Titolo originale: Le sanglot de l'homme blanc
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Titolo originale: Le sanglot de l'homme blanc
Una precedente edizione di questo libro è stata pubblicata dalla casa editrice Longanesi & C. nel 1984.
La traduzione della Nota introduttiva è di Marcella Uberti-Bona
ISBN 978-88-6088-138-0 © Editions du Seuil, 1983 © 2008 Ugo Guanda Editore S.p.A., Viale Solferino 28, Parma www.guanda.it
PASCAL BRUCKNER IL SINGHIOZZO DELL'UOMO BIANCO Traduzione di Simona Martini Vigezzi
U G O GUANDA EDITORE IN PARMA
INDICE
Nota introduttiva Introduzione. Le mani d'Orlac
11
1. La solidarietà o la leggenda nera contro la storia sacra
21
« Sono molto miti e ignoranti di ciò che è il male » (Cristoforo Colombo) «L'America ha la rabbia» (J.-P. Sartre) «Mondo occidentale, sei condannato a morte» (Aragon) Un bovarismo tropicale La passione dell'idea I brividi della cecità volontaria Uomini innamorati dell'amore II mercoledì delle Ceneri
23 28 37 42 46 49 62 67
2. La pietà o lo sfogo del democratico emofiliaco
77
La fame polaroid L'occhio di Caino Il grande livellamento Insignificanza dell'esagerato
79 79 81 83
15
La sindrome di Calcutta Le buone intenzioni L'insostenibile Le intermittenze del cuore Il male invisibile II romanzo delle origini
88 88 91 97 101 103
Dall'uomo accusato all'uomo discolpato « Oggi nel mondo la vostra prosperità fa scalpore come un disastro» L'universo della deduzione infallibile
104 104 109
Dal guerrigliero ai cuccioli di foca Il fardello delle prefiche Indifferenza della pietà Addio, vitelli, mucche, maiali! «L'obliqua genuflessione del devoto frettoloso» I pericoli dell'incontinenza retorica
116 119 121 123 127 133
Dettare l'immagine del Terzo Mondo La standardizzazione attraverso la pietà La vocazione escrementizia del Sud «700 milioni di cinesi, e io e io e io »
134 134 137 139
3. Il mimetismo o gli intossicati dell'Eden
145
II pellegrinaggio alle fonti La redenzione attraverso l'esilio Il contatto impossibile Delizie della clausura I candidati alla rassomiglianza
149 153 155 158 165
Le «impasses» del relativismo culturale L'Eldorado di Gauguin A ciascuno la sua barbarie Ho sorvolato tutte le cime del mondo... mi sono bagnato in tutti i mari... ho varcato tutte le porte... ho potuto raccogliermi in tutti i luoghi più celebrati dove l'uomo ha lasciato la traccia delle sue opere...
174 175 187
4. Odierai il prossimo tuo come te stesso
203
L'ambiguità del masochismo occidentale L'orgoglio del criminale Eternità della macchia La cattiva coscienza pacifica Sua maestà il bambino II grande perverso e la vergine casta Sii candido e taci! Il tradimento dei puri Il Terzo Mondo non esiste più!
207 207 209 211 214 216 221 222 225
195
La fine del messianismo Le mani sporche La questione dei diritti dell'uomo Un universale senza frontiere La dannata somiglianza L'Europa, cioè il pensiero critico Contro il seno materno I pericoli dell'odio di sé
230 230 237 243 244 249 253 256
Conclusione Non c'è che un rimedio all'amore: amare di più...
259
Su questa dissonanza, vogliamo fondare la nostra fede Ci saranno sempre gli altri Le attrazioni passionali Per l'eurocentrismo Una comunicazione autentica Fedele tradimento Per una solidarietà relativa II Nord sulla sedia a sdraio al sole del Sud Ambivalenza dell'esotismo Il viaggiatore in mezzo al guado L'amore dell'altro uomo
261 264 267 269 273 275 279 284 287 291 293
Dove e quando sono stato innocente? SANT'AGOSTINO
NOTA INTRODUTTIVA
Venticinque anni mi separano da questo libro, scritto in uno stato di giubilo febbrile: i suoi temi non mi hanno più lasciato, continuano a lavorarmi dentro come una questione mai sopita. Al piacere di demolire una mitologia, si è aggiunto quello di esplorare universi illimitati. Nato da un'intuizione avuta in India, mentre scoprivo il sottocontinente e opponevo alla realtà intravista laggiù le retoriche imperanti presso di noi, il Singhiozzo dell'uomo bianco (devo questo titolo al mio amico François Samuelson), ebbe una genesi difficile: tutti coloro cui sottoposi il progetto, nel 1981, tentarono di dissuadermi dall'intraprenderlo. Il tale, grande intellettuale parigino, temendo a torto di avere le mani legate a causa del proprio impegno politico, mi scongiurava di non sprofondare in una cultura della denuncia; il talaltro, editore di fama, spaventato da un testo che avrebbe potuto fare scalpore, e complicare i rapporti con i potenti del momento, insisteva affinché rinunciassi e, per scoraggiarmi, evocava i provvidenziali LéviStrauss e Sartre. Ci vollero tutta l'energia e il coraggio di Jean-Claude Guillebaud, presto seguito da Denis Roche e Jean-Marc Roberts, per far accettare l'opera all'editore Seuil. Desidero qui ringraziarli ancora una volta. Un giovane autore non dimentica chi gli ha teso una mano nelle situazioni difficili, soprattutto se ha già avuto modo di rompersi la testa contro il muro dei benpensanti. L'accoglienza riservata al saggio fu burrascosa: entusiasmo degli uni, furore degli altri, sale ostili, urlanti, silenzio imbarazzato degli organi della sinistra ufficiale, pubblicazioni, riviste o giornali che pure, in seguito, avrebbero adottato il mio punto di vista senza mai ammetterlo. Per qualche tempo dovetti indossare l'abito del reprobo, accusato di aver tradito il proprio campo calpestando uno dei suoi più rigidi tabù, quel-
lo del buon selvaggio rivoluzionario, nuovo soggetto della storia dopo il proletario, la donna, il bambino. Tutto ciò sembra oggi sorpassato, dopo che i miei più grandi detrattori si sono tutti convertiti a un antiterzomondismo accanito, per non dire oltranzista, confondendo una specifica ideologia con il ripiegamento nelle fortezze della vecchia Europa. Le polemiche vengono evitate e appartengono al passato. Questo libro non è certo privo di alcune ingenuità giovanili: a parte il fatto che lo svanire del conflitto tra Oriente e Occidente ha cambiato la situazione, a quei tempi avevo sottovalutato il carattere profondamente tragico dell'impegno politico che, anche quando è giusto, comporta in ogni momento una quota di sofferenza e di abominio difficilmente sopportabili. Insomma, avevo troppo attenuato la necessità della rivolta per certi popoli o minoranze oppressi, e tutta l'opera è segnata dalla grande delusione seguita alla conquista delle indipendenze e ai successivi disastri della Cina, del Vietnam, della Cambogia, dell'Etiopia, dell'Angola, dell'Iran. Alla domanda: di chi è la colpa? nel senso metafisico del termine, il terzomondista risponderà spontaneamente: dell'Occidente, e soprattutto dell'America. Smettere di ragionare in questo modo vuole dire riconoscere che tutti i paesi condividono la stessa responsabilità e non possono annullare i propri errori servendosi di un capro espiatorio, per quanto comodo e adattabile, come gli Stati Uniti. Ognuno deve fare un'autocritica, anche a costo di ribadire le ingiustizie e le ineguaglianze reali del sistema internazionale. Il terzomondismo come struttura mentale, cioè la ragione data al nemico nel momento in cui si sottopone se stessi al giudizio, non è certo scomparso, anche perché è parte costitutiva dello spirito europeo sin dal Rinascimento; almeno, però, esso è ormai presente sotto una forma più accademica che politica. Se ne trovano tracce nel multiculturalismo nordamericano, con il suo odio per « l'uomo bianco, maschio, europeo, morto » e in certi eccessi dell'afrocentrismo che si limita a ricalcare fedelmente l'eurocentrismo di un tempo, rovesciandolo. In Francia, nella riverenza tributata ai « giovani delle banlieu », esonerati da qualsiasi debito morale perché rappresentano la figura del-
la vittima per eccellenza, due volte dannati sulla terra, per via della discendenza dai colonizzati e per lo stato di esclusione in cui sono mantenuti. L'idea chiave secondo la quale apparteniamo a una civiltà maledetta, destinata a scomparire, malata e infame a un tempo, continua a essere l'asse centrale di numerose riflessioni e permea ancora di sé ogni tipo di disciplina, comprese la sociologia e l'etnologia. Si vedono così degli onorati dipendenti del ministero dell'Istruzione, ormai in ritiro e doverosamente pensionati, che godono di tutte le garanzie dello Stato di diritto, celebrare a gran voce, per loro conforto, la figura del terrorista e vantarsi delle proprie posizioni radicali. E che dire della marea di pentimenti che invade come un'epidemia le nostre latitudini, se non che essa è la migliore delle cose, ma a patto di ammettere la reciprocità e di estenderla alla totalità della specie umana? Il giorno in cui gli Stati, le religioni, le culture riconosceranno i loro errori senza che ciò diminuisca in alcun modo gli orrori particolari di cui si sono macchiate l'Europa e l'America del Nord, sarà un giorno di grande progresso per l'umanità intera. La contrizione non verrà più riservata ad alcuni, e l'innocenza concessa agli altri. Che alcuni si flagellassero, mentre molti altri continuavano a indossare la candida veste dei perseguitati, fu particolarmente evidente nel corso della conferenza contro il razzismo di Durban, in Sudafrica, nell'autunno del 2001, terminata al grido di « morte ai giudei » e con il totale occultamento della responsabilità degli arabi nella tratta dei neri. L'ingresso nella Storia è necessariamente una cosa sporca, e Israele ne è la prova. Non esistono popoli innocenti o eletti, vi sono solo regimi più o meno democratici, capaci di correggere le loro colpe e di accettare gli sconvolgimenti del passato. Bisogna però ancora riflettere su ciò che nel 1995, in un altro saggio, definii la gara del vittimismo, ossia la corsa al riconoscimento cui partecipano da oltre mezzo secolo i paria del pianeta, brandendo le loro disgrazie per vedersi attribuire il titolo di popolo maggiormente sfavorito. In un momento in cui quello che ieri chiamavamo Sud emerge come attore protagonista, vorrei infine ricordare i due principali approcci adottati nel libro: la discordanza e la mera-
viglia. Le diverse umanità che esistono sul globo si attirano quanto si respingono, e comunicano tra loro sotto le due specie dell'allergia e della fascinazione. Chiunque dimentichi uno dei due termini pecca di spiritualismo esagerato o di disprezzo: violenza degli Stati o delle nazioni, sempre tentati di imporsi gli uni sugli altri con la forza, e attrazione per costumi, lingue, credenze differenti, in un mondo che non smette mai di aggregarsi e diversificarsi. L'incontro con l'altro avviene sempre in un contesto di reticenza e meraviglia, e il peggio è guastare la meraviglia con la paura o la pigrizia, restando prigionieri di se stessi, nel provincialismo della propria identità.
INTRODUZIONE Le mani
d'Orlac
Stephen Orlac è un pianista celebre. Il suo virtuosismo impressiona i melomani, egli è votato alla più vasta fama. Purtroppo, un incidente ferroviario fra Montgeron e Parigi interrompe all'età di trent'anni la sua brillante carriera, e il musicista, gravemente ferito, deve farsi trapiantare delle nuove mani dal chirurgo Cerral. Da allora in poi, tutto cambia: l'ex solista che ha rinunciato al pianoforte assume un atteggiamento inquietante, commette suo malgrado una serie di delitti e arriva al punto di minacciare la propria moglie, l'incantevole Hélène per cui prima nutriva, a detta di tutti, una passione travolgente. Una lunga e dolorosa indagine, intrapresa durante i suoi rari momenti di lucidità, lo porta a scoprire che Cerral gli ha trapiantato le mani di un assassino, finito da poco sotto la ghigliottina, e che esse, obbedendo ancora all'antico proprietario, lo obbligano, contro la sua volontà, a compiere quegli atroci misfatti. Le mani insanguinate sono private del loro malefico potere, e Stephen Orlac, restituito all'arte sua, è dichiarato innocente in extremis. Il candore tradito dalla scienza, il buon genio ingannato dalla malvagità, tutti i temi di questo feuilleton dei primi del secolo,1 un miscuglio di melodramma e di fantastico sociale, oggi trionfano, fatto curioso, nel campo della politica e non del romanzo, e più precisamente nei rapporti fra Nord e Sud. Proprio qui, e in un linguaggio identico, ci vien descritto l'ingenuo Terzo Mondo strappato alla sua natura buona da un Occidente demoniaco e corruttore. A priori, infatti, pesa su tutto l'Occidente una presunzione di delitto. Noi europei siamo stati allevati nell'odio di noi stessi, nella certezza che vi fosse, in seno al nostro mondo, un ma1
MAURICE RENARD,
Le mani d'Orlac, Ed. Pagotto, Milano,
1951.
le congenito che reclamava vendetta senza speranza di remissione. Questo male può riassumersi in due parole: il colonialismo e l'imperialismo, e in poche cifre: le decine di milioni di indiani eliminati dai conquistadores, i 200 milioni di africani deportati o scomparsi nel traffico degli schiavi, infine i milioni di asiatici, di arabi, di africani uccisi durante le guerre coloniali e poi nelle guerre di liberazione. Schiacciati sotto il peso di questi ricordi infamanti, siamo stati indotti a considerare la nostra civiltà come la peggiore, mentre i nostri padri si sono creduti i migliori. Nascere dopo la seconda guerra mondiale, significava acquisire la certezza di appartenere alla feccia dell'umanità, a un ambiente esecrabile che, da secoli, in nome di una pretesa avventura spirituale, opprime la quasi totalità del globo. Un continente che non finiva mai di parlare dell'uomo mentre lo massacrava in tutti gli angoli del pianeta, un continente basato sul saccheggio e sulla negazione della vita, meritava soltanto d'essere a sua volta calpestato. Il mondo intero accusa l'Occidente, e molti occidentali partecipano a questa campagna: la nostra responsabilità viene affermata con indignazione, con disprezzo. Nessun discorso sul Terzo Mondo può concludersi o cominciare senza che riecheggi questo Leitmotiv: l'uomo bianco è malvagio. Che cosa ci rimane, a noi figli e nipoti dei barbari che hanno depredato terra e mare? Fare sempre e dappertutto il nostro atto di contrizione. « Ciascuno di noi è colpevole davanti a tutti, per tutto e dappertutto, e io più degli altri» (Dostoevskij), tale è la nostra più intima convinzione. Il sangue versato ricade su di noi e nulla, ci sembra, può riscattare l'infamia commessa, nessun compenso ristabilire l'equilibrio rotto dall'offesa coloniale. Tutti i nostri titoli di gloria, secoli di sforzi, di calcoli, di perfezionamenti, di imprese, di eroismo, che avevano fatto regnare una certa forma di saggezza umana, sono stati spazzati via, ridotti a zero: sapere che questa fioritura artistica o tecnica era legata a una egual dose d'ignominia, ci ha scoraggiati dall'accettarla o dal riprenderla. Così la svalutazione del messaggio europeo è diventata un codice comune a tutta l'intellighenzia di sinistra dopo la guer-
ra, proprio come l'odio del borghese è stato in Europa, dopo il 1917, un autentico passaporto intellettuale, quando nessun articolo poteva giustificarsi senza un'invocazione rituale al proletariato messianico e un ostentato disgusto per i possidenti. L'indipendenza delle antiche colonie ci lascia tuttavia una possibilità di riscatto: impegnarci a fianco dei popoli in lotta, aiutare sempre e dappertutto il Sud a distruggere il vitello d'oro occidentale. Così la nascita del Terzo Mondo come forza politica ha generato una nuova categoria: il militantismo espiatorio. In che modo l'odio di sé sia divenuto il dogma centrale della nostra cultura, è un enigma di cui la storia d'Europa è feconda. E strano infatti che nel secolo dell'ateismo militante, pensatori agnostici che hanno aguzzato il loro ingegno nella lotta contro le Chiese e le loro dottrine ci abbiano riconciliati d'altra parte con la nozione che è alla base stessa del cristianesimo: il peccato originale. Mentre nei costumi e nel pensiero si verificava un formidabile rivolgimento dei valori - il rifiuto delle immagini di autorità, lo smantellamento degli idoli e dei tabù - , la morte di Dio e del Padre si univa - Sartre ne è l'esempio magistrale - a un rafforzamento della cattiva coscienza, come se una società che aveva eliminato perfino l'idea del peccato preparasse la via regia al senso di una colpevolezza generale. Il quale costituisce il prezzo da pagare per appartenere all'Europa vittoriosa, che per un momento ha trionfato sul resto del mondo. Perché la politica moderna ha cessato senza dubbio d'ispirarsi al cristianesimo, ma le sue passioni sono quelle del cristianesimo. Viviamo in un universo politico impregnato di religiosità, ebbro di martirologia, affascinato dalla sofferenza, e i discorsi più laici sono, quasi sempre, soltanto la ripresa o il balbettamento in tono minore delle omelie ecclesiali. Che una tale brama di « dolorismo », che un tal gusto per la figura dell'oppresso in genere possano coesistere con un anticlericalismo ancora virulento non è, quindi, che un paradosso secondario. La cattiva coscienza imperversa soprattutto quando non è confessata; è ben lungi dall'essere rivendicata esplicitamente da tutti: i marxisti, per esempio, nelle loro varie sette, la rifiutano come un residuo di pietà mal li-
quidato. Questo sentimento si riconosce tuttavia in certe formule magiche che accompagnano e sottendono analisi o statistiche aspramente oggettive. L'a priori di colpevolezza è la stampella che viene a sorreggere i ragionamenti traballanti, il piccolo tocco che consolida una dimostrazione incerta ci permette di approvare di primo acchito ogni proposizione i cui termini ci sfuggono, purché essa si apra e si concluda con un'invettiva sottintesa. Questo sovrappiù di significato, che non ha bisogno di essere proferito per venir compreso, è un valore che impregna il discorso all'insaputa di quelli che lo ascoltano, e fa intendere altro da ciò che viene semplicemente enunciato. V'è un'incertezza nella formulazione, un ragionamento un po' zoppicante? Subito s'invoca l'argomento decisivo, che consente di vincere le reticenze e di ottenere l'adesione: in ogni modo, l'Occidente è colpevole. Ormai è chiaro: la colpevolezza è innanzi tutto una figura retorica, l'inizio d'un conformismo; chi la utilizza è sicuro d'avere l'ultima parola e di conservare in eterno la supremazia sui suoi contraddittori. La colpevolezza è quello che resta quando si è dato fondo a tutto. Ci proponiamo quindi di studiare qui, dal punto di vista della coscienza inquieta, la storia dell'idea di Terzo Mondo in Europa e in America, dall'inizio degli anni '60 (data che coincide in complesso con la conferenza di Bandung - 1955 - e la fine della guerra d'Algeria - 1962). Vent'anni: è il periodo giusto perché si offuschi nella memoria un grande trauma o un grande dolore; e siccome ciascuno deve, a un certo momento, dedicarsi a una rilettura della tradizione che l'ha preceduto, pensiamo che sia venuto il tempo di stabilire un bilancio di quello che è stato chiamato in Francia il terzomondismo. Ora, fatto assai curioso, la volontà di pentimento manifestata dalla minoranza di intellettuali, militanti e insegnanti che formano questa corrente, coabita con l'indifferenza serena, o addirittura ostile, della maggioranza della popolazione nei confronti dei paesi cosiddetti sottosviluppati. Cercheremo di dimostrare che questo paradosso non è tale, e che qui il rovescio della medaglia equivale al dritto.
Scoprire nelle ostentate virtù dei terzomondisti le macchinazioni della malafede, i sofismi dell'amor proprio, gli alibi dell'egoismo, le astuzie dell'ipocrisia, questo è il nostro proposito. Tuttavia esso ha bisogno di una precisazione: qui non ci dedichiamo a un ennesimo lavoro di denuncia; non mostriamo a dito, dall'alto del privilegio retrospettivo che ci conferisce la giovinezza, gli sbandamenti e gli sbagli commessi dai nostri padri... Non siamo qui per regolare i conti - come altrove si è fatto - con le generazioni anteriori, il cui unico torto sarebbe quello di averci preceduti: nutriti degli insegnamenti quanto dei passi falsi di questa generazione, è pur sempre da lei che prendiamo argomenti per confutarla. Disamorarsi di una visione del mondo che è stata magari feconda ma si rivela inoperante, non deve indurre automaticamente a erigere tribunali, a pronunciare sentenze, ad abbandonarsi a prepotenze insultanti. Tutte le citazioni e i testi qui riprodotti sono datati: cioè impegnano i loro autori solo alla data in cui sono stati pubblicati. Nessuno di essi, infine, è riducibile al tema che qui prendiamo in esame. Molti, da allora, si sono evoluti: sarebbe disonesto non precisarlo. Tanto più che se qualcuno studia le perversioni di un senso di colpa impazzito, che si rivolta contro i suoi postulati, significa che l'ha condiviso anche lui fin nei suoi eccessi. Questa critica è prima di tutto un'autocritica. L'interessante, in effetti, è sapere in che modo il gergo o il delirio di un piccolo gruppo siano potuti diventare la verità di una moltitudine. La diffusione e il successo dell'enunciato terzomondista sono rivelatori. Quando un'intera epoca condivide a tal punto le stesse illusioni, non si può più parlare soltanto di accecamento o di turbamento, si tratta di un fatto culturale. Naturalmente, abbiamo dovuto effettuare una cernita nella massa dei testi scritti durante gli ultimi vent'anni su questo argomento: ne abbiamo omessi molti che avrebbero meritato, come altri, un rilievo particolare. Ma il Terzo Mondo ha dato luogo a una letteratura che non è esagerato definire fluviale; per fortuna, queste opere ispirate dalla stessa acrimonia verso l'Europa hanno un'aria di famiglia che le rende simili fra loro. Era fatale, perciò, che si sovrapponessero e si
ripetessero. Certo, alcune instillano la vergogna a passi di minuetto, altre invece danzando una robusta giga sul nostro cranio, colpendolo coi loro scarponi chiodati per ficcarci bene il messaggio. Ma, delicati o brutali, celebri od oscuri, i membri di questa falange trasmettono gli stessi cliché, si raccolgono intorno a un unico credo come i pachidermi, la sera, si raggruppano intorno all'abbeverata. In questo nebuloso acchiappatutto, si ritrovano le stesse idee, sicché chi ne legge una, le ha lette tutte. Lo sguardo che gli occidentali rivolgono al Sud, l'abbiamo diviso in tre rubriche: la solidarietà, modalità dell'essere-insieme; la compassione, modalità dell'essere-al-posto-di; e il mimetismo, categoria dell'essere-come. Ci è parso che questo trittico, meglio d'ogni altro, potesse abbracciare anche gli atteggiamenti atipici o aberranti, senza nasconderci, certo, i rischi d'arbitrio che una simile classificazione comporta. Infine, tra l'apatia delle maggioranze e il masochismo dei terzomondisti, abbiamo tentato di tracciare un'altra via, di cui definiremo lo sviluppo al termine di questo libro: la via della scelta che porta gli europei verso l'esterno, senza per questo rinnegare la loro eredità. Abbiamo tentato di affrontare l'uomo del Terzo Mondo come lo Straniero che è nostro Prossimo. Simile tentativo, che in ultima analisi mira a chiarire i motivi della nostra stessa condotta, dipende beninteso da una scommessa. Già in partenza, riconosciamo tutta la fragilità di una tale impresa.
La solidarietà o la leggenda nera contro la storia sacra
I visitatori stranieri a Mosca, negli anni '30, costituiscono senza dubbio una meraviglia della nostra epoca, e fino al mio ultimo giorno conserverò gelosamente, come un ricordo benedetto, lo spettacolo di quella brava gente che viaggiava piena di radioso ottimismo attraverso le campagne affamate, passeggiando in allegre comitive per città sordide e sovraffollate, ascoltando con fede incrollabile il cicaleccio idiota di guide accuratamente indottrinate, ripetendo, come gli scolaretti ripetono la tavola pitagorica, le statistiche falsificate e i vuoti slogan recitati interminabilmente a loro beneficio. E fra questi, riconoscevo qui un responsabile di qualche settore della Società delle Nazioni, lì un pio quacchero che una volta aveva preso il tè in compagnia di Gandhi, o un fiero oppositore del Means-Test e delle leggi sulla bestemmia, o un irremovibile paladino della libertà d'espressione e dei diritti dell'uomo, o un indomabile avversario della crudeltà verso gli animali, o nobili veterani coperti di cicatrici ricevute in cento battaglie per la verità, la libertà e la giustizia, che cantavano all'unisono le lodi di Stalin e della sua dittatura del proletariato. Era un po' come se un'associazione vegetariana si fosse d'un tratto pronunciata con fervore in prò del cannibalismo, o come se Hitler si fosse visto decretare, a titolo postumo, il premio Nobel per la pace. MUGGERIDGE, Chronicle of Wasted Times, l, The Green Stick, Londra, 1972, citato da SIMON L E Y S , Images brisées, Laffont, Parigi, 1 9 7 6 , pp. 65-66.
MALCOLM
Una gabbia andava in cerca del suo uccello. FRANZ KAFKA
« Sono molto miti e ignoranti di ciò che è il male » (Cristoforo Colombo) Nell'autunno 1492, quando, alla fine di un viaggio spossante, Cristoforo Colombo raggiunge San Salvador delle Bahamas, Cuba, poi Haiti, è sicuro d'aver trovato 0 paradiso terrestre. Avendo letto nell'Imago Mundi di Pietro d'Ailly che l'Eden doveva trovarsi in una regione temperata oltre l'equatore, appena arrivato va in estasi per tutto quello che vede. I paesaggi che gli si offrono, le ricchezze naturali e, soprattutto, i primi uomini che incontra, suscitano la sua sconfinata ammirazione: « Erano tutti assai ben fatti, molto belli di corpo e molto avvenenti nel viso» (t. I, p. 61).1 «Vanno in giro nudi, come la loro madre li partorì, sia le donne che gli uomini » (t. li, p. 158). « In quanto a bellezza, i Cristiani dicevano che non vi era paragone possibile, sia per gli uomini che per le donne» (t. i, p. 143), e questo splendore fisico si estende per osmosi al morale: « E la miglior gente del mondo e la più pacifica» (t. I, p. 146). «Non credo che esistano al mondo uomini migliori, come non esistono terre migliori. » Due caratteri degli indiani sono costantemente sottolineati dal navigatore genovese: la loro generosità e la loro vigliaccheria; poiché, fin dai primi contatti, gli spagnoli hanno barattato oggettini senza valore in cambio di oro, Cristoforo Colombo non cessa di lodare la prodigalità degli indigeni, che danno tutto per nulla: «L'Ammiraglio dice che non può credere che un uomo abbia già veduto gente di così buon cuore, così generosa e così timida, perché tutti si disfacevano di quello che avevano per darlo ai Cristiani, correndo, appena li vede1
La Découverte de l'Amérique, 2 tomi, Maspero, Paris, 1979.
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vano arrivare, per portar loro tutto» (t. I, p. 159). «Per qualunque cosa si dia loro, senza dir mai che è troppo poco, danno subito tutto ciò che possiedono» (t. i, p. 127). «Sono privi di cupidigia per i beni altrui. » « Qualunque cosa si chieda dei loro beni, non dicono mai di no; anzi invitano la persona e le manifestano tanto amore che le darebbero il cuore » (t. Il, p. 48). La loro codardia deriva quindi dalla loro affabilità: « L'Ammiraglio assicura ai Re che con dieci uomini se ne farebbero fuggire diecimila, tanto sono poltroni e vigliacchi» (t. i, p. 125). Sono disarmati perché sono innocenti, e la condiscendenza dei bianchi nei loro confronti è la contropartita d'una sconfinata venerazione. D'un sol colpo, nello spazio di qualche settimana, Colombo inventa il mito del buon selvaggio e le sue ambiguità. Può allora pronunciare sugli indiani questo giudizio definitivo: « Sono molto miti e ignoranti di ciò che è il male, non sanno uccidersi fra di loro» (t. I, p. 100). Insomma, la quasi-divinità dei nativi deriva dal fatto che essi confermano, senza saperlo, le Sacre Scritture. Ma questa condizione fuori del comune è fragile: investiti del temibile privilegio d'essere i migliori, rischiano di finire nell'animalesco se tradiscono la loro missione. L'idillio, infatti, non dura. Un anno dopo, quando il Genovese ritorna, tutto è cambiato. Non solo la febbre dell'oro rode i marinai spagnoli, ma i primi coloni lasciati sul posto sono stati massacrati per aver tentato di rapire le donne dei selvaggi. Questi non erano perciò così miti ed evangelici come si credeva. E basterà un incidente - alcuni indiani sono andati a prendere dai cristiani gli oggetti che desideravano - perché Colombo, dimenticando gli elogi precedenti, li dichiari tutti ladri e violenti e imponga loro crudeli punizioni: « E siccome, nel viaggio che feci a Cibao, accadde che qualche Indiano rubasse poco o tanto, se si scoprisse che alcuni di loro rubano, castigateli tagliando loro il naso e le orecchie, perché queste sono parti del corpo che non si possono celare» (t. il, p. 106). Impercettibilmente, e sotto la pressione di crescenti difficoltà, Colombo passa da una valutazione positiva sulla natura pacifica degli indiani a un. giudizio esageratamente oppo-
sto. Quelli che, nel 1492, «amano il loro prossimo come se stessi » e manifestano così una disposizione naturale al cristianesimo, due anni più tardi si sono trasformati in bestie feroci, atti a essere ridotti in schiavitù. E come è rivelatrice l'ultima lettera di Colombo ai sovrani spagnoli, detta «Lettera rarissima», datata 7 luglio 1503, dalla Giamaica: «Isolato nel mio dolore, malato, aspettando ogni giorno la morte, circondato da un milione di selvaggi pieni di crudeltà e che ci sono ostili [il corsivo è nostro], sono così lontano dai santi sacramenti della Santa Chiesa che la mia anima sarà dimenticata se dovrà separarsi qui dal mio corpo» (t. il, p. 215). Gli indiani non hanno mai avuto, in nessun momento, il diritto di manifestare la propria volontà. Il buon selvaggio è colpevole in anticipo per esser stato dichiarato perfetto. La superiorità di principio si è tramutata in un'inferiorità di fatto: sotto l'indigeno variopinto si celava un cane, e il carattere gentile camuffava una natura vendicativa e ipocrita. Così la scoperta del Nuovo Mondo verifica la Bibbia, l'Età dell'oro, le Esperidi, ma per revocarli subito. Questa umanità pura e felice è subito sospettata di nascondere una malvagità abominevole. E troppo poco dire che l'infamia segue la purezza: le è consustanziale. E la pastorale sfocia nella maledizione e nell'ingiuria. Tralasciamo la complessità del testo di Colombo2 e le molteplici implicazioni dei suoi viaggi per rilevare soltanto questo: l'esaltazione e il voltafaccia del navigatore genovese riappariranno quasi punto per punto, in altre circostanze, in Europa, agli inizi degli anni '60, cioè all'indomani della decolonizzazione. Infatti, salve le debite proporzioni, l'accesso all'indipendenza dei paesi sotto tutela fu, per molti progressisti, la scoperta di un continente nuovo, e provocò negli spiriti gli stessi turbamenti, la stessa intensità di emozioni che l'arrivo dell'America nell'immaginario degli uomini del Rinascimento. L'indiano caribico, pagina bianca su cui i conquistadores inLa scoperta di Colombo è stata mirabilmente descritta e commentata da T Z V E T A N T O D O R O V , Conquête de l'Amérique, Seuil, Paris, 1982, pp. 20-55. [Tr. it. La conquista dell'America, Einaudi, Torino, 1997.] 2
scrivono la rivelazione cristiana, è l'emblema anticipatore del guerrigliero del Terzo Mondo, che appare quattrocentosessant'anni dopo nella mitologia rivoluzionaria. In entrambi i casi, si ritrova la stessa nozione di uno zero storico, di un'umanità di base che diventa il fertile terreno dei sogni più folli. Certo, le società colonizzate non erano prive di un passato, ma il fatto di liberarsi dal giogo europeo conferì loro d'un tratto una nuova giovinezza. Tutto era rimesso in discussione dalla comparsa di quest'enorme pianeta nel cielo dei possibili: una grande attesa travagliava gli uomini, il patetismo dell'emisfero meridionale avrebbe dominato la storia moderna. In questo Eldorado tutto immerso nella gioia degli inizi, si disegnavano i confini del nostro avvenire. Uscendo dall'incubo coloniale e caricandosi di tutte le speranze insoddisfatte nel mondo industriale, la civiltà degli antichi dannati della terra avrebbe « aggiunto un nuovo colore all'arcobaleno».' Non solo i popoli asserviti si erano liberati, ma finora rassegnati ad accettare passivamente come una fatalità inerente alla loro condizione i flagelli della fame, della miseria, dell'umiliazione, dell'ignoranza, provocavano con la loro rivolta « una rigenerazione »,4 riconciliavano con se stesse innumerevoli collettività umane. « Una nuova filosofia della terra » (;id. ) si sostituiva alla monotona uniformità imposta dall'uomo bianco e suscitava quello che l'economista svedese Gunnar Myrdal aveva chiamato il «Grande Risveglio», un fatto storico d'importanza inestimabile. Su questa materia prima, un'intellighenzia di sinistra, delusa dalla mancanza di prospettive politiche in Europa e soprattutto dall'adozione della strategia della coesistenza pacifica, avrebbe progettato un messianismo non intaccato dalla divulgazione degli orrori staliniani. L'ispirazione della conferenza di Bandung (1955), nel corso della quale i rappresentanti di J Secondo l'espressione di B A S I L D A V I D S O N , Which way Africa? The search for a new society, Penguin Books, Harmondsworth, 1964. 4 J A C Q U E S B E R Q U E , Dépossession du monde, Seuil, Paris, 1 9 6 4 . [Tr. it.: Verso una cultura mondiale, Dedalo, Bari, 1 9 6 8 . ] «Questa sollevazione [...] commuove la specie umana nel suo complesso» (p. 37).
ventinove paesi africani e asiatici gettarono le basi di una nuova cooperazione internazionale, inaugurava a colpo sicuro la genesi di un mondo più vasto, più generoso. L'affermazione delle nazioni povere come nazioni proletarie arricchiva un principio rivoluzionario tradito o deformato nelle democrazie popolari e consentiva di riprendere il progetto comunista alla base, quale l'avevano concepito i padri fondatori. Il Terzo Mondo acquistava la freschezza di una «castità retinica». I primi passi di questi nuovi regimi avevano la bellezza di una deliziosa primavera. Le periferie tisiche, le bidonville proliferanti, le coorti di lebbrosi e di affamati, eredità maledetta dell'epoca coloniale, diventavano d'un tratto altrettante penisole favolose dove cuocevano insieme gli ingredienti dell'uomo nuovo. Meglio ancora: la miseria in quanto tale era valorizzata, l'uomo calpestato anticipava un riscatto.5 Solo la sofferenza ha un avvenire, perché è gravida di pacificazione, ogni male è un bene nascosto che prepara necessariamente una rivoluzione. In flagrante contraddizione con la filosofia marxista, il fatto della povertà basta a fare di un determinato popolo il portatore del progresso. Perché l'importante, per chi vuol essere solidale col Terzo Mondo, non è questa o quella ingiustizia, divenuta ormai solo un aneddoto penoso, ma la legge generale da cui tutte dipendono. E questo principio superiore è, beninteso, il sistema che governa le democrazie occidentali, cioè il capitalismo e il suo stadio supremo, l'imperialismo. Imputando i mali del mondo all'entità malefica del Profitto e del Denaro, l'interesse di tutti i diseredati veniva a coincidere. Gli sfruttati formavano una massa omogenea di fronte a un pu« Se essi [i cristiani] privilegiano nelle loro preoccupazioni i popoli del Terzo Mondo, è certo perché questi sono il Povero di cui parla il Vangelo. E anche perché questo Povero è vittima di un sistema di dominio fondato sulla legge del più forte e sul regno del denaro. Infine è perché questo Povero è impegnato in una lotta per la sua dignità che è una lotta per l'uomo ed è, per essenza, la nostra lotta. Perciò noi affermiamo, di fronte agli imperialismi, la nostra solidarietà con i cileni, i vietnamiti, i palestinesi, gli angolesi, i cambogiani », scrive ad esempio Georges Montaron in Témoignage chrétien, 22 novembre 1973. 5
gno di rapaci panciuti dal greve accento yankee: i contadini francesi potevano dirsi fratelli dei loro omologhi dell'Alto Volta, gli umiliati dell'Europa tender la mano agli alienati dell'India e della Cina, ogni movimento non era che una risposta particolare a una stessa ingiustizia. E poiché un'unica regola divide l'universo in due, il passaggio dall'anticolonialismo del dopoguerra al terzomondismo degli anni '60 fu quello dall'allergia verso se stessi all'effusione verso i tropici rigeneratori.
«L'America ha la rabbia» (J.-P. Sartre) Una confusa certezza, espressa in modo più o meno sfumato secondo le famiglie politiche (e su questo punto i grandi partiti operai, PS e PC, furono i più moderati), anima coloro che si sarebbero poi chiamati i terzomondisti: quella dell'infamia dell'Occidente, verità unica e giusta, altrettanto immutabile quanto la legge della caduta dei gravi. L'Occidente è predatore, come il leone è carnivoro; si tratta di un fatto che oltrepassa i limiti della comprensione umana. Per questo un fossato divide il regno della salvezza totale dal regno del male totale, fra i quali non può esservi che l'adesione o il ripudio.6 Sempre per questo, appoggiando i popoli che l'Europa aveva tenuto sotto il suo tallone fino a poco prima, si poteva cancellare o almeno attenuare l'atroce episodio della preponderanza. Questo sentimento di un debito impossibile da cancellare, nessuno meglio di Sartre, nella sua prefazione ai Dannati della terra di Frantz Fanon,7 l'avrebbe suscitato e fondato in dirit6 «Il mondo si divide non in cinque parti, ma in due: quella che vince ogni volta e quella che perde sempre e sempre di più » ( Y V E S F L O R E N N E , in Le Monde diplomatique, settembre 1 9 8 1 ) . «Come Luxun ha sostenuto per tutta la vita, non esistono innumerevoli modi di concepire il mondo, ma soltanto due. Colui che rifiuta l'uno adotta l'altro» (MICHELLE LOI, L'Intelligence au pouvoir, Maspero, Paris,
1973). 7 F R A N T Z F A N O N , Les Damnés de la terre, Maspero, Paris, [Tr. it.: I dannati della terra, Einaudi, Torino, 1 9 6 2 . ]
1961.
to. Secondo lui, dei crimini che si commettono in nostro nome bisogna per forza che noi siamo personalmente complici, poiché rimane in nostro potere farli cessare. Questa colpevolezza che giaceva in noi inerte, estranea, bisogna pure che la riprendiamo a nostro carico e che avviliamo noi stessi per poterla sopportare. « Abbiate il coraggio », egli scrive, « di leggere Fanon: per questo primo motivo che vi farà vergogna e la vergogna, come ha detto Marx, è un sentimento rivoluzionario» (p. 11). In tal modo, molti progressisti europei divennero altrettante torce viventi della punizione, pronti a immolarsi per riscattare gli obblighi contratti dai loro padri. Miracolosamente, l'ostilità contro il padre, anziché essere una colpa che grava sui discendenti, come nello schema freudiano, coincideva con la giustizia.8 Così si spiega perché l'appoggio si esercitava solo verso i regimi che avevano proclamato apertamente il loro disgusto per la civiltà bianca:9 non sarebbe venuto in mente a nessuno, a quell'epoca, di cantare le lodi del Senegal di Senghor, della Costa d'Avorio di Houphouët-Boigny, dell'India parlamentarista d'Indirà Gandhi, o di celebrare la gioiosa spensieratezza dei papua, la dolce vita dei polinesiani. L'essenziale era mettere alla berlina le nazioni industriali e tutto quanto vi si riferiva, la democrazia parlamentare, i diritti dell'uomo, la cultura, il cristianesimo. E in questo contesto, carico di passionalità, che va intesa l'avversione che l'America ha potuto focalizzare dopo la guer«Il lattante divenuto adulto si accorge che c'era del sangue nel suo biberon. Scrutando il suo passato con occhio acuito dalla psicoanalisi, non rivede più la sua infanzia quale l'aveva descritta Kipling, come quella di un Mowgli che gioca in una giungla dal riso disarmato, ma come quella di un precoce e metafisico assassino» (BERQUE, op. cit., p. 47). 9 Interrogato da Tahar ben Jelloun sui lunghi soggiorni fatti nei campi palestinesi in Giordania e nel Libano nel 1970, 1971, 1972, lo scrittore Jean Genêt risponde: « Perché i palestinesi? Era del tutto naturale che andassi non solo verso i più sfavoriti, ma verso coloro che cristallizzavano al più alto grado l'odio dell'Occidente » (Le Monde diplomatique, luglio 1974). 8
ra, e soprattutto nei dodici anni del conflitto vietnamita. Si era trovato in lei il colpevole ideale. Colpevole, essa lo era a vario titolo, e perfino per i servigi che ci aveva reso. Né la Francia, né l'Italia, né la Germania potevano perdonare agli USA di averle liberate dal giogo nazista o fascista: l'Europa dell'Ovest non ignorava che, senza l'aiuto dei marines, sarebbe stata puramente e semplicemente cancellata dalla carta. Certe generosità sono forme d'insulto. Poiché la salvezza era venuta dall'esterno, salvo sparute resistenze interne la cui efficacia fu più simbolica che militare (e la genialità di De Gaulle fu quella di lavare la Francia dal disonore della collaborazione), ciò significava chiaramente che le forze vive di quelle nazioni erano cresciute. Che la piccola cugina yankee aveva superato in vigore, in potenza, in creatività, le sue antenate del continente. E difficile perdonare un aiuto che sottolinea simili debolezze. Così il liberatore del 1944 divenne il nemico del genere umano. Da allora, si cercarono tutte le occasioni per prendersi sugli USA almeno una rivincita simbolica. La guerra fredda, il maccartismo, poi la guerra di Corea dovevano costituire un primo terreno per l'espressione di questo rancore. Ma da parte di un'Europa declinante, spettatrice e non più attrice della storia, vi fu soprattutto una bella rivincita da prendere sul Nuovo Mondo - che di recente le aveva dato una lezione - quando i primi contingenti americani sbarcarono a Saigon nel 1965. La vecchia baldracca, impoverita e bisognosa, denunciava la perversità della giovane sgualdrina per purificarsi dai suoi precedenti misfatti. All'indomani della guerra d'Algeria e dei suoi cruenti saturnali, che gioia per i francesi liberarsi del fardello coloniale sulle spalle dello zio Sam che dava prova, all'occorrenza, di una temibile ipocrisia: nessuno, a Parigi, dimenticava che l'amministrazione di Washington aveva rifiutato di soccorrere l'esercito francese in rotta a Dien Bien Phu il 7 maggio 1954. L'animosità poteva infine concretarsi intorno a una flagrante inconseguenza. Sulla vicina d'oltre Atlantico che saccheggiava l'America centrale, ristabiliva la dittatura a Santo Domingo, opponeva un diluvio di fuoco e di napalm ai Vietcong, organizzava il blocco di Cuba e, per concludere, rovesciava il regime socialista di Allende, vomita-
vamo ciò che eravamo stati, cioè gli eredi di una cultura coloniale, respingevamo un'immagine di noi stessi che ci faceva orrore. Di fronte agli sprovveduti dei quattro continenti, e anche di fronte alle tradizioni di raffinatezza, di cultura europea, la malvagia America veniva rivestita di tutti i sintomi da cui si riconosce la colpevolezza dell'Occidente: ricca fino alla sazietà, imperialista, dominatrice, insolente, inquinante, che alienava i suoi figli, sfruttava le sue minoranze, si gloriava d'esser fondata su un genocidio e prosperava solo grazie al massacro e all'omicidio, nazione che aveva sostituito la dolcezza del vivere con la corsa ai profitti e i valori morali col culto esclusivo del dollaro. In una parola, l'apoteosi della rapacità e della violenza. La politica brutale delle amministrazioni Johnson, Nixon e Ford verso il Vietnam, gli eccessi sconvolgenti cui si lasciarono andare, portarono ben presto la fobia antiamericana a un grado d'incandescenza quale di rado era stato raggiunto fra la gioventù europea. Fu come un fuoco di prateria a lungo covato, che si mise a divampare ai quattro angoli dell'Europa, un'immensa rete informale, non organizzata, tanto più efficace in quanto aveva un unico comune denominatore. I miti dell'antiamericanismo presero a pullulare come vermi sul corpo degli Stati Uniti, da cui pure traevano nutrimento: ogni intellettuale coltivava con fervore la sua manciata di dogmi antiyankee, convinto di possedere in essi la sua più grande ricchezza. Ben presto si dimenticarono i delitti commessi dall'esercito o dall'aviazione USA, il sostegno di Washington a un governo fantoccio e crudele, azioni diversificate all'infinito e che avrebbero richiesto tutte le sfumature del giudizio, per mirare alla sostanza stessa dell'essere nazionale americano. L'odio si rivolse al fatto che la nazione americana era essenzialmente se stessa. L'essenza pervertita dell'America cominciò a precedere i suoi atti, che ne divennero semplici derivati o illustrazioni. \J escalation polemica s'imballò, la controversia degenerò in confronto metafisico: l'America non commetteva abusi, procedeva da un'ingiustizia fondamentale. Era esecrata non in quanto fosse questo o quello, ma puramente e semplicemente: sempre e dappertutto bisognava denunciare, nell'« impero planetario del capitale egemonico
multinazionale nordamericano»,10 l'eziologia segreta della barbarie. La sfida americana diventava il «misfatto americano»,11 un misfatto che aveva le dimensioni e la virulenza di una peste. Il celebre grido di Sartre lanciato nel 1953: « Attenzione, l'America ha la rabbia» {Libération del 22 giugno 1953), ritrovò tutta la sua verità in quel mese di dicembre 1972, quando i B 52 di Nixon annegarono Hanoi e Haiphong sotto un diluvio di bombe. Chi non avrebbe fatto propria, allora, questa frase di Eldridge Cleaver: «Ho intenzione di versare il mio sangue e di mettere in gioco la mia vita e di cercare di uccidere i porci al potere a Babilonia».12 Un'espressione inventata da un celebre linguista americano, contrario alla guerra in Vietnam, per qualificare il suo paese, fece furore a quell'epoca: l'arcipelago dei Bagni di Sangue, in opposizione all'arcipelago Gulag di Solzenicyn.13 Se gli USA spiegavano illimitate risorse nell'atto di uccidere, era a causa di una profonda decomposizione morale interna.14 Non esisteva un modo di vita 1 0 J E A N Z I E G L E R , Le mani sull'Africa, Mondadori, Milano, 1 9 7 2 . Si noti che, all'inverso dei titoli nobiliari, Ziegler procede qui per accumulazione di difetti successivi che dovrebbero schiacciare il soggetto sotto il loro peso. Ma, per un effetto contrario, questo eccesso di tinte fosche libera gli USA dal sovraccarico, ogni epiteto scaccia l'altro: là dove si voleva suscitare lo sdegno si suscita il riso. E il difetto di ogni formula ritualista, vale a dire religiosa. " Y V E S F L O R E N N E , in Le Monde diplomatique, novembre 1 9 7 2 . 12 Citato in L E E L O C K W O O D , Conversations with Eldridge Cleaver, Dell, New York, 1970. 13 «Ci appare come una verità evidente ed elementare che la leadership negli Stati Uniti, a causa della sua posizione dominante e dei suoi sforzi controrivoluzionari compiuti su scala planetaria, fu l'unica a essere in tal misura l'istigatrice e l'amministratrice dei bagni di sangue più tremendi, o il loro sostegno materiale e morale durante gli anni successivi alla seconda guerra mondiale. » ( N O A M C H O M S K Y e E D W A R D H E R M A N , Counter-revolutionary violence blood-baths in fact and propaganda, Princeton University, 1973.) [Tr. it.: Bagno di sangue, Il Formichiere, Milano, 1975.] 14 FRANÇOIS M A N A S T A , in Le Monde diplomatique, del gennaio
americano, non c'era che un american way of death. Senza dubbio questa civiltà demente correva verso la sua rovina, ed era una constatazione di fallimento generale quella che René Dumont traeva dalle sue megalopoli disumane dichiarando, nel 1973: « New York una città ormai quasi invivibile»15 e votata a un'imminente rovina sotto l'effetto combinato della disoccupazione, delle immondizie e dei delitti. Parassita, assassina e malata, l'America era il capro espiatorio ideale: ogni bombardamento, tortura, eccesso dei suoi boys alimentava il nostro risentimento che, del resto, nessun gesto di pacificazione riusciva mai a disarmare. Il misfatto era troppo grande perché si potesse neppur pensare al perdono.16 L'esistenza di un nemico assoluto, totale, senza vuoti, ci autorizzava a odiare in tutta tranquillità, di un odio legittimo e anzi altamente morale.17 Insomma, con l'America interventista, l'Occidente credette infine di cogliere la quintessenza della sua ignominia: quattrocento anni di conquiste, di saccheggi, 1971, descrive il modello americano in questo modo: « Più di 600.000 morti nella guerra civile, più di 5.000 negri linciati dal 1860 ai nostri giorni, una criminalità che non cessa di aumentare, quasi il 3 5 % dei teen-agers negri disoccupati per il terzo trimestre 1970, in quasi ogni famiglia un'arma pronta a essere adoperata, un'arroganza del potere di fronte alle altre nazioni, liste d'attesa di più di due anni presso gli psichiatri... » 15 R E N É D U M O N T , L'Utopie ou la Mori, Seuil, Paris, 1 9 7 3 , p. 7 3 . [Tr. it.: L'Utopia o la morte, Laterza, Bari, 1 9 7 4 . ] 16 Al momento dei bombardamenti americani sul Nord Vietnam durante l'inverno 1972-1973, la Conferenza ecumenica mondiale riunita a Bangkok proclama, in un comunicato: « Anche se i combattimenti s'interrompessero oggi - e sarebbe il caso - la famiglia umana avrebbe vissuto un'esperienza del 'demoniaco' che bisognerebbe esorcizzare, di colpa che bisognerebbe perdonare e di rapporti avvelenati che bisognerebbe risanare» (Témoignage cbrétien, 25 gennaio 1973). 17 «L'imperialismo americano non è un mito [...], è la violenza incarnata, il diritto del più forte eretto a dogma, l'arroganza del ricco soddisfatto di sé» (GEORGES MONTARON, in Témoignage chrétien, maggio 1970).
di massacri trovavano la loro apoteosi e convergevano sulle cupole della Casa Bianca. Se tutto l'orrore di una determinata cultura era condensato in un sol luogo, in un sol popolo, in un solo sistema, il Satana americano serviva da ascesso da fissazione, il male cessava di galleggiare in sospensione e il Vecchio Mondo macchiato dalle sue colpe secolari poteva finalmente, sulle spalle del grande fratello d'oltre Atlantico, ritrovare un candore che aveva perduto dai lontani secoli del Rinascimento. Di colpo, l'intima esecrazione che l'europeo rivolgeva a se stesso, cessava di diventare autoflagellazione e si spostava su un terzo, simbolo del delitto assoluto. Ma occorreva un terzo abbastanza vicino, che riunisse in sé tutti i tratti che detestiamo in noi. Il ricordo del crollo coloniale era ancora vivo, un vecchio popolo storico cessava di esistere come predominante e ne traeva un immenso complesso d'inferiorità: l'America offriva allora lo spettacolo allucinante di una grande potenza occidentale che ricominciava l'avventura imperialista quando tutte le metropoli avevano detto basta. Fosse rabbia o paura di vederla riuscire là dove esso aveva fallito, il Vecchio Continente operò una distribuzione manichea delle parti: questa vendetta senza appello fu vissuta allora da tutti come un'imperiosa religione nazionale. L'americano era maledetto a causa della minuscola deviazione che rappresentava rispetto all'europeo, fratello nemico, quasi simile, differente da noi, ma di poco, e per questa differenza gli si portava rancore. L'odio si rivolgeva al parente, all'intimo, di cui si sconfessava l'intollerabile vicinanza.18 L'America, figlia snaturata, concentrava tutti i caratteri negativi delle sue patrie d'origine: automazione, macchinismo, materialismo, angoscia.19 Forse un doppio dell'Europa, ma nel senso che i geniIn tal senso, l'antiamericanismo è un fenomeno assai affine all'antisemitismo. Si veda la bella analisi dell'«alterità minimale» compiuta da V L A D I M I R J A N K É L É V J T C H e B E A T R I C E B É R L O V I T Z , Quelquc part dans l'inachévé, Gallimard, Paris, 1978, p. 136 sgg. 19 « H o veduto [negli USA] tante ineguaglianze, ingiustizie, solitudine; tanto dolore di vivere e tanta insicurezza, anche nelle classi agia18
tori più sani possono generare dei mostri. Perché un verdetto irrevocabile fosse pronunciato dalla comunità delle nazioni, bisognava che questa progenie disonorevole rivestisse vari ruoli contraddittori, che fosse la parente e la fuori casta, che la sua vicinanza non dissimulasse una distanza invalicabile, insomma che rappresentasse il cancro covato nel cuore dell'Occidente. Non importava che il grande fratello yankee continuasse a recitare l'ingrato personaggio di gendarme del mondo: si poteva sempre restare al riparo del suo ombrello atomico, pur rimproverandolo di mettere in pericolo la pace, si poteva beneficiare delle ripercussioni culturali, economiche, finanziarie della nostra alleanza con lui pur denunciando il suo dominio sull'Europa: grazie a questo gioco di prestigio, la penisola europea diventava una nuova regione del Terzo Mondo. Perché bisognava a ogni costo scaricare la cattiva coscienza su quell'impero che calamitava i rancori. Siccome la Francia, l'Italia, la Germania erano divenute politicamente dei nani, non restava loro che infilarsi nella pelle delle vittime; e il disonore dell'America garantiva la loro virtù, restituiva vigore a quelle società depresse e sminuite. La certezza di vivere un'epoca decisiva, sospesa nell'imminenza di una rivoluzione catastrofica che avrebbe spazzato via la faccia impura dell'universo, accentuava la sete di castighi, di maledizioni e di vendetta contro la carogna imperialista. Tutto ciò che poteva spezzare, indebolire, umiliare questa testa di ponte del mondo bianco veniva esaltato: dalla rivolta dei ghetti, dall'insurrezione degli indiani fino all'agitazione dei giovani contro la guerra e la disgregazione morale dell'esercito americano. Una frenetica danza dello scalpo c'imponeva di applaudire a ogni GÌ ucciso, a ogni bollettino di vittoria vietcong. Dappertutto, in ogni momento, si trattava per noi d'incoraggiare questa «disfatta politica, militare, economica e morale» di cui parlava il senatore MacGovern a proposito del suo paese, nel settembre 1971. E, finalmente, te... È questo il nostro avvenire? La società dello psichiatra e del tranquillante» ( M A R I E - F R A N C E M O T T I N , Cuba quand mème, Seuil, Paris, 1980, p. 11).
nella vittoria delle truppe del generale Gap, abbiamo salutato la rivincita di Toro Seduto su Buffalo Bill, dell'indiano e del negro sul cowboy sanguinario. Immensa soddisfazione psicologica, il conflitto indocinese fu un contro-western su scala mondiale, che portò al suo apogeo la crociata contro le democrazie occidentali. La caduta di Saigon nell'aprile 1975 consacrò la disfatta del gigante yankee che aveva spinto all'estremo «la propensione a sostenere e organizzare i sistemi più barbari e più brutali del terrore » ( N O A M C H O M S K Y , op. cit.). L'ingegnosità militare e il coraggio di un piccolo popolo si univano al trionfo delle forze morali per abbattere la capitale del Sud,20 simbolo di tutto 0 marciume del sistema imperialista. I vietnamiti furono esemplari per i rovesci che inflissero, molto più che per il modello di società che proponevano.21 Se lottavamo «per instaurare a Saigon un regime che non volevamo più a Praga», secondo la profonda osservazione di Edgar Morin, era perché lo schiaffo inflitto al Golia USA c'importava mille volte di più dell'avvenire di un piccolo paese, sperduto ai confini del continente asiatico. Con questa sconfitta umiliante, la potenza che produceva la più grande quantità di sciagure si trovò depotenziata; il re era nudo e rivelava d'un tratto la sua miseria; l'America detestata per il suo ruolo di tutore mondiale del capitalismo fu egualmente « Saigon, la città sessuale e opulenta con i suoi postriboli, le sue cloache, i suoi brandelli di reggimenti, i suoi disertori, si va liquefacendo. Perde acqua e pus sotto i colpi dei coraggiosi figli della terra [...] Ecco che i villaggi, riuniti insieme, distruggono Capua [...] Mi guarderò bene dal dire che la vittoria dei vietcong rappresenta quella del bene sul male. Rappresenta, certamente, la rivincita della pulizia e dell'integrità sulla sporcizia e sul disordine» (Xavier Grail nel commento a una serie televisiva sulla caduta di Saigon, in Témoignage chrétien, 12 giugno 1975). 21 « Giorno dopo giorno, il popolo vietnamita ci dà un'inestimabile lezione di spirito di sacrificio, di perseveranza e d'umanità rivoluzionaria nella sua lotta contro il rappresentante mondiale dell'oppressione e della repressione» (CHE GUEVARA, «Lettre sur le Vietnam», citato da RUDI D U T S C H K E , Ecrits politiques, Bourgois, Paris, 1 9 6 8 , p. 20
91).
disprezzata per il suo declino.22 Senza alcun dubbio, l'hallali era vicino. E nella nostra repulsione per gli USA si mescolavano l'orrore davanti ai crimini compiuti e il disprezzo per quest'impero vinto, analoghi al sentimento che potrebbe ispirare un ladro che ha fallito il colpo, ma non per questo è sottratto all'obbrobrio.
«Mondo occidentale, sei condannato a morte»23
(Aragon)
La solidarietà con i popoli oppressi fu innanzi tutto un'immensa macchina di guerra rivolta contro l'Occidente. Una logica bellicosa anima il terzomondismo e ne fa il proseguimento della guerra fredda con altri mezzi, avendo i paesi sottosviluppati preso il posto dell'URSS « riformista » nel suo ruolo di avversario mondiale dell'imperialismo. Un tratto, essenziale per comprendere i loro comportamenti, caratterizza i terzomondisti: essi sanno. Hanno operato una scelta ineluttabile a favore degli Stati del Sud. Non hanno abbracciato soltanto la causa della giustizia e degli oppressi, ma soprattutto il lato buono della storia. Da medici che conoscono il rimedio, e non da assassini accecati dall'odio, possono emettere il loro verdetto: « L'Europa è fottuta. Una verità che non è bella da dire ma di cui siam tutti, tra pelle e pelle, convinti » (Sartre, prefazione a F A N O N , op. cit., p. 7). «Ho avuto la sensazione di appartenere a una specie in via di sparizione», scrive da parte sua Marie-France Mottin lasciando la Francia per Cuba (op. cit., p. 11). Nell'impegno per il Terzo Mondo, il dover essere si unisce al realismo. E la rivolta contro il Vecchio Mondo si accompagna a uno strano fatalismo: a che serve difendere le democra22 Si trova la stessa ambivalenza di fronte agli Stati Uniti e ai loro satelliti negli slogan attuali della rivoluzione iraniana. Esempio: il messaggio inviato dai pazdaran iraniani ai negri inglesi durante le sommosse dell'estate 1981: «Abbasso l'imperialismo inglese tarlato e vampiresco ». 2i La Révolution surrealiste, n. 4, 1925.
zie vacillanti, dato che il cammino della storia esige la loro scomparsa? Insomma, si è trovata la soluzione: ne sappiamo più dei nostri padri, ed essi sono doppiamente condannabili in quanto colonialisti e sorpassati. La fine della storia siamo noi. Il nostro sguardo sui neri, gli indiani, gli asiatici non comporta più l'ignoranza, i pregiudizi, le paure che caratterizzarono l'uomo bianco da Cortes a Kipling. Un destino inesorabile c'impone adesso di tirarci da parte. Donde la lancinante ironia, la boria magistrale che pervade anche i più moderati: all'ora del crepuscolo, è troppo tardi per salvare i valori, non ci resta che collaborare alla nostra stessa caduta.24 L'antica vittima coloniale, liberata delle sue catene, possiede un sapere simile alla chiaroveggenza; ed è con la massima serietà che tutta una generazione di intellettuali europei o americani, forti dell'autorità di Sartre, aderì alla profezia di Frantz Fanon secondo cui « il Terzo Mondo è oggi di fronte all'Europa come una massa colossale il cui intento dev'esser quello di cercare di risolvere i problemi ai quali quest'Europa non ha saputo recare soluzioni» (p. 258). L'imperialismo ha trasformato il pianeta in un gigantesco mercato mondiale, dove ogni parte è complementare di un'altra; perciò la battaglia deve svolgersi altrove e dappertutto; altri lottano per noi agli antipodi, qui noi dobbiamo lottare per altri. Un rigoroso movimento d'orologeria regola tutte le battaglie, e ciò che contribuisce a rafforzare la liberazione dell'uomo a Vientiane, Pechino o Bamako rafforza la libertà a Parigi.25 Ogni volta che l'uomo bianco è cacciato via, respinto 24 In Modeste Contribution aux discours et cérémonies officielles du 10e anniversaire de 68 (Maspero, Paris, 1978), Régis Debray ricorda all'europeo che gli resta pur sempre la « facoltà di togliere il suo granello di sabbia alle muraglie della fortezza d'Occidente prestando man forte ai 'barbari' che lottano, fuori delle mura, contro la nostra barbarie sofisticata» (pp. 89-90). 25 Cfr. a contrario quest'osservazione di Claude Julien, un mese prima che il governo di Allende in Cile fosse rovesciato: « Se ora la campana dovesse suonare a Santiago, suonerebbe anche per molti umiliati dell'Occidente» (Le Monde diplomatique, settembre 1973).
o eliminato, un po' d'indipendenza viene restituita all'umanità.26 Dovunque l'indigeno viene calpestato, è la nostra dignità che scompare, dovunque egli rialza la testa sono tante ragioni di vivere che noi ritroviamo.27 Ognuno deve testimoniare nei suoi minimi gesti a favore della causa per cui ha optato; e il rifiuto di scegliere è ancora la scelta del più forte, cioè una complicità col male. Questa politica, quindi, rende ogni morale provvisoria e addirittura superflua accanto allo scontro prometeico che divide il globo in due fazioni. Basta essere non europeo per avere il diritto dalla propria parte, basta essere europeo o essere sostenuto da una potenza europea per apparire sospetto. E gli strascichi sanguinosi delle repubbliche bananiere, i deliri autocratici dei piccoli dittatori, i massacri degli oppositori sono spazzati via con un manrovescio: non saranno queste inezie a ritardare la marcia dei popoli verso il socialismo. Ciò che sembra criminale a Cuba, in Guinea, mira in realtà a eliminare un delitto molto più grande, quello dell'episodio coloniale. Su ogni specie di scrupolo grava quindi una cattiva coscienza, capace di pietrificare gli slanci critici. Per questa generazione, che ha conosciuto il colonialismo nei suoi momenti peggiori e ne ha serbato un forte disgusto, il rimorso sopravvive alle circostanze che l'hanno visto nascere. E la severità del partigiano è inversamente proporzionale alla distanza del paese considerato: più uno Stato è lontano dalle coste europee, più ha diritto a una indulgenza assoluta. La minima ba« F a r fuori un europeo è prendere due piccioni con una fava, sopprimere nello stesso tempo un oppressore e un oppresso: restano un uomo morto e un uomo libero; il sopravvissuto, per la prima volta, si sente un suolo nazionale sotto la pianta dei piedi » (Sartre, prefazione a F A N O N , op. cit., p. 17). Qualche anno dopo, il poeta angolese Armando Guebusa scriverà: « Vi è un messaggio di giustizia in ogni proiettile che sparo». 27 « La via che porta dalla lotta dei popoli per la loro liberazione all'organizzazione delle sommosse popolari nelle metropoli imperialiste è una sola » (volantino della Sinistra proletaria distribuito a Vincennes nel 1972). 2IS
stonatura nelle strade di Parigi, Berlino o Milano prova la mostruosità del sistema capitalista; ogni anno vien fuori una rivista o una voce autorizzata che predice il ritorno del fascismo in Francia, in Germania o in Italia. Per contro, le impiccagioni a decine nelle varie nazioni del Medio Oriente, l'applicazione quasi sistematica della tortura al di là del Mediterraneo, i campi di rieducazione nei paesi socialisti sono considerati come bazzecole, o giustificati ideologicamente. Sotto l'equatore, un assassinio è definito un gesto umanitario e la repressione una necessità storica. E il censore intransigente, accigliato, che denuncia ogni momento l'inganno della democrazia parlamentare, si fa d'un tratto pieno d'ammirazione di fronte alle atrocità commesse in nome del Corano, dei Veda, della Negritudine o del Grande Timoniere. Poiché la democrazia ideale non esiste in nessun luogo, se ne approfitta per condannare le democrazie imperfette dell'Occidente e per legittimare forme di potere ben peggiori. Ciò che pretendeva di essere sensibilità scismatica nei confronti dell'emisfero Nord divenne conformismo alle tirannie d'oltremare. Non c'era neppur bisogno di aderire ai dogmi o alle discipline sostenute da questi regimi: la lontananza dava loro quel suggello di autenticità che sarebbe sembrato dubbio a Parigi. Così molti intellettuali non marxisti, e anche molti cristiani, incensarono questi Stati e la scolastica che serviva loro da dottrina. A causa dell'immemorabile tendenza criminale dell'Occidente, si riposero le maggiori speranze in coloro che ci disprezzavano e ci sputavano in faccia. E molti avrebbero potuto riprendere per proprio conto questa frase del poeta Louis Aragón, scritta - già - nel 1925: « Noi siamo i disfattisti dell'Europa [...] Siamo quelli che danno sempre la mano al nemico ». Il terzomondismo accredita questa visione manichea, la quale vorrebbe che il peccato degli uni testimoniasse indefinitamente a favore della grazia e della virtù degli altri. La povertà spirituale di certi movimenti di liberazione, gli slogan più sommari dei loro capi sono quindi gonfiati a dismisura come altrettante parole del Vangelo, mentre il rigore intellettuale, la logica, l'educazione, monopolio dei paesi ricchi, sono re-
spinti come diabolici stratagemmi dell'imperialismo. Le più insignificanti insurrezioni, le più trascurabili rivolte contadine, hanno diritto a una risonanza enorme, sproporzionata in rapporto alla loro importanza reale; si santifica l'ignoranza, il settarismo dei capibanda tropicali, si glorifica la marcia degli splendidi asiatici chiamati a distruggere la civiltà europea, insomma le più grandi follie sono portate alle stelle da alcuni spiriti eletti, ben felici di sottomettersi a un'autorità primitiva, di prosternarsi «davanti allo splendore d'una sana barbarie». 28 Secondo questo principio, tutto ciò che innalza, loda, celebra l'Occidente è sospettato delle peggiori infamie; in compenso, la modestia, l'umiltà, il gusto dell'autodistruzione, ciò che può spingere gli europei a eclissarsi, a rientrare nei ranghi, è onorato, salutato come altamente progressista. La regola aurea di questo masochismo è semplice: ciò che viene da noi è cattivo, ciò che viene da altri è perfetto. Insomma, si concede sistematicamente un premio di eccellenza agli ex colonizzati. Ama i tuoi nemici: mai la nostra epoca miscredente, negli anni '70, ha seguito così fedelmente la parola del Cristo. Con questa sfumatura, tuttavia, che nel nemico non si onora la futura riconciliazione, ma si coltiva la nostra propria eliminazione. Poiché l'occidentale era uomo soltanto a spese dell'umanità, questa tornerà a essere umana solo a sue spese. Da qui la voga frenetica di cui gode, da trent'anni a questa parte, la figura del paria in Occidente:29 quanti di noi nel seL E S Z E K K O L A K O W S K I , LO spirito rivoluzionario, SugarCo, Milano, 1982. 29 Assimilato dai cristiani di sinistra al simbolo del Cristo: «Gesù Cristo: un profugo palestinese», proclama l'editoriale di Georges Montaron, il 18 dicembre 1969, in Témoignage chrétien. Egli dice fra l'altro: «Gesù Cristo è con i palestinesi, siano essi musulmani, ebrei o cristiani, dal momento che sono poveri [...], sono loro, i profughi, i veri luoghi santi della Palestina, i veri testimoni del Dio sempre vivente ». Tre anni dopo, all'epoca dei bombardamenti americani su Hanoi, lo stesso Gesù si ritrova cucinato in salsa indocinese, in termini quasi identici: « In quanto cristiani così a lungo rinchiusi in crociate per un mondo cosiddetto libero, dobbiamo affermare ben chiaro che il Cristo si trova oggi fra coloro che soffrono nelle macerie del28
greto del loro cuore non hanno rimpianto di non essere nati proletari, donne o cinesi, indiani, ghaniani, dato che queste categorie beneficiano idealmente, nell'immaginario europeo, del privilegio dell'innocenza? Bell'esempio dell'aberrazione cui sono inclini i terzomondisti, una volta persuasi che la solidarietà con i paesi sottosviluppati impone di ammirare, e non di correggere, l'infelice condizione di questi paesi. Lord Macaulay, responsabile degli Affari indiani per Sua Maestà britannica, dichiarava nella sua famosa minuta del 1839: « I nostri sudditi indigeni hanno più da imparare da noi che noi da loro» (citato in Imperialism-Phil Centin, Walker and Co., New York, 1971, p. 178). I suoi bis-bisnipoti oggi dicono esattamente il contrario, cioè ancora e sempre la stessa cosa, poiché si contentano di rovesciare l'errore. L'adesione frenetica alle concezioni degli ex dominati equivale alla classica pretesa dell'Europa di definirsi quale unica misura dell'umano. Fatto assai curioso, il bianco impiega, nel descrivere se medesimo, la stessa semplificazione e la stessa malafede che un tempo il colonizzatore dimostrava nel dipingere il colonizzato.30 Annali accuratamente selezionati annoteranno, della storia occidentale, solo gli episodi atti a renderla odiosa. Si pratica, brutalmente, una specie di tecnica riduttiva generalizzata, che non si preoccupa di alcuna sfumatura. Più la spiegazione è corta, più colpisce il segno. Dappertutto funziona lo stesso « complesso del j'waro », cioè la capacità di restringere una società, una civiltà, ad alcuni tratti salienti per sbarazzarsene più facilmente, esattamente come il jivaro riduce la testa del suo nemico alla grandezza di una mela. Un bovarismo tropicale Tralasciamo il fatto che, fin dalla metà degli anni '60, abbiamo tentato di rifilare di nuovo al Terzo Mondo « in modo pale città, dei villaggi vietnamiti. Per la liberazione di noi tutti » (BERNARD SCHREINER,
in Témoignage chrétien,
28
dicembre
1972).
"' Si veda a questo proposito il bellissimo Portrait du colonisé di Albert Memmi, 1957.
ternalistico le briciole d'una filosofia progressista della storia di cui constatavamo ogni giorno il fallimento e i delitti » . " Dimentichiamo che in quei tempi lontani tutto ciò che non rientrava nello schema imperialismo/rivoluzione, come ad esempio le due guerre del Kashmir, il conflitto indo-pakistano, la guerra civile dei signori Shan contro il potere birmano, lo scontro fra l'Eritrea e l'Etiopia o ancora il genocidio del Biafra, veniva già relegato con discrezione nelle segrete del silenzio. Dimentichiamo infine che, fra i più esaltati, la profezia aboliva ogni frontiera fra volere e potere. Tutto ciò è stato esposto altrove in modo eccellente. Il nostro discorso è un altro: il terzomondismo rientra nell'ordine delle passioni perché, nella speranza che aveva proiettato sui paesi sottosviluppati, era entrato in gioco un meccanismo amoroso. La prima tappa della solidarietà era vicina all'innamoramento. Si esplorava con ebbrezza l'insperato adeguamento di un oggetto al nostro desiderio di rivoluzione.32 Una coincidenza appariva sorprendente: agli antipodi del globo, una piccola nazione parlava la nostra lingua, veniva d'un tratto a completare il nostro fantasma. Splendore dell'eco. In questo militantismo neoplatonico si avverava la nostalgia di un'umanità indivisa la cui separazione in blocchi o razze doveva annullarsi a prò di un solo tipo umano. Così spariva ogni specie di esotismo, perché dando la parola ai giovani regimi, eravamo noi stessi a parlare, partendo da quei lontani interlocutori.33 L'esagerata esaltazione dell'altro non può disLe Tiers Monde et la Gauche, opera collettiva presentata dal Nouvel Observateur, Seuil, Paris, 1979. 52 «Che una cinquantina di guerriglieri isolati nella natura senza nulla perdere della loro profonda modestia e della loro naturale allegria potessero prefiggersi come scopo supremo la liberazione definitiva di un continente di 300 milioni di abitanti, non era un sogno improvvisato né un'utopia fondata su parole vuote» ( R É G I S D E B R A Y , La Guérilla du «Che», Seuil, Paris, 1974). [Tr. it.: La guerriglia del Che, Feltrinelli, Milano, 1974.] 53 « I Cinesi hanno veramente cercato qualcosa per noi », dice K.S. Karol in Tiers Monde et la Gauche, cit. 31
simulare il fatto che la coscienza terzomondista era, prima di tutto, innamorata della propria immagine; essa falsava i tratti più singolari delle culture indigene per raccoglierle, comprimerle nello schema che le conveniva. Sembrava un superamento dei confini. Era una proiezione di sé. Beninteso, bisognava aborrire l'esotismo, abito sontuoso di cui l'Europa rivestiva la miseria abietta dei suoi protetti, ricacciare i vari Loti, Malraux, Pearl Buck, Broomfield, Cendrars e Morand nella coorte mercenaria degli agenti del capitalismo.34 Quel che il militante non capisce è che lui stesso, sotto un'apparenza di rigore e scientificità, con i suoi operai al lavoro, le sue officine modello, i suoi meeting di massa, i suoi tribunali popolari, scade nel pittoresco da operetta. Gli altri diventano pittoreschi quando non sono che l'illustrazione di una dottrina, il momento di un teorema, quando la loro alterità non ha più il volto della trascendenza. Per questo, fin dall'inizio, nell'ideologia terzomondista vi furono dei poveri che rendevano, cioè erano adeguati alla teoria, e dei poveri improduttivi, la cui disgrazia non rientrava nel nostro quadro e non meritava perciò alcuna considerazione.35 Le culture e le tradizioni specifiche di tutti i paesi erano quindi trascurate a vantaggio della loro linea politica, cioè di quanto li avvicinava a noi. Dell'induismo, del confucianismo, dell'ispanità, della negritudine, si coglieva soltanto l'immagine terribilmente impoverita di qualche sciopero, comunicato di stato maggiore, rendiconto di manifestazione, realizzazione M Jean-Pierre Gamier, in Le Monde diplomatique dell'agosto 1980, ricorda per condannarli nuovamente «quegli scrittori globe-trotters che conoscevano l'arte di far correre i deliziosi brividi dell'esotismo in un pubblico avido di evasioni per procura, offrendogli su un vassoio, sotto forma di episodi bellamente congegnati, le manifestazioni più spettacolari della miseria che regnava già in quei paesi non ancora detti sottosviluppati ». " I biafrani ne offrono un tragico esempio. La quantità d'ingiurie, di calunnie di cui sono stati oggetto da parte di molti intellettuali francesi, col pretesto che erano sostenuti dalle grandi compagnie petrolifere, meriterebbe di figurare in un'antologia.
economica, come se tutta l'essenza di quelle nazioni si riducesse a slogan e a cifre. Epoca felice, quando il transfert di speranze non esitava a scendere fino ai particolari più triviali, quando la minima statistica sull'allevamento dei porci nell'Honan, il rendimento del riso per ettaro nel delta del Mekong, la raccolta di canna da zucchero a Cuba, procuravano ai francesi di sinistra brividi vicini allo spasimo. E la futura svalutazione di questi Stati traspariva fin d'allora nella nostra mancanza di reale curiosità nei loro riguardi. Ostile alle concezioni culturali, considerate come sopravvivenze, ritardi della coscienza che la Rivoluzione trionfante avrebbe corretto, il militante terzomondista dava il primato alle strutture socioeconomiche. Bisognava far funzionare le grandi macchine dell'analisi marxista e trattare come quantità trascurabili religioni e folklore, lasciati in pasto agli etnologi, sempre sospettati di collusione con le forze del passato. Sognavamo un amore violento, la seduzione, il rapimento; lo straniero non era più una minaccia ma il benefico sconosciuto cui potevamo affidare i nostri sogni in tutta tranquillità. Simili alle giovinette borghesi che un tempo subivano la reclusione imposta dal padre, sospiravamo dietro a un adultero che avrebbe sconvolto la noia quotidiana e avrebbe reso alla vita l'incanto degli inizi. Ma trasferendo sui diseredati del Sud le speranze fino allora investite nel proletariato, ne facevamo gli ostaggi dei nostri sistemi politici.36 Ponendo la sua candidatura alla successione del clero, il Terzo Mondo veniva sovraimpresso su uno schema preparato in precedenza. Una ragione impersonale e identica operava nelle società da Dakar a Dar es Salaam, da Parigi a La Paz, implicando un tempo unico, uno stesso attore della storia, fosse nero, indiano, ara36 « Nel cuore di tutti i poveri del mondo arabo, i fedayin sono degli eroi, l'immagine vivente del liberatore. Come Che Guevara in America latina. La Resistenza palestinese è una fiamma che illumina gli oppressi e si estende sempre di più. Qui, anche più che da noi, la Resistenza è sinonimo di Rivoluzione e ha una potenza messianica incalcolabile» ( G . M O N T A R O N e A. V I M E U X , in Témoignage chrétien, 25 dicembre 1969).
bo o giallo, cancellando insomma le temporalità aberranti, le irruzioni impreviste, sottovalutando il peso delle strutture tradizionali, come il tribalismo in Africa o il sistema delle caste in India. Il terzomondismo era il permesso graziosamente accordato agli africani, ai sudamericani, ai cinesi, agli indonesiani, di correre per noi nella gigantesca gara planetaria che era l'avvento della rivoluzione socialista mondiale.37 Si negava ai popoli spogliati il diritto d'improvvisare la propria storia, ed essi avevano un posto nell'epopea solo sottomettendosi al programma tracciato per loro: sperimentavamo su di loro i nostri dogmi come i mercanti di armi provavano il loro materiale nelle guerre d'oltremare.
La passione dell'idea Che cos'era il Terzo Mondo a quell'epoca? Un coltello senza manico privo di lama, l'oggetto introvabile di cui parla Lichtenberg, in altri termini, un'idea pura. I dannati della terra erano doppiamente disincarnati: abitando a migliaia di chilometri dalle nostre frontiere, erano assenti dalle nostre vite, quanto noi dalle loro. La nostra lontananza dal luogo reale dei combattimenti, la situazione di un'Europa privata delle sue antiche colonie ci incoraggiavano a vivere tutti gli eventi per procura: non avevamo altro potere, sull'Altro lontano, che quello di rappresentarlo. Ancora di recente, la Francia imponeva al mondo i suoi modi di parlare, di mangiare, di vestirsi, definiva le cose lecite e illecite per centinaia di milioni di uomini. Ormai, le cose avvengono altrove. I teorici hanno un bel foggiare il concetto di « imperialismo senza colonie »,38 di «saccheggio del Terzo Mondo», 39 ciò non impedisce che nessuna metropoli europea, salvo eccezioni, intervenga direttamente in quei paesi. Soltanto ieri, si poteva identificare la 37 Si legga a questo proposito l'eccellente Mythes révolutionnaires du tiers monde di Gérard Chaliand, Seuil, Paris, 1979. 5 8 H A R R Y M A G D O F F , L'età dell'imperialismo, Dedalo, Bari, 1973. " P I E R R E J A L E E , L'Échange inégal, Maspero, Paris, 1964.
nazione francese con l'universo; ed ecco la patria di Descartes detronizzata, ristretta alle sue frontiere esagonali. Da allora l'africano, l'asiatico, l'indiano, sono ridotti a pure citazioni. Come concepire l'Altrove quando non si ha più alcuna relazione con esso, se non attraverso i libri o i media? Se ne fa l'incarnazione di un'idea.40 L'ignoranza quasi generale dei paesi di cui si parlava (a parte l'infimo numero di progressisti che si unirono ai partigiani e pagarono con la prigione, con la malattia, il prezzo delle loro convinzioni) spiega insieme la vacuità e il radicalismo del verbo terzomondista: meno era efficace, più forte gridava. Poiché la distanza giustifica la vaghezza dei contorni, sui lontani orizzonti si poteva costruire una fede che nulla avrebbe contraddetto. «Una stessa lotta», si diceva allora, a proposito dei partigiani palestinesi, dei Bo Doi vietnamiti, dei guerriglieri venezuelani o di uno sciopero nei cantieri navali di Nantes: stessa lotta, cioè tutti i popoli, tutti i luoghi, tutte le battaglie del pianeta sono intercambiabili, nessuno vale più di un altro, il concreto è evaporato nell'astrazione. Tutto diventava semplice, una litania, ci si immergeva nella latinità rivoluzionaria come nella tempesta delle guardie rosse, si varcavano climi e latitudini a passi di gigante, ci si destreggiava con le parole d'ordine e le dichiarazioni roboanti, il globo non era più che un attaccapanni cui appendere i nostri fantasmi. Nei combattenti dell'Angola, nei naxaliti del Bengala o nei foquistas boliviani, cercavamo solo una versione più intensa, quindi più innocente di noi stessi. Una parola aggressiva e puerile, di portata mondiale, tentava di colmare il vuoto lasciato dalla partenza dei coloni e delle truppe metropolitane. La solidarietà degli intellettuali europei si gonfiava come una cellula mostruosa, mentre il potere reale dell'Europa si ritirava nelle sue frontiere continentali. E allora si 40 « II mistero della disincarnazione del Verbo nazionale non è forse senza rapporto col fatto, piuttosto insolito nella nostra storia, che un'epoca intera si sia trovata nella necessità di vivere il proprio tempo per procura, idealmente o sotto l'egida dei segni e dei simboli. Il Terzo Mondo come idea: terzomondismo. La Cina come idea: maoismo», scrive assai giustamente Régis Debray in Débat, gennaio 1981.
sarebbe potuto dire come Rousseau, nelle Confessioni: «Dimenticando completamente la razza umana, non scelsi per mie compagnie che creature perfette, divine per le virtù come per le bellezze; amici sicuri, teneri, fedeli come mai ne trovai quaggiù».41 E siccome non avevamo alcuna possibilità di trovarci mai nel cuore dell'azione, compensavamo la frustrazione con riti mimetici, a base di magia e di simpatia; il berretto e la barba del Che, la giacca cinese, il sigaro di Fidel, e oggi ancora il turbante afghano, furono per molti simpatizzanti d'estrema sinistra i gesti più spinti della loro solidarietà. Allora, girare per i marciapiedi di Berkeley, per i boulevards del Quartiere Latino o nelle strade di Berlino in tali acconciature, dava alla più semplice passeggiata la dimensione di una lunga marcia.42 Se io sono l'Altro, le sue vittorie diventano le mie vittorie.43 Restavamo fedeli ai condottieri tropicali ricalcando il loro aspetto, agendo come loro. Si scuotevano le fondamenta dell'idra brandendo i ritratti di Ho Chi-minh, di Arafat, di Car4 1 J E A N - J A C Q U E S ROUSSEAU, Le confessioni, libro ix, Torino, 1955, p. 469. 42 « Vivere della propria ingegnosità non significa diventare un volpone, un capitalista di basso rango, ma un guerrigliero dell'America latina, un socialista appartenente agli strati inferiori della popolazione» (R.G. Dais, ex teorico del teatro di guerriglia negli USA, citato dal San Francisco Express Times del 21 marzo 1968). 45 In realtà, l'inganno era reciproco: ci si entusiasmava di ritrovare in bocca ai cubani, ai vietnamiti, agli angolesi, una fraseologia che era la nostra e faceva dell'umanità oppressa una stessa comunità saldata dagli stessi interessi. Ma era perché il modello occidentale, socialista o liberale, si era diffuso e aveva tanto impregnato i movimenti di liberazione, che potevamo fingere di scoprire in essi ciò che avevano preso prima in prestito da noi. Si trattava di un doppio mimetismo: occidentali che mimavano cinesi, cubani, vietnamiti, i quali da parte loro s'erano completamente nutriti alle fonti occidentali. Non si voleva capire che Lumumba, Nkrumah, Castro od Ho Chi-minh si erano talmente ispirati all'Europa - non dimentichiamo che molti di loro avevano studiato in Francia o in Inghilterra - che potevano dar lezioni ai progressisti europei nel loro stesso linguaggio.
michael, di Malcolm X o di Mao. Un nuovo feticismo prese il posto dell'emulazione fraterna, feticismo il cui ideale non era tanto quello di trovare una via rivoluzionaria per la Francia, quanto d'imitare le diverse correnti insurrezionali del mondo esterno. Sicché, per parafrasare un celebre pensiero di Marx, ogni avvenimento a quell'epoca aveva un doppio ruolo: attivo nell'emisfero Sud e teatrale nell'emisfero Nord: attingevamo nelle guerriglie come in un magazzino di abiti smessi per soddisfare il nostro gusto di travestirci e camuffarci. La generosa propagazione delle certezze non andava al di là di un'identificazione nel vestiario.
I brividi della cecità volontaria Nel xvm secolo, in Europa, l'avanzata della minaccia turca, osserva Jean-Baptiste Duroselle,44 suscita due tipi di reazione diametralmente opposti: il primo predica la crociata contro la Turchia infedele, mentre il secondo vede l'Impero ottomano come una specie di Stato modello di cui spetterebbe agli europei meditare, o perfino imitare le realizzazioni. Si esalta lo spirito di tolleranza, la naturale modestia dei turchi di fronte al nostro fanatismo e al nostro orgoglio. Si celebra in loro il perfetto equilibrio dell'individuo e delle istituzioni, e si invitano i principi e i monarchi cristiani ad allinearsi su quest'autorità morale e militare. Allo stesso modo vi furono, subito dopo la decolonizzazione, due modi diversi di respingere l'Occidente; uno che lo denunciava come bastione, crogiuolo del Capitale, ma dichiarandosi pronto a perdonarlo se abiurava alla sua cattiva natura e si volgeva al socialismo; l'altro, più radicale, che rigettava la civiltà europea nel suo insieme, scongiurandola di sottomettersi alle norme, ai costumi di altre culture descritte come suL'Idée de l'Europe dans l'histoire, Denoel, Paris, 1965, citato da L'irttellectuel contre l'Europe, P U F , Paris, 1976, pp. 8 e 9. [Tr. it.: L'intellettuale contro l'Europa, Vita e Pensiero, Milano, 1979.] ANDRÉ RESZILFR,
periori. Infatti, a mano a mano che i popoli colonizzati si liberano, i valori specifici di questi popoli ricevono un'accoglienza entusiastica; esamineremo più in là (capitolo 3, sul mimetismo) questa vera e propria frenesia della differenza che accompagnò sia l'emergere dell'etnologia, sia il declino del cristianesimo. Ma, nel seno stesso del terzomondismo, l'universalismo della sinistra si combinò molto spesso con il riconoscimento e anche con l'esaltazione della specificità culturale dei popoli in via di emancipazione."15 Si aspettavano da loro soluzioni, modelli che potessero rigenerare la senescente civiltà europea. Si dimenticò ben presto che il rispetto della differenza era stato per molto tempo un argomento colonialista per promuovere ora una politica indigena (Durkheim), ora un'amministrazione indiretta che desse largo spazio ai particolarismi locali (olandesi a Giava, Faidherbe nel Senegal, Gallieni nel Madagascar e, naturalmente, inglesi nella totalità del loro impero). Si dimenticò che il diritto alla diversità era stato rivendicato dagli anticolonialisti per scongiurare l'Europa di ritirarsi, ma anche dal partito coloniale per giustificare una politica di non-assimilazione46 - l'Algeria ne fu l'esempio più tragico - , allo stesso modo in cui tutta una frazione della sinistra, in nome dell'universalità del messaggio socialista, rifiuta alle nazioni indigene il diritto all'autodeterminazione (cfr. Marchais che giustifica l'invasione russa in Afghanistan con i costumi feudali di questo paese"17). "" Si veda l'eccellente libretto di M A X I M E R O D I N S O N , La Fascination de l'Islam, Maspero, Paris, 1980, p. 100 sgg. 1,6 «L'esotismo induce piuttosto i politici coloniali a sforzarsi di conservare gli arcaismi, ad allearsi coi conservatori indigeni, a denunciare gli intellettuali nazionalisti, siano essi riformatori o rivoluzionari, socialisteggianti o no, come scialbi imitatori dell'Europa, spinti da idee astratte e male intese a distruggere il proprio patrimonio» (Ro DINSON, op. cit., pp. 96-97). A1 E vero che il PCF ha una lunga tradizione di appoggio alle politiche coloniali. Il PCF ha denunciato l'insurrezione di Costantina nel maggio 1945 come una « provocazione di agenti hitleriani », ha votato i crediti che dovevano finanziare la guerra nel Vietnam nel 1947 e ha riconosciuto solo molto tardi agli algerini il diritto di disporre della
Poiché il tema della differenza è, per eccellenza, un temabanderuola che non ha nessuna verità in se stesso, gira a seconda delle ideologie e delle sensibilità e testimonia dell'ambivalenza di certi valori suscettibili d'essere invocati a prò di atteggiamenti opposti: la sua qualità è solo strumentale e può, per la sua stessa ambiguità, porsi al servizio di passioni contrastanti, dando l'ultima parola sia ai calcoli politici, sia ai generosi slanci del cuore. Eppure, appena si parla di differenza, le migliori intelligenze perdono ogni senso critico, sono prese da sacro furore, si mettono a volteggiare come dervisci. In essa non celebrano tanto un'armonia originale dell'uomo e del mondo, quanto la negazione pura e semplice dell'Europa: il fatto che una insurrezione, una sommossa si rivolgano contro l'Occidente basta a conferirle un valore assoluto.48 Se l'America latina fu in complesso la sfida che portava l'incendio nel cuore della piovra imperialista e il Vietnam fu il suo cimitero, la Cina fu il contromodello totale dell'inferno occidentale. In essa si poteva finalmente individuare la localizpropria terra senza la tutela francese. Si veda a questo proposito il libro a cura di Jacob Moneta, La politique du PCF dans la question coloniale (1920-1963), Maspero, Paris, 1971. 48 Anche qui occorre distinguere tra le famiglie politiche: il PCF, fedele alla sua politica di allineamento con Mosca, ha sempre sostenuto gli alleati dell'URSS (Vietnam, Cuba, Nicaragua), a costo di appoggiare le iniziative più contestabili di questi paesi verso e contro tutto. Il PS, partendo da una petizione di principio anti-imperialista, si è dimostrato il più sfumato e il più moderato, applicando a ogni conflitto un'analisi particolare, a costo di contraddirsi da una volta all'altra. I trotzkisti nelle loro varie congreghe, custodi del tesoro della rivoluzione permanente, hanno privilegiato l'insurrezione, soprattutto in America latina. L'estrema sinistra maoista si è divisa complessivamente in marxisti-leninisti, scrupolosi riproduttori della linea del PC cinese, di cui abbracciano i successivi ripensamenti, e in Sinistra proletaria, corrente intellettuale che fece del Libretto rosso un mezzo per rilanciare in Francia un movimento operaio fossilizzato dalle « direzioni revisioniste» (cfr. il tema della Nuova Resistenza). Ed è proprio nel clan dei maoisti, e di una certa sinistra cristiana, che il mito dello spazio tricontinentale raggiunse il suo apogeo allucinatorio.
zazione geografica della Rinascita. L'unione tra un fondo nazionale e una retorica anti-imperialista, fecero della Cina un ramo nuovo dell'albero marxista; il messaggio antiamericano vi si arricchiva di componenti più sofisticate. Come il Buon Selvaggio nel xvi secolo, il cinese, in versione maoista, nasce nei salotti e negli anfiteatri universitari a metà degli anni '60. La sua apparizione è l'equivalente di un nuovo Vangelo: il Messia è ridisceso sulla terra nella persona di Mao, e ogni giorno ci porta le prove e i segni della divinità del nostro idolo rosso.*19 Insomma, fra il 1966 e il 1975, gli incensatori della Cina rossa credettero d'aver scoperto all'estremità della penisola asiatica l'esistenza stessa del Paradiso. Da che si riconosce il Paradiso? Da tutto ciò che è rovesciato rispetto al nostro basso mondo; siccome l'Europa rappresenta la summa delle imperfezioni, la Cina non poteva essere che una serie di meraviglie. Il presupposto del male universale attribuito a un solo paese, a un solo sistema, cancellava ogni sorta di dubbi: il gran sole di Pechino divideva l'universo in una zona d'ombra e in una zona di luce. L'Altro lontano poteva quindi essere esaltato secondo lo schema cristiano della caduta (Occidente) e della redenzione (Cina). Era l'epoca dei pii pellegrinaggi in cui, col pretesto di raccontare le cose vedute, gli zeloCfr. ad esempio ciò che scrive padre Cardonnel in Le Monde diplomatique del novembre 1974: «Vi è affinità, congiunzione, fra l'universalità della contraddizione secondo Mao Tsetung e 0 Vangelo liberato dal cristianesimo, cioè un amore che dimostra d'incitare, non già alla ratificazione dell'ordine esistente, bensì all'insurrezione contro l'obbedienza ». Lo stesso Cardonnel recidiva due anni dopo in un articolo intitolato: « La Cina popolare e la fede ». Dopo aver avanzato l'ipotesi che la Cina popolare possa tornare «dal rosso vivo verso il rosato », egli prosegue: « La rivoluzione cinese prende sul serio la resurrezione che una parte dell'Occidente 'cristiano' professa a fior di labbra [...] Con atti che corrispondono alle parole dell'apostolo Giacomo, un popolo che ha conosciuto il cristianesimo solo come ausiliario delle potenze coloniali, ci grida: 'Tu hai la fede; io ho le opere. Mostrami la tua fede senza le opere ed io, con le mie opere, ti farò vedere la mia fede' (Giacomo, cap. il, v. 18)» (Le Monde diplomatique, febbraio 1976). 49
ti prestavano al paese visitato il loro entusiasmo, ingenui creduloni, preoccupati non tanto di descrivere, quanto di rinfocolare delle convinzioni, perché Saint-Germain-des-Prés non disperasse. Se, «nella fisionomia dei primi cinesi che il viaggiatore straniero incontra, si avverte uno stato d'esaltazione più impressionante della felicità stessa, perché è, per eccellenza, uno stato fecondo, attivo e creativo »,50 se « in Cina, dopo una giornata molto piena, non avete sentito nessuno brontolare, nessuno pronunciare una parola di rifiuto o di scherno », se per le vie fiorisce visibilmente non la cortesia, ma « la fraternità fondamentale, la probità quasi appassionata, l'altruismo attento dell'uomo socialista»,51 ciò era dovuto con ogni evidenza al fatto che certe sbalorditive convinzioni c'impedivano di vedere nell'altro qualunque cosa che non fosse il nostro stesso entusiasmo. La svista sarebbe stata comica se, nello stesso momento, centinaia di migliaia, se non milioni di cinesi, non fossero stati uccisi, massacrati o deportati per ordine del grande leader, come avrebbe rivelato il PCC qualche anno dopo, e se l'intellighenzia europea non avesse coperto, coi suoi elogi, le grida della Cina martirizzata, rendendosi obiettivamente complice dei crimini commessi. Che importa: quelli che, nostalgici di un modello retorico, finirono nella sinologia da operetta, poterono, nell'epoca in cui l'Impero di Mezzo era messo a ferro e a fuoco, tracciare il ritratto di una nazione positiva, senza vizi,52 senza miseria, senza psicopatologia, sen50
JosuÉ DE CASTRO, in Le Monde diplomatique, dicembre 1969.
51
M I C H E L L E L O I , op.
cit.,
p. 2 0 .
«In un mondo che corre dietro al Denaro, alla Comodità e al Piacere, non rimane che la Cina, dove arde ancora di tale fiamma un ideale di austerità, di lavoro, di oblio di sé [...] La Cina, un tempo, era considerata il paradiso dei ladri: attualmente un visitatore non può più perdere un oggetto senza che gli venga riportato [...] Sono di una castità incredibile, perché il Partito lo esige. I film sono morali al cento per cento. Quando si esce da questo paese disinfettato per passare a Hong Kong, si ricade all'improvviso nell'erotismo del nostro mondo, con giornali pieni di porcherie, con l'oppio, il gioco, la prostituzione... » (Robert Guillain, citato da J E A N T O U L A T , in Témoignage chrétien, 8 gennaio 1 9 7 0 ) . 52
za malattie53 e perfino senza polvere.54 Un mondo dove i ciechi vedono, dove i sordi sentono, e dove, naturalmente, come sul sagrato di Lourdes, i muti si mettono a parlare.55 La Cina divenne il balsamo posto sulla piaga di un mondo scosso dalle convulsioni. Essa aveva abolito una volta per tutte le separazioni che generano i fenomeni aberranti del potere e dell'oppressione. Insomma, a Pechino, come pure a Tirana,56 era sorto l'uomo nuovo, l'uomo totale che conciliava in sé i contrari,57 liberato dall'egoismo, dai sospetti che sfigurano la vita in Occidente.58 La Cina rappresentava l'immagine del tutto « In Cina, ci si cura prima di ammalarsi veramente. Ci si cura per non essere malati e soprattutto per lo sport » ( M I C H E L L E L O I , op. cit., p. 70). 54 « Tutta la Cina è notevolmente pulita », sostiene la stessa Michelle Loi (op. cit., p. 69), e aggiunge: «Non so come fossero prima le vie delle città, i vicoli dei villaggi, ma oggi sono di una pulizia piuttosto sorprendente. Il fango e la polvere delle piccole strade non sembrano entrare nei paesi e nelle città, spesso lastricate o cementate, chiaramente spazzate con cura meticolosa. Così pure i viali delle fabbriche e i cortili delle scuole, dove non c'è un pezzo di carta per terra ». 55 Dopo una visita a una scuola di piccoli sordomuti, curati con l'agopuntura, l'ineffabile Michelle Loi, trasportata dall'entusiasmo, scrive alla sua famiglia: « Ho sentito cantare i piccoli sordomuti. Soprattutto non crediate che scherzi. Questo paese è davvero un mondo come non ne ho mai visti. Un mondo nuovo» (op. cit., p. 79). 56 In Le Monde diplomatique del novembre 1974, Georges Frelastre si chiede senza sorridere, a proposito dell'Albania, se non si stia andando verso una « società perfetta ». E cita con ammirazione la frase di un militante del PC albanese sulla riduzione delle disparità di salario: «Verrà il giorno in cui raggiungeremo l'eguaglianza assoluta. Forse alla fine del secolo, verso il 1990-1995. Noi sogniamo questa società perfetta dove nessuno avrà da invidiare il suo prossimo, perché tutti saranno nella stessa condizione». 55
La rivoluzione culturale « ha saldato lavoro manuale e lavoro intellettuale [...], ha ristrutturato l'insegnamento, dalle elementari all'università, in un sistema di educazione che opera la sintesi fra teoria e pratica, facendo sì che l'homo sapiens e l'homo faber formino un essere completo, un uomo totale» (MARIA A N T O N I E T T A M A C C I O C C H I , Dalla Cina, Feltrinelli, Milano, 1974). 58 « La rivoluzione culturale cinese [è la] sola rivoluzione socialista 57
diverso, dell'assolutamente nuovo: gli ostacoli abituali alla condizione umana qui cadevano come per miracolo, l'impossibile diventava possibile. Grazie alla fedele applicazione del pensiero di Mao Tsetung, un contadino poteva diventare chirurgo, un operaio fisico atomico, un analfabeta comporre dei versi, le masse erano per sé sole un criterio d'ingegnosità sufficiente a rinviare la competenza, il lavoro, lo studio alla loro origine borghese.59 Al suo ritorno dall'URSS, Nizan confidava a Sartre che gli uomini migliori laggiù avevano ancora paura di morire. Quest'osservazione stupefacente sembra anodina, paragonata all'oceano di stupidaggini e di menzogne che i sagrestani della parrocchia maoista poterono pronunciare negli anni '70. Dai bei tempi dello stalinismo trionfante, mai la slealtà intellettuale di quelli che volevano farci scambiare la lanternina che illuminava il loro cuore per il più rosso sole, era stata così forte. E chiunque dubitava che il Grande Timoniere conducesse alla felicità un miliardo di terrestri, non poteva che essere al soldo della C I A . 6 0 che non tragga le sue premesse dall'individualismo delle rivoluzioni borghesi dell'Occidente» ( R O G E R G A R A U D Y , Pour un dialogue des civilisations, Denoèl, Paris, 1977, p. 210). 59 La rivoluzione culturale « ha contribuito alla distruzione del mito della pretesa 'superiorità' degli esperti e dei tecnici. Così le masse popolari hanno preso coscienza della propria capacità di padroneggiare collettivamente tecniche complesse, esse giungono a tale padronanza grazie alla loro esperienza pratica e con l'aiuto dei tecnici, ma senza che questi abbiano una parte preponderante, anzi al contrario » (CHARLES B E T T E L H E I M , «Vers une nouvelle morale prolétarienne » in Le Monde diplomatique, novembre 1971). Nella rivista Tel Quel dell'estate 1972, n. 50, il sinologo Jean Daubier risponde a un intervistatore: Domanda: « Che cosa pensa della campagna anticinese che si sviluppa (che continua) in Occidente e di cui un libro come Gli abiti nuovi del presidente Mao [di Simon Leys] è una testimonianza limitata ma precisa? J.D.: [...] Il libro di cui lei parla è stato scritto da uno di quei censori 'di sinistra' del maoismo, e diciamo subito che non è uno dei migliori. E un'antologia di pettegolezzi circolanti a Hong Kong 60
Perché i Figli del Cielo, in versione maoista, condensano sul loro capo due qualità contraddittorie; ora rappresentano i migliori fra gli uomini, i santi della specie umana, il superlativo della devozione, dell'onestà, del coraggio; ora, invece, testimoniano di un'alterità così radicale da sfuggire ai nostri giudizi, ai nostri criteri. E si vedranno di continuo queste due opinioni incrociarsi o confondersi nei panegirici che i valorosi mandarini francesi fanno della loro Terra promessa. Trovate, per esempio, che in Cina la sessualità è repressa? Errore di valutazione: i cinesi non hanno sessualità.61 I campi di rieducazione vi ricordano penosamente il gulag staliniano? Questo non c'entra niente.62 La libertà è un concetto occidentale che i cinesi non hanno mai conosciuto.63 Sia detto una volta per tutte, non capirete nulla della Cina se persistete a guardarla con occhi di europei:64 l'anima cinese, vedete, è un da anni, e che hanno una fonte americana ben precisa. E significativo che l'autore non osi citare le sue fonti [...] Ciò sfiora la ciarlataneria ». 61 « I cinesi: tutti si chiedono (e io per primo): ma dov'è dunque la loro sessualità? [...] E allora immagino [...] che la sessualità, come noi ne parliamo e in quanto ne parliamo, è un prodotto dell'oppressione sociale, della cattiva storia degli uomini » (Roland Barthes par Roland Barthes, Seuil, Paris, 1975, pp. 167-168). [Tr. it.: Roland Barthes di Roland Barthes, Einaudi, Torino, 1980.] 62 Al tempo in cui parteggiava per il maoismo, Philippe Sollers, confortato da Alain Peyrefitte, sosteneva davanti a Pasqualini, il quale aveva passato diversi anni in un campo di concentramento della Repubblica popolare, che non bisognava porre i problemi della libertà in Cina alla maniera occidentale, perché i gialli non hanno i nostri stessi bisogni, le nostre stesse esigenze... (trasmissione Apostrophes, 25 gennaio 1975). 63 « Le libertà? I cinesi non ne sentono la privazione perché non le hanno mai praticate» ( A L A I N P E Y R E F I T T E , citato da C L A U D E R O Y , Sur la Chine, Gallimard, Paris, 1979, p. 130). 64 « L'alterità della Cina è invisibile se colui che parla qui, in Occidente, non si colloca in qualche punto dove il nostro tessuto monoteista e capitalista si lacera» (JULIA KRISTEVA, citato da C L A U D E R O Y , op. cit., p. 129).
mistero, inaccessibile ai nostri sensi grossolani.65 I cinesi non sono uomini come gli altri, il loro cervello funziona in modo diverso. La prova: fanno tranquillamente a meno dei dispositivi di sicurezza così costosi nelle nostre fabbriche occidentali.66 La Cina vi sembra austera? Siete ancora corrotti dal vostro epicureismo di europei, perché la Cina è felice, la Cina canta dalla mattina alla sera.67 Del resto, è molto semplice: i cinesi sono angeli,68 hanno accumulato « una somma di virtù da dare il capogiro ».69 «L'anima cinese ha risvolti ignorati dalla psicanalisi» (Tel Quel, citato da C L A U D E R O Y , op. cit., p. 1 3 0 ) . Claude Roy ricorda a ragione che, sul tema dell'alterità, il medico coloniale Legendre, per giustificare i maltrattamenti dei coolies, scriveva, nel 1900: « L a potenza funzionale dei vari organi della razza gialla è inferiore a quella della razza bianca» (id., p. 130). 66 In Le Monde del 16-17 novembre 1975, il cristianissimo Henri Fesquet spiega l'assenza di dispositivi di sicurezza intorno alle macchine, nelle officine cinesi, col fatto «che, vedete, i cinesi sono degli acrobati straordinari»; la mobilitazione dei coolies attaccati al carro come bestie da soma gli ispira la seguente riflessione: « La sua forza fisica [del popolo cinese] esplode in ogni momento. Basta vedere 0 modo in cui è utilizzata, lungo le strade, la trazione umana per spostare carichi enormi, messi in equilibrio come per miracolo su carretti a due ruote» (citato da SIMON L E Y S , Gli abiti nuovi del presidente Mao, Antistato, Milano, 1 9 7 7 ) . 67 « Il popolo della Cina, lo sento cantare a Shanghai fin dall'alba [...], dei bambini passano cantando [...]. Vi è musica fra gli alberi, dappertutto, come se fosse festa: i cinesi fanno ginnastica. Quest'atmosfera di sagra dura tutto il giorno. Dapprima ho pensato che fossero i preparativi della Festa nazionale. Non è affatto così. Dovunque io passo, la strada canta, chiama, recita, predica. La strada canticchia Per navigare in alto mare, o II distaccamento femminile rosso. La strada impara VInternazionale» ( M I C H E L L E Loi, op. cit., p. 1 6 - 1 7 ) . 65
68 Secondo i due filosofi Jambet e Lardreau, la rivoluzione culturale cristiana, riassorbita a partire dal iv secolo, e la rivoluzione culturale cinese « folgorata nel cielo di Mongolia » (con la morte di Lin Piao in un incidente aereo) mettono entrambe in moto masse animate dalle stesse esigenze: « Il rifiuto radicale del lavoro, l'odio del corpo e il rifiuto della differenza sessuale» (L'Ange, Grasset, Paris, 1976, p. 100). [Tr. it.: L'Angelo, Ontologia della rivoluzione, Marsilio, Venezia, 1 9 7 8 . ] 64 « Milioni di fervidi militanti si leveranno in tutta la Cina: una ma-
Insomma, è evidente che l'utopia maoista, lungi dal rappresentare un'alternativa reale alle nostre società, costituiva per i suoi « f a n » un semplice prolungamento delle loro nostalgie più infantili. Lo spregio dei fatti era inerente alle necessità dell'entusiasmo, poiché in Cina si vedeva solo quel che si era immaginato a Parigi, a Roma o a Berlino. Sotto l'apparenza di un materialismo puro e duro, i seguaci di Pechino cadevano nell'idealismo più volgare, bevendo le menzogne della propaganda maoista con diletto, perché gli slogan da tempo, avevano soppiantato le cose.70 Perciò, come confessò un ex devoto in un'autocritica che fece scalpore, non era neppur necessario comprendere il pensiero di Mao per sostenerlo.71 L'adesione astratta, disincarnata, non aveva bisogno di subire la prova della realtà per venire ostentata, la Cina insomma era l'ultima preoccupazione di queste «guardie rosa», come le definì argutamente Claude Roy, e la loro pseudo-fraternità malcelava un disprezzo scandaloso per il popolo cinese in quanto tale. La ricerca di un ordine sociale perfetto, basata sul principio del tutto o niente, finiva nel consenso dato non solo al nulla, ma al peggio. La rivoluzione iraniana costituì, in tono minore, il secondo rea invincibile. Sono cresciuti durante la rivoluzione culturale e si sono furiosamente educati al coraggio, all'eroismo, alla devozione, alla lealtà, al sacrificio, alla purezza, alla modestia, al disprezzo della morte. Questo è il latte di cui si sono nutriti. Una somma di virtù da dare il capogiro...» ( M A R I A A N T O N I E T T A M A C C I O C C H I , op. cit.). 70 « II problema del modo in cui siamo (o non siamo) informati sulla Cina non è un problema cinese ma un problema francese. Dai tempi di Voltaire, la Cina è per i francesi un mondo magico, ora meraviglioso, ora abominevole, un vero camaleonte [...]. Allora l'unica questione davvero interessante è sapere perché, da qualche anno, 0 camaleonte cinese ha preso colori così magnifici sotto la penna e il pennello dei rappresentanti dell'intellighenzia e della stampa francese» ( C L A U DE C A D A R T , in Regards froids sur la Chine, Seuil, Paris, 1 9 7 6 , p. 4 0 ) . 71 « H o sostenuto che bisognava applicare il pensiero di Mao anche quando non lo si era capito» ( T . G R U M B A C H in Les Temps modernes, aprile 1 9 7 2 , citato da C L A U D E R O Y , op. cit., p. 9 8 ) .
risvolto di quest'idolatria dello specifico. Il fatto che sopravvenisse in un'epoca in cui gli slanci terzomondisti erano già stati scottati da molte delusioni, l'atteggiamento molto prudente dei grandi organi d'informazione della sinistra (Le Monde, Libération, Le Nouvel Observateur, Le Monde diplomatique), che prevedevano da un pezzo la minaccia di un'esplosione e diedero prova, nei riguardi del fenomeno religioso, di una lucidità esemplare, frenò terribilmente lo zelo degli adoratori e diminuì di colpo la loro credibilità. Vi fu, tuttavia, fin dai primi giorni della rivolta iraniana, un piccolo contingente di osservatori che si entusiasmò per le più contestabili angherie dei partigiani di Khomeini. Certo, essi salutavano nell'Iran insorto la continuazione persiana del nasserismo e delle grandi rivoluzioni nazionali arabe, soprattutto quella dell'Algeria, che univa la risonanza dell'oumma (comunità dei credenti) al primato politico della rinascita nazionale. Ma, soprattutto, l'Iran rappresentava ai loro occhi il no allo stato puro: non s'insorgeva soltanto contro l'imperialismo o il capitale, ma contro l'Occidente nella sua accezione culturale complessiva. L'Iran destava meraviglia perché apriva una terza via e non si riconosceva in esso nessuno dei due dinamismi che da noi sono il segno distintivo di un processo rivoluzionario: la lotta di classe e la presenza di un partito guida o di un'avanguardia. Finalmente una rivoluzione che non obbediva a nessun criterio socialista o marxisteggiante! In nome della totale estraneità del fenomeno iraniano ai valori occidentali, si celebrava in esso la nuova ondata che avrebbe spazzato via, infaticabile, le incancrenite fortezze del Nord. Il vegliardo che avanzava a testa alta e a mani nude contro un monarca corrotto e contro il più potente esercito dell'Asia centrale, rappresentava la vittoria del bene sul male, la trasfusione dello «spirituale» nel «politico». Era un fatto fuori del comune che provava l'insuperabile vitalità dell'Islam: subito, in un'esasperazione verbale tipica di questo genere di avvenimenti, certi attribuirono il rovesciamento dello scià a un ritorno del sacro! La parola era detta e fece furore; si celebrò, nelle sommosse iconoclaste di Teheran, Tabriz o Isfahan, una « sfida simbolica a tutto il sistema occidentale di va-
lori» (Baudrillard),72 che giustificava tutti i crimini, tutte le violenze; altri presentarono l'Islam come il «grande risanatore delle lesioni e delle delusioni» che compiva «un rifiuto dell'inefficace, del forzato, del falsificato ».73 « In Iran, l'Islam concretizzava l'identità ferita da invasioni, oppressioni, contraffazioni» (id., p. 60), e quest'ultimo termine si applicava beninteso a quanto poteva esservi di occidentale sotto il regime dello scià. Si benedisse questa «capacità di una morale religiosa di rovesciare lo Stato in apparenza più forte del Medio Oriente, il felice smacco ch'essa inflisse così ai depositari delle strategie egemoniche e dei modernismi truccati» (id.), si giudicò l'attualità dell'Islam dalla sua combattività nei nostri riguardi, felicitandosene,74 come se il criterio di autenticità di un movimento consistesse nell'essere contro l'Europa. Siccome ci odiano, hanno ragione. L'antieuropeismo è in realtà il solo merito che si possa concedere al regime di Khomeini, e proprio a causa di questo esorbitante privilegio più d'uno, in Francia, applaudì al sequestro degli ostaggi dell'ambasciata americana nel novembre 1979. Miracolosa combinazione in cui il risveglio della verità si univa alla lotta anti-imperialista; e anche se il profeta di Qom si trasformava in un pericoloso esaltato, si poteva incensare e anche assolvere il terrorismo delle sue truppe in nome della giusta lotta contro «Che sia a prezzo del 'fanatismo' religioso, del 'terrorismo' morale o di una 'barbarie' medievale, tanto peggio o tanto meglio, non ha importanza; è vero che, senza dubbio, solo la virulenza rituale, per nulla arcaica, la violenza attuale di una religione, di una tribalità che rifiuta i modelli della libera socialità occidentale, poteva lanciare una sfida reale a quest'ordine mondiale [...], l'Iran, l'unico destabilizzatore attivo del terrore e del monopolio strategico mondiale dei due grandi» (JEAN BAUDRILLARD in Le Monde, 1 3 febbraio 1 9 8 0 ) . 7 1 J A C Q U E S B E R Q U E , L'Islam au défi, Gallimard, Paris, 1 9 8 0 , pp. 62-63. E vero che Berque tempera il suo elogio con alcune sentite reticenze verso il passatismo e la brutalità del nuovo regime. 14 «Attuale, lo è fortemente, l'islam [...], per la sua combattività senza incrinature. Gli arabi, l'Islam, il Terzo Mondo combattono e ci combattono, attraverso questa guerra che si cerca e probabilmente s'intravede una verità storica» ( J A C Q U E S B E R Q U E , op. cit., p. 3 7 ) . 72
il denaro, l'imperialismo USA e il suo sostegno filoebraico, il sionismo.75 In Iran, Dio si schierava contro l'America e aveva incaricato Khomeini di farlo sapere. La Storia aveva un bel deragliare, la logorrea apologetica si era messa in marcia, e più i seviziatori dell'imam perpetravano crimini e massacri, in nome di Allah misericordioso, più i cronisti, per mezzo di articoli e giornali, volevano persuaderci della tolleranza e della profonda umanità di quel tipo d'Islam, minimizzando, dimenticando o anche giustificando l'eliminazione delle minoranze nazionali o religiose.76 Insomma, si applaudiva il fanatismo, lo sciovinismo dei mullah, perché noi ne eravamo il bersaglio.77 Non si 75 Claude Bourdet scrive in Témoignage chrétien del 19 febbraio 1979: « O r a tutto è cambiato nel Golfo Arabo-Persico. L'orientamento del nuovo regime non ha importanza: in tutti i modi, l'Iran non sarà più il gendarme degli Stati Uniti e il complice di Israele». Il 19 febbraio dello stesso anno, G. Montaron scrive a sua volta: « Senza dubbio i mezzi impiegati dagli iraniani per raggiungere i loro scopi ci urtano. Ma la violenza non riguarda solo il governo di Teheran. E con la violenza che Washington ha rovesciato Mende [...]. Questa sfida studentesca, condannabile nella forma ma giustificata e unanime nella sostanza, che un popolo umiliato lancia all'America, è capitale». Si veda l'eccellente dossier che la rivista Esprit ha raccolto sul khomeinismo e le reazioni della stampa francese, gennaio 1980. 76 Interrogato da Marc Kravetz, in Le Magazine littéraire del febbraio 1982, sulla libertà e la tolleranza del regime iraniano, l'orientalista Vincent Monteil risponde: « La Rivoluzione e la Repubblica islamica corrispondono a un'aspirazione secolare alla giustizia, vogliono essere il partito dei diseredati. Il problema curdo non è nuovo. Già più di trent'anni fa ebbi modo di constatarlo sul posto. Si tratta sempre (per semplificare, naturalmente) di mire straniere e del vecchio demone del separatismo. Nessuno Stato, in nessun luogo, può tollerare questo. In quanto ai Baha'i, non sono musulmani e soprattutto hanno il torto di avere i loro luoghi di preghiera in Israele e negli Stati Uniti, e di essersi talvolta lasciati manipolare e arricchire sotto il vecchio regime dello scià. Ogni rivoluzione ha le sue vittime innocenti ». 77 Lo stesso tipo di solidarietà si è ricreato a proposito della guerra delle Malvine; poiché metteva a faccia a faccia un paese dell'America latina e l'Inghilterra, si è creduto di ritrovare in essa lo scontro seco-
tenne alcun conto delle popolazioni che i nichilisti al potere a Teheran terrorizzavano, imprigionavano o torturavano; e per un buon motivo: sono gli iraniani a far le spese di questo estremismo, e non noi, che salutiamo nella « differenza » sciita un enorme potenziale sovversivo capace di far vacillare il mondo industriale sulle sue fondamenta. Come ieri gli amici della Cina, così ora gli amici della rivoluzione iraniana erano, in realtà, i nemici del popolo iraniano.
Uomini innamorati
dell'amore
Quest'apertura sul mondo era quindi una chiusura, questo allargamento era un'altra frontiera che l'intellighenzia europea innalzava contro il pianeta, nonostante la deludente e menzognera promessa di comunione che ostentava clamorosamente. In apparenza, dal 1960 al 1980, la sinistra occidentale fu presa da un appetito pantagruelico per il mondo, s'ingozzò in tutti gli angoli del globo, ma si trattava solo di un'ingordigia fine a se stessa. Simile a un padre che proietta sul figlio le speranze deluse, andava in estasi per un falso plurale, per una falsa alterità, che malcelava la propria magrezza. C'era sì un Terzo Mondo, ma questo Terzo Mondo non era che il doppio del nostro. Un gioco diabolico di specchi e di rimandi spingeva l'ego occidentale a gonfiarsi, a recuperare il suo volume ogni volta che pretendeva di umiliarsi. E il terzomondismo compì, in campo politico, quella deviazione passionale sempre denunciata dai moralisti, l'amore innamorato di se stesso, l'amore compiacente, incapace di crearsi un complemento diretto. Come il dandy Raymond Roussel che fece il giro del mondo lare fra Nord imperialista e Sud calpestato; in nome di questa divisione fra cielo e inferno, si è vista tutta la sinistra sudamericana, come pure Cuba e l'URSS, allearsi coi filibustieri di Buenos Aires, che ancora qualche settimana prima del conflitto eliminavano i loro oppositori. Finché Nord e Sud saranno contrapposti nello specchio dell'assoluta dannazione teologica da una parte, e della redenzione dall'altra, questo tipo di collusione reazionaria continuerà a verificarsi.
senza mai uscire dalla sua cabina, il terzomondista collezionava sommosse, rivolte e rivoluzioni, vietandosi, per quest'ebbrezza numerica, ogni esperienza dell'infinito. L'altrimenti e l'altrove cui egli faceva appello erano ancora troppo attaccati a questo basso mondo, che rifiutava. L'autentica alterità avrebbe supposto un rapporto con una realtà sociale infinitamente lontana dalla propria, senza che tale lontananza distruggesse il rapporto, e senza che il rapporto distruggesse la lontananza.78 Invece, la sinistra esotica non ricevette dal Terzo Mondo nulla che non possedesse già. Questo socratismo politico tradiva una pigrizia spirituale il cui unico scopo era di salvaguardare l'utopia socialista nei suoi sogni più infantili.79 Questa fu perciò la ginnastica praticata da gran parte della sinistra per quasi vent'anni: affermare l'esistenza di nazioni di cui nel contempo si negava l'indipendenza, crearsi un Terzo Mondo trasparente al quale si negava il privilegio di una storia originale, consacrare, ancora una volta, il trionfo dell'identico sull'Altro. Dotata di una chiave unica, la sinistra poteva allora soddisfare il suo desiderio di chiarezza, manovrare gli « [...] i lettori occidentali più estranei alla Cina scopriranno un fatto prezioso che resta irrimediabilmente nascosto sia agli assertori del Pericolo rosso sia agli incensatori della Cina rossa: i cinesi sono anche uomini, o, in certo modo, noi siamo tutti cinesi» (SIMON L E Y S , Images brisées, cit., p. 116). 79 Così si proiettarono, e si continuano a proiettare su tutti i movimenti o le organizzazioni di un paese lontano le nostre categorie di destra/sinistra, progressista/conservatore, eccetera. Si commette perciò un duplice errore: si scrive la storia di questi paesi con i nostri concetti. Si somministrano a questi stessi paesi categorie ormai logore, che - si afferma - ritroverebbero una seconda giovinezza sotto quei cieli esotici, così come si somministra una tecnologia di seconda mano, superata senza dubbio in Europa ma abbastanza buona per « quelli là ». Si veda ad esempio la venerazione con cui si esaltarono, durante la guerra civile del Libano, i buoni « palestinesi progressisti » contro gli infami « cristiani conservatori » come se, al di là di ogni giudizio di valore sui partiti in questione, questo conflitto non fosse una lotta confessionale di tipo feudale, ma uno scontro fra destra e sinistra! 78
oppressi come tante marionette. Queste nazioni del Terzo Mondo avevano una sola singolarità presa a prestito, quella dell'ostaggio, conoscevano un'unica parola, l'ultimatum, garanti non consenzienti di un patto che non avevano concluso. Ricorrevamo a esse come a strumenti, non eravamo per nulla sensibili all'essere unico che rappresentavano, ciascuna di per sé. Così ad esempio, battezzando il FLN algerino « unica forza organizzata della sinistra francese », i fedayin palestinesi « avanguardia della Rivoluzione mondiale », ci appropriavamo le lotte di movimenti che, secondo l'espressione di Jean Daniel, « non ci avevano promesso nulla »,80 e non si erano impegnati nella resistenza per piacere a noi. Ma, a parere del « terzomondismo », questi fronti di liberazione gli erano legati da un patto tacito, rispondevano di se stessi in quanto avvenire della lotta di classe mondiale. Formidabile riserva di materie prime per le multinazionali, l'emisfero Sud divenne per una certa sinistra un favoloso giacimento di illusioni, la palpitante ebbrezza di un'aurora dell'umanità. Un'aspirazione sincera alla fratellanza universale; una propensione a entusiasmarsi per le rivoluzioni straniere; una prima delusione; un transfert di speranza su altri regimi; una seconda delusione; un ritorno di fede; una serie di attaccamenti; una serie di incostanze: in questo itinerario si sarà riconosciuta la logica stessa del dongiovannismo, la disinvoltura con cui il gran signore lascia una donna appena un'altra gli sembra più esaltante. E un balletto comico di infatuazioni e di ripudi che trasforma la solidarietà terzomondista in una serie di lutti amorosi. Ogni paese era incomparabile, ogni paese era solo una forma effimera dell'eletta che, ogni volta, tradiva la nostra fiducia in lei. Era talora una regione africana, talora un'isola dei Caraibi, una nazione povera o sovrappopolata, piccola o gigantesca, nera o gialla, ma una sola cosa in lei restava inalterabile: la missione di cui il nostro amore l'aveva investita. Qualche anno, qualche massacro bastavano a distruggere l'illusione, provocando una reincarnazione altrove. Ciò che un tempo si era amato nell'una ben presto scompariva per risorK"
Editoriale del Nouvel Observateur del 4 dicembre 1978.
gere nell'altra, che diventava una terza. Sono incostanti questi ebrei erranti della Rivoluzione? Nemmeno: essere incostante significa stancarsi di un essere che, invece, non muta. Ma essi sono sempre stati fedeli alla creatura menzognera che li ha piantati in asso. Dappertutto sembrava loro di intravedere una nuova forma dell'Amata. Ma presto, troppo presto, sentivano che lo spirito, l'ideale cui rivolgevano tutti i loro voti, fuggiva alla chetichella da quel regime imperfetto per infilarsi in un altro: « Vedere la creatura che si è creduta perfetta perdere sotto i vostri occhi la divinità che la rivestiva, passare dalla fiamma alle ceneri, da una radiosa vitalità allo stato di cadaveri [...], è per me una tortura».81 Costretto a variare all'infinito per trovare il buon partner, l'intellettuale, sempre amante, mai ricompensato, viola le frontiere del globo correndo perdutamente. Sfarfalleggia solo perché non può essere un Tristano, il suo cosmopolitismo è senza gioia e nasconde a stento un nazionalismo nostalgico. Persegue intrighi fino agli antipodi, finché non gli rimane più neanche una terra vergine da assalire. Il Vietnam soffoca nella ferrea stretta della burocrazia, Cuba serve da base all'imperialismo sovietico, la Cina rivela le atrocità della rivoluzione culturale, il mondo non ha più un barlume di luce da dispensare ai nostri sensi affamati. Ormai i paesi sottosviluppati ci sembrano tanto foschi82 quanto ci apparivano radiosi poco tempo prima. I continenti extra-europei sono entrati nella malinconia della decadenza. Si resta a metà strada fra il lealismo verso la Roma di ieri e le dichiarate riconversioni. Tutti gli investimenti d'ammirazione sono in ribasso: una volta, la qualità di straniero vi dava la sicurezza d'essere lodato, adulato, esaminato intellettualmente con molta attenzione. A patto, naturalmente, di appartenere allo Stato in voga. Bisognava fare i conti con lo snobismo, la moda, la frivolezza, tutte cose sanissime del resto, che rinnovavano l'atmosfera. Poco tempo fa, si giu8 1 T H O M A S H A R D Y , The Well-Beloved, 1 8 9 7 . [Tr. it.: L'amata, Guida, Napoli, 1 9 8 8 . 1 82 «Il Terzo Mondo, fabbrica di tiranni» è il titolo dato da Les Nouvelles littéraires a un articolo su V.S. Naipaul.
rava solo su Pechino, Hanoi, L'Avana; e se Kabul è ancora molto richiesta, l'insieme dei valori del gruppo Terzo Mondo rivela una netta tendenza alla caduta.83 Tutto andava troppo bene: le solidarietà proliferanti e pullulanti hanno consumato la propria rovina. Gli eccessi dei sostenitori, gli appelli viscerali, l'indifferenza ai dati che si manipolavano secondo gli imperativi della fede, l'abitudine di dire enormità per toccare le corde sensibili finirono per far cadere il terzomondismo nell'ipertrofia e nell'inflazione. Una dialettica che moltiplicava illusioni per illusioni non otteneva mai altro che illusioni. La coscienza solidale, soffocata dal proprio prurito, morì di una crisi d'indigestione. Il salto di qualità, la modulazione miracolosa sono mancati. E l'accoppiamento mirabile si rivelò un abominevole fiasco di cui i due partner si palleggiarono la responsabilità. Ci eravamo risolti alla solennità di un progetto universale, ma solo per por fine al tormento che avrebbe provocato un vero incontro con una cultura straniera.84 C'era un vizio d'origine, e l'esaltazione tonitruante « Al di là [dell'Europa] che cosa si vede? Respingendo un capitalismo che uccide in Guatemala e mantiene il Cile in coma, rifiutando un marxismo che tiene la Russia in catene e crocifigge la Cina, l'Iran, liberatosi dalla dittatura dello scià, credeva d'aver trovato, in un Islam imperialista e trionfante, il modo di uscire dall'era del gulag e dell'olocausto. Ora, dopo due anni di esperienza, l'Iran riscopre il gulag e reinventa l'olocausto. Dove volgere lo sguardo? Verso il Libano, che ieri s'inebriava di una fallace ricchezza e oggi si lascia smantellare dalle proprie passioni? Verso Israele, la cui esemplare democrazia urta contro l'ostacolo del ricatto religioso, al punto che questi due Stati complementari oggi attingono le loro ultime forze nella negazione o nell'aggressione dell'altro? Che pensare delle convulsioni dell'India, degli spasmi del Bangladesh, dei furori del Salvador, dei soprassalti del Marocco e della vertigine che, da Cartagine a Suez, afferra le folle disorientate, le quali cercano in un ritorno ai dogmi più implacabili la salvezza che il modernismo non ha saputo dar loro » scrive J.-F. Khan nell'editoriale delle Nouvelles littéraires del 6 agosto 1981. 83
« I maoisti occidentali non concepiscono che ci si possa recare in Cina semplicemente per amore di quel popolo e di quella terra; simili sentimenti sono evidentemente estranei a loro che hanno preferito
della propaganda non poteva dissimulare il vizioso narcisismo che era alla base del nostro interesse. L'idolatria ha designato il suo idolo come il non plus ultra, e l'ha supplicato a bassa voce: soprattutto non muoverti, sei perfetto. Avevamo reso infantili i cinesi, i cubani, i vietnamiti, avevamo sminuito gli indiani, rimpicciolito i sudamericani prestando loro le nostre intenzioni, rifiutando loro la libertà essenziale che è quella di commettere errori, cioè di essere colpevoli a loro volta.
Il mercoledì delle Ceneri Conosciamo la lunga serie di rancori, di delusioni, di tradimenti che hanno sfigurato il credo terzomondista: il riawicinamento sino-americano al culmine del conflitto vietnamita, le relazioni diplomatiche tra Pechino e Santiago dopo il colpo di Stato di Pinochet, la rivoluzione etiopica e le sue successive liquidazioni, l'intervento di Cuba in Angola, poi contro i partigiani eritrei che in precedenza aveva equipaggiato, il genocidio in Cambogia, la fuga del boat-people dalle coste dell'Indocina, il fanatismo musulmano in Iran, la guerra civile in Libano, hanno definitivamente distrutto i sogni di una disalienazione su scala planetaria. La sinistra romantica ha pagato caro il suo disprezzo delle sfumature. La sua passione per l'assoluto fu crudelmente derisa e malmenata dai regimi e dagli Stati che utilizzarono la sua retorica per meglio piegarla ai loro disegni. Nel suo entusiasmo, essa aveva falsificato così bene gli esseri e le cose a suo piacimento che impiegò molto tempo a comprendere il suo tragico errore. Divenne evidente che la purezza del Terzo Mondo premeva molto più a noi che a esso stesso. Amareggiati, delusi, gli antichi partigiani si rimisero a pescare nel torbido, trasformarono la fonte d'ingenuità in cloaca, descrivendo minutamente con ignorare l'uno e l'altra, a esclusivo profitto del pugno di burocrati che monopolizzano il potere a Pechino; senza Mao, la Cina e i cinesi non attirerebbero la loro attenzione nemmeno per un minuto », scrive benissimo SIMON L E Y S , Images brisées, cit., p. 1 8 4 .
machiavellica esaltazione tutti i tradimenti del loro sogno. E, poiché il risentimento è più legittimo se riguarda una promessa mancata, si provò un giubilo osceno a elencare gli insuccessi del Terzo Mondo. Da un giorno all'altro, i fabbricanti di lontani orizzonti idilliaci si trasformarono in tetri contabili dell'inferno dal volto tropicale. Così agonizza una solidarietà che era stata, fin dall'inizio, una trappola. Solo vent'anni separano il momento dell'apogeo da quello della caduta. Il bambino che a dieci anni ha assistito alle prime manifestazioni a favore dell'Algeria indipendente, ora, giunto all'età virile, vede spegnersi il fervore che, da studente, aveva creduto gettasse le basi di un radioso avvenire. E vero che il disincanto di molti intellettuali, subito dopo la guerra d'Algeria, frustrati nella loro attesa e nelle loro speranze dalle realtà della nuova indipendenza, avrebbe dovuto temperare gli ulteriori messianismi. Come era accaduto con il FLN, per il tramite indiretto di stati maggiori o di nazioni straniere, l'Occidente continuava a regolare i conti con se stesso, a ridurre gli altri alla condizione di strumento in una rivalità interna. Donde il brutale voltafaccia del progressista, appena il suo esotico balocco lo ha deluso: la simpatia eccessiva reca in sé l'indifferenza che la seguirà inesorabilmente a partire dalla fine degli anni '70. La rivoluzione o l'oblio: gli oppressi erano sottoposti a questa brusca alternativa, atto divorante rispetto al quale nulla aveva importanza. L'ebbrezza finì quindi nella tristezza. Abbiamo bevuto il vino della fraternità fino a ubriacarci, e ora ci svegliamo da una cattiva sbornia. Si era andati a letto la sera con una bella donna per una notte d'amore senza fine, e ci si sveglia all'alba accanto a una sinistra sgualdrina che ci soffia in faccia un alito impestato. La solidarietà era dunque ambivalente: ci accompagnava fino al momento in cui ci tradiva. Pretendeva d'essere insaziabile, arrecando ogni volta più calore, più intimità, era una vertigine, una spirale la cui fine si perdeva nella propria accelerazione: al primo, inebriante catalogo delle fraternità segue la lista disincantata dei crimini commessi. Dopo la somma delle conquiste, don Giovanni fa il conto dei suoi insuccessi. L'impossibilità di trovare una radice unica dell'ingiustizia, l'obbligo di applicare un'analisi parti-
colare a ogni paese generano una deflazione amorosa. Non c'è più accordo, matrimonio fra le grandi lotte: ciò che è falso in Europa resta vero in America latina, e Reagan, oppressore del Nicaragua e del Salvador, può essere sentito in Polonia come un alleato contro i russi. Al conformismo dei bigotti succede la delusione di quelli che sono stati messi alla porta. Vedono affollarsi intorno a loro i fantasmi dei paesi che la loro passione aveva di volta in volta idealizzato; e arrossiscono di questi amori insensati. Il disinganno si trasforma in collera; anziché prendersela con se stessi, puniscono i paesi un tempo adorati voltando loro le spalle. Trasferiscono la causa del peccato nell'oggetto allettante; anche là dove sono i principali responsabili, accusano la brillante paccottiglia. Già si vedono come vittime di un complotto, si è abusato della loro fiducia.85 Decisamente, il Terzo Mondo era solo una femmina maledetta, simile all'Eva biblica. L'occidentale abbagliato credeva di abbattere il muro d'odio e di disprezzo che aveva contrassegnato l'epoca coloniale: ma era una falsa breccia, che recava l'autismo come sua perversione strutturale. Si adorava ogni giorno un dio diverso, si proclamavano definitivi valori che cambiavano quotidianamente, insomma si corteggiava l'aspetto peggiore del relativismo che seppellisce sia la mentalità storica sia le durevoli conquiste dell'uomo. Le cause grandiose che un tempo facevano riversare nelle strade delle capitali europee centinaia di migliaia di giovani, ormai non suscitano altro che un'alzata di spalle. Poiché il Terzo Mondo resiste alla semplificazione, ce ne distogliamo, spaventati dalla complessità che intravediamo in esso. Lo spretato della vigilia giura che non ci ricascherà più, e calpesta con rabbia maligna gli Ersatz del divino cadavere. Donde il terribile silenzio della sinistra ufficiale sui massacri in Cambogia, l'esilio del boat-people, la resistenza afghana, la repressione in Cina, denunciata solo da privati o da organismi privati.86 La cosa stupefacente è il contrasto fra i clamori di ieri e il lassismo di oggi: niente più manifestazioni, sfilate, 85 Titolo delle Nouvelles littéraires sulla Cina: « Ci hanno ingannati» (ottobre 1980). 86 Bernard Kouchner ha descritto molto bene questo disincanto e
analisi, più niente: i paesi fratelli sono stati decisamente cancellati dalla carta.87 A parte l'interminabile conflitto israeliano-palestinese rilanciato dalla guerra del Libano nell'estate 1982,88 tutte le nazioni dell'emisfero Sud si disputano oggi la leadership dell'indifferenza. Di quale ci disinteressiamo di più? La Cina ci lascia freddi, la Cambogia di ghiaccio, l'India di marmo, e in quanto all'Albania, c'è da chiedersi se sia mai esistita. E, anche qui, non ci disinteressiamo tanto degli Stati, quanto dell'ideologia socialista di cui essi erano i più vivaci la dimissione della sinistra nell'opera L'Ile de lumière, Ramsay, Edinburgh, 1980. 87 A proposito della terribile repressione che oggi colpisce la Cina, J.-F. Khan si domanda assai giustamente: « Ma dove sono i meetings di protesta, le petizioni, i sit-in davanti alle ambasciate, i manifesti di intellettuali, gli editoriali indignati, i congressi di dissidenti? Come? Ciò che è scandaloso dall'Elba al Volga sarebbe accettabile sulle rive dello Yang Tze. Normale razzismo: sono soltanto dei cinesi» (Les Nouvelles littéraires, ottobre 1980). 88 Anche qui, e senza voler entrare in una polemica che non si è ancora spenta, ci si è concentrati non tanto sugli avvenimenti in se stessi, quanto sulla loro interpretazione. Da una parte si è fatta strada una volontà di criminalizzare Israele nei suoi minimi atti e di metterlo al bando delle nazioni, e certi organi di stampa non esitano a parlare di genocidio a proposito dei bombardamenti di Beirut; dall'altra, in molti intellettuali ebrei, la vigilanza si diresse unicamente sul linguaggio impiegato dai media, tanto che ben presto essi si rifiutarono di qualificare i fatti per concentrarsi sul modo in cui erano riferiti. Preferivano, secondo l'espressione di Jean Daniel, «osservare gli osservatori », piuttosto che preoccuparsi della realtà. Da una parte e dall'altra, sembrava che si fossero dimenticate le dimensioni e la realtà del conflitto. All'odio anti-israeliano della sinistra comunista - la ferma posizione del PS impedì all'intera maggioranza di cadere in un delirio anti-israeliano prossimo all'antisemitismo - rispose l'ostinazione di certuni a terrorizzare i giornalisti trattandoli da bugiardi. Ci volle lo straordinario soprassalto morale del popolo israeliano, all'indomani dei massacri di Sabra e Chatila, per ricordare, ai primi, che Tel Aviv non era la capitale di un nuovo Reich mediorientale, e ai secondi che nessuno Stato, fosse pur quello del popolo eletto, può sottrarsi alla propria responsabilità.
pupilli. Destinati a non vedere altro che il nostro riflesso nello specchio del governo cinese, angolese o vietnamita, quando accusiamo questi paesi non condanniamo, appunto, che il nostro riflesso. La nostra prevenzione nevrotica contro tutto ciò che veniva dall'Occidente si trasforma in fobia sistematica di tutto ciò che ci giunge dal Sud. I tumulti del mondo, il persistere di flagranti ingiustizie, il depauperamento continuo dei paesi privi di risorse, le cieche carneficine compiute da quasi tutti i regimi ci lasciano freddi, coi piedi per terra. Come se la tenacia del nostro rancore fosse proporzionata alla profondità della nostra delusione, gli accenti gloriosi e febbrili degli anni d'entusiasmo hanno lasciato il posto ai tiepidi sussurri degli « anni orfani ». 8 9 1 nostri nuovi disillusi hanno ormai l'intelligenza della vecchiaia, vale a dire la lucidità di chi non può più nulla. Saldiamo i conti con i capricci dell'adolescenza, anche se qualcuno ha ancora un pensiero affettuoso per quelle puerilità che sanno di rancido. L'intelligenza depressa giura che non si rimetterà più a sostenere negri pazzi, dittatori col sigaro, imperatori col berretto, negus rossi. Dopo aver scoperto nei nostri compatrioti sconcertanti sadismi, fu inevitabile riconoscere la stessa propensione anche in quelli che erano stati portati alle stelle. Niente più obblighi dunque, niente più doveri da compiere verso quelle lontane capitali dove la vita si decompone fra miseria, anarchia e repressione. Il cinese, l'indiano, l'uomo del Gabon restano effettivamente miei fratelli: nel senso che condividiamo fraternamente la stessa constatazione del fossato che ci separa; la nostra amicizia è innanzi tutto il mutuo riconoscimento della distanza che ci divide. Ciascuno a casa sua e niente più mescolanze. Il terzomondismo, malgrado i suoi eccessi, era ancora un luogo dove gli uomini potevano avvicinarsi, salvo poi combattersi. Rendeva le amicizie precarie, basate su un malinteso, ma le rendeva possibili. Faceva dire noi, dopodiché, in verità, faceva di questo noi un superlativo del17o. Per questo, più le poste in gioco che il terzomondismo 89 Les années orphelines, titolo di un'opera di Jean-Claude Guillebaud, Seuil, Paris, 1978.
Sartre terzomondista? Una tenace leggenda continua a presentare Sartre come il campione del terzomondismo, una specie di estremista delle giovani nazioni, il padrino naturale degli emarginati del pianeta, di quelli che non hanno diritto di parola. Ora, a riesaminare l'opera e la vita del filosofo, che cosa constatiamo? A parte il suo effettivo coraggio ai tempi della guerra d'Algeria - non dimentichiamo il clima di violenza che dilaniava la Francia del tempo e le minacce fisiche che gravavano sul «papa» dell'esistenzialismo - , l'atteggiamento sartriano di fronte al Terzo Mondo è un curioso miscuglio di masochismo e d'indifferenza. Masochismo: è il famoso «L'Europa è fottuta », la prefazione ai Dannati della terra di Frantz Fanon, di cui non si ripeterà mai abbastanza che rimane un tesoro di nullità teorica, di controsenso storico, di astiosa demagogia. E la fondazione magistrale di una nuova teologia, il terzomondismo e la sua ridistribuzione manichea delle colpe, quelle dell'Europa che derivano dalla sua stessa natura, mentre i torti dei paesi del Sud dipendono solo dalle circostanze. Ma, una volta maledetto l'Occidente, una volta data la firma in bianco per mezzo di Fanon ai nuovi regimi usciti dalla decolonizzazione, Sartre ritorna ai suoi prediletti studi e lima il suo saggio su Flaubert (L'idiota della famiglia). Consultate una biografia di Sartre: l'autore di Le parole viaggia poco fuori d'Europa, e sempre per inviti ufficiali (Cuba, Hanoi, ecc.). Rileggete la sua opera: niente o quasi sui grandi sistemi filosofici dell'Asia, le letterature africane o sudamericane, le religioni extraeuropee. Complessivamente, rispetto a Malraux, che egli insultò con abbondanza e indicò alla vendetta di tutti come ultima incarnazione della coscienza borghese, Sartre rappresenta una fantastica regressione, tenuto conto naturalmente delle sue pretese. Lui, che aveva l'ambizione di impegnare l'intera umanità nei suoi minimi gesti, è rimasto all'eurocentrismo meno critico, più ingenuo: l'incompetenza
nei riguardi dei paesi e delle vicende di cui trattava (rileggiamo a questo proposito le costernanti analisi sul colonialismo e il neocolonialismo in Situations v), la sua ignoranza quasi totale delle culture straniere, contrastano con la volontà di Malraux di pensare l'Europa sempre in prospettiva con le altre civiltà. Qualunque cosa si possa pensare della sua mitomania e delle sue acrobazie verbali, Malraux è andato sul terreno, ha sempre scritto da conoscitore e di conseguenza si è sbagliato raramente nelle sue intuizioni. Così Sartre decreta che l'Occidente è putrefatto e, dal fondo di questa constatazione, non si occupa più che dell'Occidente; si mette in pace con la sua coscienza ostentando una quantità regolamentare di cattiva coscienza. Finge di credere d'aver lasciato il terreno incerto della decisione etica per entrare nell'applicazione infallibile di un sapere, ma si lava le mani dell'applicazione di questo sapere. Colui che sciupò gran parte del suo talento nell'estetica della violenza e dello stalinismo diede prova, di fronte al Terzo Mondo, non solo di dogmatismo, ma anche d'inconseguenza. Questo refrattario era soprattutto un disertore. Sartre abdicò davanti ai regimi rivoluzionari (ricordiamo la sua quasi-apologia del massacro degli atleti israeliani nel 1972, ad opera di membri dell'oLP), così come abdicò davanti ai maoisti, coprendo col suo nome idee e atti che andavano contro le sue più intime convinzioni. Ma il fatto è che, nel profondo, se ne infischiava. II piazzista del Terzo Mondo accettava quest'ultimo solo a condizione che riempisse il quadro familiare della vittima da cui non si ha niente da imparare. Il teorico dell'impegno sempre vigile, il maniaco della petizione provava un vero interesse solo per gli uomini della sua tribù. Internazionalista convinto, mal nascondeva un felpato provincialismo. Questa curiosa disinvoltura aiuta a capire tanti impegni di altri intellettuali contemporanei o posteriori a lui. Ora, è proprio della carenza del maestro
che i discepoli hanno fatto un sistema, di Sartre hanno conservato solo la tendenza alla solidarietà astratta, l'abitudine delle formule generose ma troppo generali, la sollecitudine puramente verbale per gli altri, la propensione a vedere il Terzo Mondo come un'opera buona che per altri versi si disdegna in gran parte. L'anti-Sartre, oggi, è Naipaul, cioè il consenso disincantato alla scuola dei fatti, la volontà di prendersi per il bavero con esseri umani in carne e ossa e non con idee pure, in altri termini la simpatia attiva e critica verso le nazioni tropicali. E vero che Naipaul, indiano di lingua inglese nato nei Caraibi, è apolide. Sartre, purtroppo, era solo francese, con tutto l'egocentrismo innato, l'indifferenza viscerale per lo straniero che ciò presuppone. *
* Rivelatrice a questo proposito è la condiscendenza con cui Sartre ha sempre trattato gli scrittori senza patria. Già in Situations I, rimprovera a Nabokov di non appartenere a nessuna cultura. Più tardi, in un'intervista, definirà Samuel Beckett e Ionesco colpevoli « d'essere esterni alla nostra lingua e alla nostra società » (citato da D E N I S H O L L I E R , Politique de la prose, Gallimard, Paris, 1982, p. 34). Lui, Sartre, che ha sempre scritto con gli occhi fissi sull'azzurro profilo dei Vosgi, ha avuto, per stigmatizzare l'anti-Francia, accenti degni di Barrès e Maurras.
soppesava divennero grandi, più esso finì per isolare le nazioni, separare razze, temperamenti, culture che credevano grazie a esso di superare la solitudine. Malgrado il suo messaggio universale, si dimostrò impotente a stringere legami con l'esterno. L'amicizia restava subordinata alla strategia, il guerrigliero era un compagno di strada. Bastava che la strada si biforcasse, e addio amico! L'ex catecumeno che ieri soffriva di presbiopia - la sua visione degli oggetti lontani era migliore di quella degli oggetti vicini - oggi è arrivato alla miopia delle grandi maggioranze: per lui, come per la gran massa dei francesi, dei tedeschi, de-
gli italiani, degli spagnoli, la parola d'ordine è quella sostenuta da Raymond Carrier: gli affari propri hanno la precedenza. Certo, non cerca più di indurre gli altri a condividere in modo brutale la sua verità: eccolo incapace di sopportare l'esistenza altrui come diversa. Fra sé e «loro» ha elevato una barriera più forte della cupidigia o dell'imperialismo, il disinteresse. Ormai, le sensibilità terzomondiste sopravvivono nella morbosa attrazione per continenti che vanno in rovina. Donde una simpatia negativa basata sulla legge dell'afflizione e del rimpianto. Ora ci s'incanaglisce a contatto col dolore del Sud: si è passati dalla vociferazione alla commiserazione.
La pietà o lo sfogo del democratico emofiliaco
Questa giovane donna si irrita perché ha le scarpe bucate che lasciano passare l'acqua. Se le dico: « Che importa! pensate ai milioni di uomini che muoiono di fame in fondo alla Cina», mi risponde con rabbia: «Quelli sono in Cina, ed è la mia scarpa che è bucata». Invece, ecco un'altra donna che piange sull'orrore della carestia cinese. Se le dico: « Che v'importa? Mica avete fame! », mi guarda con disprezzo: «Che importa il mio benessere! » SIMONE DE B E A U V O I R , Pyrrbus et Cinéas ( 1 9 4 4 ) , Gallimard, Paris, pp. 236-237. [Tr. it.: Per una morale dell'ambiguità, Pirro e Cinea, Garzanti, Milano, 197516.]
Forse è tempo di riconoscere che l'ipocrisia non è solo un brutto difetto contingente dell'uomo, ma la lacerazione profonda di un mondo attaccato insieme ai filosofi e ai profeti. Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità, Jaca Book, Milano, 1980.
EMMANUEL LÉVINAS,
Duemila anni di peccato originale hanno finito per fare di voi dei colpevoli compiacenti. HENRI CORBIN,
citato da Daryus Shayegan.
La fame
polaroid
L'occhio di Caino La scena è una sala da pranzo all'ora del telegiornale. La famiglia si mette a tavola. I piatti sono già pieni, ognuno si accinge ad alzare la forchetta, quando il viso del presentatore s'irrigidisce: ci parlerà di un problema drammatico: la fame nel mondo. Subito i proiettori illuminano i bassifondi del nostro pianeta: dagli imbrogli della politica internazionale si passa, senza transizione, ai paesi poveri, che, davanti a noi, si denudano i fianchi, mettono in mostra le loro piaghe. I cavalieri dell'Apocalisse arrivano a domicilio; ora sono bambini denutriti dal ventre gonfio, e questi bambini ci guardano con enormi occhi che ci trapassano da parte a parte; oppure è un contadino del Sahel che coltiva qualche ara di miglio e di arachide, povero da sempre, ma con la disperante sensazione di esserlo sempre di più; ora una donna col suo bambino, una donna di grande bellezza, paurosamente magra, che muore d'inedia sul bordo di un sentiero in Cambogia, e che nessuno può più soccorrere; ora una bambina che va in giro nuda in una landa desolata. Accanto a lei i cadaveri dei genitori che sono morti durante la notte e che nessuno seppellirà. E un corpo mutilato che attende la sepoltura su un marciapiede di San Salvador o lungo una strada del Guatemala, un corpo che imputridisce in una fossa comune nel Cile, i resti di un suppliziato che galleggiano sul filo della corrente nel rio de la Piata; sono file di uomini, le mani incrociate sulla nuca, allineati lungo un muro di fronte a una squadra di soldati, con le armi automatiche spianate sugli ostaggi. Il campo si allarga e apre su quartieri popolari africani, arabi, asiatici, o nelle An79
tille, dove crescono ragazzini febbricitanti, in mezzo all'odore pestifero delle paludi, nutrendosi per sopravvivere dei topi che catturano, delle immondizie in cui frugano. E un'esposizione permanente di uomini e donne indeboliti, rachitici, di villaggi dalle casupole in rovina che ben presto si confondono con l'argilla da cui son nati, di grumi umani il cui ambiente è la putrefazione, l'orizzonte una fogna e l'alimentazione le carogne. E gli occhi di questi morti viventi ci accusano: il loro sguardo è un verdetto, un giudizio che c'impone di rispondere, noi ben provvisti, ben pasciuti.1 Questi affamati c'imbarazzano, la loro ripugnante condizione ci rovinerà il pranzo; perché programmare simili orrori alla televisione nell'ora in cui la Francia si ristora? Eccoci d'un tratto responsabili di una responsabilità estranea al nostro consenso, eccoci messi con le spalle al muro. Non possiamo più invocare la beata ignoranza: ormai sappiamo... Innegabilmente, queste immagini descrivono il fallimento della nostra epoca; la loro atrocità non lascia nessuno spazio alla speranza. Invece di ingrandire il regno umano, le centinaia di migliaia di moribondi del Sud oppongono ai progetti degli altri la loro interminabile agonia, sgonfiano i valori che ci sono più cari, mettono in ridicolo le formidabili aperture scientifiche o artistiche della comunità internazionale. Sentiamo che la nostra fede morale nell'uomo non guarirà da questa ferita. E poiché ogni giorno, con i media, l'umanità entra in possesso della propria disgrazia, se ne sprigiona una coscienza Pierre Herbart, ex militante comunista, indagando per conto del Partito in Indocina, fra le due guerre, sui misfatti dell'amministrazione coloniale, racconta un'esperienza quasi simile: « La strada mi portò fino a Vinh, capitale della fame. I supplici, dopo aver rosicchiato la scorza degli alberi, arrivano al punto di mangiare la terra. Poi se ne vanno barcollando per le strade che li portano alle città felici. Vogliono per l'ultima volta, prima di morire, contemplare i ben nutriti: i ben nutriti eravamo noi europei, che pranzavamo in albergo dietro una vetrata; e i bambini ci guardavano mangiare senza azzardare un gesto, perché sarebbero stati cacciati, ed essi volevano vedere come ci nutrivamo» (La Ligne de force, Gallimard, Paris, 1958, p. 48). 1
apocalittica dell'universo; facendo quotidianamente il bilancio delle sofferenze del globo, le reti radiofoniche e televisive danno del nostro pianeta un'immagine tremenda: il peggiore dei pianeti possibili, non c'è alcun dubbio.
Il grande livellamento E, d'un tratto, le immagini cambiano: un fiotto d'informazioni annega, sotto le sue chiacchiere, la carestia del Sahel, gli scheletri dell'Uganda, i carnai di Pnom Penh. E il pranzo riprende, confortato dai problemi più banali della sessione sul bilancio, della delinquenza in periferia o del reinserimento dei detenuti. Il principio della rotazione ha funzionato. Impercettibilmente, l'orrore si attenua davanti al ronzio televisivo, i nervi si ottundono, l'intensità dell'emozione cala. La tecnologia dei media ha recato il turbamento in mezzo alla nostra quiete; ma, come lo ha suscitato, così lo dissipa; facendo penetrare gli altri popoli nel nostro appartamento, ci ha offerto l'illusione di una comunione con un prossimo, il quale non è che un riflesso. Questo riflesso ci accusa, ma non si patisce per le minacce di uno spettro. Lo schermo fa schermo non appena si tratta di comunicare, l'universo è penetrato nella nostra vita senza farle violenza. L'intreccio fra i nostri drammi privati e l'epopea mondiale avviene sempre a detrimento di quest'ultima. Così vuole il funzionamento dei media: si avrebbe torto attribuendo allo spettatore un'incostanza di cui non è l'unico responsabile. Una buona informazione non copre solo l'avvenimento, ma si costringe anche a un'originalità quotidiana. Duplice esigenza di rinnovamento e di rappresentazione che definisce lo spettacolare. Così i fatti, succedendosi, si fanno concorrenza: una conferenza sul disarmo non si contenta di seguire al resoconto di una carestia in Asia, lo cancella e lo soppianta. Ciò che viene dopo, è ciò che viene al posto di, il tessuto cronologico è senza continuità. Dal punto di vista dei media, tutto si equivale: l'oblio è la contropartita necessaria dell'attenzione
che dobbiamo dedicare allo svolgimento delle attualità. Certo, quel filmato spaventoso ha attirato molti insulti sui media: quei corpi scarniti mentre l'Europa è a tavola, è una cosa che sfiora il cattivo gusto. Era un buco, una specie di lapsus nel discorso narcotico, un atto che lanciava la sua protesta in un universo saturo. Ma questa virulenza non ha smentito l'impotenza caratteristica dei media: la televisione, il giornale, la radio hanno un effetto sinistro, che è quello di giustapporre i fatti, cioè di rendere tutto anodino. Spot pubblicitari, dichiarazioni ministeriali, guerre lontane, minoranze massacrate, matrimoni principeschi, nascite plurigemellari, i generi si accavallano; le faccende più abominevoli si uniscono nello stesso torpore alle più futili banalità. Non sarà certo una visione d'orrore in una determinata fascia oraria che infrangerà l'immutabile scenario del nostro ambiente, e l'angosciosa suggestione delle disgrazie altrui finisce per confondersi nel letargo giornaliero. Ricevitori assidui, siamo sempre distratti dall'immagine precedente a causa di un'altra immagine, senza che nessun fenomeno c'impressioni più di un altro. Il grande spettacolo dei nostri riti espiatori, la monotonia ripetuta delle loro suppliche e dei loro appelli alla carità, drammatizzano lo statu quo e ci fanno vivere vicino a cataclismi lontani; ma i media possiedono una forza banalizzante che fa loro inghiottire le cose più forti. Ogni sera, il telespettatore scopre una nuova crociata che fa presto a relegare nell'oblio quella precedente. All'indomani di una tale crisi, dovrebbe essere impossibile vivere e nutrirsi come prima. La visione del male avrebbe dovuto lasciare almeno una traccia, una minuscola cicatrice. Ma l'abitudine viene a capo dei peggiori scandali. Le notizie non ci fanno uscire dal quotidiano: le realtà più mostruose possono entrarvi segnate col bollo del già visto. Col piccolo schermo, l'orrore stesso diventa digeribile e non è più destinato a sorprenderci. C'è conflitto tra il messaggio e il medium che lo diffonde, e la televisione è il miglior antidoto al potere di mobilitazione delle proprie immagini.
Insignificanza dell'esagerato Ammettiamo tuttavia che un reportage particolarmente duro ci abbia impressionati al di là del tempo della trasmissione, che le acque della memoria non si siano richiuse. Sorge allora ciò che un pensiero marxisteggiante chiama una « presa di coscienza».2 Uno schermo cade, un lembo d'ignoranza si sgretola. Questa forza distinta ci ha commossi; ci spingerà all'azione? Ma quale azione? Il telespettatore anonimo, perduto nella massa delle grandi periferie o delle cittadine di provincia, da che coscienza dei suoi doveri è animato, una volta spento il televisore? Ha ceduto senza dubbio alla compassione davanti ai miseri. Molto probabilmente, anche, questa compassione si è accompagnata a una fuggevole ombra di vergogna. Ma al di là di questi accessi di cattiva coscienza? In che misura si sente effettivamente coinvolto in problemi che giungono da più di diecimila chilometri di distanza, fra popoli con cui non ha nulla in comune? Un piede a Montreuil, un altro ad Addis Abeba, come può convincersi della necessità di una solidarietà mondiale? E un'ombra di temibile ampiezza. Quegli animali selvatici, irsuti, che poco prima gli sfilavano sotto gli occhi, indiani, africani, guatemaltechi tutti bruciati dal sole, attaccati a una terra ingrata, sottoposti alle brutalità della polizia o dell'esercito: che rapporto avrà mai con loro? La caratteristica di tutte le campagne per diffondere la consapevolezza, è che si conoscono sempre più cose senza per questo potervi rimediare meglio. L'importanza dell'obbiettivo proposto, sradicare la miseria, è così enorme che non si può fare un sol passo nella sua direzione. E la generosità del libretto d'assegni appare ridicola. Ecco quindi i media o i giornalisti costretti, 2 Erede dell'ottimismo pedagogico del x i x secolo, l'idea di « presa di coscienza » presuppone due cose: l'una, che il male e lo sfruttamento sono prodotti dell'oscurantismo; l'altra, che solo l'istruzione è in grado di mobilitare le buone volontà, di risolvere i malintesi, di riconciliare l'umanità. Nessuno è cattivo per sua volontà, diceva già Platone. Ma quest'arringa in favore del sapere dimentica che la volontà umana, anche se istruita, non è incompatibile col male.
per fustigare il nostro egoismo, a lanciarsi in una gara al rialzo che si esercita su due piani: verso gli spettatori, verso l'immagine. Verso noi che guardiamo, un fatto s'impone con la nettezza di una pugnalata: la nostra agiatezza è un privilegio sbalorditivo. I bambini vecchi dalle gambe a stecchino di Calcutta o di Karachi, le ammucchiate infra-umane di Dakka o di Bamako ci condannano. Mentre noi ci rimpinziamo, altri muoiono; i nostri stomaci si riempiono con quel che togliamo a queste popolazioni. Insomma, « è come se ogni giorno togliessimo il pane di bocca ai più poveri fra i più poveri».3 Volete subire il verdetto delle cifre? 462 milioni di uomini sono sottoalimentati, 560 milioni vivono in uno stato di povertà assoluta; ogni giorno sulla terra muoiono 16.000 persone, soprattutto bambini.4 Questi esseri muoiono per colpa nostra, « per l'unico motivo che non abbiamo fatto di tutto per difenderli».5 «Che cosa continua in mezzo alla nostra mostruosa indifferenza? Il più grande genocidio della storia dell'umanità, che uccide più uomini di Hitler e Stalin messi insieme, ogni anno... Ma, non è vero, le tasse, le nazionalizzazioni, la Borsa che crolla, il bollo di circolazione e la benzina che aumentano, sono tanto più importanti e ci riguardano direttamente... Che vergogna! » 6 Insomma, «il mondo nel quale viviamo è un immenso campo di sterminio»;7 ogni giorno è come un «Buchenwald permanente» (Jean Fabre). L'ora del castigo è vicina, non è possibile che una tale infamia resti impunita: sotto i cenci degli affamati sonnecchia un guerrigliero che un giorno ci farà pagare la nostra vergognosa prosperità.8 3 MICHEL BOSQUET, « L a grande bouffe des affameurs» in Le Nouvel Observateur, 17 ottobre 1981. 4 Cifre della FAO per il 1981. 5 P I E R R E M A R C I L H A C Y , « De Passy à Cancun » in Le Nouvel Observateur, 7 novembre 1981. 6 R E N É D U M O N T , Le Monde, 14 ottobre 1981. 7 J E A N Z I E G L E R , Le mani sull'Africa, cit. 8 « Gli sguardi avidi che gli affamati dell'emisfero sud gettano sulle ricchezze dell'emisfero nord costituiscono un pericolo permanente
Come non sentirsi giudicati sul metro di un martirologio sublime, non sentirsi ignobili e nocivi di fronte a questo grande tribunale della tragedia, che celebra i suoi fasti nell'angusto perimetro dell'apparecchio televisivo o della colonna di giornale? Un Golgotha di sofferenze ci contempla, noi siamo i complici diretti di un sistema economico che saccheggia le risorse dei più sprovveduti.9 Davanti a questi crimini, ogni spettatore deve dirsi: Goebbels, sono io! Per convincere i cuori reticenti, i media non indietreggeranno davanti a nulla: all'enormità dell'accusa - siete peggio dei nazisti! - si aggiunge l'enormità di quanto viene mostrato. Nessun pudore trattiene la cinepresa; l'orrore non tollera censura, ogni immagine deve avere la sconvenienza di un limite varcato nell'angoscia. Si fa appello all'inaudito, al mai visto, e anzi ve ne fanno vedere anche un po' di più. Carestie, inondazioni, terremoti vengono riprodotti all'istante per le cineprese: catastrofi fissate su polaroid. Una catena ininterrotta di immagini va da quelli che mettono in scena la morte degli altri al pubblico del mondo intero, e questa catena dà a tutti il diritto di vedere tutto. Ma favorendo una soltanto delle nostre pulsioni: il voyeurismo. E poiché ci si immagina che, per scuotere gli animi, occorre uno spettacolo sempre più crudo, si aprono all'avidità dello sguardo territori in cui nessuno era penetrato, si punta l'obiettivo su mutilazioni, torture, malattie ancora inedite sullo schermo.10 La semplice vista di bambini dal venper la pace e la stabilità » (preambolo alle mozioni del XIII Congresso dell'Internazionale socialista, Ginevra, 1976). 9 « Ci dicono che decine di migliaia di esseri umani muoiono o moriranno a causa di un ingiusto tiro del destino o dei capricci della natura. Noi invece diciamo che muoiono per salvaguardare i benefìci del capitalismo e che noi tutti, nei paesi capitalisti ricchi, siamo più o meno complici di questo saccheggio sistematico nella misura in cui riceviamo qualche briciola del profitto » (Comitato Informazione Sahel, «Six heures contre la famine», in Politique-Hebdo, 13-19 giugno 1974). 10 Si ritrova esattamente lo stesso fenomeno nei film dell'orrore: per commuovere, devono inventariare tutte le forme di paura, forzare gli effetti.
tre gonfio non vi basta? Vi mostreranno questi stessi bambini ridotti a scheletri. Ancora nessuna reazione? Eccoli ridotti a un mucchietto d'ossa e di pelle. Ecco sangue, ferite, ulcere purulente, croste di pus, viscere traboccanti, organi strappati... Solo la dismisura è in grado di commuovere il pubblico e di interessarlo a questi problemi. E se l'apatia persiste, vuol dire che, così si crede, le immagini non sono abbastanza spettacolari: quindi non vi saranno limiti all'asta degli orrori. Così si produce l'inevitabile perversione dello sguardo: prendiamo gusto al gioco, ne vogliamo sempre di più, la nostra soglia di tolleranza non cessa di aumentare; non chiediamo più di essere commossi, ma sorpresi: ogni volta ci occorre qualcosa di più piccante nell'abiezione. Il valore d'urto di un'informazione è indipendente dalla verità dei suoi termini. L'improbabile, l'enorme saranno considerati sempre meglio del verosimile. Conta solo l'impatto e non l'influenza.11 Non ci preoccupiamo più di sapere se quelle foto riguardano esseri reali, le vogliamo soltanto più speziate. E vinca la peggiore. Ma il catalogo della miseria è povero e condannato a rimasticare le stesse figure: siamo approdati all'inferno, ma nessun eccesso può evitare la saturazione e, dopo mesi, anni di simile trattamento, siamo portati irresistibilmente a comprendere nel nostro disgusto gli uomini e le donne cui queste immagini si riferiscono. Lo choc non avrà né avvenire né sanzione: nasce e si estingue in un istante. In questa marea di disastri tali da « considerare sospesa ogni altra attività », come potrebbe il pubblico fare a meno di smarrirsi? I media riescono quindi nell'impresa di renderci indifferenti dinnanzi a fenomeni sui quali non abbiamo alcun potere, di rendere l'intollerabile tollerabile: viviamo la sovrapposizione dei contrari, attualizziamo 11 Si sa che la stampa e la televisione si sono spesso lasciate trascinare per 0 gusto del sensazionale a presentare Beirut assediata dagli israeliani durante l'estate 1982 come una nuova Stalingrado. Il valore d'urto dei cliché e degli slogan ha soppiantato l'amore della verità. « Il peso delle parole, lo choc delle immagini» (Paris-Match). E evidente che un simile slogan non può essere rispettato: se le fotografie possiedono un impatto, è perché le parole non hanno più peso.
insieme l'orrore (le epidemie, i massacri) e la sazietà (siccome non possiamo farci nulla, queste immagini ci stancano con la loro insopportabile monotonia). Al di là di ogni giudizio di valore, è il dosaggio specifico di queste due impressioni che colpisce il pubblico. E una leggera nausea comincia ad aggiungersi alla vergogna e alla frustrazione. Considerate dapprima a titolo d'eccezione, queste trasmissioni vengono ben presto consumate come stereotipi; la loro violenza si smorza, la loro funzione accusatoria non resiste al discredito della ripetizione. Il survoltaggio emotivo porta dritto all'inerzia: in un mondo in cui tutti i paesi sembrano colti da un delirio alla Hyeronimus Bosch, dove gli uomini raffinano sempre più la loro crudeltà e gli odi fratricidi, il nostro senso di colpa è un itinerario che va dalla depressione alla stanchezza. L'anormale diventa una categoria della banalità; non è più la ragione che balbetta, è «la demenza che ragiona», secondo la bella espressione di Giinther Grass.12 Non avere rapporti con l'Altro lontano se non per mezzo dello schermo televisivo, della pagina di giornale o degli appelli alla carità degli organismi internazionali, vuol dire allontanarsi da un popolo che non si è mai conosciuto, stancarsi di un problema che non è stato risolto. Terribile paradosso: più la fame si estende, più la nostra indifferenza alle sue atroci devastazioni si estende anch'essa. I patetici appelli al risveglio, la seduzione dell'insulto che ripete la stessa e instancabile antifona: « Siete tutti assassini », invece di mobilitare, fa sbadigliare. Rimane allora una cattiva coscienza priva di forza e di volontà. Di fronte al Terzo Mondo, si è dunque passati da una tragica ignoranza a una tragedia dovuta alla ripetizione. Passata sotto silenzio, la fame era impressionante; è il fatto d'essere troppo conosciuta, troppo integrata nel costume, che oggi la rende drammatica. Non esiste alcun black-out su questi temi scottanti, anzi vi è una pletora d'inchieste, di cifre, di grida d'allarme, le nostre capacità emotive sono sollecitate in ogni senso; soffriamo di un eccesso di sapere, piuttosto che di 12 A proposito del libro di Nicolas Born, Die Falschung, Rowohlt, Hamburg, 1980.
una propaganda menzognera.13 Quando la catastrofe diventa quotidiana, si trasforma in fatto di cronaca.14
La sindrome
di
Calcutta15
Le buone intenzioni Tutto cambia quando, invece di vedere la miseria attraverso il filtro di una televisione, la si coglie sul vivo, in occasione di un viaggio in Asia, sotto i « tropici gremiti ». Eravate partiti pieni 13 Ciò rende ridicolo il nobile sdegno di François Schlosser che scrive, dopo aver citato un rapporto della FAO secondo cui l'effettiva nutrizione di più della metà degli abitanti del globo si sta degradando: « Si capisce che queste spaventose notizie siano diffuse solamente col contagocce nei paesi ricchi, se non del tutto soffocate. Perché questo deterioramento della nutrizione di cui soffre metà dell'umanità è proporzionale all'aumento dei profitti che vi realizzano le multinazionali del fiorente business agro-alimentare» (Le Nouvel Observateur, 17 ottobre 1981). 14 Si può, senza rischio di effetti ancora più perversi, privarsi di questa cassa di risonanza e di appelli contro l'egoismo istituito, che sono i media? Certamente no. Ma l'informazione mostra e diffonde tutte le morali possibili. Capace di creare a favore di una determinata catastrofe una sensazione di urgenza, è incapace di farla tradurre in atto. Non giustifica né i timori né le speranze che crediamo di riporre in lei. Ogni tentativo di manipolarla per renderla esemplare o benefica non può che esser vano, per le stesse ragioni; tale è la sua grandezza, tali sono i suoi limiti. 15 In apparenza, qui riprendiamo il cliché, che mostra ormai la corda, dell'India miserabile e pidocchiosa. Ma lo trattiamo proprio come tale: Calcutta, evidentemente, non è la sola città povera del Terzo Mondo. Ma, a causa della sua storia particolare e del numero dei profughi che vi si installarono dal 1942 e poi dopo la guerra indopakistana del 1971, simboleggia agli occhi degli occidentali la capitale assoluta della miseria. Che quest'immagine sia vera o falsa, non c'interessa: la prendiamo come tale. Poiché Calcutta è solo un riferimento, tutto quanto segue si applica egualmente a città diversissime come Manila, Giakarta, Seul, Il Cairo, Bogotà, Lima, San Paolo, ecc.
di rispetto per quel popolo, ripromettendovi in anticipo di evitare l'atteggiamento sprezzante, le zaffate di boria coloniale che prendono i turisti bianchi appena mettono piede in una terra lontana. Appena arrivati, siete colti tuttavia da uno stupore misto a paura; le strade sono mostruose colate di pedoni, un formicolio vibrionico di individui che salgono e scendono instancabilmente, e in cui nessun volto si distingue dagli altri. Nessuno vi guarda, ciascuno va per conto suo, come preoccupato della propria salvezza, e vi sentite un esemplare venuto da un altro mondo. Sballottato da una fiumana di esseri di cui nessuno vi è prossimo, comprendete allora la reazione di quell'inglese, nel secolo scorso, che non osava, in India, scendere in strada per paura di annegarvi. Questo torrente umano, che ha le sue piene e le sue magre, ma non si secca mai, vi confina in uno spazio ridotto, infinitesimale. Ben presto, aiutati dall'abitudine, avete meno paura di morire soffocati e i vostri occhi cominciano a osservare i costumi variopinti, le diversità delle fisionomie, gli edifici scalcinati che trasudano umidità. Evitate i depositi di immondizie, scavalcate gli scoli il cui sudiciume si spande all'aperto e, soprattutto, la folla di bambini, vecchi, adulti, sdraiati per terra, e che dormono a qualunque ora del giorno incuranti del tanfo, del rumore, dell'afa. Andate avanti, decisi ad affrontare questo flusso inarrestabile, quando un monco seguito da un nugolo di bambini vi viene intorno, vi supplica di fargli un regalo. Fastidio supremo, vi baciano i piedi e vi mostrano il cielo, promettendovi senza dubbio le più sublimi beatitudini in ricompensa di un gesto di bontà. Vi avevano avvertito: basta dare a uno, e li avrai tutti addosso... Che indecenza questo consiglio! Davanti a voi ci sono degli esseri realmente smarriti, per cui questo giorno potrebbe essere l'ultimo. Come pensare al proprio benessere, mentre tanti uomini forse non vedranno il sole domani? Quel ragazzino senza gambe, che avanza su un'asse a rotelle aiutandosi con due ferri da stiro che appoggia per terra, quel bambino senza mani sostenuto da una madre semicieca, quel lebbroso che tende verso di voi le dita corrose, chi potrebbe resistere
alle loro preghiere, come non vedere l'atroce decadenza di cui sono vittime?16 Sapete che certi genitori mutilano volontariamente la loro prole per meglio impietosire i passanti, ma il fatto che ricorrano a simili estremi non è la prova di una situazione senza uscita? Certo, questo grappolo di supplicanti recita un po' troppo bene la sua parte, balbettando in un incerto inglese, francese o italiano delle formule che sembrano altrettante litanie. Ma chi, professando la propria indigenza, non accentuerebbe la sua disperazione per meglio commuovere? D'altronde, non si tratta né di un gioco né di una finzione: ci troviamo in presenza dell'intollerabile, e l'intollerabile va distrutto. Perciò distribuite qualche monetina a uno, sigarette a un altro, accettate che il piccolo lustrascarpe vi pulisca i sandali già puliti, e vi allontanate, storditi dalla vastità del dramma, divisi fra la rivolta e il terrore. Come possono, gli autoctoni più ricchi, restare impassibili davanti alla sofferenza dei loro compatrioti? 16 « Chi volesse riderne o irritarsi se ne guardi bene, come da un sacrilegio. Sarebbe assurdo censurare quei gesti grotteschi, quei movimenti contorti, sarebbe criminale deriderli invece di vedervi i sintomi clinici di un'agonia. Una sola ossessione, la fame, ispira quel contegno disperato; quella fame che scaccia le folle dalle campagne, facendo aumentare la popolazione di Calcutta, in pochi anni, da due a cinque milioni di abitanti; che ammassa i fuggitivi negli angiporti delle stazioni dove li si scorge, passando col treno, la notte, addormentati sulle panche e avvolti nella cotonata bianca, oggi vestito e domani sudario; ed è sempre la fame a conferire la sua tragica intensità allo sguardo del mendicante che incrocia il vostro, attraverso le sbarre metalliche dello scompartimento di prima classe, sbarre che, come il soldato in armi accoccolato sul marciapiede, vi proteggono da questa muta rivendicazione di un solo, che potrebbe tramutarsi in un urlante tumulto se la compassione del viaggiatore, più forte della prudenza, non frenasse questi condannati con la speranza di un'elemosina » (Claude Lévi Strauss, Tristi Tropici, Il Saggiatore, Milano. 1965, p. 131). Come non ripetere che, di tutti i libri scritti sul Terzo Mondo, nessuno eguaglia in bellezza, verità e precisione Tristi Tropici, di un'attualità così bruciante che bisognerebbe farne leggere intere pagine alle scolaresche.
Certo, il vostro dono non è che una goccia d'acqua, ma avrete almeno permesso a quegli scheletri di rivestirsi di un po' di carne. E intimamente vi pavoneggiate al pensiero della riconoscenza che in futuro quegli infelici non mancheranno di testimoniarvi, se vi incontreranno di nuovo per la via. La coscienza dei tremendi problemi strutturali che affliggono quei paesi non vi ha impedito di cedere alla compassione. E vi ripetete la frase di madre Teresa: « Una volta mi hanno chiesto se era meglio dare alla gente che ha fame dei pesci o delle canne da pesca. Le persone che vengono da me sono malate o morenti. Sono così deboli da non essere in grado di tenere una canna. Bisogna prima di tutto dar loro del pesce; forse la canna da pesca verrà dopo».17
L'insostenibile Ahimè, la vostra gioia è subito guastata dall'apparizione, qualche centinaio di metri più in là, di altri mendicanti altrettanto pietosi, che agitano furiosamente i loro moncherini, ostentano il loro patrimonio di ulcere e di piaghe, con altre ragazzine di una quindicina d'anni che portano neonati macilenti, e altri ragazzini dalla voce nasale, mezzi nudi. Superate un principio di fastidio e date di nuovo, enumerando mentalmente le cause di tanta afflizione: il sottosviluppo, la sovrappopolazione, le ultime guerre contro i vicini, i residui dell'imperialismo, lo scambio diseguale, la dimissione delle classi dirigenti. Il giorno dopo, appena usciti dall'albergo, eccovi di nuovo al centro di un balletto di supplici che riunisce gli stessi personaggi della vigilia, più altri compagni di sfortuna. Gli stridi acuti dei mendicanti, le decine di mani che vi afferrano vi fanno notare da tutti. Borbottate: « Ma insomma vi ho già dato ieri». Tutti annuiscono con un gran sorriso estasiato: anche 17 Intervista a madre Teresa in occasione della consegna del premio Nobel (Newsweek, 18 agosto 1980).
Ma che cosa fa l'Occidente? Chi è l'Occidente? Numericamente, le popolazioni dell'emisfero Nord. Politicamente, una serie di governi democratici; sociologicamente, le classi medie. Ma, in Occidente, chi sfrutta il Terzo Mondo? Qualche società, che dispone di una potenza quasi regale? Sì, senz'altro. Ma questo non dà un volto concreto allo sfruttatore: perciò siamo tutti egualmente colpevoli. Ma è un verdetto inaudito. Colpevoli l'operaio come il padrone, l'accattone come il ricco?* Certamente no: vittime delle loro rispettive borghesie, ma anche complici. E il malinteso sussiste; quello che, per «Occidente», intende solo un'infima élite di amministratori delegati, alti funzionari, grandi responsabili, e quello che al contrario ingloba tutti i popoli delle nazioni industriali. Si passa così dall'unione di tutti contro alcuni all'antagonismo di tutti contro tutti. Ora ci si libera del fardello su un capro espiatorio, ora lo si assume. Quel che infastidisce, quando si dice « Occidente », è l'imprecisione del termine, l'assenza di un nemico tangibile. Da un Occidente senza volto a un Occidente che ha il mio volto e di cui sono il vettore, l'oscillazione è perpetua. Il fatto paradossale è che noi non siamo che uno strumento fra le mani delle multinazionali, e che tuttavia siamo tutti debitori delle loro pratiche. Ognuno deduce la sua colpa da quella degli altri per effetto di una mimesi istantanea, poi la comunità si rinsalda nell'odio che le ispirase non capiscono la vostra lingua, sono convinti che cederete; questi poveracci mangiano tutti i giorni e la rupia data ieri si è volatilizzata da un pezzo. Eppure vi eravate messi un jeans e una T-shirt sciupata per distinguervi dai «turisti», ma a quanto pare i locali non fanno differenza. E vero che siete di una piacevole corpulenza, ogni centimetro del vostro corpo vale il suo peso di carne ben nutrita, salda, paffuta; sul torace potete tastare lisci rotoli di grasso. Esasperati, vi frugate in ta-
no le classi dirigenti. O i mali di cui soffre l'umanità a causa dell'« Occidente » dipendono da un responsabile unico (le super-società) che siamo invitati a smantellare, o io mi assumo questa responsabilità e divento il nemico di me stesso. Capocchia di spillo o marea nera, minuscola pelle di zigrino o continente, Occidente è il nome di questo chiarore incerto. Bisogna lasciar la parola nel vago, perché sia temibile, perché il senso di colpa circoli bene come in un organismo irrorato, e ciascuno si senta un po' criminale, senza saper bene perché. Ciò permette, in occasione di una catastrofe o di un'epidemia, d'interpellare individualmente ogni Occidentale affinché si senta coinvolto. E l'indice puntato di chi impreca contro di noi, tiepidi e indifferenti. E tu, che cosa fai, Occidente? Nozione elastica dotata di singolare malleabilità: quando sento Occidente, posso dirmi che i colpevoli sono quelli là in alto, finché un colpo di frusta mi indica a mia volta alla vendetta di tutti. Occidente: è l'epiteto ingiurioso che fa di noi dei criminali senza che sappiamo esattamente perché. Vivere nell'emisfero Nord è una colpa sufficiente perché accettiamo di pagarne il prezzo ogni momento. L'Occidente è un personaggio kafkiano. * E la tesi che negli anni '60 aveva voluto accreditare l'economista Samir Amin, durante una celebre polemica con gli ideologi del PCF.
sca, respingete un vecchio che con la fronte stava per toccare i vostri sandali, quando un poliziotto, armato di un lungo bastone di bambù, vedendovi importunati da quei figuri, li disperde senza complimenti. Siete costernati: ha colpito degli infermi, bambini, donne, e tutto questo per la vostra tranquillità di individui ben pasciuti! E bastato un momento perché voi, militanti di sinistra, solidi umanisti, diventaste complici di un atto di repressione. Insultate il rappresentante dell'ordi-
ne il quale vi approva, perché, secondo lui, è chiaro che lo ringraziate del suo gesto. Sconcertati, vi allontanate a gran passi. Questo episodio vi ha guastato l'umore: cominciate a intravedere la vastità del problema. Da questo momento, cominciate a guardare con terrore ogni ragazzetto, ogni forma accovacciata che potrebbe sollecitarvi. Al crepitio delle raganelle che i lebbrosi agitano per attirare l'attenzione, vi allontanate come da una maledizione. I vostri occhi, invece di essere sensibili alla moltitudine formicolante, ai colori delle vesti, dei turbanti, dei sari, all'attività dei sarti che cuciono sul marciapiede, dei venditori di noccioline, degli spremitori di frutta, dei venditori di caramelle, degli astrologhi e pronosticatori di buona ventura, non scoprono in questo ronzio di alveare che miseria, espedienti, istinto di sopravvivenza. Tutto il paesaggio emana la stessa odiosa angoscia. E deciso: prenoterete un biglietto ferroviario alla stazione centrale per lasciare questa città al più presto. Vi eravate proposti di passeggiare un po' all'ombra dell'immensa cupola di stile vittoriano, ma appena avete varcato il recinto della stazione vi sembra di essere penetrati nel sinistro girone di un qualche inferno. E meglio tirare il fiato due volte, perché il cocktail che vi aspetta qui è più forte di tutto il resto. L'atrio della stazione è un immenso dormitorio. Non sono gruppetti disseminati nella folla, ma vere e proprie distese di agonizzanti, sdraiati sul nudo cemento, il cui numero è superiore a quello degli eventuali viaggiatori. Degli esseri sono allineati sotto brandelli di sacchi e di stoffe, da cui escono mani corrose dalla cancrena, da pustole repellenti. Avanzate a stento fra questi giacenti come su un terreno paludoso, per raggiungere uno sportello. I corpi sono gettati là come merce avariata, come se attendessero, per scomparire con la loro magrezza, i loro eczemi, i loro lupus, che la nettezza urbana venga a portarli via, ed è impossibile distinguere se dormono o sono già morti. Nessuno presta loro attenzione: talvolta, lentamente, qualche palpebra si solleva; occhi incavati, enormi e vuoti, intorno ai quali ronzano le mosche, vi guardano; intorno, altri esseri in preda alle convulsioni della febbre sono disseminati in tutti gli atteggiamenti della prostrazione e dello
spasimo. Questi sono già troppo deboli per mendicare. Più lontano, è tutta una marmaglia stesa per terra, che non ha più nemmeno la forza di alzarsi, è una corte dei miracoli, un mucchio di ossa, di capelli, di membra minuscole, rattrappite; è una razza calpestata, non tanto vile quanto avvilita, schiavizzata, e questa marea cenciosa vi prega, vi chiama, vi trattiene, ma così piano che li respingete con un semplice movimento del piede. Le sale d'aspetto sono piene di gente stravaccata, prostrata dalla fatica, ossessionata dall'idea di dormire per ingannare la fame. Gli scarafaggi corrono sul pavimento senza timore di questo carico umano che regge l'anima coi denti.18 Restate interdetti, rinunciate a fare due ore di coda davanti a uno sportello e tornate indietro a passi lenti, mentre vi piacerebbe scappare a gambe levate. Fuori, vi gettate in un taxi, impazienti di ritrovare le comodità del vostro albergo. Ma un ingorgo immobilizza il vostro veicolo in piena periferia. E un terreno piatto, coperto da una montagna di immondizie in cui nugoli di bambini frugano, mezzi nudi. Grandi avvoltoi incrociano nel cielo, agitano con un rumore secco l'aria puzzolente e qualche volta si tuffano giù disputando un pezzo di cibo ai bambini. Alcune vacche sfiancate, dalla pelle coperta di placche, brucano le immondizie; dietro i ruminanti, una coppia di donne raccoglie religiosamente con le mani i loro magri escrementi, e li impasta per farne combustibile. Appena vi vedono, i piccoli lasciano i mucchi di rifiuti fumanti e vengono a bussare al finestrino del taxi a mendicare una paisa. Non date niente, ordina l'autista. Non sapete che fare e pregate in silenzio perché l'ingorgo cessi. Un nugolo di manine vi afferrano, vi prendono per il colletto, ben decise a non mollarvi finché avrete dato qualcosa. Vedete la vostra camicia bianca coprirsi di tracce 18 « In Europa, la miseria ha la sua profondità e le sue dimensioni, o almeno i nostri imperfetti metodi statistici permettono di delimitarla e misurarla. La miseria accumulata nei grandi centri urbani dell'India è lugubre al di là di ogni descrizione e le sue dimensioni sono quasi inafferrabili per l'osservatore abituato alle norme dell'Occidente» ( T I B O R M E N D E , L'Inde devant l'orage, Seuil, Paris, 1 9 5 0 , p. 6 9 ) .
nerastre. Questa piccola muta sarebbe meno temibile se, in ognuno di quei visi emaciati, non si spalancassero due occhi indagatori. Tutte queste coscienze vi digeriscono, vi etichettano, lasciano cadere uno sguardo sprezzante od ostile. Alla fine il taxi riparte. Ma alcuni bambini si sono aggrappati al parabrezza, al tetto, alle portiere, e alla situazione già penosa si aggiunge questa prova supplementare: bisogna sbarazzarsi dei bambini. Il taxi accelera, poi frena bruscamente. Perduto l'equilibrio, i bambini lasciano la presa e cadono sul selciato. Chiudete gli occhi, siete disgustati, avete, in pochi minuti, commesso infamie di cui credevate capaci solo i razzisti più abietti. Quando li riaprite, vedete, lungo un'arteria centrale, profughi del Bengala orientale ammassati a migliaia nelle tubature dove vivono da più di otto anni, sulla nuda terra, senz'acqua né latrine, inondati da torrenti di fango a ogni monsone, prostrati dalla calura per tutto il resto del tempo. Attraverso i turbini di polvere e gli scarichi di detriti, la città intera vi appare in rovina, tornata al caos degradante donde è uscita, senza nulla di quella patina, di quella dignità che i secoli conferiscono ai più umili edifici. Vi rifugiate nella vostra camera d'albergo e vi versate un bicchiere di whisky ben colmo, armati di un « conto spese di indignazione»19 pronti a discorrere per anni sulla deplorevole situazione sociale del Bengala, a gridare allo scandalo, a formulare il voto che finalmente le autorità competenti... Laggiù, in Francia, nello stesso momento in cui innaffiavate le piante o sorseggiavate un caffè, la televisione vi mostrava bambini dilaniati dalle mine, oppositori politici torturati, profughi ammassati sulle giunche che affondavano con tutti i loro beni, vittime di una tempesta o dei pirati che li colavano a picco dopo averli taglieggiati. Potevate credere che fosse una finzione, e bastava premere un bottone per far cessare quelle scene d'incubo. Ma qui, la miseria impregna i muri, l'aria 19 « Ciò di cui disponi, sono solo alcuni atteggiamenti d'indignazione diligentemente appresi, bene al riparo. Da mettere in conto spese. Potresti perfino dire che disponi di un conto spese d'indignazione» ( N I C O L A S B O R N , Die Falschung, cit.).
che si respira, l'orizzonte che si abbraccia, forma la sostanza stessa della città. Gli alberghi più lussuosi, le ville meglio custodite sono cittadelle dotate di un privilegio transitorio, circondate dalla sporcizia e dall'infelicità. E, ogni momento, vi aspettate di vedere la porta della vostra camera aprirsi per lasciar passare una teoria di sciancati, di straccioni famelici, di donne miserabili, pronti a occupare lo spazio che la vostra prosperità vi attribuisce indebitamente...
Le intermittenze del cuore Il giorno dopo, il vostro sgomento si è dissipato. E, lentamente, avviene una metamorfosi. Potreste tornare in Europa, ma vi rifiutate di compiere questa rinuncia. Dev'esserci una via di uscita: soffrite senza dubbio di un eccesso di emotività. Sapendo che ogni giorno rischiate lo stesso faccia a faccia lungo, ostinato, inesorabile con l'orrore, elaborate un'ingegnosa costruzione destinata a proteggervi dallo choc di quest'umanità rampante. Convocate allora al vostro capezzale un altro voi stesso, un doppio, incaricato di pacificare la vostra coscienza e di suturare le ferite. E questo doppio vi fornisce tranquillamente mille giustificazioni che si contraddicono fra loro, e la cui malafede preserva la vostra integrità. 1. Quella gente non ha che da lavorare, sono dei fannulloni: c'è tutto da fare in questo paese. 2. Retribuirli sarebbe insultare la loro dignità, render loro un cattivo servizio, in realtà umiliarli. 3. La carità sacrifica l'avvenire al presente: riconduce a una situazione senza uscita e frena l'applicazione di riforme avanzate che creerebbero un mondo in cui l'uomo sarebbe amico dell'uomo. 4. La mia elemosina non sarebbe che una dilazione in quest'oceano di indigenza; d'altronde, la vera carità non si esaurisce nel dono. Offrire loro le mie elargizioni, sarebbe procurarmi una tranquillità di coscienza a buon mercato. 5. Non hanno mai conosciuto altro che la carestia, sono più abituati di noi. Non bisogna assuefarli al lusso che, dopo
la nostra partenza, li lascerebbe in uno stato di carenza ancora più grave. 6. Non possiamo sostituirci alla loro società, significherebbe offendere gravemente il loro senso d'indipendenza nazionale. Se le élite locali non fanno nulla, è che hanno delle buone ragioni. 7. Poiché l'altro soffre senza di me, perché soffrire al posto suo? E infine, last but not least\
8. Non hanno che da fare la rivoluzione; io, al loro posto... In fondo, il vostro torto non è di essere ricchi, ma di dare tutti i segni esteriori dell'agiatezza senza avere la mentalità feudale che dovrebbe derivarne. Il vostro torto è di non credere alla teoria della predestinazione e della diseguaglianza naturale, che è quella delle caste e delle classi superiori in India. Da questo momento, armato di tali certezze, attraversate i gruppi di mendicanti come fossero spiacevoli vapori e vi turate il naso per non soffocare. Siete ben lontani dall'essere completamente induriti: vi succede, almeno una volta al giorno, di fare l'elemosina; a una bambina i cui grandi occhi neri, il viso ben modellato vi hanno commossi, a un lebbroso la cui umiltà e discrezione lo distinguevano dai confratelli così esigenti e bercianti. I vostri capricci vi sorprendono; vi seccate di non dare. Vi eravate ripromessi d'essere fermi; un passeggero entusiasmo v'induce all'improvviso a concedere qualche rupia all'uno o all'altro. E quando altri monelli vi implorano, li cacciate. Perché a questo piuttosto che a un altro? E se dovessi dare a tutti, non la finirei più. Questa continua indigenza stanca, ci si stufa di dover testimoniare una compassione senza fine. La pietà vuol essere distratta, vuole distrarsi. Ma questi miserabili dallo stomaco vuoto, queste bambine che si vendono per una galletta di frumento, non sentono da quest'orecchio; si fanno beffe delle vostre teorie. Sono a tal punto di disfacimento che l'idea stessa della rivolta non ha più senso. Vogliono un soccorso immediato, non rivendicano neppure il diritto di vivere ma quello di non morire subito. Tutti sembrano protestare: perché devo esser io a morire di
fame? Essi infatti saranno sacrificati, morranno nello stupore, nella collera. Subita come una disgrazia, la fame è vissuta come un delitto da colui che la prova. Solo una rinuncia assoluta potrebbe trattenere sulla china, per un momento, quei diseredati. Solo uomini assetati di devozione sarebbero capaci di rinunciare alla loro vita per soccorrere quelli che soffrono. E come non guardare con ammirazione i missionari che hanno deciso di vivere solo per gli altri, cioè di non vivere più affatto? Come non rallegrarsi di questo dono totale di sé, pur rimpiangendo di non poterlo condividere? Perché non siete né eroi né santi e, per riprendere una frase di Pascal, ogni ordine ha le sue esigenze assolute. Fra questi miserabili e voi stessi, non c'è antagonismo: ma un abisso così profondo che vieta ogni specie di relazioni umane, fosse pure la ribellione. È molto tempo che ogni volontà d'insorgere si è spenta. Non cercano più neanche di arrampicarsi un gradino più su nell'implacabile scala sociale dell'India: sono relitti che affondano e si aggrappano un'ultima volta prima di colare a picco. Questa mendicità è un sistema che degrada ogni cosa: chi chiede e chi dà. Date e non sarà mai abbastanza, non date nulla e confermate una sordida avarizia. Il fatto che noi siamo in vita mentre essi agonizzano, ci rende colpevoli. Qualunque cosa si faccia, sarà sempre troppo poco. La monetina che facciamo cadere furtivamente in una ciotola non dà sollievo a un bisogno: crea due vergogne. Ogni momento, ci si lascia contaminare, si diventa complici di quest'atroce umiliazione: rifiutate di prendere un risciò? (Calcutta è una delle ultime città al mondo in cui esistono ancora mezzi di trasporto a trazione umana.) Significa privare il coolie di un pasto. Prendetelo: e quell'individuo fragile, la cui speranza di vita non supera la trentina, si estenuerà a trasportarvi, si ritroverà in un bagno di sudore, senza fiato, per qualche rupia. In entrambi i casi, avrete contribuito a perpetuare il male; nell'astensione o nell'impegno, la miseria vi prende in trappola: perché, moltiplicata dalla demografia, qui si perde nelle frontiere inesplorate del fantastico e dell'incredibile; da qualunque angolo visuale la si con-
sideri, è, sempre, un monumento di degradazione dell'uomo da parte dell'uomo.20 La disintegrazione della persona umana è spinta, sotto questi tropici, a un punto inimmaginabile. Il peggio è sempre assicurato; al di sotto dei lebbrosi, dei dementi, dei bambini atrofizzati, esistono dimensioni ancora più allucinanti di sventura: scheletri vestiti di un perizoma che si trascinano per terra, mostri storpiati che rosicchiano radici, rimasticano gli sputi degli altri, rampano nelle immondizie, si rotolano nel fango. Più questi individui sono miserabili, più vi sembrano spregevoli. Sono davvero degli esseri umani? Oppure soltanto una specie di materia bruna indifferenziata che esce dalla terra, suda, mendica e ripiomba nella gleba senza che nessuno se ne accorga? Le vostre reazioni di fronte alla « canaglia indigena » sono le stesse dei vostri padri, che avevate tanto fustigato. Quei corpi torturati dagli aspetti più elementari della paura, della sofferenza e della fame finiscono per lasciarvi freddi. Prima vergognosi dei vostri privilegi, ormai vi state evolvendo come un qualunque coloniale dei vecchi tempi: la bella facciata di progressisti edificata con minuzia, per anni e anni, è crollata in quarantott'ore.21
« La compassione e la pietà erano inammissibili; non erano che raffinamenti della speranza. Era paura quella che provavo. Era il disprezzo contro il quale dovevo lottare», scrive V.S. Naipaul, a proposito delle sue reazioni davanti alla miseria indiana (An area of darkness, Penguin Books, Harmondsworth, 1968). [Tr. it.: Un'area di tenebre, Adelphi, Milano, 1999.] 21 Evocando la carestia che colpì Calcutta in seguito al blocco dell' Assam e del Bengala orientale da parte delle truppe inglesi, destinato a contrastare l'avanzata giapponese, l'indianista Alain Daniélou riferisce: « In città, gli europei ben nutriti - per loro non vi fu mai razionamento - scavalcavano con disgusto quei relitti scheletrici di donne, di bambini, di uomini per recarsi al club o ai pranzi ufficiali » (Le Chemin du labyrinthe, Laffont, Paris, 1981). 20
Il male invisibile Da questo momento, mettete tutte queste brutte cose fra parentesi, vi estraniate dal mondo. La lunga stagione di spavento che vi porta ai confini di un universo sinistrato sfocia in una divisione psicologica: avete smesso di vedere i poveri. L'occhio sinistro vede cenci, moncherini, ulcere, coolies dalle costole sporgenti, l'occhio destro cancella queste immagini e non vede che risciò, templi, colori, sorrisi. Come nel racconto di Edgar Poe in cui un poliziotto cerca una lettera che gli sta sempre davanti agli occhi, e che tuttavia il suo sguardo non incontra mai, sperimenterete l'invisibilità del visibile che vi consente sempre di vedere senza guardare. Il macabro è così vicino che si dissimula sotto la sua stessa evidenza e diviene un dettaglio del paesaggio. E la vicinanza di questi martiri condiziona il vostro oblio. Di fronte a simili abissi, non c'è che una soluzione: partire o assentarsi.22 Forse siete cambiati? No, ma sapete che in questo paese c'è tutta una categoria della popolazione con cui non avrete contatti. Potrete invocare il popolo come una categoria astratta, un serbatoio di rivolte, ma qui le vostre convinzioni non vi sono di nessun aiuto. Eravate comunisti, socialisti, o, semplicemente, democratici: e continuate a esserlo; ma tali categorie non si applicano al paese in cui vi trovate. In India, vi hanno raccomandato, vivete poveramente. Ma secondo quale povertà? Quella della piccola borghesia, dei contadini o dei paria? Qui lo scarto è così vasto, nell'indigenza, che ogni scelta di povertà è ancora un'opzione di lusso: avreste dovuto sprofondare nella miseria, vivere in uno slum" per comprenderne tutto l'incubo. 22 « Ero arrivato al punto di separarmi da ciò che vedevo, di dissociare il piacevole dallo spiacevole [...] avevo anche imparato che la fuga è sempre possibile, che in ogni città indiana c'è un angolo in cui regnano un ordine e una pulizia relativi, dove ci si può riprendere, ritrovare il rispetto di se stessi» (V.S. N A I P A U L , op. cit., p. 47). 25 Si legga a tale proposito l'eccellente resoconto del viaggio effettuato in uno slum di Calcutta da J . - C . G U I L L E B A U D , Un voyage vers l'Asie, Seuil, Paris, 1979.
Con questi uomini, venite meno alla solidarietà: tanto vale riconoscerlo, siete più a vostro agio con i più odiosi fra gli europei o i borghesi locali, che col più misero degli autoctoni. In privato o con altri turisti, potrete abbandonarvi a un'orgia di demagogia verbale: ma, di fronte a un mendicante, la retorica agonizza. E non vi resta altra scelta che fra il malessere della fuga e il malessere dell'elemosina (e non fra l'egoismo e la generosità). In ogni caso, sarete costretti a procedere per vie traverse: la sproporzione fra la loro condizione e la vostra è così grande che, per rimanere, qualunque sia la vostra buona volontà, dovrete ignorare queste richieste di aiuto, impedire perfino che sfiorino i vostri timpani, che impressionino la vostra retina. Dovrete dimenticare per il momento di essere di sinistra, perché i paradigmi che uniscono questa famiglia politica non si adattano alla situazione presente. I rapporti diseguali esistevano già prima del vostro arrivo e sono essi che determinano a priori il vostro posto e quello dell'indigeno. Da questo mondo, fatalmente, potrete solo essere esclusi. Potrete dar prova di mansuetudine, non calpestare selvaggiamente i moribondi, non spingere via i grappoli umani che vi si agglutinano intorno, allentare delicatamente le mani scarnite che vi afferreranno le vesti, ma, in ogni modo, non eviterete l'illusionismo, l'indispensabile gioco di prestigio che presiede al vostro adattamento. Senza dubbio, il fatto di non essere l'unico colpevole può rassicurare, ma non assolve. L'immondizia sporca tutto ciò che tocca: costringe una parte dell'umanità a vivere in condizioni degradanti, e abitua il resto degli uomini a vivere accanto a quest'infamia senza più darsene pensiero. Produce l'orrore e immunizza contro l'orrore. Come potete essere felici mentre tutti intorno a voi soffrono? Grazie alla schizofrenia che schiva il male: uno schermo s'interpone fra le vostre percezioni e il vostro spirito, un filtro blocca le immagini lugubri. Il sipario è calato per sempre, e, se talvolta lo si socchiude un po', sotto le raffiche di un effimero « miserabilismo », è solo per verificare meglio che è chiuso. Ormai, navigherete fra gli stracci, scavalcherete quegli ascessi umani, costeggerete mucchi di ossa e di rifiuti senza che ciò turbi il vostro umore o vi
tolga l'appetito. E il riconoscervi biasimevoli, le vostre aleatorie effusioni verso questo o quello diventeranno allora la condizione stessa della vostra passività: vi sono luoghi nel mondo dove non c'è posto per la vostra umanità.
II romanzo delle origini Perché non si viaggia? Perché tanti di noi si rifiutano di andare oltremare, di varcare i confini dell'Europa? Per paura di verificare un oscuro presentimento. Perché l'odio che può afferrarci in India, in Africa settentrionale, in Medio Oriente o in America latina davanti alle cloache di fango e d'insalubrità che sono le grandi città di quei paesi, quest'odio si rivolge innanzi tutto alle nostre origini nascoste. In Europa siamo come bambini viziati, la nostra crescita è costata atroci sofferenze ai popoli che vi hanno contribuito, noi siamo gli eredi di una storia di sudore e di sangue di cui oggi non vediamo che i fiori, ma sono fiori cresciuti su un carnaio. L'Occidente, fino a poco tempo fa, era anch'esso un vasto terreno di decantazione dove brulicavano miserabili e insetti, mentre una minoranza di ricchi ostentava un lusso arrogante (non dimentichiamo che la fame ha colpito l'Europa fino al 1955, in Occidente, e fino alla metà degli anni '60 nell'Est). La visita a qualche città orientale o nordafricana ci restituisce di colpo una dimensione fondamentale che avevamo dimenticato: quella del rullo compressore che fu lo sviluppo del capitalismo. I vagabondi, i servi, i dementi e simili, di cui Karl Marx, nei primi libri del Capitale, ha descritto lo sradicamento a partire dal xvni secolo, questo popolo privato dei suoi beni, strappato all'etica familiare, alle antiche solidarietà rurali, costituisce il quadro in cui le nostre società industriali si sono sviluppate. Uno sfruttamento atroce, un'oppressione senza freni, hanno consentito la nostra attuale agiatezza. La nostra discendenza è così da poco: è questo che ci disgusta. Così, nella proliferazione delle bidonville del Terzo Mondo, leggiamo in filigrana la nostra storia. Percorrendo le strade di Dacca, di Bombay, di Giakarta, di Manila, di Marra-
kech, di Bogotà, contempliamo a cielo aperto le radici della nostra civiltà, scorriamo al vivo un romanzo di Hugo, di Dickens o di Zola, i cui personaggi si siano messi d'un tratto a proliferare in carne e ossa con nostro grande terrore. Tutta la letteratura del xix secolo, la quale non è che un lungo commentario alla degradazione di milioni di individui, risultante dagli stadi iniziali dello sviluppo industriale, ritrova qui la sua attualità. Le folle imploranti cacciate dai loro villaggi, i sottoproletari che si possono taglieggiare e sfruttare a piacimento, potrebbero essere i nostri antenati, che si consumano i polmoni in qualche miniera insalubre, che si uccidono lavorando a cottimo per una paga ridicola. Il vostro Occidente radioso ha come piedistallo un incubo, e come fondamenta un'ecatombe: ecco cosa ci suggeriscono i poveri del Terzo Mondo. Attraverso questo deprezzamento dell'uomo da parte dell'uomo, la nostra cultura si rivela così com'è per il tramite indiretto di una maschera esotica: immagine della nostra genesi e dell'abisso in cui potremmo ricadere se, per qualche disgrazia, la nostra opulenza venisse a mancare. Questo mai più, esclama il viaggiatore. Perché ha bisogno di dimenticare; e l'oblio è per lui un mezzo per fabbricarsi l'innocenza in un universo saturo di rimproveri; solo a questo prezzo diventerà giornalista, uomo'd'affari, militante politico, orientalista, globetrotter, cioè un professionista dello sguardo selettivo.
Dall'uomo accusato all'uomo discolpato « Oggi nel mondo la vostra prosperità fa scalpore come un disastro» 24 Attualmente, come è noto, le disparità fra paesi industriali e paesi in via di sviluppo superano di gran lunga quelle che predominavano nei momenti più critici della colonizzazione ufficiale. Approfittando in pieno del periodo di euforico accrescimento degli anni '50 e '60, i paesi dell'ocSE hanno raggiunto 2J
Paul Claudel, a proposito dell'America (1930).
un'opulenza finallora sconosciuta alla maggioranza dei suoi abitanti. Benché interdipendenti, le economie dei due emisferi, già in rapporti asimmetrici, si sono considerevolmente allontanate a causa delle due crisi petrolifere del decennio '70, e lo scarto continua ad aumentare in modo allarmante.25 Nell'ipotesi estremamente ottimistica di un tasso di crescita superiore a quello dei paesi sviluppati, al Terzo Mondo, come calcolava un economista nel 1971, occorrerebbero duecentosettant'anni per colmare le distanze.26 Ciò equivale a dire che lo scarto sembra irrimediabile. Paradossalmente, proprio perché l'Occidente è uscito in fuga dal gruppo delle altre nazioni, noi sopportiamo male lo scarto. Abbiamo la sensazione d'aver tradito il patto di povertà che vigeva in tutte le grandi civiltà fino al X V I I I secolo, per cui non esisteva nessuna apprezzabile differenza nel tenore di vita tra la Francia di Luigi xiv, l'Inghilterra di Guglielmo il, la Prussia di Federico i da una parte, e l'India di Awrangzèb e la Cina di K'ang-hsi dall'altra. Per la prima volta, qualcosa è sopravvenuto a scuotere in modo offensivo questo equilibrio. L'Occidente ha infranto le regole del gioco e ha posto tutte le altre società davanti a una scelta impossibile eppure inevitabile: o essere dominate economicamente, o entrare anch'esse nel ciclo dell'industrializzazione. Da quando l'Europa si è mossa, tutte le civiltà costituite sono state scosse in profondità e si sono viste costrette a ridefinirsi in rapporto a essa. Liberando il genio dalla bottiglia, « Con i suoi 700 milioni di abitanti, il Nord ha creato complessivamente una ricchezza in prodotto nazionale lordo di circa 40.000 miliardi di franchi nel 1980. Il Sud, con i suoi 2 miliardi di esseri, si è accontentato di un incremento valutato a 7000 miliardi (OPEC, Cina e paesi del Comecon esclusi) » ( H E N R I L A U R E T in Le Matin, 22 ottobre 1981). Aggiungiamo che il debito estero dei paesi in via di sviluppo arriva a 600 miliardi di dollari, dovuti in parte a banche private, e per il resto agli Stati e alle istituzioni finanziarie intemazionali. 2 6 P A U L BAIROCH, Le Tiers-Monde dans l'impasse, Gallimard, Paris, 1971, p. 249. [Tr. it.: Lo sviluppo bloccato. L'economia del Terzo Mondo tra il XIX e il XX secolo, Einaudi, Torino, 1976.] 25
imponendo a tutti la sua frenesia di sviluppo, l'Occidente ha messo in crisi le arti del vivere; ma, più ancora della ragione tecnica, ha inventato la più temibile di tutte le nozioni, la modernità. E questo il vero potere di dissoluzione che obbedisce a una logica che non è quella dell'imperialismo, ma della sfida. La modernità è un ultimatum che non può lasciare indifferente nessuno; non è legata al possesso di un bene, ma a un'idea, a una sperimentazione continua. È una valutazione che divide gli uomini in « arretrati » e in « evoluti », un codice non sowertibile che si preoccupa poco dei suoi contenuti perché ne comprende sempre di nuovi, a mano a mano che quelli del momento attuale si volgarizzano. Donde la sproporzione delle strategie, l'ironica ingiunzione fatta alle altre culture: quella di combattere l'Occidente con le sue proprie armi. Acquistando una relativa abbondanza - e per tutte le classi sociali - , le generazioni occidentali del dopoguerra hanno provato vergogna e fierezza. Quest'affluenza è stata un miracolo, ma un miracolo scandaloso, perché ha lasciato il Terzo Mondo indietro rispetto a noi. Così la fortuna è nata nel malessere. Anche se il legame tra la nostra ricchezza e la loro povertà non è evidente, anche se gli economisti discutono ancora per sapere se il decollo dell'Europa dipende dalle sue proprie risorse o dal saccheggio dei paesi colonizzati,27 resta pur sempre il fatto che la presenza di milioni di diseredati alle nostre frontiere non può non suscitare, anche fra i più induriti, Si veda P A U L B A I R O C H , op. A / . , J E A N L A B B E N S , Sociologie de la pauvreté, Gallimard, Paris, 1 9 7 8 , pp. 2 6 5 sgg., R A Y M O N D A R O N , Plaidoyer pour l'Europe décadente, Laffont, Paris, 1977, pp. 273 sgg. [tr. it.: In difesa di un'Europa decadente, Mondadori, Milano, 1 9 7 8 ] , e C A R L O S R A N G E L , Le Tiers-Monde et l'Occident, Laffont, Paris, 1982, per la prima scuola; Pierre Jalée, Jean Suret-Canale e Samir Amin, per la seconda. Ad esempio, la Gran Bretagna deve alle ricchezze drenate dal subcontinente indiano, dalla metà del XVILI secolo, le risorse che permisero il suo decollo industriale? Anche se la concomitanza è certa, questo tipo di problema resta vano. Come ha benissimo dimostrato Jacques Berque, il vero trauma coloniale « è d'altro ordine, sia per l'ampiezza, sia per la qualità » (Dépossession du monde, cit., pp. 103 sgg.). 27
un certo turbamento. Apparteniamo alla frazione di umanità situata nelle zone temperate, che, per quasi un secolo, ha potuto disporre, a suo quasi esclusivo profitto e grazie alla sua tecnologia, delle risorse minerali e agricole di un mondo non sfruttato. Ci sentiamo tanto più perseguitati dalla nostra ricchezza in quanto essa ci allontana dagli altri uomini che ne sono privati.28 Rispetto ai vinti dell'equatore o dei tropici, noi tutti, borghesi, impiegati, proletari, siamo, in certo grado, prosperi e privilegiati. D'altra parte, la rapidità dell'informazione, la diffusione mondiale istantanea degli avvenimenti attraverso i media, hanno sviluppato nell'uomo d'oggi una coscienza catastrofica del mondo; senza dubbio il caos, i massacri, le carestie e i disordini sono né più né meno come nei secoli passati, e i genocidi non sono un appannaggio del nostro tempo. Ma il fatto di saperlo e di abitare un universo « più presente a se stesso in tutte le sue parti di quanto lo sia mai stato »,29 ci priva di una totale serenità. Obbligati a vivere assistendo all'infelicità degli altri, la nostra felicità ci sembra d'un tratto meno sicura, il nostro ambiente più fragile. Le epurazioni, le malattie, le incarcerazioni arbitrarie, le centinaia di migliaia di profughi riducono a livello lillipuziano i guai che affliggono i nostri paesi, tanto più che il Sud, ospitando circa tre miliardi di uomini, moltiplica il coefficiente numerico delle ingiustizie commesse e conferisce loro proporzioni gigantesche. Insomma, il contatto agevolato dai mezzi di comunicazione genera sorpresa e angoscia: l'intreccio fra gli emisferi, permettendo la comparazio« L'epoca nostra tollera una sola specie di ricchi, quella di coloro che si vergognano della loro ricchezza. Se si ode dire di taluno: 'egli è molto ricco', si prova tosto quasi la sensazione di una gonfia infermità ripugnante, di una obesità o di una idropisia: ci si deve ricordare fortemente della propria umanità per poter essere in rapporti con un tale ricco, senza che egli si accorga del nostro senso di nausea», osserva già Nietzsche ne II viandante e L% sua ombra, Monanni, Milano, 1927, p. 261. 2 9 M A U R I C E M E R L E A U - P O N T Y , Signes, Gallimard, Paris, 1960, p. 47. [Tr. it.: Segni, Il Saggiatore, Milano, 1967.] 28
André Gide, il Congo coloniale e i media Nel 1926, André Gide, indagando sui misfatti commessi dalle compagnie minerarie nel Congo, scrive: «Non basta che io mi dica, come si usa dire frequentemente, che gli indigeni erano ancor più disgraziati prima dell'occupazione francese. Abbiamo assunto verso di loro una responsabilità cui non abbiamo più il diritto di sottrarci. Ormai, un immenso gemito è dentro di me; so cose da cui non so trarre le conseguenze. Che demone mi ha spinto in Africa? Di che cosa andavo in cerca, in questo paese? Ero tranquillo. Ora so; debbo parlare».* Un tempo la verità sorgeva sul modulo della rivelazione; André Gide nel Congo, Albert Londres ai bagni penali della Cayenna, Vidal-Naquet e Jean-Jacques Servan-Schreiber in Algeria, tutti passavano dietro le quinte, dall'altra parte dello scenario, per sapere infine che cosa vi si nascondeva, fosse pure atroce. Era questa « atrocità » che essi mettevano in luce ogni volta, e che suscitava l'indignazione dei loro lettori. Oggi, rimpinzati di orrori e d'immagini repellenti dal bombardamento dei media, la nostra capacità di stupirci si è smussata. Esiste ormai, grazie ai mezzi di comunicazione, una compresenza del mondo a se stesso, la quale fa sì che ogni uomo provi lo choc di avvenimenti che si verificano dall'altra parte del globo: le voci arrivano subito, salvo a spegnersi subito dopo. Abituati a prevedere il peggio (sone, dà la misura dell'abisso; la miseria del Terzo Mondo è scandalosa solo in funzione del nostro benessere. E il diseredato può considerarsi tale solo in funzione di uno più fortunato di lui. Quindi il fatto di godere di una fortuna relativa ci mette in obbligo nei confronti dei più sfavoriti.
prattutto dopo il genocidio cambogiano), sempre pronti a massimizzare per timore di sottovalutare, noi cumuliamo (almeno nei paesi democratici) una visione fosca della vita pubblica con un ingorgo di disastri e di infortuni. Un'eccessiva esposizione di sofferenze, di delitti, che finisce per intorpidirci. Senza dubbio, l'esperienza del sospetto continuerà ancora a lungo a governare il nostro rapporto col mondo: perché le tirannie continuano a vivere di menzogne, di parole sviate dal loro senso o che non hanno più senso a forza di aver troppo servito. Così noi assistiamo alla coesistenza dell'impostura totalitaria e dell'isterismo dei media. Qui certi regimi sopravvivono grazie alla disinformazione sistematica; altrove l'indifferenza sorge da una sollecitazione incessante e arruffona. Potrebbe esservi quindi una duplice posta in gioco per un'etica giornalistica: svelare senza ingrandire, dire la verità senza sommergere l'ascoltatore sotto le catastrofi, ritrovare la virtù di ogni inchiesta davvero efficace: la sobrietà. L'onestà sarà sempre preferibile alla dissimulazione: ma, quando sa unirsi alla sottigliezza delle sfumature, ha un potere d'urto e di scandalo più forte dell'appello viscerale, del ricatto sentimentale, della vendita all'asta delle emozioni.
* Viaggio al Congo e Ritorno dal Ciad, Einaudi, Torino, 1950, p. 94.
L'universo della deduzione
infallibile
Ma per i profeti della cattiva coscienza, per gli infaticabili seminatori dello scontento di sé, questo disagio non basta. Vogliono anche renderci responsabili di tutto quel che va male. L'astuzia è la seguente: attraverso i media, ci mettono a confronto con la totalità dell'infelicità umana, davanti alla quale il minimo gesto di generosità assume l'aria di una pietosa elemosina.
Da qui il ricorso incessante, maniacale, alla loro arma favorita: la statistica, vero braccio secolare della colpa, infallibile spada matematica; veniamo colpiti con cifre così mostruose, con quantità di dolore così enormi che, dopo di ciò, dovremmo appena azzardarci a respirare. La sofferenza del mondo, grande travelling panoramico, viene a bussare alla nostra porta; tutto è ridotto alla visione di una somma di afflizioni di fronte a cui la nostra esistenza appare oscena. Comunque sia: « In India, ogni minuto c'è una persona che muore di tubercolosi ».30 « Un francese consuma altrettanta energia di 46 nigeriani, 20 indonesiani, 10 ecuadoriani, 6 algerini, 3 iraniani». 31 « Gli abitanti dei paesi ricchi, forti del loro potere d'acquisto, danno ai loro animali quasi tanti cereali quanti ne consumano tutti gli abitanti del Terzo Mondo (Cina esclusa) ».32 « I contadini senza terra del Terzo Mondo [...] siccome hanno un potere d'acquisto inferiore a quello di una vacca normanna, di un maiale bretone o di un gatto parigino, sono meno ben nutriti».33 « Un po' dappertutto nel mondo, la ragione è schernita insieme alla fraternità e alla dignità umana. Gli interessi del gruppo, intesi in modo ristretto, hanno la meglio sull'interesse generale, seminando così i germi di scontri sanguinosi, condannando un miliardo di esseri umani a Antenne 2, telegiornale delle ore 20 (14 ottobre 1980). e CHARLES CONDAMINES, Quiapeurdu tiers monde?, Seuil, Paris, 1980, p. 42. 32 lei mieux se nourrir, là-bas vaincre la faim, opuscolo edito congiuntamente da Frères des hommes e Terre des hommes, giugno 1981. » Id. 30
31
J E A N - Y V E S CARFANTAN
vivere, se si può dir così, per un anno con la somma che certi ben provvisti spendono per il loro week-end ». i4 «Il prezzo di un pernottamento in albergo a Cancun (Messico) per i turisti del Nord equivale al guadagno di due anni di un abitante medio del Bangladesh ».' 5 «In un feed-lot californiano, 100.000 bovini all'ingrasso consumano ogni giorno 850.000 chili di mais, che basterebbero a nutrire 1,7 milioni di africani orientali, quasi un terzo della popolazione dello Zambia».' 6 « Quando mangio una bistecca di 200 grammi, avrei potuto nutrire 30 persone con le proteine che sono servite a nutrire l'animale».37 « Se vi occorrono sei ore per leggere questo libro, quando avrete voltato l'ultima pagina, 2500 persone saranno morte di fame o di una malattia dovuta alla denutrizione in qualche parte del mondo ».' 8 Insomma, che cos'è la nostra opulenza? « Una specie di nazismo economico creato per una razza superiore di possidenti che regnano su una massa di sottoalimentati».'9
,4
CLAUDE JULIEN
" FRANCIS PISANI
bre
in Le Monde diplomatique, ottobre e G E R A R D V I R A T E L L E in Le Monde,
1974. 25-26
otto-
1981.
Ici mieux se nourrir, là-bas vaincre la faim, cit. Cifre riprese da in Le Monde diplomatique del novembre 1 9 8 1 . 57 J O Ë L DE R O S N A Y , intervista in Ici mieux se nourrir..., cit. 5 8 SUSAN G E O R G E , introduzione a Come muore l'altra metà del mondo. Le vere ragioni della fame nel mondo, Feltrinelli, Milano, 1 9 7 8 ) . Questo libro costituisce d'altra parte uno dei migliori e più intelligenti contributi al problema della fame. 3 9 M A U R I C E L E L O N G in Témoignage chrétien, marzo 1 9 6 6 . 56
JEAN ZIEGLER
Dopo tutto questo, come non considerarsi dei mostri, non lasciarsi abbattere dalla vergogna?40 Poco importa, naturalmente, che questi raffronti siano fallaci, perché trascurano sempre il livello d'industrializzazione che solo può spiegare le gigantesche differenze di consumo: quando le condizioni di esistenza differiscono in modo radicale, le precisazioni in cifre perdono ogni validità e la loro unica funzione è quella di alimentare requisitorie e arringhe difensive. Superfluo dimostrare anche l'inutilità di rincarar sempre la dose, sul terreno quantitativo: il troppo è nemico del giusto e qui si rivela la duplicità del massimalismo; l'eccesso della cifra diventa la regola e le accuse indignate, con i loro milioni di agonizzanti, equivalgono alle ridicole statistiche del libro dei primati, dove il numero degli affamati sta vicino a quello delle tonnellate di salsicce, al bacio più lungo, alla pettinatura più alta, ecc. Queste statistiche vorrebbero essere enciclopedie dell'avversità, container di angoscia,41 sentinelle zelanti incaricate di un solo e unico messaggio: noi siamo parassiti, cannibali.42 Insomma, si pone l'umanità sofferente su un piatto della bilancia; rispetto a cui l'altro piatto, il Nord, sembra non valere nulla. Si inserisce la nostra vita in un'entità numerica per meglio ridicolizzarla. Il ragionamento dei nostri arcigni terzo« Come possiamo addormentarci pacificamente davanti a questa spaventosa marea di miserie?» (RENÉ DUMONT, «Problèmes de la faim dans le monde» in Le Monde diplomatique, luglio 1967). 41 Un accumulo di orrori raramente commuove, sconvolge o incita all'azione; ricordiamoci che durante la guerra del Vietnam, una sola fotografia, quella di una bambina vietnamita che corre sotto un bombardamento, nuda, pazza di dolore (Huyng Cong-ut, 1972), ha causato più danni nell'opinione pubblica americana di tutti i precedenti reportage delle reti televisive. 42 « Le nostre orge di carne, il nostro cannibalismo fa sì che il nostro bestiame consumi il terzo dei cereali [prodotti per nutrire l'umanità] oltre alle decine di milioni di tonnellate di panello [...], tutte derrate che possono essere consumate direttamente dall'uomo» (RENÉ D U M O N T in Tricontinental, numero speciale «Famine et pénurie», Maspero, Paris, 1982, p. 96). 40
mondisti è il seguente: meno quest'infelicità mi appartiene, più devo sentirmene responsabile. Si architetta una formidabile ricostruzione razionale, per quanto arruffata, per ristabilire una causalità, sia pur secondaria, sia pur lontana, fra me e questa infelicità. Si forniscono spiegazioni altamente tecniche per dimostrare che, in ultima analisi, « è ancora il vecchio continente a tirare i fili ». 4} Si rientra così nell'universo del romanzo giallo, della deduzione infallibile che assimila i problemi della fame a un'indagine poliziesca: «Chi è responsabile di queste ecatombi che riempiono ogni giorno i cimiteri del Terzo Mondo? E forse la fatalità? Quegli uomini, quelle donne, quei bambini sono vittime di catastrofi naturali incontrollabili, ricorrenti? No. Per ogni vittima, c'è un assassino ».44 Allora tutti, vecchi o bambini, siamo colpevoli ogni momento di tutto quanto va male sul nostro povero pianeta;45 partecipiamo alla distruzione del mondo,46 dalle sementi miracolose alle tecniche per tagliare il legno,47 passando per l'ein lei mieux se nourrir..., cit. Retournez les fusils!, Seuil, Paris, 1981, p. 47. [Tr. it.: Il come e il perché, Mondadori, Milano, 1981.] 45 «Il lettore non deve dimenticare», spiegano René Dumont e Marie-France Mottin al principio del loro libro su Le Mal-Développement en Amérique latine (Seuil, Paris, 1981), « che anche lui (nei paesi ricchi) è responsabile della spaventosa miseria che noi evocheremo, e ne approfitta, anche se molti si rifiutano di ammetterlo» (p. 9). 46 «Noi, uomini d'Occidente, nostro malgrado o con la nostra tacita complicità, siamo associati all'opera di dominio, di sfruttamento e di morte dell'imperialismo. Collaboriamo con l'oligarchia dei nostri rispettivi paesi, in Francia, in Svizzera e altrove, alla distruzione quotidiana di quel che ci fa esistere in quanto uomini: la coscienza di identità ontologica di tutti gli esseri umani» ( J E A N Z I E G L E R , Le mani sull'Africa, cit.). 41 «Appena l'Occidente migliora le sue tecniche di taglio delle foreste e perfeziona la monocoltura, subito si arriva al disboscamento delle pendici dell'Himalaya, alle inondazioni nel Bangladesh o alle ca43
VINCENT LECLERCO,
44
JEAN ZIEGLER,
scissione delle bambine.' 18 L ' O c c i d e n t e è il grande, l'unico colpevole di tutti i mali del pianeta. In una parola, c o m e in dieci: siamo inumani, criminali, perché non vogliamo che gli altri esistano, 49 le cause della carestia sono nel nostro piatto. 5 0 N o n importa, naturalmente, che non si possa provare una simile enormità: il senso di colpa è un'abbreviazione che accorcia le distanze, cancella gli intermediari e traccia un'implacabile linea rossa fra la loro indigenza e il nostro appetito soddisfatto. Qui il rimorso precede la colpa, il nostro torto non è quello di peccare ma di esistere; la follia del sospetto fa di noi dei colpevoli a priori:
del degrado delle infrastrutture nel
Ghana, dei magazzini vuoti in Angola, dell'aumento dei prezzi in America centrale, dei nugoli di cavallette nell'Africa subrestie nel Sahel. Progressi scientifici e tecnici incontestabili che portano alla cifra record di 50 milioni di morti di fame nel Terzo Mondo nel 1980. Queste cifre saranno superate: 85 milioni fra cinque anni. 'Il progresso non si arresta!'»
(ROGER GARAUDY,
Promesses de l'Islam,
Seuil, Paris, 1981, p. 75). 48 In un articolo su Nouvelles littéraires del 29 ottobre 1981, dedicato alle mutilazioni sessuali di cui sono vittime migliaia di donne in Africa e nel Vicino Oriente, Simone de Beauvoir compie 0 tour de force retorico di assolvere l'Islam e le popolazioni autoctone dal male commesso contro il sesso femminile, suggerendo che ogni problema deriva dal neocolonialismo, vale a dire dall'Occidente: « L a maggior parte delle voci che si levano per fustigare la crociata a favore dell'abolizione delle mutilazioni sono le stesse che patteggiano con il neocolonialismo ». Patteggiano con il Nord, quindi il Nord è colpevole perché copre le loro vessazioni. Come volevasi dimostrare. E così anche la mutilazione delle bambine è iscritta a nostro debito morale... 4* « L a maggiore accusa che i brasiliani fanno ai brasiliani e agli stranieri è un'accusa senza parole, ma è un grido soffocato dalla sofferenza: 'Siete inumani, criminali, non volete che noi esistiamo' » (dichiarazione dei vescovi del Brasile centro-occidentale, 1973, citata da
R E N É D U M O N T e M A R I E - F R A N C E M O T T I N , cit., p . 2 0 0 ) . 50 « Le cause della carestia nel mondo, bisogna cercarle nei nostri piatti, cioè in una politica che permette alle multinazionali di ingozzarci di cibi esotici e, con l'aiuto dei nostri governi, di mantenere a capo dei paesi che esse affamano un'oligarchia che vive e pensa all'occidentale » ( M I C H E L B O S Q U E T in Nouvel Observateur, 6 giugno 1 9 8 1 ) .
sahariana, dei cicloni che devastano i Caraibi, delle guerre tribali in Nuova Guinea, ecc. Così, ogni inchiesta, ogni libro sul Terzo Mondo, qualunque sia il suo tema, non dice che una stessa e unica cosa: la colpevolezza dell'accusato è confermata, altre prove si accumulano contro di lui. Sono registri da droghiere dove, sulle pagine quadrettate, si allunga la lista dei torti del Vecchio Mondo, mentre cresce quella dei meriti del Sud, un paziente perfezionamento dei dettagli all'interno di un quadro fondamentale che rimane incontestato. Si tratta di un procedimento simile alla maledizione, che deve farci crescere nell'orrore e persuaderci tutti, impiegati, professori, notai, operai, camionisti, della nostra profonda rapacità. O mio lettore, o insostituibile farabutto. Se la ripetizione ossessiva soppianta lo scrupolo di esattezza, è perché alla miseria del mondo bisogna offrire il nostro mea culpa. Il Debito, eroe insaziabile e innominato, infligge ai disgraziati europei le torture di un processo kafkiano. Tale è la malafede della cattiva coscienza: non potendo rimediare concretamente a questo o a quel flagello, ci denunciamo come suoi autori. Ricomponiamo all'infinito il vecchio quadro dei rapporti fra colonizzatori e colonizzati, fingiamo di ritrovare dappertutto reminiscenze dell'imperialismo, insomma godiamo a punirci, nella certezza della nostra ignominia. Conclusione: la nostra esistenza è un affronto alla creazione, e abbiamo un solo dovere: scomparire, cancellarci dalla faccia della Terra.51 L'avvenire dell'emisfero Nord è il suicidio.
A tale conclusione arriva René Dumont quando, al termine di un'arringa contro la carestia, scrive: «Sauvy dice all'Europa: 'Fate più figli, altrimenti siete perduti'. Ma il ricco yankee consuma quattrocento volte più energia e metalli rari del povero contadino dei Tropici. La crapula e lo spreco dei ricchi minacciano l'ambiente in tutto il mondo [...]. Poiché il regime economico dominante non riesce a ridurre il loro cannibalismo - 15 milioni di morti di fame all'anno - , il nostro interesse è che il numero dei ricchi diminuisca e che almeno a lungo termine essi perdano il potere» (Tricontinental, cit., pp. 9697). 51
Dal guerrigliero ai cuccioli di foca Da qui trae origine la religione della simpatia compassionevole che dimostriamo a gara verso tutto ciò che vive, soffre e sente, dal contadino del Sahel al cucciolo di foca, passando per il prigioniero di Amnesty International e gli animali da pelliccia, scuoiati per scaldare le spalle delle nostre elegantone. L'esaltazione degli istinti di benevolenza, « moralità istintiva che non ha cervello ma sembra esser composta solo da un cuore e da mani soccorrevoli» (Nietzsche), queste lodi cantate giorno e notte dai media, dalla stampa, dagli uomini politici, dalle personalità letterarie o artistiche, affondano direttamente le loro radici nel cristianesimo più imbastardito. Questa religione per afflitti dice che bisogna patire la vita come una malattia. Finché ci saranno uomini che rantolano, bambini che soffrono la fame, finché le prigioni saranno piene, nessuno avrà il diritto di essere felice.52 Si tratta di un imperativo categorico che c'impone 0 dovere di amare l'uomo impersonale, e, di preferenza, l'uomo lontano. Proprio come Gesù diceva che i poveri sono i nostri maestri, i terzomondisti fanno della miseria dei paesi meridionali una virtù da prendere a modello. Si amano i tropici per le loro pecche e le loro lacune, la carestia e il male sono al tempo stesso sottilmente combattuti e valorizzati; è un'ambiguità temibile da cui la Chiesa cattolica non è mai uscita, ma che contamina allo stesso modo tutte le organizzazioni assistenziali nel Terzo Mondo. Là dove la sofferenza non esiste, bisogna crearla; il dolorismo impone ovunque la petizione di principio dell'infelicità universale. Senza dubbio la pancia vuota di milioni di bambini, le epidemie, le guerre sono intollerabili, perché l'altro è il mio prossimo, ma questo dolore è anche necessario perché un universo senza infelicità avrebbe usurpato il posto del paradiso. 52 «Non possono esservi uomini felici in un universo infelice», ceva il situazionista Raoul Vaneigem nel 1967, nel suo Traité de voir-vivre à l'usage des jeunes générations, Gallimard, Paris. [Tr. Trattato di saper vivere ad uso delle giovani generazioni, Vallecchi, renze, 1973.]
disait.: Fi-
Così ci si mette al servizio dei poveri, ma anche della povertà, della rinuncia. Bisogna che vi siano dei senzatetto, degli orfani sui quali la nostra liberalità possa esercitarsi, per rammentarci di continuo che « il mio regno non è di questo mondo» e rendere sospetta ogni gioia." Nello stesso momento in cui si fa appello alla solidarietà, si celebrano discretamente i colpi del destino, pretesti all'umiltà. Ora che la Chiesa, tramite i suoi rappresentanti più qualificati, fa giustizia da sé delle ambivalenze della carità5'1 cristiana, sono dei laici - e preferibilmente marxisti - a risuscitarne i riflessi più equivoci. Perché prendere come unità di misura i più miseri, come fanno i nostri buoni Samaritani, significa sottintendere che la sofferenza e la morte non sono soltanto i colpi a vuoto di una macchina economica mondiale che è ingiusta, ma fanno anche parte «del dramma immemorabile del nostro rapporto col Creatore», 55 insomma, che lungi dall'essere soltanto uno scandalo o una violenza, esse esaltano e caratterizzano la nostra condizione umana. Così, di questo «fondo senza fondo del dolore» 56 si fa il tribunale, la sbarra dall'alto della quale si ammonisce l'umanità privilegiata e oziosa, si sguazza nei cenci e nel fango per 5'
In Men in dark times (Penguin Books, Harmondsworth, 1973) [tr. it.: Uomini in tempi oscuri, Spano, Milano, 1968], Hannah Arendt ha ben dimostrato che la compassione, da Robespierre in poi, è diventata il movente centrale dei rivoluzionari, e il male che ha fatto, col suo zelo per i popoli paria, alle rivoluzioni moderne. In un libro interessante su ha Charité aujourd'hui, che riunisce gli atti di un convegno di teologi, Henry Perroy nota, per esempio, in modo pertinente: «Credo che dobbiamo esitare molto prima di dire che vediamo il Cristo nel volto di colui che ha fame, di colui che ha sete, di colui che è in prigione: lo vedremo alla fine, cominciamo col praticare la carità prima di trovare formule per giustificare le nostre azioni, che spesso rischiano di distogliere la carità da ciò che è in realtà e di renderla in fondo umiliante per gli altri» (Editions sos, 1981, p. 196). 5 5 M A L C O L M M U G G E R I D G E , Qualcosa di bello per Dio. Madre Teresa di Calcutta, Edizioni Paoline, Torino, 1982 7 . 56 Secondo l'espressione di Edgar Haulotte, La Charité aujourd'hui, cit., p. 113.
meglio apostrofare l'ermellino e la seta. Sull'universo, di cui si stigmatizza ogni giorno l'insopportabile disordine, si getta lo sguardo di un Dio vendicatore che lo sovrasta e ne enumera senza tregua le tare e i difetti, si demonizza l'Occidente e si fissa il Terzo Mondo nella sua parte di perseguitato per meglio dimostrare che fra l'uno e l'altro non è possibile alcun compromesso, eccetto l'infinito pentimento del primo. Con un fiuto impareggiabile per scovare tutte le etnie, tutte le categorie che si trovano in un modo o nell'altro ridotte alla disperazione,57 si fa il giro del mondo della tristezza, della scalogna, della sventura; si registrano con perfida gioia i milioni di segnali d'allarme che lampeggiano nell'universo, si trae dalla rovina sistematica delle mille forme di vita dei continenti una specie di dilettazione morosa. Innamorato dei dolori umani, il democratico emofiliaco, pronto a sanguinare per tutte le cause, è la grande prefica della storia moderna; si è appena asciugato le lacrime che un nuovo soggetto di desolazione gliene strappa altre.58 E se colleziona a suo piacimento fallimenti e miserie, è solo per lanciarvi un avvertimento inequivocabile: avete goduto troppo, sprecato troppo, preparatevi all'astinenza,59 alla castità, al ritorno alla terra. La fame nel mondo è la sanzione delle nostre turpitudini europee. Supermercati, donA parte questa sfumatura, che è rilevante: se si tratta di un paese socialista, si insisterà sui lati buoni e sul bilancio positivo. Ma, di fronte a un paese di regime liberale o di vocazione democratica, si sottolineerà implacabilmente il minimo passivo. Non si è mai visto uno solo dei nostri grandi apostoli terzomondisti analizzare i rapporti ineguali che l'URSS intrattiene con le sue «colonie» d'oltremare, Cuba, Angola, Etiopia, ecc. Su questo tema la loro curiosità registra un vuoto che è sintomatico. 58 II capolavoro incontestato di questa querula mentalità resta Le Massacre des innocenti di Bernard Clavel, grido d'allarme davanti agli « abissi di sofferenza in cui la miseria e la guerra gettano i bambini », Editions «J'ai lu», Paris, 1970. " « Siete pronti a mangiare di meno, ma meglio, se ciò può diminuire la fame nel mondo? » chiede Michel Bosquet (Le Nouvel Observateur, 17 ottobre 1981), e aggiunge: «In Norvegia, 20.000 cittadini sperimentano volontariamente un modo di vivere più frugale e versa57
ne nude, omosessualità,60 cartamoneta, Coca-Cola, ecco i corruttori della sana gioventù tropicale.61 La tematica del risanamento, un tempo di destra, torna a essere di sinistra: mirabile riconciliazione fra le ceneri di Pétain e il mausoleo di Lenin, sotto il patronato di un Cristo lacrimoso, stile napoletano.
Il fardello delle prefiche Non abbiamo il diritto di stare in pace « finché un solo bambino continuerà a soffrire »:62 i nostri procuratori ci ordinano né più né meno di farci carico dell'intera umanità, di rinnegare i legami di famiglia, d'amicizia, di nazionalità, per onorare soltanto la figura universale dell'uomo afflitto:63 così la lotta di tutti gli uomini contro l'oppressione diventa la mia lotta.64 no tutto o in parte le economie così realizzate ad attività sul campo, nel Terzo Mondo». 60 « A Cuba esistono tradizioni di omosessualità, residui della colonizzazione sessuale degli yankee...» scrive senza batter ciglio MarieFrance Mottin, in Cuba quand mime, cit., p. 194. 61 « Abbiamo diffuso dappertutto le nostre esigenze e i nostri modi di soddisfarle. Il danno è fatto. La seduzione della potenza e del progresso tecnico e del denaro ha seminato il suo veleno fino ai confini dell'universo. La Coca-Cola, le chips, i transistor, le donne nude, le cravatte e le banconote sono già nel cervello, se non nelle mani di tutti gli uomini. Le vetrine dei supermercati oggi sono le stesse a Hong Kong, Rabat, Londra, Nairobi, San Paolo o Abidjan» (CHARLES CONDAMINES in lei mieux se nourrir..., cit.). 62 « Il tuo sguardo arde di quella luce che vorresti impedisse di dormire a tutti gli esseri umani, finché un solo bambino continuerà a soffrire» (BERNARD C L A V E L , op. cit., pp. 5 3 - 5 4 ) . 63 « U n o scrittore d'oggi non può scrivere su tutto. Vi sono troppe cause da difendere, troppe vittime» ( E L I E W I E S E L in Le Nouvel Observateur, 28 novembre 1981). M L'iniziatore di quest'universalismo astratto è evidentemente Jean-Paul Sartre: « Ognuna delle mie scelte ha allargato il mio mondo. Di modo che non considero più le loro implicazioni come limitate alla Francia. Le lotte con cui m'identifico sono lotte mondiali» (intervista a Tito Gerani, 1974, citata da SIMONE DE BEAUVOIR, La Cerimonie
Non viene in mente ai nostri buoni apostoli che non esiste un denominatore comune a tutti i conflitti e che il significato della parola giustizia varia da un paese all'altro secondo il suo contesto.65 No, io dovrei dilatarmi all'infinito, lo stesso giorno dovrei mobilitarmi per i combattenti del Nicaragua, per la guerriglia del Salvador, per le donne mutilate dell'Islam, contro la vivisezione dei gatti, dei cani e dei topi, senza dimenticare il tale sciopero in un'industria parigina, la tale rivendicazione degli studenti contro i loro professori.66 Poiché tutto mi riguarda, devo pormi all'altezza della molteplicità dei moribondi, dei sofferenti, degli agonizzanti, dei contestatori, dei minorati, dei deboli. Il mondo è tutto il giardino che debbo coltivare, abbraccio tutta l'estensione delle sofferenze del globo, in un sentimento inclusivo e oceanico, sono il Cristo che porta sulle spalle l'umanità dolente. Soldato della fame, soldato di Dio, rifiuto con orrore ogni abbandono ai piaceri privati, des adieux, Gallimard, Paris, 1981). [Tr. it.: La cerimonia degli addii, Einaudi, Torino, 1983.] M Sul vano tentativo della sinistra di trovare una radice comune a tutte le lotte, si legga l'eccellente critica di Kolakowski, in Lo spirito rivoluzionario, cit. 66 Così, in Le Monde del 31 ottobre 1981, un manifesto pubblicitario (p. 4) ci invitava a inviare le nostre firme e del denaro contro l'intervento americano nell'America centrale e per il diritto all'autodeterminazione dei popoli centro-americani, mentre a pagina 9 un altro manifesto intitolato « Bisogna impedire questo oltraggio » ci interpellava sul dramma dei cani martirizzati nel Sud-Est asiatico, cani che sono inviati, legati e imbavagliati, insieme a scatole di conserva dagli spigoli vivi, nei mattatoi dove saranno fatti a pezzi per essere mangiati. Certo, il lettore pensa con Lévi-Strauss « che il rispetto che speriamo di ottenere dall'uomo verso i suoi simili è solo una forma del rispetto che egli dovrebbe sentire per tutte le forme di vita » (discorso all'UNESCO, 1971). Ma la giustapposizione del Nicaragua e dei cagnolini non mancherà di assumere una strana risonanza; la stessa sera, suppongo, il lettore sarà sollecitato alla televisione a favore dei profughi di Haiti, del boat-people del Vietnam, dei disoccupati francesi, e tutti questi appelli al suo buon cuore finiranno per equivalersi, per annullarsi.
resto in stato d'allarme permanente sino alla fine del mondo, divento in qualche modo un eroe del disinteresse. Ora, noi non pretendiamo di imitare il Cristo. Per noi gli uomini esistono solo attraverso le situazioni in cui possiamo incontrarli. Senza dubbio, in ciascuna delle mie attività è coinvolto il mondo, e quest'allargamento spaziale delle mie responsabilità determina anche la loro dimensione temporale: ma certi uomini aspettano da noi un soccorso immediato perché ci sono vicini e queste attese definiscono linee d'azione privilegiate. Anche se ogni impresa si schiude sulla totalità umana, le nostre solidarietà sono innanzi tutto locali o nazionali. In che cosa uno sciopero degli autisti di taxi a Marsiglia si assimila all'azione dei piantatori di arachidi in Costa d'Avorio? In che cosa i blocchi stradali dei viticoltori del Midi possono essere solidali con la lotta degli indiani navajo in Arizona contro l'amministrazione federale? Le situazioni non sono sovrapponibili e non si è il prossimo di nessuno se si è il prossimo di tutti. Proclamarmi solidale con le disgrazie del genere umano, rinnegare amici, parenti, patria, a vantaggio di una vaga simpatia universale, significa in verità infischiarsi di tutti. Non si evade con un colpo d'ala dalla propria epoca né dal proprio paese, e questo sforzo per identificarsi con 1'« universalità » riceve subito la sua smentita. La coscienza gonfiata è una coscienza vuota.
Indifferenza della pietà Questo, i cowboy umanitari lo sanno. Ma, non potendo curare il male, essi mirano a coltivare il senso di colpa. Lubrificano la vergogna come i tecnici tastano e verificano le macchine affidate alle loro cure. Preposti a titillare le nostre coscienze, solleciti di vederci a mollo nel rimorso come le patatine nell'olio, limano invettive e sproloqui per far sprofondare il loro gregge in una disperazione passiva, sterile, incondizionata. E questa malinconia non è senza motivo. Vi sarà sempre, nel mondo, abbastanza tristezza perché noi ci rodiamo il fegato; ma questa inquietudine non sarà mai altro che un brivido senza conseguenze. La compassione scompare se non c'è che
compassione e la rivolta finisce nell'insensibilità. Insomma, si lusinga la molle pietà67 perché il senso di colpa è il comodo surrogato di un'azione impossibile. In mancanza di capacità reale, domina la commozione. Non si tratta tanto di fare qualcosa quanto di essere giudicati, la salvezza è nel verdetto che fa di noi dei reprobi, ciascuno al suo posto in un mondo ordinato. Quel che ci attira nella fame, è l'impossibilità che scompaia immediatamente; e quindi la libertà che ci è concessa di lamentarci sulla fame. Per questo la denuncia è sempre il momento preferito dei nostri castigamatti. Tutto deve gravitare intorno al polo dell'anatema, la sua forza d'attrazione è irresistibile. Poco importa, perciò, che gli appelli all'opinione pubblica abbiano qualche effetto: bisogna prima di tutto umiliarci, coprirci di cenere, la sopravvivenza delle popolazioni sinistrate verrà in seguito. La forza di una campagna di carità si misura quindi sul grado di dispiacere che procura ai destinatari: deve provocare nel cittadino che è apostrofato la stessa intolleranza di un cucchiaio d'olio di fegato di merluzzo in uno stomaco delicato. I miserabili esistono unicamente per permettere agli atleti del dovere, ai martiri dell'obbrobrio, di esercitare ogni mattina il loro cuore dilaniato, brandendo i propri gemiti come pesi da sollevamento. Questione di vita o di morte, il discorso sulla miseria esige in primo luogo della gente infelice: laggiù perché non ha nulla, qui perché ha troppo. Ecco perché, là dove c'è miseria si dice sfruttamento, e dove c'è malessere, si dice miseria: la Storia, da una parte e dall'altra della linea NordSud, rimane l'esaltante narrazione di una decadenza e del « Esistono due specie di pietà. Una molle e sentimentale che in realtà è solo l'impazienza del cuore di sbarazzarsi al più presto della penosa emozione che vi afferra davanti alla sofferenza altrui, e che non è affatto compassione ma un moto istintivo di difesa dell'animo contro la sofferenza estranea. E l'altra, la sola che conti, la pietà non sentimentale ma creativa, che sa quello che vuole ed è decisa a perseverare fino all'estremo limite delle forze umane» ( S T E F A N Z W E I G , Ungeduld des Herzens, 1939). [Tr. it.: L'impazienza del cuore, Feltrinelli, Milano, 2004.] 67
suo riscatto. Dolcezza della colpa: paghiamo le nostre imposte alla miseria del Terzo Mondo sotto forma di scrupoli, e, così, non dobbiamo più rispondere di noi stessi. E inteso che siamo esseri maledetti, che debbono per forza far soffrire gli altri. Passiamo vestiti di saio davanti alle folle, carichi di un peso che impone il rispetto. Questo rimorso ci fa onore, ci innalza nel sentimento magnifico dell'inevitabile. Colpevoli, vale a dire irresponsabili.68
Addio, vitelli, mucche, maiali'. Capiamoci bene: mangiare è il primo diritto di ogni uomo, e la fame è il male assoluto da eliminare con la massima urgenza. Ma la presa di coscienza dei problemi della fame nel mondo può essere la migliore, come la più vana delle cose. La migliore se è pratica, puntuale, accompagnata da azioni effettive in situazioni particolari.69 La più futile se è globale, se fa ap68 È necessario smontare la profonda ipocrisia di affermazioni come questa, espresse da uno di quei giornalisti del Matin pagati un tanto a riga: « In fondo agli occhi di quei bambini [in Egitto], da un mercato soffocato nella polvere a un vicolo che odora di asini, di anice e di sesamo, si legge l'insondabile miseria di un terzo mondo abbandonato. Ogni volta che lo visito, mi prende lo stesso disgusto. La finiremo una buona volta con le nostre chiacchiere oziose di ben pasciuti? O coi nostri gridolini di terrore per 7 franchi di news magazine? Invece di comprarli, con la stessa somma potreste nutrire 7 bocche di affamati. Invece di soccorrere un mondo che muore, da spaventosi egoisti, rimastichiamo il pezzetto di grasso delle nostre paure. Non siamo abbastanza odiosamente ricchi? Non abbastanza rimpinzati alle cornucopie della società opulenta? Tutto quanto meritiamo è una guerra atomica, giusto castigo delle mediocri Sodoma e Gomorra dell'Occidente» (JEAN-EDERN HALLIER, 3 dicembre 1981). 69 Durante l'estate 1981, alcune anime buone si commossero perché Amnesty International, l'associazione Medici senza frontiere o l'UNESCO avevano scelto di sensibilizzare l'opinione pubblica sui temi della loro missione per mezzo di manifesti pubblicitari. Come potevano, simili atrocità, adattarsi allo stesso patrocinio dei prodotti di bel-
pello a un'eliminazione immediata del male pur sapendo che tale obiettivo non è realizzabile: nel qual caso si mobilita l'opinione pubblica per vuote chiacchiere. Purtroppo bisogna constatare che predomina questo secondo tipo di campagna, coltivando una pietà la quale soltanto di rado è il punto di partenza di un'attività efficace. Ad esempio, un'operazione contro la fame, lanciata dalle organizzazioni Terre des hommes e Frères des hommes, pubblicizzata dai media e da Antenne 2 (ottobre 1981), scongiurava i francesi di ridurre i loro consumi di carne: poiché occorrono numerose proteine vegetali per produrre una proteina animale, col diminuire il loro appetito carnivoro essi avrebbero consentito al Terzo Mondo, principale produttore di cereali da esportazione, di dedicarsi a un'agricoltura diversificata, saggio mezzo per premunirsi contro i capricci dei corsi economici mondiali. Così, nello stesso momento, sarebbe diminuito il tasso delle malattie cosiddette della civiltà (infarto, ipertensione, ecc.), provocate dall'alto tenore lipidico della carne. Era semplice, così semplice che si domanda come mai nessuno ci aveva pensato prima! Seguiamo dunque passo per passo questa valorosa crociata. Prima di tutto si colpiscono le nostre tare senza tanti complimenti: noi siamo degli «affamatori», scrive Michel Bolezza, delle mutandine o dei detersivi? Come si osava trasformare un'urgenza etica in capriccio estetico? Qui il dato urtante era la brutalità dei media, il fatto che i discorsi edificanti fossero relegati in secondo piano, per non dire aboliti, a vantaggio del risultato pratico. Ci è stato risparmiato il solito pathos; un semplice volto, una breve didascalia («Il suo delitto: pensare. Se sarà dimenticato, morirà», dice il prigioniero politico di Amnesty International. «Cinquecento milioni di non-consumatori», ironizzava il manifesto di «Azione internazionale contro la fame»), E i risultati hanno confermato che la campagna aveva dato i suoi frutti. Le opere umanitarie lo sanno: la pietà non è sicura e la filantropia è troppo fugace. I passanti hanno bisogno di rinfrescarsi ogni momento la memoria con tabelloni di 3 metri per 4, coi metodi d'insistenza e di ripetizione che hanno fatto la fortuna della pubblicità. Forse la morale ci perde, ma il charity business ha dimostrato la sua efficacia.
squet,70 giudizio che tuttavia si accompagna a circostanze attenuanti: « Certo, non siamo colpevoli individualmente né direttamente [...]. La sottrazione delle risorse alimentari del globo è organizzata da giganti industriali, aziende di intermediazione dalle ramificazioni mondiali, compagnie petrolifere e banche che non ci hanno chiesto il nostro parere. Ma noi approfittiamo di questa sottrazione, e le nostre abitudini alimentari lo rivelano».71 Quindi, la spietata constatazione può essere enunciata col tono neutro di un teorema: « L a nostra supernutrizione deriva dal saccheggio del Terzo Mondo. La fame nel Terzo Mondo è mantenuta dalle nostre abbuffate ». « I paesi della fame ci fanno vivere», s'intitolava, da parte sua, un programma di Antenne 2 trasmesso il 25 febbraio 1982.72 Per fortuna una giustizia immanente già ci punisce della Le Nouvel Observateur, 17 ottobre 1981. Sul tema ricorrente del cibo maledetto, molti hanno ricamato allegramente: « Il nostro piatto è divenuto oggi l'anello terminale di un sistema sempre più complesso, che estende le sue ramificazioni fino nei più remoti angoli del pianeta per appropriarsi il lavoro e il denaro di tutti gli uomini» (lei mieux se nourrir..., cit.). Ammiriamo di passaggio il pudico « sistema sempre più complesso », vero artificio persuasivo che permette di far ingoiare l'accusa: riconoscete la vostra colpa, perché il processo che l'ha generata è così complicato che è inutile spiegarvelo. 72 Che cosa sottintende questo titolo? Che 700 milioni di sottosviluppati fanno vivere 60 milioni di francesi che si girano i pollici. Eliminati con un colpo di bacchetta magica l'agricoltura, i coltivatori francesi. Ai fini della propaganda, si utilizzano formule scandalosamente riduttive che contribuiscono ad aumentare un po' di più la confusione. 70
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nostra ingordigia colpendo il nostro organismo con le sette piaghe d'Egitto, vale a dire: « Carie dentaria, malattie cardiovascolari, calcoli renali e biliari, varici, costipazione, emorroidi, cancro dell'intestino [...], che provocano un enorme consumo medico-farmaceutico» (Michel Bosquet, id. ). Rimediare a questi eccessi, combattere la malnutrizione del Sud, aiutare i contadini sottosviluppati e, giacché ci siamo, denunciare la barbarie dell'allevamento dei polli « imprigionati a 4 a 4 per tutta la vita in gabbie di 40 x 40 cm, centinaia di vitelli chiusi in recinti individuali di 1,20 x 0,65 m per i 100 giorni circa del loro ingrasso», anch'essi sacrificati all'infame dio Profitto,73 tutto ciò costituisce dunque una stessa e unica lotta. Chi è il nemico? I trust agro-alimentari, naturalmente, ma anche noi stessi. Qual è l'arma del delitto? La carne, la nuova pecora nera, il flagello della dietetica. « Mentre sappiamo », scrive da parte sua Jacques Grall in Le Monde del 18-19 ottobre 1981, «che occorrono 6 o 7 proteine vegetali per fare una proteina animale, sappiamo anche che riducendo il nostro consumo di carne si allenta la pressione esercitata dai paesi in via di sviluppo, che noi costringiamo a produrre proteine ». E più in là aggiunge: « Non si tratta di dichiarare guerra a tale o talaltra produzione, ma di prendere coscienza in ogni famiglia che orientare la nòstra alimentazione verso una dieta più equilibrata, con più vegetali nostrani, più alimenti fibrosi per - ma sì - favorire l'evacuazione, è un mezzo per pri73
lei mieux se nourrir..., cit.
vare il mercato internazionale della sua onnipotenza. Assente dai programmi e dai discorsi, anche la nutrizione è politica». Queste affermazioni inducono a due osservazioni: la prima è che il «tutto è politica» degli anni '70, che fino a poco tempo fa riguardava perfino la vita privata, ora scende a livello intestinale. La seconda è che, a sentire i nostri informatori, sembra che noi e noi soltanto possiamo aiutare il Terzo Mondo a cacciare la carestia, mentre esso si accontenta del ruolo di comparsa. Non solo siamo incolpati per la politica cerealicola seguita dai governi brasiliani o tailandesi, che hanno sostituito il riso, la patata o la cipolla con colture di soia, di manioca o di arachidi,74 ma ci si vuole anche persuadere che gli indigeni non ce la faranno da soli, che le soluzioni sono nelle nostre mani.75
«L'obliqua genuflessione del devoto frettoloso»
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Tralasciamo il fatto, di per sé abbastanza doloroso, che tutte le informazioni date erano false, come ha rivelato un articolo di Gilbert Etienne in Le Monde;77 dimentichiamo che una relei mieux se nourrir..., cit. « La manioca tailandese per i porci europei», pp. 33-34. « L a dittatura dell'arachide» (Senegal), pp. 36-37. «Non tutti i brasiliani fanno il loro interesse vendendo la soia», pp. 38-39. 75 E quanto suggerisce una piccola frase di Charles Condamines nella stessa pubblicazione di Terre des hommes: « L a realtà vissuta dai popoli del Terzo Mondo è diventata tragica: il nutrimento necessario per calmare la loro fame esiste in quantità sufficiente, ma per mancanza di denaro non possono procurarselo e le loro terre servono di più ad alimentare le nostre mucche e i nostri maiali; e se vogliono resistere o ribellarsi, le forze dell'ordine li massacrano o li gettano in prigione» (p. 45). 76 Gustave Flaubert. 77 In Le Monde del 24 marzo 1982,Gilbert Etienne, professore delle Hautes Etudes du développement a Ginevra, rivela che gli USA as74
te televisiva, parecchi grandi quotidiani e settimanali ci hanno mobilitati per un inganno. Anche se veritiera, questa campagna sarebbe stata ridicola: se era per dirci che consumiamo troppi grassi, zuccheri, calorie, nessun bisogno d'invocare il Terzo Mondo: il Ministero della sanità, la stampa femminile, i medici, la nouvelle cuisine stessa, con la sua moda delle piccole porzioni, ci ripetono la stessa cosa da anni. Se si tratta « di sostenere i contadini e gli Stati del Terzo Mondo nelle loro rivendicazioni per prezzi più giusti », non si può non essere d'accordo; se si tratta di frenare il nostro spreco alimentare, di diminuire i costi energetici dell'allevamento del bestiame in Europa, applaudiamo con entusiasmo, ma perché farci credere che una semplice diminuzione del nostro consumo di carne risolverebbe come per miracolo i problemi dei paesi sottosviluppati? Sicurano più di due terzi delle esportazioni mondiali di cereali secondari, mais e sorgo, per nutrire il bestiame di grossa e piccola taglia; seguono i paesi della CEE, il Canada e l'Argentina. Conclusione: «L'alimentazione del nostro bestiame è principalmente un affare tra ricchi ». Da parte sua, il quotidiano Le Soleil (Dakar) scriveva su questa campagna, di cui salutava la generosità di intenti: « Presentata come terapeutica, [essa] si rivela esageratamente ottimistica e contrasta nettamente con la diagnosi che l'ha generata. L'esistenza di vincoli non permette di prospettare soluzioni di rottura fondate in modo particolare su un possibile boicottaggio delle colture più redditizie. Che ne sarebbe in tal caso dell'economia senegalese se, da un giorno all'altro, fosse privata degli introiti procurati dall'esportazione dell'arachide, che è la sua principale coltura commerciale [...] Oltre all'estrema schematizzazione, questo appello al boicottaggio provocherebbe una situazione molto più catastrofica» (SIDY GAYE, articolo pubblicato nel supplemento a Le Monde del 7 ottobre 1982). Occorre un'ultima prova? Nel numero della rivista Trìcontinental apparso nell'autunno 1982 e dedicato ai luoghi comuni sulla carestia, Francisco Vergara fa giustizia in poche righe della campagna condotta da Frères des hommes: « Le cifre sono indiscutibili: il Nord s'ingrassa, in sostanza, sulla base del nutrimento che produce da sé, ed esporta verso il Sud più alimenti di quanti ne importi. Ma il nutrimento esportato dal Nord non arriva agli strati sottoalimentati» (p. 101).
«La fame è uno scandalo del tutto assurdo», scrive a proposito di questa stessa campagna Jean Ziegler.78 « Basterebbe, per sconfiggerla, cambiare le abitudini alimentari, ridurre - fra l'altro - il superconsumo di carne. Gli occidentali ne trarrebbero solo vantaggi per la loro salute e, nel Terzo Mondo, milioni di uomini avrebbero infine accesso a un'esistenza umana. Non c'è affatto bisogno di rovesciare coalizioni statali, e neppure di negoziare a livello mondiale nuove convenzioni di scambio: basterebbe una semplice e ragionevole scelta da parte dei consumatori. » Purtroppo, per quanto riguarda questa soluzione miracolosa, nello stesso numero del Monde diplomatique, sette pagine più avanti, una serie di articoli sulla sottrazione degli aiuti alimentari a opera della borghesia africana ci avverte: «Le cose non sono semplici nelle relazioni Nord-Sud. Per gli apostoli di un maggior aiuto ai paesi in via di sviluppo, basterebbe ad esempio devolvere a questo scopo una piccola parte delle spese per gli armamenti, o porre fine allo spreco di cereali destinati a nutrire il bestiame, perché scompaiano carestia e povertà. Ciò significa dimenticare che l'assistenza bilaterale o multilaterale segue un itinerario complesso che si può descrivere, schematicamente, come un trasferimento del denaro dei 'poveri' dei paesi ricchi verso i 'ricchi' dei paesi poveri »,79 In altri termini, il denaro, i doni, le medicine che avrete potuto economizzare grazie a un minor consumo di carne, andranno direttamente nelle tasche degli alti funzionari o borghesi del Sahel, come dimostra un articolo di Jean-Loup Amselle,80 e non nello stomaco vuoto delle loro popolazioni. I nostri teneri propagandisti del vegetarianismo avevano, nel loro zelo, dimenticato un particolare: che il Terzo Mondo non è un am78 79 80
Le Monde diplomatique, novembre 1981, p. 10. Ibid, p. 17. Ibid., pp. 18-19.
biente vuoto, amorfo, ma una serie di Stati indipendenti con un esercito, una polizia e delle élite che dispongono a loro piacimento degli aiuti alimentari. Stessa pudica confessione in Charles Condamines, alla fine della sua arringa: « Evidentemente sarebbe ingenuo credere che una diminuzione del nostro consumo di carne risolva in modo automatico il problema della fame nel mondo. Ma è pur sempre vero che il nostro sistema di produzione e di consumo alimentare crea una pressione sempre più grande sull'utilizzazione delle risorse disponibili all'interno dei paesi del Terzo Mondo. Si tratta di far calare questa pressione ». D'un tratto, preso da uno scrupolo all'ultimo minuto, l'autore si lascia sfuggire di soppiatto: «Certo, la realtà è più complicata» (e seguono cinque aspetti contraddittori, molto tecnici, della produzione di manioca, che dimostrano gli interessi assolutamente antagonistici degli allevatori francesi, europei e dei produttori di cereali). Brivido del lettore: tutto il bell'edificio sta per crollare? Non c'è più speranza di vedere le vittime unite in un solo fronte contro gli sfruttatori? Charles Condamines riprende le sue truppe con mano ferma: « Ma invocare la complessità dei meccanismi in gioco, il carattere contraddittorio degli interessi coinvolti, non significa crearsi a ogni buon conto degli alibi per non far nulla? Come afferma Joél de Rosnay, mangiare non è anche 'votare tutti i giorni'? Non esistono modi di nutrirsi che siano meno oppressivi di altri? » La morale è salva... Ed ecco la conclusione a mo' di perorazione trionfale: «Se riusciamo a ottenere 100.000 impegni personali per
questa forma di solidarietà con gli affamati del Terzo Mondo, avremo raggiunto i nostri obiettivi. Avremo fatto un grande mini-sciopero della fame. La salute dei francesi ne avrà tratto giovamento, un grande dibattito pubblico sarà stato aperto e la pace nel mondo sarà un po' meno minacciata ».81 Che modestia, ma altresì che rivelazione! Tanto rumore per reclutare degli aderenti, per gonfiare gli effettivi di Terre des hommes. Bisogna fare qualcosa, e una cosa qualunque è meglio di niente:82 anche quello che Condamines osa chiamare un «mini-sciopero della fame», vale a dire una raccolta di firme per la sua organizzazione. Qui si arriva al sublime della casistica, e il colmo del cinismo si unisce al « cuore in mano » con perfetta ingenuità. Perché la cosa più importante è portare la propria parte della croce del Cristo; la nostra simpatia sarà dunque una compassione, un patire insieme, l'atto con cui aiuteremo i nostri fratelli indigeni, condividendo parzialmente il loro destino: simpatia mimetica fino a un certo punto, perché se seguo i consigli di Terre des hommes, io mangerò di meno, ma loro, gli africani, continueranno a non mangiare nulla; qui dieta, là carestia, puro zelo rituale di cui è difficile comprendere l'utilità. Ma l'essenziale, naturalmente, è liberarsi del dolore degli altri, solo per averne provato compassione, è scimmiottare almeno, non potendo conoscerla, la povertà.83 Certo, gli affamati non saranno indennizzati immediatamente, ma con questo piccolo sistema di compensazione ci saremo avvicinati a loro. Una la mieux se nourrir..., cit. Sull'inutilità di ridurre il consumo di carne, si veda anche Susan George, op. cit. 81 E esattamente l'ideale missionario, ma travestito: « P e r essere un vero Missionario della Carità dovete essere una vittima piena di allegrezza », spiega madre Teresa, e più avanti: « Non potremmo comprendere e soccorrere realmente quelli che mancano di tutto se non vivessimo come loro » (La gioia di darsi agli altri, Edizioni Paoline, Torino, 1981). 81
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privazione a destra, porzioni ridotte a sinistra, meno burro sulle tartine, un cucchiaino di zucchero invece di due nel caffè: come non pensare, vedendo queste raccomandazioni, alla pratica delle indulgenze nel xvi secolo? La nostra colpevolezza diventa una merce che si scambia secondo il principio: meno carne a tavola e più cereali. Scambierò perdono contro pane di segala, digestione assicurata. Negoziamo la nostra redenzione a colpi di leguminose e di fibre, i carnivori sono in deficit morale, mentre i vegetariani ostentano un credito illimitato. Beati gli adepti del bulgur e del sorgo, perché loro è il regno dei cieli: avranno il brodo e l'arrosto senza confessione e, in premio, la tanto agognata regolarità intestinale! La carne polarizza su di sé tutti i miasmi dell'Occidente, il bue vampirizza il globo, simboleggia l'imperialismo, mentre porri, carote, sedani suggellano il riawicinamento dei popoli. Un tempo si privavano i bambini del dessert: oggi il Sant'Uffizio dichiara che il cattivo Bianco sarà privato della bistecca un giorno su due. Doppia purga: delle passioni e del sistema digerente. Insomma, questa campagna, oltre a essere fondata su un'impostura, è fallace per due ragioni: riconduce fenomeni economici altamente tecnici a problemi di moralità individuale, poi, con un tratto di penna, ci libera di questa colpa riducendola a una concezione mercantile del mangiare di più o di meno. Sono i terzomondisti della bistecca, come ci sono i cristiani della domenica mattina; si sbrigano del loro tributo al Terzo Mondo astenendosi una volta su due o tre dal mangiare carne. Grazie a questa dieta, si diventa assolutamente morali, anche ingoiando la minestra. Nessun sacrificio, ma un calcolo circospetto, una prudente amministrazione del nostro peccato, un'astinenza che si rivela benefica: la perfetta salute dei miei organi va di pari passo con lo stomaco rimpinzato dei piccoli cinesi. Questa quaresima è una provvidenza. La Grande Inquisizione è, in fondo, clemente: ci ha rimproverati, ma era per meglio vezzeggiarci. E, nella distensione che segue l'invettiva, sopraggiunge il perdono. Così l'ammenda onorevole, l'umiltà diventano agenti di eliminazione della colpevolezza. Insomma, queste crociate contro la carne sono prima
di tutto delle macchine per convertire la vergogna diffusa in felice autopunizione.
I pericoli dell'incontinenza retorica A questo punto ci si accuserà di cavillare, di fuggire l'orrore nella frivolezza dell'esegesi, di darci a vane analisi, mentre l'urgenza delle carestie chiama all'azione immediata. Non è affatto vero: se le parole vogliono essere efficaci, devono serbare un senso. Quando le parole deformano il reale, noi abbracciamo una deformazione e il reale si dissolve. Nessuna lotta può essere condotta su premesse erronee. La causa dei paesi sottosviluppati non progredirà in Occidente sulla base di diagnosi dubbie: perché mai, in un diluvio di buone intenzioni, imbrogliare il problema con fattori terzomondisti spesso inesistenti? Appena si evoca il Sud, il principio di realtà rende l'ultimo respiro, ben presto rimpiazzato da divagazioni che offendono il sapere, la logica, la storia o il semplice buonsenso. Dappertutto lo scrupolo di esattezza è soppiantato da convinzioni artificiali, da slogan prefabbricati applicabili a qualunque paese o congiuntura. La degradazione dell'informazione a propaganda falsifica le più nobili discussioni, e un nugolo di malintesi circonda l'appello sconsiderato al pathos. Ben presto, il ridicolo fa a gara con l'odioso, la falsa sollecitudine per i poveri rivaleggia con il più totale disinteresse. La fame è di per sé uno scandalo sufficiente; perché, per soprammercato, dichiararcene colpevoli e offrirci, per liberarci dal debito, quel vago placebo dietetico, secondo le regole del catechismo più melenso? Vi sono due modi d'insabbiare un problema: o dimenticarlo, o dissolverlo nell'eccesso e accrescere la confusione dei valori. A trattare la questione della fame come se dipendesse da un semplice atteggiamento morale, si truccano le scelte in una filantropia all'acqua di rose, un magico abracadabra assai efficace nel rendere insensibile la coscienza. Il primo dovere verso gli affamati del Terzo Mondo è quello di analizzare ogni situazione nel suo proprio contesto, con le sue particolari circostanze, è pesare ogni pa-
rola su una bilancia da orefice per avvicinarsi alla verità con il massimo rigore e la massima finezza. In linguaggio morale, è ciò che si chiama uno scrupolo.
Dettare l'immagine del Terzo Mondo «Fa molto male alla salute inghiottire i sentimenti con un grosso cucchiaio. » ROBERT MUSIL
La standardizzazione attraverso la pietà L'informazione, come sappiamo, obbedisce a un imperativo di turbamento, e diffondere notizie è sempre dire quello che non va. Solo l'evento drammatico, il fatto di cronaca sconvolgente sotto forma di sommosse, di stragi o di calamità attirano l'attenzione. La cosa seccante è che i media fanno professione di realismo. Pretendono di riprodurre il mondo. Donde quest'ambiguità: a vedere di continuo i paesi stranieri rappresentati sotto l'aspetto di esiliati che fuggono dalle dittature, di paria, di malati, nello spirito pubblico si forma un'immagine, quella di un universo d'angoscia dove la vita sussiste solo per miracolo. E tale distorsione, lungi dall'essere uno scoglio o una perversità « ideologica », appare come una condizione di questi reportage. Qui, sotto un'evidenza di veracità giornalistica - non c'è trucco né falsificazione - si gioca una partita molto sottile: le scene crudeli, violente che ci vengono mostrate quasi ogni sera non si contentano di riprodurre reali carestie, dolori evidenti; con la loro aria di semplici constatazioni, li oggettivano; così si pretende che un momento della vita di un popolo ne riassuma tutta la vita. Insomma, le particolari disgrazie di una determinata repubblica tropicale, la malnutrizione stagionale di una certa regione africana, simboleggiano l'antichissima miseria, costante dei continenti extraeuropei. Che cosa dedurre da questi ritratti? Solo che, per quanto siano onesti e ingegnosi, sono prima di tutto dei cliché. Nella loro volontà di commuoverci, presentano la miseria come unica
verità dei paesi sottosviluppati. E tale rappresentazione assume tutta la forma di una testimonianza. L'immagine è dunque al tempo stesso copia e modello: riflette alcuni avvenimenti reali che si spacciano per prototipi di tutti gli avvenimenti. Doppio sotterfugio: l'obiettivo smentisce che la vita oltremare non sia altro che un lungo sospiro della creatura oppressa; nei riguardi dei nostri fratelli lontani, inventa questa nuova patologia: la felicità. Insomma, la compassione non è più uno dei rami della carità, è un annesso della geografia. Se, a dispetto delle terribili difficoltà che le affliggono, le popolazioni indiane, tailandesi, coreane, angolesi o saheliane conoscono reali momenti di gioia, se, a quelle latitudini, le risate, le passioni amorose avvicinano gli uomini, le donne e i bambini esattamente come avviene da noi, in altre parole se gli individui resistono a lasciarsi dirigere dal nostro sguardo compassionevole, ciò non può essere che il sintomo di una corruzione o di una soggezione alla propaganda imperialista.84 Vittima o combattente, preso in una logica del martirio o in una logica della guerra, l'uomo del Terzo Mondo ha diritto di esistere solo in quanto ribelle o sofferente. Non ci sono mezzi termini: la sua condizione lo rende disperato o esasperato. Un indigeno felice è già una contraffazione, un Per aver osato scrivere, l'uno che le donne e le ragazze degli slums di Calcutta sono «di un'impeccabile eleganza, pulite e ordinate come se intorno a loro non vi fossero né cloache immonde, né escrementi di bufalo, né detriti, né argilla », l'altro che « l'allegria dei bambini di Bogotà è evidente », e il terzo infine che, in un boschetto curdo a nord dell'Iran, « una bambina vestita di rosso vivo, gli occhi perduti verso un orizzonte di rilievi desertici, liscia instancabilmente i suoi lunghi capelli neri », Jean-Claude Guillebaud, Jacques Meunier e Marc Kravetz si sono fatti coprire d'insulti dal trotzkista Jean-Pierre Garnier che li accusa, in Le Monde diplomatique dell'agosto 1980, di cadere nell'estetismo della miseria e di essere i nuovi araldi dell'imperialismo occidentale. Unendo l'ignoranza del provinciale alla stupidità del militante, J.-P. Gamier prova, con le sue critiche, in che bassa stima tenga quei popoli del Terzo Mondo con cui si proclama, peraltro, solidale, poiché rifiuta loro il diritto a un minimo di umanità, che è il diritto al sorriso e alla dignità. 84
circolo quadrato: meglio dipingerlo prostrato in una valle di lacrime e constatare la perdita della sua libertà gemendo sopra di lui. Questa legge della compassione esclude ogni legame concreto dove altri sentimenti come la collera, l'ammirazione, la diffidenza, il fascino potrebbero avere libero corso. E tanto più facile simpatizzare astrattamente con gente infelice, mentre la simpatia verso la gente felice esige una maggior nobiltà d'animo, obbligandoci a lottare contro l'ostacolo rappresentato dall'invidia: « Se gli uomini sono capaci di compatire le sofferenze altrui, solo gli angeli sono capaci di rallegrarsi delle gioie altrui» (Jean-Paul).85 Così si prendono due piccioni con una fava: si preleva nel Sud un aspetto reale ma parziale, poi lo si innalza al rango di simbolo e si presenta tale estensione abusiva come una verità «nuova», «sovversiva». Dettare l'immagine del Terzo Mondo, e dare a questo dettato il potere di una norma, il valore di un'emancipazione. Così i nuovi crociati, con la scusa di scuotere la coscienza occidentale e di mostrare i misfatti di cui saremmo responsabili laggiù, spacciano banalità non meno ingenue di quelle riferite, ai loro tempi, dai vari Loti, Colette o Paul Morand. E i progressisti tracciano dei paesi poveri un quadro tanto stereotipato nelle sue tinte fosche quanto era roseo quello dipinto dai manuali dell'epoca coloniale. A chi decretare, allora, la palma del miglior censore? Ai portavoce delle multinazionali che saccheggiano l'emisfero Sud in tutta tranquillità, o agli indignati che vogliono l'uomo del Terzo Mondo esclusivamente miserabile, oppresso, diseredato? Dov'è il pregiudizio? Nella maledizione pronunciata contro il Sud dai seguaci delle teorie di Raymond Carrier o nell'immagine lacrimosa che ce ne danno i cosiddetti simpatizzanti? Il che equivale, in fondo, a chiedere all'Altro lontano che tipo di soggezione preferisca: essere strozzato dal neoco" Citato da MAX SCHELER, in Essenza e forme della simpatia, Città Nuova, Roma, 1980.
lonialismo o standardizzato dalla pietà. Esaltante alternativa che offre sempre e soltanto due versioni dell'immaginario occidentale.
La vocazione escrementizia del Sud Perché, in materia di paesi sottosviluppati, la palma tocca sempre al discorso più piagnucoloso? Perché esiste un sadismo della pietà, e, a metterle troppo in mostra, si finisce per godere delle disgrazie degli altri. Gli asiatici, gli africani, i sudamericani sono classificati nella categoria del patologico, perché di loro possiamo parlare soltanto in cifre: noi siamo individui, essi sono folle. E al numero non può essere riconosciuta una qualità umana se non come emblema del macabro. Donde la tentazione dell'eccesso che è in agguato dietro ogni discorso terzomondista: si fanno giochi di destrezza con le statistiche, si arrotonda allegramente allo zero superiore,86 e questo importa poco perché non si tratta di uomini, ma di esseri indifferenziati e pullulanti. Per commuoverci, devono agglutinarsi in masse, essere falciati a milioni. Ridotti alla loro animalità, gli uomini dei tropici non sembrano più che stracci in mezzo agli stracci.87 Davanti alle immagini dei carnai della Cambogia, dei massacri nel Libano, delle strade disseminate di scheletri nel Biafra o nell'Ogaden, l'orrore si distrugge da sé e i vivi portano già addosso la stupida inerzia del cadavere: sono morti in congedo provvisorio, orde votate alla putrefazione e il cui stermiCinquanta milioni di morti per fame ogni anno, proclamano i terzomondisti. Ora, in Le Monde del 24 marzo 1982, Joseph Klatzmann ci spiega che nel 1981 sono morti in tutto il mondo 48 milioni di uomini, per le più varie cause... 87 « Lontano dalla nostra civiltà, guardate quei miserabili morire di fame sotto i nostri occhi», dice sintomaticamente uno studente di quarta in una poesia pubblicata in occasione della Giornata del Terzo Mondo nella scuola, organizzata dall'UNESCO e dall'UNICEF (23 ottobre 1981). 86
nio non farà più rumore di un insetto schiacciato contro un vetro. Del resto, a forza di vivere dei nostri doni, cioè dei nostri scarti, ormai sono anch'essi assimilati a rifiuti. In qualunque modo si spieghi la povertà, con lo scambio ineguale, l'incompetenza o il saccheggio della periferia da parte del centro,88 il nostro disprezzo verso il Sud non fa che rafforzarsi, se lo rinchiudiamo e lo riassumiamo in questa povertà. Da tempo immemorabile, gli uomini di questo continente sono il bersaglio delle nostre elargizioni, e non potranno ricevere altra rivelazione che quella del loro avvilimento. Al di là dei mari, non esistono che tubi digerenti, e la sola musica che ci viene da quelle lontananze, l'ossessiva melopea che si canta da Istanbul a Bombay, da Tangeri al Capo, da Panama a Rio, è quella della mendicità e del bakscisch: gli arabi, gli orientali, i neri non sono che un immenso esercito di sottouomini, l'emanazione di un'idea astratta, consolante: l'indigeno, cioè l'indigente. In altri termini, la pietà diventa una modalità del disprezzo, appena monopolizza e informa soltanto a se stessa l'immagine dell'Altro lontano. Volgarizzando la rappresentazione di esseri infraumani, incapaci di sopravvivere senza le stampelle della nostra bontà, si sottolinea la loro infermità e la nostra squisita sollecitudine. Nessuno può evocare il Terzo Mondo, oggi, levarsi cortesemente il cappello davanti alla Croce Rossa, all'UNICEF, all'Alto commissariato per i profughi, al Soccorso popolare, al Soccorso cattolico, come se queste organizzazioni riassumessero da sole i tre continenti d'oltremare. Ora, ridurre un paese alla sua miseria materiale - anche se questa è considerevole89 - significa ucciderlo due volte, per88 Notiamo che nessuna analisi sulle cause del sottosviluppo trova unanime consenso: mentre gli uni condannano le multinazionali, gli altri esaltano il loro ruolo positivo. Gli uni raccomandano un aumento degli aiuti alimentari, gli altri li respingono. Non esiste nessun accordo né sulla diagnosi, né sul rimedio. 89 Se ogni pauperismo è un inferno, per riprendere la frase di Marx, quest'inferno può conoscere vari gradi, che possono andare
che la nostra stima per una nazione risiede nella nostra capacità a identificarci, a proiettarci in lei. Ogni giorno e da ogni parte, infatti, arrivano grida di dolore. Il compito è senza fine; e in quest'infinità si forma un'immagine definitiva: quella di un Terzo Mondo claudicante, infermo, che vive con la mano tesa. Così, la filantropia, l'appello all'amore del prossimo, diventano misure di protezione capaci di salvaguardare i più duri egoismi. Se attaccano un certo tipo d'indifferenza, è sempre per alimentarne un altro, senza dubbio più terribile, perché questo ha digerito pacificamente la critica senza esserne scosso. La nostra sensibilità coabita col distacco nei suoi riguardi. Lo spettacolo della miseria non ci sconvolge più, perché a voler ridestare la pietà, la si soffoca: l'orrore in questo caso viene assorbito come un sonnifero, una pozione magica capace di livellare tutti gli avvenimenti. Volevate provocare la nostra cattiva coscienza? Ma è questa ormai che garantisce la nostra tranquillità. Tanto è equivoco dissimulare i problemi drammatici del Sud, altrettanto stupido è sviluppare una sistematica dell'infelicità, sempre pronta a tirar fuori i luoghi comuni sulla disperazione dei piccoli negri, dei piccoli indiani. Perché allora, nello spirito del pubblico, sorge questa domanda angosciosa: ma come fanno a vivere? La risposta è immediata: vivono nella sporcizia perché ne fanno parte, il luridume è il loro elemento naturale, come il fango è la culla del porco.
« 700 milioni di cinesi, e io e io e io »90 Da sempre, dunque, la tragedia, la miseria devono essere esotiche; tant'è vero che, appena un paese in Europa s'impoverisce, passa mentalmente nella categoria Terzo Mondo: così dalla privazione assoluta a una sopravvivenza precaria ma costante. Non distinguere queste sfumature, che pure sono capitali su scala individuale, significa ancora una volta sommergere l'informazione sotto la propaganda. 90 Canzone di Jacques Dutronc, parole di Jacques Lanzmann.
Esiste una morale
dell'emergenza?
Qualche anno fa si credette di fare un gran progresso imponendo, a proposito della tragedia del boat-people in Indocina, l'idea di una morale dell'emergenza. Una morale che non distinguerebbe più le vittime buone dalle cattive, salverebbe sia il comunista sia il controrivoluzionario, e insomma spazzerebbe via dalle nostre teste «lo spirito della guerra fredda» (André Glucksmann). Come non vedere tuttavia che questa etica dei diritti dell'uomo, se si rifiuta di scegliere fra i buoni e i cattivi, rimane dipendente dai nostri capricci, come prima dipendeva dalle nostre convinzioni politiche? Quando quasi due terzi dell'umanità possono a stento ottenere il minimo vitale, ogni giorno, ogni minuto ci si dovrebbe presentare una situazione d'emergenza; ora, la nostra risposta alla miseria è sempre arbitraria. Perché scegliere oggi i profughi vietnamiti mentre da dieci anni la popolazione del Bihar è regolarmente decimata dalla carestia, il boat-people haitiano invece di una tribù amazzonica massacrata dagli imprenditori brasiliani? Evidentemente la nostra pietà dipende dall'effetto dei media, il quale è tributario della più o meno grande libertà di stampa dei paesi belligeranti. Oggi, una buona carneficina è una carneficina trasmessa per televisione. Così si dimenticano sempre altre miserie altrettanto urgenti, ma di cui il Napoli, l'Andalusia, la Sicilia finiscono armi e bagagli sotto questa rubrica. Necessità strutturale: lo smarrimento del Terzo Mondo è la tavola di salvezza su cui ricostruiamo la nostra identità. Ci poniamo opponendoci alla sua disgrazia. Certo, è criminale lasciare i bambini dell'Africa e dell'Asia morire di fame, perché la loro vita è sacra, ma la loro vita è sacra solo perché muoiono di fame. Sono i capri espiatori che restaurano l'armonia della nostra comunità. Bisogna mantenere intatti gli abusi che si denunciano, per poterli denunciare. E più si attaccano le democrazie occidentali, più, oscuramente, le si ri-
piccolo schermo, i giornali, non parlano. L'estensione della miseria va sempre oltre la buona volontà. Constatiamo a questo proposito che ciascuno si ritaglia il mondo secondo le proprie affinità: l'America del Sud è il terreno privilegiato degli avversari degli Stati Uniti; l'Asia, da fresca data, è divenuto quello degli antisovietici, soprattutto dopo l'invasione dell'Afghanistan; l'Africa è divisa in parti eguali fra chi denuncia l'imperialismo USA e chi denuncia la sua sorella minore, la Francia; gli apolitici scelgono paesi relativamente lontani dall'influsso delle grandi potenze. Insomma, non v'è altra emergenza obiettiva se non quella che ho decretato io stesso-, soltanto noi decidiamo qual è il lato insostenibile di una situazione e abbiamo tutti le nostre aree d'influenza privilegiate. Facciamo come se la scelta ci fosse imposta da una necessità imperiosa, un modo magniloquente di adescare il pubblico per la propria parrocchia. Anche una morale dell'estrema urgenza non può non essere discriminatoria: scandalo della carità è appunto quello di esercitarsi dall'esterno su degli infelici che essa ha in qualche modo prescelto. Vi sono sempre dei morti di fame, dei proscritti che preferiamo ad altri. Il fatto che le ragioni di tale preferenza non siano più politiche, importa poco: oggi, come ieri, scegliamo ancora i nostri poveri. spetta. Infatti la ripulsa verbale della nostra ricchezza si basa sul postulato che, fuori, esisteranno sempre civiltà povere la cui vita frugale riscatterà le nostre dilapidazioni, folle cenciose che compenseranno i nostri peccati.91 Così i nostri missionari che vanno a zonzo fra i diseredati, mentre credono di farci vergognare riferendoci testimonianze sconfortanti, ci fanno 91 La miseria nei paesi ricchi non è mai presa in considerazione. Secondo le ultime statistiche della CEE, vi sono tuttavia 30 milioni di «precari» all'interno della Comunità.
segretamente gioire. A forza di puntare su disastri dell'India e del Sahel, la macchina da presa, anziché farci arrossire della nostra tranquillità, accresce il bisogno di rafforzarla. Quali che siano le dimensioni vertiginose del mondo che ci circonda, lo spessore della nostra ignoranza, i rischi di future catastrofi e la nostra debolezza individuale, noi siamo certi che l'Occidente è un isolotto sommerso dalle acque dell'indigenza e quindi tanto più prezioso. Davanti alle piaghe dell'Africa, ai dilemmi insolubili del Medio Oriente, alle calamità dell'Asia, Dio com'è bello sentirsi francesi! E l'orrore del Terzo Mondo, qualificato per sempre nella sua natura bestiale, diventa il volto tenebroso di cui abbiamo bisogno per amare noi stessi. Agli uomini liberi occorrono dei martiri... E proprio il movimento che li definisce come poveri a impedirci di considerarli come uomini. Non sono più gli schiavi dell'antica Roma, non è più il negro dei manifesti pubblicitari che sorride mostrando tutti i denti, non sono più i viet dell'Indocina francese, sono i derelitti del Terzo Mondo. Si geme sulla loro sorte per aumentare un po' più le distanze, si evocano tali abissi solo per rendere più confortevole la nostra ovattata esistenza... Il biasimo è rivolto ai due sensi che assume quest'aggettivo: piacevole da vivere, e in fondo superficiale. Indossando gli orpelli dei ben pasciuti, ci si installa, paciosi, nella crisi e si gode la propria tranquillità contemplando quei disgraziati che si logorano, laggiù, nel caldo torrido e nella sporcizia.92 Per effetto Perché tutte le campagne contro la fame finiscono in una bella scorpacciata, se non per dare al nostro appetito l'aureola di un'orgia prima del diluvio? Aiutiamoli a vincere la fame: mille volte affisso sui manifesti, ripetuto, quale può essere l'impatto di un simile slogan? Rende meno banale il nostro nutrimento. Se gli uomini muoiono di fame, il mio piatto pieno è un miracolo, una bazza. E le nostre grandi abbuffate uniscono in sé il duplice, prestigioso carattere dell'abbondante e del fragile. Lungi dal rattristarci, il bambino dal ventre gonfio mette un po' di pepe nella monotonia delle abitudini: ci fa presente il nostro privilegio, secondo il principio evidente per cui un piacere prezioso è un piacere raro. Insomma, bisogna evocare il razionamento per assaporare la brioche, fremere davanti alla carestia per ritrovare il gusto della bistecca, dell'hot-dog, dello sfilatino. 92
della vergogna che suscitano, la banalità quotidiana torna a essere attraente. Il disordine assoluto del Sud dà l'immagine di un paradiso settentrionale che bisogna salvare a ogni costo; questi terrificanti sommari di decomposizione rivestono di un nuovo fascino l'Occidente. E la nostra felicità non sarebbe quella che è se, alle nostre frontiere, lo scalpiccio di 4 miliardi di zoticoni, abbrutiti dalla miseria e scuri di pelle per soprammercato, non la rendesse insieme precaria e miracolosa.
Il mimetismo o gli intossicati dell'Eden
Era la sorella di un duca inglese e passava la maggior parte del tempo nella cella di un monastero buddista del Bengala. Non sembrava trovar niente d'imbarazzante nel fatto che tutti gli altri occupanti di quel sacro luogo fossero dei monaci. Gli raccontò che quando era in viaggio, dormiva sempre sdraiata sulle banchine delle stazioni in mezzo ai coolies e agli spazzini. Dichiarò che era una pratica eccellente per la purificazione dell'anima e che sperava in qualche anno di elevarsi al di sopra di tutte le piccole meschinità dell'esistenza e di raggiungere il Nirvana. Louis B R O M F I E L D , Notte a Bombay, Martello, Milano, 1946. Se l'Occidente ha prodotto degli etnografi è perché un cocente rimorso doveva tormentarlo, obbligandolo a confrontare la sua immagine con quella delle società differenti, nella speranza di vedervi riflesse le stesse tare, o di averne un aiuto per spiegarsi come le proprie si fossero sviluppate [...] L'etnografo non può disinteressarsi della sua civiltà né sconfessarne gli errori, in quanto la sua stessa esistenza è comprensibile solo se considerata come un tentativo di riscatto: egli è 0 simbolo dell'espiazione. CLAUDE LÉVI-STRAUSS,
Tristi Tropici,
cit., p. 377. Nel mio caso, lo sforzo di anni per vivere come gli Arabi ed imitare la loro mentalità, mi spogliò della mia personalità inglese, e mi mostrò l'Occidente e le sue convinzioni sotto un aspetto nuovo - che lo distrusse completamente ai miei occhi. Ma allo stesso tempo non seppi arabizzarmi completamente; la mia era soltanto una affettazione. E facile per un uomo diventare un infedele; difficile convertirsi a una fede nuova. Mi ero spogliato di una forma senza assumerne un'altra, riducendomi come la bara di Maometto nella leggenda, e me ne venne un sentimento di desolazione in tutta la mia vita, ed un intenso disprezzo non per gli uomini, ma per le loro azioni. I sette pilastri della saggezza, Bompiani, Milano, 1957, p. 24.
T . E . LAWRENCE,
Nel 1926, nel distretto di Kyauktada, in Birmania, due uomini discutono sulla veranda di un bungalow. Uno è indiano, di professione dottore, l'altro è inglese e commerciante di legname. Come di consueto, la loro conversazione si apre sulla salute dell'impero britannico. Il bianco attacca i suoi compatrioti esiliati come lui in Asia, li giudica razzisti e volgari, poi in due parole liquida le finalità dell'imperialismo inglese: un affare di quattrini e non di educazione. L'indiano ha un sussulto: come osa parlare così dell'impero? Gli inglesi sono il sale della terra: hanno portato la cultura in un ambiente arretrato. L'europeo gli tronca la parola in bocca: siamo qui solo per taglieggiarvi e per dare 0 paese in mano a una banda di businessmen scozzesi. Di nuovo l'indiano alza le braccia al cielo: il suo amico commette un errore, dimentica che gli orientali sono apatici e superstiziosi. Senza la colonizzazione, sarebbero rimasti ancora al Medioevo. Non è vero, taglia corto il commerciante di legna: la pax britannica è lo sviluppo delle banche e l'aumento delle prigioni più l'introduzione delle malattie veneree; eh, no, dice il dottore, sono gli indiani che hanno introdotto le malattie veneree nel paese, ecc. Il dialogo, come si sarà capito, non finisce mai. Il fatto che sia immaginario e si svolga fra due personaggi di romanzo1 conta poco. Chiunque abbia viaggiato un po' oltremare ne avrà avuto dozzine di simili con sconosciuti incontrati per via. Le parti sono ben divise e uno dei fatti più paradossali è che, nel momento in cui una parte del mondo cerca di occidentalizzarsi, gli occidentali si dedicano con ferocia a denigrare la propria eredità. Fu Ibn Khaldun, il grande statista, storico e giurista tunisi1
GEORGE ORWELL,
Giorni in Birmania, Longanesi, Milano, 1975,
pp. 60-66.
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no che, per primo, presentò un'analisi sociologica del fascino che il potere esercita su coloro che gli sono soggetti: « I vinti», egli scrisse nel 1377, vogliono sempre imitare il vincitore nei suoi tratti distintivi, nell'abbigliamento, nella professione e in tutte le sue condizioni d'esistenza e abitudini. La ragione sta nel fatto che l'anima vede sempre la perfezione nell'individuo che occupa il rango superiore e al quale è subordinata. Essa lo considera perfetto o perché il rispetto che prova [per lui] le fa impressione, o perché suppone falsamente che la propria subordinazione non sia una conseguenza abituale della sconfitta, ma risulti dalla perfezione del vincitore. Se questa falsa supposizione si fissa nell'anima, diventa una ferma convinzione. L'anima, allora, adotta tutte le maniere del vincitore e si assimila a lui. Questa è l'imitazione [...]. Tale attrazione va così oltre che una nazione dominata da un'altra nazione spingerà molto in là l'assimilazione e l'imitazione »? Se Ibn Khaldun descrive con quasi seicento anni d'anticipo i rapporti fra la cultura coloniale e la cultura metropolitana, le sue affermazioni possono anche essere rovesciate. Perché alla candida convinzione dell'Europa di essere assolutamente superiore alle altre società risponde la non meno candida certezza di molti occidentali dello scarso valore del proprio sistema. Come se le uniche conquiste durevoli fossero quelle in cui l'indigeno trionfa sul conquistatore, i paesi evoluti, nella loro vittoria, sospettano che qualcosa sia andato irrimediabilmente perduto, e hanno urgenza di scoprirlo di nuovo. L'irriverenza del mondo imperialista che ha spazzato via tabù e costumanze per affermare la propria supremazia è divenuta la fonte di tutte le sue disgrazie. Ciò che Georg Simmel chiama la tragedia delle culture trionfanti ha generato nell'individuo euro-ameri2 Citato da G.E. von Grünebaum nella sua bellissima opera: Studien zum Kulturbild und Sebstverstaendnis der Islam, Artemis Verlag, Zürich-Stuttgart, 1969.
cano la nostalgia di ritornare indietro. Invocando l'influenza della Grecia su Roma, aspira solo a essere vinto da quelli che ha sottomesso, solo da loro ormai prenderà le sue virtù, e la sicurezza d'essere un uomo completo. Siccome ha dissacrato tutto, in una storia folle e sgangherata, rimpiange nell'emisfero Sud un paradiso perduto della fede. Il Terzo Mondo ha così ispirato due idee di rigenerazione; la prima, universalista, ha veduto in esso la possibilità di una nuova giovinezza del socialismo; la seconda, differenzialista, ha salutato nei suoi modi di vita la culla spirituale in cui l'Europa doveva ritemprarsi. Nel momento in cui i popoli asserviti reintegrano il proprio patrimonio, essi offrono agli antichi padroni la possibilità di ritrovare la loro anima. Da questo momento, la salvezza consiste non solo in un fecondo scambio di influenze, ma nel riconoscimento della superiorità delle saggezze straniere, nello studio delle loro dottrine, nella conversione ai loro dogmi. Bisogna prendere a modello i nostri vecchi schiavi, non più Peau noire, Masques blatte? ma pelle bianca, maschere negre, balinesi, indiane, melanesiane, ecc.: è interesse e dovere dell'Occidente esser fatto prigioniero dai propri barbari: «Il fenomeno capitale del xx secolo non è la rivoluzione del proletariato ma la scoperta dell'uomo non europeo e del suo universo spirituale» (Mircea Eliade).
Il pellegrinaggio alle fonti4 Nel 1944, Somerset Maugham pubblica un curioso romanzo intitolato II filo del rasoio. Il protagonista è un giovane americano, Larry, che, profondamente disgustato dalla guerra del 1914-18 dove ha combattuto, rifiuta la brillante carriera cui la sua educazione lo predestinava, rompe il fidanzamento 5 FRANTZ F A N O N , Seuil, Paris, 1952. [Tr. it.: Il negro e l'altro, Il Saggiatore, Milano, 1965.] 4 Una versione leggermente abbreviata di questo capitolo è apparsa nella rivista tedesca Palaver nel maggio 1982, sotto il titolo: «Die Wallfahrt zu den Quellen».
con una seducente e ricca fanciulla di Chicago, soggiorna per qualche tempo a Parigi fra la bohème di Montparnasse, poi va a passare cinque anni in India nell'ashram di uno yogi, che gli insegna le virtù della meditazione orientale. Al suo ritorno, finalmente in pace con se stesso, si dedicherà a consolare, consigliare, rasserenare i suoi amici, tutti rovinati nel frattempo dal crollo in borsa del 1929... Il romanzo ebbe un immenso successo, ma il suo maggior titolo di gloria è senz'altro quello d'aver predetto con quasi vent'anni di anticipo ciò che è stato chiamato il fenomeno hippy. La rigenerazione per merito dell'Oriente è un vecchio atteggiamento, già molto diffuso nel xix secolo, e presso i romantici divenne una vera e propria epidemia, la trasposizione verso l'Est di un entusiasmo simile a quello provato dall'Europa, all'inizio del Rinascimento, per l'antichità greca e latina. Questa passione per l'Asia nasce, naturalmente, con la rivoluzione industriale che sconvolge le condizioni di vita, frantuma le abitudini ancestrali, strappa gli individui alle loro campagne; traduce la nostalgia di un mondo in movimento verso le civiltà immobili: Friedrich Schlegel e Novalis, per esempio, esortavano i loro compatrioti a studiare l'India nei particolari, poiché essa era l'unica in grado di vincere le tendenze meccanicistiche e repubblicane della cultura occidentale. Questa passione, che non si è smentita fino ai nostri giorni e che ha colpito autori diversissimi, come Goethe, Chateaubriand, Lamartine, Nerval, Vigny, Flaubert, Burton, René Guénon, Hermann Hesse, Kayserling, Michaux, René Daumal, Henry Miller, Alien Ginsberg o Lanza del Vasto attesta, secondo la bella frase di Heinrich Heine, «che l'Occidente, disgustato della sua debole e fredda spiritualità, cerca il calore del seno dell'Oriente ».' Insomma, l'Oriente deve la sua integrità solo all'esser restato lontano dalla maledizione che colpisce i paesi ricchi, e che si chiama rivoluzione tecnologica: perciò esso è il 5 Citato da M U H A M M A D I Q B A L , Le Message de l'Orient [Payam-iMashria], Les Belles-Lettres, Paris, 1956, p. 19. Questa bellissima raccolta del poeta pakistano, che fa da riscontro al Divano occidentaleorientale di Goethe, trae origine da queste parole di Heine.
cuore dove batte l'umanità originaria, la viva fonte da cui l'Europa deve attingere nuova vita.6 Ma mai, davvero mai, questo «buddhismo sentimentale», per riprendere un'espressione di Nietzsche, conoscerà proporzioni simili a quelle degli anni '60-'70: non si tratta più di mode intellettuali o di itinerari privati, ma di uno slancio di massa che trasporta una gioventù ansiosa verso rive diverse e davvero autentiche; mentre l'America era al colmo della sua potenza e dettava legge a tre continenti, mentre la bandiera a stelle e strisce copriva gli interventi più odiosi, decine e decine di migliaia di giovani, prendendo su di sé i peccati del « mondo libero », facendosi poveri tra i poveri, percorrevano la via delle Indie per apprendere e non per insegnare, andavano nel Terzo Mondo come altri nella stessa epoca andavano in fabbrica a condividere la condizione proletaria. Nel momento in cui l'Occidente trionfava economicamente, questi transfughi attestavano il suo fallimento morale. Questa fiammata di misticismo, che corrispondeva alla crisi più grave che gli USA, e poi l'Europa, avessero conosciuto dopo il Great Collapse del 1929,7 ci sia consentito di presentarla qui sotto l'unico aspetto che ci riguarda: il pellegrinaggio in Oriente. «Bisogna respirare, riprendere fiato, rifarsi alle fonti vive che conservano l'eterna freschezza. Dove trovarla, se non nella culla della nostra razza, sulle sacre vette donde scendono qui l'Indo e il Gange, là i torrenti della Persia, i fiumi del Paradiso », scrive Michelet in La Bible de l'humanité (1864). E Nerval nel suo Viaggio in Oriente (1851): «Bisogna che mi unisca a qualche ingenua figlia di questo suolo sacro che è la patria primigenia di noi tutti, che mi ritempri alle fonti vivificanti dell'umanità donde sono sgorgati la poesia e il regno dei nostri padri» (Istituto Editoriale Italiano, Milano, 1917). Nel 1927, René Guénon, che finirà per convertirsi all'islamismo, riprende la stessa idea: « P e r restaurare la tradizione perduta, per vivificarla davvero, è necessario il contatto del vivente spirito della tradizione e, come abbiamo già detto, solo in Oriente questo spirito è ancora pienamente vivo» (La Crise du monde moderne, Gallimard, Paris, 1974, p. 49.) [Tr. it.: La crisi del mondo moderno. Edizioni Mediterranee, Roma, 1981.] 6
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Sul movimento hippy, si può leggere l'interessante Je veux regar-
L'identificazione con l'Asia in rivolta si accompagna dunque all'identificazione con l'Asia che medita. Mentre molti nella stessa epoca abbracciano il sogno delle giovani nazioni in lotta per la loro sovranità (Vietnam, Cina), altri, preoccupati di vaccinare l'Occidente contro i propri difetti, porgono orecchio alle filosofie che predicano la non-violenza e la rinuncia, votate al disprezzo dalla nostra arroganza imbecille. Fra gli uni e gli altri, non è poco affermare che c'è antagonismo: la loro opposizione riproduce esattamente quella che volse il giovane Marx contro gli utopisti presocialisti. Per il gauchiste o il radicale degli anni '60, lo hippy può essere gratificato tutt'al più di una presa di coscienza diffusa delle contraddizioni dell'imperialismo: brutta copia anticipatrice delle intuizioni che lui, militante rivoluzionario, avrebbe poi messo in bella. E per questa ragione la prima ondata di emigranti venne dai paesi anglosassoni, tradizionalmente poco influenzati dall'ideologia socialista, e raggiunse l'Europa solo dieci anni dopo, quando i primi rovesci della solidarietà mondiale avevano allontanato più d'uno dalla via politica. E, come Marx s'indignava nel vedere i socialisti francesi come Cabet, Considerant, Enfantin disertare il vero teatro delle operazioni, «la breccia della vecchia Europa», per installarsi in Egitto o in America, il terzomondista schernisce l'esodo di questi figli dei fiori, prosternati davanti a religioni repressive e oscurantiste. In compenso, gli hippy non nascondono la loro ostilità verso i movimenti di estrema sinistra o quelli dei neri americani, come il Black Power di Carmichael, pronti a rivendicare la loro indipendenza con tutti i mezzi, compreso il terrore. E gli uni e gli altri si accusano di fare il gioco dell'Occidente disumano che respingono con la stessa intransigenza. Questa fuga in Oriente, come tutto ciò che è ispirato dalla der Dieu en face di Michel Lancelot (Editions «J'ai lu», Paris, 1971) [Tr. it.: Voglio guardare Dio in faccia, Cittadella, Assisi, 1971], i numeri di Actuel dal 1970 al 1975, la rivista Rolling Stone e gli eccellenti reportages di Alain Dister a San Francisco (1966-1970). Naturalmente, si consulteranno prima di tutto i propri ricordi personali.
cattiva coscienza, non era priva tuttavia di una temibile ambiguità che ne avrebbe affrettato il fallimento.
La redenzione attraverso l'esilio Perché, a prima vista, il significato attribuito all'Oriente non corrisponde tanto a quel che esso è, quanto a quel che gli occidentali non vogliono più essere. Essi non vanno verso un mondo concreto, ma verso il negativo del proprio mondo, non s'interessano tanto a un materiale originale, quanto a un progetto di salvazione. Si tratta di una terapia spaziale: come sui dépliant turistici, i luoghi guariscono soltanto se si viene da altrove. In queste località lontane, Egitti meravigliosi, Indie favolose, Tibet misteriosi, i nostri Tamerlani delle steppe sperano di trovare la liberazione.8 La musica così fascinosa della partenza è già di per se stessa una garanzia di essere nel giusto. Perché la distanza autorizza questa leggenda: la perfezione dell'uomo lontano. Se veramente certi popoli sono felici, ciò può accadere soltanto laggiù, ai confini del globo; essi hanno trovato la soluzione all'enigma umano, la chiave che apre tutte le porte. Per questo gli indù (o i tibetani o i birmani o i balinesi) mostrano quella nobile gravità che tanto ci manPerché l'attrazione verso l'Est si è concentrata sull'India o l'Asia del Sud-Est anziché sull'Islam? Senza dubbio per varie cause: religione monoteista, l'Islam è ancora troppo vicino al cristianesimo e al giudaismo per provocare un vero straniamento. Le tradizioni di ospitalità dei paesi come l'India, Ceylon, la Tailandia, il Nepal, l'Indonesia permettevano l'insediamento di numerose colonie di europei, cui le autorità non davano fastidio finché esse si tenevano lontane dalle popolazioni. Ma la ragione primordiale risiede forse nel buddhismo e nell'induismo stessi: come sono praticati dai «rinuncianti», l'uno e l'altro privilegiano una dimensione individualistica familiare a un occidentale. Poteva adottarli o imitarli chiunque era più sollecito della propria salvezza che della fondazione di una comunità spirituale e religiosa. Sul «rinunciante» induista come prefigurazione dei valori occidentali, si veda l'eccellente dimostrazione di Louis D U M O N T , Homo hierarchicus, Gallimard, Paris, 1967, p. 299. 8
ca, e al cui confronto la nostra aria affaccendata appare sempre un po' comica. Ecco dunque venire il profeta infallibile e onnisciente sotto forma di uno yogi, di un monaco buddhista, di un sadu visnuista, e ciascuno di loro possiede una verità bell'e fatta, un segreto covato a lungo che noi, anche se non lo comprendiamo, siamo comunque tenuti a riprodurre. Perché i poveri pellegrini dell'Occidente, dalle zazzere bionde, dallo sguardo stanco, tutti figli di una stessa caduta, non hanno, a parte il principio secondo il quale la loro società è marcia, nessuna nozione del continente che abbordano. Ci vuole una convinzione semplice per rinnegare la propria cultura, e tale convinzione è la seguente: l'Est è l'Est, cioè la patria dell'Essere, come diceva Kipling, e di fronte a questo l'Occidente può apparire solo come un accidente.9 Insomma, il nostro pellegrinaggio in Asia risponde al nostro desiderio di sapere che il sacro esiste pure da qualche parte, come esistono il papa a Roma o le piramidi al Cairo. L'Oriente è insieme una terra straniera e un paesaggio familiare verso il quale si torna come alle proprie origini scomparse: di queste nazioni si ha una visione eterna che non tiene conto della loro specifica storia. E il brivido della novità si accompagna sempre a un riconoscimento.10 Ciò permette di attribuire al successo religioso di quel continente un carattere normativo, un valore assoluto, che ci piace supporre immutabili. L'Oriente come modello culturale è dunque il risultato di « L'Est è l'Est (nel senso inglese di Oriente) e continua a restare la patria dell'Essere. Per questo, senza dubbio, si può anche dire senza vani giochi di parole, che l'Occidente s'interessa alT'accidente', mentre l'Asia privilegia, naturalmente, 1' 'aseità' » ( J E A N B I È S , L'Inde, ici et maintenant, Devry Livres, 1979, p. 2 3 6 ) . R O G E R G A R A U D Y riprende questo bisticcio in Promesses de l'Islam, cit.: «L'Occidente è un accidente. La sua cultura un'anomalia» (p. 17). Va da sé che un simile gioco di parole non ha alcun senso. 10 « La tendenza a trovare degli assoluti che si realizzino in periodi storici ben definiti costituisce uno dei tratti più rilevanti dei tempi moderni dal Rinascimento in poi», scrive von Griinebaum (op. cit., p. 105). 9
una finzione piuttosto che una realtà correttamente osservata; ma quest'approssimazione non ne diminuisce l'efficacia, al contrario. Visto dalla Francia, in questo ideale c'erano tante porte aperte verso l'indipendenza, che un giovane degli anni '60 o '70 non poteva sentirne parlare senza una viva gioia e approvazione interiore. Ma le strade di Katmandu si rivelano senza uscita, perché il viaggiatore che le imbocca porta con sé la risposta alle domande che si pone: quest'uomo con le ali ai piedi ha ancora sotto le scarpe il fango del suo paese.
Il contatto
impossibile
Da che parte cominciare per installarsi a Benares? L'occidentale approda a queste terre individualmente, in quanto uomo, e non in quanto francese, tedesco, o americano. Tuttavia non arriva in un'isola deserta, ma in un paese carico di millenni dove i suoi antenati hanno già messo piede e lasciato qualche ricordo. Vuole offrire un'immagine di pura buona volontà; viene subito classificato come un bianco, discendente un po' folcloristico dei sahib. Viene a dar testimonianza della divisione della cultura europea: la sua pretesa di divorziare da se stesso è messa in ridicolo. Per la sola virtù di uno sguardo che lo definisce erede, quest'individuo in volontario esilio viene ricondotto all'ovile nel momento in cui lo fugge. Le migliori intenzioni non possono nulla contro la memoria. E soprattutto là dove si aspettava indigeni devoti, incontra dei mercanti. Ciò che interessa gli indiani, i nepalesi, i tailandesi, non è la sua conoscenza dei Veda, le sue dotte dissertazioni sul Grande o sul Piccolo Veicolo, ma prima di tutto il suo potere d'acquisto. E a ragione: un francese, un italiano, anche poveri in patria, sono più ricchi della media degli abitanti locali. Oscenità di questo richiamo: la Storia colpisce in faccia il pellegrino come una zaffata puzzolente, nel momento stesso in cui egli cerca di cancellarla. E poi, mentre si sforza di uccidere il suo vecchio io, si accorge con stupore che gli autoctoni aspirano solo a imitarlo: sono vestiti con camicie e pantaloni all'europea mentre lui aveva indossato la tenuta di
rigore: camicie indiane, jodhpur, dhoti, vesti afghane; gli parlano di automobili, di denaro, di macchinari, di oggetti da regalo quando si aspettava una pioggia di parole sapienti, di gravi benedizioni, di sentenze giudiziose. Orrore: sono più europei di lui, la civiltà materialistica li ha già corrotti.11 Insomma, l'indigeno delude: o è troppo interessato e cerca solo di derubarlo, o è troppo conformista e l'annoia.12 Non è mai dotato del meraviglioso esotismo che gli aveva attribuito. Disperazione dell'apprendista: si era messo in grado di appartenere al Terzo Mondo, ed ecco che il Terzo Mondo lo assimila a un turista, agli abbonati dei charter per i quali prova soltanto disprezzo. Era partito per reimparare la grande semplicità, e ritrova l'universale duplicità.13 Questi paesi sono governati da regimi autoritari o violenti, schiacciati da una miseria nera, pieni di diseguaglianze e ingiustizie molto peggiori che nel suo paese, inquadrati da un esercito, da una polizia assai temibili. Si aspettava una cartolina illustrata, trova uno Stato e le sue leggi. In questo mondo, si sente di troppo: assegnato a una funzione che rifiuta, in cerca di un riconoscimento che nessuno gli concede. Donde la prima soluzione dei globetrotter capelloni: raggrupparsi fra loro, fra visi pallidi. Erano par« In un futuro abbastanza vicino, quando un indiano vorrà conoscere il proprio paese, dovrà consultare l'Occidente, e quando gli occidentali vorranno ricordarsi di com'erano, dovranno venire da noi. Questo si chiama anche rock'n roll», scrive l'autore indiano G I T A M E H T A (Karma Cola, Penguin Books, Delhi, 1979, p. 20). [Tr. it.: Karma Cola. Il supermarket del misticismo orientale, Mondadori, Milano, 1982.] 12 Donde il famoso grido del viaggiatore nell'età eroica: « Ho preso il tè con un afghano », un modo di confessare la difficoltà dei contatti con gli orientali e di rallegrarsi del grado zero della comunicazione, che consiste nel dividere a tavola, con uno sconosciuto, una tazza di tè. 11
1J « I n quanto al mantra che l'India introduce nei nostri cuori, esso è contenuto in una parola: 'Semplicità'. Riapprendere la semplicità, di cui si dice che è la cosa più difficile da realizzare, tale è l'opera che essa ci propone: la semplicità di vita insieme con le migliaia di uomini semplici i quali sono quel che sembrano» (JEAN B I È S , op. cit., p. 4 6 ) .
titi per fare tabula rasa, ma si sono ritrovati tra fuggitivi: la fuga era un alibi, un altrove e una scappatoia. Avevano confuso l'Oriente coi suoi testi sacri per non vedere che ogni paese che lo compone è dotato anche di una Costituzione politica. Ecco quindi ricrearsi spontaneamente le comunità di bianchi, piccole società che rifioriscono come alla Belle Epoque, i nativi da una parte, i sahib dall'altra.14 Ritrovano allora la pratica dell'« acquartieramento » (i quartieri residenziali degli inglesi nell'epoca del British Raj), riducono i loro rapporti con gli autoctoni al minimo necessario, incontrano solo gli archetipi di ogni soggiorno turistico: l'albergatore, l'impiegato, il cameriere, il doganiere, il funzionario, senza dimenticare il personaggio indispensabile in ogni spostamento: lo spacciatore. La delusione genera l'isolamento e, una volta allontanate le folle orientali, lo spirito europeo può andarsene a passeggio da solo in quest'Oriente rimodellato fino alla nausea. I tropici incantatori uniscono perciò tutti i tratti di un universo carcerario: vi si è prigionieri in qualità di stranieri, e le relazioni umane assumono allora una forma codificata e rigida come sotto l'impero. E una segregazione paradossale in un oceano umano illimitato. Alcuni, lo sappiamo, sceglieranno la droga, facilmente disponibile in quelle contrade, e la via di una decadenza tanto più ineluttabile in quanto si svolge in una terra straniera.15 Altri perseguiranno il loro ideale di rigenerazione, L'utopia della strada non è mai stata altro che un sogno coloniale: quello di vivere a buon mercato, se non gratis, fra i più poveri, se necessario approfittando della loro ospitalità per derubarli. Ma, al contrario del colonialismo, i valori del giramondo non sono quelli del risparmio, dello sforzo e del lavoro; scroccone o parassita, è più vicino al vagabondo della vecchia Europa che ai coloni del secolo scorso. 15 Cosa naturalissima, il sogno di rinascita si capovolge allora in epopea dell'autodistruzione. Lo « sballato » conosce il colmo dell'autismo: si chiude agli altri, compresi i suoi compagni di viaggio, in una società che non è la sua. Partito con un'idea manicheista, l'Oriente buono, l'Occidente cattivo, si ritrova in un mondo dove il grado d'iniquità supera tutto ciò che ha visto in Europa. Votato al disprezzo dei suoi compatrioti, all'odio dei locali che lo tollerano finché può pa14
cui la droga servirà da contributo e non da scopo. La maggior parte mescoleranno le due cose. Ed è a questo punto che il guru interviene per riconciliare questi giovani con 1'« India profonda». Perché a questi freak occorre un nativo che li riconosca per ciò che vogliono essere: dei grandi iniziati, futuri sannyasin (rinuncianti).
Delizie della clausura È quanto hanno compreso gli indiani, con un impareggiabile genio affaristico, una perfetta conoscenza della mentalità europea affinata da due secoli di colonialismo britannico, quando, intorno agli anni '60-'70, hanno visto sbarcare sul loro suolo orde di californiani estatici, pronti a spalancare la loro borsa per una sola particella di saggezza. Hanno quindi fabbricato il prodotto che questa generazione in cerca di libertà garsi il cibo e l'albergo, lo « sballato » accumula gli ostracismi: sfruttato degli spacciatori, non coltivando altre amicizie se non quelle, furtive, di un colpo o di un trip, costretto a diffidare in permanenza dei suoi fornitori, scivola così nella semidelinquenza per sopravvivere, finisce nelle gang locali dove, nonostante tutto, è solo un outsider, utilizzato per i bassi servizi, denunciato alle autorità quando non si ha più bisogno di lui. Il suo destino è una solitudine totale accompagnata a un'insicurezza permanente. La dipendenza dalla polvere o dagli acidi, la diffidenza verso tutto e tutti, la serie di malattie mentali e fisiche che attaccano il suo organismo indebolito, fanno di lui un paria e lo inducono a unirsi alle comunità di spettri che si sgranano da Goa a Katmandu, da Bangkok a Den Pasar. E una folle china in cui si cade più in basso dell'ultimo degli ultimi, fino all'esaurimento o all'overdose in un sottoscala o per strada. Muoiono in modo singolare e abietto nel vasto bacino di una bidonville o diventano pazzi e sono rinchiusi in un ospizio che strappa loro gli ultimi brandelli di ragione. Camminano finché arrivano all'ultimo girone dell'Inferno per una via lunga, tranquilla, ineluttabile. Si legga a tale proposito la stupefacente confessione di Charles Duchaussois, primo rimpatriato dal Nepal nel 1969 per ragioni sanitarie: Flash ou le Grand Voyage, LGF, Paris, 1971. [Tr. it.: Flash, SEI, Torino, 1972.]
si aspettava: una spiritualità standard, degli ashram su misura, cioè eclettici e più cari degli ashram indiani. Questo mercato del sacro rappresenta oggi un vero impero finanziario nell'economia dell'Unione indiana.16 Bisogna rinunciare all'idea secondo cui vi sarebbero alcuni buoni profeti e numerosi ciarlatani: l'impostura non è da parte del letterato indiano o tibetano che approfitta dei gonzi che gli si gettano nelle braccia, ben felici del resto di prendersi una rivincita su quei bianchi vanitosi e ricchi (per esempio Rajnesh, il celebre papa di Poona, ogni mattina aveva l'abitudine, per percorrere gli ottanta metri che separavano la sua casa dall'ashram, di salire nella sua sontuosa Rolls beige, davanti a cui i suoi discepoli dovevano prosternarsi. Che paradosso vedere quegli europei antimaterialisti chinare la fronte davanti a una carrozzeria!). L'impostura risiede nell'umiltà degli aspiranti, nello spirito di cieca fiducia che li guida: non sono venuti a dialogare, ma ad abdicare (e l'ironia consiste naturalmente nel fatto che tanta umiltà risuscita in pectore i più vivaci riflessi coloniali). Duplice inganno: il bianco si sceglie un saggio di princisbecco che in cambio gli prodiga una religione immaginaria. Ciò spiega come l'idolatria per l'induismo possa accompagnarsi a un effettivo disprezzo per gli indiani. La coesistenza della mentalità coloniale e della modestia intellettuale non deve sorprendere. Il guru è l'ostaggio che gli europei si scelgono contro il popolo al quale appartiene. E l'indiano di cui seguono Tre o quattro grandi messia si dividono oggi, in India, la clientela europea: Maharishi Maesh Yogi (il vecchio guru dei Beatles), geniale inventore della «meditazione trascendentale», il cui regno e relativi dividendi si estendono in quattro continenti; Bhagwan Rajnesh, il più folle fra i ciarlatani dell'Asia, oggi esiliato negli USA a capo di una fortuna colossale e di una comunità di quasi 200.000 adepti; Swami Muktananda, che lavora dividendosi equamente fra Los Angeles e Ganeshpuri, a nord di Bombay, e con la sua austerità si è guadagnato un sempre maggior numero di discepoli nel jet set internazionale. E comprensibile che, attirando enormi quantità di valuta, questi guru siano non solo protetti, ma vezzeggiati dalla giovane Repubblica indiana. Per maggiori informazioni, si veda il mio articolo nel settimanale Le Point, «Gourous du troisième type», giugno 1982. 16
ciecamente gli ordini per non vedere l'India, per evitare di rimettersi in discussione a contatto degli indiani. L'ashram diventa il Club Méditerranée dell'anima, la cattura di un frammento di spiritualità straniera che ci si appropria senza cambiare di uno iota il proprio modo di vivere. L'attrezzatura per l'Illuminazione ammette qualche differenza - personale locale, maestro locale, abbigliamento locale, formule sussurrate in sanscrito - e il mantenimento integrale dei privilegi offerti dalla qualità di bianchi. Così si può diventare indiano, tibetano, buddhista senza smettere di essere occidentale. Eccolo, dunque, il misterioso swami, il supremo tra i supremi, alla cui ricerca ci si è messi in marcia. E lui il saggio perfetto allo zenith della sua eccellenza, che si diffonde in sentenze benefiche e serene come un placido fiume. Com'è bello, come somiglia all'immagine che ce ne eravamo fatti: venerabile, ridente, barbuto, sprigionante bontà, ma anche una temibile energia che ci prostra. Nessun dubbio, è davvero il dio vivente autoproclamato sia dalla purezza sacerdotale sia dalla potenza temporale. Ha visto cose che noi non abbiamo visto, assimilato forze che non assimileremo mai. Ha tutto letto, tutto compreso, e, in virtù di questo principio, dobbiamo credergli sulla parola, seguirlo ciecamente, perché riunisce in sé l'autorità del padre, la bontà del patriarca e il sapere di un dio. Il guru dovrà dunque persuadere i suoi seguaci che tutto si può apprendere, le tradizioni religiose come le ricette di cucina, i messaggi spirituali allo stesso titolo della meccanica.17 Che cosa promette loro in effetti? Che tutti loro, Durand di Nanterre, Smith di Liverpool, Miiller di Francoforte, conosceranno la Rivelazione in poche settimane, mentre tanti altri che, da anni, nell'austerità e nella mortificazione, si sforzano di raggiungerla, l'attendono ancora.18 In quanto al messaggio 17 « Mai prima si era inseguito il vuoto con tanto ottimismo e tanto slancio. Ognuno sospettava che tutto ciò che l'America desiderava, l'America lo otteneva. Perché non il Nirvana?» ( G I T A M E H T A , op. cit., p. 7). 18 In ragione di venti minuti di meditazione mattina e sera, Mahesh
stesso, è un miscuglio eteroclito. L'insigne abilità di questi imprenditori divini sta nel mettere insieme famiglie di pensiero e di pietà religiosa divergenti, o addirittura nemiche fra loro, nel creare un'utopia mobile, multipla, che gioca su vari registri, in cui ciascuno troverà quel che gli interessa: sintesi di tecniche psicologiche occidentali (bioterapia, immersione, relax, rebirthing) e orientali (yoga, t'ai chi), vasto pantheon che riunisce Reich, Gesù, Buddha, Freud, Krishna e Gandhi, pasticcio di mitologie religiose, mistura di sciamanismo rasputiniano, di tantrismo tibetano, di teosofia, che sotto l'egida dello swami si trovano misteriosamente riconciliati. La forza dello swami non è solo quella di giustapporre tradizioni opposte, ma di renderle compatibili e di offrire ai suoi aderenti il fascino di un godimento composito. Insomma, il leader magnetico combina Oriente e Occidente, distrugge l'opposizione scienza-religione: mezzo farmacista, mezzo abate, accaparra tutte le forme di dominio, accumula i poteri dello stregone e il sapere dello specialista. Offre al novizio quel tanto di straniamento che basta a stordirlo. L'Oriente è suggerito più che imposto, perché bisogna restare nei limiti di un esotismo di buona lega. Da questi ex militanti, figli di famiglia, fuggitivi, disoccupati o ribelli, il buon guru esige soltanto una cosa: un'obbedienza incondizionata, prezzo da pagare per avere il privilegio di dare alla propria vita un senso garantito e una causa da difendere. Si mantengono le frontiere, le polizie, la follia tecnocratica, le Chiese e il loro autoritarismo, ma solo per meglio creare un recinto privato, una famiglia prosternata davanti al suo capo. Questa folla di italiani, di tedeschi, di inglesi, in cerca Yogi assicura ai suoi seguaci che potranno praticare la levitazione in capo a qualche mese... C'è evidentemente un carattere concorrenziale in questa santità, che fa di tutti i guru dei nemici irriducibili fra loro. Donde il continuo rilancio nella loro produzione di effetti magici, l'inflazione di promesse, di miracoli, che è prima di tutto una lotta per sedurre e attirare i discepoli. Dato che ognuno si arroga il monopolio della verità rivelata, l'accesso al paradiso diventa una fiera, una gara spietata fra fabbricanti di fede.
di credo sostitutivi, sospinta sulle strade da uno spirito violentemente negatore dell'Europa e delle sue religioni, perde d'un tratto ogni senso critico e ritrova, di fronte a un lama buddhista, a uno yogi o a un monaco, gli stessi riflessi di sottomissione del cristianesimo più arcaico. Pronti, questi ribelli, a votarsi anima e corpo a un maestro, a baciargli i piedi, a pregare la sua immagine, a diffondere il suo pensiero, a lavare la sua biancheria, a spazzare la sua camera, a ridipingere la sua casa, a sarchiare il suo giardino, purché li benedica e li gratifichi della sua luce!19 Perché tutto, nell'ashram, è appagato dall'assolutezza della regola, è questa la vera religione diffusa, il rimedio radicale contro il male di esistere, il grande tesoro di risorse consolatrici. Così, il monacello originario di Belleville o di Trastevere può credere realizzata la folle speranza d'aver escluso ogni rischio, ogni possibilità di sofferenza. E ciò, naturalmente, a suon di denari debitamente e regolarmente versati sotto pena di espulsione. Per questo la ricerca spirituale si degrada ben presto in richiesta di cure, la presa a carico non è soltanto accettata, ma reclamata. Non si recalcitra davanti alle ingerenze dell'Autorità, al controllo permanente degli spostamenti e delle espressioni, si accetta che nulla le sfugga e che, perfino nel sonno, perfino nei sogni, essa conservi il dominio assoluto Pochissimi indiani sono ammessi negli ashram riservati agli occidentali, col pretesto, oh quanto filantropico, che non sono abbastanza evoluti per condividere il nutrimento spirituale dei bianchi. Perpetua illegittimità del pellegrino: straniero installatosi nel paese in virtù di una valuta pregiata, riesce a prendere il posto dell'abitante, a ottenere privilegi nell'ashram a spese degli aventi diritto. Il guru, è vero, compensa quest'usurpazione con tariffe elevate, quando non è uno sfruttamento spudorato (come a Poona da Rajnesh). In qualche modo e contrariamente alla situazione coloniale, il privilegio di ritrovarsi fra bianchi è pagato molto caro. Questo privilegio, dunque, è relativo, ma rimane tanto più odioso in quanto assume la forma di una segregazione all'interno stesso del paese. E vero che, da qualche anno a questa parte, gli indiani a loro volta limitano l'ingresso degli europei in certi ashram, abbandonando il commercio del turismo spirituale ai loro compatrioti meno scrupolosi. 19
sullo psichismo dei supplicanti. Il regolamento totalitario che instaura una gerarchia delle funzioni e degli individui rende impossibile ogni riferimento al potere che non sia pura e semplice devozione di ciascuno al maestro. Perché, a differenza del maestro occidentale, questo non è soltanto un mediatore che dispensa un insegnamento, ma incarna un'esperienza unica la quale garantisce la veracità delle sue parole. E la Via fatta uomo. E gli adepti girano intorno a questo faro meraviglioso, gareggiando in zelo o in mutua sorveglianza per attirare la sua attenzione, mentre il santo fra i santi sa rendersi prezioso, apparire solo una volta al giorno e proteggersi dai contatti troppo frequenti grazie alle numerose guardie del corpo che preservano la sua intimità. Meraviglia del recinto, non c'è più niente da desiderare se non quello che è già scritto. E l'adattamento massimo: si elimina ogni inquietudine, ogni angoscia per proibire al soggetto di assumere e vivere la propria carenza. L'ashram ha proiettato il male, una volta per tutte, sulla società occidentale (o sulla società indiana che la imita) e si presenta così come il luogo terapeutico totale. E l'uomo di Dio deriverà il suo potere dall'estrema puntigliosità con cui sorveglia i gesti dei suoi fedeli, dall'attenzione maniacale che tributa al rispetto delle regole da lui stesso dettate: era venuto ad annunciare l'Oriente, non abbiamo avuto che una setta.20 La straordinaria proliferazione delle sette, in Europa e negli USA, comincia col successo del movimento hippy: nel 1966, Timothy Leary, sedotto dalla «gentilezza e dalla fede ingenua» degli hippy, annuncia a New York la creazione di una nuova religione che battezza «League for Spiritual Discovery», allusione, con le iniziali, all'LSD. Sul suo esempio, altre sette appaiono su tutto il territorio: la NeoAmerican Church di Arthur Keleps a Miami, senza dimenticare le comunità religiose psichedeliche, dove I'LSD è utilizzato come sacramento. Da allora prende avvio un'infinita fioritura di gruppuscoli, l'estensione su grande scala del mercato della comunicazione, il lancio di catene di supermercati dello zen e dell'interiorità, il degradarsi della religione a psicologia e della Chiesa ad annesso dell'ospedale. Si veda a tale proposito ALAIN W O O D R O W , Les Nouvelles Sectes, Seuil, Paris, 1977. 20
Così, col pretesto di rivelare gli individui a se stessi, l'eremo produce infermi, non santi, bambini impauriti dal mondo esterno e non saggi resi più grandi dalla meditazione. La gioia di dedicarsi all'istituzione, il funzionamento ecclesiale della setta che diventa fine a se stessa, rendono quasi impossibile il riadattamento alla vita profana. Non si può più fare a meno dell'ashram perché l'ashram sostituisce il mondo, privandolo della sua realtà a vantaggio di un santuario. Col pretesto dell'iniziazione, esso fa cadere i suoi membri nella debolezza e nella fragilità, instaura un rapporto di dipendenza morale che sarà difficile interrompere. Nelle valli himalayane tutte vibranti di un antichissimo magnetismo, queste fabbriche di condizionamento producono handicappati a catena. Dopo mesi di comunicazione intensa, di intimità obbligatoria, di sorrisi forzati, di calore materno, come riabituarsi alla freddezza dei rapporti anonimi? Caduto dal nido, l'uccello è paralizzato. E il suo ritorno dal maestro sarà soggetto alle condizioni più draconiane, anche quelle della totale servitù. Che importa la servitù, purché si abbia l'armonia?21 (C'è da chiedersi; del resto, se non sia proprio un sovrappiù di disciplina che il drop-out va a cercare in Asia, nel momento in cui le Chiese in Occidente si liberalizzano.) Così questi eremi nepalesi o indiani diventano le cliniche dei nostri insuccessi, le Disneyland di tutte le patologie occidentali, dove le greggi bionde, in cerca di Luce, finiscono per subire un guasto irreparabile.22 E siccome l'Oriente, allora, non è altro che il festone Anche qui, il Bhagwan Rajnesh aveva saputo riunire meglio di tutti gli altri, nei suoi vari centri, tutte le tecniche d'irreggimentazione concepite nel XX secolo; autentico genio della manipolazione, aveva fatto del suo ashram un laboratorio di coercizione autorizzata. 22 Si noti, a questo proposito, la strana suddivisione dei compiti nella comunità europea dell'india e del Nepal (valutata fra 20.000 e 40.000 persone); mentre l'Europa calvinista e ricca (tedeschi, olandesi, svizzeri e nordici) popola in maggioranza gli ashram, soprattutto nell'Himalaya, l'Europa cattolica (francesi e italiani) sceglie piuttosto l'illegalità e la delinquenza: traffico di droghe, di passaporti e di gioielli. A che cosa attribuire questa divisione del lavoro? ecco un bell'enigma per la sociologia delle mentalità. Da notare anche l'arrivo, sul 21
che orna il trattamento, l'ashram può essere trasportato dovunque, nel Texas come ai piedi dell'Everest, a Zinal come a Los Angeles; l'Oriente ha cessato d'essere geografico, l'Oriente ha semplicemente cessato d'essere orientale.
I candidati alla rassomiglianza II fine supremo per chi è preposto all'estasi, è di essere scheletrico e febbrile come un indiano. In virtù del principio secondo cui una fede ardente scava le guance, egli si sentirà pronto per il grande tuffo quando avrà la fissità del fachiro e la magrezza del Cristo. Tutti questi sradicati, qualunque sia lo stupefacente cui si dedicano, hanno quindi in comune 0 mimetismo che li incita ad attingere negli atteggiamenti dell'Asia come in un baule pieno di costumi. Da qui la laboriosa pazienza con cui si travestono prendendo a prestito i tic e i cenci dell'uomo contemplativo. Costretto a giocare a chi è 0 più indigeno, e a rilanciare continuamente, l'europeo, a piedi nudi, vestito di un dhoti se è un uomo, di un sari se è una donna, adotta l'aspetto bucolico, selvaggio, ispirato ai monaci mendicanti che percorrono le strade del paese; ne copia la lunga zazzera mai districata dal pettine, simile a un vello di lana, il viso dipinto a colori sgargianti, il corpo coperto di cenere. I suoi discorsi sono abbondantemente infiorati di parole hindi, chiama a tutto spiano i suoi compagni baba (in sanscritto: «saggio»), non dice più «d'accordo», ma atcha, si dà colpi in fronte col suo shilom prima di fumare, non beve il tè nella tazza ma lo versa nel piattino, che poi lecca alla maniera locale. Giocherella con una sfilza di formule pompose, di parole straniere, di espressioni ampollose e oscure; come il latino nella Chiesa classica, il sanscrito è dotato di poteri misteriosi per il solo fatto d'essere incomprensibile!23 mercato della spiritualità, da tre anni a questa parte, dei figli delle classi dirigenti sudamericane: argentini, brasiliani, venezuelani. 25 « Mi sentivo respinto dalle parole religiose inglesi che avevo appreso nell'infanzia ed ero riconoscente al Vedanta di parlare sanscrito
Il fatto è che l'apparenza è più di una superficie; è la verità di colui che essa avvolge. Il mondo intelligibile e il mondo sensibile si sono scambiati le funzioni; l'abbigliamento, il viso, il trucco sono ormai il nucleo, l'essenza di cui la vita interiore non è che la scorza. L'anima è nel colore del tessuto, non nella profondità della convinzione. Si palpa l'Assoluto attraverso la trama della camicia o del pigiama, esperienza ben più platonica che teatrale. Il mio aspetto è un avatàra dei Veda o del Gita, significa tutto un retromondo, prova che l'Oriente è disceso in me.24 Insomma, per sentirsi sullo stesso piano di Visnu, basta che i panni siano adatti. E tuttavia, uomo delle mescolanze, gran manipolatore di culti, l'apostolo della controcultura non deve farsi illusioni: sotto il mantello di Noè del meditante resta l'occidentale. Ciò che prende in prestito da altri - poiché il pellegrinaggio è una forma di copia - è ancora la prova della sua superiorità. Egli rappresenta, certo, un'altra qualità di europeo; è un iniziato che ha conosciuto il grande brivido. Tutti costoro, il monello di Aubervilliers, lo studente di Berlino, il tornitore di Liverpool, aggiungono alla loro rispettiva nazionalità la recitazione meccanica dei mantra, la conoscenza delle posizioni yoga, l'apprendimento della respirazione armonica; godono di un doppio privilegio, affermano la loro superiorità [...] Avevo bisogno di un vocabolario tutto nuovo ed esso era lì, con un bagaglio di termini filosofici preciso, senza emozione, non macchiato da vecchie e disgustose associazioni coi sermoni del pastore, le discussioni del maestro di scuola, i discorsi patriottici dei politici », scrive Christopher Isherwood nel resoconto per metà comico e per metà serio dei suoi rapporti, dal 1939 al 1965, con Swami Prabhvananda, monaco bengalese dell'ordine di Ramakrishna, che influenzò anche Aldous Huxley e Henry Miller (My Guru and bis Disciple, Farrar, Strauss and Giroux, New York, 1980, pp. 37 e 49). [Tr. it.: Il mio guru, Garzanti, Milano, 1989.] 24 Senza dimenticare quanto hanno di ironico le preoccupazioni sanitarie quasi ossessive degli europei in Asia; nella patria degli dei, non si preoccupano che del loro intestino, si guardano la lingua, sorvegliano la digestione. Col rotolo di carta sotto il braccio, il pellegrino, partito per innalzare la sua anima, ormai ha occhi solo per il suo ano e per gli inquietanti borborigmi che turbano la sua meditazione.
sulle due culture; essi, i « salvati », formano una razza d'élite che ha preso il meglio dell'Asia pur conservando quel che c'era di buono in Europa, appartengono alla minuscola frazione dell'umanità detentrice della verità. Siano essi devoti della Madre, aurobindiani, Harekrishna o altri amatori dei sincretismi semplificati, erranti e irsute rovine angeliche o patibolari, il principio della loro pia mascherata è esattamente inverso all'interesse che provano per l'India; vi scimmiotto tanto più volentieri in quanto nulla di ciò che vi riguarda m'interessa; vi imito soprattutto per non assomigliarvi. Si potrà mai descrivere l'oscenità, il ridicolo di queste teorie di ectoplasmi ambulanti senza età, senza sesso e senza sugo, francesi, inglesi o tedeschi, di quei monaci in pigiama che solcano la penisola da nord a sud e da est a ovest, infaticabili coorti di zitelle rancide e di vecchi hippy avviluppati in teli bianchi, tutti uniti dalla stessa impostura, nel culto di un bigottismo dal volto esotico? Non riconoscendo né le tradizioni, né le leggi, né i costumi del paese, eccetto la sua spiritualità, non sentendosi più legato alla sua patria d'origine se non per i vaglia che gli inviano i familiari, il pellegrino è soggetto a una doppia e negativa appartenenza sociologica. Naviga fra una cultura lontana che ha abbandonato e alla quale soltanto la lingua lo unisce, e una società che egli rifiuta e disprezza. A costo di finire sul giaciglio di uno slum, consumato dalla droga,25 dalle privazioni o Anche qui, la confusione fra la droga e la mistica merita di essere sottolineata. L'era della Grande Mutazione grazie agli allucinogeni, annunciata da Jean-Jacques Lebel nel 1967 (citato da M I C H E L LANC E L O T , op. cit., p. 286), la precisa indicazione delle dosi per giungere all'estasi, offerta da Timothy Leary nel suo libro L'esperienza psichedelica: « L a colonna A indica una dose sufficiente per una persona inesperta al fine di accedere ai mondi trascendentali descritti in questo manuale» (citato da M. LANCELOT, p. 133), provengono tutte dall'illusione per cui il mangiatore d'oppio o di acido giunge più rapidamente a stati di coscienza che la meditazione arreca solo dopo parecchi anni. Poiché la coscienza ottenuta in questo modo è fragilissima, la discesa è vissuta come una caduta, che incita il tossicomane a raddoppiare le dosi per continuare a volare. E la volontà di aumentare la lucidità dello spirito si degrada in assopimento, in totale letargia. 25
Goa, piccolo condensato
d'Europa
Volete sapere che cos'era la gentry inglese al tempo del British Raj? Andate a Goa, antico stabilimento portoghese, nell'India sud-occidentale, curiosa e indolente reincarnazione dell'impero. Vi troverete i campioni più svariati dell 'homo europaeus degli ultimi vent'anni; contemplativi e agitati, punk e intellettuali, vecchi emarginati e giovani imberbi, eremiti e chiacchieroni, predicatori e buffoni, impiegati vestiti da fachiri e canaglie atteggiate a bahas cools, senza contare la piccola schiera, inevitabile a queste latitudini, di rottami, di falliti, di cenciosi, di destini naufragati. Qui, l'uomo bianco gode della propria diversità, della sua spiccata inclinazione a travestirsi, a moltiplicare le apparenze. Donde la sensazione di essere sempre a teatro: la bellezza di certi abiti pieni di colori cangianti, lo splendore delle sete e dei ricami, la bizzarria di certi personaggi addobbati da filibustieri, da meditanti, da sceicchi arabi, che spalancano occhiacci terribili e fanno roteare una spada o un bastone da passeggio. L'occidentale travestito da asiatico da commedia offre ai suoi conterranei lo spettacolo della propria stravaganza, davanti a un pubblico di indiani sbalorditi. Naturalmente, i nipoti degli antichi dominatori hanno cambiato abitudini: non giocano a golf ma a backgammon, hanno abbandonato gli shorts e il casco per il dhoti, lo string o il tonga, si coprono di gioielli, praticano l'astrologia come i locali, fumano la gangia e l'oppio, annusano polverine, assorbono acido invece di alcool e la loro vita amorosa sembra più vicina alla poligamia che alla severa coniugalità vittoriana. Ma soprattutto fanno il bagno nudi, ostentano con piacere la loro libertà corporale; ogni organo svelato dalla macerazione, non vuole assolutamente esser confuso con la plebe locale; respinge i valori degli indiani come appartenenti a un mondo decaduto, ma non vuole nemmeno condividere la situazione dei turisti, dei residenti, dei diplo-
proclama con orgoglio la loro appartenenza alla razza dei signori: vedete come sono libero, io, il bianco. L'indiano che, soprattutto la domenica, viene a fotografare e ad annusare questi specimen poco vestiti dell'emisfero Nord, contempla perplesso quei petti abbronzati, quelle verghe e quei didietro arrossati con uno sguardo in cui si mescolano invidia e disapprovazione; perché lui, invece, è infagottato in pantaloni stretti e tristi, in camicie striminzite, quando non porta addirittura stivali a tacco alto! Sbalorditivo capovolgimento: nel 1852, il governo portoghese di Panai proibisce ai goanesi vestiti dei loro abiti tradizionali l'ingresso nelle città del territorio, accessibile unicamente alle persone che indossano gonne e pantaloni; nella stessa epoca, il colonizzatore inglese ordina agli indiani di nascondere la loro offensiva nudità. Oggi, è il nativo di Madras, di Bombay, di Delhi che è divenuto il miglior depositario dei valori europei, mentre francesi, italiani, tedeschi riscoprono le qualità di benessere e d'agio che appartenevano agli abitanti originari del subcontinente. Da qui la stupefazione degli autoctoni: non riconoscono più i loro bianchi! Ed ecco alcune migliaia di hippy divenuti i nuovi indigeni dell'antico stabilimento! Goa o il colonialismo come cliché, cartolina illustrata, meno le sue conseguenze economiche o politiche; pulce sul dorso dell'elefante indiano, lo distrae senza spaventarlo. Questa vetrina dell'Europa in territorio straniero permette agli indiani di istruirsi guardando le più recenti usanze di questa specie poco conosciuta: gli occidentali. Nell'idillio dei Tropici, è una fiera dell'uomo bianco, dove il Ponente si ripresenta e sfila dinnanzi al Levante. matici o dei ragazzi che prestano il servizio civile. E se rimane a gracchiare intorno agli stupa con l'accento di Saint-Ouen o di Manchester, è per meglio assaporare il privilegio di non partecipare a nessuno dei due campi, pur appartenendo a en-
trambi, ma solo alla misteriosa confraternita della strada. Ha bisogno di mimare una separazione che, senza una continua vigilanza, rischierebbe di passare inavvertita. Il suo sradicamento è simbolico; non passa dall'altra parte, passa accanto alle due civiltà. E così che questi vagabondi, partiti con spirito d'umiltà, si ritrovano quasi loro malgrado nella pelle del coloniale, loro padre o loro nonno. Lo sforzo di simpatia, la negazione di sé, non sono riusciti a venire a capo di antichi riflessi saldamente radicati; i Kerouac abbronzati venuti a succhiare i misteri dell'assoluto non possono far altro che misurare la patetica distanza che li separa da un'Asia eternamente straniera.26 Partiti per redimere il Vecchio Mondo e rifiutare l'egoismo delle nazioni ben pasciute, arrivano ad affermare la loro esistenza e quella soltanto. La grande fraternità degli emarginati sbocca nella rivoluzione solitaria del trip. La fede, semplice questione di convinzione, non sfugge alla privatizzazione e cessa di essere un fattore di unione. Ciascuno diventa un'isola che ha fatto il suo contratto con Dio. E siccome 1'« io » è l'u26 Vi sono, certamente, degli ashram dai quali si esce, iniziazioni che meritano d'essere intraprese, purché si distinguano e non si mescolino i differenti contesti culturali, i diversi riferimenti all'Essere; purché nessun limite temporale sia posto alla ricerca, purché, infine, si vada incontro alle religioni straniere conoscendo la propria in modo tale che lo choc sia anche scambio. Per questo, in genere, i dialoghi culturali più autentici sono quelli che avvengono fra preti o ecclesiastici. Si sa quale spazio il Concilio Vaticano II abbia dato allo scontro fra culture, e quale particolare dimensione gli abbia riservato padre Arrupe, ex generale dei gesuiti, che aveva trascorso parecchi anni in Giappone. A questo proposito si leggano le bellissime pagine che Mircea Eliade dedica al suo soggiorno in un ashram di Rishikesh nel 1931, e si potrà meditare sulla riflessione che questo soggiorno gli ha ispirato: «Ciò che avevo tentato, nel mio desiderio di strapparmi dalle mie radici occidentali per meglio fondermi in un esotico universo spirituale, equivaleva in fondo a rinunciare prima del tempo alla mia creatività. Per creare, bisogna restare nel mondo cui si appartiene» (Mémoires I. Les Promesses de l'équinoxe, Gallimard, Paris, 1980, p. 281).
nica istanza cui si è disposti a rendere conto, si sfogliano tutte le fedi religiose del mondo come i petali d'una margherita. L'anacoreta in erba pronto a dar credito a tutti i venditori d'illusioni, di cosmologie cervellotiche, di poteri miracolosi, si chiude a triplice mandata nel suo piccolo ghetto di pietà. I misticismi più strampalati fanno buona compagnia a sincretismi sofisticati, l'interiorità diventa sinonimo di vacuità, dappertutto fioriscono frodi, confusioni, idealismi di princisbecco, occultismi da grande magazzino, volgarità millenaristiche che scandalizzerebbero, se non fossero innanzi tutto ridicole! Che cosa resta allora dell'Asia, di quel mondo gigantesco e pullulante? Caricature di rituali, statuette di gesso, lo stridio di un sitar, bastoncini d'incenso, mantelli afghani, camicie di cotone, una paccottiglia da supermercato! Per esser giusti, il movimento hippy ha avuto l'immenso effetto di sensibilizzare le nostre generazioni alle suggestioni del viaggio, e resta per molti aspetti sinonimo di libertà e di avventura. Ma, vittima del suo eccessivo ottimismo, della sua fede positivista nella permeabilità delle culture, non c'insegna nulla sull'Oriente stesso. Tutti i grandi intermediari che hanno lanciato un ponte fra l'Est e l'Ovest gli furono e gli restano estranei; agnostici, credenti o semplici curiosi, si sono tuffati nello spessore di un'umanità, salvo poi soffrire di quest'estraneità che li affascinava. Tale sforzo l'hanno pagato con il lavoro di tutta una vita, spesso con la loro salute, al punto di diventare figli di una doppia cultura, con i rischi e le meraviglie che un simile procedimento implica.27 Ma i figli dei fiori di San Francisco, Parigi, Roma o Amsterdam si sono ritrovati tutti uniti in una stessa indifferenza verso l'alterità dell'Asia: si sono proclamati vicinissimi agli indiani, distaccati dalla vita più dei buddhisti, hanno negato Mircea Eliade, Alexandra David-Neel, Arnaud Desjardins, Lanza del Vasto, i padri Monchanin e Le Saux, Guy Deleury hanno tentato, ognuno con diversa fortuna, questo passaggio al limite. Si può consultare a questo proposito la bellissima riflessione che il gesuita tedesco Hans Waldenfels ha tratto da un soggiorno di nove anni in Giappone: Meditazione: Est e Ovest, Queriniana, Brescia, 1977. 27
L'Occidente è una cultura superiore? (Su due argomenti di C. Lévi-Strauss) 1. Ogni cultura, dice Claude Lévi-Strauss, è frutto di una coalizione, il che spiega come le grandi invenzioni dell'umanità si siano verificate press'a poco nelle stesse epoche; bisogna perciò togliere all'Occidente la prerogativa della rivoluzione industriale, che sarebbe intervenuta in ogni modo, presto o tardi, in un altro punto del globo (Antropologia strutturale, 20, Il Saggiatore, Milano 1978, p. 395). « E proprio qui tocchiamo con mano l'assurdità del dichiarare una cultura superiore a un'altra. Poiché, nella misura in cui tale cultura fosse sola, non potrebbe mai essere 'superiore' [...] ed è questo che le permette di edificare serie cumulative» (id., p. 399). E verissimo, ma questo non spiega perché, se tutte le società sono frutto di una coalizione, soltanto l'Occidente ne abbia realizzato le virtualità. Non spiega perché l'Europa, ed essa soltanto, abbia potuto totalizzare quel complicato insieme di invenzioni che l'ha distinta dalle altre culture con cui intratteneva scambi e comunicazioni. Se tutte le società, in partenza, erano configurate allo stesso modo, come spiegare perché soltanto la nostra abbia potuto decollare e avere il successo che ha avuto? 2. L'etnocentrismo, «atteggiamento di pensiero nel cui nome si respingono i 'selvaggi' (o tutti coloro che si sceglie ogni diversità culturale ed è stato questo il loro dramma, perché ormai manca loro la distanza per comunicare con questi popoli fra i quali vivono.28 Non si cancellano le proprie origini 28 « P e r uno strano fenomeno, è proprio la ricettività dell'America, il suo desiderio di intendere, di esplorare e di sperimentare, che innalza la barriera più invalicabile alla comprensione della spiritualità orientale [...]. E la storia del cavallo di Troia, ma invertita», scrive molto giudiziosamente Harvey Cox in La svolta ad Oriente, Queriniana, Brescia, 1978.
di considerare come tali) fuori dell'umanità, è proprio l'atteggiamento più caratteristico che contraddistingue quei selvaggi medesimi» (id., p. 372). «Contestando l'umanità di coloro che appaiono come i più 'selvaggi' o 'barbari' fra i suoi rappresentanti, non facciamo altro che assumere un loro atteggiamento tipico. Il barbaro è anzitutto l'uomo che crede nella barbarie» (id., p. 373). Strano argomento che, per refutare il razzismo occidentale, comincia col giustificarlo, assicurandogli che gli indigeni che tanto disprezza sono davvero dei barbari! Dunque, la sola ragione che dovrebbe allontanarci dall'etnocentrismo sarebbe una ripugnanza molto profonda a identificarci con quei «selvaggi»! Curioso modo di combattere il male e di rendere ai popoli lontani la dignità che, qui da noi, vien loro contestata da certuni! E vero che il pensiero di Lévi-Strauss è così ricco che sembra quasi impossibile confutarlo, tanto gioca con brio sulle proprie contraddizioni. E tuttavia non abbiamo appena messo il dito su quelli che si potrebbero chiamare due sofismi della buona volontà? Nella sua preoccupazione quasi paternalistica di provare alle altre culture che l'Europa non è nulla, tre volte nulla - sempre in nome del famoso rimorso! - , Claude Lévi-Strauss, quasi suo malgrado, dimostra esattamente il contrario. Certi lapsus sono felici. con un tratto di penna. Gli infatuati del Nirvana hanno creduto, con un solo gesto, di fondersi con l'Assoluto e di congedare l'Europa. L'Europa è tornata al galoppo e l'Assoluto non era all'appuntamento. Questi grandi viaggiatori dell'eterno si sono ritrovati di fronte a se stessi, chiusi per sempre in un blockhaus imprendibile.
Le « impasses » del relativismo culturale Mentre la sovranità francese, belga, olandese, tedesca, inglese sui popoli africani o asiatici si accompagnava all'ingenua convinzione di portare, oltre al progresso e alla scienza, la libertà - «Dovunque sventola questa bandiera, gli schiavi ritrovano la loro libertà», aveva dichiarato Brazza agli schiavi africani che aveva appena riscattato facendo toccar loro le pieghe della bandiera tricolore29 - , l'esercizio stesso della colonizzazione avrebbe rimesso in discussione questa professione di fede trionfante. Più gli imperi si affermavano, più rischiavano di vacillare: nelle stesse metropoli, si alzavano numerose voci a difendere le civiltà indigene di cui i primi antropologi e gli amministratori delle colonie avevano dato descrizioni spesso ammirate; all'interno dei paesi occupati, un nuovo strato di intellettuali, di pensatori, di giuristi, spesso formatisi nelle università di Francia o d'Inghilterra, avrebbero rivolto contro l'Europa i valori che questa aveva loro inculcato: il rispetto della sovranità politica, la democrazia e, naturalmente, il diritto dei popoli a disporre di se stessi. Infine, le conseguenze morali della carneficina del 1914, il dubbio sulla modernità - di cui due libri così dissimili fra loro come II tramonto dell'Occidente di Oswald Spengler e II diario di viaggio di un filosofo del conte di Keyserling testimoniano ciascuno a suo modo - e soprattutto l'irrimediabile danno inflitto all'idea europea dalle convulsioni dell'hitlerismo e dello stalinismo, avrebbero scosso l'orgogliosa sicurezza su cui le nazioni industriali avevano fondato la loro impresa. Le guerre d'indipendenza, come pure la decolonizzazione, avrebbero interrotto in modo definitivo il sonno dogmatico dell'europeo, e nessuno oggi oserebbe più postulare la superiorità globale dell'Occidente, soprattutto nel momento in cui esso attraversa una crisi che non è tanto quella del petrolio o dei mercati, quanto del suo stesso progetto di civiltà. Ci si può chiedere tuttavia se « questo nuovo assalto dello 29 Aneddoto citato nell'eccellente opera di R A O U L G I R A R D E T , L'Idée coloniale en France de 1871 à 1962, Pluriel, Paris, 1979.
specifico nella storia contemporanea», per riprendere un'eccellente espressione di Jacques Berque,30 non generi a sua volta, a dispetto dei suoi lati positivi, altri errori. Senza dubbio i dottori del relativismo culturale - intendiamo con questo gli etnologi e gli antropologi, in opposizione ai marxisti, adepti dell'universale hanno ispirato una tolleranza civile e religiosa di cui tutte le persone di buona volontà non possono che rallegrarsi. Sembra però al di là di un certo limite questa elasticità ideologica si contraddica da sé e cada in una forma di scetticismo difficilmente accettabile. Sono appunto queste impasses che qui vorremmo definire, studiando le ripercussioni del discorso etnologico sulla sensibilità contemporanea.
L'Eldorado di Gauguin Del resto noi vecchi europei stiamo tutti più o meno cordialmente male [...] il nostro tenore di vita è contro natura, e i nostri rapporti sociali sono senza amore e benevolenza [...] Verrebbe spesso voglia di essere, per così dire, un selvaggio di una delle isole dei mari del Sud, per poter gustare almeno una volta, in tutta la sua purità, l'essenza umana, senza falsi sapori d'altro genere. ECKERMANN, Colloqui con Goethe, 12 marzo 1828 (Sansoni, Firenze, 1947)
Se il retaggio culturale dell'umanità è oggetto di un'infatuazione generale, è perché per noialtri, occidentali, il minimo folclore, uso o costume svela la rara essenza di cui saremmo ormai privi: l'autenticità. Siccome gli dei hanno disertato le nostre terre a passi felpati, dobbiamo andare, per ritrovarli, nelle isole più lontane, sotto i cieli più splendenti. L'idea, naturalmente, trae le sue origini dal X V I I I secolo, specie in Rousseau, Condillac, Condorcet e Diderot,31 ma, dopo la parentesi L'Islam au défi, cit., p. 90. « L a vita selvaggia così semplice, e le nostre società sono macchine così complicate. Il tahitiano sfiora l'origine del mondò, l'europeo sfiora la sua vecchiaia », scrive Diderot nel Supplemento al Viaggio di 50
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del XIX secolo, conosce ai nostri giorni un nuovo, inconsueto successo, che la innalza quasi al rango di un dogma. Il linguista antropologo Sapir la concettualizza nel 1925,32 ma soprattutto il grande Malinowski, affascinato dal modo di vita dei trobriandesi, la rende popolare: ai suoi occhi, la disciplina da lui praticata è una fuga romantica verso società rimaste intatte; mentre, in Tylor e Morgan, l'antropologia protegge la civiltà scientifica dalle aberrazioni e dalla grossolanità dei popoli selvaggi, in Malinowski essa svolge una missione preservatrice. Le sopravvivenze primitive denunciate con disprezzo dai missionari e dagli etnologi del fiorente impero, sono ormai amate come altrettanti tesori da salvaguardare. All'ideologia della potatura succede la cura del patrimonio, dettata dalla nostalgia di favolosi ritrovamenti. E il fatto che l'Occidente sia più avanzato sul piano tecnico-economico non significa nulla: il progresso è mostruoso e non implica alcuna giustizia. «Può sembrare un'idea pessimistica del progresso, ma molti la sentono fortemente e vedono nell'insensato avanzare della meccanizzazione moderna una minaccia a tutti i veri valori spirituali e artistici», dice Malinowski nel 1930. Il mondo moderno è un'aberrazione mostruosa, scrive René Guénon circa nella stessa epoca.33 Già in Gli Immemoriali (1907), Victor Bougainville e altri scritti sulla morale e sul costume, Salerno, Roma, 1978. E Condillac: «Noi che ci crediamo istruiti, avremmo bisogno di andare fra i popoli più ignoranti per apprendere da loro l'inizio delle nostre scoperte; perché è soprattutto di quest'inizio che avremmo bisogno; lo ignoriamo perché da molto tempo non siamo più i discepoli della natura» (La langue des calculs, 1 7 6 0 , citato da G É R A R D L E C L E R C , Anthropologie et Colonialisme, Fayard, Paris, 1 9 7 3 , p. 2 2 3 ) . [Tr. it.: Antropologia e colonialismo, Jaca Book, Milano, 1 9 7 3 . ] 32 proponendo la sua distinzione fra culture autentiche (genuine) e culture inautentiche (spurious). Le prime sono « armoniose, equilibrate e vivono in perfetto adeguamento con se stesse », le seconde « riducono l'individuo allo stato d'ingranaggio, provocando frustrazione e alienazione» (citato da G É R A R D L E C L E R C , op. cit., p. 1 5 5 ) . " «Ciò che non si era mai visto finora, è una civiltà edificata interamente su qualcosa di negativo, su quel che si potrebbe chiamare un'assenza di principio; è precisamente questo che dà al mondo mo-
Segalen, raccontando la decadenza del popolo maori, aveva posto l'accento sull'inevitabile degradazione che il contatto con la civiltà industriale non può mancar di suscitare negli antichi modi di vita. Mezzo secolo dopo, Claude Lévi-Strauss evoca con un senso di vergogna « quel mostruoso e incomprensibile cataclisma che fu, per una tanto larga e innocente frazione dell'umanità, lo sviluppo della civiltà occidentale» ('Tristi Tropici, cit., p. 312), e Garaudy, più di recente, conclude con una di quelle formule riassuntive che gli sono care: « Lo sviluppo dell'Occidente è un'eccezione maledetta » (Pour un dialogue des civilisations, cit.). Insomma, noi, possessori e schiavi della tecnologia, che abbiamo perduto la nostra anima, dovremmo la possibilità di sopravvivere alla cultura degli altri; sopra queste società minuscole, arretrate, si applica l'età dell'oro, si materializza ciò che l'immaginazione collettiva situava poc'anzi nel passato; e siccome il passato è accessibile ormai con un semplice spostamento nello spazio, laggiù noi ritroveremo il Paradiso terrestre, le Isole fortunate, «le sorgenti dell'umanità bambina» (Paul Gauguin). Mentre nel xix secolo il selvaggio non era che un goffo abbozzo destinato a esser protetto dai popoli civili, al principio del xx torna a essere l'uomo delle origini, l'uomo di prima del peccato,34 al cui contatto l'Occidente è derno il suo carattere anormale, che ne fa una specie di mostruosità (La Crise du monde moderne [1927], cit., pp. 90-91). 14 « Il visitatore che per la prima volta si accampa nella boscaglia con gli indiani, è preso dall'angoscia e dalla pietà di fronte allo spettacolo di questa umanità così totalmente indifesa [...] Ma questa miseria è animata da bisbigli e da risa. Le coppie si stringono nella nostalgia di una unità perduta; le carezze non s'interrompono al passaggio dello straniero. S'indovina in tutti una immensa gentilezza, una profonda indifferenza, una ingenua e deliziosa soddisfazione animale», scrive L É V I - S T R A U S S , Tristi Tropici, cit., p. 278. E anche Pierre Clastres, descrivendo il selvaggio di prima della caduta, cioè prima della nascita dello Stato, scrive: «Quel che s'individua qui è appunto il momento storico della nascita della Storia, la fatale rottura che non avrebbe mai dovuto verificarsi, l'evento irrazionale che noi moderni definiamo, in modo analogo, la nascita dello Stato.
chiamato a rigenerarsi. Così le popolazioni primitive ricevono il loro tributo di elogi; piccole comunità dalla struttura cristallina dove la solidarietà e la reciprocità sono pratiche quotidiane (Lévi-Strauss), beata anarchia degli indiani guayaqui nel sud-est del Paraguay che vivono senza potere centrale, senza divisioni (Pierre Clastres), società unificata dalla presenza benevola e generosa di una foresta, di una giungla o di un fiume che provvedono ai bisogni di tutti (Marshall Sahlins), società dell'armonia spontanea e del conflitto fecondo (Robert Jaulin), profusione dei sensi e della felicità erotica degli atolli del Pacifico meridionale (Malinowski), tali sono le utopie, seducenti del resto, che animano l'etnologia contemporanea. A noi il male di vivere, i valori debilitanti,35 le preoccupazioni, a loro il simbolo, la felicità, la trasparenza che agiscono con tutta la magia di una suggestione collettiva. Contro i freddi mostri dell'emisfero Nord, non ci si stancherà mai di esaltare la grande bellezza del primitivo36 o anIn questa caduta della società in un assoggettamento volontario di quasi tutti a un solo, La Boétie decifra il segno ripugnante di una decadenza forse irreversibile [...] L'etnologia iscrive il suo progetto sull'orizzonte della divisione già riconosciuta da La Boétie [...] Sono certo benedette, queste società primitive, le prime a svilupparsi nell'ignoranza della divisione, le prime a esistere prima della fatale sventura » (« Liberté, malencontre, innommable », nell'edizione del Discours de la servitude volontaire, di Etienne de La Boétie, Payot, Paris, 1976, pp. 231-233). [Tr. it.: Discorso sulla servitù volontaria, Jaca Book, Milano, 1979.] 35 Parlando della colonizzazione in Africa e dei vantaggi rispettivi che ne hanno tratto invasori e indigeni, Guy de Bosschère scrive: « I bianchi, in compenso, come possono pretendere d'aver arricchito la cultura negra, se non con l'apporto dei valori debilitanti delle loro civiltà utilitarie e materialistiche, della loro disperazione congenita» {Autopsie de la colonisation, Albin Michel, Paris, 1967, p. 180). E Robert Jaulin: « La pace, la discrezione, la padronanza di sé degli indiani contrastano col dramma esistenziale dell'Occidente» (La Paix bianche, Seuil, Paris, 1970, p. 15). [Tr. it.: La pace bianca, Laterza. Bari, 1972.] 56
Leggiamo ad esempio il passo di un testo del 1555 sugli abitanti
che il risveglio delle identità calpestate, la rinascita dell'elemento religioso, la fedeltà a se stessi, l'incessante ricapitolazione della propria eredità, « il rapporto vissuto fra un gruppo e le sue basi, un rapporto che dev'essere continuamente rianimato ».37 Le promesse di rinnovamento sembrano molteplici appena si riferiscono all'osservanza di un antico retaggio. Sinonimo, nel X V I I I secolo, di uno stato di natura che confuta l'idea di religione, il mondo extra-occidentale simboleggia ai nostri giorni il focolaio del sacro, il depositario di una trascendenza assente nelle nostre latitudini. Leva contro l'oscurantismo sotto l'Ancien Régime, strumento di risveglio a una verità perduta, in entrambi i casi le culture esotiche servono da specchio, in cui l'Occidente sottolinea le sue insufficienze, corregge i suoi difetti. Allora, tutto è autentico per il solo fatto d'essere antico, cioè vicino alle origini; l'anacronistico è sopravvalutato, l'immobilismo è incoraggiato, come negli opuscoli turistici, l'arcaico è sempre più « vero » del moderno,38 e si respinge del Nuovo Mondo: « E provato che da loro la terra appartiene a tutti come il sole o l'acqua. Non conoscono né il tuo, né il mio, fonte di tutti i mali. [...] è la condizione dell'età dell'oro. Né fossati, né muri, né siepi per recintare le loro terre. Vivono in giardini aperti a tutti. Senza leggi, senza codici, senza giudici, agiscono naturalmente secondo equità» (Pietro Martire di Anghiera, citato da Richard Marienstras, Le Proche et le Lointain, Minuit, Paris, 1981, p. 242). Confrontiamo queste righe con gli scritti degli etnologi moderni che esaltano la libertà amorosa del selvaggio, il suo odio per lo Stato, il suo rifiuto della proprietà, la sua giustizia naturale, e si comprenderà come uno stesso mito continui dal Rinascimento in poi, mito che né le ricerche sul terreno né gli studi «scientifici» hanno minimamente intaccato, conferendogli anzi una vernice di rispettabilità che ha permesso di meglio avallarlo. Si è già visto nel capitolo sulle solidarietà militanti quanti errori e quanti incoraggiamenti alla più grossolana cecità potevano comportare l'osservazione dei fatti e i viaggi sul posto. L'Islam au défi, cit., p. 2 7 5 . La verità del discorso etnologico oggi risplende nell'ideologia turistica; si veda, ad esempio, 0 commento di un dépliant sui villaggi berberi dell'estremo Sud tunisino: « Insieme, essi tessono il quotidia37
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JACQUES BERQUE,
l'idea stessa di sopravvivenza perché è chiaro che «se la sopravvivenza si perpetua, è perché ha acquisito un senso nuovo, una nuova funzione» (Malinowski). D'altronde, si tratta di un falso problema, perché è ovvio che « le società primitive sono l'avvenire delle nostre»' 9 (Jean Malaurie) e che «l'indispensabile rivoluzione bianca, per il momento utopistica, ha tutto da imparare e da attendersi dagli indiani (e niente da insegnar loro)» 40 (R. Renaud). Come non vedere, in primo luogo, che il culto della differenza presuppone un'idea a priori di ciò che essa incarna, e che l'intellighenzia occidentale ricade nell'etnocentrismo, nel momento stesso in cui crede di volgergli le spalle? Nessun disinteresse nella nostra ricerca di « opere vive », poiché stabiliamo noi stessi i valori che andiamo poi a scovare agli antipodi nelle tradizioni degli altri popoli. La difesa appassionata delle società primordiali è solo un mezzo per giudicarle e giudicarci attraverso le nostre proprie categorie; dove un tempo si gridava alla barbarie, oggi ci si meraviglia di un equilibrio prodigioso, ma il procedimento è lo stesso, perché il presupposto rimane il modo di vita occidentale: si difende « l'arcaico come puro valore anti-occidentale perché [si] aspira occidentalmente all'assoluto che è fuori della [nostra] portata».41 Esaltare la negritudine, la libertà amorosa dei melanesiani, la non-violenza degli indiani, l'innocenza verginale degli arara e no di una vita rimasta come un'isola di saggia sobrietà nel nostro mondo ossessionato dalla turbolenza e dall'inquietudine. Qui il viaggio assume le dimensioni di un vero ritomo alle fonti ». Ecco di che restare perplessi: in che cosa un villaggio berbero potrebbe, per un europeo, costituire un ritorno alle origini della propria civiltà? " « Ciò di cui sono persuaso, è che le società primitive sono complesse, sofisticate, sono società dell'avvenire, sono forse la nostra seconda anima. Prima di tutto perché sono profondamente differenti dalle nostre e non c'è speranza per l'uomo - ne sono convinto - se non nella diversità del suo destino» (intervista a J E A N M A L A U R I E nel Nouvel Observateur, marzo 1981). In De l'ethnocide, UGE, Paris, 1972, p. 35. R E M O G U I D I E R I , «Les sociétés primitives aujourd'hui », in Philosopher, Fayard, 1980, p. 62. 4(1 41
dei bororo, la spontaneità dei balinesi, non significa vederli attraverso le nostre mancanze e le nostre difficoltà, assumerli come controvalori esemplari del mondo in cui viviamo?42 Perché, in queste condizioni, non celebrare l'antropofagia, le pratiche dei tagliatori di teste, i culti sanguinari degli aztechi, altrettanto « autentici » delle metafisiche dell'Oceania? Glorifichiamo il rustico tropicale perché sappiamo già in anticipo che cosa andiamo a cercarvi, tesori di saggezza, abissi di sincerità e serenità, una festa del corpo, un ristoro ai nostri fastidi,43 mentre ogni incontro culturale dovrebbe riconoscersi, mi pare, dall'impossibilità di pensare in anticipo il suo risultato. Considerare l'altro come «una parte di me stesso che abita in me e mi rivela quello che mi manca »44 significa degradare la scoperta a un semplice ritorno al paese perduto; se mi assento da tutte le società, non sono più altro che la vuota som42 Nella conclusione del notevole studio che dedica a Lévi-Strauss, Jacques Derrida scrive: « La critica dell'etnocentrismo, tema così caro all'autore di Tristi Tropici, ha quasi sempre l'unica funzione di costituire l'altro a modello di bontà originale e naturale, di accusarsi, di umiliarsi, di esibire il proprio essere-inaccettabile in uno specchio anti-etnocentrico » (De la grammatologie, Minuit, Paris, 1967, pp. 1671 6 8 ) . [Tr. it.: Della grammatologia, Jaca Book, 1 9 6 9 . ] 43 Che certe isole dell'Oceano Indiano, dei Caraibi, del Pacifico meridionale possano sembrarci l'immagine del paradiso, è incontestabile. E nessuno negherà che le lunghe spiagge delle Seychelles, le coste di Ceylon e delle Maldive, le risaie di Bali e delle Filippine, le spiagge delle Antille, siano incomparabilmente più entusiasmanti delle periferie di Liverpool, degli altifomi della Ruhr o dei quartieri operai di Roubaix. Stabilito questo, l'occidentale non deve dimenticare che su questi luoghi paradisiaci non getta altro che uno sguardo frammentario, per il tempo di una vacanza, effettuata di solito nelle migliori condizioni di lusso e di comfort. E lo splendore tropicale, la dolcezza dei contatti, la bellezza delle specie e dei fiori, non dovrebbero far dimenticare l'estrema precarietà, se non la durezza della vita primitiva, sia pure sulle più incantevoli rive. Resta comunque il fatto che per noi, abitanti di paesi freddi dal clima incostante, i paesi del sole saranno sempre dotati di un fascino senza eguali. 44
ROGER GARAUDY,
Pour un dialogue des civilisations, cit., p.
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ma di influenze esterne, un vasto deposito aperto a tutti i venti dove vanno ad ammucchiarsi senza logica e senza grazia i comportamenti, i rituali e i gesti dell'umanità. Alla fobia del « diverso », caratteristica della fase espansionista, si è sostituita un'infatuazione per il primitivo, cui si attribuisce subito tutta la generosità, tutta la purezza che si rifiuta a se stessi. Ma quest'indigeno nudo e abbronzato, armato di un arco e guidato da un istinto infallibile, non è altro che la proiezione, la nostalgia del fratello; così, in questi ultimi anni, si è potuto fabbricare un selvaggio libertario, i cui atti mirano tutti a impedire l'avvento dello Stato e delle classi sociali45 (Pierre Clastres), un selvaggio di squisita civiltà, che rifiuta tutto quel che ci opprime: i tabù, le imposte, la cupidigia, la tassa di circolazione, la cattiveria, la concorrenza, l'inganno, 0 cemento e perfino gli sciacquoni, un selvaggio liberato, frenetico adepto delle «macchine desideranti» (Deleuze-Guattari), un selvaggio epicureo che offre lo spettacolo edificante di una sessualità non repressa, dove la sodomia46 è praticata senza cattiva coscienza (Jacques Lizot), un selvaggio settecentista convinto e fine lettore di Rousseau (i nambicuara secondo Lévi-Strauss), un selvaggio prodigo dei suoi beni, che spende con larghezza, ben lontano dalla nostra avarizia piccoloborghese (Bataille), un selvaggio cool che rifiuta il superlavoro e lavora solo quattro ore al giorno (Sahlins), insomma, sempre e dapSenza dubbio Pierre Clastres non ha mai esplicitamente presentato i guayaqui o gli yanomami come modello sociale. La sua conoscenza del terreno gli ha permesso anzi di elaborare un modello teorico - fittizio o meno - per analizzare il dominio e il potere nelle nostre società. Ciò non impedisce che la sua lettura - forse a sua insaputa - non può mancare di farci riflettere sulle antitesi delle nostre metropoli disumane, rappresentate dalle tribù amazzoniche, e, in tal modo, ravvivare il mito del buon selvaggio. 46 La sodomia è «un'attività sessuale marginale [•••] ma non ha come conseguenza un sentimento di cattiva coscienza, il quale, come il pentimento, è giustamente bandito dalla morale indiana», scrive J. L I Z O T , Le Cercle des feux (Seuil, Paris, 1976, p. 44). Il giornale Liberation del 1° aprile 1976 ha pubblicato un estratto del racconto delle precoci esperienze di « Hebewe, il piccolo indiano ». 45
pertutto il selvaggio come spettacolo, fantasma, figura retorica, mistura di gaia scienza e di elogio della pigrizia, con gran soddisfazione della Rive Gauche e di Manhattan. Razzismo all'inverso, ma sempre razzismo: l'apparente felicità di non esser più se stessi si paga con la più grossolana riduzione: nell'altro si benedice soltanto il negativo della nostra civiltà, l'introvabile alibi delle nostre paure, il portavoce delle nostre ossessioni.47 Quei selvaggi sono idee pure, come il guerrigliero boliviano o il combattente palestinese erano soltanto un'idea per il militante terzomondista: una vera medicina catartica che ci si inietta a dosi regolari per immunizzarsi contro lo Stato, 0 Capitale, l'Inquinamento, la Frigidità e via di seguito, secondo le ossessioni di ciascuno.48 Andiamo in estasi perché l'uomo preistorico non ha voglia di diventare capitalista, di edificare uno Stato, di arricchirsi, e fantastichiamo su di lui perché gli attribuiamo l'intenzione di rifiutare ciò che noi siamo. Ancora una volta, la lontananza dello sguardo, il rinnovamento romantico della sensibilità, ci rinviano a noi 47 In un volume collettivo apparso sotto il titolo Le Sauvage à la mode (Sycomore, 1979), Jean-Loup Amselle, Marc Augé, Jean Copans, Jean-Claude Godin, Christian Deverre, Jean Bazin, Ugo Fabietti si dedicano a una corrosiva e salutare demistificazione della letteratura etnografica contemporanea, demistificazione che sarebbe la benvenuta se non fosse guastata da un dogmatismo marxista a prova di bomba. Come se si denunciasse una stupidaggine solo per ricader meglio in un'altra! 48 Fino a che punto una certa etnologia perda la sua attendibilità quando mescola le società primitive ai nostri dibattiti teorici, è quanto dimostra, ad esempio, la confutazione di Deleuze-Guattari ma anche di Pierre Clastres a opera di Marc Augé, antropologo specialista dell'Africa nera, il quale sostiene che tutte le società sono repressive, anche le più primitive, perché impongono un ordine individuale e sociale: « Le logiche del potere sono sempre paragonabili, non certo per l'ampiezza dei loro effetti ma per l'efficace rigore delle loro forme » (
stessi; ci sembrano rispettabili solo le società che contraddicono i valori della nostra; e i nostri sforzi per sfuggire alla presa del nostro ambiente culturale sono un modo pudico di confessare la sua superiorità sugli altri. E poi, col pretesto di esaltare l'alba del mondo, la casa degli inizi, la verità, ci si abbandona al più totale arbitrio. Prima di tutto, di quale società c'innamoreremo? Perché, al momento della scelta, l'abbondanza è spaventosa: quale lontana tribù del Mato Grosso o del Borneo sarà eletta come modello d'equilibrio e di virtù? Anche qui, il nostro etnologo don Giovanni ha troppe donne: proclamando che « cerca la sua ispirazione in seno alle società più umili, più disprezzate», «che nulla d'umano può essere estraneo all'uomo»,49 si perde immediatamente in una molteplicità di miti, nell'inventario interminabile di tutte le maniere che gli uomini hanno inventato per adattarsi alla difficoltà di essere umani. Siccome ai quattro angoli del pianeta cento popoli fabbricano centomila dei locali, ci si appassiona per queste divinità specializzate e decentrate a livello di un villaggio o di una tribù, ci si meraviglia dei piccoli popoli murati nel loro particolarismo, che ci vengono proposti come modelli di umanità superiore. L'Occidente, beninteso, ha dissacrato tutto, questo è il suo delitto e il suo peccato:50 ma dal momento che alla sua irriverenza si contrappongono altre saggezze, tutte sono in concorrenza, nessuna ha titoli per dominare più di un'altra, ciascuna di esse è « autentica », e la nostra società può imparare a scimmiottarle perché da parte sua non ne possiede alcuna. Il fatto d'inchinarsi davanti alla superiorità assoluta dell'una o dell'alAntropologia strutturale, cit. «Ciò che chiamiamo l'avventura occidentale, è l'applicazione dell'intelligenza all'indagine scientifica di una natura dissacrata, che bisogna violentare per conoscerne le leggi e sottometterne le forze alla volontà dell'uomo. [...] Essa ci ha portati a una situazione che definiremo antidemiurgica, in quanto è la negazione dell'opera creatrice, poiché mette l'umanità in grado di distruggere, di annientare il suo abitacolo, questa Terra» ( H E N R Y CORBIN, Philosophie iranienne et Philosophie comparée, Teheran, 1977, p. 47). 49
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C L A U D E LÉVI-STRAUSS,
L'ingiuria suprema Che cosa rimprovera il politico militante all'etnologo? Di non ritrovare lo schema della lotta di classe fra gli aborigeni di Andaman e Nicobar, di dimenticare la legge universale dello sfruttamento nel bacino dell'Orinoco o nel perimetro del Kilimangiaro. Ai suoi occhi, tutto è chiaro, l'etnografo è « un aristocratico individualista » che sostiene il « buddhismo smobilitatore »,* il mito del buon selvaggio, l'Islam delle origini per distogliere i popoli dal dovere della rivoluzione, insomma, un agente dell'Occidente imperialista. L'etnologo, a sua volta, non gli è da meno: per lui, «l'ideologia marxista, comunista e totalitaria è un'astuzia della Storia per promuovere l'occidentalizzazione accelerata di popoli che ne sono rimasti fuori fino a epoca recente»,** un colonialismo come gli altri! L'automatismo salivare del discorso comunista ed etnologico quando si tratta dell'Occidente è notevolmente sincronizzato, due comparse che si rinviano la palla. Ed ecco il povero Occidente stretto come in un sandwich fra due pensieri che lo respingono e se lo tirano in faccia, benché siano ciascuno una sua espressione. Triste epoca la nostra, che fa di un'immensa civiltà un insulto, sinonimo di barbarie o di fascismo! * Rimproveri indirizzati a Claude Lévi-Strauss da J. C O P A N S , in Le Sauvage à la mode, cit., p. 45. * * C L A U D E LÉVI-STRAUSS, intervista su Le Monde, 2 1 - 2 2 gennaio 1979.
tra forma di vita, fa del mondo una tavola imbandita davanti alla quale l'occidentale prende posto. Se si riconosce a tutti i popoli stranieri la capacità inaudita, unica, di essere immersi nell'originario, come potranno differenziarsi fra loro? Ciò che l'uno esalta nell'Islam, l'altro lo celebra nell'induismo, un terzo nel buddhismo del Piccolo Veicolo, altri ci vantano l'indimenticabile fascino dei daiacchi del Borneo, dei toragia
delle Celebes, degli eschimesi della Groenlandia, degli aborigeni dell'Australia, e ogni volta i loro argomenti sono irrefutabili, probanti, entusiasmanti. Perché seguire il druido invece del bonzo o del mullah? Ognuno presenta come soluzioni planetarie delle opzioni individuali assolutamente contingenti, anche se giustificate. Si arriva allora allo stesso tipo di gratuità dei gusti amorosi: perché un uomo preferisce un certo tipo di donna a un altro, le bionde alle brune, le formose alle longilinee, le villose alle glabre? Ognuno tira l'acqua al suo mulino, assicurandoci che quella è la migliore, l'eletta fra tutte, ciascuno ci garantisce di possedere l'ideologia miracolosa che permetterà di sollevare le montagne, e vitupera i suoi concorrenti. Ci si accapiglia su dogmi stranieri, si litiga in nome del Corano e dei Veda, e, soprattutto, colmo dei colmi, ci si permette di fare la lezione, in nome dell'autenticità, agli indigeni che hanno tradito la loro cultura." 11 Già nel 1927 René Guénon respingeva «gli orientali che si sono [...] 'occidentalizzati', che hanno abbandonato le loro tradizioni per adottare tutte le aberrazioni dello spirito moderno, e questi elementi traviati, grazie all'insegnamento delle università europee e americane, diventano nel proprio paese una causa di turbamento e d'agitazione» (op. cit., p. 153). Si sa quanta fortuna abbia avuto il tema delle «borghesie locali vendute all'imperialismo europeo », che appartiene allo stesso ordine d'idee, e quale uso ne abbiano fatto certi orientalisti per fustigare il presidente Sadat, rinnegato dell'Islam e della causa araba. Altrove, saranno gli indiani amazzonici che Robert Jaulin maledirà, perché tradiscono l'indianità occidentalizzandosi: «Il contatto, la pace, la vita in simbiosi con i bianchi, tutto ciò ha fatto di loro degli accattoni, dei parassiti, gente infinitamente meno vivace e più sporca di quanto fosse prima» (La Décivilisation, Editions Complexe, Bruxelles, 1974). E Jaulin ben presto si proclamerà l'unico indiano autentico di tutto il bacino amazzonico, vincitore per KO nella gara dei puristi per appropriarsi una cultura straniera! Sempre Jaulin esalterà il tema dell'indianità bianca, il romanticismo del fuorilegge, dell'emarginato, del teppista, del balordo, di cui incensa la pura « selvatichezza », e che, egli spera, salverà l'Occidente con la sua capacità di rivolta e di disordine! Ma il limite del ridicolo assoluto lo si tocca in India, perché agli assertori della purezza ariana corrisponde la setta non me-
Ben presto, lo spettatore di queste dispute comprende che tutti questi rimedi si equivalgono perché nessuno vale più di un altro, se non per il capriccio di colui che lo difende. Col pretesto di mandare all'aria la distinzione semplicistica fra società superiore e società inferiore, tutte vengono livellate. Il relativismo glorifica l'autentico ma allo stesso tempo fa dubitare della sua esistenza, perché ne presenta troppi campioni diversi, che hanno la stessa pretesa: vi è una pletora di poli d'attrazione, di divinità, insomma si soffre di una sovrabbondanza di sacro, piuttosto che di una mancanza. Allora il desiderio è acuito e poi smorzato: il club ultraesclusivo delle culture originarie si rivela un atrio di stazione pieno di folla eterogenea. E il culto rigoroso della differenza diviene approvazione indifferenziata per qualunque cosa.
A ciascuno la sua barbarie Nel 1947, l'ufficio esecutivo dell'American Anthropological Association sottopone alla commissione per i diritti dell'uomo presso le Nazioni Unite un progetto di dichiarazione.52 Prendendo nota del gran numero di società che sono entrate in stretto contatto con il mondo moderno, e desiderosi di emanare una Dichiarazione dei diritti dell'uomo che sia applicabile a tutti i popoli e non solo a quelli dell'Europa occidentale e d'America, i cofirmatari, dopo aver ricordato le conseguenze disastrose del colonialismo per l'umanità, propongono la seguente dichiarazione: no curiosa degli adepti della purezza dravidica (cioè del Sud), proclamata esente dal contatto corruttore con l'Occidente. Bell'esempio di questa intransigenza, l'eccellente Alain Daniélou rinnega con un tratto di penna Gandhi e Nehru, ma anche Tagore, Vivekänanda, Aurobindo, tutti colpevoli d'aver collaborato con la cultura inglese {Le Chemin du labyrinthe, cit., pp. 146-147). Il vero indù è lui, e gli altri non hanno che da comportarsi bene! 52 « A Statement on Human Rights», American Anthropologist (1947), citato da G É R A R D L E C L E R C , op. cit., pp. 161-163.
1. L'individuo realizza la sua personalità attraverso la cultura: il rispetto delle differenze individuali comporta quindi un rispetto delle differenze culturali. 2. Il rispetto di tali differenze tra culture è convalidato dal fatto scientifico che non è stata scoperta nessuna tecnica di valutazione quantitativa delle culture. I fini che guidano la vita di un popolo sono evidenti di per se stessi nel significato che hanno per quel popolo e non possono essere considerati inferiori a nessun altro punto di vista, compreso quello delle pseudo-verità eterne. 3. Gli standard e i valori sono relativi alla cultura da cui derivano, di modo che tutti i tentativi per formulare postulati che derivano dalle credenze o dai codici morali di una singola cultura devono essere sottratti all'applicazione di ogni Dichiarazione dei diritti dell'uomo a tutta quanta l'umanità. In nome del diritto alla diversità, un primo discorso consacra con emozione l'autenticità dell'uomo primitivo; invocando lo stesso pluralismo, un secondo discorso coltiva il dubbio assoluto per quanto concerne la possibilità di unificare il genere umano, e saluta con lo stesso lealismo la serie delle identità, da qualunque parte esse sorgano. In virtù del rispetto della singolarità di ciascuno, si trovano le parole più persuasive per spiegare il cannibalismo di una tribù, la lapidazione delle adultere o il taglio delle mani ai ladri in certi paesi islamici, la mutilazione sessuale delle bambine in Africa e in Medio Oriente, la segregazione e il massacro degli intoccabili in India, e l'argomento allora è il seguente: a ciascuno la sua verità. Un tempo, la divulgazione delle statistiche poteva suscitare una nuova forma di colpevolezza: quella di essere diversi. Ormai, la tendenza è di confinare ciascuno nella sua diversità e impedirgli di uscirne; e se si difendono usanze un po' crudeli o barbare, non è perché si vorrebbe adottarle qui da noi, ma perché esse testimoniano di un sapore, di un'alterità benefici in se stessi." 55
Nella sua opera L'Europe et l'Islam, Hichem Djai't prende gen-
Insomma, nello sviluppo culturale di tutte le formazioni sociali, per quanto rudimentali esse siano, si riconosce una realizzazione perfetta e completa delle doti potenziali dell'uomo: tutto è buono da conservare in tutte le tradizioni, anche l'immorale, l'erroneo o l'anacronistico, e, sia che si tratti dei dogon, degli yanomami, dei bari o di un villaggio dell'Alta Provenza, ciascuna ha il carattere di una riuscita unica. Ogni civiltà forma un tutto organico compatto, indissociabile (Toynbee),54 l'Occidente è ricondotto alla particolarità di una società fra mille altre, la carta del mondo non è più una macedonia ma un intarsio, dove ogni pezzo dev'essere ben distinto dagli altri. Per mantenere lo statu quo, si appoggeranno le lotte del Terzo Mondo contro l'influenza occidentale, veicolo di miscredenza e di permissività. Il principio intangibile della nonconfusione delle culture impone a ogni popolo il dovere di difendere a tutti i costi la propria integrità. Per quest'idea della differenza come avere e titolo di proprietà, ogni gruppo o assembramento umano unisce in sé in modo paradossale la rappresentazione di una particolarità e l'idea di una legittimità. E la singolarità che fonda il diritto, e non l'inverso: « Il senso di gratitudine e di umiltà che ogni membro di una data cultura può e deve provare verso tutte le altre è fondabile su una sola convinzione: che le altre culture sono diverse dalla sua, nella maniera più svariata; e ciò, anche se la natura ultima di tali differenze gli sfugge o se, nonostante tutti i suoi sforzi, riesce a penetrarla solo molto imperfettamente» (Claude Lévi-Strauss).55 tilmente in giro «il concerto di voci nuove [...] che si leva in Occidente per scongiurare i musulmani di rimanere se stessi, [e che] rappresenta in primo luogo l'ingenua coscienza infelice dell'Occidente, la quale, di fronte all'alienazione di cui soffre, vede nell'Islam mitico o reale l'inverso della sua sofferenza: il senso della felicità, della spiritualità, dei valori comunitari» (Seuil, Paris, 1978, pp. 184-185). u II Mondo e l'Occidente, Martello, Milano, 1956. 55 Antropologia strutturale, 2°, cit., p. 403.
Così, ogni volontà collettiva con i suoi costumi e il suo linguaggio specifico ha diritto al nostro omaggio, dal momento che si distingue da un'altra, e i criteri del giusto e dell'ingiusto, del criminale, del barbaro, dell'ignobile, si cancellano davanti al criterio assoluto che è il diritto alla personalità. Non esiste più nessuna verità eterna, tranne quella che deriverebbe da un «etnocentrismo ingenuo»56 generatore di imperialismo. E chiunque ricordi timidamente che la libertà non si divide, che la vita di un essere umano ha lo stesso valore dappertutto, viene debitamente sgridato in nome della necessaria tolleranza verso le altre culture. Di come vivono e soffrono gli altri, laggiù, tutti se ne infischiano, una volta che siano parcheggiati nel ghetto della loro particolarità inviolabile; ci si sbarazza della loro alterità dichiarandola inaccessibile. Certo, si favorisce il riawicinamento fra i popoli, si organizzano simpatici incontri dove, per esempio, si presume che il cattolico, l'ebreo, il musulmano, il buddhista, si scambino i loro credo rispettivi, considerino le loro differenze, solo per meglio gettarsi le braccia al collo l'un l'altro, per sempre affratellati.57 Ma ciò si riduce invariabilmente a un vecchio e risaputo numero da circo, a un'arca di Noè dove si siano stipati un gatto, un cane, un elefante, una marmotta e due volpi sotto l'occhio vigile di un guardiano. Perché saltare al di là del muro dei riti e delle fedi non è semplice: è quasi sempre una cavalcata selvaggia nel vuoto, dove i preti, i rabbini, i bonzi e i brahmani si congratulano a vicenda per meglio riattaccarsi ai loro dogmi intangibili. Melville Herskovits, antropologo americano, fondatore del relativismo culturale, definiva l'etnocentrismo come «la posizione di coloro che giudicano la propria maniera di vivere preferibile a ogni altra» (citato da G E R A R D L E C L E R C , op. cit., p. 1 5 7 ) . ,7 Per esempio, padre Michel Lelong, incaricato presso il Vaticano dei rapporti con le altre religioni, dopo aver constatato che il Corano, come la Bibbia, fa appello alla giustizia, all'adorazione, all'azione, scrive: «L'universo spirituale dell'Islam è proprio lo stesso di quello della tradizione giudeo-cristiana » (Deux fidélités, une espérance, Cerf, Paris, 1979).
Ben presto, i gruppi di discussione si riducono ad apologetiche parallele, con una gara di riferimenti all'Assoluto che si urtano senza incrociarsi: i nostri fratelli musulmani sono felici della nostra comprensione per le sure del Corano, ma preferirebbero una conversione nelle buone e debite forme. I nostri fratelli cristiani rispettano, certo, il messaggio del Profeta, tuttavia suggeriscono che il meglio dell'Islam è già contenuto nei Vangeli. I nostri fratelli ebrei, con molta deferenza, sottolineano tutto ciò che il Nuovo Testamento deve all'Antico. In quanto ai nostri fratelli induisti e buddhisti, sono deliziati dalle attenzioni manifestate nei loro riguardi e, per provare la loro buona volontà, aggiungeranno volentieri i nostri dei ai propri nelle loro preghiere. Ognuno dimostra un'estrema cortesia, ma respinge discretamente il minimo tentativo di proselitismo nei suoi confronti. E così i conciliaboli fra grandi confessioni si trasformano in una sant'alleanza del dialogo fra sordi.58 Rivelatrice a questo proposito è l'evoluzione delle missioni francesi; al periodo benedetto del colonialismo in cui le tre M, il mercante, il militare e il missionario, marciavano con la mano nella mano - e anche un simile giudizio meriterebbe d'essere sfumato - , sono succeduti i dubbi e le incertezze di una certa sinistra cristiana, che rifiuta anche l'evangelizzazione. Una volta che i popoli assoggettati hanno riacquistato l'indipendenza, e le religioni autoctone sono state ristabilite nel loro diritto, molti giovani missionari operano un capovolgimento spettacolare, di cui un'opera, L'Asie nous interpelle (Cerf, Paris, 1979), di Antoine-Marcel Henry, rappresenta l'eco insieme desolata e comprensiva: «Bisognerebbe che fosse inteso fra noi che non facciamo conversioni [...] Oggi ci ripugna trasmettere direttamente il Vangelo [...]. Ognuno ha la sua religione, ognuno ha la sua coscienza, questa è la parola d'ordine» (pp. 150-151). Ormai, le missioni non si preoccupano tanto di evangelizzare, quanto di partecipare, di sprofondare in mezzo alla pasta umana (p. 178). Ci si dedica a opere di beneficenza, Piccole Suore di padre de Foucauld a Beirut, Teheran o Kabul, Missionari della Carità di madre Teresa in India. Si indossa il costume locale per meglio fondersi con l'ambiente, monache in sari in India e nel Bangladesh, in tunica nazionale nel Vietnam, in chimono in Giappone, insomma ci si limita al servizio degli altri, si preferisce provare la propria fede che imporla con un'argomentazione razio,s
« La singolarità d'un soggetto costituisce il suo vero legame con gli altri », scrive Jacques Berque,59 che si rallegra di questo a proposito dell'Islam, ma in fondo non ci precisa in che modo questa singolarità, una volta stabilita, possa comunicare con altri. Una cosa è vantare le identità dei popoli che hanno acquisito da poco l'indipendenza, spiegare o magari anche scusare l'atteggiamento difensivo talvolta rabbioso cui ricorrono, un'altra è dare la propria benedizione a comunità insulari, chiuse a ogni influenza, ostili a ogni contaminazione.60 Come benedire le differenze se esse escludono l'umano, invece d'invitarlo? Che un certo numero di fondamentalisti nei paesi musulmani, asiatici o africani vogliano ristrutturare l'indebolito corpo della nazione, è comprensibilissimo, ma che in nome di questo intento chiudano a catenaccio le loro frontiere, erigano una cortina di ferro culturale verso l'esterno, impongano ai loro cittadini una quarantena illimitata, è già più contestabile; se a loro riguardo noi dessimo prova della stessa intransigenza, ben presto sul pianeta regnerebbe il silenzio assoluto. In nome della tolleranza, siamo invitati ad approvare fragorosamente l'intolleranza delle altre società verso di noi! Qui si confonde l'enumerazione con la norma. Nell'immenso baccanale di costumi, di proibizioni barbariche, strampalate, che la storia e l'etnologia ci fanno scorrere dinanzi come un film pittoresco, si celebra il trionfo dello spirito di clan, del naie. E l'autore conclude: « I missionari non sono i venditori ambulanti di una civiltà o di una cultura, ma i testimoni del Cristo attraverso la loro cultura [...] Siano prima di tutto se stessi, e siano credenti: l'interlocutore 'vedrà' ciò che deve accogliere» (pp. 186-187). L'imbarazzo del pensiero rivela un dilemma doloroso: come staccare il cristianesimo dal suo contesto occidentale senza rinnegare peraltro la portata universale della rivelazione evangelica? 59 L'Islam au défi, cit., p. 298. 60 L'indulgenza, è vero, non può esercitarsi in modo identico verso microsocietà per cui la minima ibridazione sarebbe letale - come spiega benissimo Robert Jaulin in La Paix bianche - e verso formazioni sociali più vaste, più solide e strutturate, che si credono autorizzate dall'egualitarismo culturale a rifiutare ogni giudizio sugli atti disumani che perpetuano.
tribalismo, che non riconosce agli stranieri la condizione di esseri umani! Di colpo, ci si priva di ogni metro di giudizio, che potrebbe raccogliere e dominare quest'accozzaglia eterogenea, le cose più disparate si urtano fra loro come molecole impazzite, nulla più distingue il giusto dall'ingiusto, il mondo è lasciato in balia dei capricci e dell'arbitrio. In nessun caso l'esaltazione della differenza in quanto norma suprema può fondare un metro di valutazione-, qui viene sabotata l'idea stessa di una comunità umana. Si appoggia calorosamente la preoccupazione quasi nevrotica di un determinato regime di salvaguardarsi da ogni contatto impuro con l'Occidente, ci si interroga sulla sua capacità di preservare, di fronte all'invasione delle macchine, la superba impavidità della sua morale, lo si incoraggia fermamente a resistere contro di noi, ma la nostra stessa sollecitudine per il suo divenire contraddice il consiglio che gli diamo. Gli tendiamo una mano amica nel momento in cui ritira la sua, gli lanciamo una passerella mentre è fiero d'aver tagliato i ponti con noi, insomma, esaltiamo negli altri ciò che abbiamo sempre criticato qui da noi: il protezionismo a oltranza, il narcisismo culturale, l'etnocentrismo inveterato.61 Si capisce, naturalmente, come un regime tirannico, un governo sanguinario possa trarre vantaggio da queste zone di sordità, di cui approfitta non appena diventa oggetto di critiche per la sua infrazione alle libertà elementari: « Non è colpa vostra, ma non potete capirci».62 I vostri pregiudizi di occidentali vi accecano.63 Avete solo il diritto di acconsentire o di È quanto Mohammed Bedjaoui, ambasciatore dell'Algeria presso le Nazioni Unite, rimprovera all'Europa nella sua prefazione al libro di R O G E R G A R A U D Y , Promesses de l'Islam, cit., pp. 1 2 - 1 3 . 62 Riflessioni dei guardiani della rivoluzione, riferite da Marc Kravetz nel suo libro sull'Iran: Irano Nox, Grasset, Paris, 1982. 6 ' Già l'antropologo americano Melville Herskovits si chiedeva come si possano dare giudizi di valore su questa o quella cultura, dato che « i giudizi sono basati sull'esperienza, e ognuno interpreta l'esperienza nei limiti della propria acculturazione; è quindi illusorio da parte della cultura euro-americana voler pronunciare giudizi fondati su altre culture, giudizi che servirebbero poi da base alle pratiche coloniali» (citato da G É R A R D L E C L E R C , op. cit., pp. 1 5 6 - 1 5 7 ) . 61
tacere, ogni obiezione sarebbe un inqualificabile atto d'imperialismo. Insomma, ogni volta che si mette in dubbio la fondatezza della mutilazione delle bambine, delle fucilazioni, delle impiccagioni, delle torture nelle repubbliche tropicali, il regime o lo Stato incriminato si drappeggia nella sua specificità come una vergine impaurita e grida che si vuol violentarlo, che si mettono in caricatura le sue intenzioni. E al riparo di questi sofismi, i delitti più infami, i nichilismi più folli, possono esercitarsi con la benedizione dei cervelloni dell'Occidente.64 Si ricordi che nel xix secolo trovavamo gli indigeni così diversi da noi che giudicavamo impossibile inculcare loro il modello europeo, o magari accordare la cittadinanza francese. Percepita allora come inferiorità, ora la differenza è vista come distanza invalicabile. Spinto alla sua logica estrema, quest'elogio dell'autarchia sbocca nelle politiche discriminatorie di trista fama: che cos'è infatti l'apartheid sudafricana, se non il rispetto della specificità preso alla lettera, fino al punto in cui l'altro è così distinto da me che non ha più il diritto di avvicinarmi? Si sa che a Pretoria la regola «ciascuno a casa sua e tutti saranno contenti» è una religione di Stato, e che la balcanizzazione delle etnie, la segregazione di neri, meticci e bianchi è sempre pronunciata in nome del puntiglioso rispetto della particolarità. (E allo stesso modo, per i teorici del razzismo, come Gobineau, la degenerazione risiedeva nella mescolanza e non nelle razze stesse, dotate ciascuna di un proprio genio, che imponeva loro di non mescolarsi.) Così, in nome della meravigliosa singolarità, si può frenare volontariamente l'evoluzione dei popoli, rifiutar loro le tecniche, i mezzi materiali del progresso, sanzionare una diseguaglianza esattamente la conclusione del libro di E D W A R D SAID, L'Orientalisme (Seuil, Paris, 1980) [tr. it.: Orientalismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1991]. A suo dire, l'Occidente accecato dai suoi pregiudizi di conquistatore si è sempre sbagliato nella sua visione dell'Oriente; a dire 0 vero, quest'ultimo è così misterioso che solo i suoi ammiratori o i suoi partigiani incondizionati possono intenderne l'intima musica. In altri termini e nel caso di Said, sostenete la politica dell'OLP e l'ineffabile segreto dell'Islam vi sarà svelato di colpo! 64 E
camuffandola col bel nome di diversità. Ciò prova che la lode senza ritegno dei « caratteri distintivi » e delle tradizioni può nascondere lo stesso scaltro paternalismo dei coloniali più condiscendenti.65
Ho sorvolato tutte le cime del mondo... mi sono bagnato in tutti i mari... ho varcato tutte le porte... ho potuto raccogliermi in tutti i luoghi più celebrati dove l'uomo ha lasciato la traccia delle sue opere...66 In nome del rispetto per il diverso, il relativismo esalta nell'uomo selvaggio l'ultimo testimone di un'umanità autentica 65 Nel discorso pieno di humour e d'intelligenza pronunciato da Roger Caillois nella sua risposta a Lévi-Strauss, in occasione dell'entrata di quest'ultimo all'Académie française, è tracciato un ritratto dell'etnologo che non manca di una sua inquietante verità: «Essi [gli indigeni] non si rassegnano a restare oggetto di studi e di musei, talora abitanti di riserve dove ci si ingegna a preservarli dal progresso. Studenti, borsisti, operai trapiantati, non prestano fede all'eloquenza dei tentatori, perché ne conoscono pochi che abbiano abbandonato la loro civiltà per quello stato 'selvaggio' che lodano con tanta effusione. Essi non ignorano che quegli scienziati sono venuti a studiarli con simpatia, comprensione, ammirazione, che hanno condiviso la loro vita. Ma il rancore suggerisce loro che gli ospiti momentanei erano lì prima di tutto per scrivere una tesi, conquistare un diploma, dato che poi sono tornati a insegnare ai loro allievi le usanze strane, 'primitive' che hanno osservato, e laggiù hanno ritrovato nello stesso momento automobile, telefono, riscaldamento centrale, frigorifero, le mille comodità che la tecnica porta con sé. Allora, come non essere esasperati sentendo quei buoni apostoli vantare le condizioni di rustica felicità, di equilibrio e di semplice saggezza garantite dall'analfabetismo? Ridestate a nuove ambizioni, le generazioni che studiano e che, fino a poco fa, erano studiate, ascoltano non senza sarcasmo quei discorsi lusinghieri, dove credono di riconoscere l'accento intenerito dei ricchi quando spiegano ai poveri che 0 denaro non fa la felicità certo ancor meno di quanto la facciano le risorse della civiltà industriale. Lo raccontino ad altri» (Le Monde, giugno 1974). 66
ROGER GARAUDY,
Pour un dialogue des civilisations, cit., p. 9.
e felice; oppure, in virtù delle stesse premesse, celebra le individualità culturali come altrettante patrie, incomunicabili fra loro; terza e ultima figura, ora si rallegra dell'accessibilità di tutte le culture. In un caso, alza una barriera, nell'altro la abbatte. A un pessimismo che separa corrisponde un ottimismo che integra. Mentre prima si dichiarava che l'anima della Cina, del Camerun, dell'Oceania era impenetrabile, ora si afferma ad alta voce la fluidità di tutte le civiltà. Terzo e ultimo slogan degli adoratori della differenza, il cosmopolitismo raccoglie sotto una stessa insegna la coorte di coloro che vogliono arricchire lo spirito europeo di tutte le tematiche solari e tropicali. Ben presto, nel x x secolo, è sorta l'idea che le grandi religioni potevano armonizzarsi grazie all'espansione uniformatrice della tecnologia che infrange le frontiere, elimina gli sciovinismi e avvicina famiglie prima contrapposte. Dalla Società teosofica fondata da Elena Blavatsky fino a Roger Garaudy, passando per René Guénon, René Daumal, Hermann Hesse, Alan Watts, Lanza del Vasto, lungo è l'elenco di quelli che hanno fatto dell'ecumenismo il credo dei tempi moderni. La certezza che tutti i grandi libri dicono la stessa cosa, unita all'idea che le diverse fedi, anziché combattersi, dovrebbero giungere a una specie di complementarità, anima questa corrente di pensiero che conosce alterni, ma sempre rinascenti periodi di fortuna. Bisogna porre un termine definitivo alla negazione dell'altro che caratterizza l'Occidente nel suo periodo imperialista, non affrontare più in modo sterile i tesori spirituali dell'umanità,67 perché non c'è che un'unica religione, la stessa, sotto tutte le latitudini.68 L'uomo dell'Oc« E tempo - troppo tardi forse, e allora saremmo votati vite senza significato, senza scopo, e alla morte - d'interrogare la saggezza e la fede di tre mondi per tentar di concepire e vivere altre forme di esistenza» ( R O G E R G A R A U D Y , Promesses de l'Islam, cit., p. 58). 68 « Tuttavia non c'è che una religione, la stessa in Egitto e la stessa nell'America precolombiana, la stessa in Cina e in India, la stessa in Grecia e nell'Europa medievale. Sempre un Dio al disopra degli dei, degli eroi, dei santi, dei demoni. Sempre il mistero della creazione del mondo, sempre un'anima immortale» (DRIEU LA ROCHELLE, «Jour67
cidente deve prestare la sua voce a una concezione non egemonica ma sinfonica del mondo. Qualunque sia il motivo invocato, impulso di tolleranza contro i fanatismi (Drieu La Rochelle), gusto della sperimentazione (Daumal), volontà di riconciliare Oriente e Occidente (Lanza del Vasto), bisogno di fronteggiare la minaccia nucleare (Garaudy), questa visione planetaria corrisponde sempre all'atteggiamento distaccato di chi abborda le grandi costruzioni spirituali da un punto di vista estetico, e le trova tutte egualmente belle e valide. Egli si rifiuta di dividerle in entità distinte, perché, dal punto di vista in cui si pone, importa poco che l'essere supremo si chiami Dio, Jahvè, Allah, Brahma, Buddha, Iside od Osiride. Vuol pensare su scala mondiale e non più nazionale, tenta di realizzare in senso inverso ciò che molti intellettuali indiani, pakistani, malesi, africani, maghrebini hanno subito involontariamente: la doppia o tripla appartenenza, la bastardigia volontaria.69 Si proclama trapiantato, molteplice, cittadino del mondo, niente di meno. Pretende di essere la somma di tutte le umanità anteriori; nella sua anima confluiscono le civiltà passate, il che l'autorizza a proclamarsi erede indistintamente di Bossuet, Lao-tzu, Platone, Maometto, Ramanuja; il mondo intero diventa il teatro di cui egli recita di volta in volta tutte le parti e i personaggi.70 nal d'un délicat», in Histoires déplaisantes, Gallimard, Paris, 1963, p. 78). 69 «Quale europeo può vantarsi (o lagnarsi) d'aver investito nell'apprendimento di una società 'tradizionale' il tempo, gli studi e gli sforzi spiegati [...] da migliaia d'intellettuali del Terzo Mondo per apprendere l'Europa? » scrive giustamente Ahmed Baba Miské nella sua Lettre ouverte aux élites du Tiers-Monde, Sycomore, 1981, p. 143. 70 « I nostri discendenti non saranno puri e semplici occidentali come noi. Essi saranno eredi di Confucio e di Lao-tzu, così come di Socrate e di Platone e di Plotino: eredi del Gaitama Buddha, così come del Deutero-Isaia e di Gesù Cristo: eredi di Zarathustra e di Maometto come di Elia e di Eliseo e di Pietro e di Paolo: eredi di Sankara e di Ramanuja come di Clemente di Alessandria e di Origene: eredi dei Padri Cappadoci della Chiesa ortodossa come del nostro Agostino, il santo africano, e del nostro Benedetto, il santo umbro: eredi di
«Tutti i nomi della storia, sono io» (Nietzsche). Ecco quel che va strombazzando il meticcio planetario, senza mai chiedersi come conciliare tante immagini contraddittorie, assicurare l'unità di filosofie così ostili o dissimili.71 Ha perduto i paraocchi dell'uomo qualunque, ha superato i fanatismi; atleta del pensiero e delle relazioni umane, parla una specie di super-esperanto, è l'erede universale, il grande sintetizzatore della Storia. Ma, ancora una volta, il relativismo culturale si contraddice da sé affermandosi. L'entusiasmo di fronte alle altre società malcela la scarsa considerazione che si accorda a ciascuna. Prendiamo per esempio un profeta del nostro tempo, Roger Garaudy, il cui rilevante successo ha valore sintomatico: « Fare in modo che ognuno sia abitato dalla cultura di tutti i popoli, di tutti i tempi», 72 tale è il suo programma. Nobile formula, si dirà, ma che fa pensare invariabilmente alle zuppe di pane raffermo che si preparano d'inverno in campagna e in cui si gettano i resti della settimana. Al supermercato del pensiero, Garaudy ci offre in effetti in saldo tutte le saggezze dell'umanità, dalle origini ai giorni nostri: una scorza di zen, due pizzichi di taoismo, una fettina d'impero inca, un po' di Ibn Khaldun e di Bossuet: ed eredi (se continueranno a guazzare nel torbido Gran Pantano della politica) di Lenin, di Gandhi e di Sun Yat-sen, come di Cromwell, di Giorgio Washington e di Mazzini», scrive ad esempio Arnold Toynbee in Civiltà al paragone, Bompiani, Milano, 1949, p. 128. 71 «Immaginare che i nostri nipoti combineranno tutte le tradizioni contraddittorie in un insieme armonioso, che saranno al tempo stesso panteisti, teisti e atei, liberali e totalitari, entusiasti della violenza e nemici della violenza, significa immaginare che vivranno in un mondo il quale non solo supera la nostra fantasia e le nostre facoltà profetiche, ma in cui non vi sarà più nessuna tradizione vitale, il che vuol dire che saranno dei barbari nel senso più aspro del termine», scrive Kolakowski in una notevole confutazione dell'universalismo culturale (Commentaire, Juilliard, Paris, autunno 1980, p. 369). 72 Pour un dialogue des civilisations, cit., p. 94. Si veda anche Appel aux vivants e Promesses de l'Islam, dove l'autore sembra aver prescelto in cuor suo l'islamismo intransigente del regime iraniano.
Libro dei Morti tibetano, due cucchiaiate di socialismo tanzaniano, una bella tazza di rivoluzione culturale cinese, una fetta di sciismo iraniano, fate bollire pian piano, e la pozione della salvezza magica è pronta. Il progetto di Garaudy è davvero impressionante, ma contiene anche tutta l'idiozia dell'ubiquità: perché, a meno di non essere mai nessuno da nessuna parte, non vedo come io, francese del 1983, potrei diventare di volta in volta visnuista il lunedì, vuduista il martedì, castrista il mercoledì, protestante il giovedì, confuciano il venerdì, yogi il sabato, socialista, ebreo e cattolico la domenica, senza contare, naturalmente, le mie convinzioni personali. Tale è l'ingenuità delle prospettive universaliste: esse perdono il contatto con l'Assoluto da cui traggono giustificazione73 e non formano altro che un patchwork mal cucito di citazioni senza data né riferimento, di credo da infilare come perle, senza scrupolo di coerenza o di prospettiva storica. Questo mostruoso fritto misto combina evidentemente una grande ignoranza delle tradizioni e un profondo disprezzo per ciascuna di esse. E se Garaudy si permette di scavalcare secoli e continenti, è perché avanza con la bonarietà di un bulldozer che non entra nei particolari e spiana tutto quanto sotto la sua marcia imperiosa.74 Il cosmopolitismo potrebbe tradursi nel seguente sillogismo. La premessa maggiore afferma: tutte le culture sono egualmente vere, nessuna lo è più di un'altra. Donde segue (minore) che l'uomo totale dev'essere la somma di tutte le culture un tempo separate. Conclusione: tutte le culture sono una sola cultura, quindi nessuna cultura in sé è più rispettabi75 In una conferenza tenuta alle Hawaii nel dicembre 1981, « L a xenitheia o la via dell'espatrio », l'ex gesuita Guy Deleury sottolinea a ragione l'assurdità di parlare di Dio agli indù o ai buddhisti, mentre il nostro Dio è intelligibile solo nel contesto delle tradizioni religiose dell'Occidente. 74 Per una critica di Roger Garaudy, si legga l'eccellente studio di Michel Crépu nella rivista Esprit, gennaio 1980, e anche lo straordinario articolo di Pierre Chaunu nel Figaro del 23 gennaio 1982, intitolato « Un sottisier plein à ras bords ».
le di un'altra, non essendo che un campione della civiltà universale. E si arriva al contrario di ciò che affermavano le premesse: ogni cultura ormai deve sentirsi colpevole per la sua natura di frammento (poiché non è nulla se non è collegata alle altre). Il culto della differenza sbocca nell'indifferenza quietista: se tutto si equivale, le visioni del mondo si distruggono e si smentiscono a vicenda. Una cosa è penetrare le finezze delle società cinesi, giapponesi, yaqui, fulbe o zulù per legittimare un immenso allargamento del campo della coscienza, un'altra è decretare tali modelli intercambiabili fra loro, accatastabili come una pila di piatti. A procedere così, l'etnologo, il viaggiatore, il cosmopolita spopolano il mondo, nel momento in cui fanno risaltare certe sue ricchezze: sopprimono la diversità delle culture pur fingendo di riconoscerla pienamente. Se il cristianesimo, l'islamismo, il buddhismo valgono soltanto riuniti insieme, il fatto è che separatamente non valgono nulla: ognuno è solo un abbozzo di una religione mondiale, di cui tutti formano le tappe. All'ebbrezza della scoperta succede la disillusione davanti alla variopinta moltitudine delle postulazioni dell'umano: e la folle varietà dei riti e degli dei presi d'infilata si polverizza in mille schegge solitarie. E solo religione all'ingrosso, come si vende il tessuto al metro, una grande anfora i cui fianchi suonano vuoti. La colossale ricostruzione partorisce uno stanco «a che serve? ». Io riconosco la tua differenza solo per sottolineare fino a che punto mi lascia freddo, siamo tutti uguali perché mi siete tutti indifferenti. In nome dell'uguaglianza, si enuncia l'equivalenza, la tolleranza sbocca nell'omogeneizzazione. Senza dubbio l'Europa non è più la depositaria infallibile e la legittima dispensatrice della verità; ma anche perché non c'è più verità in assoluto. La monocultura che si denunciava a valle come responsabilità dell'Occidente75 ritorna a monte, una volta disposte l'una accanto all'altra tutte le espressioni culturali, /5 «L'umanità si cristallizza nella monocultura, si prepara a produrre la civiltà in massa, come la barbabietola. La sua mensa non offrirà ormai più che questa vivanda» ( C L A U D E LÉVI-STRAUSS, Tristi Tropici, cit., p. 36).
come tante farfalle sulle tavolette dell'entomologo. La possibilità stessa di una coesistenza delle identità nazionali scompare in questa baraonda enciclopedica, la grande addizione le fissa nella sinistra eternità del museo. L'ultima tappa dell'umanità è anche quella del nichilismo assoluto. L'occidentale sfoglia, deluso, il variopinto decalogo delle varie attitudini della specie umana, dando un malinconico addio alle civiltà agonizzanti, pronto a votare la propria allo stesso destino: questo turista planetario ha esaurito tutto senza aver conosciuto nulla.76 In nessun caso cadremo nel ridicolo, condannando e tanto meno giudicando l'etnologia. Il suo bilancio è considerevole; essa ha reso agli imperi disintegrati l'anima di una nuova vita collettiva, ha rivelato ai popoli assoggettati i loro testi sacri, ha fornito ai nazionalismi indigeni le munizioni con cui si sarebbero poi emancipati dalla tutela coloniale e avrebbero ritrovato una dimensione di dignità e di trascendenza. Missionari, linguisti, antropologi, etnologi, tutti hanno dato, ai popoli che la loro patria opprimeva e taglieggiava, le armi per combatterla. E, in compenso, sul mondo euro-americano, esageratamente imbevuto dei propri valori, i loro studi hanno avuto l'effetto di una scossa salutare, contrastando l'etnocentrismo omicida dei periodi di conquista. Ma, su questo lavoro esemplare, si è costruita un'ideologia riduttiva che ha finito per soppiantarlo. L'Ersatz diluito e volForse, e l'impero austro-ungarico ne ha dato la prova, non esiste vero cosmopolitismo se non all'interno dello spazio europeo, cioè di una cultura che, a dispetto delle sue espressioni latine, anglosassoni, celtiche, nordiche, ebraiche, orientali o slave, deriva dal ceppo comune del giudeo-cristianesimo, del Rinascimento e dei Lumi. E, naturalmente, il cosmopolitismo è una realtà nel campo artistico, dove le influenze, i prestiti, i plagi formano la sostanza stessa della fecondità creativa. Ma ciò che è possibile nel campo letterario, pittorico o musicale non lo è più nell'esistenza quotidiana; non si può applicare lo stile di vita di un'altra civiltà senza rinunciare alla propria; a meno di chiamare cosmopolitismo il fatto di mangiare cuscus, o riso Cantonese, d'indossare sete cinesi, di ascoltare musica orientale o tingersi i capelli con l'hènna. Il giusto discredito rivolto agli sciovinismi regionali non dovrebbe sfociare in quest'amabile dilettantismo. 76
gare dell'etnografia, il relativismo culturale, ha cessato ormai, ai giorni nostri, di essere provocatorio o sovversivo, per generalizzarsi a sua volta in conformismo. L'interminabile sforzo per mettersi nei panni degli altri, questo tentativo di far punto e a capo, che è il vanto dei ricercatori, è stato sostituito dal triplice peccato di astrazione, scetticismo e tiepidezza. L'imperialismo generava l'intolleranza, il liberalismo suscita a sua volta l'indifferenza. Oscillando fra un cattivo universalismo e un particolarismo meschino, evita la tensione fra l'uno e il molteplice, riassorbe il diverso nell'identico. Con un capovolgimento vizioso, l'immenso tesoro etnologico arriva così a legittimare, certo attraverso letture frettolose, proprio ciò che questa disciplina, fin dalle sue origini, ha combattuto: il colonialismo spirituale, il disinteresse generalizzato, il disprezzo degli altri. Il principio dell'apertura alle culture straniere avrebbe generato quest'aborto teorico: il differenzialismo, recipiente milleusi, capace d'ispirare le conversioni più folgoranti come i razzismi più sofisticati. Spettava alla nostra epoca imparare che l'eurocentrismo sugge il suo miele da tutti i fiori, compresi i più generosi, e che la cecità dell'umiltà equivale alla cecità dell'arroganza. La passione di essere un altro esige in primo luogo che si riconosca l'alterità di colui verso il quale si tende; se no si riduce alla delizia d'essere se stessi. Essere eretici non è da tutti, e non si abbandona la propria società per un colpo di testa; ci vogliono l'accanimento, il coraggio e forse la follia che hanno ispirato tutti i grandi mediatori. Di fronte a questi mutanti, da qualunque parte essi vengano, l'europeo « cosmopolita » non può non apparire come un simulatore, un commediante dell'anima. « Il tronco d'albero ha un bel restare a lungo nella palude, non diventerà mai coccodrillo » (proverbio senegalese).
Odierni il prossimo tuo come te stesso
Egli sarà fatto Dio o sarà divorato. E U G È N E MANNONI,
Psychologie du colonialisme, p. 31. Temibile è la tentazione d'essere buono. BERTOLT BRECHT
Nel 1964, l'antropologo americano Colin Turnbull si reca nell'Uganda settentrionale a studiare il popolo degli ik, antichi cacciatori nomadi, costretti dalla creazione di un parco nazionale a lasciare la loro terra d'origine e a stabilirsi in villaggi. Turnbull va dagli ik armato di un'unica convinzione: quella della bontà naturale dell'uomo africano, soprattutto nella sua forma nomade, non corrotta dalla civiltà occidentale. Sicuro d'incontrare ovunque solo «gentilezza, generosità, considerazione, affetto, onestà, ospitalità, compassione»,1 ben presto cambia tono: la trasformazione degli ik in sedentari, simile a una caduta in senso biblico, li ha veramente corrotti; le virtù cristiane decantate da Turnbull nelle società di cacciatori precedentemente studiate2 qui sono scomparse. Quegli uomini prima felici e prosperi si sono trasformati, in meno di tre generazioni, in poveri degenerati, la cui unica preoccupazione è la sopravvivenza individuale. Hanno rinunciato a ogni esistenza sociale nello stesso tempo in cui hanno perso anche la nozione della speranza, dell'amore e del rispetto. Gli ik strappano il cibo di bocca ai loro genitori, cacciano i figli dal recinto familiare per non doverli nutrire, lasciano morire tra la più completa indifferenza i vecchi, i malati, gli invalidi. L'Eden è diventato un «mondo crudele e ostile» (p. 230), dove si è circondati da «impassibili carnivori» (p. 54), sempre pronti a uccidersi fra loro per mangiare, gareggiando in ciò che « chiamerei bestialità, se non temessi di offendere gli animali» (p. 1 II popolo della montagna (Rizzoli, Milano, 1977), costituisce la narrazione che Turnbull ha tratto dai suoi tre anni di soggiorno presso gli ik. 21 Pigmei. Il popolo della foresta, Rusconi, Milano, 1979, e L'Africano solitario, Dedalo, Bari, 1969.
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248). Turnbull non perdona a questi africani d'aver mandato in frantumi i suoi ideali alla Robinson Crusoe. La fine del suo libro è davvero stupefacente. Nella decadenza degli ik, per una sorta di evoluzionismo a ritroso, egli vede il destino che attende l'umanità ricca, votata alle aberrazioni del progresso e al culto « dei banali, stupidi gravami forniti dalla tecnologia». Poi, il tono sale di un grado e si gonfia fino all'invettiva: l'americano raccomanda al governo ugandese di deportare e disperdere gli ik affinché il loro cattivo esempio non contamini le popolazioni vicine. Siccome l'amministrazione non ha ottemperato ai suoi suggerimenti, egli si limita a sperare che i duemila sopravvissuti del popolo ik scompariranno rapidamente dalla faccia della Terra.3 Un etnologo che invoca il genocidio della popolazione che ha studiato, è davvero un fenomeno unico! Fin nei suoi eccessi, tuttavia, questo rimane un procedimento esemplare del terzomondismo: è sempre lo stesso moto oscillatorio fra l'elogio e l'anatema, fra l'adorazione dell'altro e la sua esecrazione dal momento che non risponde agli investimenti di bontà, di gentilezza che si sono fatti su di lui.4 Questa volontà di dominio per mezzo del complimento, che fa del Terzo Mondo un soggetto neutro controllabile, si trasforma in rabbia impotente non appena il guerrigliero, l'indigeno o il selvaggio si rivelano più ricchi di quanto si credeva. Poiché i fatti non sono docili, i cieli tropicali nascondono un inferno ancor più abominevole del nostro: la riserva di cherubini non è che un calderone di tre miliardi di mostri. E il cerchio si chiude, la prova 3 « Per fortuna non erano numerosi - circa duemila - e i due anni di carestia li avevano decimati. Quindi non rimane altro che sperare se non che il loro isolamento si mantenga completo come in passato, fin quando saranno morti tutti. Mi rincresce soltanto che tanti esseri umani siano condannati a spegnersi così, lentamente e dolorosamente, fino all'ultimo» (Ilpopolo della montagna, cit., p. 252). 4 Sul libro di Colin Turnbull, si leggano in francese i due studi seguenti: M A U R I C E G A U D E L I E R , «Heurs et malheurs de l'ethnologue » in Les Temps modernes, marzo 1 9 7 5 , e J E A N - L O U P A M S E L L E , « Le sauvage méchant » in Le Sauvage à la mode, cit.
è stata data: l'autoflagellazione è la via regia verso l'odio del genere umano!
L'ambiguità
del masochismo
occidentale
L'orgoglio del criminale Qualche anno fa, quando l'ayatollah Khomeini definì gli USA e la Francia rispettivamente Grande e Piccolo Satana, i più spregiudicati credettero bene di sganasciarsi dalle risate. Avevano torto; perché l'invettiva dell'imam riflette con esattezza quel che tutti gli uomini bianchi pensano della società che li ospita, cioè che «nella prospettiva dei millenni, l'Occidente è il più grande criminale della Storia».5 Noi, i viziati della Terra, che abbiamo « fatto » il colonialismo, la tratta dei negri, il genocidio degli indiani, e che ogni anno annientiamo « 5 0 milioni» di esseri umani col semplice meccanismo degli scambi diseguali, deteniamo il monopolio dell'assassinio dei popoli. Essere i peggiori, questo è il nostro morboso narcisismo, e al confronto gli uomini del Terzo Mondo saranno i titolari della purezza. Cento anni fa, in un celebre poema, Rudyard Kipling esortava l'uomo bianco a portare il suo fardello di civilizzatore per il bene del genere umano. Oggi, portiamo con orgoglio il nostro fardello di peccati, prendiamo tutti i torti a nostro carico senza lasciare agli altri la possibilità di avere i propri. Ora, quest'intemperanza nell'ingiuria contro se stessi ha qualcosa di ambiguo. Se ci applichiamo i più iperbolici superlativi nel vile, nel sordido, nello spregevole, quest'autocritica, tuttavia, nasconde a stento un'esaltazione indiretta: re dell'iniquità, principi dell'infamia, restiamo pur sempre sulla vetta della storia. Siamo davvero quegli alchimisti diabolici che spandono la loro malvagità nei quattro punti cardinali, abbiamo la consolazione di saperci maestri dell'arte: ci si può contestare tutto, salvo la nostra cattiveria, la nostra ignominia. Se la cattiveria fosse una disciplina omologata ai 5
ROGER GARAUDY,
Promesses de l'Islam, cit., p.
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Giochi olimpici, la civiltà industriale sarebbe consacrata campionessa assoluta! Flagrante delitto d'imperialismo a rovescio: l'uomo del rimorso ha sempre bisogno di sommare due condizioni: dev'essere paranoico perché è megalomane. Egli vede in ogni sventura dell'umanità la mano dell'Euramerica, per meglio definirsi come il Grande Depravato, a causa del quale il pianeta va in rovina. Colpito da mania di grandezza di tipo macabro, coltiva continuamente l'idea del complotto (dove si può riconoscere facilmente un'incarnazione del complotto giudeo-massonico), perché gli permette di gonfiare la sua mediocre persona fino alle dimensioni del pianeta. Se un colpevole esiste, che ebbrezza esserlo su scala universale, piuttosto che regionale o familiare! Le guerre fratricide, i bambini col ventre gonfio, sono io; i nugoli di cavallette, le terribili siccità, sono ancora io; dappertutto le catastrofi, gli avvelenamenti, i tornado, le stragi riflettono il mio stesso volto. Questa Babele ha un ordine, questi milioni di uomini sono mossi da una logica invisibile di cui io sono l'origine. E ancora qui da noi che si fa la storia: ecco la certezza del terzomondista, ranocchia che non ha rinunciato a imitare il bue, e che dà del Nord un'immagine insieme malefica e super-idealizzata. La decolonizzazione ha colpito il nostro complesso di superiorità - non è più in nostro potere decidere della sorte dei patagoni, degli zulù o dei moi vietnamiti - , ma non sopportiamo di essere messi in disparte, e, sopravvalutandoci in modo spropositato, continuiamo a vedere l'Europa come il centro di gravità da cui dipende l'universo. Qui c'è contraddizione in termini: si afferma che la nostra società non ha nulla di particolare a parte la sua nocività, ma, ponendo l'accento su questa nocività, le si conferisce in ultima analisi una singolarità inaudita, assoluta. La nostra cultura è velenosa come la cicuta e si ricade nell'etnocentrismo nel momento stesso in cui si crede di sfuggirgli. Doppia illusione: si confessa la propria colpa e si trae una vanità puerile dall'essere all'origine di tutto l'orrore del mondo.
Eternità della macchia Non ho né il diritto né il dovere di esigere riparazione per i miei antenati resi schiavi. Non c'è una missione dei negri; non c'è un fardello dei bianchi. FRANTZ FANON,
Peau noire, Masques blancs, cit., p. 185.
Quando si attribuiscono all'Occidente le sventure del Terzo Mondo, si riuniscono tre capi d'accusa: 1. Siete responsabili dell'atroce genocidio coloniale commesso dal Rinascimento al xx secolo dai vostri antenati, vittime gli indiani e i negri (colpevolezza storica). 2. Siete colpevoli d'essere i fortunati discendenti di questi pirati senza scrupoli e non dovete dimenticare che la vostra prosperità è edificata sui cadaveri di milioni d'indigeni (colpevolezza per contagio). 3. Infine vi dimostrate degni nipoti di quei conquistatori, poiché non reagite quando la fame falcia i bambini e le giovani nazioni si trascinano nel sottosviluppo per il vostro egoismo (colpevolezza per conferma). Insomma, il presente sanziona il passato, che l'avvenire a sua volta ripeterà: le vie d'uscita sono chiuse; ogni giorno, ogni anno si allunga un po' di più la lista dei peccati imputati a una comunità su cui pesa il sospetto ancestrale di insudiciare le fonti della vita. La malvagità è una specie di maledizione antropologica connaturata ai popoli dei paesi temperati: l'Occidente sarebbe crudele e allergico agli altri, come l'asmatico al pelo di gatto. Qualunque cosa facciamo, la colpa prospera fra noi, l'inespiabilità è il nostro fato. Con un meccanismo analogo al delirio antisemita o razzista, si procede per designazioni collettive,6 si fa di un popolo intero, con le sue diver6 Jaspers direbbe che si confonde un concetto basato sui generi con un concetto basato su tipi (cfr. La colpa della Germania, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1947). Questo meccanismo di «contrassegno del plurale», come ricordava Albert Memmi nel suo celebre saggio, stava alla base del ritratto che il colonizzatore dava del colonizzato. Non è una delle più trascurabili ironie della storia, che gli oc-
sita, un solo individuo cui si affibbia l'epiteto di criminale. Non vi sono più esseri umani, ma solo entità: i francesi, i tedeschi, gli americani, come si dice gli ebrei e gli arabi. L'amalgama immediato fra un dato gruppo di uomini, il regime o il governo che si rende effettivamente colpevole di cattive azioni, e il popolo cui appartiene, trasforma la colpa politica in colpa metafisica. Ma se l'Occidente è per sua natura incline al genocidio, così come l'acqua è fluida, se la colpa è collettiva e risale alla notte dei tempi, a che serve denunciare i suoi misfatti contingenti qua o là, in Salvador, in Brasile, in Africa del Sud, e cercar di proteggere le sue vittime? Ciò che è stato è stato, per sempre, ma perché ne saremmo responsabili per sempre? Per quanto tempo ancora i popoli d'Europa e d'America saranno incolpati per le infamie commesse dai loro antenati? Quando cesserà questo ricatto genealogico che vorrebbe fare di noi, in nome di danni e interessi collettivi, i complici indiretti della tratta, dei massacri, del saccheggio? Nulla è più pericoloso dell'idea di una responsabilità collettiva, che si trasmetterebbe indefinitamente di generazione in generazione, e che richiama i peggiori procedimenti di coercizione totalitaria (per esempio, per quanto riguarda la Francia, l'applicazione da parte dell'esercito francese in Algeria dei metodi di responsabilità collettiva, che permettevano, dopo ogni attentato, di radere al suolo interi villaggi, di massacrare le popolazioni, di torturare i sospetti). Il rispetto della memoria non può sfociare in una tale confusione dei doveri e degli obblighi, non si può confondere all'infinito l'irreversibilità dei torti commessi con un'eternità compatta e senza fratture. Supporre che gli euroamericani siano naturalmente o culturalmente malvagi è un'ipotesi tanto pigra e moralistica quanto l'ipotesi inversa: ci risparmia di riflettere sulle condizioni moderne della violenza e dell'oppressione. Non si ha il diritto di dichiarare l'Occidente colpevole per il solo fatto di esistere, come se fosse di per sé solo un'ingiuria alla creazione, una catastrofe coaderitali applichino oggi a se stessi il medesimo ritratto schematico e caricaturale che un tempo essi offrivano dei popoli assoggettati.
smica, una mostruosità da cancellare dalla carta del mondo (e proprio per questo la questione d'Israele è d'importanza capitale: attraverso il non-riconoscimento dello Stato ebraico, tutta l'illegittimità dell'Occidente è posta in discussione).
La cattiva coscienza pacifica Il predicatore e gesuita francese Louis Bourdaloue (xvil secolo) distingueva quattro generi di coscienza: la buona tranquilla (il paradiso), la buona turbata (il purgatorio), la cattiva turbata (l'inferno) e la cattiva pacifica (la disperazione).7 Il terzomondismo, come si sarà capito, appartiene a quest'ultima categoria. L'occidentale accetta di essere l'Immondizia delle nazioni, perché vi si adatta perfettamente. Accusandosi d'essere maledetto, pernicioso, afferma nello stesso momento di appartenere a un'élite. E questa somiglia punto per punto a un'aristocrazia del sangue. Egli non ha fatto niente per meritare la sua abiezione e non può neppure rinnegarla. Gli è stata data una volta per tutte, perché c'è in lui un principio che lo spinge a fare il male in ogni circostanza, anche contro se stesso. La sua colpa gli conferisce una dignità, un posto nella gerarchia dei tempi, è al riparo sotto lo sguardo crucciato del grande tribunale della Storia. Questo super-io di cui si ricopre in permanenza, e che regola da lontano la sua visione astratta degli altri, non lo aiuta a combattere l'ingiustizia ma a coesistere con essa. Che cos'è una colpevolezza che rifiuta il pentimento, se non un essere induriti nel peccato, una compiacenza verso il male, un modo di coabitare con l'orrore? Si fa il mea culpa per spavalderia, si gode della repulsione che si ispira, ci si rotola nel fango con cinismo, ma le imprecazioni rivolte a se stessi hanno ormai solo l'automatismo e l'insensatezza del pappagallo. Questa commedia della costernazione è un rinforzo inatteso per la buona coscienza, un narcotico che la ren7 Citato da V L A D I M I R J A N K É L É V I T C H , La Mauvaise Conscience, Aubier, Paris, 1970. [Tr. it.: La cattiva coscienza, Dedalo, Bari, 2000.]
de insensibile al pungolo del caso. E le ingiurie rituali dei giudici istruttori dell'Europa ricordano in qualche modo le iniezioni di richiamo che si fanno ogni anno ai bambini: come nella vaccinazione, s'inietta un po' d'angoscia, di rimprovero, per liberarsi dell'esame morale. Terribile scuola del doppio linguaggio: patetici tenori di quartiere gridano a perdifiato la loro avversione per l'Occidente, pallidi chierici si costruiscono tutta una carriera denunciando l'imperialismo: ma il carattere meccanico di questa fobia dà ai loro insulti il suono ridicolo di un balbettio. La ruminazione morbosa s'intenerisce su se stessa e gli instancabili penitenti si sbrigano della miseria del mondo con una frase, per tornare poi alle loro faccende. Amano ancora troppo il loro nemico per volerlo eliminare davvero. Risuscitano la loro vittima per il solo piacere di ucciderla di nuovo, vedono la CIA dappertutto, perché una rabbia disperata li afferrerebbe se, per caso, il loro bersaglio favorito scomparisse. Sono preti da messa nera; respingono il Nord e lo scherniscono, ma è solo per meglio consolidarlo e conservare la posizione critica che amano tanto. Questi irreconciliabili persecutori di se stessi non hanno più conti da rendere a nessuno, insomma, arriva un momento in cui la colpevolezza morale, metafisica, permette di sottrarsi a ogni responsabilità politica attuale. Se si confrontano le due ipotesi, buona e cattiva coscienza, bisogna ammettere che a questo stadio la loro plausibilità rispettiva è uguale: perciò, la loro opposizione si neutralizza. Sia l'uomo della convinzione sia l'uomo della contrizione non dubitano più, sono entrambi perentori: l'ultimo ha sottoposto tutto al sospetto, salvo il sospetto stesso, di cui diventa vittima dopo esserne stato l'araldo; per eccesso di lucidità, lascia che la parte migliore della sua critica si diluisca in un'acida canzonatura senza nobiltà. La diffidenza che ostentava verso l'Occidente e le sue opere gli impedisce di diffidare di questa diffidenza. E la sua vigilanza reca in se stessa la propria cecità; esiste un fanatismo del dubbio come c'è un fanatismo della fede, e la volontà di non esser mai imbrogliato è forse la maggior stupidaggine del nostro tempo. Cieco a forza di chiaroveggenza, mentitore per eccesso di sincerità, il terzo-
mondista finisce per confondersi col suo nemico, il suo doppio, il conservatore autarchico e sicuro di sé (il che spiega come mai tanti maoisti o castristi esaltati oggi siano tornati su posizioni apertamente reazionarie o coloniali: sul terreno della vergogna, sono rapidamente rispuntate le nostalgie velenose). Fra quello che afferma: noi portiamo loro la civiltà, e quello che risponde: noi infliggiamo loro l'inferno, il risultato è lo stesso: i codici simmetrici dell'offesa e della beatitudine indicano una drammatica chiusura all'Altro. Come l'autosoddisfazione, un eccessivo senso di colpa provoca un disprezzo vergognoso per gli altri. Non vogliamo i paesi del Sud per il bene che potrebbero farci, ma per il male che potremmo farci fra noi grazie alla loro collaborazione. Sia con la buona sia con la cattiva coscienza, ci si mette in condizione di non essere mai colti di sorpresa, il mondo è pensato ab aeterno. Perciò, nei riguardi del Terzo Mondo, ci mostriamo sempre permissivi ed evasivi, intransigenti e futili. Il nostro sostegno incondizionato a una data forma di lotta, a un dato popolo, non può nascondere la frivolezza del nostro impegno. La severità irragionevole del super-io collettivo, che agitò le élite occidentali dagli anni '60 agli anni '80, doveva generare un effetto opposto a quello voluto: cioè l'impossibilità di amare realmente quei popoli lontani, in nome dei quali ci si scontrava.8 La preoccupazione di fustigare se stessi era ancora preoccupazione di sé, egoismo rampante. Il terzomondismo non è mai stato altro che questo: l'ignoranza militante degli altri.9 Fenomeno identico al filosemitismo: si adoravano gli ebrei perseguitati, erranti, sradicati, e li si esecra non appena si procurano una terra, uno Stato, un esercito. Insomma, nell'israelita, non si amava una memoria, una cultura, un rapporto particolare con le Scritture e con la fede, ma la vittima impersonale, sofferente, pura proiezione di un fantasma cristico. 9 Nulla forse può servir meglio a illustrare la profonda frivolezza del terzomondismo, dei discorsi tenuti dal Ministro francese della cultura Jack Lang nel giugno 1982 a Cuba, che incensavano 0 regime di Fidel e denunciavano l'imperialismo americano. Da parte di un uomo 8
Sua maestà il bambino Io sono due cose che non possono essere ridicole: un selvaggio e un bambino. PAUL GAUGUIN
Un Terzo Mondo spontaneo, sentimentale e giusto; un Occidente rapace e crudele: su quest'antitesi primaria, un'intera corrente della sinistra europea ha costruito, come si è visto, una vera e propria ortopedia della coscienza. Ma questa brutale dicotomia non può nascondere la sua ambivalenza: per giustificare i paesi in via di sviluppo, bisogna renderli infantili. Per dotarli di quel candore che da noi è introvabile, occorre quindi privarli una seconda volta della sovranità che i nostri padri avevano tenuto in così poco conto. Arrischiamo qui un'ipotesi e prendiamo atto di una strana coincidenza: in Occidente, la rivalutazione dell'infanzia è contemporanea all'avventura coloniale e alla sua agonia. Non è un caso se, in Francia, il fondatore della scuola pubblica (Jules Ferry) è anche il promotore dell'impero d'oltremare; se tutta l'ideologia coloniale ha insistito con forza sull'immaturità dei popoli assoggettati alla ferula europea e sulla necessità di educarli;10 che non è né un imbecille né un fautore del totalitarismo, simili deviazioni del linguaggio possono spiegarsi solo con la superficialità: il popolo cubano e le migliaia di vittime della dittatura castrista non hanno attirato la sua attenzione, semplicemente perché la lode o il biasimo a una repubblica bananiera non sono nient'altro che una formalità mondana. Nelle conversazioni o nei pranzi, l'elogio di un Caudillo tropicale induce un bell'effetto tribunizio. II sistema coloniale sarebbe stato abolito quando l'opera di civilizzazione avesse portato i suoi frutti e la sfasatura fra metropoli e territorio colonizzato si fosse attenuata: tali erano le formule utilizzate dall'occupante per respingere l'indipendenza in un futuro indeterminato. Nel 1919, la SDN riconosce ad esempio nei suoi statuti che i paesi del Levante non sono ancora capaci di governarsi da sé « nelle condizioni particolarmente difficili del mondo moderno », e decide di affidarli a titolo di mandati alle potenze che li occupavano. In un altro campo, solo nel 1954 il giornale L'Humanité abbandonerà la formula di Maurice Thorez che definiva l'Algeria una « nazione in formazio10
se medici, psichiatri, studiosi si sono chinati con interesse sulla psicologia del negro, dell'arabo, dell'indù, del pellerossa per giustificare il dominio della razza europea: indolente o crudele, primitivo o affascinante, l'indigeno è sempre oggetto di una pedagogia attenta, un appassionante terreno di esperimenti idoneo ad affinare le capacità d'insegnamento del conquistatore. Dalle risaie del delta tonchinese ai villaggi musulmani di Costantina, la grande saga dei popoli bambini, creduli, capricciosi o versatili giustifica la missione dei popoli civili: gli africani, gli asiatici, gli arabi hanno troppo bisogno dei nostri lumi perché li abbandoniamo alla loro sorte, e bisogna sempre che « nell'argilla informe delle moltitudini primitive, la Francia modelli con pazienza il volto di una nuova umanità» (Albert Sarrault, ministro delle Colonie; discorso pronunciato nel 1923 alla seduta di riapertura dei corsi alla Scuola coloniale). Ma non è un caso nemmeno se, nella nostra epoca in cui «la pedagogia è divenuta teologia»,11 si affida al bambino l'incarico opposto, quello di istruire l'adulto, così come le società primitive si vedono conferire la missione di guidare il mondo civilizzato. Questa tendenza moderna a considerare la maturità come una decadenza che non ha saputo mantenere le promesse della giovane età è l'esatto corrispettivo dell'adulazione del Sud presentato come unico avvenire del Nord.12 Dall'Alice di Lewis Carrol (1865), quando, per la prima volta in Europa, una bambina è posta al centro e gli adulti ai margini, fino all'emergere delle giovani nazioni vantate per la loro giovinezza e la loro foga, si viene profilando una simmetria che affonda forse le sue radici nel xvm secolo; spetterebbe a ne». Tutta l'ideologia dello sviluppo e dell'arretratezza deriva evidentemente da questa metafora bambino/maturità. 11 J . - B . P O N T A L I S in Nouvelle Revue de psychanalyse, numero speciale sull'infanzia, 1979. 12 E questo tutto il fondamento teorico del pensiero di Frantz Fanón. Contro-esempio: lo psicanalista Gerard Mendel dà a una delle sue opere il seguente titolo: Pour décoloniser l'enfant (Payot, Paris, 1971).
uno storico delle idee misurarne con precisione l'ampiezza. Resta il fatto che nulla, nella nostra visione dei popoli non europei, è veramente cambiato dall'epoca coloniale; continuiamo a vederli come dei bambini, ma abbiamo conferito all'immaturità un tale valore che essa si ribalta in saggezza, in superiorità. I terzomondisti sono ancora succubi di quest'illusione. Il riferimento al carattere infantile resta il presupposto fondamentale della loro credenza. La loro macchina dialettica a due tempi funziona così: l'africano, il cinese o il peruviano ci supera perché è sottosviluppato; è in anticipo perché è in ritardo, arretrato perché prematuro, se si ammette che ogni crescita è una caduta, ogni storia una decadenza; quest'inferiore è nostro maestro, perché lui è alle origini del mondo mentre noi siamo già al suo crepuscolo; cadetto della Rivoluzione per i marxisti, fanciullo martire per gli umanisti, selvaggio di prima del peccato originale per gli etnologi, in tutti i casi l'uomo del Sud è il «neonato sapiente» (secondo l'espressione di Ferenczi) che, dal fondo della sua indigenza, si mette a proferire un sapere sorprendente, a dire verità nascoste che sgomentano il Vecchio Mondo.
Il grande perverso e la vergine casta Perché la conquista coloniale, nei suoi vari episodi, viene tanto valorizzata? Perché ripristina il mito della caduta. Prima del Rinascimento, negli altri continenti regnava l'epoca benedetta delle Esperidi; il tempo in cui gli animali parlavano, in cui la Natura riversava a profusione i suoi benefici su indigeni radiosi e splendidi che non conoscevano né la distinzione fra il bene e il male né la divisione fra tuo e mio. Poi, degli esseri muniti di elmi e barbe sono arrivati dall'altra parte degli oceani, portatori di fuoco e di morte, e il paradiso si è volatilizzato : gli uomini liberi e felici sono caduti in schiavitù. E, « dove ci sono dei bambini, c'è anche un'età dell'oro» (Novalis). Perciò, allo scopo di preservare questo mito, i terzomondisti non finiranno mai di parlare delle nuove nazioni del Sud negli stessi termini in cui i genitori parlano dei loro cari piccini: in
termini di dirittura e spontaneità corrotte. Come l'infanzia, il Terzo Mondo è un'eterna primavera, un fragile regno su cui s'accaniscono gli adulti viziosi, gli avidi banchieri. Nella storia biblica della cacciata dal paradiso terrestre, c'erano quattro personaggi: l'uomo tentato, la femmina tentatrice, l'animale tentatore e la cosa tentante. Più due mediazioni: dal serpente alla donna, poi dalla donna ambasciatrice del peccato all'uomo. Storia semplice, rispetto ai molteplici travestimenti che l'Occidente utilizza per circuire e sedurre il casto Terzo Mondo: il male europeo è multiforme, di volta in volta pornografia, rock, gadget, jeans, droghe, bevande gassate, tecnologia, turismo, denaro: Satana è legione, ha cento maschere, cento travestimenti per sedurre l'oasi primaverile. Da qui la sfumatura d'indefinibile rimpianto con cui accogliamo la normalissima maturazione delle nazioni che entrano nel ciclo delle prove d'iniziazione alla vita politica; da qui anche la nostra collera contro il sacrilego corruttore, il mondo industrializzato, che affretta l'evoluzione smaliziando prematuramente l'umanità innocente. Così, per spiegare i disastri, la repressione, la corruzione, il nepotismo, la stagnazione che imperversano nell'emisfero Sud, si ricorre a questo concetto magico fra tutti: il neo-colonialismo. Poiché l'Europa ha lasciato i suoi possedimenti solo per installarvisi meglio, tocca a lei assumersi gli errori e gli sbagli che vi si commettono. Mirabile cortocircuito: di nuovo, il presente non è che un duplicato del passato, e l'antica invettiva può avere libero corso: nelle prigioni iraniane, siriane, algerine si pratica la tortura? E perché i loro agenti «sono gli allievi dei nostri poliziotti»13 (Claude Bourdet). Lo sciismo s'irrigidisce in un fondamentalismo oscurantista? È perché « le 'soluzioni' dell'Occidente hanno fatto fallimento » e condannano certi paesi all'integralismo14 (Roger Garaudy). La miseria avanza a grandi passi: naturalmente, a causa delle multinazionali e del loro svergognato saccheggio. Sempre per spiegare l'analfabetismo, le epidemie, le guerre, la decadenza " Le Tiers-Monde et la Gauche, cit., p. 132. Promesses de l'Islam, cit., pp. 164-165.
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del tenore di vita, il dispotismo dei nuovi padri del popolo, si invocano i colonialisti francesi, gli imperialisti americani, i dominatori inglesi, gli affaristi olandesi, tedeschi o svizzeri, perché in tutto il globo ci sono soltanto due tipi di paesi: i « paesi malati» e i «paesi ingannati»15 (Roger Garaudy). Insomma, invece di tener conto dei fatti, di cercare le cause determinanti, si prediligono le cause remote che esonerano da ogni responsabilità gli Stati tropicali: istigatore universale, il neocolonialismo diventa così il mezzo per accantonare in perpetuo i veri problemi.16 Altra nozione che ha avuto fortuna ed è apparentata alla prima: quelle delle élite teleguidate.11 Le borghesie del Terzo Mondo sarebbero tutte senza eccezione prodotti artificiali dell'imperialismo, mantenuti al potere da quest'ultimo per as" Id, p. 166. 16 « La dipendenza neo coloniale non determina tutto lo spazio politico nel quale viviamo », scrive, a proposito della Tunisia, Hélé Béji {Le Désenchantement national, Maspero, Paris, 1982), in un'eccellente analisi dello smarrimento e anche della costernazione che coglie le giovani nazioni del Maghreb subito dopo la decolonizzazione. Infrangendo la visione semplicistica e caricaturale che consiste nell'attribuire sistematicamente gli insuccessi e le oppressioni della società decolonizzata a forze esterne, l'autore scopre i meccanismi di un nuovo nazionalismo di Stato che, intorno alla figura carismatica del Capo, del Combattente supremo, fa sorgere, dopo la partenza dei colonizzatori, i propri rapporti di dominio in seno alla società. 17 E stato Samir Amin che, in Classe et Nation (Minuit, Paris, 1979), ha spinto più lontano l'analisi delle « borghesie compradores ». Ma il tema senza dubbio percorre tutta la letteratura terzomondista fin dalle sue origini. Due citazioni prese fra mille: « L a non-rappresentatività di coloro che rivendicano, di fronte ai dominatori imperialisti, il diritto di parlare in nome dei dominati [...] costituisce il nucleo della problematica dei rapporti internazionali... » (JEAN Z I E G L E R , Le mani sull'Africa, cit.). « Definendosi fin dalla nascita come un'appendice delle classi dominanti metropolitane, le élite periferiche sono andate a cercare sistematicamente fuori della loro società la quasi totalità dei loro valori, delle loro norme sociali, del loro pensiero scientifico, filosofico e politico e anche gran parte della loro ispirazione artistica e letteraria » ( Y V E S E U DES, La Conquête des esprits, Maspero, Paris, 1982, p. 13).
sicurarsi, in cambio di benefici e di appoggio militare, materie prime a buon mercato, manodopera a basso prezzo, sbocchi e mercati redditizi. Conclusione: queste classi sociali, questi Stati, sono dei relais, dei fantocci sostenuti a braccia da ci A, Unilever, United Fruits o Nestlé. Ciò che risulta sospetto in quest'accusa, è la globalità del suo oggetto: non una classe dirigente che non sia un corpo estraneo, una cisti innestata sulla pelle del popolo martire, quali che siano le condizioni geografiche, sociologiche, culturali o storiche dei paesi considerati. E così, punto e basta: le élite sono usurpatrici in Costa d'Avorio come nel Benin, a Caracas come a Taipei. Per quanto zelo o patriottismo dimostrino, non saranno mai altro che parassiti e cinghie di trasmissione. Un duplice disprezzo si riversa anzi sui ricchi africani, arabi o asiatici: essi attirano su di sé i fulmini riservati agli eretici, una repulsione cento volte più forte di quella che si prova davanti a un nemico: all'obbrobrio d'essere borghesi si aggiunge il peccato d'imitazione. Non solo essi perpetuano in terra straniera la classe maledetta fra tutte, che un secolo di socialismo ha votato agli immondezzai della Storia, ma per giunta svolgono questo ruolo in modo tutto sbagliato. Raddoppiano il loro carattere odioso col ridicolo, perché fra il modello e l'imitazione s'interpone la fase abietta della scimmiottatura. Si vogliono annullare tutti i meticci culturali, dimenticando per esempio il contributo di molti intellettuali del Sud alla cultura universale: Senghor, Césaire, Gandhi, Nehru, Tagore, Naipaul, sono squalificati come sradicati, contro di loro si istruisce, in nome della gleba, un processo alla Barrès. E per dipingere le pantomime scimmiesche dei re negri che copiano il fasto napoleonico, dei ricchi asiatici che vivono all'inglese, dei ricchi messicani, panamensi, salvadoregni totalmente americanizzati, si usano gli stessi termini di ironico disprezzo che i coloniali, ai loro tempi, usavano per gli arabi e i negri quando li vedevano mangiare al ristorante, guidare una macchina o portare la cravatta. Non importa che molti africanisti od orientalisti smentiscano o sfumino questo dogma e provino, sulla base degli studi, che la disparità fra ricchi e poveri riproduce spesso le struttu-
re sociali anteriori al colonialismo e non sono spiegabili con la divisione in classi delle società industriali;18 che sempre più numerosi intellettuali del Terzo Mondo facciano appello alla propria borghesia perché prenda in mano il loro destino, e ci assicurino che la causa del dramma è innanzi tutto interna, psicologica, spirituale;19 che i giovani nazionalismi attingano nella loro volontà di difendersi gli strumenti stessi della loro sconfitta,20 o ancora rifiutino l'ideologia delle cause diaboliche, la quale attribuisce troppo facilmente le malattie dell'emisfero Sud a dei virus esterni.21 I nostri terzomondisti non vogliono demordere: i gruppi al potere, le loro famiglie e i loro affini non sono, non possono essere, altro che cinghie di trasmissione, che « servi ». 18 Nel Monde diplomatique del novembre 1981, Jean-François Bayart, redattore capo di Politique africaine, dimostra che l'apparizione di una borghesia africana non è un sottoprodotto dell'imperialismo, ma piuttosto l'espressione del predominio storico delle élite tradizionali, e chiede che l'evoluzione dei continenti del Sud non sia spiegata nella prospettiva della storia occidentale (pp. 17, 18). In India, a Wounded Civilization (Penguin Books, 1974) [tr. it.: Una civiltà ferita: l'India, Adelphi, Milano, 1997], lo scrittore anglo-indiano V.S. Naipaul spiega da parte sua che tutto ciò che la borghesia indiana ha preso a prestito dal modo di vita britannico, significa una distinzione supplementare rispetto alle caste inferiori, e non un'alterazione del patrimonio culturale. 19 E quanto fa con brio Ahmed Baba Miské, invitando le élite africane e asiatiche a intraprendere per proprio conto una salutare rinascita, senza aspettarsi nulla dall'Occidente (Lettre ouverte aux élites du Tiers-Monde, cit.). 20 Hélé Béji (op. cit.) e naturalmente tutta l'opera letteraria e saggistica di V.S. Naipaul, vasta riflessione sul naufragio e lo smarrimento delle giovani nazioni decolonizzate. 21 In un numero di Esprit del gennaio 1980, l'economista libanese Georges Corm sostiene che le teorie dello scambio diseguale, dell'imperialismo, ecc., non aiutano affatto a comprendere dall'interno il sottosviluppo, perché gli attribuiscono solo cause esterne: « E sempre più rassicurante pensare che la malattia è dovuta a un microbo esterno e che unendosi nella fraternità rivoluzionaria per sopprimerla [...] si giungerà a risanare le società malate del Terzo Mondo» (p. 113).
Sii candido e taci! La qualità di ex colonizzati fa quindi degli africani, dei vietnamiti, dei sudamericani una specie di intoccabili, e tutti i loro errori devono essere giustificati in nome della barbarie dell'Occidente; ma la contropartita di questo monopolio esorbitante, è per loro una radicale impotenza a definire la propria politica. In altri termini, il terzomondismo non tollera che la sventura dei paesi del Sud sia innanzi tutto opera di quegli stessi paesi, perché per lui essi non esistono in quanto tali, se non come una regione, un protettorato, mentale delle nazioni industriali. Proprio come i vari Cecil Rhodes, Bugeaud, Lyautey, i nostri pii zeloti non ammettono che l'emancipazione del Terzo Mondo possa essere opera del Terzo Mondo stesso. Nell'abbellire i paesi in via di sviluppo mettono lo stesso accanimento che i loro padri mettevano nel disprezzarli, perché i due pensieri derivano da uno stesso razzismo, da una stessa differenza, disprezzata in un caso e sopravvalutata nell'altro. Come ai bei tempi dell'impero, si tratta sempre di esonerare le società orientali e africane dal grosso delle decisioni in materia di responsabilità, e quindi di risparmiar loro il duro compito di rimettere tutto in discussione. Si ricusano quindi, successivamente, i possidenti, semplice epifenomeno, e, per la stessa ragione, gli intellettuali dei paesi del Sud, colpevoli di essersi formati in America o in Europa, si ricusano l'amministrazione, la polizia, i quadri dirigenti, i tecnici, i burocrati, i funzionari, tutti quelli che, per il loro fasto, la loro brutalità, possono soltanto tradire l'Africa vera, l'Asia profonda. Restano allora le masse, le maggioranze silenziose, abbrutite dalla miseria e dal dolore ma anche guardiane del tesoro delle tradizioni; e sono le masse che i nostri cari paternalisti eleggeranno quali appartenenti al vero Terzo Mondo, così come altri esibiscono un frammento della vera Croce. Su questo gregge umano, senza volto e senza voce, potranno applicare la loro riserva di cliché, e gli potranno prestare la loro lingua: come l'infante, bisogna che il Terzo Mondo non parli, perché possano parlare al suo posto e in sua vece. E gli stessi che accusano le borghesie esotiche di plagiare i loro omologhi
dei paesi avanzati, si affrettano a mettere in bocca ai contadini africani o sudamericani le parole e gli slogan che vorrebbero sentirgli dire. Mostro onnipresente, simile agli idoli di Siva con sei braccia e tre teste, l'imperialismo circonda il globo di una sorveglianza multiforme e costante, interviene dovunque vuole, come vuole, sposta presidenti, generali, stati maggiori e regimi come pedine su una scacchiera. Conclusione: i paesi in via di sviluppo, non avendo nessuna capacità di gestirsi da soli, sono innocenti delle loro sventure. Diniego della sovranità nazionale, diniego della rappresentatività locale, diniego della responsabilità morale: si saranno riconosciute, in questo triplice credo del terzomondismo, le grandi linee del pensiero coloniale.
Il tradimento dei puri Qui bisogna imporre una vera rivoluzione copernicana, tanto è radicata in Europa e in tutti i partiti dall'estrema destra all'estrema sinistra l'abitudine di fare per noi, di pensare per noi, di disporre per noi, insomma l'abitudine di contestarci il diritto all'iniziativa che in definitiva è il diritto alla personalità. AIMÉ CÉSAIRE, lettera a Maurice Thorez, 1956.
In quest'universo popolato di vittime e di vampiri, l'Altro lontano ha solo due forme possibili: il ribelle o il traditore, l'oppresso o il complice. Classificati in anticipo, l'asiatico, l'africano, il primitivo sono tollerati solo a condizione di non contraddirci; che lo vogliano o no, devono indossare la livrea che i nostri militanti hanno confezionato per loro. Ma sono talmente perfetti, irreprensibili, sofferenti - tre miliardi di Cristi reincarnati - che non è più possibile amarli, questi eroi dal corpo scarnito. Invece, li si rispetta, ci si scopre davanti a loro come in chiesa o al cimitero, li si circonda di una morbosa idolatria. Tanti meriti eminenti di fronte ai nostri demeriti possono solo stancare. Questa cortesia, questa simpatia forzata ci guasta. Nessuno scambio diventa possibile finché abbiamo tanta fretta di essere d'accordo, di mostrarci concilianti.
Quanta amabilità nei nostri panegirici del Terzo Mondo, ma anche quanta rassegnazione! Non si parla più di uomini e donne in carne e ossa, ma di uccelli impagliati, stretti in un busto di buona condotta. Incapaci di riconoscere l'altro in quanto altro, lo idealizziamo, mentre i nostri predecessori lo sminuivano. Ma ricercare l'altro assolutamente perfetto impedisce di vedere l'altro reale. Gravato di tante speranze, non è fatalmente condannato a deludere quelli che lo esaltano? Si esige da lui ciò che non si esige da nessuno e si vuol proibirgli quello che è permesso a tutti. Fuori della società civile e della Storia, privato del potere di condurre la pace o la guerra a modo suo, l'ex colonizzato non è che una serie di sottrazioni, un individuo che abbiamo dovuto disincarnare per proiettarci in lui: ed eccolo divenuto soggetto di una morale folle, cioè una morale dell'uomo senza volto che si può a piacimento distruggere o idealizzare. Questo Terzo Mondo da ex voto non è quindi un continente ma un personaggio evangelico che, non essendo compromesso negli orrori del mondo occidentale, unisce in sé i due volti dell'innocente e dell'eroe. Purtroppo c'è qualcuno che protesta, da incosciente, contro questa adorazione, ed è il divinizzato stesso, che noti bada molto a queste lodi, a quest'incenso, e rivela in modo abominevole la sua natura pochissimo divina. Di che cosa è fatta, in realtà, la storia delle nazioni del Sud dopo Bandung? Della resistenza accanita, delle molteplici astuzie che questi popoli hanno opposto all'immagine edificante data di loro da una certa ideologia. Che cosa hanno fatto gli algerini, i vietnamiti, i tunisini, non appena lasciati a se stessi? Queste giovani repubbliche hanno abbandonato i chiusi giardini del candore, hanno comprato carri armati, cannoni, armi, riempito le prigioni, dichiarato la guerra, schernito i diritti degli oppositori, edificato strutture dispotiche, ecc. La rivendicazione del diritto a diventare banali, cioè Stati dotati degli stessi diritti e delle stesse prerogative degli altri, passa anche attraverso la capacità d'ingannarsi, di organizzare dittature, di fare uso smodato della violenza. La libertà ha questo prezzo. Il primo traditore del terzomondismo è il Terzo Mondo stesso, che non si è mai conformato a quanto
gli veniva presentato come la propria causa e si è affrettato a rovesciare il piedistallo su cui era stato innalzato. Donde l'indignazione dei nostri creduloni beffati: non tollerano di sapere che l'età dell'oro era già corrotta, e che possano esistere altri assassini sulla terra all'infuori di noi:22 «Non possono aver fatto questo da sé, le guerre dei poveri sono manipolate dai ricchi». Ma quest'amarezza è vana: perché, facendo così, si espropriano i popoli della loro stessa storia, esattamente come i dirigenti delle grandi potenze fanno di ogni avvenimento locale una vicenda della lotta per le due Super-Potenze. Curioso, questo rifiuto delle «turbolenze autonome», questa confusione praticata da tutti i campi; qui, un'amministrazione americana spiega tutte le tensioni politiche in Salvador, in Guatemala, in Colombia con la lunga mano dell'Unione Sovietica, dimenticando la miseria nera dei peones, il sottosviluppo, l'egoismo, la cecità dei re del caffè o della banana; là, vi giurano dottamente che quel dato conflitto fra due paesi del Medio Oriente è alimentato sottobanco dal sionismo e dai suoi alleati, che quella data secessione in un paese africano è incoraggiata, finanziata da una centrale d'informazioni con l'accento del Texas. In entrambi i casi, gli uomini del Sud sono considerati come agenti semi-incoscienti di un conflitto assai più grande di loro: è semplicissimo, essi non esistono in quanto tali, e gli scossoni che agitano quelle terre imbevute di sangue e di sudore non sono che la folle orchestrazione di interessi lontani. Insomma, questa meravigliosa Sul tema: « Non sono capaci di commettere simili orrori », si può leggere con profitto gli atti della memorabile tavola rotonda che riunì Régis Debray e Noam Chomsky, pubblicati col titolo « Narration et pouvoir» della rivista Change (n. 38, ottobre 1979). Il linguista americano e il filosofo francese si trovano d'accordo nel minimizzare il genocidio cambogiano - appena 100.000 persone, secondo loro, vittime di «vendette contadine locali» (p. 106) - e denunciano con lo stesso slancio il vero colpevole, l'unico criminale, il grande lupo cattivo: l'Occidente. Ai loro occhi, il «genocidio» è un'invenzione dei media, un lavaggio del cervello organizzato dalla stampa occidentale per screditare gli Stati rivoluzionari e dissimulare le vere responsabilità. 22
irresponsabilità di cui li dotiamo, per loro è soltanto l'anticamera dell'espulsione: «Non è naturale né ragionevole che i potenti si disputino le nostre dispute come se fossero un loro patrimonio» (Lopez Portillo, presidente messicano, 24 febbraio 1981).
Il Terzo Mondo non esiste più!2y Nel senso più semplice del termine, il Terzo Mondo che cos'è? Il resto, nella sua ambigua accezione di residuo e di scarto, che testimonia la sprezzante indifferenza che si riserva all'Altro quando ci si rifiuta di qualificarlo. Una nozione comoda, malleabile e deformabile a piacere, che si applica all'insieme del globo una volta detratte l'Euramerica, I'URSS, l'Africa del Sud, l'Australia e la Nuova Zelanda. Quando si leggono in una pubblicazione della sinistra cristiana le frasi seguenti: « Non è necessario varcare gli oceani per incontrare il Terzo Mondo. Noi lo incontriamo ogni momento nella nostra vita quotidiana. E presente nel nostro caffè del mattino, negli abiti che portiamo, nella benzina che mettiamo nei nostri motori»,24 ci si può legittimamente chiedere se, per necessità di propaganda, i guatemaltechi e i colombiani meritino di essere ridotti a un chicco di caffè, i sauditi e gli yemeniti a una goccia di petrolio, i coreani e gli indiani a una pezza di stoffa; se quest'economicismo volgare, che sostituisce la morale e considera le nazioni solo dal punto di vista della particolarità, non sia l'esatto corrispondente degli appetiti coloniali i quali valutavano il valore di uno Stato solo sotto il profilo dei benefici e dei profitti. Quando Mohammed è ridotto a un bidone di benzina, Abdu a un litro d'olio di arachidi, Lopez a un espresso, il razzismo della disincarnazione non è lontano. E come esiste un antisemitismo senza ebrei, c'è un terzomondi25 Riprendiamo qui il titolo di un eccellente articolo di Manuel Pietri, apparso in Le Matin del 25 aprile 1982. 24 lei et là-bas, d'abord bien se nourrir, opuscolo pubblicato da Frères des hommes e Terre des hommes, marzo 1981.
smo senza Terzo Mondo, dove le parole « Brasile », « Tailandia », « Senegal », lungi dal riferirsi a paesi o culture ben precise, servono solo da armature in una costruzione teorica astratta. L'Altro non è evocato, ma, come nella preghiera, invocato, desiderato per la sua stessa assenza, e i paesi in nome dei quali ci battiamo il petto esistono solo per esprimere il rancore verso il nostro. Nella pratica quotidiana, la nozione di Terzo Mondo non getta la minima luce sulla realtà: è unicamente uno strumento per riversare invettive sugli avversari. I terzomondisti offrono allora il curioso spettacolo di una rissa di sacrestani frenetici che si rompono il cranio a vicenda con le loro sacre icone: ma ciò per cui si battono esiste solo nei loro discorsi. Il Sud diventa allora una divinità evanescente che ricorda un po' la definizione della poesia secondo Paul Valéry: un'attività puramente solipsistica che i più abili praticano per amore dell'arte, lasciando ai babbei l'illusione di comunicare con qualcuno. Slogan livellatore e polemico, che respinge la maggioranza dell'umanità nelle tenebre della statistica, il termine «Terzo Mondo » appartiene a un universalismo calcificato. In un'epoca in cui perfino gli economisti negano una comunanza e identità di destino di tutti i paesi in via di sviluppo, e tentano di diversificare i loro approcci,25 in cui 0 movimento dei nonallineati naufraga nell'incoerenza e nella discordia, l'impiego René Demoni, per esempio, propone il concetto di « cattivo sviluppo » per spiegare gli squilibri dei paesi di recente industrializzazione, come il Messico, la Colombia, il Brasile, i quali vivono dei benefici di una materia prima esportata, ma senza sviluppare parallelamente un coerente settore agricolo. Il direttore della Banca mondiale Alden Clausen propone, dal canto suo, di distinguere otto zone economiche: quattro zone di regioni fortemente industrializzate (Europa del Nord, America dell'Ovest, Giappone, Europa dell'Est); la quinta è costituita dai paesi del Vicino Oriente, esportatori di petrolio con eccedenza di capitali; la sesta è composta da una ventina di paesi in via di industrializzazione (Africa del Sud, Argentina, Brasile, Corea del Sud, Colombia, Filippine, Hong-Kong, Israele, ecc.); la settima comprende i paesi molto popolati dell'Asia (Cina, India, Indonesia, Bangladesh, Pakistan), e l'ottava i paesi poverissimi dell'Africa sud-sahariana. 25
meccanico del termine « Terzo Mondo » tradisce una pigrizia intellettuale senza precedenti. Il nostro primo segno di rispetto verso le nazioni del Sud dovrebbe essere quello di non riunirli sotto la stessa, vaga etichetta. Stiamo bene attenti: attraverso questo termine d'uso corrente, è in gioco tutta una battaglia simbolica: quella dello spazio mentale che, negli anni a ventre, noi riserveremo ai popoli non europei. A parlare del Terzo Mondo come di un ospizio, si restringe l'orizzonte psichico dei nostri contemporanei, si squalificano 4 miliardi di uomini per le future generazioni. In Cuore di tenebra, Joseph Conrad evoca, a proposito dei negri del Congo, « lo straordinario sforzo d'immaginazione che ci è voluto per vedere in quella gente dei nemici ». Ma che straordinaria mancanza d'immaginazione, che miopia ci vuole oggi per non vedere negli africani, negli asiatici, negli abitanti dell'Oceania, altro che i pensionanti di un gigantesco asilo! Contro quest'immagine di un mondo a tre dimensioni, bisogna ribattere ogni volta con precise nozioni sulle varie culture: fin dalla scuola elementare bisogna dare un'idea dello scintillio, del disordine di quei continenti ribelli agli inventari e alle generalizzazioni, che il concetto di Terzo Mondo non basta ad esaurire. Vi sono casi in cui l'imprecisione, sapientemente coltivata, ha la gravità di un pregiudizio e, anche qui, la precisione semantica è d'importanza capitale: non esiste battesimo innocente. Se si vuole uscire dal colonialismo, bisogna uscire dalla commiserazione, dalla triste poesia del sospiro, dal tessuto di genuflessioni e di doveri in cui si riassume il nostro atteggiamento nei riguardi dei paesi d'oltremare. Si può fantasticare all'infinito sugli uomini lontani, improvvisare sul press'a poco, ma gli uomini reali non fanno fantasticare più degli altri? E il duplice torto della letteratura terzomondista non è di dare dell'Europa una visione esagerata fino alla caricatura, e di scolpire dei popoli stranieri una statua insieme malaticcia e ridicolmente virtuosa? Essa si rende colpevole di stupidità e d'incoerenza, e non si sa se sia più biasimevole il dubbio che contribuisce ad alimentare sulla nostra cultura, o il disprezzo che riversa sugli altri. In definitiva, era ancora il modello coloniale a prevalere in quegli stessi che portavano le giovani nazioni ai fonti battesi-
La fine del villaggio globale Oggi si volta una pagina della Storia: il sistema mondiale che è crollato alla fine degli anni '70 ha cessato anche di governare la nostra visione del mondo. Mai la Terra è stata tanto frazionata, e l'ordine mondiale non appare più come una possibilità sull'orizzonte dell'umanità. Al di là delle nazioni o dietro di esse, non esiste più un senso supremo per ordinarle in bella armonia. Ogni tentativo per ricreare un'unità internazionale, sia pure sotto forma di scontro fra due grandi potenze, in tali condizioni non potrebbe essere che posticcio o artificiale. Salvo a vedere la dittatura di una particolare tendenza eretta a verità mondiale, non si può che sospendere l'elaborazione di un altro universale sulle rovine del vecchio. In particolare, tutti i rimedi proposti nel corso degli ultimi tre decenni per far uscire il Sud dai soliti schemi, sono falliti: sia la via rivoluzionaria sia le politiche d'integrazione o di cooperazione si sono rivelate inoperanti o catastrofiche per i destinatari. I vecchi schemi si dissolvono senza che ne appaiano di nuovi. In quest'intervallo, non c'è altra via d'uscita che ricorrere a ipotesi revocabili, come nelle scienze, e moltiplicare la modestia e l'empirismo dei nostri approcci. Nei riguardi del Terzo Mondo, non abbiamo altro, ormai, che certezze negative: sappiamo quel che non si deve più fare. Donde la necessità di sospendere provvisoriamente il giudizio e acquisire strutture mentali compatibili con le prove che attendono 0 pianeta. mali del radicalismo. Senza dubbio il colonialismo era in rotta negli ambienti della sinistra francese ed europea; ma ne restavano tracce e abitudini sufficienti perché un discorso la cui ragione ultima era l'insurrezione universale degli oppressi, ne contenesse ancora i germi essenziali. Così l'ideale imperiale non fu affatto vinto, ma anzi rafforzato dal suo opposto e successore: il terzomondismo. Noi affermiamo che, nella disputa
La Storia ridiventa improvvisazione. Insomma, siamo tornati al xvin secolo, meno l'illusione dei Lumi, più la rapidità delle comunicazioni. L'universo, lungi dall'essere una comunità potenzialmente unitaria, un villaggio globale « che renda tutti gli uomini equidistanti » (Lester Brown), che annulli le divisioni culturali, ideologiche o nazionali, è di nuovo un pullulare di tribù ostili o diffidenti fra loro. Nel momento in cui le egemonie si polverizzano, in cui lo Zio Sam e lo Zio Ivan vedono sfilacciarsi gli imperi che prima controllavano, una balcanizzazione generale divide l'unità in gruppi etnici, religiosi, razziali contrapposti. E c'è, sempre presente, il rischio di vedere il mondo disgregarsi in una miriade di compartimenti stagni, dissolversi nella propria molteplicità. Dal fatto che le altre società non siano più impensabili per noi, non si può dedurre che siano diventate trasparenti; anzi hanno aumentato la nostra parte d'impensato e di tenebra. Dappertutto la luce e la velocità, risultato della scienza e della tecnologia, hanno moltiplicato l'inerzia e le ombre. L'estensione di quel che ci sfugge supera di gran lunga quel che ci è noto: non è il nostro sapere che acquista maggior importanza, è la nostra ignoranza che diventa più raffinata e complessa. Come distinguere ancora fra cause giuste e sbagliate, decifrare i conflitti che rattristano la sfera terrestre? Il globo ha un bell'essere piccolo e limitato, non è mai stato così tenebroso. che oppone questi due atteggiamenti, esistono ipotesi comuni; una stessa impazienza nel risolvere i problemi degli altri piuttosto che i propri; una stessa tendenza a vedere il mondo intero come un problema di politica interna (la formula è di J.F. Kennedy); una stessa credenza in un universo del Bene e del Male che si colloca qui nel Nord, là nel Sud; una stessa trasformazione dell'Asia e dell'Africa in una specie di riserva
commerciale in un caso, di vivaio di fantasmi nell'altro, e quindi un modo comune di mantenere africani e asiatici in uno stato d'infantilismo politico; un eguale proselitismo, un eguale opportunismo nel difendere il proprio campo, qualunque cosa faccia e in qualunque circostanza; uno stesso accanimento nel firmare gli stessi epitaffi elogiativi per società diverse; una stessa fede nelle virtù educative e progressiste del tempo, cui entrambi i contendenti assegnano un'escatologia trionfante. Il colonialismo stabiliva in assoluto il rapporto fra maestro e allievo; il terzomondismo ha invertito la dialettica e ha fatto dell'allievo il maestro del maestro. Esso insegna il contrario di ciò che aveva corso ieri. Viene combattuto ciò che prima era esaltato, ed esaltato ciò che era combattuto. Come san Remigio al re franco, il suo motto potrebbe essere: « Brucia quel che hai adorato, adora quel che hai bruciato ». Questo rovesciamento è dunque un ritorno alla casella di partenza. Questa critica è « una critica ancora religiosa della religione» (Marx), cioè un assassinio rituale dell'imperialismo occidentale, che assume l'aspetto di un « venerdì santo speculativo»: due giorni dopo, il morto resuscita in tutta la sua gloria. Tutti elementi che necessariamente fanno di questi nemici degli alleati, di modo che combattere il terzomondismo oggi, significa continuare l'anticolonialismo di ieri.
La fine del messianismo Le mani sporche La superiorità del Purgatorio sull'Inferno o sul Paradiso, sta nel fatto che ha un avvenire. CHATEAUBRIAND
Non è più questione di vedere nel Terzo Mondo un salvatore qualsivoglia, un portatore di speranza, o il radioso avvenire di un'umanità smarrita. Ciò che sarebbe dovuto succedere non è successo, irruzioni impreviste hanno mandato all'aria la bella profezia. Né il Nord né il Sud detengono il monopolio della
verità o dell'orrore, e con lo stesso gesto occorre spazzar via le illusioni del candore qui da noi, e della perfettibilità fra gli altri.26 Il grande trauma dell'ultimo decennio, è che anche i perseguitati hanno perduto la loro innocenza; gli stessi da cui ci si attendeva una resurrezione si sono trasformati a loro volta in carcerieri, carnefici, fucilatori, fornitori di cimiteri, come se l'indipendenza per un popolo fosse innanzi tutto il diritto di ammazzare in casa sua, con le proprie armi, sotto l'insegna della propria bandiera! Bisogna mettersi il cuore in pace: l'antico schiavo vale bene il maestro nella capacità di asservire altri schiavi alle sue ambizioni. La terribile verità che da poco ci tocca affrontare, è che tutti gli uomini sono peccatori, anche quelli che secoli di sofferenza avevano designato al compito esaltante di riscattare il genere umano. Lo stesso motivo che vieta la buona coscienza all'Occidente, vieta ogni ingenuità ai suoi vicini. Se una maledizione pesa sugli Stati del Nord, pesa egualmente sulle grandi civiltà; sia l'Islam, grande unificatore con la conquista e con la spada, sia la Cina, il Giappone o l'India, sia l'impero inca sia i regni africani prima della colonizzazione o l'impero ottomano: non esiste una società che non sia fondata sul delitto, sui massacri, sulla soggezione dei popoli più deboli. Nessuno ha il diritto, invocando i misfatti degli altri, di discolpare se stesso. Spiegare, cioè scusare le atrocità delle giovani nazioni del Sud, con il colonialismo, l'imperialismo, l'influenza americana e via di seguito, dipende da una grossolana falsificazione: se N'Guema, Seku Turé, Amin Dada, Poi Pot, Khomeini, Somoza, Pinochet, per citare solo i più sanguinari, restano dei dittatori abietti, è perché sono interamente responsabili dei loro misfatti e non hanno alcun diritto di scaricarli su fattori esterni che avrebbero determinato la loro condotta. Né l'esempio 2h Come, ad esempio, si potrebbe prestar fede ai discorsi del direttore generale dell'UNESCO, Amadou Mahtar M'Bow, quando dichiara alla rivista Third World Quarterly (Londra, aprile 1982): « I paesi del Terzo Mondo sono i portatori della speranza nel mondo; a dispetto della loro debolezza interna e delle inadeguate risorse naturali, sono per loro natura i crociati della giustizia e della libertà »?
dell'autorità coloniale precedente: «Mi sono formato alla scuola inglese o francese », né l'argomento della pressione internazionale: « H o agito sotto l'effetto di un accerchiamento », né le necessità demiurgiche della storia: « Ho dovuto liquidare i traditori per salvare la Rivoluzione», né la buona ragione della manipolazione: «Sono stato beffato da Mosca o da Washington», hanno alcun valore. Nessuno di questi argomenti distrugge la libertà di scelta, quindi la colpevolezza. E i soldati, i guardiani, i miliziani che obbediscono agli ordini di questi tiranni, i popoli che danno il loro avallo, sono responsabili allo stesso titolo.27 Insomma, non ci sono due pesi e due misure, per due umanità diverse, quella dei bianchi cattivi e quella dei buoni indigeni confinati nell'irresponsabilità, nel capriccio e nell'ingenuità. La loro qualità di ex colonizzati non conferisce agli Stati del Terzo Mondo alcun privilegio, alcuna esenzione, alcuna superiorità morale. Nessun popolo ha acquisito la grazia dell'elezione a causa delle persecuzioni subi27 Così, per la violenza in Argentina: si sa che è diventata uno sport nazionale abbondantemente praticato dalla destra e dalla sinistra; tutta l'opera, ad esempio, di un Ernesto Sabato e di un Borges è una riflessione su questo mistero, su questo paese atipico, zona di frattura tra l'America e l'Europa; quelli che lo fondarono erano intellettuali ispirati dai Lumi francesi, che tenevano in tasca il Contratto sociale e l'Emilio, ma anche gli eredi del più grande genocidio della Storia, quello degli indiani. In maniera più generale, è strano notare quanto l'insieme della sinistra sudamericana - eccettuati tuttavia i socialisti brasiliani - faccia dell'imperialismo americano un troppo facile capro espiatorio dei mali che affliggono i paesi latini da due secoli a questa parte. Anche un libro ammirevole sul piano letterario, come Las venas abiertas de America Latina di Eduardo Galeano [tr. it.: Il saccheggio dell'America Latina, Einaudi, Torino, 1976], ha l'unica funzione di discolpare gli attuali popoli sudamericani e di far ricadere tutta la responsabilità su invasori esterni, spagnoli, inglesi, portoghesi, americani, ecc. Così non si fa che ricostituire le impasses e tranquillizzare la coscienza con poca spesa, indossando la veste cenciosa dell'eterna vittima. Non parliamo delle prese di posizione apertamente staliniste di grandi intellettuali sudamericani come Garcia Marquez, il cui appoggio incondizionato all'URSS, al regime castrista e sandinista, ha qualcosa di sconcertante.
te, nessuno può esibire una patente d'innocenza che lo dispenserebbe dal rendere conto e lo autorizzerebbe a sostenere che i suoi interessi coincidono con quelli della morale e del diritto. Oggi che l'imperialismo è la cosa più equamente condivisa nel mondo - è un governo « rivoluzionario » che, nel Nicaragua, si è comportato verso gli indiani miskito con la stessa brutalità e arroganza dei conquistadores - , le giovani nazioni hanno già dietro di sé gli stessi orrori guerreschi, le stesse bestialità che hanno offuscato la storia del Vecchio Mondo. Se esiste una colpevolezza fondamentale di tutti gli uomini, dovuta al fatto che si trovano presi in rapporti di forza che li fanno vivere, ne deriva che i paesi del Sud non sono né peggiori né migliori di noi, ma, proprio come noi, sono capaci di sublimità e di abiezione. Finite, quindi, le nazioni arcangelo che fissano con sguardo di riprovazione la vecchia Europa stracarica di delitti, e che approfittano del pentimento degli occidentali per scoprirsi d'un tratto tutto un passato di candore liliale, servendosi di questa copertura per abbandonarsi ad atti tutt'altro che morali. Perché dovrebbero rendere conto, visto che ci sono creditrici di tutto a causa dell'oltraggio perpetrato un tempo contro di loro?28 Angelicate in perpetuo, possono commettere In questo senso, lo stato d'Israele, che ricorre di frequente a questo tipo di argomenti, vorrebbe riunire i vantaggi di una nazione del Sud e di un popolo occidentale. In nome dell'immenso torto inflitto al popolo ebreo, l'amministrazione israeliana considera ogni critica come una minaccia diretta alla sua esistenza, ogni nemico come uno sterminatore in potenza. All'inverso, i palestinesi si presentano a loro volta come tipici depredati, e rivendicano per sé tutti gli antichi titoli degli ebrei - diaspora, persecuzione, genocidio. Donde, fra ebrei e arabi, la concorrenza vittimistica che potrebbe enunciarsi così: noi siamo i più disgraziati, quindi abbiamo tutti i diritti e i nostri nemici non ne hanno nessuno. Stupefacente chassé-croisé: mentre l'antisemitismo europeo è stato adottato in blocco dai paesi arabi, Israele si mette a parlare il linguaggio terzomondista dell'innocenza assoluta - «Gli ebrei non s'inchinano davanti a nessuno, salvo davanti a Dio», esclama ad esempio Begin nell'estate 1982 - , mentre i palestinesi si esibiscono come i dannati della Storia cacciati dai « sionisti-na28
i peggiori delitti senza credersi in obbligo con alcuno. Così fanno la lezione a tutti senza tollerare il minimo rimprovero. Sempre pronte a reclamare in nome di diritti storici calpestati da secoli, ci negano il diritto di giudicarle, prendendo a pretezisti ». Gli uni e gli altri si pretendono depositari della massima espropriazione, e considerano i loro avversari come criminali. C'era già una sola terra per due popoli, ora ci si disputa la sventura assoluta. In questo scontro di puri, un terrore retorico paralizza le parti e può condurre nell'uno e nell'altro campo ai peggiori eccessi: donde lo sforzo dei partigiani della pace in Israele e fra i palestinesi per uscire da questa duplice impasse e impedire che i due popoli si considerino come l'Altro intoccabile, integro, esente da ogni responsabilità. Israele è odiato perché è un paese occidentale mascherato sotto il privilegio del Terzo Mondo che camuffa la sua forza dietro il paravento di un torto immemorabile: esso ha confiscato ai popoli ex colonizzati la loro retorica e ne ha fatto un'arma contro di loro. In ciò il conflitto araboisraeliano è insieme esemplare e unico: unico in quanto combina in maniera inedita la problematica Nord-Sud; esemplare in quanto l'odio dell'Occidente passa oggi attraverso l'odio degli ebrei, che ne divengono la comunità emblematica dopo esserne stati per due millenni il capro espiatorio. Si sa, ad esempio, che tanto in Francia quanto nella Germania federale, più ci si sposta a sinistra nel ventaglio politico, più virulente si fanno le critiche nei riguardi di Israele; il fatto è che la sinistra ha trasferito contro lo Stato ebraico il suo anti-occidentalismo di principio. All'antico rimprovero di cosmopolitismo indirizzato dall'estrema destra antisemita, corrisponde quello d'illegittimità fatto dalla sinistra: Israele incarna tutta l'oscenità dell'Occidente, tanto più che è collocato in terra orientale! La sua affiliazione all'invisibile Impero del Nord ne farebbe, secondo alcuni, la più fedele reincarnazione del Terzo Reich, insomma un mostro più temibile dell'impero sovietico o di certe dittature del Vicino Oriente! Senza dubbio Israele ha cessato di essere il credito morale dell'Occidente; la guerra del Libano e la politica di colonizzazione praticata nei territori occupati hanno dilapidato il capitale di simpatia di cui godeva nell'opinione pubblica, e accelerato la sua normalizzazione. Emmanuel Lévinas lo diceva già nel 1963, quando affermava: «Israele non è divenuto peggiore del mondo circostante, checché ne dicano gli antisemiti. Ma ha cessato di essere il migliore» (Difficile Liberté, Albin Michel, Paris, 1963, p. 16). Si può sostenere, tuttavia, che Israele è diventato uno Stato come gli altri, dopo i bombardamenti di Beirut? Uno Stato de-
sto la nostra lontananza dal teatro degli avvenimenti, mentre la distanza a cui ci troviamo ci preserva dalle passioni locali, ci rende più disinteressati, più imparziali. Non mi giudicate, dice l'Islam, perché bisogna essere musulmani per comprendermi.29 Non mi giudicate, dice l'africano, perché bisogna essere negri per intendermi. Sono, curiosamente, gli stessi argomenti di cui Sòren Kierkegaard si serviva per difendere il cristianesimo quando dichiarava che, per comprenderlo, bisogna prima convertirsi alla religione del Cristo! Ora, non appena una razza, un regime aspirano all'intoccabilità, sono vicini alla barbarie. Appena un popolo si pretende «eletto» e fa di questo un dato permanente che la Storia non potrà più intaccare qualunque cosa accada, si trasforma e trasforma gli uomini in specie animali ben distinte, come i cani e i gatti. E come non nutrire la più grande diffidenza, il più grande disgusto verso ogni movimento, ogni rivolta che proclama il suo anti-occidentalismo a priori e assume il carattere macabro di una crociata razziale contro l'uomo bianco? Quando I'onu iscriverà l'anti-occidentalismo e il razzismo anti-bianco nel novero dei crimini contro l'umanità? Praticando un'indignazione selettiva nei riguardi dei popoli del Sud, accordando loro in campo morale la clausola delle nazioni più favorite,50 manifestiamo un paternalismo condiscendente, contribuiamo di fatto al loro sottosviluppo, al marmocratico come la Francia, l'Italia o l'Inghilterra, sì, ma non uno Stato dispotico come l'Iraq, la Siria o l'Egitto. Questa sfumatura è capitale, perché ci vieta per sempre di criminalizzare la nazione ebraica, come non era pertinente demonizzare la Francia durante il conflitto algerino o gli USA nel corso della guerra del Vietnam. 29 « Gli infedeli non hanno il diritto di venire a vedere come viviamo, come trattiamo le nostre donne, come governiamo la nostra patria islamica», dice la predica del venerdì nelle moschee del Cairo (citato da J . P E R O N C E L - H U G O Z , Le Monde, 2 4 ottobre 1 9 8 0 ) . , 0 E noto che Noam Chomsky, campione assoluto di autoflagellazione, è diventato lo specialista mondiale dei giochi di destrezza che consistono nell'annerire una parte dell'umanità - gli yankee, naturalmente - per imbiancare l'altra, il Terzo Mondo. Per quest'adoratore dei paesi poveri, il pianeta è un territorio magico contrassegnato da
tirio delle loro vittime. Affermare che non abbiamo niente da insegnar loro, niente per cui ritenerci superiori, rappresenta il colmo del fallimento e della negligenza. Appoggiare questa rinuncia per timore di fare il gioco dell'imperialismo significa un ricatto odioso: la critica di un dato regime non è la segreta apologia del colonialismo, e l'opposizione dell'amico che non fa coro è più preziosa degli insulti del nemico dichiarato! Insomma, la divisione manichea in buoni e cattivi, appena abbozzata, si cancella: il Bene non esiste da nessuna parte, l'ingresso nella Storia sporca per forza le mani, e bisognava che il Terzo Mondo ci deludesse per provare la sua autenticità. Si è voltato pagina, gli ex asserviti hanno cacciato i loro padroni stranieri, si sono scelti altri padroni, altre servitù, ma questo non ci riguarda più. Hanno perduto la garanzia del calvario che giustificava le loro origini, hanno raggiunto la maturità nazionale: che se la sbroglino da soli. La loro libertà è fuori della nostra portata, essi restano i soli giudici del regime che intendono darsi o di cui eventualmente vogliono disfarsi. Non possiamo fare più niente per loro eccetto quel che ci chiedono, cioè un massimo di equità in un contesto d'interdipendenza economica; possiamo rialzare il corso delle materie prime, creare i termini di uno scambio più egualitario, impegnare negoziati globali, annullare o ridimensionare i debiti, ma non sostituirci a loro. Non possiamo far altro che dar loro dei punti di partenza, e questi paesi restano liberi di rispondere o meno a quest'appello, di approfittare di questa situazione. « Il Terzo Mondo non è né un paradiso né un inferno, ma piuttosto una specie di purgatorio in cui si elabora un mondo nuovo che sarà quel che i popoli meriteranno che sia»" (Jean Rous).
luoghi malefici, i paesi temperati, e da luoghi straordinari, i paesi del Sud. " Le Tiers-Monde et la Gauche, cit., p. 125.
La questione dei diritti dell'uomo L'Occidente non ha creato i diritti dell'uomo, sono i diritti dell'uomo che hanno creato l'Occidente. JIMMY CARTER
Nessun popolo è esente dagli obblighi che la sua appartenenza alla comunità delle nazioni gli impone. In tal senso, un'unica regola dovrebbe, in campo morale, regolare gli scambi fra Nord e Sud: tutto quanto è buono per l'uno è buono per l'altro. Respingere l'ideologia dei diritti dell'uomo perché è nata su suolo europeo, significa dimenticare che questi diritti sono stati proclamati in una società povera, la Francia del xvm secolo, in cui la gente non mangiava a sufficienza,32 che essi non furono affermati in favore di una classe, di una razza o di una nazione, ma per l'umanità intera. Esporsi al rimprovero d'imperialismo perché si pongono certi principi universali sottintende che certi popoli, a causa della loro origine o del colore della loro pelle, si sottraggono alle sofferenze comuni a tutti; che la paura della morte e l'amore per la vita diminuiscono appena si traversano i mari, e che un egiziano, un abitante del Mali o della Guinea non merita la stessa assistenza di un europeo. Denunciare l'intemazionale politica dei diritti dell'uomo perché ha « i limiti economici dell'ocsE, che raggruppa i venticinque paesi più ricchi del pianeta, di cui diciannove europei », e che « le nostre libertà economiche sono la faccia illuminata di una diseguaglianza economica fondamentale, che sommerge i tre quarti dell'umanità nell'ombra, nella penuria e nella lotta biologica per la sopravvivenza »,33 equivale a enunciare in modo brillante un sofisma che non lo è affatto. Nella tradizione del più puro mercantilismo, si finge di credere che la libertà è un bene in quantità limitata che si potrebbe dividere come una torta, di cui alcuni si arrogano la maggior parte, mentre gli altri si accontentano delle briciole; si fa dei 32 Jean-Marie Domenach lo ricorda in un notevole contributo all'opera: Pbtlosopber, Fayard, Paris, 1980. " R É G I S D E B R A Y in Le Tiers-Monde et la Gauche, cit., pp. 92-93.
valori e della giustizia altrettante mercanzie soggette come le altre al ciclo della scarsità e dell'abbondanza. Sicché reclamare una maggior eguaglianza, la fine del supersfruttamento del Sud, la destituzione delle dittature appoggiate dalle Super-Potenze, significa ancora operare per la dignità della persona, incarnandola fin nei rapporti più concreti della vita quotidiana. Se le libertà non possono essere rivendicate in astratto, è altrettanto pericoloso subordinarle in modo unilaterale a una situazione materiale. A partire da quale livello di prosperità si deciderà che è tempo, infine, di ripristinare la libertà di stampa, di autorizzare il diritto di sciopero, il pluralismo dei partiti, ecc.? E se le libertà civili, anziché un lusso da ben pasciuti, fossero invece la condizione minima di ogni ricchezza? Soffocare la purezza metafisica dei princìpi in nome delle necessarie misure amministrative - per esempio, della priorità assoluta della lotta contro la fame -, 3 4 significa rendere d'un colpo solo due cattivi servizi; significa ignorare che ogni dittatura costa cara; che nel reprimere, soffocare, torturare, sorvegliare, deportare si perdono forze utili che avrebbero potuto essere impiegate a miglior fine; e che infine il gelido mostro dello Stato totalitario non solo martirizza gli uomini, ma perpetua per ciò stesso la carestia, il sottosviluppo e l'anarchia. Nessuna necessità a parte la follia e la cattiveria giustifica la massa di orrori che sono stati commessi in Cina, in Cambogia, in Iran, in Uganda, nel Salvador, nel Libano; mai la tortura di un poeta imprigionato, l'assassinio di bambini, la delazione eretta a dovere civico hanno dato un boccone di pane in più agli affamati. E come il rispetto scrupoloso di un'elezione cantonale nell'Ariège non è correlativo ai massacri africani, così l'oppressione delle minoranze o la strage degli oppositori non sono generatori di ricchezza o di elevazione del tenore di vita.35 ì4 E la tesi di René Dumont: prima il pane; le libertà civili in un secondo tempo. Risultato: la libertà è imbavagliata e il pane continua a mancare. 35 Non dimentichiamo che, contro il preconcetto europeo, sono spesso le società civili che, nei paesi del Sud, formano il maggior ser-
Non è affatto vero che ci vogliano « degli schiavi per gli uomini liberi»' 6 (Régis Debray), anzi la servitù, il disprezzo del diritto, formano una spirale infernale che si auto-rinnova all'infinito: c'è sempre abbastanza denaro nelle dittature del Sud per acquistare fucili mitragliatori, cannoni, coltelli e fili spinati, per pagare torturatori e spie, e mai abbastanza per investire in materiale agricolo, industriale od ospedaliero. Ne deriva un vincolo di necessità che unisce il deficit democratico degli Stati del Sud alla loro penuria economica.37 La repressione e lo scatenarsi delle soldatesche diventano allora l'unico lusso dei paesi senza denaro, che li trascina in una logica del tanto peggio, tanto meglio, in cui la vendetta chiama altre vendette, la miseria materiale la sete di sangue. La democrazia non è una condizione miracolosa che si possa raggiungere una volta ottenuto un elevato prodotto nazionale lordo per abitanbatoio di dispotismo e di crudeltà. Si veda ad esempio l'orribile violenza generata dal sistema delle caste in India, la lotta tra fazioni confessionali in Libano o lo spasmodico aggrapparsi ai costumi del passato nelle società musulmane, di cui il film Yol di Yilmaz Gùney è una brillante testimonianza. Molto spesso, in questi paesi lo Stato svolge la funzione di conciliatore o anche di moderatore fra gruppi rivali in una società colpita dallo choc della modernità. Nelle nazioni con uno Stato debole, gli individui si ritrovano senza autorità né istituzioni per garantire e proteggere i loro diritti minimi. Si veda, a tale proposito, il mio articolo in Le Débat del gennaio 1982: « L'Inde ou les malheurs d'une société sans Etat ». ' 6 Ci piacerebbe sapere che cosa Régis Debray, che dal 10 maggio 1981 ha avuto accesso a importanti funzioni, pensa dello scrutinio che ha portato al potere la sua parte politica: forse si tratta solo di una mascherata fra due consorterie di un paese ricco in lotta per la supremazia sul pianeta, e tale constatazione invalida la vittoria socialista e, di conseguenza, le funzioni dell'attuale consigliere del presidente? ,7 « La quinta modernizzazione, la democrazia », chiedeva a ragione il contestatore cinese Wei Jingsheng in un testo famoso pubblicato nel 1978, durante la primavera di Pechino. Per lui, un programma di modernizzazione della Cina organizzato dall'uomo forte del regime, Deng Xiaoping, non poteva realizzarsi senza la democratizzazione del sistema. Wei è stato condannato nell'ottobre 1979 a vent'anni di carcere.
Amnesty
International
Ogni anno arriva in libreria il terribile rapporto di Amnesty International, censimento sistematico delle infrazioni ai diritti dell'uomo, lista mostruosa delle violenze che gli Stati infliggono ai loro cittadini. Una tale opera presuppone che il male possa essere oggetto di una contabilità, come gli eretici del Medioevo che, credendo in una somma fissa di peccati, li commettevano tutti nella speranza di affrettare il ritorno del Messia. Sotto forma di elenco telefonico, di un'affidabilità indiscutibile, di un'imparzialità che vieta di calcolare due pesi e due misure, questo rapporto punta il suo indice accusatore dovunque gli uomini soffrono a causa dell'arbitrio: Siria, Pakistan, URSS, Africa del Sud, ogni paese è misurato senza compiacenza sul rigido metro del rispetto verso i diritti della persona. In tale confronto sistematico dell'umanità col proprio fango, troviamo ragione di disperare? Può darsi. Alla nostra epoca, tuttavia, spetta il merito di questo rilevamento. Un secolo fa, la carta saldamente stabilita del gulag planetario avrebbe riempito senza dubbio cento pagine in più: così, nella costernazione per questi assassinii su te: perché comincia sempre da se stessa, e perciò, come si impara a camminare camminando, si impara a rispettare i diritti democratici rispettandoli. E una petizione di principio: la democrazia si costruisce ogni giorno, con pazienza, a piccoli passi e conquiste minuscole, come un'educazione alla libertà, e non c'è da aspettare il momento buono in cui i popoli siano finalmente maturi. Qui l'azione deve infrangere la velleità. Come si può edificare un avvenire di benessere e d'indipendenza se, nella lotta, si comincia col ripudiare tutti questi valori? Come si può pretendere di agire in nome delle masse se si portano alle stelle gli Stati, a detrimento dei popoli sui quali essi regnano? Che cosa ci garantisce che la libertà calpestata risorgerà intatta al termine del processo? Per questo alcune li-
vasta scala, di queste esecuzioni senza processo, si fa strada paradossalmente un immenso progresso. Quest'interminabile lista di abusi e di atrocità prova non soltanto che è sempre più difficile dissimulare la repressione, ma anche che la nostra intolleranza ai misfatti continua ad aumentare. Ciò che prima era ammesso ora diventa scandaloso: l'ampiezza delle violazioni le rende veramente inaccettabili. E un'educazione della coscienza morale, e il fatto che i regimi, anche se continuano a torturare e a imprigionare, debbano trovar riparo dietro una fraseologia umanitaria per spiegare simili metodi, prova che l'idea delYhabeas corpus ha messo radici nella vita pubblica. La parola d'ordine astratta e moralistica dei diritti dell'uomo conosce così un principio di realizzazione, certo incompleto, ma che sarebbe stupido disprezzare col pretesto che è frammentario e non risponde alle massime esigenze. L'insopportabile monotonia del verbale può dunque confinare con un relativo ottimismo: è infamante figurare nel rapporto di Amnesty, e l'organizzazione britannica, anche se non le abbatte, mette in crisi tutte le dittature. bertà formali valgono più di un totalitarismo integrale; alcune conquiste sociali, anche se confinano con uno sfruttamento spietato, sono preferibili all'assenza di legislazione; tutto quel che può salvare l'uomo dall'inumano è un'occasione da cogliere. Le istituzioni parlamentari non rappresentano certo una formula magica applicabile tale e quale a ogni regime; ma ciò non impedisce che nonostante le loro imperfezioni restino superiori alle dittature, all'autocrazia di un caid o di un partito, all'onnipotenza delle cricche militari-poliziesche. Insomma, dalle ambiguità della democrazia, dall'astrattezza dei diritti dell'uomo, si vorrebbe dedurre la loro illusorietà: siccome la libertà dei paesi ricchi confina con le dittature dei paesi poveri, questa libertà non è che un paravento che
maschera un sistema d'estorsione. Bisogna dunque distruggerla. Ragionamento perverso che, per ridistribuire la libertà alla maggioranza, comincia col privarne tutti quanti. E si ricade allora nel vicolo cieco di una logica del tutto o niente: o l'umanità si risveglia un bel mattino libera dalle sue catene, o geme sotto il giogo di uno Stato eccezionale. E così che in nome di un radioso avvenire gli spregiatori dei diritti dell'uomo e delle libertà civiche si rendono complici attivi dell'età del ferro.38
38 In questo senso, il miglior metro di valutazione possibile di una democrazia risiede nella condizione riservata alle donne. Se « l'estensione dei privilegi delle donne è il principio generale di ogni progresso sociale» (Charles Fourier), dalla sorte riservata al secondo sesso si può misurare il grado di apertura di una società. Essendo la donna «veicolo dell'alterità» (Jankélévitch), essa è anche il tramite per cui l'alterità lacera il tessuto confortevole dell'identità. Donde la vigilanza delle società tradizionali sulla questione dei costumi, unico vero punto bloccato, la loro difficoltà a far uscire la sposa, la madre o la vergine dalla condizione di minori che è riservata loro in quasi tutte le religioni. In quei paesi, come prima della Rivoluzione in Francia, tutto ciò che chiamiamo « liberazione della donna » si chiama « libertinaggio», ed è attribuito in blocco all'immoralità delle classi dirigenti. Ogni donna di alto rango è una presunta sgualdrina e il potere è per forza sinonimo di corruzione dei costumi. Quando una donna si occupa degli affari pubblici, non può essere che una donna pubblica (si vedano, ad esempio, le critiche di cui sono state oggetto Indirà Gandhi in India e Sirimavo Bandanaraike a Ceylon). Il tabù del «fatto culturale» serve spesso a giustificare le peggiori vessazioni sulla persona delle donne, a perpetuare barbare tradizioni. È interessante notare a questo proposito che ai rimproveri tradizionalmente rivolti alle nazioni ricche si è aggiunto dagli anni '60 in poi quello di corruzione e depravazione: l'emancipazione femminile è considerata come la minaccia suprema che non solo svirilizza gli uomini, ma fa saltare tutte le barriere. A contrario, è ben nota la difficoltà, per una donna sola, di viaggiare in certe parti del mondo, specialmente sotto i regimi musulmani. In questo senso, la misoginia è il pilastro dell'ideologia terzomondista.
Un universale senza frontiere Ci si rifiuta di comprendere il diritto dello Zaire alla differenza. Prima, avevamo 44 partiti e 7 sindacati. Questo ha portato lo Zaire al caos e all'anarchia. Ho detto: i 44 partiti a fiume, è finita. SESE SEKO M O B U T U 3 9
Si crede di poter dimenticare i diritti dell'uomo perché l'Occidente, mentre li sventola, continua a violarli. Ma questi valori nati dal suolo europeo non appartengono più di diritto all'Europa: anche se l'oppressione ha assunto successivamente il volto della Spagna, del Portogallo, dell'Olanda, dell'Inghilterra, della Francia e degli USA, le acquisizioni morali e culturali di queste stesse nazioni sono ormai proprietà di tutti i popoli. I diritti degli individui, come le realizzazioni scientifiche, non sono né occidentali né orientali, né africani né americani. Non ci sono che due modi di trattare un uomo: il rispetto o la violenza, e questa legge non tollera nessuna eccezione. Se, in ogni uomo, va postulata l'umanità per cercare poi il cinese, il greco, lo yemenita, ciò significa che a ogni ordine sociale esistente si può contrapporre un insieme di esigenze dedotte dal concetto di umanità come realtà ultima e suprema. Ognuno porta in se stesso la medesima essenza indeformabile e nessuna specificità può essere ammessa in violazione di questo diritto. Il fatto che gli Stati ricchi tradiscano i grandi princìpi che affermano, saccheggiando certe regioni del Sud, non impedisce a questi grandi princìpi di essere insuperabili. L'Occidente, in quanto culla dei valori morali, può ogni momento essere sottratto a coloro che si chiamano occidentali, cioè alla razza bianca, il che spiega come mai sia senza volto e possa domani parlare la lingua della Costa d'Avorio, del Mali, della Cina, come il tedesco o l'inglese. Non è l'Europa che trionfa, è un frammento dello spirito europeo che si è staccato dalla sua patria d'origine ed è diventato patrimonio del genere umano. 39 Conferenza stampa data dal presidente Mobutu in occasione del viaggio di François Mitterrand a Kinshasa, 7 ottobre 1982.
I diritti dell'uomo sono il privilegio che appartiene a tutti, e di cui nessun blocco o campo è autorizzato a disporre per sé solo. Così, qualunque Stato ha diritto di fare la lezione all'Europa in nome di un'altra tradizione europea, se essa l'ha dimenticata.40 E sempre un eurocentrismo contro un altro, esattamente come i colonizzati che reclamavano l'indipendenza non facevano che rivolgere contro i loro padroni i princìpi in nome dei quali questi li asservivano. Mettere le grandi potenze in contraddizione con se stesse, ogni volta che la loro avidità le induce a intervenire fuori delle loro frontiere, vuol dire contribuire a fare di questa contraddizione esterna una contraddizione interna ai regimi stessi. In questo senso, la morale internazionale non può essere che una vigilanza e un diritto di critica perpetuo della comunità delle nazioni verso tutti quei membri che infrangono le regole più elementari del diritto, affinché diminuisca la distanza, certo inevitabile, fra le virtù che una società ostenta e quelle, più modeste, cui realmente accede.
La dannata somiglianza Tu m'hai insegnato a parlare, e l'unico vantaggio ch'io ne traggo si è che posso maledire. SHAKESPEARE,
La Tempesta
In un'opera appassionante,41 il filosofo della Costa d'Avorio Abdu Turé descrive con una sorta di disperata ironia lo stato In questo senso lo scrittore messicano Carlos Fuentes (Le Débat, novembre 1981) scongiura gli USA di cessare ogni ingerenza nell'America centrale in nome dei valori difesi dalla giovane nazione americana in lotta contro l'imperialismo britannico. Se la politica di Washington in America latina presenta « una straordinaria mescolanza d'innocenza e d'infamia, d'arroganza e d'ignoranza », questa politica può essere condannata in nome dei valori che hanno fondato gli USA, e gli Stati Uniti resteranno fedeli a se stessi in quanto comunità nata da una rivoluzione. 41 La Civilisation quotidienne en Cóte-d'Ivoire, Karthala, 1982.
di dipendenza culturale in cui vive il suo paese: la diffusione delle abitudini conviviali francesi erette a pietra di paragone del savoir-vivre, le spese di lusso per ricreare ad Abidjan il doppione dell'avenue Foch o della Tour d'Argent, l'apprendimento del francese a danno delle lingue nazionali, l'elezione della coppia come unica forma di famiglia, l'incensamento tributato ad artisti, pittori e gioiellieri parigini in missione culturale e commerciale ad Abidjan, la donna bianca proposta come ideale di bellezza, altrettanti segni di una grave crisi dell'immaginazione nazionale che, non potendo inventare, deve importare ogni cosa. E come se, vent'anni dopo l'indipendenza, le élite della Costa d'Avorio fossero rimaste obbedienti allieve della Francia, la quale continua a monopolizzare la materia grigia e l'arte di vivere. Questo fenomeno di mimetismo, com'è noto, è comune a molti paesi del Sud: un articolo del New York Times, del 13 gennaio 1982, segnalava con stupore il concorde entusiasmo delle classi medie messicane per lo stile di vita americano, al punto che la televisione nazionale, pur essendo indipendente, non trasmette altro che cartoni animati di Superman, partite di football americano e spot pubblicitari in cui bionde vaporose vantano i meriti della Coca-Cola e delle Ford Mustang. La spersonalizzazione è tale che i bambini piccoli conoscono a memoria tutte le marche importate di patatine e di corn-flakes, ma sono incapaci d'identificare l'emblema nazionale messicano o di riconoscere il monumento della Rivoluzione. Contro questa forma larvata di colonialismo culturale molte giovani nazioni, a cominciare dall'Iran, hanno reagito con violenza. La decolonizzazione le ha emancipate intimando loro di scomparire come culture, sono entrate nella modernità attraverso una logica che associa strettamente l'indipendenza e la somiglianza. Il rischio di una perdita d'identità - specialmente nei paesi che hanno condotto un'attiva politica di industrializzazione - , la mistica della salvaguardia dei fondamenti nazionali, spingono allora ogni regime del Sud a cancellare le sue eventuali analogie con l'odiato Occidente. Tu somigli all'imperialismo corrotto, dice la propaganda di questi governi ai vicini, vale a dire: porti su di te il marchio di una fi-
liazione infame. È una simmetria conflittuale che, ormai, determina tutti gli antagonismi locali e spiega ad esempio come il Marocco, che spende fortune contro il Polisario sostenuto dall'Algeria e dalla Libia, l'Egitto e la Libia che si sono fatti la guerra, l'Iraq e l'Iran che continuano le ostilità, la Siria che occupa il Libano, l'Iran che esporta la sua rivoluzione negli Emirati arabi, abbiano tutti per nemico comune, comodo alibi e malefico spaventapasseri, il piccolo Stato d'Israele. Così, società assolutamente simili possono, in nome degli stessi ideali, farsi la guerra con accanimento. La scomparsa delle differenze a livello planetario ha esasperato l'odio contro l'Occidente, divenuto ostacolo e modello universale, e ormai perseguito come l'incarnazione stessa del male. Il parto strumentale di un'identità nazionale allo stato di embrione, al di là delle divisioni tribali, etniche o religiose, assume dunque come denominatore comune un'avversione per il Nord, generando rappresaglie, massacri e guerre fratricide a catena ogni volta che un membro della comunità o un vicino è accusato di essere passato al nemico. Con il culto della purezza, dell'autenticità (Zaire), della tradizione (Iran, Indonesia), i governi del Sud credono di allontanare ogni rischio di contaminazione satanica. Ma il brutto tiro giocato alla maggior parte delle nazioni africane, oceaniche, asiatiche, musulmane o centro-americane, ogni volta che invocano le loro radici culturali contro l'Occidente, sta nel dimenticare che questa purezza è implicata strutturalmente nell'organizzazione dell'Occidente avversario e che così, credendo di confutarlo, fanno anch'esse parte del suo teatro. Si stigmatizza, a ragione, il deteriore mimetismo consumistico, ma è per ricadere subito in un altro mimetismo altrettanto disastroso, quello del delitto, dell'orrore, della violenza che rivela una vera attitudine a copiare i peggiori difetti degli antichi oppressori. Questo è l'inganno: per sfuggire all'Occidente consumatore e permissivo, ci si lancia nell'Occidente totalitario. La terrificante avanzata delle certezze si accompagna a un errore fondamentale, per cui più si proclama l'odio per le nazioni progredite, più ci si trova vicini alle forme più abiette della loro storia. Anche la retorica impiegata per respingerle è solo un succedaneo del
linguaggio terzomondista inventato in Europa, linguaggio di seconda mano, reliquia antidiluviana, come se fosse loro impossibile affermarsi senza scimmiottarci. Si tratta quindi di paesi in cui non si gode di nessuna delle garanzie e della libertà di costumi dell'Europa, ma dove, in compenso, si ritrovano tutte le vessazioni e i fastidi che si erano lasciati in patria, più molti altri che non si conoscevano. Che cosa sono, perciò, i grandi dittatori del mondo arabo, africano o sudamericano, se non la ripetizione degradata, chiassosa di tutti i tribuni, cesari e colonnelli della storia europea; che cos'è Gheddafi se non la versione beduina del Duce, Khomeini un Robespierre travestito da Ali Babà e accompagnato da un Torquemada manipolatore dei media, Bokassa l'unione buffonesca di Bonaparte e del generale Boulanger, Mobutu un brodetto di monarca assoluto aromatizzato in salsa gollista, i vari Pinochet, Castro, Galtieri, Stroessner e compagni un cocktail di mafiosi e di mini-Fùhrer ispanici? Tirannelli, fanfaroni sanguinari, Frankenstein tropicali, tutti quelli che trattano la libertà come un delitto riproducono le ore più fosche del nostro passato, e non sono che istrioni di seconda mano. Dappertutto il sacrilegio nei confronti dell'Europa e delle sue tradizioni democratiche è ancora un segno di gratitudine verso quei valori così rabbiosamente calpestati. Siccome «prendono un rimedio occidentale contro l'Occidente» 42 e si lasciano intrappolare da quest'astuzia della ragione, ognuna delle loro bestemmie e ognuna delle loro maledizioni è pur sempre un atto di pietà verso il continente che aborriscono. Ogni volta, perciò, che in nome della negritudine, dei Veda, del socialismo incaico, dell'ispanità o del Corano, si rinnegano i princìpi democratici in quanto contaminati dalla sozzura imperialista, in genere è solo per tornare a forme di dispo42 Daryus Shayegan, intervista al Matin (23 novembre 1979). Daryus Shayegan, filosofo persiano, discepolo di Corbin, ha magistralmente analizzato questa perversione nel suo bellissimo libro: Qu'estce qu'une revolution religieuse? (Presses d'Aujourd'hui, 1981), primo ed esemplare studio sull'integralismo musulmano.
tismo che la tradizione democratica ha già integrato e combattuto. Si pensi ad esempio al ben noto slogan che furoreggia adesso nel golfo Persico: né Est né Ovest, repubblica islamica. Che cos'è dunque questo mostro bifronte, bastardo nato dall'unione fra teocrazia e laicità, che, col pretesto di rinnegare l'Occidente nelle sue due varianti liberale e socialista, si accontenta di annullare reciprocamente l'Islam e la legalità repubblicana, e giustifica un arbitrio che non ha nulla a che vedere con la misericordia del Corano o con i princìpi della Repubblica?43 Contrapponendo rabbiosamente la sua eredità religiosa al pensiero tecnico-scientifico, il Terzo Mondo resta davvero l'ultimo bastione delle idee morte e adotta valori, dottrine, ideologie che l'Europa ha già sperimentato e respinto. Il miraggio del sorpasso non è che un pretesto per scatenare la violenza e beffare i popoli. Lo stesso può dirsi di una sub-vulgata marxista, di un integralismo senza pecca, ibridi mostruosi che ricadono negli errori già commessi dall'Europa, con l'idea che facciano parte dell'arsenale antieuropeo. A voler «sorpassare» l'Europa secondo il ridicolo progetto di Frantz Fanon, si cade nella riproduzione inconsapevole delle forme più degradate delle società industriali. Non c'è un al di là della democrazia. Popoli del Terzo Mondo, ancora un altro po' di Occidente per diventare veramente voi stessi!
"3 Slogan che richiama « Né destra né sinistra » dei fascisti dell'anteguerra e « N é gulag né hamburger» della nuova destra attuale. Come non ricordare, d'altra parte, che lo spirito antioccidentale è stato appannaggio dei movimenti panslavisti e pangermanisti nella Russia prerivoluzionaria, nella Germania e nell'Austria prehitleriane, che esaltavano tutti l'irrazionale profondo e ricchissimo dell'anima russa o del popolo tedesco, in opposizione alla superficialità e corruzione dell'Occidente? Si veda l'analisi di tali correnti nell'opera magistrale di H A N N A H A R E N D T , The Origins of Totalitarism, 1 9 5 1 . [Tr. it.: Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1 9 6 7 . ]
L'Europa, cioè il pensiero critico Il dubbio, la nostra moderna corona di spine. T . E . LAWRENCE
Se c'è qualcosa che l'Europa può insegnare agli altri, è il rimettere in discussione se stessa, cosa che essa ha praticato in maniera sistematica. Soltanto l'Europa ha rischiato la sua identità unificando le sue culture con l'angoscia e il dubbio, offrendo l'esempio unico di un mosaico di etnie e di società che hanno saputo prosperare nel dubbio, nella costante minaccia del loro annientamento. La convergenza unica di un'area geografica e culturale spiega come, agli antagonismi caratteristici delle regioni e delle credenze, si sia aggiunto l'elemento fondamentale della divisione di ciascuna da se stessa.44 Appena nata, l'Europa si leva contro se stessa, e perciò, avendo posto il nemico nel proprio cuore, ha potuto aprirsi alle altre culture senza per questo scomparire. Unica cultura a vedersi nello sguardo dell'altro - sia pure immaginario - , nessuna come lei ha dubitato tanto della sua identità e quindi concesso tanto spazio all'alterità. Questa piccola penisola sulla punta dell'Asia è la sola civiltà nella Storia che abbia saputo « pensare » i suoi crimini. E la candida speranza di rinnovare il continente europeo con l'odio per l'Europa è il gesto occidentale per eccellenza dal Rinascimento in poi.45 Questa specie di godimento che si prova nel mettere alla berlina la propria patria, nel maneggiare lo 44 Sul fatto che l'Occidente abbia rivelato alle altre società che la soluzione all'esistenza umana non esisteva, prima Nietzsche, poi Husserl, Valéry, Malraux, Raymond Aron, e soprattutto, oggi, Leszek Kolakowski e Milan Kundera, hanno recato ciascuno illuminanti contributi. Un universitario svizzero, André Reszler, ha anche dedicato un intero libro alla tradizione autocritica dell'Europa: L'intellectuel contre l'Europe, cit. 45 Così la nascita dell'Europa laica è una divisione: la firma, da parte di Francesco I, di un'alleanza col sultano Solimano il Magnifico contro Carlo V, cioè la fine delle solidarietà religiose derivate dalla cristianità. Si veda J . - B . D U R O S E L L E , L'Idée de l'Europe dans l'Histoire,
scalpello con sicurezza e violenza nel proprio cuore, è peculiare solo alle nostre latitudini. Questa falsa rottura non è dunque che una doppia fedeltà: la rivolta blasfema degli intellettuali non può dissimulare nell'antioccidentalismo un fenomeno ambiguo, partecipe esso stesso della realtà che denuncia. Infatti il successo di questo sistema di rimettersi in discussione lascia pensare che la «malvagità» dell'Occidente sia soltanto uno dei suoi aspetti e non comprometta per nulla la notevole elasticità che gli consente di dirigere contro se stesso i più acerbi rimproveri. Insorgendo contro la propria società, il critico prova che essa non è più come la descrive, dato che appartiene anche lui a tale società come a una delle sue alternative. Così i nemici dell'Europa sono anche suoi amici; quando la si ferisce, questa ferita la salva, il traditore non è che una variante del partigiano, perché apre una via di contestazione che nega alla tendenza dominante il monopolio della verità. Dopotutto, sia la guerra d'Algeria sia quella del Vietnam non furono arrestate anche dalle opinioni pubbliche della Francia e degli Stati Uniti? E le manifestazioni per la pace a Parigi come a Washington, la fedeltà del contingente ai valori repubblicani in un caso, la disgregazione dell'esercito americano nell'altro, non hanno contribuito, quanto il coraggio del FLN e dei Vietcong, alla sospensione delle ostilità? Nei paesi democratici, la forza non riesce a conservare ciò che la coscienza le contende. Perché l'incriminazione del sistema faccia parte fino a tal punto del sistema stesso, perché tutta la storia coloniale sia accompagnata dall'impetuosa corrente dell'anticolonialismo, da Las Casas e Montaigne fino a Sartre, bisogna che in Europa vi sia, accanto a un principio di espansione e di profitto, uno spazio di tolleranza, un pluralismo di pensieri e di fedi."16 Il terzomondista rivendica il prestigio del nemico pubblico; Denoél, p. 7 2 , e B . V O Y E N N E , Histoire de l'idée européenne, Payot, Paris, 1980, p. 70. Quanti sanno che l'anticolonialismo è un'ideologia già compiuta alla vigilia della Rivoluzione francese, i cui argomenti non saranno più rinnovati in seguito? Si veda a questo proposito M A R C E L M E R L E ,
ma non merita altro che il titolo di supporter pieno di vergogna. Come si può sfuggire all'eurocentrismo, dato che la negazione di sé, l'autocondanna, l'apertura agli altri, sono stati fondati storicamente solo dall'Europa? L'Europa si afferma nella sua presenza e nella sua pienezza all'interno stesso del dubbio che pretende di negarla: essere europeo significa sempre, in un modo o nell'altro, essere il nemico di se stesso. L'Occidente non è in crisi, è la crisi per eccellenza, cioè una certa insoddisfazione fondamentale, una confusione che va in cerca di se stessa e impernia tale ricerca sull'infinito e sul riesame permanente. E si potrebbe dire dell'Occidente quel che Borges diceva di Shakespeare, cioè che, nell'intimità più profonda del suo essere, non era nessuno, per quanto si fosse indotto a simulare di essere qualcuno. Largo spettro di pensieri contraddittori viventi sotto lo stesso tetto come una grande famiglia rumorosa e litigiosa, coesistenza polemica di culture senza che alcuna giunga a eliminare le altre (unico nella Storia, il nazismo, oggi imitato dal sovietismo, ha tentato di uccidere l'Europa come diversità antagonistica), l'Europa non è mai stata un impero, sebbene alcune nazioni europee siano state imperialiste. Quindi non si può dedurre l'Occidente dalla conquista coloniale, più di quanto si possa dedurre l'Islam dagli eccessi iraniani o la Cina dai crimini della rivoluzione culturale. Una civiltà colpevole delle peggiori atrocità come delle più sublimi realizzazioni non merita di essere qualificata con un solo epiteto, perché non ha mai assoggettato la sua esistenza a un solo principio: il « genocidio » è ben lungi dall'essere un'invenzione occidentale, è l'Occidente che ha permesso di pensare certi misfatti come crimini contro l'umanità,47 è lui, e soltanto lui, che ha dato un senso preciso alla parola « barbarie ». L'Anticolonialisme européen de Las Casas à Karl Marx, Armand Colin, Paris, 1969, p. 22. 47 E quanto in apparenza Simone de Beauvoir non vuol capire, quando scrive: « In fatto di barbarie, l'Occidente ha dato e dà ancora prove abbastanza evidenti perché sia indecente impiegare questo termine a proposito di pratiche che, per quanto crudeli e assurde [si
Non si può negare la superiorità dell'Europa se non in nome di una certa idea dell'Europa, attraverso una dinamica senza fine, e il suo merito principale è d'aver prodotto l'anticolonialismo, il quale è solo un'altra maniera di essere occidentale nel senso del rifiuto. Seguendo l'esempio del Vecchio Mondo, nessun popolo oggi può sottrarsi al dovere di pensare contro se stesso
tratta della mutilazione sessuale delle bambine in Africa], non hanno nessun rapporto con i campi nazisti, l'inferno dell'America latina o il Gulag» (Les Nouvelles littéraires, 29 ottobre 1981). Eppure, quando i Vietcong accusavano gli USA di atrocità, quando l'oLP gridava - a torto - al genocidio durante i bombardamenti israeliani su Beirut, essi riprendevano dei concetti foggiati in Occidente per difendersi contro nazioni occidentali. La forza dell'Europa è un paradosso spinto all'estremo: essa ha inventato tutto, sia l'oppressione sia la democrazia, sia la barbarie sia la sanità; il crollo dello Stato feudale ha prodotto la nascita dello Stato razionale, l'arbitrio monarchico ha generato la democrazia, l'assolutismo medievale ha suscitato il mondo relativizzato del Rinascimento, l'oppressione della Chiesa la libertà di coscienza, gli antagonismi nazionali l'idea di comunità internazionale. Simile a un carceriere che vi getta in prigione e vi fa scivolare in mano le chiavi della cella, l'Occidente ha dato al mondo insieme il dispotismo e la libertà. Il danno subito dai popoli colonizzati fu un trauma, un pregiudizio incalcolabile, ma anche una sfida, un appello al genio peculiare dei popoli soggiogati. Se il colonialismo fosse stato soltanto l'oppressione fosca e stupida di avventurieri assetati d'oro e di sangue, come spiegare che le nazioni colonizzate, subito dopo l'indipendenza, abbiano tutte adottato liberamente sistemi politici e valori ereditati dalla vecchia metropoli? La parola « E u r o p a » o «Occidente», screditata dall'uso isterico che ne hanno fatto certe dittature o gruppi di estrema destra, è diventata un oggetto d'orrore, un termine quasi fuorilegge che va messo fra virgolette, tanto il suo uso è ambiguo. Non è tempo di rivalutarlo, non è tempo che la sinistra si riappropri dell'Europa e non ne lasci più il monopolio ad alcuni nostalgici di dubbia fama o despoti morbosi che ne sfigurano il senso?
Contro il seno materno Non vi sono casi in cui il rifiuto di servire è un dovere sacro, in cui il tradimento significa il coraggioso rispetto del vero? «Manifesto dei 121» (1961)
Ma è una verità che bisogna ricordare con forza agli stessi europei. Non si vede in virtù di qual privilegio le circa trenta nazioni che compongono questo continente dovrebbero essere all'improvviso gratificate di una verginità che del resto non hanno mai avuta. L'affermazione assolutamente esatta secondo cui i paesi sottosviluppati non sono esenti più di noi dal peccato di violenza non toglie nulla al fatto atroce del genocidio degli indiani dell'America latina, alle guerre micidiali dell'imperialismo e della decolonizzazione, allo scandalo intollerabile della divisione fra ricchi e poveri, che costituiscono una negazione mostruosa e irreparabile per sempre della giustizia. Sarebbe una penosa vigliaccheria, voler attenuare la nostra responsabilità riferendoci a quella dell'umanità in generale. Ancora una volta, la cattiva coscienza è una malattia che sarebbe sventura gravissima non avere quando la situazione lo esige. Nelle difficili circostanze di una guerra ambigua, di un massacro o di un eccesso sanguinoso, il primo dovere di una democrazia è quello di diffondere le immagini che la disonorano, di riferire i fatti che la condannano. Si possono considerare solo con orrore le amministrazioni, i partiti politici o gli intellettuali che tendono all'elogio incondizionato del « mondo libero » e con un tratto di penna cancellano il fatto che il sublime europeo è fiorito anche su un terriccio di sangue, di schiavitù e di massacri. Un paese come gli Stati Uniti ha pagato caro, in questi ultimi anni, il suo sogno di una pia semplicità nel culto dei padri fondatori, la sua incrollabile convinzione d'essere la patria del bello, del buono e del bene, la sua ingenua credenza che tutto quanto è buono per lo Zio Sam è buono per tutto il pianeta.49 La stupidità e la cecità di 4L' Così l'America è un imperialismo impacciato e in peccato, se ci è permessa quest'assonanza, mentre nell'Unione Sovietica nessuna op-
certi dirigenti delle nazioni evolute che mantengono nel retrobottega dei Caligola sanguinari in spregio ai diritti più elementari dei popoli, sono più pericolose per l'Occidente dei suoi critici più chiassosi. Sono loro che, lusingando i dittatori folli, affrettano il declino del mondo democratico e preparano la via regia al comunismo. Le politiche meschine che, confondendo la causa della libertà con gli interessi di un'oligarchia, difendono a casaccio la nozione di un « campo occidentale », fanno, loro malgrado, il gioco del Cremlino. Come se una piccola parte del mondo potesse continuare a basare la sua vita su uno smisurato accaparramento delle risorse planetarie! Come se una cosa utile all'Europa, ma pregiudizievole all'umanità, non fosse un delitto! In linea generale, non si può nutrire che una vivissima repulsione verso tutti coloro che assegnano a un popolo o a posizione interna di qualche importanza sopraggiunge a frenare, o anche solo a ostacolare le decisioni del Partito. Questa differenza è capitale: essa fa dell'URSS l'unica nazione veramente imperialista nel mondo, che regna sull'Europa dell'Est, occupa militarmente l'Afghanistan, interviene tramite i suoi satelliti cubani o vietnamiti in Africa australe, in Asia o in America del Sud. Per aver stabilito senza discernimento l'equivalenza degli imperialismi americano e sovietico, lo scrittore della Germania occidentale Gùnter Grass, in un articolo tristemente memorabile (Die Zeit, autunno 1982, ripreso in Le Nouvel Observateur dal 1° al 7 gennaio 1983), ha osato paragonare il movimento sindacale polacco di Solidarnosc con l'attuale governo del Nicaragua, entrambi alle prese col Super-Grande corrispettivo. Egli ha scritto sul regime sandinista che imperversa a Managua, nel momento in cui esso perseguita gli oppositori, riempie le carceri e deporta gli indiani miskito, queste righe che non sembravano più possibili nel 1983, soprattutto da parte di un intellettuale: « L e rivoluzioni francese, americana e russa hanno conosciuto la ghigliottina, la legge del taglione, la pallottola nella nuca e le esecuzioni in massa. Finora, tutte le rivoluzioni hanno annegato nel sangue la loro volontà teorica di fare la felicità del genere umano. La rivoluzione sandinista ci offre per la prima volta l'esempio del contrario. In un piccolo paese stremato dalle esazioni, scarsamente popolato, le parole del Cristo sono state finalmente prese alla lettera». Si può andare più oltre nella grullaggine, nella contro-verità e, per dirla tutta, nell'incoscienza?
uno schieramento, a qualunque lingua o latitudine appartenga, una missione di redenzione nei confronti del mondo intero. Gli apostoli di fresca data del liberalismo - in generale ex castristi o maoisti convinti, tutti uniti nella delusione ricevuta dal « Terzo Mondo » - hanno rettificato il tiro della loro macchina per scrivere e oggi ci mitragliano in difesa della libera iniziativa, delle multinazionali, della cristianità, ecc.; ma, facendo questo, si accontentano di rovesciare la clessidra, di tornare al punto di partenza. Lo sciovinismo da guerrieri in pantofole degli occidentalisti a tutta prova vai bene le riduzioni sommarie dei terzomondisti. Questo duplice fanatismo è l'oppio dei semplici di spirito, la cui prima caratteristica è di essere rovesciabile come un guanto e di servire tutte le cause, snaturandole. I Lysenko della Storia hanno imperversato abbastanza. Senza vergogna, gli uni e gli altri triturano i fatti, li calpestano, li adulterano per non lasciar sussistere più nulla. La loro frenesia ideologica arriva fino alla devastazione, fino alla soppressione pura e semplice della realtà. Se si vuol disarmare il circolo mortale dell'odio e della maledizione, non bisogna riprendere l'eterno gioco della malafede, incolpare le nazioni che hanno da poco acquisito l'indipendenza per discolpare noi stessi, come se, sul conto profitti e perdite fra l'Occidente e il Sud, l'indice fosse tornato a zero! Nel regno del conformismo, tutti i discorsi finiscono per equivalersi. Fieri del nostro paese, delle sue prodezze tecnologiche o culturali, perché dovremmo giustificarlo ogni volta che in suo nome si commette un'azione abietta? Ogni occidentale porta la responsabilità storica della cultura che è la sua: solidale con la sua grandezza, deve esserlo anche con i suoi aspetti meno gloriosi. Contro la colpevolezza passiva, bisogna mantenere viva la fiamma della collera e dell'indignazione; fare il mea culpa per il colonialismo, oggi, non significa seppellirlo sotto una pietosa amnesia, ma insegnarlo agli scolari, insegnar loro di quali infamie la nostra patria si è mostrata capace, su quanti cadaveri la nostra repubblica si è edificata, quali sono stati i torturatori e i complici che hanno perpetrato i loro misfatti. Non si cancella un errore commesso dimenticandolo ma affrontandolo, svelandolo fin nelle sue più segrete ignomi-
nie. Chi oserebbe negare che la Francia non ha un debito verso il Maghreb e l'Africa nera, l'Inghilterra un obbligo verso l'India e l'Africa australe, gli USA infine un dovere morale nei riguardi dell'America latina? Poiché vi sono stati nella nostra civiltà episodi iniqui, epoche di vergogna e d'orrore, non abbiamo il diritto d'incensarla beatamente, di basare la nostra felicità sull'indifferenza verso gli altri. E ancora lontano il tempo in cui un sospetto mortale cesserà di pesare sui più smaglianti successi della vecchia Europa e del Nuovo Mondo.50
I pericoli dell'odio di sé Bisogna temere colui che odia se stesso perché noi saremo le vittime della sua vendetta. Abbiamo dunque cura d'indurlo ad amare se stesso. NIETZSCHE,
Aurora
Da quanto precede, risulta che l'odio dell'Occidente è in realtà odio di tutte le culture in una sola. Si comincia col non trovare più niente di amabile in sé e si finisce col disimparare ad « Un fantasma aleggia sull'Europa e 0 suo passato, la cattiva coscienza di un successo brillante che contraddice i princìpi stessi grazie ai quali ha potuto realizzarsi: l'affermazione della libertà che si muta in volontà di dominio, la ricerca dell'eguaglianza che genera l'asservimento, la proclamazione della fraternità, fonte di tante lotte sanguinose e divisioni senza speranza... Il nostro avvenire è gravato dal sospetto verso noi stessi, che provoca le lacerazioni mortali della nostra giovinezza» (Mons. Lustiger, discorso in occasione dell'incontro delle Chiese di Germania, Bonn, 8 ottobre 1981). 50
« In Europa, a breve intervallo, sono scoppiate due guerre mondiali che hanno provocato infinite sofferenze in molti popoli e sprofondato l'intera umanità nella paura e nel terrore. Dall'Europa si sono diffuse in tutto il mondo le ideologie che, in molti luoghi, esercitano un'influenza preponderante come una malattia importata. Questa comune colpevolezza significa per l'Europa una responsabilità particolare, non fosse che per dare un contributo decisivo alla soluzione dell'attuale crisi mondiale» (Giovanni Paolo il, discorso al congresso dell'Istituto culturale romano, 12 novembre 1981).
amare gli altri. Se il valore che si attribuisce alle società straniere è in funzione del disprezzo che si nutre per la propria, c'è da scommettere che quest'entusiasmo declinerà non appena ci si sarà riconciliati col proprio ambiente, o che esso naufragherà nel migliore dei casi in un eclettismo estetizzante. Una dottrina che predica la liberazione dell'umanità non può appoggiarsi sul disprezzo di una civiltà presa nel suo complesso; l'uomo non lavora a rimpicciolirsi, ma ad accrescere il suo potere; e si hanno tutte le ragioni di diffidare di un umanismo che comincia con lo spopolare il mondo per un quarto della sua superficie e invita a respingere una società nelle tenebre del disprezzo e dell'oblio. Grandi religioni, filosofie, credenze sono talmente concatenate che, rinnegandone una, si rinnegano tutte le altre. E dunque assurdo pensare che il culto sistematico della vergogna ci aprirà come per miracolo alle società lontane, che cancellerà i malintesi. Si dirà tuttavia che questo senso di colpa è la nostra ultima possibilità di conservare un minimo di riguardo verso i diseredati? Si tratterebbe di puro cinismo: sarebbe ammettere che, a parte un vago disagio, nulla ci unisce a loro. Poiché l'abbandono dichiarato dell'eurocentrismo ne è ancora una manifestazione involontaria, la prima condizione per accogliere gli altri risiede in una legittima deferenza verso la nostra propria cultura: torniamo a essere amici di noi stessi per essere di nuovo amici degli altri. Si fa un mediocre uso degli altri quando si è stanchi della propria esistenza. Contestiamo che l'avvenire e l'amore del « Terzo Mondo » debbano passare attraverso un ripudio dell'Europa; e più ancora che il futuro dei paesi industrializzati sia in funzione di un oblio dei paesi del Sud. Ogni volontà suicida reca in sé un nichilismo generalizzato che mira alla rovina del mondo.
Conclusione Non c'è che un rimedio all'amore: amare di più...1
1
Henry-David Thoreau.
Colui che vede il lampo sorgere a Oriente aspira all'Oriente; se per lui splende a Occidente, che aspiri all'Occidente. Il mio desiderio è il lampo nel suo fulgore e non nei luoghi che tocca. IBN ARABI
Su questa dissonanza, vogliamo fondare la nostra fede Se l'arditezza delle tue imprese me ne cela a volte l'atrocità, sono sempre egualmente confuso, sia che i tuoi delitti mi agghiaccino d'orrore, sia che le tue virtù mi riempiano d'ammirazione. DIDEROT, «Discorso per Raynal», 1781
Era la tranquillità di coscienza farisaica e l'autodenigrazione sterile, l'unica predilezione che possiamo avere per il nostro mondo sta nella dissonanza. L'ammirazione per l'Europa e la diffidenza per l'Europa, entrambe fondate su prove evidenti, appaiono così in un antagonismo insuperabile. Ognuna aspira al rango di fede universale e presenta l'altra come una forma di accecamento, ma la loro comune verità sta nella loro unione. In altri termini, sia la requisitoria antieuropea sia l'eurocentrismo aggressivo devono essere affermati insieme: poiché non si possono eludere le opzioni laceranti, bisogna dichiarare legittimi tanto il sospetto quanto l'adesione. Così, nei confronti dell'Europa, bisogna farsi difensori di una duplice tradizione, quella del consenso e quella della contestazione. La nostra storia attuale continua a presentare una somma particolarmente imponente di fatti scandalosi, eppure non si può dimenticare che tutto quanto è stato compiuto di grande in Europa, lo è stato contro i poteri istituiti in nome di un'Europa ideale: la repulsione si accompagna a un'attrazione irresistibile; di fronte a essa, non si può essere che follemente innamorati e follemente indignati. La coesistenza di affermazioni incompatibili si spiega col fatto che ciascuna di esse è sentita come necessaria da colui che la proferisce. Il dovere della perseveranza implica una distanza critica. Più rispetto
l'Europa, più la metto in discussione; più la metto in discussione, più la sostengo; il cerchio si chiude, si socchiude, si richiude, ma ogni volta a un esponente superiore. La fuga in avanti nell'odio di sé non ci fa sfuggire alla vergogna, la rende semplicemente sopportabile privandola del coefficiente d'arbitrio che ne faceva un sentimento rivoluzionario; così, convertito alle suggestioni dell'irriverenza, l'europeo non ha disimparato ad amare il suo ambiente; attaccato all'Europa, non deve dimenticare gli insegnamenti della Storia. La negazione della negazione non disfa interamente il lavoro della prima: il dubbio sussiste a mezza voce, anche nella pienezza che ne conserva intatte le acquisizioni, per una specie di lapsus controllato. Una voce segreta ci sussurra all'orecchio che nessuna delle due posizioni è sostenibile separatamente; anche nel sacrilegio, bisogna mantenere una parvenza di gratitudine verso i valori che si calpestano. Se odio c'è, esso si esprime sempre in nome di una venerazione più profonda. E l'amore per l'Europa che ci detta una prudente riserva nei riguardi delle avventure militari o coloniali in cui essa vorrebbe impegnarsi. E un moto dell'animo che ci obbliga a condannare, in nome di una certa idea dell'Europa, le azioni, i traviamenti di certi europei.2 Lo slancio d'amore non è mai abbastanza impetuoso da oltrepassare l'autoesame; quest'ultimo, in cambio, non può cancellare l'inclinazione; l'identità europea è quest'alternanza convulsa. Costretti a prestare contemporaneamente attenzione a due valori, dobbiamo restare fedeli al mirabile genio del Vecchio Mondo senza rinnegare i sacrifici che ogni volontà di giustizia esige, dobbiamo seguire la via di un'affiliazione vigilante a eguale distanza dal nichilismo suicida e dalla soddisfazione di sé. Alimentare un pensiero ribelle, distruttore degli idoli, 2 Così Francis Jeanson, durante la guerra d'Algeria, accetta di sostenere il FLN per mantenere le possibilità di un'amicizia franco-algerina dopo la guerra. Il tradimento del potere francese è compiuto per la salvezza della Francia. Si veda H E R V É H A M O N e P A T R I C K R O T M A N , Les Porteurs de valises, Albin Michel, Paris, 1979, p. 91.
e un pensiero della celebrazione, un pensiero commemorante che preserva e un pensiero deviante che disintegra: forse solamente a questa condizione si potrà combinare lo sforzo critico dell'Illuminismo e la capacità inventiva del Rinascimento, affermare la forza della ragione e la potenza dell'immaginazione, essere assojutamente moderni perché decisamente tradizionali. La riconciliazione dei fondatori, uomini del tumulto, e degli imprecatori, uomini del rimorso, è l'unica foriera di prospettive, forse drammatiche, ma appassionanti da esplorare.' L'europeo non deve mettere fine alla guerra che è in lui stesso, ma trasformare il suo malessere in principio di conquista: là dove c'è volontà di disunione, bisogna mostrare la continuità profonda; là dove c'è rispetto della tradizione, bisogna discernere la novità che emerge. Le trasformazioni della Storia, le divergenze di interessi, la cupidigia dei blocchi, ci obbligheranno ancora per molto tempo ad amare la nostra cultura da amanti infelici, ossessionati dalla cattiveria della compagna e incapaci di lasciarla, costretti a stigmatizzare dove vorrebbero adorare. Essere europeo oggi, significa parlare simultaneamente le due lingue dell'entusiasmo e della reticenza. Non cicatrizzandosi, la nostra perplessità salvaguarda ogni momento una possibilità di salvezza. Se ci si vuole amare senza alcun accentramento ossessivo, non c'è altra soluzione che questo interminabile balletto tra rottura e fedeltà.
3 Tale è forse il genere di fascino - o di fastidio - che esercita Israele su un europeo. Stato pioniere, votato alla morte fin dalla nascita dai suoi vicini, serve insieme da modello e da spauracchio per un'Europa immersa da troppo tempo nell'incertezza e nell'indolenza. Questi « Cosacchi che parlano ebraico » (la definizione è di Begin a proposito di Sharon), sprovvisti di ogni cattiva coscienza, che ravvivano il mito del fondatore e del soldato, ci ricordano a giusto titolo che una società è forte solo ai suoi inizi, quando ha la volontà di battersi e di imporsi. Lo si approvi o no, non si può non riconoscere in Israele un passato assai prossimo e un invito sempre vivace alla resistenza.
Ci saranno sempre gli altri Il riconoscimento dell'umanità in ogni uomo ha come conseguenza immediata il riconoscimento della pluralità umana. L'uomo è l'essere che parla, ma esistono migliaia di lingue. Chiunque dimentica uno dei due termini ricade nella barbarie. RAYMOND ARON
In apparenza, qui ci siamo dedicati al rassicurante lavoro della demistificazione, come se conoscessimo finalmente l'atteggiamento giusto da tenere verso l'Altro. Tuttavia non siamo portatori di nessuna luce, non annunciamo l'alba radiosa delle autentiche fraternità. E troppo facile schernire un'utopia, appena le si sostituisce una chimera altrettanto contestabile. Lo smascheramento è a sua volta una nuova maschera e, in materia di rapporti con gli altri, non si fa che passare da un errore all'altro. Non è questione di rimpiazzare il terzomondismo nelle sue varie incarnazioni con una rifrittura che soccomba anch'essa all'illusione d'essere infallibile e di poter infine sovrastare euforicamente l'universo. La critica radicale delle diverse visioni della sinistra occidentale nei riguardi dei paesi del Sud non sfocia in un nuovo sapere, ma in una nuova indecisione. All'inizio di ogni rapporto con l'Altro v'è il malinteso. Perché ci saranno sempre gli altri: per quanto tollerante, liberale possa diventare la cultura occidentale, essa non farà mai dell'alterità una parte dell'identità. Ci saranno sempre gli altri, cioè non siamo soli al mondo, trascendenze che non sono le nostre continuano a rubarci la nostra esistenza. Per questo l'esotismo, come il razzismo, sono votati al più bell'avvenire, perché, per eliminarli, bisognerebbe distruggere ciò che li suscita: l'estraneità degli altri. Se ogni cultura è per se stessa un assoluto che presuppone solitudine e autosufficienza, tutte le culture, lungi dal completarsi, sono supplementari, si superano, si sovrappongono, si aggrovigliano come le liane nella giungla. Non c'è un cosmo armonioso, ci sono troppe umanità distinte. La pretesa di ciascuna a una stessa sovranità genera la tensione: l'universo mi è ostile perché io non sono tutto
Oriente/Occidente Se oggi è diventato assurdo contrapporre un Oriente spiritualista a un Occidente materialista, se non è più possibile sostenere, come ancora diceva Elie Faure nel 1932, che « l'orientale ha vissuto nel soggetto fino al punto di dimenticare l'esterno », e « l'occidentale si è aggrappato all'oggetto fino al punto di dimenticare l'interno » (« D'autres terres en vue», Nouvelle Revue critique), l'alternativa Oriente/Occidente resta pertinente non perché i due termini combacino come le due metà complementari di un uovo, ma perché ciascuno è il troppo dell'altro, ed essi si sfuggono come i due poli di una calamita. Che cosa importa, in fondo, il contenuto che si colloca in essi: è l'antagonismo che è ricco di significato, il tic-tac semantico che permette di far funzionare uno scatto, di generare felici sortite. Le categorie sono confuse: si può parlare ormai di un affarismo asiatico e di un misticismo europeo, e l'Oriente può lavorare sul modulo dell'esperienza, l'Occidente sul modulo della rivelazione. L'essenziale è mantenere su ciascuno di essi il punto di vista dell'altro: si veda ad esempio il lavoro mirabile di un Roland Barthes, che contrappone un Giappone della raffinatezza e della civiltà all'ideologia del naturale e dello spontaneo che fiorì in Europa e in America alla fine degli anni '60.* Solo a questa condizione si potrà continuare a fare dell'Oriente il luogo di un'utopia critica, efficace fermento contro l'assopimento nell'autarchia dei nostri comportamenti. * L'Empire des signes, Skira, Genève, 1971. [Tr. it.: L'impero dei segni, Einaudi, Torino, 1984.]
l'universo, e l'allergia nasce in primo luogo dalla diversità. La guerra, l'incomprensione, la conquista, prima di essere il frutto della malvagità degli uomini, derivano dalla giustapposizione delle molteplici espressioni dell'essere, che la loro pluralità sconvolge e terrorizza.
Esiste certo un genere umano come entità biologica, concetto comune che riunisce tutti i nostri simili. Che tutti gli uomini siano fratelli è una verità astratta finché non ho provato una fraternità concreta verso un uomo in carne e ossa. E questo rapporto scivola nell'equivoco, nell'indistinguibile divisione fra antipatia e attrazione. Ogni amicizia per lo straniero prende la via di una necessaria riserva: quali che siano le mie capacità di accettazione, la grandezza del mio cuore, non potrò mai eliminare l'esteriorità di colui che viene a me. Anche se il globo fosse un recipiente chiuso in cui venissero a condensarsi le essenze del Nord e del Sud, dell'Ovest e dell'Est, mi sarebbe impossibile accoglierle tutte senza selezionarle e trasformarle. Non è vero che a forza di dialogo e di buona volontà i popoli e le nazioni potranno riconciliarsi e intendersi sui princìpi fondamentali: la divisione delle credenze e delle razze ostacola per sempre una comunicazione perfetta: l'altro resta impenetrabile, né così diverso né così vicino come lo si crede, e per questo la trasparenza dell'umanità a se stessa è un sogno irrealizzabile. Ma bisogna immediatamente rovesciare questa proposizione e integrarla così: davanti allo straniero, la fonte della paura e la fonte della meraviglia sono un'unica e stessa fonte. La porta che separa è anche il ponte che unisce e, a questo stadio, la convivialità mal si distingue dal conflitto, tutto è legato mentre tutto è dissociato. Non è « la società occidentale che è un miracolo» (Broyelle), miracoloso è il rigoglio delle società a fianco a fianco, al di fuori di tutte le qualità o doti eccezionali che rendano una data cultura particolarmente amabile o affascinante. La Terra sempre più grande, le lingue differenziate, le molteplici patrie, porteranno sempre gli uomini a opporsi e a simpatizzare. Il mio primo senso di gratitudine verso l'altro, africano, asiatico o sudamericano, è di saperlo differente da me. La babele delle lingue e delle razze è insieme uno scandalo e un prodigio, siamo posti a confronto con un mondo di cui non abbiamo la chiave, incapaci tanto di assorbirlo quanto di ignorarlo. Forse è tempo di accettare questo strano fatto dell'alterità; non solo di accettarlo, ma di svilupparlo in un modo nuovo, che non sia più fondato sul disprez-
zo o sull'idealizzazione. Affermare la perfezione dell'uomo nuovo ha costituito certamente una tappa necessaria dopo l'ingiusta mutilazione operata dal colonialismo. Ma non si può basare indefinitamente una lotta su una contro-verità.
Le attrazioni passionali Quest'immenso altro mi ha salvato, molto più di quanto avrei voluto. MAURICE BLANCHOT
Perché la nostra simpatia deve sempre andare solo ai popoli sofferenti, salvo a dimenticarli una volta che non sono più colpiti dalla sventura? Perché solo i paesi in cui le libertà sono minacciate, i bambini affamati, gli oppositori torturati, attraggono la nostra attenzione? Eppure dovremmo sapere che dalla compassione non nasce nessun vincolo durevole, e che non ci si innamora di un miserabile, come non ci si innamora di una curva d'accrescimento. O, piuttosto, la filantropia non è nulla se non è innanzi tutto attrazione appassionata verso Puna o l'altra etnia, e l'universalismo morale dev'essere sempre sostenuto da un particolarismo di tipo sentimentale. Non che lo stadio etico preceda o superi lo stadio estetico, entrambi si rafforzano e coesistono nel mistero dell'alterità: la mia responsabilità morale può essere alimentata solo da un entusiasmo pieno d'ammirazione per un altro. Al di là del patetico, c'è ancora e sempre l'amore, e non esiste rapporto etico in cui non entri in primo luogo un rapporto affettivo. Né la generosità né il dovere possono bastare a stabilire solidi legami, e i soli imperativi della coscienza non sono quelli che di solito orientano gli interessi degli individui. Qui sta il pericolo di una politica dei diritti dell'uomo troppo esclusiva, quello di una giustizia indifferente che si contenta di riparare i torti, che non vuole favorire una cultura più di un'altra, e si limita a intervenire dovunque vi sia dolore, paura e sangue. Il carattere impersonale di questa triste virtù senza spontaneità né simpatia rischia di dare dei paesi del Sud un'immagine misera
e quindi menzognera. La convinzione necessaria a far trionfare una grande causa non può certo nascere dalla meschinità e dall'egoismo, ma ancor meno dalla sola carità. Nessuna forza ci spingerebbe a guardare al di là dei parapetti del Vecchio Mondo se laggiù non vi fosse l'attrazione di un'umanità, che ci magnetizza e ci sconcerta. Non si lascerebbero mai le proprie frontiere nazionali se l'Altro lontano non fosse innanzi tutto seduzione, se non costituisse da solo la nostra ragione di cercarlo. Io non basto a me stesso e l'incanto mi viene soltanto dall'esterno. L'uomo straniero mi ispira, prima di impietosirmi e di stupirmi, e il mio obbligo verso di lui sgorga da un magnetismo irresistibile. Mi ispira perché è il luogo da cui posso sfuggire a me stesso, a questa terribile aderenza a me stesso che è il mio destino. Come non chiedere nutrimento, sogni, speranze all'oltremare? Non si ammira la Cina, il Marocco, l'India o il Giappone per buona volontà condiscendente o pura curiosità archeologica, ma perché le culture rispettive di quei paesi sono, semplicemente, altrettanti capolavori di una bellezza da far venire le lacrime agli occhi. Laggiù viviamo accanto a esseri la cui intelligenza, raffinatezza, grazia ci sbalordiscono. I tropici non sono soltanto un oggetto di scienza, ma il luogo sognato di un altro possibile destino. A quale altro criterio, se non al piacere di una vita nuova, commisurare la legittimità di una parte elettiva? Paesi che si sviluppano, voi dite? Forse, ma prima di tutto paesi che ci avviluppano. Abbiamo scoperto il mondo esterno attraverso la decolonizzazione, come fare perché il gusto della scoperta sopravviva alla fine del colonialismo? Per l'Europa, battersi il petto a causa dell'impero non significa spogliarsi degli antichi possedimenti e ritirarsi, triste e offesa, nelle sue fortezze settentrionali, ma annodare legami d'amicizia con gli ex vassalli, sostituire l'affettività alla tutela. Contro la penitenza, la malinconia o la disistima di sé, si sollecita cosi un altro contatto per un miglior avvicinamento fra le civiltà. L'amicizia fra i popoli non è semplice tolleranza di ogni Stato verso i suoi vicini, ma una certa volontà di ogni popolazione di ordire legami concreti con un'altra. In questo spazio di benevolenza, politica e
polemica si smorzano per schiudere zone d'attenzione e d'amore.
Per l'eurocentrismo Se un cristiano venisse a dirmi che, entusiasmato dalla lettura del Bhagavadglta, vuol convertirsi all'induismo, gli risponderei: la Bibbia ha tanto da offrirvi quanto il Gita. Ma non avete davvero cercato di scoprirla. Fate questo sforzo e siate pienamente cristiano. GANDHI
Perché studiare le lingue straniere, partire per l'Africa o il Brasile? Per imparare prima di tutto che non siamo soli al mondo, renderci più fecondi nella contraddizione di noi stessi; ma sentire al tempo stesso che non siamo a casa nostra dappertutto, e non possiamo sfuggire all'attrazione della nostra terra natale. Andare verso l'Altro, significa ipotecare la nostra integrità, ma anche approfondire la nostra solitudine. In altri termini, avere soltanto una cultura nazionale è letale per lo spirito; non averla è pure letale; donde la necessità di sostenere, perdendole al tempo stesso, queste due esigenze. All'idiozia di ogni comunità che basta a se stessa e si premunisce contro le più belle cose del mondo, corrisponde la disinvoltura di un amabile eclettismo, permeabile ai più diversi messaggi, cioè eminentemente indifferente a ciascuno. Soltanto la riaffermazione di una costante identità ci permette di uscire dal qui e adesso: ogni incontro presuppone un centro minimo, una patria, condizione elementare, del cosmopolitismo. Lo stesso imperativo che ci ordina di prestare attenzione all'Altro ci comanda anche di vivere un po' per noi stessi. L'uomo « con le ali ai piedi » è cosmopolita, non a detrimento della sua qualità di europeo, ma in quanto europeo; ha un bell'essere scandalosamente murato nella sua differenza culturale, in modo paradossale è tanto più internazionale quanto più è francese, tedesco o danese. Il punto inerte dei vincoli nazionali è anche il punto d'appoggio che dà all'espa-
Bilingui, poliglotti... Per quanto perfettamente io padroneggi una lingua straniera, per quanto conosca i suoi più sottili segreti, vi sono sempre dei lati che mi sfuggiranno. La lingua materna, il mio abitacolo, il mio rifugio, mi colloca in una dipendenza che non posso rinnegare. Sono radicato in essa con una base che nulla potrebbe svellere. Questa cellula seminale che mi apre al mondo mi chiude a certe sue espressioni. Qui il mezzo destinato a comunicare è il principale ostacolo alla comunicazione: il tessuto comune è anche lo sbarramento. Le molteplici esigenze della sintassi e del lessico, la cui pressione si inscrive in me sotto forma di cultura, mi provano allora che l'universo non è tutto nelle parole che pronuncio. La mia vita si fonda sul silenzio di quegli idiomi che non comprendo: la mia inserzione in una lingua costituisce l'apertura e il limite della mia comprensione verso gli altri. Così la traduzione è l'esperienza ontologica della divisione fra gli uomini: il genio di ogni lingua si esprime in una dimensione unica, vi sono cose non trasmettibili, sfaccettatrio il suo slancio dinamico. Senza la lingua materna, senza le radici in un paesaggio dove il cuore e l'immaginazione trovano l'ambiente naturale del loro sviluppo, senza quel frammento di memoria, quei legami familiari, quel quartiere dove sono cresciuto, non ci sarebbe nulla per attizzare la mia curiosità, per spingermi in una data direzione: potrei innamorarmi a volontà di qualunque nazione e disamorarmi di tutte, perché non terrei a nessuna. Una forza frenata dalla propria pesantezza, che supera questi ostacoli gettandosi verso gli altri: questo è il meccanismo del mio slancio verso il mondo. E il mio attaccamento all'Europa che acuisce con passione il mio gusto per il viaggio, l'asta fissa del compasso di cui l'altra se ne va girando alla ventura. Per questo il cosmopolitismo non è, nel migliore dei casi, che un'utopia la quale ci premunisce dai pa-
ture che non coglierò mai. Alla fonte comune di questi spiegamenti di parole che conversano e cessano di chiacchierare ciascuna per suo conto, c'è in primo luogo un divorzio. Se la lingua è la « casa dell'essere » di cui parla Heidegger, quel che rende possibile il colloquio da casa a casa ci impedisce anche di visitarle tutte. Bilingue o poliglotta, non riuscirò mai a impadronirmi di quelle sonorità, di quei respiri che formano il quotidiano dei popoli stranieri. Donde il giubilo e la desolazione di ogni apprendimento d'una lingua straniera; nell'intimo di me stesso, urto contro l'handicap di un vocabolo irriducibilmente «altro». Qualunque sia la mia conoscenza dell'inglese, del tedesco, del cinese, dell'arabo, non sarò mai altro che il proprietario fittizio di quel brusio di vocali e di consonanti. Già incapace come sono di dominare la mia lingua materna, quest'arricchimento è ben lontano dall'accompagnarsi a un potere. O piuttosto è un potere intessuto d'impotenza, una sovranità senza regno. Tutta la nobiltà degli scambi fra nazioni è in questa debolezza, sempre rinnovata, sempre superata. raocchi di un nazionalismo a oltranza, una contraddizione feconda finché rimane nell'ordine dell'inaccessibile e tende a instillare il massimo di estraniamento nel minimo di identità. Se l'essere strappati alla sicurezza domestica non fosse una dolorosa e paziente ascesi, non sarebbe emigrazione, e si potrebbe viaggiare in tutte le culture senza problemi, così come il sangue circola nelle vene. Qui l'impedimento è condizione del compimento, e il campanilismo è anche ciò che incoraggia la pulsione di fuga. La verità insopportabile, che ogni spostamento all'estero ci suggerisce, è questa: a ogni essere tocca vivere e morire nel vicolo cieco rappresentato dalla sua cultura. E, all'inverso, l'aver sperimentato un altro mondo mi nega il diritto di esistere in tutta ingenuità, paralizza il possesso delle mie proprie radici, mi vieta di restare attaccato alla mia terra
come il cane all'osso. Non siamo esseri eminentemente adattabili a qualunque clima, nutrimento o linguaggio: per questo l'avvenire del mondo per noi è qui, nel cuore della vecchia Europa, anche se dovessimo interporre fra essa e noi tutto lo spessore del pianeta. L'Europa è la nostra possibilità, il nostro destino, ed è più che mai nel rispetto delle sue frontiere, delle sue tradizioni e della sua integrità territoriale che si colloca lo sviluppo delle nostre persone. La rivendicazione delle forze telluriche, il richiamo del Blut und Boden che anima tutti gli sciovinismi, sono altrettanto pericolosi di un lirismo interplanetario che fa incetta di massime e proverbi popolari e fa sfilare la sarabanda dell'umanità nera, bianca e rossa come altrettanti cavallucci intercambiabili in una giostra da fiera.4 Dimentichiamo dunque l'assurdo dilemma per cui amare l'Occidente sarebbe sinonimo di un oblio delle culture del Sud; solo riappropriandoci dell'Occidente come cultura (e non più come mostro militar-imperialista), ci apriremo invece una breccia verso le altre società. Non si può non essere terzomondisti: ma questo tipo di terzomondismo non può più passare attraverso l'odio per l'Europa o il disprezzo delle sue acquisizioni. Ignorare oggi la nostra storia o falsificarla costituisce la via regia per ignorare la storia degli altri popoli, sterilizzare il loro peculiare apporto. Come potrebbero, un francese o un tedesco, capire qualcosa delle correnti dell'Islam, delle complesse metafisiche dell'Asia, se prima non hanno preso conoscenza della propria eredità religiosa, anche se non sono credenti? E solo a condizione di approfondire il tesoro del suo passato, senza compiacimento né malevolenza, l'europeo potrà restare uomo di molteplici fedeltà, penetrato di culture straniere, che parla greco, arabo o hindi, eppure figlio della «L'esilio per me è sempre una costrizione, una cosa forzata, un momento mostruoso della natura umana e della lotta fra gli uomini. E lo sradicamento provocato dalla forza bruta: la scelta fra essere ucciso, imprigionato, ridotto al silenzio, e continuare a esprimersi in una terra d'asilo. È a partire da questo che gli esuli hanno il dovere di fronte a se stessi di riflettere e reagire contro il meccanismo specifico dell'esilio» (fuLio C O R T A Z A R , Le Monde, 5-6 aprile 1981). 4
Senna, del Tamigi o del Tevere. Europeo resterà fin nelle sue alterazioni, nei suoi tradimenti dell'Europa. Ogni procedimento per sottrarsi a quest'equivoco fra lealtà e incostanza risusciterebbe l'etnocentrismo arrogante dell'impero o il masochismo imbecille del terzomondismo.
Una comunicazione autentica La follia incombe, credo, su tutti coloro che possono vedere simultaneamente l'universo attraverso i veli di due costumanze, di due educazioni, di due ambienti. T.E. LAWRENCE, I sette pilastri della saggezza
Insomma, bisogna guardarsi da due illusioni: che non abbiamo nulla da imparare dagli altri, e che abbiamo tutto da imparare da loro.5 Sfuggire ali 'impasse dell'intolleranza e dell'autopunizione, conservare il rispetto di sé perché si colloca il rispetto per gli altri al di sopra di tutto, costituisce un duplice movimento di assimilazione e di salvaguardia. La chiusura completa sarebbe una morte spirituale, l'apertura totale un disastro. Abbandonato alla propria inerzia, al vanitoso censimento delle sue ricchezze, l'Occidente tenderebbe sempre, immancabilmente, non a ingrandirsi, ma a diminuire, a perdere la sua acutezza. Se ha tutto l'interesse a dare ai paesi del Sud i mezzi non solo per criticarlo, ma anche per fargli concorrenza, per innalzarsi al suo livello di ricchezza e di prosperità, è perché una tranquillità comprata a prezzo di soffocare, imbavagliare un'altro, è una tranquillità pagata carissima (la crisi del petrolio degli anni '70 ne è forse la miglior illustrazione). Meno gli occidentali sono intelligenti, più le altre nazioni Al posto del classico rapporto pedagogico del colonialismo, o all'inverso del terzomondismo, bisognerebbe creare una situazione dialogica in cui il Nord e il Sud stiano di fronte come educatore-allievo e allievo-educatore. Come dice 0 brasiliano Paulo Freire: «Nessuno educa gli altri, nessuno si educa da solo, soltanto gli uomini si educano insieme tramite il mondo », La pedagogia degli oppressi, Mondadori, Milano, 1980. 5
appaiono loro stupide. E la xenofobia dei primi è allora corrispettiva al fanatismo degli altri. Nel momento in cui la crisi impone a tutti di salvarsi insieme o di perire insieme, l'autosufficienza protezionistica non è più ammessa, e si deve esigere che l'Occidente si esponga, si assuma il rischio degli altri, viva in permanenza nella gran luce dell'esterno. La vitalità di una cultura si misura dalla sua capacità di sfuggire al proprio destino, di contenere più di quanto possa trarre da se stessa. Ma l'ospitalità data al supplemento che è l'Altro, per riprendere la mirabile terminologia di Lévinas, presuppone che si esca fuori partendo da una casa propria, da una proprietà privata in cui ci si possa ritirare in ogni momento. Io non sono Sirio e non mi è dato incarnarmi a volontà in una data pelle, clima, razza o lingua. Contro la dispersione universale, occorre una possibilità di raccoglimento, di discesa nell'interiorità che garantisca la preservazione di una memoria e il senso di una continuità storica. Ma, dal centro stesso di quest'intimità, uno strappo deve distogliermi dal compiacimento animalesco di me stesso, favorire la ripresa di contatto con l'esterno.6 Non posso certamente sfuggire all'Europa; ma altro è esserne persuasi senza esporsi, senza cercar continuamente di perdersi7 lontano dalle proprie frontiere. L'apertura di una finestra sull'esterno differisce il mio insediamento in E evidente, a questo riguardo, che i rapporti dei paesi europei fra loro, Est e Ovest inclusi, testimonieranno dei rapporti dell'Europa col resto del mondo. Ciò presuppone innanzi tutto una volontà di riconquista dell'Europa colonizzata sull'impero sovietico; infine la massima permeabilità di ogni nazione occidentale rispetto alle sue vicine, cioè la scomparsa definitiva dei nazionalismi aggressivi. La fondazione di una comunità autentica va molto al di là dei casuali incidenti nella politica agricola o nella guerra delle esportazioni. Fin d'ora, per esempio, ogni europeo conseguente dovrebbe essere trilingue, affinché nessun cittadino di questo continente si senta esiliato in nessuna delle sue parti. 6
7 Si sa, ad esempio, che molti viaggiatori, militari, ricercatori sono stati riconvertiti all'Europa e alla fede cristiana attraverso il loro passaggio in terra islamica: Psichari, Foucauld, Lyautey, Massignon, per citare solo i più illustri.
un orizzonte vicino, mi disincarna, mentre il mantenimento di una propria abitazione offre almeno all'Altro l'ospitalità di una terra d'asilo. Obliare se stessi senza oblazione, saper interessarsi dell'Altro e saperlo ignorare, questo è il moto oscillatorio che dovrebbe regolare i nostri rapporti con lo straniero. All'idea di una totalità planetaria o di una « civiltà universale », si tratta di sostituire l'idea di una separazione che resista alla sintesi: la distanza non deve distruggere il rapporto, né il rapporto la distanza. Ogni società smisuratamente accogliente è minacciata di una perdita d'identità, così come ogni collettività eccessivamente chiusa soffre di degenerazione precoce e imputridisce. E poiché lo stato del mondo non consente a nessuna nazione di ripiegarsi su se stessa, tocca a ciascuna trovare il giusto intervallo fra il ripiegamento e l'apertura che permetta gli choc creativi, le saporose dissonanze, le contraddizioni feconde. Invitare le culture straniere ai dibattiti della rivoluzione industriale, non significa fonderle in un magma riduttivo, ma aggiungere la loro voce al concerto generale. E se si calcola quanto l'Occidente deve oggi ai popoli stranieri - che sia nell'ordine della riscoperta del corpo, della preoccupazione religiosa, o del gusto per la danza e la musica - , si scoprono altrettanti apporti incontestabili senza i quali la nostra epoca non avrebbe né sapore né genio. Al di là delle gare e delle diffidenze, sono questi apporti magici che più di tutto militano a favore della mano tesa verso l'Altro: questa forma creata in comune, ripresa dagli uni, modificata dagli altri, non è una comunicazione autentica?
Fedele
tradimento Non fate della nostra rinuncia alla patria il prezzo del nostro attaccamento alla Francia. JACQUES RABEMANANGARA,
poeta malgascio
Ogni attrattiva, per una società, ha poco a che vedere col suo valore intrinseco e non è affatto corrispondente a un merito. Vi sono civiltà immense che ci lasciano freddi e tribù di se-
cond'ordine sulle quali ci sentiamo inesauribili. Amare una cultura straniera è un'elezione ingiusta che ne esclude molte altre, ma non amare nessuna cultura straniera è una terribile prova di avarizia spirituale. Vi è attrattiva solo quando un rapporto privilegiato, un'intonazione particolare, sollecitano la mia libertà: per rallegrarsi dell'esistenza della musica orientale, della letteratura sudamericana o del buddhismo, bisogna preferire a ogni altra cosa una certa linea melodica, un certo barocchismo nella narrazione, una certa qualità di aquietamento nella meditazione; una volta conosciute le une e le altre, io integro queste forme espressive al mio patrimonio, ne faccio delle esigenze e, dal fondo di questa ricchezza esterna, scopro lacune che mi sembrano intollerabili nella mia cultura nazionale. Certo, amare più di tutto la musica araba non vuol dire addentrarsi nel mondo omonimo e ancor meno avvicinarsi alle popolazioni che l'ascoltano. Ma significa almeno aprire fra gli « arabi » e me una comunanza di gusto, condividere un genere, attraversare un fossato partendo dal quale mi è agevole avanzare oltre; due universi che si fiancheggiavano si trovano d'un tratto sovrapposti dalla magia d'una passione: comunione senza dubbio frammentaria, ma assai preferibile a un disgusto reciproco. Certo, non conoscerò mai la totalità delle forme artistiche 0 letterarie del pianeta, non visiterò tutti i continenti, non potrò abbracciare tutti i culti, non sarò mai amico di tutti gli uomini; ma amando alcuni uomini, imparando una o due lingue straniere, eleggendo una patria del cuore a migliaia di chilometri di distanza, rendo un omaggio indiretto, personale, al principio di esteriorità. C'è sempre nel globo un paese che vi elegge, così come voi lo scegliete. Attraverso il particolarismo di una scelta - ricada essa sui masai, l'India, 1 lapponi o gli aborigeni australiani io preservo il concetto universale di «straniero», coltivo energie transcontinentali cui non corrispondono né le frontiere né le razze. Le differenze che separano le culture hanno insieme il carattere di una geografia affettiva, quindi gerarchizzata (in modo variabile per effetto di un entusiasmo o di una moda), e di un'eguaglianza postulata: tutte possono, a un dato momento, es-
sere onorate. Se non esiste dunque un interesse gratuito per gli altri, se non si studia impunemente l'Islam, l'arte negra o il modo di vivere dei trobriandesi senza un nesso con le nostre particolari passioni, la mia predilezione per questo o per quella non implica affatto l'inferiorità degli altri; non contraddice il principio morale dell'eguaglianza di tutti gli uomini, ma impedisce a questo principio d'eguaglianza di finire nell'identità; coltivando simile differenza, difendo il fatto stesso del pluralismo, senza nascondere il carattere arbitrario della mia opzione. Se l'amore che non compie scelte è stupido - un'inflazione così grandiosa non può che abbassare il suo valore - , è perché la predilezione non sopporta l'ecumenismo: ogni cultura è davvero la più insostituibile, perché tutte possono rivendicare questa qualità. L'essenziale è ch'io viva fuori di me stesso, che getti dei ponti che non siano compromessi o abdicazioni reciproche. L'essenziale è che un incantesimo ci faccia precipitare sulle strade, ci porti verso una terra in cui non siamo nati. Così il nostro genio del luogo è un genio della fuga: la moltitudine delle umanità che ci vivono accanto ci impedisce di restare nella nostra terra natale come in una terra promessa dove la verità sia stata stabilita una volta per tutte. Disfare i legami che ci uniscono alla sedentarietà presuppone che si viva in patria sul filo dell'incostanza, tesi verso un altrove, uomini di molteplici fedeltà, capaci della più assoluta perseveranza come della più estrema dispersione. Le mie patrie culturali, linguistiche, romanzesche non si confondono affatto con la mia patria biologica o la mia appartenenza etnica. Questo soffio che viene da molto lontano e permette alle comunità di aprirsi le une alle altre come fiori al di là dei loro limiti, ci insegna che oggi l'esilio è una modalità del radicamento. Saperci separare da ciò che ci è vicino per raggiungere ciò da cui siamo separati implica che la nostra patria ci divenga straniera e che ogni terra lontana abbia per noi la dolcezza e il fascino del suolo natale. La doppia o tripla appartenenza che segnò in modo drammatico il destino di un certo numero di intellettuali dei paesi periferici, all'indomani della decolonizzazione, dovrebbe essere rivendicata oggi in modo positivo:
gli scrittori e pensatori asiatici, maghrebini o africani hanno tanto da insegnarci,8 perché la condizione di meteco e bastardo culturale, ieri anomalia delle annessioni coloniali, deve diventare oggi la norma dell'uomo contemporaneo, costretto a vivere in parecchi universi spirituali, compiendo l'alleanza paradossale del particolarismo e dell'indeterminazione. Essere i go-between che fanno saltare i muri dell'incomprensione, degustare le differenze che separano le consuetudini e i riti, non è il mezzo migliore per prevenire la standardizzazione dei costumi, la monotonia di una lingua unica, la tirannia di un imperialismo? Ciò di cui oggi il mondo ha più bisogno, sono i transfughi culturali che passano da un universo a un altro, infrangono le classificazioni, smorzano le opposizioni, fluidificano gli scambi. Proprio come l'utopista Charles Fourier celebrava nella nocepesca l'unione della prugna e della pesca, o lodava nell'infanzia un terzo sesso passionale, né maschio né femmina, oggi bisogna dire «la bellezza del meticcio» (Guy Hocquenghem), uomo poliglotta e dalle molteplici radici, l'unico capace di salvaguardarci dalla barbarie delle certezze, come dal freddoloso ripiegamento sulla sfera nazionale o settoriale. Così si sviluppa il nostro odio amoroso verso la dimora che ci ha visti nascere, la lingua che parliamo, i cari luoghi dove abbiamo annodato tenere amicizie: dal fondo della nostra terra natale, fare appello a un oltre, e partendo da 81
francofoni dovrebbero ispirarsi soprattutto, com'è naturale, alle due figure magistrali di Léopold Senghor e Aimé Cesaire. La volontà di non rinnegare nessun ramo della loro eredità, la loro posizione di uomini di crocevia a cavallo dell'Africa, dei Caraibi e della Francia, il coraggio con cui, contro tutti i fanatismi, hanno coltivato insieme le tradizioni che confluivano in loro, la mirabile lezione di rifiuto che hanno dato a Parigi al tempo della sua espansione egemonica, poi la loro insistenza, una volta acquistata l'indipendenza, per continuare il dialogo con la Francia, fanno di loro non soltanto due grandi poeti, africano e martinicano, ma anche i portavoce delle angosce e delle speranze di ogni uomo, i portavoce di onde innumerevoli che trovano in loro un'immensa eco. L'ironia della Storia non sta forse nel fatto che ai nostri giorni abbiamo più da imparare da questi antichi «sudditi » dell'impero che dai nostri connazionali?
questo oltre, ritrovare un sapore, una diversità nella Heimat,9 Odio l'Europa e la Francia e la Germania, significa: le fuggo e ci ritorno sempre, le sposo solo abbandonandole. L'Europa è il mio trampolino per slanciarmi verso il mondo, e il mondo a sua volta mi rinvia all'Europa...
Per una solidarietà relativa Abbracciamo tutto, ma stringiamo solo vento. MONTAIGNE
Il terzomondismo, come si è visto, mantiene una costante confusione fra colpevolezza e responsabilità; essere colpevole presuppone che vi sia stata una colpa ben determinata, un crimine perpetrato, un atto grave. La responsabilità, invece, implica l'obbligo di ciascun uomo verso tutti, un senso di coappartenenza a una stessa specie. Siamo colpevoli delle carestie del Terzo Mondo nel senso in cui l'assassino è colpevole del suo delitto? Fino a prova contraria, no. Ma responsabili, sì, perché il dovere di ogni uomo è di aiutare gli altri a vivere, quando essi sono ridotti al bisogno più estremo. Non posso restare insensibile alla sorte dei miei fratelli, perché la loro sofferenza mi riguarda come fosse la mia propria sofferenza. Così s'impone un'esigenza assoluta: per quanto ignorante io sia dei drammi del mondo o delle vicissitudini della Storia, sono sempre corresponsabile delle ingiustizie commesse, degli omicidi perpetrati sulla persona di altri uomini. Ma, anche qui, occorre affinare l'analisi. Perché una solidarietà universale, angelica, che nulla possa ostacolare, sarebbe una solidarietà davvero disincarnata, indifferente alle sventure contingenti di date categorie o popolazioni. Senza dubbio, per mezzo delle grandi istituzioni, sindacati, partiti politici, associazioni, posso sostenerla, allargarla a dimensioni planeta9 Così l'ultimo quadro che Gauguin dipinge a Tahiti prima di morire, nel 1903, è II villaggio bretone sotto la neve. La tela fu acquistata da Victor Segalen qualche mese dopo la morte del pittore.
Omaggio a Mother England Il primo genio dell'Impero britannico fu quello di trasportare in tutti gli angoli del mondo le sue più piccole manie e rituali. Oggi ce n'è un altro, che consiste, grazie al sistema di associazione fra le antiche terre della Corona che è il Commonwealth, nell'aprirsi ai popoli un tempo conquistati, nel farsi perdonare la sua antica rapacità mettendosi alla loro scuola. Mentre la Francia ha conservato solo contatti commerciali o tecnici con l'Algeria, il Vietnam e l'Africa nera, e si è rannicchiata nell'Esagono, l'Inghilterra ha subito di volta in volta l'influsso dell'India, della Malesia, degli USA, dei Caraibi, dell'Africa australe. Il riflusso delle ex colonie sull'Isola non è soltanto fonte di razzismo e di scontri tra comunità ostili sul suolo stesso della Gran Bretagna, ma rivela anche la reciproca fascinazione di culture che, trent'anni fa, avevano solo rapporti di subordinazione. L'austera parsimonia dell'anglicanismo ha saputo comprendere, integrare la prodigalità barocca di tante religioni e riti diversi. L'Inghilterra, certamente, è morta per la sua enormità, ma è morta trionfando, poiché tutto il mondo parla inglese. A rie; senza dubbio, attraverso di essi, sono costretto a gesti di carità astratta - dono di viveri, di medicine, di denaro - verso paesi di cui non conosco che il nome. Ma noi scegliamo le nostre cause come esse ci scelgono, in un incontro fra l'interno e l'esterno, dove il mondo propone nella stessa misura in cui noi disponiamo. Perciò non possiamo, senza sofismi, abbracciare tutte le cause e insieme non disinteressarci di nessuna. A coloro che ci scongiurano, quando ci preoccupiamo della Polonia, di non dimenticare il Salvador, il Libano o l'Africa del Sud,10 bisogna rispondere che queste mille ragioni per in10 Come spiegare gli indugi, le reticenze della sinistra di fronte alla questione polacca? Forse perché è incapace di concepire un'Europa colonizzata: dato che l'Occidente è imperialista per natura, come po-
tutti i paesi cui razziarono oro e ricchezze, gli ufficiali di Sua Maestà lasciarono un tesoro: la loro lingua. Lingua straordinariamente plastica, comune al padrone e allo schiavo, lingua del dominio e della rivolta, dell'ordine e della ribellione, del potere e della libertà, lingua dei crocevia, risultato di varie nazioni, acqua dell'oceano che unisce tutte le isole e ci fa sentire at home nei più remoti paesaggi. In compenso, l'inglese è esploso in una moltitudine di idiomi differenti, giamaicano, nigeriano, americano, anglo-indiano, australiano, altrettanti bastardi del vecchio, castigato linguaggio di Oxford. Minata, indebolita, divisa, la Gran Bretagna, nonostante le riserve che può ispirare, è riuscita meglio di qualunque altra nazione nella progressiva impregnazione del colonizzatore a opera del colonizzato, che è il destino finale di ogni impero. La sua vittoria è di non riconoscersi ormai che nel volto dei suoi antichi sudditi e nell'obbligo di ascoltarli e di amarli, per potersi perpetuare. Questa meravigliosa matrigna da cui è uscito il mondo moderno è anche la patria di tutti noi; oggi, ogni europeo è un po' cittadino d'Albione. dignarci diventano mille ragioni per smobilitarci; che imponendoci di non preferire nessuna lotta a un'altra, l'Est piuttosto che l'Ovest o il Sud, siamo incitati a un impegno sempre all'azimut, che è il sommo del disimpegno. Si ricade nella fantasticheria di una solidarietà priva di contenuto; sono solidale, trebbe essere a sua volta colonizzato da un altro impero? Finché non si capirà che la lotta dei polacchi, dei cechi, degli ungheresi contro l'URSS è anche una lotta per la nostra indipendenza nazionale e la riunificazione dell'Europa divisa, non si potranno avere nei loro confronti che reazioni di pietà condiscendente, di terzomondismo vergognoso, una vaga « alleanza intellettuale », come diceva già Lamartine nel 1848 ai patrioti polacchi che gli chiedevano armi e che si vedevano offrire, invece, bei discorsi e generosi proclami.
punto e basta, una specie d'amore mistico e immacolato che si libra nel cielo. Ora, una solidarietà effettiva è una solidarietà circoscritta, canalizzata, sul cui fondo appaiono altre solidarietà, ma a puro titolo di orizzonti assunti da altri uomini. E come se, per essere effettiva, la responsabilità dovesse scegliersi una sfera di fraternità limitata e una propria geografia (che non c'entra nulla con la distanza), senza di che resterebbe indeterminata, cioè cieca. Il nostro bisogno d'azione politica e di simpatia al di là delle frontiere nazionali deve ritagliarsi sulla scala delle cause un certo settore, oltre il quale non c'è altro che la confusione e il pasticcio dei media. In questo campo, un eccesso di generosità è sospetto: una solidarietà che solidarizza in generale e non è nemmeno capace di dire il nome di quelli cui porta soccorso, questa solidarietà è chiacchiera da salotto. Muore della sua purezza, muore per voler scegliere tutto, non è più altro che un appellativo grandioso, come l'etichetta «Sartre», dopo la guerra, fu sollecitata dappertutto in qualunque occasione. Così si sostengono incondizionatamente e con lo stesso entusiasmo le cause più dissimili. Gli stessi che appoggiano la Polonia in dicembre sostengono con analoghi argomenti l'OLP in luglio, come difenderanno qualche altro movimento di resistenza sei mesi dopo; le particolarità sono appiattite l'una sull'altra, si semplificano fino all'essenziale dati storici che avrebbero meritato ogni volta analisi puntuali, insegnamenti rigorosi. E una fedeltà puramente sentimentale alle figure del mondo esterno: nella casella Vittima, sfilano di volta in volta i cambogiani, i palestinesi, i libanesi, è un rito precostituito per varie comparse. Questa solidarietà è quella dei mercenari dell'attualità che devono puntare l'obiettivo, in fretta e senza insistere troppo, su tutti i punti caldi del pianeta. Non chiediamo ai media più di quanto fanno, e fanno in genere assai bene: sensibilizzarci ai problemi scottanti. Il nostro tipo di attaccamento ai paesi stranieri non deve seguire il ritmo degli avvenimenti, anche se non può disinteressarsene. Dobbiamo saperci distogliere dal fracasso dei titoloni e delle prime pagine per metter radici in un dato punto del globo. In nessun caso il giornale e la televisione potrebbero ser-
virci da guida nell'azione: i paesi di cui il piccolo schermo non parla più continuano a esistere. A ricalcare la nostra attenzione verso il mondo sul modello delle notizie, si ricade nella labilità di un'opinione pubblica troppo pronta a schierarsi un giorno da una parte, il giorno dopo dall'altra, solidarietà tecnologica dell'uomo che ha fretta e che si dilapida, si disperde qua e là. Già si può prevedere che questa mano tesa si ritirerà; la solidarietà riflessa reca aiuto solo per meglio tirarsi indietro. E proprio quando si è fratelli di tutti che fa tanto freddo fra gli uomini. L'indispensabile suddivisione dei compiti ci impone di vivere l'idea sempre attraverso l'amicizia, di rinunciare all'ubiquità, all'onnipresenza. Sono amico dell'uomo solo se annodo i legami più stretti con alcuni, a detrimento di altri: ciò che impedisce di amarli tutti è anche ciò che permette di aiutarne qualcuno. La parzialità smentisce l'altruismo, eppure l'altruismo presuppone questa parzialità, che è la sua condizione contraddittoriamente vitale. La ristrettezza della scelta garantisce la sua autenticità; il ritaglio di un settore non è solo un elemento limitativo, è il nostro punto d'inserimento nel mondo, ne è l'impedimento e lo strumento al tempo stesso. La scorta ininterrotta di un paese amico non è una prigionia: questa causa, non appena la abbraccio, rivela una profondità, una ricchezza infinite. Nessuna solidarietà è ovvia, dietro ciascuna si profila una preferenza ingiusta, un arbitrio irriducibile, l'egoismo. Tale è l'ambiguità degli appoggi o delle avversioni: lasciano a ciascuno la libertà di scegliere il suo posto e definiscono il carattere mondiale della coesistenza sul modulo del frazionamento. L'universalismo è il rimorso permanente di questa filantropia parziale, la quale continua a premere sull'universalismo perché si incarni, perché non resti allo stadio delle buone intenzioni. Altri uomini certamente chiedono aiuto, fanno appello alla mia buona volontà: ma, essere limitato, io non posso darmi a tutti; un dono iperbolico sarebbe semplice enfasi, sarebbe il premio dato agli accidenti e alle contingenze. Scartati gli accidenti e le contingenze, che cosa resta? L'essenziale, cioè la permanenza e la fedeltà.11 Non esiste quindi soli" A questo riguardo, forse non è male che declinino le forme pu-
darietà senza la selezione di una coscienza confinata nel relativo, cioè confinata nella rete delle sue relazioni.
Il Nord sulla sedia a sdraio al sole del Sud « I viaggiatori sono militari più freddi» (Sartre), ex coloni tornati in vacanza sui luoghi dei loro delitti, altrettanti « guardiani disseminati al di là dei mari, lungo la vasta e mobile cintura del nostro impero», come diceva Pierre Benoit dei soldati dell'esercito coloniale. La multinazionale dei ben pasciuti del globo riversa sulla culla delle antiche civiltà i suoi charter di shorts e di creme abbronzanti, che si abbattono sul Mediterraneo, sul Kenia, sull'Asia centrale come un nugolo di mosche. Il turismo è un esperimento feudale condotto dai membri dei paesi democratici e ricchi nelle nazioni povere e soggette a dittature, uno straniamento spaziale e sociale, l'ebbrezza, per l'impiegato tedesco, per la segretaria inglese o l'operaio specializzato francese, di ritrovarsi gran signori a duemila chilometri da casa loro. Del turismo, si può dire a ragione che favorisce il dominio economico di alcuni colossi internazionali (trasporti aerei, catene alberghiere, agenzie di viaggio), che si accompagna a una penetrazione culturale diretta davanti a cui le tradizioni e le strutture sociali di rado sono in grado di resistere,12 che è uno stupro, un fattore di deterioramento, che incoraggia una «prostituzione planetaria»,13 e considera ramente spettacolari ed emotive della solidarietà: sfilate, meetings, manifestazioni, petizioni, a vantaggio di azioni o iniziative più discrete, ma spesso più efficaci (pensiamo, ad esempio, alle navi noleggiate da Médecins du monde per raccogliere il boat-people vietnamita al largo delle coste della Tailandia). Vi è nei grandi assembramenti un fervore troppo esibizionistico per non essere sospetto e promettere una rapida disaffezione. 12 Si veda, a tale proposito, il dossier abbastanza completo che Le Monde diplomatique ha riunito nel suo numero di agosto 1980. 13 J E A N - Y V E S C A R F A N T A N e C H A R L E S C O N D A M I N E S , Quia peur du tiers monde?, cit., pp. 240-242.
« il sole, il patrimonio artistico, i tesori culturali, l'aria pura, la sabbia, i paesaggi, gli animali selvaggi e le ragazze del terzo mondo» come altrettante «materie prime» (id.). Eppure quelli che criticano il turismo ci chiedono paradossalmente di amare il «Terzo Mondo» e di non visitarlo mai, di interessarci ai popoli del Sud rinunciando a frequentarli. Si vive ancora sotto il trauma della conquista, come se ogni piede bianco che si posa sul suolo africano fosse uno scarpone militare, come se la macchina fotografica fosse il surrogato moderno del fucile e il safari una forma mascherata di caccia all'uomo. Ora, non esistono mezze misure: o si predica la chiusura e si tracciano frontiere rigide, invalicabili, fra il Nord e il Sud; o si appoggia la libera circolazione degli uomini e delle idee, la mescolanza dei popoli, qualunque ne sia il prezzo. I turisti sono senza dubbio animali ridicoli che, dopo una notte di treno-cuccette o di vuoti d'aria in un charter, sbarcano in Marocco, in Egitto, a Bali, assetati di Ektachrome e di vera comunicazione. Eppure, questa corsa verso il moro, il fellah o il primitivo allude a un mistero che la santifica: il mistero dell'incontro con l'Altro, la ricerca di una vita più vasta attraverso il canale di un'organizzazione ristretta, anche se questa ricerca, quasi sempre, sprofonda nella solita pastetta metafisica. Evidentemente, grande è la tentazione di reagire con la chiusura delle frontiere, il filtraggio, l'estensione del visto obbligatorio, l'instaurazione di un cordone sanitario, l'autorizzazione data solo ai viaggi di esperti e ospiti ufficiali, istituendo così una deontologia della transumanza. Insomma, di contingentare e di restringere, di ricominciare con l'isolazionismo e il viaggio sorvegliato stile Inturist o Luxhinshe (il quale sia detto di passaggio, è l'apogeo del turismo classico, dato che è la garanzia che nessun turista parlerà a un russo o a un cinese al di fuori del canale ufficiale), con tutte le conseguenze di un simile sistema: vigilanza poliziesca, non-circolazione dell'informazione, divieto dei contatti non conformi, delimitazione di zone proibite, sovraccarico nell'impiego del tempo per scoraggiare i curiosi, ecc. Se è vero che i nostri sontuosi centri di divertimento somigliano ad asili psichiatrici in cui branchi di gente inebetita marcisce nell'ignoranza e nell'ab-
brutimento, e che l'equazione abbronzatura, spiaggia, palme da cocco, bollettini meteorologici, disco-music, è di una povertà penosa, tuttavia in seno a questa mediocrità può nascere una vocazione, possono annodarsi simpatie. Prima degli spostamenti di massa, il viaggio era una monarchia basata sul censo, riservata a un'elite; il turismo vi ha introdotto il suffragio quasi universale. Con esso, l'arte di errabondare, un tempo appannaggio dei ricchi ereditieri e dei figli di famiglia, diventa una pratica pubblica. Si tratta di un crimine assoluto? Se bisogna denunciare senza tregua le tare del sistema turistico ogni volta che danneggia gravemente gli equilibri culturali o ecologici (il problema si pone anche all'interno dei paesi sviluppati), bisogna misurarne anche gli effetti positivi: è il prezzo delle peregrinazioni. La stessa logica che assicura a un ragazzo delle classi medie o povere di Berlino, Parigi, Liverpool, Madrid, Zurigo l'inaudita possibilità, per una modica somma, di toccare in poche ore continenti lontani migliaia di chilometri, rischia di vedere questi stessi ragazzi adottare sul posto un atteggiamento altero o analfabeta. A dispetto di tutte le deformazioni, schematizzazioni, solo da ventanni a questa parte, per il tramite delle odissee collettive, i popoli si sono avvicinati al di là del ghetto politico, linguistico o professionale. Si considera quanta vitalità farebbe perdere al mondo un dispositivo di controllo o di chiusura all'interno delle sue frontiere, si considera l'oscurantismo che simili misure implicherebbero, cioè il disconoscimento dell'Altro eretto a norma, ovvero il ritorno a una barbarie quale neppure il Medioevo ha mai conosciuto? E ciò fino a colpire l'essenza stessa del desiderio di partire, di comunicare? Il viaggio autentico non è il contrario del turismo, ma la sua continuazione con altri mezzi: distoglie dal sogno casalingo, si trascende nell'incontro, unisce le sicurezze dell'identico e le vertigini del nuovo. Uscendo dal bozzolo della villeggiatura, del grand hotel, si spinge nell'ignoto e rende al paese visitato una complessità che da principio non appariva. Quando succede quello che non ci si attendeva e non succede quel che ci si attendeva, una luminosa disfatta trascina il periplo in un'altra direzione e cancella i tracciati previsti. Lo sforzo
indispensabile per risanare i costumi della gente in ferie pagate, a zonzo sotto il sole dei tropici, non deve comportare nuove proibizioni, nuovi impedimenti. In un'epoca in cui l'illusione del sapere, diffusa dai media, dispensa dal dovere di viaggiare, i turisti formano una comunità di profani, di uomini e donne qualunque che tengono le nostre finestre spalancate sull'altrove. Più le nostre conoscenze si fanno complesse, più abbiamo bisogno dello spirito scettico, curioso, del viaggiatore, di colui che, a dispetto di tutte le propagande, va a vedere come stanno le cose e accetta, per poco che sia, di compromettersi in terra straniera. Se vogliamo moltiplicare i terzomondisti, non aumentiamo il grado di cattiva coscienza, ma abbassiamo le tariffe aeree per tutto il pianeta, generalizziamo i voli a basso prezzo. Il miglior vettore dell'amicizia fra i popoli, è ancora e sempre il charter.
Ambivalenza
dell'esotismo Forse è vano che gli uomini cerchino di stabilire fra loro un'unità; con questo tentativo non fanno che allargare l'abisso che li separa. E . M . FORSTER,
Passaggio in India
L'esotismo, è vero, emette segnali equivoci che lo rendono tanto affascinante quanto pericoloso. Comunque rischia di degradarsi a feticismo del folklore, che preferisce la semplice traccia dell'Altro al rapporto interpersonale. Può sempre cadere in un pittoresco di cattiva lega, preferire lo scenario agli uomini, popolare la scena di personaggi convenzionali - l'artigiano, il pescatore, il sarto, lo stregone, il marabutto, il bonzo, il sadu, l'asinaio - per non vedere le persone reali. Con l'esotismo, il diritto diventa consuetudine, l'arte spettacolo, la religione superstizione; esso esalta la differenza dell'altro nel momento in cui è inoffensiva. Sintomo aggravante, fu effettivamente la spina dorsale del sistema coloniale, la risorsa prediletta degli autori minori, da Claude Farrère a Pierre Benoit, ben felici di descrivere gli incantesimi dei tropici per svalutare
i nativi e giustificare il loro asservimento (infatti la letteratura esotica fu grande solo quando testimoniò il fallimento del colonialismo). Ma i coloni sono andati via, e non per questo i tropici sono meno affascinanti. Allora non si può fare a meno di chiedersi se quest'ambiguità, questo lato oscuro non sia la trappola inevitabile di ogni comunicazione: gli altri diffondono un alone di generalità in cui posso oggettivarli; per andare verso di loro, ho bisogno di uno stereotipo minimo che mi consenta di captare i loro riflessi negli oggetti che essi creano o nelle funzioni che rivestono. Ora, ciò che preannuncia l'Altro può anche fargli schermo. L'esotismo ha sempre l'intollerabile inesattezza di una grammatica universale della diversità: questo dilettarsi delle cose più strane nello straniero, ma anche delle cose familiari nel lontano e delle straniere nel vicino, non è contemporaneo all'avventura coloniale, perché gli occidentali l'avevano già sperimentato in Europa nel xvn e xvm secolo. Tutto il piacere che i francesi, i tedeschi, provano oggi viaggiando in Oriente, l'avevano conosciuto prima in Europa, gli Inglesi nei confronti dell'Italia e della Grecia, i francesi dell'Inghilterra, della Spagna e della Polonia, e viceversa.14 E esotico tutto ciò che è esterno: il dono dell'intimità con l'Altro passa anche attraverso la capacità di riconoscere la sua differenza, di essere sensibili alle disarmonie. Strade, villaggi, utensili, portano in sé il marchio di un'azione umana, emettono un'aura di umanità straniera. L'alterità degli altri sedimenta nelle cose, le abita; e la mia percezione di essi passa attraverso l'anonimato di una tecnica, di una costruzione, di un artigianato, di un'opera d'arte. Ora, posso benissimo accontentarmi di quest'anonimato, preferire gli oggetti ai soggetti, i paesaggi ai volti.15 Poiché nessuna legge può costringerci a passare dall'apSi veda R E N É P O M E A U , L'Europe des Lumières, Slatkine, Genève, 1981, pp. 85-87. 15 In tal senso, una forma di esotismo si va oggi attenuando, quella delle regioni che traevano prestigio da un'imponente solitudine. E un disincanto a livello delle immagini e non dei volti. Solo a una visione povera il mondo può apparire uniforme, il globo terrestre minuscolo. 14
plicazione di questo codice all'intersoggettività, l'esotismo sarà sempre affetto da una duplicità fondamentale. Insieme favoloso e dubbio: poco sicuro. E sempre l'ambiguità dei suoi segni alimenterà contro di esso attacchi acrimoniosi. Ma col mostrarsi ribelli ai sortilegi esotici, col rifiutare le suggestioni dell'insolito, si attacca la radice stessa dell'alterità, cioè il modo in cui l'altro dispone nel mondo le tracce del suo esser straniero. Non c'è da una parte il cattivo esotismo, appannaggio del bianco impenitente, e dall'altra il rapporto autentico; non vi sono, ancora e sempre, che gradi successivi di estraneità, dando per scontato che nessuno può costringerci a passare dalle apparenze alle persone. Sicché, viaggiare significa innanzi tutto meravigliarsi dell'inesauribile varietà del sensibile: tutti gli oggetti mi si presentano all'occhio in una specie di verginità, gusto con ebbrezza i beni, le ricchezze che questi paesi lontani mi prodigano. Sono un essere colmato di doni da un universo sconosciuto le cui anomalie mi appassionano. In una particolare qualità della luce, nelle scosse olfattive o visive di una giungla, nel bruciore squisito di una pietanza speziata, nelle sonorità di una lingua nuova, nello specchio di una risaia, cerco uno straniamento che tutto è lì a confermare, mi abbandono a un amoroso culto del diverso, esalto l'inaudito e rifiuto il consimile. Voluttuosamente lontano dalla mia responsabilità di cittadino, vagabonQuesto luogo comune consacrato da Lévi-Strauss stesso, riprendendo un tema inaugurato dai romantici, quello della scomparsa delle diversità, si basa nel suo enunciato sui tratti più vistosi, più superficiali, di una nazione o di una cultura. Occorre un singolare oblio degli uomini per non avvertire un'immensa diversità fra due paesi così vicini come la Svizzera e la Francia, e a più forte ragione fra due continenti come l'Europa o l'Africa. Dal fatto che molti paesi del Sud hanno ormai come noi autostrade, grattacieli, automobili, si vuol dedurre il loro allineamento, la loro ineluttabile rassomiglianza! Ma un africano che porta giacca e cravatta è ancora diverso da uno spagnolo o da un italiano che indossano gli stessi abiti. L'esotismo non è una quantità stabile che andrebbe diminuendo a causa dell'uniformarsi del mondo, è una creazione permanente dell'umanità che si moltiplica differenziandosi.
do in piena spensieratezza, libero di accumulare i favori di una nazione cui non appartengo e dove mi limito a passare. E certo posso benissimo fermarmi a questo, limitare i miei contatti ai gesti più superficiali del servizio e dell'acquisto. Posso benissimo rimpinzarmi fino alla nausea dei minareti dorati, delle tartane, delle mangrovie, degli atolli, delle piroghe, delle odalische, dei brigantini, degli ornamenti che ben presto saranno buttati via. Questo tuffo nell'innumerevole, se non s'incarna in rapporto concreto, comincia a diventare insipido. Al piacere della contemplazione pura, è legittimo preferire il coinvolgimento dei legami fra persona e persona, l'intreccio e l'intrigo. Il viaggiatore comprende l'oltremare a partire dai suoi abitanti, più di quanto possa dedurre l'indigeno dal suo habitat, dai suoi monumenti, dai suoi templi. Perché solo nell'umano c'è autentica diversità. Se vado al di là del tipico, un'incrinatura s'insinua nella mia sovrana felicità: questi campi, queste foreste, questo delirio vegetale avvolgono i visi e i costumi di altri uomini, questa natura è da un capo all'altro culturale. Che sotto i tropici operi o no la magia, andandoci apprendiamo innanzi tutto che ne siamo lontani e che bisogna viverci come emigrati senza un passato, senza un avvenire in comune. Credevo d'imprigionare questo paese nei simboli più vistosi della sua personalità, e mi trovo fra le mani soltanto un involucro; e più il soggiorno si prolunga, più quella prima familiarità svanisce. L'esotico è il potere che hanno, in misura ineguale, certi luoghi od oggetti, di definire dietro di sé uno spazio magico, indizio di qualcosa che essi non sono; è la spoglia sontuosa o risibile che l'Altro lontano consente di cedermi in premio della mia voracità. Attraverso di essa, mi fa capire anche di essere per sempre al di fuori della mia portata. Per il tramite della fotografia, dell'acquisto di abiti, di oggetti d'arte, tento di catturare un'anima che sfugge. L'esotismo ha tutt'al più una «virtù stimolante» (Pascal), è anticipazione del volto verso cui ci conduce, e quest'anticipazione raggiunge il suo grado più ardente quando l'Altro si stacca dal paesaggio e appare nel suo splendore, nella sua nudità.
il viaggiatore in mezzo al guado L'ebbrezza provocata dal viaggio ha quindi come premessa una fusione impossibile. Essa comincia a partire da questa pena. Ogni familiarità prolungata con un popolo, una cultura, una lingua è un legame. Talvolta delizioso, più spesso tempestoso. Che non implica rapporti di flemmatica distanza, ma di coinvolgimenti passionali. Non si trascorrono molti anni della propria vita con lo sciismo, i balinesi, il vudu, i pulbe o lo sivaismo senza attraversare fasi di lacerazione, di entusiasmo o di rifiuto. Questo confronto è un corpo a corpo che non risparmia né la scortesia, né la glorificazione, né la devozione ansiosa di cadere in ginocchio, né l'acidità o l'amarezza. Incrocio l'Altro in un universo problematico che è di tensione, e in un contesto che è di lontananza. Il gusto di amare, di ammirare, non è disgiunto dalla speranza di riconoscermi se non eguale, almeno fraterno. Ma più ritrovo nell'Altro, indiano, cinese, argentino o congolese, un compagno di esperienze e di fatiche, più la sua estraneità mi si impone. Questo moto d'affetto verso una cultura comprende tanto l'adesione quanto la riserva; o meglio la mia integrazione in un universo straniero non è che una modalità particolare dell'esclusione. La duplice attesa dell'ebbrezza della vastità e dell'intima conoscenza, anziché aumentare il nostro sapere su una data religione o tribù, non fa che allargare il ventaglio della nostra vulnerabilità. Se ogni soggiorno o evasione hanno come effetto principale quello di rinnovare l'incantesimo della Terra, di restituire uno spessore a paesi che una visita sommaria aveva creduto di esaurire, quest'arricchimento tuttavia è ben lontano dall'accompagnarsi a un potere. Quanto si è scoperto non perde la sua dualità di segreto, e il modo in cui una cultura, un popolo, si manifestano la dice lunga su quel che nascondono. Se noi vi annodiamo delle amicizie, apprendiamo qualche rudimento della lingua, qualche brandello della sua storia, allora il paese, da lontano e astratto qual era quando vi siamo arrivati, diventa lontano e concreto. Donde la particolare tristezza di chi tenta l'espatrio: si trova obbligato a interrogare ma non riceve nessuna risposta.
Venuto a cercare un altro centro, cade nell'eccentricità. Lascia dietro di sé degli stranieri la cui esistenza, per lui, è divenuta più familiare, ma non per questo rimane meno enigmatica. Credendo di aquisire una padronanza, si è accontentato di approfondire uno smarrimento. La sua ricerca, per quanto lontano egli l'abbia condotta, rivela innanzi tutto la sua disunione dagli uomini; il sentimentalismo che ci mette è il prezzo pagato per un divorzio; qui si abbandona all'incanto e alla desolazione da una distanza che si rinnova all'infinito. Il viaggio verso l'Altro tende alla coincidenza e manca alla sua promessa. Certo, si vede il mondo attraverso il prisma di varie educazioni, di varie lingue, e la sovrimpressione di questi universi abitualmente preclusi fa sì che la loro gerarchia non sia tanto uniformata, quanto disorientata; un brusco contagio, una scorciatoia inattesa ha spostato il giogo delle frontiere. Per un momento, il viaggiatore può credersi investito dall'aura magica degli esseri in rottura, personaggi paradossali che sfuggono alle classificazioni, ai patronimici, alle genealogie. Ma questo fragile ponte levatoio lanciato sopra l'incomprensione e la diffidenza non cancella la solitudine. Egli non trova posto su questa terra in cui non è nato, e amarla è come venerare una donna che molti altri corteggiano e che tuttavia può darsi solo a se stessa. Rapporto amoroso, dicevamo: ma più vicino all'amor cortese che all'erotismo. Il viaggio è un'arte della carezza che scivola, vaga senza meta, ma non afferra. Nessuna ricerca, neppure illusoria, di un congiungimento; a mano a mano che lo esploro, l'Altro sfugge alla mia presa. Quindi, la mia serenità non è priva di un segreto tormento: l'ascesi cui sono sottoposto sfocia nello smarrimento di un non-sapere, di un non-possesso. Lo straniero non ha niente da rivelare perché il suo segreto è fondamentale: né la luce della conoscenza, del soggiorno o della coabitazione, né la conquista o l'assassinio bastano a profanare l'essenza, a estinguerne la riserva. Assente nella sua patria senza esser presente nelle altre, il nomade resta in sospeso fra due mondi che gli sfuggono: fermo in mezzo al fiume, ha lasciato la sicurezza della riva natale, ma vede l'altra indietreggiare man mano che avanza.
L'amore dell'altro uomo C'è un solo tipo valido di viaggio, che è la marcia verso gli uomini. PAUL NIZAN
E, naturalmente, è l'insuccesso del viaggio che ne costituisce la riuscita. Nessun disappunto può cancellare la mia sete di partire, far calare la febbre che mi consuma. Più l'Altro si offre sottraendosi, più mi slancio verso di lui e lo manco; e ben presto il desiderio insensato di essere l'Altro cede il posto al desiderio dell'Altro in quanto non è me. Senza dubbio si tratta anche qui di un'illusione, ma la migliore cui si possa cedere; nel suo accanimento a promuovere l'unità del genere umano, il viaggiatore ha ragione: sa che la solitudine nello scambio vai più dell'isolamento nel mutuo disprezzo; che una comunicazione imperfetta è preferibile a un silenzio ostile; che una sola coalizione feconda è superiore a molti monologhi sterili; che ogni discorso a contatto di ciascun altro perde molte delle sue asperità e si allarga in diverse affermazioni; che il vagabondo, nella sua impazienza di congedarsi, ha sempre ragione sul sedentario; e che infine, per costringere i popoli a uscire dalla loro superbia e a legarsi per mille ramificazioni, è più utile magnificare tutto a dismisura che demolire tutto per rancore. Partire, allora, significa andare a salutare l'Altro sul proprio territorio. E decretare che il dato uomo è il mio prossimo, invece dei miei simili o della mia famiglia, è rifiutare le identificazioni obbligate con una razza, uno schieramento, un partito, un'ideologia, una lingua, per rivendicare la libera elezione della patria che voglio. E dare il primato alle parentele approssimative sull'eredità, alle identità d'acquisto sul parentado e il vicinato, scegliere un'intimità secondo il cuore anziché un'intimità secondo la carne e il sangue. Il viaggio è quindi il tributo che l'amicizia rende alla distanza; per fragile che sia, esso prova che nessuna lontananza spirituale o chilometrica può contrastare le affinità che spingono gli umani ad aggregarsi e a incontrarsi. Posso scegliere solo fra due esigen-
ze egualmente impossibili e necessarie: non posso disinteressarmi alla sorte dell'Altro lontano, eppure non posso vivere con lui. Tormentosamente attratto da esseri la cui esistenza mi obbliga a lasciare la mia terra, eppure incapace di fondermi nel loro modo di vivere, sono intrappolato nella tipica situazione passionale riassunta dal celebre adagio: né con te né senza di te. Per questo, alle generazioni che hanno varcato facilmente le frontiere e hanno trovato l'Europa troppo piccola, bisogna dire ancora e sempre: partite. A dispetto delle sordità e dei fanatismi, continuate ad andare verso est, verso sud, verso nord incontro ad altri uomini interessanti. Tutto ci incita alla diffidenza? Vuol dire che bisogna aver fede nell'Altro: ciò che revoca l'umano è anche ciò che lo provoca. Lasciate luccicare le tentazioni dell'altrove. Divenite preda degli altri senza rinnegare la vostra libertà ma senza neppure temerne la perdita. Ogni partenza è una scommessa sulla generosità, un invito alla benevolenza, perché il mondo è tollerabile solo in stato di trasfusione permanente. I popoli lontani, l'oltremare, i tropici, ci dicono con le loro cento voci, le loro suggestioni, i loro miraggi: venite. Venire a che cosa? Non lo precisano. La terra straniera non è una promessa o un giuramento: soltanto un richiamo.