ALEX BARCLAY IL SORRISO DELL'OSPITE (The Caller, 2007) A Ciaran, Ronan, Lorraine e Damien Gli occhi imploranti il respir...
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ALEX BARCLAY IL SORRISO DELL'OSPITE (The Caller, 2007) A Ciaran, Ronan, Lorraine e Damien Gli occhi imploranti il respiro mozzo non alla vita anelava bensì alla morte. Anonimo Prologo La stanza era tre metri per due e senza finestre. Deboli raggi di luce filtravano attraverso le sbarre, che correvano lungo tutta una parete fino al soffitto. La piccola televisione, montata su uno scaffale nero esterno della cella, trasmetteva solo un segnale disturbato a tutto volume. Su un vassoio vicino alla porta i resti sbriciolati di una cena troppo cotta. Il letto, accostato alla parete destra, era perfettamente rifatto, gli angoli ben rincalzati sotto il materasso sottile, e la ruvida coperta verde ben tesa, tranne nel punto in cui era seduto, curvo e concentrato. Macchie di sudore sulla camicia in corrispondenza delle pieghe del tessuto; l'odore si mischiava al tanfo crescente dei resti del cibo. Aprì gli occhi blu e accese la lampada che aveva accanto; sotto l'intensa luce bianca fece brillare un calco in gesso: due arcate dentarie, un oggetto che conosceva così bene da poterlo riconoscere solo facendovi scorrere sopra il pollice. L'imperfezione di un incisivo sporgente, la punta di un canino affilato, la superficie irregolare di un premolare scalfito. Solo una volta aveva visto quei denti in un sorriso: un rapido lampo prima che il terrore vi calasse sopra. In seguito, per ore, erano rimasti serrati per l'agonia, visibili solo quando la bocca si apriva in un urlo silenzioso. Si piegò in avanti e da sotto il letto estrasse una scatola, che poi poggiò sulle ginocchia. Contorcendosi, riuscì a prendere una chiave che aveva in tasca, e con quella aprì la scatola. Guardò il calco un'ultima volta, poi lo ripose insieme agli altri. Uno, due, tre. Quattro.
Il giorno dopo quello in cui vedi morire la tua prima vittima non è molto diverso dal giorno prima. Ti svegli come al solito. Salti la colazione, magari anche il pranzo, ma questo non vuol dire che non mangerai... prima o poi. E dormirai pure. Tornerai a una specie di routine; forse non del tutto identica a quella precedente; magari con qualche colpo a vuoto. Ma sono colpi innocui. Perché tu sei vivo. Spinse la scatola sotto il letto, dove erano custoditi altri promemoria - di vite prese e di vite risparmiate. Chiuse gli occhi e inspirò l'aria calda e stantia. La prigione per me è uno strumento, una palestra, una fermata intermedia. Guardo le sbarre dietro di me, lo spazio che mi circonda, impedendomi di guardare oltre. Penso a dove sei tu e quanto sia tragico per te che io mi trovi qui e tu là. Ma molto presto, oh, davvero presto, anche io sarò là, insieme a te. Ingresso, uscita. Spense la luce. Si rimise la chiave in tasca, si alzò e andò alla porta. Tolse il chiavistello, uscì e spense la televisione, osservando come il chiarore del video venisse risucchiato in un minuscolo cerchio al centro per poi sparire. Quindi si incamminò verso le scale, le salì, fece una pausa sulla soglia ed entrò nella sua casa luminosa e con l'aria condizionata. Aveva ventinove anni, era piccola e magra, indossava stivali bianchi, un cardigan rosa pallido e jeans. I capelli scuri erano raccolti e fissati alla base del collo con una pinzetta; aveva la pelle olivastra e gli occhi azzurro ghiaccio. Accanto a lei c'era una bambola con i capelli di lana marrone raccolti e fissati con dei fiocchi, e vicino alla bambola c'era un portacenere di terracotta: lo avevano dipinto per metà e dentellato con la pressione dei pollici. Non riusciva a ricordare perché si fosse seduta. Aprì il cassetto della scrivania e ne trasse fuori un santino dorato di Padre Pio e un rosario, che si avvolse intorno alle dita; poi chinò il capo e iniziò a pregare. Disse a san Giuseppe che non osava avvicinarglisi fintanto che nel suo cuore riposava Gesù. La paura arrivò dal nulla, con il consueto senso di oppressione allo sto-
maco. L'unico sollievo era che mischiata a questa c'era anche un'euforia mai provata prima; ma durò poco, e presto il terrore prese il sopravvento. Sentì la mano sinistra partire d'impulso e afferrare un taccuino, che poi tirò a sé sulla scrivania, la testa che sembrava sfuggire al corpo, mentre provava a dare un senso ai suoi movimenti. Una spirale scura si dipanò dietro ai suoi occhi, creando forme grigie e nere affilate come rasoi, in una frenetica accelerazione di scene semibuie. La mano destra annaspò nell'aria, le dita in cerca di due brevi linee verticali, il tasto di pausa, poi della freccia del riavvolgimento. Ma non era niente che potesse controllare. Fu attraversata dall'impulso di far durare per sempre quel momento, di non tornare indietro, di non gettare luce su quelle memorie senza contorni. Prima però di riuscire a scrivere, se ne era andata, distesa sul pavimento, tirandosi dietro carte, penne e matite. L'ultima cosa che vide fu il suo amico, fermo sulla porta, ridotto alle dimensioni di un bambino. L'ispettore Joe Lucchesi era seduto con la testa sulle ginocchia, il volto solcato dalle lacrime che gocciolavano sul tappeto. Aveva la faccia stravolta, la fronte punteggiata di gocce di sudore e segnata dalla pressione delle dita prima che il dolore, quello vero, irrompesse. Era arrivato mezz'ora prima allo studio del suo dentista per un trattamento di urgenza, sfiancato da un dolore che, a suo giudizio, aveva superato di gran lunga la soglia di sopportabilità. Adesso era al di là di qualsiasi scala di misurazione e non cessava di aumentare. La nausea lo travolse, ma rimase piegato in due, emettendo un ululato che gli si strozzò in gola. «Joe? Joe?» Dalla porta entrò di fretta un'assistente. «Rimanga con me, dolcezza, non svenga.» Si guardò in giro nella sala d'attesa. «Qualcuno ha visto cosa è successo?» «Era seduto là, leggeva il giornale, poi ha ricevuto una chiamata sul cellulare. Quando si è rimesso a sedere ha cominciato a star male.» Joe sapeva che a parlare era un uomo anziano, dal volto gentile, seduto di fronte a lui in sala d'aspetto. L'assistente mise una mano sulla spalla di Joe. «Il dottor Makkar sarà qui subito. Posso portarle qualcosa nel frattempo?» «Forse vorrà un bicchiere d'acqua?» Era di nuovo l'uomo anziano, che si era alzato: Joe poteva vedere davanti a sé sul tappeto i suoi mocassini marroni scamosciati. Riuscì a sollevare una mano tremante che diceva di no a entrambe le offerte.
«Credo che non sia neppure riuscito a parlare con la persona che gli ha telefonato», disse l'uomo. Ma Joe sapeva che non era stato il dolore a impedirgli di parlare. Era solo che non aveva risposte per quella voce che tornava a insinuarsi nella sua vita, strascicata e greve di questioni sospese. «Ispettore Lucchesi? Ogni volta che guardi le cicatrici sul bel corpicino di tua moglie, proprio laggiù... molto in basso su quel pancino liscio. O quando la prendi per le spalle e la giri verso di te. È leggera, è facile voltarla, non è vero? Anche lì ci sono delle cicatrici, perché i miei regali non finiscono mai. Bene, quello che voglio sapere è: la desideri ancora? Fece una pausa. O sono io quello che desideri di più? Rise a lungo e forte. Dimmi, chi è che lo prenderà nel culo? La piccola Anna Lucchesi o il grosso e cattivo Duke Rawlins? Le sue parole si spensero in un lungo silenzio, poi la voce tornò, un'ultima volta. A proposito, ispettore. Non riuscirai a farmi fuori, mai. Io. Farò fuori. Te.» 1. Gli ispettori Joe Lucchesi e Danny Markey entrarono nell'ascensore che li avrebbe portati al sesto piano nell'ufficio della Omicidi di Manhattan Nord. Erano alla terza ora del turno dalle otto alle quattro. Dietro di loro si infilò un uomo magrissimo, che saltellava ora su un piede ora sull'altro. «Sapete che posso leggervi il futuro dalla mano?» Aveva la pelle butterata e l'occhio sinistro storto. Si piazzò a pochi centimetri da Joe, alzò la testa e gli sorrise. Joe scambiò un'occhiata con Danny e poi gli porse il palmo. L'uomo arretrò fino a urtare con la testa contro la porta dell'ascensore. «Non il palmo!» urlò. «Non il palmo! Il dorso della mano! È quello che devo leggere per sapere il futuro.» Joe allora gli porse il dorso. «Anche l'altra mano. Tu pure», disse, rivolgendosi a Danny. «Tutte e due le mani. Tutte e due le mani. Una mano lava l'altra.» Joe e Danny sorrisero e fecero come diceva. «Aspettate a ridere, perché quelle che vedo potrebbero non essere buone notizie. Potrei svelarvi che non è tutto oro quello che luccica.» «Noi le brutte notizie non vogliamo sentirle», disse Danny, «vero?» «Vero», confermò Joe. «Bene», fece l'uomo. «Ma io qui non sono solo un ambasciatore, capitemi bene. Io sono quello che dà inizio, che mette tutto in moto. Sparo il
colpo di partenza. E il futuro che vedo inizierà proprio qui, in questi nove punti di sutura.» Joe annuì lentamente. L'uomo alzò le mani e si aggiustò sulla testa il cappello di maglia viola, girandolo in modo da avere sulla faccia uno dei copriorecchi. Poi lo ruotò di nuovo e tornò a guardare le mani. «Infatti», disse, «vedo delle cose. Senza dubbio. Mi chiamo Una Frase, a proposito. Una Frase. Re di Madison Avenue. Il vostro prodotto in Una Frase. La vostra marca in Una Frase...» «Facevi il pubblicitario?» gli chiese Joe. «Il vostro futuro in Una Frase», proseguì l'uomo, fissando le mani che aveva di fronte. «Ok», strinse i tempi Danny, «allora, cosa vedi?» Squillò il campanello e le porte dell'ascensore si aprirono al sesto piano. Joe e Danny uscirono. Mentre le porte si richiudevano, Una Frase sporse la testa. «Una frase: siete fottuti. Tutti e due. Sono due frasi? Non è che sono due?» Le porte si chiusero. Joe e Danny risero. «Un altro Smd per il Dsu», disse Danny. Smd stava per Soggetto mentalmente disturbato, Dsu per Dipartimento sviluppo edilizio, uno dei cui compiti era di assegnare sussidi per gli alloggi alle persone con disturbi mentali. «Mandiamolo agli Affari Interni, a dire anche a loro che sono fottuti», propose Danny. «Per quelli mi piacerebbe che inventasse un intero spot», commentò Joe. Alla Omicidi di Manhattan Nord lavoravano sedici ispettori divisi in tre squadre, distribuiti su un moderno open space con un ufficetto a pannelli di vetro in un angolo, condiviso dal sergente e dal tenente. Il dipartimento di polizia di New York era una delle poche agenzie per l'ordine pubblico del paese i cui agenti non fossero sottoposti a regolari esami di controllo, così che il sergente John Rufo era libero di continuare la sua scalata ai centoventi chili, senza smettere mai di dichiararsi a dieta perenne. «La vostra elasticità mentale si è deteriorata», disse indicando Joe e Danny con una forchetta su cui era infilzato qualcosa di beige. «Quello non è tofu?» chiese Danny. «No, non è tofu, è pollo lesso marinato. Tofu. Ma fammi il piacere.»
Joe e Danny si scambiarono un'occhiata. «Sono le undici del mattino», osservò Danny. «Bisogna mangiare poco e spesso», ribatté Rufo. «Così mi hanno detto.» Indicò il proprio piatto. «Verdure, proteine...» «Certo capo», disse Danny, «salsa di pomodoro, polpette: ci sono già passato.» «Come fai a rimanere così snello?» chiese Rufo. «Vuol forse sapere se faccio esercizio fisico?» Rufo alzò gli occhi al cielo, poi infilzò una foglia d'insalata. «Chi è di turno oggi?» «Io», disse Joe. «E mangio bene, per inciso.» «Devi stare attento al cibo francese», gli disse Rufo, alzando lo sguardo su di lui. «È gustoso...» alzò un dito ammonitore, «... perché è ricco. Tua moglie è geneticamente pronta ad affrontarlo, tu potresti non esserlo. Oggi sei in forma, ma domani chissà...» Joe rise. «D'accordo, sergente. La ringrazio di prendersi cura di me.» «Una dieta variata, ecco ciò che...» Il telefono interruppe Rufo. «Ruthie, sì, passamelo.» Fece un cenno di assenso. «Come stai? Ok, sì, ok.» Per un po' ascoltò, poi scribacchiò qualcosa su un taccuino. «Immediatamente. Gli ispettori Joe Lucchesi e Danny Markey. Sì, certo, riguardati.» Mise giù il telefono. «Signori, abbiamo un omicidio sulla Ottantaquattresima Ovest. Ecco l'indirizzo. Un tizio. Nel suo appartamento.» Strappò la pagina e la porse a Joe. «Quelli del Ventesimo distretto sono già sul posto.» Joe e Danny attraversarono Broadway, diretti al parcheggio sotto il ponte della ferrovia. «Ma a chi può venire in mente di usare la parola «snello'?» chiese Danny. «A una persona che non lo è», gli rispose Joe. «È incredibile. Ogni volta che entriamo nel suo ufficio rimaniamo invischiati in una conversazione sul cibo. Andrà a finire che muoio di fame.» Danny era basso, tarchiato ma senza un grammo di troppo. Non cambiava taglia di abito dall'età di diciotto anni. Di carnagione chiara e leggermente coperta di efelidi, aveva capelli castano chiaro e occhi blu. Joe, al contrario, era alto un metro e ottanta, di carnagione scura e corporatura massiccia. D'improvviso Joe si fermò. «Oh cazzo...»
«Che c'è?» «Guarda cos'è successo!» Joe si avvicinò a una Lexus argentata. «Porca puttana.» Estrasse le chiavi di tasca, aprì la portiera e poi il cruscotto; ne estrasse un panno e cominciò a sfregare una macchia di catrame sul parabrezza. «Questa merda mi ha proprio rotto i coglioni», disse guardando in alto verso il ponte, da dove gocciolava catrame liquefatto. «Perlomeno era fresco», disse Danny. «Come mai non hai la ghettocar?» La ghetto-car era un'auto di servizio di seconda mano, che si poteva parcheggiare dovunque senza doversene preoccupare. «Ho un incontro alla scuola di Shaun oggi e vado direttamente là. O almeno avrei dovuto. Sembra proprio che Anna dovrà andarci da sola.» Shaun era il figlio diciottenne di Joe. «Non credo che apprezzerà» commentò Danny «Come va con Shaun?» Joe scosse la testa. «Non me ne parlare.» «Ne ha passate un bel po'.» «Sì, ma comincio lo stesso a dare fuori di testa. E ad Anna non servono certo tutte le menate di dover andare a scuola ogni mese per parlare con una testa di cazzo di insegnante quindici anni più giovane di noi.» «Shaun è un bravo ragazzo. L'anno prossimo andrà al college e non avrai niente di cui preoccuparti. Pensa a me che ne ho quattro sotto i dieci anni. Bene gliene voglio, però ragazzi...» Sospirò. «Adesso coraggio, di' addio all'auto bella e sali sull'auto di merda.» C'era una squadra di cinque auto alla Manhattan Nord; un qualsiasi danno in servizio comportava una strigliata da parte di Rufo. Più nuova era l'auto, più possibilità c'erano che toccasse a Joe guidarle. Oggi gli era stata assegnata la più vecchia del lotto, una Gran Fury grigia. «Se anche la graffi, chi cazzo se ne frega?» commentò Danny. Partirono e si unirono al traffico verso sud sulla Broadway. «Posso chiederti cosa hai fatto dal dottor Mak?» disse Danny. Joe grugnì. «Sono entrato da lui reggendomi a malapena in piedi, ho preso un bel po' di Vicodin e me ne sono andato.» «Tutto qui?» «Tutto qui.» «Vuoi dire che non ti sei lasciato fare nient'altro?» «Cosa sei? L'assistente psichiatrico?» Danny lo ignorò. «Secondo me sei entrato, gli hai detto che avevi poco tempo perché eri impegnato e ti bastava una ricetta e poi sei scappato via.»
«Che altro dovrei fare?» «Farti curare.» Joe soffriva di Dtm, Disfunzione temporo-mandibolare. Il meno che gli accadeva era di far scricchiolare la mascella ogni volta che apriva bocca, il peggio un dolore lancinante che gli trafiggeva tutta la testa. Per anni Danny lo aveva visto mandar giù analgesici e antinfiammatori da banco. Più recentemente era passato al Vicodin. «Stai peggiorando», gli disse. «Già, proprio come te.» Joe distolse lo sguardo. La telefonata di ieri lo aveva scaraventato indietro nel tempo, riportandolo ad avvenimenti che per mesi aveva cercato di dimenticare: il salvataggio, miseramente fallito, di una bambina di otto anni, e quello che ne era seguito: la distruzione della sua famiglia. Poco dopo la riconsegna della piccola alla madre disperata, la scena da commovente si era trasformata in una serie di plastiche immagini sanguinose, impossibili da cancellare dalla mente: mentre le due erano lì che si abbracciavano, il rapitore le aveva fatte saltare in aria, per punirle dell'intervento della polizia. Pochi istanti dopo, Joe gli aveva piantato sei pallottole nel petto. Si chiamava Donald Riggs. Dopo quel caso, Anna aveva voluto che Joe si prendesse un periodo di riposo. A lei era stato offerto un lavoro in Irlanda, e si erano trasferiti lì insieme a Shaun. Dopo otto mesi trascorsi alla grande, era andato tutto allo sfascio. Donald Riggs aveva un compare, Duke Rawlins, suo complice in una serie di crimini efferati, uno che non avrebbe mancato di vendicare la morte del suo amico. Appena uscito da una prigione di massima sicurezza, aveva rintracciato Joe, con lo scopo di distruggerne la famiglia. In Irlanda infatti la ragazza di Shaun, Katie, era stata assassinata. Poco dopo, Rawlins aveva rapito Anna, abusando di lei, e lasciandole delle cicatrici nel corpo e nella mente che ogni giorno ancora adesso lottava per cancellare. Accostarono accanto all'auto di pattuglia fuori dal condominio sull'Ottantaquattresima Ovest. Sotto il tendone d'ingresso verde e oro stava una coppia elegante, consapevole che era successo qualcosa, ma più preoccupata di scegliere il locale per il brunch. All'interno, il portiere era un vecchio azzimato e baffuto, sul cui cartellino stava scritto MILTON. «Orribile», fu tutto quello che disse, scuotendo la testa, mentre con una mano guantata di bianco indicava l'ascensore. «Qualcuno ha già parlato con lei?» chiese Danny. Milton fece segno di sì con la testa.
«Bene, allora saremo di ritorno da lei fra un po'.» «Perché urlavi quando gli parlavi?» chiese Joe, una volta entrati nell'ascensore. «Non ti sembrava che fosse un po' sordo?» Joe alzò gli occhi al cielo. Scesero al terzo piano e percorsero un corridoio piastrellato di grigio fino all'appartamento 3E. Ne uscì un ispettore in completo blu, gli occhi fissi sul taccuino che reggeva nella mano sinistra. Con la mano destra si premeva lo stomaco. Lentamente si volse nella loro direzione e Danny e Joe si presentarono. «Tom Blazkow del Ventesimo.» Il Ventesimo distretto copriva tutta la zona dalla Cinquantanovesima alla Ottantaseiesima a ovest di Central Park. Blazkow era un tipo sulla quarantina, massiccio, capelli grigi corti, mascella prominente e occhi blu iniettati di sangue. Si voltò in direzione dell'ispettore che usciva in quel momento dall'appartamento. «Il mio partner, Denis Cullen.» Si scambiarono un cenno di saluto. Cullen era sulla cinquantina e indossava un completo marrone stazzonato, con la cravatta di una squadra di bowling tenuta da una spilla a stelle e strisce. I capelli rossicci iniziavano a sfoltirsi sulla sommità della testa e il naso e le guance erano percorsi da capillari esplosi. Dava l'impressione di essere un tipo zelante ma sembrava sfinito. «Allora, cosa abbiamo?» chiese Joe. Rispose Blazkow: «Ethan Lowry, designer, nato il 12/4/71, sposato, una figlia piccola. Il 911 ha ricevuto una chiamata dal fattorino del dietista, che ogni mattina gli consegna i pasti della giornata. Per la prima volta in undici mesi non è venuto ad aprire la porta. Il tizio ha notato una goccia di sangue nell'ingresso e sentito un cattivo odore.» Indicò un ragazzo pallido e ansante. «I due poliziotti in uniforme che sono arrivati hanno suonato il campanello, bussato alla porta e poi, non avendo ottenuto risposta, sono andati sul retro, si sono arrampicati sulla scala antincendio, ma non sono riusciti a vedere niente dalle finestre. Allora hanno chiamato l'unità di emergenza. Il cadavere era proprio dietro la porta d'ingresso. Nessun segno di effrazione. La porta balcone era chiusa a chiave. Al cellulare della moglie non risponde nessuno. Abbiamo piazzato un agente in uniforme presso l'ascensore; sa da chi deve stare in guardia. Dovrete bussare.» Indicò l'appartamento. «Attenti a entrare, potreste scivolare su un pezzo di faccia.» Joe prese dalla tasca della giacca un fazzoletto e una bottiglietta di dopobarba; ne versò qualche goccia sul cotone bianco e se lo premette al na-
so, inspirando profondamente. Bussò alla porta e, cautamente, lui e Danny entrarono nell'appartamento. Ethan Lowry giaceva sulla schiena, nudo, il corpo pressato contro il battiscopa. Aveva le braccia distese in alto e il volto rivolto a destra, o almeno ciò che rimaneva del volto. Ethan Lowry era stato picchiato selvaggiamente, con molti più colpi di quelli necessari a ucciderlo, dato che era stato finito con una pallottola. Il danno era limitato al volto; dove la pelle non era gonfia e tesa, era maciullata. Le narici erano otturate dal sangue rappreso. «Che cos'ha in bocca?» chiese Danny. «La bocca», rispose Joe. «Oggesù!» esclamò Danny, piegandosi per osservare da vicino. Sembrava che la bocca di Lowry fosse stata rivoltata come un guanto: gli copriva l'intero mento e la parte sinistra del volto come un pezzo di carne cruda. Solo un dente era visibile, gli altri rimanevano nascosti dalla massa tumefatta, oppure erano sparsi sul pavimento, ciascuno contrassegnato da un cartellino numerato. Joe inspirò rumorosamente. La pelle era lacerata a partire dall'orbita sinistra, dove una pistola aveva sparato a bruciapelo. «Ciao», disse Danny a Kendra, una donna grassa e sorridente, tecnico della scientifica, che in quel momento era accucciata sul pavimento accanto a lui. «Ciao Joe, ciao Danny. Sto vivendo un momento da Mtv Cribs. In questa puntata eccoci ancora una volta in una splendida casa. Qui siamo nell'ingresso e questo è il punto dove è avvenuta la magia. Vedete?» Con un gesto indicò il corpo e poi descrisse un arco al di sopra di esso. «Sul pavimento e alla parete abbiamo un velo di vapore espirato, sul soffitto del sangue spruzzato. Non ci manca niente. Laggiù uno schizzo ad alta velocità causato dallo sparo. Piccolo calibro.» Scosse la testa. «Poi...» «Che Dio ti benedica, ma che ti rallenti anche un attimino», la interruppe Joe. «Dacci un momento di respiro.» «Scusate. È che divento così...» «Espansiva», intervenne Danny. Kendra si rivolse a lui: «Mi piace il mio lavoro, e se si tratta di un sentimento che per qualche motivo ti mette in imbarazzo...» Alzò le spalle. «Come può non piacere una cosa del genere?» disse Danny indicando il cadavere. Accanto alla testa di Lowry c'era un cordless nero, striato di sangue. Joe si infilò un guanto, lo raccolse e premette il pulsante di ripetizione delle chiamate fatte.
«Qui c'era qualcuno di vivo ieri sera alle 10:58.» Trascrisse tutte le chiamate in entrata e in uscita. «Chiamo io Martinez», disse poi Joe. «A meno che non voglia farlo tu», aggiunse sorridendo. L'anno prima, mentre Joe era in congedo, Aldos Martinez era stato il partner di Danny. Adesso, insieme al nuovo partner di Martinez, Fred Rencher, costituivano il D Team, l'unica squadra di quattro persone alla Manhattan Nord. «Pronto Martinez, sono Joe. Fammi un favore, ho bisogno di un'indagine su una vittima, Ethan Lowry, 1640 Ottantaquattresima Ovest, data di nascita 12/4/71. Grazie. Benissimo. Ci vediamo fra poco.» Fece una pausa e guardò Danny «Sì, è qui. Hai bisogno di parlargli?» Danny fece energicamente segno di no con la testa. «Oh, ok. Ci vediamo.» «Che voleva?» «Solo dirti che gli manchi.» «Guarda qui», disse Danny. Era accucciato in corrispondenza dei polsi di Lowry e indicava una serie di fori nel pavimento. «Doveva avere le braccia immobilizzate da qualcosa che era inchiodato qui. Ci sono due buchi su ogni lato del polso.» «Trovato niente che possa avere usato allo scopo?» chiese Joe a Kendra. «Non credo proprio. Il nostro uomo non si lascia certo dietro niente del genere. Scommetto che sono i suoi giocattoli preferiti.» 2. Lungo il corridoio dell'appartamento di Lowry si aprivano sei porte: due camere da letto e un bagno sulla sinistra, una cucina, un soggiorno e uno studio sulla destra. La cucina era dipinta di giallo limone, con pensili verde lucido e ripiani color crema; dappertutto regnavano ordine e pulizia. Nel soggiorno c'era un divano rosso scuro, un maxischermo e un mucchio di giocattoli raccolti in un angolo; in un altro angolo erano sistemati un tappetino da yoga e due manubri rosa. «Credo che nessun designer di buon livello possa avere a che fare con questo arredamento», disse Joe. «Forse era un designer di basso livello», commentò Danny. «Per te le vittime sono sempre più in gamba o più dotate di quanto dimostrino le prove?» «Non è vero.»
«Se le trovi in una bella casa, sì.» «Si dà il caso che quasi mai si trovino in una bella casa, per cui le tue sono stronzate. In genere sono in avanzato stato di decomposizione su un letto senza materasso in un putrido stanzino o in qualche posto che non vede una goccia di detersivo da...» Entrarono nell'ufficio di Ethan Lowry. Questo mi sembra più intonato», disse Joe. «Capisci cosa voglio dire? Linee essenziali.» «La gente ama le trasmissioni televisive sui delitti e quelle sull'arredamento. Tu combini le due cose: Joe hai trovato il tuo lavoro. Extreme Makeover: puntata sulle effrazioni. CSI: puntata sulle case in arenaria.» Joe sorrise, il che incoraggiò Danny. «Ispettore Joe Lucchesi: indaga sulla tua morte ma anche sul tuo gusto. Quali sono stati i tuoi ultimi spostamenti? E perché hai scelto proprio quelle tende e proprio quel tappeto? Scopritelo dopo la pubblicità. Quest'anno le cucine verdi impazzano, e a proposito di pazzia, i pestaggi selvaggi sono...» «Va bene, basta così. Ora fammi pensare.» Lo studio di Lowry era ordinato e minimalista. Lungo una parete bianca si trovava una lunga scrivania grigia con gambe d'acciaio. Al centro era poggiato un monitor lcd da venti pollici; lo screen saver era fatto da una serie di foto della famiglia di Lowry. Joe non ne aveva ancora messo uno simile sul portatile, perché non gli veniva in mente niente che volesse ricordare. Si fermò di fronte a quelle immagini felici di un uomo morto. Dalle foto e dal cibo che gli era stato portato si capiva che Ethan Lowry si era impegnato parecchio per perdere peso. Il nuovo corpo più magro, per il quale aveva lottato, giaceva ora senza vita in una pozza di sangue alla porta d'ingresso. La macchina fotografica, una reflex professionale, si trovava su un tavolinetto sulla destra, accanto a due alte pile di cassetti di plastica trasparente. Joe ne aprì alcuni: ricette, graffette, elastici, francobolli. «Guarda», disse a Danny, «era un buon designer.» Il cassetto più in basso era pieno di polverosi premi per il design. «E ovviamente era sufficientemente modesto da non metterli in esposizione. Il che mi farebbe pensare che era davvero un tipo in gamba.» Danny alzò gli occhi al cielo. Sotto la scrivania, i cavi che uscivano dal computer, dalla stampante, dal monitor e dalla lampada erano accuratamente legati insieme e terminavano con spine contrassegnate da icone. In un angolo sul pavimento, accanto a un letto singolo ben rifatto, c'erano un paio di pantaloni blu da ginnastica, una maglietta bianca e un paio di boxer bianchi di jersey. Lì accanto si tro-
vava un pacco di lettere tenute insieme da elastici indirizzate a Ethan Lowry con grafia da bambina. Sul letto erano appoggiati un PowerBook da diciassette pollici, con un led bianco lampeggiante, e accanto a questo un vibratore telecomandato e un frustino di pelle. Joe alzò lo schermo del portatile, su cui comparvero una serie di copertine di dvd soft porno: uomini in jeans e a torso nudo, coi muscoli ben oliati, che minacciavano biondine dall'aspetto smarrito, lesbiche dai seni enormi che intrecciavano le lingue, ragazze pon pon, meccanici, soldati e soldatesse, poliziotti. «Siamo rimasti in pochi ad aver paura dei Village People», disse Danny, spuntando dietro di lui. «Battuta scontata», replicò Joe. «Ma lui non è Marv.» Marvin era uno dei primi cadaveri che avevano dovuto sorvegliare da pivelli, un obeso morboso, vittima della sua bulimia. Tutto ciò che avevano rinvenuto nel suo appartamento era un cumulo di scatole di ciambelle, una montagna di fazzoletti di carta usati e la più grande collezione amatoriale di porno estremi che Joe o Danny avessero mai visto. Si spostarono nella camera matrimoniale. Un altro spazio ordinato, con un grande letto, coperto nella metà inferiore da un telo di seta verde pallido. «Vorrei che Gina mi permettesse di avere un letto dove è così facile entrare», disse Danny, «invece di dover prima farsi strada in mezzo a un centinaio di merdosi cuscini. Hai mai capito perché le donne facciano di queste cose?» «No.» Su entrambi i comodini c'erano libri e bottiglie d'acqua; su quello della moglie c'erano anche degli analgesici e un braccialetto, mentre su quello del marito un portafoglio e un orologio. In un angolo si trovava una sedia con appoggiati dei jeans e una canottiera grigia. Salendo uno scalino sul lato sinistro della stanza, si accedeva alla zona guardaroba, che sembrava essere di pertinenza della signora Lowry, nonché quella più manomessa dall'intrusione. C'erano trucchi, scarpe, cinture e borse sparse ovunque. In un angolo due cesti da biancheria erano zeppi di vestiti, una valigia appariva riempita per metà, il tavolino da toeletta era coperto di prodotti per capelli e di trucchi. Un piccolo sgabello era stato ribaltato sul pavimento. Joe studiò la stanza per parecchi minuti prima di decidere che non era stato l'assassino a provocare quella confusione. Sembrava più il risultato di una
lite. Joe prese nota di dove voleva che fossero scattate delle fotografie e ne informò Kendra quando furono di ritorno nell'ingresso. Qui disegnò una piantina dell'appartamento, appuntando ogni minimo dettaglio. Dopo tre ore, tutti avevano finito ed erano sulla via del ritorno verso il Ventesimo distretto. «Che ne pensi?», chiese Danny mentre salivano in macchina. «Di sicuro non è una rapina.» «Già, con il portafoglio sul comodino...» «Due portafogli.» «Come?» «Sì. Nell'ingresso, quel tavolino ribaltato. C'erano due portafogli, uno tutto strappato e un altro nuovo.» «Entrambi della vittima?» «Entrambi con le sue carte dentro, oltre al denaro.» «Già, e poi l'orologio di marca sul comodino e il resto...» «Con il computer, quei giocattolini e il corpo nudo potrebbe trattarsi di un omicidio a sfondo sessuale.» Danny annuì. «Credi che avesse qualche relazione extraconiugale? Blazkow ha detto che la moglie era rimasta a dormire dalla madre, nel New Jersey.» «Mi sembra la cosa più probabile.» Tirò fuori il cellulare. Otto chiamate perse; sei erano di Anna: un messaggio vocale, quattro senza risposta e un altro messaggio vocale: «Stronzo». A Joe piaceva il modo in cui lei diceva stronzo con il suo accento francese. Non gli piacquero però il volume della voce e il tonfo del telefono riagganciato. Guardò l'orologio: ormai era tardi per andare da Shaun. E non aveva avvertito. «Cazzo e ancora cazzo! Mi sono scordato di chiamare Anna.» «Sei un uomo morto», disse Danny, facendo una rischiosa inversione a U. «E a proposito di uomini morti, hai saputo perché Rufo ha perso tutti quei chili?» «No.» «È morto suo fratello. Quarantanove anni, attacco di cuore. Senza preavviso, un colpo e via.» «Quello me lo ricordavo.»
«Ma c'è di più. Evidentemente al funerale Rufo doveva aver bevuto qualche bicchiere di troppo, perché uno dei ragazzi lo ha sentito dire a una vecchia zia che lui non voleva fare la stessa fine del fratello perché - senti questa - non si era ancora innamorato. Più precisamente, non aveva ancora trovato il vero amore.» «Rufo?» «Sì.» «Ora che me lo dici, me lo immagino in tutt'altro modo.» «Già. Immagini leggermente sfocate di lui che corre in un campo di grano.» «Quanto tempo è passato?» «Tre anni.» «E ancora non lo abbiamo visto insieme a una donna.» «È triste. Per tutti noi. Avrebbe potuto tenersi la sua corporatura abbondante e ci saremmo risparmiati le conversazioni su insalata, farro e cuscüs.» «Vai avanti tu», disse Joe quando arrivarono al Ventesimo distretto. Lui proseguì a piedi oltre l'ingresso e chiamò Anna. Pronto tesoro, mi dispiace. Non riesco a ...» «Lo so. Perché sono già stata a scuola e ormai sono tornata a casa.» «C'è stato un omicidio e mi sono dovuto trattenere, tesoro. Com'è andata?» «Ecco, c'era la preside e ha cominciato a...» Joe vide Cullen e Blazkow che uscivano dall'auto ed entravano nell'edificio. «Tesoro? Mi dispiace, in questo momento non ho tempo di ascoltare i particolari. Ma è andato tutto bene?» «Dipende», rispose lei rigida. «Devo andare, ascolta, mi dispiace, ti chiamo quando rientro in ufficio, ok? Probabilmente sarà un po' tardi. Ti amo.» «Anch'io ti amo», disse lei con voce stanca. Joe raggiunse l'ufficio al secondo piano, dove tutti erano in piedi a bere caffè. «Allora, cosa abbiamo?» chiese. «Omicidio a distanza ravvicinata, senza testimoni? Non abbiamo un cazzo», disse Blazkow. «Nessun video?» «Finora no», rispose Martinez.
«Neppure dagli edifici di fronte?» «Nulla.» «Non tutti quelli che abitano lì erano a casa», intervenne Blazkow. «Vedremo cosa salta fuori, ma nessuno dei vicini ha sentito niente e il portiere non ha visto un cazzo.» «Che mi dici della moglie?» «È dalla madre insieme alla bambina», disse Martinez. «È in uno stato pietoso, cercava di contenersi di fronte alla figlia, ma... fanculo, ho ricavato ciò che potevo da lei, ma non è un granché. Non ha idea del perché sia accaduto. Non facevano molta vita sociale, passavano la maggior parte del tempo loro due da soli.» «Ok. Rencher, puoi procurarti i tabulati delle telefonate di Lowry?» disse Joe. «Cullen, puoi verificare le targhe di tutti i veicoli in strada? Domani avremo l'autopsia; quando ci saremo fatti un'idea dell'ora della morte stabiliremo come setacciare di nuovo l'edificio.» Si rivolse a Blazkow: «Novità dal Bureau of Criminal Investigation o dalla Iii?» Chiunque venisse arrestato a New York riceveva un numero Nysid New York State Identification. Il Bureau of Criminal Investigation teneva le registrazioni. Per sapere se Lowry aveva la fedina penale sporca bastava fare una telefonata al Bci, che nel caso forniva dettagli e foto. Un controllo Iii rivelava se Lowry era stato arrestato fuori dallo stato di New York. «Nada», rispose Blazkow. «Ok», disse Joe. «Prenditi una sedia», disse Blazkow. «Vuoi del caffè?» «Sì, grazie.» Joe si tolse la giacca e si sedette. Quando alzò gli occhi, Denis Cullen era in piedi davanti a lui. «Senti, Joe, ecco, mi chiedevo se posso portarmi avanti con l'esame delle registrazioni contabili e magari anche dei tabulati telefonici.» Joe scoppiò a ridere. «È la prima volta in vita mia che mi chiedono il permesso per fare una cosa del genere.» «Sì, beh... insomma, penso di avere un certo occhio per queste cose.» All'una di notte Joe era stravaccato nella sua sedia, le dita indolenzite per il troppo battere a macchina. Aveva oltrepassato la soglia dell'effetto caffè, che adesso invece di tenerlo sveglio gli procurava sonnolenza. Non si accorgeva mai di andare in overdose di caffeina se non quando era troppo tardi. «Me ne vado», disse alzandosi all'improvviso.
«Tutto a posto?» gli chiese Danny. «Sono stanco. Vado in ufficio. Tu vieni?» «Certo. Non vai a casa?» «Non stanotte. Domani mattina presto c'è l'autopsia.» Alla Manhattan Nord il dormitorio era a lato dello spogliatoio e aveva quattro brande, con materassi sottili e coperte sotto le quali nessuno si arrischiava a dormire. Lavorare a «tabella quattro due» significava quattro giorni alternati a due di riposo. I primi due turni andavano dalle quattro del pomeriggio all'una di notte, gli ultimi due dalle otto del mattino alle quattro del pomeriggio. Il turno di recupero finiva all'una di notte e poi si ricominciava alle otto del mattino. La maggior parte degli ispettori si fermava nel dormitorio durante quelle notti, o almeno così diceva alle mogli. Ad Anna non piaceva più restare da sola a casa di notte, perciò Joe tornava da lei anche perché, abitando a Bay Ridge, la distanza era breve. Ma durante le prime notti di un caso importante lei sapeva che non avrebbe dovuto aspettarlo. Però come sempre Joe le telefonò. «Tesoro, sono ancora io. Stanotte rimango in ufficio.» «Me lo aspettavo.» «Ecco, non ti avevo detto nulla, perciò ho pensato...» «Va bene, non preoccuparti.» «Tutto a posto? Shaun è a casa?» «No, ma tornerà.» «Cos'è successo a scuola?» «Ecco, la preside è stata molto cordiale. Credo che Shaun le piaccia, però vede che è... cambiato. Dice che è stato maleducato e asociale.» «Quella è la sua parte francese.» Anna rise. «Già. I brutti voti però li hanno dati alla parte americana.» Stavolta fu Joe a scoppiare a ridere. «Hanno attribuito alla parte americana anche il suo fascino e il suo aspetto.» «E bassa autostima.» «Qual è stata la conclusione?» «Che gli daranno una possibilità per migliorare. Vedono che in classe è stanco, perché va a letto tardi e...» «Ci hanno fatto il lavaggio del cervello?» «Non ce n'è stato bisogno.» «Ascolta, sei sicura che per stanotte è tutto a posto? Vuoi che chieda a Pam di venire a dormire da te?» Pam era la seconda moglie di Giulio, suo padre.
«Pam?» esclamò Anna, ridendo. «Come no, una baby-sitter della mia età... che per di più è anche mia suocera.» «Matrigna.» «Quello che è.» «Non si tratta di fare la baby-sitter. Puoi chiederle se viene a bere un bicchiere di vino e guardare un film. Volevo solo darti un suggerimento.» «Solo per ricordartelo: è luna passata di notte. E io sto benissimo. Dormi bene se ti riesce.» «Grazie. Ci vediamo...» «Fra qualche giorno. Lo so.» «Ti amo.» «Anch'io.» «Tesoro?» «Sì?» «Mi piace ridere con te.» «Anche a me. Sai una cosa, Joe?» «Sì?» «Almeno so che passi la notte al dormitorio.» «Non farei mai diversamente.» Anna aveva ragione: lui trascorreva veramente la notte al dormitorio. Ma anche Gina Markey pensava la stessa cosa di Danny. 3. Stanley Frayte aveva ancora un'ora di tempo prima di recarsi al lavoro. Percorse Holt Avenue con il suo furgone Ford Econoline bianco, ai cui lati risaltavano le grosse scritte blu FRAYTE ELECTRICAL SERVICES. Entrò nel parcheggio sul lato sud di Astoria Park; alle otto e trenta c'era meno traffico rispetto a un'ora prima, quando gli sportivi alzatisi all'alba per allenarsi, riprendevano l'auto e se ne tornavano a casa a farsi una doccia prima del lavoro. Uscì dal furgone e lasciò che la brezza fresca dell'East River gli facesse venire la pelle d'oca sulle braccia scoperte. Nel punto in cui si trovava, vicino al parco, sotto il ponte Triborough, il quartiere di Astoria era lo stesso di sempre. L'unico cambiamento era dato dai condomini di lusso sul lato dello Shore Boulevard, che si affacciavano da una parte sui campi da tennis e dall'altra su Manhattan. Come era successo per Brooklyn, Astoria aveva attirato persone in fuga dal centro e adesso cambiava per adattarsi al-
la sua nuova immagine. A Stan non dispiaceva; gli bastava trovarsi in un posto dove poteva sentire il sole sulla pelle, guardare l'acqua scorrere, camminare fra gli alberi, sedere su una panchina. Alle otto e cinquanta tornò al furgone. Percorse la Diciannovesima e parcheggiò sotto al condominio dove lavorava da due settimane. Scaricò l'attrezzatura e si incamminò sul sentiero lastricato; a metà strada si fermò, depose gli arnesi e si inginocchiò; dalla cintura da lavoro estrasse un trincetto e recise dell'erbaccia che spuntava da una crepa nel cemento. June, la portiera, gli fece un cenno di saluto da dietro il bancone, quando lo vide avvicinarsi ed entrare nell'atrio. C'era un odore di disinfettante al limone, che emanavano le mattonelle appena lucidate. Il bancone di June, a forma di mezzaluna, si trovava a sinistra dell'entrata. Le pareti della sala erano color oro opaco, con uno zoccolo crema che girava l'angolo in direzione degli ascensori. Dietro il bancone erano state sistemate delle barriere di plastica, per impedire l'accesso al corridoio a chiunque non fosse addetto ai lavori al quarto piano. «Ciao, Stanley Piatto», lo salutò June, sorridente. Stanley Piatto era un personaggio di un libro per bambini, che in un tragico incidente era rimasto appiattito fino a diventare a due dimensioni. Lo Stanley che June aveva di fronte non era esattamente piatto: la sua pancia era gonfia quasi fino al punto di scoppiare. Stan grugnì, sistemandosi la cintura da lavoro, che, nonostante gli sforzi per tirarsela su, gli scendeva costantemente fino al sedere. «Devi dirmi nulla?» le chiese. «Solo che Mary Burig del secondo piano pianterà dei fiori in quella piccola striscia di aiuola che sei stato così gentile da prestarle.» «Mary?» Il volto gli si illuminò. «Oggi?» June fece segno di sì. «Già.» Sorrise. «Credo proprio che qualcuno con le sue piccole dita ti comandi come un burattino.» Stanley si accigliò. «Le piacciono i fiori.» Mary Burig controllò il suo palmare. Conteneva tutto ciò che le serviva: numeri di telefono, indirizzi, estratto conto, appuntamenti, liste della spesa, compleanni, anniversari, mappe e guide. Impiegò quindici minuti per riordinare il soggiorno, iniziando dalla porta e procedendo in senso orario; passò poi alla cucina, dove spolverò le superfici. Stava per svuotare la lavastoviglie, quando suonò il campanello. Trotterellò alla porta d'ingresso e l'aprì.
«Ciao Magda, entra. Stavo pulendo. Vuoi un tè?» «Caffè», disse Magda, abbracciandola. «Grazie, posso fare da sola.» Magda Oleszak aveva da poco superato la cinquantina e aveva il colorito sano di chi mangia cibi salutari e si muove sempre a piedi. Era arrivata dalla Polonia dieci anni prima con due figli adolescenti, e aveva imparato perfettamente l'inglese ma senza perdere l'accento d'origine. «Non è niente male qui», disse Magda, girando per la stanza e togliendosi la giacca. Accanto al letto di Mary c'era una copia aperta di Rebecca di Daphne du Maurier. «Leggi di nuovo Rebecca?» «Lo so, non vale perché lo conosco a memoria.» «Certo che vale», disse Magda, voltandosi verso di lei e afferrandole con trasporto le mani. «Non dirlo mai più, Mary. È bello ciò che c'è tra te e Rebecca, o comunque si chiami, siete amiche per la vita e lei sarà sempre con te. Ma si chiama Rebecca o non ha un nome? Non me lo ricordo. Mi confondo, vedi? Sono io quella che si confonde, non tu. È meraviglioso, Mary, come conservi quel sentimento, il ricordo di ciò che Rebecca ti ha dato quando da ragazzina lo leggevi sdraiata sul letto.» Mary sorrise. «Ora, già che parliamo di libri, ho buone notizie per te. Stan Frayte, lo conosci, sarà lui a fare il lavoro di ristrutturazione alla tua biblioteca.» Mary batté le mani. «Che bello.» Poi si accigliò. «Pensi che finirà per assomigliare più a una biblioteca che a una vetrina?» «Ai vetri non accadrà nulla, se è questo che intendi. Vogliamo solo assicurarci che nessuno combini guai là dentro.» «Nessuno combina guai in biblioteca.» «Certo che sì: vanno a scovare le pagine spinte di tutti quei romanzi d'amore e poi nell'eccitazione scuotono gli scaffali.» «Magda!» Magda rise. «Vorrei che facessero qualcosa per le altre finestre», disse Mary. «Sono troppo in alto e quando sei seduto non puoi guardare fuori. Sei costretto a fissare una parete vuota.» «Sai una cosa? A me piace pensare che i lettori le usino come uno schermo vuoto, sul quale proiettare il mondo del libro che stanno leggendo.» Mary ci rifletté sopra. «Mi piace come idea, credo che la adotterò anch'io.»
«Vuoi sapere come hanno trovato i soldi per fare la biblioteca? È stato Stan in persona. Ha detto che ha ottenuto uno sconto su alcuni impianti per l'ingresso, ma non so se sia vero.» «È così gentile», disse Mary. Fece una pausa. «C'è qualcosa di triste in Stan.» Magda andò in cucina. «Hai finito il caffè, Mary.» «Oh, mi dispiace.» Premette il pulsante TASKS sul palmare e aggiunse il caffè alla lista della spesa. «Allora», chiese Mary, «che succede di nuovo?» «Stamattina arriva David, giusto?» «Sì. C'è del dolce in cucina. A me non va, ma tu serviti pure.» Magda aprì il cestello del pane e ne estrasse un dolce avvolto nell'alluminio. Era tutto ammuffito. Riaprì il cestello, e lo ributtò dentro. «Grazie, ma ho già mangiato.» Tornò in soggiorno e si sedette sul divano. «Rimango finché non arriva David?» «Mi farebbe molto piacere. Oggi devo stirare e se non ti dispiace comincio subito.» «Fai pure.» David Burig aveva trentaquattro anni ma sembrava più giovane. Indossava quasi sempre un completo elegante, convinto che in questo modo il personale alle sue dipendenze lo avrebbe preso più sul serio. Dirigeva un catering di successo, che aveva comprato nove anni prima, dopo aver sbolognato una ditta di software a un prezzo molto più alto del suo valore. «Ehilà», disse abbracciando Mary e baciandola sulle guance. «David, yu-uh!» «Se solo tutti avessero questa reazione quando mi vedono.» «Yu-uh!» disse Magda. David rise. «Beh, grazie a tutte e due, mi fate sentire speciale. Allora», disse a Mary, «suppongo sia l'ora di piantarla.» Mary si rabbuiò. «Se ti dà fastidio la nostra accoglienza potevi dirlo subito.» David le sorrise. «Piantarla. Intendevo l'aiuola.» Lei scosse la testa. «Doveva essere una battuta?» «Sì.» «Il fatto che lo dici è una prova del contrario.» David alzò le mani in segno di resa. «In effetti non faceva ridere.» «Era sciocca», intervenne Magda.
«Ho fatto un tentativo. Fammi andare a cambiare. Posso fare una domanda? Ma come ti sei vestita?» «Sembro matta?» «Diciamo... creativa.» Mary sorrise perché così faceva David. «Pensavo di essere alla moda.» Indossava un paio di pantaloni larghissimi arancioni stretti in vita, una maglia verde e scarpe da ginnastica bianche. David rise e scomparve in camera da letto, portandosi dietro il borsone sportivo. «Ok», disse Magda, «hai il necessario per il giardinaggio?» Mary indicò gli attrezzi allineati sul tavolo: «Due palette, tappetino per inginocchiarsi, annaffiatoio, rastrellino... manca nulla?» «No», confermò Magda. «Sul retro dell'edificio c'è un rubinetto.» Ricomparve David, con un paio di vecchi jeans, una maglia blu a maniche lunghe e delle Puma verdi vecchio stile. «Bene», disse, «sono pronto per il giardinaggio. Sono orgoglioso, o meglio scioccato, di prender parte a una così nobile impresa. Coraggio, signora dai pantaloni terrificanti, scendiamo a dare vita a quello sterile suolo marrone.» «Vengo con voi in ascensore», disse Magda. Mary stese il tappetino davanti all'aiuola che correva lungo il bordo della proprietà, a una quarantina di metri di distanza dal retro del condominio. Lungo il muro era allineata una serie di vasi di crisantemi gialli, arancioni e rossi. «Sono così belli», disse Mary. «Infatti», confermò David. «Stan rimane sempre sugli stessi colori, limitandosi a cambiare i fiori in autunno.» Lei annuì. David si voltò verso l'aiuola vuota e rise. «Guarda, ha segnalato dove possiamo piantare: l'angolo più ombreggiato e tranquillo...» Mary sorrise. «Nel caso sbagliassimo?» «Direi di sì.» «Ma l'ho già aiutato in passato, lo sa che ci so fare.» «Tu sì, io no.» «Ok», proseguì Mary, «dobbiamo togliere i fiori dai vasi, staccare dolcemente le radici e piantarli secondo uno schema.» Gli porse un foglio di carta con un diagramma approssimativo. David annuì: «Sembra facile».
Mary si inginocchiò sul tappetino e iniziò a scavare una buca. David si dedicò ai vasi, infilando la paletta nel primo, lavorando in modo da non amputare le radici, estraendo poi la pianta e scuotendo la terra in eccesso. «Tutti quelli che conosco oggi sono in ufficio», disse lui. «Lo sai come mi sento fortunato a essere invece qui?» Mary gli sorrise. «Ti sono grata dell'aiuto.» «Aiutare te? Veramente sto aiutando me stesso, qui. Questa è una terapia. L'essenza della vita: all'aria aperta e lontano dall'ufficio.» Scorse un'erbaccia, che cresceva vicino all'aiuola; la sradicò e gliela mostrò. «Non è buffo, come la bellezza attiri queste robacce rampicanti?» «Come il giardino di Manderlay.» «Esattamente.» Continuarono a lavorare, chiacchierando e ridendo, per oltre un'ora. David si fermò a guardare la sua sorellina, la cui concentrazione non vacillava, piegata sui petali brillanti, attenta a maneggiarli con cura, tutta dedita al lavoro. «Come va?», le chiese. Lei si fermò per guardarlo. «Credo di essere a posto.» Le strinse la mano. «Mi fa piacere. Mi fa piacere, Mare.» Lei sorrise. Proseguirono in silenzio, finché David non si fermò di nuovo, per guardarla e citare Rebecca: «Tutti quanti noi abbiamo il nostro dèmone, che ci aizza e ci tormenta, e col quale...» Mary sorrise tristemente e continuò: «Dobbiamo combattere. Noi abbiamo vinto il nostro...» David sospirò: «O almeno così crediamo». 4. Il cadavere di Ethan Lowry giaceva su un tavolo di acciaio inossidabile nel sotterraneo dell'ufficio di medicina legale. Sotto la schiena c'era un sostegno che ne spingeva in fuori il tronco, svuotato degli organi. Accanto alla bilancia c'era un foglio scritto a mano, macchiato di sangue, che ne riportava l'elenco con il relativo peso. Joe e Danny indossavano copriscarpe, tunica e guanti, con le mascherine penzolanti dal collo. Joe aveva posato sul bancone dietro di sé la macchina fotografica digitale e il taccuino. Durante le tre ore dell'autopsia aveva scattato foto, fatto domande e preso appunti.
Il dottor Malcom Hyland era giovane per essere un medico legale. Ai poliziotti piaceva, perché parlava sapendo di non trovarsi di fronte a dei medici, ma neppure a degli stupidi. Spiegava le cose alla buona finché non aveva davanti un microfono: allora diventava ampolloso e altisonante. «Ok, doc», disse Joe. Afferrò il taccuino e lo riaprì. «Ok», disse Hyland. «Ricapitolando: ora presunta della morte fra le undici di sera e le tre del mattino. Causa della morte un colpo di arma da fuoco alla testa. Potete vedere il piccolo foro d'ingresso vicino all'orbita dell'occhio e la pallottola calibro ventidue annerita e ammaccata estratta dal cranio. La traiettoria della pallottola era da sinistra a destra ed è andata a collocarsi nel lobo temporale. Ricordate le escoriazioni intorno ai margini della ferita causate dalla penetrazione della pallottola? Poiché era direttamente sopra l'osso, si hanno delle fenditure radiali nella pelle, che formano un effetto stella. La morte è avvenuta per un'emorragia cerebrale. Ma prima di arrivare al colpo d'arma da fuoco, c'è la questione del diaframma non in grado di espandersi: prova, come vi dicevo, di un'asfissia da compressione. Direi che l'assassino era seduto sul petto della vittima o vi premeva contro un ginocchio, esercitandovi tutta la forza del corpo. Una volta sottomesso il tizio in quel modo, l'assassino ha potuto aggredirlo con quello che probabilmente era un martello di medie dimensioni. Per quanto concerne le ferite al volto, che già avete visto, si rilevano estesi lividi e rigonfiamenti e parecchie lacerazioni irregolari. Sia il labbro inferiore che il superiore presentano lacerazioni interne ed esterne... il che è molto comune nei delitti omosessuali.» «Era ancora vivo quando gli venivano inferti i colpi al volto», disse Danny. Hyland annuì. «Ha ingerito sangue e frammenti di denti.» «E ci sta dicendo anche che il nostro tizio era già moribondo quando gli hanno sparato, perché non poteva respirare bene», aggiunse ancora Danny. «Infatti. Credo di poter capire che l'assassino prima gli abbia fracassato la testa e poi lo abbia asfissiato, ma poi perché sparargli? È crudeltà pura. Immaginatevi quest'uomo che lotta per ogni singolo respiro, impegnato allo stremo delle forze, quando riceve una martellata in faccia; viene travolto da un dolore tremendo e pure continua a lottare per respirare, poi un'altra botta in un crescendo agghiacciante, finché non ne può più. In quel momento arriva il colpo di pistola e lo finisce. Morto.» «Questi psicopatici sono sempre mossi da motivi contorti», disse Danny. «C'è qualcosa però che mi suona familiare. Ti ricordi di William Aneto?»
Joe scosse la testa. «Ah già, tu non c'eri», proseguì Danny. «Ero con Martinez. Questo Aneto era un gay dell'Upper West Side. Mi sembra... non so, ma c'è qualcosa che mi fa accendere una lampadina.» «Se qui abbiamo finito...» disse Hyland, indicando il taccuino di Joe. «Sono sicuro che avete tutto ciò che vi serve.» «Già, finché nel rileggerlo non trovo una parola che non riesco a decifrare e non mi fa capire più nulla.» «Beh, se avete bisogno di qualcosa, chiamatemi.» Joe annuì. «Grazie.» «Buona fortuna. Sapete, quando seziono un cervello, vorrei poter trovare una rotella, una specie di film girato dagli occhi della vittima, così basterebbe sedersi e guardare il replay di ciò che è accaduto. Per voi sarebbe una prova schiacciante in tribunale, giusto? Colpo sicuro, che meglio non si può. O magari potrei trovare una specie di scatola nera, che registri istante per istante l'impatto psicologico di ciò che la vittima subisce; anche se per questo tizio dev'essere stato così orribile che sarebbe andata in corto circuito.» Anna Lucchesi era distesa sul divano in pigiama, con addosso una leggera coperta di lana, e guardava il quarto episodio di una serie di Grand Designs. Veniva mostrato l'arredamento di interni in stile anni Ottanta che una coppia inglese aveva scelto per ristrutturare la propria tenuta di campagna. Orribile. Quando aveva iniziato a guardare quel programma viveva ancora in Irlanda in una casa per lei magnifica. Era una stella nascente di Vogue Living e soprintendeva alla ristrutturazione di un faro e dell'abitazione annessa, nei pressi di un piccolo villaggio a Waterford. Svolgeva il lavoro che amava, in un luogo splendido, con il marito e il figlio che la coccolavano. Guardando ora Grand Designs, si sentiva un'outsider spiantata, seduta com'era in una tetra casa in mattoncini rossi a due piani a Bay Bridge, a Brooklyn. Non Brooklyn Heights, non Williamsburg, neppure Dumbo, che ora andava così di moda. Era un quartiere più vecchio, dava sicurezza, i vicini erano simpatici, ma Anna non riusciva a sentirsi a suo agio. Fissò la finestra: le mancavano la vista sul mare e le onde, a volte così rumorose che era necessario chiudere le imposte per poter parlare. Era una casa semplice e confortevole, con un arredamento sobrio dai toni neutri. Poi tutto ciò che essa rappresentava era scomparso, distrutto per sempre da
Duke Rawlins. Voleva uccidere Joe. Lui però era riuscito a resistere. Ma quando adesso Anna ci ripensava non ammirava il marito, anzi provava risentimento nei suoi confronti. Joe aveva ucciso Donald Riggs e lei ne aveva pagato il prezzo: lui era di nuovo al suo lavoro, senza un graffio, lei non si era ancora ripresa dallo shock e se ne stava tutto il giorno in pigiama. Una volta partiti dall'Irlanda, aveva trascorso due mesi con i genitori a Parigi. Per le prime tre settimane erano rimasti con lei anche Joe e Shaun, ma la casa, troppo piccola, li soffocava. Le sembrava che Joe cercasse di accelerare il suo processo di recupero, per far rientrare le cose in una normalità che lei sapeva non sarebbe mai più potuta tornare. Alla fine era riuscita a convincerlo a tornarsene a New York, portando con sé Shaun. Quando poi li aveva raggiunti, si era limitata ad adattarsi alla loro nuova casa, nella nuova zona, perché era troppo depressa per interessarsi ad apportare dei cambiamenti. Si svegliava al mattino, chiedendosi perché fosse là senza riuscire a immaginarsi dove avrebbe voluto essere veramente. Sapeva però che voleva evitare il mondo esterno e ciò significava rinchiudersi fra quattro mura. Chloe da Silva, il suo capo, le aveva permesso di lavorare da casa, ma aveva messo bene in chiaro che si trattava di una soluzione temporanea: Anna era una interior designer troppo brava per non impiegarla in grossi progetti. All'inizio le cose erano andate bene ma, con il passare dei mesi, Anna aveva iniziato a temere il licenziamento ogni giorno di più, perdendo così l'unica cosa che le impediva di impazzire. Le piaceva occuparsi dei servizi fotografici da casa, scegliere i prodotti dai cataloghi o su Internet oppure dai pacchi che le mandavano quasi ogni giorno dall'ufficio. Era poco ortodosso, ma funzionava. O almeno lei lo sperava. Si tirò su dal divano e stava per andare nel suo ufficio improvvisato quando squillò il telefono. Si fermò a rispondere. «Sono ancora io, Chloe.» Anna trattenne il respiro. «Mi dispiace di scaricare questa cosa su di te, Anna, ma qui sono veramente sotto pressione. Domani c'è un grosso servizio a Union Square e Leah mi ha lasciato nelle peste più del solito. Si tratta di camere da letto, con modelle in camere d'hotel cioè in case stravaganti, fotografate mentre riposano - dopo tutto il duro lavoro che fanno, oppure camminare e, diciamo, fissare nel vuoto. Sono coinvolti parecchi dei nostri maggiori inserzionisti e, insomma, ecco il motivo per cui spero che tu ci vada: il fotografo è Marc Lunel. Hai la possibilità di lavorare con qualcuno che non sba-
glia a pronunciare Moët. Ti prego, ti prego, ti prego.» Anna sul momento non rispose nulla, limitandosi a fissare la coppia in televisione, intenta a far entrare in casa due uomini che trasportavano un divano di pelle rossa. «Solo se metti il mio nome prima di tutti», disse infine. «Lo fai?» chiese Chloe, incredula. Ad Anna batteva forte il cuore, ma non per l'emozione. «Sì.» «Dio, se avessi saputo che sarebbe stato così facile avrei chiamato Marc mesi fa.» Fece una risata stridula. Anna rimase in silenzio. Chloe si riprese: «Oh, ma senti come sono insensibile. Ovviamente avevi bisogno di tempo...» «Per favore», la interruppe Anna, «mandami i dettagli per e-mail.» «Si capisce. Già fatto. Grazie cara. Grazie mille.» Joe si piegò verso lo specchio nel bagno degli uomini, per tagliarsi i peli del naso, che per tre ore erano stati costretti a inalare l'odore della morte. Non aveva mai scoperto se fosse una necessità pratica o psicologica o magari entrambe. Non gli piaceva vedere il proprio volto da vicino, osservare le nuove rughe intorno agli occhi e i capelli grigi più folti sulle tempie; altre cose che sfuggivano al suo controllo. Andò al suo armadietto e prese un flacone di doccia-schiuma al tè verde che gli aveva dato Anna. Si spogliò e mise i vestiti in una borsa di plastica. «Come puzza quella schifezza», disse Danny entrando. «Meglio tornare all'autopsia.» «Fanculo. Io piuttosto odorerei di...» «Doccia-schiuma all'aroma buco di culo...» «Che però deterge. Come fai con quel merda-schiuma da due soldi che neppure copre gli odori?» «Se una donna non riesce a sopportare l'odore di morte su un uomo...» «Fa meglio a non uscire con chi frequenta gli obitori.» «Cazzo», esclamò Danny, chiudendo la porta del suo armadietto. «Ho finito il doccia-schiuma. Prestami un po' di quella schifezza.» Joe tornò alla scrivania e controllò la posta elettronica. Danny arrivò qualche minuto più tardi, odorandosi il dorso della mano con un'espressione accigliata. «Falla finita con questa stronzata del doccia-schiuma», gli disse Joe. «Fammi prendere quel fascicolo di cui ti parlavo, Aneto.» Joe fece spazio sulla scrivania, e sistemò una pila di fascicoli accanto a
sé sul pavimento. Danny gli aprì davanti quello di William Aneto. Aneto aveva trentuno anni, era bello, con i capelli neri lunghi fino al collo e una corporatura esile. Joe osservò la foto in primo piano e pensò che aveva proprio una faccia da attore, di quelli che compaiono in una sola scena per dire al massimo quattro battute. Infatti, interpretava l'amico del fratello del protagonista in una soap opera in lingua spagnola. Era stato ucciso quasi un anno prima, e il corpo scoperto da un'amica nel suo appartamento dell'Upper West Side. Il suo caso era stato ben presto archiviato. In quanto vittima, Aneto rientrava nella categoria ad alto rischio, avendo rapporti promiscui nell'ambiente gay, dove era famoso per scomparire alla fine di ogni serata con uno sconosciuto. Danny e Martinez avevano interrogato centinaia di amici, conoscenti e amanti di Aneto, senza concludere niente. Il suo omicidio era ormai classificato come il solito rimorchio finito male. Joe estrasse le altre foto e le dispose in fila sul tavolo di fronte a lui. Danny gli stava accanto. Come nel caso di Ethan Lowry, anche il corpo di William Aneto era stato rinvenuto nel corridoio, ma dietro di lui correvano delle scie di sangue lungo le piastrelle grigie del pavimento. «Adesso comincio a ricordarmi bene di questo caso», disse Danny. «L'omicidio era avvenuto in cucina: era stato ucciso là e poi trascinato alla porta d'ingresso per finire il lavoro. Aspetta di vedere la cucina. Impronte di piedi e di mani su tutto il pavimento e sulla parete. Hai presente i lavori creativi dei bambini dell'asilo? Ma come se ci fosse solo il rosso e i bambini fossero indemoniati.» Joe studiò le foto della cucina. Indicò l'angolo insanguinato di un ripiano di granito. «Mettiamo che io sia l'assassino, devo trovarmi in piedi qui, dietro alla vittima, mentre gli spiaccico la faccia su questo ripiano.» Il sangue era sparso dappertutto, sul muro, sul pavimento, sul ripiano, dove si confondeva con il colore del granito. «Infatti», confermò Danny. Guardarono insieme una foto in grandangolo dell'ingresso: il corpo rannicchiato, lo spruzzo da ferita da arma da fuoco, la pozza di sangue sotto la testa. Il volto di William Aneto era in condizioni peggiori di quello di Ethan Lowry, devastato da ferite che avevano maciullato l'intera faccia. L'orbita destra era completamente distrutta da un colpo, che cancellava il foro d'ingresso del proiettile, il quale, in base ai risultati dell'autopsia, seguiva una traiettoria simile a quella di Lowry. «Un lavoraccio», disse Danny.
«Ha usato un calibro troppo piccolo», osservò Joe. «Un tizio simpatico. Cazzo, il telefono! Guarda», esclamò Danny, indicando il sottile cellulare color argento accanto al corpo di Aneto. «Me n'ero dimenticato.» Come Ethan Lowry, sembrava che anche William Aneto avesse fatto un chiamata proprio prima di morire. Joe sfogliò il fascicolo, fino a trovare la testimonianza di una signora Aneto. «Infatti», confermò Danny, «sua madre disse che la chiamata era solo per darle la buonanotte.» «Forse dovresti parlare di nuovo con la signora Aneto.» «A lei non farà molto piacere», fece Danny, mettendo il muso. «Forse Martinez potrebbe riuscirci meglio di me.» «Già, ecco uno di cui non dovrò occuparmi per molto.» «Perché mai?» «Faresti meglio a chiederlo a Martinez.» «Che diavolo vorresti dire?» «L'hai visto come mi guarda? Per lui sono un rovinafamiglie. Ha passato undici mesi d'incanto con te, poi mi presento io e tu mi affianchi di nuovo. La sua vita è distrutta.» Danny scosse la testa. «Quando ti vede gli brillano gli occhi», aggiunse Joe. «Fanculo. Quella di cui parli è solo stima.» «Coraggio. Andiamo a parlare con Rufo.» «Signori», disse Rufo al loro ingresso. «Abbiamo un collegamento», disse Joe. «Tra Ethan Lowry e William Aneto.» Rufo aggrottò le sopracciglia. «Quel tizio per cui mi hanno chiamato un sacco di volte questa settimana?» Danny fece cenno di sì. «Proprio lui. Della serie morto-da-un-anno-e-lapolizia-che-fa?» «Interessante il fatto dell'anniversario», disse Rufo. «Ditemi come stanno le cose.» «Tutti e due uccisi in casa, nessun segno di effrazione, ferite al volto simili, ferite da pistola calibro ventidue simili, telefono trovato accanto a entrambi i cadaveri, corpi lasciati dietro la porta d'ingresso.» Rufo annuì. «Per me è abbastanza.»
Shaun Lucchesi era disteso sul letto a fissare il soffitto. Lo stereo continuava a sparare le stesse parole: left behind / left behind / left behind. Era trascorso quasi un anno da quando la sua ragazza, Katie Lawson, era stata assassinata. Si erano conosciuti il primo giorno di scuola, al suo arrivo in Irlanda e, fino alla morte di lei, erano stati inseparabili. A peggiorare le cose era stato il fatto che Shaun era stato visto da tutti come il principale sospettato, e lo era rimasto fino alla scoperta della verità. Per mesi dopo la morte di Katie, Shaun aveva continuato a svegliarsi con un vuoto dentro, peggiore di qualsiasi altra cosa avesse mai provato. In alcuni giorni, i ricordi lo tenevano su di morale, in altri rimaneva intrappolato in un circolo vizioso di immagini, che iniziavano con la loro prima uscita e terminavano con l'ultima volta che l'aveva vista. Ogni cosa adesso sembrava aver perso importanza. Era tornato a New York, aveva ritrovato i vecchi amici e ripreso a frequentare le solite compagnie, ma era una vita così diversa da quella che aveva avuto con Katie, gli sembrava quasi surreale. I loro giorni insieme erano pieni del loro amore, delle loro risate e delle ore trascorse sul letto di lui abbracciati a chiacchierare o a guardare film. Allora, non contava nulla chi erano i tuoi amici, dove andavi, cosa possedevi, con chi andavi a letto, chi aveva l'ultimo modello di cellulare, chi l'auto più veloce. Alle volte era così sopraffatto al pensiero che non sarebbe più stato così felice, che gli mancava il respiro. Spense lo stereo e andò nel suo ripostiglio. Dallo scaffale più alto tirò giù un piccolo e pesante barattolo tondo; il fondo era coperto da un sottile strato di cera e dal centro spuntava uno stoppino nero: Fresh Linen, la candela preferita di Katie. Prese un accendino dal cassetto e la accese. Poteva farla bruciare solo per pochi minuti alla volta, consumata com'era. Il pensiero che potesse finire gli era insopportabile. Mancavano tre settimane all'anniversario della morte di Katie. Tutti se ne sarebbero ricordati. Ma per lui quella notte, un anno prima, era quella nella quale avevano quasi fatto sesso per la prima volta, poi avevano litigato e lei era fuggita. Incontro al suo assassino. Si rimise sul letto, chiuse gli occhi e, per mezz'ora, lasciò andare le lacrime. Poi si alzò, afferrò il cellulare e fece scorrere le foto di lei. Katie a scuola. Katie sulla spiaggia. Katie nella sua stanza. Cancella. Cancella. Cancella. 5. Joe sedeva alla scrivania, le dita premute sulla fronte, fingendo di legge-
re un rapporto che già da qualche minuto era solo un ammasso indistinto di lettere. Squillò il telefono: era Reuben Mailer, dell'Eastern District Fbi, il dipartimento che copriva tutta la costa est. Sin dal primo caso che avevano trattato insieme si erano trovati bene. L'ultimo su cui avevano lavorato era stato Donald Riggs. «Puoi parlare?» gli chiese Mailer. «Dimmi pure.» «Come state?» «Chi? Vuoi dire qui, Manhattan Nord?» «Tu, Anna... Shaun. Come ve la cavate?» Joe non rispose subito. «Bene... perché? Che succede?» Mailer sospirò. «Ok», disse abbassando la voce, «in via ufficiosa ho notizie dal Bureau del Texas. Su Duke Rawlins.» A Joe mancò il respiro. «Prima che tu dica qualcosa, Joe, si tratta solo di voci. Non conosco i particolari. E tu non sai niente.» Joe lottò per soffocare la nausea che gli saliva dallo stomaco. «Raccontami», riuscì a dire. «Hai presente il paese natale di Duke Rawlins, Stinger's Creek? Geoff Riggs, il padre di Donald, dice che la settimana scorsa Duke Rawlins gli ha fatto visita. Geoff Riggs è ridotto molto male, Joe. Nessuno si ricorda l'ultima volta in cui è stato visto sobrio. Cammina per la città borbottando cose senza senso. La settimana scorsa ha detto a un commesso del negozio di liquori che la settimana precedente Rawlins si era fatto vivo a casa sua. Il ragazzo si è spaventato e ha chiamato la polizia, che è andata a parlare con Riggs. Ho il verbale qui davanti. Geoff Riggs ha detto, con tutta calma: 'Certo che Dukey mi ha fatto visita. Voleva dirmi: Ciao come stai, era da anni che non ci si vedeva, mi piacerebbe dare un'occhiata alla camera di Donnie. E io gli dico: Accomodati pure. Non c'è un granché là dentro, da quando voi sbirri l'avete rivoltata come un calzino, l'anno scorso. Così Dukey dà un'occhiata, poi esce e va al capanno degli attrezzi sul retro e io gli dico: Fa' pure che sei un bravo ragazzo, Dukey. Sembrava un po' incazzato, c'aveva qualcosa che lo rodeva. Fatto sta, che è l'ultima volta che ho visto Dukey'.» «Tutto qui?» «Tutto qui.» «Geoff Riggs non ha chiamato la polizia, non ha fatto niente?» «No, quel tizio ha il cervello in pappa. Il verbale che ti ho appena letto ci
hanno messo due ore per tirarglielo fuori. Se vuoi il mio parere, Rawlins si sta approfittando della scarsa sorveglianza.» «La non sorveglianza», precisò Joe. «Già», convenne Mailer. «È passato un anno e non si è fatto vedere in nessuno dei posti in cui era atteso. E la visita a Geoff Riggs è solo la prima parte della storia. La seconda è che, pochi giorni dopo, il custode del cimitero di Stinger's Creek durante il suo giro di controllo ha trovato un'altra fossa aperta accanto a quella di Donald Riggs.» Joe non disse nulla per un po'. «Qualcuno è stato dissotterrato?» «No. Era stata semplicemente scavata una fossa vuota. L'hanno esaminata a fondo e non c'era niente o nessuno dentro.» «Cristo Gesù.» «Bisogna tenere a mente che tutti laggiù sanno ciò che hanno fatto Rawlins e Riggs. E da un lato abbiamo gente che vuole vendicarsi con il sangue, dall'altro un gruppo di drogati che, interrogati da alcuni agenti dello sceriffo responsabili delle indagini, mostrano profonda ammirazione per Duke Rawlins, e sono tutti sul genere 'gente, Duke Rawlins, lui sì che è fuori di testa'. Perciò potrebbe essere stato un parente delle vittime o uno di quei fusi di testa.» «Mailer, perché non la piantiamo di dire cazzate? Lo sai di che si tratta, testimonianze sbronze o meno. Rawlins salta fuori, va in un capanno degli attrezzi e qualche giorno dopo compare una fossa accanto a quella del suo vecchio compagno. Andiamo!» «Infatti», convenne Mailer. «È proprio perché so quello che ti ha fatto che ti ho chiamato... insomma, anch'io non penso che sia un falso allarme.» «Cristo Gesù.» «Ho bisogno di chiederti una cosa: ha provato a mettersi in contatto con te?» Joe rispose senza esitare: «No.» Anna Lucchesi era seduta al tavolo da toeletta con indosso l'accappatoio, i capelli tirati indietro con una fascia nera di jersey, il volto pallido, le occhiaie. Aprì un pacchetto di salviette struccanti e iniziò a togliersi il trucco, liberandosi di cipria, fondotinta e fard. Poi allineò i prodotti e li preparò per il mattino successivo. In una foto accanto al letto appariva come era una volta, i capelli scuri e luminosi, le guance floride, gli occhi vivi.
La bacheca alla Manhattan Nord era nascosta sotto gli avvisi dei distretti di polizia di tutto il paese e di tutto il mondo. In piedi, davanti, c'era Joe, che pensava a Duke Rawlins. Tutto il male che gli aveva fatto si era sedimentato nel profondo. Non sapeva come sarebbe riuscito a liberarsene, ma ogni giorno qualcosa inevitabilmente lo trascinava lontano da dove avrebbe dovuto essere. «Joe? Cazzo, vuoi rispondere al telefono?» gli strillò Martinez. Joe afferrò il ricevitore. «Joe? Sono Bobby Nicotero, dal Primo dipartimento.» Il padre di Bobby era Victor Nicotero, detto il vecchio Nic, un poliziotto in pensione, amico intimo di Joe. «Gesù, Bobby, che succede?» «Non molto.» «Come sta il vecchio Nic?» «Dimmelo tu.» Joe rimase interdetto. Bobby smise di ridere. «Stavo per chiederti la stessa cosa. Allora, come sta mio padre?» «Beh, l'ultima volta che l'ho visto era a quel barbecue, un paio di settimane fa. Tu eri da qualche parte con i bambini, mi pare. Stava bene, era tranquillo, si dilettava con la scrittura.» «La scrittura?» «Non lo sai? Sta lavorando a un libro.» «Ah, ecco, no, non lo sapevo. Ultimamente sono stato occupato...» «Il tuo vecchio scrive le sue memorie.» Bobby scoppiò a ridere. «Allora avrei anche io un paio di capitoli da aggiungere.» «Davvero? Che posso fare...» «In effetti chiamo perché ho qualcosa a cui potresti essere interessato. Sai quell'omicidio dell'Upper West Side di cui ti occupi? La vittima, Ethan Lowry. Aveva un telefono accanto quando lo hanno trovato?» «Sì, perché?» Bobby inspirò rumorosamente. «Sembra proprio simile a un caso di cui mi sono occupato a dicembre, a SoHo. Un tizio di nome Gary Ortis, picchiato selvaggiamente al volto, poi finito con un colpo di pallottola in testa. Gli è stato trovato il telefono accanto nel corridoio. Mai preso l'assassino.» «Gesù, e noi stiamo già collegando questo caso a un altro di un anno fa.
Il tuo tizio era gay?» «Era single e usciva con donne, ma chi lo sa? I tuoi?» «Ethan Lowry era sposato con una figlia, William Aneto era gay.» «Mmh.» «Lo so dove vuoi arrivare», disse Joe, «dà proprio quell'impressione; ferite tremende al volto e, non so te, ma io l'ultima volta che ho visto una cosa del genere si trattava di una lite fra amanti. Nessun morto, però...» «Ho capito.» «Ascolta, perché non passi dal Ventesimo e porti il materiale che hai?» Joe mise giù il telefono e rovistò nella tasca interna della giacca, appesa allo schienale della sedia. Ne tirò fuori due pillole e le mandò giù insieme a una lattina di Red Bull. «Ragazzi», disse poi, «era Bobby Nicotero del Primo. Sembra che ci sia una terza vittima, risale a dicembre. Sta venendo qui.» «Porca troia», esclamò Danny. «Volete sapere dei tabulati di Lowry?» intervenne Blazkow. «Ultima chiamata alle 10:58 a Clare Oberly, una donna che vive sulla Quarantottesima, fra l'Ottava e Broadway.» «Ok», disse Joe, «Danny e io andremo a parlare con lei stasera.» Mezz'ora più tardi, Bobby Nicotero fece il suo ingresso al Ventesimo distretto, insieme al suo collega. Bobby aveva trentanove anni, un collo massiccio, spalle larghe, gambe corte e abiti troppo a buon mercato per calzargli a pennello. Aveva i capelli neri corti, folte sopracciglia e un'espressione facciale per ogni grado di incazzatura. «Ciao», lo salutò Joe, «lieto di vederti.» «Anch'io», disse Bobby, stringendogli la mano. «Questo è il mio collega, Roger Pace.» Roger era macilento ai limiti della trasparenza, con occhi profondamente infossati in occhiaie scure. «Piacere di conoscerti», disse Joe, stringendogli la mano. «Grazie di essere venuti.» «Non c'è nessun problema», rispose Pace, mettendosi dietro Bobby. «Ok», disse Joe, dirigendosi verso gli altri. «Bobby, conosci già Danny Markey. Questi sono Aldos Martinez e Fred Rencher della Manhattan Nord, e loro sono Tom Blazkow e Denis Cullen del Ventesimo. Ragazzi, questi sono Bobby Nicotero e Roger Pace del Primo.» Si scambiarono un cenno di saluto.
«Allora, volete dirci cosa avete?» chiese Joe. «Certo», rispose Bobby. «Ho letto il giornale e ho visto che il nostro amico, la fonte vicina agli investigatori, diceva che la vittima è stata trovata nuda e con il volto selvaggiamente picchiato. Ho immaginato che magari c'era un collegamento, magari no.» Aprì il suo fascicolo. «La nostra vittima si chiamava Gary Ortis, nato il 10/07/69, causa della morte: colpo d'arma da fuoco alla testa da una calibro ventidue. Presentava segni di soffocamento, la classica emorragia petecchiale. È stato trovato nudo nel suo appartamento in Prince Street a SoHo.» «Corpo dietro la porta d'ingresso», aggiunse Joe. «Già.» Tutti fecero cenni d'assenso. «Sembra proprio il nostro uomo», commentò Joe. «Nessuna traccia?» Bobby scosse la testa. «Niente. Pensavamo fosse una roba fra gay, ma questo tizio aveva un sacco di ragazze...» Alzò le spalle. «Non che voglia dire qualcosa.» «Infatti», disse Martinez, guardando Danny. Danny alzò gli occhi al cielo. «A me sembrano casi a sfondo sessuale», intervenne Blazkow. «Li ritroviamo tutti così: nudi e picchiati selvaggiamente.» «Il medico che ha fatto l'autopsia parla di caratteristiche tipiche di un omicidio omosessuale.» «Torna, se osserviamo i danni fisici», intervenne Rencher. «Quando ero al Diciassettesimo mi è capitato un caso. Un ragazzo delle superiori, uno di quei tipetti carini, agganciato da un quarantenne. La storia va avanti per un po', poi ci chiamano perché il quarantenne ha pestato a sangue il ragazzetto, riducendogli la faccia in poltiglia, rendendolo irriconoscibile come le nostre vittime. L'uomo era fuori di testa per il dispiacere, piangeva e strillava che avrebbe solo voluto che il ragazzo non avesse passato così tanto tempo con quel barman carino e che se non l'avesse fatto sarebbe stato ancora vivo. Incredibile.» «E vi ricordate di quel tizio nel Jersey che sparò al suo capo?» aggiunse Cullen. «Qualche anno prima era stato arrestato per aver pestato selvaggiamente il suo amichetto con un martello.» «Però non c'erano ferite ai genitali nelle nostre vittime», osservò Joe, «che in genere sono associate a questo tipo di cose.» «Inoltre, per quanto riguarda il sesso», precisò Rencher, «secondo la moglie di Lowry i dvd, la frusta e le altre stronzate erano roba loro, gli
piaceva guardare dei porno insieme, niente di particolare. La donna immagina che quella sera lui volesse semplicemente guardarne qualcuno mentre lei non c'era.» «Ok, ma cosa c'era in giro sulle altre scene del delitto? Cosa c'era nelle camere da letto?» «Sulle scene di Aneto e Lowry era presente un elemento legato al sesso», disse Blazkow. «E lo stesso per Ortis», disse Bobby. «Oggetti, dvd. Alcuni un po' polverosi sparsi in giro, mi ricordo, altri sul letto. Però c'erano anche carte di lavoro, agende, foto.» «Come sulla scena di Aneto, anche lì c'erano delle foto», disse Danny. «Accanto al letto di Lowry abbiamo trovato lettere d'amore della sua ex.» «E scatole di strisce depilatorie da Aneto», disse Martinez. «Una pomata per le emorroidi da Ortis», disse Bobby. «Sembra che stessero cercando qualcosa», rifletté Blazkow, «aprendo i cassetti e frugando in giro. Possibile che l'assassino stesse cercando qualcosa di preciso?» «Forse», disse Bobby. «Forse ha trovato e portato via qualcosa.» «Esaminiamo ciò che queste vittime hanno in comune», propose Danny. «Abbiamo uno che lavora a Wall Street, un attore, un designer...» «Lavori da froci?» azzardò Martinez. «Bene, vedo che quel corso di sensibilità ha fatto miracoli con te», disse sarcastico Danny. «Puoi dirlo. Esco con l'insegnante», replicò Martinez. «Mi chiedo come fai a essere così testa di cazzo», concluse Danny. «Che ne dite del successo?» proseguì Blazkow, ignorando il siparietto tra i due. Gli altri fecero cenni d'assenso e lui continuò. «L'assassino potrebbe covare del risentimento. Tutta questa gente aveva successo... almeno all'apparenza, a giudicarli dall'esterno.» «A Wall Street guardano solo all'apparenza», osservò Danny. «Altrimenti perché mai danno fuori così di brutto quando li sorprendi a brache calate, intenti a buttarlo dentro a qualche puttana da dieci dollari? Oddio, i miei clienti, i vicini, mia moglie...» «Giusto», disse Bobby. «E poi quegli stronzi vengono a raccontarci che sono loro a pagarci lo stipendio, come se la cosa potesse aiutarli a cavarsi d'impaccio. Siccome ti pago, tu mi fai uscire.» «Ok. Passiamo alle telefonate», intervenne Joe. «Tutte le vittime hanno
fatto delle chiamate la sera in cui sono morte. Mentre l'assassino era in casa, a quanto sembra. William Aneto telefona alla madre solo per darle la buonanotte, stando a quello che dice lei.» «Gary Ortis telefona al suo ex socio d'affari solo per dirgli 'Ciao, come va?'», disse Bobby. «Mmh», disse Joe. «Forse non è così. Dobbiamo parlare nuovamente con queste persone. E per la scelta delle vittime? Le segue fino a casa? Se sì, da dove? Se no, dove le ha conosciute? Su Internet, al lavoro, in un bar, in palestra...» «Soprattutto perché? Perché le uccide?» chiese Blazkow. «Sarà una lunga nottata», concluse Danny. «Ho sentito qualche storia su Denis Cullen. Tu sai niente di preciso?» chiese Joe più tardi, quando fu solo con Danny. «È quel Denis Cullen per il quale il mese prossimo c'è la serata di beneficenza. Si tratta di sua figlia, ha solo tredici anni ed è malata di cancro.» «Merda. Non lo sapevo, credevo si trattasse solo di un divorzio o cose del genere.» «Naa, sono una famiglia molto unita. Lui è un bravo ragazzo, quando non è qui passa tutto il tempo all'ospedale, insieme alla moglie e alla figlia.» «Quando è la serata?» «Fra un paio di settimane al Bay Ridge Manor. C'è un annuncio in bacheca. Abito scuro.» «Abito scuro? E perché mai?» Danny alzò le spalle. «È una cosa terribile, è perché non sono sicuri che ce la farà a riprendersi e, insomma, a fare in futuro la sua festa di laurea, di matrimonio... e allora potrebbe essere la sua ultima occasione per una festa elegante.» «Gesù Cristo, e poi uno pensa di avere dei problemi...» «Infatti.» Anna Lucchesi era distesa a letto, sveglia come quando si era coricata. Aveva un disperato bisogno di dormire, ma una parte di lei rimaneva vigile per sentire quando sarebbe rientrato Joe, un'altra aspettava Shaun. Durante gli ultimi mesi l'aveva tenuta sveglia un ronzio che proveniva da lontano, forse dall'altra riva del fiume. Stanotte almeno c'era più silenzio, solo il rumore delle auto che passavano sotto la Belt Parkway, un suono attutito
che in genere la cullava. Si avvolse bene dentro il lenzuolo, tirandolo su per coprirsi le spalle fin sotto il mento. Si era appena sistemata quando sentì il motore di un'auto che accostava davanti casa. La portiera si aprì, si chiuse e poi ci fu silenzio. Niente passi. Niente. Si appoggiò al gomito e rimase in ascolto. Guardò l'orologio e scoprì che erano le quattro del mattino. Dopo un minuto sentì provenire da fuori un debole bip elettronico, poi una breve suoneria a cinque note, poi altri bip. Era il cellulare di Shaun. Si alzò per andare alla finestra e quando aprì le tendine vide un corpo disteso sulla strada, oltre il cancello. Il cuore le dette un balzo. Guardò meglio e riconobbe le scarpe da ginnastica di Shaun. Sentì che le gambe cedevano. Afferrò il proprio cellulare dal comodino e compose il numero di Joe mentre si precipitava giù per le scale. «Joe, Joe, vieni subito a casa», strillò. «È successo qualcosa a Shaun. È disteso sulla strada davanti a casa.» Chiuse la comunicazione. Shaun era sulla schiena, gli occhi chiusi, le braccia distese sui fianchi. «Shaun, Shaun!» Si accucciò accanto a lui e gli accostò un orecchio al petto. Respirava con profondi rantoli gutturali e il fiato gli puzzava di un miscuglio rancido di aglio, sigarette e alcol. «Shaun», gli sibilò, «svegliati.» Lui mosse le palpebre e rotolò la testa da un lato all'altro. Anna si guardò in giro, per controllare se nessuno la osservasse mentre era inginocchiata in pigiama accanto al figlio ubriaco. Shaun aprì gli occhi e lentamente focalizzò lo sguardo su di lei, la testa ciondolante, le palpebre che sbattevano. «Mamma?» disse infine. «Sì», rispose lei secca. «Papà?» Anna lo afferrò per un braccio. «Alzati e vieni in casa.» Lui le respinse la mano. «Lasciami stare.» «Vieni dentro senza discutere. Sono le quattro del mattino.» Shaun rise. «Non c'è niente da ridere.» «Invece sì. Fa ridere che i tuoi ti dicano l'ora ogni volta che arrivi a casa. A tutti i ragazzi dicono l'ora quando arrivano a casa. Come se ce ne importasse. Come se contasse qualcosa.» Alzò la testa dal cemento. «Sono sul marciapiede? Gesù Cristo.» Rise di nuovo. «Come diavolo ho fatto ad arrivarci?»
«Oh mio Dio, come hai fatto ad arrivare qui? Non lo sai?» «Gesù Cristo», disse Shaun, girandosi su un fianco, poi appoggiandosi con fatica a un gomito. «Non ne ho idea.» «Ok, io vado dentro e tu mi segui. Subito.» «Ugh.» «Sta arrivando anche tuo padre.» «Cosa? Pensavo che avesse un...» «Infatti», disse Anna dirigendosi verso la porta ed entrando in casa, «perciò che Dio ti aiuti.» Per un po' Shaun rimase dov'era, poi si trascinò fino ai gradini d'ingresso. Anna riaprì la porta e uscì. «Alzati subito, Shaun.» Fece un passo indietro nell'ingresso. «Ho intenzione di chiudere la porta.» «Non ti ho mai chiesto di aprirla.» Anna la sbatté e accese la luce del portico. «Ohi gente. Su. Andiamo», biascicò Shaun. Appoggiò una mano allo scalino e riuscì a mettersi in piedi, inciampando in un vaso. «Spegni quella maledetta luce. Sono qui.» Bussò alla porta. Anna la aprì, lui entrò e andò a sedersi sulla prima sedia che trovò. «Non metterti troppo comodo», gli disse Anna. Udì nuovamente il bip, fuori della casa. Spalancò la porta e si impadronì del cellulare. «Dammelo.» Lei lo mantenne fuori della sua portata. «Solo se ti alzi da lì e vai a letto. Dov'eri stanotte?» «Fuori.» «Dimmi dov'eri, o non ti restituisco il cellulare.» Shaun rise. «Cosa? Dammelo subito.» La guardò con occhi vacui. «Non provarci con me. Non più. Sono stanca di tutto questo.» «Sono io quello che è stanco di tutto questo», esplose Shaun, alzandosi. «Di questa casa del cazzo. È talmente deprimente. Odio abitare qui, non lo sopporto. Vai in casa di chiunque altro e ti diverti. Qui no. Qui tutto fa schifo.» Anna gli infilò una mano nella tasca della giacchetta e ne tirò fuori una bottiglia di birra. Scosse la testa lentamente. «Che cosa sei diventato? Un ubriacone da strada, che va in giro con le bottiglie in tasca?» «Non volevo che andasse sprecata.» «Fai schifo. Quando sei diventato questa... questa persona?»
«Che persona?» «Smettila», urlò Anna. «Smettila di essere così aggressivo con me!» Gli occhi le si bagnarono di lacrime; davanti a lei Shaun era malfermo sulle gambe e sbatteva gli occhi con espressione confusa. Lei si voltò ed entrò in cucina, asciugandosi gli occhi; seduta al tavolo, fece dei respiri profondi. Le tornò in mente il consiglio che aveva sentito una volta, che non è mai troppo tardi per ricominciare. Guardò le lancette dell'orologio che segnavano le 4:20 e si chiese quando sarebbe venuto per lei il momento giusto per ricominciare. Nell'ingresso il cellulare di Shaun emise un altro bip. Anna mise il bollitore sul fuoco e si preparò una teiera di tisana rilassante. Nel giro di qualche minuto ne sentì gli effetti e avrebbe voluto rimanere sempre così: sola, al caldo e tranquilla nel vapore che l'accarezzava. Bip. Bip-bip. Bip-bip. Bip. Bip. Mise giù con delicatezza la tazza e si preparò per uno scoppio di rabbia nell'ingresso. «Spegni quel telefono», ruggì. Shaun trasalì. Entrambi si voltarono verso la porta al suono delle chiavi. «Ehi, che succede?» chiese Joe. «Cosa credi che succeda?» disse Anna. «È arrivato a casa ubriaco, di nuovo. Stavolta l'ho trovato disteso sul marciapiede. Qualcuno l'ha spinto fuori da una macchina e l'ha lasciato là.» «Cosa?» esclamarono Joe e Shaun. «Proprio così», disse, rivolgendosi a Shaun. «Non te ne ricordi neppure. Che razza di amici hai?» Solo guardandola, Joe si accorse che Anna non aveva dormito. «Vai a letto, tesoro. Hai bisogno di dormire. Mi occuperò io di questa cosa.» «Che vuoi dire che ti occuperai di questa cosa? Tu non hai fatto niente...» Joe si rivolse a Shaun. «Tu rimani dove sei. Anna, posso parlarti di sopra?» Lei fece un'alzata di spalle, salirono le scale e si fermarono sul pianerottolo, lasciando giù nell'atrio Shaun che borbottava qualcosa. «Se ci vede litigare, non otterremo niente», disse Joe, facendo uno sforzo per mantenere bassa la voce. Anna lo fissò a occhi spalancati. «Davvero? Ma se non ti vede per niente, allora è meglio?» «Che diavolo significa?»
«Lo sai cosa significa. Che tento di educarlo. Da sola. E non ne sono capace.» «Certo che lo sei.» Anna rise. «Ovviamente.» Joe alzò gli occhi al soffitto. «Lo sai che non ha fatto più nessuna domanda di iscrizione al college?» disse lei. «Lo fa per farci incazzare, perché noi non siamo andati a vedere le scuole con lui.» «Cosa? Lo sa che non potevamo. Io ero appena tornata da Parigi, tu eri...» «Certo, certo, al lavoro, ho capito.» «Ma lo eri davvero!» «Per forza! Dove prendiamo i soldi per campare altrimenti?» Anna fece un passo indietro. Joe la guardò fisso. «È la verità», disse infine. Lei aveva gli occhi offuscati dalla rabbia. «Non ci posso credere. Dopo tutto quello che mi hai fatto passare...» «Ciò che io ti ho fatto passare?» La voce gli si incrinò. Rimasero per un po' a guardarsi. «Cristo Gesù, Anna, è questo quello che pensi?» «Non lo so. Sono stanca. Vado a letto. Tu mi rimproveri per lui, io ti rimprovero per me, tu non ti rimproveri nulla. Buonanotte.» «Aspetta, prima devi rispondermi. Non avevi mai detto che...» «Ho detto che non so cosa provo. Ora fammi andare a letto.» «Che cosa ci è successo?» disse Joe, ma nel frattempo lei era già scomparsa. Joe si appoggiò alla balaustra, il respiro rotto. Lentamente scese le scale. «Shaun», disse, accovacciandosi di fronte a lui. Nel corso dell'ultimo anno, la luce era scomparsa dagli occhi di Shaun e anche la sua pelle iniziava a essere pallida e cerea. «Che c'è?» rispose lui, assonnato e infastidito. «Dov'eri stanotte?» «Ancora? Ero fuori, ok? Ora fammi andare a letto.» «Che ti succede?» «Niente», rispose seccamente Shaun. «Niente, ok? Niente.» «Tua madre e io siamo preoccupati.» «Sì, bene, fatevene una ragione.» «Non sei tu quello che parla. Tu sei il mio bambino, sei sempre stato un
bravo ragazzo. Non so da dove sia uscita questa cattiveria che...» «Lasciami in pace. Voglio andare a letto.» «Tua madre è stata a scuola oggi. So che non hai fatto niente per il college...» «Perché mi parli di queste stronzate adesso? Cosa c'è che non va? Insomma, è tardi. O presto, come ti pare.» Joe fece un passo indietro e lasciò che Shaun si tirasse su dalla sedia. «Shaun, questa è l'ultima volta che fai qualcosa del genere, tornare a casa in questo stato, ok?» Shaun sbuffò. «Come ti pare.» «Non mi parlare MAI più in quel modo, ok?» «Perché sennò?» disse Shaun, facendo un passo verso di lui, guardandolo dall'alto in basso. «Non peggiorare la tua situazione.» «Peggio che vivere in questa casa? Con la mamma che è depressa tutto il giorno?» Joe lo prese per un braccio. «Ascoltami attentamente, Shaun. Ho sposato tua madre. Per scelta. La amo. E mai ho permesso e mai permetterò che qualcuno le manchi di rispetto, meno di tutti suo figlio. Ora sparisci.» 6. Danny e Joe si fermarono di fronte all'appartamento di Clare Oberly e parcheggiarono davanti a una lavanderia. L'anziano proprietario era in piedi dietro la vetrina, fumava una sigaretta e li fissava. «Quel Pace ha un aspetto piuttosto buffo, non ti pare?» disse Danny. Joe sorrise. «Sembra che alcune parti della sua faccia stiano cercando di darsela a gambe», proseguì Danny. «Gli occhi in fuori, il pomo d'Adamo... come se fosse troppo magro per dar loro nutrimento e volessero abbandonarlo, non ti sembra?» Joe scosse la testa. «Sei proprio un pezzo di merda.» «È solo che io dico quello che gli altri si limitano a pensare.» «Ciò non toglie che tu sia uno stronzo.» Raggiunsero a piedi l'edificio, oltrepassando un enorme camper ed entrando in un atrio ben illuminato, con pavimenti striati da segni neri. Accanto a loro passò una coppia in calzoncini e maglietta, impegnata a trasportare un cassettone, con l'uomo che sudava abbondantemente e lasciava
dietro di sé una scia di aria maleodorante. «Gesù Cristo», esclamò Danny. «non conoscono i deodoranti?» Uno degli ascensori era tenuto aperto dalla coppia che traslocava. Joe e Danny presero l'altro e salirono al decimo piano, trovarono l'appartamento 10B e suonarono il campanello. «Salve», salutò Joe. «Clare Oberly?» «Sì, salve.» Era una bionda attraente, sui trentacinque anni, vestita con una vaporosa maglia verde, jeans bianchi e zatteroni rossi e verdi. Al collo portava collane colorate che sembravano piuttosto costose. «Sono l'ispettore Joe Lucchesi e con il mio collega sto investigando su un omicidio. Ha ricevuto una telefonata intorno alle undici di ieri sera?» Lei rimase un momento perplessa. «Sì, perché?» «Da parte di chi era la chiamata?» chiese Joe. «Ethan Lowry.» Li guardò entrambi. «Perché?» «Quali sono i suoi rapporti con il signor Lowry?» chiese ancora Joe. «Oh, stavamo insieme all'epoca del college. Sta bene?» «Possiamo entrare?» «Certo, scusatemi, accomodatevi pure.» Li fece entrare nel suo grazioso appartamento, formato da un'unica grande stanza, abbellita da un enorme Mirò appeso a una parete. Si sedette su un divano e fece loro cenno di accomodarsi su quello di fronte. «Temo di doverla informare che il signor Lowry è stato vittima di un omicidio», le comunicò Joe. «Oh, mio Dio. Ethan?» Scosse la testa, incredula. «Oh, mio Dio. Lui è così... che è successo? Non è proprio il tipo... scusate, dico cose senza senso.» «È stato ucciso nel suo appartamento. Pensiamo che possa averle telefonato poco prima che accadesse e abbiamo bisogno di scoprire perché.» «Dio, non lo so. Voglio dire, non credo abbia niente a che vedere col perché è stato ucciso. Non siamo più nemmeno tanto in confidenza, cioè, non sono una persona che chiamerebbe se fosse nei guai. Non ci sentiamo spesso.» «Quando è stata l'ultima volta che gli ha parlato?» «Un anno e mezzo fa, al funerale di mio fratello. Fu davvero molto carino a venire. Ethan era proprio un tipo così premuroso.» Piegò la testa. «Non ci posso credere.» «Cosa le ha detto quando ha chiamato?» «Non molto. Ha detto che telefonava solo per fare un saluto.» Alzò le
spalle per indicare la poca importanza della telefonata. «Quanto tempo siete stati insieme?» «Sei anni.» «Poi cos'è successo?» «Niente di particolare, il solito, eravamo troppo giovani, io ero troppo ambiziosa, lui amava la tranquillità di casa, a me piaceva andare alle feste. Credo che ci siamo lasciati perché ormai ci annoiavamo.» «Entrambi poi avete avuto altre storie.» «Io più di lui, credo, perché poco dopo conobbe sua moglie e si sposarono.» «Perché allora pensa che l'abbia chiamata la notte in cui è morto?» «Non ne ho idea.» «Non ne ha idea?» chiese Joe. «Davvero?» Lei sorrise tristemente. «Sono una pessima bugiarda. È perché sono preoccupata... sua moglie ha appena perso il marito...» Singhiozzò. «Ma che cosa vi sto dicendo? Sua moglie saprà ciò che vi dico?» «No, non necessariamente», la rassicurò Joe. «Non voglio renderle le cose ancora peggiori. Anche se io non ho fatto niente... c'è solo quella cosa assurda che Ethan mi ha detto quella notte... che mi amava.» A Joe venne fatto di corrugare la fronte. «Cosa? E da quanto tempo non lo vedeva? Un anno e mezzo?» «Già. Mi ha detto che chiamava solo per dirmi che mi amava.» «E lei cosa gli ha risposto?» «Sono rimasta scioccata. Voglio dire, dal tono di voce mi sembrava normale, se si esclude l'assurdità che mi stava dicendo. Non sapevo cosa rispondergli. Insomma, è sposato, so che ha una moglie e una figlia carine e... non so. Di sicuro io non lo amo. Non lo amavo. Gliel'ho detto. Gli ho parlato della moglie e che ormai la nostra era acqua passata.» Alzò le spalle. «A ripensarci ora mi sento malissimo. Per lui. Per sua moglie. Credo che lei non ne sapesse niente. Pensate... non è che si è ucciso?» «No», rispose Joe. «Le aveva accennato dei suoi sentimenti al funerale di suo fratello?» «No. Fu molto gentile con me, ma solo perché Ethan è fatto così. Non ci fu nessun discorso particolare fra noi, nessun progetto per rivedersi, io non lo incoraggiai né lui propose nulla.» «Conosce qualcuno che potesse provare del risentimento nei confronti di Ethan? Sa se è mai stato nei guai?»
«Ci siamo lasciati otto anni fa, ma prima di allora Ethan era una persona normalissima. Non l'ho mai visto discutere con nessuno. Teneva un profilo basso, per intendersi. Era l'ultima persona che potevo pensare finisse ammazzata.» Rufo era seduto alla scrivania, intento ad armeggiare col cellulare, quando entrarono Danny e Joe. Alzò la mano sinistra per indicare loro di fare silenzio. I due si guardarono, poi Joe alzò le spalle. Trascorsero un altro paio di minuti, con Rufo sorridente e concentrato sul piccolo apparecchio, poi il sergente premette un ultimo tasto e lo mise giù. «Sms», disse. «Gran bel modo di comunicare. Dovreste provare anche voi.» «Ho vissuto in Irlanda, si ricorda? L'occupazione che assorbe quasi tutto il tempo è bere.» «A chi inviava messaggi?» chiese Danny. Rufo lo guardò storto. «Non sono affari tuoi, Markey. Allora, a che devo il piacere?» Parlò Joe. «Pensavo di organizzare un incontro con Reuben Mailer dell'Eastern District, per tirar fuori un profilo dell'assassino...» «Certo. Fate pure. Sempre che sia chiaro a tutti che quello che chiedete a lui è una collaborazione amichevole.» Joe annuì. «Vedrò ciò che salta fuori dal profilo. Se c'è qualcosa a cui pensiamo debba dare un'occhiata o qualcuno che vorrebbe interrogare, allora vedremo. Ma lo sa com'è Mailer, è un bravo ragazzo, fa quello che deve fare, poi si ritira...» «A cuccia», concluse Danny. Joe alzò gli occhi al cielo. «Hai mai pensato che quello che fa così sei tu?» «Che diavolo vuoi dire?» «Per te sono tutti pezzi di merda o teste di cazzo. Hai mai pensato che fai parte del mondo anche tu?» «Signore care, continuate fuori», disse Rufo. Anna era in piedi fuori dalla stazione della metropolitana di Bay Ridge, intenta a frugare nel suo borsone blu. Trovò le cuffie, ma quando le estrasse si accorse che non c'era attaccato l'iPod. «Merde.» Si ricordò di averlo visto connesso agli altoparlanti dello stereo in cucina. «Merde.»
Controllò l'ora e considerò la possibilità di fare una corsa fino a casa a riprenderlo, ma poi si costrinse a scendere gli scalini e a entrare nell'afa della stazione. La raggiunse l'eco di voci alterate e quando fu più vicina vide una donna alta, vestita elegante, che spingeva alle spalle un adolescente malmesso, mandandolo a sbattere contro la macchinetta automatica dei biglietti. Lui le sputò in faccia, lei gli lanciò dei soldi e andò via. Anna non aveva nessun interesse a scoprire l'accaduto, tenne la testa bassa e si allontanò il più in fretta possibile. La infastidiva che il battito del cuore avesse accelerato; le accadeva troppo facilmente, a ogni scontro, movimento improvviso o rumori forti. Se però ascoltava l'iPod, e Mozart in particolare, provava la sensazione di poter sgusciare ovunque senza che niente la toccasse, come se contasse solo la colonna sonora e non i diversi luoghi che facevano da sfondo al suo passaggio. Strisciò il suo abbonamento e poi si mise in attesa sulla banchina, cercando di tenere nel suo campo visivo la donna elegante, che si tormentava il naso in evidente fase posteuforica da tirata di coca. Anna sentì il ragazzo che gridava dietro alla donna: «Puttana troia! Mi ha preso i soldi, puttana troia che non sei altro!» Poi, dopo un po': «No, eccoli qua. Quella troia me li ha tirati dietro!» Un'energia nervosa attraversava la folla. La donna si allontanò facendo oscillare la sua valigetta, la testa alta, un particolare motivo che sembrava ronzarle nelle orecchie. Arrivò il treno e tutti entrarono; era l'ora di punta e Anna, piccola e magra, finì strizzata in un angolino, accanto a uno studente dalle dimensioni enormi, che le sorrise in segno di scusa. Lei ricambiò il sorriso. Per la prima parte del viaggio, tutti rimasero concentrati chi sui propri libri o giornali chi nella conversazione con gli amici. Anna fissava il niente oltre il finestrino; poi le porte della metropolitana si aprirono a Cortlandt Street e rimasero aperte per qualche minuto. Il panico la assalì nuovamente. Dagli altoparlanti rimbombarono annunci, che nessuno riusciva a decifrare. Le persone cominciarono ad alzare gli occhi e poi a guardarsi fra loro con aria interrogativa. Anna provò il desiderio lancinante di farsi largo e uscire, ma la trattenne il fatto che, così facendo, avrebbe richiamato l'attenzione su di sé, e tutti avrebbero fissato quella donna che si lasciava prendere dal panico solo perché il treno si era fermato due minuti più del solito. Sentì il sudore correrle lungo la schiena, favorito dal calore sprigionato dalla metropolitana, dalle persone, dal loro respiro. Le porte si richiusero e il treno ripartì. Lei
ebbe un respiro di sollievo e per tutto il tempo fino alla sua fermata continuò a parlare a se stessa, dicendosi che era stupida, poi coraggiosa, poi irrazionale, poi forte, poi stupida. Affrontò quasi di corsa gli scalini che portavano a Union Square, sollevata di poter respirare aria che non la soffocasse. Scostò la maglia dalla pelle e lasciò che la brezza la rinfrescasse. «Non ce la posso fare», disse a se stessa. «È impossibile che ci riesca.» Si riscosse e guardò dall'altro lato della piazza Barnes & Noble. Sentì il richiamo di una mattinata trascorsa a bere caffè e a sfogliare libri di design con immagini di case in posti lontani, arroccate sopra promontori nell'oceano o affacciate su spiagge e scogliere. Un brivido le corse per la schiena. Fece un profondo respiro e si diresse al W Hotel; guardò attraverso la vetrata e vide che erano già tutti riuniti nel bar nella penombra del primo mattino. Riconobbe la nuca di Marc Lunel, con i suoi capelli neri lunghi e luminosi, l'etichetta rossa delle sue scarpe di Prada. Vide quattro modelle, due truccatrici, due parrucchieri, l'inviato di Vogue Living... tutti in attesa che lei arrivasse a dirigerli. Si vide riflessa nel vetro, gli occhi stanchi, le labbra all'ingiù, il velo di sudore sulla fronte. Si voltò, si incamminò e fece segno al primo taxi che passava. Quando Joe tornò alla scrivania, vi trovò sopra una busta bianca, affrancata e indirizzata a lui. La maggior parte della posta che riceveva erano buste gialle di corrispondenza interna al dipartimento. La sollevò: era leggera ma voluminosa, di carta a buon mercato e senza indirizzo del mittente. Prese un righello e lo usò come tagliacarte per aprirla. Le sottili pagine bianche piegate in due che erano all'interno si aprirono, rivelando ciascuna due lati di scrittura confusa, fatta di periodi brevi. Caro Ispettore Lucchesi, il rumore stamattina era quasi insopportabile. Potrei provare a ricrearlo con lettere e parole. Mi alzo dal letto. Non saprei dire come. Due direzioni. Ed è un'agonia. Mi crea ansia talvolta se lo faccio. E in effetti ciò di cui ho bisogno è la pace per trovare la mia strada attraverso ogni cosa. Non c'era ragione di rimanere distesi là. Uno avanti, uno indietro. Ho fatto il caffè e delle uova strapazzate. So ancora come prepararle. Non so cosa sia più difficile. Ma era rumoroso. Non tutti gli altri lo fanno. Non credo di poterlo immaginare completamente senza il silenzio. Basso e batteria. Ci sono volte in cui ci sono quasi... Joe smise di leggere per massaggiarsi le tempie. Poi voltò pagina e proseguì. La lettera andava avanti con una serie casuale di pensieri, che sembravano fare riferimento a una storia, una che però conosceva solo chi
scriveva. Era un accumulo complesso di fatti semplici, osservazioni, teorie e descrizioni. Quando arrivò alla sesta pagina, Joe lesse qualcosa che gli rese tutto più chiaro. Verticalmente sul margine destro c'era scritto: Disteso, picchiato a morte. Lowry è il risultato. Non so se avrei potuto fare niente di diverso. Un brivido gli trafisse la schiena. Scorse rapidamente le pagine seguenti, che parlavano di stanze, storie, calcolatori e teatri. La lettera terminava dopo ben sedici pagine con la scritta: Seguiranno altre cose. Catturato al momento giusto. «Gesù, ma che cazzo è questo?» chiamò gli altri alla sua scrivania. «Ragazzi, ho ricevuto una lettera su Ethan Lowry.» «Una lettera?» chiese Danny. «Da chi?» «Un casuario.» «Chi è questo Casario?» chiese Rencher. «Casuario. Una persona a caso. Uno sconosciuto. È un gergo che usavano gli amici di Shaun in Irlanda.» «Ok, cosa dice questo casuario?» chiese Rencher. «Tutto e niente.» «Cerca di non dare risposte troppo dettagliate», disse sarcastico Danny. Joe lo ignorò e guardò la lettera. «Ok, ci racconta un sacco di cose su dove si trova esattamente il sale in cucina per condire le uova della colazione, su cosa gli piace fare... chi desidera i dettagli li trova qui.» «Si è firmato?» chiese Rencher. «Certo, come no», intervenne Danny, «e ci ha messo pure l'indirizzo, ecco perché siamo tutti seduti qui attorno, cercando di scoprire chi l'ha scritta.» «Va bene, ma io volevo dire...» «Che? Qualcosa del tipo Firmato: l'assassino...?» «Chiudi il becco, Danny», disse Rencher. «Chiudete il becco tutti quanti», sbottò Joe. «Lasciate che ve la legga.» Lesse la lettera ad alta voce e rimase in attesa in silenzio. «La prendiamo sul serio?» chiese Rencher. «Credo che dovremmo», disse Joe. «Però disteso, picchiato a morte potrebbe averlo preso dai giornali, non c'è nessuna informazione che possa conoscere solo l'assassino», osservò Rencher. Joe guardò di nuovo la lettera e scrollò le spalle. «Io credo che qualcosa ci sia. Partiamo dal punto di vista che ci sia.»
«Seguiranno altre cose. Catturato al momento giusto», intervenne Danny. «Altre vittime?» Joe scrollò di nuovo le spalle. «O altre lettere?» «Forse», convenne Danny. «Ma qual è lo scopo di questa lettera?» chiese Martinez. «Qualcuno ci porge la mano», disse Rencher. «Ma per aiutarci?» disse Cullen. «Ci fornisce qualche informazione?» Joe guardò di nuovo le pagine. «Sono convinto che qua dentro ci sia il tentativo di darci delle informazioni.» «Parlando seriamente, potrebbe davvero essere dell'assassino?» disse Rencher. «Non ha il tono di uno psicopatico, anche se c'è scritto Lowry è il risultato. Non so se avrei potuto fare niente di diverso.» «Già», convenne Joe. «Potrebbe riferirsi a quello come a qualsiasi cosa. Non lo so. Ascoltate, io adesso ne faccio qualche copia, se avete delle idee al riguardo venite a parlarmene.» «Il laboratorio di analisi dei documenti sarà in grado di dirci qualcosa?» chiese Rencher. «Non molto, credo», disse Joe. «A una prima occhiata la carta, la busta, la penna non sembrano niente di particolare. Se riceviamo un'altra lettera, potranno dirci se viene dallo stesso tizio e, in caso ci fosse qualche problema quando lo rintracciamo, potranno usare dei campioni della sua calligrafia per identificarlo. Tutto qui. Per prima cosa portiamo questo alla scientifica, per vedere se ci sono impronte.» Indicò il suo taccuino. «Quello che voglio dire è che chiunque abbia scritto questa roba, come può non rendersi conto che rintracciarlo è facile come sputare per terra? Dal timbro postale posso risalire al giorno e al luogo in cui è stata spedita. Mi metterò in contatto con le poste, per vedere se hanno delle registrazioni video. Bobby, puoi passarmi il fascicolo di Ortis?» «Certo», disse Bobby porgendoglielo. Mentre Joe lo sfogliava lentamente, gli altri parlavano fra di loro. «Hai portato il modulo Vicap?», chiese poi, guardando Bobby. «Per Ortis?» «Sì.» Bobby alzò le spalle. «Credo di non averlo compilato.» «Non hai compilato il modulo Vicap, Bobby?» La voce di Joe rimbombò nella stanza. «Appunto, perché tu li riempi ogni volta?» replicò Bobby, facendo scor-
rere lo sguardo su tutti gli altri. «Andiamo, centinaia di domande del cazzo che non servono a nulla quando non c'è un cane in tutto il paese che riempia quei moduli. Lo sanno tutti. Perché sprecare delle ore a rispondere a delle domande invece di stare sulla strada e combinare qualcosa?» «E non credi che, se avessimo fatto prima un collegamento fra i casi, avremmo potuto aiutare Ethan Lowry?» Bobby sbuffò. «E per rispondere alla tua domanda, sì, io compilo i moduli ogni volta. Sempre...» «E allora?» «Niente. Se lavoro con una squadra di investigatori e loro non li riempiono, tocca a me farlo al posto loro.» Joe parlava con lo sguardo abbassato, in tono neutrale. Danny si alzò. «Bene, per quanto riguarda quella gran fica che lavora al Vicap...» Scoppiò una risata nervosa che si spense quasi subito. Carmen, la madre di William Aneto, viveva sopra la drogheria di sua proprietà sulla Centosedicesima a Harlem Est. Martinez suonò il campanello, ma non ebbe risposta. Sulla porta recentemente riverniciata di un verde brillante c'era un battente dorato. Provò a batterlo. «Buon odore», disse Danny, che guardava la vetrina del negozio. Poi allungò la mano per suonare di nuovo il campanello. Martinez gliela allontanò e suonò lui. «Questo è il mio show.» A quel punto la signora Aneto aprì e li squadrò con occhi stanchi. Era una donnetta sulla cinquantina, vestita con un abito blu e scarpe dal tacco basso. Portava i capelli ordinatamente raccolti alla base del collo e aveva un viso pulito, senza traccia di trucco. Martinez la salutò in spagnolo, presentando se stesso e Danny. La donna lo fissò per un po', poi disse: «Lei deve essere il tizio di rappresentanza». Martinez la guardò con aria interrogativa. «Mandano un investigatore con la pelle dello stesso colore della vittima», spiegò lei. Martinez le parlò ancora in spagnolo, lei sorrise rassegnata e li fece entrare, conducendoli attraverso una stretta rampa di scale all'interno di un piccolo appartamento. Il soggiorno appariva molto vissuto ed era evidentemente il luogo in cui
la signora Aneto trascorreva la maggior parte del tempo. C'erano riviste femminili sul divano, sui cui braccioli giacevano in equilibrio due libri, un vassoio con una teiera e una tazza. Al centro del tavolino stava una coppa piena di caramelle. Il televisore era un grande schermo e alle sue spalle c'erano scaffali pieni di dvd e di videocassette coi titoli scritti a mano. La signora Aneto si sedette su una poltrona dallo schienale alto e si sistemò davanti un poggiapiedi. Danny e Martinez si accomodarono sul divano. Martinez si piegò in avanti e appoggiò l'avambraccio sul ginocchio, poi parlò in spagnolo. «Lei ha detto che suo figlio le telefonò la notte in cui morì solo per darle la buonanotte. Le disse nient'altro?» «Cerchiamo di non essere scortesi con il nostro ospite bianco», replicò lei e passò all'inglese. «Perché me lo chiedete proprio adesso?» «Perché ci sono stati dei nuovi sviluppi nelle indagini e...» «Che genere di sviluppi?» «Pensiamo che ci possa essere un'altra vittima.» La donna sgranò gli occhi. «La vittima era un bianco?» «Sì. Anzi, potrebbero essercene due.» «Entrambe bianche, immagino.» «Sì. Abbiamo parlato anche con un familiare di un'altra vittima, che ha ricevuto una telefonata la sera dell'omicidio, anche se una chiamata diversa da quella che ha ricevuto lei. Ci chiedevamo se poteva esserci un legame...» La signora Aneto chiuse gli occhi e le labbra cominciarono a muoversi in una preghiera silenziosa; poi le sfuggì un profondo sospiro. «Mio figlio si presenta agli investigatori come una vittima latinoamericana. E partiamo già male. William è gay. Di male in peggio. Il massimo sarebbe stato dirvi delle telefonate. Non avete fatto niente per trovare l'assassino di William, non ve n'è fregato un cazzo e tornate adesso solo perché a qualche ragazzo bianco è toccata la stessa sorte. Vi dirò ora ciò che non vi ho detto allora, perché potrebbe esserci un legame tra i due casi e voi vi darete da fare di più per tre vittime di quanto non avreste fatto solo per mio figlio, un morto ammazzato solitario e con il colore della pelle sbagliato...» «Signora Aneto...» iniziò Danny. Lei alzò un dito. «Non c'è niente che possiate dirmi per farmi cambiare idea.» «La sua idea, signora Aneto.» Lei fissò intensamente Danny, fino a costringerlo ad abbassare lo sguardo. «Ho trascorso un anno sentendo montare dentro di me rabbia e ama-
rezza. E questa è la mia opportunità. Non piangerò per quei ragazzi bianchi, perché con la loro morte forse mi aiuteranno a far riposare in pace il mio William. È una luce tragica quella che getterò su mio figlio, ma farò ciò che deve essere fatto. Ho due figli morti. Pepe, il più giovane, fu ucciso tre anni fa da alcuni proiettili vaganti, durante una sparatoria fra gang ad Alphabet City. Mi fu detto che era in cerca di droga, ma non ci ho mai creduto. C'era qualcosa che non mi tornava. I suoi assassini non sono mai stati trovati. La sera in cui William morì, come sapete, mi telefonò, ma non fu solo per dirmi buonanotte.» Fece una pausa. «Riuscivo a malapena a sentirlo. Sembrava ubriaco, singhiozzava, respirava a fatica. Mi disse: 'Mamma? Sono stato io a uccidere Pepe'. Io gli dissi: 'William, è tutto a posto? Che succede?' Mi disse che stava bene, poi mi raccontò che era stato lui a mandare Pepe a procurargli la droga. Ecco perché si era ritrovato là ed era stato ucciso. William continuava a scusarsi. Ero infuriata con lui, ma allo stesso tempo preoccupata per come lo sentivo disperato. Quando il mattino seguente vennero a dirmi che era stato trovato morto, pensai che si fosse suicidato.» «Quindi William faceva uso di droghe.» «Non lo sapevo. Comunque doveva essersi disintossicato, perché l'esame tossicologico dell'autopsia dimostrò che era pulito. Però se vi avessi detto della telefonata, non avreste esitato a considerarlo coinvolto in storie di droga.» «Signora Aneto, ogni vittima è importante per noi», riprese Danny. «Ognuna. Nessuno viene trattato diversamente secondo il colore della pelle o delle sue scelte di vita, niente di tutto ciò. Noi vogliamo trovare l'assassino di suo figlio e abbiamo bisogno di tutte le informazioni possibili. Non esprimiamo giudizi di merito su quanto ci ha raccontato, per noi sono solo fatti, importanti o meno, che possono condurci o no all'assassino.» La signora Aneto prese da uno scaffale accanto a lei una cornice di legno nero lucido con una foto di William e la fissò pensosa. «Vi sto parlando oggi perché nutro delle speranze. Sono ancora amareggiata e arrabbiata, però ho speranza. Non sono pentita di non avervi detto niente un anno fa. Lo rifarei, perché sono certa che, se aveste saputo che William era coinvolto in storie di droga, non vi sareste impegnati abbastanza a scoprire la verità.» Joe afferrò la giacca del completo, che pendeva dallo schienale della
seggiola, e si guardò intorno nell'ufficio. «Io non ho ancora mangiato e vado a fare colazione. Volete qualcosa?» Prese tre ordinazioni di cibi e bevande e, nel momento in cui stava uscendo dall'ascensore, gli squillò il cellulare. Era un numero che non vedeva da oltre due anni e che però non aveva mai cancellato dalla rubrica: ANNA (LAVORO). Rimase perplesso. «Anna?» «Tu sai dove sia?» Era Chloe, con un tono che non aveva niente dell'abituale confidenza. Joe non riuscì a rispondere. Anna non poteva essere altrove che al lavoro, al W Hotel in Union Square. Al numero che lui aveva impostato sul telefono quella mattina in caso di necessità. «Cosa?» La fame era scomparsa, qualcos'altro gli aveva riempito il vuoto allo stomaco. «Scusami, sono Chloe. Anna non si è fatta viva per il servizio di questa mattina. Ho provato al cellulare, a casa: niente. Ho rintracciato il tuo numero fra le sue carte che avevamo qui e mi dispiace disturbarti, ma...» «Accidenti, ma che succede? Quando l'ho lasciata stamattina stava andando a prendere la metropolitana a Union Square ed era tutto a posto...» «Qui non è arrivata e non è da lei. Le hai parlato?» «Ovviamente no.» Non aveva tempo da perdere con Chloe, doveva andare. «E ti sembrava normale stamattina?» «Sì. Sì, certo», rispose Joe, chiedendosi che cosa fosse la normalità e se avrebbe saputo riconoscerla. Ci fu qualche istante di silenzio. «Allora?» disse infine Chloe. «Che facciamo?» «Ci penso io.» «Grazie. Sono... preoccupata per lei.» Lo credo bene, pensò Joe. Rimase fermo in strada, a premere tasti sul cellulare con le dita tremanti in cerca di un sms che non aveva letto, di una chiamata persa, o di qualsiasi altra cosa gli desse un segno che sua moglie lo aveva cercato. Poi chiamò il cellulare di Anna e quindi casa. Segreteria telefonica in entrambi i casi. Guardò dall'altro lato della strada, dove era parcheggiata la sua auto. E la raggiunse di corsa. Anna era distesa sul letto, di nuovo in pigiama, addormentata, raggomitolata più che poteva, con un cuscino stretto sul petto. Il corpo aveva degli
scatti improvvisi, poi si voltava sulla schiena, spostando il cuscino di lato. La tormentava una serie di immagini, che la inchiodavano con una forza psicologica tale che quasi acquistavano fisicità. Aveva le labbra serrate, voleva urlare ma non ci riusciva. Sopra di lei aleggiavano come fantasmi occhi e bocche strani e distorti, che le sostavano sul petto, poi sul volto, minacciosi, infine sfrecciavano via per essere rimpiazzati da altre figure, ognuna delle quali le lasciava la sensazione che quella successiva l'avrebbe finalmente sopraffatta. Aveva le mani chiuse a pugno, gli occhi serrati, un urlo disperato pronto a esploderle dalla bocca. Sentiva chiamare il suo nome, ancora e ancora... ma da una voce calda, che associava a una persona gentile, una che si prendeva cura di lei. Qualcosa nel suo inconscio si rilassò e l'urlo liberatorio esplose, insieme a un gemito pauroso e lamentevole. Iniziò a piangere a dirotto e quando aprì gli occhi accanto a lei c'era Joe, che se la tirò in grembo, accarezzandole i capelli e baciandola sulla testa. «È tutto a posto tesoro, è tutto a posto, ci sono qua io.» Fece una pausa, poi aggiunse: «Sei al sicuro, era solo un incubo. Tutto è a posto e tutti stanno bene.» Il sollievo che le lesse negli occhi quasi gli spezzò il cuore. «Era di nuovo quella maledetta paralisi nel sonno. La odio. Pensavo di essere guarita e invece...» «Sss», le intimò Joe con voce dolce. «Ormai è passata. Verrai con me in cucina, ti preparerò una tisana rilassante; per me farò un litro di caffè, che poi mi inietterò endovena...» «Perché sei a casa? Che ore sono?» «Sono a casa perché mi mancava mia moglie.» 7. «Sei dovuto tornare in Irlanda a mungere qualche vacca del cazzo per avere un po' di latte?» chiese Rencher. «Il caffellatte», disse Joe, «è roba da donnicciole.» «È tutto qui quello che mi hai portato? Una battuta del cazzo?» «Quella e il tuo caffellatte. Con due muffin in omaggio.» Joe li poggiò sulla scrivania di Rencher. «Cosa?» esclamò lui? «Secondo te avrei bisogno di ingrassare?» «Quello di cui hai bisogno è sorridere. Dove sono gli altri ragazzi? Ho altri caffè da distribuire.»
«Si dà il caso che nelle due ore in cui sei stato via abbiano deciso di fare una cosa davvero insolita: uscire per del lavoro di polizia.» «Perché, io non facevo lo stesso?» Rencher fece un cenno sconsolato con la testa. «Torniamo al lavoro», disse Joe sorridendo. Prese posto alla scrivania e sospirò. Richiamò la rubrica sul computer e cercò il numero di Reuben Mailer. Prima ancora dello squillo ci fu la risposta. «Reuben, sono Joe Lucchesi.» «Ciao, Joe.» La sua voce era guardinga. «Non preoccuparti. Si tratta di un caso che ho per le mani.» «Ah, bene, perché non ho novità riguardo a...» «Lo so. Ascolta: ti ricordi di William Aneto?» «Sì, il caso fece piuttosto scalpore.» «Infatti. Bene, pensiamo di poterlo collegare ad altri due omicidi recenti: uno sullo Upper West Side e uno a SoHo. Potresti dare un'occhiata al fascicolo, per vedere se è possibile ricavare un profilo? Quattro occhi vedono meglio di due.» «Certo, non c'è problema. Più tardi faccio un salto da te.» «No, te lo porto io.» «Ottimo. Joe? Hai davvero bisogno del mio aiuto, oppure...» Joe rise. «Mi serve davvero il tuo aiuto, ok?» Rise anche Mailer. «Va bene. Era solo per sicurezza.» Joe mise giù il telefono. Si sedette davanti al PowerBook e cliccò la sua icona preferita, la penna e calamaio che aprivano Pages, un programma per creare newsletter, bollettini, volantini e opuscoli. Conteneva una vasta scelta di modelli di documenti dai colori sgargianti, con foto di persone felici e sorridenti. Aprì il modello che aveva creato lui stesso, Vitt, e generò un nuovo file. Si chiese cosa avrebbero pensato i programmatori dell'uso che stava facendo di quel software. Aprì iPhoto e trascinò nel documento le foto delle vittime, che le ritraevano quando erano ancora in vita, sorridenti, annoiate, rilassate. Joe voleva guardarle negli occhi e fare qualcosa per questi tre uomini, che magari aveva incrociato per strada, al supermercato o al bar. Non tre uomini che conosceva solo perché ne aveva visto il cadavere. Squillò il telefono. Rispose. «Pronto?» «Ciao Joe. Sono Mark Branham, dell'Associazione Gay.» «Ciao, grazie per aver richiamato, Mark. Come va?»
«Bene. Sono indaffarato. È il primo anniversario della morte di William Aneto, come sai, perciò cerchiamo di aiutare la famiglia a riportare l'attenzione dei media sul caso. È per quello che chiami?» «Più o meno. La nostra è solo una chiacchierata informale, ok?» «Certamente.» «Pensiamo che il caso possa essere collegato a un altro paio di omicidi degli ultimi mesi.» Mark fischiò di sorpresa. «Davvero?» «Per ora è solo un'ipotesi.» «Tutte le vittime erano gay?» «No, ma ci chiedevamo se magari non avessero qualche volta, mi capisci...» «Cosa? Ceduto alle vibrazioni gay? Provato il brivido di una notte? Bisex ora, gay in futuro?» Joe rise. «Una cosa del genere. Magari tenevano il piede in due staffe, capisci?» «Ok. Cosa pensi che volesse l'assassino?» «Abbiamo tre opzioni: uno, gli piace giocare duro, si è spinto troppo oltre e ci ha provato gusto; due, è omofobico e vuol dare una lezione a quei brutti froci; terzo e ultimo, le sue vittime sono gay semplicemente perché quello è l'ambiente che frequenta.» «Potremmo trovarci di fronte al classico omofobico con desideri repressi, che una notte si ubriaca e fa questa nuova esperienza, però disprezza il tizio che ha rimorchiato e sfoga su di lui decenni di rabbia. Ho visto delle aggressioni - non omicidi - nate per questo motivo. Uomini picchiati selvaggiamente. Si tratta di casi del genere?» «Sì. I loro volti erano irriconoscibili. Il medico legale ne aveva visti altri esempi simili.» «Brutta faccenda. Che posso fare per te?» «Per ora non fare parola di tutto ciò. E poi conosci il 3B?» «Il club? Birra, Ballo e Batacchi? Certo. William Aneto ci ha trascorso la sua ultima notte.» «Vorrei parlare con chi lo gestisce, ma in modo molto discreto.» «Ok, allora ti serve Buck Torrance, di notte p.r., di giorno tranquillo commesso in un negozio di animali, il Dawg On It. L'indirizzo è Chelsea, Eighth Avenue, fra la Ventunesima e la Ventiduesima. È un bravo ragazzo, non farà storie. Digli che ti mando io e che si tratta del primo anniversario. Se gli domandi degli altri tizi, puoi sempre dire che erano amici di Aneto.
In ogni caso è una persona discreta.» «Grazie, Mark. Domani ci metteremo in contatto con lui. Come sta Kevin?» «Benissimo. E Anna?» «Non c'è male. Riguardati.» «Anche tu.» Joe uscì dall'ufficio alle sette per portare il fascicolo a Reuben Mailer. Mentre tornava a casa decise di fare una visita al vecchio Nic, l'unica ragione che lo portava ancora a Bensonhurst. Ormai era improbabile che vi incontrasse facce conosciute: quasi tutti quelli che conosceva si erano trasferiti a Staten Island nel corso degli anni Novanta. Sembrava che ogni traccia della sua infanzia fosse stata spazzata via insieme ai vecchi negozi. Per Joe, Bensonhurst era ancora quella ripresa nella sequenza iniziale dei Ragazzi del sabato sera. Se avessero girato nuovamente quella serie al giorno d'oggi, niente sarebbe stato più come prima. Joe lasciò l'Ottantaseiesima e percorse una strada a lui molto cara, che passava davanti alla casa dove era cresciuto, alla vecchia casa di Danny e a quella dei genitori di Gina. Evitò l'appartamento dove aveva trascorso tre anni insieme alla madre, dopo il divorzio dei suoi genitori. Per lui, significavano due anni trascorsi sapendo che sua madre aveva il cancro, e uno con la certezza che non ce l'avrebbe fatta; significavano il ricordo delle visite in ospedale, da cui ritornava ogni volta più debole e malferma. Si ricordò della prima visita al Kings County Hospital, quando lui aveva quattordici anni. Lei gli disse che si trattava di una normale visita di controllo e lui era imbarazzato di tenerla per mano, ma lei gliela stringeva così forte che pensava sarebbe stato sbagliato lasciargliela andare. Aspettò fuori dall'ambulatorio, senza sapere che là dentro a sua madre, allora trentaseienne, veniva diagnosticato un cancro al seno. Joe era troppo preoccupato di essere riconosciuto: il Kings County era l'ospedale dove andava a farsi medicare dopo le risse. Attendeva all'esterno che un giovane internista uscisse per la pausa; il tizio era sempre lo stesso, e ogni volta scuoteva la testa, quando lo vedeva con un labbro o un sopracciglio spaccato. Poi lo faceva entrare di soppiatto in una stanza vuota dove lo medicava con le sue mani grandi e premurose. Joe sapeva che anche solo passare con l'auto davanti a quel condominio gli avrebbe spezzato il cuore. Lo aveva fatto una volta e gli era sembrato di vedere sua madre uscire dalla porta di ingresso. Maria Lucchesi era una
donna bassa e rotondetta, che indossava sempre un cappotto rosso. La donna che aveva visto gli assomigliava così tanto, che Joe aveva rallentato e poi accostato. Era rimasto con la testa appoggiata al volante, più vecchio di quanto fosse sua madre quando era morta, piangendo come un bambino al ricordo di quella donna che era sempre riuscita a rincuorarlo. Bastava un suo abbraccio per rimettere tutto a posto. Joe si fermò poi davanti alla villetta in legno di Nicotero, andò alla porta, suonò il campanello e sentì il consueto frusciare delle ciabatte del vecchio Nic. «Ehi, amico», esclamò abbracciando Joe. «Che bella sorpresa.» «È stata la nostalgia a portarmi qui.» «Bene, almeno non sei venuto per dirmi che Bobby si è comportato male in classe.» Joe rise. «Vieni, entra pure. Patti non c'è. Io ero fuori sul portico.» Joe prese posto accanto al vecchio Nic, davanti a un tavolino di metallo lavorato. «Allora, come vanno le cose con Bobby?» chiese Nic, sorridendo. Aprì una bottiglia di birra e la porse a Joe. «Bene, tutto bene», rispose Joe dopo il primo sorso. «Davvero? Pensavo che foste diversi.» «In che senso?» disse Joe, guardandolo e sorridendo. «Non venirmi a raccontare cazzate. Voi due siete troppo diversi per andare d'accordo.» «Forse.» «E in più per lui il fatto che tu sia mio amico non ti fa onore», proseguì Nic, abbassando lo sguardo. «Non è una cosa triste?» «È lui a rimetterci», commentò Joe, alzando le spalle. «Cos'hai in mente? Lavoro o divertimento?» «Beh, qualcosa che dovrebbe essere divertimento ma, mi dispiace dirlo, credo di aver mandato tutto a puttane.» Fissò un punto al di là del minuscolo giardino. «Ho in mente Anna.» Nic annuì. «Come sta?» A Joe sfuggì un sospiro. «Lei... ieri ha perso la sua battaglia. Lo sai che per tanto tempo non è uscita di casa; bene, ieri ha raccolto tutto il suo coraggio ed è andata al lavoro per un servizio fotografico in un albergo. È arrivata lì ma non ce l'ha fatta.» «Cos'è successo?»
«Non so neppure se mi ha raccontato tutto. Quello che mi ha detto è che ha provato un insopportabile senso di oppressione e si è messa a correre. Ha preso il primo taxi ed è tornata a casa. Ha perfino spento il telefono senza dire niente al suo capo e non ha voluto riaccenderlo neppure oggi. Ha paura di perdere il lavoro. Sono preoccupato che fosse così spaventata e che neppure la paura di rimanere disoccupata sia riuscita a fermarla.» «Ok. Adesso dimmi di te.» «Cioè?» «Mi hai raccontato di Anna, come sempre, perché è più facile. È lei che ha tutti i problemi, giusto? Tu non ne hai nessuno?» Joe si rabbuiò e non disse nulla. «Anche io e Patti abbiamo passato un periodo piuttosto difficile. Vuoi sapere qual è il più grosso errore che ho fatto? Credere che lei fosse l'unica a dover cambiare.» Joe tenne lo sguardo fisso sulle screpolature nel legno del pavimento. «E Anna», proseguì Nic, «insomma, se l'è vista brutta.» Joe fece segno di sì con la testa e si strinse con due dita la base del naso. Nic sospirò profondamente, poi proseguì. «Tu sei convinto di non essere più il suo eroe.» «Cosa?» esclamò Joe, sorpreso. «Ti rivelerò un piccolo segreto. Ciò che tu credi che per la donna sia un cavaliere con una lucente armatura e ciò che invece crede lei sono due cose completamente diverse. Ho sprecato troppo tempo cercando di essere questo tizio con le palle che risolve tutti i problemi dell'universo. Però non lo sono. Nessuno lo è, Joe. Devi superare ciò che è accaduto, perché non è stata colpa tua. Le disgrazie accadono. Disgrazie tremende, a volte. Perciò, puoi o piantare l'ultimo chiodo nella bara del tuo matrimonio, lasciando che Rawlins lo rovini definitivamente, oppure puoi dire: 'Vaffanculo, pezzo di merda, ci sei quasi riuscito a rovinare la mia famiglia, ma non avrai una seconda possibilità e non trascorrerò il resto della mia vita comportandomi come vuoi tu'. Concedere a quello psicopatico il potere di cambiare il corso della tua vita? Fottitene, Joe. Non devi lasciare che accada, lo devi ad Anna e a Shaun.» «Non è così facile.» «Invece sì. Ti dirò una cosa. Quando ci siamo sposati, per Patti ero come il sole. Il poliziotto forte e tosto. Nessuno nei dintorni aveva il coraggio di misurarsi con Victor Nicotero; passeggiavamo per strada e lei si sentiva protetta e fiera di me. E ti confesserò che ci godevo, perché mi dava un
senso di grandezza. Poi un giorno ero al lavoro, lei non si sentì bene e io non tornai a casa in tempo. Era incinta di due mesi (è successo prima di Bobby), ma perse il bambino e non ci fu niente che io potessi fare. Allora qualcosa cambiò. Per un anno dopo quell'episodio, credetti che mi considerasse un uomo più debole, che in qualche modo l'aveva abbandonata.» Nic alzò le spalle. «E sai invece cosa mi disse? 'Grazie a Dio', mi disse, 'grazie a Dio adesso sai di non essere invincibile. Mi dispiace se sono stata io a darti quell'impressione'. Aveva ragione. Assolutamente ragione. Poi mi disse un'altra cosa, che non scorderò mai: 'Essere un eroe vuol dire molte cose: forza di carattere, sacrifici, a volte soltanto ridere o rimanere in silenzio, ma non vuol dire sprecare le energie nel tentativo di tenere a bada tutti i mali del mondo e poi arrabbiarsi e rimanere frustrati quando si scopre che non è possibile. Non voglio un uomo frustrato e pieno di rancore. Per fortuna non sei più così'. Ecco quello che mi disse, e poi uscì dalla stanza e tornò a finire il lavoro che aveva lasciato a metà.» «Patti è diversa.» «Nessuna donna vuole al fianco un uomo debole, e tu non lo sei.» Nic fece una pausa. «Parlale. Parlale sul serio, senza rabbia. Rivelale ciò che senti.» Joe rise. «Con l'età sei diventato più tenero.» «Non dirmi cazzate. Tutti, quando vogliono un consiglio, vanno a chiederlo alla persona che sanno dirà loro ciò che più desiderano sentirsi dire. Sei venuto da me perché sapevi che ti avrei detto quanto tu e Anna state bene insieme e insieme dovete restare. Non vuoi sentirti dire che la situazione è ormai irreparabile.» «Ma se lo fosse?» «Non lo è. Ok? Non lo è. Beviamoci la birra. Tutta questa saggezza mi ha sfinito.» Alcune ore più tardi Joe parcheggiò nel vialetto di casa e spense il motore. Ancora, dopo sei mesi lì, non riusciva a liberarsi dalla delusione ogni volta che rientrava. Era stato costretto a sceglierla quando Anna era a Parigi; era stato un problema di soldi: l'affitto era basso perché il proprietario era anche lui un poliziotto disposto ad aiutare un collega e affidare la casa a una persona fidata, visto che lui era sempre in giro per il mondo. Quando Joe era andato a vedere il posto, veniva da due ore di sonno ed era imbottito di analgesici. Sonny, il proprietario, era riuscito a trovare una donna che ripulisse la casa, mettesse qualche vaso e dei deodoranti in giro.
I mobili della cucina avevano solo sei mesi di vita e il bagno era stato ristrutturato, ma l'abituale attenzione di Joe ai minimi dettagli era scomparsa non appena aveva varcato la soglia. Lo aveva sopraffatto un'insolita sensazione di sollievo. Riusciva a immaginare lui, Anna e Shaun che conducevano una vita meravigliosa in quel posto e per il resto della visita fluttuò in un ottimismo condito di disperazione. Tre cose catturarono la sua attenzione: i pensili in acciaio nella cucina, il divano a elle color crema nel soggiorno e il letto in ferro battuto nella camera matrimoniale. Era lo stile di Anna. Lavorò sodo per prepararle la casa. Danny lo aiutò molto, ma esordì con: «Amico, non vorrei essere al tuo posto quando arriverà Anna», e «Ragazzo, sei fottuto.» Si rese più utile nel momento in cui iniziò a compilare un elenco delle cose che si dovevano fare. Si trattava di una lunga lista, che decisero di portare a termine senza consultare Sonny, specialmente dopo che trovarono un suo dente in uno dei mobiletti della cucina e si accorsero che il ripostiglio più grande della casa era ancora pieno delle sue cose. Il giorno in cui traslocarono, Joe vide che il bel divano color crema era stato cambiato con uno arancione pieno di macchie e che al posto del letto in ferro battuto c'era un basamento beige con sopra un materasso, provenienti da un discount del mobile. L'unica fortuna fu che Anna arrivò a casa esausta, dopo un volo di otto ore da Parigi; dette un'occhiata soddisfatta in giro, e poi andò di sopra, così stanca da riuscire a dormire su quel letto scadente. Shaun era stato reclutato da Joe per mostrare entusiasmo e distrarla, e funzionò, almeno finché Anna non si svegliò il mattino seguente. Il problema era che, poiché non erano stati sistemati l'impianto elettrico, quello idraulico e gli infissi, la casa era condannata ad apparire incompiuta, per quanto fosse imbiancata di fresco. Ogni cosa in legno era stata misurata male: battiscopa troppo lunghi o troppo corti, porte troppo piccole, mobiletti che non si chiudevano. Alcune porte erano fermate sui cardini solo da un paio di viti. Lo stipite della camera matrimoniale si era sbriciolato tra le mani di Joe. Al piano di sopra, vicino alla porta del bagno, filtrava la luce proveniente dalla cucina al piano terra. Anna l'aveva presa bene. Era così commossa dagli sforzi di Joe, che non aveva mosso nessuna obiezione. Ma nei mesi che erano seguiti, Joe aveva udito spesso urla improvvise da ogni angolo della casa, quando si rompeva qualcosa, o cadeva una maniglia o si batteva la testa contro qualche spigolo.
«Sono io», disse Joe, che la rassicurava ogni volta che entrava in casa. «Ciao», le disse baciandola sulle labbra, «come stai? Come sei carina.» Anna era bassa, di carnagione olivastra e con occhi verde chiaro. In quel momento era scalza, indossava un paio di jeans e una canottiera nera. Lei alzò le spalle. «Tutto ok.» Si passò le dita tra i capelli. «Alla fine hai chiamato Chloe?» «Non puoi credere alla mia fortuna», rispose lei. «Fortuna?» «Sì, il fotografo di ieri ha una nuova ragazza, una di ventidue anni. Non so chi sia, comunque è stata lei a occuparsi di tutto lo styling: è stato il fotografo stesso a proporla a Chloe, che è si è vista costretta ad accettare, perché altrimenti significava averlo chiamato per nulla. E io non sono stata licenziata.» «Mi prendi in giro.» «Credevi che sarei stata licenziata?» gli chiese sorridendo. «No, però Chloe è...» «Lo so. Ma è un tipo schizofrenico. Siamo state d'accordo sul fatto che mi aveva forzato ad accettare quell'incarico, perciò per ora posso continuare a lavorare a casa.» «Ma è... meraviglioso.» Lo so. «Tesoro. Voglio solo che tu sappia... ti amo.» «Grazie. Anch'io ti amo.» «E mi sento...» «Ti senti?» «Solamente...» Scrollò le spalle. «Credo di sentirmi...» Udirono un rumore di chiavi alla porta d'ingresso e poi delle voci nell'ingresso. «È tornato presto», disse Anna rimanendo in ascolto. Shaun entrò in cucina, gettando lo zaino di scuola sul pavimento. «Mamma, papà, questa è Tara.» Joe fece uno sforzo sovrumano per non girarsi a guardare l'espressione di Anna. Tara aveva circa diciassette anni, alta un metro e settanta, magra da far pietà, vestita con dei jeans ridottissimi e una maglietta gialla microscopica. Dall'avambraccio le pendeva un enorme zaino rosa. «Salve», disse Tara. «Piacere di conoscervi.» «Piacere mio», disse Joe. «Sì», fu tutto quello che Anna riuscì a dire. «Vi stringerei volentieri la mano ma, cioè, mi sono appena fatta queste»,
disse Tara, agitando le dita, sulle cui punte brillavano delle unghie in acrilico. «Sono molto carine», osservò Anna. «Anche io la penso così. Mio padre, cioè, dà una festa in piscina stasera. Vivo con mio padre. Così dovevo fare qualcosa di vistoso. Vengono, tipo amici della tv e questo è ciò che voglio fare: tv. Così prima, cioè, eravamo in città.» Ogni sua frase suonava come una domanda. Sorrise a Shaun. «Siamo andati a comprare un bikini.» Shaun cercò di ricambiare il sorriso. «Io ho comprato dei cd.» «Hai trovato niente, Tara?» chiese Anna. «Sì», rispose lei, facendo dondolare una minuscola borsina di carta con manici di corda bianchi. Ne estrasse prima una striscia rossa, che risultò essere il sopra del bikini, e poi uno slip a vita bassa. «Wow», esclamò Anna. «Già», commento Joe, volgendosi rapidamente verso il frigo. «Oh, e guardate questo», continuò Tara, sfregandosi il braccio abbronzato. «Un nuovo abbronzante, idratante ma non untuoso. SplashBronze. Dovrebbe provarlo.» «Grazie per il consiglio.» «Andiamo nella mia stanza», suggerì Shaun. «Ok, bye», salutò Tara agitando la mano. «Vuoi fermarti a cena?» le chiese Anna. Tara guardò con diffidenza lo spezzatino. «Ecco, no grazie! Voglio dire, capite, non mangio carne rossa. Solo bianca. O pesce. Alcuni pesci. Tipo dentice e altra roba che non sa molto di pesce.» Alzò le spalle e seguì Shaun nel corridoio, sul punto di infilargli la mano dentro i jeans, quando si ricordò delle unghie nuove. Joe si accostò ad Anna, bevendo del succo di frutta. «Cioè, che te ne pare, cioè?» Anna scosse la testa, sorridendo. «Troia.» «Cosa ne pensi veramente?» Lei fece spallucce. «Che c'è da dire?» «Lo so, è strano. Lui è così infelice e lei neppure se ne accorge.» «O se ne preoccupa.» «Ehi, potrebbe essere una troia di cuore.» Anna rise. «Voglio che sia di nuovo felice. Quei poveri occhi tristi.» Scosse la testa. «Per lei è solo un bel...» «Povero ragazzo.»
Anna rise di nuovo. «Là di sopra proverà quel bikini in anteprima per lui.» «Vuoi che vada a interrompere lo spettacolo?» La afferrò da dietro e la baciò sulle guance, mentre lei rideva. «Non preoccuparti», disse Joe, «non è il mio tipo.» «Non è neppure il tipo di Shaun.» «Gli adolescenti non hanno tipi. Quello è il compito che spetta alle madri.» «Non mi aspetterei mai che scegliesse una che mi piace.» Entrambi rimasero in silenzio, pensando a Katie, la ragazza di Shaun che aveva fatto innamorare tutta la famiglia. 8. Joe e Danny erano seduti nella piccola e afosa stanza sul retro dell'ufficio postale dal quale era stata spedita la lettera. Su un piccolo schermo scorrevano le immagini in bianco e nero delle buche delle lettere interne all'edificio. Dietro di loro volteggiava un direttore sovreccitato. Dopo un quarto d'ora, Joe si girò verso di lui. «Senti... Simon, se vuoi lasciarci soli a fare il nostro lavoro, ti chiamiamo se vediamo qualcosa per cui ci serve il tuo aiuto.» «Certo. Senz'altro. Non c'è problema. Sarò qui fuori.» «Bene, grazie», disse Danny. «Dio lo benedica», disse Joe. «La odio questa merda», esclamò Danny, indicando lo schermo. «Ho gli incubi popolati di nastri video. Guardo e riguardo la stessa cosa all'infinito, finché non do fuori di testa e finisco in una camicia di forza.» Per dieci minuti osservarono in silenzio. «Cerchiamo qualcuno che imbuca una piccola busta singola fra le nove e le undici del mattino. Ok, qui ne abbiamo uno», disse Joe. «Fermiamo l'immagine e chiamiamo Simon.» Simon si precipitò dentro. «Avete trovato qualcosa?» «Conosci questo tizio?» gli chiese Joe. Simon mise il volto a dieci centimetri dallo schermo, poi scosse la testa tristemente. «No, mi dispiace. Volete che convochi gli altri impiegati?» «Sì perfetto. Grazie.» Nessuno riconobbe né quell'uomo né gli altri nove uomini e cinque donne che avevano impostato lettere in quello stesso arco di tempo. Danny
trascrisse tutte le inquadrature significative della ripresa e poi portò il nastro via con sé. La Urat - Unità di Risposta Assistenza Tecnica - aveva inviato del personale alla Manhattan Nord, così, una volta giunti in ufficio, avrebbero potuto trasferire il nastro su dvd e stampare le foto. «Ok», disse Danny, «ci facciamo anche Chelsea?» «Come no.» Dawg On It Pet Accessories era un edificio lungo e stretto, situato sulla Ottava Avenue fra uno snack bar chiuso e un negozio di magliette da uomo. «Siamo in anticipo», disse Danny, indicando il cartello a forma di barboncino dove erano segnati gli orari di apertura e dirigendosi quindi dentro al negozio di magliette. Joe lo seguì. Era un ambiente piccolo e stipato di scaffali e di espositori circolari e a parete, tutti colmi di magliette. Dietro il bancone erano sospesi un espositore di biglietti di auguri e un porta cd alto un metro e racchiuso da un vetro, con attaccato un adesivo che diceva IN CASO DI EMERGENZA ROMPERE IL VETRO. Sopra troneggiava un hi-fi iPod. Danny rovistò a lungo fra gli espositori a parete e alla fine scelse una maglietta blu. «Questa non è niente male», disse a Joe, «avevo bisogno di qualcosa per il fine settimana.» Andò alla cassa e tirò fuori il portafoglio. «Forse azzardo un po' troppo», disse il tizio alla cassa, «ma potrei essere nel giusto se dicessi che voi due, come dire, non state insieme?» «Sarebbe nel giusto», disse Joe. «E che mai vi metterete insieme?» «Non è il mio tipo», disse Danny. «Allora è meglio se dà un'occhiata più da vicino al disegno su quella maglietta, perché potrebbe mandare agli altri un messaggio che lei non desidera.» «Oh! Non è esattamente quello che pensavo che fosse. Ha ragione, grazie.» «Non si preoccupi, accade spesso. Se voi due non mi aveste ispirato simpatia, l'avrei lasciata andare senza dire niente, così l'avrebbero abbordata almeno dieci volte, mentre era fuori con sua moglie.» Danny si diresse rapidamente alla porta, seguito da Joe che rideva. «Dovevi comprarla. Era meglio se non ti diceva nulla.»
«Gli ho ispirato simpatia, ricordi?» «Ecco. Ha aperto.» Entrarono da Dawg On It e andarono incontro alla schiena di Buck Torrance, in camicia da cowboy color porpora e jeans bianchi attillati, con lustrini a forma di zampa sulle tasche. Il rumore dell'aspirapolvere coprì il loro ingresso, ma lui la spense quando scorse le loro immagini riflesse nello specchio. «Salve, Buck?» «Sì.» «Ispettori Lucchesi e Markey, polizia di New York. Lei lavora come p.r. da Birra, Ballo e Batacchi?» «Esatto. Posso aiutarvi?» «Ho parlato con Mark Branham dell'Associazione Gay e mi ha indirizzato da lei. Stiamo investigando su alcune aggressioni molto violente accadute nell'ultimo anno nei confronti di uomini.» «Uomini gay», precisò Buck. «Uno di loro era gay. Ci chiedevamo se, mostrandole alcune foto...» «Certamente. Fate vedere.» Buck prese le foto. «Questo tizio no, non mi è familiare. Neppure questo. Questo sì, è una faccia che conosco, William Aneto.» «Lo conosceva personalmente?» «Lo avevo visto in giro, nei bar, nei club, cose così, perciò si può dire che lo conoscevo di vista. Poi l'anno scorso c'erano in giro i manifesti con la sua faccia. La gente accendeva candele sulla strada, vicino al club. Mi è dispiaciuto molto.» «Ha notato se frequentava un giro particolare, qualche persona in modo speciale?» «Non lo conoscevo così bene. Volete lasciarmi quelle foto? Potrei chiedere in giro.» «No, preferiamo tenerle noi. Grazie del suo aiuto.» «Non c'è di che. Se vi serve qualcosa, fatemelo sapere.» «Certo», disse Danny. «C'è pericolo per i ragazzi qui in giro?» «No», rispose Joe, «e non spaventi la gente con storie raccapriccianti. Potrebbero decidere di stare alla larga del suo negozio.» «Appunto. Chi si occuperà di tutti i cani del vicinato se lei fallisce?» disse Danny. «Tesoro? Quei cani che vedete là fuori? Un sacco di loro? Neppure han-
no un nome.» Danny assunse un'espressione interrogativa. «Quei cagnolini sono degli annusa-culi che servono a spianare la strada ai loro padroni. Il tipico approccio ohmiodio-basta-parlare-del-tuo-caneche-mi-dici-di-te. Voglio dire che questo negozio è come, cioè, una specie di stazione di rifornimento per rimorchiare. Se volete farvene un'idea, prendete un cane e andate a sedervi su una panchina a Waterside Park. Tempo qualche minuto e avrete un appuntamento.» Danny era accanto a uno degli scaffali, impegnato a cercare di rimettere a posto qualcosa che aveva preso. «Quel collarino rosso non le si addice», disse Buck. «Perché non ha conosciuto sua moglie», intervenne Joe. «Moglie?» «Davvero divertente», disse Danny. «Scherzi a parte», disse Buck, «Lo so che per voi è duro lavorare a un caso come questo. L'ho già visto in passato. È difficile sondare tutto l'ambiente, perché ormai i gay sono dappertutto. Però hanno imparato a distinguere quelli che giocano duro da quelli che seguono le regole, perciò se sento qualcosa ve lo farò sapere.» «Questo tizio non si limita a giocare duro», disse Joe. «È uno con il quale è meglio non ritrovarsi da soli in una stanza.» «Oh, per me non c'è pericolo», scoppiò a ridere Buck. «Io sono etero, tesoro.» Danny e Joe si guardarono, poi uscirono in strada e si diressero all'auto. «Parlava sul serio», mormorò Danny, indicando Buck dietro di sé. «Ne sono convinto» disse Joe. Una volta in ufficio, arrivò la telefonata di Reuben Mailer. «Joe? Ho stilato un profilo per il tuo caso. Vuoi che te lo passi per fax?» «È rotto. Potresti leggermelo velocemente ora?» «Direi - sorpresa, sorpresa - maschio bianco, sulla trentina, che verosimilmente abita da solo. Percepito come persona normale, non suscita strane impressioni. Vive in città: abbiamo una vittima a SoHo, due nell'Upper West Side. Ha un'automobile, con la quale va e viene dalla scena del crimine. Situazione lavorativa piuttosto stabile, ma probabilmente con buchi fra un lavoro e l'altro, o con un lavoro che lo impegna da solo, con contatti intermittenti con le altre persone. Trascorre da solo molto tempo, per affinare le sue fantasie. Sulle scene c'è la prova di una violenza superiore a
quella necessaria per uccidere, il che suggerisce che si tratti di qualcosa di personale; dovresti perciò indagare sui legami che aveva con le vittime, oppure scoprire se erano persone che per qualche motivo lo hanno trattato male. Questo tipo è un criminale poliedrico. Progetta con cura: entra con facilità negli appartamenti, senza effrazioni, quindi è esperto. Porta con sé degli attrezzi: martello, pistola calibro ventidue. Non lascia tracce. Tuttavia aggredisce in modo frenetico, il che dimostra che perde il controllo. Esamina con attenzione i luoghi. Gli assassini di solito si facilitano il compito, operando in un'area a loro familiare, perciò potremmo cercare qualcuno che viva nell'Upper West Side o che sia cresciuto lì; lo stesso vale per SoHo.» «Ottimo. Grazie mille. Dal punto di vista sessuale hai scoperto nulla? Questo fatto che le vittime fossero nude...» «Non ho nessun elemento che punti in quella direzione. Sembra più un genere di umiliazione. O di esercizio del potere. Sarei sorpreso se ci fosse una motivazione sessuale. Ma, come si usa dire, l'unica certezza è che non esistono certezze.» «Certo.» «Ascolta, se hai bisogno di qualcos'altro...» «Mi metterò in contatto.» Quando Joe rientrò a casa, Anna era seduta al tavolo in cucina con una pila di pagine ritagliate da riviste. Joe la baciò sulla guancia, poi andò ad aprire il mobiletto stretto e alto chiuso fra il frigorifero e il muro, che al suo tocco ondeggiò pericolosamente. «Sembra che questa cosa voglia cadere a pezzi ogni volta che ci metto mano.» «Apri lo sportello con decisione e nello stesso tempo alzalo.» Lui chiuse e provò di nuovo. «Ho acquisito un sacco di pratica stando sempre a casa.» «Forse riesco a farti venire voglia di uscire venerdì sera. È il compleanno di Gina e Danny ha prenotato un tavolo per quattro al Pastis. Ti va bene?» Lei non rispose subito, ma poi acconsentì. «Credo di sì.» «Puoi sempre cancellare all'ultimo secondo, non sentirti obbligata.» «Grazie.» «Però mi farebbe piacere che ci fossi.»
«Lo so.» «Vado a cambiarmi», disse Joe. Salì al piano di sopra, fece una doccia, poi scese con indosso un paio di jeans e una maglietta bianca con il logo di un bar dove non ricordava di essere mai stato. Si sedette sul divano e accese la tv. Passò con indifferenza da un canale all'altro, finché non capitò su una conferenza stampa. In piedi davanti a un leggio, il comandante della polizia leggeva un comunicato. «... stabilito un legame con due precedenti omicidi, il primo commesso lo scorso settembre, quello di William Aneto, e il secondo in dicembre, Gary Ortis.» La sala rimbombò delle reazioni dei giornalisti. Il comandante proseguì. «Tutte e tre le vittime erano maschi, di età fra i trenta e i quaranta, e sono state brutalmente aggredite nelle loro abitazioni e poi uccise con un colpo di pistola. Ogni volta è stata usata una calibro ventidue. Non c'era segno di effrazione, perciò stiamo indagando la possibilità che questi uomini conoscessero l'assassino. Una task force della Omicidi di Manhattan Nord è stata creata appositamente per occuparsi delle indagini.» Da ogni angolo della sala piovvero le domande. «Ci sta dicendo che c'è un serial killer in libertà a New York?» «Quello che sto dicendo è che abbiamo stabilito un legame fra tre omicidi che hanno avuto luogo in città durante l'ultimo anno.» «Perché questo legame non è saltato fuori prima? È trascorso quasi un anno dal primo omicidio.» «Questi tre omicidi sono stati commessi in zone diverse della città, nell'arco di un intero anno e all'inizio non parevano esserci attinenze. Per motivi che adesso non posso spiegare, quando li abbiamo riesaminati con gli investigatori di ogni singolo caso, è emerso un legame.» «Come ha fatto l'assassino a entrare negli appartamenti?» «Come ho detto, non c'erano segni di effrazione. Dobbiamo per ora presumere che... questo... diciamo... ospite... sia stato fatto entrare dalle vittime o da qualcuno che aveva accesso alle abitazioni.» «Si trattava di edifici con un portiere?» «Uno di essi sì.» «Avete parlato con i familiari? Che reazioni hanno avuto?» «Sì, abbiamo già parlato con ognuna delle famiglie delle vittime, comunicando loro il nostro massimo impegno nella ricerca dell'assassino.» «La madre di William Aneto è stata estremamente esplicita nell'esprimere la sua insoddisfazione sul vostro modo di condurre le indagini...» «Abbiamo parlato con la signora Aneto, che continua a fornirci assi-
stenza nel nostro lavoro. Questo è tutto ciò che ho da dire al riguardo.» «Esiste un legame fra le vittime?» «È un aspetto che stiamo esaminando.» «L'Associazione Gay ha recentemente espresso l'intenzione di celebrare il primo anniversario dell'uccisione di William Aneto. Pensa che gli omicidi abbiano uno sfondo omosessuale?» «Nelle prime fasi di un'indagine è affrettato saltare a delle conclusioni.» «Che consigli può dare alla gente?» «Non c'è motivo di panico. Ripeterò ciò che diciamo sempre: state in guardia, non aprite la porta agli estranei, pretendete l'identificazione da chiunque asserisca di essere della ditta del gas, dell'energia elettrica, eccetera. E, ovviamente, se qualcuno possiede informazioni relative a questi crimini, può mettersi in contatto, in maniera del tutto riservata, con Crimestoppers al numero 1800 577. Ripeto 1800 577.» «Ci sono dei sospetti?» «Al momento stiamo esaminando un elenco di nomi che risultano in qualche modo legati alle tre vittime. Signore e signori, questo è tutto ciò che abbiamo per oggi. Grazie della collaborazione.» «Certo, grazie per avermi informato, brutte merdacce», esclamò Joe. «E che ne dite di questo: lo sapete perché non abbiamo stabilito prima un legame? Perché c'è chi non sa neppure compilare un modulo del cazzo!» Cambiò canale, ma ogni telegiornale trasmetteva lo stesso servizio. «Questo criminale arriva nelle case delle vittime, ma non ci sono informazioni su come riesca a entrare...» «Si risale all'omicidio dello scorso anno dell'attore trentenne William Aneto. Il suo corpo fu ritrovato nell'appartamento dell'Upper West Side...» «Abbiamo qui con noi l'ultima persona che ha visto Gary Ortis da vivo...» «Torneremo dopo la pubblicità, con informazioni su come potete rendere più sicura la vostra casa...» «... è stato battezzato l'Ospite...» «Un investigatore, che non vuole rivelare il proprio nome, ha descritto la scena come...» «Paura, paura, paura», disse Joe, spegnendo la televisione. Ogni giorno uscivano articoli sui giornali, con titoloni come Mortale, Rabbia, Paura, Assassino, Malessere, Allarme, Minaccia. Si trattava di omicidi insoliti per New York, dove si veniva più probabilmente uccisi da qualcuno che si conosceva, che non da uno sconosciuto cui avevano dato il soprannome di
Ospite. «Vado a fare una doccia», disse Anna, entrando nella stanza e chinandosi a baciarlo. «Ok.» Joe prese una rivista a caso e iniziò a sfogliarla. Dal piano di sopra proveniva il suono dell'acqua che scrosciava. Avrebbe voluto salire le scale, aprire la porta, infilarsi dietro di lei e fare qualcosa che non facevano da mesi. La sua pazienza era al limite e si. sentiva male. Però era troppo arrabbiato. Mise giù la rivista e riaccese la televisione. Mezz'ora dopo Anna scese, senza che Joe si preoccupasse di alzare lo sguardo. Quando lo fece, lei era appoggiata al tavolo e gli dava la schiena, impegnata ad aprire una bottiglia di vino. Indossava solo dei pantaloncini ridottissimi e nient'altro. Ai piedi aveva scarpe nere con tacchi a spillo e suola rossa. Quando si voltò verso di lui, Joe non sapeva dove guardare. Infine si decise per il volto. Lei sostenne il suo sguardo e si diresse lentamente verso di lui. 9. Mary Burig era in piedi sulla porta della biblioteca con in mano il palmare aperto su un programma di disegno. Con lo stilo disegnò uno schizzo approssimativo della stanza, a forma di elle perché nell'angolo in fondo a destra era stato costruito un piccolo magazzino. Lungo i muri di tutta la biblioteca correvano scaffali di libri e nell'angolo in fondo a sinistra, la cima della elle, si trovavano sei sedie arancioni disposte in circolo. Mary cancellò le sedie da quel punto e le ridisegnò nello spazio a destra della porta. Infine le riportò dove erano, salvando il disegno e riponendo il palmare in tasca. Si diresse alla sezione di poesia, prese un libro e andò direttamente alla pagina che aveva segnato con un post-it. Stan Frayte aprì la porta e si affacciò con la testa. «Ehi, smettetela di far rumore qua dentro, ho del lavoro da fare», disse strizzando l'occhio. Mary alzò lo sguardo e sorrise. «Vieni qui un momento e ascolta questo 'Nessuna notte è buia e senza fine / se l'alba che non ha confine / erutta fiamme e fuoco / e a me sia pur per poco / solleva il mio pesante giogo / per trovare speranza in questo rogo / e se della luce cerco la sorgente / trovo il tuo cuore onnipresente'.» «Non credo che la sorgente di luce fosse un cuore, Mary. Cioè, è più probabile che si trattasse di una lampadina, un faretto, insomma qualcosa
intorno a cui un elettricista aveva lavorato sodo.» «Forse è così», disse Mary, sorridendo. «Niente forse.» Stan entrò nella stanza ed estrasse un metro dalla cintura da lavoro. «È una cosa bellissima che abbiate una biblioteca nel palazzo.» «Lo so, però la usano in pochi.» «È una vergogna.» «Voglio dire che mi dispiacerebbe se pensassi che tutto il tuo lavoro non servirà a nessuno.» «Mi basta far felice una persona.» «Grazie.» «Allora, di cosa hai bisogno?» «Ecco, in questo angolo dove sono tutte le sedie non ci sono aperture. Credo che sarebbe carino se potessimo mettere qui delle lampade da tavolo perché», e indicò un neon al soffitto, «quello è davvero spettrale. Mi fa male agli occhi.» «Ok.» «E credo che sia tutto per quanto riguarda l'impianto elettrico.» Stan rise. «E che ne dici di qualche luce sugli scaffali? In cima per esempio. Creerebbe un effetto gradevole.» «Mi piacerebbe davvero molto, sempre se non è troppo caro.» «Di quello non preoccuparti. Inoltre le pareti avrebbero bisogno di una rinfrescata. Posso occuparmene nel fine settimana. C'è altro?» «Grazie mille. Magda si procurerà degli espositori per riviste, perché la maggior parte delle persone che viene qui legge riviste. Io preferisco la poesia.» «Non ne so molto di poesia», disse Stan, «ma mi piace l'idea. Mi piace il fatto che devi dire ogni cosa con il minor numero di parole possibile.» David Burig parcheggiò la sua Mercedes nera davanti al palazzo, prese una confezione regalo che aveva sul sedile del passeggero e scese dall'auto. Al bancone della portineria c'era June che lo salutò con la mano. Prese l'ascensore fino al piano di Mary e bussò alla porta. «Ciao», la salutò, porgendole il regalo. «Perché?», chiese lei sorridendo. «Perché sì.» «Posso aprirlo?» «No. Devi aspettare Natale.» Il sorriso le scomparve dal volto. David alzò gli occhi al cielo. «Si capi-
sce che lo puoi aprire.» «Yuh-hu!» Mary corse al divano e aprì la confezione. Lui richiuse la porta dietro di sé e attese la reazione. «Ohmioddio! Ma è bellissimo. Bellissimo.» «Ti piace?» «No.» «Grazie.» Si trattava di un enorme album grigio, con la scritta TUTTI PAZZI PER MARY sulla copertina. Sulla prima pagina c'era una foto di lei, all'età di due anni, quasi in silhouette, con un raggio di luce che le colpiva la testa. La didascalia diceva: PERCHÉ LA MAMMA AVREBBE FATTO MEGLIO A NON FARE FOTO. Mary scoppiò a ridere. La foto successiva la ritraeva con in mano la parte più grossa di un gigantesco biscotto di Natale, con David accanto, con il volto segnato dalla sconfitta. La didascalia diceva: TRAUMI DEL GIOVANE DAVID - PARTE PRIMA. «C'è una parte seconda?» «Vai a pagina venticinque.» «Oddio», esclamò Mary quando la vide. Sulla pagina, incollato con del nastro adesivo, c'era un biglietto del concerto dei Motley Crue / Whitesnake al Madison Square Garden nel 1987. Accanto, la foto di un David abbronzato e sudato, con jeans attillati e canottiera, capelli lunghi e arruffati tenuti da una bandana, che faceva il segno della pace. «Non c'era bisogno delle didascalia», commentò David, scuotendo la testa. Mary rise fino alle lacrime. «Oh, mio Dio! Ti ricordi che dopo hai conosciuto quella ragazza e quando lei ti chiese come ti chiamavi, tu rispondesti: 'David', e lei: 'David chi?' e tu: 'David. Lee. Roth, baby'.» «Giuro di no.» «Lo hai fatto, furbino.» «Sarà. Può darsi che abbia archiviato quel ricordo sotto la voce CANCELLARE A TUTTI I COSTI.» «Cos'è questo fatto che quando si parla dei ricordi dell'adolescenza, ognuno, chiunque sia, riguardandosi dice: 'Ma che diavolo facevo'?» «Perché anche se nella vita sei diventato uno che conta, non riuscirai lo stesso a prenderti troppo sul serio, perché c'è stato un momento in cui eri orgoglioso di indossare jeans strappati.» Mary si guardò i jeans. David rise. «Non che se potessi tornare indietro ti impedirei di fare nul-
la. In ogni modo ascolta, mi piacerebbe rimanere qui a parlare, ma devo tornare in ufficio. Mi ero fermato solo per lasciarti quello.» «È il più bel regalo che potessi farmi. Grazie.» «Aspetta di vedere lo scompartimento segreto sul retro.» La abbracciò e la lasciò prima che lei potesse avere la possibilità di aprirlo. Trotterellò via per il corridoio, facendo un cenno a Stan Frayte che incrociò passando. Mary tornò all'album che aveva una tasca nella copertina con sopra un nastro rosso. Lo tirò e si aprì un piccolo scomparto, che conteneva un disco: era il dvd di Rebecca, con una nota che diceva: «NON POSSO CREDERE CHE TU NON L'ABBIA MAI VISTO, GRANDIOSO! BACI.» Magda Oleszak prese l'ascensore per il secondo piano. Quando uscì fu colpita dal rumore acuto di un trapano che proveniva dal fondo del corridoio. Girò prima a destra e poi a sinistra, e si diresse verso l'appartamento di Mary. Avvicinandosi, percepì che qualcosa non andava per il verso giusto. Accelerò il passo, tenendosi stretta la borsa che le sbatteva sul fianco. Quando raggiunse la porta, la trovò aperta. Stan si voltò verso di lei, il volto sconvolto. Ai suoi piedi giaceva Mary, distesa al suolo. Magda si gettò su di lei. «Ma che...» «Non lo so! Non ho idea di cosa sia successo.» La voce di Stan era stridula. Estrasse dalla cintura da lavoro un panno giallo macchiato e si asciugò il sudore dalla fronte; gli occhi dardeggiavano in qua e in là per la stanza. «Le hai fatto del male?» chiese Magda. «Cosa? No!» Magda scosse con delicatezza la spalla di Mary, sempre guardando Stan. «Che ci facevi nel suo appartamento?» «Ero venuto a mostrarle dei campioni di colore, tutto qui.» «Hai chiamato un dottore?» «Ero appena arrivato! Un attimo prima di te.» «Che cos'è tutto questo?» chiese lei, indicando il pavimento intorno al corpo. «Lo ha fatto mentre tu eri qui?» Stanley scosse la testa. «Io non ne so niente.» «Chiama un medico, presto. E anche la sicurezza.» Mary aprì gli occhi. 10.
Anna sedeva al tavolo in cucina, con indosso una lunga vestaglia di seta nera. Gli occhi le brillavano, sorrideva e mangiava pancake. A Joe riaffiorarono vecchi ricordi. «È bellissimo», disse, «vederti seduta qui a mangiare pancake.» Le si avvicinò, prese le sue piccole mani e la attirò a sé, abbracciandola forte. «Sei la mia piccolina», disse accarezzandole i capelli e baciandola sulla testa. Rimasero così per alcuni lunghi minuti, abbracciandosi in silenzio. «Come li uccide?» chiese Anna. Joe si sciolse lentamente dall'abbraccio. «Cosa?» Lei rimase con la testa sul suo petto. «Questo Ospite. Ho visto il telegiornale.» Joe le alzò il mento con due dita, ma ancora non riuscì a farsi guardare negli occhi. «Dici sul serio?» Lei fece segno di sì. «Mi dispiace, ma non abbocco.» Anna finalmente alzò lo sguardo. «Per favore.» Joe le appoggiò una mano sul petto e sentì il cuore che batteva forte. «Non è bene che tu abbia di questi pensieri.» «Quali pensieri?» Joe assunse un'espressione paziente. «Andiamo...» «Ma se fosse...» «Tesoro, sono stato sulla scena del crimine. Non è Rawlins, né qualcuno che abbia a che fare con lui. Si tratta di uno completamente diverso. Fidati di me, se ti dico che non hai bisogno di conoscere i dettagli.» «Ma se sapessi...» Joe scosse la testa. «Sei così bella. Ti guardo e mi si spezza il cuore a sapere che hai in testa... così tanto dolore e paura.» Negli occhi di lei spuntarono le lacrime. «Lo so cosa vuol dire ma io ci sono abituato, perciò devi avere fiducia in me. Non aspettarti che arrivi a casa e ti descriva ogni dettaglio, per peggiorare quello che già stai provando.» «È forse peggio di quanto i giornali...» Joe le sorrise con occhi tristi. «Conosci già la risposta.» «Non puoi fare da filtro al mondo in eterno, lo sai.» «No? In ogni caso ci proverò fino alla morte.» Anna andò a prendere un fazzoletto per asciugarsi gli occhi. «Vuoi uscire stasera?» gli chiese.
«Cosa? Parli sul serio?» Lei scoppiò a ridere. «Non è molto incoraggiante.» «Non intendevo quello, è solo che...» «Sì o no. Vuoi uscire?» «Sì. Volentieri.» «Allora usciamo.» «Dove vorresti andare?» «Da Cardino.» Joe sorrise. «Da Cardino? Non saprei, mi pare che là una volta ho fatto ubriacare una ragazzetta francese e lei ha finito con lo sposarmi. 'Sono una francese! Noi non beviamo birra!'» «Non sei bravo a imitare l'accento.» Sorrise e fece per andarsene, ma la vestaglia le si aprì e le cadde dalle spalle. Lentamente Anna scosse la testa. Joe agitò vittorioso la cintura di seta nera. «Vieni a prenderla», la sfidò. Artie Blackwell era il giornalista più basso di New York. I suoi capelli grigi erano corti e ispidi e, sebbene la barba fosse perfettamente curata, dava comunque l'impressione di essere piuttosto trasandato. Camminando si inclinava verso sinistra, sotto il peso di una borsa a tracolla. Sostava davanti all'edificio della Manhattan Nord, sudato per il caldo del primo mattino. «Ehilà, l'ispettore Lucchesi. C'è qualcuno che le vuole bene, se le hanno affidato il caso.» «Artie», disse Joe abbassando lo sguardo, «piacere di vederti.» Artie sbuffò. «Devi ammettere che rappresenti una scelta singolare, considerando la sparatoria e il fiasco con Rawlins.» «Conosci i fatti», gli disse Joe con tono calmo e sorridendo. «A me hanno affidato il caso Lowry, al mio partner il caso Aneto. A proposito, sono stato prosciolto da ogni addebito per l'uccisione di Riggs. Perciò eccomi qui. Eccoci qui, Artie.» «Sono contento di rivederti», disse Artie con un colpetto sul cappello blu scuro da pescatore. Si levò un improvviso cattivo odore, che costrinse Joe a voltarsi: Artie odorava sempre del suo ultimo pasto e, purtroppo per chi gli stava davanti, nessuno di quelli era mai stato veramente l'ultimo. «Nome inquietante, l'Ospite... l'assassino telefona alle vittime prima di presentarsi a casa loro?» Joe alzò gli occhi al cielo. «No. Sotto le luci accecanti dei riflettori, il
capo è rimasto un momento senza parole e ha detto 'Ospite'. Allora qualche... giornalista ha pensato che suonasse abbastanza inquietante per spaventare la gente. Personalmente avrei nomi molto migliori da suggerire...» «Del tipo?» Joe smise di camminare. «Che posso fare per te, Artie?» «Hai qualcosa che posso scrivere?» «No, a meno che tu non voglia fare una bella cosetta a tre con l'ufficio stampa.» «Potrei anche.» «Andiamo Artie, lo sai che non sono nella posizione di poter aprire bocca. Ora, poiché stamattina sono arrivato al lavoro molto soddisfatto...» «Solo un qualcosina che gli altri non hanno. Mi basta un boccone.» Joe lo guardò come se si trovasse davanti un demente. «Non so neppure perché tu sia qui.» Artie fece spallucce. «Ero nei paraggi.» Joe rise. Artie doveva trotterellare per mantenersi al passo. «Hai fatto progressi nelle indagini su Duke Rawlins?» Joe si voltò. «Non si tratta di un'indagine nella quale sono direttamente coinvolto. E sai che tu...» fece una pausa. «Vai a parlare con l'Fbi e scopri con chi diavolo devi parlare. Arrivederci, Artie.» Joe sedeva alla scrivania con il fascicolo di Aneto aperto davanti a sé. Dispose in sequenza le foto dell'ingresso e i primi piani della macchia di sangue, alla ricerca del motivo per cui l'assassino avesse cominciato proprio da lui. Non c'erano prove che fosse la prima vittima, ma era improbabile che non lo fosse. Tutte le squadre sapevano infatti di dover esaminare i loro fascicoli alla ricerca di casi simili, ma non era stato scoperto nulla e le possibilità che un cadavere giacesse in un appartamento da più di un anno senza che nessuno lo avesse scoperto erano, a New York, praticamente nulle. Esaminò con calma le immagini; le aveva già viste prima, ma ora cercava un punto di vista diverso e aveva una tazza di caffè appena fatto a sostenerlo. Dopo sei fotografie si fermò. Una però richiamò la sua attenzione. Era un primo piano del busto di Aneto preso nell'ingresso, che non aveva niente di particolare, tranne una macchia scura su un margine. Osservò più da vicino. Se si trattava di ciò che pensava lui, era del tutto fuori posto. Prese dal cassetto una lente d'ingrandimento, guardandosi rapidamente intorno prima di puntarla sulla fo-
to. Aveva ragione, era un coleottero dermestide. Prima di abbandonare l'università per entrare in polizia, Joe aveva studiato entomologia per due anni. Suo padre era professore universitario di entomologia criminale. Tornò a esaminare la foto. I coleotteri dermestidi non si trovavano là per William Aneto, perché niente del suo corpo poteva ancora interessarli. Arrivavano sui cadaveri solo alla fine, dopo che le mosche avevano deposto le uova e le larve ne erano fuoriuscite per divenire pupe; solo allora i dermestidi giungevano a nutrirsi dei tessuti disidratati. William Aneto non aveva ancora tessuti disidratati, poiché il cadavere era stato rinvenuto entro ventiquattro ore dall'omicidio, comprese le otto ore notturne, durante le quali gli insetti non sono attivi. Joe dispiegò tutte le foto dell'appartamento di William Aneto, in cerca di qualunque cosa potesse avere attirato un dermestide, che si ciba anche di epidermide e peli. Poteva venir fuori da un oggetto impagliato male o dal crine di cavallo di un archetto di violino. Joe studiò l'appartamento, ma era moderno e minimalista, con molta plastica, cromo e superfici lucide e nuove. Vicino al corpo non c'era una testa di cervo imbalsamata, né altro che potesse giustificare la presenza di quel coleottero. L'unica cosa che poteva immaginarsi era un'altra creatura morta in casa, come per esempio un topo, ma in quel caso ci sarebbero stati altri coleotteri e invece nessuna delle foto li mostrava. «Posta per te», disse Rencher, porgendogli una busta bianca con il suo nome scritto sopra. Joe osservò la busta, poi disse: «Ha colpito ancora». Prese da un cassetto un paio di guanti e li indossò. Aprì la lettera e ne saltarono fuori molte più pagine di quelle che avrebbe potuto normalmente contenere. Rencher si sporse per guardare. «Ti farò sapere», disse Joe, indicandogli con un cenno del capo la sua scrivania. Rencher alzò le spalle e se ne andò. Joe si diresse alla fotocopiatrice, fece una copia della lettera per tutti, poi rimise l'originale nella busta. Sulla prima non c'erano impronte, ma questa volta sperava di trovarne. Si sedette a leggere la sua copia, segnando alcune parti. Quando la ebbe letta tre volte, convocò gli altri presso di sé. «Mi ricorda la scuola», disse Rencher. «Ricevere una lettera era il massimo della giornata.» «Sei stato in collegio?» chiese Martinez. «Sì, perché? Ti crea qualche problema?»
«Rilassati», gli disse Martinez. «Ok», intervenne Joe. «Lettera numero due, stesso tipo di busta, stessa grafia, impostata più o meno alla stessa ora nello stesso ufficio postale. Stronzate del tipo: andare a qualche galleria, al parco, spiritualità, cucinare dolci nella cucina di qualcun altro... tutte cose di cui è difficile trovare un senso.» Sfogliò le pagine. «Ci sono un sacco di discorsi sul perdono e la redenzione, il bene e il male, poi arriviamo al caso: 'È nelle mie corde, non so perché. Seguo le indagini sull'Ospite con interesse, quando ne ho l'opportunità'. Poi: 'Ma so che da qualche parte dentro di me, personalmente, le auguro buona fortuna '. E alla fine: 'Dio sia con lei. Possano gli angeli vegliarla e illuminarle il cammino'.» Joe alzò le spalle. «E ora senti la presenza di Dio?» chiese Martinez. «Può essere perché guardo voi e penso: Gesù Cristo.» Intervenne Rencher: «Le auguro buona fortuna. Forse perché voglio essere fermato? È l'assassino che desidera essere catturato?». «Se davvero fosse così non sopporterei uno stereotipo talmente esagerato.» Joe rise. «Non credo. È stato troppo attento finora.» Rencher alzò le spalle. «Potrebbe essere l'assassino che invece non vuole essere catturato?» «Perché allora sfidarci?» chiese Joe. «Perché è matto da legare», rispose Rencher. «A me», disse Danny, «la lettera sembra quella di un vicino che vuole darti dei buoni consigli, il genere di consigli che sai che sono perfettamente inutili, visto che vengono da uno squilibrato.» «È il tuo vicino che dovrebbe essere preoccupato di vivere accanto a uno squilibrato», aggiunse Rencher. «I tuoi vicini sono messi male, Danny», disse Joe. «... da qualche parte dentro di me, personalmente, ti auguro buona fortuna. Potrebbe essere qualcuno che conosce l'Ospite», ipotizzò Rencher. «O che ha assistito a un crimine», disse Bobby. «O è stato vittima di un crimine», propose Rencher. «O è stato vittima dell'Ospite», disse Joe. «Wow», commentò Danny. «Non sembra uno squilibrato dalla mente contorta», proseguì Joe, «ma non riesco a capire se è soltanto uno di quegli innocui sfigati che vivono con la mamma.» «Forse il nostro tizio non sa chi o cosa ha scoperto», propose Bobby.
«Forse, forse, nient'altro che forse...» sbottò Danny. «Sono solo un mucchio di stronzate.» Rimasero in silenzio, con gli occhi che vagavano dalla lettera alle foto ancora disposte sulla scrivania di Joe. Fu Bobby a parlare per primo. «Abbiamo lavorato a un caso, non so se qualcuno di voi lo conosce, il rapinatore che aggrediva le ragazze della Columbia University. Ci mettemmo in contatto con la stampa, passammo loro le informazioni e dopo, quanto? Una settimana, avevamo già il nostro tizio.» «No», si oppose Joe. «Non farò niente del genere. Non ne sappiamo abbastanza sul...» «Conosci il caso di cui sto parlando?» «Sì, ma non importa.» «Che vuol dire non importa?» «Ascolta Bobby, quanto eri avanti nelle indagini? Andiamo, ciò che hai fatto con la stampa è successo dopo quante aggressioni? Nove, dieci? Sapevi un sacco di cose sul ricercato. Noi a che punto siamo? All'inizio delle indagini su un omicidio, senza testimoni, senza identikit, senza sospetti, niente di preved...» «Penso ugualmente che potrebbe...» «No», urlò Joe. «Non lo farò.» Cardino sulla Broome Street era un locale piccolo, rumoroso e con musica rabbiosa a tutto volume. Anna era seduta in un angolo, indossava dei jeans, una maglia nera senza maniche e vecchi stivali neri alla caviglia. Aveva la coda di cavallo e lunghi orecchini d'argento. Joe rideva quando le si avvicinò. Anche a lei venne da ridere e lo baciò sulle labbra. Dai suoi occhi lui intuì che aveva già un paio di bicchieri di vino al suo attivo. «Eri vestita davvero così?» «Quasi. Jeans e stivali sono gli stessi. Questi però non credo di potermeli più permettere.» Si sciolse la coda di cavallo e tolse gli orecchini. Joe dette un'occhiata in giro per il bar. «Tutte le ragazze qui hanno quel tipo di look.» «Già, peccato che abbiano vent'anni. Ogni look va usato una volta sola, è la regola. La seconda volta sei sempre troppo vecchia.» «Non lo sapevo.» «Ma è così.»
«Ciò significa che non potrò più tornare a indossare jeans attillati?» «Chi ti ha detto che potevi farlo la prima volta?» «Il mio fisico.» «Oh mio Dio. Si può tornare indietro nel tempo? Voglio cambiare idea.» Risero. Però Joe si soffermò per un attimo a chiedersi come sarebbe stata la vita di Anna se avesse rifiutato il loro primo appuntamento. «Vado al bar», disse lui. «Vuoi una Coors in memoria dei vecchi tempi?» «Lo sai cosa accadde quella sera...» «Appunto.» «Sauvignon Blanc, prego.» Lo guardò andare via. L'uomo accanto a lei si alzò e dimenticò il giornale. Anna attese qualche minuto che Joe tornasse, poi prese il giornale e iniziò a leggere. Sobbalzò quando Joe depose le bevande sul tavolo. «Ti sto annoiando?» «Mai», rispose Anna, ripiegando il giornale e riponendolo dove lo aveva preso. «Grazie.» «Salute, amore. Grazie per essere uscita con me.» «Grazie a te.» «E grazie per esserci stata la prima sera.» Shaun Lucchesi sedeva alla scrivania, armeggiando con il cellulare. Un sito di chat era aperto sul portatile davanti a lui; dietro la finestra di Explorer c'era quella di iTunes, dietro ancora Skype e nascosto in fondo un documento di Word che aveva creato per scrivere un compito di inglese. Squillò il telefono e il volto di Tara riempì lo schermo. Spense l'audio del computer. «Ciao, Tara.» Cliccò su iTunes mentre la ascoltava. «Naa», le disse. «Solo una relazione. E non ho ancora scritto una parola. Non mi ricordo neppure il titolo.» Continuando a parlare, perse interesse per lo schermo di fronte a lui. «Mmm, quello sì che mi piacerebbe», disse facendo girare la sedia e alzandosi in piedi. «Wow. Io... non so cosa risponderti.» Camminò in su e in giù per la camera, attento a ogni parola che lei gli sussurrava. Si distese sul letto. «Ok, mi arrendo. Non sono bravo in queste cose e sono troppo sobrio per questo tipo di conversazioni.» Gettò un'occhiata
all'orologio. «Perché non fai un salto qui?» Joe e Anna tornarono dal bar affamati. Joe andò al frigo e tirò fuori un piatto di polpette avanzate. Sbatté lo sportello e poi appoggiò rumorosamente il piatto sul tavolo. «Ssh», gli disse Anna, indicando il piano di sopra. Joe la ignorò e mise le polpette nel microonde. «Cosa c'è che non va?» chiese Anna. «Niente.» «Qualcosa c'è. Dimmelo.» «Non volevo fare così tardi, ecco tutto. Ho un sacco di cose in arretrato.» «Ci siamo divertiti.» «Dopo aver bevuto un bel po', può darsi.» «Cioè?» «Niente. C'è del pane?» «Sì.» Gli indicò una baguette proprio di fronte a lui. Joe prese un coltello e la aprì a metà. «Coraggio, ammetti che ti sei divertito.» Ma lui era altrove con la testa e fissava il vuoto. «Lo sai chi mi piaceva davvero? L'irlandese Joe. Prima che succedesse tutto... il tizio con la faccia rilassata, che non era mai preoccupato, che scherzava e addirittura sapeva ridere.» «So ancora ridere.» La guardò, ma senza vederla. «Allora non lo metti in pratica.» «Anna, lo sai che c'è sempre qualcosa.» «No, non c'è.» «Stasera ci stavamo divertendo.» «E poi abbiamo smesso, perché tu...» «No, no, perché tu! Non riesci ad affrontare ciò che ti porti dentro, perciò guardi all'esterno e cerchi qualcuno su cui scaricare i tuoi problemi e chi c'è a portata di mano? Chi c'è? Ma è ovvio: io.» «Non c'entra assolutamente niente. Il fatto è che tu non sopporti nessuna critica.» «Come sopra.» Anna scosse la testa. «Non puoi. Torni dal lavoro, ogni volta lamentandoti perché viene messo in discussione il tuo giudizio. Forse sei tu che non sai affrontare chi sei o cosa hai fatto.» «Cioè?»
«Ti senti colpevole.» «Di che?» Lei lo fissò prima di rispondere. «Pensavo fosse ovvio.» «Se parli di te, hai più che ragione a dire che mi sento colpevole. Quale persona, per non dire poliziotto, non si sentirebbe colpevole di aver quasi fatto ammazzare la moglie?» «Non ho detto che sbagli a sentirti colpevole...» «Da quando ho necessità della tua autorizzazione per i miei sentimenti?» «Joe, basta così.» Lui sospirò e tacque. Lei gli prese una mano. «Volevo solo dire che ti senti colpevole, ma non cerchi di fare nulla per questo senso di colpa e sei... come una bomba a orologeria.» Joe piegò la testa di lato. «Ok. D'accordo. Credo che tu sia spaventata, ma non cerchi di fare nulla per la tua paura e sei come una bomba a orologeria.» «È impossibile parlare con te.» «Idem.» Lei gli lasciò andare la mano. «Quanti anni hai? Cresci.» «A proposito, ieri sera ho inciampato in una delle tue scatole e credo di aver rotto qualcosa.» Anna sobbalzò. «Quale scatola?» «Non mi ricordo. Forse una blu.» «No», esclamò Anna, portandosi una mano alla bocca e precipitandosi lungo il corridoio. Prese un paio di forbici e tagliò il nastro che chiudeva la scatola, aprendola. «Oh no, no», si lamentò, tirando fuori la metà di un paralume di vetro spezzato. Joe era in piedi dietro di lei. «Mi dispiace. Costava molto?» «Meglio che non te lo dica... anche perché dovrai ripagarlo.» «Cosa?» «Era solo in prestito per un servizio, sotto la mia responsabilità, e tu l'hai rotto.» «Quanto costerà mai?» «Ottocento dollari.» «Ottocento dollari! Mi prendi per il culo? Per una lampada?» «Andiamo, non lavoro mica per la Bay Ridge Gazette.» «Scherzavi quando dicevi che lo devo ripagare, vero?» «No di certo. Lo avevo in custodia.»
«Digli che si è rotto nel trasporto.» «Sanno che è arrivato integro.» «Non ho così tanti soldi da buttare via a cazzo... e chi diavolo spende ottocento dollari per una lampada?» «Rimarresti sorpreso.» «Sono sorpreso. Sono anche sorpreso che non si siano rotte altre cose. La situazione è fuori controllo, Anna, è pazzesca. È come vivere in un campo minato, non è possibile. Nel frattempo, tu sei felice come una pasqua, ogni giorno ti arriva una tonnellata di nuova roba, come se fosse il tuo compleanno. Apri la porta al postino, al corriere, a chiunque sia, firmi, prendi il pacco, fai cinque passi dentro casa, lo getti lì, magari lo apri per vedere cosa c'è dentro, poi lo lasci aperto...» «Non c'è bisogno di ricostruire ogni cosa nella tua vita, Joe. Io sono qui, non sono un cadavere. Puoi semplicemente chiedermi cosa faccio quando suona il campanello.» Joe alzò gli occhi al cielo. «Vai avanti. Chiedimi cosa faccio quando suona il campanello, quanto mi diverto.» «Risparmiamelo. È sufficientemente chiaro cosa avviene e come tutta quella merda si accumuli dietro la porta.» «Stai tralasciando qualcosa. Ecco quello che succede in realtà: il campanello suona e io, dovunque mi trovi, rimango immobile. Poi il cuore inizia a battermi all'impazzata. Mi chiedo se andrò ad aprire o attenderò che chi è là fuori se ne vada. Se sono vicina a una finestra posso controllare, guardo l'uniforme, vedo se è giusta, guardo la faccia della persona, vedo se mi ispira fiducia. Cerco di scorgere il furgone, di vedere se in strada passa qualcuno. Nel bel mezzo di tutto ciò, indovina a cos'altro penso?» Joe la fissò con un'espressione nella quale era chiaro che la rabbia prendeva il sopravvento sulla comprensione. «Forse», proseguì Anna, «se a casa fossi più attento, capiresti meglio che le cose non sono bianche o nere o in un ordine che esiste solo nella tua mente, perché non ci sei per vedere realmente cosa succede.» Attraversò la stanza e spalancò il cassetto più alto di un vecchio mobile di mogano, poi afferrò a due mani i mucchi di fogli che vi erano dentro. «Talvolta» sbottò, gettandoglieli addosso, «le cose non funzionano come credi tu.» Joe rimase immobile, mentre intorno a lui svolazzavano i biglietti di mancata consegna di FedEx e Ups.
11. «Shaun?» Anna bussò leggermente alla porta della camera e la aprì. La trapunta era ammucchiata a coprire la faccia di lui e... della ragazza che aveva accanto, individuabile dai sandali con la chiusura a strappo gettati sul pavimento. Lo stomaco di Anna ebbe un sussulto. Uscì dalla camera camminando all'indietro e chiuse silenziosamente la porta. Poi si precipitò da Joe. «Quella piccola... salope è di sopra con Shaun» disse in un sibilo furioso. «Oh, no.» «Sì. A letto con lui.» Joe la fissò. «Perché? Pensavi di trovarla sul pavimento?» «Lo sarà fra un minuto. E quel tanfo di birra!» «Ok, ok, non fare niente che possa terrorizzarlo a vita. Vediamo prima come gestisce lui la situazione.» Lei gettò uno sguardo verso la porta. «No», disse Joe. «Torna a letto per qualche minuto e ti prometto che ti libererò da questa incombenza.» «Allora adesso siamo amici?» «Ovviamente siamo amici e alleati contro il nemico adolescente.» Anna represse una risata, poi si portò un dito alle labbra. «Ssh. Vado giù a far colazione.» «La preparo io», disse Joe. Saltò giù dal letto e la rincorse, per assicurarsi che non facesse niente. All'ultimo momento afferrò un paio di jeans, nel caso anche Tara scendesse per colazione. Anna era seduta al tavolo, con davanti a sé un bicchiere di succo di pompelmo. Joe si incaricò di fare i pancake e di distrarla: a ogni pausa nella conversazione, lei tendeva l'orecchio verso la porta. «Falla finita», le disse Joe. Lei fece spallucce. «Volevo solo...» «Lo so, ma...» «Hai un appuntamento con il dentista stamattina?» chiese lei guardando un calendario fissato al muro. Lui esitò. «Può darsi.» «Hai bisogno di coccole?» chiese lei con un sorriso. «Di che parli? Ti sembro il tipo che ha bisogno di coccole prima di andare dal dentista?»
«Sì.» Gli si avvicinò, abbracciandolo da dietro e appoggiandogli la testa sulla schiena. Lui fece finta di tremare di paura. Stavano ancora ridendo, quando fece il suo ingresso Shaun, con indosso bermuda e maglietta, gli occhi gonfi, i capelli ritti. «Fate largo.» Il sorriso di Anna svanì rapidamente. Shaun estrasse dal frigo un cartone di succo d'arancia, bevve dalla bottiglia e lo rimise dentro. «Era vuoto?» chiese seccamente Anna. «Sì.» «Smettila di fare così. Te l'ho detto mille volte.» «Che sarà mai. È solo un cartone.» «Quando vado a fare la spesa, non so cosa comprare se continui...» Shaun aprì di colpo il frigo, facendo sbatter le bottiglie, estrasse il cartone e lo gettò nel mucchio del riciclaggio. «Ecco», disse. Poi dopo un attimo aggiunse: «Mamma? Se vai a fare la spesa, manca il succo.» «Non fare lo stronzo», disse Joe. Shaun fece le boccacce mentre era intento a mettere un bagel nel tostapane. «A che ora sei tornato a casa ieri notte?» chiese Anna. «Erano circa le tre. Prima ho dovuto portare Tara a casa.» «Davvero?» disse Anna, alzando interrogativamente un sopracciglio all'indirizzo di Joe. «Sì. Perché?» Anna si alzò e andò al piano di sopra, dove guardò in camera di Shaun e in bagno. Nessun segno di Tara. Tornò a sedersi in cucina, scuotendo la testa in direzione di Joe, la rabbia a stento repressa. Shaun prese il suo bagel, lo spalmò di crema al formaggio e lasciò il coltello accanto al tubetto aperto. «Il coltello», disse Anna, «il formaggio.» Shaun uscì dalla stanza senza voltarsi. Joe si mise a sedere accanto a lei. «Eccolo qua, l'approccio della mamma al problema. Cominci identificando la questione, cioè una ragazza nel letto di Shaun, non puoi esprimerti subito al riguardo, perciò sorvegli ciò che il ragazzo fa e critichi aspramente ogni suo gesto. Ottima strategia.» «Che schifo. Tara. Che schifo.» «Ehi, anche a me non piace, cosa credi?»
Shaun si affacciò alla porta, il cellulare in mano. «Gente, io esco con Tara.» Il dottor James Makkar aveva accettato due cose importanti su Joe Lucchesi: a) non voleva terapie alternative per alleviare lo stress e i sintomi conseguenti e b) rifiutava ogni intervento chirurgico. Joe e il dottor Mak avevano un accordo. «Salve, Joe. Sono lieto di vederla a una visita programmata.» Makkar indossava un camice bianco e una mascherina bianca che gli pendeva al collo. Era vicino ai quaranta, ma la sua azzimatura da cinema muto lo invecchiava. «Vuole che le asciughi il sudore dalla fronte?» «Non dovrebbe prendermi in giro», fece Joe. «Sta cercando un ambiente protetto?», ribatté Makkar. «Non so perché vengo qui.» «Perché ha bisogno di me.» «Giusto. A proposito, grazie molte per avermi aiutato l'ultima volta.» «Temporaneamente. Con tutte le limitazioni che mi impone, ho le mani legate. Il che è ovviamente ciò che lei desidera.» Joe sorrise. «Mi segua.» Joe lo seguì per il breve corridoio. «Si sieda. Diamo un'occhiata a quella mascella.» Joe sedette e aprì la bocca quando gli fu ordinato. «Coma va il lavoro?» chiese Makkar. «Una merda. E il suo?» «Fantastico, è ovvio. Faccio sorridere tutti.» «O strillare di dolore.» «Non verrebbe da me se le causassi dolore. Non si contano le volte in cui le ho anestetizzato la bocca prima ancora che lei si accorgesse che ero nella stanza. È la sua condizione a causarle dolore, io invece lo faccio scomparire. Sono il poliziotto buono.» Joe alzò gli occhi, una delle poche risposte consentite a un paziente sulla poltrona del dentista. «Il mio lavoro mi consente di essere molto vicino agli occhi dei miei pazienti», gli aveva detto una volta Makkar. «Posso notare bene le piccole reazioni. Credo che se non facessi questo sarei un ottimo giurato. O un poliziotto, si capisce.» Joe avrebbe voluto sorridere al pensiero di questo poliziotto indiano, piccolo e magro, che pattugliava le strade del Settantacin-
quesimo distretto, ma non poteva. «Ok», disse Makkar. «Prima di tutto, come andiamo con i sintomi?» «Non così male come l'ultima volta. Dolore alla mascella. Scricchiola quando la apro.» «E», aggiunse Makkar, picchiettando il mento di Joe e osservando l'interno della bocca, «quando digrigna i denti.» Joe annuì. «Lei ha due possibilità. La prima è di... insomma, continuare con gli analgesici. Ma ne abbiamo abusato, secondo me, e otterremo sempre meno. La seconda è un'operazione.» «Cosa?» esclamò Joe, cercando di tirarsi su. «Ne abbiamo già discusso. Non voglio sentir parlare di operazioni.» «Senta Joe», disse con calma Makkar, ponendogli una mano sulla spalla, «se si maciullasse la gamba in un incidente, la opererebbero. Non avrebbe scelta. Ovviamente la scelta esiste in questo caso, ma non può andare avanti così, soffrendo in questo modo per niente. Il dolore scompare, è vero, ma ormai sono anni che non la lascia in pace, e credo che il suo stile di vita e ciò che ha patito - e che probabilmente patisce in questo momento - le faranno pagare un dazio. Non si tratta di problemi a soluzione rapida: si condanna da solo a soffrire di più per più tempo ancora.» «Evviva l'ottimismo.» «Si tratta di realismo. Mi ascolti bene: so che ha paura delle operazioni chirurgiche...» «Non è paura, è...» Makkar scosse pazientemente la testa. «So che ha paura delle operazioni, ma questa è diversa. Addirittura non c'è neppure bisogno di chiamarla operazione.» «Dottore, ho quarant'anni, sono adulto e vaccinato, la chiami col suo nome.» «Bene allora: artroscopia. Ecco come faremo: lei andrà in anestesia totale e il chirurgo praticherà una piccola incisione, proprio qui davanti all'orecchio.» Joe si toccò in quel punto. «Non mi piace l'idea...» «Oh, andiamo, la faccia finita. Il chirurgo inserisce uno strumento microscopico con una piccola lente e una luce e dà un'occhiata in giro. Se vede dei tessuti infiammati li rimuove, oppure riallinea l'articolazione. O al limite inietta degli steroidi liquidi, se ce n'è bisogno. Lei avrà due punti di sutura e un po' di gonfiore. Day hospital. Niente a che vedere con le opera-
zioni a mascella aperta. La convalescenza è breve e non rimangono cicatrici evidenti. Tutto si conclude con poche settimane di terapia fisica, solo due volte a settimana.» Silenzio. «Ok. Allora le propongo un'alternativa: sostituzione della mascella. Anestesia totale. Quando si sveglia ha una mascella completamente nuova. Convalescenza: sei settimane, durante le quali non può aprire bocca perché ha la mascella cucita.» Joe rise. «Lasci che le racconti del tizio delle forbici. Quando ero ancora una recluta, il mio collega e io fummo inviati a controllare un appartamento dal quale i vicini si lamentavano provenisse un cattivo odore. Buttammo giù la porta e le dico solo che sono felice di essere riuscito ad archiviare per sempre gli odori di quella volta, cosa che invece non ho potuto fare con le immagini. La nostra vittima era a faccia in giù nell'ingresso, in una pozza di vomito, con un dito tagliato e delle forbici accanto a lui sul pavimento. Un paio di settimane prima si era rotto la mascella durante un'aggressione e i medici del pronto soccorso gliela avevano suturata. Come può immaginare, gli erano state fornite delle forbici per tagliarsi i punti nel caso in cui avesse dovuto vomitare o cose del genere. Il poveraccio, che poteva solo bere liquidi con una cannuccia, stava preparando la cena alla sua ragazza, che aveva invitato per quella sera, e mentre affettava i peperoni si procurò un taglio profondo al dito. Lo stomaco gli si rivoltò e quando capì che stava per vomitare, corse a prendere le forbici. Poiché però aveva le mani unte, le forbici gli sgusciarono via, lui non riuscì più a trattenersi, vomitò e soffocò. E nessuno lo trovò prima di due giorni, perché la sua ragazza gli dette buca.» «Le donne a volte sono delle gran puttane.» «Beh, non è esattamente quello l'insegnamento che ho ricavato da questa storia. Mascella, sutura e chiusura: no, grazie.» «Lei è sposato, sua moglie non le darà buca.» Joe fece segno di no con la testa. «Perciò artroscopia le suona meglio?» «Meglio.» «Ecco ciò che farò: la manderò per un consulto alla clinica per dolori facciali di Columbia. Loro riusciranno a tranquillizzarla maggiormente. La prego, ascolti il mio consiglio.» Joe buttò giù le gambe dalla poltrona e si alzò. «Non le prometto niente.»
Lo spazio a disposizione sulle scrivanie della Manhattan Nord era limitato, con dodici investigatori in più nella task force, oltre agli abituali otto. Martinez andò alla scrivania di Joe insieme a Rencher, tenendo sopra la testa un foglio di carta. «Abbiamo una corrispondenza», disse Martinez. «Fra le 11 e le 11:30 del mattino, entrambi i lunedì, c'è questo tizio.» Mise due foto davanti a Joe e Danny li raggiunse. Joe annuì. «Bel lavoro. C'è qualcuno all'ufficio postale che sa chi è?» «No», rispose Rencher, «anche se il responsabile ha fatto di tutto per aiutarci.» «Pensi che possa essere il nostro uomo?», disse Martinez, indicando la foto. «Sembra corrispondere ad alcune caselle del profilo», disse Joe, «ma chi lo sa? Lunedì prossimo Danny e io lo aspetteremo per vedere se ha intenzione di spedire qualcos'altro. Dato che siete qui, volevo aggiornarvi su qualcosa che ho notato nelle foto della scena del crimine di Aneto. C'era un coleottero, un dermestide, che non combacia con il resto.» «Oh no, non un dermesside», disse Martinez. «Shock. Orrore.» «Dermestide», precisò Joe. «Quello che è.» «Potrebbe significare qualcosa. I dermestidi si nutrono dei tessuti disidratati del corpo, quindi quando il corpo è praticamente ridotto a uno scheletro, e questo non era neppure lontanamente il caso di Aneto. Mettiamola in questo modo: i dermestidi sono usati dai musei per ripulire le ossa degli animali dalla pelle, dai tessuti, dai muscoli e quant'altro, in modo da essere pronte per l'esposizione; mettono le ossa in una scatola con una colonia di dermestidi e questi si pappano tutto.» «Mi interessa. Da morire», disse Martinez. «Perciò», proseguì Joe, «credo che si tratti di un insetto che ha fatto l'autostop ed è arrivato insieme all'assassino.» «Ehi!», esclamò Martinez. «Qualcuno telefoni al Museo di Storia Naturale per sapere se è fuggito uno scheletro di dinosauro, magari rubando un martello dalla caverna degli uomini primitivi.» «Ospitasaurus Rex», disse Rencher divertito, «oppure Ospitaraptor, o...» «Lo sapete che siete un mucchio di stronzi senza cervello?» disse Danny. Joe scosse la testa. «Ascoltate, quello che voglio dire è che questo inset-
to è fuori luogo e dobbiamo rifletterci. Forse il nostro tizio ha un allevamento di dermestidi per i musei, o cose del genere.» «Sicuuuro», disse Martinez. Anna lanciò un'occhiata al letto e al pigiama che vi era sopra e pensò a quanto sarebbe stata bene se si fosse infilata di nuovo dentro. Joe era arrivato a casa prima del previsto. «Ciao», disse, costringendosi ad alzarsi, togliendosi l'accappatoio e indossando i jeans e la maglia che la sera prima aveva gettato sulla sedia. «Sei davvero bella», disse Joe, prendendola per le braccia e baciandola sulla testa. «Grazie.» «Pronta?» «Quasi. Quando ti sarai fatto la doccia avrò finito.» Andò di sotto, mise il cd di Kanye West di Shaun e iniziò a fare tutte le pulizie che poteva senza sporcarsi i vestiti. Joe andò in cucina e mandò giù due Vicodin con un bicchiere d'acqua. «Se non ci fosse il dole avresti un grosso problema», disse Anna, con un tono che voleva sembrare faceto, ma che fallì lo scopo. Il dole era un test sull'uso delle droghe che la polizia di New York effettuava a campione. Ogni giorno venivano scelti a caso e senza preavviso alcuni agenti, che dovevano recarsi al reparto medico nel Queens per un esame delle urine. Chi non si presentava era licenziato. Chi risultava positivo e non aveva una ricetta per la sostanza in questione, era licenziato. «Di che parli? Ho una ricetta per queste.» «Che mi dici delle volte in cui vai dal tuo amico al Village?» «Poca roba. Pensi davvero che sia una persona migliore o che svolga meglio il mio lavoro quando vado in giro con un dolore da strapparsi le palle? O quando il cervello non riesce a pensare ad altro che alla sofferenza?» «Mi preoccupo per te.» «Andiamo.» La sera era calda e tranquilla, con poco traffico. «Allora?» disse Anna. «Vuoi scommettere? Gina sarà vestita di rosso e nero con gioielli d'oro, oppure rosso e nero con gioielli rossi, o ancora oro e nero con gioielli d'oro? Tette strizzate in fuori, o separate e alzate in fuori?»
«La fai sembrare una troia.» «Ma è la verità. Rossetto rosso o lucidalabbra rosso? Eyeliner nero o eyeliner nerissimo?» «A Gina piace mettersi in ghingheri, tutto qui. Trascorre sempre le giornate a casa con i bambini, per una volta che esce ci tiene a mettersi elegante, magari un po' appariscente.» Il sorriso di Anna svanì. Si mise a fissare fuori dal finestrino. Che c'è?» disse Joe. «Cosa ho detto?» «Niente. Niente.» Joe guardò la strada in silenzio. «Non lasciare che prenda il sopravvento su di me», disse Anna. «Non voglio invischiarmi in una conversazione con lei che mi tempesta di domande. Divento clastrofobica.» «Claustrofobica.» «Lei non fa altro che domande, domande, domande...» «Per l'amor di Dio, e allora perché mai sei voluta uscire? Non hai niente da dire? Su nulla?» «È difficile per me», disse Anna, con la voce che le si incrinava. «Faccio del mio meglio, ok?» «Ok tesoro. Scusami, mi dispiace. Apprezzo quello che stai facendo, terrò Gina sotto controllo.» Fece un respiro profondo e trascorse il resto del viaggio in silenzio. Gina si alzò in piedi e agitò una mano nella loro direzione, quando fecero ingresso al Pastis. Indossava una gonna nera attillata, una camicetta nera con sotto una canottiera di pizzo e una larga cintura di cuoio rossa. Anna strinse la mano a Joe, che ricambiò. Gina andò incontro ad Anna per abbracciarla forte. «Tesoro, hai un aspetto splendido. È bello vederti uscire. Dio mio, sei dimagrita? Come se ne avessi bisogno, al contrario di me. Ma sei davvero splendida.» «Grazie. Anche tu. Buon compleanno.» «Ehi bellezza», disse Danny, baciando Anna su entrambe le guance. Joe abbracciò Gina. «Buon compleanno, cara.» «Allora Anna, che fai di bello?» chiese Gina. «Non molto. Un po' di lavoro.» «Danny mi dice che lavori da casa.» «Sì.»
«Buon per te. E in cosa consiste? È difficile darsi un'organizzazione? Io per esempio non ci riuscirei, mi perderei dietro al pensiero del bucato o di pulire il bagno o magari rimarrei incollata davanti al frigorifero...» «Non è male. A me piace.» «Come funziona?» «Le aziende che vogliono che i loro prodotti appaiano nella rivista me li mandano a casa, oppure mi spediscono le foto, e mi pregano di inserirli.» Anna rise. «Davvero ti mandano la roba a casa?» Anna fece segno di sì. «Dev'essere divertente aprire regali tutto il giorno. Puoi tenertene qualcuno?» Joe si inserì. «Sfortunatamente sì, se ne tiene un sacco, vero?» disse sorridendo. «Oooh, ma questo non è per niente gentile», disse Gina, con un colpetto consolatorio sulla mano di Anna. «Non ascoltarlo, cara. Tutto quello che questi ragazzi ottengono sul lavoro sono cadaveri e... «Insuccessi», concluse Anna, sorridendo. «Questa era pesante», disse Gina. Joe si stava già rivolgendo a Danny. Il cameriere arrivò a prendere le ordinazioni: quattro bistecche alla bernese, ben cotte per Gina e Danny, patatine fritte extra per Danny, salsa extra per Anna, contorno di insalata per Gina che, come al solito, non l'avrebbe mangiata. «L'altro giorno sono andato a trovare il vecchio Nic», disse Joe. «Ah, il signor Nicotero», disse Gina. «Non riesco a superarlo», precisò Gina, ridendo. «Quando uscivo con Bobby, capite, suo padre per me era il signor Nicotero, e tale è rimasto.» «Uscivi con Bobby Nicotero?» chiese Anna. «Lui era il più bel quarterback della squadra, io ero a capo delle cheerleader», scoppiò a ridere. «È massiccio, ma non ha assolutamente l'aspetto di un atleta», osservò Anna. «Era davvero bravo», disse Danny. «È uno stronzo», disse Joe. «Andiamo, non è poi così male», cercò di attenuare Danny. «Tratta il suo vecchio come una merda.» «Lo dice il vecchio Nic?» «Lo dico io. Il vecchio Nic è troppo buono.»
«Forse non lo è sempre stato», intervenne Anna. «No», dissero gli altri all'unisono. «Il vecchio Nic è adorabile», disse Gina. «Mi ha sorpreso che Bobby sia finito a fare il poliziotto», disse Danny. «Perché?» chiese Anna. «Bensonhurst, tesoro», rispose Gina. «A quei tempi o eri un tipo da polizia oppure finivi in qualche giro. Bobby apparteneva alla seconda categoria, faceva parte di una gang.» «Capite», intervenne Danny, «Gina ha provato qualcuno dei cattivi, prima di cedere a me, e non mi ha reso la vita facile, questo è sicuro.» Gina si allontanò da lui e sbatté una mano sul tavolo. «Bene, era ora. È la prima volta in assoluto che ammette che sono stata io a cedergli. Leggete fra le righe: mi dava la caccia, non mi dava tregua, ventiquattrore al giorno, sette giorni su sette.» «Danny distolse lo sguardo. «Come vuoi tu, tesoro.» Joe e Anna risero. «Ora che mi ricordo», disse Joe, «sei venuto qualche volta a nasconderti a casa mia, perché ti inseguiva qualche cattivo armato di mazza da baseball.» «Sono fiera di te, amore», disse Gina. «Sapete che vi dico? Devi provare di voler morire per qualcuno prima di...» «Ecco le nostre bistecche», disse Joe. La cena era terminata e dal tavolo erano state portate via due bottiglie vuote di vino. Gina era diventata più chiassosa, Anna più taciturna. Dopo che lei ebbe dato tre risposte pungenti di fila a Joe, Danny alzò una mano. «Allora, chi ha ordinato un contorno di litigio coniugale insieme alla bistecca? Nessuno?» Gina scosse la testa. Joe fissò intenzionalmente Danny per ammonirlo a non fare battute. Anna non alzava gli occhi dal piatto. «Stavo solo scherzando», disse Danny. «Lo rimanderò indietro. Ha un sapore un po'... acido.» Si rivolse a Gina. «Dov'è il mio pubblico stasera, baby?» «Riderò quando dirai qualcosa di divertente. È così che funziona. Joe, com'è il tuo tiramisù?» «Fuso di testa. Come ha detto ieri Tara a Shaun.» Anna sorrise. «È buffo starla ad ascoltare. Per me, a volte, è un linguaggio completamente nuovo.»
«L'altro giorno», disse Joe, «l'ho sentita imprecare con Shaun contro uno che aveva 'cicognato' una sua amica.» «Bidonato?» chiese Gina. «No, proprio cicognato, nel senso che l'aveva messa incinta.» Tutti risero. «Questo fa di Danny un cicognatore seriale», disse Gina. «Io invece sono un cicognatore solitario», disse Joe. «Hai sparato a salve per anni», disse Danny. «Amen. Per quanto triste possa essere, l'anno prossimo manderemo il nostro amato figlio al college e saremo liberi di...» «Litigare a tutto spiano», sbottò Anna. «Gesù, Anna. Perché mai...» La guardò fare un palla del tovagliolo, allontanare la sedia dal tavolo e alzarsi. «Scusate, devo andare. Mi sono dimenticata... ho una videoconferenza con... Parigi.» Guardò l'orologio. Joe la fissò stralunato. «No, tu...» «Godetevi il resto della serata», disse a tutti. «Aspetta, vengo con te.» Joe si alzò di scatto, battendo violentemente il ginocchio contro il tavolo. «Rimani. Per favore.» Ad Anna si incrinò la voce. Joe guardò prima Danny, poi Gina. «Rimani pure. Divertiti.» Anna si allontanò rapidamente, a testa bassa. «Ragazzi, mi dispiace davvero», disse Joe. «Non capisco proprio...» Fece un gesto sconsolato. Gina gli mise una mano sul braccio per confortarlo. «Ha passato un brutto periodo. Vai. Occupati di lei, ne ha bisogno.» Joe seguì Anna ma non poté fare a meno di fermarsi a un tavolo. «Salve capo. Come va?» «Joe», disse Rufo, togliendo la mano da sopra a quella della ragazza che era con lui. «Bene. Tutto bene.» Joe annuì e guardò in direzione della porta, dove poteva vedere Anna che stava uscendo in strada per fermare un taxi. «Lei è la mia... lei è Barbara Stenson.» Rufo si pulì la bocca con il tovagliolo. «Barbara, l'ispettore Joe Lucchesi.» Joe tornò a guardarli, ansioso di andarsene. «Piacere di conoscerla», disse Barbara. «Altrettanto. Ottimo ristorante.»
«Uno dei migliori», disse Rufo. «A noi piace», concluse Barbara. «Sei da solo?» chiese Rufo. «In effetti no. Sono dovuto correre via e ho lasciato Danny e Gina Markey al dessert.» Mentre lo diceva tenno lo sguardo fisso su Barbara, che non abbassò il suo. «Bene», disse allora lei, «anche noi stiamo per andare a fare una passeggiata e prendere il dolce altrove.» Rufo si mostrò meravigliato. «Davvero?» «Non te lo avevo detto. Una piccola sorpresa.» Rufo assunse l'espressione dell'uomo più felice del mondo. «Ci vediamo», disse Joe andandosene. «Riguardati», rispose Rufo. Joe non gli disse che aveva del sugo sulla cravatta, né tanto meno che Danny era stato a letto con Barbara. 12. In ascensore, insieme a Joe c'era Irene, che lui conosceva solo per il nome stampato a lettere oro sul badge nero. Non avevano mai scambiato una parola. Aveva labbra sottili, capelli grigi lanuginosi e occhiali con la montatura in metallo. Joe provava compassione per chiunque dovesse passare attraverso di lei per ottenere qualcosa. Non si toglieva mai quella maschera che le conferiva un'aria dura e distante, neanche nelle situazioni più piacevoli e divertenti. Irene era il ritratto di uno di quei giorni che Joe sperava non sarebbe mai arrivato per lui. L'aroma di caffè riempiva l'ufficio, ma quando si diresse a prenderne una tazza, trovò entrambe le caffettiere vuote. Denis Cullen era seduto da solo alla scrivania. «Sì», esclamò d'improvviso, sbattendo le mani sul ripiano. «Mi ascoltate tutti? Ho capito in che modo l'assassino riesce a entrare in casa delle vittime.» «Vai avanti», lo incoraggiò Joe. «Lui ha qualcosa che le vittime vogliono», disse Cullen schiarendosi la voce. «Una o due settimane prima di morire, tutte hanno bloccato la carta di credito.» Alcuni annuirono, altri rimasero in attesa del seguito. «Giusto», disse Joe, «quindi a tutti era stato rubato il portafoglio. Ciò
spiegherebbe anche i due portafogli di Lowry. Aveva fatto emettere una nuova carta di credito, poi gli era stata restituita la vecchia. La sera in cui è morto.» Cullen annuì. «Se l'assassino ha il loro portafoglio, significa che conosce indirizzo, telefono, luogo di lavoro. Fa una telefonata e loro sono ben felici di aprirgli la porta: chi non si fiderebbe di uno così onesto da restituire un portafoglio?» «Prima di restituirlo fa trascorrere il tempo che gli sembra più opportuno», disse Joe, «riflettendo sulla vittima potenziale, esaminando cosa fa e dove va di solito per gli acquisti. Può telefonare a ore diverse, per controllare se c'è qualcuno in casa. Può escludere chi ha bambini, perché trova le foto nel portafoglio...» «Lowry aveva una figlia», intervenne Rencher. «Sì», ribatté Joe, «ma ogni domenica andava dalla nonna e l'assassino poteva averlo scoperto. Magari Lowry lo aveva accennato al telefono, non lo sappiamo.» «Inoltre», disse ancora Cullen, «può rubare un portafoglio, ma poi non trasformare quella persona in una vittima. Potrebbe avere i portafogli di gente che non ha mai chiamato.» «Bobby, Pace, voi due vi siete occupati dei tabulati telefonici, giusto?», disse Joe. «Nessuno si è accorto se hanno ricevuto una chiamata la sera in cui sono stati uccisi?» «Non ne siamo certi», disse Bobby. «Allora non avete notato niente di insolito nelle chiamate in arrivo?» «Lo avremmo detto», rispose Pace. «Vi dispiace se ci do un'occhiata?» chiese Cullen. «Certo, fai pure», rispose Bobby. «Controlla tu stesso.» Joe si era già incamminato per andare via quando squillò il telefono sulla sua scrivania. «Ispettore Lucchesi? Joe Lucchesi?» «Sono io.» «Mi chiamo Preston Blake.» «Mi dica.» «Io... ecco... parliamo in via confidenziale?» «Se questo è ciò che vuole, certamente.» All'altro capo ci fu silenzio, poi un breve respiro, seguito da un altro più profondo. «Signor Blake? Cosa posso fare per lei?»
«Ho letto sui giornali che lei lavora al caso dell'Ospite.» «Infatti.» «Io credo... l'Ospite...» inspirò a lungo e lentamente. Joe attese. «Ha cercato di uccidermi.» Joe si mise a sedere. «Ucciderla?» «Sì.» «Quando è successo?» «Sei mesi fa.» «Signor Blake, lei ha seguito ciò che i media hanno detto sulle indagini?» «Sì... ma non è per quello che chiamo. È vero. È successo davvero.» «È la prima volta che si mette in contatto con noi, signor Blake?» «Sì. Perché me lo chiede?» «Nessun motivo. Prego, mi dica cosa le fa pensare che si trattasse dell'Ospite.» «L'ho fatto entrare in casa, mi ha spogliato, mi ha picchiato sulla faccia e mi ha puntato una pistola.» «Come è riuscito a sfuggirgli?» «L'ho sopraffatto ed è scappato.» «È sicuro che si trattasse dello stesso individuo?» «Qualcuna delle vittime aveva... c'era un telefono accanto a loro...?» Stavolta Joe rimase in silenzio. «Signor Blake, posso avere i suoi dati? Il mio collega e io vorremmo venire a parlare con lei di persona, se non ha niente in contrario.» «Io... non lo so.» «Cominciamo con i suoi dati, ok? Mi ripeta il suo nome.» «Preston Blake.» «Data di nascita?» «16 aprile 1972.» «Il suo indirizzo?» «1890 Willow Street, Brooklyn Heights.» «Vorrei passare da lei oggi stesso. È in casa questo pomeriggio?» «E... non so. Io... nessuno è stato qui da... nessuno.» «Mi ha telefonato lei signor Blake, il che significa che desidera aiuto. Non faremo niente che peggiori le cose per lei, glielo prometto. Veniamo soltanto per farle alcune domande. Se si tratta dell'assassino, anche lei ha
interesse che venga catturato, giusto?» Blake inspirò profondamente. «Lei deve aver visto le sue vittime, i cadaveri... ma la prova vivente forse è più dura da affrontare.» Brooklyn Heights era un tranquillo quartiere di livello medio alto a una sola fermata di metropolitana - ma distante un mondo - da Wall Street. Alle tre di un mercoledì pomeriggio le vie residenziali si riempivano di babysitter dirette con i bambini verso il minuscolo parco giochi poco distante. «Belle case», osservò Joe. Svoltò a sinistra su Willow Street, fiancheggiata da alberi e case a schiera in arenaria perfettamente tenute. Quella di Preston Blake si trovava a destra, vicino all'angolo, un edificio stretto, a tre piani, di stile angloitaliano, con una porta nera antica. Joe suonò il campanello e parlò al citofono. «Signor Blake? Ispettori Joe Lucchesi e Danny Markey.» Entrambi mostrarono i loro distintivi a una telecamera a circuito chiuso montata in alto a destra sopra la porta. Dopo un prolungato silenzio, udirono una serie di bip dall'interno. Attesero, contando la lunga serie di chiusure di sicurezza che correva dalla cima alla base della porta. Quest'ultima alla fine si aprì verso l'interno, anche se era incardinata dal lato della serratura. Joe e Danny si scambiarono un'occhiata. Poiché nessuno si faceva vivo, Joe spinse piano la porta ed entrò. Sentì una fitta al petto alla vista della vasta distesa bianca che lo circondava. Sospesi al soffitto con spessi cavi d'acciaio, c'erano file di scaffali di libri in plexiglas, alti un metro e ottanta e larghi mezzo metro, disposte a intervalli regolari. Le piastrelle del pavimento, di un bianco lucido, riflettevano in modo accecante la luce di centinaia di faretti montati sugli scaffali. Joe si fece avanti e provò una punta di rammarico. Tutti quei titoli in serie indicavano una disperata ricerca della serenità, attraverso un'ampia gamma di discipline: agopuntura, angeli, aura, buddismo, meditazione, riflessologia, reiki, yoga. Joe e Danny si sentirono degli intrusi in un mondo diverso. Si voltarono verso l'uomo che non sembrava aver trovato una risposta in nessuna di quella pagine. Blake alzò le mani. «Non preoccupatevi, ho anche Il codice Da Vinci.» Fece un rapido sorriso sghembo con la parte destra della bocca. Dal labbro superiore gli penzolò un filo di saliva, che asciugò con un fazzoletto. «Ma dei codici non c'è troppo da fidarsi...» Fece un gesto verso il pannello di sicurezza a lato della porta. «Sono sicuro che qualcuno avrebbe potuto... insomma, a volte non basta.»
Joe sorrise. «Comunque, salve.» Blake porse loro la mano da dietro la porta. «Grazie per averci lasciato venire», disse Joe, stringendola con forza. Blake era smilzo e curvo. Qualunque fossero le esperienze attraverso le quali era passato, avevano lasciato il suo volto invecchiato e ottenebrato; il segno che colpiva di più era una massa di pelle cascante che pendeva sotto agli occhi cupi e affaticati. L'epidermide sul lato destro del mento era bitorzoluta e irregolare. Indossava pantaloni di cotone cascanti, un maglione a collo alto leggero e un berretto da baseball rosso. I suoi occhi esprimevano chiaramente panico; Danny seguì il suo sguardo verso la porta aperta e si affrettò a chiuderla. Blake allora rimise in funzione tutte le chiusure di sicurezza. «Seguitemi», disse quando ebbe finito. Li condusse in mezzo al labirinto di scaffali e, attraverso pesanti doppie porte bianche, in un soggiorno spoglio e spazioso. Il pavimento era in quercia lucidata, le pareti dipinte di giallo tenue. Non c'erano né un tavolo né una credenza. Alle finestre erano appese pesanti tende verdi. Blake si sedette su un divano bianco di fronte alla porta e indicò a gesti che facessero altrettanto su uno disposto sul lato opposto. Danny e Joe si accomodarono. «Ha una bella casa», disse Joe. «Grazie. Posso offrirvi qualcosa da bere, caffè...» «Il caffè va benissimo, grazie», disse Joe. «Certo», confermò Danny. «Grazie. Amaro per entrambi.» Blake rimase un attimo immobile, poi si alzò e attraversò la stanza, per dirigersi a una porta seminascosta che immetteva in un corridoio poco illuminato. Joe fu attirato da un vaso di fiori secchi posto accanto all'enorme camino spento. Lo raggiunse. Dietro al vaso, notò l'angolo di una cornice, si piegò e la raccolse. Racchiudeva una foto a colori sbiadita, probabilmente scattata negli anni Ottanta, che ritraeva un'anziana coppia: l'uomo magro e impettito, la donna grassa e imponente e con gli occhi scintillanti. «I miei genitori», disse Blake rientrando e sorridendo indicando la foto. «Si adoravano.» Appoggiò su un'ottomana in mezzo a loro un vassoio con tre tazze di caffè. «Da quanto vive qui?» chiese Joe. «Da sempre. I miei genitori sono morti e non ho fratelli.» «Che lavoro fa?» «Faccio gioielli.»
«Ha fatto lei anche quello?» chiese Joe, indicando un braccialetto di pelle nera che Blake indossava. Lui annuì. «Mio figlio indossa cose di quel genere.» «Ne ho altri su nel...» «Mi dispiace», disse Joe. «Non intendevo...» «Non è un problema. Sarebbe un piacere.» Joe sorrise. «Grazie, ma deve darsi un po' più da fare a scuola, prima che torni a casa con dei regali per lui.» «Beh, allora mi faccia sapere.» «Grazie. Dove lavora?» «Qui.» Fece un gesto che indicava il piano di sopra. «Ciò significa che riceve clienti e fornitori a casa? Lo chiedo per farmi un'idea delle persone che conoscono lei e la casa.» «Ho alcuni clienti abituali. Disegno pezzi pregiati, fatti su ordinazione. Mi incontro con i clienti a casa loro, discutiamo il disegno e poi io lo produco. Nessuno di loro viene qui.» «Ok. E i fornitori?» «Mi faccio spedire la pelle a casa. Per i metalli e i diamanti vado sulla Quarantasettesima.» «Persone che vengono a fare le pulizie, spedizionieri che entrano in casa?» «No, faccio le pulizie da solo.» «In tutta la casa?» «Ho molto tempo libero.» «È mai stato vittima di un altro crimine?» chiese Joe. «Del genere?» «Un furto, una rapina?» Blake scosse la testa. «No, perché?» «O magari le hanno semplicemente rubato il portafoglio?» insistette Joe. Blake parve sorpreso. «No, mai. Perché?» «Semplice curiosità. Ok. Pensa di poterci raccontare cosa accadde quella sera?» «Non lo so.» «Senza fretta», disse Danny. «Noi pensiamo che possa farcela, altrimenti non saremmo qui.» Blake si tolse il berretto da baseball, si lisciò i capelli neri e ispidi e se lo rimise. Inspirò a fondo. «Era lunedì sera. Il 13 marzo, se non sbaglio.
Guardavo un film... due film, uno dopo l'altro.» «Che mi dice di quella mattina?» chiese Joe. «Ho bisogno del maggior numero possibile di dettagli su ciò che ha fatto quel giorno, dove è andato, con chi ha parlato... Mi dispiace, ma è importante. Se l'assassino ha scelto lei, potrebbe trattarsi di una sfortunata coincidenza, un cambio delle sue abitudini che ha fatto incrociare le vostre strade. Lunedì, per esempio, lei prende il caffè al bar sotto casa, martedì invece arriva fino alla stazione della metropolitana, proprio accanto al chiosco di hotdog dell'assassino. Ha capito cosa intendo?» «Ok. Quel giorno appena alzato ho iniziato subito a lavorare. Non sono uscito di casa e nessuno mi ha telefonato. A volte m'immergo talmente nel lavoro che perdo la cognizione del tempo. Il che, suppongo, non fa di me il più attendibile dei testimoni.» Sorrise. «Non so neppure dirvi a che ora ha suonato il campanello.» «Non si preoccupi», disse Danny. «Nessuno sa quali dettagli possano essere importanti. È per questo che facciamo domande. Come si sente, per ora?» «È molto difficile.» «Lo capisco, ma scommetto che si sentirà molto meglio, una volta che avrà tirato fuori tutto.» «Era tardi. Lui... ha suonato il campanello, dicendo che era un agente immobiliare. Gli era piaciuto l'edificio e voleva parlarmi in merito a un'eventuale vendita o comunque riguardo ai prezzi delle case in questa zona...» «E lei gli ha aperto.» «Sì, gli ho aperto. Aveva del materiale di Acheson & Grant, gli immobiliari di Montague Street... e sì, lo so che è stata una cosa stupida.» Fece un profondo sospiro, che terminò in una specie di singhiozzo. «Siamo tutti così», disse Danny. «La maggior parte di noi vuole fidarsi della gente. Perfino io.» «Grazie. Perciò lo feci accomodare nel vestibolo e poi ricordo solo di essermi ritrovato sotto il tavolo della cucina...» «Mi scusi, fermiamoci un attimo prima», disse Joe. «Quando ha aperto la porta, ha visto bene la persona? Potrebbe descriverla?» Blake scosse la testa. «Vorrei poterle rispondere di sì. Quello che posso dirle è che era leggermente più basso di me, forse sul metro e settanta. Di corporatura normale, non so dire altro. E che era vestito di nero. Forse per differenziarsi dal rosa acceso che usano di solito i criminali.» Sorrise, ri-
cambiato da Danny e Joe. «Doveva dare l'impressione di essere un agente immobiliare, perciò era in giacca e cravatta?» chiese Joe. Blake alzò le spalle. «Per quanto mi ricordo credo di sì. Però non potrei giurarci.» «Colore dei capelli?» «Non saprei. Biondo? Grigio? Credo fossero chiari.» Segni particolari?» «Nessuno che mi ricordi. Credetemi. Ho trascorso molto tempo a rivivere quella sera, ripetendo ogni cosa... se non mi è venuto in mente fino ad adesso, non credo ci siano più speranze.» «Va bene», disse Danny. «Non deve fissarsi su questo aspetto. Qualcosa può sempre spuntare in seguito. Torniamo a quando si è risvegliato sul pavimento della cucina.» «Avevo la sensazione che tutto fosse sbagliato. Mi ricordo che mi sono aperto un occhio con le dita, perché era chiuso da un grumo di sangue. Giacevo in posizione fetale sotto l'isola al centro della stanza e riuscivo a distinguere l'angolo del piano di lavoro sopra di me.» «Possiamo scattare una foto della cucina?» chiese Joe. «Certo.» Blake li condusse lungo il corridoio, sulla cui parete era appoggiata una bicicletta, con un casco nero appeso al manubrio. La cucina era di design moderno a grossi blocchi di granito, noce e acciaio. Blake si fermò vicino all'isola e posò una mano su uno degli angoli. «Da qui sopra mi colava addosso il mio stesso sangue. Mi ricordo di aver alzato la mano per toccarlo, credevo di trovarmi nel bel mezzo di un incubo. Non so descrivere come mi resi conto che invece era tutto vero, forse fu la combinazione di queste sensazioni nella mia testa, il dolore pulsante, straziante, lacerante, penetrante. E non so descrivere il terrore di sentire i suoi passi che si dirigevano verso di me.» Distolse lo sguardo e una lacrima gli scese giù per la guancia. «L'ha assalita di nuovo?» Blake annuì. «E da qualche parte dentro di me, giunse questa sensazione travolgente di fuggire. Io... io non so come mi alzai ed ero a quattro zampe quando lui mi si avvicinò. Cercai di dare l'impressione di essere sul punto di crollare nuovamente a terra, e invece, quando mi fu accanto, balzai su e lo colpii con un pugno, più forte che potevo, facendolo barcollare all'indie-
tro, verso il vestibolo. Fu allora che vidi che aveva una pistola alla cintura. Quando poi diressi lo sguardo oltre di lui mi accorsi che aveva messo qualcosa sul pavimento, non so cosa. Ma sapevo che in quel punto intendeva farmi qualcosa, perciò lo colpii di nuovo, spingendolo verso la porta. Gli cadde di mano il mio telefono, il cordless, ma non lo raccolse. Poi... credo che non si aspettasse la mia reazione, perché afferrò ciò che aveva messo in terra e... poco dopo non c'era più.» «Le ha detto perché era qui, perché ce l'aveva con lei?» chiese Joe. «No.» «Ha parlato?» «No.» «Cosa pensa che avesse lasciato nel vestibolo?» «Non sono riuscito a distinguerlo.» «Cosa ha fatto dopo l'aggressione?» «Mi sono ripulito, ho preso dei sonniferi e sono andato subito a letto.» «Non aveva bisogno di punti di sutura?» chiese Danny. «Forse. Me la sono cavata da solo. Magari», aggiunse indicando il proprio mento, «non troppo bene. Ma non volevo vedere nessuno, neppure un dottore. Volevo solo andare a letto e dormire.» «Perché non si è fatto avanti prima?» chiese Joe. Blake sospirò. «Per molte ragioni. La prima è che, ovviamente, io non me l'ero cercata ed essendo un privato cittadino non provavo nessun desiderio di rendere pubblico il più grosso pericolo che avessi corso in vita mia. Spero che mi comprendiate. Quando vedo in televisione delle persone a cui viene piantato in faccia un microfono mentre sono appena uscite da un'esplosione o da una sparatoria, non riesco a sopportarlo e spengo l'apparecchio. Oggi sembra che tutti vogliano intromettersi nel dolore degli altri e io non credo che sia giusto. Vi ricordate di quando era possibile guardare il telegiornale o leggere i quotidiani senza dover vedere sangue o cadaveri, perché tutto veniva prima ripulito? Poi, gradualmente, hanno cominciato a mostrarci molte più cose sulla realtà della guerra e della violenza, il che in un certo qual modo è servito a ridestare le coscienze su ciò che succede nel mondo. Ma quel punto è stato superato, adesso si tratta solo di soddisfare la curiosità pruriginosa che hanno tutti. Ciò che si vuole è poter osservare l'effetto della violenza sui volti della gente, vedere che aspetto può avere uno che ha perso la moglie due minuti prima. Non è giusto. Non vorrei mai essere visto in quel modo, è il peggior modo di invadere la sfera privata. Peggiore, per me, dell'Ospite che mi entra in casa.»
«Quanto ci dice rimarrà all'interno delle forze di polizia», disse Joe. «Da quel punto di vista non ha niente di cui preoccuparsi.» «Grazie. Penso anche ai miei vicini. Un altro motivo per cui non mi sono fatto avanti, per quanto possa sembrare folle, è per non rendere vano l'operato dell'associazione dei residenti di quartiere. Lavorano sodo per tutti, assicurandosi che il quartiere non sia in alcun modo danneggiato. Se sapessero di questo fatto, ne sarebbero sconvolti. Inoltre, se in qualche modo... capite... ciò fosse ricondotto a me...» «Non è colpa sua.» «Altri potrebbero pensarla diversamente.» «E perché allora ha deciso di chiamarci?» chiese Joe. «Quando ho visto quella conferenza stampa, ho sentito che avrei potuto ricevere aiuto. Da parte della polizia e degli investigatori che si occupano del caso. E credo di aver sentito che avrei potuto parlare anche a nome di coloro che ormai non possono più farlo.» «Lo apprezziamo molto», disse Joe. «Purtroppo è raro avere una vittima sfuggita all'aggressione.» «Perché pensate che abbia scelto noi? Me e gli altri.» «Potrebbe non piacergli ciò che voi rappresentate per lui», disse Danny. «Ma...» «Non siamo sicuri del perché», intervenne Joe. «Ci muoviamo in diverse direzioni e parlare con lei può aiutarci ad avvicinarci alla motivazione.» «Pensate che sia matto?» «A lei ha dato questa impressione?» ribatté Joe. «Beh, ritengo di no. Non lo so. Per fare ciò che ha fatto deve essere matto.» «Forse no. Lo scopriremo quando lo avremo preso.» «Siete vicini?» «Abbiamo molte informazioni su cui lavorare e alcuni dati assai affidabili.» «Pensate... insomma, ciò che vorrei sapere è... credete sia possibile che torni da me?» «Non vedo la ragione per cui dovrebbe farlo, signor Blake. Quando ha avuto l'opportunità di farlo è fuggito. Non vedo il motivo per cui dovrebbe tornare.» «Questa casa mi sembra molto sicura», aggiunse Danny. «In ogni caso, se ci fosse qualcosa che la preoccupa, questo è il nostro biglietto da visita. Non esiti a chiamarci.»
«Grazie.» Si alzò e si strinsero le mani, avviandosi poi alla porta d'ingresso. «Tutto questo sistema di sicurezza lo aveva già prima o lo ha installato... dopo?» chiese Joe, indicando la tastiera presso la porta. Blake annuì. «Dopo.» Poi alzò le spalle. «Ma anche se lo avessi avuto prima, avrebbe avuto poca importanza visto che l'Ospite l'ho fatto entrare io. Il sistema di sicurezza, come dicevamo per i codici, da solo non può bastare.» «Una volta abbiamo avuto a che fare con un tizio che aveva scritto la combinazione della cassaforte proprio sopra, sul soffitto», disse Danny. «In molti, poi, non cambiano le impostazioni di fabbrica, che sono sempre le stesse. Quella è la prima cosa che dovrebbe fare.» «Faccio tutto quello che c'è da fare, ma ormai... ho chiuso la stalla dopo che i buoi sono scappati.» «Faccia comunque tutto ciò che serve per essere al sicuro.» «Grazie per essere venuti. Forse sono fortunato a potermi rinchiudere qua dentro senza dover affrontare il mondo se non ne ho voglia.» Joe pensò ad Anna e provò un senso di colpa per aver fatto quel collegamento. «Grazie del suo tempo, signor Blake.» «Grazie», disse anche Danny. «Nessun problema. State bene.» 13. Rufo era seduto nel suo ufficio a masticare una pastiglia alla ciliegia contro i gas intestinali, riflettendo sul fatto che era ora di rinunciare ai broccoli crudi. Solo perché qualcosa faceva bene alla salute, non significava che fosse anche buona. O che il corpo reagisse nella maniera giusta. «Allora», disse quando entrarono Joe e Danny. «Cosa è saltato fuori da Brooklyn Heights?» «Si chiama Blake», disse Danny. «Rencher ha passato al setaccio gli archivi e risulta pulito. Vive in una bella casa. Mai stato nei guai, paga le tasse. Aspetto lussuoso...» «Sì, ma hai visto quelle borse da discount nel corridoio accanto alla bicicletta?» lo interruppe Joe. «Forse non gli piace troppo spendere soldi.» «In ogni modo è uno ricco, che alla fine si è accorto che la merda poteva piovere addosso anche a lui. Non fraintendermi, mi dispiace per quanto gli è successo, anzi ha un che di tragico addosso.»
«Gay, etero?» chiese Rufo. «Etero.» «Cosa gli fa pensare di essere stato vittima del nostro ricercato?» «È stato lui ad aprirgli la porta di casa», spiegò Joe, «poi è stato sbattuto con la testa contro un angolo di marmo, il tizio aveva una pistola...» «Però», intervenne Danny, «con lui non è stato usato il trucco del portafoglio, il tizio si è presentato come un agente immobiliare.» «Già», ribatté Joe, «ma non è come in tv. Nessuno usa gli stessi metodi ogni volta. Nessuno fa mai ogni volta le stesse cose.» Danny annuì. «Credo che l'unica cosa che gli importi sia maciullare il volto delle vittime e poi finirle con una ventidue», disse Joe. «Queste due cose non sono mai cambiate in nessun omicidio. Non gli interessa come penetrare nelle abitazioni. Sceglie un modo, ma se una volta non riesce ad attuarlo, passa a un altro.» «Forse l'unica cosa di cui gli importa è maciullare i volti», disse Rufo. «Il colpo di pistola serve solo ad assicurarsi che non lo identificheranno mai.» «Gesù, il volto di Blake era qualcosa di diverso...» disse Danny. «Insomma, dovevo pompierare.» Rufo lo guardò. «Cosa dovevi?» Fu Joe a rispondere. «Pompierare. Succede quando Danny vorrebbe manifestare una serie di reazioni che però non sono adatte alla situazione. Se le immagina come degli incendi che deve spegnere...» Danny annuì. «Al primo impatto avrei voluto esclamare: 'Porca puttana!' Poi mi è venuto da vomitare. Poi ho provato l'impulso di stendere la mano e tastare quella pelle schifosa. Poi volevo tirare fuori il cellulare e scattargli una foto. Perciò tutte le mie energie erano concentrate nel frenare questi impulsi. Pompierare.» Rufo scosse la testa. «Hai anche una di quelle bocchette antincendio, Markey, così possiamo darti gli psicofarmaci più rapidamente? Sei proprio fuori di testa, e dico sul serio. Mi piacerebbe vedere la sua faccia quando dentro di te ha luogo tutto questo pompieraggio del cazzo.» «Non si preoccupi, capo», disse Joe. «È riuscito ad assumere un aspetto all'apparenza normale.» «A volte alzo un sopracciglio o mi tocco il mento.» Rufo scosse la testa. «Trascorro il mio tempo a scuotere la testa a causa tua, Markey. È un impulso che non riesco a controllare.»
«Credo di poterla aiutare io.» «Fuori, fuori dal mio ufficio», disse Rufo, sorridendo. Victor Nicotero era seduto al tavolo in cucina con una birra, un taccuino e una penna d'argento. Joe entrò senza annunciarsi. «Ottimo sistema di sicurezza», disse. «Patti», disse il vecchio Nic, scuotendo la testa. «Quella donna è una forza della natura. Chiudere le porte, spegnere le luci, tutte cose di cui non si preoccupa.» Joe rise. «La porta era spalancata.» «Il tuo serial killer poteva macellarmi a morte.» «Credo che preferisca la città.» «Usciamo sul portico. Qui ho finito.» «Scrivi le tue memorie a mano?» «A mano. Le sto scrivendo, questo è l'importante. A mano o no, conta poco.» Joe prese una birra dal frigo e si sedette accanto a lui. «Vuoi trasferirti da me?» gli chiese Nic. «A vivere con un vecchio orso come te? Preferisco continuare a rischiare con un adolescente inquieto.» «Facile da dire quando compresa nel prezzo c'è una bella francese. Come vanno le cose? Hai seguito il mio consiglio?» «Si capisce. Le cose andavano meglio. Poi, ieri sera, è fuggita mentre eravamo a cena fuori.» «Ormoni. La fanno uscire di testa. Ogni cazzo di...» Dietro di loro fu sbattuta la porta della cucina e pesanti passi si diressero verso la porta scorrevole. Joe e Nic videro Bobby sporgersi, con in mano un mazzo di fiori a buon mercato. Si accigliò, poi guardò nel giardino. «C'è la mamma?» chiese, salutando appena Joe con un cenno del capo. «È al supermercato. Vuoi una birra?» «Ah no, grazie. La mamma voleva che le aggiustassi la porta della camera da letto, perché ha un problema...» «Ci ho già pensato io. Siediti, è una bella serata.» «Ci hai già pensato tu? Quando?» «Oggi pomeriggio. Sono settimane che mi angustia con questa storia.» «Già, ed è per quello che sono qui.» «Eri con lei nel fine settimana, perché non ci hai pensato allora?» «Di che parli? Sei tu quello che dovrebbe...» Bobby si interruppe e lan-
ciò un'occhiata a Joe, che aveva preso una rivista dal tavolino. «Hai mangiato?» gli chiese Nic. «No», risposero Bobby e Joe allo stesso tempo. «Scusa», disse Joe, «pensavo intendessi me.» «Intendevo tutti e due.» «È tardi, me ne vado», disse Joe. «Rimani dove sei», disse Bobby. «Vado a vedere i ragazzi, già che sono in giro. Questi sono per la mamma», disse indicando i fiori. «Li lascio accanto al lavello.» «Ok», disse Nic, «riguardati.» Sospirò e si rivolse a Joe, che però sedeva in silenzio, fissando il vuoto e pensando a Shaun. Il mattino seguente Joe arrivò presto in ufficio, per riuscire a lasciare il suo abito al servizio lavanderia, che passava tre volte a settimana. Gli piaceva avere due completi nell'armadietto, e ne aveva soltanto uno. Stava tornando alla scrivania, quando gli squillò il telefono. «Joe, sono Giulio.» «Ciao, tutto a posto?» «Sì. Ho visto il tuo nome sui giornali l'altro giorno.» «Davvero?» «Sì. È una vergogna.» «Una vergogna?» «Tutta quella attenzione.» «Quale attenzione?» «Non possono lasciarti fuori?» «Chi?» «I media.» «Papà, non ho parlato neppure con un giornalista. Fanno il loro lavoro. Sono coinvolto in alcuni casi che richiamano l'attenzione pubblica e mi citano. Non è colpa mia.» «Ciò che voglio dire è che sei di nuovo sotto i riflettori, la gente rivanga quello che è successo a te, Anna e Shaun. Ogni volta che ti metti in mostra devi pensare alle conseguenze per la tua famiglia.» «Ci risiamo. Io non mi metto in mostra per il gusto di farlo. Dirigo delle indagini. Non è che siccome c'erano degli omicidi e un po' di attenzione dei media, io ho detto, ehi mi iscrivo subito, lasciatemi un posto.» «Dico solo che...» «Lo so ciò che dici, ma parti dai presupposti sbagliati. Non puoi control-
lare il mondo intero, ok?» «Sono... preoccupato.» «Bene, ottimo. Ascolta, devo andare.» Joe riattaccò il telefono e andò alla macchina del caffè. Puzzava di latte acido e caffè bruciato. C'erano segni di fondo di bicchiere sul ripiano e polvere di caffè sparsa sul pavimento. «Tutti subito a pulire», urlò. «Fatela finita di lasciare tutto a Ruthie, che poi scoppia perché ha troppo da fare. Questo non è compito suo, è già abbastanza impegnata a svolgere tutti i lavori del cazzo che le fate fare, pelandroni maiali!» «Grazie, Joe!» gli urlò Ruthie dal banco del ricevimento. «Scusa mamma», urlò Martinez. Joe prese un tovagliolo di carta e iniziò a pulire le superfici. Si chinò a raccogliere una palla di carta che aveva mancato il cestino. Si trattava di una stampa isolata del suo programma Pages. Distese il foglio. Qualcuno aveva scritto in cima con un pennarello rosso Auguri per le feste e disegnato cappelli da Babbo Natale su tutte le vittime. Sotto la foto di Gary Ortis c'era scritto: Auguri dalla famiglia Ortis. Quest'anno Gary è stato ammazzato! Il suo corpo martoriato è stato trovato nel corridoio! Lo hanno torturato per ore! E il suo assassino è ancora libero! Buooone feste! Joe si guardò in giro per la stanza, per osservare le persone che per prime erano arrivate a lavorare a questo caso: Denis Cullen, un uomo che preferiva passare tutto il giorno a fissare cifre e percentuali in modo da risparmiare le forze per andare a trovare la figlia malata; Tom Blazkow, tosto e diritto; Aldos Martinez, volonteroso, ma di scarse capacità; Roger Pace, niente più che l'ombra lunga di Bobby Nicotero; Fred Rencher, bravo ragazzo, ma non eccessivamente acuto. E infine Bobby Nicotero, con la sua calligrafia femminile. «Cristo santo, Lucchesi, è quel tuo telefono del cazzo che suona», gli urlò Martinez dall'altro capo della stanza. Joe gettò il foglio nel cestino e andò a rispondere. «Ispettore Lucchesi? Preston Blake.» Joe non sapeva dire se il sibilo era nella linea o nella voce dell'uomo. «Oh, salve...» «Brutto pezzo di merda.» «Signor Blake?» disse Joe cadendo a sedere. «Maledetto figlio di puttana.» Singhiozzava. Joe si guardò in giro, ma non riuscì a trovare nessuno con cui stabilire
un contatto visivo. Sulla scrivania davanti a lui vibrava il suo cellulare. Era Danny. «Signor Blake, può rimanere un momento in linea?» disse Joe e premette il pulsante senza attendere la risposta. «Joe? Sono Danny. Sto arrivando. Hai visto la copertina del Post? Non prendere chiamate da Preston Blake finché non l'hai letta.» «Che diavolo succede? E poi arrivi troppo tardi: ce l'ho sull'altra linea.» «Oh-oh. Vai alla scrivania di Martinez, lui ne ha una copia. Blake è apparso sulla stampa come colui che è sfuggito. Come diavolo è potuto succedere?» «Che ne so io?» disse Joe, avviandosi verso la scrivania di Martinez a prendere il giornale. «Cazzo! Eravamo gli unici a saperlo. Pochissime persone erano a conoscenza della nostra visita a Blake. Rencher, Martinez e Rufo.» «Pensi di poter riagganciare, dando la colpa alla linea telefonica?» «Mi piacerebbe.» «O dirgli che hai sentito il rumore di qualcuno alla sua porta d'ingresso.» Joe rise. «Mi assumerò le mie responsabilità...» «... e lo passerai a Rufo?» «Qualcosa del genere. Devo andare.» «Chiamami dopo.» Joe riprese il ricevitore. «Le mie scuse, signor Blake. Può darmi il tempo di leggere l'articolo prima di parlare con lei?» «Le risparmio la fatica. 'Preston Blake, qui visibile in tempi migliori' inserto con foto sorridente - 'prima di divenire la presunta vittima dell'Ospite, l'unico abbastanza fortunato da sopravvivere al suo orrendo attacco'. E poi: 'Preston Blake ha vissuto come un recluso nella sua lussuosa casa di Brooklyn Heights, dove si dice abbia subito l'aggressione sei mesi fa. Il signor Blake si è rifiutato di rilasciare commenti sull'ultima vittima dell'Ospite, Ethan Lowry, scoperto il 7 settembre'. Non é finita: 'Mentre rimane incerto quanto a lungo sia rimasto nelle tremende grinfie dell'Ospite o quanto gravi siano le ferite riportate, il signor Blake ha ricevuto la visita dell'ispettore Joe Lucchesi, della Omicidi di Manhattan Nord, nell'ambito delle indagini che costui conduce. L'ispettore Lucchesi sale agli onori della cronaca...' e poi segue un riassunto delle sue sofferenze e travagli. Ha la mia comprensione a riguardo, insieme a sua moglie e a suo figlio, ma per il resto sono infuriato. Sono stato tradito e messo alla gogna.» «Mi dispiace, signor Blake, veramente, e le posso assicurare che non ho
niente a che fare con questa rivelazione. Ho rispettato i suoi voleri alla lettera. Vuole che assegni qualcuno di sorveglianza alla casa? Si sentirebbe più al sicuro?» «No. L'ho invitata in casa mia, ispettore. Sa quante persone ci sono entrate dopo l'aggressione?» Fece una pausa. «Non ricevo ospiti. Trascorro interi mesi felicemente recluso, se così si può dire, poi arriva lei e il gioco è finito. Ha visto? Faccio notizia. Che ironia penserà la gente, nel modo in cui la gente stupida non comprende il significato della parola ironia...» «Non so cosa sia successo, ma le assicuro che niente è trapelato da parte mia o di qualcun altro coinvolto nell'indagine.» «Non la bevo. Perché di sicuro non è trapelato da me. Non sarebbe dovuto succedere. Riesce a capire come mi sento profanato? Profanazione dopo profanazione. È questo ciò che mi merito dalla vita, ispettore? Devo rimanere seduto qui ad accettare il destino?» «No. Tutto questo passerà. La stampa è più interessata all'assassino. Poiché questa settimana non hanno una vittima nuova di zecca, si sono gettati sulla sua storia. Non so come lo abbiano saputo, ma in ogni caso passeranno oltre.» «Esattamente come me, ispettore. Io non ho più nulla da dire. L'unica cosa che può fare è leggere e rileggere quanto le ho detto il giorno in cui sono stato così stupido da farla entrare in casa mia. E spero che possa trovarvi qualcosa di utile, perché la mia collaborazione finisce qui.» «Impossibile.» «Possibilissimo.» «Ma lei è l'unico ad aver visto...» «Le ho detto tutto ciò che sapevo. E poi, francamente, non riesco a immaginarmi seduto in tribunale che punto il dito sull'Ospite. Perché non riesco a immaginare che riusciate a catturarlo; se non lo avete preso fino a ora, ispettore, non lo prenderete mai.» «Non sono d'accordo, signor Blake; i miei colleghi e io ce la faremo.» «Lei e i suoi colleghi fate acqua, ispettore. E una nave che fa acqua prima o poi affonda.» Riattaccò. Joe allora abbassò il ricevitore e si diresse nell'ufficio di Rufo. «Entra e chiudi la porta.» «Ha visto il...» «Post? Certo. Che succede?» Joe scosse la testa. «Blake è incazzato nero. Ha chiamato per infamare me e Danny, perché lo abbiamo tradito e svenduto...»
«Che gli hai risposto?» «Ho negato tutto, ovviamente, ma non mi ha voluto ascoltare.» «Conosci il tizio che ha scritto questa roba? Artie Blackwell? Perché non fai qualche chiamata per scoprire da chi ha avuto l'imbeccata?» «Quello stronzo di Artie Blackwell? Non mi ero accorto che ci fosse la sua firma.» Rufo scorse nuovamente la pagina. «Tutta questa storia mi sembra anomala. Ritieni che a Blake piaccia l'attenzione pubblica?» «Non si direbbe, sentendo quanto ha appena detto al telefono. Per quanto ne so, vive come un recluso.» «Urlava che voleva parlare col capo, col sindaco, con Larry King per un programma dal vivo?» «Zero.» «Voleva qualcos'altro? Gli hai detto che possiamo mettere la casa sotto sorveglianza?» «Sì, ma non era interessato.» «Ok, lo chiamerò io per vedere se riesco in qualche modo ad aggirare l'ostacolo.» «Danny e io usciamo per la sorveglianza all'ufficio postale.» «Buona fortuna», disse Rufo, prendendo in mano il telefono. Non c'era mai un giorno feriale tranquillo sulla Ventunesima. Danny e Joe erano parcheggiati sul lato opposto dell'ufficio postale, con l'aria condizionata al massimo, mentre il sole surriscaldava il tetto nero dell'automobile. Osservavano ogni persona che entrava e usciva dall'edificio. Improvvisamente, qualcosa si schiantò contro il finestrino dal lato del guidatore. Quando Joe si voltò per vedere, si trovò davanti il solco peloso di un sedere premuto contro il vetro. «Stronzo! Stronzo fottuto!» Sul vetro anteriore della nuova Chevy Impala atterrò un gigantesco bicchiere di carta, che sparse dovunque frappé alla fragola. «Figlio di puttana», disse Danny. Joe martellò con l'avambraccio sul vetro del finestrino e urlò: «Via dall'auto». Danny uscì dal lato del passeggero. «Che succede?» disse ai due uomini. «Non sono affari tuoi», rispose quello che teneva l'altro inchiodato contro il finestrino di Joe. Era di corporatura più che imponente e il tizio magro che aveva sotto rimaneva schiacciato senza possibilità di liberarsi. «Lo soffocherai se non lo lasci andare», disse Danny, «e in ogni caso il mio amico, tra poco esce dalla parte del passeggero e viene ad ammazzar-
vi. Ora, via dall'auto.» Il tizio massiccio tirò via l'altro dallo sportello e Joe uscì. «Cosa succede? Perché sono dovuto entrare in contatto ravvicinato con il tuo culo foruncoloso?» Il tizio magro si guardò dietro e si tirò su i jeans. «Io... io...» balbettò, rendendosi gradualmente conto di avere a che fare con due poliziotti. «Non ce ne importa», disse Danny. «Basta che tu non fai del male al tuo amico qui e potete andarvene. Basta che vi allontaniate dalla nostra auto.» «Certo», disse il grosso. Il magro aveva una borsa della spesa di Gristedes poggiata a terra. La raccolse, ne estrasse una bottiglia da un litro di Poland Springs e la porse a Joe. «Per l'auto», disse indicando il frappé sul vetro. «Grazie», disse Joe, rivolgendo uno sguardo a Danny. «Questo è quel che si chiama buon vicinato», commentò lui. Joe versò l'acqua sul tettuccio e lo pulì alla meglio, poi lui e Danny risalirono in auto. Sul finestrino, dal lato del guidatore, c'era una striscia di grasso che Joe si sforzò a ignorare. Azionò i tergicristalli e un misto acquoso di frappé e sapone oscurò per un po' la visuale, schiarendosi pian piano. Danny si spostò in avanti e indicò una persona. «Guarda un po' quello.» L'uomo che si dirigeva all'ufficio postale era sul metro e ottanta, aveva circa quarantacinque anni, indossava pantaloni Carhartt da lavoro ma puliti, scarponi neri, camicia di cotone aperta sul davanti e maniche arrotolate. Guardarono le foto stampate dal nastro. «È il nostro uomo», disse Joe. «Andiamo.» Saltarono giù dalla macchina e corsero verso di lui. «Polizia», urlò Joe, mostrando il tesserino. L'uomo non si mosse e rimase impietrito con la lettera in mano. Joe gli prese i polsi, girandoli dietro la schiena e ammanettandoli. «Ci dica il suo nome.» «Stanley Frayte! Mi chiamo Stanley Frayte! Perché? Che cosa ho fatto?» 14. Danny spinse Stanley Frayte sui sedili posteriori della macchina e Joe guidò in silenzio lungo il mezzo miglio dall'ufficio postale al Centoquat-
tordicesimo distretto sull'Astoria Boulevard. Lasciarono Stan da solo nella stanza degli interrogatori e attesero fuori. Joe si infilò dei guanti e aprì la busta. Stavolta dentro c'era un tovagliolo di carta, macchiato di ketchup e mostarda, sul quale era scritto il testo. Lo fotocopiò e lo pose in una busta di plastica. «Gesù, questa è diversa», disse Joe. «Ha un tono molto ansioso. Ascoltate qui: Oh Dio. Ora può trovarmi. Se è un gioco, non lo capisco. La mia vita è qui. Mi pervade il terrore. Per favore, per favore. La situazione non può cambiare. Guarda più da vicino. Pensavo che lo avresti trovato. La situazione non può cambiare. Non so se stai giocando. È tutto sbagliato. Non voglio che cambi. Fai più domande. Non posso lasciare che lo portino via. C'è qualcosa di sbagliato. Ma non troppo. Anche tu non puoi trovarmi. La mise giù. «Beh, ora credo proprio che ti abbiamo trovato, brutto figlio di puttana.» «Rapido e indolore», disse Danny. «E davvero scritto in modo illeggibile. Addirittura più dell'altra volta. Proprio tirato via.» «Su un tovagliolo non si può certo scrivere un trattato.» «Comunque sono stronzate.» «Sentiamo cosa ha da dirci il signor Frayte.» Quando rientrarono, Stan si era addormentato. Danny e Joe si scambiarono un'occhiata: quelli che dormivano quando venivano arrestati in genere erano colpevoli. Un innocente passava il tempo a torturarsi sul perché lo avevano portato dentro; nel colpevole c'era come una specie di sollievo nel sapere che la menzogna era finita, il gioco era terminato e c'era la possibilità di rilassarsi e schiacciare un sonnellino. «Signor Frayte», disse Danny, scuotendolo per una spalla. «Signor Frayte.» Lo scosse ancora più forte. Stan si svegliò contrariato, cercando poi di calmarsi quando vide dove si trovava. «Scusate», disse stropicciandosi gli occhi. «Sa perché è qui?» gli chiese Joe. Stan alzò le spalle. «No.» «Perché allora non riflette su cosa stava facendo quando l'abbiamo prelevata?» chiese Danny. Stan non rispose subito. «Imbucavo una lettera.» «Sono contento che ne sembri così contento», osservò Danny. «Certo. Era una lettera di Mary.»
«Chi è Mary?» «Mary Burig.» «Chi è questa Mary Burig?» «Per favore, possiamo abbassare un po' il tono di questa conversazione? Mi rende ansioso.» Danny guardò Joe. «Non ho fatto nulla di male», disse Stan, muovendosi sulla sedia e assumendo una posizione più rigida. «Ci parli di Mary», disse Joe. «Mary è una paziente. Ecco, non proprio una paziente, una 'cliente' della Colt-Embry Homes, a un paio di isolati da qui. Fa parte della clinica di riabilitazione.» «Cioè?» disse Danny. «Cioè cosa?» «Paziente/cliente - che significa?» «Suppongo che Mary, così come gli altri clienti dell'edificio, sia lì perché ha subito una lesione cerebrale.» «Tutti coloro che abitano in quegli appartamenti hanno una lesione cerebrale?» chiese Joe. «Sì. Vanno lì dopo la riabilitazione e prima di tornare a casa. Per essere aiutati, come dire, a reinserirsi nella società.» Danny cercò lo sguardo di Joe e lentamente scosse la testa. «Quindi ci sta dicendo che questa Mary ha il cervello lesionato», disse Danny. Stan serrò la mascella. «No, non dico questo.» Fece una pausa. «Anzi, detesto dirlo.» Alzò le spalle. «Ma credo che voi possiate dire ciò che vi pare.» «Qual è esattamente la sua relazione con Mary?» chiese Joe. «Nessuna. Nel senso che la conosco di vista, è una ragazza simpatica. Io faccio l'elettricista e il factotum nel palazzo dove abita. Tutto qui.» «Perché spedisce lettere per conto suo?» chiese Danny. «Perché mi ha chiesto di farlo. Gesù, non c'è nulla di misterioso, è una brava ragazza, mi ha chiesto un favore, io uscivo per la pausa mattutina e le ho imbucato le lettere. Tutto qui.» «Sa perché le scrivesse?» «Non ne ho idea. Per essere onesti, non ho neppure letto gli indirizzi sulle buste. Non è affar mio.» «Non ha mai letto gli indirizzi», ripeté Joe.
«Come no», disse Danny. «Certo che no. La privacy è molto importante in quel luogo. I clienti devono sentirsi rispettati e non vorrei mai urtare la suscettibilità di qualcuno. Sentite, adesso vi ho detto tutto. Posso andare?» «No», disse Joe. «Lei è un elettricista, giusto?» chiese Danny. «Sì.» «Perciò ha le chiavi di molte case, di molti appartamenti.» «Che vuol dire con questo?» «Le ha o non le ha?» «Certo. Come molti altri. Molte persone hanno molte chiavi.» «Capirà bene però», disse Joe, «che non molte di loro impostano lettere all'investigatore sul caso di un serial killer.» «Serial killer? Oh no! Non starete indagando sul quell'Ospite, vero? E pensate... Oh mio Dio. Assolutamente no, assolutamente no. Perché Mary vi scrive?» «È quello che piacerebbe sapere anche a noi. Se Mary è davvero la persona che scrive quelle lettere, perché? E perché lei le spedisce, sostenendo di non leggere neppure l'indirizzo o il nome del destinatario?» «Non sapevo di che si trattava!» protestò Stan. «Se avessi sospettato qualcosa di poco chiaro non sarei venuto in pieno giorno all'ufficio postale di Astoria, senza guanti o altro. Mi dispiace sinceramente che ciò vi abbia causato dei problemi, ma non lo sapevo. Per favore, parlate con Mary, lei chiarirà ogni cosa.» «Mi sembra giusto», disse Joe a Danny. Stan si alzò per andarsene. Danny scoppiò a ridere. «Amico, ho paura che dovrà rimanere seduto qui un altro po', mentre io e il mio collega facciamo una visita a questo Colt-Emory.» «Embry», lo corresse Stan. «Embry. Dovrete parlare con Julia Embry, è il capo.» Scosse tristemente il capo. «Sono brave persone.» Nel 1992 Madeline Colt e Julia Embry arrivarono insieme al Mount Sinai Hospital nel Queens per guardare i loro figli dipingere. Ciascuna, separatamente, si era rifugiata a piangere nel corridoio. «Mio figlio era appassionato di escursioni», disse Madeline. «Robin ci faceva ridere così tanto», disse Julia. Entrambe avevano di nuovo diretto lo sguardo verso i loro figli, intenti a dipingere con l'aiuto di
un'infermiera. Poi si guardarono fra loro e sorrisero. «Però sono qui», disse Julia. «È vero. Siamo fortunate.» Dopo dieci anni di raccolta fondi, fra la Diciannovesima e la Ventunesima, nel quartiere di Astoria, fu creata la Colt-Embry Rehabilitation Clinic, per aiutare i pazienti con lesioni cerebrali traumatiche. Confinate nell'angolo nordorientale si trovavano le Colt-Embry Homes, un piccolo blocco di venti appartamenti riservati agli ex pazienti. Julia Embry sedeva alla sua scrivania, premendosi cautamente un kleenex sotto gli occhi, per catturare le lacrime prima che si sciogliesse il mascara. Fra le mani aveva una foto di Robin, scattata alla festa per il suo ottavo compleanno. Il bambino indossava un enorme cappello da pirata nero, una camicia bianca e un fazzoletto rosso annodato al collo. La benda per l'occhio era accanto al piatto e al bicchiere di aranciata. Aveva il mento così proteso in avanti e un sorriso così largo che non sembrava neppure lui. Ma ciò che Julia amava di quella foto era il suo aspetto felice, gli occhi luminosi, il modo in cui quel biondino riusciva a ingentilire l'immagine di un pirata. L'ultima volta che aveva ricevuto la visita di due poliziotti era stato quando le avevano comunicato l'incidente di Robin. Aveva diciassette anni quando l'auto che guidava fu travolta da un pirata della strada alla guida di un'altra vettura. Robin fu trasportato d'urgenza in ospedale, dove riuscirono a curargli le ferite, ma le lesioni cerebrali erano così gravi che dopo un anno morì. L'altro guidatore non fu mai rintracciato. Bussarono alla porta. «Avanti», disse Julia, rimettendo la foto sulla scrivania e alzandosi. «Sono davvero spiacente per quanto è accaduto, ispettori. Prego, accomodatevi.» Joe e Danny si presentarono e si sedettero. «Innanzi tutto», esordì Julia, «vorrei per quanto possibile garantire per Stan Frayte. Lavora con me da molti anni ed è il migliore, davvero. Con Mary cercava di fare la cosa giusta, però non poteva sapere tutto di tutti. Sono dieci anni che è qui con me alla clinica, ma lavora da poche settimane al blocco di appartamenti, quindi...» Sorrise. «Povero Stan.» «Vorremmo parlare con lei di Mary Burig», disse Joe. «Bene. Cosa volete sapere?» «Cominciamo da come è arrivata qui.» «Mary fu trovata l'anno scorso che vagava per la strada, a tre isolati di
distanza dal suo appartamento. Quando fu portata in ospedale i medici le diagnosticarono una Lesione Cerebrale Traumatica. Non ricordava niente di ciò che le era successo.» «Perciò Mary non ha mai parlato del suo incidente.» Julia scosse la testa in segno di diniego. «No. Non riesce a ricordarlo. Non è insolito, si tratta di una specie di meccanismo di difesa cerebrale.» «Può descriverci la sua situazione o... condizione?» «Prima di tutto, Mary è una persona... che ha sofferto di una Lct.» «Capisco.» «Non che soffra di una lesione adesso.» Joe annuì. «Perciò la Mary di prima, quella che noi chiamiamo prepatologica, esiste ancora, ma ha acquisito una nuova gamma di comportamenti. Qui ogni programma è individuale. Questo è quello di Mary.» Ne porse una copia a ognuno di loro. Joe sfogliò le dodici pagine sul trattamento di Mary e i dettagli di come era possibile aiutarla. Si fermò all'aspetto psichiatrico. Menomazione: lesione cerebrale. Funzione: regolarità emozionale. Partecipazione: inabilità a regolare emozioni/pensieri. Joe alzò lo sguardo. «Diciamo che Mary può dare un senso a queste lettere...» «Forse no. Può anche non ricordarsi per niente di averle scritte.» «Ok, ma ammettiamo di sì. Possiamo credere a ciò che dice?» «Direi di sì. Certo. Se riuscite a decifrarle.» Danny alzò gli occhi dal taccuino. «Come crede che possa esserle stata causata la lesione?» «Le sue cartelle cliniche sono riservate, come spero comprenderete. A meno che Mary o il suo tutore vi diano il permesso di accedervi.» «Chi è il suo tutore?» «Il fratello maggiore, David Burig.» «Se potesse fornirci i suoi dati, le saremmo grati. Ci sarebbero davvero utili», disse Joe. «Certo. Mary è fortunata ad avere David. In genere non ci sono molti aiuti per persone con una Lct. Luoghi come il Colt-Embry non sono comuni. Quasi sempre le persone passano dall'ospedale alla riabilitazione, dopo di vengono lasciate a se stesse e tornano a casa, dove ci si aspetta che facciano ciò che facevano prima. È una cosa folle. Inoltre molti non possono permettersi dei luoghi come questo: se non hanno una famiglia ricca alle spalle non possono avere un'assicurazione adeguata. Riesce a immagi-
narlo? Riuscire a vivere normalmente? È folle. E poiché molte persone fisicamente hanno lo stesso aspetto di prima, la gente si aspetta che agiscano 'normalmente', e se non lo fanno gli altri non riescono ad accettarlo: è difficilissimo per chiunque adattarsi a queste situazioni.» «In che modo la lesione di Mary influenza, diciamo, il suo comportamento quotidiano?» «Mary ha subito una lesione del lobo temporale destro. Il lobo temporale riguarda la memoria, la stabilità emozionale, l'interpretazione dei codici sociali, tutte parti fondamentali della vita quotidiana. Chi abbia subito una lesione al lobo temporale destro, come Mary, trova difficile capire se la persona che ha di fronte è arrabbiata, triste e via dicendo. Ci sono anche particolarità nel tono di voce, per esempio parla sempre con tonalità piatte e uniformi e non sarebbe in grado di riconoscere, mettiamo, il sarcasmo. Non si trova neppure a suo agio con l'umorismo. Tutti i tratti non verbali, facce, musica, forme creano problemi. La memoria a lungo termine di Mary è in gran parte intatta, mentre ha difficoltà in quella a breve termine; per esempio può ricordarsi di qualcuno che è venuto a trovarla stamattina, ma non il motivo della visita.» «Che mi dice di tutta la sua scrittura?» «È causata da un'epilessia del lobo temporale, che può essere associata con l'ipergrafia. In pratica è come se fosse obbligata a scrivere, non può farne a meno. La lunghezza di ciò che scrive, così come la sua qualità, può variare. Dostojevskij era un ipergrafico, così come Poe. E Lewis Carrol, l'autore di Alice nel paese delle meraviglie, ebbe l'ispirazione da ciò che gli accadde durante l'aura di un attacco epilettico, quando le cose sembrano diventare più grandi o più piccole. Se entrate nella sua stanza, troverete dovunque i suoi scritti. Le piace la carta elegante e ne troverete intere risme, ma ha scritto anche su carta igienica, sul retro delle ricette, sulle scatole di cereali, una volta perfino sul muro.» Ripensandoci Julia sorrise. «Lei legge ciò che Mary scrive?» «No. Solo perché ha una lesione cerebrale non significa che possiamo intrometterci e invadere la sua privacy a piacimento. Ha un appartamento, è il suo spazio e ciò che fa là dentro sono solo affari suoi. Ovviamente, entro certi limiti: dobbiamo mantenere delle forme di vigilanza.» «Perché pensa che ci stia scrivendo?» «Non lo so. Potete chiederlo a lei. Le ho detto che sareste arrivati e ne è rimasta decisamente impressionata, giusto perché lo sappiate. È stata un po' al mare, perché il suo Sst era assente.»
«Sst?» «Scusate, significa Staff di Supporto Terapeutico. Si chiama Magda Oleszak ed era in vacanza, sostituita da qualcun altro. La cosa mette sempre Mary in agitazione.» «Ok, lo terremo a mente. Tornando al perché Mary si sia messa in contatto con noi...» «Giusto. Può darsi che vi abbia visto al telegiornale o sui quotidiani. Succede che una persona come Mary possa sentirsi responsabile per ogni male del mondo. Lei e io possiamo guardare un servizio su un omicidio o un disastro naturale e sentirci dispiaciuti per le vittime e le loro famiglie, mentre Mary può provare un autentico senso di colpa e il desiderio di fare qualcosa per rimediare. Anche l'elemento religioso ha la sua parte in tutto ciò e la induce a voler aiutare gli altri. Chi presenta lesioni cerebrali può essere molto egocentrico e Mary non fa differenza ma, a modo suo, è anche molto preoccupata del benessere delle altre persone. È molto gentile con tutti gli altri clienti che si trovano qui.» «Prende dei farmaci?» «Come al solito, sono vincolata a ciò che mi è permesso di rivelarvi.» Sospirò. «Però voglio esservi d'aiuto. Fatemi controllare il fascicolo.» Sfogliò le pagine. «Quando è arrivata qui, Mary prendeva 300 mg di Dilantin, un farmaco antiepilettico, che però non le faceva effetto. I medici passarono allora a 500 mg di Sodio Valproato tre volte al giorno, che però le faceva perdere i capelli. Quando iniziò ad avere macchie di alopecia, la cosa la sconvolse, perciò cessò l'assunzione di ogni tipo di farmaco. E cominciò a stare bene. Fino a tre mesi fa, quando ebbe di nuovo un attacco.» «Abbiamo ricevuto la prima lettera un mese fa.» «Sì, e da allora ha avuto altri attacchi.» Bussarono alla porta. «Questa dev'essere Mary», disse Julia. «Avanti.» Mary Burig sgusciò dentro socchiudendo appena la porta, che richiuse dietro di sé. Indossava un cardigan rosa pallido troppo grande per lei, una camicetta di seta blu, jeans e infradito. Teneva la testa china in avanti e i capelli, neri e luminosi con la riga al centro, le coprivano il volto. «Ciao Mary», la salutò Julia. «Entra. Siediti.» Mary sollevò lentamente la testa e guardò per prima Danny. Qualcosa dentro di lui si mise in moto. «Salve, Mary. Sono l'ispettore Joe Lucchesi.» «Oh, salve», rispose lei, porgendogli la mano.
«Ispettore Danny Markey», disse Danny, alzandosi a metà. «Salve.» «Siediti Mary», disse Julia. «Poco fa abbiamo conosciuto Stanley Frayte», disse Joe. «Ci ha detto che impostava delle lettere per lei. Sono sue queste?» «Sì», disse Mary, poi corrugò la fronte. «Quante ne avete?» «Tre.» «Ma io ne ho scritte quindici.» «Quindici», ripeté Danny. «È un bel po' di lavoro.» Mary sorrise. «Posso vedere quella che avete lì?» Prese la busta di plastica che conteneva il tovagliolo e iniziò lentamente a leggere, la testa china, i capelli che cadevano a coprirle le guance. Cambiò posizione sulla sedia, portando i piedi al di sotto e incrociando le gambe all'altezza delle caviglie. Trascorsero parecchi minuti. Joe guardò Julia Embry che alzò impercettibilmente le spalle. Lui rispose con un sorriso e rimase in attesa. Sul telefono di Julia lampeggiavano delle luci, ma l'attenzione di lei rimaneva fissa su Mary, il cui volto era ormai completamente coperto dai capelli, finché lei non se li ravviò da un lato, portandoseli dietro l'orecchio, e tutti poterono vedere le lacrime che le scorrevano sul volto. Quando alzò nuovamente lo sguardo, prima su Julia e poi su Joe, i suoi occhi chiari, che prima erano sembrati così limpidi e splendenti, furono oscurati dalla paura e dalla confusione. «Mary, questa lettera significa qualcosa per lei?» chiese Joe. «No. Mi dispiace.» 15. Qualcuno aveva portato a Stanley Frayte una Coca e una tavoletta di cioccolato. La lattina era stata completamente schiacciata e attraverso l'apertura era stata infilata a forza la carta del cioccolato appallottolata. Quando Joe e Danny entrarono, lui sobbalzò. «Ok, Stanley, abbiamo parlato con Mary», disse Joe, «che ha confermato quanto ci aveva detto lei. Perciò per ora abbiamo finito. Può andare a casa.» «Grazie.» «Se vuole possiamo darle un passaggio.» «Sul serio?» «Nessun problema. Verso Tuckahoe?»
«No, ho il furgone alla clinica.» «Bene.» A chi aveva trascorso delle ore a cuocere a fuoco lento nella stanza degli interrogatori, Joe chiedeva quasi sempre se voleva essere riaccompagnato a casa. Il passaggio veniva utilizzato come una specie di test: una risposta negativa poteva far supporre che il sospettato avesse qualcosa da nascondere. In realtà, questa interpretazione non era attendibile perché, nella maggior parte dei casi, colpevole o innocente, la persona non vedeva l'ora di liberarsi della polizia. Sembrò che Stan rientrasse nel primo caso. Quando arrivarono all'auto, guardò incuriosito i residui di frappé sul tettuccio. «Niente domande», disse Joe, gettando le chiavi a Danny. Entrarono e fecero il breve percorso fino alla Ventunesima. Joe si voltò per parlare con Stan. «Da quanto tempo fa l'elettricista?» «Otto anni.» «Davvero? Le piace?» «Sì, molto.» «Prima cosa faceva?» «Il camionista.» «Anche mio padre. Qual era il suo percorso?» «In genere andavo a Riker's Island.» «Si capisce. Quale compagnia?» «Barbizan Trucking.» «Ha smesso per i continui giochi di parole, perché Frayte si pronuncia come freight, trasporto?» Stan sorrise. «Qualcosa del genere.» Si fermarono davanti alla clinica. «Eccoci. Questo è il mio biglietto da visita. Se le viene in mente qualcosa o se ha bisogno, mi chiami.» «Certo. Grazie per il passaggio.» Stan andò verso il suo furgone. Nello specchietto retrovisore Joe vide che Julia Embry, alla porta d'ingresso, faceva segno a Stan di andare da lei. «E così tuo padre sarebbe un camionista», disse Danny, svoltando a destra all'uscita dalla clinica. «Quanti lavori hai affibbiato a Giulio nel corso degli anni?» «È solo in queste occasioni che riesco a vederlo come un tipo normale.» «Sei proprio crudele con lui.»
«Allora, che ne facciamo di Miss Mary?» «Quegli occhi.» «Occhi di chi?» «Di Mary. Sono come quelli di quei cani, come si chiamano, quelli che sembrano lupi.» «Husky.» «Ecco.» «Calmati ragazzo.» «Parlo solo dei suoi occhi. Devi pur ammettere che sono fuori del comune.» «È vero.» «Anche se non è che il resto...» «Ti sbagli, Danny. Quella ragazza ha l'aspetto di una che può rompersi solo a guardarla e l'unica cosa che non permetterò... è che si avvicini a te, anche solo per sbaglio.» David Burig era seduto su una panchetta di legno nel giardino di ColtEmbry, con accanto Mary, che lo guardava con occhi rossi e stanchi, le gambe raccolte sotto di sé. «Mary, Mary, Mary, cosa debbo fare con te?» «Andare al cinema?» David sorrise e la abbracciò. «Mandi lettere ai poliziotti. Ma davvero credevi di poterli aiutare?» Poté sentirla contro il proprio petto che annuiva. «Sei buona», disse accarezzandole i capelli. «Ricordi quel bambino dietro l'angolo che piangeva ogni volta che gli dicevo: Credi che con un gelato le cose andrebbero meglio? e lui rispondeva sì e io allora: bene, quando sei in gelateria ne prendi uno anche a me? La tua faccina mi diceva che ridevi, ma provavi dispiacere per quel povero bambino.» Lei sorrise. «Me lo ricordo. Eri così cattivo.» David la allontanò da sé con dolcezza e la guardò. «Vuoi parlare di queste cose? Non so se preferisci farlo o se la cosa ti disturba.» «Voglio parlarne, perché me ne ricordo. Significano che ho avuto una bella vita e che le persone mi volevano bene. Che ero in grado di fare le cose da sola.» Fissò lo sguardo a terra. «Lo so che non sono più intelligente.» «Dio mio, mi si spezza il cuore.» «Ma è la verità.»
«Guardati. Sei così carina e sembri...» David perse il filo del discorso. «Mi facevi ridere così tanto, Mare.» «Ma ora non più.» «Non lo dire. Mi fai ridere, mi tiri su di morale, mi ricordi che il mondo è buono e puro...» Si arrestò, perché talvolta lei gli ricordava che il mondo era un posto terribile. «Guardati la camicia», gli disse lei. «Che cos'ha?» «Trema. Ti batte davvero così forte il cuore?» Con il volto serio allungò una mano per toccarlo. «No», rispose lui, rimettendola rapidamente a posto e sorridendo, «è solo il vento.» Mary lo guardò negli occhi. «Ti sei stancato di venirmi a trovare?» «No, no, no, per favore non venirmi a dire cose di questo genere. Tu e io siamo insieme, lo siamo sempre stati e sempre lo saremo, ok?» «Grazie.» Dopo una pausa aggiunse: «Mi dispiace per le lettere». Joe e Danny erano fermi al lavaggio auto sulla Columbus Avenue quando squillò il telefono di Joe. «Joe? Sono Rencher. Quella storia di Mary Burig? È stata ricoverata al Downtown Hospital nove mesi fa, per gravi ferite alla testa causate da...» fece una pausa «... una calibro ventidue automatica.» Julia Embry era stata chiamata alla reception della clinica principale per l'ora in cui tornarono Joe e Danny. Si piegò sul bancone e disse all'impiegata: «Dica a Magda di venire in caffetteria quando arriva. Grazie.» Si sedettero a un tavolo tranquillo in un angolo e presero il caffè. «Sono sicuro che saprà che ogni sparatoria viene comunicata dal pronto soccorso alla polizia», disse Joe, «perciò quando abbiamo passato al computer il nome di Mary è saltato fuori.» Julia annuì. «Non pensavo che fosse pertinente.» «Non so se ha visto i telegiornali o letto i quotidiani, ma l'Ospite uccide le sue vittime con un'arma simile...» «Oh, mio Dio!» «Sembra proprio che Mary possa essere stata una vittima.» «Ma non erano tutti maschi?» «Fino a ora, sì. Ma sarebbe una coincidenza troppo grande che proprio Mary abbia spedito quelle lettere. Sembra che sia in possesso di informa-
zioni sui delitti e poi salta fuori che ha una ferita simile alle altre vittime.» «Suppongo che dobbiate di nuovo parlare con lei.» «Sì. Come stava quando noi ce ne siamo andati?» «Era giù, frustrata per il fatto di non poter essere d'aiuto. E spaventata. Adesso è tornata nel suo appartamento, ma posso farla venire qui.» «Non vogliamo far niente che la sconvolga», disse Danny. «Pensiamo solo che potrebbe fornirci altre informazioni utili. Se potessimo in qualche modo sollecitare la sua memoria...» «Ok. Prima potete parlare con Magda. Eccola qui. L'ho chiamata prima, quando è successa questa storia con Stanley. Ha detto che doveva assolutamente tornare.» Magda avanzò verso di loro stringendosi allo stomaco un borsone di tela blu. «Buongiorno ispettori. Mi chiamo Magda Oleszak e assisto Mary Burig.» Si sedette di fronte a loro, sistemandosi la borsa in grembo. «Salve», la salutò Joe, «come va?» «Ecco», disse Magda, estraendo dalla borsa e porgendo loro una grossa busta marrone. «Queste sono di Mary.» «Le ha chiesto lei di darcele?» chiese Joe, prendendo la busta. Magda scosse la testa. «No. Talvolta le imposto le lettere, ma ne scrive così tante che non è possibile spedirle tutte. Tipo quella che ha scritto per dare il benvenuto al nuovo papa, o quelle indirizzate a voi. Mary ha visto la conferenza stampa. Molte persone l'hanno vista, ma non per questo spediscono lettere. Al mio ritorno dalla Polonia ho sentito che vi ha detto di avervi scritto quindici lettere. Non è così. Ha problemi di memoria. Però ha scritto queste altre cose che vi do adesso. A volte scrive prima di un attacco, Stan può confermarvelo. Un giorno è arrivato poco dopo che Mary aveva avuto un attacco e il pavimento intorno a lei era cosparso di carte.» Joe aprì la busta e ne schizzò fuori il contenuto: ricette, margini di quotidiani, carta igienica, riviste, biglietti floreali, pagine di rubrica, biglietti di auguri, interni di scatole di cereali. Qualsiasi superficie Mary potesse trovare era coperta di scrittura e poi infilata in una busta. «Per lei è stato motivo di disagio», proseguì Magda. «Mary cerca di dare un senso a ciò che ha scritto e non ci riesce, per lo meno non a tutto. La vedo piangere, cerco di capire come posso farla stare meglio e lo faccio: porto via questi scritti. Per lei. Stan non lo sapeva, perciò le ha imbucato quelle lettere indirizzate a voi. E ora...» Alzò le spalle. «Anche voi non
riuscite a dar loro un senso.» «Ha riletto questa roba?» chiese Joe. «Non le ho lette neppure la prima volta. Ancora non mi piace leggere in inglese.» «A qualcuno dispiace se do io un'occhiata alle lettere?» chiese Julia. Joe gliele porse. «Mmm. Capisco come possano essere difficili da comprendere. Gli schemi di pensiero di Mary sono dissociati, lo si deduce da come scrive. Probabilmente aveva un senso per lei nel momento in cui scriveva, ma l'ordine è sballato.» «Ci sono un sacco di cose là dentro», disse Joe. «Non dimenticate che la memoria a lungo termine di Mary è intatta», disse Julia. «Per lei è molto difficile organizzare i ricordi, perché dal momento dell'aggressione ha difficoltà a formarsi nuove memorie. È consapevole che non è in grado di fare ciò che sapeva fare prima. Vorrei poter essere di maggiore aiuto, ma in definitiva solo voi sapete cosa state cercando. L'unica cosa che posso dire è che proverò a esaminare di nuovo queste carte per vedere se c'è qualcosa che può servire alle indagini. Per me, Mary che parla delle sue lezioni di nuoto all'Astoria Park non ha alcun interesse, ma se voi sapete che l'assassino si fa cinquanta vasche al giorno proprio lì, allora potrebbe essere importante.» «Ho guardato alcuni dei disegni», disse Magda, alzando le spalle. «Sono bizzarri.» Indicò la scatola di cereali. «Qui, per esempio.» Joe rigirò la scatola e vide delle bocche nere arrabbiate che lo fissavano, alcune grandi, altre piccole, tutte spalancate e con denti aguzzi. La passò a Danny. «Le ha parlato di questa cosa?» Magda scosse la testa. «È successo dopo un attacco. L'ho trovata sulla scrivania, ma non posso mostrarla a lei, perché è troppo raccapricciante.» «Grazie per avercele sottoposte», disse Danny. «Forse non significano nulla, ma abbiamo il dovere di esaminare ogni cosa.» «Sì, probabilmente nulla. Ma dato che ora siete qui, potremmo andare da Mary, per vedere se lei può aiutarvi.» «Se non vi dispiace», disse Julia, «io vi lascio. Sono nel bel mezzo della realizzazione di un secondo edificio per la clinica e ho mille cose da fare.» «Prego, come vuole», disse Joe. Mary sedeva su un angolo del letto, le carte aperte davanti a sé. Magda
le stava accanto, e le teneva una mano sul braccio. Joe e Danny erano accanto a Magda. Per quindici minuti rimasero così, senza che nessuno parlasse. Infine Mary alzò lo sguardo. «Qualcosa a che fare con bocche, bocche pericolose. Credo che lui non possa farne a meno.» Indicò sui suoi disegni il punto dove l'inchiostro era così marcato da essere passato attraverso il cartone. La luce nella stanza d'ingresso era accesa quando Joe tornò a casa. Anna si precipitò nell'ingresso non appena lo sentì, pallida in volto. «Che sta succedendo?» gli chiese. «A che ti riferisci? Al caso?» «Ho appena ricevuto una telefonata da Parigi. La polizia è andata a casa dei miei.» Joe rimase immobile. «Cosa?» «Tre poliziotti hanno suonato alla porta. Mia madre era terrorizzata, pensava che avessimo avuto un incidente o fosse successa una disgrazia. I poliziotti le chiedono se è tutto a posto, poi setacciano il giardino e chiedono se possono perquisire anche la casa. Ha settantacinque anni, non sapeva cosa fare. Non credo che abbia neppure chiesto loro di identificarsi...» Joe la interruppe di scatto: «Avevo raccomandato ai tuoi di chiedere sempre il tesserino a chiunque suonasse alla porta». «Tutto qui? Glielo avevi raccomandato? E cosa gli avevi detto del fatto che la polizia poteva suonare alla porta? Perché sono andati là?» Joe le si avvicinò. «Dopo quello che è successo lo scorso anno, ho chiesto loro di dare un'occhiata ai tuoi genitori, di tanto in tanto. Tutto qui.» «Ma cosa c'entrano i miei genitori?» «Fanno parte della famiglia. Duke Rawlins aveva scelto come bersaglio la mia famiglia. Tu non c'entravi niente con quanto era successo fra me, lui e Riggs, ma per Rawlins non faceva differenza.» «Non capisco. Credevi che i miei genitori non mi avrebbero detto niente?» «Credevo che i poliziotti non sarebbero andati a bussare alla porta e si sarebbero limitati a dare un'occhiata dall'esterno, senza destare sospetti.» «Anche Pam e Giulio ricevono questo tipo di visite?» «Di loro mi occupo io. Siamo nello stesso stato. Comunque sì, ho chiesto alla polizia di Rye di tenerli d'occhio.»
Anna scosse la testa. «Non ci libereremo mai di tutto questo.» «Siamo liberi», disse Joe, prendendola fra le braccia. «È finita. Non lascerò che uno come lui rovini le nostre vite. Non si azzarderà a tentare qualcosa contro di noi così presto, è un rischio troppo grosso. Siamo a New York, che per lui è il posto peggiore nel quale potrebbe trovarsi.» «Non credo che niente riuscirà mai a impedire a quell'uomo di ottenere ciò che vuole.» «Tesoro», disse Joe, attirandola ancora di più a sé, «ascoltami bene: non tornerà.» 16. Il dottor Makkar condusse Joe nel proprio ufficio, lo fece sedere e si posizionò accanto al muro. Fece oscillare il putter e colpì una palla da golf fosforescente indirizzandola in un macchinario verde, che gliela rispedì subito indietro. «La precisione non è acqua», disse. Si inginocchiò su uno sgabello ergonomico dietro alla sua scrivania. «Che posso fare per lei?» «Dovrei farle una domanda: cosa potrebbe impedire a una persona di farsi sistemare i denti, se fossero rimasti lesionati o rotti in qualche modo?» Makkar alzò le spalle. «Dipende da cosa intende.» Joe gli porse una busta marrone. «Potrebbe dare un'occhiata a qualche foto scattata sul luogo del delitto? Credo che l'assassino per qualche motivo abbia trascorso del tempo al lavoro sui denti e sulle bocche delle vittime prima di ucciderle. Le immagini sono piuttosto crude.» «Non c'è niente che possa scioccarmi», commentò Makkar, prendendo la busta. Quando guardò, non riuscì a non sgranare gli occhi. «O almeno, non c'era. Porca puttana infame. Questa roba è davvero forte. Mi piace che abbia usato il termine lavoro su denti e bocche. Io lavoro sui denti della gente. Questo tizio... Oddio. Oddio. Ho qualche problema con la colazione di poco fa.» Bevve un sorso da un bicchiere di plastica. «Capisco», disse Joe. «Allora, cosa ne pensa?» «Non saprei, però il vostro tizio deve avere qualche motivo per fracassare così i denti delle vittime. Non lavora a caso. Pensa che torturi la gente per cavare loro delle informazioni? O forse le vittime hanno già parlato di cose che non dovevano sapere?»
Joe alzò le spalle. «Ogni ipotesi è possibile.» Makkar guardò nuovamente le foto. «Cercava sicuramente un forte impatto psicologico. I denti costituiscono un bene primario, per questo ci spaventiamo a morte quando sogniamo che ci cadono. Ha fatto anche lei quel sogno, vero? Si è presi dalla disperazione al pensiero di come sia possibile continuare a vivere senza denti. È un disastro di dimensioni apocalittiche.» Fece una pausa. «Sa cosa c'è di tanto crudele nel colpire la bocca e i denti delle persone? È l'impossibilità di guarire al cento percento. Ci sono migliaia di occasioni in cui ti ricordi quello che ti è successo: ogni volta che mastichi, baci, fumi, batti i denti per il freddo e così via. I denti sono sempre lì, e psicologicamente puoi rivivere continuamente l'aggressione.» Abbassò lo sguardo. «Anche se la maggior parte delle sue vittime non ha avuto questa opportunità.» «È vero che quello dei dentisti è il lavoro più stressante, con il maggior tasso di suicidi?» «Ho capito dove vuole arrivare. Sì, è vero. E dovrebbe vedere la quantità di serial killer sfornati ogni anno dalla facoltà di odontoiatria.» «Va bene, ma ritiene possibile che la persona che cerchiamo sia un dentista?» «Sì, credo che la persona che cercate sia un dentista, ma ciò non vuol dire che abbiate ragione.» Joe sorrise. «Lei cosa crede, allora?» «Non lo so.» Makkar indicò la foto di Preston Blake, che Joe aveva ritagliato da un giornale. «Però direi che il motivo per il quale questo tizio non vuole farsi aggiustare i denti è che desidera che nessuno si avvicini più alla sua bocca. Guardi quegli occhi spenti, è lo sguardo di un uomo seriamente lesionato.» Si volse verso Joe. «E non è l'unico.» «Lei è troppo duro con me, dottor Makkar. In ogni modo, apprezzo quello che mi dice e la ringrazio per l'aiuto.» «Adesso», disse Makkar, continuando a tenere le foto in mano, «temo di avere una buona notizia per lei. Ho ricevuto una telefonata da un mio amico medico, che la settimana prossima ha in visita alla sua clinica uno dei più esperti chirurghi in artroscopia specializzato in problemi mandibolari. Mi ha offerto il posto per un paziente e vorrei che fosse lei.» «Suppongo che dovrei esserle grato.» «Così dicendo ferisce i miei sentimenti. Che devo fare con lei? La sua faccia è così, come dire, rigida. È una cosa da matti. Non può guardare questa roba», e indicò le foto, «senza venirne influenzato. Non cerchi di
prendermi in giro, vuol davvero trascorrere il resto della sua vita in compagnia di quel dolore?» «No, decisamente no. Ma non posso operarmi.» «Le ho spiegato che invece può.» «Per che giorno è?» «Venerdì prossimo. Fra dieci giorni.» Joe sospirò. «Ok, va bene, mi segni pure. Ma vorrei che nella cartella fosse indicato...» «Non tengo cartelle per i bambini. Né per i fifoni.» Quando Joe tornò in ufficio, erano tutti riuniti intorno alla scrivania di Danny e c'era un'atmosfera che non riuscì a comprendere, finché Martinez non aprì bocca. «Prenditela pure comoda al mattino, non c'è problema.» «Ho consultato qualcuno per quanto riguarda i denti», rispose Joe. «Dalle sette del mattino, quando voi eravate ancora a letto.» Martinez annuì, ma guardando altrove. «Ok», disse Rencher. «Mary Burig ha ventotto anni, single, di Boulder nel Colorado, laurea in psicologia, trasferita a New York poco più di un anno fa, in un appartamento dell'East Village, che è probabilmente il luogo dove è stata aggredita.» «Che lavoro faceva?» chiese Joe. «Lavorava part-time in una gastronomia.» «Si vedeva con qualcuno al momento dell'aggressione?» chiese Bobby. «No, non da quando è arrivata a New York.» «E dici che non ricorda cosa le è accaduto.» «No, e non c'è niente che possiamo fare al riguardo, per ora. Si ricorda di qualcosa che ha a che fare con i denti, perciò ho diffuso la notizia con la telescrivente e ho aggiornato il Vicap. Ma qualunque cosa accada, ora che sappiamo di lei cambia tutto. Vittima di sesso femminile, vicina alla trentina, dopo William Aneto e Gary Ortis, ma prima di Preston Blake ed Ethan Lowry. Mary perciò è la terza vittima designata di cui abbiamo notizia. Ed è riuscita a sfuggire, come anche Preston Blake.» Alzò le mani. «Come è stato possibile che in due siano sfuggiti? Cosa ha fatto di diverso in quei casi l'assassino? E le vittime? Si sono liberate, magari, con uno scatto di adrenalina che ha permesso di sopraffare l'assalitore? O hanno detto qualcosa che lo ha bloccato? O forse è intervenuto un fattore esterno, come qualcuno che suona alla porta, un allarme che scatta, l'arrivo della
polizia? Dobbiamo scoprire cosa hanno fatto Mary Burig e Preston Blake per essere stati così fortunati da riuscire a salvarsi la vita.» «Fortunati davvero», commentò Danny. «Darei la mia gamba sinistra per vivere nell'appartamento di un centro di riabilitazione o rintanato come un topo in una...» «Enorme villa», concluse Martinez. «Va bene, comunque non sembra plausibile che Preston Blake possa dimostrarsi particolarmente felice di parlare di nuovo con noi.» «Forse l'assassino li ha lasciati andare intenzionalmente», suggerì Danny. «Ma Blake lo ha visto in faccia», ribatté Joe. «Doveva aver premeditato di ucciderlo.» «Hai ragione. E a Mary ha sparato in testa... ho bisogno di dormire.» Joe scoppiò a ridere. «William Aneto. Gary Ortis. Mary Burig. Preston Blake. Ethan Lowry. Qual è la connessione fra di loro? E soprattutto, c'è?» «Tornando alla fuga», intervenne Rencher, «è impossibile che Mary Burig possa aver sopraffatto l'assalitore. Deve per forza essere stato interrotto o da un fattore esterno o da un condizionamento psicologico.» Si fermò un attimo. «Ovviamente, c'è da considerare che le ha sparato e forse pensava che fosse morta.» «È troppo carina per ucciderla», disse Danny. «Certo, come se bastasse a fermarlo», ripeté Martinez. «Forse solo il fatto che fosse una donna ha fatto la differenza», disse Rencher. «Certo, come se bastasse a fermarlo», commentò Martinez. Joe spezzò a metà la penna che teneva in mano. Tutti gli sguardi si diressero su di lui, che alzò le spalle. Danny sorrise. «Bene», disse Joe. «Martinez e Rencher, potete fare un altro esame approfondito al vecchio appartamento di Mary Burig, per vedere se avete ragione, cioè che l'hanno interrotto. Lo stesso vale per la strada di Blake, per controllare se qualcuno ha visto o sentito niente.» «Per una cosa del genere, Blake chiamerà di nuovo Rufo», disse Danny. «Non ce ne frega un cazzo. Dovremo anche parlare di nuovo con lui, che lo voglia o no.» «Mary non ha fatto nessuna chiamata la sera dell'aggressione?» chiese Bobby. «Cullen ci sta lavorando.» «Forse sono le persone a cui telefonavano a essere collegate fra di loro e
le vittime sono tali proprio perché le conoscevano», disse Bobby. «Forse, forse, forse. Risolviamo questa storia delle telefonate: Aneto chiama sua madre per dirle che è responsabile dell'uccisione del fratello. Gary Ortis chiama il suo ex socio in affari solo per farsi sentire. Mary Burig, non lo sappiamo. Preston Blake, nessuna telefonata. Ethan Lowry chiama la sua ex ragazza per dirle che la ama ancora.» «Abbiamo due confessioni», osservò Danny. «Forse è di questo che si tratta.» «Potrebbe essere una specie di fanatico religioso», disse Joe, «che ascolta le loro confessioni. Sono sicuro che lui è lì mentre telefonano, altrimenti potrebbero chiedere aiuto all'altra persona, ma nessuno lo fa.» «Forse si tratta di qualcuno che lo fa abitualmente, come un prete... un ex prete sarebbe verosimile», propose Rencher. «Infatti», intervenne Bobby. «E non credo che Ortis chiamasse il suo ex socio solo per fare due chiacchiere. Sicuramente doveva dirgli altre cose.» «Ok», disse Joe. «Cerca di scoprire di più al riguardo, torna a parlarci.» «Non c'è problema.» Joe prese una pila di pagine e le sparse davanti a sé. «Ci sono cose che hanno in comune e altre no. Guardate queste.» Indicò i primi piani dei volti delle vittime, disposti in ordine cronologico: Gary Ortis, William Aneto, Ethan Lowry. «La faccia di Gary Ortis è la più lesionata. L'orbita destra è completamente distrutta. Suo padre è riuscito a identificarlo da una cicatrice sulla schiena che risaliva a un'operazione che aveva avuto da piccolo. La testa, sbattuta contro il piano della cucina, era irriconoscibile. Con William Aneto, la maggior parte delle lesioni al volto era intorno alla bocca e sul naso fracassato. Le ferite di Ethan Lowry erano intorno alla bocca, ma il naso era intatto. Non credo che l'assassino stia cercando di lasciare una firma, un modus operandi identificabile per ogni crimine. Secondo me procede nel suo compito facendo ogni volta come meglio può. Si evolve. Ha iniziato fracassando la testa delle vittime sugli angoli del piano della cucina, che però è un lavoro duro, giusto?» Gli altri annuirono. «Avete visto dalle impronte delle mani e dai segni di trascinamento, presenti ovunque sulla scena di Aneto, che c'è stato un serio sforzo per opporre resistenza. L'assassino ha provato un approccio simile con Ortis. Poi però Mary Burig, una donna, sopravvive, e Preston Blake sfugge. Il nostro torna all'opera con Ethan Lowry e vediamo che ha accuratamente perfe-
zionato la sua azione. Possiede un martello. Ha fatto tutto come voleva, più ordinato, più concentrato. Ethan Lowry rappresenta probabilmente il suo miglior risultato.» Fece una pausa. «Ma qual è la sua massima aspirazione? A cosa tende?» «Fracassare le facce ha una sua importanza», osservò Danny, «perché non è così che li uccide. Quindi significa qualcosa di per sé. E il soffocamento...» «Non credo che all'inizio si sia reso conto di comprimere i loro polmoni», intervenne Joe. «Era andato, la mente persa chissà dove...» «Probabilmente», convenne Rencher. «Dobbiamo parlare con David, il fratello di Mary Burig, per vedere se possiamo scoprire altre cose su di lei e sul perché le sia accaduto questo», concluse Joe. Erano le otto di sera e David Burig se ne stava nella cucina del suo appartamento di Chambers Street. Sul fornello cuoceva un tegame di peperoncini rossi e accanto c'era un cartone aperto di panna acida. David era intento a cercare nel frigo un barattolo di jalapenos, quando arrivò una chiamata dalla portineria. «David? Ho qui un certo ispettore Lucchesi che vuol vederti. Devo mandarlo su?» David rimase un momento senza fiato. «Eh? sì, certo... Benny? Potresti farmi un grosso favore e andarmi a prendere un barattolo di jalapenos?» Benny rise. «Certamente. Sono l'uomo delle emergenze.» David andò in cucina a togliere il tegame dal fuoco, sostituendolo con un bollitore, poi prese una confezione di caffè. Il campanello suonò e lui andò alla porta. Dallo spioncino vedeva solo un berretto di lana nero. David aprì la porta e subito si accorse che si trattava di un uomo non con un berretto, ma con una maschera, che portava per coprirsi la faccia. Con passo deciso l'uomo si spinse avanti, colpì con tutta la sua forza David in pieno petto, stordendolo e mandandolo a gambe all'aria. Poi chiuse la porta e puntò una pistola a un centimetro dalla faccia di David. «Ho cambiato idea», disse l'Ospite. Danny guidava la Gran Fury lungo Chambers Street, cercando un parcheggio fra le auto su entrambi i lati della strada. «Qualcuno se ne vada e mi faccia posto, per pietà», disse.
«Laggiù», gli indicò Joe. «Troppo stretto.» «Puoi farcela. Coraggio, sto morendo di fame, non posso aspettare ancora.» «Vuoi mangiare prima che andiamo da Burig?» Joe alzò le spalle. «Credo di poter aspettare fino a dopo.» In piedi nella cucina, nudo, David non riusciva a controllare gli spasmi rigidi e violenti del proprio corpo. L'Ospite osservava. David credette di vedere dei tendini sul collo dell'uomo, ma poi si accorse che erano le stecche della sua maschera, che con estrema precisione aderivano alla pelle. Senza dubbio quell'oggetto era stato prodotto appositamente per lui. «Che vuoi farmi?» chiese David. Ma sapeva già cosa facesse quell'uomo. Non gli era mai venuto in mente che il terrore che può provare una vittima, che sa che la propria vita è nelle mani di un altro, diventa ancora più grande quando questa conosce esattamente come avverrà la sua morte. La paura di David cresceva al pensiero che sarebbe stato proprio quel terrore a sopraffarlo, prima ancora di subire una ferita fisica. Più l'Ospite lo osservava, più il suo corpo era scosso da fremiti. «Cosa vuoi?» chiese ancora David. «Mostrarti perché era sbagliato ciò che hai fatto. Avrai il piacere di rivivere esattamente ciò che hanno sperimentato le altre vittime.» «No. Per favore. Io... no. Per favore non farlo.» «Accetta le tue responsabilità.» «Io non sono responsabile...» «Dimmi la tua grande menzogna.» «Cosa?» «Dimmela e basta. Tutti hanno una grande menzogna. Tutti dicono piccole bugie, non è vero?» «Di cosa parli? Non ti ho mai mentito. Ti ho aiutato...» «Mi hai aiutato. Ti sembro forse aiutato?» «Non lo so.» L'Ospite lo fissò, poi scosse la testa. «Mi hai mentito, David Burig. Mentito. Pensaci. Sei mai stato coinvolto in qualcosa che sapevi essere una violazione? Della legge? Della fiducia altrui?» Un rivolo di sudore ghiacciato corse giù per i fianchi di David, mentre pensava alla risposta da dare. Scelse il silenzio. L'Ospite lo guardò fisso. «Voglio che tu porti alla luce il marciume luri-
do che trasuda dai recessi della tua mente contorta.» «Non ho niente da nascondere.» «Invece ci sono un sacco di cadaveri nascosti là dentro.» Il cuore di David ora batteva all'impazzata, ora perdeva colpi. L'Ospite, ancora una volta, rimase a fissarlo. Stavolta nei suoi occhi affiorò qualcosa di indefinibile, una fiamma scura dietro alle pupille. E sorrise. Vieni come me. Apri il tuo ripostiglio.» Fece un gesto in direzione della camera da letto e si mise con il volto vicino a quello di David. «Mostrami cosa c'è sotto il tuo letto. Cosa ci nascondi? Quali giocattoli ci sono, per giocare al buio quando non c'è più nessuno in giro?» «Gesù Cristo», disse David. «È questo quello che fai alle persone? Le umili? Non so dove tu voglia andare a parare, ma...» gli sfuggì un sospiro, «non capisco.» «Non m'importa.» «Per favore, mettimi alla prova.» «Perché?» «Stavolta potrei aiutarti.» «Credimi, mi stai aiutando. Mi hai aiutato a entrare in casa tua. Mi hai aiutato a entrare nella tua anima.» Alzò la testa fino a guardare il soffitto. «Mi hai aiutato ad affermare ciò in cui credo. Mi hai aiutato, David. Puoi prenderne nota.» Si passò una mano sul tessuto nero della maschera. «E continuerai ad aiutarmi.» Joe e Danny entrarono dalla porta aperta del condominio. Non c'era traccia del portiere. «C'è nessuno?» chiese Joe. «Questa gente paga un sacco di soldi per sentirsi sicura nel proprio appartamento e questo tizio esce a fare una passeggiata come niente fosse», disse Danny. «Coraggio, saliamo.» David era disteso di schiena sul pavimento di legno, la testa vicino alla porta d'ingresso. Sopra di lui c'era l'Ospite, che lo teneva inchiodato a terra, premendo con le ginocchia sui polmoni. «Se ce la farai a rimanere in silenzio, puoi essere sicuro che mi fermerò», disse l'Ospite, «e tu sopravvivrai.» Il suono improvviso e lacerante di una sirena dei vigili del fuoco fece voltare a David la testa verso la finestra. Il vetro bagnato di pioggia riflet-
teva le luci. Nove piani più in basso, la gente camminava sul marciapiede sotto larghi ombrelli, le auto passavano sollevando spruzzi; nessuno sapeva cosa accadeva in quell'appartamento. Joe e Danny raggiunsero in ascensore il nono piano e suonarono il campanello dell'appartamento di David. Non ci fu risposta. Danny suonò di nuovo, ancora senza esito. «Hai il suo numero?» «Certo», rispose Joe, scorrendo la rubrica del suo cellulare. Compose e attese. «Niente.» «Andiamo a mangiare e torniamo fra un po'», propose Danny. «Magari è in palestra.» Il suono del campanello sembrò a David Burig un ricordo lontano, quando sentì il metallo della canna della pistola premere contro l'occhio e spingergli la testa all'indietro contro il pavimento. Poi la canna scomparve. Al suo posto vide un martello che calava rapidamente verso il suo volto. Lo percorse un impeto di forza che incitò il suo corpo legato a combattere, sia pure in modo minimo e inefficace. Chiuse gli occhi, sollevò la testa di pochi millimetri e la mosse freneticamente e disperatamente da un lato all'altro. Gli pulsarono le vene sulle tempie, serrò la mascella, tese ogni muscolo del volto e del collo. Scalciò con le gambe, l'unica parte libera del suo corpo, cercando di fare presa al suolo con i piedi nudi, che per il sudore scivolarono sul legno. Trascorsero lunghi secondi, nei quali non smise di agitare la testa, che cominciava a girargli, mentre sentiva salire la nausea. Poi si fermò, esalando un sospiro e sputando saliva, in attesa del dolore che sarebbe inevitabilmente arrivato. Non accadde nulla. Poi lo sentì, all'inizio lentamente. Cosce muscolose che gli schiacciavano la gabbia toracica. In testa aveva un rimbombo cupo e costante. Con gli occhi ancora chiusi, il respiro spezzato, fu scosso dalla prima sensazione di oppressione. Allentò la pressione sul collo appoggiando la testa sul pavimento, l'attenzione rivolta solo ai polmoni. Se li immaginò pieni di aria, espansi al massimo, intenti a trasmettere ossigeno a tutte le cellule del corpo. Tossì, soffocando per la costrizione. A causa di quella posizione prolungata, i muscoli delle cosce dell'Ospite iniziarono a cedere per lo sforzo e cominciarono prima a tremare poi a scuotersi violentemente, trasmettendo gli spasmi al corpo di David. L'Ospite si sollevò brevemente sulle ginocchia per poi riprendere la posizione. L'aria si infiammò di ammoniaca e spezie, di un odore di stanza ammuffi-
ta. David sentì il suo petto impregnato di sudore e la testa leggera e formicolante. Proprio nel momento in cui il respiro stava per abbandonarlo, la pressione si allentò definitivamente. Spalancò prima la bocca, poi gli occhi, per i riflessi rallentati; l'esatta posizione in cui lo voleva l'Ospite per assestargli la prima martellata sui denti. I colpi arrivarono in sequenza, lacerando, spaccando e rompendo, massacrando ossa, carne e denti. Il rumore del martello sulla faccia, impigliato nella carne lacera, era come un'altra ferita nel silenzio. Era sicuro del risultato: si era creato un vuoto nel luogo in cui David conservava ogni urlo che avrebbe voluto erompere dalla gola per manifestare la sofferenza. Allora si fermò. Le lacrime gli scorrevano lungo il volto, i singhiozzi gli ingolfavano la gola, lo stomaco gli si rivoltò, l'intero corpo fu scosso da fremiti. Lentamente aprì gli occhi, pulendo le goccioline di sangue rimaste nelle ciglia. L'Ospite prese la sua borsa e ne estrasse due calchi per impronte dentarie, li depose per terra accanto a sé e ne riempì uno con un denso liquido blu. «Spalanca la bocca», disse a David, che però tremava convulsamente. «Calmati.» David annuì, chiuse gli occhi e aprì la bocca. L'Ospite inserì il calco e lo premette forte contro l'insanguinata arcata superiore, attento a coprire tutta la superficie e a riempire con il silicone freddo ogni spazio. Una lama tagliente di freddo penetrò nelle ossa fratturate di David, mandandogli fitte di dolore in tutta la testa. «Quattro minuti per solidificarsi», disse l'Ospite. David spalancò gli occhi e iniziò a inghiottire senza potersi controllare. L'Ospite si piegò su di lui, per infondergli calma. Rimase così finché non afferrò il calco e lo tirò via, soffermandosi un attimo a osservarlo prima di appoggiarlo accanto a lui. Pulì la bocca di David con un tovagliolo di carta. «Per favore», disse David, sputando sangue e saliva. «Devo prendermi cura di mia sorella. Non puoi...» L'Ospite finse di accogliere la sua preghiera. «Ok. Adesso però i denti inferiori. Come prima.» David chiuse gli occhi e gettò la testa all'indietro. Desiderava udire un'altra sirena, più forte della prima, una che portasse alla sua porta poliziotti muniti di ariete. Era stato legato molto forte e con perizia e ormai aveva perso la sensibilità a polsi e mani. E i colpi iniziarono a piovere nuo-
vamente, forti, veloci e senza pietà. David riuscì ad aprire gli occhi e, attraverso il sangue che gli ottenebrava la vista, riuscì a intravedere nell'Ospite dei lampi di furore, che solo ora si scatenava appieno. Era di nuovo sopra di lui e le sue gambe gli premevano contro il petto, mentre i colpi di martello scendevano senza tregua. Con la mano sinistra l'Ospite si tirò su la maschera e poi la gettò al suolo. La faccia trasfigurata dalla rabbia, gli occhi chiusi risucchiati nelle orbite, la mascella fremente, la bocca spalancata, le labbra tese a formare le parole che voleva urlare. Ma nessun suono gli usciva dalla bocca. Solo silenzio. Tutto ciò che David poteva fare era fuggire con la mente. L'ampio ingresso del suo appartamento divenne il posto più angusto in cui avesse mai vissuto, seppure enorme come le sue paure. 17. «Gesù Cristo», esclamò Rufo. Era in piedi, con le mani congiunte dietro il collo, a guardare fuori dalla finestra dell'appartamento di David Burig. Dava la schiena al corpo martoriato vicino alla porta. «Che diavolo succede?» «Era qui proprio mentre noi suonavamo alla porta», disse Joe. «Non riesco a crederci.» «Come potevate saperlo?» chiese Rufo. «Come?» «Ma...» «Ma niente. Dobbiamo solo prenderlo. Dobbiamo solo fare ogni cosa perché Burig sia l'ultimo.» «È come Ethan Lowry... senza il telefono.» «Neppure Mary Burig aveva fatto una telefonata», precisò Danny. «Cullen lo ha appena appurato.» «L'ultima chiamata che ha ricevuto è stata dalla portineria», disse Martinez, facendosi avanti. «Ha chiesto al portiere di fare una corsa a prendergli una cosa al negozio di alimentari. Non era la prima volta che Burig glielo chiedeva e, in ogni caso, credeva di essere al sicuro con un ispettore nell'appartamento.» «Sarà l'ultima volta che fa un favore a qualcuno», disse Joe. «Che mi dici di Henry, che in questi giorni finalmente riesce a farsi qualche bella scopata?» disse Martinez, indicando uno della scientifica, un tipo basso, intento a rilevare le impronte sul pomello della porta in cucina. «Non ho idea di chi sia Henry, né di quale sia la sua vita sessuale», ri-
spose Joe con la voce tesa. «Quello che volevo dire è che si tratta di una diretta conseguenza di Csi», proseguì Martinez. «Le ragazze gli danno la caccia, perché pensano che faccia un lavoro figo.» «Già», convenne Joe, «e intanto se ne sta qui a chiedere come un idiota perché hai bisogno che stampi quello, perché vuoi una foto di questo? Perché l'assassino potrebbe averle toccate, cretino.» «Sì, mi piacerebbe proprio avere uno di quei tecnici di Csi con me su una scena del crimine», disse Bobby. «E che vadano anche a interrogare tutti i testimoni», aggiunse Danny. «E che esaminino le prove in un bel laboratorio scintillante», proseguì Martinez. «Così risolverebbero il caso», concluse Danny, «e sarebbero pure arrapati.» «Coraggio», intervenne Joe, «sono le tre e qui abbiamo fatto tutto quello che c'era da fare.» Squillò il suo cellulare. «Ispettore Lucchesi?» «Sì.» «Ispettore Scott Dolan da Filadelfia. Lo so che è tardi, infatti credevo di lasciare un messaggio. Abbiamo ricevuto la sua richiesta di informazioni su dentisti che abbiano avuto qualche guaio con la legge. Ecco, non si tratta proprio di un dentista, ma il nome Trahorne Refining le dice niente?» «No.» «Si tratta di un'azienda che ha molti contatti con laboratori odontoiatrici, ma non direttamente con i dentisti. Non ne so un granché neppure io. È solo che qualche settimana fa abbiamo ricevuto una visita da un certo Curtis Walston, un ragazzo del luogo, che era stato licenziato dalla Trahorne dopo due settimane di lavoro. Ovviamente covava del risentimento, e comunque non aveva prove, perché diceva che tutto era stato bruciato, però sosteneva di aver trovato parecchi capi di abbigliamento macchiati di sangue mandati all'azienda per essere inceneriti.» «Non capisco.» «È un po' complicato. Il lavoro della Trahorne consiste nell'incenerire gli abiti e altri arnesi degli odontotecnici, da cui possono recuperare i metalli che questi hanno fatto colare durante la lavorazione di corone e denti finti. Siamo andati dal proprietario, Bob Trahorne, il quale in pratica ci ha riso in faccia. Non avevamo nessuna prova e lui ci ha detto che eravamo dei
matti a paragonare la parola di un balordo con la sua. Non abbiamo potuto fare altro, però quando ho visto la sua richiesta ho pensato che poteva comunque interessarla. Curtis Walston è il classico licenziato con il dente avvelenato, però è stato lui a venire da noi, per cui non so. Forse può parlarci lei direttamente.» Le prime sei ore dell'autopsia di David Burig avrebbero potuto essere scambiate con quella di Ethan Lowry, finché non comparve Walter Dreux. Walter era un odontoiatra legale, membro della Dentai Identification Unit della Ocme (Office of Chief Medical Examiner), chiamata in causa quando ci si trovava in presenza di volti irriconoscibili, decomposizioni, incendi, morsi o vittime sconosciute. «Walter», disse Danny, «il dentista dei morti.» «L'ho messo anche sul biglietto da visita.» «Come va?» chiese Joe. «Bene, e voi?» Joe alzò le spalle. «Così...» «Non avvicinatevi a me», disse Walter, accostandosi al cadavere. Fece un rapido sorriso. «Ok?» «Devi superare quell'avvenimento», gli disse Danny. Walter era rimasto scottato in un caso importante, quando un investigatore della Omicidi aveva preso appunti mentre lui lavorava e l'avvocato della difesa non gli aveva poi consentito di rettificare ciò che aveva detto allora. Walter non aveva passato un bel momento in tribunale. «Fra mezz'ora sarò da voi. Io e la mia graziosa assistente faremo ciò che dobbiamo fare, mi prenderò un momento di pausa e poi vi riferirò.» Si mise al lavoro e quaranta minuti più tardi tornò da Danny, Joe e dal dottor Hyland. «Ho trovato un regalo per voi, fra il secondo premolare superiore destro e il primo molare.» «Spinaci», ironizzò Danny. «Qualcosa di più significativo: materiale a base di silicone per impronte ortodontiche.» «Cosa?» esclamò Joe. «Qualcuno ha preso un'impronta dei denti della vittima», disse Walter. «Cosa? Solo di questa vittima?» chiese Danny. «No, anche delle altre, è solo che fino a ora non ho voluto importunarvi con una cosa del genere. Aspettavo che rimaneste a corto di piste da segui-
re, o che si accumulassero altri cadaveri, giusto per dare un effetto più drammatico.» «Rilassati», gli disse Danny. «Proseguo. La vittima è stata dal dentista quel giorno. Spiegherebbe tutto.» «Niente teoria del dentista, abbiamo già controllato con tutte le vittime.» «Posso dirvi la marca del materiale, ma serve a poco, perché è largamente usato. Nessuno sarebbe così ottuso da usare l'ultimo uscito sul mercato, perché restringerebbe molto il campo di ricerca. Quello che vi dico è semplicemente che il vostro tizio ha preso un'impronta dei denti della vittima.» «Perché mai qualcuno dovrebbe voler prendere un'impronta dei denti della propria vittima?» «Perché mai qualcuno vorrebbe massacrare a martellate la faccia di una persona?» chiese Joe. «Perché può», gli rispose Danny. «Credi che l'assassino possa essere stato un dentista?» chiese Joe. «Naa», rispose Walter. «Direi piuttosto un poliziotto.» «Ah-ah», rise Danny. «Non è difficile prendere impronte dei denti», disse Walter. «Non è necessario essere un dentista. Comunque, devo ammettere, non è improbabile.» «E voi dentisti siete famosi per fare un lavoro stressante», disse Joe. «Già, a forza di togliere denti del giudizio, lo perdiamo anche noi.» «Chi usa le impronte, una volta che sono prese?» chiese Joe. «Cioè, dove vanno a finire, dopo che escono dallo studio del dentista?» «In un laboratorio odontoiatrico.» Joe e Danny si scambiarono un'occhiata. «Porca puttana», esclamò Danny. «Fanno corone, rivestimenti, ponti. Alcuni dentisti usano sempre lo stesso laboratorio, altri dividono il lavoro tra diversi laboratori. Non c'è una regola.» «Esiste una loro associazione?» chiese Joe. «C'è l'istruzione universitaria obbligatoria, ma non esiste un albo professionale. Chiunque può iniziare la professione da un giorno all'altro.» Curtis Walston era un gangsta rapper imprigionato in un esile corpo di ragazzo bianco. Se ne stava stravaccato su uno spelacchiato divano marrone, con le mani dietro la nuca. Nel suo mondo ogni cosa era oversize: il
berretto e la maglia da baseball, i jeans, l'orologio, le scarpe da ginnastica di un bianco lucente, il maxischermo tv, perfino gli occhi nel faccione pallido. Joe e Danny erano in piedi accanto al caminetto, dal lato opposto della stanza. Curtis parlava a bassa voce, il capo chino. «Fanculo Bob Trahorne, gente. Sono andato a lavorare da lui perché gestisce un buon laboratorio e paga bene. L'unica differenza era che dove lavoravo prima controllavamo i pacchi, i bidoni, ogni cosa che ci arrivava. Separavamo le cose: polveri, solidi, detriti. Mi hanno licenziato con un calcio in culo perché facevo bene il mio lavoro.» «Curtis», gli disse Danny, «quello di cui mi parla è un po' troppo tecnico per il mio amico qui, l'ispettore Lucchesi. È necessario che lei gli spieghi cosa accade alla Trahorne Refining, come funzionano le cose, quello che fanno di preciso.» Curtis fissò Joe, socchiudendo gli occhi. «Per me è ok.» Alzò le spalle. «In pratica, la Trahorne fornisce il metallo agli odontotecnici: oro, platino, palladio, argento. Gli odontotecnici lavorano per i dentisti, facendo impianti, ponti, corone, eccetera. I dentisti prendono un'impronta dei denti del paziente, la mandano all'odontotecnico, che ne ricava un modello, in modo che poi i denti finti o i rivestimenti o quello che è siano della misura giusta.» «Ci racconti dei pacchi che le arrivavano», disse Joe. «Quando l'odontotecnico deve preparare dei denti finti, fa prima una base di metallo e poi ci mette sopra la porcellana. Il metallo viene plasmato in un forno, ma quando ne esce non è ancora perfetto, perché vi sono rimasti attaccati dei bruscolini. Quindi va limato e lisciato. A questo scopo viene utilizzata una mola, un utensile rotante che gira molto velocemente e fa schizzare dovunque dei pezzetti di metallo. Ce ne sono di tre tipi: 'molatura', che sembra più o meno il risultato di una rasatura, 'solidi', che sono piccoli pezzi di metallo, delle specie di lamine, e 'polveri', cioè quello che gli odontotecnici spolverano via dal banco di lavoro o perfino si scuotono dai capelli sopra a un foglio di carta. Questi resti vanno a finire dappertutto e si tratta di oro e altra roba costosa. L'odontotecnico allora prende una grossa busta e ci butta dentro tutto: il foglio di carta, il camice, il grembiule, il tappeto che ha sotto il banco di lavoro, il maglione che indossava, ogni cosa. Oppure butta tutto in uno di quei barili di cartone da duecento litri.» «E li manda in un posto come la Trahorne», concluse Joe. «Esatto. Invece di buttare via i resti, li vende. Perché Trahorne li saggia
e poi li raffina.» Danny assunse un'aria interrogativa e Curtis si rivolse a lui. «Saggiare significa stabilire quanto metallo c'è nel pacco e raffinare consiste nel tirarlo fuori, separando i metalli diversi. In questo modo non c'è spreco. Io ricevo il pacco, compilo i moduli, poi lo metto su un nastro che lo trasporta nell'inceneritore a 2400 gradi, dove tutto si disintegra, a parte il metallo. Questo allora viene pesato e al laboratorio viene spedito o un assegno per l'ammontare dovuto, oppure, se preferisce, altro metallo, o monete, o quello che vuole.» «Si tratta di un rapporto di affari basato sulla fiducia», osservò Danny. «Suppongo di sì. È vero che ci sono degli odontotecnici che pesano i loro pacchi, prima di spedirli, ma si tratta di pesature poco accurate, per cui c'è del margine di manovra, se uno volesse approfittarne.» «Diciamo allora le cose chiaramente», riassunse Joe. «Alla Trahorne Refining, quando arrivava un pacco andava direttamente nell'inceneritore, senza essere esaminato.» «Esattamente.» «Mentre nel laboratorio dove lei lavorava prima, separavate molitura, solidi e polveri.» «Sissignore.» «Mi racconti esattamente cos'è successo con il pacco che lei ha aperto.» «Ok. Il pacco arrivava dal laboratorio di Dean Valtry di New York. Si trattava di un barile di cartone da duecento litri, alto circa settantacinque centimetri e con un diametro di mezzo metro. Lo pesai, poi lo aprii e posi tutto il contenuto su un grande vassoio di metallo, destinato a finire nell'inceneritore. Ne estrassi un mucchio di abiti neri, su cui trovai quei solidi di cui vi ho detto, polveri, alcuni fogli di carta su cui si trovavano altre polveri e un tappeto. Stavo scuotendo gli abiti quando notai le macchie.» Si piegò in avanti. «E vidi benissimo che erano macchie di sangue.» «Allora che fece?» chiese Danny. «Lasciai lì ogni cosa e andai su nell'ufficio del signor Trahorne, portando uno degli abiti per mostrarglielo, una maglia nera con la cerniera. Prima di tutto dovetti aspettarlo un bel po', perché era in riunione. Allora mi misi a sedere fuori dell'ufficio e iniziai a leggere una rivista. Dopo circa mezz'ora uscì la segretaria per venire a prendermi, e mi guardava tipo 'per carità non disturbare troppo il capo'. Entrai, e Trahorne mi chiese cosa avevo fatto nell'ultima mezz'ora.» Curtis alzò gli occhi al cielo. «Io però feci finta di nulla e gli raccontai quello che era successo col pacco. Lui mi ascoltò e poi
mi spiegò che gli odontotecnici spesso si tagliano con gli scalpelli e sporcano di sangue gli indumenti. Ma io non sono scemo e gli dissi che c'era molto sangue e gli misi la maglia sulla scrivania, al che lui si incazzò di brutto. Prese la maglia, mi riportò al 'mio posto', come lo chiamava lui, gettò tutto sul vassoio e lo spinse nell'inceneritore. Poi mi guardò dritto negli occhi e disse: 'Non ti pago per esaminare i pacchi né per perdere tempo a rompermi i coglioni'. Io, ecco, cercai di spiegargli che, insomma, qualcuno magari si era fatto male, ma Trahorne mi guardò come una merda che aveva pestato per strada. Non riusciva a credere che potesse importarmi qualcosa e allora io mi offesi. Una settimana dopo mi chiamò e mi licenziò.» Curtis alzò le spalle. «Troverò un altro lavoro, lo so, ma voglio cercare di fare la cosa giusta per quello che è successo.» «Trahorne dice che lei ha rubato nel laboratorio.» Curtis alzò lo sguardo. «Va bene, è vero. Una volta l'ho fatto. Una piccola sfoglia di platino.» «Dice anche che lei ce l'aveva con lui perché era stato licenziato.» «È vero.» Danny sorrise. «Ce l'ho ancora con lui, ma non per questo sono un bugiardo.» «Ok», disse Joe. «E poi», aggiunse Curtis, «non ce l'ho con quel laboratorio Valtry. Non li conosco, perché dovrei inventarmi una storia per imprecare contro di loro?» «Non la stiamo accusando di volerli implicare.» Curtis alzò lentamente lo sguardo e squadrò Danny dall'alto in basso. «Ho detto imprecare. È un'altra parola. Controlli sul vocabolario.» Danny sospirò teatralmente. Quella sera Joe arrivò a casa alle otto e trenta e rimase a guardarsi nello specchio del bagno, massaggiandosi la mascella non rasata. Tolse la lametta dal rasoio e la gettò nel cestino, ma sbagliò la mira e la lametta prima rimbalzò sul muro e poi finì a terra. Joe si piegò a raccoglierla e vide uno scontrino semiaccartocciato. Gli gettò un'occhiata e lesse il nome di due prodotti: l'abbronzante SplashBronze di cui gli aveva parlato Tara e un altro che gli fece mancare il respiro. Un test di gravidanza. Cercò nel cestino, per trovare la scatola o il test, ma non c'era nulla. Stava per rinunciare, quando scorse l'astuccio di plastica blu del test: lo prese e lo aprì. I test erano cambiati dai suoi tempi, adesso avevano una lettura digitale. Niente
simboli da interpretare, nulla da dover indovinare. Questo recava scritto a chiare lettere il suo risultato: INCINTA. Tutta la vita di Shaun gli passò in un lampo davanti agli occhi. Controllò la data sulla ricetta: era di una settimana prima. Posò il rasoio e andò in camera di Shaun. «Figliolo, voglio andare direttamente al sodo», disse, sedendosi sul letto. Shaun voltò la sedia della scrivania verso di lui. «Cioè?» «Spero che tu... insomma... con Tara... ecco, usi delle precauzioni.» «Oh mio Dio», esclamò Shaun, voltandosi dall'altra parte. «Parlo sul serio. Devi essere prudente.» «Papà, è imbarazzante. Cosa ti fa pensare che io non lo sia?» «Niente, è solo che io...» «Non abbiamo già fatto questo discorso qualche anno fa?» «Con tutto quello che è successo... volevo assicurarmi che tu rimanessi... all'erta.» «Sono... all'erta.» «Bene. Perché se fai sesso...» perse il filo del discorso. Rimasero seduti in silenzio. «Non lo faccio», disse Shaun alla fine. «Cosa?» «Non lo faccio. Non lo facciamo, ok? Sto passando un brutto periodo... per... riuscire ad avvicinarmi a qualcuno.» «Oh. Pensavo...» fissò il pavimento, senza proseguire. Anche Shaun rimase con lo sguardo fisso a terra. «La prima volta con Katie, io niente. Voglio dire, non è successo niente, in pratica. E quello è il mio ultimo ricordo del... sesso. Se mi ci avvicino, mi blocco. Cioè ovviamente posso fare... capisci... ma non voglio andare oltre...» «Giusto. Cazzo. Ok. Credi che... insomma... sei davvero pronto, Shaun?» Shaun lo guardò interrogativamente. «Sei giovane, hai solo diciotto anni e se le cose ti fossero andate diversamente nella vita, ti darei dei consigli molto diversi. Vale a dire che a volte non è bene separare il sesso dai sentimenti, anche se in questo momento ti può sembrare che debba essere per forza così. Devi fare le tue esperienze e non sono sicuro che scapicollarsi con una ragazza sia la cosa giusta da fare.» «La gente penserà che sono una specie di schizzato.» Shaun scosse la testa, sconsolato. «Non riesco a togliermi Katie dalla testa. Mi è impossibile
fare qualunque cosa mi riporti indietro a quella notte. Faccio sempre questo sogno, dove la incontro per strada o in un caffè o in un posto qualsiasi, in compagnia di un altro e sento che lei mi odia. Cerco di essere cordiale. Poi tutto diventa bianco e quando cerco di toccarla, scivola via nella nebbia e mi sfugge. La sua espressione è sempre vuota, non mi sorride mai. Tutto quello cui riesco a pensare è che probabilmente è morta odiandomi.» «Non è vero. Lei ti amava, lo sai. Quella notte avete litigato proprio perché lei ti amava. Se fosse ancora qui, avreste fatto pace il giorno dopo. Lei pensava che anche per te fosse la prima volta: non si odia una persona per quello. Ci si può sentire stupidi, ma poi basta.» «Se non fosse andata a casa da sola...» «No. Così non farai altro che ripensarci fino a diventare matto. Tutto ciò che è accaduto non dipende da te. Si tratta di una delle leggi della vita più difficili da accettare: non sai mai cosa c'è dietro l'angolo.» Per qualche secondo vi fu silenzio. Joe si chiese a quale gioco stesse giocando Tara. «Shaun, quella fra te e Tara è una cosa seria? Non è che Tara si vede anche con altri?» «Gesù, papà! È già una disgrazia abbastanza grande che tu ti occupi di queste cose, figuriamoci se ho intenzione di discutere con te della vita sessuale di Tara... o dell'assenza di essa, grazie della tua sensibilità.» «Volevo solo sapere che tipo di relazione c'era esattamente fra di voi.» «Adesso sembri proprio paranoico.» Anna bussò alla porta ed entrò. «Che ne pensate di questo vestito nuovo?» «Figo», disse Shaun. «Tu stasera esci, perciò ho deciso di invitare tuo padre a un pranzo casalingo speciale.» «Sei davvero bella», disse Joe. «Molto... in salute.» Lei lo sorprese che le guardava il seno. «Grazie. E grazie anche a Tara», disse rivolgendosi a Shaun. Ho comprato lo SplashBronze che mi ha consigliato lei.» 18. Joe studiò il proprio riflesso nello specchio screpolato del fresco seminterrato, da Augie sulla Quarantottesima Est. Indossava la stessa camicia grigio chiaro e cravatta nera che aveva al lavoro quella mattina, ma con
uno smoking che Anna gli aveva comprato due anni prima a Parigi. Il vecchio Nic aveva scoperto Augie Penrose negli anni Settanta: era uno dei migliori sarti di New York. Per quaranta anni il suo seminterrato era stato aperto solo a un gruppo di clienti affezionati. Joe, Danny, il vecchio Nic, Bobby, perfino Giulio Lucchesi, tutti indossavano abiti di Augie o modificati da lui. «Bello smoking», disse Augie, «bello.» Joe annuì. «Mia moglie...» «Ho visto che l'etichetta non era di queste parti. Molto elegante. Al lavoro la prendevano in giro perché indossava abiti europei?» «Sono solo gelosi», disse Joe, stirando prima una manica poi l'altra, «ecco cosa sono, Augie.» Augie rise e gli si avvicinò. «I pantaloni», disse tirando la fascia allentata in vita, «in genere devo allargarli per farla entrare dentro.» «Vado a correre per mantenermi in forma.» «Già, lo vedo spesso nella gente della sua età.» «Davvero? È l'età che mi fa correre?» «A perdifiato. Lei è un bell'uomo, Joe, ma forse si vede qualche capello grigio, delle rughe intorno agli occhi e si chiede Faccio ancora colpo? Le ragazze si girano sempre a guardarmi?» Joe esaminò Augie, sessantasette anni, braccia magre e pelose, testa quasi calva. Si immaginò più vecchio di venticinque anni, poi si guardò di nuovo nello specchio per rassicurarsi. «Non sono ancora finito. Le ragazze si girano sempre a guardarmi.» Il sorriso, però, gli svanì presto dalle labbra. Dovunque volgesse lo sguardo, quella mattina, vedeva donne incinte, donne che spingevano passeggini, o che lottavano contro le bizze dei loro bambini, destreggiandosi fra borse della spesa e seggiolini per auto. Fu preso dal panico. Rimase in attesa di un pensiero più piacevole. Non riusciva a capire se l'ultimo anno lo avesse talmente allontanato dalla vita, da fargli perdere il senso di ciò che desiderava. Augie prese alcuni spilli da un puntaspilli che portava sul fianco e si mise al lavoro sulla fascia. «Vuole che le lasci un po' di spazio per qualche bombolone?» Joe fece segno di no con la testa. «Non voglio tentazioni.» Niente più gli appariva normale. Quando era nato Shaun, Joe aveva ventitré anni e un'immensa energia, che canalizzava nel lavoro. Alla nascita dell'altro bambino, ne avrebbe avuti quasi quarantadue e si immaginava
stanco e privo di energia. Provò a immaginarsi mentre spingeva un passeggino a Owl's Head Park, ma non riuscì a vedersi. Aveva lo stomaco chiuso dalla paura e dal senso di colpa. Augie, che lavorava all'orlo dei pantaloni, sì alzò. «Ho finito gli spilli», disse, scomparendo nel retro, per dar tempo al tremito di quel costoso abito nero di placarsi. Dean Valtry era seduto alla scrivania, le mani fresche di manicure distese sul piano davanti a sé. Sulla parete dietro di lui, racchiuse da identiche cornici nere e lucide, una serie di fotografie mostrava otto abbaglianti sorrisi hollywoodiani. «Bella, vero?», disse Valtry, indicando una delle celebrità. «Secondo il suo dentista, aveva i denti peggiori che si fossero mai visti. Lei era la tipica bellezza appariscente del Sud... finché non apriva bocca. Aveva i denti marci. Aveva fatto la modella fin da bambina, acquisendo abitudini alimentari rovinose. Beveva solo soda e mangiava solo schifezze. Guardate invece il suo sorriso adesso: risplende a mille watt, ed è questo che cattura l'attenzione. Sapete di chi è il merito? Nostro. Siamo stati noi a farle fare carriera.» Joe annuì. Era abituato a persone come Valtry. Per loro i poliziotti erano pari a una merda di cane pestata per strada, però sentivano lo stesso il bisogno di far colpo su di loro. Valtry proseguì: «Ovviamente, la gloria se la prendono solo i dentisti. Noi creiamo la perfezione, loro mettono le loro facce sorridenti negli annunci sui giornali e in tv e ricevono le congratulazioni per il mio lavoro. Si limitano a gonfiare il prezzo, facendo pagare al cliente cinque volte quello che mi pagano (provate solo a immaginare quanto incassano) e vengono adorati dalle celebrità. Quella che faccio io è arte della miniatura. Ogni dente è diverso dall'altro: appuntito, smerlato, ricurvo... non importa come sono, noi li replichiamo esattamente. A scuola, nove è un bel voto, ma nella mia linea di produzione c'è posto solo per il dieci. Quando faccio una corona, un impianto, un ponte devono adattarsi perfettamente, come se Dio stesso li avesse messi lì. La perfezione non ammette voti minori del dieci.» «Sicuramente no», convenne Danny. «Infatti. Come posso aiutarvi?» «Signor Valtry, lei si serve della Trahorne Refining di Filadelfia?» chiese Joe. «Sì, perché?»
«Abbiamo ricevuto una segnalazione, relativa a un camice di laboratorio sporco di sangue trovato in un pacco spedito dal vostro laboratorio.» Valtry si scurì in volto. «È una cosa che può succedere.» Danny e Joe si scambiarono un'occhiata. «Non è infrequente», proseguì Valtry. «I miei tecnici lavorano con delle mole, che sono montate sui banchi di laboratorio e servono a rifinire i metalli. Si tratta di arnesi che possono rompere gli oggetti, per la verità in maniera anche piuttosto violenta, e ferire con schegge volanti.» «La quantità di sangue di cui stiamo parlando è diversa.» «Mostratemi il camice e vi saprò dire.» «Non lo abbiamo.» «Cosa?» «È stato incenerito.» «Signori, non capisco.» «Si è trattato di uno sbaglio», intervenne Danny, ad alta voce. «È finito per errore nell'inceneritore.» Valtry sbuffò, ma lentamente prese nota di quale fosse l'atteggiamento dei due uomini in piedi davanti a lui. «Quanto sangue c'era su quel camice?» Joe si piegò verso di lui. «Abbastanza da farle ricevere la visita di due ispettori della Omicidi.» Valtry fece una pausa. Joe aveva già visto altre volte quelle pause. La persona assorbiva l'informazione che le era stata data, ripassava velocemente ciò che sapeva, lo soppesava, poi decideva come giocarsela. L'uomo alzò le mani. «Venite nel mio ufficio a raccontarmi di un camice macchiato di sangue... no, un momento, di un immaginario camice macchiato di sangue, e io dovrei essere in grado di illuminare voi?» «Ascolti», disse Danny. «Abbiamo il tizio che ha trovato il camice e abbiamo motivo di ritenere che sia collegato a un'indagine sulla quale stiamo lavorando. Siamo qui solo per chiedere il suo aiuto.» «Roba da matti. Avete parlato con Bob Trahorne? È con lui che dovete parlare. Può garantire per me, il mio nome, la mia reputazione, qualunque cosa vogliate.» Indicò le foto sulla parete. «Pensate che uno come me, che ha una brillante collaborazione professionale con i migliori dentisti di Park Avenue a New York, possa essere coinvolto in un omicidio? Dovrei mettere a repentaglio il mio reddito e la mia posizione... sociale nella comunità? O assumere qualcuno che possa essere coinvolto in un omicidio? Ma fatemi il piacere. Sono all'apice della carriera, chiedete a chi vi pare. Guada-
gno bene facendo ciò che faccio, non inculo nessuno. Faccio dei bei denti, tutto qui. Parlate con Bob. Siamo in rapporti d'affari da quindici anni. Io non ho idea: a) di come quel camice sia arrivato là; b) se quel camice sia davvero esistito.» «Davvero?» disse Danny. «Si renderà conto di come ciò non sia per niente soddisfacente per noi. Partiamo quindi dall'inizio: dov'era il 13 marzo scorso?» Valtry rimase un attimo in silenzio, poi si piegò verso il suo computer e richiamò l'agenda. Risalì indietro di sei mesi. «13 marzo? Ero a casa, con dei brutti postumi da sbornia. La sera prima, la mia ex moglie e io avevamo cenato da Gordy, all'incrocio fra la Sessantatreesima e l'Ottava. Gordy è un amico e ha la mano generosa nel versare gli alcolici. Ce n'è bisogno, quando sei a cena con una pazza scatenata. Potete chiedere a Gordy in...» «Ma la sera del 13 lei era a casa. Da solo?» «Da solo.» «Cosa ha fatto?» «Ho guardato la tv e sono andato a letto presto.» «E lo scorso 4 settembre?» Valtry fece un largo sorriso. «Per quello ho una risposta ancora migliore, addirittura con l'aiuto degli audiovisivi.» Prese un telecomando dalla scrivania e lo puntò verso uno schermo al plasma appeso alla parete. Lo schermo si accese e mostrò Valtry in piedi su un podio, con indosso un completo grigio acciaio e una cravatta argento e blu. «Eccomi», disse aumentando il volume. Danny e Joe lo guardarono mentre parlava di capsule di ceramica e porcellana, facendo scorrere delle diapositive sullo schermo della sala convegni. «Dove si trovava?» chiese Danny. «International Cosmetic Dentistry Convention a Las Vegas, dal 31 agosto al 5 settembre. Come vedete dallo striscione, quella è la sera del 4 settembre.» «Quante volte se lo è guardato?» chiese Danny. Valtry lo fissò. «Mi piace imparare da tutto ciò che faccio, ispettore.» «Ci risiamo con la storia della perfezione, vero?» disse Danny, piegandosi in avanti per spegnere la televisione. «Dobbiamo parlare con tutti i suoi dipendenti, signor Valtry», disse Joe. «Potrebbe inviare un elenco dei loro nomi per fax al mio collega, l'ispettore Fred Rencher, a questo numero, per favore?»
«Non è un problema, ispettori. Un uomo che non ha niente da nascondere, non nasconde niente.» «Vorremmo anche venire qui domani mattina per parlare con tutti loro. Ha una stanza che potremmo usare?» Valtry sospirò. «Se proprio lo ritenete necessario.» «Ogni cosa che facciamo è necessaria, signor Valtry. Per questo la facciamo», disse Danny. «Buono a sapersi. Manderò quell'elenco. Ho quindici dipendenti fidati, per cui non dovrebbe richiedere troppo tempo.» Fece un gesto verso la porta. Joe e Danny si avviarono. «Apprezzeremmo molto la sua collaborazione», disse Joe. «Solo perché lo sappiate. A me piace aiutare. È parte di ciò che faccio. Il mio laboratorio fa del lavoro di ricostruzione facciale per gli indigenti. Voglio aiutare anche voi. Mi sembra di capire che siete disperati, no? Altrimenti non inseguireste indizi così evanescenti. Però sapete una cosa? Se vedo o sento il mio laboratorio citato in un contesto negativo per colpa della vostra indagine, farò causa per danni al dipartimento di polizia della città di New York da qui al secolo venturo.» Joe e Danny si fermarono a bere un bicchiere d'acqua nella lobby, poi andarono all'auto. «Hai notato come le persone incazzate tendono a specificare?» osservò Danny. «Non ha detto la polizia di New York. Il-Dipartimento-Di-PoliziaDella-Città-Di-New-York.» «Cosa nasconde quel camice?» disse pensoso Joe. «E dev'essere proprio suonato se pensa che le attrici attirino l'attenzione con un sorriso del cazzo. È il doppio air bag che le sbatte in prima pagina. Non se n'è accorto? Cristo, mi ci sono voluti dieci minuti per trovarle la bocca, quando me l'ha indicata. In ogni modo, da qualsiasi parte lo si consideri, quel tizio è uno stronzo.» «Il tipo che potrebbe facilmente avere un dipendente rancoroso. Magari alla fine scopriamo che l'altro l'ha fatto apposta per dare la colpa a Valtry e togliergli quel sorriso arrogante dalla faccia.» «Hai ascoltato quello che dicevo?» chiese Danny. «No.» Joe arrivò a casa poco dopo le undici, senza essere ancora riuscito a scaricare la tensione dal corpo. Anna non alzò lo sguardo quando lo sentì en-
trare; era acciambellata in pigiama sul divano, troppo comoda per aver voglia di conversare con Joe, qualunque cosa avesse da dire. «Ciao», disse Joe, sedendosi accanto a lei e tirandosi in grembo le sue gambe. Anna lo guardò per un istante e poi tornò alla tv. Quel momento però gli bastò per notare le sottili sbavature di mascara sotto gli occhi. Anna usava trucchi costosi, ci voleva un occhio esperto per notare i segni del pianto. Rimase per un po' a guardarla, con le luci della televisione che le illuminavano a tratti il volto, sul quale regnava un'aria di stanca sconfitta. Joe sapeva che in quella serata era condensato tutto ciò che di buono e di sbagliato c'era nel loro matrimonio. «Mi dispiace. Ho avuto da fare.» «Potevi chiamare.» «Lo so. Hai mangiato?» «No. E tu?» «Sì.» Lei si rabbuiò. «E mentre eri in qualche posto in attesa che ti servissero, non pensi che avresti potuto telefonarmi? Lo sai che ci tenevo a questa cena.» Lui sospirò. «Sono stanco. Scusami, ma è un brutto periodo.» «Stasera mi ero impegnata per preparare una cena speciale.» Le lacrime le si riaffacciarono agli occhi. Scosse la testa. «Non so proprio perché piango.» «Io sì.» Anna lo guardò sorpresa. «Cosa?» «Lo so.» Gli lesse sul volto che era vero. «Oh.» Un sorriso le si affacciò alle labbra. Lui fece la faccia dura. «Speravo che volessi dirmi che mi sono sbagliato.» «No, è vero, sono incinta.» «Come è successo?» «È ciò che succede quando non si prendono precauzioni.» «Ma tu prendevi...» «Non dal... dall'Irlanda.» «E non hai ritenuto opportuno dirmelo?» «Come facevi a non saperlo?» La voce le si stava incrinando. «Pensi che lo sapessi e che stessi deliberatamente prendendo dei rischi?
Che davvero pensassi: ma sì, quello che succede succede e sarebbe meraviglioso mettere al mondo un bambino?» Fu sorpreso lui stesso dall'intensità della propria rabbia. Ma non tanto quanto Anna. «Oh no», esclamò Joe. «Tu lo volevi, non è vero?» Negli occhi di lei balenò il panico. Joe si prese la testa fra le mani. «Quella sera, in pantaloncini tu... volevi...» «Volevo stare insieme a te.» «Volevi rimanere incinta.» «Credi che lo abbia fatto per calcolo?» «È buffo che il mese scorso abbiamo fatto sesso una sola volta (statistica impressionante, fra l'altro) e sei riuscita a rimanere incinta.» Le lacrime ora le scorrevano senza freno. «Perché sei così terribile?» «Anna, Anna, ma cosa credevi?» «Guardandoti adesso, davvero non lo so.» Fece per andarsene. «Aspetta. Aspetta, per favore. Mi dispiace. Sono fuori di testa. È solo che questa cosa, è enorme. Per me è uno shock. Io... è tutto il giorno che ci penso. Non so che dire.» La prese per le spalle. «Sono preoccupato per te», le disse piano, «per il fatto che volessi che accadesse. Non so da dove cominciare per spiegarti che non dovremmo farlo. La tua salute, la tua età, la tua testa altrove...» Le sollevò il mento con un dito. «Tesoro?» Lei pianse, gli occhi chiusi, incapace di guardare i suoi. «Sono così spaventata. Che ho fatto? Essere madre è così... è terrificante. Il mondo è tremendo. Lo odio. Prima non ero così. Anche se non ci fosse successo nulla, proverei lo stesso la sensazione che non c'è pace là fuori. Capisci cosa voglio dire? Non c'è più un luogo dove fuggire. Ogni cosa sembra toccata dal... male.» «Non è così, amore. Credimi. È solo che per te adesso è difficile vedere il bene, che pure c'è. E i tuoi orm...» «Non dire quella parola.» Quasi rise fra le lacrime. Sorrise anche Joe. «Vieni qui, amore. È tutto a posto.» Strinse la sua testa sul petto, poi la distese sul cuscino, lontano dal suo cuore, poiché sapeva che sentirlo battere così torte e così veloce non le sarebbe stato di conforto. 19.
Quando Mary aprì gli occhi, trovò Magda seduta sul bordo del letto. «Ciao, dormigliona. Come ti senti?» Le lacrime solcarono il volto di Mary. «Ti ricordi nulla?» «David è morto, vero?» «Purtroppo sì, cara.» Magda le accarezzò la fronte. «Mi dispiace tanto. Ti ricordi qualcosa del tuo attacco?» Mary scosse la testa. «No.» «Ok, non preoccuparti. Può tornarti in mente oppure no.» «Cosa è successo?» «Eri qui da sola, e hai avuto un attacco... sono venuta alla porta e ti ho trovato distesa sul pavimento. Ho chiamato il medico.» Mary sorrise. «Cosa stavo facendo?» «Eri solo spossata, inghiottivi a vuoto... niente di così folle.» «Bizzarro. Ho detto niente?» «Niente.» Magda fece una pausa. «Ma sulla tua scrivania c'era questo, quando sono arrivata.» Porse a Mary un foglio di carta bianca. Mary lo guardò senza riconoscerlo. Vide la propria calligrafia - scrittura da appunti di lezione universitaria, con l'esigenza di assorbire e preservare al tempo stesso - che con inchiostro nero raggrumato aveva vergato alcune parole, sparse sulla pagina: Ombra. Assenza. Perdita. Non posso muovermi. Perdita. Sola. Non posso muovermi. Rosso. Freddo. Guardò Magda per frenare il panico che sentiva nascere. «Hai letto?» Magda fece segno di sì. «Mostruoso. Che può significare?» lo rilesse. «È solo un brutto sogno, tesoro. Probabilmente lo hai scritto poco prima dell'attacco.» «Ombra. Non posso muovermi. Sola. Bizzarro. Non mi suona giusto.» Iniziò a boccheggiare per mancanza d'aria. «È solo un brutto sogno, nient'altro.» «Ho bisogno di sapere cosa significa.» La voce di Mary cominciava a incrinarsi. «Niente. Solo qualche pensiero spaventoso prima dell'attacco. Fisime. Non lasciare che ti turbino.» Magda si voltò verso un altro foglio di carta che aveva attirato la sua attenzione, ma Mary lo raggiunse per prima. C'erano tre parole, al centro: Tutta. Colpa. Mia. In fondo, il nome di David, esattamente come lei era abituata a scriverlo, con la d finale che si incurvava a incontrare l'iniziale.
Iniziò a tremare. Magda cercò di prenderle il foglio. «No», Mary se lo tenne stretto, «no.» Julia Embry fece scorrere lo sguardo sui diciannove residenti delle ColtEmbry Homes lì riuniti. «Buongiorno a tutti e grazie per essere venuti. Non vorrei, ma temo di dovervi comunicare brutte notizie. Mary Burig ha perso suo fratello, David. È morto lunedì. Qualcuno di voi avrà letto i giornali, è stato... assassinato.» Sembrò che la maggior parte di loro già sapesse. «La ragione per cui vi sto dicendo questo è che, ecco, alcuni di voi conoscevano David e inoltre è molto importante che rimaniamo vicino a Mary. Lei è sconvolta. Il suo stato di salute non è buono. Questa mattina si trova nella sua stanza e dobbiamo lasciarle lo spazio per sfogare il suo dolore.» Si guardò intorno. Tutti annuirono. Qualcuno piangeva. «So cosa vuol dire perdere qualcuno. Dieci anni fa è morto mio figlio Robin.» Julia abbassò lo sguardo. «Robin era la mia vita. Aveva solo diciassette anni. Credevo di non poter sopravvivere, ma ce l'ho fatta e sono ancora qui. Come voi. Alcuni hanno perso dei familiari nell'incidente che li ha condotti qui. Altri, purtroppo, hanno perso fidanzati, mariti, mogli, fratelli per... diciamo per mancanza di comprensione. So che si tratta per voi di una prova difficile. Un momento prima la vostra vita va in una direzione e il momento successivo è completamente cambiata. Forse siete qui a causa di un uomo o una donna che si è messo alla guida dopo una birra di troppo. Non possiamo avere il controllo su ogni cosa. Però siamo qui perché ci teniamo agli altri. So che tutti voi avete molte cose da fare, ma dovete pensare anche a Mary, perché in questo momento ne ha bisogno. È importante ricordare anche che non dobbiamo definirci in base alle cose che ci succedono, e tanto meno in base alle cose negative. Non vorrete certamente che le persone vi considerino semplicemente come soggetti che hanno subito una lesione cerebrale. Io non voglio essere considerata come la povera mamma di Robin. Tutti noi siamo molto di più. La perdita di Robin mi ha distrutto, ma ha fatto sì che mettessi su questa clinica, perciò ne è uscito qualcosa di buono. Riassumendo, volevo soltanto pregarvi di essere di conforto a Mary, aiutandola a superare questo momento, cercando di farla sentire meglio, non appena lei vi farà sapere che è pronta.»
Joe e Danny aspettavano fuori della porta, quando Julia uscì. «Salve», disse Joe. «Possiamo parlare un attimo con Mary?» Julia non rispose subito. «Di che si tratta? Ha avuto un attacco questa mattina, ora sta riposando.» «Non ci vorrà molto. Si tratta solo di David e di alcune delle sue attività finanziarie.» «Ok. Di che si tratta esattamente?» «Perché non andiamo a parlarne con lei?» «Va bene. Non avevo intenzione di ficcare il naso.» Squillò il cellulare di Joe. «Scusatemi», disse, rimanendo indietro mentre gli altri due si avviavano. «Ispettore Lucchesi? Sono ancora Scott Dolan, di Filadelfia. Difficile credere a quello che sto per dirle: uno degli amici di Curtis Walston alla Trahorne Refining ha messo da parte per noi un bel camice nero macchiato di sangue, proveniente da un pacco dei laboratori Valtry.» «Un altro?» «Sì, arrivato poco dopo il primo.» «Mi prende in giro?» «Ce l'ho qui davanti a me, racchiuso in una busta per le prove. Questo tizio lo ha salvato dalla fornace, perché anche lui odia il capo ed è incazzato nero per il licenziamento di Walston.» «Ottima notizia.» «Glielo spedisco subito.» Mary se ne stava rannicchiata sul letto, fissando la foto di David sul comodino. Non riusciva a credere che fosse morto. Non le era rimasto nessuno. Nessun familiare. Poi, rivolse lo sguardo a un'altra foto che la ritraeva insieme a Julia e a Magda e capì che aveva delle persone che le volevano bene. Adesso la sua casa era quella, lo aveva sentito già dopo una settimana dal suo arrivo alla Colt-Embry. Non avrebbe più voluto che fosse diversamente. Udì bussare alla porta e andò ad aprire. «Salve, Mary», le disse Joe. «Ispettori Lucchesi e Markey, siamo qui di nuovo.» «Entrate.» «Come si sente?» Mary alzò le spalle. «Non la disturberemo a lungo, ci sono solo alcune cose da chiarire. Abbiamo esaminato i documenti finanziari di suo fratello. Sappiamo che era
lui che pagava per la sua assistenza qui, ma prima che lei venisse aggredita staccava assegni per grosse somme di denaro indirizzati direttamente a lei. Riesce a ricordare perché? Mary sembrò perplessa. «Beh, era mio fratello maggiore, mi ha sempre aiutato...» «Si tratta di assegni per cinquemila dollari al mese.» «Wow, un sacco di soldi.» «Infatti. Forse se ci pensa riesce a ricordare perché e come spendesse tutti quei soldi.» «Proprio non lo so. Davvero. Mi ricorderei di una cifra così grossa, ma non mi viene in mente niente.» Magda Oleszak entrò nella biblioteca. Stan Frayte era in un angolo a guardare una grande foto incorniciata, appesa alla parete. Ritraeva un adolescente biondo, che sorrideva pazientemente alla macchina fotografica. Sopra di essa era montato un cartello di legno con scritto GALLERIA. Sei mesi prima Magda aveva liberato uno spazio dove i residenti potevano appendere le foto incorniciate dei loro amici e familiari. Si trattava di qualcosa di più che semplici decorazioni, era parte del loro trattamento e faceva sì che facce e memorie uscissero allo scoperto e riprendessero vita. Tutti erano stati invitati a portare delle foto e Mary ne aveva appesa una di David. Magda indicò la foto che Stan stava guardando. «È la prima che abbiamo appeso. Robin, il figlio di Julia.» «Davvero?» «Sì. Povero ragazzo. Ucciso in un incidente d'auto.» «Come sta Mary?» «Bene, ma per lei è dura. Non solo per la perdita, ma perché David era collegato ai ricordi di quando lei era sana, e ora che se ne è andato, credo che pensi che al mondo non esiste più nessuno che la conosca come era prima, nessuno che si ricordi della vera Mary.» 20. L'addetto alla reception avvertì Dean Valtry che Joe e Danny lo stavano aspettando. Valtry arrivò quasi subito, sorridente e con la mano tesa per salutarli. «Buongiorno, ispettori. Al primo piano c'è una sala riunioni, potete usare
quella. È tutto pronto: c'è l'acqua, la macchina per il caffè, ho fatto portare anche qualche ciambella... pure qualche biscottino...» «Grazie, davvero molto gentile», disse Danny. «Come volete procedere?» «Li mandi su uno alla volta, secondo l'elenco. Non importa che dica loro niente.» Valtry annuì e andò nel suo ufficio. «Odio quando mi offrono le ciambelle», disse Danny mentre entravano in ascensore. «Ma che dici? Tu adori le ciambelle», gli disse Joe, premendo il pulsante del primo piano. «Esatto. Una volta che la gente vede confermato il collegamento sbirro/ciambella, pensa automaticamente che anche tutti gli altri preconcetti corrispondono a verità. Prima che tu me lo chieda, ecco l'elenco: siamo grassi, tonti, pigri e razzisti.» «E mettiamo continuamente le corna alle mogli.» «Ci devono pur essere delle gratifiche per cui valga la pena mettere a rischio la mia vita ogni giorno.» «Già, proprio adesso sento che stiamo correndo un gravissimo pericolo.» «Tu scherzi, ma chiunque potrebbe entrare in quella sala riunioni e...» «Vedere con quanta rapidità scompare una scatola di ciambelle.» «Di sicuro non nel mio stomaco», disse Danny, battendosi una mano sul ventre piatto. «Sì, mi sembri proprio in perfetta forma...» Joe si interruppe perché, uscendo dall'ascensore, vide che c'era già qualcuno in attesa fuori dalla sala riunioni: una ragazza asiatica, bassa, con lunghi capelli raccolti in una coda di cavallo. Aveva un'aria da intellettuale, portava occhiali senza montatura, e un largo camice bianco, dal quale spuntavano dei fuseaux chiari e scarpe marroni ordinarie. «È lei quella che cerchiamo», disse Danny sottovoce. Joe scoppiò a ridere e la donna trasalì. «Mi scusi se l'ho spaventata», disse Joe. «Si accomodi.» «Mi scusi lei. Ero persa nei miei pensieri e poi non sopporto, diciamo così, le cose ufficiali.» «Non credo che debba avere niente di cui preoccuparsi», la rassicurò Danny. Si sedette tranquilla con le mani in grembo, finché Joe e Danny non ebbero versato il caffè.
«Può dirmi il suo nome?» chiese Danny. «Ushi Gahr.» «Bene, signorina Gahr...» «Ushi.» «Ushi, c'è stato qualcosa che ha richiamato la nostra attenzione, e ci chiedevamo se poteva aiutarci.» «Proverò.» «Nelle scorse settimane ha notato niente di sospetto al lavoro?» «Sospetto?» Ci pensò un po'. «No.» Scosse fermamente la testa con un solo movimento deciso. «Qualcosa d'insolito?» chiese Joe. «Del tipo?» «Del tipo cose che non vede tutti i giorni, qualcosa che l'ha sorpresa.» «Non mi viene in mente niente.» «Qualcosa che l'abbia fatta sentire a disagio?» «No.» «C'è qualcuno con cui lavora che ha agito in modo inconsueto?» Sorrise. «Vorrei, ma temo che siano un branco di ottusi. Tranquilli, lavoratori, poco socievoli. Proveniamo tutti dalle file dei secchioni; tanto per rendere l'idea, io sono quella meno standard. Mi sono spiegata?» Joe sorrise. «Ok. Andate tutti d'accordo?» Ushi annuì. «Credo di sì. Basta non prendere dal frigo il cibo con l'etichetta di un altro e non ci sono conflitti.» «Che tipo di capo è il signor Valtry?» «Equo. Entusiasta del lavoro. Tutte le persone impiegate qui sono laureate col massimo dei voti. Il signor Valtry non è uno col quale vorrei mai fare una lunga conversazione, e neppure una conversazione che non fosse di lavoro, ma non è una persona spiacevole.» Si fermò un attimo. «Spero che non suoni troppo negativo.» «Per me», disse Danny, «suona nel modo in cui la maggior parte delle persone descrive il proprio capo.» «Probabile.» «Allora», riprese Joe, «Valtry è molto bravo nel suo lavoro.» «Il lavoro che ci presenta è sempre eseguito magistralmente.» «È rigido nei suoi standard?» «Sì, ma lo mette in chiaro prima di assumere chiunque. Non assume mai chi non sia accurato al cento percento. Dopo di che, non ha più bisogno di tornare sull'argomento.»
«Ok. Credo che sia tutto. Grazie molte per il suo tempo.» Ushi andò alla porta, ma si fermò un attimo prima di chiudersela alle spalle. «Chiedeteglielo. Fatevi mostrare dal signor Valtry come funzionano i macchinari, è molto interessante.» Sorrise brevemente e sparì. In circa tre ore, altri quattordici dipendenti entrarono dalla porta, ma nessuno di loro aveva visto o sentito qualcosa di insolito. «Ora», disse Danny, scorrendo le pagine del suo taccuino, «perché cazzo dovrei voler vedere Dean Valtry che fabbrica dei denti?» «Beh, Ushi sembrava una ragazza molto in gamba. O ama molto il suo lavoro, o ci ha fornito un'indicazione.» «E d'altra parte, se voleva solo riferirsi al lavoro, ci avrebbe invitato a vedere il suo banco di lavoro, giusto?» «Esattamente.» Joe compose il numero della portineria. «Salve, sono l'ispettore Lucchesi al... ok... grazie, sì... quasi, potrebbe passarmi il signor Valtry, per favore? Grazie. Oh sì, erano buone.» Indicò le ciambelle e Danny lo prese come un invito. «Pronto, signor Valtry, quassù abbiamo finito. C'è solo un'altra cosa: potrebbe farci fare un breve giro del laboratorio prima che ce ne andiamo, così da avere un'idea di cosa fate esattamente? Potrebbe aiutarci a capire qualcosa che abbiamo trascurato.» Annuì. «Ottimo. Scendiamo subito.» Il laboratorio era piccolo, con tre file di banchi da lavoro, a ciascuno dei quali si trovavano tre tecnici. Sul retro era sistemato un bancone comune con la maggior parte dei macchinari ingombranti. «Ok», disse Valtry. «Ascoltate tutti. Avete già incontrato i nostri due ispettori, i signori Markey e Lucchesi. Mostrerò loro rapidamente cosa facciamo nel laboratorio, perciò, se non vi dispiace, lungo il percorso mi fermerò alle varie postazioni, per indicare lo stadio di lavorazione in cui vi trovate. C'è nessuno che sta facendo una ceratura?» Una ragazza dal fondo alzò la mano. Valtry si diresse verso di lei, seguito da Joe e Danny. Valtry si rivolse a loro due. «Ecco come funziona: l'impronta dei denti che vi viene presa sulla poltrona del dentista è destinata a noi. Ci versiamo sopra del gesso e lo lasciamo solidificare, in modo da avere un modello esatto della vostra bocca.» Mostrò loro un modello in gesso di un'arcata inferiore. «Qui manca un dente e devo sostituirlo con uno nuovo, perciò inizio col costruirne uno di cera. Usiamo un bollitore che mantiene la cera li-
quida, la preleviamo con una spatola e modelliamo il dente. Poi prendiamo il dente di cera e lo mettiamo qui.» Sollevò un piccolo contenitore di plastica trasparente. «Questo viene in seguito riempito con un materiale tipo gesso e lasciato indurire. Togliamo la base e lo mettiamo in forno a una temperatura di circa ottocento gradi, in modo tale che la cera si sciolga. Quando guardiamo dentro al gesso, al posto della cera troviamo una piccola cavità della stessa forma del dente.» «Sto per modellare adesso», disse un tizio seduto dietro a Danny, «se volete vedere.» La sua voce era penosamente bassa. «Qualcuno ha detto qualcosa?» chiese Valtry. Il tizio arrossì. «Questo signore è pronto», disse Danny, indicandolo, e l'altro sorrise fuggevolmente. «Ah, Kelvin. Bene, ci mostri cosa sta facendo.» «Perché non lei?» intervenne Joe. Valtry fu preso in contropiede. «Scusi?» «Perché non ci fa vedere lei?» «Kelvin è un eccellente...» «Lo immaginiamo», disse Danny, «ma in fondo è lei quello con tutti gli attestati alla parete, perciò noi preferiremmo che fosse lei a farlo. Dopo aver visto quel video che ci ha mostrato, sono sicuro che...» «D'accordo.» Li condusse verso un banco sul retro, dove si trovavano due piccoli forni e delle sedie pieghevoli; accanto c'era un macchinario, sul quale Valtry si piegò per caricare una grande centrifuga metallica. «Che cos'è?» chiese Joe. «Un forno di fusione. Fra poco vedrete cosa fa; ho appena caricato la centrifuga e l'ho messa in posizione.» Si mise i guanti e prese delle molle, con cui aprì il forno e ne estrasse il piccolo cilindro di gesso con al centro la cavità a forma di dente, che poi sistemò sul piano di lavoro. Kelvin passò davanti a loro e si piegò sul forno. «L'ho già caricata», disse Valtry. Kelvin fece una faccia seria. «Ma sul fondo c'è una vite che è saltata fuori, quindi... lo sapeva, signor Valtry, vero? Spero di sì», lo provocò, approfittando della presenza dei due estranei. Valtry arrossì. «Certo. La stavo solo mettendo alla prova.» Rise in modo forzato. «Forse potrebbe rimetterlo a posto lei e caricarla di nuovo.»
Kelvin eseguì sorridendo. Valtry tolse da un gancio sul lato del macchinario una lampada per saldare, aprì la porta del forno e la accese con gli elementi ardenti dell'interno. «Questa fiamma non è sufficiente per fondere l'oro, ma una volta mescolata con l'ossigeno...» Girò una valvola posta su un cilindro verde accanto a lui e dalla torcia scaturì una sottile fiammella blu. «La fiamma che ho adesso è rovente: oltre milleseicento gradi. Getteremo il metallo attraverso il foro e quando sarà entrato avremo una corona metallica, non più di cera.» «Ci sarà bisogno di occhiali», disse Kelvin. «Certo. Può procurarcene qualcuno?» Kelvin porse loro delle protezioni per gli occhi. «Guardate, ma poi distogliete lo sguardo, senza fissare la fiamma troppo a lungo.» «Oggi usiamo l'oro», disse Valtry, «perciò poniamo i lingotti d'oro in questo crogiolo. Prendo l'anello...» Kelvin indicò il crogiolo. «Non dimentichi di preriscaldare il...» «Grazie di nuovo, Kelvin», disse Valtry con voce tesa e troppo alta. «Prendo la torcia e inizio preriscaldando il crogiolo, finché non è di un bel rosso ciliegia. Poi vi metto i lingotti. Mantenendo qui la torcia, fondo l'oro finché non è liquido; ci vogliono circa sessanta secondi. Estraggo l'anello, ponendolo proprio davanti al crogiolo. Quando chiudo il coperchio, inizierà a girare vorticosamente e l'azione centrifuga sparerà l'oro attraverso il foro dentro lo stampo. Uno, due, tre...» Chiuse il coperchio e dalla centrifuga al di sotto esplose un accecante cerchio di luce bianca. «Forse dovremmo chiudere il gas e il resto», disse Kelvin. «Posso farlo io.» «Grazie.» Kelvin spense la torcia, estrasse il tubo del gas e spense l'ossigeno. «Bene, questo è fatto», disse Valtry. Spinse una leva al centro del macchinario, premette un pulsante rosso, aprì il coperchio e usò delle pinze per estrarre l'anello di gesso. «Aspetterò un'ora perché torni a temperatura ambiente e quando lo aprirò troverò all'interno un dente d'oro. Il lavoro successivo è di rifinitura e lucidatura. Terminato anche quello, inizia il lavoro cosmetico che poi sarà sotto gli occhi di tutti, cioè l'aggiunta di porcellana o ceramica, che però ha bisogno di una base metallica per la robustezza.» «Quindi sono le rimanenze della rifinitura e lucidatura che vengono
mandate alla raffineria», disse Joe. «Sì.» «Bene. Grazie per averci mostrato il suo lavoro.» «Già, grazie», concluse Danny. Ushi Gahr sorrise quando passarono davanti a lei. Una volta fuori, Joe disse a Danny: «Gas, lampade per saldare, fiamme, metallo fuso... attrezzi davvero simpatici con cui far giocare uno psicopatico». 21. Shaun Lucchesi era disteso davanti alla televisione con una bottiglia di birra in mano e una confezione di sfoglie di mais in grembo. «Tanto per dire le cose chiaramente», gli si rivolse Joe, «sono le sette di sera di un lunedì, Shaun. Credi davvero che bere birra sia una cosa saggia?» Shaun mugugnò qualcosa, senza staccare gli occhi dallo schermo, poi si portò la bottiglia alle labbra. Joe lo guardò, finché decise che non ne poteva più. «È tutto sbagliato», esclamò, andando a strappargli di mano la bottiglia. Shaun scattò su. «Ma che diavolo?» «Ne ho abbastanza. Il tuo atteggiamento fa schifo.» «D'accordo, ridammi la birra.» «Falla finita. Chiudi quel cazzo di bocca.» Shaun rimase senza parole, incredulo. Joe si sedette, massaggiandosi la fronte. «Scusami.» Guardò Shaun, che sembrava perso. Ma tutta la sua famiglia era cambiata nell'ultimo anno, e lui non aveva impiegato neanche un attimo del suo tempo a occuparsi del problema. Joe parlò a bassa voce. «Ascolta, Shaun, mi dispiace, ma sono preoccupato per te e anche tua madre lo è.» Shaun sospirò. «Sto bene.» «Non è vero. E lo sai anche tu.» Shaun alzò le spalle. Joe si rese conto di ritrovare la stessa annoiata indifferenza che lui mostrava a suo padre all'età di diciotto anni. Non riuscì a decidere se la cosa lo sollevava o lo faceva incazzare ancora di più. «C'è differenza fra bere come bevi tu e come bevevo io quando ero un ragazzo.» «Sì. Tu probabilmente lo facevi indossando pantaloni a zampa d'elefan-
te.» «Forse. Ma, parlando sul serio, era davvero diverso. Non bevevamo così tanto alla tua età.» «Non sono certo un alcolizzato.» «Ultime parole famose.» Shaun alzò le spalle. «Ascolta Shaun. Tu bevi, parecchio, quattro sere a settimana. Finirai male. Perché bevi così tanto?» «Non è vero. A nessun altro i genitori rompono così i coglioni.» «Forse a nessun altro genitore importa così tanto del proprio figlio.» Shaun alzò gli occhi al cielo. «Senti, ne sto parlando insieme a te ragionevolmente. Non sono arrabbiato. Però se continui così lo sarò, e non poco.» Shaun rimase con gli occhi fissi a terra. «Se bevi per dimenticare... il passato, questo è ciò che maggiormente ci preoccupa. Sappiamo che hai avuto esperienze tremende, che nessuno dei tuoi amici riesce solo a immaginare. Ti dirò di più, che a loro neppure interessa; sei solo parte di un gruppo, dove nessuno prende a cuore i destini dei singoli, né si preoccupa se ogni sera tu ti butti via.» «Invece sì.» «No. C'è mai stato qualcuno che ti ha chiesto di raccontargli cosa è avvenuto in Irlanda?» «Sono io che non voglio parlarne. Loro sanno qualcosa, ma non perché gliene ho parlato io.» «E secondo loro fai bene a buttarti via ogni sera?» «Non sono loro a dover giudicare, è una cosa che riguarda solo me. Sono io a prendere le decisioni.» «E allora ne stai prendendo di decisamente sbagliate. Tua madre e io non rimarremo a guardare senza fare niente, perciò i patti sono questi: uscirai solo di sabato sera. Il venerdì guarderai un film con Tara o chi altro vuoi, però senza bere. Ogni altra sera della settimana rientrerai a casa prima delle dieci e trenta.» «Non esiste, papà, non esiste.» «Esiste, esiste. Prendo provvedimenti io prima che lo faccia tua madre. Lei sarà qui fra poco, ma non voglio che debba preoccuparsi di niente, perciò ne parliamo tu e io adesso, ok? Poi capirai meglio perché abbiamo bisogno del tuo aiuto e perché nessuno di noi due adesso può preoccuparsi di avere un figlio a disintossicarsi in clinica.» «Questa te la potevi risparmiare.»
Anna entrò nella stanza, salutò e andò a sedersi sul divano, accanto a Shaun. «È successo qualcosa?» chiese lui, preoccupato. «Non è successo niente», rispose lei, «c'è solo una cosa che volevamo dirti.» Shaun rimase in attesa, silenzioso. «Avremo un bambino.» «Chi?» Fece scorrere lo sguardo dall'una all'altro. «Voi?» Sgranò gli occhi, cercando conferma nei loro volti. «Cosa?» Lentamente, si calmò. «Oddio, è vero, non è uno scherzo.» «Proprio la reazione nella quale speravamo», disse Joe. «Grazie», disse Anna. «Scusa, mamma.» Si piegò per abbracciarla, un po' impacciato. «Congratulazioni.» Sorrise brevemente a Joe. «Tua madre e io siamo... molto felici.» «Te lo abbiamo detto molto presto, ma tuo padre pensava, insomma, che io, ecco, non avessi bisogno di molto stress. Spero che tu possa aiutarmi.» Shaun fissò duramente Joe, ma guardò Anna con dolcezza. «Certo mamma. Mi dispiace. Sono felice per voi due. Insomma, è bizzarro, ma...» Joe gli lanciò un'occhiataccia. «Oh, andiamo, è bizzarro. Però credo che potrebbe non essere malaccio fare il fratello grande.» Squillò il cellulare di Joe. «A questa devo rispondere per forza», disse, avvicinandosi alla finestra. «Pronto?» «Joe, sono Tom Blazkow. Due cose: sono arrivati i risultati di laboratorio sul secondo indumento di Trahorne e abbiamo una corrispondenza con il sangue di Ethan Lowry. Seconda... c'è un altro cadavere.» Dean Valtry era vissuto e morto in un anonimo loft su Duane Street, nel lussuoso quartiere TriBeCa. Da vivo, si adattava bene al lucente spazio bianco polare con mobili spigolosi e quadri sapientemente posizionati. Da morto, la fronte spaccata e il cadavere irrigidito sembravano adattarsi consapevolmente all'ambiente. Giaceva disteso su un lungo divano dallo schienale basso, vestito con un completo gessato blu, camicia blu con colletto, polsini bianchi con gemelli d'oro e cravatta dorata. Aveva la bocca spalancata. Danny e Joe rimasero per un po' a osservarlo. «La morte non dà voti», disse Danny. «Colpito in fronte da un proiettile mentre era seduto sul divano», disse
Joe. Il dottor Hyland alzò lo sguardo e annuì. «Forse era troppo occupato a guardare se stesso in televisione per accorgersi dell'assassino», disse Danny. «Salve», salutò Bobby entrando. «Il primo distretto non è più sicuro come una volta», disse Joe. «Puoi dirlo forte.» «Cos'è successo?» «Sembra di nuovo una ventidue, ma senza maciullargli prima la faccia.» Joe scosse la testa. «Qualcuno ha parlato coi vicini?» «Molti appartamenti sono vuoti», disse Bobby. «I proprietari sono persone ricche che vengono in città un paio di volte all'anno, attori, finanzieri, roba del genere. Le uniche due persone che erano in casa non hanno sentito niente. Gli appartamenti sono insonorizzati e sono così grandi che è come se fossero dall'altra parte della strada.» «Facciamo un giro intorno», propose Joe. «Almeno non è difficile vedere tutto», osservò Danny. «Mettici un po' di vino e formaggio ed è come essere all'inaugurazione di una galleria d'arte.» «Sì», confermò Hyland, «e Valtry qui è l'opera di qualche artista postmoderno con il gusto del macabro.» Joe annuì. «Torniamo fra poco.» Si mosse insieme a Danny per l'appartamento, che non aveva muri divisori, evitando gli uomini della scientifica al lavoro. «Dunque», disse Joe, «il giorno in cui scopriamo un legame certo fra la Trahorne Refining e il laboratorio di Valtry, quest'ultimo viene ucciso.» «Già. Credi che fosse parte del...» «Credo che sapesse chi era, ed è per questo che stasera ha ricevuto una visita.» «Doveva trattarsi di qualcuno del laboratorio», disse Danny. «Forse dovremmo spingerci oltre, controllare i fornitori, chiunque sia entrato e uscito dall'edificio, chiunque abbia avuto accesso a quei bidoni e a quei pacchi che arrivavano e partivano.» «Ma abbiamo parlato con tutti, a partire dagli addetti alle pulizie.» «Evidentemente ne abbiamo saltato uno.» Il giro dell'appartamento non durò a lungo, uno spazio ampio, pulito e ordinato come il laboratorio, tenuto perfettamente come l'ufficio di Valtry. «Non mentiva quando parlava della sua cura per i dettagli», disse Joe. «Guarda: libri, cd, tutti sistemati in rigoroso ordine alfabetico. Chi fa una
cosa tanto maniacale?» «Tu, tanto per non fare nomi.» «Non così all'estremo.» Danny lo guardò come se fosse uscito di testa. «Joe, tu sei il più grande maniaco dell'ordine che io conosca.» Si guardò in giro per la stanza. «La cosa comunque rende più facile il nostro lavoro, non dobbiamo dannarci a cercare, perché scommetto che ogni foglio di carta in ogni fascicolo di quegli schedari è al posto giusto.» Joe usò un guanto per aprire uno dei cassetti. Le targhette erano colorate secondo un codice, i titoli ordinatamente stampati. Danny alzò le spalle. «In una giornata non ci sono abbastanza ore per perdere tempo in un lavoro del genere.» «Il fatto è che se ti organizzi, poi non devi perdere tempo a cercare e hai più ore a disposizione per fare altro.» «Gesù, ma la vita vera non la conoscete?» Joe andò in cucina e prese il telefono. Fece scorrere i numeri chiamati e li annotò tutti. Poi fece lo stesso con il cellulare di Valtry. «Ultimo numero chiamato alle 18:30.» «Probabilmente quando è arrivato a casa dal lavoro», disse Danny. Entrarono nella stanza da letto, separata dal soggiorno da un muro a metà parete. Il letto era enorme, fatto su misura, a quattro piazze, drappeggiato di mussola bianca. «Viveva qui da solo?» chiese Danny. «Già.» La zona era immacolata, uno spazio di pace lontano dalla scena del delitto all'altro capo dell'appartamento. «Ok», disse Joe. «In questo appartamento manca qualcosa.» «Il cuore.» «A parte quello.» «Mobili.» Joe scosse la testa. «Attrezzature, macchinari, tutto quel cazzo di cose che abbiamo visto al laboratorio.» «Perché? Lavorava nel laboratorio, mica a casa.» «Quando ci ha mostrato il processo di lavorazione, ti è sembrato che fosse davvero a suo agio? Che quello fosse il suo ambiente? Mentre lui si guardava in televisione, ho sbirciato la sua agenda e ho visto che praticamente ogni sera aveva qualcuno da incontrare. Non svolgeva il suo lavoro di tecnico durante il giorno, né la sera e adesso scopriamo che non lavora-
va neppure nel fine settimana, perché qui non c'è niente.» «Va bene, ma lui era il grande capo, non voleva perdere tempo con forni, scalpelli e cazzate varie. Quando ci ha detto che ciò che faceva era arte della miniatura, intendeva che erano i servi della gleba a farlo per lui.» Joe scosse la testa. «Ti ricordi della ragazza asiatica che ci ha detto di chiedere a Valtry di mostrarci le cose? Lo abbiamo fatto perché c'era qualcosa che non le tornava.» Si spostarono nell'ingresso. «Quindi si limitava a prendersi il merito per il lavoro dei suoi dipendenti», proseguì Danny, «e questo è ciò che fanno tutti i capi. Quando cattureremo lo psicopatico che ha commesso tutto questo, credi che faranno andare noi sul gradino più alto del podio?» «Hai ragione, ma per Valtry era diverso, lui fabbricava effettivamente degli oggetti, che facevano credere ai suoi topi di laboratorio che fosse un grande.» «E invece...?» «E invece non penso che fosse lui a fabbricarli.» Tornarono da Bobby. «Dov'è il portiere?» chiese Joe. «Di sotto, sconvolto. Si chiama Cliff.» «Andiamo a parlarci», disse Joe a Danny. Presero l'ascensore per il piano terra. Cliff era seduto, pallido e sudato, su un divano grigio e arancione. «Non ho visto entrare nessuno.» Si tenne la mano destra sul braccio sinistro. «Scusate, ho problemi di cuore.» «È tutto a posto», gli disse Joe. «Si tranquillizzi. Vuole un bicchiere d'acqua?» «No grazie, sto bene.» «Lei è stato qui tutta la sera.» «Sì, non mi muovo mai dal mio posto durante l'orario di lavoro.» «Bene. E nessuno è venuto a trovare il signor Valtry?» «Nessuno è entrato dal portone principale.» «Ok.» «Però c'è un'entrata posteriore. Qui abitano un sacco di personaggi importanti, uomini di spettacolo, modelle, uomini d'affari, tutta gente che ama la privacy.» «Sul retro non ci sono norme di sicurezza?» «No, è così che preferiscono.» «Perciò se ho un visitatore, posso dirgli di entrare liberamente dal retro.»
«Non proprio liberamente, c'è bisogno del codice privato, ogni appartamento ne ha uno, però certo, possono entrare senza che noi lo sappiamo. Un'auto può fermarsi proprio davanti alla porta sul retro e chiunque abbia il codice entra senza problemi.» «Lei ha il codice?» «Io ho un codice. I residenti cambiano spesso il loro codice e nessuno conosce quello degli altri, a meno che non gli venga comunicato, ma non c'è motivo per farlo, perché se accade qualcosa di brutto, si può rintracciare il codice che ha aperto la porta. Ma non era mai successa una cosa del genere... fino a ora... e purtroppo il tizio il cui codice è stato usato non è più tra noi a dirci a chi lo aveva dato.» «Ma Valtry doveva conoscere la persona che ha lasciato entrare.» «Già, ovviamente non abbastanza. Valtry era una brava persona, si fidava di tutti. Mi dispiace tanto di quello che è successo.» «Anche a noi, Cliff.» «Allora, che succede?» chiese Danny, mentre si avviavano all'auto. «Che significa, che succede?» «Ti comporti in modo strano.» «Succede che mia moglie è incinta.» Danny si fermò. «Gesù. Beh, congratulazioni. È... una bella notizia, vero?» Joe sospirò. «Se io fossi una persona migliore, sì, forse.» «Che vorresti dire?» «Suppongo che sia una bella notizia. Almeno così abbiamo fatto credere a Shaun.» «Le donne rimorchiano volentieri gli uomini con i bambini piccoli.» Joe scoppiò a ridere, ma si portò subito una mano alla mascella. «Cazzo!» «Porterò io il bambino al parco al posto tuo. Per me non è un problema. Gli sussurrerò, però a voce abbastanza alta da farmi sentire dalle pollastrelle in giro: la mammina è in cielo con gli angioletti.» Joe rise di nuovo, nonostante la mascella. «Sei un malato di mente senza speranza.» 22. Bobby Nicotero entrò nell'ufficio della Manhattan Nord e andò direttamente alla scrivania di Joe.
«Joe, posso parlarti un attimo per favore?» «Certo. Dimmi pure.» «Meglio nel corridoio.» «Possiamo parlare qui.» Bobby lo indicò con un dito, gli occhi fiammeggianti. «Nel corridoio.» Poi si voltò e uscì. Joe si alzò lentamente e lo seguì. «Vuoi dirmi», urlò Bobby, «che cazzo succede fra te e mio padre?» «Cosa?» Joe si chiuse la porta alle spalle. «So che state tramando qualcosa. So che sta facendo qualcosa per te, lo so per certo. E...» «Ma di che cazzo parli?» «Si comporta in modo misterioso...» Perse il filo del discorso. «Credo di essermi sbagliato sul fatto che tradisse mia madre...» «Ovviamente ti sbagliavi. Avrei potuto dirtelo io.» «Oh, certo, tu avresti potuto, Joe Lucazzesi, che sa tutto e vede tutto.» «Ce la farai mai a crescere?» «Chiudi quella boccaccia.» Joe sospirò. «Bobby che ti piaccia o no, a me importa molto del vecchio Nic. Tuo padre si annoia, gli manca il lavoro...» «Non me ne può fregare di meno di mio padre. Io mi prendo cura di mia madre. È fuori di testa dalla preoccupazione. Già è contenta che sia arrivato alla pensione tutto d'un pezzo, ora non vuole che sia coinvolto nelle tue stronzate.» «Qualunque cosa ci sia fra me e tuo padre, è fra me e lui.» «Certo, solo voi due, chiaro e netto. Ma lui ha anche una moglie, lo sapevi?» «Gesù Cristo, ma ti ascolti quando parli, pezzo d'idiota? Aiuto tuo padre con il suo libro, ok? Tutto qui. Copertura saltata, bel risultato.» «Non prendermi per il culo, Lucchesi.» «È la verità, chiedilo a lui.» «Non ho intenzione di chiedergli niente di queste stronzate.» «Non sono stronzate.» «Che cazzo vuoi dire?» «Lo hai detto tu stesso: non te ne può fregare di meno di tuo padre. Lui invece cerca un modo di impiegare il tempo. Io lo aiuto...» «Cosa ne sai tu di ciò che cerca mio padre? Niente...» «Cazzate! Lo conosco da anni, noi...»
«Ascolta. Siamo costretti a lavorare insieme su questo caso e mi sta bene. Posso tornare nel tuo ufficio e continuare come se non fosse successo un cazzo di nulla, ma stai lontano dalla mia famiglia.» «Di che cazzo parli? Levati dai coglioni!» Joe si voltò e tornò in ufficio. Rufo era davanti alla scrivania di Joe, con in mano un Banana Coconut Frappuccino grande, con panna montata, ancora intatto. Joe fece andare lo sguardo dalla bevanda al suo capo, ma non disse niente. «Tutto a posto?» chiese Rufo. «Sì», disse Joe, sedendosi e aggiustandosi la giacca. «Allora, il piano è...» «Dunque, abbiamo rintracciato l'ultimo numero chiamato dal telefono di casa di Valtry; corrisponde a una certa Marjorie Ruehling, che vive nel Bronx. Danny e io andremo a controllare stamattina, poi nel pomeriggio c'è l'autopsia di Valtry.» «Cinquecentocinquanta calorie in questo bicchieruccio», disse tristemente Rufo. Danny si avvicinò e gli tolse la bevanda di mano. «Vuole che lo allontani dalla sua tristezza? O almeno dal campo visivo?» Rufo annuì tristemente. «Un momento sulle labbra...» infierì Danny, bevendo un lungo sorso. «... Ed è come gustare una vacanza.» Joe scosse la testa. «Falla finita. Capo, ci vediamo più tardi.» «Di' ciao al papà», disse Danny alla tazza, ma Rufo si era già voltato per andarsene. Marjorie Ruehling viveva oltre il Southern Boulevard nel Bronx, nell'unico condominio della strada che non fosse stato recentemente ristrutturato, né fosse in vendita o sul punto di essere demolito. Joe suonò il campanello del 6E. Una voce anziana gracchiò nel citofono. «Sì?» «Marjorie Ruehling?» chiese Joe. «Sì, chi è?» «Ispettori Joe Lucchesi e Danny Markey della polizia. Vorremmo entrare un attimo a parlarle.» «Di che cosa?» Joe guardò Danny e scosse la testa. «Conosce un certo signor Dean Valtry?»
«Adesso scendo, così potrete mostrarmi i vostri bei distintivi.» «Va bene, signora.» Cinque minuti più tardi, una donna magra, sulla sessantina, con una permanente color caramello e una tuta di velluto color pesca schiuse la porta ed esaminò i due distintivi. Poi la spalancò e fece entrare Joe e Danny in un atrio piccolo, squadrato, grigio, in cui quasi tutte le cassette della posta erano strapiene. «L'uomo che dicevate, Valtry, mi ha telefonato ieri sera.» «Quindi lo conosce?» «Non proprio. Era un vecchio amico di mia figlia, Sonja. Quando ha telefonato infatti cercava lei. Per sapere qualcosa di più dovrete parlare con Sonja.» «Le ha comunicato il messaggio?» «Non c'era motivo. Sapevo che era fuori con suo marito e Valtry non ha voluto lasciare un recapito.» «Potremmo avere il cellulare e l'indirizzo di Sonja?» «Perché invece non entrate a prendere un caffè? Lei sarà qui a momenti.» L'appartamento di Marjorie Ruehling era un campionario di colori delle tonalità crema, beige e marrone, sparsi su tappeti, divani e cuscini. «Come le è sembrato il signor Valtry al telefono ieri sera?» chiese Joe. La signora Ruehling alzò le spalle. «Come vi ho detto, non conosco quell'uomo, ma... direi che era... parlava rapidamente. È stata la prima cosa che ho notato. La telefonata è finita subito dopo che mi ha pregato di dirle di richiamarlo.» «Parlava chiaramente?» «Sì. Sembrava impaziente, ecco tutto.» «Bene.» Si fermarono al rumore della porta d'ingresso che si apriva. «Oma?» chiamò Sonja dall'ingresso. «Nonna in tedesco», spiegò Marjorie. «Siamo in soggiorno», urlò a sua figlia. Sonja Ruehling entrò. «Ciao... che succede?» La madre le sorrise. «Tutto a posto. Questi signori sono ispettori di polizia, ma niente di grave. Sono qui per ieri sera.» Sonja la guardò senza capire. «Qualcuno ieri sera ha chiamato sua madre, cercando lei. Le dice nulla Dean Valtry?»
«Dean Valtry?» Sonja si rivolse a sua madre. «Cosa voleva?» «Non lo ha detto. Ha detto solo che dovevi richiamarlo.» «Ha lasciato un numero?» «No. Che storia! Perché non lo chiedete direttamente a lui?» disse a Joe. «Come lo conosce?» chiese Joe a Sonja. «Noi... ascoltate, perché non andiamo in cucina? Oma, non ti dispiace, vero? Non c'è motivo per cui tu sia coinvolta in tutto questo.» «Basta che dopo tu mi racconti ogni cosa e io me starò qui buona ad aspettare.» Prese una mela dal tavolo accanto e iniziò a sbucciarla. Joe, Danny e Sonja si spostarono in cucina. «Ok», disse Sonja. «Tutto questo è strano. Conosco Dean Valtry perché uscivo con un suo amico. Ma si tratta di tanto tempo fa, io avevo ventuno, ventidue anni.» «Mi dispiace doverla informare che il signor Valtry è stato vittima di un omicidio ieri sera», disse Joe. «Oh, mio Dio.» «Sì, e ieri ha telefonato più volte a casa di sua madre, perché voleva mettersi in contatto con lei. Ma sua madre si è rifiutata di fornirgli il suo numero. Ci chiedevamo per quale motivo volesse parlare con lei.» «Non ne ho idea.» Abbassò di nuovo la voce. «Non eravamo particolarmente intimi, anzi, per essere sinceri, non andavamo per niente d'accordo, che riposi in pace.» «Ci dica di più su come vi siete conosciuti.» «Lavoravo da Feelers, un bar dell'East Village. Mi misi insieme a uno con cui lavoravo, si chiamava Alan Moder e Dean Valtry era suo amico. Per questo l'ho conosciuto.» «Quando è stata l'ultima volta che ha visto Dean?» «Anni fa. Di cosa si occupava adesso?» «Era a capo di uno dei principali laboratori odontotecnici di New York.» Sonja si appoggiò all'indietro sulla sedia e sorrise. «Mi sembra sorpresa», osservò Joe. «Lo sono. Era ambizioso, per cui, almeno da quel punto di vista, la cosa mi torna. Però, da quanto avevo sentito, non è che fosse particolarmente bravo.» «Chi le aveva fatto pensare così?» «Alan. I due erano al college insieme poi, stranamente, Alan abbandonò gli studi, pur essendo il più dotato dei due.» «Valtry però aprì il laboratorio.»
«Sì, ma fu Alan a fare gran parte di ciò per cui l'azienda di Dean fu notata. Alan lavorava per lui.» «Alan ha un suo proprio laboratorio?» «Non ho idea di dove sia Alan Moder né cosa faccia.» «Fra voi due è finita male?» intervenne Danny. «Molto. Mettiamola così: l'ultima volta che l'ho visto è stato sette anni dopo che lo avevo scaricato nel modo più deciso possibile, per evitare che mi si ripresentasse davanti. Mi trovavo in un bel bistrò francese sulla Ventinovesima, e lui mi ha insultato pesantemente davanti ai miei colleghi di lavoro.» «Però...», commentò Danny. «Dovrei averlo superato, cioè, l'ho superato, ovviamente, ma sapete com'è quando uno ci ripensa e dice: che casino. Avevo ventidue anni ed ero pazzamente innamorata. Credevo di essere ricambiata, finché non lo sorpresi con una donna col doppio dei suoi anni, una ricca grassona, della quale perfino io sapevo che non gliene fregava un cazzo. Ecco la mia storia con Alan Moder. Sono scesa fin troppo nei particolari, ma è solo che non mi sono mai liberata di questo peso. Adesso sono sposata. Alan è ricomparso solo quella volta al ristorante, cercando di riconquistarmi, dopo che quella strega con cui andava era morta. Poi basta, fine.» «Tornando a Valtry», disse Danny, «riesce a pensare a un motivo per cui possa aver cercato di mettersi in contatto con lei?» Sonja alzò le spalle. «No. Noi tre passavamo un sacco di tempo insieme, soprattutto perché lui era l'unico amico di Alan e ce lo portavamo a rimorchio. Lui... insomma non avevamo confidenza. Sono ancora sconvolta per la sua morte.» Scosse la testa. «È assurdo che abbia cercato di chiamarmi. Adesso mi rimarrà una pulce nell'orecchio. Fatemi sapere quando scoprite qualcosa.» «Certo», disse Joe. «Com'era Valtry?» «Un tipo a posto. Noioso, se vogliamo dirla tutta. Secchione, ma ottuso: una combinazione tremenda.» Rise. «Il tipo che cerca sempre di sembrare più intelligente e migliore di tutti in tutte le cose...» «È mai stato violento?» «Dean?» Rise di nuovo. «No, perché lo chiedete?» «Cerchiamo solo di saperne il più possibile, visto che ne stiamo parlando», disse Danny. «Visto che Alan Moder è l'unico legame che riesce a vedere con Valtry», chiese Joe, «sa come potremmo metterci in contatto con lui, se
dovessimo averne bisogno?» «Non mi stupirei se lavorasse ancora per Dean.» «No», disse Danny. «Abbiamo esaminato l'elenco dei dipendenti e non c'era.» Sonja rifletté un istante e aggiunse: «Allora non so. Fatemi pensare. Era di Maplewood, nel New Jersey, ma credo che non ci sia mai tornato. Con la famiglia aveva rotto definitivamente, in modo plateale. Comunque potreste provare con loro, il padre si chiamava Tony.» «Bene», concluse Joe. «Grazie per l'aiuto.» Shaun Lucchesi entrò in cucina passando davanti a sua madre, prese un cartone di succo dal frigo, ne bevve un sorso e lo rimise a posto. «Sarai felice di sapere che fra me e Tara è finita.» «Cosa? Perché dovrei essere felice di saperlo?» Shaun la fissò. «Parli sul serio?» «Ecco, io... era carina.» «Non dirmi che il tuo concetto di bellezza adesso coincide con l'anoressia?» «Aveva un volto grazioso.» «Nascosto sotto il trucco.» Anna lo scrutò, lui sorrise noncurante. «Vuoi sentirne una divertente?» Anna fece segno di sì. «Le ho comprato un'edizione speciale di Romeo e Giulietta, perché mi aveva detto quanto le fosse piaciuto, e quando gliel'ho dato mi ha detto: 'Oh, mio Dio, ma io parlavo del film. Leonardo Di Caprio era così arrapante'.» Anna scoppiò a ridere. «Oh-la-la.» «Appunto.» Bobby Nicotero sedeva alla sua scrivania del Ventesimo distretto. Lavorava bene là. Il suo turno era terminato già da tre ore, ma non voleva andare a casa. Lesse pagine e pagine di deposizioni, appunti, evidenziazioni, controlli incrociati. Niente di nuovo. Si buttò all'indietro contro lo schienale e iniziò a pensare ai suoi due ragazzi. Il giorno dopo, per la prima volta dopo settimane, sarebbe stato libero e sarebbero andati al Museo dell'Aria, del Mare e dello Spazio. Sorrise, poi tornò ai suoi appunti, attirato da un brano di testo evidenziato approssimativamente in blu. Dentro la sua testa
finalmente si accese una lampadina. Doveva solo controllare un'ultima cosa. Anna era distesa sul divano a guardare la televisione e a sfogliare un grosso campionario di tessuti. Joe arrivò a casa e andò direttamente di sopra, in camera da letto, dove lei lo seguì. «Ciao», gli disse. «Ciao.» «Come stai?» «Bene. Tu?» «Bene.» Joe si tolse giacca, camicia e cravatta. «Shaun si è lasciato con Tara.» «Davvero?» «Sì.» «Io non ho mai lasciato le ragazze che non piacevano a mia madre.» «Lei non piaceva neppure a te.» «Non è quello il punto. Tutto gira intorno alla mamma. Credo che sia come uno di quei fischi per cani. Le mamme emettono ondate di repulsione che sono percepite solo dalle ragazze che hanno l'aspetto di zoccole. Che poi sono esattamente quelle che gli adolescenti inseguono.» Anna gli dette un colpo sulla spalla. «Che c'è?», disse lui, ridendo. «Non devi preoccuparti per me, ho superato quella fase.» «Potremmo avere un altro maschio e doverci passare nuovamente. Oppure peggio: una ragazza da controllare.» Joe non disse nulla. «Che c'è che non va?» «Niente.» «C'è qualcosa. Questa settimana abbiamo scambiato a malapena qualche parola.» «Sono piuttosto indaffarato, Anna.» «Anch'io.» «Mi dispiace», disse Joe, slacciandosi la cintura dei pantaloni «se a volte non riesco a mettere sullo stesso livello i miei problemi lavorativi e i tuoi, ok?» «Sei ingiusto.» «La vita è ingiusta. Chi sostiene il contrario? La merda che devo vede-
re... Non può fregarmene di meno se la carta da parati a strisce tornerà di moda o sarà usata per pulirsi il culo. Riesci a capire come per me siano cose di nessuna importanza?» Anna lo fissò con aria di sfida. «Nessuno può mai averla vinta con te, vero? Sei un arrogante...» «Non c'entra nulla l'essere arrogante, è solo che non vivo con la testa fra le nuvole...» «La testa fra le nuvole?» sbottò lei. La sua esclamazione lo spronò. «Esatto, costruire questi piccoli mondi finti dove tutto è perfetto e ognuno è felice e il sole splende e la gente siede su divani o si pavoneggia ai fornelli delle proprie cucine del cazzo o nelle camere da letto, indossando biancheria intima elegante su corpi perfetti, con sorrisi stampati e...» «Stai bene?» gli chiese Anna, con voce più dolce. «No! Per niente.» «Sei cambiato molto.» Joe alzò gli occhi al cielo. «Perché le donne devono sempre buttarla sul nostalgico?» «Cosa?» «Ascolta, non è una brutta cosa se sono cambiato, Anna. La gente cambia. A quarant'anni, vorresti essere sposata con uno stronzo immaturo che non ha il minimo senso di responsabilità e nessuna ambizione, se non di ubriacarsi con gli amici nel fine settimana? Non puoi iniziare ora a idealizzare l'uomo che hai sposato.» «È questo il fatto, non ti sto idealizzando. Non ne ho bisogno. Tu eri...» «Non cercare di prendermi per il culo. Ti ho sempre fatto andare fuori di testa, ora come un tempo.» «Non abbiamo mai litigato come ora.» Joe abbassò lo sguardo. «No, è vero.» «Cosa c'è che non va in te?» «Ok, vuoi saperlo? Vuoi saperlo davvero? Sono infuriato! Lo sai, ho cercato di controllarmi, ma non ci riesco. Abbiamo ancora un anno prima che Shaun vada al college e io pensavo: grandioso, solo noi due, che pacchia! Non riesco a credere che, proprio nel momento in cui pensavo che la mia vita si fosse instradata su un binario ben preciso, qualcuno mi riportasse al punto di partenza di diciotto anni fa. Mi sembra di essermi fatto il culo per niente, Anna.» «Le cose non stanno così.»
«Invece sì! Mi sento con la camicia di forza addosso! Questo bambino è il pretesto per qualcos'altro.» «Che vuoi dire?» «Il pretesto per non affrontare quello che ci è accaduto. Il pretesto per te per non andare là fuori», disse Joe, indicando la finestra. «Fuori dove?» «Dovunque», urlò Joe. «Dovunque! Guarda come sei vissuta. A malapena riesci a uscire dalla porta, e quando lo fai cadi a pezzi. Trascorri qui tutte le giornate e alla sera...» «Sono depressa!» urlò Anna. «Esattamente! Ed è proprio il motivo per cui non dovremmo avere questo bambino. Con che coraggio lo facciamo nascere in questa casa?» La frase rimase sospesa nel silenzio. «La nostra casa è meravigliosa», disse infine Anna, e scoppiò a piangere. Joe si sedette sul letto. «Non mi sembra proprio. O forse me ne sono dimenticato. Non lo so più. Non ci penso più. Non penso più a noi.» «Lo so», disse Anna, asciugandosi le lacrime con una manica. «Io... io voglio bene a te e Shaun. Siete tutta la mia vita. Ma non siamo più gli stessi, le cose sono cambiate.» «Forse il bambino potrebbe...» Joe scosse tristemente la testa. «Mi sembra un compito arduo per un neonato.» 23. Da uno squarcio nel cielo grigio il sole illuminava Denison, nel Texas. Wanda Rawlins alzò una mano davanti alla televisione, le dita irrigidite e distese. «Sono stato puro e sobrio per...» Il telegenico predicatore, i capelli grigi e lucidi, fece una pausa, per permettere a ciascuno dei componenti del suo pubblico di inserire il proprio tempo trascorso camminando con Gesù. «Sedici anni, tre giorni e sette ore», disse Wanda. «Prima di camminare con Gesù, io...» «Ballavo con il diavolo.» La voce di Wanda era salda come quella dell'uomo con il microfono alla bocca, che percorreva a grandi passi l'affollato padiglione bianco. «La mia salvezza è stato...»
«Vincent Farraday», urlò Wanda. Parlava di suo marito, l'uomo che l'aveva raccolta da un palco di spogliarelliste a Stinger's Creek, l'aveva ripulita e accolta nella sua bella casa di Denison, quaranta miglia più a sud. Il pubblico in studio aveva già risposto: «Il Signore». «Oh sì, il Signore. Certo. La mia salvezza è stato il Signore e Vincent Farraday.» Il predicatore rimase a braccia spalancate, i fianchi in avanti. «Il mio potere è...» «Nella mia sobrietà. Nel mio amore. Nel mio destino», disse Wanda. «Nel mio rifiuto, nel mio distacco, nella mia anima fredda come il ghiaccio.» Duke Rawlins era sulla porta, aggrappato allo stipite sopra la sua testa, il corpo lungo e magro che si dondolava piano avanti e indietro. Il pubblico lanciò grida di giubilo. «Dukey», disse Wanda, rialzandosi in piedi a fatica. Duke guardò la televisione. «Non te ne ricorderai, mamma, ma quello che ti piaceva guardare erano le soap opera. Tutto il santo giorno. Io correvo per casa, nel cortile, poi venivo da te, pieno di graffi, lividi e sporco e mi mettevo davanti al televisore... e tu neanche mi guardavi, giravi la testa e con tutta la tua debolezza mi spingevi via e mi dicevi: 'La mamma deve guardare la vita di altre persone'.» Sorrise. «Bene, mi sembra che adesso ti sei trovata un po' di Gesù da guardare.» Il volto gli si contorse in un'espressione di odio crescente che nasceva dal profondo. Negli occhi di Wanda c'erano amore e paura e sedici anni, tre giorni e sette ore di segreti inconfessati. «Hai fatto delle cose molto brutte, Dukey. C'è un sacco di gente che vuole parlarti. Quel poliziotto di New York...» L'espressione di Duke la fermò. Alzò le mani per calmarlo. «Ma ora capisco perché. Perché hai fatto quelle cose.» Duke assunse un'espressione incuriosita. Wanda annuì. «Capisco. Il diavolo mi era penetrato in corpo per i peccati del mio comportamento. Gli ho aperto il cuore e lui ne ha preso possesso. Nel mio grembo si è avvolto intorno a te e con te è cresciuto. Quando poi sei uscito dal mio corpo, se ne è andato e l'unico posto dove poteva...» Duke emise un nuovo tipo di risata, che non gli era mai venuta fuori prima, alta, a singulti, lunghissima. «Puttanissima troia svalvolata», disse alla fine. «Cazzo se sei matta. Dev'essere la fata matta che ti è entrata su per il culo; da quella via è passata lei, da quell'altra il diavolo, si sono in-
contrati a metà e se la sono spassata. Fanculo, se lo sapevo mi univo anch'io.» Scoppiò di nuovo a ridere e si avvicinò a sua madre. «Voglio aiutarti, Dukey, voglio redimere...» «Te stessa, mamma, come al solito. Vuoi redimere te stessa.» «No, no! Farò ciò che vuoi. Hai bisogno di soldi? Ce li ho.» Indicò la sua borsetta. «Non dirò a nessuno che sei stato qui. Anzi, puoi anche fermarti! Nessuno lo saprà.» Duke lasciò che il panico la invadesse. «Io... di cosa hai bisogno, Duke? Lo farò. Io... qualunque cosa.» Si accorse di come lui la guardava. Barcollò all'indietro, cercando il cellulare sul bracciolo del divano rosa confetto. Lo afferrò con la mano tremante, ma Duke la raggiunse con un calcio e lo fece volare via. Wanda strillò. «Hai rotto qualcosa.» «Anche tu.» Wanda era seduta con la schiena premuta contro il petto del figlio, che, con le gambe avvolte intorno a lei, la teneva inchiodata con tutto il peso del corpo. Con un'abilità acquisita e perfezionata durante tutta l'infanzia, avvolse rapidamente il laccio emostatico intorno al suo braccio sinistro, estrasse una siringa e le iniettò in vena eroina purissima. La sua faccia straziata fu sostituita da una che lui conosceva meglio: quella inerte, quella di quando ballava la lap dance, di quando attendeva fuori dal cancello di scuola, di quando bruciava i biscotti, o di quando gli apriva la porta della cameretta per far entrare degli sconosciuti pieni di desideri d'altro tipo che una donna non poteva appagare. Un'ora più tardi, Vincent Farraday tornò dal supermercato e si imbatté nella donna che pensava di aver salvato: il corpo accasciato, gli occhi scuri e vitrei. Lei gli rivolse un mezzo sorriso e tornò a guardare la tv. Vincent parlò alle due gemelle che aveva accanto. «Vostra madre non si sente bene. Sapete che vi dico? Partiamo un giorno prima per la nostra vacanza; andate a fare le valigie.» Vincent Farraday si tolse il cappello e si massaggiò a lungo la testa, poi tirò fuori un fazzoletto e se lo premette agli angoli degli occhi. Nel silenzio si udì la voce del predicatore televisivo: «E se una casa verrà divisa in due, quella casa non si sosterrà più». Il pubblico lanciò grida di giubilo. «E chiunque ripaghi il bene col male, non si libererà più dal male.»
24. Joe era seduto davanti al suo portatile, con il file delle vittime aperto. L'ultima volta vi aveva aggiunto la foto di David Burig, adesso toccava a Dean Valtry. Dallo schermo lo guardavano i volti di cinque uomini uccisi. Sotto c'era la foto di Mary Burig. Spostò le immagini e le dispose su due linee, che separò con una spessa linea rossa. A sinistra c'erano Gary Ortis, William Aneto, Preston Blake, Ethan Lowry. A destra Mary e David Burig e Dean Valtry. Intorno ai due scampati, Preston Blake e Mary Burig, disegnò un bordo nero, poi si concentrò sui tre nomi a destra della linea rossa, quella che segnalava un movente diverso. Non aveva dubbi che l'assassino conoscesse Mary Burig, David Burig e Dean Valtry. Doveva solo scoprire come e chi poteva essere il prossimo sull'elenco. I gradini della casa di Preston Blake erano coperti di foglie secche accartocciate, trascinate da un vento sollevatosi dal nulla nel caldo pomeriggio. Danny e Joe rimasero in attesa sull'ultimo gradino, dopo aver suonato il campanello. «Sento la retina che mi viene scannerizzata», disse Danny. «O forse si tratta del mio culo. Sta esaminando il profilo del mio culo, per assicurarsi che si adatti all'avvallamento che gli ho lasciato nel divano l'ultima volta.» Joe gli parlò all'orecchio: «Chiudi quella maledetta bocca. Probabilmente ti ascolta.» «Sì-Bene-Probabilmente-Può-Comunque-Leggere-Le-Nostre-Labbra.» Suonarono di nuovo il campanello. Joe estrasse il telefono e chiamò il numero di Blake. Scattò subito la segreteria telefonica. «Signor Blake, sono l'ispettore Joe Lucchesi. Siamo davanti alla porta di casa sua. Abbiamo bisogno di parlare con lei di alcune cose, non ci vorrà molto.» Un minuto più tardi, la porta si aprì e si trovarono di fronte Preston Blake, con il volto inespressivo. L'uomo si piegò in avanti, guardò sulla strada oltre di loro, a destra e a sinistra, poi esaminò i distintivi. «Entrate», disse infine. Li condusse nella stessa stanza della volta precedente e li fece accomodare sullo stesso divano. «La ringraziamo di averci fatto entrare», disse Joe. Preston Blake alzò le spalle.
«Come va?» chiese Danny. «Alla grande», rispose Blake con voce piatta. «Come va l'indagine?» chiese sorridendo. «Quello è il motivo per cui siamo qui», disse Joe. «Avremmo qualche altra domanda da porle.» «Faccia pure, per quello che vale.» «Ha mai incontrato un certo David Burig?» «Perché me lo chiede?» «Semplice controllo.» «No, non conosco nessun David Burig.» «Che mi dice di Dean Valtry?» «No. Sono dei sospettati?» «Come le ho detto, i loro nomi sono saltati fuori e stiamo facendo dei controlli. Dovevamo sapere se magari lei li conosceva o se nel frattempo le era tornato in mente altro.» «Ascoltate, per quanto riguarda il ricordarsi le cose, no, ok? Ve l'ho già detto. Si tratta di qualcosa che rivivo costantemente nella mia testa e non mi accade di ricordare altri dettagli. Non funziona così.» «Per alcune persone sì», disse Danny. «Non per me.» «Ha letto i giornali?» Blake li fissò con intenzione. «No grazie. Non più. La mia riluttanza probabilmente ha avuto inizio più o meno dal momento in cui la mia casa è stata messa sotto assedio.» «Non abbiamo rivelato noi il suo nome», disse Joe. «Le avevamo fatto una promessa e non era neppure nell'interesse dell'indagine.» Blake lo guardò torvo. «Quindi non avete voluto mettermi allo scoperto per far riapparire l'assassino, nel caso che volesse terminare il lavoro?» «Avrebbe saputo comunque dove trovarla, se avesse voluto. Ascolti, non serve a nulla rivangare il passato...» «Forse le credo, ispettore. Anche a lei», aggiunse rivolgendosi a Danny. «Ma il resto dei vostri uomini? Vi fidate di loro? Di tutti loro?» Squillò il cellulare di Joe. «Mi scusi», disse alzandosi e allontanandosi di qualche passo. «Joe, sono Denis Cullen. Sto controllando quel tipo, Alan Noder e...» «Moder», lo corresse Joe, «con la M, non con la N.» «Cazzo, mi dispiace. Ecco perché non trovavo niente. Qualcuno mi ha scritto...»
«Scarabocchi di Danny, non ti preoccupare.» Joe tornò a sedere. «Mi scusi ancora. Tornando all'articolo, se vuole posso chiamare il giornalista anche adesso e cercare ancora di sapere la sua fonte. Tuttavia lei sa bene come sia difficile ottenere un'informazione del genere. Però, se ci riesco, agirò di conseguenza con il colpevole della fuga di notizie.» «Non c'è bisogno di chiamarlo. Ho superato la cosa. Ormai sarò per sempre collegato a questo fatto in ogni articolo, in ogni sito internet, dovunque. Non credo che ci si possa rendere conto di cosa significhi.» «Io me ne rendo conto», disse Joe. «Ecco perché non credo che sia stato lei.» «Senta, abbiamo bisogno del suo aiuto e sono sicuro che capirà anche il perché. Sono anni che parliamo con la gente e sarebbe sorpreso nello scoprire quante cose si possano ricordare, semplicemente raccontando una seconda volta la stessa storia...» «Una storia. È così che la vede lei. È così che la vede la stampa. Una graziosa storiella. Un punto di vista.» «Andiamo, lo sa cosa voglio dire. Non sono...» Blake si alzò di scatto. «Vogliate scusarmi, mi sono improvvisamente ricordato che sta per arrivare un cliente a ritirare un pezzo; devo andare giù a prenderlo.» Li lasciò lì seduti. «Non è incazzato come credevo», disse Danny. Joe emise un lungo sospiro. «Sì, però è una faticaccia.» «Devi pesare ogni parola.» «Ha un aspetto tremendo.» «Perché non si fa sistemare i denti?» «Il dottor Makkar dice che ha paura dei ferri.» «Lo dice di tutti...» «Visto che sei stato tu a parlarne, sarai il primo a saperlo: ho prenotato l'intervento.» «Tu cosa?» «Sì. Decisione presa.» «Tipo 'grossa operazione chirurgica'?» Joe sorrise. «Tipo l'operazione chirurgica più piccola che esista.» Danny rise. «Allora a cosa serve?» «Sembra che funzioni e non c'è bisogno di secoli di convalescenza. Vado, mi opero e torno in servizio. Lo faccio per te...»
Danny scosse la testa. «Sono senza parole.» «Ne ho abbastanza di soffrire.» «A quando l'evento?» «Alla fine della settimana. Si è liberato un posto...» «Rufo lo sa?» Joe fece segno di sì. «È sempre molto contento di ascoltare i problemi degli altri.» Danny sorrise e per un po' rimasero in silenzio. «Sai una cosa? Ha detto giù,» riprese Joe. «Cosa? Chi?» «Blake. Ha detto che andava giù a prenderlo. L'altra volta ci ha spiegato che ha il laboratorio al piano di sopra. In tal caso sarebbe dovuto andare a prenderlo su.» «E allora? Avrà detto portarlo giù, invece che prenderlo.» «Sono già dieci minuti che è via. Perché non torna?» «Gesù, rilassati.» Ma Joe aveva già estratto la pistola. Danny si alzò. «Che vuoi fare?» «Vado a cercarlo.» «Metti via la pistola. Il nostro amico probabilmente è al cesso a cacare e, se torna e se la vede puntata in faccia, si caca addosso un'altra volta. Siamo qui per ricostruire i ponti, non per bruciarli definitivamente.» «Non credo che tornerà», disse Joe, entrando nell'ingresso e passando fra gli scaffali di libri sospesi. Guardò attentamente oscillare quelli che aveva urtato involontariamente. «Signor Blake?» chiamò Joe ad alta voce. «Signor Blake?» Nessuna risposta. Guardò Danny, anche lui aveva impugnato la pistola. Joe indicò la porta che dava nel seminterrato, Danny indicò le scale per il primo piano. Joe scosse la testa, si avviò alla porta e lentamente girò la maniglia. Il seminterrato era silenzioso, l'aria ferma. Joe diresse la luce della torcia verso il soffitto, dove il raggio illuminò dei pannelli di legno. Continuò a scendere le scale, fatte di scalini metallici industriali, seguito da Danny. «Signor Blake?» Silenzio. Giunsero alla fine della rampa di scale. Con la torcia, Joe illuminò un massiccio banco da lavoro, al di sopra del quale c'era un piccolo scaffale, pieno di contenitori trasparenti con filo, metalli e ganci. Sulla parete dietro, dei pannelli psichedelici esaltavano il luccichio dei gioielli, spillati su tavole ricoperte di velluto color bronzo. Lì accanto pendevano rocchetti di pelle nera. Su un ripiano erano allineati gli utensili: un man-
drino, trapani, pinze, dischi per levigare. «Te l'avevo detto che lavorava al piano di sotto», disse Joe. Aprì uno dei sei piccoli cassetti sul lato destro del banco. Era vuoto. «Guarda», disse Danny. Sì avvicinò a un macchinario alto un metro, che si trovava nell'angolo sinistro. La parte superiore era costituita da un piccolo forno, montato su una base blu con dei vecchi bottoni di accensione e spegnimento rossi e neri e quadranti malmessi. «THE OAKVILLE GAS APPLIANCE CO.» Joe diresse la luce sulle grosse lettere incise nello sportello d'acciaio, il cui smalto era stato consunto da anni di alte temperature. «Porca merda», esclamò Joe. «Questa è una versione antiquata del forno che Valtry usava per fondere la cera.» Indicò i quadranti, sul più alto dei quali c'era scritto ARIA, con una scala da uno a otto, per aumentare o diminuire il flusso. Il quadrante al di sotto era marcato GAS e poteva essere APERTO o CHIUSO, con una scala da uno a cinque. Sulla destra c'era un manometro per la temperatura, fissato a ottocento gradi, e al sotto di quello un altro quadrante con una luce rossa e verde. «Blake fabbrica gioielli», disse Danny. «È normale che fonda i metalli.» «Blake è l'assassino», esclamò Joe. «Ci ha sempre presi per il culo, cazzo! È lui l'assassino.» Danny lo fissò a bocca aperta. «Porca troia!» «È lo stesso procedimento, fai uno stampo di cera, lo fondi, ci coli il metallo... puoi farci un anello ma anche una corona.» «Porca troia!» Danny guardò il forno, con il panico negli occhi. «Quello è spento, giusto?» «Sì, i quadranti sono a zero, le luci sono spente. In ogni caso sentiremmo odore di gas o il calore.» «Vaffanculo, figlio di una maledettissima puttana.» Danny fissava Joe, ancora incredulo. «Diamo un'altra occhiata in giro», disse poi e premette un interruttore sulla parete dietro il banco. Non si accese nessuna luce. Si voltò verso Joe e per un lungo attimo rimasero a fissarsi. Rufo era seduto alla sua scrivania, davanti a due massicce pile di carte, cercando di decidere a quale dedicare prima la sua attenzione. Denis Cullen bussò ed entrò. «Credo che abbiamo un problema. Ho provato a rintracciare di nuovo Joe durante l'ultima mezz'ora e ogni volta risponde la segreteria. In genere ha sempre il cellulare acceso e...»
«Nessuno ha il cellulare sempre acceso», disse Rufo, «è impossibile.» «Lo sa cosa voglio dire: era in attesa di informazioni. Si trovava insieme a Danny nella casa di Preston Blake, giusto? Ho dato un'occhiata all'indirizzo, 1890 Willow Street, ed è esattamente l'indirizzo che ho per quest'altro individuo su cui dovevo fare un controllo, Alan Moder.» «Chi cazzo è Alan Moder?» «Un amico del college di Dean Valtry. Ho esaminato le sue registrazioni all'anagrafe e l'ultimo indirizzo conosciuto è questa casa di Willow Street.» «Altri residenti nella casa?» «Alla stessa data, 1994, ho una signora Joan Blake.» «Nessun signor Blake? Dei bambini?» «C'è una cosa strana. Ho trovato un Preston Blake, che però risulta morto nel 1994, all'età di sessantasette anni.» «E quello è l'ultimo indirizzo conosciuto di Alan Moder?» «Già, per cui non è più rintracciabile più o meno dall'epoca in cui è morto questo Preston Blake.» «Sembrerebbe.» «Sarebbe troppo bello per essere vero. Provo ancora a raggiungere Lucchesi.» Compose il numero di Joe e poi quello di Danny, ma su entrambi scattò la segreteria telefonica.» Joe e Danny si bloccarono nel momento in cui sentirono il boato attutito, proveniente da sopra, fondersi con una vibrazione tambureggiante che penetrava i muri, i pavimenti, qualunque cosa di solido li circondasse. Joe alzò lo sguardo e vide che i pannelli di legno si sfaldavano rapidamente sotto il peso che crollava dal piano superiore. Scorse un riflesso argenteo di qualcosa che piombava su di lui. Danny lo afferrò per il braccio, richiamando la sua attenzione e articolando parole che Joe non poteva udire, indicando disperatamente il banco di lavoro. Joe vide che prima il volto di Danny, poi l'intero corpo venivano inghiottiti, scomparendo in una spessa nube di polvere. 25. Anna Lucchesi bussò piano alla porta della camera di Shaun. Non ci fu risposta. «Tesoro? Lo so che ci sei.» Silenzio.
«Ho qualcosa per te.» «Entra», rispose lui a voce bassa. Entrando, Anna trovò Shaun disteso sul letto, con i pantaloni da ginnastica neri e una maglietta blu. Aveva gli occhi rossi e gonfi. Lei si sedette accanto a lui e gli pose con dolcezza una mano sul volto. «So che per te è un giorno difficile. Come va?» Shaun scosse la testa. «No, voglio solo stare per conto mio.» «Non è sempre la cosa giusta. Anche a me manca Katie.» «Non riesco a credere che sia passato così tanto tempo.» Iniziò a piangere. «Ti capisco.» Gli accarezzò i capelli. «Ti ho portato questa», disse, ponendo una candela profumata sul comodino. «Lo so che è la candela di Katie quella che vuoi tu, ma almeno il profumo, ho pensato...» Lui le prese una mano. «Grazie, mamma. Ti sei ricordata.» «Tuo padre ha troppe cose a cui pensare, lo sai.» «So solo che non pensa a noi due.» «Non è vero. Ti dirò una cosa di tuo padre, di cui forse non ti sei accorto. Lui è all'antica, Shaun, può sembrare moderno...» Shaun scoppiò a ridere. Anche Anna rise. «Come ti permetti? Voi ragazzi siete troppo crudeli...» «Ok, ammettiamo pure che non è troppo mummia.» «Andata. Allora, quello che dicevo è che lui è all'antica. Crede di doverci proteggere da tutte le cose orribili con cui viene a contatto ogni giorno. E sai una cosa? È convinto di non esserci riuscito lo scorso anno, ma ha deciso di non affrontare il problema. Non voglio mettertela giù troppo pesante, non hai bisogno di altri problemi, però devi tenere a mente che tuo padre è un essere umano e che tiene molto a noi.» L'oscurità nel seminterrato era assoluta. Il boato assordante era svanito, lasciandosi dietro rumori isolati di oggetti che lentamente scivolavano sempre più giù, cedendo sotto il peso di altro materiale. Dal soffitto era precipitato un blocco di cemento, che intrappolava Joe e Danny sotto il banco da lavoro, spalla contro spalla, i corpi rattrappiti e stremati dai conati e dalla tosse. «Che cazzo è successo?» chiese Danny. Non ottenne risposta. «Joe?» Gli dette una gomitata. «La gola», fu tutto quello che Joe riuscì a dire, poi tossì di nuovo, ormai rauco.
«Sei ferito?» «Credo di no, e tu?» «Il collo.» Aveva il mento premuto a forza contro il petto. «Riesci a vedere niente?» «No. Ma...» Danny riuscì a piegare leggermente la testa di lato. «Cazzo, Joe, il gas!» «Che gas?» «La bombola per il forno. È proprio lì.» Un altro pezzetto di intonaco cadde dal soffitto, facendo precipitare altra polvere e detriti. «Gesù Cristo», esclamò Danny, disperato. «Non c'è pericolo», disse Joe. «Tutto ciò che doveva cadere è caduto e il gas è un problema solo se c'è un incendio.» Iniziò a tossire incontrollabilmente. «La gola. Io...» Cercò disperatamente di respirare, ma sembrava impossibile. La quiete delle strade di Brooklyn Heights fu squarciata dall'ululato delle sirene. Il primo camion dei pompieri arrivò dopo cinque minuti, in seguito a una chiamata dei vicini. La porta del seminterrato si trovava sotto il portico d'ingresso. L'unità di sfondamento vi si precipitò, e si fece avanti un uomo con in mano un piede di porco, e un altro con un piccolo estintore, per un primo intervento prima che fossero azionati gli idranti. Di lato c'era il capo del gruppo, che gridò: «Mi sentite? Mi sentite? Siamo i vigili del fuoco, io sono Johnson. C'è nessuno là dentro?». «Sì», gridò in risposta Danny. «Siamo in due. Agenti di polizia.» «Ricevuto, rimanete dove siete, vi tiriamo fuori.» «Sbrigatevi, il mio collega non respira...» Danny si fermò. Joe lo guardò e allora proseguì «... molto bene. Il mio collega non respira molto bene.» «Va bene.» Si voltò e gridò al resto della squadra: «Fate sapere al comandante che abbiamo due poliziotti intrappolati dentro». Si voltò di nuovo verso la porta. «Come vi chiamate?» «Danny Markey, Joe Lucchesi, Manhattan Nord, Omicidi» disse Danny. «C'è qualcun altro nell'edificio?» «Non so», rispose Joe, la voce fioca per il dolore alla gola, «ma non credo.» Scoppiò a tossire. «L'esplosione è stata dolosa», urlò Danny. «Va bene. Credete ci sia il pericolo di una seconda esplosione?» chiese Johnson.
«No, ormai è finita, è finita», disse Joe. «Ma il proprietario usa il gas per il suo lavoro», urlò Danny. Fuori ci fu silenzio. Joe e Danny rimasero in attesa. Udivano il gracchiare dei walkie-talkie e voci concitate. «Va bene», urlò Johnson, «ragazzi abbiamo un piccolo incendio alla porta, del quale dobbiamo occuparci, ok? Niente per cui allarmarsi.» Danny guardò Joe. «Oh cazzo, cazzo, cazzo. Non voglio morire così. Non così.» Cercò di piegarsi in avanti e di spingere via il blocco del soffitto che li imprigionava. «Danny, Danny, calmati», gli disse Joe. «Non ce la faremo a spostarlo. L'incendio non è vicino a noi, non si sente né calore né fumo.» «No, ma ci potrebbe essere qualunque cosa in questo posto del cazzo: altro gas, materiale infiammabile. È un edificio vecchio...» «Calmati. Là fuori sanno quello che fanno.» «Sono nel mio incubo peggiore. Nel mio incubo peggiore.» Artigliò ancora una volta il blocco di cemento, poi lo spinse con i palmi. Usò anche i piedi, appoggiandosi con la schiena alla parete per guadagnare spinta. Ma il suo corpo rimase intrappolato come all'inizio e ben presto perse sensibilità alle mani, a furia di sbatterle contro il macigno di muratura. Allora prese a martellarlo con i pugni, spaccandosi la pelle delle nocche, incurante del dolore e del sudore che gli colava dal volto e inzuppava camicia e pantaloni. Al di fuori, le case del quartiere venivano evacuate, raggruppando i residenti in fondo alla strada, dietro le transenne, dove telecamere e telefonini erano pronti a filmare il disastro imminente. Giunsero altre cinque autobotti dei pompieri, una camionetta della squadra di pronto intervento, che faticò a trovare posto nella strada stretta, e due squadre di salvataggio appartenenti a corpi scelti, con esperti dotati di attrezzature speciali. Davanti all'edificio si erano radunati più di venticinque vigili del fuoco. Joe riusciva a vedere più di Danny. Davanti a lui si apriva una fessura abbastanza larga da permettergli di guardarci. Nell'oscurità, una piccola luce si era accesa nell'angolo vicino alla porta. Nella nube di polvere, sembrava calda e non minacciosa. Quando riuscì a metterla meglio a fuoco, vide che si trattava di un incendio, ogni fiamma del quale era un potente e imprevedibile segnale di allarme. Cercò di distinguere cosa lo alimentasse, ma erano tutte ombre indistinte, oggetti indefiniti, tutti uguali. Oltre i ru-
mori provocati dalla squadra di sfondamento che cercava di abbattere la porta - metallo contro metallo, stivali pesanti sul cemento, voci concitate gli giunse un suono scrosciante come di vento fra le fronde. Joe vide le fiamme saettare in alto, poi di nuovo basse, poi estendersi sul pavimento nella loro direzione. Sembravano aver attecchito sui barili di cartone, gli stessi che Blake aveva usato per spedire gli abiti insanguinati. Danny aveva gli occhi chiusi, ma non poté non notare le fiamme dietro di loro. «No», disse semplicemente, «non è possibile, dimmi che non è...» «Sono alla porta. Fra pochi istanti saranno dentro.» Dal di fuori udirono accendersi un walkie-talkie e la voce di Johnson che diceva ai suoi uomini di ritirarsi dalla porta. «Cristo Santo», esclamò disperato Danny. Sottili volute di fumo si levarono nel seminterrato e, molto lentamente, Joe iniziò a sentire del calore alla spalla. Accanto a lui, Danny era scosso da tremiti convulsi. Nell'oscurità, riusciva a vedere il bianco dei suoi occhi. Era sull'orlo di una crisi di nervi. «Ascoltami», gli disse Joe, «i vigili del fuoco sono fuori da quella porta, ok? La loro priorità siamo noi: in genere preferiscono tirar fuori vive le persone. In poco tempo spegneranno quel fuoco, non appena si saranno assicurati di non mettere in pericolo se stessi. Peggiore delle ipotesi? Il fuoco arriva al deposito del gas e l'esplosione ci riduce a brandelli. E allora? Non sentiremo nulla. In nessun caso bruceremo vivi qua dentro, fidati.» «Gente... non lo so.» Danny inspirò profondamente e poi ruggì: «Johnson? Johnson? Che cazzo succede là fuori?». Ma la sua voce fu superata dal rumore della porta che cedeva. La squadra di sfondamento fece irruzione, spazzando via le fiamme con gli estintori. L'aria era densa di fumo e polvere, il pavimento cosparso di lacci, attrezzi da palestra e pesanti pezzi di intonaco del pavimento sovrastante. Gli uomini si precipitarono verso il banco da lavoro dove erano intrappolati Danny e Joe. «Adesso ripuliamo queste macerie e vi tiriamo fuori», disse Johnson. «Come state?» «Bene», rispose Joe, «tutto a posto.» Danny era sopraffatto dal sollievo, con una mano sul volto e l'altra ancora aggrappata al braccio di Joe. Johnson parlò nel walkie-talkie. «Capo, abbiamo un crollo parziale nel retro dell'edificio. Abbiamo appena spento un piccolo incendio davanti al
piano terra. Gli agenti di polizia sulla scena dicono che c'è stata un'esplosione mentre erano in caccia di un sospettato, che potrebbe ancora trovarsi nell'edificio.» Joe scosse la testa. «Probabilmente no.» I primi tre pompieri furono raggiunti da altri, che formarono una catena per trasportare via i pezzi di cemento, di legno e macerie varie che ostruivano il banco da lavoro. Non appena lo spazio fu sufficientemente ampio, Danny e Joe strisciarono fuori e lentamente si misero in piedi, i volti coperti di polvere grigia, gli occhi arrossati. «Grazie», disse Joe. «Dovere», rispose Johnson. «Sì, grazie, alziamo il culo da qui», concluse Danny. Joe si fermò un attimo a guardare il soffitto distrutto e scosse la testa sconsolato. Si fecero strada fino all'esterno, nella calura di Willow Street, in mezzo alla folla di vigili del fuoco, poliziotti, squadre speciali, che sostavano fra autobotti, mezzi di pronto intervento, ambulanze. Furono condotti sul retro di una di queste, dove una dottoressa li visitò. «Dovreste farvi controllare più approfonditamente in ospedale», consigliò loro. «No grazie», rispose Joe. Il comandante in capo dei vigili del fuoco si avvicinò. «Taye Harris. Come state?» «Non troppo male», rispose Danny, scuotendosi la polvere dai capelli. Altri pompieri si radunarono intorno a loro. «Cos'è successo?» chiese Harris. «Non lo sappiamo con precisione», rispose Joe, «eravamo all'interno, per interrogare una persona... questa scompare, andiamo a cercarla nel seminterrato...» «Io ho acceso un interruttore della luce», disse Danny, «e poi bum.» «Sembrerebbe una Evele», disse Harris. «Una che?» «Esplosione da vapore espanso di liquido in ebollizione. Là dentro c'era qualcosa di appositamente preparato, ma ne sapremo di più in seguito. Vedete quella finestra al secondo piano, sopra la porta d'ingresso?» «Secondo piano?» chiese meravigliato Danny. Harris si spiegò: «Per noi il seminterrato è il piano terra, il piano terra è il primo e il primo piano è il secondo». Capisco.
«Bene, pensiamo che l'esplosione sia avvenuta in una stanza sul retro, corrispondente a quella finestra del secondo piano. Siete stati fortunati che il fuoco fosse così circoscritto, perché se si fosse esteso all'abbaino, sarebbe poi sceso sul davanti, senza arrestarsi. Quello che è accaduto nel seminterrato è probabilmente dovuto a un corto circuito.» Danny fece un fischio di sollievo. «Sapete come chiamiamo quella stanza col bovindo? È piccola, in genere ha un'unica porta di accesso e, in caso di incendio alle scale, si è intrappolati. La chiamiamo la stanza del morto.» Rufo trotterellò verso di loro, le piccole mani strette a pugno. «Che cazzo ci fate ancora qui, Lucchesi? Subito in ospedale, tutti e due.» «Neanche a parlarne», disse Joe. «Stiamo bene, a parte qualche graffio e un po' di lividi. Adesso compilo un rapporto di ferite in servizio e...» «Certo, quando tornate dall'ospedale. È un ordine. Guardatevi, siete coperti di schifezze da capo a piedi, come fate a sapere se là sotto c'è qualche ferita nascosta?» «Credo che lo saprei se qualcosa mi avesse colpito», replicò Joe. «Anche io», ribatté Rufo, «perché vi avrebbe messo un po' di buon senso in quelle zucche dure. Ora andate in ospedale, senza discutere.» Joe e Danny si guardarono. «Sta bene. Guido io», disse Joe. «Grazie ragazzi», disse poi ai vigili del fuoco. «Mi metterò in contatto quando ne saprò di più», disse Harris. «Ecco il mio biglietto da visita.» Danny e Joe si presentarono al pronto soccorso del Long Island College Hospital, dove furono dimessi nel giro di dieci minuti. Si lavarono il volto nei bagni e, meno di un'ora e mezzo dopo essere stati estratti da sotto il banco da lavoro di Preston Blake, erano da Cody su Court Street. Joe buttò giù una sorsata di vodka. «Che cazzo ti è venuto in mente di dire prima? Il mio collega non respira.» «E se fosse stato vero? Se quel cazzo di soffitto ti cadeva in testa e ti uccideva, te ne saresti andato lasciando un orfano e una moglie incinta! Per caso ti fa schifo essere vivo?» Joe lo fissò senza rispondere. «Come ti senti a essere stato a pochi secondi dalla morte? Che sensazione provavi a non respirare?» «Gesù, Danny.» Joe guardò il suo amico. Era pallido come non lo aveva mai visto, la
faccia velata di sudore, gli occhi incapaci di trovare un punto sul quale fermarsi. «Va bene, va bene», disse infine Danny. Bevve la sua birra, allungando le dita sul bicchiere, in modo da non dover sforzare le nocche insanguinate. «Questa è l'unica medicina di cui ho bisogno oggi.» Ne ordinò un'altra. «Pensavo a lui. O a lei. Quando ero là sotto...» «A chi?» «Al bambino.» «Bene.» Alzò il bicchiere e lo batté contro la seconda vodka di Joe. «Salute.» «Salute.» «Allora», proseguì Danny, «ci sarai alla cena di beneficenza di domani sera?» «Sono stanco, comunque sì, per qualche ora. Cullen è un bravo ragazzo. Mi sono anche fatto rimettere a nuovo lo smoking.» «Hai dovuto allargare il giro vita di nuovo...» «In realtà l'esatto contrario.» «Il contrario?» Danny sembrava incredulo. La mano gli tremava nel portare la birra alla bocca. «Vuoi sapere a cosa pensavo quando ero là sotto?» «A cosa?» «La regola del nove.» «Cosa? Quella delle ustioni?» «Esatto, il diagramma del corpo per calcolare la, come si chiama? Stu? Superficie totale delle ustioni. Tutte le parti indicate con la loro percentuale. Non riuscivo a togliermelo di testa, quando ero là e sentivo l'odore acre del fumo. Testa e braccia nove percento ciascuno, torace e schiena diciotto percento ciascuno, gambe diciotto percento ciascuna...» «Allora?» «Sai qual è la somma totale? Novantanove percento.» «E quindi?» «Sai cosa costituisce il rimanente uno percento?» Joe iniziò a sorridere. «Appunto. I... genitali. Ero là al buio e pensavo che in qualsiasi momento i coglioni potevano andarmi a fuoco. All'ospedale sarei stato diagnosticato come ustionato all'uno percento, quindi con una prognosi neppure troppo male.» Danny aveva una faccia così seria, che Joe non osava ridere. «Ma non era quello che mi spaventava. Pensavo, l'uno percento, eppure
è una parte così enorme della mia vita. Il centro del mio universo. La fonte dei miei problemi matrimoniali e anche, si capisce, delle mie gioie matrimoniali. Ma tutto potrebbe finire in un attimo. Pensavo a Gina e a tutto il dolore derivante da questo uno percento e...» «Mi vuoi scusare solo un momento?» chiese Joe, alzando una mano. Andò in bagno, si chiuse dentro a chiave e rise silenziosamente, fino alle lacrime. Uscì e trovò Danny seduto nella stessa posizione, accigliato. «Una parola. Uno percento. Un anno senza risposte. Una vita. Parola piccola, uno, ma molto, molto significativa.» «Un poliziotto immerso in profondi pensieri. Io però devo chiamare Anna.» Compose il numero del suo cellulare, ma gli rispose la segreteria telefonica. Lasciò un messaggio. «Tesoro, sono io. Poco fa sono rimasto coinvolto insieme a Danny nel crollo di un edificio. Chiamo solo per dirti che sto bene, mi hanno dimesso dall'ospedale. Mi dispiace di dovertelo far sapere in questo modo. Ci vediamo dopo. Ti amo.» Tornò a rivolgersi a Danny: «Allora, ti è passata tutta la vita davanti agli occhi? Sei pronto per tornare al lavoro?» Danny fece segnò di sì e buttò giù quanto gli rimaneva della birra. Trascorsero un'ora in ufficio prima di fare ritorno a casa. 26. Quando Joe arrivò a casa, andò direttamente in soggiorno, si tolse la giacca, la lanciò sul divano, si sedette, accese la televisione e allungò le gambe. Fece zapping e si rilassò così tanto che davanti ai suoi occhi lo schermo divenne una macchia indistinta. Entrò Anna. «Cosa è successo?» gli chiese, inginocchiandosi davanti a lui e prendendogli il volto tra le mani. Lui si riscosse. «Scusa, quasi dormivo. Sto bene. Siamo andati a controllare una casa, ma era una trappola....» «Una trappola? C'era una bomba?» «Naah. Niente di che. Una cosa piccola, che soprattutto ci ha spaventato.» «Ero così preoccupata.» Lo abbracciò stretto. «Non devi mai preoccuparti di me, tesoro, ok? Devi solo badare a te stessa, anzi a voi due, e a quel ragazzone al piano di sopra. Solo quello conta.»
Lei lo baciò. «Tesoro, mi dispiace. Di tutto... sono stato uno stronzo.» «È tutto a posto.» «No. Mi sono comportato malissimo. Spero mi perdonerai. Non ci sono stato quando ne avevi bisogno.» «Neppure io per te», disse lei stringendogli le mani. «Ricominciamo da capo. Da adesso. Tu, io, Shaun e... il piccolo Giulio.» Si guardarono e risero. Quando Danny arrivò a casa, regnava un insolito silenzio. I giocattoli dei bambini non erano sparsi in giro, bensì riposti in scatole nel soggiorno e tutto era in ordine. Andò in cucina e premette il tasto di ascolto della segreteria telefonica. C'era la sua voce, rotta e strozzata: Tesoro, se ascolti questo messaggio, ho avuto un incidente... è stato terribile... un incendio... un singhiozzo per favore, amore mio, non lo fare. Io... i bambini hanno bisogno di me... di noi. Non gli importava di essere sembrato disperato, gli importava solo che lei avesse ascoltato quel messaggio e che, nonostante quello, se ne fosse andata. Ascoltò fino alla fine: Ho bisogno di te. Ti amo... siamo una squadra. Aprì lo sportello dei liquori e tirò fuori una bottiglia di whisky. «Brutto stronzo», esclamò Gina dalla porta e poi gettandosi su di lui. Lo colpì su una spalla. «Brutto stronzo, mi hai spaventato a morte.» Lo colpì di nuovo. Poi lo abbracciò stretto e iniziò a piangere. «Stronzo.» Lo baciò sulle labbra, ricambiata. «Dove sono i bambini?» «Con mia madre.» «Non mi lasci, vero?» «No. Ora versami da bere... carogna.» Il mattino seguente, Joe e Danny erano in ufficio alle otto. Joe cercò il numero di Sonja Ruehling nel taccuino. «Signora Ruehling, sono l'ispettore Lucchesi. Ci chiedevamo se poteva parlare di nuovo con noi, prima possibile.» Fece segno a Danny che aveva detto di sì. «Abbiamo solo bisogno di chiarire alcune cose. Certo. Ok. Senz'altro. Ci incontriamo là.» Si recarono a una caffetteria vicino all'ufficio di Sonja Ruehling sulla Quarantatreesima. Lei li aspettava a un tavolo nell'angolo, con tre grosse tazze di caffè davanti a sé.
«Grazie», disse Joe. «Ok, abbiamo bisogno di saperne di più su Alan Moder, perché abbiamo problemi a rintracciarlo.» «Alan? Ok. Volete sapere che aspetto ha e cose del genere?» «Qualunque cosa si ricordi», disse Danny. «Bene. Capelli castano scuri, occhi castani, volto allungato... alto. Corporatura da ciclista, va molto in bicicletta, o almeno andava. Era di Maplewood, nel New Jersey. Ha, o meglio adesso avrebbe... mi pare trentatré anni.» «In effetti», precisò Joe, lanciando un'occhiata al taccuino, «ne ha trentacinque.» «Lo sapevo», disse lei, sbattendo una mano sul tavolo. «Quel tizio è, come dire, incredibile.» «Cosa vuol dire?» «È un bugiardo tremendo. Ha trentacinque anni. Insomma, non me ne frega niente, ma anche ora continua a perseguitarmi con le sue bugie da due soldi.» «Era un contaballe», disse Danny. «Era un bugiardo patologico. Sembra una di quelle espressioni buttate là tanto per dire, ma lui lo era davvero. Non poteva farne a meno.» «Che vuol dire? Su cosa mentiva esattamente?» «Su ogni cosa. Sull'ora in cui si era alzato al mattino, su cosa aveva mangiato a colazione... per esempio mi accadeva di passare da lui al mattino e vedere sul fuoco una padella con dei resti di uova strapazzate e lui mi diceva: 'Ho mandato giù solo un bagel'. Oppure gli chiedevo dove avesse comprato una camicia, e lui mi nominava un negozio, poi vedevo l'etichetta ed era di un negozio totalmente diverso.» «Gli uomini», commentò Danny. «Non era solo quello. Sembrano soltanto delle piccolezze, ma non lo erano. Con lui non sapevo mai come stessero effettivamente le cose e io stessa gli creavo degli alibi; se alcuni particolari nelle sue storie non collimavano, lo attribuivo alla mia scarsa memoria. Molta gente si dimentica le cose, giusto?» «Io, per esempio», disse Danny, «e la cosa fa diventare matta mia moglie.» Sonja sorrise. «Credo non avrete difficoltà a immaginare come possa diventare bravo un bugiardo, facendo continuamente pratica con bugie apparentemente innocenti. Quando poi dovrà dire grosse menzogne, per lui sarà molto più facile.» Scosse la testa, sconsolata. «Solo il pensiero mi fa anco-
ra ribollire di rabbia. Se ne stava tutto il tempo a difendersi e ti convinceva per sfinimento; alla fine, iniziavi a pensare di essere tu quella che non era normale.» «L'altro giorno ci ha detto che fra voi due è finita male», disse Joe. «Quando lo sorpresi a tradirmi, lo lasciai. Avevo avuto dei sospetti, ma pensavo di essere paranoica, ovviamente.» «Lo affrontò direttamente?» «No. Non è il mio stile. Semplicemente gli scrissi un biglietto e lo lasciai.» «Lui provò a contattarla, in seguito?» «Per un paio di settimane, subito dopo, una o due volte, ma in modo non insistente. Nel frattempo...» «È mai stato violento?» «Violento? No. Non penserete... omioddio... non penserete che abbia qualcosa a che fare con Dean, vero?» Fece correre lo sguardo dall'uno all'altro. «Stiamo solo parlando in generale, per avere più informazioni possibile.» «Non è mai stato violento. Beh, quella volta al ristorante perse le staffe, ma non reagì fisicamente...» Si interruppe, quando si accorse che stava dicendo qualcosa che loro probabilmente avevano ascoltato da migliaia di persone innocenti, coinvolte in indagini su omicidi. «Mi scusi», disse Joe, «l'ho interrotta. Cosa stava dicendo?» «Solo che dopo che ci lasciammo, fui a lungo ossessionata dal pensiero di riuscire a capire perché Alan fosse in quel modo, più che altro per convincere me stessa che non ero stata matta a mettermi con lui, capite?» «Certo», la rassicurò Danny. «Scoprii che la maggior parte di ciò che mi aveva raccontato erano balle. Diceva che suo padre era un miliardario, che possedevano case sparse in tutto il mondo, che sua madre lavorava come interprete alle Nazioni Unite. Mi forniva informazioni anche dei minimi particolari...» «Lo vediamo continuamente nel nostro lavoro», disse Joe, «I bugiardi danno più dettagli delle persone che dicono la verità.» «Alcune cose erano vere. In effetti, la sua famiglia viveva in una casa grandissima in un elegante quartiere di Maplewood, ma non era ricca. Suo padre aveva costruito la casa, perché era un impresario edile, che poi era fallito; quindi avevano la casa, ma avevano perso i soldi. Conservavano però l'apparenza e sembra che i suoi genitori lo avessero incoraggiato a
comportarsi e ad agire come se fossero ancora benestanti. Perciò fin dall'infanzia Alan era stato abituato a mentire e credo che il suo atteggiamento futuro derivasse da questo. Aveva, mi pare, sei fra fratelli e sorelle, ma era affezionato solo a una sorella, che poi morì. Lui non ne era stato direttamente responsabile, ma si sentiva colpevole, perché l'aveva coperta con i genitori la sera in cui è morta. Lei e un gruppo di amici si riunivano in una cava e suo padre, se lo avesse saputo, glielo avrebbe proibito, perché quella settimana aveva piovuto parecchio e riteneva che quello non fosse un posto sicuro. Comunque, Alan la coprì coi genitori, lei cadde in quella cava perché il terreno aveva ceduto, e morì poco dopo.» «Come sa che si tratta della verità?» chiese Joe. «Per i suoi genitori quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Lo tagliarono fuori completamente dalla famiglia. Per loro fu un avvenimento tragico e anche Dean Valtry mi confermò la storia, perché conosceva altre persone coinvolte. Per finire, ne parlai con la madre di Alan, e ne ebbi la conferma definitiva. Mi dispiacque moltissimo per lui, ma non pensate che questo lo abbia fatto smettere di mentire! Neppure per idea, era talmente ossessionato.» «Pensa che ora potrebbe essere diverso? Che sia diventato capace di dire la verità?» chiese Danny. Lei sorrise. «Direi che adesso sarebbe senz'altro ancora più difficile stabilire se dica la verità. Io non sono stupida, eppure anni fa mi ha ingannato alla grande. Ormai dev'essere diventato un professionista di lunga esperienza. E poi non aveva un solo modo di mentire: a volte ti diceva la pura verità, altre delle mezze verità, e altre ancora delle complete invenzioni.» Li guardò negli occhi. «Per Alan, non c'è differenza fra mentire e dire la verità: è capace di sederti davanti e raccontarti una menzogna senza che il suo volto tradisca la minima incertezza, come potrebbe accadere invece a una persona comune. Non un tic, non una mano che corre a toccare il naso, non un rossore né una goccia di sudore. Rimane lì, calmo e sicuro, e mente spudoratamente.» Di ritorno in ufficio, squillò il telefono di Joe. «Pronto?» «Ispettore Lucchesi? Sono Taye Harris, il capitano dei vigili del fuoco.» «Salve, piacere di sentirla.» «Solo per aggiornarla, abbiamo trovato tre bombole di propano fra i detriti e alcuni resti di nastro. Perciò direi che il vostro amico aveva lasciato
le bombole in una stanza sigillata, quindi non avreste potuto sentire odore di gas neppure se ci foste stati davanti. La stanza era quella sul retro, che lui usava come palestra. Siete stati fortunati a non essere stati colpiti da nessuno degli attrezzi saltati in aria.» «Qual è stata la dinamica?» «L'interruttore che il suo collega ha premuto. È molto facile creare un'esplosione. Il vostro uomo probabilmente ha usato una lampadina; è sufficiente impregnare di benzina una cordicella, avvolgerla intorno alla base di una lampadina, proprio sopra l'impanatura. Si accende la lampadina, la si fa riscaldare un po' e la si immerge nell'acqua. Nel vetro si forma una crepa. La lampadina è intatta ma, praticamente, una volta accesa, si ha una fiamma libera nella stanza. Il vostro sospettato ha posizionato l'interruttore nel seminterrato, l'ha fatto sembrare un normale pulsante per accendere la luce... «Gesù.» «È un metodo molto usato in prigione. Un modo simpatico per eliminare le persone. Creano l'incrinatura nella lampadina, poi la riempiono di colla, che hanno rubato in calzoleria o in falegnameria. Quando le celle sono aperte, all'ora dei pasti o durante l'ora d'aria, qualcuno rimane indietro e sguscia dentro la cella del tizio che vuole eliminare. Sostituisce la lampadina normale con quella piena di colla. Al momento in cui l'altro torna in cella e accende la luce, c'è un'esplosione e il tipo viene ricoperto da colla infiammata; non può fuggire e praticamente brucia vivo. A volte non perdono tempo con la lampadina, si limitano a buttare della colla sul disgraziato e a dargli fuoco con un fiammifero. Per quanti tatuaggi uno possa avere sul corpo, l'idea di bruciare vivo è terrificante.» Joe lanciò un'occhiata a Danny. La pioggia batteva forte sul tendone verde all'ingresso del Bay Ridge Manor. Denis Cullen vi si trovava al di sotto e sorrise vedendo arrivare di corsa Joe e Danny, con le giacche sopra la testa. «Grazie di essere venuti, ragazzi. Non mi aspettavo di vedervi qui, dopo quello che è successo ieri...» «Al contrario», disse Joe, «per noi è un piacere.» «Lei è mia figlia, Maddy.» La bambina stava aggrappata al braccio del padre. Era pallida e magra, con gli occhi di un blu brillante. «Sei bellissima, tesoro», le disse Danny. «È un piacere conoscerti.» Lei lo ricambiò con un sorriso luminoso. «Grazie. Piacere mio. Cosa è
successo ieri?» «Qualcuno ha procurato un bello spavento all'ispettore Lucchesi qui presente. Piangeva come un bambino, avresti dovuto vederlo.» Maddy rise. «Tuo padre è stato davvero in gamba nell'indagine che stiamo conducendo», disse Joe. Lei sorrise ancora di più e si avvinse al braccio del padre. «Mia moglie mi ha dato questo per te», disse Joe, prendendo dalla tasca dello smoking un braccialetto di pietre rosa.» «È davvero bello, grazie. Come sapeva che mi piace il rosa?» «Le mogli sono i veri investigatori», disse Cullen. «Lo sappiamo bene con la mamma, vero tesoro?» Le strinse dolcemente la spalla e lei rise. «Entrate», disse Cullen, «e prendete qualcosa da bere.» 27. Magda Oleszak si tirò su fino al mento la cerniera della giacca nera impermeabile con cappuccio. «Siamo matti a uscire con questa pioggia?» disse, rivolgendosi agli altri assistenti che erano accanto a lei nell'ingresso della Colt-Embry Homes. «No», urlarono i residenti. Magda sorrise. «Bene, allora, andiamo a inzupparci.» Mary fece un passo verso la porta e Magda la prese dolcemente per un braccio. «Sei sicura di non voler venire con noi a cena?» «Sì», rispose Mary. «Magari vengo con te e ci vediamo con gli altri al cinema?» «Sono a posto.» Mary le mostrò sul proprio palmare una schermata con le indicazioni per arrivare alla chiesa e una con una piantina che indicava la strada da là al cinema. «Voglio solo stare da sola. Però grazie, Magda. Ci vediamo alle otto.» Agitò la mano in segno di saluto, si tirò su il cappuccio e corse via sotto la pioggia. La chiesa di San Martino era vuota, a parte gli ultimi fedeli che dopo la messa serale si erano fermati ad accendere candele votive. Nell'aria aleggiava odore di incenso e di ombrelli bagnati. Mary si inginocchiò su una delle panche più arretrate, e posò la borsa. Pregò davanti a ognuna delle statue di santi montate sui plinti lungo le pareti. Si perse nelle parole, senza più udire i rumori intorno a lei. Si sentiva vicina a David, vicina ai geni-
tori, lontana da tutte le brutte cose che erano successe. Sapeva che l'intensità della propria fede era un effetto collaterale della lesione, ma almeno era un effetto positivo. Si trovava a proprio agio recitando preghiere dell'infanzia, saldamente preservate nella sua memoria a lungo termine. Le piaceva scoprire nuove preghiere, leggendole dietro le immaginette dei santini, confortata dall'idea che fosse giusto cercare il bene nei periodi bui. Dopo mezz'ora, raccolse la borsa e si avviò alla porta, cercando il palmare nella tasca anteriore. Non c'era. Tastò l'altra tasca. Niente. Il battito le si accelerò immediatamente. Si guardò intorno, per vedere se qualcuno la stesse guardando, poi decise che non le importava. Rovesciò il contenuto della borsa sul pavimento: trucchi, taccuini, pagine sparse, una spazzola, cerotti, analgesici... gli oggetti si sparsero, le pagine volarono in aria, ma il telefono non c'era. Il telefono era la sua memoria. Ed era scomparso. «No», disse ad alta voce. «Non è possibile.» Esplorò il fondo della borsa, cercando eventuali strappi. Scoppiò a piangere. Il panico cresceva, scuotendola in tutto il corpo. Quando iniziò a rimettere le cose in borsa, le dita le tremavano. Riuscì a scendere barcollando gli scalini della chiesa, a uscire dal cancello e a entrare in strada, dove afferrò il primo passante. «Cerco la clinica Colt-Embry», disse. La persona alzò le spalle e proseguì. Il quarto passante a cui chiese le indicò la direzione, dandole più istruzioni di quante sarebbe riuscita a ricordare, perciò estrasse uno dei taccuini e iniziò a scrivere, senza badare alla reazione sorpresa della donna. Camminò rapidamente e poi iniziò quasi a correre, gli occhi che andavano dal taccuino al marciapiede, controllando che il telefono non le fosse caduto per terra mentre andava in chiesa. Arrivò al condominio, dove il banco della portineria era vuoto. Tutti se ne erano andati. Tenne la chiave ferma con entrambe le mani per aprire la porta e poi precipitarsi dentro. Corse all'ascensore, dove premette il bottone del suo piano, cercando disperatamente di calmarsi. Avrebbe trovato il telefono sul letto, dove lo aveva lasciato, o magari sul pavimento, forse nel lavandino in bagno, sul bancone in cucina o forse non c'era più. Perso per sempre. Ma non lo aveva avuto prima, nell'ingresso? Non riusciva a ricordare. Tutte le sue paure la afferrarono all'interno, senza che fuori trapelasse nulla. Chi la avesse vista in quel momento, avrebbe pensato che aveva un'espressione determinata, non che si trovasse al capolinea delle sue energie e fosse sul punto di crollare da un momento all'altro. Si immaginò
di essere nuovamente ritrovata da Stan o Magda o Julia, raggomitolata al suolo come una pazza. Arrivò al secondo piano, passò di corsa oltre la biblioteca, raggiunse la porta del proprio appartamento e la stava già spingendo, prima ancora di avere la chiave in mano. Si catapultò dentro e mise tutto a soqquadro, aprendo cassetti, rivoltando cuscini, gettando oggetti a terra, mettendosi in ginocchio per guardare sotto i mobili. Si fermò d'improvviso. Dal fondo del corridoio giungeva un rumore. Decise che non le importava. L'unica cosa di cui avesse bisogno erano i suoi elenchi, i nomi delle persone, tutta la sua vita racchiusa in un sottile oggetto luccicante. Non lo udì giungere alle proprie spalle. Lui fu rapido ad afferrarla per le braccia e a metterle una mano sulla bocca, prima che avesse il tempo di urlare. Per la seconda volta nella sua vita, Preston Blake sedeva in una stanzetta insieme a Mary Burig. Aveva la pelle coperta da una pellicola di sudore grasso, che gli appiccicava i capelli alla fronte. Si asciugò rabbiosamente il volto con un fazzoletto che poi gettò a terra, madido e grigio. Studiò Mary, e si rese conto che lei lo aveva riconosciuto. Mary sentiva le lacrime ormai asciutte che le facevano tirare la pelle. Le erano sgorgate a fiumi, mentre lui la trascinava via per portarla in un appartamento vuoto dell'edificio dove la fece sedere. Le pareti erano state imbiancate proprio quel giorno e il pavimento era coperto di fogli di giornale. C'erano pochi mobili coperti da teli protettivi. In un angolo una scala, dei barattoli di vernice e un macchinario che non conosceva, oltre a pennelli, quotidiani, tazze, e a una radio. Un fortissimo odore di cipolle le penetrò le narici. Guardò in giro per la stanza e ne vide una metà, posta su un piatto in un angolo, per assorbire le esalazioni di vernice. Non riusciva a smettere di tremare. Aveva ancora addosso l'impermeabile. Se lo chiuse per tenersi calda, malgrado sapesse che non era il freddo a farla agitare in quel modo. I ricordi che Mary aveva dell'uomo di fronte a lei erano frammentari, la stessa trama interrotta che cercava di rimettere insieme prima degli attacchi epilettici. Una lampada che brillava per terra, accanto a un battiscopa, una figura slanciata in piedi sulla porta del suo ufficio, la voce strozzata, il respiro mozzo. «Ho bisogno del tuo aiuto, ho bisogno del tuo aiuto, ho bisogno del tuo aiuto, siediti. Non fare altro. Ascolta quel che cazzo ho da dire e basta, ok? Cerco solo un po' d'aiuto, ok? Ok? Credo di impazzire.
Devi solo ascoltarmi, ok? Ascolta. E basta. È il tuo lavoro, giusto? Ascoltare e aiutare.» Era indietreggiata. Lui doveva avere solo sei o sette anni più di lei, ma sembrava molto, molto più vecchio, consumato dentro... oltre ogni dire. «Mi ascolti? Aiutami. Non voglio essere ciò che sono. Per favore aiutami. Fermami. I suoi denti. Bugiardo. Era un maledetto bugiardo. Posso ricostruire una parte del danno, ma è andato e non tornerà. Lo farò di nuovo. Ucciderò di nuovo.» Poi era arrivato David, arrabbiato, protettivo... Mary scosse la testa in segno di diniego. «No. Non ricordo.» Blake piegò la testa di lato, le lesse la confusione sul volto. «Che mi farai?» chiese Mary. «Non lo so.» «Hai ucciso mio fratello? «Sì.» «Perché?» La voce le usciva implorante e disperata. «Ho commesso un errore.» «Che vuoi dire?» «Voglio dire che credevo di essere preparato. Per la prigione. Per tutto. Ma ho commesso un errore. Mi sbagliavo. Ho provato e non ha funzionato. Volevo soltanto essere libero e avrei smesso di uccidere... dopo di te.» «Per favore non...» Lui la guardò con intensità. «Non avevo cominciato in questo modo. Io... qualcosa si ruppe. Volevo delle conferme. Ecco sì, delle conferme. Ho cercato di fare amicizia con la gente...» «Devi avere qualcuno che tiene a te.» «Non tutti hanno degli amici. Non quelli come me. Forse prima... ma non adesso.» «Forse sei partito troppo tardi.» «Per cosa?» «In cerca di aiuto.» «Ti farebbe comodo pensare così.» Mary non disse nulla. «Sei quasi normale, vero?» le chiese Blake. Mary annuì. «Dev'essere difficile.» Lei lo guardò senza capire. «Siamo legati insieme dalle bugie.» «Tu e io?»
Blake fece segno di sì. «No. Le bugie erano solo... cose tue.» «Io sono fatto di bugie. Ma... lo siamo tutti.» «Non è vero.» Blake rise tristemente. «È oggettivamente vero. Mi hai chiamato mostro, ti ricordi? Mi urlavi di andarmene e mi chiamavi mostro. Ho perso la mia battaglia, è vero, ma non sono un mostro. Si è scoperto che davvero non lo sono. Tutti mentono come me, solo che nessuno vuole ammetterlo. Io lo dimostro: spingi le persone abbastanza in là e ti diranno la verità. Ma perché è necessario spingerle così tanto?» Le bugie avevano costituito una buona parte della vita di Mary Burig. Erano state le bugie a condurla a questo punto, a far entrare Preston Blake nel suo mondo. Era la sera prima del suo ultimo esame universitario e sedeva in uno dei quattro angoli tranquilli di Tewkes, il bar meno frequentato di Boulder. Sul tavolino tondo davanti a lei era aperto il libro di testo di biopsicologia, con appunti scritti a margine. Conosceva i suoi ritmi. Ore e ore di studio in prossimità di un esame. Per la maggior parte delle materie, riusciva a tenersi al passo tutto l'anno, ma su altre concentrava tutte le energie in una sessione di dodici ore e riusciva comunque a uscirne brillantemente. Trascorse un'ora, concentrata nella lettura e sostenuta dal caffè. Poi entrò Jonny Tewkes, il figlio del proprietario, e insieme a lui parecchi compagni di classe, in cerca di birra gratis. Mary tenne la testa bassa, ma Jonny l'aveva vista e si avvicinò, sedendosi di fronte a lei e chiudendole il libro di testo. «Mary Burig, non è il momento.» Le sorrise. Lei ricambiò. «No. Il momento è passato da tempo.» «Quando è l'esame?» «Domani mattina.» «Allora sei pronta. Stasera hai bisogno di rilassarti, per essere in forma domani.» Mary alzò gli occhi al cielo. «Tu fai psicologia, giusto? Non è forse provato che il sesso fa rilasciare delle endorfine che ti rendono rilassato e felice?» «Siamo già saltati direttamente a quello, allora?» «Niente affatto. Ovviamente ho intenzione di farti ubriacare, prima.» «Sei proprio uno sfigato.» «Uno sincero. Non riesco a smettere di pensare alla scorsa settimana.»
Mary sorrise. «Anch'io.» «Allora qual è il tuo problema?» Lei aprì il libro. «Questo.» Lui scosse la testa. «Ascolta», disse Mary, «rimandiamo a domani sera, ok?» «Non riuscirò a mantenere su questa cosa per ventiquattr'ore.» Lei sorrise. «Da quello che ho visto...» Arrivò un cameriere con una birra e un bicchiere di vino bianco. «Salute», disse Jonny. «Solo un sorso», disse Mary, prendendo il vino. Mary non ce la fece a sostenere l'esame finale e non si laureò. Dopo mesi di baldoria con Jonny Tewkes, si trasferì da lui nell'appartamento sopra il bar e iniziò a lavorarvi come cameriera. Ma il sesso con l'alcol come carburante e costanti conversazioni sulle varianti con cui praticarlo non potevano sostenerla troppo a lungo. E Jonny non aveva molto di più da offrire. Mary partì, per trasferirsi a New York, dove aprì un piccolo ufficio a SoHo. Fu David a pagare. La targa sulla porta diceva MARY BURIG, PSICOLOGA, che a lei suonava giusto. Il suo amico falsificò una laurea dell'università di Boulder e vi aggiunse anche un master; lei lo aveva aiutato a uscire dalla droga negli anni dell'università e lui sapeva che era brava e avrebbe potuto aiutare gli altri. David non approvava l'operato della sorella, ma la coprì allora e anche in seguito, durante il primo incontro con Julia Embry. Fissando Blake, una parola attraversò la mente di Mary, un ricordo degli studi: TRAVIATO. Il termine che indicava chi soffriva di disturbi della personalità di tipo antisociale, non riesce a rispettare la legge, ignora i doveri, non prova rimorso né scrupoli, è subdolo, ha un deficit cognitivo, è collerico. Mary si accorse che alcune di quelle definizioni ben si adattavano anche a lei. Blake alzò la voce. «Mi ascolti?» «Scusa. Pensavo.» «Mi chiedo come funzioni ora il tuo cervello.» «Me lo chiedo anch'io», disse Mary e distolse lo sguardo. «Ti è servito?» «Cosa?» «Uccidere quelle persone. Ti ha dimostrato ciò che volevi? Che sei normale, che tutti sono come te, che non sei... un mostro?» «Tutti sono come me. Tutti mentono. Tutti coloro che mi hanno chiama-
to mostro si sono sbagliati.» «Perché sono qui?» «Perché volevo vederti. Perché voglio farla finita con i miei crimini. Perché penso che potrebbe essere troppo tardi.» «Non puoi dare a me la colpa di ciò che hai fatto.» «Voglio darti qualcosa.» Mary iniziò a tremare. Guardava la pistola nella sua mano destra. «In particolare voglio darti del tempo», disse Blake, alzandosi. Con la mano sinistra, estrasse qualcosa di tasca. Alla luce della luna che penetrava dalla finestra, Mary vide un lampo argentato. Le stava restituendo il palmare. Le dava una via d'uscita. La lasciava andare. Lo prese. Improvvisamente, la porta dietro di loro si aprì e lui si voltò di scatto. Mary serrò gli occhi, preparandosi al colpo di pistola. La finestra dietro di lei andò in frantumi e lei si gettò a terra, strisciando sul pavimento per raggiungere la porta. Urla, altri spari, passi, un odore tremendo. Sentì sul volto qualcosa di caldo, che le gocciolava giù per le guance. Lo ripulì prima che raggiungesse la bocca. Non appena fu nel corridoio si mise a correre. Udiva i soliti rumori dell'edificio, sempre uguali giorno e notte ma che non avrebbe mai notato, se ora non fosse stata sola e spaventata, al buio. Pianse in silenzio e disperatamente. Arrivò fino all'ascensore, dove un cartello la informò che non doveva essere usato in caso di incendio. Pensò a come l'avrebbe trasportata rapidamente giù al piano terra, da dove poteva fuggire fuori. Poi si immaginò di rimanervi intrappolata. Chiunque, a qualsiasi piano, poteva premere il pulsante ed entrare insieme a lei in quello spazio ristretto. Capì che l'unica via d'uscita erano le scale di emergenza, passando per il settore dove erano in corso i lavori di ristrutturazione. Corse, con la sensazione lugubre del vuoto. Non c'erano soffitti, i fili penzolavano, le porte davano su appartamenti disabitati. Giunse sul pianerottolo e decise di salire, anziché scendere. Si afferrò forte alla ringhiera e si costrinse a procedere verso l'alto. Poteva udire il proprio nome che veniva chiamato insistentemente e che echeggiava nella tromba delle scale. Si premette le mani sugli orecchi. Basta. Basta. Basta. Le cose tutto intorno a lei la opprimevano. Non sapeva cosa avesse visto poco prima, poteva solo aggiungere quelle immagini a tutte le altre già frammentate e incomprensibili che le ingolfavano la mente. Era piena di rabbia e si sentiva impotente. Giunta al terzo piano entrò in un appartamento vuoto e si chiuse silen-
ziosamente la porta alle spalle. Aveva perso il senso dell'orientamento; avvicinandosi alla finestra, non sapeva su quale vista si sarebbe affacciata. Quando però guardò giù, sentì il cuore che le scoppiava: la stanza dava sull'aiuola che aveva piantato insieme a David. Non conosceva il meccanismo in base al quale un ricordo si fissa e un altro invece no, perciò non sapeva mai dire se di un dato avvenimento si sarebbe ricordata o meno. Pianse. Si asciugò le lacrime, ma nell'oscurità non si accorse che erano miste a sangue. Rimase alla finestra, pensando a suo fratello, alla sua gentilezza, ai suoi occhi sorridenti, ai... Un'ombra attraversò l'erba bagnata e Mary si schiacciò contro il muro. Il panico le mozzò il respiro. Scivolò lentamente giù lungo la parete, poi si afferrò al davanzale e si sporse per dare un'altra occhiata. Ricadde di nuovo e rimase così per oltre un'ora, prima di decidere cosa fare. 28. La sala banchetti era un mare di palloncini rosa, che fluttuavano sopra i tavoli ricoperti da lucenti tovaglie bianche. Seduti ai tavoli c'erano donne e bambini, mentre gli uomini e anche i ragazzi più grandi si affollavano al bar. Rufo se ne stava da solo al buffet, con indosso uno smoking a tre bottoni e in mano una vodka. «Capo», disse Danny, dandogli un colpetto sulla spalla, «mi sembra giunto il momento di scattare la fotografia del dopo, come nelle pubblicità delle diete.» Rufo si pose una mano a coppa intorno all'orecchio. «È un complimento quello che sento?» Si avvicinò anche Joe. «Accidenti, sergente. Bell'abito, taglio di capelli nuovo.» «Vedi?» disse Rufo, rivolgendosi a Danny. «Così si fa.» «Che inutile lecchino che sei, Joe», disse Danny. «Devi ammettere che è uno smoking di gran classe», disse Joe. «Insomma, non esageriamo», disse Danny. «Ragazzi», disse Rufo, «questo è Armani. Duemila dollari, giuro su Dio. Sapete quel tizio per il quale mi occupavo della sicurezza? Quando ha visto che ero dimagrito, me lo ha regalato.» «Come no», disse Danny. «Regalo disinteressato. Driiin driiin.» Fece
finta di rispondere al telefono. «Pronto? Sergente Rufo? Ascolti, avrei qui qualche multa per divieto di sosta e un'accusa di omicidio premeditato. Potrebbe darmi una mano?» «Nel tuo mondo non esistono i regali fatti solo per far piacere a qualcuno.» «Vado al bar. Un drink? Quello sì che è un piacere.» «Ti accompagno», disse Joe. «Ne ho già uno all'attivo», disse Rufo. «Maddy è una ragazzina dolcissima», disse Joe. «Spero che ce la faccia.» «Non riesco neanche a pensare al contrario», disse Rufo. Danny era circondato da tutte le parti da ragazzoni che esibivano la carta d'identità per dimostrare di poter bere, ansiosi di avere l'opportunità di rovinarsi. Ma il capannino gli faceva comodo quando lo nascondeva da qualcuno che non voleva incontrare. Afferrò i suoi drink e corse via a testa bassa. «Ho appena visto una delle mie ex», disse porgendo a Joe la sua birra. «Davvero?» chiese Rufo. «Gli accade di continuo», spiegò Joe. «Una di quando Gina e io avevamo rotto. Questa tipa era fuori di testa. Ogni volta che uscivo con lei, finiva la serata a ballare su un tavolo, con un bicchiere per mano. Potevi portarla dovunque, lei trovava un tavolo per ballarci sopra. Ho dovuto portarla a casa a spalla più volte di quante mi possa ricordare. Alla fine non ce l'ho fatta più e ho dovuto lasciarla, spezzandole il cuore. Sono stato obbligato a dirle: Ba-» «Barbara», esclamò Rufo, sorridendo a una donna con un abito da sera verde smeraldo, prendendola per mano e attirandola a sé. La baciò sulle guance e fece le presentazioni. «Lei è la mia... amica Barbara Stenson, lui è Danny Markey. Già conosci Joe.» Danny aprì e chiuse la bocca due volte prima di parlare. «Io... piacere di conoscerla, Barbara.» «Piacere mio, Danny», disse lei, stringendogli la mano con troppa forza. «Posso portare qualcosa da bere?» chiese Joe. «Questo è il mio terzo lemon soda», rispose lei, «e di più non posso berne. Ho smesso di bere alcuni anni fa e ancora mi chiedo come fosse possibile che il mio corpo potesse ingurgitare così tanti liquidi in una notte.» Rise.
«Durante tutti quegli anni che Barbara trascorreva a buttare giù vodka, io ero impegnato a sbafare una torta dietro l'altra», commentò Rufo. «Mi chiedo se ci saremmo piaciuti, incontrandoci allora.» «Sarebbe stato davvero triste, perché quando le mie notti erano una sbronza continua, finivo sempre per trascorrerle con i peggiori sfigati.» Joe rise più forte di tutti. Barbara prese Rufo sottobraccio. «Sono dovuti passare degli anni prima di trovare il tipo giusto.» «Joe, perché non lasciamo soli questi due piccioncini?» propose Danny. Quando se ne andarono, Joe stava ancora ridendo. «E così dicevi di averle spezzato il cuore?» «Ma che cazzo ci fa insieme a Rufo?» «Non pare proprio che ti rimpianga.» «C'è troppo amore in questo posto stasera. Non lo sopporto.» «Vediamo allora cosa offrono da mangiare», disse Joe, dirigendosi verso il buffet. «Sono proprio nello stato d'animo per assaggiare un po' di roast beef. Anzi per un bel po'.» «Io pensavo piuttosto al tacchino.» Si sedettero a un tavolo, con due birre e due piatti colmi di cibo. Danny guardava di sottecchi Barbara che rideva con Rufo. «Che ci troverà in lui di tanto divertente?» Anche Joe la guardò. «Probabilmente il fatto che tu continui a fissarla. Che l'hai trattata come una merda e adesso può vendicarsi. Che in effetti potresti partecipare come invitato al suo matrimonio con il tuo capo... ci sono un sacco di cose che la divertono proprio adesso. L'idea che...» «Chiudi il becco.» «Pensaci. Lei sposa Rufo e quando lui a casa si lamenta dei suoi collaboratori, lei non prenderà mai le tue difese...» «Devo dirglielo...» «Sei uscito di cotenna?» «È il tuo telefono?» Joe lo fissò senza capire. «Dico sul serio. Lo sento vibrare contro la mia sedia.» Joe prese la giacca dalla spalliera della sedia e ne estrasse il telefono. «Pronto? Pronto? Pronto...» Scosse la testa a Danny e stava per riappendere. «Mary? Non la sento... dov'è?» Rimase per un po' in ascolto. «Ok. La porta è chiusa a chiave, giusto? Rimanga dov'è, non si muova, va bene?
Non appena chiudiamo la comunicazione, chiami il 911. Può farlo? La terranno in linea... no, no, manderanno la pattuglia più vicina e subito dopo arriveremo noi. Lei rimanga lì e andrà tutto bene.» Riattaccò. «Gesù Cristo, era Mary Burig. Ha detto qualcosa sull'assassino. È nel suo edificio. E lei è da sola. Però... insomma, è Mary.» Alzò le spalle. «Coraggio, andiamo subito a controllare.» Mary compose i numeri 9 e 1. Nel corridoio, poi, qualcuno chiamò il suo nome. Il cuore le dette un balzo e mise giù il telefono. Joe e Danny si fermarono nel parcheggio deserto delle Colt-Embry Homes. Non c'erano auto di pattuglia e l'edificio era avvolto nell'oscurità. «Dove cazzo...» disse Joe. «Forse hanno parcheggiato sul retro», ipotizzò Danny. «E perché mai? Cazzo, non li ha chiamati.» Afferrò la radio. «Omicidi Manhattan Nord a centrale. Ci troviamo ad Astoria sulla Ventunesima, presso le Colt-Embry Homes. Possibile presenza di sospetto assassino nell'edificio. Ci servono rinforzi.» Corsero verso l'edificio. La porta d'ingresso era socchiusa, l'atrio era deserto, le luci spente. Joe indicò la zona dietro il bancone, dove il soffitto del breve corridoio era scoperto, con i rivestimenti che pendevano ai due lati, appesi a cavi massicci. Al di là si trovava la porta antincendio e le scale che li avrebbero condotti all'appartamento di Mary al secondo piano. Joe salì per primo, cercando di fare meno rumore possibile con le scarpe da cerimonia nuove, seguito da Danny. «Andiamo direttamente da lei?» bisbigliò Danny. «Sì.» Raggiunsero il pianerottolo del primo piano, dove Joe dovette fermarsi perché aveva i lacci sciolti. «Fanculo queste scarpe», imprecò. Percorsero il corridoio. Due volte scivolò sul piede destro, ma riuscì ugualmente a mantenere l'equilibrio. Si era scordato di darle ad Anna prima di uscire, altrimenti lei avrebbe rigato la suola con un temperino o l'avrebbe sfregata con della carta vetrata. Cercò di riguadagnare la concentrazione. Gli unici rumori che udiva erano i passi di Danny dietro di sé e il ronzio delle luci fluorescenti al di sopra. Mary sentì dei passi che avanzavano lungo il corridoio e il tintinnare
delle chiavi di Stan. Aprì lentamente la porta e mise un piede nudo su una mattonella, che stranamente era calda e umida, e il piede le scivolò. Quando cadendo sbatté la testa sul pavimento, l'ultima cosa che vide fu la cintura da lavoro di Stan... coperta di sangue. Joe e Danny aprirono tutte le porte del secondo piano e non trovarono nessuno. Nell'appartamento di Mary la porta era spalancata e le sue cose sparse dappertutto. Cassetti aperti, cuscini ribaltati, borse svuotate. «Le cose si mettono male», disse Joe. «Mary?», chiamò Danny, «Mary?» Per passare al setaccio tutto l'appartamento ci volle poco. Non trovarono niente. Corsero al piano di sopra, aprendo le porte che non erano chiuse a chiave. Tornarono al piano terra ed entrarono nell'atrio dalla porta posteriore. «Guarda là», disse Joe, indicando una striscia di sangue sulle piastrelle del pavimento. «Non c'era quando siamo arrivati.» «Infatti.» Corsero alla porta d'ingresso. «Dove può essere finita?» chiese Danny. Joe scrutò nell'oscurità. «E dove cazzo sono i nostri rinforzi?» «Eccoli.» Due agenti in uniforme arrivavano a passo tranquillo lungo il vialetto di accesso. Danny fece segno e i due corsero verso di lui. «La donna che ci ha chiamato non è qui», disse Danny, «ma non abbiamo setacciato l'intero edificio. Il ricercato va in giro sotto il nome di Preston Blake o Alan Moder, un metro e ottanta, sulla trentina, corporatura media, capelli scuri, evidenti cicatrici sul mento, può essere insieme a Mary Burig, vicina ai trenta, un metro e sessanta, magra, lunghi capelli scuri, occhi azzurro chiaro. Non sappiamo come sia fuggito.» Magda Oleszak corse per il parcheggio delle Colt-Embry Homes, oltrepassò le auto di pattuglia appena arrivate e si scontrò con un agente in uniforme in piedi sulla porta. «Cosa è successo?» chiese. «Lei chi è?» «Lavoro qui. Mi chiamo Magda Oleszak. Cerco una mia amica. Dovevamo andare al cinema insieme, più di due ore fa. Pensavo che fosse nel
gruppo, qualcuno mi ha detto che c'era e io non ho controllato. Sta bene? È là dentro? Perché siete qui? Si chiama Mary.» «Stiamo controllando una possibile irruzione. Per favore, signora, devo chiederle di allontanarsi e di andare a parlare con uno dei miei colleghi.» Indicò un'altra auto che arrivava in quel momento. «Loro risponderanno alle sue domande. Per adesso non è prudente che entri nell'edificio.» Joe compose il numero di Rufo sul suo cellulare. «Capo? Sono Joe. Siamo alla Colt-Embry e sembra che Blake sia stato qui. Nessuna traccia di Mary Burig, c'è invece del sangue sul pavimento. Questa è la situazione.» «Pensate che Blake sia ancora nell'edificio?» «Non lo sappiamo. Siamo in attesa di rinforzi dal distretto Uno-UnoQuattro.» «Dammi il tempo di radunare i ragazzi dal bar. Arrivo subito.» Julia Embry arrivò e scese di corsa dalla macchina. Magda uscì dall'auto della polizia e le corse incontro. «Si tratta di Mary?» chiese Julia. Aveva gli occhi incavati nel volto pallido. «Non lo so», disse Magda piangendo. «Non so cosa stia accadendo.» «Oddio, spero che Mary stia bene», disse Julia e iniziò a correre verso l'edificio. Magda la trattenne. «Non la faranno entrare.» «Perché no? Devo entrare a vedere cos'è successo.» «Sono tutti al cinema. Mary era rimasta indietro, ma doveva raggiungerci dopo essere stata in chiesa. Ho lasciato una delle ragazze ad aspettarla nel foyer e lei mi ha detto che Mary c'era. Eravamo al buio, al cinema, dovevo controllare.» «Non è colpa sua», le disse Julia. «Vado a controllare in chiesa...» «Non si muova. La polizia ci dirà cosa dobbiamo fare.» «Ho provato a telefonare a Mary, ma non risponde.» «È una situazione tremenda.» Osservò i poliziotti che si muovevano in giro per l'atrio. «Non possiamo fare nulla. Devono dirci qualcosa loro.» Joe corse attraverso l'atrio e bussò alla porta di vetro per indicare all'agente di togliersi di mezzo, poi raggiunse Julia e Magda.
«Ispettore Lucchesi», chiese Julia, «che sta succedendo? Dov'è Mary?» «La stiamo cercando. Ci ha chiamato perché qualcuno aveva fatto irruzione nell'edificio...» «Oh mio Dio!» «Signora Embry, ci sono le chiavi di tutti gli appartamenti dello stabile?» «Sì, sono nel mio ufficio.» «Adesso non posso farla entrare. Se vuol dirmi dove sono...» «Cassetto in basso a sinistra della mia scrivania, dentro una borsetta per i trucchi.» «Ok, grazie. Le telecamere di sicurezza sono in funzione?» «No, mi dispiace. Sono temporaneamente fuori servizio per il rifacimento dell'impianto elettrico.» «D'accordo. Ciò di cui ho bisogno adesso è che lei e la signora Oleszak vi rechiate al Quattordicesimo distretto e che mi aspettiate là. Vi faccio accompagnare da un agente. Verrò a parlare con voi entro un paio d'ore, ok? So che non è piacevole, ma è indispensabile.» Julia annuì. «Faremo come dice.» Rufo era nell'atrio con il resto degli uomini, la maggior parte dei quali proveniva direttamente dalla cena di beneficenza. «Mi sento un po' troppo elegante per il lavoro», disse Rufo. «Sembriamo la marcia dei pinguini. E qualcuno si degni di aprire la porta, per far sbollire un po' i fumi.» Arrivò Joe. «Cosa è successo?» chiese Rufo. «Siamo arrivati qui e niente più Mary», disse Danny. «Non aveva neppure chiamato il 911.» «Siamo stati noi a chiamare il distretto Uno-Uno-Quattro quando siamo arrivati qui. Siamo ancora in attesa che arrivino altri rinforzi.» Rufo abbassò lo sguardo. «Una striscia di sangue.» «La scientifica è in arrivo», disse Joe. «Raccontami di nuovo com'è andata», disse Rufo. «Lei ha chiamato per dire che c'era qualcuno nell'edificio. Ha detto proprio che era Blake?» «Sì.» «Devo per forza chiederlo. Questa Mary è... provata. Possiamo credere a ciò che dice? Potrebbe essere successo tutto solo nella sua testa?» «Impossibile. Ho sentito la sua voce: era terrorizzata. Non poteva esser-
selo solo immaginato.» «Se scopro che potevo rimanere al bar...» disse Rencher. «Quanti appartamenti ci sono?» chiese Rufo. «Venti, alcuni però sono vuoti perché li stanno ristrutturando. Poi c'è una stanza comune su ogni piano, di fronte all'ascensore, una biblioteca, una sala da pranzo, e una sala tv.» «Quindi non tutte sono state setacciate. Mettiamoci in moto.» «Dove sono Bobby e Martinez?» chiese Joe. «Martinez non era esattamente in splendida forma. Gli ho detto di rimanere dov'era, appeso alle gonne di qualche vecchia signora.» «Bobby non si è fatto vivo», disse Pace. «Credo che sia a occuparsi della sicurezza a una manifestazione sportiva a Bryant Park.» Joe scosse la testa. Mary era distesa nell'oscurità, quasi del tutto priva di sensi. Aveva il corpo freddo e insensibile, gli occhi appannati, le orecchie assordate dal rombo continuo di un motore. «Un viaggetto breve, senza problemi, niente di cui preoccuparsi», le aveva detto. Due volte. Però tremava e sapeva che lei aveva fatto la telefonata e non riusciva a guardarla. Quando le si era avvicinato, una goccia di sudore gli era scivolata giù dalla faccia, finendole proprio in un occhio, senza che lui se ne accorgesse. Lei non riusciva a smettere di piangere. «Dove mi stai portando? Dove?» «Per favore stai calma, per favore, per favore.» Continuava a ripeterlo senza sosta. «Non posso», strillò lei, «non posso.» Lui rimase in silenzio, limitandosi a guardare indietro di tanto in tanto, per assicurarsi che non fosse riuscita a liberarsi. Era piegata di lato, con le caviglie legate e le mani fissate saldamente all'altezza dei polsi. «Ormai sono del tutto sola in questo mondo», esplose lei. «Non ho nessuno! Nessuno! Perché mi fai questo? Perché? Perché? Perché?» Iniziò ad avere dei conati. «Cerca di non vomitare. Devi rimanere come sei, non posso fermarmi.» Non l'aveva imbavagliata perché, con quell'aspetto così fragile, era proprio il tipo da vomitare. Mary si buttò in avanti ed ebbe un altro conato. La mente si rifiutava ormai di funzionare e solo il corpo affrontava la battaglia. Pensava di aver quasi scampato il pericolo e ora invece era nell'oscurità totale, con la piog-
gia che tamburellava incessante sul tettuccio e sui finestrini, trapanandole la testa, costringendola a sforzarsi sempre di più per farsi sentire. Le parole non funzionavano, lui non le ascoltava. Cessò di parlare, ma il resto sfuggiva al suo controllo. Singhiozzava ormai con ululati agonizzanti, simili a quelli di un bambino malato che non sa esprimere la propria sofferenza. Mary cercò dentro di sé la speranza, immaginandola come una luce bianca che le facesse da guida. L'unica via possibile era la religione, il percorso di visitazione, resurrezione, redenzione e ascesa. Nella mente le corsero veloci le preghiere: a Sant'Antonio, Padre Pio, San Giuseppe, San Giovanni. Poi passò al rosario, dieci grani, parole che non si erano mai cancellate dalla sua memoria. Terminò con il Confiteor: «Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni, per mia colpa...» Ripensò alle proprie opere e omissioni. Erano le cinque del mattino quando Joe e Danny tornarono in ufficio. Rencher, Blazkow, Martinez e Pace erano ancora alle loro scrivanie. Joe si stropicciò gli occhi per scacciare il sonno. «Novità?» «Nada», rispose Rencher. «Solo qualche postumo da sbornia», disse Martinez. «Già, e il numero di telefono di qualche vecchietta», lo sfotté Rencher. «Qualcuno è riuscito a rintracciare Stanley Frayte?» chiese Joe. «No.» «Tutte le squadre sono state informate, sanno chi stiamo cercando», disse Danny. «Allora», ricapitolò Joe. «Non abbiamo Stanley Frayte, né Mary Burig, né Preston Blake. Non abbiamo un cazzo di nessuno. Blazkow, puoi fare una ricerca su Stanley Frayte?» «Certo. Adesso però posso andare a dormire, no?» «Abbiamo tutti bisogno di un po' di sonno.» Squillò il cellulare di Joe. «Joe? Taye Harris, comandante dei vigili del fuoco.» «Come va? Mi dispiace di non averla ricontattata prima, ma le cose sono precipitate.» «Ho sentito. Ecco perché la chiamo a quest'ora del mattino, o della notte. Joe, non credo che il suo assassino sia uscito vivo dall'edificio. Credo che lo abbiamo trovato.»
«Cosa?» esclamò Joe. «Non può essere...» «Abbiamo trovato un cadavere.» «Ma la scena era pulita. Credevo che fosse stata controllata ogni...» «Lo so. Lo so. Ho parlato con gli agenti coinvolti e poiché si trattava di una scena del crimine e le ricerche sono state accelerate, i rapporti di prima e seconda istanza hanno dato risultati negativi. Non hanno avuto tempo a sufficienza. Il cadavere si trovava nel bovindo sul fronte della casa, dietro un grande divano. Quando i miei uomini sono entrati per ventilare l'ambiente, hanno dovuto tirare giù alcune pesanti tende davanti alla finestra, per far circolare meglio l'aria e nessuno lo ha visto. È rimasto nascosto lì per parecchie ore.» Dopo un attimo di riflessione, Joe disse: «Il bovindo. Era nella...» «Stanza del morto», completò Harris. 29. Joe e Danny si misero in macchina, diretti all'ufficio del medico legale. «Siamo in piedi da ventiquattr'ore», osservò Danny mentre entravano. Joe sbadigliò. «Lo so.» Il dottor Hyland scese e li condusse nella stanza, dove un corpo era disteso sotto un lenzuolo bianco. «Solo per prepararvi: è ridotto piuttosto male.» Alzò il lenzuolo. La prima cosa che Danny e Joe videro fu un braccio completamente bruciato insieme alla mano. Su un dito brillava qualcosa di dorato. Entrambi si piegarono per guardare più da vicino: era l'anello della loro scuola superiore. Si guardarono increduli. «Gesù Cristo», fu quello che riuscì a dire Danny. «È Bobby.» Al Ventesimo distretto, Pace controllò la scrivania di Bobby, dove c'erano ancora i suoi appunti: era arrivato alla stessa conclusione di Cullen sull'indirizzo di Blake. «Deve aver deciso di fermarsi da Blake mentre tornava a casa dal lavoro», disse Joe. «Blake si è spaventato, ha capito che gli eravamo addosso.» «Avrei dovuto essere con lui», disse Pace. «Non ti aveva detto nulla...» gli disse Joe. «Gesù Cristo, ha due figli piccoli.» Danny scosse la testa.
«Sarà meglio che vada a dirlo io al vecchio Nic», disse Joe. In molti sapevano che Bobby Nicotero e suo padre non andavano d'accordo. Ma sapevano anche che questo non significava nulla quel giorno, né avrebbe più significato niente in futuro. Quando Victor Nicotero vide Joe alla porta alle otto di mattina, immediatamente capì. Le mani gli tremavano quando lo fece entrare. «Sta accadendo qualcosa di sbagliato», disse, faticando a spiccicare le parole. «Stavolta mi trovo dalla parte sbagliata di una notifica. Gesù Cristo, cosa è successo?» Joe cercò di evitare i dettagli, il vecchio Nic lo capì, ma fece finta di niente e rimase seduto in silenzio. «Su c'è Patti, che dorme la sua ultima notte prima che il mondo le crolli addosso. Vorrei non doverla mai svegliare, Joe.» La voce gli si incrinò. «Quando era un bambino, si preoccupava sempre per me, fino a farmi diventare matto. Mi si aggrappava addosso e non voleva lasciarmi andare.» Negli occhi gli spuntarono le prime lacrime. «Adesso so come si sentiva.» Gli sfuggì un singhiozzo disperato. «Non voglio lasciarlo andare.» Cercò il fazzoletto in tasca. «Fra noi le cose stavano migliorando. Stavano migliorando.» Alzò gli occhi, rossi e umidi. «Che problema aveva con me, Joe? Dove ho sbagliato? Non intendo con lui, è un bravo ragazzo, ma...» «Le famiglie», disse Joe, porgendogli un fazzoletto di carta. «Non sappiamo mai cosa possiamo aspettarci, vero? Però io so quando un figlio vuole bene al padre, Nic, lo so. E Bobby te ne voleva. Si preoccupava per te. Nel suo... modo particolare.» Nic sorrise. «Nel suo modo rabbioso.» «Non volevo dire quello, comunque sì, non era diretto. Però badava al sodo. La settimana scorsa si era incazzato di brutto con me.» «Davvero?» «Sì. Una scenata in piena regola nel corridoio.» Nic sorrise di nuovo. «Quello è il mio ragazzo.» «Non lo avrebbe fatto se non gli fosse importato niente.» L'ufficio era silenzioso. Nessuno sapeva cosa dire. Pace era andato a casa, Cullen era arrivato. «Non posso credere che i pompieri non lo avessero trovato.» «C'era un caos», disse Joe, «e non volevamo che calpestassero le prove, non sapevamo cosa potesse esserci.»
«Già, tutta la vita di Blake si svolgeva fra quelle mura. I lavori dentistici per Valtry, le...» «Hai per caso visto materiale dentistico là sotto?» chiese Joe. «Certo», rispose Danny. «Non ti ricordi? Le pinze, i trapani...» «Però non c'era traccia di denti, niente impronte, niente porcellana, niente di tutta quella cianfrusaglia che abbiamo visto al laboratorio. Dobbiamo tornare in quella casa... È lì dentro che tiene Mary.» Danny e Joe parcheggiarono in Remsen Street e andarono a piedi fino a Willow Street, fermandosi a breve distanza dalla casa di Preston Blake. «La nostra unica via d'accesso è attraverso la porta del seminterrato, sotto il portico d'ingresso», disse Joe. «Il crollo ha bloccato tutto il resto.» Si avvicinarono alla porta, che era sigillata e recava un cartello dei vigili del fuoco e un numero di telefono da chiamare in caso di bisogno. «Chiamo la squadra di pronto intervento», disse Danny. Quindici minuti più tardi, due uomini del pronto intervento li fecero entrare nel seminterrato, ancora impregnato di fumo. «Eccola là, la botola che cerchiamo», esclamò Joe. Non appena la sollevarono, furono colpiti da un tanfo che mozzava il fiato. Furono costretti a tirarsi indietro, le mani sulla bocca. «Gesù Cristo», esclamò Joe, «ma che cazzo...» Danny si asciugò le lacrime. «Incredibile. Semplicemente...» riprese fiato e guardò giù, lungo la scala verticale. «Vado avanti io», disse Joe. «Fammi luce con la torcia.» Danny tenne il fascio di luce ben fermo, mentre Joe scendeva, poi gli passò la torcia e scese a sua volta. «Dove cazzo siamo?» chiese quando fu giunto in fondo. Joe illuminò a destra e a sinistra, finché il fascio incontrò le sbarre di una cella e, sul muro di fronte, una tv. Joe allungò una mano verso l'interruttore della luce. «No!» urlò Danny. «Niente interruttori.» «Cazzo! Mi hai fatto cacare addosso», disse Joe, ritirando la mano. Danny si avvicinò alla cella, con la gola serrata per la vicinanza all'odore nauseabondo. Nell'angolo accanto al letto c'era un secchio di escrementi, coperti di larve. Le mosche adulte svolazzavano intorno, atterrando sul bordo e facendo la spola verso un piatto di cibo rancido su un vassoio vicino alla porta. Joe lo illuminò e poté vedere i sottili escrementi verde oliva che si lasciavano dietro. Danny corse verso la scala, riuscendo a vincere la nausea senza vomitare.
«Perché qualcuno vorrebbe voler vivere così?» chiese Danny, tenendosi un fazzoletto stretto alla bocca. «Perché si tratta di qualcuno la cui esistenza è allo sfacelo. Veniva qua sotto probabilmente per punirsi dopo aver ucciso. Odia se stesso. Probabilmente pensa che questa punizione possa bastargli.» «La sua punizione dovrebbe essere di avere la testa infilata in quel secchio», disse Danny, ricacciando indietro un'altra ondata di nausea. «Sei tu che ti causi lo schifo.» «Devo uscire di qui.» «Guarda.» Joe gli indicò i calchi dei denti, sparsi sul letto, accanto a una scatola aperta. Con la torcia illuminò due scaffali, con file ordinate di minuscoli teschi di animali, nelle cui orbite scintillavano dei gioielli. Spillato sul muro, sopra una piccola scrivania, c'era un foglio ingiallito e screpolato, strappato da un blocco a spirale. Joe si curvò a leggere le righe scritte a mano: I perversi sono estraniati dal ventre: errano non appena nati, proferendo menzogne. Il loro veleno è simile a quello di un serpente: sono come la sorda vipera che si occlude l'orecchio; che non darà ascolto alla voce degli incantatori, incantatrice a sua volta. Spezza loro i denti, o Dio, nelle loro bocche: spezza i grandi denti dei giovani leoni, o SIGNORE. Il resto dei grigi muri industriali era coperto di fotocopie con la stessa scritta, fianco a fianco, i bordi sovrapposti. «Scommetto che è il biglietto con cui Sonja Ruehling lo ha congedato», disse Joe. Danny scosse la testa. «È una roba così... contorta. Cristo Gesù.» Joe si accucciò a guardare sotto il letto. «Portafogli.» Ne tirò fuori alcuni e li aprì, osservando i volti di quelli che non erano stati scelti come vittime. «Se solo sapessero a cosa sono scampati.» «E qui sopra c'era quella casa lussuosa! Incredibile!» «Non si può mai sapere la merda che la gente nasconde sotto la superficie.» «Dove ti nascondi, maledetto mostro?» urlò Danny. Rufo sedeva nel suo ufficio con la testa fra le mani. Joe e Danny bussa-
rono ed entrarono. «Sono scioccato. Ancora non riesco a crederci. Bobby.» «Lo so», disse Joe. «Probabilmente è andato là perché io gli stavo addosso e voleva controllare che l'informazione fosse giusta, prima di passarmela...» «Non fare l'idiota», gli disse Rufo, con tono gentile. «A che punto siamo?» «Abbiamo trovato il maledetto sotterraneo di Blake, ma dentro non c'era nessuno. La casa di Stanley Frayte è stata setacciata, ma senza risultato. Nessuna traccia di Mary.» «Tutto ciò che possiamo sperare è che Blake faccia qualcosa per attirare l'attenzione su di sé», disse Rufo. «Dopo tutto il primo contatto con lui lo abbiamo avuto perché è stato lui stesso a chiamarci.» «Già. Quello era il suo modo di presentarsi come l'esatto opposto di ciò che era in realtà, il suo essere un bugiardo patologico. Conosceva la sua bravura nella menzogna e l'ha utilizzata per assumere il ruolo della vittima e quindi allontanarci da lui, riuscendo magari nello stesso tempo a carpire informazioni.» Rufo esalò un respiro sconsolato. «Sapete che è stato lo stesso Blake a mettersi in contatto con Artie Blackwell per quell'articolo?» disse Joe. «Te lo ha detto Artie?» chiese Danny. «Sì. Forse quando ha saputo che abbiamo scampato la morte ha cominciato a provare rimorso...» Nella stanza entrò di corsa Cullen. «Ragazzi, ho trovato qualcosa. Non so cosa farne, in effetti, ma vorrei che ci deste un'occhiata.» «Di che si tratta?» chiese Julia Embry, cercando con difficoltà di sistemare una sedia di fronte a quella di Joe, nella mensa che odorava di disinfettante e verdure. Joe la aiutò a sedersi. «Si tratta di suo figlio Robin.» Lei si portò una mano al petto. «Robin?» «So che non ha mai saputo chi fosse alla guida dell'auto quella notte...» «Oh mio Dio», esclamò Julia, portandosi una mano alla bocca. «Avete scoperto chi...» «Sì. E se vuole, posso dirle chi è.» «Sì, ovviamente lo voglio sapere. Perché mai...» «Potrebbe fidarsi di me, e accontentarsi di sapere che non era una perso-
na malvagia, che non costituisce un pericolo o...» «Mi dispiace, ispettore, io mi fido di lei, che mi sembra una brava persona, ma devo chiudere definitivamente con questa storia e adesso che la conclusione si trova proprio di fronte a me, non intendo rinunciarci. Perché mai dovrei?» «Perché per lei sarà un colpo al cuore.» «Chi? Chi è stato? Me lo dica e basta.» «Stanley Frayte.» Nei suoi occhi trasparì lo shock, ma il resto del volto sembrò crollare sotto il peso della tristezza e della delusione. Joe quasi non riusciva a guardarla. Prese un fazzoletto pulito e stava per porgerglielo quando lei affondò la testa fra le braccia appoggiate sul tavolo e prese a singhiozzare così forte che lui non osò muoversi. La toccò gentilmente su un braccio e le mise davanti il fazzoletto. «Mi dispiace di aver dovuto essere io a comunicarglielo. So che è una cosa tremenda. Probabilmente è fuggito a causa dell'attenzione della polizia, forse immaginava che prima o poi lo avremmo scoperto.» Julia riuscì a riprendere fiato a sufficienza per dire a Joe che non era colpa sua. Prese il fazzoletto e vi nascose la faccia, poi si ripulì gli occhi e si soffiò il naso; lo guardò e crollò di nuovo. Ci vollero parecchi minuti prima che riuscisse a parlare. Joe sedeva in silenzio, guardando fuori della finestra e ascoltando i rumori provenienti dal parcheggio. «Le luci di Natale a casa mia... le mettevamo sempre io e Robin. Poi, dopo che lui morì, mio marito. Ma quando lui mi ha lasciato... era Stan ad aiutarmi. Lo faceva insieme a me senza... come ci riusciva? E perché ora mi vengono in mente le luci di Natale? Sono la prima cosa a cui ho pensato...» «Possono essere mille le ragioni per cui Stan ha deciso di non farsi avanti. Poi si è accorto che non riusciva a vivere con quel senso di colpa. Basta una frazione di secondo per decidere di continuare a guidare e non c'è modo di tornare indietro. L'unica cosa cui in seguito è riuscito a pensare è stato di aiutarla in qualche altro modo. Penso che così volesse alleviare il rimorso. Ovviamente tiro a indovinare.» «Lei, col suo lavoro, vede cose di ogni genere. Crede che quello che ha fatto Stan, non confessando, sia sbagliato?» «Stan ha commesso un errore enorme. Aveva lavorato sodo per arrivare dov'era all'epoca. Ha pensato alla sua famiglia, non ha pensato...» «Alla mia. A me. Ma è un uomo così...» le parole le morirono in gola,
«... così gentile.» «Non ne dubito.» «Come lo avete scoperto?» «Quando lo abbiamo preso perché impostava le lettere di Mary, credevo che avessimo scovato il colpevole. Infatti, quando lo portammo nella stanza degli interrogatori, sembrava come sollevato da un peso. Una volta però scoperto il motivo per cui era lì, l'ho visto sorpreso. Sapevamo che non era l'assassino, ma ho pensato che potesse esserci qualcos'altro su di lui, qualcosa di losco in cui fosse coinvolto... abbiamo fatto un controllo... nel frattempo abbiamo parlato con gli ispettori che si erano occupati del caso di Robin. Avevano le ultime lettere del nome della compagnia di trasporti del camion, che una testimone aveva visto fuggire. Si era sbagliata nel leggerne una... Abbiamo rimesso insieme i pezzi.» «Stan è stato qui fin da quando abbiamo cominciato a costruire la clinica. Ci ha offerto tariffe che sapevo erano al di sotto del suo standard. Non è mai stato in ritardo, sempre gentile, fedele, non beveva, non prendeva droghe, era di buon cuore. Che devo Mentire verso di lui? Che devo fare?» «Non lo so.» «Come ho fatto a non accorgermene? Mai, neppure il minimo sospetto...» «Non sono uno psicologo, né ci sono mai andato in vita mia, ma credo che se adesso comincia a pensare a ogni parola e a ogni gesto che c'è stato fra lei e Stanley Frayte, non ne uscirà mai.» Julia annuì. «E servirebbe solo a sminuire tutto il buono che ha fatto. Mi è già successo di ripensare all'infinito alla mia ultima conversazione con Robin, ed è una cosa sufficiente a far impazzire chiunque. È un cliché risaputo: si era trattato di un litigio. Il nostro ultimo scambio di parole era stato rabbioso, ed è un qualcosa che non potrò mai cambiare. Si è così abituati ad avere la possibilità di far pace dopo un litigio, che te l'aspetti sempre. La persona con cui discuti se ne va sbattendo la porta e tu le dici, bene, vattene pure, sapendo che in seguito potrai scusarti.» «Sono sicuro che lui provasse gli stessi sentimenti. Che fosse certo di rientrare da quella porta e sistemare tutto.» Julia sorrise brevemente e si voltò a guardare fuori dalla finestra. Era tarda sera quando rientrarono in ufficio. L'atmosfera era tesa. L'unica cosa peggiore di un'indagine in stallo poteva essere il moltiplicarsi di piste che non conducevano da nessuna parte.
«Sai cosa c'è domani?» chiese Joe a Danny. «No.» «La mia operazione.» Danny rise. «Stai cercando una via d'uscita? Vuoi che ti dica: 'Non puoi andare, sei troppo stanco, il caso si ferma se non ci sei tu'?» «Sarebbe ottimo.» «Bene, scordatelo. Per te è l'occasione giusta. Vuoi che sia un luminare a trapanarti la faccia, giusto? Non un dottorino alle prime armi. Questa allora è la tua occasione.» Joe piegò la testa. «Trapanarmi la faccia...» «Non è forse di quello che si tratta?» Joe sospirò. «Allora vado o no?» «Vai. Prenditi un giorno libero. Sopravviveremo senza di te e tu ti riposerai.» «Chi cazzo si riposa in ospedale?» «Si fa per dire.» Joe si alzò. «Ok, ok. Vado a casa, dormo qualche ora, poi credo che andrò in ospedale.» Anche Danny si alzò. «Non preoccuparti. Qui le cose sono sotto controllo. «Bene. Fammi sapere.» «Ti auguro che vada tutto bene.» Joe non rispose subito. «Grazie.» «Ultime parole?» «Molto divertente.» «Molto divertente. Se sono queste, le trascrivo.» «Bravo.» «Bene. Ci vediamo.» «Dopodomani.» «Vuoi davvero...» «Sì, chiudi il becco.» «Chiamo Anna per sapere com'è andata.» «Ok.» «Hai scelto di donare gli organi, vero?» 30. «Ispettore Lucchesi?» Un uomo alto e magro entrò in corsia. «Sono il
dottor Branfield e sarò io a occuparmi di lei stamattina.» «Come sta, dottore?» Branfield sorrise. «Io bene. Solo per rassicurarla, si tratta di un'operazione minore. Sono il medico che ne ha eseguite il maggior numero in tutti gli Stati Uniti, perciò per me si tratta di una passeggiata. E sarà lo stesso per lei... se ha l'abitudine di passeggiare sotto anestesia.» Joe fece uno sforzo per sorridere. «Non ha niente di cui preoccuparsi, sarà tutto finito nel giro di trenta minuti. Prima ancora di rendersene conto, si troverà fuori di qui ad azzannare una bella bistecca.» Branfield si allontanò. «Ci vediamo in sala operatoria.» Cinque parole che Joe credeva non avrebbe mai udito in vita sua. Era digiuno, ma lo stomaco gli pesava una tonnellata. Si distese sul cuscino, le braccia sopra la testa. Che sto facendo? Il cellulare mandò un bip. Era un messaggio di Anna: «In bocca al lupo! Ti pensiamo! Baci». «Pronto ad andare?» disse una voce pimpante dalla porta. «Certo», rispose lui, in contrasto con ogni singolo atomo di volontà della sua mente. Si ritrovò a fissare il soffitto da una barella, con le luci al neon che gli scorrevano sopra mentre veniva trasportato a fare l'anestesia. L'infermiere che lo spingeva parlava a mitraglia della copertura di campo del suo cellulare e di come fosse pessima nel suo nuovo appartamento. Joe avrebbe voluto prenderlo a cazzotti. Aveva già le mani chiuse a pugno, le braccia tese e rigide sui fianchi. Provò a rilassarsi, ma era accaduto qualcosa alla sua respirazione, che si trovava in stallo come un'auto in folle. L'infermiere gli lanciò un'occhiata. «Andrà tutto bene. Faccia qualche respiro profondo. La aiuterà, mi creda. Inspiri. Espiri. Inspiri. Espiri.» Joe guardò l'infermiere negli occhi e si accorse che adesso era l'unica persona che poteva impedirgli di alzarsi e scappare in strada in camice. Sincronizzò il respiro come gli consigliava l'altro e distolse lo sguardo. «Bene», disse con voce allegra l'infermiere, «adesso è tutto a posto.» «Grazie.» «Come ha detto, scusi?» «Grazie.» «Non c'è di che. Eccoci arrivati.» Joe girò la testa verso la porta. «Servizio ottimo e rapido.» «Si entra.»
Consegnò Joe agli assistenti in attesa e se ne andò. Joe non avrebbe voluto lasciarlo andare. In un angolo della stanza, un medico rideva, dando le spalle agli infermieri della sala operatoria. Una di loro si avvicinò a Joe e glielo presentò. «Lui è il dottor Graff, il suo anestesista.» «Salve», disse il dottor Graff. «Allora, questo è il primo passo per sentirsi meglio.» Sorrise. «Però se ha aspettato così tanto, immagino di dirle cose che già saprà.» Sorrise di nuovo. «Adesso le darò qualcosa e prima che abbia finito di contare da zero a dieci si sentirà scivolare giù...» Ma Joe non pensava a scivolare giù. Pensava al fatto di dire a qualcuno cose che l'altro già sa. Disteso sulla schiena, nudo e vulnerabile, vide finalmente tutto il puzzle ricomporsi, tassello dopo tassello. Lottò per alzarsi dalla barella. «È tutto a posto», disse l'infermiera. «Sarà...» «Mi dispiace», disse Joe. «Devo andare.» Martinez portò due tazze di caffè alla scrivania di Danny e gliene porse una. «Latte, due cucchiaini di zucchero.» «Dio benedica la tua memoria», disse Danny, dando un'occhiata all'orologio. «Direi che Joe sta andando sotto i ferri proprio in questo momento.» Martinez si sedette sul bordo della scrivania. «Per quanto tempo starà via?» «Un giorno o due.» «Io non sopporterei che mi facessero qualcosa alla faccia», disse Martinez, accarezzandosi la mascella. «Avere qualcuno che ti infila dentro chissà che. Anche quella cosa con il laser agli occhi, mi spaventa a morte.» «Credo che Joe fosse davvero disperato.» Il cellulare di Danny squillò. «Pronto?» «Muovi il culo e vieni all'ospedale.» «Joe? Porca troia! Non eri in sala operatoria? Dove sei?» «Non sono abbastanza vestito da poter stare in una cabina telefonica nell'ingresso dell'ospedale.» «Sei sotto l'effetto di qualche medicinale?» «Muoviti e basta, cazzo!» «Hai dei vestiti?» «No, ho intenzione di andare in giro nudo. Per forza ho dei vestiti, devo solo trovare la mia stanza.»
«Arrivo. E la tua operazione?» Ma non attese la risposta. Joe conosceva bene la zona di Westchester: insieme a Shaun aveva abitato nella casa di suo padre a Rye, quando erano tornati dall'Irlanda. Ora si trovavano a dieci chilometri di distanza dalla città, in un tranquillo tratto di campagna, uno scenario perfetto per la seconda Colt-Embry Clinic. Seguirono la strada asfaltata, che procedeva tortuosa in mezzo ai giardini non ancora terminati e conduceva all'edificio principale. Oltrepassarono il banco vuoto della portineria e si fermarono davanti a una pila di cartelli ancora imballati, appoggiati al muro. Erano in attesa di essere montati, ma indicavano con una precisa freccia nera la strada per l'ufficio di Julia Embry. Bussarono, ma aprirono senza aspettare. Julia sobbalzò e quasi cadde dalla sedia. «Dov'è Mary?» urlò Joe. Julia era pallida. Annuì. «È qui. È al sicuro.» «Sa quante persone sono impegnate nella sua ricerca? È per caso impazzita?» Danny mise una mano sul braccio di Joe, per calmarlo, ma lui la scosse via. «No. Voglio sapere che cazzo succede qui!» Julia scoppiò a piangere. «Ne ho abbastanza delle lacrime. Non voglio più piagnistei del cazzo!» «Calmati Joe», gli disse Danny, poi si rivolse a Julia. «Signora Embry, siamo felici di sapere che Mary è al sicuro.» «Grazie.» «Dove si trova?» «Nei nuovi appartamenti. L'ho trasferita qui perché non volevo più vederla soffrire. So che è stata lei a mettersi in contatto con voi e so anche che siete stati gentili con lei. Ma la sua vita è stata sconvolta e non volevo che dovesse superare altre prove. Sarebbe stato troppo difficile.» «Anche Stan è qui?» «Sì.» «Cristo!» Julia si rimise a sedere. «Lei ha una famiglia, ispettore, l'ho letto sui giornali. Le dinamiche sono diverse quando non la si ha. Stan, Mary... possono scomparire senza attirare troppa attenzione. Non hanno familiari che si disperano perché non ci sono più. Quanti rapporti su persone scomparse ha compilato...»
«Lasci che la interrompa qui. Sono sinceramente preoccupato: le ho dato l'impressione di essere una persona che considera gli esseri umani dei numeri?» Il volto di Julia avvampò ed evitò di guardarlo. «Mi dispiace. No, no, non mi ha dato quell'impressione.» «Grazie. Perché deve sapere che ci sono molte persone che lavorano con me che si preoccupano: io, il mio collega, l'intera squadra, siamo tutte persone che si preoccupano della gente con cui abbiamo a che fare. Pensava forse che dopo essere entrati in contatto con una persona come Mary Burig, ci saremmo dimenticati di lei se fosse scomparsa? Forse lei può dormire la notte, sapendo che Mary è al sicuro, ma io magari no. Magari mi sveglio, pensando a cosa ho fatto di sbagliato. Lei come si sentirebbe al posto mio?» «Mi dispiace.» «Ascolti, non voglio mettere in discussione il suo lavoro con la clinica, quello che lei ha fatto e le persone che ha aiutato. Dovrebbero esserci un milione di posti come questo in tutto il paese.» «Grazie. Per me significa molto.» Gli occhi le si riempirono di lacrime. «Non so come mi sono infilata in questo casino, mi dispiace.» Lo guardò negli occhi. «Come lo ha capito?» «Vedo molte persone piangere. Lacrime vere e finte. Quando le ho raccontato di Stan e Robin, ho visto lacrime vere. Ma sapevo che piangeva per un altro motivo. Ho avuto l'impressione di raccontarle qualcosa che già sapeva. Accade a volte di veder piangere la gente ai funerali e di capire che c'è qualcos'altro sotto. La mia sensazione era simile.» Julia sorrise tristemente. «Ha ragione. Piangevo per qualcosa di diverso.» «Per cosa?» «Perché mi ricordava una volta di più che mio figlio voleva morire.» «Cosa?» «Robin si era buttato deliberatamente sulla corsia di Stan.» «E lei ci crede?» «Sì. La vita a casa era insopportabile. Sapevo che lui non stava... bene. Era fragile, aveva già tentato una volta il suicidio. Stan mi ha confermato quello che sospettavo.» «Come ha saputo di Stan?» «Una volta crollò e mi raccontò tutto. Dopo qualche anno che lavorava per me, disse che non sopportava più il peso della colpa e che il fatto che
io fossi gentile con lui non faceva altro che peggiorare le cose. Non poteva semplicemente andarsene, perché sapeva quanto fosse importante per me, ma non riusciva neanche a restare, perché gli sembrava di ingannarmi ogni giorno di più.» «Come reagì quando glielo disse?» «Ne fui distrutta.» «Ma si riprese...» Julia lo guardò senza dire nulla. «Si riprese quando si accorse che per il resto della vita poteva avere qualcuno che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di farsi perdonare.» «Non sono così cinica.» «Andiamo, sia sincera.» «Non è così. Stan era diventato un caro amico. Avevo perso mio figlio, mio marito, non potevo perdere anche lui, mi sarebbe stato insopportabile. Nessuno avrebbe fatto tornare Robin. Stan era una brava persona, non c'era niente da guadagnare cacciandolo via.» «Mi sembra una specie di associazione...» «Di amici. Le famiglie hanno legami di sangue, noi avevamo... legami diversi. Ma eravamo amici.» «Ok. Cos'è successo quella notte alla clinica?» «L'assassino venne a cercare Mary. Nell'edificio non c'era nessuno tranne me. Udii dei rumori in un appartamento e ci andai. Lui mi sparò, ma per riflesso, senza mirare, e mi mancò. Io urlai, Mary urlò. Stan arrivò di corsa e... lo uccise. Legittima difesa, accadde tutto in pochi secondi.» La faccia di Joe era impassibile, ma dentro era furibondo. «Cos'è accaduto a Mary?» «La situazione era confusa, i rumori, gli spari... lei strisciò oltre di noi e corse fuori, andando a nascondersi in un altro appartamento.» «Cosa fece Stan?» «Lui... avvolse il corpo nei lenzuoli che c'erano nella stanza, poi nella plastica e... lo seppellì.» «È stato allora che Mary ci ha chiamato?» «Credo di sì. Dissi a Stan di trovarla e portarla nella nuova clinica. Lei era riuscita a raggiungere il magazzino dietro l'atrio. Probabilmente ci siete passati davanti...» Danny sospirò. «È stato terribile. A Stan si è spezzato il cuore nel doverla trascinare via nel modo in cui lo ha fatto. È terribile dover legare qualcuno a cui si vuole
bene...» «Lei e Stan dovrete venire con noi. E dobbiamo vedere Mary.» «Lei è qui fuori. Per favore, fatemi chiamare Magda Oleszak. Potreste portare Mary da lei, non voglio che debba venire alla polizia.» «Ok», disse Danny. Mary era inginocchiata davanti all'aiuola, vi sbatteva sopra le mani e urlava il nome del fratello. Joe la osservò distruggere i fiori appena piantati, con i petali gialli e arancio che si sparpagliavano al suolo. Le si accucciò accanto. «Mary?» Lei lo guardò, con gli occhi pieni di lacrime. «Mary. Ha visto qualcosa?» Le appoggiò con dolcezza una mano sulla spalla. «Non ha fatto niente di male, Mary.» «Invece sì.» «No.» Lei piegò la testa e pianse ancora più forte. Julia si rivolse a Joe. «Questa clinica è la mia vita. Non volevo che fosse associata a qualcosa di brutto. Stiamo per aprire la nuova sede, ci sono tante cose in ballo, la vita di molte persone dipende da noi. Ho agito male, ma con buone intenzioni.» Fece una pausa, poi aggiunse. «Lo sa cosa significa volere qualcosa a ogni costo?» Epilogo L'odore sulfureo della morte riempiva la tenda della scientifica che era stata allestita nell'angolo più silenzioso dietro la clinica Colt-Embry. In mezzo si stendeva l'aiuola, con i suoi colori brillanti che contrastavano con la pioggia insistente, con i volti impietriti dei poliziotti e con il cadavere sotto terra. Un tecnico della scientifica, alto e biondo, stava di fronte a Danny e Joe, intento a spremere il contenuto di un sacchetto di plastica per mescolare l'acqua e la polvere al suo interno. «Pietra dentaria», disse Joe, scuotendo la testa. «Può essere», confermò Danny. Il tecnico si accucciò accanto all'impronta di un piede e vi versò il liquido, in modo da definirne i contorni. Quando ebbe finito, sigillò il resto del
composto dentro la busta. Altri tre tecnici usavano piccole vanghe e setacci per liberare gradualmente il cadavere, seppellito a solo mezzo metro di profondità. Uno di loro alzò gli occhi. «Alla fine qualcuno lo ha fatto fuori al posto vostro.» Joe lo guardò senza vederlo. «Per lo meno lo avete preso», continuò il tecnico. «Sai una cosa? Sabato ho un funerale. Il tizio che state tirando fuori ha ucciso uno dei miei uomini. Non lo abbiamo preso... non come volevamo.» «Mi sarebbe piaciuto ammanettarlo e gettarlo in pasto alla folla», disse Danny senza emozione nella voce. Joe fissò il braccialetto di pelle sul polso di Blake, la mano per metà protesa in alto, come se volesse uscire da sotto terra. «Il dermestide», disse Joe. «Avevo ragione. Aveva tutta quella pelle in casa...» «Bel lavoro, ispettore.» «Andiamo a prendere un po' d'aria.» Shaun sedeva da solo a cena, quando Joe rientrò a casa. «Dov'è tua madre?» «Non lo so.» «Ho saputo di Tara...» Shaun fece un gesto vago. «Come va?» Shaun gli sorrise. «Papà, è tutto a posto. Non devi stare qui con me a parlare di sciocchezze quando, per esempio, il figlio del vecchio Nic è morto e tu sei quasi...» «Come stai tu è la cosa che mi preme di più sapere.» Prese un piatto e si servì gli spaghetti. «Sto bene.» «Ottimo.» «Non mi si è spezzato il cuore», disse sorridendo. Joe rise. «Ascolta... per quanto riguarda il college...» Il sorriso di Shaun svanì. «Sì?» «Ecco...» «Ascolta, andrò al college, papà, ok? Ho ancora qualche mese prima di presentare la domanda di ammissione. Ho bisogno di rifletterci.»
«Ma ci andrai? È questo quello che vuoi?» Shaun alzò gli occhi al cielo. «Ovviamente è ciò che voglio. È solo che a pensarci era tanta roba, decidere dove vivrò nei prossimi anni, cosa farò della mia vita. Non sono cose da poco. Ora posso prendermi del tempo.» Joe sospirò di sollievo. «Sono contento.» «Tu come stai?» Joe lo guardò sorpreso. «Io? Benissimo.» Shaun non approfondì. Il cellulare di Joe squillò: chiamata da un numero privato. Si alzò per andare a rispondere nel soggiorno, al buio. La voce di Duke Rawlins era minacciosamente tranquilla: «La fossa è stata un tocco di classe.» «Davvero? Lo sapevo che ti sarebbe piaciuta.» «Hai mandato il tuo vecchio amico a fare un viaggetto fino a qui, vero? Lui poi ha pagato qualche ragazzetto scazzone per scavare una fossa accanto a quella di Donnie. Non c'è molto spazio, però. A sufficienza solo per una donna bassa. O un ragazzo.» Joe non disse nulla. «Non può essere un grande amico se gli hai fatto attraversare la mia strada.» Il cuore di Joe prese a battere più forte, al pensiero di Patti Nicotero ancora in lutto. Quando Rawlins parlò di nuovo, la sua voce si calmò di nuovo. «Immagino sapessi che era il posto nel quale sarei tornato. Non potevi sopportare di non sapere dove ero per tutti quei mesi, che facevo, con chi lo facevo...» Anna entrò nel soggiorno, gli occhi luccicanti. Aveva un nuovo taglio di capelli, che le scendevano fino alle spalle, con la riga su un lato. Joe sorrise e lei gli tese le braccia. La maglia le si alzò e le scoprì la pancia. Lui fu colto da una sensazione mista di amore, rimpianto, paura, vergogna. Anna aprì la bocca per parlare, ma lui si portò un dito alle labbra, pur continuando ad ascoltare e a sorridere. Trovarsi risucchiati nello spazio morto che circonda un assassino, poterlo toccare, osservare, dialogarci è un'esperienza potente. I più vedevano Duke Rawlins solo in una fotografia sul giornale, da una distanza di sicurezza, dalla quale non era possibile percepire ciò che dentro di lui era marcio. In carne e ossa, invece, la parte fetida trasudava da ogni poro: dagli occhi senz'anima, dai denti non lavati, dalla pelle impura. Joe aveva co-
stretto Anna ad attraversare quel confine senza esservi preparata. Era stata strappata dal mondo protetto che Joe le aveva creato intorno ed era stata tuffata nell'universo contorto di Duke Rawlins. Adesso sembrava un sogno infranto, una promessa di felicità che Joe non aveva saputo mantenere. Guardandola, un brivido gli percorse la schiena. Duke Rawlins l'aveva aggredita, imprigionata, malmenata, colpita, incisa con un coltello sulla sua pelle perfetta... Anna si voltò per andarsene e guardò da sopra la spalla Joe, con un sorriso che gli giunse al cuore. Riappese il telefono. Una cosa Rawlins non era riuscito a fare: non l'aveva sconfitta. Ringraziamenti Grazie alla mia agente Darley Anderson e a tutti coloro che lavorano alla Darley Anderson Literary Agency, una squadra di sorprendente talento. Grazie al direttore editoriale Wayne Brookes, figura leggendaria. Grazie ad Amanda Ridout, Lynne Drew e tutta la Harper Collins. A Tony Purdue e Moira Reilly, grazie per il vostro faticoso lavoro e la deliziosa compagnia. Sono molto grata a tutti gli esperti che mi hanno aiutato nelle mie ricerche. Un grazie speciale a Stephen A. Di Schiavi, ispettore alla Omicidi della polizia di New York, in pensione. Grazie anche a George Farinacci, tenente dei vigili del fuoco di New York, e a Dominick Albergo, ispettore della polizia di New York, in pensione; Reggie Britt, ex ispettore alla Omicidi di New York; David G. Aggleton e soci; Paul J. Cascone, vice presidente anziano della Argen Corporation; professoressa Marie Cassidy; dottor Andrew Dalsimer; dottoressa Alice Flaherty; Paul Keogh; professor Nicholas Manos; Elliott Moorhead; dottor Paul Siu; dottor Elton Strauss, Joanne P. Tangney; dottoressa Erin Grindley Watson. Grazie a Kelly O'Hara, che ha generosamente messo a disposizione il suo tempo e le sue conoscenze.
Per tutto ciò che trasmettono a coloro che sono così fortunati da incontrarli, grazie a Sue Booth-Forbes; Maureen e Donald O'Sullivan e famiglia; Anna Phillips; Mary Maddison; Maggie Deas e Matthew Higgins. Alla mia meravigliosa famiglia e agli amici: siete voi a dare un senso a tutto. Ringraziamenti speciali, come sempre, a Brian e Dee. FINE