita con Daniel Brophy. Quella era una donna diversa, incline a seguire impulsi sconsiderati e passioni distruttive. Se non sto attenta, pensò Jane, potrei dare a Pasternak tutte le ragioni che gli servono per trattare Maura come una sospettata. «Voglio sapere tutto di lei», affermò questi. «Qualsiasi informazione che possa aiutare la squadra di ricerca prima che inizi, domani. Dovranno essere ragguagliati quando ci riuniremo in città.» «Posso dirle questo», affermò Jane. «Maura non è una donna che ama la vita all'aria aperta. Se non la trovate presto, non sopravviverà là fuori.» «Sono passate quasi due settimane da quando è scomparsa. E' riuscita a rimanere viva per tutto questo tempo.» «Non so come.» «Forse grazie all'uomo che è con lei», suggerì lo sceriffo Fahey. Jane guardò la montagna dove i burroni si stavano già scurendo, avvolti dalle ombre. Negli ultimi brevi istanti, quando il sole era calato oltre la cima, la temperatura era precipitata. Tutta tremante per il freddo, Jane si abbracciò e pensò a una notte passata senza un ricovero su quella montagna, dove la foresta aveva artigli e il vento riusciva sempre a scovarti. Una notte con un uomo di cui non sapevano niente. Quello che succederà dopo potrebbe dipendere solo da lui.
28 «Le sue impronte digitali non ci sono nuove», affermò lo sceriffo Fahey rivolgendosi agli agenti delle forze dell'ordine e ai volontari che occupavano i posti nel municipio di Pinedale. «Lo stato del Wyoming ha già le sue impronte. Il nome del criminale è Julian Henry Perkins, e ha proprio una bella fedina.» Fahey lesse dagli appunti. «Furto d'auto. Scasso ed effrazione. Vagabondaggio. Diverse accuse per piccoli furti.» Jane scosse la testa. «Sarò anche un po' sfinita», esclamò dal suo posto in terza fila, «ma non mi sembra certo una fedina da assassino di poliziotti.» «Lo è quando hai solo sedici anni.» «Il criminale è un minore?» «Le sue impronte digitali erano dappertutto sugli armadietti di cucina, nonché sulla portiera dell'auto dell'agente Martineau. Dobbiamo presumere che sia il soggetto che il signor Loftus ha visto sulla scena», spiegò il detective Pasternak. «Il nostro ufficio conosce il giovane Perkins», disse Fahey. «Lo abbiamo beccato numerose volte per diverse infrazioni. Quello che non riusciamo a capire è il suo legame con la donna.» «Il suo legame?» esclamò Jane. «Maura è il suo ostaggio!» In prima fila Montgomery Loftus sbuffò. «Non è quello che ho visto.» «Quello che pensa di aver visto», replicò lei. L'uomo si girò e lanciò ai tre visitatori di Boston una fredda occhiata. «Voi non c'eravate.» «Signora, conosciamo Monty da una vita. Non si inventa le cose», osservò Fahey. Allora forse ha bisogno di un paio di occhiali, avrebbe voluto dire Jane, ma si trattenne. Nella sala del municipio, dove si erano radunate decine di cittadini locali per la riunione, i tre bostoniani erano in minoranza. L'omicidio di un agente aveva sconvolto la comunità ed erano accorsi parecchi volontari, desiderosi di consegnare l'assassino alla giustizia. Volontari con fucili, facce cupe e pieni di rabbia. Jane ne osservò i volti ed ebbe un brivido premonitore. Hanno una voglia matta di uccidere, pensò. E non importa che la loro preda sia un sedicenne. Dalla fila in fondo si levò all'improvviso la voce di una donna. «Julian
Perkins è soltanto un ragazzo! Non può pensare seriamente di sguinzagliargli dietro una squadra armata.» «Ha ucciso un agente, Cathy», dichiarò Fahey. «Non è soltanto un ragazzo.» «Conosco Julian meglio di voi. Stento a credere che abbia ucciso qualcuno.» «Scusatemi», affermò il detective Pasternak. «Non sono di questa contea. Potrebbe presentarsi, signora?» La giovane si alzò e Jane la riconobbe subito. Era l'assistente sociale che aveva incontrato sulla scena del duplice omicidio al Circle B. «Sono Cathy Weiss, Servizi di assistenza per l'infanzia della contea di Sublette. Da un anno sono l'assistente sociale di Julian.» «E non crede che possa aver ucciso l'agente Martineau?» chiese Pasternak. «Nossignore.» «Cathy, guarda la sua fedina», osservò Fahey. «Quel ragazzo non è un angelo.» «Ma neanche un mostro. Julian è una vittima. E' un ragazzo di sedici anni che cerca solo di sopravvivere in un mondo in cui nessuno lo vuole.» «La maggior parte dei ragazzi riesce a sopravvivere bene senza introdursi nelle case e rubare auto.» «La maggior parte dei ragazzi non viene usata e sottoposta ad abusi da sette evangeliche.» Fahey alzò gli occhi al cielo. «Ci risiamo con questa storia.» «Vi avverto da anni a proposito della Raccolta. Da quando si sono trasferiti in questa contea e hanno costruito il loro piccolo e perfetto villaggio all'insegna della sottomissione femminile. Ora vedete i risultati. Questo è ciò che accade quando ignorate i segnali di pericolo. Quando vi voltate dall'altra parte mentre i pedofili agiscono proprio sotto il vostro naso.» «Non abbiamo alcuna prova di quello che dici. Abbiamo valutato le testimonianze. Bobby è andato lassù tre volte e tutto quello che ha trovato sono state famiglie laboriose che volevano solo essere lasciate in pace.» «Lasciate in pace perché possano abusare dei loro figli.» «Possiamo tornare all'argomento in questione?» gridò un uomo dal pubblico. «Sì, stiamo perdendo tempo!» «Questo è l'argomento in questione», replicò Cathy osservando la sala municipale. «Questo è il ragazzo a cui siete tanto smaniosi di dare la caccia. Un ragazzo che grida aiuto. E nessuno ascolta.» «Signorina Weiss», affermò il detective Pasternak, «la squadra di ricerca ha bisogno di tutte le informazioni che può ottenere prima di partire domani mattina. Lei afferma di conoscere Julian Perkins. Ci spieghi cosa ci si può attendere da questo ragazzo. E' la fuori in una notte spaventosamente fredda con una donna che potrebbe essere un ostaggio. Ma è in grado di sopravvivere?»
«Assolutamente sì», rispose lei. «Perché ne è proprio così sicura?» «Perché è il nipote di Absolem Perkins.» Nella stanza ci fu un mormorio e il detective Pasternak si guardò attorno perplesso. «Scusatemi. E' rilevante?» «Se fosse cresciuto nella contea di Sublette conoscerebbe quel nome», disse Montgomery Loftus. «Era un uomo che viveva isolato. Si è costruito la casa con le sue mani, viveva su tra i monti Bridger Teton. Di solito lo trovavo a cacciare nei paraggi della mia proprietà.» «Julian ha passato gran parte dell'infanzia lassù», aggiunse Cathy. «Con un nonno che gli ha insegnato a procurarsi da mangiare. A sopravvivere nella natura selvaggia con soltanto un'ascia e l'ingegno. Perciò sì, è in grado di sopravvivere.» «Cosa fa a ogni modo lassù tra i monti?» chiese Jane. «Perché non va a scuola?» Non la riteneva una domanda stupida, ma udì una risata serpeggiare per la sala. «Il giovane Perkins a scuola?» Fahey scosse la testa. «E' come cercare di insegnare l'algebra a un mulo.» «Purtroppo Julian ha avuto vita dura qui in città», intervenne Cathy. «A scuola veniva preso di mira. È stato coinvolto in numerose risse. Ha continuato a scappare dalla famiglia adottiva, otto volte in tredici mesi. L'ultima volta in cui è scomparso è stato poche settimane fa, quando la temperatura era diventata mite. Prima di andarsene ha svuotato la dispensa della madre adottiva, quindi ha abbastanza cibo da sopravvivere per un po' là fuori.» «Abbiamo copie della sua foto», disse Fahey e fece passare un fascio di carte nel corridoio. Le foto vennero distribuite ai presenti e per la prima volta Jane vide la faccia di Julian Perkins. Sembrava una foto scolastica con uno sfondo neutro standard. Il ragazzo si era chiaramente sforzato di vestirsi bene per l'occasione, ma sembrava penosamente a disagio con la camicia bianca con le maniche lunghe e la cravatta. I capelli neri erano stati divisi da una riga e pettinati, ma qualche ciocca ribelle si rifiutava di stare a posto. Gli occhi scuri fissavano la macchina fotografica, occhi che la fecero pensare a un cane che guardava dalla gabbia di un canile. Circospetto. Diffidente. «Questa foto è stata presa dall'annuario scolastico dell'anno scorso», spiegò Fahey. «E' la più recente che siamo riusciti a trovare. Da allora sarà probabilmente cresciuto di alcuni centimetri e avrà messo su un po' di muscoli.»
«E ha l'arma di Bobby», aggiunse Loftus. Fahey guardò l'assemblea. «La squadra di ricerca si riunisce alle prime luci. Voglio che ogni volontario sia dotato di equipaggiamento invernale per passare la notte. Non sarà un picnic, perciò voglio solo gli uomini più in forma.» Tacque e posò lo sguardo su Loftus che colse il significato di quell'occhiata. «Stai cercando di dirmi che non dovrei andare?» chiese. «Io non ho detto niente, Monty.» «Sono in grado di sopravvivere più di tutti voi. E conosco quel terreno meglio di chiunque altro. E' il mio cortile posteriore.» Loftus si alzò. Anche se aveva i capelli argentei e il volto segnato da decine d'anni di vita all'aperto, sembrava robusto come qualsiasi altro uomo nella sala. «Vediamo di agire in fretta. Prima che qualcun altro finisca ucciso.» Si cacciò il cappello in testa e uscì. Mentre anche gli altri si avviavano verso l'uscita, Jane notò l'assistente sociale che si stava alzando e gridò: «Signorina Weiss?» La donna si girò proprio quando Jane le si avvicinò. «Sì?» «Mi scusi, ma non ci hanno presentate. Sono il detective Rizzoli.» «Lo so. Siete le persone di Boston.» Cathy lanciò un'occhiata a Gabriel e Sansone che si stavano ancora mettendo la giacca. «Avete fatto parecchio scalpore in città.» «Possiamo andare da qualche parte a parlare di Julian Perkins?» «Intende ora?» «Prima che usino lui e la nostra amica per far pratica di tiro al bersaglio.» Cathy guardò l'orologio e annuì. «C'è una caffetteria più in giù nell'isolato. Ci vediamo lì tra dieci minuti.» Ne passarono almeno venti. Quando infine Cathy entrò frettolosa nella caffetteria con i capelli arruffati e scompigliati dal vento, si portò dietro un forte odore di tabacco sugli abiti spiegazzati, e Jane capì che si era fatta una veloce sigaretta in macchina. La donna sembrò agitata quando s'infilò sulla panca del tavolo a cui l'aspettava. «Allora dove sono i suoi due colleghi?» domandò guardando i posti vuoti. «Sono andati a comprare attrezzatura da campeggio.» «Si uniranno alla squadra di ricerca domani?» «Non sono riuscita a dissuaderli.» Cathy le rivolse una lunga e pensierosa occhiata. «Non sapete con che cosa avete a che fare.» «Speravo me lo dicesse lei.» Arrivò la cameriera con la caffettiera. «Una tazza, Cathy?» chiese. «Spero sia forte e buono.» «Come sempre.»
Cathy attese che la cameriera se ne andasse prima di riprendere a parlare. «La situazione è complessa.» «Alla riunione l'hanno fatta apparire semplice. Invia la squadra armata, dai la caccia al killer di poliziotti.» «Certo. Perché la gente preferisce sempre le cose semplici. Bianco e nero, giusto e sbagliato. Julian il ragazzo cattivo.» Cathy bevve il caffè puro, buttando giù la bevanda amara senza il minimo sussulto. «Non è così.» «Che cos'è allora?» Cathy fissò il suo sguardo intenso su Jane. «Ha mai sentito parlare dei Ragazzi perduti?» «Non sono sicura di capire a cosa si riferisca.» «Sono giovani, perlopiù adolescenti, cacciati dalle loro case e dalle loro famiglie. Finiscono abbandonati per strada. Non perché abbiano fatto qualcosa di sbagliato, ma solo perché sono maschi. Nelle loro comunità questo basta a renderli fatalmente un neo.» «Perché i maschi causano guai?» «No. Perché sono dei rivali e gli uomini più anziani non li vogliono nei paraggi. Vogliono tutte le ragazze per sé.» All'improvviso Jane capì. «Parla di comunità poligame.» «Esatto. Quei gruppi non hanno assolutamente niente a che fare con la chiesa mormone ufficiale. Sono sette separate che si formano attorno a leader carismatici. Le trova in numerosi stati. In Colorado e in Arizona, nello Utah e nell'Idaho. E proprio qui nella contea di Sublette, nel Wyoming.» «La Raccolta?» Cathy annuì. «E' una setta capeggiata da un cosiddetto profeta, Jeremiah Goode. Venti anni fa ha iniziato ad attrarre seguaci nell'Idaho. Hanno costruito un centro chiamato Plain of Angels, a nordovest di Idaho Falls. Alla fine si è trasformato in una comunità di quasi seicento persone. Sono autosufficienti, si coltivano il cibo, si allevano il bestiame. Non ammettono visitatori, perciò è impossibile sapere cosa accada davvero dietro i loro cancelli.» «Sembrano prigionieri.» «Potrebbero tranquillamente esserlo. Il profeta controlla ogni aspetto della loro vita e la gente lo adora per questo. Così funzionano le sette. Cominci con un uomo come Jeremiah che attira i deboli di volontà e i bisognosi, le persone che vogliono disperatamente essere accettate da qualcuno, ricevere affetto e attenzione, rimettere a posto la loro vita misera e rovinata. Questo lui offre... dapprincipio. Così hanno inizio tutte le sette, dai Moonie alla Famiglia Manson.» «Paragona Jeremiah Goode a Charles Manson?» «Sì.» Il volto di Cathy si tese. «E' proprio così. E' la stessa psicologia, la stessa dinamica sociale. Una volta che un seguace si beve l'intera storia, è suo. Dà a Jeremiah tutte le sue
proprietà, tutti i suoi beni e si trasferisce nella comunità. Lì Goode esercita il controllo totale. Usa manodopera gratuita per mantenere numerose attività proficue, dall'edilizia alla costruzione di mobili alla produzione di marmellate da vendere per corrispondenza. A un estraneo sembra una comunità utopica a cui ognuno contribuisce. In cambio ciascuno viene assistito. Questo probabilmente ha creduto di vedere Bobby Martineau quando ha visitato Verrà il Regno.» «Cosa avrebbe dovuto vedere invece?» «Una dittatura. Tutto ruota attorno a Jeremiah e a ciò che vuole.» «Che sarebbe?» Lo sguardo di Cathy divenne duro come l'acciaio. «Carne giovane. La Raccolta serve solo a questo, detective. A possedere, controllare e scopare ragazzine.» Una donna nel tavolo vicino si girò e la guardò infuriata, offesa dal linguaggio. Cathy attese un attimo per ricomporsi. «Per questo Jeremiah non può permettersi di tenere troppi ragazzi attorno a sé», disse. «Di conseguenza se ne sbarazza. Ordina alle famiglie di cacciare i figli maschi adolescenti. I ragazzi vengono portati nella città più vicina e abbandonati. Nell'Idaho vengono scaricati a Idaho Falls. Qui a Jackson o a Pinedale.» «E davvero le famiglie collaborano?» «Le donne sono piccoli robot obbedienti. Gli uomini vengono ricompensati con giovani spose per la loro lealtà. Spose spirituali, le chiamano, per evitare di essere accusati di poligamia. Gli uomini possono averne quante ne vogliono ed è tutto sancito biblicamente.» Jane scoppiò in una risata inorridita. «Sì? Da quale Bibbia?» «Dal Vecchio Testamento. Pensi ad Abramo e Giacobbe, a Davide e Salomone. I vecchi patriarchi biblici che avevano più mogli o concubine.» «I seguaci la bevono?» «Perché appaga in loro un desiderio ardente. Le donne bramano forse la sicurezza, una vita in cui non debbano fare scelte dure. Gli uomini... be', è ovvio cosa ne ricavino. Si portano a letto una quattordicenne. E vanno in paradiso.» «Julian Perkins faceva parte di tutto questo?» «Ha una madre e una sorella quattordicenne che vivono ancora a Verrà il Regno. Il padre di Julian è morto quando aveva solo quattro anni. La madre, mi spiace dirlo, è una balorda totale. Sharon è uscita dalla vita dei figli per cercare se stessa, o in qualsiasi altro modo idiota la voglia mettere, e li ha scaricati al nonno, Absolem.» «Il montanaro.»
«Sì. Una brava persona che si è presa cura di loro. Ma dieci anni dopo Sharon ricompare e voilà! Ha un uomo nuovo e inoltre ha scoperto la religione! La religione di Jeremiah Goode. Si riprende i figli e si trasferiscono a Verrà il Regno, l'insediamento che la Raccolta sta costruendo qui in Wyoming. Pochi mesi dopo Absolem muore e Sharon è l'unica adulta che resta nella vita di Julian.» La voce di Cathy divenne tagliente come un rasoio. «E lo tradisce.» «Lo butta fuori?» «Come un rifiuto. Perché il profeta lo esige.» Le due donne si fissarono scambiandosi un'occhiata di rabbia che s'interruppe solo quando la cameriera tornò con la caffettiera. Bevvero il caffè in silenzio e la bevanda calda non fece che peggiorare il bruciore che la rabbia aveva scatenato nello stomaco di Jane. «Allora perché Jeremiah Goode non è in prigione?» domandò. «Crede che non ci abbia mai provato? Ha visto come hanno reagito con me a quella riunione. Io sono solo la bisbetica della città, la femminista scocciatrice che non smette di parlare delle ragazzine abusate. Non intendono più ascoltarmi.» Tacque. «Oppure vengono pagati per non farlo.» «Jeremiah li ha comprati?» «Così è andata nell'Idaho. Poliziotti, giudici. La Raccolta ha una valanga di soldi per comprarli tutti. Gli insediamenti non possono comunicare con l'esterno: non ci sono telefoni né radio. Anche se una ragazza volesse chiamare per chiedere aiuto, non potrebbe farlo.» Cathy posò la tazza. «Non c'è niente che voglia di più che vedere lui, e gli uomini che lo seguono, in manette. Ma non credo accadrà mai.» «Julian Perkins nutre gli stessi sentimenti?» «Li odia tutti. Me lo ha detto.» «Tanto da uccidere?» Lei si accigliò. «Cosa intende?» «Lei era sulla scena del duplice omicidio al lodge Circle B. La coppia morta era della Raccolta.» «Non penserà che sia stato Julian.» «Forse per questo è scappato. Forse ha dovuto uccidere l'agente.» Cathy scosse con veemenza la testa. «Ho passato abbastanza tempo con quel ragazzo. Vive con un cane randagio e non ho mai visto nessuno tanto gentile con un animale. In lui non c'è violenza.» «Credo ci sia in tutti noi», osservò pacata Jane. «Se ci spingono fino a un certo punto.» «Be', se è stato lui», rispose Cathy, «aveva la giustizia dalla sua.»
29 La grotta di neve era pregna dell'odore del cane bagnato, di abiti ammuffiti e del sudore di due corpi sporchi. Maura non si lavava da settimane e il ragazzo probabilmente da molto di più. Ma il ricovero era comodo come la tana di un lupo, grande abbastanza perché riuscissero ad allungarsi sul pavimento di rami di pino; e il fuoco che Rat aveva preparato ardeva ora intenso e scoppiettante. Alla luce delle fiamme Maura si ispezionò il piumino, una volta bianco, sporco di fuliggine e di sangue. Immaginò l'orrore a cui si sarebbe trovata davanti se avesse avuto uno specchio. Mi sto trasformando in un animale selvatico come questi due, pensò. Un animale che si nasconde in una grotta. Si ricordò dei resoconti che aveva letto sui bambini allevati dai lupi. Riportati alla civiltà, rimanevano selvaggi, impossibili da addomesticare. Sentiva che la sua trasformazione stava iniziando. Dormire e mangiare sul suolo duro, vivere per giorni con gli stessi abiti addosso, raggomitolarsi ogni notte accanto alla pelliccia calda di Bear. Ben presto nessuno la avrebbe riconosciuta. Io stessa potrei non riconoscermi. Rat gettò un fascio di ramoscelli nel fuoco. Il fumo turbinava nella grotta di neve bruciando occhi e gola. Senza questo ragazzo non sopravvivrei una sola notte qua fuori, pensò Maura. Sarei già morta e congelata. Il mio corpo sarebbe ormai coperto dalla neve portata dal vento. La natura selvaggia era tuttavia un mondo in cui Rat sembrava sentirsi a suo agio. Nel giro di un'ora aveva scavato la grotta dopo aver scelto un posto sul fianco di una collina. Insieme avevano raccolto legna da ardere e rami di pino correndo nell'oscurità e nel freddo micidiale della notte. Ora, raggomitolata e sorprendentemente comoda accanto al fuoco, Maura ascoltava il vento gemere oltre la porta di rami di pino e guardava Rat frugare nello zaino. Comparvero un surrogato del latte in polvere e una scatola di crocchette per cani. Scuotendola ne estrasse una manciata e la gettò a Bear. Poi la porse a Maura. «Cibo per cani?» chiese. «Per lui va bene.» Rat indicò con un cenno il cane che stava divorando felice il suo pasto. «Meglio di uno stomaco vuoto.» Ma non di molto, pensò lei mentre addentava rassegnata una crocchetta. Per un istante l'unico rumore nella grotta fu quello di tre paia di mascelle che sgranocchiavano. Maura fissò il ragazzo al di là delle fiamme che stavano languendo.
«Dobbiamo trovare il modo di costituirci», disse. Lui continuò a masticare, ferocemente concentrato sull'obiettivo di riempirsi il ventre. «Rat, sai bene quanto me che ci verranno a cercare. Non possiamo sopravvivere qua fuori.» «Mi prenderò cura di te. Ce la caveremo benissimo.» «Vivendo di cibo per cani? Nascondendoci nelle grotte di neve?» «Conosco un posto sui monti. Possiamo restare là per tutto l'inverno se dobbiamo.» Le porse alcune confezioni di surrogato del latte in polvere. «Ecco. Il dolce.» «Non molleranno. Non quando la vittima è un poliziotto.» Maura guardò il fagotto che conteneva l'arma dell'agente morto; Rat l'aveva avvolta in uno straccio e cacciata in un angolo in ombra, come se non la volesse vedere. Maura ripensò all'autopsia che aveva effettuato sull'assassino di un poliziotto, morto mentre era sotto custodia. E' andato fuori di testa, doveva essere fatto di PCP, avevano sostenuto gli agenti. Ma i lividi che aveva visto sul tronco, le lacerazioni sul volto e sul cuoio capelluto raccontavano una storia diversa. Uccidi un poliziotto e la pagherai, era la lezione che aveva imparato allora. Guardò il ragazzo e d'un tratto ebbe la visione di lui steso sul tavolo settorio, pestato e sanguinante per una gragnola di pugni vendicatori. «E' l'unico modo che abbiamo per riuscire a convincerli», disse. «Se ci arrendiamo insieme. Altrimenti presumeranno che abbiamo ucciso quell'uomo con la sua pistola.» Quella secca valutazione sembrò scuoterlo e le crocchette gli caddero all'improvviso di mano mentre abbassava la testa. Maura non lo vedeva in volto ma alla luce del fuoco notò che tremava e capì che stava piangendo. «E' stato un incidente», affermò. «Glielo dirò. Gli dirò che sei stato l'unico che ha cercato di proteggermi.» Lui tremò più violentemente e si cinse con le braccia come per soffocare i singhiozzi. Bear gli si avvicinò di più uggiolando e posò la grossa testa sul ginocchio del ragazzo. Maura si allungò per toccargli il braccio. «Se non ci arrendiamo, sembreremo colpevoli. Lo capisci, vero?» Lui scosse la testa. «Li costringerò a credermi. Te lo giuro, non lascerò che ti incolpino di questo.» Lo scosse. «Rat, fidati di me.» Il ragazzo si scostò. «Non farlo.» «Penso solo a quello che è meglio per te.» «Non dirmi cosa fare.» «Qualcuno deve dirtelo.» «Tu non sei mia madre!» «Be', in questo momento avresti proprio bisogno di una madre!»
«Io ne ho una!» urlò. Sollevò la testa. Aveva il volto lucido di lacrime. «Cosa mi ha dato di buono?» A quello Maura non aveva risposta. Restò a guardarlo in silenzio mentre, pieno di vergogna, si asciugava le lacrime che gli lasciarono segni sul volto sporco di fuliggine. Per giorni si era sforzato di essere un uomo. Le lacrime le ricordarono che era solo un ragazzo, un ragazzo troppo fiero ora per incontrare il suo sguardo e mostrarle quanto fosse spaventato. Concentrò invece la sua attenzione sui pacchetti di surrogato del latte, che strappò e si svuotò in bocca. Maura aprì i suoi. Parte del contenuto le si versò in mano e lasciò che Bear le leccasse la polvere dalla pelle. Quando gliela ebbe pulita, le leccò anche la faccia e lei rise. Notò che Rat la stava osservando. «Da quanto tempo Bear sta con te?» domandò accarezzando il folto pelo invernale del cane. «Da pochi mesi.» «Dove lo hai trovato?» «E' stato lui a trovare me.» Gli tese la mano e sorrise mentre Bear tornava da lui. «Un giorno sono uscito da scuola e mi è venuto dritto incontro. Mi ha seguito fino a casa.» Anche Maura sorrise. «Immagino avesse bisogno di un amico.» «O sapeva che io ne avevo bisogno.» Alla fine la guardò. «Hai un cane?» «No.» «Figli?» Lei tacque. «No.» «Non ne volevi?» «Non è successo.» Sospirò. «La mia vita è... complicata.» «Deve esserlo, se non puoi nemmeno tenere un cane.» Lei rise. «Sì. Dovrò sicuramente riesaminare le mie priorità.» Seguì un altro silenzio. Rat sollevò la testa di Bear e i due si strofinarono il muso. Mentre stava seduta davanti al fuoco crepitante a guardare il ragazzo comunicare in silenzio con il cane, questi le apparve all'improvviso molto più giovane dei suoi sedici anni. Un bambino con il corpo di un uomo. «Rat?» domandò calma. «Sai cos'è successo a tua madre e a tua sorella?» Lui smise di accarezzare il cane e la sua mano si immobilizzò. «Le ha portate via.» «Il profeta?» «Lui decide tutto.» «Ma non lo hai visto? Non eri là quando è successo?» Rat scosse il capo.
«Sei andato nelle altre case? Hai visto...» esitò. «Il sangue?» domandò pacata. «Sì.» Incrociò il suo sguardo e Maura notò che non gli era sfuggito il significato di quel sangue. Per questo sono ancora viva, pensò. Perché sa cosa significa quel sangue. Sa cosa mi sarebbe accaduto se fossi rimasta a Verrà il Regno. Lui abbracciò il cane come se solo in Bear trovasse il conforto che gli serviva. «Ha soltanto quattordici anni. Ha bisogno che mi prenda cura di lei.» «Tua sorella?» «Quando mi hanno portato via, Carrie ha cercato di fermarli. Urlava e urlava, ma la mamma l'ha sempre tenuta ferma. Dicendole che dovevo andar via. Che dovevo essere allontanato.» Strinse la mano a pugno nel pelo del cane. «Per questo sono tornato. Per lei. Per Carrie.» Alzò lo sguardo. «Ma non c'era. Là non c'era nessuno.» «La troveremo.» Maura si allungò e gli strinse il braccio proprio come lui stringeva Bear. Erano uniti, tutti e tre, donna, ragazzo e cane. Un'unione inverosimile trasformata dalle avversità in qualcosa di simile a un legame d'affetto. Forse più forte di un legame d'affetto. Non sono riuscita ad aiutare Grace, pensò. Ma farò tutto ciò che serve per salvare questo ragazzo. «La troveremo, Rat», disse. «In qualche modo tutto questo finirà bene. Te lo prometto.» Bear emise un forte uggiolio e chiuse gli occhi. «Neanche lui ti crede», rispose Rat.
30 Jane guardò il marito preparare metodicamente uno zaino con l'intelaiatura rigida riempiendone ogni nicchia con il necessario. Infilò dentro il sacco a pelo e il materassino termico, la tenda singola, il fornello da campeggio invernale e alcuni pasti liofilizzati. Nelle tasche più piccole infilò bussola, coltello e lampada frontale, una matassa di corda di nylon e un kit di pronto soccorso. Nessuno spazio andò sprecato e non c'era un solo grammo di peso inutile. Lui e Sansone avevano comprato l'attrezzatura prima, quella sera, e ora tutti gli oggetti di Gabriel erano disposti sul letto, quelli piccoli raggruppati in sacchetti, le borracce per l'acqua avvolte dal sempre utile nastro adesivo. Lo aveva fatto tante volte in passato, quando da giovane andava a camminare in mezzo alla natura, e in seguito quando era nei marine. L'arma che ora portava al fianco ricordava tuttavia in modo inquietante che quella non era una semplice camminata invernale. «Dovrei venire con voi due», affermò Jane. «No. Devi restare qui a controllare le telefonate.» «E se qualcosa va male là fuori?» «In tal caso mi sentirò molto meglio sapendo che sei qui al sicuro.» «Gabriel, ho sempre pensato che fossimo una squadra.» Lui posò lo zaino e le rivolse un sorriso ironico. «E quale membro di questa squadra è allergico al campeggio in tutte le sue forme, modalità e varianti?» «Se devo, lo faccio.» «Non hai alcuna esperienza di campeggio invernale.» «Neanche Sansone.» «Ma lui è robusto e in forma. Secondo me tu non riusciresti nemmeno a sollevare quello zaino. Dai. Prova.» Lei afferrò lo zaino e lo sollevò dal letto. A denti stretti disse: «Posso farcela». «Ora immaginati quel peso sulla schiena mentre sali una montagna. Immagina di portare quello zaino per ore, per giorni e in quota. Immagina di tenere il passo con due uomini che hanno una ventina di chili di muscoli più di te. Jane, sappiamo tutti e due che non è realistico.» Lei mollò lo zaino che atterrò sul pavimento con un tonfo. «Non conosci il terreno.» «Andremo con persone che lo conoscono.» «Ti fidi del loro giudizio?» «Lo scopriremo presto.» Gabriel chiuse lo zaino e lo posò nell'angolo. «La cosa importante è che saremo là fuori con loro. Potrebbero essere troppo rapidi a premere il grilletto mentre Maura è sulla linea di tiro.» Jane si accasciò sul letto e sospirò. «Ma che diavolo combina là fuori? Il suo comportamento non ha senso!»
«Per questo devi restare accanto a un telefono. Ti ha chiamato una volta. Potrebbe cercare di raggiungerti ancora.» «E io come raggiungerò te?» «Sansone si porta un telefono satellitare. Non è come se sparissimo dalla faccia della terra.» Ma la sensazione è questa, pensò quella notte stesa a letto al suo fianco. Gabriel stava per addentrarsi a piedi in una zona selvaggia, eppure dormiva profondamente, tranquillo. Era lei quella che stava sveglia a crucciarsi perché non era né abbastanza forte né esperta da seguirlo. Si riteneva alla pari di qualsiasi uomo, ma stavolta dovette ammettere la triste verità. Non poteva portare quello zaino. Non poteva tenere il passo di Gabriel. Dopo qualche chilometro sarebbe probabilmente crollata nella neve compromettendo la spedizione e facendo una figuraccia. Come farà allora Maura a sopravvivere? L'interrogativo si fece più pressante quando si svegliò prima dell'alba e guardò dalla finestra la neve sferzata dal vento che spazzava il parcheggio dell'albergo. Immaginò il vento che le pungeva gli occhi, che le congelava la pelle. Era una giornata inclemente per iniziare una ricerca. Il sole non si era ancora alzato quando lei, Gabriel e Sansone raggiunsero in macchina il punto di raduno. Alcuni membri della squadra erano già arrivati insieme ai cani da ricerca e gli uomini stavano in piedi nell'oscurità che precedeva l'alba a sorseggiare caffè fumante. Jane sentiva l'eccitazione nelle loro voci, percepiva l'elettricità nell'aria. Erano come qualsiasi poliziotto prima di un'irruzione: emanavano testosterone ed erano tesi in vista dell'azione. Mentre Gabriel e Sansone indossavano gli zaini, Jane sentì lo sceriffo Fahey chiedere: «Dove pensate di andare voi due con quegli zaini?» Gabriel si voltò verso di lui. «Ha chiesto volontari per l'operazione di ricerca e salvataggio.» «Non abbiamo richiesto un agente federale nella squadra.» «Sono addestrato a negoziare la liberazione di ostaggi», rispose Gabriel. «E conosco Maura Isles. Di me si fiderà.» «E' un terreno accidentato. Bisogna sapere quello che si fa.» «Otto anni nel corpo dei marine. Addestramento a condurre operazioni invernali in montagna. C'è altro che vuol sapere?» Incapace di replicare a tali qualifiche, Fahey si rivolse a Sansone, ma l'espressione dura di questi lo dissuase subito persino dall'avanzare qualche dubbio. Con un grugnito si allontanò a grandi passi. «Dov'è Monty Loftus?» gridò. «Non possiamo aspettarlo ancora a lungo!» «Mi ha detto che non sarebbe venuto», rispose qualcuno. «Dopo il casino che ha piantato ieri sera? Pensavo sarebbe venuto
sicuramente.» «Forse si è guardato allo specchio e si è ricordato di avere settantun anni.» Tra le risate che seguirono uno dei conduttori dei cani annunciò: «I cani hanno sentito l'odore!» La squadra di ricerca si avviò nel bosco e Gabriel si voltò verso Jane. Si diedero un ultimo bacio, si abbracciarono e poi lui partì. Tante volte in passato Jane ne aveva ammirato le naturali doti atletiche, la sicurezza del passo. Neanche lo zaino pesante lo rallentava. Mentre lo guardava sul limite degli alberi, scorgeva ancora il giovane marine che era stato. «Questa faccenda non finirà bene», commentò una voce. Jane si girò e vide Cahty Weiss scuotere la testa. «Gli daranno la caccia come a un animale», disse. «E' di Maura Isles che mi preoccupo», rispose Jane. «E di mio marito.» Rimasero fianco a fianco mentre la squadra in partenza si inoltrava nel bosco. La strada si svuotò lentamente, a mano a mano che i veicoli se ne andavano ma le due donne rimasero a guardare finché gli uomini non scomparvero tra gli alberi. «Almeno sembra un uomo equilibrato», notò Cathy. Jane assentì. «E' un termine che si addice a Gabriel.» «Ma il resto di quei tizi... sono pronti a sparare prima e a far domande dopo. Accidenti, Bobby potrebbe essere scivolato sul ghiaccio ed essersi sparato da solo». Cathy sbuffò frustrata. «Chissà cosa sarà successo davvero. Nessuno ha visto.» E non c'è alcun video della sparatoria, pensò Jane. Quel dettaglio la inquietava profondamente. La telecamera del cruscotto di Martineau funzionava alla perfezione. Era stata spenta in violazione delle regole del Dipartimento dello sceriffo. Le ultime immagini registrate risalivano a quando Martineau si stava dirigendo a Doyle Mountain. Alcuni istanti prima di arrivare alla casa aveva spento di proposito la telecamera. Jane si voltò verso Cathy. «Fino a che punto conosceva l'agente Martineau?» «Ho avuto contatti con lui.» Dal tono di voce quei contatti non sembravano cordiali. «Ha mai avuto ragione di non fidarsi di lui?» Per un istante Cathy la fissò in quell'alba che gelava le ossa e la condensa dei loro aliti si mescolò, unendosi in una nube vaporosa. «Mi chiedevo quando qualcuno avrebbe avuto il fegato di fare questa domanda», rispose. «Adesso Bobby Martineau viene considerato un eroe. E non si dovrebbe
parlar male degli eroi morti. Anche nel caso in cui se lo meritino», affermò Cathy. «Quindi lei non era una sua ammiratrice.» «Detto tra noi, Bobby era un tipo violento, ossessionato dal controllo.» Cathy teneva lo sguardo sulla strada mentre parlava, guidando con attenzione sul fondo ricoperto di neve e ghiaccio. Jane era contenta di non dover essere lei a percorrere quelle strade poco familiari e lo era ancor di più di viaggiare nel robusto suv a quattro ruote motrici di Cathy. «Nel mio campo», proseguì lei, «scopri abbastanza in fretta quali famiglie della contea hanno problemi. Chi divorzia, quali ragazzi perdono troppi giorni di scuola. E quali mogli arrivano al lavoro con gli occhi neri.» «Quella di Bobby?» «Adesso è l'ex moglie. Ha impiegato tanto a svegliarsi e a uscirne. Alla fine due anni fa Patsy lo ha lasciato e si è trasferita nell'Oregon. Vorrei solo fosse rimasta in zona per poterlo accusare perché uomini come Bobby non dovrebbero portare il distintivo.» «Pestava la moglie e indossava lo stesso l'uniforme?» «Probabilmente succede anche a Boston, no? La gente si rifiuta di credere che un bravo e onesto cittadino come Bobby picchi la moglie.» Cathy sbuffò. «Se il ragazzo gli ha davvero sparato, forse Bobby se lo è meritato.» «Non parlerà sul serio, vero?» Lei la guardò. «Forse sì. Solo un po'. Io lavoro con le vittime. So cosa possono fare anni di abusi a un ragazzo. A una donna.» «Inizia a sembrare una faccenda personale.» «Vedi troppe cose e sì, diventa personale. Per quanto cerchi di impedirlo.» «Quindi Bobby era un imbecille che pestava la moglie. Questo non spiega perché abbia spento la telecamera. Cosa stava cercando di nascondere su a Doyle Mountain?» «A questa domanda non so rispondere.» «Conosceva Julian Perkins?» «Oh, certo. Quel ragazzo è stato arrestato da quasi ogni agente della contea per qualche reato.» «Quindi quei due hanno una storia alle spalle.» Cathy rifletté sulla questione mentre guidava su una strada in cui le case erano diventate poche e rade. «A Julian non piaceva la polizia, ma è tipico di un'adolescente. Gli sbirri sono il nemico. Ciò nonostante, non credo che questo spieghi la cosa. E non scordiamoci», aggiunse lanciando un'occhiata a Jane, «che Bobby ha spento la telecamera del cruscotto prima di arrivare a Doyle Mountain. Prima di sapere che lassù c'era il ragazzo. Qualsiasi fosse la ragione, aveva qualcosa a che fare con la sua amica Maura Isles.» Le cui azioni rimanevano il mistero più grande di tutti.
«Ecco», disse Cathy e fermò il suv. «Voleva sapere di Bobby. Be', viveva qui.» Jane guardò la modesta abitazione al di là della strada. Grossi mucchi di neve si erano accumulati su entrambi i lati del vialetto spalato e l'edificio sembrava come nascosto, le finestre scrutavano sopra la neve come per adocchiare furtive i passanti. Non c'erano abitazioni accanto, nessun vicino raggiungibile da poter interrogare. «Viveva solo?» domandò Jane. «Per quel che ne so, sì. Non sembra ci sia nessuno in casa.» Jane si chiuse la cerniera della giacca e uscì dall'auto. Udì il rumore secco del vento tra gli alberi e lo sentì pungerle le guance. Per questo avvertì d'un tratto un brivido lungo il corpo? O era la casa, la casa di un uomo morto con le finestre che scrutavano cupe sopra i mucchi di neve? Cathy si stava già dirigendo verso il portico con gli scarponi che scricchiolavano sulla neve compatta, Jane invece rimase ferma accanto all'auto. Non avevano un mandato di perquisizione. Non avevano motivo di essere lì, tranne il fatto che per lei l'agente Martineau era un enigma e che qualsiasi indagine accurata su un omicidio comprendeva un'analisi vittimologica. Perché era stato aggredito quell'uomo in particolare? Quale azione lo aveva condotto alla morte sulla strada spazzata dal vento di Doyle Mountain? Finora tutta l'attenzione si era concentrata sul presunto assassino, Julian Perkins. Ora era tempo di concentrarsi su Bobby Martineau. Seguì Cathy sul vialetto con gli scarponi che facevano presa sulla ghiaia sparsa sul ghiaccio. Cathy stava già bussando alla porta. Come previsto, nessuno rispose. Jane notò i davanzali marci delle finestre, la vernice scrostata. La legna da ardere era stata impilata con poca cura a un'estremità del portico, contro una ringhiera che sembrava sul punto di crollare. Guardando dalla finestra anteriore, vide un soggiorno arredato con pochi mobili. Sul tavolino spiccavano un contenitore per pizza e due lattine di birra. Non vide niente che la colpì, niente che non si aspettasse di vedere nella casa di uno scapolo che viveva solo con uno stipendio da poliziotto. «Ragazzi, questo posto è una topaia», esclamò Cathy guardando il garage staccato dall'abitazione, che sembrava cedere sotto il peso della neve sul tetto. «Sa di qualche amico? Di qualcuno che potrebbe conoscerlo bene?» «Probabilmente nell'ufficio dello sceriffo, ma ha voglia prima che dicano qualcosa di negativo. Come ho spiegato, un poliziotto morto è sempre un eroe.» «Dipende da come è morto quel poliziotto.» Jane provò la maniglia e scoprì che la porta era chiusa a chiave. Rivolse l'attenzione al garage.
Il vialetto che conduceva al portone era stato sgombrato dalla neve e individuò tracce di pneumatici: pneumatici larghi, da fuoristrada. Scese cauta i gradini scivolosi del portico. Esitò di fronte al portone del garage, consapevole che aprendolo avrebbe superato la linea etica. Non aveva un mandato e quella non era nemmeno la sua giurisdizione. Ma Bobby Martineau era morto, perciò difficilmente avrebbe potuto protestare. E alla fine si trattava di giustizia, no? Di giustizia per Bobby stesso e per il ragazzo accusato di averlo ucciso. Si abbassò per afferrare la maniglia del portone, ma le tracce delle gomme si erano ghiacciate e non riuscì a smuoverlo. Cathy si unì a lei e insieme fecero forza per sollevarlo. D'un tratto si sbloccò e lo alzarono. Restarono entrambe a fissare stupite. All'interno luccicava un mostro nero enorme. «Ma guarda un po'», mormorò Cathy. «È tanto nuovo che ha ancora le targhe del concessionario.» Mentre girava attorno al fuoristrada, Jane ne accarezzò ammirata la superficie immacolata. Era un Ford F-450 xlt. «Questo giocattolo costerà almeno cinquantamila dollari», osservò. «Come ha fatto Bobby a permetterselo?» Jane raggiunse il paraurti anteriore e si fermò. «Domanda ancora migliore: come ha potuto permettersi quella?.» «Cos'è?» Jane indicò la Harley. Era una VRod Muscle nera e come il fuoristrada sembrava nuova di zecca. Non sapeva quanto costasse una moto del genere, ma di certo parecchio. «Sembra che negli ultimi tempi l'agente Martineau avesse fatto un po' di soldi», affermò pacata. Si voltò verso Cathy che fissava a bocca aperta la Harley. «Forse aveva uno zio miliardario da qualche parte?» Cathy scosse la testa sconcertata. «Da quello che ho sentito, non riusciva nemmeno a pagare gli alimenti.» «Come ha pagato la moto? E il fuoristrada?» Jane osservò il garage malconcio con le assi di legno rovinate. «C'è qualcosa che non quadra. Viene da mettere in dubbio tutto ciò che ci è stato detto su Martineau.» «Era un poliziotto. Forse qualcuno lo pagava per guardare dall'altra parte.» Jane si concentrò di nuovo sulla Harley cercando di capire come fosse legata alla morte di Bobby. Le era chiaro ormai che avesse spento di proposito la telecamera del cruscotto per nascondere le sue azioni. L'operatrice del centralino gli aveva appena riferito che Maura Isles aspettava lassù, una donna sola bisognosa d'aiuto. Dopo aver preso la
chiamata, Martineau aveva spento la telecamera e si era diretto a Doyle Mountain. Poi cos'è successo? A che punto era entrato in gioco il ragazzo? Forse tutto ruota attorno al ragazzo. Guardò Cathy. «Quanto lontano è Verrà il Regno?» «Circa cinquanta, sessanta chilometri da qui. È in mezzo al nulla.» «Forse dovrei andare laggiù e parlare con la madre di Julian.» «Non credo che adesso ci viva nessuno. Ho saputo che i residenti sono andati via per l'inverno.» «Ricorda chi abbia riferito l'informazione? Lo stesso agente che è stato ripetutamente a Verrà il Regno. E che non ha mai visto niente di anomalo.» «Bobby Martineau», rispose sommessa Cathy. Jane indicò con un cenno la Harley. «In base a quello che abbiamo trovato qui, non credo che possiamo fidarci di niente di quanto ha detto Martineau. Qualcuno lo pagava. Qualcuno che ha parecchi soldi per farlo.» Nessuna delle due aveva bisogno di pronunciare il nome ad alta voce. Jeremiah Goode. «Facciamo una visita a Verrà il Regno», disse Jane. «Voglio scoprire cosa non dovremmo vedere.»
31 Dal finestrino dell'auto Jane individuò alcune gobbe brune che costellavano un vasto campo bianco. Erano bisonti, tutti ammassati per ripararsi dal vento, con grossi mantelli ispidi spolverati di neve. Animali selvatici che non appartenevano a nessuno. Una novità per una ragazza della grande città in cui tutti gli animali andavano al guinzaglio, avevano una medaglietta ed erano schedati. Ma gli animali domestici venivano nutriti e tenuti al riparo, non lasciati a loro stessi in balia degli elementi. Ecco la conseguenza della libertà, pensò mentre fissava i bisonti, conseguenza che Julian Perkins aveva accettato quando era fuggito dalla casa adottiva con soltanto uno zaino pieno di cibo. Come poteva un sedicenne sopravvivere in quel mondo spietato? Come poteva farlo Maura? Quasi le avesse letto nel pensiero, Cathy disse: «Se qualcuno è in grado di aiutarla a sopravvivere, quello è Julian. E' cresciuto con un nonno che conosceva ogni trucco per vivere della terra. Absolem Perkins è un mito da queste parti. Lui e la sua casa tra i monti Bridger Teton». «Dove si trovano?» «E' la catena montuosa lassù», le indicò Cathy. Nel vortice di neve polverosa sollevata dalle gomme Jane vide cime incredibilmente scoscese. «Là è cresciuto Julian?» «Adesso è parco nazionale. Ma se va a camminare lassù, si imbatte in alcune vecchie abitazioni proprio come quella di Absolem. Ormai sono perlopiù diroccate, ma le ricordano quanto fosse duro sopravvivere a quel tempo. Io non riesco a concepire di trascorrere un giorno senza una toilette e una doccia calda.» «Cavolo, io non riesco a concepire un giorno senza internet.» Ora stavano salendo tra i rilievi su un terreno in cui gli alberi si facevano più fitti e gli edifici scomparivano. Superarono il Grubb's General Store e Jane individuò il sinistro cartello: ULTIMA POSSIBILITÀ DI RIFORNIMENTO CARBURANTE. Non potè fare a meno di lanciare un'occhiata ansiosa alla lancetta del carburante di Cathy e fu sollevata di vedere che avevano tre quarti di serbatoio. Avevano quasi percorso un chilometro e mezzo di strada prima che quel nome le evocasse qualcosa di familiare. Si ricordò di ciò che le aveva detto Queenan a proposito dei numerosi avvistamenti di Maura. Che la gente aveva segnalato di averla vista in tutto lo stato, al Dinosaur Museum di Thermopolis, all'Irma Hotel di Cody. E al Grubb's General Store nella contea
di Sublette. Prese il cellulare per chiamare Queenan. Zero tacche, niente campo. Lo rimise in borsa. «Be', questo è interessante», osservò Cathy mentre lasciavano la strada principale per una molto più stretta. «Cosa?» «E' stata sgombrata dalla neve.» «E' la strada per Verrà il Regno?» «Sì. Se Bobby ha detto il vero e la valle è deserta, perché qualcuno si preoccuperebbe di pulirla?» «Lei è già venuta quassù?» «L'unica volta che ci sono venuta è stata la scorsa estate», rispose Cathy mentre superava un tornante che indusse Jane ad appoggiarsi istintivamente sul bracciolo. «Ero appena diventata l'assistente sociale di Julian. La polizia lo aveva preso a Pinedale, dove si era introdotto in una casa e aveva razziato la cucina in cerca di cibo.» «Dopo essere stato cacciato dalla Raccolta?» Cathy annuì. «Un altro dei loro Ragazzi perduti. Sono venuta quassù sperando di parlare con la madre. Ero preoccupata per sua sorella, Carrie. Julian mi aveva detto che aveva solo quattordici anni e so che quella è l'età a cui gli uomini iniziano a...» Tacque e fece un profondo respiro. «In ogni caso, non sono mai arrivata a Verrà il Regno.» «Cos'è successo?» «Ho imboccato la loro strada privata e stavo scendendo nella valle quando un furgone mi è venuto incontro e mi ha fermato. Devono avere una specie di sistema d'allarme che li informa quando qualcuno entra nella proprietà. Due uomini con i walkie-talkie hanno preteso di sapere lo scopo della mia visita. Non appena hanno scoperto che ero un'assistente sociale, mi hanno ordinato di andarmene e di non tornare più. Ho potuto solo scorgere l'insediamento dalla strada. Avevano costruito dieci case e ce n'erano altre due in costruzione; bulldozer e trattori erano al lavoro nella zona. Ovviamente avevano in programma di espandersi. Questa sarà un'altra Plain of Angels.» «Quindi non ha mai parlato con la madre di Julian.» «No. E lei non ha cercato neanche una volta di contattare qualcuno per sapere se il figlio stesse bene.» Scosse la testa disgustata. «Un bell'esempio di amore materno. Ti viene fatto scegliere tra il culto e tuo figlio e tu getti via il figlio. Io non capisco, e lei?» Jane pensò a sua figlia, a quello che avrebbe sacrificato per proteggere Regina. Morirei per lei e non ci penserei due volte. «No, neanch'io lo capisco.»
«Immagini cosa dev'essere stato per il povero Julian. Sapere che sua madre lo ritiene sacrificabile. Sapere che si è voltata dall'altra parte quando gli uomini lo hanno trascinato fuori di casa.» «Mio Dio, è andata così?» «Così Julian lo ha descritto. Lui singhiozzava e urlava. Sua sorella urlava. E la madre ha lasciato che tutto ciò accadesse senza neanche un verso di protesta.» «Che spregevole pezzo di merda.» «Ma si ricordi, anche lei è una vittima.» «Non è una scusa. Una madre lotta per i suoi figli.» «Nella Raccolta le madri non lo fanno mai. A Plain of Angels decine di madri rinunciano ai figli maschi, lasciano che siano trascinati via e abbandonati nella città più vicina. I ragazzi ne escono così a pezzi, così devastati che molti si danno alla droga. Hanno un bisogno disperato che qualcuno, chiunque sia, li ami.» «Come ha reagito Julian?» «Voleva solo tornare dalla famiglia. E' una specie di cane bastonato che cerca di tornare dal padrone violento. Lo scorso luglio ha rubato un'auto ed è riuscito effettivamente a tornare nella valle per vedere la sorella. E' riuscito a nascondersi in zona per tre settimane prima che la Raccolta lo acciuffasse e lo riportasse a Pinedale.» «Quindi potrebbe tornarci anche stavolta.» Guardò Cathy. «Quanto siamo lontane da Doyle Mountain? Dal luogo in cui è stato ucciso Martineau?» «In linea d'aria non è lontano. E' proprio dall'altra parte di quei rilievi. Molto più lontano se si segue la strada.» «Quindi potrebbe andarci a piedi.» «Se davvero volesse.» «Ha appena ucciso un poliziotto. Ha paura ed è in fuga. Potrebbe cercare riparo a Verrà il Regno.» Cathy rifletté accigliandosi ancor di più. «Se adesso è là...» «E armato.» «Non mi farebbe del male. Mi conosce.» «Dico solo che dobbiamo essere caute. Non possiamo prevedere cosa farà.» E ha Maura. Stavano salendo da quasi un'ora e non avevano visto altri veicoli, né edifici, né prove che qualcuno risiedesse su quella montagna. Solo quando Cathy si fermò Jane notò il cartello semisepolto dalla neve alta. STRADA PRIVATA - SOLO RESIDENTI - AREA SORVEGLIATA «Ti fa sentire il benvenuto, no?» osservò Cathy. «Mi fa anche riflettere sui motivi per cui temano tanto i visitatori.» «Interessante. La catena è tolta e la strada è stata ben ripulita dalla neve.»
Si avviarono sulla strada privata con il suv di Cathy che procedeva lento sul fondo ricoperto da un paio di centimetri di neve fresca. Lì i pini erano fitti e avvolgevano la strada in un'oscurità claustrofobica; Jane riusciva a vedere poco al di là di quella coltre sempre-verde. Fissò davanti a sé con i muscoli contratti, non sapendo cosa aspettarsi. Di essere intercettata con ostilità dalla Raccolta? Di ricevere una raffica di pallottole da un ragazzo spaventato? All'improvviso gli alberi si divisero e batté le palpebre alla vista del cielo aperto, freddo e luminoso. Cathy si diresse verso una piazzola panoramica e si fermò. Le due donne fissarono scioccate quello che un tempo era l'insediamento di Verrà il Regno. «Mio Dio», mormorò Cathy. «Cos'è successo qui?» La valle era costellata di rovine nere. Le fondamenta carbonizzate segnavano i punti in cui un tempo sorgevano le case, le due file formavano una traccia stranamente ordinata di distruzione. Tra le rovine qualcosa si muoveva, trotterellava arrogante tra le abitazioni bruciate come se quella valle ora gli appartenesse e lui stesse semplicemente ispezionando il suo territorio. «Un coyote», disse Cathy. «Non sembra un incidente», commentò Jane. «Credo che qualcuno sia venuto qui e abbia dato fuoco a quegli edifici.» Tacque mentre un pensiero ovvio le balenava in testa. «Julian.» «Perché lo avrebbe fatto?» «Per rabbia contro la Raccolta? Per vendetta per essere stato cacciato?» «Fa presto a incolparlo di tutto, non crede?» osservò Cathy. «Non sarebbe il primo ragazzo a dare alle fiamme una casa.» «E distruggere l'unico ricovero disponibile per chilometri?» Cathy espirò nervosa e inserì di nuovo la marcia. «Avviciniamoci di più.» Si avviarono lungo la strada che scendeva nella valle; tra un gruppo di pini e l'altro Jane vide nuovi scorci dell'insediamento e a ogni occhiata la distruzione appariva più terribile. Ormai il rumore della loro auto si era diffuso lungo il pendio e il coyote solitario scappò nel bosco circostante. Mentre il suv si avvicinava, Jane notò alcuni mucchi scuri sparsi nel campo innevato e si rese conto che anche quelli erano coyote. Ma giacevano immobili. «Gesù, sembra che l'intero branco sia stato massacrato», affermò. «Cacciatori.» «Perché?» «In un paese di allevamenti i coyote non sono molto benvoluti.» Cathy si fermò accanto alle prime fondamenta bruciate e fissarono entrambe il campo disseminato di animali morti. Ai margini del bosco il coyote solitario sopravvissuto le osservava, come se anche lui volesse
risposte. «È strano», mormorò Jane. «Non vedo sangue da nessuna parte. Non sono sicura che abbiano sparato a quegli animali.» «Allora come sono morti?» Jane scese dal suv e per poco non scivolò sul ghiaccio. La neve sciolta dal fuoco si era congelata di nuovo, formando una crosta dura ricoperta ora da un paio di centimetri di neve farinosa. Ovunque guardasse, scorse su quel manto sottile le impronte dei mangiatori di carogne. La distruzione la lasciò attonita. Udì lo scricchiolio degli scarponi di Cathy che si allontanavano sul ghiaccio, ma lei rimase accanto all'auto a fissare il groviglio di legni carbonizzati e metallo notando qua e là un oggetto riconoscibile tra le rovine. Uno specchio in frantumi, una maniglia di porta bruciata. Un lavandino di ceramica con dentro una specie di minuscola pista di pattinaggio. Un intero villaggio ridotto in macerie e ceneri. L'urlo fu lacerante, ogni eco tornò indietro fulmineo dai monti come una scheggia di vetro. Jane si drizzò, allarmata, e vide Cathy ai margini delle rovine. Aveva lo sguardo fisso al suolo e la mano protetta dal guanto sulla bocca. Cominciò a indietreggiare a scatti, con fare da automa. Jane fissò nella sua direzione. «Che succede, Cathy?» La donna non rispose. Fissava ancora per terra e continuava ad arretrare incespicando. Mentre Jane si avvicinava, notò alcune piccole chiazze di colore sul terreno. Un pezzo di blu qui, una chiazza di rosa là. Frammenti di tessuto, concluse, con i bordi sbrindellati. Quando superò le ultime fondamenta bruciate, la neve divenne più alta e smossa dalle tracce dei mangiatori di carogne. Le impronte erano dappertutto, come se i coyote avessero organizzato una danza. «Cathy?» La donna finalmente si girò verso di lei, terrea. Ammutolita, potè solo indicare il suolo verso uno dei coyote morti. Solo allora Jane si rese conto che non stava indicando l'animale, ma un paio d'ossa che spuntavano come sottili gambi bianchi dalla neve. Potevano essere i resti della preda di un animale selvatico, strappati e rosicchiati dai predatori, tranne che per un piccolo dettaglio. Attorno a quelle ossa c'era qualcosa che non apparteneva a nessun animale. Jane si accucciò e fissò le perline rosa e porpora infilate in un anello elastico. Un braccialetto da bambina. Quando si rialzò il cuore le martellava nel petto. Guardò la distesa che continuava verso gli alberi e vide alcuni crateri nella neve in cui i coyote avevano scavato in cerca di tesori, di carne fresca con
cui avevano iniziato a banchettare. «Sono ancora qui», disse Cathy con voce sommessa. «Le famiglie, i bambini. Gli abitanti di Verrà il Regno non se ne sono mai andati.» Fissò il terreno come se vedesse un nuovo orrore ai suoi piedi. «Sono proprio qui.»
32 Al calare della sera la squadra di recupero del coroner aveva estratto il quindicesimo corpo dal terreno ghiacciato. Era impigliato negli altri cadaveri, sepolti insieme in una fossa comune con gli arti uniti in un grottesco abbraccio di gruppo. La tomba era poco profonda, coperta solo da un sottile strato di terra tanto che, nonostante il mezzo metro di neve, i mangiatori di carogne avevano individuato la riserva di carne. Come i quattordici precedenti, il corpo affiorò dalla fossa con gli arti rigidi congelati e le ciglia incrostate di ghiaccio. Era solo un bambino di circa sei mesi con un pagliaccetto di cotone a maniche lunghe decorato con minuscoli aeroplani. Un indumento da casa. Come gli altri corpi non recava segni di violenza. A parte i danni post mortem dei carnivori, i cadaveri erano stranamente, inquietantemente perfetti. Il neonato era il più perfetto di tutti, con gli occhi chiusi come se dormisse, la pelle liscia, di un bianco latte come porcellana. Un bambolotto, fu il primo pensiero di Jane quando scorse il corpicino nella fossa. Era quello che avrebbe voluto credere. Ma quando la squadra del coroner, con indosso tute anticontaminazione sui pesanti abiti invernali, liberò con cautela il corpo dalla sua tomba, la verità risultò subito evidente. Jane aveva visto tirar fuori i cadaveri uno dopo l'altro e il bambino fu ciò che la sconvolse di più perché la fece pensare a sua figlia. Cercò di cancellare l'immagine, ma le era già balenata in mente: il volto senza vita di Regina, la pelle ornata di trine di ghiaccio. Si girò di colpo dando le spalle alla fossa e tornò dove erano parcheggiati i veicoli. Cathy se ne stava ancora raggomitolata nel suv. Jane salì sul sedile al suo fianco e chiuse la portiera. L'auto puzzava di fumo e vide che il posacenere era pieno. Con mani tremanti Cathy si accese un'altra sigaretta e fece un tiro esitante. Le due donne rimasero sedute per un attimo in silenzio. Dal parabrezza guardarono un membro della squadra di recupero posare penosamente il fagottino nel furgone dell'obitorio e chiudere il portello. Restava poca luce. Gli scavi sarebbero ripresi il giorno dopo e avrebbero sicuramente trovato altri corpi. In fondo alla fossa gli addetti avevano già individuato l'arto rigido di un adulto. «Niente ferite da coltello. Niente fori di proiettile», disse Jane mentre osservava il furgone dell'obitorio allontanarsi. «Sembra che si siano semplicemente addormentati. E siano morti.»
«Jonestown», mormorò Cathy. «Se ne ricorda, vero? Il reverendo Jim Jones. Portò quasi mille seguaci dalla California in Guyana. Lì fondò una colonia. Quando arrivarono le autorità statunitensi per indagare, ordinò ai seguaci di suicidarsi. Morirono più di novecento persone.» «Pensa che anche questo sia un suicidio di massa?» «Che altro potrebbe essere?» Cathy fissò la fossa dal finestrino. «A Jonestown hanno fatto prima bere i bambini. Hanno dato loro cianuro mescolato a una bevanda dolce. Il Flavor Aid. Immagini di farlo. Di riempire un biberon di veleno. Di prendere in braccio suo figlio. Di infilargli la tettarella in bocca. Di guardarlo bere sapendo che è l'ultima volta che la vedrà e le sorriderà.» «No, non riesco a immaginarlo.» «Eppure a Jonestown lo hanno fatto. Hanno ucciso i loro figli e poi si sono tolti la vita. Tutto perché un cosiddetto profeta ha ordinato loro di farlo.» Cathy si girò verso di lei con aria angosciata. Le ombre sempre più fitte dell'auto ne misero in risalto le orbite. «Jeremiah Goode li domina. Può costringerti a cedere i tuoi beni e a voltare le spalle al mondo. Può costringerti a rinunciare a tua figlia e a cacciare di casa tuo figlio. Può darti un bicchiere di veleno, dirti di berlo e tu lo fai. Lo fai con il sorriso perché non c'è niente di tanto importante come compiacerlo.» «Gliel'ho già chiesto. Credo di conoscere la risposta. Per lei è una questione personale, vero?» Le parole di Jane, pronunciate con tanta calma, sembrarono sbalordire Cathy. Restò perfettamente immobile mentre la sigaretta a poco a poco diventava cenere. D'un tratto la spense e incrociò lo sguardo di Jane. «Sarà meglio che la ritenga una questione fottutamente personale», rispose. Jane non fece domande né commenti. Era abbastanza accorta da darle tempo e spazio per aggiungere altro quando fosse stata pronta. Cathy distolse gli occhi e guardò fuori, la luce che svaniva. «Sedici anni fa», disse, «ho perso la mia migliore amica per mano della Raccolta. Eravamo vicine come sorelle... o anche di più. Katie Sheldon viveva accanto a noi, la conoscevo da quando avevamo due anni. Suo padre era un carpentiere quasi sempre disoccupato. Un uomo piccolo e cattivo che in famiglia spadroneggiava come un imperatore da due soldi. La madre era casalinga. Una personalità tanto scialba che non la ricordo nemmeno. Erano proprio il tipo di famiglia che la Raccolta sembra attirare. Persone che non hanno altri legami, che hanno bisogno di una ragione per esistere nella loro vita senza scopo. E il padre di Katie... lui amava l'idea che una qualche religione gli desse il potere assoluto di tiranneggiare la famiglia. Per non parlare delle ragazzine che si sarebbe scopato. Più mogli, l'Armageddon, la
fine dei tempi... abbracciò felice tutto quanto. Tutte stronzate di Jeremiah. Così la famiglia lasciò il quartiere per Plain of Angels.» «Io e Katie ci ripromettemmo di scriverci. E io lo feci. Scrissi lettere su lettere e non ricevetti mai niente. Ma non smisi mai di pensarla, di chiedermi che fine avesse fatto. Anni dopo lo scoprii.» Mentre inspirava per calmarsi, Jane rimase in silenzio, in attesa di ascoltare quella che ormai sapeva sarebbe stata una conclusione tragica. «Terminai il college», proseguì Cathy. «Trovai lavoro come assistente sociale in un ospedale a Idaho Falls. Un giorno arriva dal pronto soccorso un'emergenza ostetrica. Una giovane donna con un'emorragia che aveva partorito a Plain of Angels. Era la mia amica Katie. Aveva solo ventidue anni quando è morta. La madre era con lei e per caso si lasciò sfuggire che a casa Katie aveva altri cinque figli.» Cathy contrasse la mascella. «Faccia lei i conti.» «Saranno state avvertite le autorità.» «Oh, sì. Accidenti se mi sono adoperata perché lo fossero. La polizia dell'Idaho è andata a Plain of Angels e ha fatto domande. Per quell'epoca la Raccolta aveva confezionato la sua storia. No, avevo capito male, era solo il suo primo figlio. Non c'erano madri minorenni. Non venivano compiuti abusi sessuali su ragazzine. Erano una comunità pacifica in cui tutti vivevano sani e felici, un vero nirvana. La polizia non potè fare un bel niente.» Cathy fissò Jane. «Era troppo tardi per salvare la mia amica. Ma ho pensato che potevo salvare le altre. Tutte le ragazze in trappola nella Raccolta. E' stato allora che ho deciso di agire.» «Per anni ho raccolto informazioni su Jeremiah e i suoi seguaci. Ho esortato le forze dell'ordine a fare il loro lavoro e a proteggere quelle ragazze. Ma non c'è modo di porre termine alla Raccolta finché non arresteranno Jeremiah. Finché sarà vivo e libero li controllerà. Può impartire ordini e mandare i suoi uomini da chi lo sfida. Se però venisse messo con le spalle al muro, diventerebbe pericoloso. Si ricordi cos'è successo a Jonestown. E con i Davidiani a Waco. Quando Jim Jones e David Koresh hanno capito che per loro era la fine, hanno portato tutti con sé. Uomini, donne e bambini.» «Ma perché ora?» domandò Jane. «Cosa indurrebbe Jeremiah Goode a ordinare un suicidio di massa in questo momento particolare?» «Forse pensa che le autorità gli stiano addosso. Che sia solo questione di tempo perché venga arrestato. Quando hai di fronte la prospettiva di decenni dietro le sbarre per crimini sessuali, quando sai che la fine è vicina, non t'importa di quante persone porti via con te. Se precipiti, devono
precipitare anche i tuoi seguaci.» «C'è un neo in questa teoria, Cathy.» «Quale neo?» «I corpi sono stati sepolti. Qualcuno li ha trascinati laggiù nel campo, ha scavato una fossa e cercato di nascondere l'accaduto. Se Jeremiah li avesse spinti a commettere un suicidio di massa insieme a lui, allora chi è rimasto per seppellire i corpi? Chi ha bruciato le case?» Cathy tacque riflettendo sulla questione. Fuori i membri della squadra di recupero stavano tornando ai loro mezzi. Con le tute protettive addosso sembravano grossi omini Michelin. La luce era svanita tingendo il paesaggio di un bianco-grigio invernale. Nell'ombra dei boschi circostanti, in profondità, altri mangiatori di carogne se ne stavano appostati in attesa di un'altra occasione per banchettare con quella carne avvelenata. Una carne che aveva già ucciso i loro compagni. «Lì non troveranno il corpo di Jeremiah», affermò Jane. Cathy guardò i resti bruciati di Verrà il Regno. «Hai ragione. Lui è vivo. Deve esserlo.» Un colpo secco sulla portiera le fece trasalire entrambe. Dietro il vetro Jane riconobbe il volto pallido del detective Pasternak che le scrutava. «Signorina Weiss, sono pronto ad ascoltare qualsiasi cosa abbia da dire a proposito della Raccolta», disse mentre Cathy abbassava il finestrino. «Allora alla fine mi crede.» «Mi spiace solo che nessuno sia stato a sentire.» Indicò il sedile posteriore. «Posso togliermi dal vento e unirmi a voi?» «Le dirò tutto ciò che so. A una condizione», dichiarò Cathy. Pasternak s'infilò sul sedile posteriore e chiuse la portiera. «Sì?» «Deve passarci alcune informazioni.» «Come per esempio?» Jane si girò sul sedile e lo guardò. «Che ne dice di iniziare da quello che sapete sull'agente Martineau? E da dove abbia trovato i soldi per comprarsi una Harley nuova di zecca e un fuoristrada altrettanto nuovo e fiammante?» Pasternak passò lo sguardo da una all'altra delle due donne che lo fissavano al di sopra dello schienale. «Stiamo indagando.» «Dov'è Jeremiah Goode?» domandò Cathy. «Stiamo indagando anche su questo.» Lei scosse la testa. «Avete una fossa comune e probabilmente sapete chi sia il responsabile. Avrete qualche idea di dove sia.» Dopo un istante Pasternak annuì. «Siamo in contatto con le forze dell'ordine dell'Idaho. Mi hanno detto di avere già un contatto all'interno della comunità di Plain of Angels. Ha riferito che al momento Jeremiah Goode non si trova là.» «Vi fidate di questo contatto?»
«Loro sì.» Cathy sbuffò. «Allora eccole la lezione numero uno, detective. Quando si tratta della Raccolta, non si fidi di nessuno.» «E' stato emesso un mandato d'arresto a suo carico. Nel frattempo Plain of Angels è sotto sorveglianza.» «Ha contatti dappertutto. Case sicure in cui può rimanere nascosto per anni.» «Lo sa per certo?» Lei assentì. «Ha sia i seguaci sia il denaro per restare intoccabile. Abbastanza denaro da corrompere un esercito di Bobby Martineau.» «Stiamo seguendo la pista del denaro, mi creda. Circa due settimane fa c'è stata una bella iniezione di soldi nel conto dell'agente Martineau.» «Arrivata da dove?» chiese Jane. «Da un conto intestato a un non meglio precisato Gruppo Dahlia.» «Deve essere collegato a Jeremiah», affermò Cathy. «Il guaio è che non riusciamo a trovare nessun nesso tra il Gruppo Dahlia e la Raccolta. Il conto è in una banca di Rockville, nel Maryland.» Cathy si accigliò. «La Raccolta, che io sappia, non ha alcun legame con il Maryland.» «Il Dahlia sembra essere una società fittizia. Una facciata per la vera attività, qualsiasi essa sia. Qualcuno si è dato un gran da fare per nascondere la pista finanziaria.» Jane fissò la tomba su cui gli addetti stavano posando delle grosse assi per proteggerla da altri predatori. E per proteggere i predatori da qualunque veleno avesse ucciso sia le vittime umane sia gli animali che avevano banchettato con la loro carne contaminata. «Allora è per questo che Martineau è stato pagato», disse. «Per tacere su quanto accaduto qui.» «Sarebbe un segreto degno di essere mantenuto», affermò Pasternak. «Un omicidio di massa.» «Allora è per questo che è stato ucciso», proseguì lei. «Forse il ragazzo non ha niente a che fare con ciò.» «Temo che Julian Perkins sia l'unico che possa rispondere a questa domanda.» «E c'è una squadra di uomini armati pronti a ucciderlo.» Jane guardò verso i monti. Verso il cielo che si stava già scurendo all'arrivo di un'altra gelida notte. «Se lo uccidono, potremmo perdere l'unico testimone.»
33 Bear lo udì per primo. Per gran parte della mattinata il cane aveva trotterellato molto più avanti di loro, come se già conoscesse la strada anche se il ragazzo non lo aveva mai portato prima su quella montagna. Avevano camminato per ore senza parlare risparmiando il fiato per la salita, con Maura che procedeva dietro a Julian. Per lei ogni passo era una lotta per stargli dietro. Perciò quando Bear si bloccò d'un tratto su una cornice più in alto e abbaiò, pensò si rivolgesse a lei. Una versione canina di Forza, signora! Perché ci metti tanto? Finché non udì il ringhio. Alzò lo sguardo e vide che non era concentrato su di lei ma fissava a est, verso la valle da cui erano appena saliti. Rat si fermò e si girò nella stessa direzione. Per un istante rimasero zitti. I rami dei pini scricchiolavano. La neve mulinava, sollevata da dita invisibili di vento. Poi lo udirono: un abbaiare lontano di cani. «Dobbiamo andare più veloci», disse Rat. «Non ce la faccio.» «Sì che ce la fai.» Le allungò una mano. «Ti aiuterò.» Lei guardò la mano tesa. Alzò lo sguardo sul suo volto, sudicio ed emaciato. Mi ha tenuta in vita in questi giorni, pensò. Ora è il momento di ricambiare il favore. «Senza di me ti muoverai più veloce», affermò. «Non ti lascerò indietro.» «Sì invece. Tu scapperai e io resterò qui ad aspettarli.» «Non sai nemmeno chi siano.» «Dirò loro quello che è successo al poliziotto. Spiegherò tutto.» «Non farlo, ti prego. Non farlo.» Sentì il pianto incrinargli la voce. «Vieni con me e basta. Dobbiamo solo superare la prima montagna.» «E poi cosa? Dobbiamo salire su quella dopo e su quella dopo ancora?» «Ci vuole solo ancora un giorno per arrivare.» «Per arrivare dove?» «A casa. Alla capanna del nonno.» L'unico posto sicuro che ha conosciuto, pensò Maura. L'unico posto in cui è stato amato. Rat guardò la valle. Là, sul fianco innevato della montagna opposta, si muovevano piccole sagome scure. «Non so in quale altro posto andare», disse piano e si asciugò gli occhi con la manica sporca. «Lì staremo bene. So che è così.» Era un pensiero magico, nient'altro, ma era tutto ciò che gli restava. Perché per lui non ci sarebbe più stato nulla di buono.
Maura guardò la cima. Ci voleva almeno mezza giornata di cammino per arrivarci, ma avrebbero guadagnato una posizione sopraelevata in caso qualcosa fosse andato storto. In caso si fossero dovuti difendere. «Rat», disse, «se si avvicinano troppo, se ci raggiungono, devi promettermi una cosa. Devi lasciarmi indietro. Devi lasciare che parli con loro.» «E se non vogliono parlare?» «Potrebbero essere poliziotti.» «Anche l'ultimo lo era.» «Io non posso andare più veloce di loro, ma tu sì. Tu probabilmente puoi batterli tutti. Io ti rallento e basta. Perciò resterò qui e parlerò con loro. Se non altro, posso farti guadagnare abbastanza tempo perché tu possa scappare.» Lui la fissò con gli occhi scuri d'un tratto lucidi. «Davvero faresti questo per me?» chiese. Maura gli accarezzò il volto segnato di sporcizia con il guanto per asciugargli le lacrime. «Tua madre è stata pazza a rinunciare a un figlio come te», sussurrò. Bear emise un latrato impaziente e li fissò come per dire: Cosa state aspettando voi due? Maura sorrise al ragazzo. Poi costrinse le gambe dolenti a riprendere a muoversi e seguirono entrambi il cane su per la montagna. Nel tardo pomeriggio erano usciti dalla copertura degli alberi e Maura non aveva dubbi che gli inseguitori riuscissero facilmente a distinguerli, tre figure scure che risalivano il pendio bianco deserto. Ci vedono proprio come noi vediamo loro, pensò. Predatore e preda con solo una valle che ci separa. E lei avanzava troppo lenta, la racchetta destra le ballava sullo scarpone e ansimava nell'aria sottile. Gli inseguitori si avvicinavano costantemente. Non erano stanchi, malconci e affamati dopo aver trascorso giorni nella natura selvaggia; non avevano il corpo di una quarantaduenne di città la cui idea di attività fisica era una camminata rilassante nel parco. Come erano arrivati a quella situazione improbabile? A risalire a fatica una montagna con un cane di razza indefinita e un ragazzo ripudiato che non si fidava di nessuno e che aveva tutte le ragioni di non farlo? Erano gli unici due esseri su cui potesse contare là fuori, quei due amici che si erano dimostrati tali un'infinità di volte. Guardò Rat più in alto, che saliva instancabile davanti a lei e le sembrò molto più giovane dei suoi sedici anni, un bambino spaventato che si arrampicava su per il pendio come una capra delle nevi. Maura tuttavia aveva dato fondo alla sua capacità di resistenza e ora riusciva a stento a mettere un piede davanti all'altro. Salì a fatica lungo la traccia con le racchette da neve che scricchiolavano
sotto il peso e i pensieri rivolti all'imminente incontro. Sarebbe accaduto prima del calare della sera. In un modo o nell'altro, pensò, entro stasera si deciderà tutto. Lanciando un'occhiata dietro di sé vide che gli inseguitori stavano già sbucando dagli alberi più in basso. Erano così vicini. Presto saremo a portata di tiro. Guardò di nuovo verso la montagna, verso la cima che si stagliava ancora lontana e le sue ultime forze sembrarono svanire, dissolversi come nebbia. «Forza!» le gridò dall'alto Rat. «Non posso.» Maura si fermò accasciandosi contro un grosso masso e sussurrò: «Non posso». Lui ridiscese in fretta spargendo di qua e di là la neve farinosa e l'afferrò per un braccio. «Devi.» «È ora di farlo», affermò Maura. «E' ora che mi lasci.» Lui la tirò con più forza per il braccio. «Ti uccideranno.» Lei lo prese per entrambe le spalle e gli diede uno scossone. «Rat, ascoltami. Non importa cosa accadrà a me. Voglio che tu viva.» «No. Non ti lascerò.» La sua voce si ruppe trasformandosi nel singhiozzo, nella frenetica supplica di un ragazzo. «Ti prego prova. Ti prego.» Adesso la implorava con la faccia rigata di lacrime. Continuava a tirarla per il braccio, a strattonarla con tale determinazione che Maura credette l'avrebbe trascinata su per la montagna, che avesse collaborato o no. Si lasciò tirare per qualche passo ancora. All'improvviso udì uno schianto di legno e sentì una fitta di dolore alla caviglia destra quando la racchetta da neve rotta cedette sotto il suo peso. Ruzzolò in avanti e allargò le braccia per proteggersi affondando fino ai gomiti nella neve. Cercò di rialzarsi sputacchiando, ma il piede destro non si mosse. Rat le cinse la vita con un braccio e cercò di liberarla. «Fermo!» gridò. «Ho il piede bloccato!» Lui si gettò a terra e iniziò a rimuovere la neve. Bear era a poca distanza e osservava disorientato il padrone che scavava furioso come un cane. «Lo scarpone si è incastrato tra i massi. Non riesco a liberarlo!» La fissò terrorizzato. «Adesso tirerò. Forse riuscirò a estrarre il piede dallo scarpone. Ma farà male.» Maura guardò la montagna. Da un momento all'altro, pensò, quegli uomini saranno a portata di tiro e mi troveranno in trappola come una capra legata a un palo. Non era così che voleva morire. Vulnerabile e impotente. Fece un respiro e annuì a Rat.
«Fallo.» Lui le afferrò la caviglia con entrambe le mani e cominciò a tirare. Tirò con tanta forza che gemette per la fatica. Maura credette che le avrebbe fracassato il piede. Il dolore le strappò un grido. D'un tratto il piede fu libero e lei cadde scomposta all'indietro nella neve. «Scusami, scusami!» urlò Rat. Maura sentì l'odore del sudore e della paura del ragazzo, lo sentì ansimare nel freddo mentre l'afferrava per le ascelle e la tirava su. Il piede destro era coperto solo da un calzettone di lana e quando lo posò per terra affondò fino al ginocchio nella neve. «Appoggiati a me. Risaliremo la traccia insieme.» Si mise il braccio di lei attorno al collo e l'afferrò alla vita. «Dai», la incalzò. «Puoi farcela. So che puoi farcela.» E tu? A ogni passo che facevano Maura sentiva i muscoli di Rat tendersi per lo sforzo. Se mai avrò un figlio, pensò, lo vorrei così. Leale e coraggioso come Julian Perkins. Si strinse con più forza a lui e il calore dei loro corpi si fuse mentre salivano a fatica la montagna. Quello era il figlio che non aveva e probabilmente non avrebbe mai avuto. Erano già uniti, stretti da un legame nato dalla lotta. E io non permetterò che gli facciano del male. Le racchette da neve scricchiolavano all'unisono e la condensa del loro respiro si mescolava formando un'unica nube. Il calzettone di Maura era fradicio e le dita dei piedi le dolevano per il freddo. Bear li precedeva veloce, ma loro si muovevano lenti, così lenti. Gli inseguitori erano di certo in grado di osservare l'avanzare della preda sul pendio spoglio. Udì Bear ringhiare e guardò in alto lungo la traccia. Il cane stava immobile come un masso con le orecchie tirate indietro. Ma non guardava in direzione degli inseguitori nella valle; guardava verso l'alto, sopra di loro, dove si muoveva qualcosa di scuro. Il rumore secco di uno sparo echeggiò come un tuono contro le rocce. Maura sentì Rat incespicare contro di lei. All'improvviso la spalla che la sosteneva cedette e il braccio le scivolò via dalla vita. Fu lei a sorreggerlo quando le ginocchia gli cedevano ma non era abbastanza forte. Il meglio che potè fare fu attutirne la caduta quando si accasciò al suolo. Cadde accanto a un gruppetto di massi e rimase steso di schiena, come i bambini che per gioco lasciano l'impronta del loro corpo nella neve. La guardò con aria stupita. Solo allora Maura notò gli schizzi di sangue sulla neve. «No», gridò. «Oh, Dio, no.» «Va'», le sussurrò. «Rat. Tesoro», mormorò sforzandosi di non piangere, di mantenere un tono fermo. «Andrà tutto bene. Ti prometto che andrà tutto bene, cucciolo.» Gli aprì la cerniera della giacca e guardò inorridita la macchia che si allargava sulla camicia. Strappò il tessuto ed espose la ferita da proiettile che aveva nel petto. Respirava ancora ma le vene giugulari erano dilatate,
apparivano in rilievo come grossi tubi blu. Gli toccò la pelle e avvertì il crepitio dell'aria che fuoriusciva all'interno del torace e s'infiltrava nei tessuti molli deformandone il volto e il collo. Perforazione del polmone destro. Pneumotorace. Bear tornò indietro a salti e leccò la faccia di Rat mentre questi cercava di parlare. Maura dovette scostare il cane per poter sentire le parole del ragazzo. «Stanno arrivando», bisbigliò. «Usa la pistola. Prendila...» Maura guardò l'arma dell'agente che Rat aveva estratto dalla tasca della giacca. Allora è così che finisce, pensò. Gli aggressori non avevano lanciato alcun avvertimento, non avevano fatto alcun tentativo di negoziare. Il primo sparo era mirato a uccidere. Non ci sarebbe stata la possibilità di arrendersi; era un'esecuzione. E lei era il prossimo bersaglio. Maura si accovacciò per scrutare al di sopra dei massi. Un uomo solitario stava scendendo la montagna verso di loro. Aveva un fucile. Bear abbaiò minaccioso, ma prima che potesse balzar via dal riparo dei sassi Maura lo afferrò per il collare e gli ordinò: «Fermo. Fermo». Le labbra di Rat si erano scurite fino a diventare blu. A ogni respiro il polmone perforato rilasciava aria nella cavità toracica dove restava intrappolata, senza possibilità di fuoriuscire. La pressione stava aumentando, schiacciando il polmone, spostando tutti gli organi nel petto. Se non intervengo ora, pensò Maura, morirà. Con uno strattone aprì lo zaino di Rat e frugò tastoni in cerca del coltello. Estrasse la lama e scoprì che era macchiata di ruggine e di sporcizia. Al diavolo la sterilizzazione; gli rimanevano solo pochi minuti di vita. Bear abbaiò di nuovo. Fu un verso tanto frenetico che Maura si girò di scatto per guardare cosa lo avesse allarmato. Adesso era rivolto verso i piedi della montagna dove una decina di uomini stava salendo verso di loro. Un uomo con un fucile sopra. Altri uomini armati che si avvicinano da sotto. Siamo presi in mezzo. Guardò la pistola che era caduta nella neve accanto a Rat. L'arma dell'agente. Una volta finito tutto, una volta morti lei e Rat, avrebbero indicato quella pistola come prova che erano gli assassini di un poliziotto. Nessuno avrebbe mai saputo la verità. «Mamma.» La parola suonò a malapena come un sussurro. La supplica di un bimbo sulle labbra di un giovane morente. «Mamma.»
Maura si chinò su di lui e gli toccò la guancia. Anche se la guardava dritta in faccia, sembrava vedesse qualcun altro. Qualcuno che lo indusse a piegare a poco a poco le labbra in un debole sorriso. «Sono qui, caro.» Maura batté le palpebre mentre le lacrime le scendevano sulle guance e le gelavano la pelle. «La tua mamma sarà sempre qui.» Lo schiocco di un ramo che si rompeva la fece irrigidire. Alzò la testa per guardare al di sopra del masso e vide il tiratore solitario nello stesso momento in cui lui vide lei. L'uomo sparò. Il proiettile le gettò la neve negli occhi e lei si buttò a terra accanto al ragazzo morente. Nessuna negoziazione. Nessuna pietà. Mi rifiuto di farmi ammazzare come un animale. Afferrò la pistola del poliziotto e sparò in alto, in aria. Uno sparo d'avvertimento per rallentarlo. Per indurlo a riflettere. Più in basso sul pendio i cani abbaiarono e gli uomini gridarono. Vide il gruppo armato risalire in fretta la montagna verso di lei. Non aveva riparo dai loro spari. Accucciata lì al fianco di Rat, era esposta alla squadra in avvicinamento. «Mi chiamo Maura Isles!» gridò. «Voglio arrendermi! Vi prego, concedetemi di arrendermi! Il mio amico è ferito e ha bisogno...» La voce le morì in gola mentre un'ombra le piombò addosso. Sollevò lo sguardo e si ritrovò a fissare l'interno della canna di un fucile. «Dammi la pistola», disse pacato l'uomo che lo impugnava. «Voglio arrendermi», lo supplicò Maura. «Mi chiamo Maura Isles e...» «Dammi la pistola e basta.» Era un uomo anziano con uno sguardo inesorabile e un tono autoritario di voce. Anche se aveva pronunciato quelle parole con calma, nel suo ordine non c'era spazio per compromessi. «Dammela. Lentamente.» Solo quando stava per obbedirgli Maura si accorse all'improvviso che quella mossa era sbagliata, completamente sbagliata. La pistola in mano sua. Il suo braccio che si sollevava per porgergliela. Gli uomini che osservavano da sotto non avrebbero visto una donna pronta ad arrendersi; avrebbero visto una donna pronta a sparare. Mollò subito la presa e lasciò cadere la pistola. Ma l'uomo in piedi sopra di lei aveva già sollevato il fucile per sparare. La sua decisione di ucciderla era prestabilita.
L'esplosione la fece trasalire. Si buttò in ginocchio e si rannicchiò nella neve accanto a Rat chiedendosi perché non sentisse dolore, perché non vedesse sangue. Perché sono ancora viva? L'uomo sul masso sopra di lei emise un grugnito di sorpresa mentre il fucile gli cadeva dalle mani. «Chi mi sta sparando?» gridò. «Allontanati da lei, Loftus!» ordinò una voce. «Stava per spararmi! Dovevo difendermi!» «Ho detto allontanati.» Conosco quella voce. E' Gabriel Dean. A poco a poco Maura alzò la testa e vide non una, ma due figure familiari che avanzavano nella sua direzione. Gabriel teneva l'arma puntata contro l'uomo sul masso mentre Anthony Sansone correva da lei. «Stai bene, Maura?» domandò Sansone. Lei non aveva tempo da sprecare con le domande né per meravigliarsi della comparsa miracolosa dei due. «Sta morendo», singhiozzò. «Aiutami a salvarlo.» Sansone si gettò in ginocchio accanto al ragazzo. «Dimmi cosa devo fare.» «Gli praticherò una decompressione del torace. Mi serve un tubo toracico. Qualsiasi oggetto cavo andrà bene... anche una penna a sfera!» Raccolse il coltello di Rat e guardò il petto esile, le costole che sporgevano in modo così netto sotto la pelle pallida. Anche sul fianco gelido di quella montagna le sudava la mano mentre raccoglieva tutto il coraggio per fare ciò che andava fatto. Trovò il punto di repere, premette la lama contro la pelle e l'affondò nel torace del ragazzo.
34 «Mi avrebbe ucciso», disse Maura. «Se Gabriel e Sansone non lo avessero fermato, quell'uomo mi avrebbe sparato a sangue freddo come ha sparato a Rat. Senza fare domande.» Jane guardò il marito che stava accanto alla finestra e guardava il parcheggio del centro medico. Gabriel non aveva contraddetto né confermato quanto detto da Maura, ma restava stranamente taciturno lasciando che raccontasse la sua storia. Tranne per il bisbiglio della televisione, il cui volume era stato abbassato, la sala visitatori di terapia intensiva era silenziosa. «C'è qualcosa di totalmente sbagliato in tutto quello che è accaduto lassù», affermò Maura. «Qualcosa che non ha alcun senso. Perché era così deciso a ucciderci?» Alzò lo sguardo e Jane quasi non riconobbe l'amica con il volto emaciato e tutto ammaccato. La pelle solitamente perfetta di Maura era deturpata da graffi su cui si stava formando la crosta. Il maglione nuovo che indossava era fin troppo largo per la sua corporatura e le clavicole le spiccavano sul torace penosamente magro. Senza i suoi abiti eleganti, senza il trucco sembrava vulnerabile come ogni altra donna, il che turbò Jane. Se anche la fredda e sicura Maura Isles poteva essere ridotta a una creatura bastonata, allora chiunque poteva fare quella fine. Anch'io. «È stato ucciso un agente», rispose. «Sai come vanno le cose quando muore un poliziotto. La giustizia adotta metodi un po' duri.» Lanciò di nuovo un'occhiata al marito in attesa che commentasse, ma Gabriel si limitò a fissare in silenzio la mattina che scintillava tersa. Si era rasato e fatto una doccia dopo essere tornato dalla montagna, ma aveva ancora l'aria esausta e la pelle irritata dal vento, gli occhi stanchi socchiusi nella luce del sole. «No, è comparso lassù con l'intenzione di ucciderci», dichiarò Maura. «Proprio come quell'agente a Doyle Mountain. Credo che tutto ruoti attorno a Verrà il Regno. E a quello che non avrei dovuto vedere lì.» «Be', ora sappiamo che cos'era», replicò Jane. Il giorno prima l'ultimo dei quarantun corpi era stato recuperato dalla fossa comune. Dodici uomini, diciannove donne e dieci bambini, per lo più femmine. La maggior parte non presentava segni di traumi, ma Maura aveva visto abbastanza a Verrà il Regno per sapere che le vittime erano state sicuramente costrette a marciare verso la loro tomba. Il sangue sulle scale, i pasti abbandonati, gli animali domestici lasciati morire di fame... tutto indicava un omicidio di massa. «Non potevano permettere che anche uno solo di voi vivesse», affermò
Jane. «Non dopo ciò che avevate visto in quel villaggio.» «Il giorno in cui sono partita a piedi, ho sentito uno spazzaneve risalire la montagna», disse Maura. «Pensavo che venissero finalmente a salvarci. Se fossi stata là con gli altri...» «Saresti finita come loro», concluse Jane. «Con il cranio fracassato e il corpo bruciato nel Suburban. L'unica cosa che hanno dovuto fare è stata spingerlo nel burrone e incendiarlo, così la faccenda era chiusa. Soltanto un gruppo di sfortunati turisti morti in un incidente d'auto, nessuno avrebbe fatto domande.» Jane tacque. «Temo di averti complicato le cose.» «Come?» «Insistendo sul fatto che fossi ancora dispersa. Ho portato i tuoi abiti per i cani da ricerca. Ho dato loro tutto ciò di cui avevano bisogno per rintracciarti.» «Adesso sarei morta», disse sommessamente Maura, «se non fosse stato per il ragazzo.» «Mi sembra che tu abbia ricambiato il favore.» Jane le prese la mano. Era una cosa strana perché Maura non era una donna che invitasse all'abbraccio e al contatto. Ma non trasalì a quello di Jane; sembrava troppo stanca per qualsiasi reazione. «Tutti i tasselli del caso andranno a posto», disse Jane. «Forse ci vorrà tempo, ma sono sicura che troveranno abbastanza da legarlo alla Raccolta.» «E a Jeremiah Goode.» Jane assentì. «Non sarebbe potuto succedere se non lo avesse ordinato lui. Ma se anche quelle persone hanno bevuto volontariamente il veleno, resta sempre omicidio di massa. Perché parliamo di bambini che non avevano alcuna possibilità di scegliere.» «Allora la madre del ragazzo. La sorella...» Jane scosse la testa. «Se vivevano a Verrà il Regno, probabilmente sono tra i morti. Nessuno è stato ancora identificato. La prima autopsia verrà effettuata domani. Tutti sospettano si sia trattato di cianuro di potassio.» «Come a Jonestown», osservò piano Maura. Lei annuì. «Rapido, efficace e disponibile.» Maura alzò lo sguardo. «Ma erano i suoi seguaci. I prescelti. Perché all'improvviso li avrebbe voluti morti?» «Questa è una domanda a cui solo Jeremiah può rispondere. Al momento nessuno sa dove sia.» La porta si aprì ed entrò un'infermiera di terapia intensiva. «Dottoressa
Isles? La polizia se n'è andata e il ragazzo chiede di nuovo di lei.» «Dovrebbero lasciare in pace quel povero ragazzo», commentò Maura mentre si alzava dalla poltrona. «Ha già detto tutto.» Per un istante apparve debole e barcollante, ma riuscì a recuperare l'equilibrio e seguì l'infermiera fuori dalla stanza. Jane attese finché la porta non si richiuse, poi guardò il marito. «Va bene, dimmi cosa ti preoccupa.» Lui sospirò. «Tutto.» «Vuoi essere più preciso?» Gabriel si voltò e la guardò. «Maura ha ragione. Montgomery Loftus era assolutamente intenzionato a uccidere lei e il ragazzo. Non è venuto con la nostra squadra di ricerca. E' stato abbastanza furbo da prevedere che il ragazzo si sarebbe diretto alla capanna di Absolem e ha noleggiato un elicottero perché lo scaricasse lassù. Là li ha aspettati per tendere loro un'imboscata. Se non lo avessimo fermato, li avrebbe uccisi entrambi.» «Perché?» «Sostiene che volesse solo fare giustizia. E nessuno da queste parti ha intenzione di metterlo in dubbio. Dopotutto, sono i suoi amici e i suoi vicini.» E noi siamo soltanto degli estranei impiccioni, pensò Jane. Guardò dalla finestra il parcheggio dove Sansone stava portando a spasso Bear. Formavano una strana coppia, il cane dall'aria selvaggia e l'uomo con il cappotto di cachemire. Ma Bear sembrava fidarsi di lui e saltò volentieri in macchina quando Sansone aprì la portiera per riportarlo in albergo. «Martineau e Loftus», disse sommessamente Jane. «C'è un legame tra loro?» «Forse c'è una pista finanziaria da seguire. Se Martineau è stato pagato dal Gruppo Dahlia...» Jane guardò Gabriel. «Ho sentito che Montgomery Loftus ha problemi di denaro. Fa fatica a mantenere il ranch Doublé L. Anche lui è pronto per essere comprato.» «Uccidere Maura e un ragazzo di sedici anni?» Gabriel scosse il capo. «Non mi sembra un uomo che possa essere comprato soltanto con il denaro.» «Forse si è trattato di parecchio denaro. In tal caso sarebbe difficile da nascondere.» Gabriel lanciò un'occhiata all'orologio. «Credo sia ora che io vada a Denver.» «All'ufficio del Bureau?» «Abbiamo una misteriosa società di copertura nel Maryland. E grosse quantità di denaro sparse in giro. Inizia a essere una faccenda davvero grossa, Jane.» «Quarantun morti non lo sono già abbastanza?» Lui scosse cupo la testa.
«Potrebbero essere solo la punta dell'iceberg.» Maura si fermò sulla soglia della stanzetta di terapia intensiva, spaventata alla vista di tutti i tubi, i cateteri e i cavi che serpeggiavano attorno al corpo di Rat, un'invasione che nessun ragazzo di sedici anni avrebbe dovuto sopportare. Ma per fortuna il ritmo cardiaco sul monitor era costante e ora Rat respirava autonomamente. Avvertendo la sua presenza, aprì gli occhi e sorrise. «Ehi, signora.» «Oh, Rat.» Sospirò. «Quando la smetterai di chiamarmi così?» «Come dovrei chiamarti?» Una volta mi hai chiamato mamma. Con un battito di palpebre soffocò le lacrime al ricordo. La vera madre del ragazzo era quasi sicuramente tra i morti, ma non ebbe il cuore di dargli la notizia. Riuscì invece a ricambiare il sorriso. «Puoi chiamarmi come vuoi. Ma il mio nome è Maura.» Si sedette sulla sedia accanto al letto e gli prese la mano. Notò quanto fosse callosa e coperta di croste, con le unghie ancora ostinatamente sporche di terra. Lei, che non ricercava con facilità il contatto con nessuno, prese quella mano malridotta tra le sue senza esitazione. Lo sentì come un gesto naturale, giusto. «Come sta Bear?» domandò Rat. Maura rise. «Lo chiamerai Pig quando vedrai quanto mangia.» «Allora sta bene?» «I miei amici lo stanno viziando. E la tua famiglia adottiva ha promesso che si prenderà cura di lui finché non tornerai a casa.» «Oh. Loro.» Lo sguardo di Rat si allontanò dal suo e fissò incurante il soffitto. «Immagino tornerò là.» Un luogo dove chiaramente non voleva andare. Ma che alternativa poteva offrirgli Maura? Una casa con una divorziata che non aveva idea di come si allevasse un figlio? Con una donna che aveva una relazione clandestina con un uomo che non avrebbe mai potuto presentare come suo compagno? Non era granché come modello per un adolescente e la sua vita era già abbastanza problematica. Eppure l'offerta le sfiorò le labbra tremolanti, l'offerta di prenderlo con sé, di renderlo felice, di mettere a posto la sua vita. Di essere sua madre. Oh, come sarebbe stato facile farla e, una volta fatta, impossibile da ritirare. Sii saggia, Maura, pensò. Non riesci a tenere nemmeno un gatto, figuriamoci crescere un adolescente da sola. Nessuna autorità responsabile glielo darebbe in affido. Quel ragazzo aveva già conosciuto troppi rifiuti, troppe delusioni; sarebbe stato crudele fargli promesse che non poteva mantenere. Perciò non ne fece. Si limitò a stringergli la mano e a restare al suo
capezzale mentre ripiombava nel sonno. L'infermiera entrò per cambiare il flacone della flebo e uscì rapida. Maura tuttavia restò a meditare sul futuro del ragazzo e su quale parte potesse realisticamente sperare di avervi. So questo: non ti abbandonerò. Saprai sempre che c'è qualcuno che si interessa a te. Bussarono sul vetro e lei si girò notando Jane che le faceva cenno. Lasciò con riluttanza il capezzale di Rat e uscì dalla stanzetta. «Stanno per iniziare la prima autopsia», annunciò Jane. «Le vittime di Verrà il Regno?» Lei annuì. «Il patologo forense è appena arrivato dal Colorado. Dice di conoscerti e si chiede se vuoi assistere. La effettua di sotto, nell'obitorio dell'ospedale.» Maura guardò Rat dal vetro e vide che dormiva sereno. Il ragazzo perduto, ancora in attesa di essere reclamato. Tornerò. Te lo prometto. Fece un cenno a Jane e lasciarono l'unità di terapia intensiva. Quando arrivarono in obitorio, trovarono l'anticamera affollata di persone. Tra queste vi erano lo sceriffo Fahey e il detective Pasternak. Il numero di vittime era bastato a renderlo un caso d'alto profilo e parecchi rappresentanti delle forze dell'ordine e agenti statali e di contea si erano radunati per assistere all'autopsia. Il patologo vide Maura entrare nella stanza e alzò la mano robusta in segno di saluto. Due estati prima aveva conosciuto il dottor Fred Gruber a un congresso di patologia forense nel Maine e lui sembrava lieto di scorgere un volto familiare. «Dottoressa Isles», esclamò con voce tonante. «Potrei avvalermi di un altro paio d'occhi esperti. Vuole mettersi il camice e raggiungermi qui?» «Non credo sia opportuno», osservò lo sceriffo Fahey. «La dottoressa Isles è un patologo forense.» «Non lavora per lo stato del Wyoming. Questo caso verrà seguito con attenzione e potrebbero sollevare domande.» «Perché potrebbero sollevare domande?» «Perché era in quella valle. E' una testimone e potrebbero esserci accuse di intromissione. Di contaminazione.» «Sono qui solo per osservare e posso farlo benissimo da questo lato del vetro insieme a voi. Suppongo che potremo guardare sul monitor, vero?» disse Maura e indicò lo schermo montato nell'anticamera. «Accenderò la telecamera, così avrete una buona visuale», rispose il dottor Gruber. «E chiederò a tutti gli osservatori di restare comunque in questa stanza con la porta chiusa. Dato che è possibile che abbiamo a che fare con un avvelenamento da cianuro.»
«Pensavo si dovesse inghiottire quella roba per star male», osservò uno degli agenti. «È possibile che fuoriescano gas. Il rischio più grande è quando taglierà lo stomaco perché in quel momento potrebbe liberarsi il gas di cianuro. Io e il mio assistente indosseremo un respiratore e sezioneremo lo stomaco sotto la cappa aspirante. Abbiamo anche portato un rivelatore monogas che ci avvertirà subito se individuerà acido cianidrico. Se darà esito negativo, potrei lasciar entrare alcuni di voi nella stanza. Ma dovrete indossare camice e mascherina.» Gruber indossò la divisa settoria comprendente il respiratore con cappuccio e varcò la porta della sala autopsie. L'assistente lo stava aspettando vestito in modo simile. Accesero la telecamera e sul monitor Maura vide il tavolo vuoto, in attesa del soggetto. Gruber e l'assistente estrassero il corpo avvolto nel sacco di plastica dalla cella frigorifera e lo spostarono sul tavolo. Gruber aprì la cerniera del sacco. Sul monitor Maura vide che era di una ragazza di dodici o tredici anni soltanto. Dopo l'esumazione dal terreno ghiacciato la carne aveva avuto modo di scongelarsi. Aveva il volto di un pallore spettrale e i capelli biondi ridotti a una corona di riccioli umidi. Gruber e l'assistente agirono in silenzio e con rispetto mentre le toglievano gli abiti. Un vestito lungo di cotone, una sottoveste al ginocchio e un paio di mutandine bianche semplici. Il corpo, ora nudo, era sottile come quello di una ballerina e nonostante i giorni di sepoltura era stranamente bello, la carne si era conservata grazie alle temperature sottozero della valle. Gli agenti si accalcarono attorno al monitor. Mentre Gruber raccoglieva sangue, urine e campioni di umor vitreo per l'esame tossicologico, tutti quegli occhi maschili osservarono ciò che non avrebbe mai dovuto essere loro svelato. Era una violazione del pudore di una ragazzina. «La cute è marcatamente pallida», sentirono Gruber dire attraverso l'altoparlante dell'interfono. «Non noto assolutamente rossori residui.» «È rilevante?» chiese il detective Pasternak a Maura. «L'avvelenamento da cianuro può far sì che talvolta la pelle appaia di un rosso vivo», rispose. «Ma questo corpo è rimasto congelato per giorni, perciò non so se possa aver influenzato il fenomeno.» «Che cos'altro si ha nell'avvelenamento da cianuro?» «Se viene ingerito, può corrodere la bocca e le labbra. Lo si nota nelle mucose.» Gruber aveva già infilato un dito protetto dal guanto nella cavità orale e stava osservando con attenzione l'interno. «Le mucose sono secche, ma non presentano altrimenti caratteristiche degne di nota.» Guardò il pubblico dal vetro. «Vedete bene sul monitor?»
Maura gli rispose con un cenno. «Non ci sono lesioni da corrosione?» domandò attraverso l'interfono. «Nessuna.» «Il cianuro non dovrebbe avere un odore di mandorle amare?» chiese Jane. «Indossano respiratori», replicò Maura. «Non possono sentirlo.» Gruber praticò l'incisione a Y e prese il costotomo. Attraverso l'interfono udirono un crack, crack mentre tagliava le coste e Maura si accorse che numerosi agenti si voltarono all'improvviso per fissare il muro. Gruber sollevò il piastrone sternale e le coste esponendo la cavità toracica, quindi affondò la mano nel torace per resecare i polmoni. Sollevò un lobo bagnato gocciolante. «Mi sembra piuttosto pesante. E qui vedo una schiuma rosata.» Tagliò l'organo e ne uscì un fluido. «Edema polmonare», affermò Maura. «Che significa?» le chiese Pasternak. «E' un reperto aspecifico, ma può essere causato da numerose sostanze e tossine.» Mentre Gruber pesava cuore e polmoni, la telecamera rimase fissa sull'inquadratura statica del tronco aperto. Non stavano più guardando una ragazzina. Ciò che un tempo avrebbe forse potuto solleticarli si era trasformato in un ammasso di carne macellata, in una carcassa fredda e niente più. Gruber prese di nuovo il coltello e sul monitor ricomparvero le sue mani protette dai guanti. «Questa maledetta maschera facciale continua ad appannarsi», protestò. «Sezionerò cuore e polmoni più tardi. In questo momento mi interessa di più il contenuto dello stomaco.» «Cosa indica il rilevatore?» domandò Maura. L'assistente guardò il monitor dello strumento. «Non registra niente. Non rileva ancora cianuro.» «Bene, qui le cose potrebbero farsi interessanti», disse Gruber. Guardò il pubblico dalla finestra. «Dato che potremmo avere a che fare con il cianuro, procederò in modo un po' diverso. Di solito mi limiterei a resecare, pesare e aprire gli organi addominali. Stavolta però clamperò lo stomaco prima di resecarlo in toto.» «Lo metterà sotto la cappa aspirante prima di aprirlo», spiegò Maura a Jane. «Per prudenza.» «E' davvero così pericoloso?» «Quando i sali di cianuro vengono esposti all'acido gastrico possono formare un gas tossico. Apri lo stomaco e liberi il gas nell'aria. Per questo indossano maschere con cappuccio. E per questo non taglierà lo stomaco finché non sarà sotto la cappa aspirante.»
Dalla finestra osservarono Gruber sollevare lo stomaco resecato e clampato dall'addome. Lo portò sul mobile dotato di cappa aspirante e lanciò un'occhiata all'assistente. «Dal rilevatore niente?» «Neanche un bip.» «Bene. Avvicina quel monitor. Vediamo cosa accade quando inizio a tagliare.» Gruber si fermò e fissò l'organo luccicante come per prepararsi alle conseguenze di quanto stava per fare. La cappa aspirante impediva a Maura di osservare l'incisione. Ciò che vide fu il profilo di Gruber, la sua testa protesa, le spalle curve per la concentrazione mentre tagliava. Il medico si raddrizzò di scatto e guardò l'assistente. «Allora?» «Niente. Non rileva cianuro, cloro né ammoniaca gassosi.» Gruber si girò verso la finestra con il volto offuscato dalla maschera appannata. «Non ci sono lesioni delle mucose né alterazioni da corrosione dello stomaco. Devo concludere che probabilmente non abbiamo a che fare con un avvelenamento da cianuro.» «Allora cosa l'ha uccisa?» domandò Pasternak. «A questo punto, detective, faccio delle ipotesi. Suppongo possano aver ingerito stricnina, ma il corpo non presenta opistotono persistente.» «Che cosa?» «Un inarcamento e una rigidità anomali del dorso.» «Che mi dice di quell'altro reperto, nei polmoni?» «L'edema polmonare potrebbe essere dovuto a qualsiasi cosa, dagli oppiacei al fosgene. Non posso darle una risposta. Temo che tutto si chiarirà con l'esame tossicologico.» Si tolse il respiratore appannato con il cappuccio e sospirò, come sollevato per essersi liberato dalla maschera claustrofobica. «Al momento credo si tratti di un decesso da farmaci. Dovuto a un medicinale di qualche tipo.» «Ma lo stomaco è vuoto?» chiese Maura. «Non ha trovato residui di capsule?» «I farmaci potrebbero essere stati assunti in forma liquida. Oppure la morte potrebbe essere stata ritardata. Sedazione seguita da asfissia assistita.» «Heaven's Gate», disse qualcuno alle spalle di Maura. «Esatto. Come il suicidio di massa di Heaven's Gate a San Diego», convenne Gruber. «Hanno ingerito fenobarbitale e si sono legati un sacchetto di plastica sulla testa. Poi sono andati a dormire e non si sono più risvegliati.» Si girò di nuovo verso il tavolo. «Ora che abbiamo escluso qualsiasi rischio dovuto a gas di cianuro farò con calma. Dovrete avere tutti pazienza. Alcuni di voi potrebbero in effetti trovare noioso il resto, perciò se volete andare...»
«Dottor Gruber», disse uno degli agenti, «quanto tempo richiederà la prima autopsia? Ci sono altri quaranta corpi in attesa nel congelatore.» «Non ne scongelerò altri finché non sarò certo di aver reso giustizia a questa signorina.» Osservò il corpo della ragazza e il suo sguardo divenne triste. I visceri luccicavano nell'addome aperto e dalla carne da poco scongelata il ghiaccio sciolto di colore rosato gocciolava nello scarico del tavolo. Ma era il volto che pareva aver attirato la sua attenzione. Mentre fissava il monitor, anche Maura restò pietrificata davanti a quel viso tanto pallido, tanto innocente. Una fanciulla di neve congelata prima ancora di poter diventare donna. «Dottor Gruber?» disse l'assistente. «Si sente bene? Dottore?» Lo sguardo di Maura guizzò di nuovo verso la finestra. Gruber barcollò e tese la mano per reggersi al tavolo ma le sue gambe sembrarono dissolversi sotto di lui. Un vassoio si rovesciò e gli strumenti d'acciaio caddero sferragliando sul pavimento. Gruber precipitò e il suo corpo atterrò con un tonfo pauroso. «Oh, mio Dio!» L'assistente gli si inginocchiò accanto. «Credo abbia un attacco!» Maura afferrò il telefono più vicino e chiamò l'operatore. «Codice blu, sala autopsie», disse. «Abbiamo un codice blu!» Riagganciò e vide sgomenta che tre membri del pubblico avevano già varcato la porta per entrare nella sala. Jane stava per seguirli quando Maura la prese per un braccio e la bloccò. «Che diavolo...?» esclamò lei. «Tu resta qui.» Prese un camice da autopsia da una mensola e infilò le braccia in un paio di pesanti guanti di gomma per sezionare. «Non far entrare nessuno in quella stanza.» «Ma quell'uomo là dentro ha avuto un attacco!» «Dopo che si è tolto il cappuccio.» Maura si guardò frenetica attorno in cerca di un altro respiratore, ma nell'anticamera non ne vide. Non ho altra scelta, pensò. Devo essere rapida. Inspirò profondamente ed entrò in sala. Gruber aveva lasciato il respiratore appoggiato sul mobile della cappa aspirante. Maura lo afferrò e se lo mise in testa. Udì un rumore metallico, si girò e vide uno degli uomini accasciarsi contro il lavandino. «Tutti fuori di qui!» gridò mentre afferrava l'uomo traballante e lo aiutò a raggiungere la porta. «Questa stanza è contaminata!» L'assistente dell'obitorio le lanciò un'occhiata sbalordita oltre la maschera. «Non capisco! Il monitor del rilevatore non ha registrato niente!» Maura si chinò per prendere Gruber sotto le braccia ma era troppo pesante, un peso
morto inamovibile. «Lo afferri per i piedi!» ordinò. Insieme, lei e l'assistente lo trascinarono sul pavimento ingombro di strumenti allontanandolo dal tavolo. Quando lo ebbero portato nell'anticamera, la squadra del codice blu era arrivata e stava mettendo le mascherine per l'ossigeno ai tre uomini dall'aria pallida. Maura guardò il volto cianotico di Gruber. «Quest'uomo non respira!» gridò. Mentre la squadra convergeva sul paziente, lei indietreggiò per lasciarla lavorare. In pochi secondi gli stavano già immettendo ossigeno nei polmoni e applicando gli elettrodi cardiaci al petto. Sul monitor apparve il tracciato dell'ECG. «Non c'è ritmo cardiaco organizzato.» «Non ho la pressione sanguigna. Non c'è perfusione.» «Iniziate le compressioni!» «È stato esposto a qualcosa. A qualcosa in quella stanza», disse Maura. Nessuno tuttavia sembrò sentirla attraverso il respiratore con cappuccio. La testa le martellava. Si tolse il cappuccio e batté le palpebre alle luci che all'improvviso le sembrarono troppo intense. L'equipe medica era ora in pieno codice blu e il tronco di Fred Gruber era stato completamente denudato; l'addome rigonfio, esposto in modo umiliante, ondeggiava a ogni compressione cardiaca. Dai pantaloni zuppi della divisa si levava un puzzo d'urina. «Conosciamo l'anamnesi di quest'uomo?» esclamò il medico. «Cosa sappiamo di lui?» «E' crollato a terra mentre effettuava un'autopsia», rispose Jane. «Sembra in sovrappeso di una quarantina di chili. Scommetto che ha avuto un infarto miocardico.» «Si è urinato addosso», osservò Maura. Di nuovo la sua voce fu ignorata. Era come un fantasma che aleggiava ai margini, inascoltato e ignorato. Si premette una mano alla testa, che le martellava ancora di più e si sforzò di ragionare, di concentrarsi. Riuscì in qualche modo a farsi strada nella calca del personale e a inginocchiarsi accanto alla testa di Gruber. Gli sollevò una palpebra e fissò la pupilla. Era a malapena una nera capocchia di spillo nell'iride azzurro chiaro. Il tanfo di urina si diffondeva dal suo corpo e Maura guardò i pantaloni fradici della divisa. D'un tratto sentì un conato, guardò dall'altra parte della stanza e vide l'assistente dell'obitorio che stava vomitando in un lavandino. «Atropina», disse. «Ho inserito la flebo», gridò un'infermiera. «Ancora niente pressione sanguigna.»
«Infusione di dopamina?» «Ha bisogno di atropina», disse più forte Maura. Per la prima volta il medico sembrò notarla. «Perché? La frequenza cardiaca non è così lenta.» «Ha le pupille a capocchia di spillo. E fradicio di urina.» «Ha anche avuto un attacco.» «Siamo stati tutti male in quella stanza.» Indicò l'assistente dell'obitorio, ancora chino sul lavandino. «Dategli l'atropina ora, altrimenti lo perderete.» Il medico sollevò una palpebra di Gruber e fissò la pupilla ristretta. «D'accordo. Atropina, due milligrammi», ordinò. «E sigillate la sala», aggiunse Maura. «Ora dovremmo tutti trasferirci in corridoio, il più lontano possibile dalla stanza. Bisogna chiamare una squadra specializzata in materiali pericolosi.» «Che diavolo sta succedendo?» chiese Jane. Maura si voltò verso di lei e bastò quel movimento perché la stanza prendesse a girare all'improvviso. «Abbiamo un rischio chimico là dentro.» «Ma le letture del rilevatore di gas erano negative.» «Negative per ciò che stava monitorando. Ma è stato altro ad avvelenarlo.» «Allora sai cos'è? Sai cosa ha ucciso tutte quelle persone?» Maura assentì. «So con esattezza perché sono morte.»
35 «Gli organofosfati sono tra i pesticidi più tossici usati nell'industria agricola», spiegò Maura. «Possono essere assorbiti in vari modi, anche attraverso la pelle e per inalazione. Probabilmente è così che il dottor Gruber è rimasto esposto in sala autopsie. Quando si è tolto il respiratore e ha inalato i fumi. Per fortuna ha ricevuto le cure adeguate in tempo e si riprenderà.» Guardò attorno al tavolo osservando il personale medico e le forze dell'ordine che si erano ritrovati nella sala riunioni dell'ospedale. Non ebbe bisogno di aggiungere che era stata lei a formulare la diagnosi e a salvare la vita di Gruber. Lo sapevano già e, anche se era un'estranea, percepì un tono di rispetto quando le rivolsero la parola. «Effettuare l'autopsia di un cadavere avvelenato può ucciderti, quindi?» chiese il detective Pasternak. «Potenzialmente sì, se vieni esposto a una dose letale. Gli organofosfati agiscono inibendo l'enzima che scompone un neurotrasmettitore chiamato acetilcolina. Il risultato è che l'acetilcolina si accumula in quantità pericolose. Ciò fa sì che gli impulsi nervosi impazziscano nell'intero sistema parasimpatico. E' una vera tempesta sinaptica. Il paziente suda e produce saliva in eccesso. Perde il controllo della vescica e dell'intestino. Le pupille si restringono fino a diventare due capocchie di spillo e i polmoni si riempiono di fluidi. Alla fine inizia ad avere le convulsioni e perde conoscenza.» «Non capisco una cosa», intervenne lo sceriffo Fahey. «Il dottor Gruber si è sentito male nel giro di mezz'ora dall'inizio dell'autopsia. Ma la squadra di recupero del coroner ha riesumato quarantuno di quei corpi, li ha messi nei sacchi salma e li ha trasferiti nell'hangar di un aeroporto. Nessuno di quegli addetti è finito in ospedale.» Prese allora la parola il dottor Draper, il coroner della contea. «Devo dire una cosa. E' un particolare che mi è stato riferito ieri, ma fino a ora non mi ero reso conto che fosse rilevante. Quattro membri della nostra squadra hanno manifestato i sintomi di una gastrite. O almeno così pensavano.» «Ma nessuno è crollato a terra ed è morto», osservò Fahey. «Probabilmente perché lavoravano con corpi congelati. E indossavano tute protettive oltre ad abiti invernali pesanti. Il corpo in sala autopsie è stato il primo a essere scongelato.» «Questo farebbe qualche differenza?» domandò Pasternak. «Un corpo congelato rispetto a uno scongelato?» Guardarono tutti Maura e lei assentì.
«A temperature più elevate ci sono maggiori probabilità che i composti tossici si aerosolizzino. A mano a mano che il cadavere si scongelava, ha cominciato a liberare gas. Il dottor Gruber ha probabilmente accelerato il processo quando lo ha aperto esponendo i fluidi corporei e gli organi interni. Non è il primo medico che è stato male in seguito all'esposizione alle tossine di un paziente.» «Aspetta. Questo mi ricorda qualcosa», affermò Jane. «Non c'è stato un caso simile in California?» «Forse ti riferisci ai caso di Gloria Ramfrez a metà degli anni Novanta», rispose Maura. «E' stato molto discusso nei congressi di patologia forense.» «Cos'è successo in quel caso?» chiese Pasternak. «Gloria Ramfrez era una paziente oncologica arrivata in pronto soccorso con dolori gastrici. Poi ha subito un arresto cardiaco. Mentre si occupava di lei, l'equipe medica ha cominciato a sentirsi male e parecchi di loro sono crollati a terra.» «Era dovuto allo stesso pesticida?» «Quella era la teoria all'epoca», spiegò Maura. «Quando hanno effettuato l'autopsia, i patologi hanno indossato una tuta protettiva completa. Non hanno mai identificato la tossina. Ma ecco il particolare interessante: il personale medico svenuto mentre l'assisteva è stato rianimato con successo con una somministrazione endovenosa di atropina.» «Lo stesso farmaco usato per salvare Gruber.» «Esatto.» «Fino a che punto è sicura che questi organofosfati siano proprio ciò con cui abbiamo a che fare?» domandò Pasternak. «Bisognerà confermarlo con un esame tossicologico. Ma il quadro clinico è classico. Gruber ha risposto all'atropina. E l'analisi del sangue ha indicato una diminuzione significativa dell'attività colinesterasica. Di nuovo, è un elemento che si ritrova nell'avvelenamento da organofosfati.» «Basta per affermare che sia un dato sicuro?» «Possiamo quasi affermarlo.» Maura guardò i volti attorno al tavolo e si chiese quante di quelle persone oltre Jane fossero disposte a fidarsi di lei. Soltanto alcuni giorni prima era una possibile sospettata nella sparatoria contro l'agente Martineau. Certo nella loro mente serbavano ancora qualche dubbio su di lei, anche se nessuno lo esprimeva ad alta voce. «Le persone che vivevano a Verrà il Regno sono state molto probabilmente avvelenate da un pesticida a base di organofosfati», disse. «La domanda è: si è trattato di un suicidio di massa? Un omicidio? O un incidente?»
La frase fu accolta da un verso di incredulità di Cathy Weiss. L'assistente sociale si era seduta nell'angolo, quasi sapesse di non essere del tutto accettata in quella squadra, malgrado il detective Pasternak l'avesse invitata a partecipare alla riunione. «Un incidente?» esclamò Cathy. «Quarantun persone sono morte perché hanno ricevuto l'ordine di bere il pesticida. Quando il profeta dice ai suoi seguaci di saltare, la loro unica possibile risposta è chiedere: Quanto in alto, signore?» «Oppure qualcuno avrebbe potuto versarlo nell'acqua del pozzo», osservò il dottor Draper. «Il che lo renderebbe un omicidio.» «Che sia omicidio o suicidio di massa, non ho dubbi che sia stata una decisione del profeta», ribatté Cathy. «Chiunque avrebbe potuto avvelenare l'acqua», precisò Fahey. «Potrebbe essere stato un seguace scontento. Diamine, potrebbe esser stato quel ragazzo, Perkins.» «Non lo farebbe mai», disse Maura. «Lo hanno cacciato dalla valle, no? Aveva ogni ragione di vendicarsi.» «Oh, certo», intervenne Cathy senza preoccuparsi di nascondere il suo disprezzo per Fahey. «E poi quel ragazzino trascina da solo quarantun corpi nel campo e li seppellisce con un bulldozer?» Scoppiò a ridere. Fahey guardò ora Maura ora Cathy e sbuffò sdegnoso. «Voi signore non sapete ovviamente di cosa sono capaci i sedicenni.» «Io so di cosa è capace Jeremiah Goode», replicò Cathy. Lo squillo del cellulare di Pasternak troncò la conversazione. Guardò il numero e si alzò rapido dalla sedia. «Scusatemi», disse e lasciò la stanza. Per un attimo ci fu silenzio e la tensione dell'ultimo scambio di battute aleggiò nell'aria. Poi Jane disse: «Chiunque lo abbia fatto doveva avere accesso al pesticida. Ci sarà un documento che ne attesti l'acquisto. Soprattutto se parliamo di una scorta abbastanza grande da uccidere un'intera comunità». «Il centro di Plain of Angels in Idaho coltiva i propri prodotti», spiegò Cathy. «Sono una comunità autosufficiente. E' probabile che dispongano di questo pesticida agricolo.» «Non dimostra la loro colpevolezza», rispose Fahey. «Hanno il veleno. Hanno accesso a Verrà il Regno e alle sue risorse idriche.» «Non ho ancora sentito un movente. Una ragione per cui Jeremiah Goode dovrebbe volere morti quarantuno dei suoi seguaci.» «Il movente dovrà chiederlo a lui», ribatté secca Cathy. «Sì, be', ci dica dove trovarlo e lo farò.»
«A dire il vero», annunciò Pasternak, «sappiamo dove trovarlo.» Il detective era sulla soglia con il cellulare in mano. «Ho appena ricevuto una chiamata dalla polizia statale dell'Idaho. Il loro contatto nella Raccolta riferisce che Jeremiah Goode è stato appena avvistato nel centro di Plain of Angels. Si stanno mobilitando per un'incursione alle prime luci dell'alba.» «Cioè come minimo tra sette ore», osservò Jane. «Perché aspettano tanto per farlo?» «Hanno bisogno di uomini sufficienti. Non solo di forze dell'ordine, ma anche dei servizi di protezione dell'infanzia e di assistenti sociali che si occupino delle donne e dei bambini. Se incontrano resistenza, potrebbe diventare pericoloso.» Pasternak guardò Cathy. «Ed è qui che lei entra in gioco, signorina Weiss.» Lei si accigliò. «Cosa intende?» «Lei sembra conoscere più cose di chiunque altro sulla Raccolta.» «E cerco da anni di avvertire le persone al riguardo.» «Be', ora l'ascoltano. Devo sapere come potrebbero reagire. Se reagiranno con la violenza. Devo sapere esattamente cosa aspettarmi.» Si guardò attorno nella stanza. «In Idaho richiedono la nostra assistenza. Vogliono che ci mobilitiamo prima dell'alba.» «Posso essere pronta a partire tra un'ora», rispose Cathy. «Bene», affermò Pasternak. «Verrà con me. Stasera, signorina Weiss, lei sarà la mia nuova migliore amica.»
36 Guidarono per tutta la notte, Pasternak al volante e Cathy al suo fianco. Sul sedile posteriore sedeva Jane tutta sola. Sarebbe stata un'operazione di polizia a cui Maura non poteva partecipare e Cathy era l'unica civile invitata a prendervi parte. Mentre viaggiavano verso ovest, Cathy previde ciò che si sarebbero trovati davanti a Plain of Angels. «Le donne non vi parleranno. E neanche i bambini. Sono stati condizionati a star zitti in presenza di estranei. Perciò non aspettatevi collaborazione da nessuno di loro, nemmeno quando li porterete via dalla comunità.» «E gli uomini?» «Avranno portavoce designati, scelti con cura da Jeremiah per trattare con il mondo esterno. In cambio della loro lealtà godono di privilegi speciali all'interno della setta.» «Privilegi?» «Ragazze, detective. Più fidato sei, più giovani spose ottieni come ricompensa.» «Gesù.» «Tutte le sette funzionano in questo modo. E' un sistema di ricompense e castighi. Fai felice il profeta e ti lascerà prendere un'altra nuova moglie. Fallo incazzare e verrai bandito dalla setta. Questi portavoce sono uomini di cui si fida e non sono stupidi. Conoscono la legge e cercheranno di confondervi con il legalese. Ci bloccheranno al cancello all'infinito mentre spulceranno il mandato parola per parola.» «Saranno armati?» «Sì.» «E probabilmente pericolosi», borbottò Jane sul sedile posteriore. Cathy si voltò a guardarla. «Quando hanno di fronte la prospettiva di anni di prigione per aver stuprato delle minorenni? Sì, direi che questo li rende pericolosi. Perciò spero siate tutti pronti.» «Quant'è grande la squadra che si sta formando?» chiese Jane. «In Idaho stanno convergendo forze dell'ordine di più giurisdizioni, sia statali che federali. Il capo della squadra è il tenente David MacAfee della polizia statale dell'Idaho. Ha assicurato che ci sarà un massiccio dispiego di forze.» Cathy emise un profondo sospiro. «La fine è arrivata», sussurrò. «Sembra che lei lo aspetti da molto», osservò Pasternak. «Sì», rispose lei, «da molto. Sono solo contenta di esserci per vederlo
accadere.» «Signorina Weiss, mi raccomando: non dovrà intervenire nell'operazione. Non voglio correre rischi.» Lanciò un'occhiata a Jane al di sopra della spalla. «E sarebbe meglio che anche lei resti un'osservatrice.» «Ma appartengo alle forze dell'ordine», affermò Jane. «Di Boston.» «Lavoravo al caso prima che lei arrivasse.» «Non faccia la femminista con me. Dico solo che questo è lo show dell'Idaho. Lei è stata invitata a fare da consulente e assistere laddove necessario. Se vogliono tenerla ai margini, è una loro decisione. Così funziona, Rizzoli.» Jane si accasciò di nuovo sul sedile. «D'accordo. Ma per sua informazione, sono armata.» «Allora tenga ben chiusa la fondina. Se la cosa verrà gestita nel modo giusto, non ci sarà bisogno di usare le armi. Il nostro obiettivo è mettere sotto protezione donne e bambini.» «Aspetti. E Jeremiah?» domandò Cathy. «Se lo troverete, lo arresterete, vero?» «A questo punto si tratterà solo di interrogarlo.» «Quarantun seguaci morti non bastano per accusarlo?» «Non abbiamo prove che sia responsabile di quelle morti.» «Chi altro sarebbe stato?» «Ci serve ben più di questo. Ci servono testimoni, qualcuno che si faccia avanti e parli.» Lanciò un'occhiata a Cathy. «Sarà questo il suo compito. Dovrà parlare con quelle donne. Convincerle a collaborare.» «Non sarà facile.» «Le aiuti a capire che sono delle vittime.» «Si ricorda le donne di Charles Manson? Anche dopo anni di prigione erano sempre le ragazze di Charlie, sempre sensibili alla sua malia. Non puoi deprogrammare in qualche giorno quello che ti è stato martellato in testa per anni. Se insistessero per tornare nel centro, non potrà trattenerle a tempo indefinito.» «Allora faccia in altro modo», disse Jane. «Il test del dna sui bambini piccoli. Scopra chi sono i padri. Scopra se le madri erano minorenni quando hanno partorito.» «È come tagliare i rami per uccidere un albero», commentò Cathy. «C'è un solo modo per abbatterlo. Bisogna distruggere la radice.» «Jeremiah», disse Pasternak. Lei annuì. «Lo chiuda dentro e butti via la chiave. Senza il profeta la setta imploderà. Perché Jeremiah Goode è la Raccolta.»
La squadra dei poliziotti si era raccolta sotto una forte nevicata. Jane batteva i piedi cercando di star calda, ma già le dita le si erano intirizzite e anche il caffè bollente che aveva appena bevuto non era servito a sconfiggere il gelo pungente di quell'alba nell'Idaho. Se avesse fatto parte della squadra d'attacco, non le sarebbe importato del freddo perché l'adrenalina ti rende immune a disagi tanto lievi come la temperatura sotto zero. Ma quel mattino, relegata al ruolo di semplice osservatrice e costretta a starsene in disparte, sentì il gelo penetrarle nel profondo delle ossa. Cathy, al suo fianco, sembrava indifferente alle condizioni atmosferiche. Era immobile, come paralizzata, con il volto esposto al vento. Jane udì il tono delle voci tutt'intorno aumentare, percepì la tensione nell'aria e capì che l'azione era imminente. Pasternak tornò a grandi passi dal gruppo degli agenti al comando. Aveva con sé una ricetrasmittente. «Siamo pronti a muoverci non appena butteranno giù il cancello.» Porse la radio a Jane. «Lei resti con Cathy. Ci servirà la sua consulenza quando entreremo là dentro e lei le farà da scorta. Perciò la tenga al sicuro.» Mentre Jane se l'attaccava alla cintura, dall'altoparlante provenne un allarme. «Abbiamo attività all'interno del centro. Sembra che si stiano avvicinando due uomini.» Nella neve Jane vide sopraggiungere due sagome vestite in modo identico con lunghi cappotti neri. Si muovevano sicuri e avanzavano a grandi passi verso i rappresentanti della legge. Con sua sorpresa uno degli uomini estrasse un mazzo di chiavi e aprì il cancello. Il capo della squadra delle forze dell'ordine fece un passo in avanti. «Sono il tenente MacAfee, polizia statale dell'Idaho. Abbiamo un mandato di perquisizione.» «Non c'è bisogno di un mandato», rispose l'uomo con le chiavi. «Siete i benvenuti. Tutti quanti.» Spalancò il cancello e fece cenno ai visitatori di avanzare. «Ci siamo riuniti nella sala delle assemblee dove c'è posto per tutti. Chiediamo solo che teniate le armi nelle fondine per la sicurezza delle nostre donne e dei nostri bambini.» Allargò le braccia come per invitare il mondo intero a entrare. «Vi prego, unitevi a noi. Non abbiamo niente da nascondere.» «Lo sapevano», borbottò Cathy. «Maledizione, sapevano del nostro arrivo. Si sono preparati.» «Come hanno fatto a saperlo?» domandò Jane. «Lui può comprare tutto. Occhi, orecchie. Un poliziotto qui, un politico là.» Guardò Jane.
«Vede qual è il problema? Vede perché non dovrà mai affrontare la giustizia?» «Nessun uomo è intoccabile, Cathy.» «Lui sì. Lo è sempre stato.» Lo sguardo di Cathy tornò sul cancello aperto. La squadra delle forze dell'ordine era già entrata nel centro e le loro figure stavano scomparendo sotto la neve. Jane ascoltò il chiacchierio alla radio. Udì voci calme, risposte neutre. «Primo edificio controllato e a posto...» «Tutto a posto nel numero tre.» Cathy scosse la testa. «La scamperà anche stavolta», disse. «Non sanno cosa cercare. Non riescono a vedere quello che hanno esattamente davanti ai loro maledetti occhi.» «Niente armi. Tutto a posto...» Cathy fissò le sagome lontane che si stavano riducendo a poco più di figure spettrali. Senza dire una parola anche lei varcò il cancello aperto. Jane la seguì. Passarono in mezzo a file di edifici che si ergevano bui e silenziosi, seguendo le impronte delle scarpe della squadra di poliziotti. Davanti a sé Jane vide la luce delle candele brillare calda nelle finestre della sala delle assemblee; udì una musica e il suono di numerose voci prorompere in un canto. Era un inno dolce e celestiale che si levava al cielo su note cantate dai bambini. L'odore di fumo di legna, un senso di fratellanza e di calore le attirarono verso la costruzione. Superarono la porta ed entrarono nella sala delle assemblee. Dentro una miriade di candele illuminava l'alta stanza. Centinaia di persone occupavano le panche di legno luccicanti. Su un lato sedevano le donne e le ragazze che formavano una marea di abiti pastello. Dall'altro lato c'erano gli uomini e i ragazzi, vestiti con camice bianche e pantaloni neri. Alcuni agenti delle forze dell'ordine si erano raggruppati in fondo alla sala dove se ne stavano imbarazzati a guardare, non sapendo come comportarsi in quello che era chiaramente un luogo di culto. L'inno terminò e le note finali, acute svanirono. Nel silenzio un uomo dai capelli scuri spuntò sul palco e osservò calmo la congregazione. Non indossava un abito talare né una stola ricamata né ornamenti che lo distinguessero come una persona diversa o speciale. Stava di fronte a loro con addosso gli stessi abiti dei seguaci ma le maniche della camicia bianca erano arrotolate fino ai gomiti, come se si preparasse per una giornata di lavoro manuale. Non aveva bisogno di costumi né di lustrini vistosi per ottenere l'attenzione della folla. Il suo sguardo, tanto intenso da sembrare radioattivo, bastava a inchiodare
tutti i presenti nella sala. Allora questo è Jeremiah Goode, pensò Jane. Aveva i capelli screziati d'argento, ma parevano ancora la chioma di un giovane, folta e leonina, e gli arrivavano quasi alle spalle. In quella cupa giornata invernale la sua presenza sembrava emanare una luce calda quanto le fiamme che lambivano l'enorme caminetto di pietra della sala. Studiò il pubblico in silenzio e il suo sguardo si posò infine sugli agenti di polizia in piedi in fondo. «Cari amici, alziamoci tutti per dare il benvenuto ai nostri visitatori», disse. Come un sol corpo, la congregazione si alzò e si girò a guardare gli sconosciuti. «Benvenuti», esclamò in coro per salutarli. Ogni faccia aveva un'aria ripulita e rosea, ogni sguardo era sgranato in segno d'innocenza. Sani e retti, erano il ritratto di una comunità serena e armoniosa, unita negli intenti. Si risedettero tutti insieme. Fu un movimento stranamente coreografico che scatenò lo scricchiolio simultaneo delle panche. «Jeremiah Goode?» chiese il tenente MacAfee. L'uomo sul palco fece un cenno solenne. «Sono io.» «Sono il tenente David MacAfee, polizia di stato dell'Idaho. Può seguirci, signore?» «Posso chiederle il perché di questo dispiego di forze? Soprattutto ora, nella nostra ora di dolore?» «Dolore, signor Goode?» «Per questo siete qui, no? Per le atrocità commesse contro i nostri poveri fratelli a Verrà il Regno.» Jeremiah osservò tetro la congregazione. «Sì, amici, lo sappiamo, vero? Ci è giunta voce ieri, la terribile notizia di ciò che è stato fatto ai nostri seguaci. Tutto per ciò che erano e per ciò in cui credevano.» Tra il pubblico ci furono cenni e mormorii di mesto assenso. «Signor Goode», proseguì MacAfee, «le chiedo di nuovo di venire con noi.» «Perché?» «Per rispondere ad alcune domande.» «Allora fatemele qui ora in modo che tutti possano sentire.» Jeremiah tese le braccia verso i seguaci in un gesto esagerato. Era una recita grandiosa e lui era al centro del palco con gli archi della sala che si levavano sopra di lui e la luce delle finestre che gli si riversava sul volto. «Io non ho segreti per la congregazione.» «Non è un argomento di dibattito pubblico», replicò MacAfee. «È un'indagine criminale.» «Pensa che non lo capisca?» Jeremiah lo fissò con uno sguardo che parve
trafiggere l'aria. «I nostri seguaci sono stati assassinati in quella valle. Giustiziati come pecore e i loro corpi sono stati abbandonati perché venissero fatti a pezzi e divorati dagli animali selvatici!» «È questo che ha sentito?» «Non è la verità? Quelle quarantun brave persone, tra cui donne e bambini, sono state condannate al martirio per ciò in cui credevano. E adesso voi venite qui, invitati a entrare dal nostro cancello. Voi con le vostre armi e il vostro disprezzo per quanti non credono in ciò che fate.» MacAfee si agitò a disagio. Nel caldo della sala alcune gocce di sudore gli brillarono sulla fronte. «Glielo chiederò un'altra volta, signor Goode. O è disposto a venire con noi o saremo costretti ad arrestarla.» «Io sono disposto! Non ho appena detto che avrei risposto alle vostre domande? Ma fatele ora, quando queste brave persone possono sentire. O avete paura che il mondo intero sappia la verità?» Osservò i seguaci. «Amici miei, voi siete la mia protezione. Vi chiedo di fare da testimoni.» Un uomo della congregazione si alzò e gridò: «Di che cosa ha paura la polizia? Fate le vostre domande in modo che possiamo sentirle anche noi!» La folla si unì a lui. «Sì, fatele ora!» «Fategliele qui!» Le panche scricchiolarono mentre la folla si agitava e altri uomini si alzavano. Gli agenti di polizia lanciarono occhiate nervose nella stanza. «Allora si rifiuta di collaborare?» disse MacAfee. «Io sto collaborando. Ma se siete qui per chiedermi di Verrà il Regno non posso aiutarvi.» «E questa per lei è collaborazione?» «Non ho risposte per voi. Perché non ho assistito a ciò che è accaduto.» «Quando è stato l'ultima volta a Verrà il Regno?» «Era ottobre. Quando li ho lasciati, erano una comunità prospera. Ben approvvigionata per l'inverno. Stavano già scavando per costruire le fondamenta di altre sei case. Quella è stata l'ultima volta in cui ho posato lo sguardo sulla valle.» Guardò la congregazione in cerca di sostegno. «Dico il vero? C'è qualcuno qui che può contraddirmi?» Decine di voci presero le sue difese. «Il profeta non mente!» Jeremiah guardò MacAfee. «Credo abbia la sua risposta, tenente.» «Niente affatto», ribatté secco questi. «Vedete, amici miei, come profanano la casa di Dio con il loro esercito e le loro armi?» disse Jeremiah osservando i seguaci. Scosse la testa in segno di commiserazione. «Questa esibizione di forza è una tattica degli uomini
piccoli.» Sorrise a MacAfee. «Per lei ha funzionato, tenente? Adesso si sente più grande.» La provocazione fu più di quello che MacAfee poteva sopportare. Raddrizzò la schiena di fronte alla sfida. «Jeremiah Goode, lei è in arresto. E tutti questi bambini vengono sottoposti da ora a custodia protettiva. Saranno accompagnati fuori dalla proprietà dove li attendono dei pullman.» Dalle donne si levò un grido di sorpresa, seguito da un coro di gemiti e singhiozzi. L'intera congregazione si alzò per protesta. Nel giro di pochi secondi MacAfee aveva perso il controllo della sala e Jane vide le mani degli agenti abbassarsi verso le armi. D'istinto cercò la sua mentre la furia cresceva, mentre la violenza sembrava pronta a scoccare alla prima scintilla. «Amici miei! Amici miei!» gridò Jeremiah. «Vi prego, fate che ci sia pace.» Alzò le braccia e la sala ammutolì. «Il mondo conoscerà abbastanza presto la verità», aggiunse. «Vedranno che ci siamo comportati con dignità e compassione. Che di fronte al volto brutale dell'autorità abbiamo risposto con garbo e umiltà.» Emise un sospiro profondo e afflitto. «Amici miei, non abbiamo altra scelta se non di obbedire. E io non ho scelta se non sottomettermi alla loro volontà. Vi chiedo solo di ricordare ciò di cui oggi siete stati testimoni. L'ingiustizia, la crudeltà nei confronti delle famiglie separate con la forza.» Alzò lo sguardo come se parlasse direttamente al cielo. Solo allora Jane notò un membro della congregazione in galleria che filmava l'intero discorso. E' stato tutto ripreso. Il martirio registrato di Jeremiah Goode. Quando il filmato fosse stato distribuito ai media, tutto il mondo avrebbe saputo dell'oltraggio commesso contro una comunità pacifica. «Ricordate, amici!» ordinò Jeremiah. «Ricorderemo!» rispose all'unisono la congregazione. L'uomo scese i gradini del palco e si avviò con calma verso gli agenti di polizia in attesa. Mentre risaliva il corridoio superando i seguaci sbalorditi, il suono del pianto invase la sala. Eppure l'espressione di Jeremiah non era malinconica; ciò che Jane vide sul suo volto fu trionfo. Aveva pianificato e orchestrato quel confronto, una scena che sarebbe stata mostrata più e più volte dalle televisioni del paese. L'umile profeta che camminava con pacata dignità verso gli aguzzini. Ha vinto questo round, pensò. Forse ha persino vinto la guerra. Come farà una giuria a condannarlo quando è l'unico che appare come una vittima? Jeremiah si fermò davanti a MacAfee e alzò le mani offrendo mite i polsi alle manette. Il simbolismo non poteva essere più sfacciato. MacAfee si prestò e lo scatto del metallo suonò esageratamente forte.
«Ci sterminerete tutti?» chiese Jeremiah. «La pianti», ribatté MacAfee. «Sa molto bene che non ho niente a che fare con quello che è successo a Verrà il Regno.» «Questo lo scopriremo.» «Davvero? Non credo vogliate la verità. Perché avete già scelto il vostro cattivo.» Con la testa ben dritta Jeremiah si incamminò sotto il giogo dei poliziotti. Tuttavia mentre si avvicinava all'uscita, si fermò all'improvviso con lo sguardo fisso su Cathy Weiss. A poco a poco le sue labbra si piegarono in un sorriso di riconoscimento. «Katie Sheldon», disse con voce sommessa. «Sei tornata da noi.» Jane guardò accigliata Cathy, visibilmente impallidita. «Ma mi aveva detto che Katie Sheldon era sua amica», affermò. Lei non sembrò udirla, ma tenne lo sguardo fisso su Jeremiah. «Stavolta è la fine», mormorò Cathy. «La fine?» Lui scosse la testa. «No, Katie, questo ci rende solo più forti. Agli occhi del pubblico sono un martire.» Guardò i suoi capelli scompigliati dal vento, il volto smunto e l'occhiata che le diede era quasi di pietà. «Vedo che il mondo non è stato buono con te. Che peccato che tu ci abbia lasciati.» Sorrise mentre si girava per andarsene. «Ma tutti dobbiamo andare avanti.» «Jeremiah!» Cathy gli si piazzò alle spalle con le braccia tese. Solo allora Jane vide cosa stringeva con entrambe le mani. «Cathy, no!» urlò. In un istante estrasse l'arma. «Buttala. Butta la pistola, Cathy.» Jeremiah si voltò e osservò calmo l'arma, ora puntata contro il suo petto. Se provò paura, non lo diede a vedere. Al di sopra del martellare del suo cuore, Jane udì vari ansiti tra le panche e passi frenetici mentre la congregazione cercava di mettersi al riparo. Non aveva dubbi che un'altra decina di armi della polizia fossero state ormai estratte e puntate. Ma il suo sguardo rimase incollato su Cathy. Sulle mani escoriate, screpolate dal vento che ora stringevano l'arma. Qualsiasi poliziotto in quella stanza avrebbe potuto spararle, ma nessuno lo fece. Rimasero tutti paralizzati di fronte alla prospettiva di uccidere quella giovane donna. Non avevamo immaginato che fosse armata. Perché
avremmo dovuto? «Cathy, la prego», disse pacata Jane. Era la più vicina alla donna. Quasi da poter allungare un braccio e prendere la pistola se solo lei gliel'avesse porta. «Questo non risolve niente.» «Invece si. Mette la parola fine.» «Per questo esistono i tribunali.» «I tribunali?» La risata di Cathy suonò amara. «Non lo toccheranno. Non lo hanno mai fatto.» Strinse la presa e la canna si alzò di più, eppure Jeremiah non trasalì. Il suo sguardo restò tranquillo, quasi divertito. «Vedete, amici miei?» esclamò. «Questo è quello a cui ci troviamo davanti. Rabbia irrazionale e odio.» Scosse triste il capo e guardò Cathy. «Credo sia chiaro a tutti qui che hai bisogno di aiuto, Katie. Per te io provo solo amore. E' tutto quello che ho sempre provato.» Di nuovo si girò per andarsene. «Amore?» sussurrò lei. «Amore?» Jane vide i tendini del suo polso tendersi di scatto. Vide le dita della donna contrarsi, eppure i suoi riflessi si rifiutarono di innescarsi. Le mani le si immobilizzarono sulla pistola. Dalla pistola di Cathy provenne uno scoppio e un proiettile si conficcò nella schiena di Jeremiah. Lui barcollò in avanti e incespicò cadendo in ginocchio. Nella stanza ci fu una cacofonia di spari. Il corpo di Cathy sussultò e si contorse mentre una gragnola di proiettili della polizia le perforavano la carne. Atterrò a faccia in giù accanto al corpo di Jeremiah Goode. «Cessate il fuoco!» gridò MacAfee. Seguirono due spari finali esitanti e poi calò il silenzio. Jane si buttò in ginocchio vicino a Cathy. Dalla congregazione si levò il gemito di una donna, un lamento acuto e inquietante che non sembrò neanche umano. Altri si unirono a esso in un coro di grida che ben presto divenne assordante quando centinaia di voci urlarono di dolore per il profeta caduto. Nessuno piangeva Cathy Weiss. Nessuno urlò il suo nome. Solo Jane, inginocchiata sul pavimento insanguinato, era abbastanza vicina da poterla fissare negli occhi. Solo Jane vide la luce di quegli occhi svanire mentre la sua anima volava via. «Assassina!» urlò qualcuno. «E' una traditrice come Giuda!» Jane guardò il corpo di Jeremiah Goode. Sorrideva, anche nella morte.
37 «Il suo vero nome era Katie Sheldon», disse Jane mentre lei e Maura tornavano a Jackson. «A tredici anni è diventata una delle cosiddette spose spirituali di Jeremiah e si aspettavano che si sottomettesse del tutto ai suoi desideri. Gli è appartenuta per sei anni. Ma in qualche modo è riuscita a trovare il coraggio di fuggire. Ed è scappata dalla Raccolta.» «E' stato allora che ha cambiato nome?» domandò Maura. Jane annuì, ma tenne gli occhi sulla strada. «È diventata Catherine Sheldon Weiss. E' ha fatto della distruzione di Jeremiah lo scopo della sua vita. Il problema è che nessuno l'ascoltava. Era solo una voce nel deserto.» Maura guardò quella che era ormai una strada familiare, che percorreva ogni giorno per andare a trovare Rat in ospedale. Sarebbe stata l'ultima visita. Il giorno seguente sarebbe tornata a casa a Boston e paventava l'addio. Lo paventava perché non sapeva ancora che genere di futuro potesse offrirgli, quali promesse potesse realisticamente mantenere. La piccola Katie Sheldon era stata profondamente minata dalla Raccolta; Rat ne era stato devastato in modo simile? Maura voleva davvero portarsi a casa una creatura tanto provata? «Almeno questo risponde ad alcune domande», osservò Jane. Maura la guardò. «Quali domande?» «Il duplice omicidio al Circle B Guest Ranch. La coppia uccisa nello chalet. Non c'erano segni di scasso. Il killer è entrato e ha sfondato la testa del marito sfigurandolo completamente.» «Un'uccisione dettata dalla rabbia.» Jane assentì. «Hanno trovato l'arma del delitto nel garage di Cathy. Un martello.» «Perciò non ci sono dubbi che sia stata lei.» «Spiega anche un'altra cosa di quella scena del crimine che mi aveva lasciata perplessa», aggiunse Jane. «C'era una bambina, lasciata viva nella culla. Non solo era illesa, ma con lei nella culla c'erano quattro biberon vuoti. L'assassino voleva che la piccola sopravvivesse. Ha persino tolto il cartello non disturbare per essere certa che la direttrice entrasse e trovasse i corpi.» Lanciò un'occhiata a Maura. «Sembra una persona che abbia a cuore i bambini, no?» «Un'assistente sociale.» «Cathy teneva strettamente d'occhio la Raccolta. Sapeva quando qualcuno
di loro arrivava in città. Forse ha ucciso quella coppia in preda alla furia. O forse stava solo cercando di salvare una bambina.» Jane fece un cupo cenno di approvazione. «Alla fine ne ha salvate molte. I bambini sono tutti sottoposti a custodia protettiva. E le donne cominciano ad abbandonare Plain of Angels. Come aveva previsto Cathy, senza Jeremiah la setta sta collassando.» «Ma ha dovuto ucciderlo perché accadesse.» «Non intendo giudicarla. Pensa a quante vite ha distrutto quell'uomo. Compresa quella del ragazzo.» «Adesso Rat non ha nessuno», disse Maura con voce sommessa. Jane la guardò. «Ti rendi conto che si porta dietro un terribile bagaglio di problemi?» «Lo so.» «Precedenti penali in età minorile. E' stato affidato a varie famiglie adottive. E adesso la madre e la sorella sono morte.» «Perché hai tirato fuori questa faccenda, Jane?» «Perché so che stai pensando di adottarlo.» «Voglio fare la cosa giusta.» «Vivi da sola. Hai un lavoro impegnativo.» «Mi ha salvato la vita. Si merita molto di più di ciò che ha avuto.» «E sei pronta a essere sua madre? Pronta a farti carico di tutti i suoi problemi?» «Non lo so!» Maura sospirò e guardò i tetti coperti di neve. «Voglio solo fare una differenza nella sua vita.» «E Daniel? Come si inserisce il ragazzo nella vostra relazione?» Maura non replicò perché lei stessa non conosceva la risposta. E Daniel? Adesso che succede? Mentre entravano nel parcheggio dell'ospedale, squillò il cellulare di Jane. Guardò il numero e rispose: «Ehi, tesoro. Che c'è?» Tesoro. Il vezzeggiativo le sfuggì dalle labbra con tanta disinvoltura, con tanta naturalezza. Così si parlavano due persone che dividevano il letto e la vita, al di là di chi le ascoltasse. Non avevano bisogno di bisbigliare, di rintanarsi nell'ombra. Così si manifestava l'amore quando usciva dalle tenebre e si dichiarava al mondo. «Il laboratorio è assolutamente certo del risultato?» domandò Jane. «Maura è convinta del contrario.» Maura la guardò. «Quale risultato?» «Sì, glielo dirò. Forse sarà in grado di spiegarlo. Ci vediamo a cena.» Riagganciò e guardò Maura. «Gabriel ha appena parlato con il laboratorio tossicologico di Denver. Hanno effettuato un esame dei contenuti gastrici della ragazza.» «Hanno trovato organofosfati?» domandò Maura. «No.» Lei scosse la testa sbalordita. «Ma era un caso classico di
avvelenamento da organofosfati! C'erano tutti i segni clinici.» «Non aveva prodotti della loro degradazione nello stomaco. Se ha inghiottito quel pesticida, dovrebbe rimanere qualche traccia, giusto?» «Sì, ci sarebbe dovuta essere.» «Be', non ce n'erano», affermò Jane. «Non è stato questo a ucciderla.» Maura tacque, incapace di spiegare i risultati. «Si può anche assorbire una dose letale attraverso la cute.» «Quarantun persone sarebbero state spruzzate con quella roba? Ti sembra probabile?» «L'analisi gastrica può non essere esatta», osservò Maura. «Il laboratorio dell'FBI effettuerà un'ulteriore analisi. Ma in questo momento sembra che la tua diagnosi sia sbagliata.» Un camion di forniture mediche entrò rombando nel parcheggio e si fermò accanto alla loro macchina. Maura si sforzò di concentrarsi mentre il portello posteriore dell'autocarro si apriva sferragliando e due uomini iniziavano a scaricare bombole d'ossigeno. «Gruber aveva le pupille a capocchia di spillo», disse. «E ha certamente reagito alla dose di atropina.» Si mise a sedere più dritta, più convinta che mai. «La mia diagnosi deve essere corretta.» Un forte rumore metallico la indusse a guardare seccata i due addetti alle consegne. Si concentrò sulle bombole d'ossigeno, allineate sul carrello come missili verdi e all'improvviso un ricordo la folgorò. Una cosa che aveva visto nella valle di Verrà il Regno, una cosa a cui allora non aveva fatto caso. Come quelle bombole d'ossigeno era un cilindro, ma grigio e incrostato di neve. Pensò al codice blu in sala autopsie ricordando le pupille a capocchia di spillo di Fred Gruber e la sua risposta all'atropina. La mia diagnosi era quasi corretta. Quasi. Jane spalancò la portiera e uscì, ma Maura non si mosse dal sedile. «Ehi», esclamò Jane guardandola. «Non andiamo a trovare il ragazzo?» «Dobbiamo andare a Verrà il Regno», affermò Maura. «Cosa?» «Ci resta ancora qualche ora di luce. Se partiamo ora, possiamo arrivarci quando è ancora chiaro. Ma prima dobbiamo fermarci in un negozio di ferramenta.» «In un negozio di ferramenta? Perché?» «Voglio comprare una pala.» «Hanno recuperato tutti i corpi. Non c'è nient'altro da ritrovare.» «Forse sì.» Maura le fece cenno di entrare in macchina.
«Forza, andiamo! Dobbiamo partire ora!» Con un sospiro Jane si rimise al volante. «Questo ci farà fare tardi a cena. E non ho ancora iniziato a preparare le valigie.» «È l'ultima occasione che abbiamo di vedere la valle. L'ultima per capire cosa abbia ucciso quelle persone.» «Credevo avessi compreso tutto.» Maura scosse la testa. «Mi sbagliavo.» Risalirono la strada di montagna, la stessa che Maura aveva percorso quel giorno sventurato con Douglas e Grace, Elaine e Ario. Sentiva ancora le loro voci discutere nel Suburban, vedeva il broncio di Grace e l'incrollabile buonumore di Douglas, che insisteva che tutto si sarebbe risolto bene se solo si fossero fidati dell'universo. Fantasmi, pensò, e aleggiano ancora in questa strada. Aleggiano ancora nella mia mente. Non nevicava e la strada era sgombra, ma Maura se la immaginava come l'aveva vista quel giorno, offuscata da una coltre accecante di bianco. Lì a quella curva avevano parlato per la prima volta di invertire la marcia. Come sarebbero andate diversamente le cose se fossero scesi dalla montagna, se avessero scelto di tornare a Jackson. Avrebbero potuto pranzare in un bel ristorante, salutarsi e tornare alla propria vita. Forse in un universo parallelo quella era la scelta che avevano fatto e in quell'universo Douglas e Grace, Ario ed Elaine erano ancora vivi. Il cartello strada privata si stagliò davanti a loro. Stavolta non c'erano cumuli di neve, catene né cancelli a sbarrare la strada. Jane imboccò la strada e Maura si ricordò di aver arrancato accanto a quegli stessi pini con Douglas in testa e Ario che trascinava il trolley di Elaine. Si ricordò della neve, del vento e dell'oscurità che si faceva più fitta attorno a loro. I fantasmi erano anche lì. Superarono il cartello di Verrà il Regno e mentre fissavano in basso la strada che conduceva nella valle, Maura scorse le fondamenta carbonizzate e la fossa comune riportata alla luce. Il campo era disseminato di pezzi residui di nastro della polizia, vivaci pennellate di colore che fluttuavano sulla neve. Le gomme di Jane scricchiolarono sul ghiaccio quando raggiunsero le prime fondamenta delle case bruciate. «Hanno trovato i corpi sepolti tutti insieme laggiù», disse indicando la fossa aperta nella neve. «Se c'è ancora qualcosa da scoprire da queste parti, non emergerà fino a primavera.» Maura spalancò la portiera e uscì. «Dove vai?» domandò Jane. «A fare due passi.» Maura prese dal bagagliaio la pala che aveva appena
comprato nel negozio di ferramenta. «Te l'ho detto, hanno già perlustrato questo campo.» «Ma hanno cercato nel bosco?» Maura si diresse con la pala lungo la fila di case devastate mentre il ghiaccio scricchiolava sotto i suoi scarponi. Dappertutto vide le tracce del lavoro delle forze dell'ordine che avevano setacciato il posto, dalla neve pestata ai molteplici segni di pneumatici, ai mozziconi di sigarette e ai pezzi di carta svolazzanti sulla neve. Il sole stava calando portando via con sé l'ultima luce. Ora camminava più veloce e si lasciò alle spalle il villaggio bruciato inoltrandosi tra gli alberi. «Aspetta!» gridò Jane. Non si ricordava con precisione il punto in cui lei e Rat erano entrati nel bosco. Le impronte delle racchette da neve erano scomparse con le nevicate successive. Continuò a muoversi più o meno nella direzione in cui erano fuggiti dagli uomini e dal segugio. Non aveva portato le racchette e ogni passo era una dura fatica nella neve alta fino al ginocchio. Sentì Jane lamentarsi a gran voce alle sue spalle ma continuò ad avanzare trascinando la pala con il cuore che le batteva forte per lo sforzo. Si era addentrata troppo nel bosco? Aveva mancato il punto? Poi gli alberi si aprirono e la radura le si parò di fronte con la neve accumulata sui mucchi di scarti edili. La scavatrice era sempre parcheggiata in fondo allo spiazzo e Maura vide le strutture scheletriche dei nuovi edifici che attendevano ancora di essere ultimati. Quello era il posto dove era caduta, inciampando nella neve alta. Dov'era rimasta stesa a terra impotente mentre il segugio si avvicinava. Rivide tutto quanto e al ricordo il sangue prese a pulsarle forte nelle vene. Il cane che balzava verso di lei. Lo strillo di sorpresa quando Bear lo aveva intercettato a mezz'aria. Tutte le tracce della lotta dei cani erano scomparse sotto la neve fresca, farinosa, ma riuscì ugualmente a distinguere l'avvallamento dove era caduta, vedeva il profilo ondulato degli scarti edili nascosti dal manto bianco. Infilò la pala in uno dei mucchi e gettò da parte un po' di neve. Jane infine la raggiunse e arrancò ansimando nella radura. «Perché scavi in questo posto?» «Prima qui ho visto qualcosa. Potrebbe non essere niente. Potrebbe essere tutto.» «Be', questo certamente risponde alla mia domanda.» Maura gettò da parte un'altra palata di neve. «L'ho visto solo di sfuggita, ma se è quello che credo sia...» La pala cozzò all'improvviso contro qualcosa di solido. Contro qualcosa che emise un rumore metallico attutito. «Potrebbe essere questo.» Si gettò in ginocchio e cominciò a rimuovere la neve con le mani protette
dai guanti. A poco a poco l'oggetto emerse, liscio e curvo. Non riuscì a liberarlo perché il ghiaccio lo aveva bloccato contro il mucchio di scarti sottostanti. Continuò a togliere la neve, ma metà dell'oggetto restò sepolta, nascosta alla vista, racchiusa nel ghiaccio. Quella che aveva liberato era un'estremità di un cilindro metallico grigio. Aveva due strisce dipinte tutt'intorno, una verde e una gialla. Stampigliato su quel cilindro c'era il codice D568. «Cos'è quella cosa?» domandò Jane. Maura non rispose. Continuò a rimuovere la neve e il ghiaccio liberando una parte sempre maggiore del cilindro. Jane si inginocchiò per aiutarla. Apparvero nuovi numeri, stampigliati in verde. 2011-42-114 155H M12TAT «Hai idea di cosa significhino questi numeri?» chiese Jane. «Presumo siano numeri seriali di qualche tipo.» «Di cosa?» Un velo di ghiaccio si staccò all'improvviso e Maura fissò le lettere stampinate che aveva appena scoperto. GAS VX Jane si accigliò. «VX. Non è una specie di gas nervino?» «Proprio così», rispose con voce sommessa Maura e sbalordita si mise a sedere sui talloni. Fissò la scavatrice dall'altra parte della radura. Gli abitanti stavano costruendo nuovi edifici su questo sito, pensò. Avevano abbattuto gli alberi e stavano scavando le fondamenta di altre case. Preparando la valle per nuove famiglie che si sarebbero trasferite a Verrà il Regno. Sapevano che una bomba a orologeria giaceva sepolta sotto questo suolo, il suolo in cui stavano scavando e che stavano smuovendo? «Queste persone non sono state uccise da un pesticida», affermò Maura. «Ma hai detto che il quadro clinico corrispondeva.» «Anche nel caso del gas nervino di tipo VX. Uccide esattamente nello stesso modo degli organofosfati. Il VX distrugge gli stessi enzimi, causa gli stessi sintomi, ma è molto più potente. E' un'arma chimica concepita per essere dispersa nell'aria. Se lo liberi in un'area bassa...» Maura guardò Jane. «Trasformerebbe questa valle in un campo di sterminio.» Il brontolio di un motore di furgone le fece balzare entrambe in piedi. La nostra macchina è parcheggiata allo scoperto, pensò Maura. Chiunque sia appena arrivato, sa già che siamo qui. «Sei armata?» domandò Maura. «Ti prego, dimmi di sì.» «Ho lasciato la pistola nel bagagliaio.» «Devi andare a prenderla.»
«Che diavolo succede?» «Questo è il nocciolo di tutto!» Maura indicò il fusto di gas VX. «Non i pesticidi. Non un suicidio di massa. E' stato un incidente. Queste sono armi chimiche, Jane. Avrebbero dovuto distruggerle decenni fa. Probabilmente sono sepolte qui da anni.» «Allora la Raccolta... Jeremiah...» «Non aveva niente a che fare con il motivo per cui è morta questa gente.» Jane si guardò attorno nella radura, sempre più in ansia. «Il Gruppo Dahlia, la società di copertura che ha pagato Martineau, ha qualcosa a che vedere con loro, vero?» Udirono lo schiocco di un ramo che si spezzava. «Nasconditi!» sussurrò Maura. Si infilarono entrambe nel bosco proprio mentre Montgomery Loftus entrava nella radura. Aveva un fucile, ma era puntato a terra e avanzava con l'andatura indifferente di un cacciatore che ha già individuato la preda. Le loro impronte erano dappertutto nella radura e non poteva non aver notato le prove della loro presenza. Tutto ciò che doveva fare era seguire le impronte fin là dove si erano accucciate tra i pini. Eppure ignorò l'ovvio e si avvicinò con calma al buco che Maura aveva appena scavato. Guardò il fusto liberato dalla neve e dal ghiaccio. La pala che Maura aveva lasciato lì. «Se si seppellisce qualcosa per trent'anni, alla fine si corrode», disse. «Il metallo diventa fragile. Lo urti accidentalmente con un bulldozer o lo schiacci contro un sasso e si spacca.» Alzò la voce, come se gli alberi stessi fossero il suo pubblico. «Cosa pensate accadrebbe se lo colpissi ora con un proiettile?» Soltanto allora Maura si rese conto che il fucile era puntato contro il fusto. Rimase paralizzata, spaventata all'idea di emettere un solo verso. Con la coda dell'occhio notò che Jane si stava a poco a poco addentrando di più nel bosco, ma lei sembrava incapace di muoversi. «Il gas VX non impiega molto a ucciderti», proseguì Loftus. «Questo mi ha detto quel tipo trent'anni fa, quando mi hanno pagato per scaricarlo qui. In una giornata fredda come questa potrebbe impiegare un po' di più a disperdersi. Ma in una giornata calda si diffonde subito. Portato dal vento, filtra attraverso le finestre aperte. Nelle case.» Alzò il fucile e lo puntò contro il fusto. Maura ebbe un tuffo al cuore. Uno sparo avrebbe sparso una nube di gas tossico che non potevano sperare di evitare correndo. Così come gli abitanti di Verrà il Regno non erano stati
in grado di evitarla in quella giornata insolitamente calda di novembre, quando avevano aperto le loro finestre e i loro polmoni. La morte era penetrata nelle case e aveva reclamato svelta le sue vittime: i bambini che giocavano, le famiglie radunate a tavola. La donna sulla scala, la cui caduta mortale l'aveva lasciata sanguinante ai suoi piedi. «Non lo faccia!» esclamò Maura. «La prego.» Uscì da dietro l'albero. Non vedeva dove fosse Jane; sapeva solo che Loftus era già al corrente della sua presenza e che non poteva nemmeno sognarsi di sfuggire al proiettile. Ma il fucile non era puntato contro di lei; restò puntato contro il fusto. «E' un suicidio», disse. Lui le rivolse un sorriso ironico. «Questa è l'idea generale, signora. Dato che non vedo modi per uscirne bene. Non adesso. Meglio questo che la prigione.» Guardò verso il villaggio distrutto di Verrà il Regno. «Quando riceveranno l'analisi definitiva su quei corpi, sapranno cosa li ha uccisi. Saranno dappertutto in questa valle in cerca di quello che sarebbe dovuto restare sepolto. Non impiegheranno molto a venire a bussare alla mia porta.» Emise un sospiro greve. «Trentanni fa non avrei mai immaginato...» Il fucile si abbassò di più verso il fusto. «Può sistemare le cose, signor Loftus», ribatté Maura sforzandosi di mantenere un tono di voce calmo. Ragionevole. «Può raccontare la verità alle autorità.» «La verità?» Grugnì pieno di disprezzo per sé. «La verità è che avevo bisogno di quei maledetti soldi. Il ranch ne aveva bisogno. E quel tipo aveva bisogno di un modo economico per sbarazzarsi di questo.» «Trasformando la valle in una discarica tossica?» «Siamo noi ad aver pagato per costruire queste armi. Io, lei e ogni altro contribuente americano. Ma cosa fa delle armi chimiche quando non le può più utilizzare?» «Avrebbero dovuto incenerirle.» «Pensa che i fornitori del governo costruiscano davvero i costosi inceneritori che promettono? Era più economico portar via questa roba e seppellirla.» Il suo sguardo percorse velocemente la radura. «All'epoca qui non c'era niente, solo una valle deserta e una strada sterrata. Non avrei mai pensato che un giorno delle famiglie avrebbero vissuto qui. Non avevano idea di cosa ci fosse nella loro terra. Un solo fusto non sarebbe
bastato a ucciderli tutti.» Guardò di nuovo il contenitore. «Quando li ho trovati, tutto ciò a cui ho pensato è stato come far sparire i corpi.» «Perciò li ha seppelliti.» «Quel tipo ha mandato i suoi uomini allo scopo. Ma è arrivata la bufera di neve.» E' stato allora che siamo spuntati noi. Gli sfortunati turisti che si sono imbattuti in un paese fantasma. La stessa bufera accecante aveva bloccato Maura e il suo gruppo a Verrà il Regno dove avevano visto troppo, appreso troppo. Avremmo rivelato tutto. Di nuovo Lofus alzò il fucile e mirò al fusto. Terrorizzata, Maura fece un passo verso di lui. «Potrebbe chiedere l'immunità», esclamò. «Non c'è immunità per chi uccide persone innocenti.» «Se testimoniasse contro quel tipo...» «Sono loro quelli con i soldi. Con gli avvocati.» «Può fare i nomi.» «L'ho già fatto. C'è una busta nel mio furgone. Contiene numeri, date, nomi. Ogni particolare che ricordo. Spero sia sufficiente a sbatterli dentro.» Strinse il calcio del fucile e a Maura si bloccò il respiro in gola. Dove sei, Jane? Un fruscio di rami la mise in allerta. Anche Loftus lo udì. In quell'istante qualsiasi incertezza avesse nutrito svanì all'improvviso. Guardò in basso verso il fusto. «Questo non risolve niente, Loftus», affermò Maura. «Risolve tutto», replicò lui. Jane emerse dal bosco, l'arma stretta con entrambe le mani e la canna puntata contro Loftus. «Butti il fucile», ordinò. Lui la guardò con aria stranamente impassibile. Aveva la faccia di un uomo che aveva smesso di preoccuparsi di quanto sarebbe accaduto dopo. «Faccia la sua mossa, detective», disse. «Diventi un'eroina.» Jane fece un passo verso di lui tenendo l'arma salda come una roccia. «Non deve finire in questo modo.» «È solo un proiettile», osservò Loftus. Si girò verso il fusto. Alzò il fucile per sparare. L'esplosione produsse uno schizzo di sangue sul terreno bianco. Per un secondo Loftus sembrò restare sospeso, come un tuffatore pronto a gettarsi nell'oceano. Il fucile gli cadde di mano. A poco a poco crollò in
avanti e atterrò scomposto con la faccia all'ingiù nella neve. Jane abbassò l'arma. «Gesù», mormorò. «Mi ci ha costretto!» Maura si gettò a terra accanto a Loftus e lo girò sulla schiena. Il suo sguardo era ancora vigile e la fissò come per memorizzare la sua faccia. Fu l'ultima immagine che vide prima che la luce abbandonasse i suoi occhi. «Non ho avuto scelta», esclamò Jane. «No. Non l'hai avuta. E lui lo sapeva.» Maura si alzò lentamente e si girò verso l'insediamento scomparso di Verrà il Regno. E pensò: neanche loro l'hanno avuta, quelle quarantun persone che sono morte qui. Né l'hanno avuta Douglas e Grace, Elaine e Ario. La maggior parte di noi procede nella vita senza mai sapere come o quando morirà. Ma Montgomery Loftus aveva fatto la sua scelta. Aveva scelto quel giorno, il proiettile di un poliziotto, in quel luogo avvelenato. Espirò a poco a poco e la nube bianca del suo alito si avvolse a spirale nel crepuscolo come un'altra di quelle anime che vagavano libere nella valle dei fantasmi.
Epilogo Daniel era sulla pista, pronto ad accoglierli, quando il jet privato di Sansone rullò fino al terminal per i voli privati. Gli stessi venti forti che avevano ritardato il loro volo per il Massachusetts sferzavano ora il cappotto nero di Daniel e gli scompigliavano i capelli, eppure lui resistette stoico alla piena forza del vento mentre il jet si fermava e veniva abbassata la scaletta. Maura fu la prima a uscire dall'aereo. Scese i gradini e finì dritta tra le sue braccia che l'aspettavano. Poche settimane prima soltanto si sarebbero salutati con un bacetto discreto sulla guancia e un casto abbraccio. Avrebbero atteso di essere dietro una porta chiusa, con le tende tirate prima di abbracciarsi. Ma oggi lei rientrava a casa, tornava dai morti e lui la strinse a sé senza esitare. Eppure proprio mentre Daniel l'abbracciava mormorando felice il suo nome, tempestandole di baci il volto e i capelli, Maura percepiva gli sguardi degli amici che li osservavano. Percepiva anche il suo disagio per il fatto che ciò che aveva tentato così a lungo di nascondere adesso era venuto allo scoperto. Non fu il vento tagliente, bensì la consapevolezza di essere osservata che la indusse a scostarsi fin troppo in fretta da Daniel. Lanciò un'occhiata al volto cupo e indecifrabile di Sansone e vide Jane girarsi imbarazzata per evitare di incrociare il suo sguardo. Sarò anche tornata dai morti, pensò, ma è davvero cambiato qualcosa? Sono sempre la stessa donna e Daniel lo stesso uomo. Fu lui ad accompagnarla a casa. Nel buio della sua camera da letto si spogliarono a vicenda come avevano fatto tante volte in passato. Lui le baciò i lividi, i graffi che stavano guarendo. Accarezzò tutte le cavità, tutti i punti in cui adesso le sue ossa erano fin troppo sporgenti. Mio povero tesoro, hai perso così tanto peso, le disse. Quanto gli era mancata. Quanto aveva sofferto per lei. Non era ancora mattina quando Maura si svegliò. Restò seduta a letto e lo guardò dormire mentre la coltre della notte si sollevava oltre la finestra e si impose di memorizzare il suo volto, il suono del suo respiro, il suo tocco e il suo odore. Ogni qualvolta trascorreva la notte con lei, l'alba recava sempre tristezza perché significava che se ne sarebbe andato. Quel mattino l'avvertì di nuovo e l'associazione fu così potente che si chiese se un giorno sarebbe stata capace di guardare il sorgere del sole senza provare una fitta di disperazione.
Sei sia il mio amore sia la mia infelicità, pensò. E io sono la tua. Si alzò dal letto, andò in cucina e preparò il caffè. Rimase alla finestra a sorseggiarlo mentre la luce del giorno s'intensificava rivelando un prato ornato di brina. Pensò a quelle mattine fredde, silenziose a Verrà il Regno dove aveva infine affrontato la verità sulla sua vita. Sono intrappolata nella mia valle sommersa dalla neve. Sono io l'unica che può salvarmi. Finì il caffè e tornò in camera. Si sedette accanto a Daniel, lo guardò aprire gli occhi e sorriderle. «Ti amo, Daniel», disse. «Ti amerò sempre. Ma è venuto il momento di dirci addio.» Quattro mesi dopo Julian Perkins si allontanò dalla fila della mensa con il vassoio del pranzo e scrutò la stanza in cerca di un tavolo vuoto, ma erano tutti occupati. Vide gli altri studenti osservarlo e notò con che rapidità guardassero altrove, spaventati all'idea che scambiasse i loro sguardi per inviti. Capiva il significato di quelle spalle ostinatamente curve. Non era sordo alle risatine, ai mormorii. Dio se è strano. La setta deve avergli fritto il cervello. Mia mamma dice che dovrebbe essere in riformatorio. Julian individuò infine una sedia libera e si sedette mentre gli altri ragazzi del tavolo si scostavano svelti, quasi fosse radioattivo. Forse lo era. Forse emetteva raggi letali che uccidevano chiunque amasse, chiunque lo amasse. Mangiò in fretta come sempre, come un animale selvatico timoroso che gli portassero via il cibo, buttò giù riso e tacchino con poche ingorde boccate. «Julian Perkins», esclamò un docente. «Julian Perkins è in mensa?» Il ragazzo si fece piccolo per la paura quando sentì tutti che si giravano a guardarlo. Avrebbe voluto nascondersi sotto il tavolo dove non lo avrebbero trovato. Quando un insegnante grida il tuo nome in mensa, è sicuro come il fuoco che non è una bella cosa. Gli altri studenti lo indicarono tutti contenti e già il signor Hazeldean gli si stava avvicinando con il solito farfallino e il solito cipiglio. «Perkins.» Julian abbassò la testa. Si, signore», bofonchiò. «Il preside ti vuole nel suo ufficio.» «Cosa ho fatto?»
«Probabilmente sai tu la risposta.» «No, signore, non la so.» «Allora perché non vai a scoprirla?» Abbandonando con rammarico il budino al cioccolato intatto, Julian portò il vassoio al passavivande per i piatti sporchi e si incamminò nel corridoio verso l'ufficio del preside Gorchinski. Non sapeva davvero cosa avesse fatto di male. Tutte le altre volte, be', sì. Non avrebbe dovuto portare il coltello da caccia a scuola. Non avrebbe dovuto prendere a prestito l'auto della signora Pribble senza permesso. Ma stavolta non gli veniva in mente alcuna trasgressione che potesse spiegare quella convocazione. Quando raggiunse l'ufficio di Gorchinski, aveva pronte le scuse «per tutti gli usi». So che è stato stupido, signore. Non lo rifarò più, signore. La prego non chiami ancora la polizia, signore. La segretaria del preside non alzò quasi lo sguardo quando entrò. «Puoi andare dritto nel suo ufficio, Julian. Ti stanno aspettando.» Stanno. Plurale. Era sempre peggio. Come al solito, la segretaria impassibile non lasciò trapelare nulla, continuò semplicemente a battere sulla tastiera. Julian si fermò davanti alla porta di Gorchinski e si preparò per qualsiasi punizione lo attendesse. Probabilmente me la merito, pensò, ed entrò nella stanza. «Eccoti, Julian. Hai visite», esclamò Gorchinski. Sorrideva. Era una cosa nuova, diversa. Il ragazzo guardò le tre persone sedute di fronte al preside. Conosceva già Beverly Cupido, la sua nuova assistente sociale, e anche lei sorrideva. Che succedeva quel giorno con tutte quelle facce cordiali? La cosa lo innervosì perché sapeva che troppo spesso i colpi più crudeli arrivavano con il sorriso. «Julian», disse Beverly, «quest'anno per te è stato davvero duro. Hai perso tua madre e tua sorella. Hai vissuto il dramma della morte di un poliziotto. E so che sei rimasto deluso per il fatto che la dottoressa Isles non è stata accettata come genitrice adottiva.» «Voleva tenermi con lei», rispose. «Ha detto che avrei potuto vivere con lei a Boston.» «Non era una situazione adatta a te. A nessuno di voi due. Dobbiamo valutare le circostanze e pensare al tuo bene. La dottoressa Isles vive sola e ha un lavoro molto impegnativo, talvolta viene chiamata di notte. Saresti rimasto troppo solo, senza nessun controllo. Non è il genere di sistemazione
di cui un ragazzo come te ha bisogno.» Un ragazzo che dovrebbe trovarsi in riformatorio era ciò che intendeva. «Perciò queste persone sono venute a trovarti», aggiunse Beverly indicando l'uomo e la donna che si erano alzati per salutarlo. «Per offrirti un'alternativa. Rappresentano la Evensong School del Maine. Un'ottima scuola, posso aggiungere.» Julian riconobbe l'uomo come una persona che era venuta a trovarlo quando era ancora in ospedale. Era stato un periodo confuso, in cui viveva annebbiato dagli antidolorifici e nella sua stanza passavano frotte di detective, infermiere e assistenti sociali. Non ricordava il suo nome, ma si ricordava con certezza dei suoi occhi, simili a raggi laser; ora lo fissavano con tale intensità che ebbe la sensazione che tutti i suoi segreti fossero stati d'un tratto messi a nudo. Sconcertato da quello sguardo, Julian osservò la donna. Era sulla trentina, molto magra, con i capelli castani che le arrivavano alle spalle. Anche se era vestita in modo tradizionale con un tailleur grigio, era chiaro che fosse maledettamente sexy. Il modo in cui stava in piedi, con un'anca sottile che sporgeva audace e la testa inclinata con fare malizioso, aveva uno strano non so che di Street punk. «Ciao, Julian», disse la donna. Sorridendo tese la mano per stringere la sua come se incontrasse un suo pari. Un adulto. «Mi chiamo Lily Saul. Insegno cultura classica.» Tacque notando l'espressione perplessa di lui. «Sai a che mi riferisco?» «Mi dispiace, signora. No.» «Alla storia. La storia dell'antica Grecia e dell'antica Roma. Una cosa molto affascinante.» Il ragazzo abbassò la testa. «Io ho D in storia.» «Forse riusciremo a cambiare quel voto. Hai mai guidato una biga, Julian? Maneggiato un gladio, la spada dell'esercito romano?» «Fate questo nella vostra scuola?» «Tutto questo e molto di più.» Lo vide alzare all'improvviso il mento, interessato, e scoppiò a ridere. «Vedi? La storia può essere molto più divertente di quanto non pensi. Quando ti ricordi che riguarda le persone, non solo date e trattati noiosi. Siamo una scuola molto particolare, in un ambiente molto particolare. Ci sono parecchi campi e boschi, perciò se vuoi puoi portare anche il tuo cane. Si chiama Bear, vero?»
«Sì, signora.» «Abbiamo anche una biblioteca che qualsiasi college ci invidierebbe. E insegnanti che sono tra i migliori nel loro campo, di tutto il mondo. E' una scuola per studenti con doti speciali.» Lui non sapeva che dire. Guardò Gorchinski e Beverly. Entrambi stavano annuendo in segno d'approvazione. «Evensong ti sembra una scuola interessante?» chiese Lily. «Un posto che vorresti frequentare?» «Mi scusi, signora», rispose Julian. «E' sicura di parlare con il Perkins giusto? C'è un Billy Perkins in questa scuola.» Negli occhi della donna ci fu un lampo divertito. «Sono assolutamente sicura di avere qui il Perkins giusto. Perché pensi di non essere tu quello che vogliamo?» Julian sospirò. «La verità è che i miei voti non sono tanto buoni.» «Lo so. Abbiamo visto la pagella.» Il ragazzo guardò di nuovo Beverly chiedendosi quale fosse il trucco. Perché un simile privilegio venisse offerto a lui. «E' una grande opportunità», dichiarò l'assistente sociale. «Un college con standard accademici elevati. Una borsa di studio totale. Hanno solo cinquanta studenti, perciò riceveresti molta attenzione.» «Allora perché vogliono me?» La sua domanda lamentosa rimase per un attimo sospesa nell'aria, senza risposta. Fu l'uomo infine a parlare. «Ti ricordi di me, Julian?» domandò. «Ci siamo conosciuti.» «Sì, signore.» Il ragazzo si ritrovò a rifuggire lo sguardo penetrante dell'uomo. «È venuto a trovarmi in ospedale.» «Sono membro del consiglio di amministrazione della Evensong. È una scuola in cui credo molto. Una scuola per studenti unici. Giovani che per qualche ragione si sono dimostrati fuori dal comune.» «Io?» Il ragazzo rise incredulo. «Io sono un ladro. Glielo hanno detto, no?» «Sì, lo so.» «Entravo nelle case. Rubavo cose.» «Lo so.» «Ho ucciso un poliziotto. Gli ho sparato.» «Per salvarti. E' un talento, sai. Il fatto in sé di saper sopravvivere.» Lo sguardo di Julian si spostò sulla finestra. Sotto c'era il cortile della scuola dove i gruppetti di studenti se ne stavano stretti insieme nel freddo a ridere e a spettegolare. Non sarò mai parte del loro mondo, pensò.