EGLE RIZZO IL VIAGGIO DI AELIN (2005)
Personaggi
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EGLE RIZZO IL VIAGGIO DI AELIN (2005)
Personaggi
Aelin Alascura Anton Benjamin Brine Christofer Corvo di Scuranotte Cylair Deirdre Doros Erisen Ethienne Etzel Evander Ezel Favilla Feanor Felicia Fenrir Flora Gabriel Gwyon Isengrin Jade Jordan Khristen Laurenthal Liljum Lint Llys
la scrittrice della storia un drago blu uno dei luogotenenti di Isengrin il vice soprintendente di Auster guerriero di Levant nobile di Levant uno dei guerrieri di Evander re dei ladri, fratello di Jade mercenaria, uno dei luogotenenti di Isengrin nobile di Levant antico nobile della valle della spada verde nipote del Santo Guardiano, patriarca di Zephyr antico nobile della valle della spada verde lo Stratega, uno dei luogotenenti di Isengrin il nobile del forte della spada verde un drago verde, femmina un sacerdote di Tramontana la principessa di Levant un Elaunoi la sorella di Ezel cavaliere del forte di Auster un apprendista incantatore lo Stregone con la maschera d'argento una ladra cavaliere di Auster, erede di Thule il re di Tramontana un sacerdote un sacerdote del meridione principe di Aquilon guerriera di Levant
Marissa Martin Moira Morgant Nadhyra Nicholas Palen Pendragon Psiche Rhory Sethrian Shiin Sidhe Silph-aen Theoria Tristam Vanessa Vincent di Skyron Viviana Zanna
la sorella del re di Tramontana un monaco guerriera di Levant conte di Levant, alleato di Christofer la regina di Aquilon il soprintendente di Auster mago di Lilài, amico di Sethrian un Elaunoi la dama del castello sulla scogliera il cavaliere prescelto un incantatore uno dei luogotenenti di Isengrin un Elaunoi una dei mercenari di Evander una Elaunoi un assassino madre di Jordan un patriarca la castellana del forte della spada verde un drago verde, femmina
LUOGHI GEOGRAFICI Aran Aquilon Auster Graecale Levane Lilài Mystral Kore Thule Tramontana Vultur
affluente del Fiume dei Venti capitale del regno omonimo il forte dei cavalieri città nel sud ovest di Aquilon capitale del regno omonimo la città dei maghi città del nord città di Levant il feudo di Jordan città del nord città santa del Signore del Tempo
LE SPADE La Spada Verde La Spada Viola La Spada Nera La Spada Rossa La Spada Azzurra La Spada Blu
Discordia, Eris, La Tessitrice Solitudine, Colei che Scioglie Tenebra, Ombra Fiamma, Oro Rosso Canto Lacrima di Pioggia
I L'APPRENDISTA Il cammino montano era costeggiato da basse macchie di rovi, i rami di pini selvatici gettavano la loro ombra e aghi secchi sul sentiero. Poi, oltre la curva del monte, comparve tra le rocce un giardino rigoglioso. Il viaggiatore si fermò, pensieroso. Stando alle indicazioni che aveva strappato alla gente del posto, lì viveva il mago, quella era la sua meta. Eppure non riusciva a scorgere alcuna costruzione, le piante parevano essersi levate a proteggere la dimora dell'incantatore. Le chiome di quegli alberi non avevano il verde cupo dei pini o degli abeti; i loro colori chiari lasciavano pensare a piante di tutt'altra specie, piante che forse non avrebbero potuto crescere a una simile altezza, se non fosse stato per la magia. Magia! Il giovane viaggiatore scacciò il brivido legato a quella parola, al motivo della sua venuta in quel luogo sperduto. L'ombra del parco sembrava attendere il visitatore; la bellezza del roseto e della lavanda, le foglie d'alloro fruscianti non riuscivano a cancellare la sua inquietudine. In fondo al giardino, affacciato sullo strapiombo, si ergeva una specie di castelletto, e i fiori di gelsomino che crescevano lungo le pareti spandevano il loro profumo tutt'intorno. I battenti erano appena accostati ma il viaggiatore si attardò a bussare, tirando la corda di un vecchio campanaccio, aspettando una risposta che non venne. Infine si fece coraggio, spinse in avanti la metà sinistra della porta: si ritrovò in una saletta dove le candele accese riflettevano la luce su pallide superfici di specchi, grigie di polvere e di fumo. Poi ci fu un rumore di passi, e il ragazzo vide il mago scendere lentamente i gradini di una scala di pietra. L'incantatore aveva capelli rossicci e
scomposti; una barba di due giorni creava vaghe ombre sul suo volto magro. Il mago era giovane, molto più giovane di quanto l'altro si fosse aspettato. Non sembrava avere più di venticinque o trent'anni e, certo, gli antichi racconti erano colmi di streghe rese eternamente belle dai loro poteri, tuttavia, forse per l'orlo stropicciato della vestaglia nera, forse per l'espressione di disappunto che l'incantatore non si curava di nascondere, a ogni modo il viaggiatore ebbe la netta sensazione che non vi fosse alcun inganno nel suo aspetto. «Ho superato il tuo esame?», disse l'uomo con un brillio divertito negli occhi chiari. «Perché adesso avrei alcune domande da porti. Nessuno fa tanta strada per chiedermi una pozione o un filtro d'amore, non quando le città pullulano di maghi ansiosi di vendere i propri servigi ai passanti. Ne deduco che devi avere un buon motivo per trovarti qui, un buon motivo oppure uno molto sciocco». «Mi chiamo Gwyon, ho diciannove anni. Credevo fossi stato informato del mio arrivo, ma dato che non è così, vedrò di fare del mio meglio per rimediare». L'incantatore, Sethrian era il suo nome, annuì, con un pizzico d'impazienza. Non cessava di scrutare il suo interlocutore: era appena un ragazzo, si, e palesemente a disagio. Era come se non volesse trovarsi in quel luogo. «Un mago è giunto nel mio paese natale, e aveva con sé una strana bacchetta di vetro». Sethrian tornò ad annuire. Sembrava quasi che avrebbe dovuto cavare di bocca le parole al ragazzo. «Il mago ha riunito tutti alla locanda», continuò Gwyon, «ha voluto che ci passassimo quello strumento di mano in mano, e quando sono stato io a prenderlo...». «La verga di cristallo si è illuminata, rivelando in te la presenza di una magia latente», concluse Sethrian, «e non sei un incantatore, ma ora sai che potresti diventarlo. Anche se hai quasi vent'anni e in effetti è tardi per iniziare l'addestramento. O almeno così si è sempre pensato, nella nostra Congrega». «Devono aver cambiato idea», rispose il giovane con estrema serietà. «Io non so molto, quel vecchio incantatore era vago, ma ha parlato di una minaccia incombente, tale da spingere la Congrega a cercare nuovi adepti in ogni luogo».
L'altro socchiuse gli occhi, scettico. «Ho con me una lettera», aggiunse Gwyon dopo un attimo d'esitazione, «che conferma la mia storia». «Non era la tua parola che mettevo in dubbio». Il giovane assentì, incerto. «A volte qualcuno a Lilài lancia una crociata in favore dei potenziali maghi», spiegò Sethrian, «sembrano convinti che sia indispensabile per il loro bene renderli compartecipi dei nostri poteri. È la favoletta della minaccia, così e indistinta, irreale...». «Che vuoi dire?», chiese Gwyon, oscurandosi in volto. «Non credo ai pericoli inventati per convincere i giovani recalcitranti a seguire la strada della magia, tutto qui». «Ma io non voglio diventare un mago...», disse il ragazzo, mordendosi un labbro. «Perché sei qui, allora? È stato davvero l'impulso cavalleresco della misteriosa minaccia a guidare i tuoi passi?», rispose l'incantatore con una punta d'ironia nella voce. «Sì. Cioè no. In parte». Gwyon scosse la testa. «Forse semplicemente non potevo fare a meno di venire. Dovevo vedere quello a cui stavo dicendo di no». Il mago allargò le braccia: «Sarò sincero con te: detesto insegnare, non ho la pazienza necessaria e non sarà per niente facile svegliare quei poteri che in te ancora dormono. Non so perché ti abbiano mandato proprio qui, e inizio a credere che qualcuno abbia voluto farmi uno scherzo di cattivo gusto. Ma se scegli di provare ti darò tutto l'aiuto possibile... al limite vedendo di trovarti un maestro migliore». La camera degli ospiti era ampia e spaziosa; sarebbe stata bella, ma uno strato di polvere uniforme copriva ogni cosa. «Questa è la prima lezione che ti impartisco», aveva detto Sethrian con quel tono semiserio a cui l'altro avrebbe dovuto far l'abitudine, se fosse rimasto. «Si potrebbe adoperare la magia per pulire, ma sarà meno faticoso utilizzare la forza delle braccia. Ora purtroppo non ci sono servitori nel mio piccolo castello, non sono un tipo troppo socievole, o quantomeno preferisco intrattenere rapporti con un numero selezionato di persone. I domestici non rientrano fra queste in genere, così ho assunto solo un donnone che viene sin qui una volta la settimana, pulisce, fa il bucato e mi riempie la dispensa, mentre io me ne sto tappato nel mio studio.
Tutto questo avverrà tra cinque giorni, perciò credo che faremo prima noi due da soli... anche se io detesto i lavori manuali. E innanzitutto immagino vorrai riposarti un po'». «Preferisco iniziare subito, se non hai nulla in contrario», rispose Gwyon. «Non mi piace lasciare le cose ad aspettare. Farò tutto da solo, vedrai. Tu nel frattempo potresti parlarmi un po' della magia e di quel che comporta». Sethrian si fermò per un istante. Poi annunciò che sarebbe andato a prendere strofinacci e spazzoloni. Rimasto solo, Gwyon spalancò le grandi ante delle finestre. Rimase lì a pensare. Si sentiva confuso. Due settimane prima era un giovane pescatore, sicuro di quel mestiere quanto poteva esserlo di avere due braccia e due gambe. Adesso invece non sapeva più nulla; non riusciva nemmeno a stabilire che impressione gli avesse fatto quello strano mago. «Ho detto che non mi piacciono i domestici?», si chiese Sethrian mentre cercava in uno sgabuzzino degli stracci che non riusciva a trovare. «Dovrei avere il buon gusto di ammettere la mia ipocrisia, almeno. È facile ignorare un inserviente mediocre; se non ho un domestico fisso è più per una questione di denaro, preferisco spenderlo nei libri e nei miei esperimenti, che per una presunta misantropia. Ma ho sempre detestato le frasi che cominciano con un non posso permettermi e dunque facciamo pure finta che l'assenza di servitori sia frutto di una scelta lungamente ponderata. A costo di sembrare un idiota». Il mago scosse la testa, come per scrollar via il cattivo umore che l'aveva assalito. Un'altra cosa che detestava era essere sorpreso, e la venuta di quel ragazzo non era un imprevisto di scarsa entità. Eppure Gwyon, nonostante tutto, gli era quasi simpatico, per quel poco che aveva potuto vedere. E c'era un pensiero cattivo: un apprendista si può trasformare così facilmente in uno sguattero... Gli strofinacci erano poi nel posto più ovvio, e il mago li ficcò con stizza nel secchio che aveva già riempito. Stava per tornare indietro quando qualcosa gli cadde di tasca. Era la lettera che Gwyon gli aveva consegnato: forse leggendola avrebbe potuto scoprire qualcosa di più sulla ragione che spingeva la Congrega a cercare con tanta insistenza nuovi maghi. Però, quando spezzò il sigillo, Sethrian si trovò di fronte soltanto un esagono ricoperto da un fitto labirinto di rune. Il simbolo degli incantatori,
un segno a cui poteva solo ubbidire. O per meglio dire, Lilài non dava ordini, non era nelle sue abitudini. Ogni incarico assegnato poteva essere discusso, nei limiti del possibile. Ma stavolta era differente. Non c'erano spiegazioni, né una riga d'accompagnamento. Di nuovo la strada del mistero, come per quell'improbabile minaccia. Sethrian aveva degli amici alla grande scuola di Lilài, era tentato di mettersi subito in contatto con uno di loro, e chiedere cosa stesse accadendo. Non lo fece. Se davvero il pericolo era tale, sarebbe stata una sciocca imprudenza parlarne apertamente in un dialogo a distanza, che altri avrebbero potuto intercettare. Se non c'era alcun pericolo, e così lui continuava a credere, chiedendo delle spiegazioni si sarebbe solo umiliato. Una sola cosa era certa: volente o nolente Sethrian aveva ormai un apprendista. «Non è facile dire cosa significhi essere un mago», iniziò Sethrian, «ma è sempre possibile cercare di formulare una definizione approssimativa. Per essere precisi, di risposte ne abbiamo già parecchie, tutte belle e infiocchettate, poiché da sempre gli incantatori hanno avuto il problema di spiegare a se stessi e agli altri la propria natura. Quella che preferisco recita pressappoco così: la magia è un'arte, qualcosa di più di una semplice professione, qualcosa di più di una qualità innata. Perché un mago è tale soltanto se riesce a comprendere le proprie potenzialità, e a sfruttarle nella maniera adeguata». «Dunque non sono ancora un mago», mormorò Gwyon e dallo straccio che aveva in mano rivoli d'acqua cadevano sul ripiano del vecchio comò. «Né ci tieni a diventarlo, questo è ormai chiaro. Ma viene da chiedersi se sai almeno per quale motivo ti spaventi tanto l'idea». Il giovane riprese a passare lo strofinaccio con tutte le sue energie, e non sembrava intenzionato a fermarsi. Sethrian decise che era un buon momento per andare a prendere lenzuola e coperte pulite. Oltretutto non gli piaceva restare con le mani in mano mentre qualcun altro lavorava. Il mago ebbe il tempo di rimettere a posto il letto di tutto punto, prima che Gwyon si decidesse a parlare. «Ho paura che la magia mi cambi», disse infine il ragazzo, «che mi allontani da quelli che amo, dal mio villaggio, dalla gente che conosco da tutta una vita».
Quella era una realtà che Sethrian, figlio e discendente di incantatori sino alla sesta generazione, non aveva mai dovuto affrontare. Forse per questo gli veniva così facile dare una risposta secca alle preoccupazioni dell'altro. «Credi che i tuoi compaesani facciano qualche differenza tra un mago in grado di adoperare i propri poteri e uno che invece non lo è? Conosco i timori e le dicerie che aleggiano attorno alla figura degli incantatori, e se temevi di perdere l'affetto dei tuoi cari avresti fatto meglio a non partire. Forse adesso è già tardi. O forse ti accoglieranno a braccia aperte comunque, non ne so quanto basta per trarre un giudizio». «Forse dovrei ripartire oggi stesso». «Dopo aver perso tanto tempo con gli stracci e la saponata?», ribatté Sethrian con un sorriso. «Ma è comprensibile, nessuna ranocchia vuole lasciare il suo stagno. Anche se un membro della stirpe dei rospi potrebbe avere abbastanza buon senso da mettersi in viaggio, se la posta in gioco fosse la capacità di far piovere in qualsiasi momento, di salvare il suo acquitrino dal pericolo della siccità». «Non c'è bisogno che continui», fece Gwyon bruscamente, «ho capito dove vuoi arrivare». «Allora non ho altro da aggiungere. La verità è che per me la magia è sempre stata un dono, e mi viene difficile pensare che per qualcun altro rappresenti una maledizione». «Sarei molto più incline a restare, se soltanto avessi la certezza di poter tornare indietro, ma un mago non può cessare di essere tale, o mi sbaglio?». «Rinunciare alla magia acquisita...», mormorò Sethrian in tono pensieroso, «non deve essere più difficile che smettere di usare la propria mano destra, e io probabilmente non riuscirei a fare né l'una né l'altra cosa». «Davvero basta non fare uso dei propri poteri per non essere più un incantatore?», chiese Gwyon rimettendo a posto lo scendiletto di lana bianca e azzurra. «Da quei tuoi discorsi sull'arte e la professione mi sembrava vero il contrario». Quella era una domanda intelligente, e a Sethrian piacevano le domande intelligenti. A patto di avere una risposta pronta, però, o di essere lui a farle. «Se non ricorri ai sortilegi perché non ne senti la necessità», disse poi, «allora non smetti di essere un mago più di quanto possa diventare monco un uomo con le mani in tasca. Ma se tu rinneghi la magia, perché la ritieni
malvagia o per qualche altra sciocchezza simile, allora davvero non so se possiamo continuare a chiamarti incantatore. Di sicuro non sembrerai tale a coloro che ti circondano, ed è questo, io credo, che ti sta veramente a cuore». Gwyon strinse le labbra, non disse una parola. «La verità è che tirarsi indietro sarebbe da vigliacchi», concluse il ragazzo, «e quindi posso soltanto restare, almeno per qualche tempo». Sethrian dal canto suo era il tipo di persona che chiamava la vigliaccheria prudenza e il coraggio dissennatezza. Ma non era il momento di una simile osservazione, non lo era davvero. «È dura essere l'unico amico di una scrittrice in erba!», esclamò il ragazzo sventolando il quaderno, con i suoi fogli rigorosamente scritti a matita. «Perché ti conosco, sai che ho letto appena una manciata di pagine, ma non sarà questo a salvarmi dalla domanda fatale...». «Che cosa ne pensi?», continuò l'altra in un tono che era volutamente lamentoso. «Devo chiedertelo! Non sarà un vago commento finale a migliorare il mio stile. E poi ormai hai conosciuto due dei protagonisti...». «Gwyon è insipido», ribatté l'amico in tono lapidario. «Solo nostalgia e insicurezza, finora. Spero che spunterà qualcos'altro in futuro. È apprezzabile a ogni modo il suo comportamento nei confronti della magia. Dimostra con tutti i suoi dubbi il buon senso che invece tu non possiedi». «Cosa vorresti dire?». «Che le tue storie sono piene zeppe di stregoni e incantatori, e se fosse capitata a te l'occasione di Gwyon avresti accettato con sin troppo entusiasmo». «E tu trovi imperdonabile una simile sconsideratezza. Non sono d'accordo, ma non vale nemmeno la pena discuterne, considerato che la magia non esiste». «Ne sei davvero sicura?», rispose lui con lo sguardo rivolto verso il soffitto. «Telepatia, telecinesi, davvero puoi scartare tutto con assoluta certezza?». «Non posso, eppure resta il fatto che non ne sono per niente convinta». «Lo so, sei scettica per natura e tale rimarrai fino alla fine dei tuoi giorni. Forse se riuscissi a esserlo un pizzico in meno, non sentiresti il bisogno di crearti intorno questi mondi di fiaba». Il rimprovero era sensato, e pur di non ammetterlo la scrittrice preferì impuntarsi sull'ultima parola dell'altro.
«Fiaba? Quello che scrivo ha ben poco a che vedere con le fiabe». «A parte maghi, mostri e cavalieri». «Sai cosa intendo! Le fiabe e i loro personaggi si muovono in un mondo rarefatto e stereotipato, talvolta ci appaiono quasi incomprensibili, perché hanno perso il valore originario. Nei mondi che escono dalla mia penna, cerco la stessa coerenza che c'è nella nostra realtà. A cambiare sono i dati iniziali, con l'esistenza della magia, di strane creature, particolari caratteristiche ambientali, e via dicendo. Dopo di ciò, le società dei romanzi si sviluppano seguendo gli stessi processi logici validi sulla terra, o almeno tale è la mia ambizione». «Sai di non cavartela troppo male», rispose l'amico con un sorrisetto, «e non voglio ripetertelo, o finirai col montarti la testa». «Allora dimmi che ne pensi di Sethrian». «Il mago? Non mi fa troppa simpatia, o almeno non me ne farebbe se lo incontrassi nella vita reale. In un romanzo... ho capito che ama il suono della sua voce, e che è nelle tue intenzioni fare di lui un personaggio interessante, con una certa vena d'infingardaggine. Ma fino a che punto ancora non so dirlo. Devo continuare a leggere». La scrittrice sorrise, si limitò a fischiettare: detestava fornire anticipazioni al suo lettore. «Nemmeno io lo so, forse. Devo continuare a scrivere». Gwyon si svegliò animato da una strana energia, quel mattino: si preparò in fretta, muovendosi quasi in punta di piedi in quella stanza che gli sembrava troppo bella per essere sua, anche se solo per poco. Non c'era alcuna traccia del mago, né sarebbe stato opportuno mostrarsi troppo invadente: per quanto ne sapeva in quel momento l'incantatore si trovava alle prese con un difficile sortilegio, ed essere interrotto era l'ultima cosa che desiderava. Gwyon decise di aspettare che fosse Sethrian a farsi vivo, e i suoi passi lo portarono verso il giardino. Il cielo era limpido, la giornata bella, troppo bella perché continuasse a sentirsi inquieto. Neppure le rose azzurre che popolavano le aiuole con il loro incanto riuscirono a turbarlo. Sethrian raggiunse il ragazzo che erano da poco passate le undici e aveva, notò subito Gwyon, l'espressione assonnata di chi si è appena alzato. Il mago sembrò intuire i pensieri dell'altro, e scosse lentamente il capo: «Il
chiarore dei cristalli di luce mi permette di studiare sino a tardi, e io amo la tranquillità della notte. Un po' meno i risvegli mattutini». Gwyon dal canto suo non avrebbe mai criticato le abitudini dell'uomo, era troppo intimidito per farlo, e Sethrian lo sapeva. Il ragazzo chiese soltanto che cosa fosse un cristallo di luce, e il mago non aspettava altro. Simili strumenti, spiegò, erano in grado di assorbire l'energia luminosa per poi tornare a liberarla nell'ambiente circostante. Si trattava di gemme assai ricercate: non c'era nobile o ricco mercante che non desiderasse averne almeno una. Ed erano costose, come tutto quello che aveva a che fare con la magia. Sethrian avrebbe continuato ancora a parlare dei cristalli, della loro struttura interna, dell'incantesimo che tratteneva l'energia e via dicendo. Ma l'espressione di Gwyon rasentava il panico e a lui non sembrò il caso di procedere oltre. Almeno per il momento. Il mago tacque, e il ragazzo rimase a osservarlo, a disagio. Sethrian gli sorrise amichevolmente. «Adesso lascia che sia io a farti una domanda», aggiunse poi, «e dimmi se sai già leggere e scrivere». Gwyon scosse la testa, e l'incantatore non ne fu troppo sorpreso. Come gran parte della gente comune il suo nuovo allievo non aveva mai preso in mano una penna in vita sua. Una simile mancanza però appariva assai grave agli occhi di un mago cresciuto tra i libri, e Sethrian non sapeva se sarebbe riuscito a fare del ragazzo un vero incantatore, ma in quel momento decise che ci sarebbe stato un analfabeta di meno sulla faccia della terra. Né Gwyon sembrava intenzionato a ostacolare un simile progetto. «Dovrò imparare a leggere», mormorò. «Il mondo della carta e dell'inchiostro mi ha sempre affascinato, ma non c'era tempo al villaggio per nulla di tutto ciò. Adesso invece è proprio nei libri il primo gradino della strada che farà di me un mago». «Non sarà né il primo gradino né il secondo, al massimo il terzo», ribatté Sethrian. «Bisogna sfatare l'immagine cara al popolo che fa del mago e il suo libro un binomio inscindibile. Non fosse altro per il fatto che le arti magiche sono molto più antiche della scrittura. La magia è una scintilla lucente che ti consente di plasmare il mondo secondo i tuoi voleri, un libro non è che un valido aiuto per la memoria». «La scintilla di cui parli, come posso trovarla?». «A essere sinceri non ne ho la benché minima idea», rispose il mago, e il suo sorriso era colmo di una disarmante franchezza. O almeno queste era-
no le parole che Sethrian avrebbe adoperato per descrivere la piega incerta delle labbra sottili, e dubitava fortemente che il proprio interlocutore avrebbe fatto altrettanto. «Davvero non lo sai?», seppe soltanto mormorare il giovane. «Io sono cresciuto in una famiglia di incantatori. Non rammento la mia prima magia più della prima parola. E se anche ricordassi non ti sarei d'aiuto: la scoperta del proprio potere è qualcosa di intimo e personale, che varia da individuo a individuo». «E allora?». «Procederemo per tentativi, né vedo alternative, dal momento che il ruolo di maestro non mi è più familiare di quanto lo sia per te quello di studente». «E se non riuscissimo?», insisté Geyon. «Sarai tu a decidere se rivolgerti a qualcun altro o se tornare al tuo amato villaggio. E se vuoi sapere la mia opinione, non abbiamo molte possibilità fino a che nei confronti della magia proverai soltanto timore». «Non sta al mio maestro farmi cambiare idea?». Sethrian non riuscì a capire se l'altro lo stesse prendendo in giro o meno. Ma aveva la netta sensazione che dopo una simile domanda si sarebbe trovato di fronte un Gwyon rosso, confuso e balbettante. «Il mio compito è informarti riguardo a ciò che non conosci, non manipolare le tue idee. Se pure così fosse, inoltre, non lo ammetterei mai apertamente». Il mago tacque, si fermò ad ascoltare l'indecifrabile mormorio delle foglie. «La magia è dentro di noi, viene risvegliata dal desiderio o dalla necessità, che poi sono due facce della stessa figura», aggiunse dopo aver scelto accuratamente ogni parola, e l'effetto complessivo non gli dispiacque. «Non sono sicuro di capire», mormorò Gwyon però. «Io non nutro nei confronti della magia alcun particolare desiderio, e questo abbiamo avuto modo di appurarlo. Rimane la necessità, e mi chiedevo di quale necessità si parli; se farmi cadere da un burrone non rientri, per esempio, nella tua idea di necessità». «Tu non crederai mai che rimarrei a guardare mentre ti sfracelli tra le rocce. Ti aggrapperesti alla speranza di un mio intervento, piuttosto che alla magia nascosta nella tua mente. Non so quale sia la tua necessità. Faremo degli esperimenti, e nessuno di questi sarà pericoloso, ma qualcuno potresti trovarlo sgradevole». «Quando iniziamo?».
«Anche adesso, il problema è che non possiamo stabilire quando finiremo». Sethrian socchiuse gli occhi, e il suo giovane assistente sentì un brivido che gli correva lungo la schiena. Il ragazzo sbatté le palpebre... si ritrovò a due metri da terra, sospeso nel vuoto. «Hai percepito l'energia del mio incantesimo?», gli domandò l'altro senza far caso alla smorfia di terrore in cui si era contratta la faccia dell'apprendista. «Io... non lo so, non credo». «Peccato, poteva essere un buon punto di partenza perché capissi come fare a scendere. Dovrai riuscirci senza il mio aiuto, e adesso credo che ti lascerò un po' da solo. A riflettere sulla tua attuale condizione». Gwyon non protestò. Domandò all'altro se poteva assistere per una seconda volta all'incantesimo. La richiesta era stata sensata, ma il sasso roteante che Sethrian fece librare nell'aria non sembrò dare al giovane la risposta che cercava. Gwyon scosse mestamente la testa, incapace di sentire la magia che si agitava nell'aria, o forse troppo spaventato all'idea di percepirla davvero. Sethrian si allontanò, senza voltarsi indietro. Quello non era il genere di stratagemma che si potesse impiegare per due volte di seguito. Tre giorni. Gli sembrava un periodo di tempo abbastanza lungo per stabilire se Gwyon fosse capace o meno di annullare il sortilegio. Allo scadere di quel termine avrebbe dovuto inventarsi qualcos'altro. E Sethrian non aveva la benché minima idea su come procedere, in tal caso. Intanto avrebbe lasciato solo il suo alunno, poiché contava che la noia e la solitudine fossero le sue migliori alleate. Il mago sali con un salto i tre gradini all'entrata di quello che amava definire il suo castello in miniatura e che qualcun altro avrebbe più prosaicamente chiamato villa. Contro ogni aspettativa Sethrian non fece a tempo a richiudere il portone dietro di sé, che la magia aveva attraversato il giardino silenzioso, comunicandogli quello che i suoi occhi non vedevano: alle sue spalle Gwyon stava scivolando verso terra. Il giovane sfogliò le pagine del quaderno ad anelli su cui si andava depositando la storia. «Alle sue spalle Gwyon stava scivolando verso terra», lesse. «A questo punto puoi segnare una bella croce, e iniziare a tagliare». «Cosa c'è che non va?», domandò l'altra in tono pacato, eppure cono-
sceva già la risposta: si era lasciata entusiasmare troppo dall'apprendistato di Gwyon e aveva finito col ritardare l'azione per dare spazio a complicati discorsi sulla magia. C'erano poi altre conversazioni, apparentemente banali, che contribuivano a mettere in luce il carattere dei personaggi. La scrittrice sapeva che sarebbero state le prime a cadere, ma adesso sentiva ancora il desiderio di difenderle. «Il capitolo seguente è monotono e noioso», affermò il giovane senza pietà. «Prendi la discussione sui vari cristalli di luce. È impeccabile dal punto di vista logico, ma interessante quanto la descrizione di un circuito elettrico». La scrittrice socchiuse gli occhi, ripensando a quel passo del romanzo. Mentre un mago poteva accendere e spegnere un cristallo con la forza del pensiero, questo non era possibile ai comuni esseri umani. L'inserimento di un comando vocale o consimili provocava un elevato aumento dei costi, e invece era desiderio della Congrega di Lilài mettere i propri ritrovati al servizio di una fetta sempre più larga della popolazione: per allontanare la paura, il timore e l'odio che talvolta si addensavano intorno alla figura dell'incantatore. «Non sono i cristalli il nocciolo del dialogo», ribatté poi, acida. «Si tratta solo di un pretesto per parlare indirettamente del rapporto che hanno i maghi con il resto della società». «Indirettamente? Anche troppo direi. La lezioncina di Sethrian potresti salvarla, ma non nel punto in cui si trova. Non in un capitolo così privo d'azione, che si potrebbe riassumere in tre o quattro righe: il tempo passa, Sethrian e il suo apprendista imparano a conoscersi e tutto sommato ad apprezzarsi, l'incantatore non sa se essere lieto o infastidito dalla velocità con cui Gwyon procede negli studi. Soprattutto perché ha il buon senso di non attribuire alcun merito particolare ai propri metodi d'insegnamento. L'unico altro passaggio da salvare è quello sul giardino: bisogna specificare che le piante coltivate da Sethrian non sono un lusso stravagante, ma la sua principale fonte di reddito». «Si torna al discorso di prima: le piante di Sethrian nascono dalla magia, le loro discendenti però saranno alla portata dell'intero genere umano. Non posso separare i due dialoghi». «Puoi condensarli in uno solo, però, ed eliminare senza pietà tutto il ciarpame di contorno. Ma mi spiacerebbe non leggere più l'accenno ironico ai nobili committenti che sembrano interessarsi più alle piante ornamentali che a quelle da frutto».
«Devo considerarlo un complimento?». «Sì, specie per la velocità con cui l'argomento è preso e subito messo da parte. Se avessi insistito sulla questione saresti scaduta in un basso moralismo, e non lo hai fatto invece, devo dartene atto. Anche se per il resto...». «... il capitolo è di una noia mortale», si affrettò a concludere l'altra, prima che l'amico trovasse dei termini peggiori. «La verità è che ho stiracchiato intenzionalmente la storia», aggiunse, «perché non volevo buttare i miei personaggi nel vivo dell'azione subito dopo averli presentati. E il risultato non è stato dei migliori». «Sì... direi», concluse il ragazzo, e sorrise. La pioggia cadeva fitta al risveglio di Gwyon, e il giovane fu tentato di tornare a nascondersi sotto le coperte. Durante i mesi di apprendistato aveva preso l'abitudine di occuparsi del giardino, nella prima parte della mattinata, ma quel giorno le piante stregate avrebbero fatto a meno delle sue cure. Piante stregate... tornò a ripetere nella sua mente, mentre osservava l'acqua scendere lungo i vetri: sapeva che Sethrian non avrebbe approvato una simile definizione, non c'era alcuna magia nella flora del giardino, ma solo nel procedimento che aveva dato vita al seme degli alberi e dei fiori. Tuttavia Sethrian era il primo ad adoperare termini come piante stregate in luogo del più corretto ma assai poco scorrevole ibrido manipolato magicamente. «Piante stregate...», sussurrò Gwyon con un filo di voce, ed era strabiliante con quanta naturalezza quelle parole gli salissero alle labbra. Il giovane si era accorto di pensare sempre più di rado al suo villaggio, ai suoi cari. Non si chiedeva più come lo avrebbero accolto al proprio ritorno: ormai sapeva che non sarebbe tornato tanto presto. E non sarebbe stata quella dozzina d'incantesimi mandati a memoria a cambiarlo, ma c'era una magia quasi altrettanto potente racchiusa nell'inchiostro di ogni pagina. Un libro di storia, uno di scienze naturali, un romanzo scritto con caratteri sottili come zampe di ragno erano poggiati uno sopra l'altro accanto al letto del giovane, ma cosa poteva fare lui, rifiutarsi di imparare? La similitudine dello stagno e delle ranocchie riprese a ronzargli nella testa, insieme alla consapevolezza che nessuno nel suo villaggio conosceva la parola similitudine. Gwyon era ormai vestito di tutto punto, si era cambiato con i gesti meccanici di chi non è ancora completamente sveglio, e tornò a voltarsi verso
la finestra. Pioveva ancora. Il giovane sfiorò con un gesto distratto le copertine dei libri; poi si levò un urlo, attutito dalla distanza. Il ragazzo raggiunse a precipizio la camera del suo maestro. Mentre poggiava le dita sulla fredda maniglia d'argento ci fu secondo grido, come per cancellare ogni dubbio: era stato Sethrian a urlare. Gwyon vide che l'uomo quasi tremava, e aveva la testa sprofondata tra i cuscini. Il mago sollevò debolmente una mano per far segno al ragazzo di avvicinarsi. «Dunque tu non hai sentito nulla», gli disse. «Cosa avrei dovuto sentire?». «Non ha importanza. Diciamo che ho avuto un incubo, uno strano incubo, e io spero di cuore che sia stato soltanto un incubo. Per un incantatore non sempre è così». Sethrian non volle aggiungere altro, né Gwyon era tipo da fare domande troppo insistenti. Non chiese spiegazioni neppure quando il mago annunciò che si sarebbe recato nel borgo giù a valle, né quando fece ritorno, apparentemente sollevato. Eppure Gwyon lo conosceva ormai abbastanza da sapere che Sethrian non avrebbe dimenticato così facilmente quello che aveva chiamato incubo. II I CRISTALLI NERI Passarono sette giorni, in nulla dissimili da quelli che li avevano preceduti. L'unica cosa degna di nota fu forse un commento di Sethrian sulle doti del suo allievo: «Sei troppo abile per uno che in diciannove anni non si era mai reso conto dei propri poteri. E forse non è proprio così che sono andate le cose. È già accaduto: se un bambino corre dai genitori annunciando che è in grado di compiere strani prodigi, nella maggior parte casi non verrà preso sul serio, e nulla è peggio dell'incredulità per soffocare i poteri di un mago in erba». Gwyon stava riflettendo proprio su quelle parole quando giunsero le torce, dodici scintille che formavano un serpente sinuoso nella penombra rossastra del crepuscolo. Le difficili formule nel libro di fronte al giovane vennero definitivamente accantonate, e quando Gwyon raggiunse la porta d'ingresso vide che il suo maestro stava già parlando con quegli inaspettati visitatori. Erano dodici uomini barbuti, simili l'uno all'altro. Erano uomini del vil-
laggio e non sarebbero venuti sin lì, se avessero potuto evitarlo. Due di loro trasportavano una specie di lettiga. «Portate dentro il ferito», stava dicendo Sethrian, «farò il possibile, ma ho bisogno degli strumenti del mio laboratorio». «Mio fratello non starebbe così, se non fosse stato per voi», borbottò uno di quei tizi, «e se non saprete salvarlo tutta la vostra magia vi servirà a ben poco». «Non sarà con le minacce che accrescerete le mie arti di guaritore», sottolineò il mago senza scomporsi. «In ogni caso il tempo è troppo prezioso per perderlo in simili discussioni, adesso». Senza attendere risposta ordinò agli uomini della lettiga di seguirlo, e il medesimo invito rivolse a Gwyon. «Posso sapere cosa sta accadendo?», gli chiese l'apprendista. «Avevo mandato quest'uomo nella città di Graecale, alla più vicina sede della Congrega, con l'incarico di consegnare un mio messaggio», disse il mago. «Adesso torna ferito e io ho il compito di curarlo». Camminarono in silenzio sino all'ampio laboratorio ingombro di libri e strumenti dall'aspetto misterioso. Dopo che ebbero deposto la lettiga, Sethrian fece cenno ai due uomini di andarsene. Quelli obbedirono senza fiatare, anche se Gwyon lesse nei loro occhi un astio profondo. «Sono stato io a trovare nostro fratello nelle sale vuote di quel palazzo maledetto e se...». L'uomo si voltò, tremante: rimase nell'aria una minaccia non pronunciata. Sethrian sollevò delicatamente la coperta che avvolgeva il ferito, lasciandola ricadere sulle sue gambe. «Chiudi la porta, Gwyon», sussurrò in tono cupo. Una piramide di vetro nero fuoriusciva dall'addome, e pulsava malignamente, come se stesse rubando la vita della vittima che la ospitava. Il ragazzo si voltò verso il suo maestro, ma Sethrian era impallidito. Lentamente l'incantatore mosse la mano, portandola a una ventina di centimetri sopra il cristallo. Gwyon vide la gemma nera che si sollevava verso le dita appena incurvate, ma i tesi lembi di pelle ancora si affannavano a trattenere la punta malefica. Sangue vivo tornò a sgorgare dalla ferita. Sethrian si allontanò di scatto, il cristallo riaffondò nella carne. «È proprio come temevo», mormorò il mago. «Vuol dire che non riuscirai a salvarlo?», domandò il ragazzo. Ma l'altro fece un cenno di diniego. Prese da uno degli scaffali una boccetta di terracotta, e quando tolse il tappo una vaga luminescenza argentea
prese a spandersi tutt'intorno. Gwyon sbatté le palpebre, sentendosi come stordito, e vide il cristallo nero scolorire lentamente sino all'usuale trasparenza del vetro. «Ho creato un campo antimagia», spiegò l'incantatore. «Dovevo neutralizzare il sortilegio del cristallo prima di estrarlo. E mi toccherà adoperare bisturi e forbici adesso, e poi ago e filo per ricucire la ferita, poiché l'incantesimo ha temporaneamente colpito anche noi. Quindi basta parlare». Fratelli e cugini del ferito misero da parte ogni ostilità quando videro che dello squarcio rimaneva solo una cicatrice rossa, e le bende che la trattenevano. Domande e minacce svanirono dalle loro bocche, tornò il consueto timore che la gente del borgo provava nei confronti del mago solitario. Sarebbero stati lieti di riportare a valle il proprio parente al più presto, ma Sethrian si oppose, perché ancora temeva i pericoli di un'infezione. Volle sapere piuttosto, e con esattezza di particolari, quando, dove e in che modo fosse avvenuto il ritrovamento del ferito. Gli parlarono allora di immense sale deserte nella scuola dei maghi a Graecale, e di un forziere aperto e vuoto accanto al corpo dell'uomo riverso a terra. Sentendo puzza di stregoneria si erano messi a cercare gli incantatori, ma inutilmente. Era come se quelli fossero svaniti nel nulla. Avevano provato a chiedere spiegazioni alla gente di città, ma sembrava che solo una manciata di persone a Graecale si fossero accorte del silenzio caduto sulla scuola, e anche costoro l'avevano attribuito all'ennesima stranezza degli incantatori. Al termine del racconto Sethrian scosse piano la testa, e il suo apprendista poté leggere una grande stanchezza sul volto tirato del mago, ma l'altro aprì bocca solo per congedare quegli uomini barbuti e dir loro di tornare tra un paio di giorni. Gwyon dal canto suo cercava di trovare un raccordo logico fra il cristallo nero e la scomparsa degli incantatori, ma non aveva modo di riuscirci. Sethrian rimaneva in silenzio. Al suo risveglio anche il ferito parlò di corridoi e sale vuote, dominati da un silenzio di spettri. Aveva visto il cristallo nero e affilato sollevarsi da quello scrigno come impugnato da una mano invisibile. Poi era stato colpito. Il ricordo di quel che era accaduto dopo era dolore e tenebra inquieta. Sethrian aprì le grandi finestre della biblioteca, cercando nella luminosità del cielo l'antitesi del turbamento che offuscava il suo animo, o forse
sperando in un grigiore che ne fosse il riflesso. Ma il cielo era soltanto il cielo, non si curava dei sentimenti degli uomini, e il mago era troppo depresso per fingere in quel momento che fosse vero il contrario. O magari lo era troppo poco. Un suono di passi annunciò all'incantatore che il suo apprendista era entrato nella biblioteca. Sethrian non si voltò, e l'altro attese a lungo prima di decidersi a parlare. Non che l'incantatore non si aspettasse la sua domanda. «Che cosa sta accadendo, maestro?», mormorò infine il ragazzo. «Perché io vorrei sapere se la paura che provo adesso ha un senso, almeno». «Io ho sognato. Ho sognato i maghi che si trovavano in quella scuola. E tu mi hai sentito gridare. Forse se non fossi stato già sveglio anche tu avresti fatto il mio stesso sogno». «Cos'è che hai visto?», chiese Gwyon con un filo di voce. «Nulla, in realtà, nulla. O forse l'ombra di un presagio di morte». «È per questo che hai mandato un messaggero in città? Ma io so che i tuoi specchi magici ti danno la possibilità di comunicare con luoghi assai distanti». «Gli specchi lo permettono, è vero. Ma chiunque potrebbe captare i messaggi che viaggiano invisibili nell'aria». Era stata una cautela eccessiva adoperare un messaggero in carne e ossa, invece che affidarsi alla magia? Sethrian in un primo tempo l'aveva pensato. Adesso non più. C'era un cubo di ferro sulla scrivania: il mago aprì lo scrigno, e sollevò la sfera di cristallo racchiusa al suo interno. Intrappolato nella sua prigione ricurva il cristallo nero danzava, girando freneticamente su se stesso. «Se fossi andato io alla scuola di magia», mormorò Sethrian, rivolto più a se stesso che all'altro, «adesso sarei già morto». «Morto», ripeté Gwyon, che ancora non capiva. «Il cristallo nero è attirato dalla mia vicinanza. Se avesse colpito me invece di quel poveraccio, io e la gemma saremmo svaniti nel nulla. Poiché è questo lo scopo per cui è stata progettata». «Progettata da chi?». «È quello che intendo scoprire. Qualcuno ha tentato di uccidermi, e io non voglio che ciò si ripeta. O se proprio deve accadere desidero almeno conoscerne il motivo. Mi metterò in viaggio: prima visiterò la scuola deserta, e poi credo che finirò col recarmi a Lilài, la grande città degli incantatori. Tu sei venuto qui parlandomi di una minaccia che graverebbe sopra
tutti noi. Io non ho dato peso alle tue parole, ma adesso inizio a credere che mi sbagliavo». «Quando partiamo?», chiese Gwyon. «Non sei obbligato a venire. Questo dovrebbe essere un posto sicuro, ancora per un po'». «Sono un mago, come te e gli incantatori svaniti nel nulla. Vorrei esserti d'aiuto». Sethrian si fermò a riflettere per un istante. «Non è mai stata mia intenzione correre dei rischi inutili, quindi non dovrebbe esserci nessun problema se verrai con me. E possiamo già iniziare a preparare i bagagli, perché partiremo presto». Nel suo viaggio verso le montagne, Gwyon aveva visto solo di lontano le fortificazioni di Graecale e il candido esagono dei bastioni attorno alla città bassa. Non aveva scorto il sottile ponte di ferro che si protendeva verso un secondo cerchio di difese arroccato tra i monti, né le mura verdi della cittadella dei maghi. «Graecale è una città costruita dagli incantatori», mormorò Sethrian seguendo lo sguardo dell'altro, «in tempi in cui i maghi ritenevano opportuno proteggersi non soltanto dagli stranieri, ma anche dai futuri concittadini». «Concittadini», ripeté Gwyon scuotendo la testa, «o servitori?». «Servitori, e sia, ma ben trattati». Ognuna della case esagonali di Graecale disponeva di acqua corrente e fonti di calore, disse il mago, e le ampie strade, la notte, erano illuminate a giorno. Non parlò della bellezza dei viali alberati, lastricati con delle pietre giallo dorate, non parlò delle fontane e dei giardini, dei porticati e delle logge. Gwyon osservava ogni cosa con gli occhi granati. Coloro che avevano scelto di abitare nella città costruita dagli incantatori non si consideravano affatto dei servi, e il giovane ebbe modo di rendersene conto mentre ascoltava il suo maestro discutere con gli alti notabili di Graecale. Quegli uomini non accennarono al patto che imponeva ai cittadini di rifornire la scuola di cibo, vesti e suppellettili. Affermavano tutti in maniera concorde che Graecale era profondamente affezionata ai suoi maghi, e la loro forse era una goffa esagerazione, ma preoccupati per la sparizione degli incantatori lo erano davvero. Non fosse altro perché, senza un adeguato controllo, le particolari comodità donate alla città dalla magia avrebbero potuto svanire nel nulla o ritorcersi sulla gente inerme. Ma Sethrian non poteva tirar fuori i colleghi scomparsi da una manica
della veste, come forse i suoi interlocutori avrebbero desiderato, e piuttosto che stare ad ascoltare le domande dei notabili, il mago voleva che fossero loro a rispondere alle sue. In particolare gli interessava sapere del misterioso forziere da cui si era sollevato il cristallo nero, ma i presenti sembravano ignorare l'esistenza stessa dello scrigno. Quando più tardi venne convocato il capo delle guardie, risultò che erano state eseguite delle indagini per scoprire la provenienza del forziere, ma senza che si approdasse ad alcun risultato tangibile. Il cofano di legno aveva viaggiato di città in città, passando di mano a diversi mercanti, e non c'era nessuno a Graecale che ne conoscesse la provenienza. Quando fu Sethrian a esaminare lo scrigno, nemmeno il legno di cui era composto seppe fornirgli il benché minimo indizio. Le sei tavole erano state ricavate da sei diverse varietà di alberi, ed erano piante che si trovavano in sei differenti regioni del continente. A quel punto non restava più molto da dire o da fare. Gli uomini di Graecale avrebbero voluto che il mago rimanesse sino a quando qualche altro membro della Congrega non fosse giunto a sostituirlo, ma Sethrian era di diverso parere. C'era un pericolo che minacciava lui e tutti gli incantatori, e non sarebbe rimasto lì ad attendere che la sua mano misteriosa tornasse a colpire. Sethrian e il suo apprendista giunsero sino alla città di Vultur, a mezza via tra Graecale e Lilài. Mentre Gwyon continuava a guardare ammirato le alte torri di pietra bianca, Sethrian osservava la strada indeciso. Perché la grande metropoli era il luogo perfetto per raccogliere informazioni, farsi un'idea di quello che stava accadendo nel mondo, ma Vultur era una città di sacerdoti e cavalieri, uomini che guardavano con sospetto gli incantatori e tutto ciò che aveva a che fare con la magia. E i maghi dal canto loro facevano il possibile per tenersi alla larga. Poi un rumore di zoccoli riscosse Sethrian dai suoi pensieri. Un giovane bianco vestito, a cavallo di un bianco destriero, stava venendo verso i due viaggiatori. Lo seguivano a breve distanza quattro cavalieri ricoperti da una pesante armatura, con delle grandi spade al fianco. E il biondo giovane aveva già salutato i due viandanti, stava chiedendo loro se desideravano percorrere insieme la strada restante sino a Vultur, quando si accorse della lente esagonale che Sethrian portava al collo, un
simbolo di magia che quest'ultimo non aveva mai desiderato nascondere, sino a ora. Il nuovo venuto continuava a fissare la lente, e l'incantatore giocherellava, quasi per sfida, con la catenina a cui era legata. Impossibile era conoscere quale fosse l'espressione dei quattro cavalieri, che continuavano a tacere dietro la visiera dell'elmo, tuttavia dopo un attimo di smarrimento il giovane dai capelli chiari sollevò la testa, e c'era un'espressione solenne nei suoi occhi ambrati, sul suo volto di fanciullo. «Tutti sono i benvenuti alla città di Vultur, anche degli incantatori, anche in un momento come questo. Anzi, in una simile situazione, ascoltare la voce di Lilài sarà di estrema importanza per noi». «Quale situazione?». Il giovane scosse il capo amareggiato, ma non fece a tempo a rispondere. «Draghi, lupi giganti, e non so quali altre creature si aggirano per il paese», disse il primo dei cavalieri, e racchiusa nel metallo dell'elmo la sua voce si tingeva di cupe inflessioni. «Sembra che le antiche leggende si siano destate all'improvviso, e nonostante voi proclamiate di perseguire il bene comune, solo la vostra magia può essere causa di tutto questo». Sethrian non disse nulla: perseguire il bene comune, e solo dopo quello personale, era una delle poche regole che i maghi di Lilài si erano dati, ed era una regola dettata dalla necessità. Un solo incantatore troppo spregiudicato poteva risvegliare un odio secolare verso tutti coloro che erano legati alle arti magiche. Lilài questo lo aveva dovuto imparare a proprie spese, e i maghi erano diventati particolarmente zelanti nel controllarsi a vicenda. Ma Sethrian aveva una scheggia di cristallo nero tra i suoi bagagli che sembrava dar forma e sostanza alle accuse del cavaliere. Era una scheggia costruita da un mago per uccidere un altro mago. «Saremo lieti di accompagnarvi sino a Vultur», ribatté Sethrian, «anche se ci piacerebbe sapere chi è, con esattezza, che stiamo accompagnando». «Il mio nome è Rhory», disse il giovane, «e sono il cavaliere prescelto per scoprire e distruggere quest'oscura minaccia. O almeno tentare, a costo della vita. Il mio nome è stato estratto a sorte tra quelli di cento valorosi, e adesso mi sto recando dal Santo Guardiano di Vultur perché benedica me e le armi che impugnerò in questa mia missione». «Sacerdoti contro maghi, sacerdoti contro scienziati, sacerdoti, uomini di fede contro chiunque abbia un minimo di buon senso. Mi sembra di aver già sentito questo tema, e potrei indicare il luogo in più d'una delle tue passate prove letterarie».
«Ti darei ragione», fece l'autrice, «se questo fosse il tema del romanzo; è invece solo uno dei tanti ed è del tutto secondario. Se sei andato avanti nella lettura, dovresti aver visto che i sacerdoti non compaiono, né lo faranno in futuro, spero. Quello che mi interessava era Rhory, il giovane cavaliere, solo a un certo punto mi sono accorta che un cavaliere senza un Dio a ispirare la sua nobiltà d'animo mi sembrava in qualche modo incompleto». «E incompleto era un Dio senza sacerdoti, non è vero. Tuttavia non so se sia un bene che tu abbia saltato con un taglio netto i giorni della permanenza a Vultur. Così dopo tutte le lamentele di Sethrian non fai comparire un solo sacerdote sulla scena, e non permetti alla categoria di confermare con le proprie azioni la diffidenza del tuo mago, oppure smentirla». «Hai altre critiche da farmi?». «Solo piccole cose. Trovo per esempio di dubbio gusto dare a una città santa un nome che fa pensare così tanto a un avvoltoio». «Peccato che il nome di Vultur venga da un vento, il volturno, così come anche il grecale è un vento, e ci sarà un vento alla radice di tutte città principali che compariranno nella storia. Eccettuata Lilài». «Dovevi scegliere proprio un vento dal nome così ambiguo per la tua città santa?». Lei lo aveva fatto deliberatamente, ma non diede all'altro la soddisfazione di ammetterlo. «Comunque questo è solo un dettaglio. E più avanti...». Il giovane tornò a sfogliare le pagine. «Ecco, i nostri eroi si sono messi in cammino per la città di Lilài, con la speranza di trovare lì una prima risposta al mistero. Si sono portati dietro il giovane cavaliere, anche se Sethrian non pare troppo entusiasta di una simile compagnia, poi incontrano un drago, che blocca loro la strada su di un passo montano. Qui io inizierei a tagliare. Se puoi togliere tutto meglio ancora». «L'episodio ha un seguito, sai? Mentre Sethrian sconfigge la belva è Rhory a venire scambiato per l'uccisore del drago e...». «Non aggiungere altro: io questa parte ancora non l'ho letta, mi sono fermato nel punto in cui il rettile alato stramazzava a terra morto. E il danno sta proprio lì. Tutta quella storia delle pallottole di stoffa imbevute di veleno e lanciate con la fionda, il drago che le brucia e rimane intossicato dal fumo... ecco, diciamo che non mi suona bene». La scrittrice disse che ci avrebbe pensato su.
Ci pensò su tutta la sera, e quando riprese la matita in mano non aveva ancora deciso come ritoccare la scena del combattimento, ma tornò indietro di qualche pagina, per descrivere la cerimonia con cui Rhory aveva ricevuto la benedizione del Santo Guardiano. «Le ampie navate della cattedrale... no, cattedrale è un termine troppo cristiano, sarebbe meglio evitarlo, solo che io ho davanti agli occhi proprio una cattedrale cristiana, una bianca cattedrale normanna, con alte colonne, archi a sesto acuto e volte a crociera. Però potrei parlare di un tempio e lasciare il termine navata: otterrei un interessante contrasto». Le ampie navate del tempio erano gremite delle tuniche purpuree dei sacerdoti, e il loro canto si levava sino alle volte delle crociere. Sethrian e Gwyon avevano la rara opportunità di osservare la cerimonia dall'alto, dai matronei vuoti che permettevano alle nobildonne in visita di assistere al rituale della messa senza mescolarsi alla folla. Se quelle logge sopraelevate erano state costruite per proteggere dai turbamenti l'animo delicato di una manciata di dame, Sethrian e il suo apprendista si trovavano lì perché la presenza di due incantatori non turbasse tanti uomini di fede. Ma il mago dal canto suo non se ne curava, e Gwyon era troppo sbalordito per stare a pensarci. Poi Rhory venne avanti, attraversando con passo lento la grande navata centrale, e dietro di lui tre giovani chierici portavano un elmo, una spada e uno scudo. Le armi che il Santo Guardiano avrebbe benedetto. Certo, pensò Sethrian, benedire dei pezzi assai poco poetici come una ginocchiera o un gambale non sarebbe stato consono alla solennità della cerimonia. Ma l'elmo, lo scudo e la spada erano un simbolo, e la benedizione in se stessa era un simbolo, anche se forse gli uomini di Vultur e il giovane cavaliere le assegnavano un valore assai più tangibile. Sethrian comunque non era lì per mettersi a discutere di religione e simili. Rhory era ormai giunto di fronte al grande trono di pietra su cui si diceva avesse seduto il Supremo Signore del Tempo, il giovane cavaliere era di fronte al grande trono su cui sarebbe tornato a sedersi un giorno Iddio alla fine del mondo, il trono che rimaneva vuoto nel lento fluire dei secoli. Il ragazzo s'inginocchiò e rimase immobile, in fervida attesa. Anche i canti cessarono, le fiamme delle candele bruciavano nel silenzio. I battenti del grande portale istoriato si spalancarono, e il Padre Guardiano, con la tunica color fiamma e il lungo mantello di un rosso scuro e intenso venne
incontro al cavaliere inginocchiato, prese le mani del giovane fra le sue. Sethrian frattanto cercava di scorgere il volto dell'alto prelato, ma la distanza glielo impediva. Il Guardiano levò la sua voce in un inno caldo e vibrante, invocava il Supremo Signore perché portasse aiuto ai suoi fedeli. Il coro dei sacerdoti gli rispondeva in un mesto controcanto. L'invocazione antica si spandeva tra le colonne della basilica, e gli strani avvenimenti di quegli ultimi tempi tingevano le parole di un significato nuovo e inquietante. Giungi, giungi, o Signore, tornarono a ripetere le voci, mentre il Guardiano aiutava Rhory ad alzarsi. «Giungi, giungi, o Signore», ripeté Sethrian sottovoce. Quasi gli sembrava di sentire la fede infusa nelle modulazioni del canto, ma per lui non c'era alcun Dio che potesse rispondere. Giungi, giungi, o Signore. Il Guardiano aveva preso lo scudo, un lucido specchio argenteo, e mormorò qualche breve parola, che si perse tra le note del canto corale, mentre l'inno si faceva sempre più vivo e concitato. Giungi, giungi, o Signore. Giungi, giungi, o Signore. Sethrian sentì come un brivido scorrergli lungo la schiena. Il Padre Guardiano aveva preso dalle mani del secondo chierico la lama lucente, e al mago sembrò di vedere uno strano bagliore nell'acciaio. Un istante dopo una luce abbagliante aveva invaso le navate del tempio, e Sethrian non riuscì più a vedere. Gwyon gli domandavo sgomento cosa stesse accadendo, ma lui non aveva alcuna risposta da dargli. Il canto dei sacerdoti si era rotto in un mormorio confuso. Sethrian poté soltanto continuare a stropicciarsi le palpebre, mentre la vista tornava alle pupille. E vide, vide che il Guardiano stringeva ancora la spada, e Rhory teneva delicatamente tra le braccia una giovane donna svenuta. «Andiamo», mormorò il mago al suo apprendista, «non rimarrò qui in disparte, voglio capire cosa sta accadendo». Gwyon lo seguì senza dire una parola. Il Guardiano aveva penetranti occhi viola, e il suo volto scarno era inscurito da lunghe ore passate sotto il sole. Il Guardiano, era risaputo, attribuiva grande importanza alla vita attiva, e riteneva che i compiti di un sacerdote non fossero limitati alla preghiera e alla meditazione. Il Guardiano
si impegnava molto per il bene dei suoi fedeli. Il che agli occhi dei maghi non era necessariamente un pregio: il bene dei sacerdoti e quello degli incantatori erano distanti, sotto parecchi aspetti. E gli occhi violetti del Padre Guardiano in quel momento erano per Sethrian specchi senza fondo. Ma il mago non era disposto a lasciarsi intimorire, e con un breve sospiro chiese all'altro quali fossero le condizioni della misteriosa fanciulla. «Dorme ancora», rispose il sacerdote. «Molti credono che l'apparizione sia dovuta alla mano divina; lo crede il giovane cavaliere che si è visto cadere la ragazza tra le braccia, e lo credo io, in fondo. Anche se la ragione mi dice che non abbiamo alcuna prova al riguardo, e invece che in un miracolo potremmo esserci imbattuti in un terribile inganno. Ma voi non credete, incantatore, ve lo leggo nello sguardo, e adesso io vi chiedo se siete in grado di dimostrare che Dio non ha nulla a che vedere con quanto è accaduto». «Non lo so, Guardiano, ma potrei provarci. Se mi permetterete di formulare un incantesimo di verità sulla nostra ospite». «Non qui, non ora. Voi non avete visto il pallore di quella giovane». «Ed è solo di questo che vi preoccupate, se mi è concesso chiederlo?». «La ragazza partirà con voi: sembra che la sua apparizione sia legata in qualche modo al compito di Rhory, e se non erro vi eravate già accordati con il cavaliere per proseguire insieme sino a Lilài. Da lì mi farete sapere il responso dei vostri incantesimi, e sarò poi io a decidere cosa riferire ai miei fedeli». «Anche se questo volesse dire mentire?». «È solo davanti a Dio che devo rispondere, e nei giorni cupi che si prospettano non posso rifiutare nemmeno la luce di un fuoco fatuo. Poi ve l'ho detto, io ho la fede per chiamare miracolo quanto ho visto». Sethrian tacque per un istante, perché se il Guardiano rimandava al Signore Supremo il giudizio sulle sue azioni un simile privilegio era spesso negato al gregge dei fedeli. «Posso capire», disse il mago. «Solo credevo che avreste voluto tenervi stretta la fanciulla». Il Guardiano sorrise, di un sorriso che forse pochi avevano potuto vedere. «Mi sarà più facile gestire il miracolo da lontano. Almeno sino a quando non avrò compreso la sua reale natura».
La scrittrice, avvolta nella coltre del dormiveglia, lasciava che i minuti scivolassero lenti. Non voleva svegliarsi. Non voleva. Perché ricordava una luce che l'aveva rapita mentre era china sul suo quaderno, e sino a quando si fosse trattenuta sulla soglia del sogno sarebbe stato facile scambiare quell'immagine per una visione notturna. Ma il sonno già svaniva, ed era la trama stessa delle coperte a suggerire che la giovane non si trovava nel suo letto, nella sua stanza. La ragazza si levò a sedere, per ritrovarsi circondata da pesanti tende di velluto rosso. «Un letto a baldacchino», mormorò. Era una soluzione assai pratica per trattenere il calore nelle gelide camere di un castello. La giovane scostò le cortine in un gesto esitante, ma non c'era nessuno. Un grande specchio rettangolare faceva mostra di sé sulla parete di fronte a lei, e la scrittrice si ritrovò a fissare la propria immagine. Uno specchio è un espediente tipico per descrivere l'aspetto di un personaggio, pensò, ma in questo caso era la chiave per ritrovare almeno la certezza della propria identità. E la giovane vide delle belle labbra, begli occhi castani, dalle lunghe ciglia, ma persi quasi nei segni delle occhiaie, il volto ovale e quasi pallido. Era proprio lei. Poi la porta si aprì. La scrittrice vide entrare tre uomini: Rhory, Sethrian e Gwyon. Li riconobbe sin dal primo istante, e quasi si sentì mancare. «Dove mi trovo?», mormorò soltanto, anche se conosceva già la risposta. Era un'altra, la domanda che la tormentava: ma come diavolo era finita nel suo romanzo? E non era un sogno, si ripeteva, no quello non era affatto un sogno. Anche se avrebbe preferito credere il contrario. «Sei nella città santa di Vultur», le disse Rhory, e se dolce era la voce del cavaliere, lo stesso non si poteva dire dell'espressione negli occhi chiari di Sethrian. La giovane si appoggiò a una delle colonne del letto, mostrando uno smarrimento che in verità non era simulato. Ma non poteva dire la verità. Non ora, non in quel momento. «Vultur... io non credo di aver mai sentito questo nome, e mi sento confusa. Molto confusa. Vorrei solo poter ricordare in quale modo sono giunta sin qui». E mentre Rhory le narrava della sua apparizione nel tempio, lei stava ad ascoltare con gli occhi sbarrati.
«Io non ricordo, non ricordo». Stava scrivendo la scena della cerimonia quando la luce era giunta ad avvolgerla. Questa era l'ultima cosa che rammentava. La ragazza gettò appena un sguardo verso Sethrian, con i suoi occhi di un indecifrabile verde, tra il grigio e l'azzurro. Il mago non si fidava di lei, non si fidava delle sue parole, e lei lo sapeva. «Mi sento confusa», disse ancora una volta, strappando un sorriso al cavaliere prescelto. Si ritrovò a considerare le sottili corrispondenze tra l'immagine fugace che aveva nella mente mentre scriveva la storia del suo romanzo, e il volto di carne e sangue illuminato da quel sorriso. Il mio romanzo, ripeté fra sé, sentendosi girare la testa. «Allora le nostre domande dovranno aspettare», osservò Sethrian. «Ma almeno il tuo nome vorrei saperlo». La ragazza esitò. Era come se il suo nome fosse qualcosa di prezioso, come se pronunciarlo equivalesse ad ammettere che tutto quello che le stava di fronte era reale... «Aelin», disse poi in un sussurro, «mi chiamo Aelin». D'altro canto il suo nome di nascita, il nome di un altro pianeta, sarebbe suonato troppo strano alle orecchie dei suoi interlocutori, così giustificò la menzogna. In fondo Aelin non era nemmeno un nome scelto a caso, ma l'ultimo di una lunga serie di pseudonimi adoperati nei giochi dell'infanzia e della prima giovinezza. «Possiamo fare qualcosa per te, Aelin?», le chiese Rhory. La ragazza scosse la testa. «Per il momento mi basterebbe sapere dove sono le mie scarpe». Gwyon e gli altri partirono presto da Vultur, e il Santo Guardiano, che il giovane aveva visto solo di sfuggita, sembrava lieto in verità di liberarsi dei maghi, del cavaliere prescelto e della loro strana compagna. Perché Aelin rimaneva un mistero, era una giovane di poche parole, una creatura lunare con il suo volto pallido, gli occhi pensierosi, e portava una mano alla tempia non appena Sethrian provava ad accennare alla patria di lei, o al suo passato. Si trattava di un comportamento per così dire insolito, ma il maestro di Gwyon era disposto a lasciar correre per il momento. Anche perché Rhory si era eletto a paladino della giovane, e tendeva a inasprirsi nello stesso istante in cui le domande rivolte alla fanciulla si facevano un
po' più insistenti. Il viaggio proseguiva lentamente. D'altronde quella era la prima volta che Aelin saliva a cavallo, e si vedeva. Non c'era bisogno di chiederglielo. Lilài era ancora lontana. Le alture erano ormai vicine. Aelin sapeva di non poter attendere oltre. Non poteva continuare a esibirsi in quelle scene di una falsa amnesia che non convinceva nessuno. E le faceva male il sospetto che leggeva negli occhi di Sethrian, poiché in qualche modo voleva bene a quei suoi tre personaggi, si era affezionata a loro sin da quando esistevano solo nella sua scrittura. Ma se la ragazza sapeva da tempo qual era la cosa giusta da fare, ancora non aveva il coraggio di metterla in atto. Le alture erano a pochi giorni di distanza, e tra i monti aveva rifugio il drago dalle ali verdi. Lei lo sapeva, e non poteva continuare a tacere. O forse sarebbe rimasta in silenzio, se si fosse trattato solo del drago. La giovane tese le briglie per far rallentare il cavallo, lasciando così che Sethrian la raggiungesse. L'animale obbedì docilmente anche ai comandi dettati dalle sue mani inesperte. «Qualcosa non va?», le domandò il mago. Aelin si guardò intorno, ma Rhory era andato in avanscoperta, e Gwyon rimaneva indietro. Poteva parlare. «Ho qualcosa da dirti». L'altro si limitò a sorridere. «Dovrai attendere ancora qualche ora, temo», aggiunse poi la ragazza. «Per quale motivo?». «Se non erro, hai bisogno di una certa calma per formulare il tuo incantesimo di verità, e non è ancora tempo di accamparci». «Un incantesimo di verità, e perché dovrei pronunciarlo?», domandò Sethrian. La scrittrice fissò il mago con estrema serietà: «C'è un solo motivo che potrebbe spingermi a chiedertelo, e tu sai qual è. Non crederesti a quanto ho da raccontarti, se te lo dicessi adesso». Sethrian rimase in silenzio per qualche istante, quindi fece un cenno d'assenso. «Sono lieto in fondo che sia stata tu a prendere l'iniziativa», disse poi. E Aelin non ne fu per nulla stupita. «Ho un'altra richiesta da farti», aggiunse. «Vorrei che fossimo soli stase-
ra, quando vuoterò il sacco. Rhory non capirebbe, lo so, e Gwyon... no, ascolta il mio racconto e poi decidi tu cosa riferire agli altri». Un moto di diffidenza attraversò lo sguardo del mago. «Faremo come chiedi», disse. «Ma se hai in mente qualche tiro mancino ai miei danni...». «In tal caso ti avrei già spiattellato una storia su di me e sulle mie origini molto più plausibile di quella che non hai ancora udito». «Una buona risposta», ammise l'altro guardando la ragazza negli occhi. «Davvero una buona risposta. Ma non attenderò sino a stasera. Non appena Rhory sarà di ritorno gli dirò che ci fermiamo alla prima radura. Perché ho un incantesimo da compiere». III LA SPIA, L'INDOVINA, IL DRAGO Sethrian aveva tracciato sul terreno una fitta ragnatela di segni, e la giovane terrestre osservava in silenzio. Il sole ormai volgeva al tramonto. «Ho terminato», disse il mago venendole vicino. «Puoi parlare. E dal momento che cominci a starmi simpatica spero che certi miei sospetti siano infondati». Simpatica! Pensò l'altra. Certo che ti sono simpatica. Siamo così simili noi due per certi versi, più di fratello e sorella. «Il mio timore è che potresti odiarmi quando avrò finito di raccontare», ammise lei con sincerità dolorosa. Ma ormai non era più in grado di mentire. «Allora non ti farò domande», disse Sethrian. «Lascerò che sia tu a scegliere le frasi più adatte per narrarmi il tuo terribile segreto». Aelin chiuse gli occhi. Poi iniziò a parlare. «Io vengo da un altro pianeta, un mondo molto diverso da questo in cui mi sono ritrovata. Poco prima di giungere qui stavo scrivendo un romanzo, un romanzo che comincia con la venuta di Gwyon alla tua villa tra i monti». La giovane tacque, l'altro ancora non accennava a parlare. Anche quando Aelin riaprì le palpebre lui continuò a osservarla in silenzio. «Tu non mi credi», mormorò la ragazza. «Sapevi che non l'avrei fatto». «E come spieghi questa mia convinzione? Perché non puoi mettere in dubbio la mia buona fede».
«Dovresti essere una maga davvero abile per riuscire a nascondermi la tua reale natura, e infrangere al tempo stesso l'incantesimo di verità», ammise l'uomo. «Non credo ci sia questo rischio». Era un altro il pericolo che la giovane aveva preso in considerazione, ma ancora non ne parlava. Aelin osservò i capelli rossicci del mago, il lieve accenno di barba sul suo viso triangolare. Non osava guardarlo negli occhi. «Io potrei dirti», riprese la giovane, «che il tuo colore preferito è il verde, che non ti spiace troppo cucinare ma detesti lavare i piatti, e tanto sei meticoloso nei tuoi studi quanto disordinato in ogni altra cosa. Ma tutto questo molto semplicemente potrei averlo appreso da Gwyon». «Ed è così?». «No, non è così». «Allora perché non dirlo direttamente?». La ragazza scrollò le spalle: «È tutto complicato. E forse posso convincerti della mia buona fede. Ma non di altro. Quando avrò terminato di parlare...». «La tua buona fede», ripeté Sethrian scuotendo la testa, «ci tieni molto, mi sembra. Ma ora mi vuoi spiegare cosa intendi dire? Perché io ti ascolto, però non riuscirai a convincermi che sai tutto di me, e solo per questa tua pretesa attività di scrittrice». «Io non so tutto, né riguardo a te, né riguardo al tuo mondo: conosco di entrambi solo quello che ho immaginato. Tuttavia ora non è del tuo passato che voglio parlarti, ma del futuro, perché avevo abbozzato i capitoli sino a Lilài. E sarà lo stesso svolgersi degli eventi a mostrarti la verità nelle mie parole». «Ne sei così certa?». Aelin annuì piano. Nemmeno il mio racconto del futuro sarà una prova della mia identità, pensò. Ma aveva deciso di tenere per ultimo quel suo dubbio angosciante, e iniziò a parlare del drago che li attendeva lungo il cammino. I draghi che la scrittrice aveva immaginato si discostavano in diversi punti dall'immagine tradizionale delle leggende terrestri. Si trattava di creature dal sangue rovente, non rettili, se sangue si poteva chiamare la sostanza viscosa nelle loro vene, con i suoi quasi ottanta gradi Celsius di temperatura. Anche la carne e le ossa non avevano nulla a che vedere con la struttura di ogni altro animale, poiché erano concepiti per resistere alle fiamme della caldaia che i draghi avevano al posto dello stomaco. Caldaia
in senso concreto, non figurato, le belve alate mangiavano qualsiasi cosa, e non digerivano il cibo, lo bruciavano nel loro fuoco interno. I draghi si nutrivano d'energia e le grandi ali erano sottili lamine in grado di catturare i raggi del sole, mentre le spesse scaglie che rendevano inattaccabili quei mostri avevano in primo luogo una funzione coibente, o in parole povere, trattenevano la temperatura. Aelin non fece accenno a tutto questo, Sethrian lo sapeva già, come pure sapeva che le scaglie di drago avrebbero respinto indietro ogni forma di energia, compresa quella dei suoi incantesimi. Tuttavia lo sguardo dell'uomo si accese al solo suono della parola drago, perché le scaglie lucenti di quei mostri potevano essere trasformate in un metallo durissimo e leggero, e avevano un valore inestimabile. «Anche il sangue di drago è prezioso», aggiunse il mago, «o questo lo ignoravi?». «Non lo sapevo. D'altronde nel mio racconto il drago moriva avvelenato, e il suo sangue si sarà guastato». «Penserò io al drago, non dovrebbe essermi difficile, specie se è vincolato alla zona del passo come dici, e non può levarsi in volo». «Penserai tu al drago... Dunque mi credi, almeno in parte». «Almeno in parte. E con riserva. Ma sono intenzionato a disciogliere l'enigma che ti circonda, mia giovane amica». «Anche io lo vorrei», mormorò lei in un soffio di voce. Le ultime luci del tramonto svanivano nel buio. C'era silenzio. «Certo, sconfiggere un drago che indossa un collare d'argento potrebbe attirarmi addosso le ire di chi quel collare gli ha dato», osservò poi Sethrian, «e immagino tu abbia messo in conto anche questo». «Nel mio romanzo cedevi a Rhory l'ambito titolo di uccisore del drago, insieme a tutti i pericoli che si legano a esso». «E il giovane cavaliere sarebbe disposto ad accettare persino il peso di una gloria immeritata, pur di farmi da scudo, anche se sono un mago. Io potrei avere in cambio il guadagno che le scaglie del drago promettono. Ma se a Rhory dovesse accadere qualcosa, tu sapresti perdonarmelo?». «Potrei farti la stessa domanda. L'idea è mia. E poi nella mia storia al nostro compagno non accade nulla di male». «La tua storia...». Il mago lasciò la frase in sospeso, e la giovane scosse tristemente la testa. Adesso veniva la parte più difficile. «Giunti a Lilài verrete a sapere il nome dell'incantatore rinnegato che sta dietro a tutto questo, poiché il vostro avversario si diverte a terrorizzare i
membri della Congrega mandando loro dei messaggi, di tanto in tanto. Anche se continua a celare ovviamente i suoi reali disegni». «Di quale mago, di quale piano stai parlando?». «Il nome non lo so, lo avevo chiamato Elizier, ma non mi piaceva, e intendevo cambiarlo. Quanto ai suoi piani, posso dirti soltanto che si tratta qualcosa di più della solita conquista del mondo, e che il nostro avversario gioca facendo ogni genere di esperimenti sui varchi dimensionali». «I varchi dimensionali», ripeté il mago. «Quella è un'arte che noi abbiamo perduto. E colui che per poco non mi ha ucciso a tuo parere l'ha riscoperta. Non sarebbe una buona notizia». «I messaggi ferali non sono terminati», la giovane fece un lungo sospiro. «Perché nessuno che abbia cattive intenzioni può varcare la soglia di Lilài, ma il nemico è riuscito ad aggirare l'incantesimo che grava sul perimetro della città». «Vorresti dire che il traditore si nasconde in seno alla Congrega», osservò Sethrian, turbato. «Non esattamente. Uno degli uomini del mago rinnegato viaggia in mezzo a noi, ma la sua vera identità è sopita, e lui crede di esserci amico. Per questo la soglia stregata di Lilài lo lascerà passare. Solo nell'istante in cui vedrà l'alta torre dei maghi che è il cuore della città, lui inizierà a ricordare». «E posso sapere almeno il suo, di nome?». «Si tratta di Gwyon». «Gwyon», ripeté l'altro con voce incolore. «È così, e la sua rapidità nell'apprendere le arti magiche dovrebbe dirti qualcosa. Ma Gwyon non è malvagio», si affrettò ad aggiungere la ragazza, «nemmeno il suo alter ego lo è: un sortilegio gli impone di assolvere ogni ordine del suo vero maestro». L'incantatore restava in silenzio, guardava l'altra con espressione pensosa. Aelin continuò a parlare, descrivendo la scena in cui Sethrian ascoltava per caso un dialogo a distanza tra Gwyon e il suo spietato padrone. Il ragazzo doveva rubare la rosa dei venti, un globo di cristallo custodito in un museo di Lilài, che era apparentemente senza valore. Il mago cattivo aggiungeva poi che voleva il cavaliere responsabile dell'uccisione di uno dei suoi preziosi draghi. Ma quel cavaliere non esisteva e si trattava di un particolare tutt'altro che ininfluente: era il cavillo che avrebbe permesso a Gwyon, vistosi scoperto, di collaborare con i nemici del suo maestro, almeno per qualche tempo.
«Se il cavaliere non c'è, bisogna attendere che ci sia», concluse la giovane. «E per te si prospettava un lungo anno da scudiero, in attesa dell'investitura e degli speroni. Qui termina la parte che avevo scritto. O meglio: solo abbozzato». «Lo sai che non riesco a crederti», fece Sethrian guardandola dritto negli occhi. «Lo so. Ma credo che, nel dubbio, almeno per qualche tempo impedirai a Gwyon di mettere piede a Lilài. E lo stesso vale per me. Perché mi rendo conto benissimo di quanto inverosimile sia la mia storia, e il nostro nemico potrebbe aver adoperato su di me l'incantesimo di memoria che ti ho descritto. Nemmeno se tutte le mie previsioni si rivelassero esatte potremmo scartare una simile eventualità, poiché in quanto ti ho detto non c'è nulla che il mago cattivo non possa sapere». La giovane aveva parlato in tono quieto a calmo, e rimase immobile, ascoltava il rumore del vento tra le piante. «Ascolta cosa farò», disse il mago in quel momento, «intendo lasciare a te il ricavato del sangue di drago che, senza il tuo avvertimento, quasi di sicuro sarebbe andato perduto. Si tratta di un piccolo patrimonio ma credo che ne avrai bisogno, sperduta come sei in un mondo che in un modo o nell'altro non è il tuo». La giovane scosse la testa stupita. Tanta generosità non è da te, Sethrian. Pensò. Non ebbe il coraggio di dirlo. L'altro tuttavia parve leggerle nel pensiero, e le sorrise: «Sono lieto di averti sorpreso, iniziava a infastidirmi l'idea di essere come un libro aperto per te». «Dovremo caricarci di ampolle vuote se vogliamo raccogliere quel sangue», osservò invece Aelin. «Ma come spiegherai l'insolita aggiunta ai nostri bagagli?». «Un modo lo troverò, vedrai. E adesso è tempo di richiamare i nostri compagni», sospirò il mago. Poi tornò a voltarsi verso la ragazza. «Tu affermi di non conoscere i piani del nostro nemico, ma sai almeno perché tanti incantatori sono morti a Graecale, e perché sono quasi morto anch'io?». La risposta era sin troppo semplice: per spingere Gwyon verso Lilài. Le ampolle scelte da Sethrian, dodici di numero, erano delle vere e proprie damigiane, e sarebbe stato necessario un carro per trasportarle. «A che vi servono quelle brocche?», domandò Rhory sbalordito. «Forse voi non lo ricordate, ma abbiamo una missione da compiere».
Il mago non provò neppure a giustificarsi. Poiché c'era qualcuno che aveva molto più ascendente di lui sul giovane cavaliere. «Se Sethrian ha bisogno di quei recipienti per i suoi intrugli lasciamolo fare», aveva detto Aelin con un sorriso. «E il carro non rallenterà la nostra tabella di marcia, tutt'altro, perché permetterà a me di riposare quando sarò troppo stanca per stare a cavallo». A quel punto l'unica preoccupazione di Rhory era assicurarsi che il veicolo fosse nelle migliori condizioni. Fu sempre Aelin a insistere perché i viaggiatori si fermassero per un paio di giorni, dando così al mago il tempo e la calma necessarie a preparare la mistura che avrebbe steso il drago. E l'incantatore era decisamente soddisfatto del risultato. «Dalle tue parole sembrerebbe che uccidere quel rettile alato sia un gioco da ragazzi», gli disse Aelin, «ma se è così perché nessuno ci ha pensato prima?». «Un gioco da ragazzi per un bravo incantatore forse», ribatté Sethrian, «e queste terre ricadono sotto l'influenza di Vultur: nessuno qui ha una particolare simpatia per le arti magiche. Nessun mago ha affrontato il drago, perché nessun mago è stato informato della sua presenza». Poi tornò il tempo di mettersi in cammino, lungo la strada che portava verso la montagna. «Un drago!», esclamò Rhory rosso in viso. «C'è un drago accovacciato tra le rocce, e sembra attendere noi». «Un drago», ripeté Aelin. Sethrian sorrise. «Sono tornato indietro ad avvertirvi. E a prendere la mia armatura», disse ancora Rhory smontando da cavallo. «Dove credi di andare?», lo trattenne il mago. «Non ucciderai un drago che porta un collare d'argento nell'unico punto in cui avresti potuto colpirlo senza spezzare la tua spada». «Un collare d'argento hai detto», sussurrò il cavaliere, «tu non hai visto il mostro, io non avevo parlato del collare. E non venirmi a raccontare che lo sapevi perché sei un mago». «Non lo farò. È stata Aelin a dirmi del drago: ha avuto una visione mentre si trovava sotto il mio incantesimo». Rhory adesso guardava la giovane con gli occhi sbarrati. «È così», mormorò lei dolcemente, «ho avuto una visione. E sono stata io a chiedere a Sethrian di tacere, fino a quando gli eventi non avessero confermato o smentito le immagini che mi erano apparse».
«Dunque era questo che ci stavate nascondendo», disse Gwyon, con un filo di voce. Il cavaliere prescelto rispose alle parole della giovane inginocchiandosi. «I tuoi timori erano ingiustificati, Aelin, e con il potere della divinazione Iddio ti ha dato un dono prezioso». La giovane non parlò. Non voleva parlare contro quel Dio in cui lei non credeva, e che non era previsto della trama del suo romanzo. Perché se c'era davvero un'entità superiore dietro a tutto quello che le stava accadendo doveva trattarsi di una divinità dotata di un'ironia perversa. Nella migliore delle ipotesi. E Aelin pregò l'altro di levarsi in piedi. «Non intendevo metterti a disagio», disse lui in tono sommesso, «se l'ho fatto chiedo il tuo perdono». «Non temere», rispose la terrestre abbozzando un sorriso. «Proprio io avrei dovuto ricordare cosa vuol dire essere un prescelto senza che nessuno dei tuoi meriti in apparenza giustifichi un simile onore». «In un modo o nell'altro», rispose Aelin, «noi quattro siamo tutti dei prescelti, credo. E ciò vuol dire che non ci sono differenze tra noi». «Se lo dici tu deve essere vero», fece Sethrian, con un ironia che solo lei poté percepire. «Ma non dimenticate che adesso abbiamo un drago di cui occuparci». «E a quanto sembra la mia spada è inutile», aggiunse Rhory, «ma forse farò bene a indossare comunque l'armatura». «Io ti consiglio di prendere solo lo scudo», ribatté il mago, «a meno che tu non voglia correre il rischio di morire imprigionato nel metallo fuso». «Qual è il tuo piano, Sethrian?», domandò Gwyon. «Perché non saremmo qui se non ne avessi uno». «Tutto sta in quella balla di lana che ho preso nell'ultimo villaggio, e che ora è imbevuta di un liquido molto particolare. Ai draghi piace la lana, poiché brucia bene nel loro stomaco, e noi faremo rotolar giù la nostra matassa sino al rettile alato. La mia pozione paralizzerà la belva, e a quel punto Rhory avrà l'onore di sfilargli il collare e decapitarla». Il cavaliere era già pronto ad accettare il progetto d'attacco, ma Gwyon scosse la testa, chiese cosa avrebbero fatto se quel particolare drago non avesse gradito la lana. «Torneremo indietro sui nostri passi», spiegò Sethrian. «Con quanta velocità lo faremo dipende dall'esattezza delle previsioni di Aelin, dal momento che secondo lei il drago non è in grado di levarsi in volo, ma non abbiamo ancora alcuna prova al riguardo».
«Se è Aelin a dirlo deve essere vero», osservò il cavaliere, «adesso non ci resta che scoprirlo». Il drago non era una bestia immane simile a montagna viva, e nemmeno lo snello parente di uno pterodattilo. Era una creatura a metà tra i due estremi, che possedeva una sua grazia e bellezza. La giovane che si faceva chiamare Aelin provò pietà nel vedere gli occhi dorati della creatura offuscarsi. Il drago ricadde a terra in uno stridulo lamento, e prese a contorcersi, per quanto glielo permetteva lo stretto sentiero. «Soffre», disse Aelin sottovoce. «Mi spiace, ma non ho saputo fare di meglio», le rispose Sethrian in tono cupo, «e se ho scelto questa sostanza è per preservare il sangue che ho promesso a te». «Perché vuoi farmi sentire ancora più in colpa?», gli chiese lei con un filo di voce. E il drago lanciò il suo grido con voce inumana, poi giacque immobile tra le rocce. «Non capisco tanta compassione per una bestia che non avrebbe esitato a divorarci, ecco tutto. Comunque è questione di poco, ormai». Questo mondo non è ancora ossessionato dall'ecologia a tutti i costi, pensò la ragazza, ma anche Sethrian è rimasto turbato dalla breve agonia del drago, perciò è stato così brusco. O forse è solo a me che fa piacere crederlo. Solo in quel momento Aelin si accorse che Rhory si era avvicinato cauto alla grande bestia alata. «Torna indietro!», gridò Sethrian ma il giovane sorrise scuotendo la testa. Il drago tornò ad agitarsi in un ultimo singulto, e Aelin vide gli artigli affilati che colpivano il volto del cavaliere. Chiuse gli occhi, certa di voler morire. Aelin aveva serrato le palpebre. Ma Rhory era pressoché illeso: una sottile linea rossa gli arrivava dallo zigomo al mento, e nella mano tesa stringeva la fascia d'argento che aveva cinto il collo del mostro. La giovane scrittrice vide il baluginare della spada, e il sangue di color smeraldo schizzò nell'aria. Rhory urlò mentre il liquido bruciante gli bagnava i capelli e il viso, e Aelin si ritrovò a ridere e singhiozzare insieme. «Calmati, calmati», la incoraggiò Sethrian afferrandola per le spalle.
«Tutto è andato bene, non c'è motivo di piangere». Aelin non disse nulla ma abbracciò il mago, poi corse verso Rhory, abbracciò anche lui, senza curarsi del sangue verde e viscoso che le si appiccicava ai vestiti. E il liquido verde colava pigramente dalle vene del drago formando un cupo laghetto del colore della giada. «Le ampolle», esclamò riscuotendosi dallo spavento che l'aveva presa, «occorre prendere le ampolle!». Ma Gwyon già veniva verso di loro, trasportando una delle grandi brocche di vetro. Rhory si passò le mani sulla faccia, cercando di pulirla dal verde che la copriva, ma senza molto successo. «Perché questa roba appiccicosa andrebbe raccolta? Che valore può avere?», domandò il cavaliere fissando le sue dita imbrattate. «Da quella roba appiccicosa si ricava un unguento che protegge dal fuoco e dal calore», spiegò Aelin, «e potrà esserci utile in futuro, dato che questo non è l'unico drago assoggettato al nostro nemico». «Io temo che il vostro unguento magico mi abbia ustionato in più punti. Ma se non altro sembra che il danno e la cura siano stati somministrati nello stesso istante». «Preferirei comunque darti un'occhiata», disse Sethrian avvicinandosi. Il recipiente che Gwyon aveva portato era pieno ormai quasi per metà. La giovane terrestre si diresse verso il carro per prenderne un'altro, e per assicurarsi che i cavalli fossero rimasti tranquilli nel punto in cui erano stati legati. Proprio in quel momento comparvero dei contadini lungo il sentiero. Quel giorno Aelin e i suoi compagni non attraversarono il passo. Tornarono indietro, poiché avevano trovato chi ci teneva a ospitarli per la notte. Gli uomini che avevano incontrato poco dopo l'uccisione del drago si mostrarono estremamente grati ai quattro, e per cena venne portato il grasso vitello che i contadini avrebbero gettato tra le fauci del mostro, se Rhory non lo avesse decapitato. Nessuno dei viaggiatori ebbe il cuore di dire che il drago era legato al passo, e che dunque le offerte per tenerlo lontano dai casolari e dalle fattorie circostanti erano state del tutto inutili. Mentre le giovani popolane si contendevano l'attenzione Rhory, Sethrian si accordò con il padrone della fattoria, perché i suoi uomini li aiutassero a raccogliere le lucide scaglie del drago. Non sarebbe stato nemmeno un la-
voro difficile: con la morte i tessuti interni di quelle strane belve diventavano estremamente fragili, erano destinati a decomporsi e svanire nel giro di una notte, lasciando intatto solo l'involucro esterno. Iniziarono le danze, al suono di una vecchia arpa e di un tamburo e, pur non conoscendo i passi, pur non avendo mai ballato in vita sua, Aelin trovò molti giovanotti ansiosi di invitarla. Anche se non era stato fatto cenno al suo ruolo di indovina, lei era comunque una compagna dell'uccisore del drago, e brillava di luce riflessa quella sera. Poi Rhory si fece prestare l'arpa dal vecchio pastore che la suonava, e cominciò a cantare. Forse le sue intenzioni erano di sottrarsi per qualche tempo alle sue ammiratrici, tuttavia quel piccolo stratagemma gli si ritorse contro. Perché il cavaliere dai capelli d'oro aveva la voce di un angelo, e le sue dita si muovevano agili tra le corde dell'arpa. Aelin si chiese se qualche rockstar del suo mondo avesse mai avuto ai suoi piedi un drappello di ammiratrici tanto devote. «Il nostro amico aveva una dote nascosta», mormorò Sethrian venendole vicino. «Io lo sapevo, a mio modo». Il mago annuì, e non disse nulla. La musica, dolcissima, si spandeva nell'aria. «Ho riflettuto», annunziò la giovane, «mi è tornata in mente una poesia che avevo scritto a tredici anni, e l'inizio suona pressappoco così: Le storie sono come sussurri nel vento, qualcuna arriva come un'eco distorta sino a un sognatore distratto... E certo, sono solo i versi di una ragazzina, eppure mi sono sembrati appropriati». «Vuoi davvero ridurre la tua immaginazione, i tuoi sogni, a finestre aperte su altri mondi e convincerti che non ci sia nulla di tuo in quello che continui a chiamare il tuo romanzo?», mormorò il mago. «Se fossi al tuo posto, un'idea così mi farebbe venire i brividi. O forse l'hai tirata fuori solo per rendere più accettabile ai miei occhi il tuo passatempo di scrittrice?». «La vuoi sentire un'ipotesi davvero inquietante?», ribatté lei con un lampo negli occhi. «Ricordati allora che i sacerdoti di Vultur stavano invocando il Signore e Creatore di questo pianeta, nel momento in cui io sono apparsa». Sethrian strabuzzò gli occhi, poi scoppiò a ridere, di una risata nervosa.
«Senza dubbio saresti una divinità atipica, e sarei persino disposto ad accettare il trauma, per il gusto di vedere le facce di certi ecclesiastici di fronte a una simile rivelazione». «Io credo negli dei quanto ci credi tu, perciò lasciamo le divinità a storie meno riuscite di questa. Ma credo davvero che l'invocazione di Vultur abbia avuto un suo ruolo nel richiamarmi. Perché con la mia immaginazione sono particolarmente protesa verso questa terra, e specie quando ho la matita in mano e scrivo. In questi giorni però il nostro nemico adopera a suo piacere la magia dei varchi dimensionali, e tutto ciò può aver assottigliato le distanze tra gli universi». «Il fervido canto di Vultur, e la concentrazione di una scrittrice mescolati insieme hanno avuto il potere di squarciare il velo che separa il mio mondo dal tuo, anche se solo per un istante. È questo che pensi, non è vero? Devo ammettere che il ragionamento è perfettamente logico». «C'è chi sostiene però che la logica e la verosimiglianza servono più nelle storie inventate che non alla realtà», ribatté la giovane, e non volle aggiungere altro. Rhory e i suoi compagni ripartirono due giorni dopo. Dato che il ritmo del viaggio era dettato dai carri con il loro ingombrante carico, Aelin aveva il tempo per prendere più confidenza col cavallo e le briglie. Non se la cavava poi male come aveva creduto. Certo, un paio di volte era riuscita a far indispettire il suo pur mansueto destriero, ma fino a ora non era mai stata gettata a terra. E adesso che percorrevano l'ampio viale della strada maestra, la giovane si concedeva qualche breve cavalcata che la portava più lontano dai carri, sempre seguita dalla vigile compagnia di Rhory, e dai suoi consigli per tenersi meglio in sella. Solo una volta il ragazzo accennò alla pratica diffusa tra le nobildonne di cavalcare all'amazzone. Aelin si era voltata a guardarlo con un vago sorriso: «Non credi che un simile discorso avrebbe senso solo se avessimo con noi una sella da amazzone, e una lunga, scomoda veste da amazzone?». «Sento una certa nota di ostilità nella tua voce», osservò il ragazzo, che pur essendo cavaliere stupido non era. D'altronde la scrittrice aveva sempre cercato di evitare gli stereotipi, almeno quando diventavano troppo evidenti. E poi Aelin scosse la testa, perché stava pensando a una persona vera come se si fosse trattato di una convenzione letteraria. Eppure non poteva dire che il suo romanzo, e il personaggio di Rhory, non avessero nulla a che vedere con il giovane dagli
occhi ambrati che le stava davanti. Si somigliavano tanto... «A cosa stai pensando?», le domandò lui. Ma Aelin sorrise, di un caldo sorriso, e non disse nulla. Non parlarono più dell'opportunità o meno di cavalcare all'amazzone. Il viaggio in poche parole procedeva senza inconvenienti di sorta. Soltanto, la destinazione era cambiata. I giovani si stavano dirigendo verso Auster, la grande roccaforte meridionale dei cavalieri del Signore del Tempo. Era necessario, e per diverse ragioni. La prima, e più nascosta, era tenersi lontani da Lilài, almeno per qualche tempo. Ma c'era anche una motivazione più formale da mettere in conto. Perché se Rhory rivestiva i panni dell'ammazza draghi doveva comportarsi come tale, e consegnare le spoglie del mostro ucciso ai tesorieri del suo ordine. I cavalieri facevano voto di povertà: non avevano alcuna ricchezza, almeno sino a quando non ereditavano, o si conquistavano sul campo, un titolo nobiliare, insieme ai possedimenti a esso legati. Rimaneva in dubbio se le autorità di Auster avrebbero acconsentito ad assecondare l'inganno dei quattro giovani, e nonostante la fiducia di Rhory, Aelin e Sethrian si mostravano più dubbiosi al riguardo. «Per me sono due le domande che dobbiamo temere», disse la ragazza, «la prima è con quale diritto vorremmo appropriarci delle scaglie e del sangue di drago quando potrebbero risultare d'estrema importanza nella lotta futura». «Le spoglie spettano a chi ha ucciso il drago», osservò il cavaliere, «da questo punto di vista la tradizione è assai chiara». «Tecnicamente sei stato tu a dare il colpo di grazia», fece Sethrian, «non è una tesi interessante da seguire?». «Conosco il mio comandante, e Nicholas non farebbe mai una cosa simile!», esclamò Rhory risentito. «Sono disposto a concederti che il tuo comandante è insensibile ai morsi dell'avidità», ribatté l'altro, «ma potrebbe sottrarre a un incantatore il prezioso tesoro con la convinzione di agire a fin di bene. Rimane sempre il dubbio che non ci sia molta differenza tra il mago malvagio che trama nell'ombra e qualsiasi altro mago». Il cavaliere tacque per un istante, poi sollevò il capo: non avrebbe permesso, promise, che una simile cosa accadesse. Sethrian preferì non rispondere. «Io non capisco», intervenne Gwyon, «se non ti fidi dei cavalieri perché non ci rechiamo subito a Lilài? Questo non impedirà di portare avanti la
finzione, se sosteniamo che solo nella città degli incantatori c'è l'attrezzatura necessaria per lavorare le scaglie». «Purtroppo è vero esattamente il contrario», ammise l'altro mago, «avrò bisogno delle immense fucine e dell'esperienza dei fabbri di Auster per trasformare in armi le scaglie del drago». E poi loro non dovevano andare a Lilài. «A ogni modo i fabbri da soli non potrebbero nulla», aggiunse Aelin, «quindi perché non adoperare il sapere dei maghi per trattare?». «No, no», fece Rhory, «non ci si mette a mercanteggiare con Auster, servirebbe solo a inasprire i miei superiori». «Allora non chiamiamolo mercanteggiare», ribatté Sethrian, «ma mettere le cose in chiaro, con la dovuta cautela». «Io sosterrò il vostro punto di vista, l'ho promesso», disse Rhory. «Tuttavia inizio a credere che noi cavalieri potremmo avere un gran bisogno di queste famose armi, in futuro. E mi chiedo se questo conti nulla per te, mago». «Diciamo che preferirei essere pagato dal tuo ordine, perché questo rientra nelle sue possibilità. Ma siamo in tempo di guerra, e i tuoi superiori potrebbero scegliere di seguire la via del sequestro». «Potresti impedirglielo mettendo a loro disposizione le scaglie solo per il tempo dell'emergenza», osservò Aelin. «Io farei lo stesso con le ampolle. Anche se l'olio una volta usato è perduto. E poi sarebbe la cosa più giusta da fare». «Se dessi loro carta bianca gli uomini di Auster rivestirebbero da capo a piedi con il metallo verde una ventina di campioni, lasciando tutti gli altri alle solite armi tradizionali. Non è forse vero, Rhory?». «Io stesso avrei fatto così». «Una simile scelta però potrebbe rivelarsi profondamente errata. Forse sarebbe più opportuno dare a molti più uomini solo delle frecce, o lance, con le punte forgiate nel metallo del drago. O forse no. Dovremmo conoscere un po' meglio il nostro nemico e i suoi servitori prima di prendere una decisione». «In parole povere», fece il cavaliere, «vuoi darci le scaglie e al tempo stesso impedirci di usarle». «Rhory!», esclamò la terrestre. «Questa è una malignità gratuita. Se Sethrian avesse pensato a tutelare la sua ricchezza, si sarebbe ricordato che è molto più facile recuperare una ventina di armature, e non molte migliaia di punte di freccia».
Rhory chinò il capo, chiedendo perdono al mago. Ma Sethrian scosse seccamente la testa: «Almeno un'armatura in metallo del drago verrà forgiata e sarà la tua. Né la vorrò indietro in seguito. Non per niente sei il cavaliere prescelto, e non per nulla hai tagliato la gola del drago, al passo». «No», rispose l'altro, «non posso accettare». «E per quale motivo?». «Ho promesso di aiutarti, se necessario, ma nessuno deve sospettare che lo faccio per un secondo fine». «Come se fosse possibile corrompere un cavaliere quale tu sei», ribatté Sethrian con un sorriso obliquo. «Un cavaliere», ripeté Rhory serio in volto, «è questo che sono, e non posso dimenticarlo. E nessun cavaliere compirà mai un gesto che possa anche solo mettere in dubbio l'integrità del nostro ordine». «Su questo non saprei contraddirti». Il mago non condivideva l'immagine idealizzata che Rhory aveva del suo ordine, però non poteva negare che i cavalieri avessero eretto, e preservassero con vigile cura, dei saldi bastioni al loro onore e alla loro reputazione. Ma il giovane dai capelli chiari non lesse i sottintesi nella sua affermazione, e si limitò a sorridere. «Tuttavia tu non sei un semplice cavaliere», disse ancora il mago, «sei il cavaliere prescelto, e hai una missione da portare a termine. Una missione che almeno per qualche tempo dovremo compiere fianco a fianco, sembra. Donandoti l'armatura di cui parlavo proteggo in primo luogo me stesso, e Aelin, la nostra indovina delle stelle». Quelle ultime parole furono quasi una formula magica: stava diventando un'abitudine per Sethrian far leva sul proposito del cavaliere di difendere a ogni costo e da qualsiasi pericolo la fanciulla comparsa dal cielo. Aelin se ne rendeva conto benissimo, soprattutto perché anche lei talvolta era tentata di approfittarsi della situazione. «Questo però ci porta alla seconda domanda che avevo in mente», disse la giovane. «Perché da un lato Sethrian promette un'armatura a Rhory, dall'altro lo espone alla vendetta del nostro nemico. E potrebbero chiederci con quale diritto lo stiamo facendo». «Ho come il sospetto», obbiettò il mago, «che tu voglia tacitare la tua coscienza, e non tanto le autorità di Auster. In fondo rientra nel normale ordine delle cose che il cavaliere ricerchi il rischio, e l'incantatore si impegni in ogni modo a evitarlo. Non è forse vero, Rhory?». Il giovane cavaliere sobbalzò, sentendosi chiamare in causa.
«Essere cavalieri esige dei sacrifici. Immagino che l'arte degli incantatori ne richieda altri, di diversa natura», rispose cautamente. «Auster si preoccuperà delle mie motivazioni, e non di quelle di Sethrian, in questa specie di recita che mi vede come protagonista». «Non importa chi è il mago e chi il cavaliere», borbottò Aelin, «perché a questo punto dobbiamo imparare a fidarci l'uno dell'altro, se vogliamo avere qualche speranza, non dico di vincere, ma di sopravvivere». «Se lo dici tu deve essere vero», commentò Sethrian con il suo solito sorriso ironico. «Però devo ammetterlo, raccontando agli uomini di Auster che intendo usare il loro prezioso cavaliere prescelto come esca non credo che farò una buona impressione. Nemmeno posso negare che almeno in parte, in buona parte, i miei motivi sono egoistici. Tuttavia è pur vero che mi sarà più facile proteggere Rhory che non me stesso dai sortilegi nemici». «Non sono sicuro di capire», ammise il cavaliere. «La magia spesso è subdola, ci vuol tempo anche solo per accorgersi della sua presenza. Ma se nel momento in cui arrivo a percepire l'aura di un sortilegio io sono già mezzo morto allora ci sarà ben poco che potrò fare». «È come negli scacchi», fece Aelin. «Sethrian per avere la libertà d'azione della regina non può impersonare al tempo stesso il pezzo del re». «Re e regina», ripeté Gwyon, che gli scacchi li aveva visti solo a casa del mago, «mi sembra sensato, ma in fin dei conti sono lieto di essere solo un pedone. Come se non bastasse ho paura che se il nostro avversario decidesse di attaccare, non andrebbe tanto per il sottile: cercherebbe di ucciderci tutti e quattro contemporaneamente». E Aelin rabbrividì, ma non per quella prospettiva di morte. Pensava piuttosto che i pedoni si trasformano, quando arrivano dall'altra parte della scacchiera. «Mi chiedo quale pedina del gioco potrei essere io», disse poi, e solo per scacciare quell'immagine. «Un cavallo, credo», rispose Sethrian, «tu sei l'elemento imprevedibile, per noi». «Un cavallo!», sbuffo la giovane. «Io detesto i cavalli, non so come muoverli e li perdo subito». Lo disse con un'espressione così seria che gli altri scoppiarono a ridere. IV
IL FORTE DEI CAVALIERI La roccaforte dei cavalieri si levava dalla pianura erbosa, con i bastioni bassi e massicci, e il giallo dorato della pietra. Varcate le mura imponenti, il cortile interno si apriva in una struttura articolata di terrazze, minuscole torri aggettanti, finestre ogivali. Da quanto tempo lei e i compagni stessero aspettando, Aelin non avrebbe saputo dirlo con esattezza, perché quando Rhory fece ritorno, si accorse di essersi appisolata. Il cavaliere prescelto annunziò con un sorriso che tutto era andato per il verso giusto, e il comandante di Auster era più che disposto a fornire loro tutto l'aiuto possibile. Ciò dimostrava che le discussioni dei giorni addietro erano forse state inutili, ma se non altro erano servite a spezzare la monotonia del viaggio. E io da scrittrice, pensò la ragazza, probabilmente avrei descritto con diligenza tutte quelle chiacchiere nella prima stesura, per poi tornare a cancellarle senza pietà dopo un paio di mesi. Tuttavia questo non è più un romanzo. O forse non ancora. Nicholas, l'anziano comandante di Auster, aveva un profilo aquilino e l'espressione decisa di un guerriero temprato dagli anni. Non si fidava dei maghi, di nessun mago, ma si rendeva conto che sarebbe stato necessario collaborare con Lilài, nei giorni a venire. Forse non tutti i suoi sottoposti condividevano quella sua opinione, eppure nessuno l'avrebbe contraddetto apertamente. La fiducia sembrava essere diventata un bene raro, scarseggiava da entrambe le parti. E non sarebbe sbocciata all'improvviso tra gli sguardi cupi di maghi e cavalieri, sarebbe stato necessario crearla, passo dopo passo. Fu Sethrian a fare la prima mossa in tal senso, proponendo che fosse Rhory a recarsi come messaggero a Lilài. Era una scelta significativa. Certo, bisognava ammettere che a spingere l'incantatore era anche l'ansia di mettersi a lavorare al più presto sulle squame di drago, e poi c'era quell'altro motivo più segreto. Solo in un colloquio a quattr'occhi con il vecchio comandante Sethrian aveva accennato al sortilegio malvagio che rischiava di piegare la mente del suo apprendista ai voleri del nemico. Non ritenne opportuno soffermarsi sulle due nature che Aelin aveva indicato in Gwyon, né parlò dei dubbi che aleggiavano sulla giovane veggente. Disse che avrebbe voluto provare a sciogliere lui l'incantesimo invece, ma una magia simile era terribilmente insidiosa, i rischi di insuccesso sin troppo
elevati: avrebbero potuto significare la morte del ragazzo. Il comandante, già turbato alla sola parola sortilegio accettò di mantenere il silenzio, e nemmeno Rhory avrebbe saputo nulla. Di più, il vecchio cavaliere osservò che era necessario informare il sovrano degli ultimi sviluppi. Non per nulla era stato il re in persona ad affidare a Rhory la sua importante missione. E Gwyon sembrava il messaggero perfetto, dal momento che aveva assistito con i propri occhi a gran parte degli eventi. Detto per inciso la capitale di Aquilon si trovava nella direzione opposta a Lilài. I due messaggeri partirono presto, e mentre Sethrian passava le giornate assieme ai fabbri di Auster, la giovane scrittrice di un altro mondo si ritrovò a trascorrere le ore con la sola compagnia della sua noia. Aelin era l'indovina affidata al cavaliere prescelto, non c'era uomo nella rocca che lo ignorasse; un'indovina era riverita, trattata con ogni riguardo, ma la reverenza dei cavalieri si tingeva di un sacro timore. C'erano delle eccezioni, certo, e il comandante del forte era sempre lieto di conversare con la sua giovane ospite, tuttavia l'anziano cavaliere aveva molti impegni sulle sue spalle. E c'era il palafreniere incaricato di accompagnare la ragazza nella cavalcata quotidiana che le era stata concessa, ma l'uomo sapeva parlare solo di cavalli, selle, briglie... e cavalli. Aelin d'altronde non osava immaginare le espressioni inorridite nei cortili di Auster, se si fosse saputo che la veggente frequentava i lavoranti delle stalle, e non bisognava turbare i nobili cavalieri. Non ancora almeno. Il giorno in cui potrò rivelare che vengo da un altro mondo, si diceva talvolta, racconterò ai guerrieri dal sangue blu la storia di una regina che si divertiva a fare la pastorella, e del modo in cui le tagliarono la testa. Mi divertirò come una matta a farlo. Fantasticando in questo modo, canticchiava fra sé le note della Marsigliese. Ciò non voleva dire comunque che intendesse vestire i panni della rivoluzionaria. E quando al terzo giorno della sua permanenza al forte le era stata presentata per la terza volta una colazione di carne di maiale fritta nel lardo di maiale, aveva rivelato un temperamento degno di una capricciosa nobildonna. I giorni continuavano a passare, sempre lenti, sempre uguali. Ad Aelin non restò che dedicarsi alla biblioteca nel castello, ricolma di libri storici e libri devozionali. O almeno così erano stati catalogati; in entrambi i generi si parlava in ugual modo di vite di santi: santi cavalieri, santi eremiti, santi re, descritti dalla mano di chi certo aspirava a sua volta alla santità.
La terrestre aveva trovato un racconto che nella prima parte somigliava decisamente alla storia di San Giorgio e il drago, ma poi la bella principessa, insoddisfatta del matrimonio che le era toccato, cercava di sbarazzarsi dell'ignaro consorte. Già al terzo tentativo la faccenda iniziava ad assumere i toni di una comicità totalmente estranea alle intenzioni del libro, e lei era arrivata a contare il settimo fallimento. Poi sentì il vento battere ai vetri del suo balcone, e sollevò lo sguardo dalle pagine. Si era sbagliata, il vento taceva, ma la mano di un giovane bussava alla finestra. Aelin si avvicinò alla vetrata, e vide due occhi azzurri, vivissimi, che la fissavano. «Posso sapere chi sei?», domandò, accostando il volto e le dita alla superficie fredda del vetro. Lo sconosciuto fece un passo indietro, e rispose all'altra con un inchino. «Il mio nome è Jordan di Thule, cavaliere del regno. Vi prego di perdonarmi l'insolita via che ho scelto per arrivare alla vostra presenza, veggente, ma non avevo alternative. Poiché ci sono delle guardie che sorvegliano assiduamente i corridoi che conducono alle vostre stanze». Il giovane tornò ad alzarsi, ciocche di capelli neri ricadevano sulla fronte, e un sorriso malizioso gli illuminava il volto. «Non che io stia contestando le disposizioni del nostro comandante», si affrettò ad aggiungere, «ci sono fin troppi fanciulli ad Auster che desiderano parlarti solo per farsi predire il futuro, in amore e in guerra». «Non sapevo di essere sorvegliata», mormorò Aelin, «credevo anzi che gli uomini del forte mi evitassero, per paura». «Talvolta il desiderio di conoscere la propria sorte può vincere qualsiasi paura». «È per questo che sei qui, Jordan? Vuoi conoscere la tua sorte?». «In un certo senso. Ma non sono venuto a chiederti un oracolo, Aelin». La giovane tacque, fissando l'espressione intensa negli occhi dell'altro. «Sei intraprendente, forse troppo», disse in un filo di voce. «E il mio balcone dà proprio sul cortile principale: chiunque, alzando gli occhi, potrebbe scorgerti». «Potresti sempre farmi entrare». «No, non credo proprio». «Se avessi cattive intenzioni mi ci vorrebbe ben poco a frantumare questo fragile vetro». «E io urlerei», ribatté la giovane. «Non hai detto che ci sono delle guardie nel corridoio?».
«Un motivo di più per aprirmi», rispose Jordan senza esitare. «Sai che ti basta alzare appena il tono della voce per mettermi terribilmente nei guai». «Metterei nei guai anche me: finché resti sul balcone tocca a te spiegare perché sei là fuori, una volta entrato sarei io a dover dire per quale motivo ti trovi nelle mie stanze». «La finestra sul balcone era aperta e io sono entrato prima che tu potessi fermarmi». «Tuttavia non credo che ti farò entrare». «Nemmeno la mia parola d'onore potrebbe farti cambiare idea?». Il giovane sospirò. «In fondo non importa. Accovacciandomi dovrei restare perfettamente nascosto agli sguardi. Il balcone è profondo e ha delle ampie sponde di pietra». «Se non ti interessava venir dentro perché hai insistito tanto?». «Per vedere come avresti risposto». «E sei soddisfatto adesso?». Aelin si sedette sul gradino di marmo grigio accanto alla finestra. Dagli ottagoni e dai rombi che componevano la vetrata, sentiva filtrare sottili spiragli di vento e la voce del cavaliere. «Mi chiedi se sono soddisfatto? In verità ancora non saprei dirtelo», ammise Jordan, e si piegò sulle ginocchia, tornando a posare il suo vivido sguardo nello sguardo dell'altra. «Cos'è che volevi chiedermi?», mormorò la giovane. «Voglio sapere se potrò uccidere un drago, e non è un vaticinio che ti chiedo. Perché Rhory si è fermato al castello di mio padre tre giorni fa, e mi ha narrato una versione dei fatti che si discosta parecchio dal racconto preparato per gli uomini di Auster». «Che cosa ti avrebbe detto Rhory?». «Che non è stato lui a sconfiggere il drago, ma una pozione magica. E io voglio la formula di quell'intruglio». Aelin chiuse gli occhi, e poggiò la testa alla parete. «Io non credo che Rhory ti abbia detto nulla, poiché non c'era nulla che potesse dirti». «Io e Rhory siamo cresciuti insieme, non ci sono segreti tra noi». «Non rendi certo un buon servigio al tuo amico, proclamando che lui ora si fregia di un onore non meritato». Jordan scosse il capo. «Non sto proclamando nulla, questa è solo una conversazione privata. Né mi sognerei mai di biasimare Rhory, perché co-
nosco le sue motivazioni, e in fin dei conti le approvo». «E le tue motivazioni?», lo incalzò Aelin. «Mi sembra che tu voglia ottenere la gloria con un inganno, e l'ipocrisia non si addice alle tue vesti di cavaliere». «Cosa puoi saperne tu di cosa si addice o meno a un cavaliere, tu che forse hai il dono di vedere il futuro, ma l'hai pagato dimenticando il tuo passato?», le rispose l'altro con voce tagliente. «Tu non sai niente di noi, e nella vita reale esiste un giusto mezzo tra l'ipocrisia di cui mi accusi e la perfezione auspicata nei codici. Né puoi prendere Rhory come pietra di paragone, perché lui è speciale». Speciale. Lo è davvero, pensò Aelin. Ma questo cosa ha che vedere con te, Jordan di Thule? «E se ti dicessi che non esiste alcuna pozione?». «Io so già tutto!», ribatté il cavaliere con un sorriso incredulo. «Che senso ha continuare a negare?». Il senso lo ha, eccome!, si disse Aelin, mentalmente. Perché io non so se è stato Rhory a parlare. Forse tu ora procedi a tentoni, seguendo una tua intuizione, o hai sentito qualcosa dal comandante del forte e dai suoi collaboratori. Forse sono stati loro a mandarti... «Stai perdendo il tuo tempo, Jordan», ribadì. «Perché adesso io devo dirti che questo fantomatico filtro non esiste, e anche se esistesse io non ne saprei comunque la formula». Io devo dirti... La frase era ambigua. Così lei aveva voluto che fosse. «Inoltre nemmeno mi fido di te», aggiunse la ragazza, «tu affermi di essere amico di Rhory, ma inizio a credere che questa sia stata la tua prima menzogna». «Se ti proverò che ero sincero ammetterai l'esistenza della pozione, e mi aiuterai a ottenere da Sethrian il suo segreto?». Aelin non fece a tempo a rispondere. Qualcuno era venuto a bussare alla sua porta, e la giovane alzandosi tirò i drappi della tenda, perché nascondesse sia la vetrata che Jordan. Poi corse ad aprire, e si trovò davanti un ometto stempiato, che stringeva con entrambe le mani una pesante borsa di cuoio. «Sono il mastro sarto della rocca di Auster», annunziò il nuovo venuto. «L'incantatore mi ha chiesto di mettere la mia arte a vostra disposizione. Sembra ne abbiate bisogno». In effetti era vero. Aelin non aveva altri abiti che una lunga tunica rossa donatale dal Santo Guardiano. E i jeans e il maglione indossati durante il
viaggio adesso portavano le macchie indelebili del sangue di drago. «Però c'è un po' troppo buio in questa stanza», osservò il sarto, e si diresse verso la finestra. «No!», esclamò la giovane. «Non è opportuno scostare le tende, se dovete prendermi le misure». Subito dopo estrasse da un sacchetto di stoffa un cristallo che Sethrian le aveva prestato, e la camera fu illuminata a giorno. Il sarto poggiò la borsa sulla cassapanca istoriata ai piedi del letto, e cominciò a frugare al suo interno. «Sarà un piacere confezionare dei vestiti per una giovane dama, perché in questi ultimi tempi non mi sono occupato di altro che di stendardi e sovracotte di maglia». Aelin inclinò il capo. Prese i famosi pantaloni di tela di jeans, che aveva gettato sul fondo del suo armadio vuoto. «Mi serve qualcosa del genere, per cavalcare». Il sarto la fissò, pensieroso. La ragazza corrucciò la fronte: lei non avrebbe cavalcato con una gonna. Qualsiasi cosa dicesse l'altro. Qualsiasi cosa dicesse l'intero forte di Auster. Forse. «L'incantatore vuole che i vostri abiti siano ricavati da un tessuto composto per un terzo da fili di metallo del drago», spiegò l'ometto. «Ho già un campione della stoffa: posso dirvi che è morbida più o meno quanto una pelle conciata, ma cento volte più resistente. Dovrebbe proteggervi quanto un'armatura». Aelin lo fissò, confusa. «Io non so», continuò il sarto, «se avete idea di quanto siano scomodi da indossare i pantaloni di pelle». La giovane assentì. Almeno non erano obbiezioni di carattere morale. E i pantaloni di pelle erano in effetti molto scomodi. Almeno per sentito dire. Non era il genere di capo d'abbigliamento che si potesse trovare nel suo armadio. La terrestre e il sarto infine si misero d'accordo per una lunga tunica aperta sui fianchi, da indossare a seconda delle occasioni sopra dei calzoni o con un'ampia sottoveste. L'ometto commentò triste che un simile indumento sembrava quasi una sovracotta. Un lungo mantello poi avrebbe protetto le parti che la tunica non arrivava a coprire. Continuarono a parlare di colori e tonalità, soprattutto blu e turchese, che si accordavano così bene con il verde drago, di disegni e ricami, di stivali e
scarpine, dei vantaggi delle chiusure lampo, mai viste prima ad Aquilon, e via dicendo. Parlarono di cose insomma che Aelin non avrebbe mai osato descrivere in un romanzo, biancheria intima compresa. Quando la giovane rimase sola, era calata la notte, e il vento della sera soffiava sul suo balcone ormai vuoto. «Jordan di Thule», ripeté Sethrian in tono cupo. «Sì, ho avuto modo di incontrarlo». «E qual è la tua opinione?». «Credo nasconda qualcosa, ma non sono in grado di dirti di che si tratti, né se il mio presentimento sia fondato. Speravo piuttosto che tu e il tuo romanzo poteste accennare a una soluzione». «Nulla», ammise la ragazza scuotendo la testa. «Il vuoto più totale. Non c'era alcun Jordan in programma. Eppure posso dirti che quel nome ha un suono allarmante alle mie orecchie». «Un nome non ha nulla a che vedere con chi lo possiede», obbiettò il mago. Nomina sunt consequentia rerum, proclamavano i maestri del razionalismo medievale, cercando misteriose relazioni tra l'apparenza del mondo terreno e la verità del regno celeste. E un'idea simile era anche più antica del medioevo, infinitamente più arcaica e remota. Ma la scienza moderna la rifiutava. Non poteva essere altrimenti. Tuttavia... «Io non ti sto parlando della realtà, ma di un romanzo, un romanzo scritto o pensato da me: i nomi dei personaggi e dei luoghi un minimo valore ai miei occhi l'hanno sempre avuto». «Capisco», disse l'altro, in tono vagamente scettico. «Più che farti un breve elenco non posso. Il nome di Rhory per iniziare è collegato a ros, roris, che in una lingua antica vuol dire rugiada. Gwyon invece non ha alcuna etimologia alle spalle, solo la sensazione che il suono delle cinque lettere si accordasse con il suo carattere, la sua indole». «Quale, per l'esattezza, dei suoi due caratteri? E a ogni modo, cosa c'entra tutto questo con Jordan?». «Non vuoi sapere l'origine del tuo nome?». «Non quanto tu ci tieni a spiegarmela, credo. Comunque sia, parla». Aelin non si fece pregare. «Sethrian comincia con una sibilante, una lettera infida come il verso di un serpente, una lettera che mi parla di un intelligenza un po' subdola. Poi c'è il fruscio della seta, che viene spezzato però nello scontro tra la ti e la erre».
«C'è un'acca in mezzo». «Ma non la pronunci, è una lettera muta, solo una complicazione grafica». «Ancora un po' e comincerò io stesso a credere di essere una complicazione grafica», disse il mago in tono apparentemente tetro. «E tu hai altro da aggiungere?». «Non su di te, ma posso dirti che il nome del tuo amico Palen di Lilài è molto simile a un aggettivo che in inglese vuol dire pallido». La ragazza preferì non parlare al mago del dio egiziano della distruzione che si celava tra le pieghe del suo nome, e poi quel Seth non era mai stato un ospite gradito per la scrittrice: era solo un ostacolo che le impediva di usare le prime quattro lettere di Sethrian come diminutivo. «L'inglese è la lingua antica di cui parlavi?». La giovane scosse la testa, e il mago tornò a chiederle del cavaliere di Thule. «Jordan è uno dei nomi che mi sono più cari, l'ho adoperato già almeno un paio di volte, e sempre per dei caratteri positivi. Ciò non vuol dire che il nostro Jordan sia buono, o che abbia un ruolo nelle vicende future, però so con certezza che non avrei mai dato il nome di un monaco eretico a un personaggio insulso». «Nessuno ha mai accusato Jordan di essere insulso, credo». «Sei stato tu a chiedere il responso del mio romanzo, io non posso dirti di più. Non so proprio in che modo la storia potrà evolversi. È come se fossi caduta tra le pareti di un labirinto che prima osservavo dall'alto e non posso più immaginare cosa ci aspetta alla prossima biforcazione». «Non puoi, o ti sei convinta di non poterlo fare?», disse l'incantatore, pensieroso. «Ma potrei compiere un esperimento, e tentare di ipnotizzarti». «Sicuro che ti convenga? La faccenda del romanzo in fin dei conti non ti piaceva poi tanto». «Non intendo voltare le spalle alla verità. Inoltre mi sembra di estrema importanza scoprire se possiamo contare o meno sulle sue cosiddette predizioni, nei giorni che ci attendono». «Io sono pronta», affermò la giovane, «dimmi cosa devo fare». «Solo guardarmi negli occhi». La scrittrice cadde a terra, scivolando dal divano su cui si era appisolata. Si alzò, cercando a tentoni l'interruttore nel buio. Accese la luce, e gli appunti del romanzo giacevano su un tappeto simile
alle alghe di un fondale marino. «Che sogno meraviglioso!», mormorò la ragazza sdraiandosi con lentezza tra i ciuffi di lana colorata. Era andata nel suo mondo, e l'aveva creduto vero, anche se per poco. «Jordan, Jordan», ripeté fra sé, «ti ho sognato e ti sei guadagnato un ruolo di primo piano tra le mie pagine. Mi piace l'ambiguità con cui sei comparso sulla scena. Solo è un peccato non poter riscrivere il dialogo della vetrata, ma non avrebbe significato senza una fanciulla indifesa dall'altra parte del vetro». Era innegabile, nel romanzo stava venendo alla luce una certa carenza di figure femminili. A quello tuttavia avrebbe pensato dopo. La scrittrice si rotolò sul tappeto, sino a raggiungere i due quaderni ad anello lasciati ai piedi del divano. Prese la matita e un foglio bianco: cominciò a scrivere. Jordan, coetaneo di Rhory, cresciuti insieme: uno è figlio del barone di Thule, l'altro del suo primo cavaliere. Amicizia sincera. La giovane guardò le parole tracciate sulla carta e appallottolò il foglio indispettita: non aveva certo bisogno di un appunto per ricordare quello. Già sapeva che le insistenti domande di Jordan non erano nate né dall'avidità, né da un suggerimento dei suoi superiori. Era stato lui a decidere di mettere alla prova i maghi con cui Rhory sarebbe partito, e saggiare la loro reazione di fronte alle domande sulla morte del drago era stato il primo passo. «Il primo, ma non l'ultimo». Sì, Jordan avrebbe fatto notare al comandante di Auster che partendo solo con due maghi Rhory si sarebbe trovato, per così dire, in minoranza, e qualche ora dopo il cavaliere di Thule avrebbe sventolato davanti al naso di Sethrian il documento scritto che gli imponeva di seguire l'amico nella sua missione. Certo, l'incantatore sarebbe rimasto dubbioso ancora a lungo sulle reali motivazioni di Jordan. Per completare il quadro di sfiducia generale, aggiunse la ragazza tra sé, diciamo pure che il nuovo venuto a differenza di Rhory verrà informato della reale natura di Gwyon e... E no, questo non è proprio possibile: nel mio romanzo Gwyon ha già mostrato il suo legame con il mago cattivo. Non devo fare confusione con il sogno. La scrittrice prese il foglio che aveva accartocciato, e lo distese di nuovo sulla copertina a fiori del quaderno. Ricordi di un albero di melograni,
scrisse. Poi chiuse di nuovo gli occhi. Se ne stava a riflettere. Potrei inserire il personaggio di una principessa, pensava, che ha perso la sua famiglia per colpa del mago rinnegato, e che custodisce ancora il talismano da lui desiderato. No, meglio di no. Non voglio sostituire il volto di Aelin con quello di una qualsiasi fanciulla di sangue reale, preferisco tenere per me i ricordi del sogno. Intanto ce quel mago cattivo... devo ricordarmi di non usare nel romanzo l'espressione mago cattivo. Ma che io sia dannata se riesco a inventarmi un nome per quel tizio. Inizio a credere che lo troverò in sogno, il nome. E mentre la giovane si perdeva in una cantilena di sillabe e nomi inventati, l'onda di un sonno silenzioso tornò a infrangersi sui suoi pensieri. «Mi avete mandato a chiamare», disse il giovane cavaliere, mentre Sethrian e Aelin continuavano a fissarlo senza parlare. L'incantatore fece un breve cenno d'assenso alla sua compagna. «Tu e Rhory», disse lei, «da piccoli salivate sempre su di un grande albero al centro del cortile del castello di Thule. È la verità?». Il cavaliere sbatté le palpebre, interdetto. «Ti riferisci al vecchio albero di melograni. È stato Rhory a parlartene? Passavamo ore lassù, mentre il mio amico suonava e io scagliavo semi di granato sui passanti. Ma non capisco che importanza può avere». «Non è stato Rhory a parlare», spiegò Aelin. «Ho avuto una visione». «E si è rivelata puntualmente esatta», aggiunse il mago. «Al di là di quello che potevo sperare». «Potrei aver indovinato quel particolare, ma non tutti gli altri», obbiettò la giovane. «Non lo credo», rispose Sethrian. «Almeno non stavolta. Tuttavia dovremo tenere gli occhi aperti, sino a quando non avremo stabilito qual è la fonte delle tue predizioni». «Ma ancora non ne siamo in grado», disse lei. «Forse non lo saremo mai». Jordan a quel punto scosse la testa, chiese agli altri due se non era troppo disturbo spiegare anche a lui di cosa parlassero. «Credo che lo faremo», mormorò Sethrian. «In fin dei conti sembra che tu sia dei nostri ormai, o che lo stia per diventare». «Sethrian ha il timore che le mie visioni non siano ispirate da Dio, ma dai nostri avversari», disse Aelin. «Questo spiega la sua cautela, e la mia,
nel giudicarle». «Dei maghi malvagi avrebbero violato le sacre volte del tempio di Vultur per portarti in mezzo a noi?», fece Jordan. «Mi sembra... no, non ci credo. Eppure riesco a comprendere i vostri dubbi. So già di Gwyon, del suo incantesimo, e inizio a temere i giorni che ci aspettano». «Tu sai di Gwyon», ripeté Sethrian in tono cupo. Anche se Aelin gli aveva già accennato una simile eventualità, lo infastidiva vedere come Nicholas avesse mantenuto il silenzio. «Sono dei vostri, lo hai detto, ed è il sigillo di Auster che mi impone di partire al seguito del cavaliere prescelto. Ma io non intraprendo mai una missione senza aver prima raccolto tutte le informazioni necessarie. E ho il dono di far parlare la gente, potresti dire che è quasi una magia». «Con noi non ha funzionato, mi sembra», ribatté Sethrian. «I vostri silenzi mi hanno detto più di quanto pensi». «Intendi informare il cavaliere prescelto di quello che hai scoperto?», gli chiese Aelin. «Non lo so ancora», ammise Jordan. «Il soprintendente mi ha detto di non farlo, e adesso anche voi. Non mi piace avere segreti con Rhory, se posso evitarlo, ma il mio amico è trasparente come l'acqua e rischierebbe di tradirsi senza nemmeno accorgersene». «Dunque non parlerai», disse Sethrian. «No, non lo farò. Non subito almeno. E prometto che vi avvertirò, prima». «A Rhory puoi dirlo», aggiunse Aelin, «ma lui dovrà essere il solo». «Hai la mia parola di cavaliere». «E quanto vale ai tuoi occhi questa tua parola?», fece Sethrian. «È una strana domanda da porre a un cavaliere ma immagino sia giustificata dal mio comportamento di questi giorni», rispose l'altro a denti stretti. «Ti dirò che non ho mai tradito lo spirito di un giuramento, né mai lo tradirò. Mi concedo invece una maggiore elasticità per quel che riguarda la lettera. Perché non credo ci sia promessa in grado di annullare le regole del buon senso». «Se un mago avesse rivolto le stesse parole a un cavaliere non si sarebbe guadagnato la sua approvazione». «Forse perché maghi e cavalieri hanno dimostrato di avere un'idea molto diversa del buon senso», ribatté Jordan. «E mi sembra giusto aggiungerlo, io rimango pur sempre un cavaliere».
Rhory fece ritorno qualche giorno dopo, e il suo racconto non si discostò di molto dalle previsioni di Aelin. Il mago cattivo si chiamava Isengrin. La terrestre non poté fare a meno di chiedersi se un simile nome fosse appropriato o meno per il personaggio. Il sarto del castello frattanto continuava di gran lena il suo lavoro, e ci sarebbero stati abiti in filo di drago anche per i due cavalieri. Sethrian e il suo assistente invece avrebbero dovuto accontentarsi di due ampi mantelli, dal momento che la strana sostanza di cui era composto il guscio del drago tendeva a interferire con l'energia degli incantesimi. Passarono ancora un paio di settimane, e Gwyon fece la sua comparsa alle porte della rocca, di ritorno da Aquilon. «I lupi giganti che minacciavano i campi attorno alla capitale sono scomparsi con il ritorno della bella stagione», annunciò, «e i regnanti e i loro ministri non sanno come spiegarselo. Ma le notizie più cupe le ho raccolte in seguito, lungo il cammino, venivano dalla città di Levant, del regno di Levant. Sembra ci sia stato un attacco contro la famiglia reale, e che non vi siano superstiti. Forse però voi ne sapete già più di me». Gli altri tuttavia poterono solo scuotere la testa, sgomenti. Nei giorni successivi, le notizie giunsero: vaghe, confuse, discordanti. Erano in molti a contendersi il trono vacante, e la situazione nel regno di Levant ormai tutto aveva della guerra civile meno che il nome. Con il crescere dei disordini erano stati in molti a lasciare il paese, e nessuno conosceva l'identità dei sicari, anche se tutti erano pronti ad accusare questo o quell'altro dei pretendenti allo scettro. C'era chi diceva che la principessa Felicia fosse ancora viva, e prigioniera, che si fosse rifugiata nelle foreste del nord del paese, o che fosse fuggita solo per cadere più tardi in un agguato di predoni di strada, e morire ignota sulla nuda terra. Non sarebbe stato facile conoscere la verità: per tradizione l'erede di Levant celava il suo volto dietro un velo fino al giorno dell'incoronazione, e non c'era nessuno in vita che conoscesse i lineamenti di Felicia. Rhory si disperava all'idea di non poter far nulla per la principessa, tuttavia non era possibile correre in aiuto di una donzella in pericolo se non si conosceva nemmeno la direzione da prendere. E per essere onesti la maggior parte dei cavalieri non condivideva un simile cordoglio. Tra il regno di Levant e quello di Aquilon non correva esattamente buon sangue. «Io credo che la nostra strada e quella di Felicia finiranno con l'incrociarsi», aveva detto una volta Aelin al cavaliere, «non è una profezia, ma
puoi chiamarlo un presentimento». Per qualche strano motivo la giovane aveva atteso che Sethrian non fosse a portata d'orecchio per pronunciare queste parole. Non che la cosa fosse stata difficile, il mago sempre più spesso tornava a immergersi nel lavoro delle fucine. E presto delle armi di metallo verde vennero forgiate, due lunghe spade con l'elsa d'avorio per i cavalieri, e due daghe che tutti credettero destinate agli incantatori. Si tornò anche a parlare delle armature, e Sethrian aveva già deciso da tempo che le vesti con il filo di drago erano una protezione più che sufficiente, almeno contro le comuni armi d'acciaio. Non che qualcuno avesse trovato da ridire. Bastava sentire l'opinione del vice-comandante di Auster al riguardo. Il cavaliere vedeva in una corazza principalmente uno strumento da torneo, da indossare in una leale tenzone. Dunque era l'onore stesso a volere che le armature fossero di pesante acciaio. Il guerriero prescelto per una missione comunque aveva l'obbligo di astenersi da duelli e gare, tranne nel caso in cui fossero connessi con la sua impresa. Quindi non ci sarebbero state corazze di sorta. Furono Rhory e Jordan a voler portare con sé le loro spade di ferro, ma per un buon motivo: dopo aver imparato a lottare con il peso di quelle lame temevano che da principio non se la sarebbero cavata troppo bene con le nuove armi. Il momento di partire era ormai vicino; si sarebbero diretti verso Aquilon. Ma senza fretta, avrebbero approfittato del viaggio per guardarsi intorno, e raccogliere notizie lungo la strada. In un certo senso, lo scopo principale del viaggio consisteva nel perdere tempo. Sethrian e Palen si erano scambiati delle lunghe lettere, ed erano venute fuori un paio di cose degne di nota. La rosa dei venti, la sfera di cristallo che secondo Aelin il mago cattivo stava cercando, esisteva davvero e nessuno conosceva la sua funzione. Stava solo a prendere polvere in un museo. Palen aveva proposto di costruire un falso globo per ingannare il loro avversario, ma ciò poteva richiedere dei lunghi mesi di lavoro. Dunque bisognava perder tempo, o quanto meno incanalarlo verso attività di altra natura, e le lezioni di scherma erano una di queste. Al riguardo andava detto che Sethrian consegnò ad Aelin la spada che gli era toccata non appena si furono lasciati le mura di Auster alle spalle. Provocando le immediate proteste dei due cavalieri, come d'altronde c'era da aspettarsi. «È molto facile essere una fanciulla indifesa», disse la terrestre, «altrettanto lo è morire come fanciulla indifesa. Io so di non avere il talento ne-
cessario ad apprendere l'arte della guerra, ma voglio sapere almeno da che parte si impugna una spada». «Sono io ad avere il compito di proteggerti», non tardò a ribattere Rhory, ma poi il giovane si fece cupo in volto, e trasse l'altro cavaliere in disparte. Cosa si dissero Aelin non riuscì a immaginarlo, tuttavia quando tornarono indietro Jordan annunziò che si sarebbe occupato lui di insegnare alla ragazza, perché Rhory senza ombra di dubbio si sarebbe dimostrato troppo tenero con lei. «Dovrai giurare però di non estrarre mai la spada senza esservi costretta», aggiunse il cavaliere di Thule, «e di gettarla a terra per arrenderti ogni qual volta se ne presenti l'occasione». «Non vorrei mai fare diversamente», sussurrò la giovane. Eppure era sorpresa della velocità con cui i due avevano capitolato, e nemmeno credeva che lo scopo di Jordan fosse di farle cambiare idea sul campo. L'altro ne sarebbe stato capace, se solo l'avesse giudicato opportuno; tuttavia rimaneva il fatto che Rhory non glielo avrebbe permesso. O almeno così Aelin sperava. Senza dire una parola la terrestre venne a sdraiarsi ai piedi del grande albero che Sethrian aveva scelto per cercare un po' d'ombra mentre leggeva. «Gli allenamenti sono di già terminati?», le chiese il mago sollevando lo sguardo. «Per me sì. Decisamente sì. E questo è solo il primo giorno. Ho vent'anni di vita sedentaria alle spalle, mi ci vorrà del tempo per scrollarmeli di dosso. Molto probabilmente non ci riuscirò mai del tutto. Sono stanchissima». «La giusta punizione, mi sembra, per chi mi aveva pronosticato un futuro da scudiero». La giovane lasciò che i suoi capelli affondassero nell'erba e scosse la testa in un gesto di languida lentezza. «Non sono stata io a volere una spada a fianco? Certo, se avessi potuto scegliere tra scherma e magia non avrei avuto dubbi. Ma non mi posso lamentare del mio istruttore, lo ammetto». «Le lezioni di scherma in cosa consistono esattamente?», fece Sethrian, e strappò un filo d'erba per usarlo come segnalibro. «Non nella scherma, se non in minima parte. Al momento sembra più importante che io impari a cadere e rialzarmi in fretta, a correre e saltare, il tutto possibilmente con la spada al fianco. Vengo allenata insomma nelle tattiche di fuga, e quando Jordan ha provato a spiegarmi le più elementari
parate ero troppo stanca anche solo per tenere un'arma in pugno». Sethrian guardò ancora una volta le pagine del libro, poi richiuse il volume per tornare a conservarlo in una delle sue sacche. «Comunque non invidio Gwyon», continuò a dire la giovane. «Il timore di Rhory di essere con me un istruttore troppo arrendevole pare del tutto infondato: il nostro gentile amico è un perfezionista, e di quelli della peggior specie, per quel che riguarda l'arte delle spade. Tuttavia sembra che Gwyon sia abbastanza disposto a lasciarsi tiranneggiare, e d'altronde in passato ha avuto maestri peggiori». I due rimasero in silenzio, mentre il vento sfiorava appena la superficie del prato, i rami e le foglie. Quasi senza accorgersene Aelin finì con l'assopirsi, ai raggi del sole che le illuminavano il viso. Nel dormiveglia le parve di udire il suono di formule pronunciate da Sethrian e Gwyon chini sui loro libri, mentre il rumore delle spade dei cavalieri, che continuavano a esercitarsi da soli, rimaneva un'eco lontana. Poi la giovane si sentì scuotere dal suo sonno, tornò ad aprire gli occhi, vide Sethrian chino su di lei. «Che succede?», domandò mentre l'altro la aiutava ad alzarsi. «Diciamo che abbiamo visite», rispose il mago, e le porse il mantello. La giovane fece qualche passo avanti; nell'avvallamento dove si era allenata qualche ora prima vide Rhory e Jordan alle prese con una creatura mostruosa. Si trattava di una specie di cespuglio spinoso, da cui fuoriuscivano otto liane grigiastre e munite di artigli. L'essere avanzava come una ruota dotata di tentacoli, con quattro liane sempre conficcate nel terreno e quattro che si agitavano nell'aria, libere di colpire. Non era una vista piacevole. I due cavalieri giravano intorno a quella specie di rovo malefico con le spade in pugno, mentre un liquido nero e denso, impossibile dire se sangue o linfa, colava dalle liane colpite dai loro fendenti. «Sarà un comitato di benvenuto organizzato in nostro onore?», domandò Sethrian spezzando l'innaturale silenzio che sovrastava ogni cosa, ma Aelin non aveva alcuna risposta da dargli. Poi Gwyon attirò con un grido i loro sguardi: un altro di quei mostri si muoveva ondeggiando fra gli alberi, e si faceva sempre più vicino. «Credo che tocchi a me intervenire», disse Sethrian chinandosi sui suoi bagagli alla ricerca di qualcosa. «Voi due non muovetevi, fate attenzione ai cavalli, e soprattutto a voi stessi». L'incantatore aveva trovato quello che stava cercando. Non perse altro
tempo per andare incontro allo strano essere, con passo cauto: per la verità sembrava più propenso a esaminare la creatura e il suo comportamento, piuttosto che cercare di distruggerla. Aelin si voltò: un terzo cespuglio spinoso era apparso, a pochi passi da lei e da Gwyon. L'aria si riempì d'improvviso d'un fumo acre e amaro, e la giovane non riuscì a urlare quando il rovo si avventò contro l'apprendista mago. Aelin vide le fiamme consumare la creatura che Sethrian stava affrontando; vide Gwyon crollare a terra con le vesti insanguinate. La fanciulla non pensò a estrarre la spada, ma solo a frapporsi tra il ragazzo caduto e quella specie di mostro arboreo. Le liane crudeli tornarono a scattare in avanti e, prima che potesse rendersene conto, gli artigli della belva si erano incastrati nel suo mantello verde. Lei era del tutto illesa. Con un sorriso truce, la giovane sguainò la lama di metallo del drago e prese a colpire i tentacoli che erano conficcati nel terreno. Ci vollero una dozzina di fendenti per riuscire a spezzarli, ma alla fine il rovo spinoso stramazzò a terra impotente. In quel momento Sethrian la raggiunse correndo, ma non fece domande, affrettandosi a soccorrere il ragazzo ferito. Aelin rimase immobile, osservando la creatura che continuava a dibattersi nella pozza del suo sangue nero. «Stai tenendo quella spada nel modo sbagliato», disse una voce alle sue spalle. Rhory e Jordan si trascinavano dietro il mostro che avevano sconfitto. Ma l'istruttore di Aelin non fece ulteriori commenti, quando vide Gwyon ferito. «Qual è il modo giusto?», domandò la giovane, evitando di guardare gli squarci grondanti di sangue nel corpo del ragazzo. L'altro glielo fece vedere, stringendo le dita attorno all'elsa della spada e alle sue mani: colpirono insieme il mostro che lei aveva abbattuto, privandolo dei suoi ultimi artigli. Recuperarono il mantello. Aelin cadde sulle sue ginocchia, e scoppiò in un pianto dirotto. V LA LEGGENDA DELLA SPADA VERDE Gwyon stava male, molto male. Sethrian diceva che se la sarebbe cavata, fu necessario però preparare una barella di fortuna per trasportarlo al villaggio più vicino. Quando i cinque giovani arrivarono all'ombra delle pri-
me casupole di pietra vennero accolti con urla di gioia. I corpi contorti dei mostri che erano stati caricati su una della bestie da soma erano la prova del loro ruolo di eroi e benefattori. In realtà quelle orribili creature infestavano la zona da tempo. L'incontro con i rovi e i loro artigli era stato del tutto casuale. Gwyon venne condotto alla locanda e a un caldo giaciglio. Sethrian disse che a quel punto potevano solo lasciarlo al suo sonno, ma Aelin volle rimanere accanto al giovane addormentato, con una pena angosciosa nel cuore che non riusciva ancora a esprimere. Le ore passavano lente nel buio della camera, scandite dal fioco respiro del ragazzo ferito. La terrestre si sforzava di non pensare a nulla. Poi Rhory venne a offrirsi di vegliare al suo posto: senza dir nulla, la giovane si lasciò condurre alla sala comune e lì, a un tavolo appartato, trovò ad attenderla un pasto caldo e la compagnia di Sethrian. «Ho sezionato ed esaminato uno di quei mostri», disse il mago. «Dubito che si tratti di piante, per quanto non somiglino a nessuna delle specie animali che io conosca. Ma volevo sentire il tuo parere al riguardo». La giovane tuttavia scosse la testa con fare assente. «Non credo che questi esseri siano pericolosi», continuò Sethrian. «Non più di tanto, in ogni caso. È vero: una comune lama non può scalfire facilmente la dura corteccia di cui sono rivestiti, ma le creature cespuglio vengono attirate dal calore, da quello dei corpi come da un fuoco acceso, e le fiamme li bruciano in fretta». «Dunque non volevi incendiare il tuo cespuglio. Stavi solo esaminando le sue reazioni». L'incantatore sorrise e le rispose con una scrollata di spalle. «Domani vedrò di ricucire il tuo mantello», aggiunse, «i fili metallici sono ancora intatti, ma lo stesso non si può dire del resto della stoffa. Jordan e Rhory invece progettano una battuta di caccia contro quelle bestiacce e Gwyon... Gwyon presto starà bene». La ragazza socchiuse gli occhi per un istante, poi spinse via con una mano il piatto che aveva davanti. «Dovrei bruciare il mio romanzo», disse, «se mai potrò tornare a casa. Perché tra le altre cose ho ricordato che maghi intenti a scodellare mostri improponibili sulle teste degli avversari c'erano già in un libro che ho letto in precedenza». «Se vuoi dar fuoco al tuo manoscritto, ti presto i fiammiferi: non desidero più di tanto che degli sconosciuti vengano informati dei miei pensieri e dei miei sentimenti. Eppure... ho il sospetto che ci sia qualcos'altro dietro
la tua repentina decisione». «La verità è che non sono i pericoli di plagio a preoccuparmi, adesso». «Stai pensando a Gwyon», comprese Stehrian. «Ma non puoi attribuirti la responsabilità di ogni minimo incidente di percorso, e poi se non ci fossi stata tu con il tuo mantello...». «Se non ci fossi stata io, Gwyon adesso non sarebbe più un apprendista alle prime armi, la vista della torre di Lilài gli avrebbe già restituito tutte le sue conoscenze. E ora lui non sarebbe ferito». «La decisione di non portare Gwyon alla città dei maghi è stata principalmente mia se non erro. E né tu né io potevamo prevedere le conseguenze». «È diverso», mormorò la giovane, e non volle dir altro. «Diverso perché nella tua favola di carta nessuno si faceva male e tutti alla fine vivevano felici e contenti?», chiese Sethrian, socchiudendo gli occhi. «Non credo più nel lieto fine delle fiabe, preferisco le conclusioni di compromesso, in genere. Però non uccido i miei personaggi, specie quelli principali». «Ma questo non è un tuo romanzo», disse l'altro in tono duro, «noi non siamo tuoi personaggi, e se continuerai a ripeterlo credo che finiremo col litigare». Ma quando ti fa comodo il mio parere lo chiedi eccome, pensò la giovane. «Forse è proprio questo che mi angoscia», sospirò. «Scrivevo per crearmi un mio mondo, minuscoli mondi come le perle di vetro di una collana, e ritagliarmi un mio rifugio dalla vita reale. Adesso invece non sono più in grado di dominare gli eventi, e questa è la vita reale». «Anch'io a volte rimpiango il mio castello in miniatura», ammise il mago. Aelin annuì, e sollevò il capo per osservare i riflessi guizzanti delle lampade. Era trascorsa una settimana dal primo attacco dei mostri. Gwyon poteva dirsi ormai fuori pericolo, ma non era ancora il momento di ripartire. Rhory e Jordan, armati di torce, continuavano la loro caccia ai rovi malefici, con grande sollievo del villaggio che li ospitava e di quelli vicini. A fine giornata Sethrian segnava su una pergamena la mappa degli scontri tra mostri e cavalieri, nel tentativo di stabilire se quelle strane creature si muovessero da una zona comune. Il mago in verità era ben lontano dal riu-
scire nel suo intento, eppure continuava a ripetere a se stesso e agli altri che era solo questione di tempo. Aelin dal canto suo si era ritrovata a passare la maggior parte del tempo nella cucina della locanda. «Credevo volessi diventare una specie di donna guerriera», la prendeva in giro Jordan, «e che le occupazioni femminili avessero solo il tuo disprezzo». «Se sapessi cucire ti assicuro che mi piacerebbe farlo, e ti sfido a trovarmi una sola persona che provi diletto nel lavare i pavimenti», rispondeva lei. Senza contare che gli insegnamenti di cucina, aggiungeva fra sé, potranno tornarmi utili anche a casa, nel mio mondo, a differenza di tutte le lezioni con la spada. Anche la scherma era comunque destinata a riprendere presto. Incoraggiati dai facili successi ottenuti dai cavalieri, i giovani della vallata iniziavano a unirsi alle spedizioni punitive contro i rovi semoventi, permettendo così a Rhory e Jordan di restare a turno alla locanda. Gwyon era ancora troppo debole per prendere un'arma in mano, ma Aelin era tutta un'altra faccenda. Rhory in particolare non faceva che profondersi in interminabili scuse per aver dubitato della necessità per la giovane di impugnare una spada. E lodava il coraggio mostrato dalla fanciulla di fronte all'orribile creatura che aveva ferito Gwyon. La terrestre sapeva di essersi comportata da idiota, era rimasta immobile, quasi paralizzata dalla paura, e se non fosse stato per quel mantello che Sethrian le aveva fatto prontamente indossare... Ma i tentativi di schermirsi della giovane non facevano che dar forza alla nuova fiducia di Rhory nelle capacità della futura spadaccina. «Inizio a credere che tu abbia una considerazione davvero bassa del cosiddetto gentil sesso», lo accusò lei, «se quel poco che ho fatto è bastato a capovolgere la tua opinione riguardo gli addestramenti». «Anche se non vengono ammesse nell'ordine dei cavalieri del Signore del Tempo, le donne guerriere esistono da secoli, nel regno di Levant... come altrove. E se ci sono delle innegabili differenze tra un uomo e una donna, esistono pure diversi modi di combattere. Ma nessuno può svegliarsi un mattino e decidere di diventare un guerriero, e tu fino a tre o quattro mesi fa nemmeno sapevi andare al trotto senza cadere da cavallo!». «Dunque in realtà tu non hai nulla contro le donne guerriere», fece Aelin con un sorriso velato d'ironia. «Diciamo che i cavalieri guardano con una punta di sospetto tutti i combattenti che cavalieri non sono», rispose il ragazzo.
Aelin aveva una gran voglia di chiedere all'altro se era disposto a sottoscrivere una petizione contro la regola che impediva alle donne di ricevere l'investitura, ma alla fine scelse di soprassedere. «E adesso invece credi che io possa diventare una guerriera?», domandò invece. «Credo che tu abbia il diritto di provarci». Ma ai diritti corrispondono i doveri, e il dovere per Aelin erano le lunghe ore d'addestramento. L'avversione della giovane per l'attività fisica non accennava a scemare, e tuttavia quei rammendi quasi invisibili nel suo mantello erano per lei un grave monito. Non era un sogno, non era una favola, quella, e rischiava di lasciarci la pelle. Persino in una spedizione tranquilla, come era stata definita la marcia verso Aquilon. Così la giovane non cessava di impegnarsi. Però si lamentava, si lamentava a ogni piè sospinto, per la fatica. E si lamentava per sfogarsi, ma soprattutto perché sapeva che nel momento in cui avesse smesso di farlo i suoi istruttori avrebbero immancabilmente rincarato la dose. «Avresti potuto senza alcuno sforzo ricevere il trattamento di una fragile bambola di porcellana, eppure non lo hai fatto», le disse Sethrian. «E io sto iniziando a chiedermene il motivo. D'altronde chi sa perché non ti ci vedo nelle vesti di guerriera di professione». «Forse il mio è soltanto un gioco, in fondo». «I nostri cavalieri non approverebbero una simile affermazione, temo». «Me ne rendo conto. Ma sullo scaffale di una libreria io tenevo in camera una spada priva di filo, di puro acciaio di Toledo. Se fossero state due io e mio padre ci saremmo messi a duellare, la mamma però proprio non voleva, aveva paura che ci cavassimo un occhio. Era un gioco allora, e lo era anche quando ti ho chiesto che venisse forgiata questa spada. Adesso, non ne sono sicura». «Immagino che lo scoprirai cammin facendo». «Era quello che temevo». Catturare vivo uno di quei cespugli spinosi fu abbastanza facile, e proprio il mantello di Aelin suggerì quale fosse la via da seguire. Sethrian fece preparare dal fabbro del villaggio una fitta rete di rame, e Rhory e Jordan la deposero su di un letto di braci ormai spente. Il tepore del carbone e della cenere finì con l'attirare uno dei mostri, la rete servì a intrappolarlo. L'incantatore avrebbe voluto inviare la creatura a Lilài ancora viva, ma il rovo dopo un paio d'ore si era accasciato su se stesso e, a dispetto di tutti i
tentativi del mago, al tramonto aveva definitivamente tirato le cuoia. O almeno così sembrava. Ne sapevano troppo poco su quel mostro per non temere una resurrezione improvvisa. «Continuo a non capire il modo di fare di queste creature, ne sono spaventato», mormorò Rhory. «Il loro comportamento di sicuro è del tutto logico nel luogo da cui provengono», osservò Aelin. «Non dirmi che compatisci persino quei cosi!», esclamò Sethrian scuotendo la testa. «No, non lo faccio. Tuttavia mi riuscirebbe assai più facile compatire loro che il nostro nemico». «Io spero solo che non ci venga offerta la possibilità di visitare il luogo d'origine di quelle creature», disse Jordan. «Il pericolo non c'è», lo rassicurò Sethrian, «l'apertura dimensionale non l'ho trovata, quindi...». «Ma questa apertura deve davvero essere necessariamente fissa?», gli domandò Rhory. «Se si muovesse qua e là allora tutte le coordinate degli avvistamenti diventerebbero inutili». «Ignoro quasi completamente la magia dei varchi, ma mi vien da pensare che sarebbe una fatica iniqua farli saltare avanti e indietro come fossero rane. Non ho raccolto abbastanza dati, ecco tutto. Alla fine spedirò i miei appunti a Lilài, sperando che la Congrega voglia mandare qualcun altro a investigare». «Oltretutto non credo sia un bene continuare a decimare i rovi spinosi», aggiunse Aelin, «il mago cattivo, Isengrin, potrebbe decidere di inviare su queste terre qualche creatura più sgradevole». «È così», ammise Sethrian. «E dovremo dirlo anche agli abitanti dei villaggi. Poi potremo davvero partire». Le piante semoventi erano sparse per tutto il sud-est di Aquilon. Forse il loro era davvero un varco mobile, o forse i varchi erano più d'uno. Questo non era possibile dirlo. Né, a quanto sembrava, tutte quelle creature rappresentavano un pericolo per l'uomo. C'era una specie fatta di liane rossastre che si avvolgevano attorno al tronco di un albero o a qualche masso tondeggiante per non più muoversi. C'era l'arbusto che Aelin aveva battezzato Chioma di fanciulla, poiché spandeva tutt'intorno un rifulgente tappeto di fili d'oro, e lasciava passare gli esseri umani senza far loro danno, ma si protendeva saettando
verso i cespugli zannuti, per catturarli. Altri esseri erano ancor più spiacevoli dei rovi spinosi che per primi i viaggiatori avevano incontrato. Una cosa però accomunava i bizzarri esemplari della selva vagante, ed era la fragile caducità. Quelle creature aliene vivevano giorni, vivevano ore, e poi appassivano, morivano, cadevano esanimi. Tutto lasciava pensare che il cambiamento di universo avesse danneggiato più le piante mostruose che non altri, in definitiva. I giorni passavano, e la piccola comitiva proseguiva verso nord con un percorso irregolare. Non era sembrato prudente avanzare in linea retta quando la fama di sconfiggi mostri aveva cominciato a precederli. Una simile reputazione aveva molti lati positivi, ma poteva anche indurre il nemico a interessarsi troppo a quei suoi avversari. Un cammino prevedibile rischiava di diventare un invito rivolto a insidie e imboscate. E tutti si sentivano disposti a fare a meno di simili intrattenimenti. Ilcielo era limpido tra le bianche pareti di una gola che chiudeva l'orizzonte. Oltre la gola si apriva una valle verdeggiante, e al confine della valle sorgeva una minuscola locanda. Lì Aelin e compagni vennero a sapere che non c'erano tracce di mostri o qualsivoglia stranezza nelle terre circostanti, e quella si preannunciava come una tappa tranquilla. «Ho una fame da lupi!», esclamò la giovane gettandosi sulla panca dell'osteria. Aveva appena terminato gli allenamenti ed era davvero affamata e stanca. Quasi sbatté contro uno dei piedi del tavolo mentre si sedeva. «Mangerai tutto quello che vuoi», intervenne Jordan raggiungendola, «ma dopo che avrai ripulito la tua spada». La lama in effetti era sporca di resina: la ragazza aveva la pessima abitudine di prender male la mira e colpire gli sventurati alberi che le capitavano a tiro. Aelin sguainò la spada, e il metallo verde catturò i riflessi del fuoco nel camino, tramutandoli in un brillio stregato. Una delle cameriere quasi lasciò cadere i boccali che stava portando. Gli occhi di tutti erano fissi sulla spada, poi molti distolsero lo sguardo, come sforzandosi di guardare altrove. «Che cosa succede?», mormorò Aelin poggiando l'arma con cautela sul tavolo. In quel momento si avvicinò l'oste: «Il piatto del giorno è lo stufato», annunciò, «viene tre monete di rame a porzione. I consigli invece sono gratuiti: devo avvertirvi che una spada di tal sorta non sarà la benvenuta, per chi conosce le miserie di questa terra».
I cinque giovani non cessavano di fissarlo perplessi, e Sethrian chiese all'altro di continuare. Non fu l'oste a rispondere, ma uno dei commensali. Pareva che ciascuno fosse ansioso di aggiungere un nuovo particolare, adesso che il silenzio era stato rotto. «La spada verde è comparsa per la prima volta cinque secoli fa, in una grotta lungo le sponde del nostro fiume». «Fu un giovane nobile a trovarla. A quel tempo c'erano sette castelli nella vallata, e sette famiglie di sangue blu». «Il ragazzo, Etzel», continuò un altro degli uomini, «era stato guidato verso il fiume da un sogno, che gli prometteva una lama incantata e un potere immenso». «Così fu. Quattro castelli bruciarono nel giro di pochi mesi per mano del giovane condottiero, i tre rimanenti vennero risparmiati solo perché giurarono in cambio fedeltà e sottomissione». «Il possessore della spada verde sembrava invincibile, e tutti erano convinti che il merito fosse della lama che portava al fianco». «Una lama forgiata dal maligno!». «Un semplice pezzo di ferro dallo strano colore». «I discendenti di Etzel affermano che è stato Iddio in persona a porgere la spada alle mani del loro avo». «Né è possibile provare a negarlo in loro presenza, se non si vuole andare incontro a qualche spiacevole inconveniente». «Cosa accadde al giovane nobile?», domandò Rhory. «Etzel combatté per sé e combatté per il re di Aquilon, guadagnandosi, grazie ai suoi servigi, il titolo di duca». «Un titolo che aveva la consistenza dell'aria, in verità: questa valle fu il suo ducato, e lui l'aveva già conquistata con le proprie forze». «Il duca, ormai non più giovane, fece costruire un alto castello a picco sul fiume, ponendo le fondamenta della costruzione sopra quella stretta spelonca in cui aveva rinvenuto la spada». «Il duca Etzel morì pochi giorni dopo che venne poggiata l'ultima pietra del suo superbo palazzo, come per una maledizione». «Ma era vecchio», ribatté qualcuno, «e se maledizione ci fu, ricadde sui suoi eredi. Volete sentire il resto?». Rorhy e gli altri annuirono. I due figli del duca non si erano fatti troppi problemi nel dividersi le terre del padre, e si erano accordati per tirare a sorte il suo titolo. Tra i due
fratelli tuttavia era scoppiata una lite furibonda per il possesso della lama incantata, e la contesa si era risolta con l'uso delle armi. Morirono entrambi. Il sorteggio non ebbe mai luogo. La spada rimase nelle mani dell'erede quindicenne di uno dei due, mentre la sposa dell'altro contendente si ritirava con il figlio in fasce nelle terre a occidente del fiume. «Seguirono degli anni di pace», continuò l'uomo che aveva parlato per ultimo. «Ma di una pace cupa e dolorosa, che aleggiava come un fantasma sulle macerie di una terra distrutta». Come parla bene la gente di questa valle, si ritrovò a pensare Aelin, e non era la prima volta in quella serata. Fossi stata io a farli esprimere in una simile maniera, rifletté, mi sarebbe rimasto il dubbio di aver adoperato il registro linguistico meno adeguato a dei semplici popolani. D'altronde non era difficile capirlo: i cosiddetti popolani stavano attingendo largamente a qualche opera d'epica locale incentrata su quegli eventi e che era nota a quasi tutti i commensali. «Erisen mandò a chiamare il cugino più giovane nel giorno della sua maggiore età», ricominciò qualcuno, da un tavolo distante. «Gli propose di scegliere tra la spada e il titolo di duca, perché venisse così completata la divisione che i padri avevano lasciato interrotta». «Il ragazzo strinse la mano di Erisen», gli fece eco un altro degli ospiti della locanda. «Sembrava che l'accordo fosse ormai compiuto, mentre un castello identico a quello del duca veniva innalzato sull'altra sponda del fiume». «Ma poi la sposa di Erisen, Isabel dai lunghi capelli, si innamorò follemente del fanciullo che dimorava sull'opposta riva. E lo sedusse». Altri sostenevano che fosse stato il fanciullo in realtà a insidiare la donna, poiché dietro il suo volto sorridente nutriva un nero odio per la morte del padre. Il risultato però rimaneva immutato: la sposa di Erisen era fuggita verso il secondo castello portando con sé la spada lucente. Neanche a dirlo, le trattative andarono a farsi benedire, e sembrava fosse destino che la contesa non dovesse aver fine. Le due famiglie rivali continuarono a fronteggiarsi, anno dopo anno, generazione dopo generazione, in un fitto groviglio di duelli e tradimenti, scaramucce di confine e tentativi d'accordo, talora con qualche matrimonio combinato che finiva solo con l'acuire le inimicizie tra i due castelli. Aelin ascoltava la lenta cantilena del racconto corale infittirsi sempre più di nomi che si ripetevano sempre uguali, simbolo esteriore di quel cerchio di discordia che sembrava non si potesse spezzare. Alla fine si assopì, la
testa reclinata sul tavolo. Fu Rhory a svegliarla, sfiorandole appena i capelli castani. La giovane si guardò intorno: la sala comune era ormai quasi vuota, la fiamma rossastra nel camino sul punto di spegnersi. «Andiamo», disse allora Sethrian, «ritengo sia opportuna una riunione al chiaro di luna, lontano da occhi indiscreti. E faremo bene a non lasciare in giro il verde delle nostre spade». I cinque ragazzi si alzarono in silenzio. Tornando a riporre la sua lama nel fodero, Aelin si accorse che qualcuno l'aveva lucidata al suo posto. La luna e le ombre si contendevano il cielo, quella notte come molte altre notti, e tingevano la landa di nero e argento. Ma non era il momento di starsene a fissare quello spettacolo, anche se Aelin era il tipo di persona capace di stare ore e ore con il naso all'insù, verso i disegni delle nubi. «Una spada maledetta, una spada incantata», disse Sethrian in quel momento, «oppure un semplice pezzo di ferro dipinto. Confesso che non mi spiacerebbe sapere come stanno le cose in realtà». «Io credevo che il metallo del drago fosse refrattario alla magia», obbiettò Jordan, «quindi come può una spada simile alle nostre essere stregata?». Sethrian scosse la testa, e si volse verso il suo apprendista, come per chiedergli di ripetere una lezione già mandata a memoria. «Le scaglie di drago respingono la magia e il calore», spiegò Gwyon, «ma il metallo verde ha una diversa struttura e fa tutto il contrario, assorbe l'energia e poi la disperde, a meno che un incantatore particolarmente abile non riesca a intrappolarla al suo interno». «Tu ne saresti capace?», domandò Rhory a Sethrian. Questi scrollò le spalle: «Ne dubito fortemente», disse, «né credo di conoscere qualcuno che sia in grado di fare tanto». «Però non lo ritieni impossibile», osservò Jordan, «e io non ho ancora capito come possano le scaglie e il metallo del drago avere delle caratteristiche diametralmente opposte». La risposta stava in una differente struttura molecolare, questo Aelin lo sapeva, ma aveva la netta sensazione che parlare della disposizione di atomi ed elettroni a un cavaliere non avrebbe sortito altro effetto che accrescere la sua confusione. Oltretutto l'argomento non la entusiasmava troppo, dal momento che lei nemmeno riusciva a immaginare quale formula chimica potesse avere il metallo del drago. Sethrian frattanto aveva tirato fuori il paragone del ferro e dell'acciaio temprato, per mostrare ai cavalieri come le differenze di temperatura po-
tessero modificare le proprietà di una sostanza. Forse era una spiegazione un po' approssimativa, ma sembrava che i cavalieri fossero soddisfatti. «Dobbiamo indagare su questa misteriosa spada di leggenda», disse Rhory, «se ciò non mette a rischio l'incarico che ci è stato affidato». «Sì, la penso anch'io così», ammise il mago. «E ora vorrei conoscere il parere della nostra indovina, al riguardo». Aelin scosse la testa: «Non ho alcuna visione da offrirti, Sethrian. Se questo fosse un romanzo nessuno scrittore avrebbe dedicato tanto tempo alla leggenda della spada verde per poi far tirar dritto i suoi eroi come se niente fosse. Anche se qualcuno potrebbe trovare originale l'idea di sguinzagliare i suoi personaggi alla conquista di un inutile pezzo di ferro dipinto». «Se i personaggi dovessero mettere le mani su un simile scrittore», rispose il mago sogghignando, «troverebbero assai originale l'idea di sculacciarlo, credo». Sethrian e Aelin si scambiarono un sorriso carico di quell'ironia tesa e nervosa che correva tra loro. Rhory chiese sottovoce a Jordan se lui avesse capito qualcosa di quegli strani discorsi, ma l'altro non fece a tempo a rispondere. «Forse la spada del duca potrebbe rivelarsi più importante di quanto non sembri», mormorò Gwyon come se stesse parlando con se stesso. «Il nostro nemico ha disseminato mostri in tutte le regioni circostanti, e il suo primo scopo è far crescere terrore e paura. Qui non l'ha fatto perché non ne aveva bisogno, e lo sapeva». Infatti nella valle era entrata la discordia, e vi faceva dimora. Non era un'ipotesi così inverosimile, si disse Aelin, e forse non era un caso che a pronunciarla fosse stato colui che, senza saperlo, portava nella mente il marchio di Isengrin. Ma in fin dei conti era pur sempre un'ipotesi, e nulla più. I viaggiatori decisero di recarsi a visitare i due castelli sul fiume, ma non prima di avere nascosto sotto una roccia le loro compromettenti lame verdi, mentre Sethrian proteggeva il macigno con una dozzina dei suoi incantesimi. La comitiva si sarebbe divisa in due gruppi: Rhory e Gwyon, un cavaliere errante con il suo scudiero, si sarebbero diretti verso il castello occidente. Jordan invece, in compagnia di una sorella appena acquisita, avrebbe chiesto ospitalità dall'altra parte del fiume. Se la situazione era anche solo lontanamente simile a quella descritta
dagli uomini della locanda, non sarebbe stato difficile per dei combattenti ricevere alloggio e protezione dai signori del luogo, per il tempo di una stagione, in cambio dei loro servigi. «Ma così non rischiamo», protestò Gwyon, «di finire impantanati in qualche guerrucola, e per di più schierandoci su campi avversari?». «È un modo come un altro per passare il tempo... in attesa dell'inverno», rispose Sethrian. «E poi non dimenticare: se le cose dovessero mettersi al peggio abbiamo con noi un vero e proprio carico di sigilli». Nelle loro bisacce da viaggio c'erano missive ufficiali provenienti da Vultur, Auster, Aquilon e Lilài: tutte insieme conferivano una certa autorità al gruppetto. «Mi chiedo se saresti così tranquillo», disse però Gwyon, «se invece di indossare i panni del mago girovago dovessi anche tu, seppur formalmente, schierarti con uno dei due signori». Ilmago sorrise, e non gli diede risposta. I castelli si fronteggiavano dalle due opposte rive, e l'uno era l'immagine speculare dell'altro. Il basamento delle torri più alte era lambito dalla pigra corrente, e le due torri si alzavano verso il cielo, nascondendo nella loro ombra il tratto del fiume su cui si affacciavano. Le pietre dei due edifici erano verdi di muschio, i castelli degli eredi del duca sembravano studiarsi in un cupo silenzio. Tuttavia la sensazione opprimente che Aelin aveva percepito fissando le fortezze gemelle parve svanire man mano che lei e Jordan si avvicinavano alla meta. Il castello cessava di essere un simbolo per trasformarsi in una costruzione piena di vita, e di gente intenta al proprio lavoro. Il cortile della fortezza ferveva di preparativi: il signore del luogo aveva promesso in sposa la sorella minore all'erede del castello di fronte, e il fidanzamento ufficiale sarebbe stato tra due settimane, per il solstizio d'estate. Era l'ennesimo matrimonio combinato per porre fine alla rivalità tra le due famiglie. Alla locanda i giovani avevano sentito parlare anche di questo. Il ciambellano che giunse ad accogliere il cavaliere e la scrittrice però non volle neppure accennare alla faida che gravava sui due castelli, come se gli odi e le vendette non fossero mai esistiti. Quanto a Jordan, non ebbe nemmeno bisogno di chiedere per ottenere un ingaggio, anche se il ciambellano non parve esattamente interessato alla
sua abilità con la spada. D'altronde, che motivo ne aveva, quando la valle era in pace e tutto era tranquillo? «Uno dei nostri si è fratturato il ginocchio un paio di giorni fa», spiegò, «e ci mancava proprio un uomo per completare la formazione da parata che dovrà accogliere il futuro sposo e il suo seguito». «Ho promesso al re di Aquilon di recarmi al suo cospetto per i primi d'autunno e non intendo farlo aspettare», rispose Jordan mostrandosi assai meno entusiasta di quanto non lo fosse realmente. «Però non sarebbe corretto da parte mia e di mia sorella presentarci a corte con un eccessivo anticipo, così sarò lieto di offrire i miei servigi al vostro signore, anche se per breve tempo». Aelin non ebbe modo di seguire il resto della discussione: il ciambellano, come se si fosse accorto in quel momento della presenza della fanciulla, ordinò a una delle fantesche intente a stendere i panni in cortile di provvedere affinché la giovane potesse rinfrescarsi, e di guidarla poi sino alla sala delle donne. Aelin si lasciò condurre senza dire una parola, e giunsero fino a una grande stanza ricoperta da un lucernario semiopaco. Acqua calda sgorgava da una fonte di forma semicircolare e si riversava in otto vasche rettangolari dagli alti bordi di pietra, simili ad antichi lavatoi, disposte a quattro a quattro in due file parallele. Il fondo e le pareti della vasca in cui la scrittrice si ritrovò a lavarsi erano scivolosi di muschio, ma in fin dei conti la cosa non le dava così fastidio; le ricordavano le gebbie di cui i suoi genitori le avevano parlato un tempo. Lei l'aveva persino vista una gebbia, un bacino di pietra gialla che conteneva dell'acqua di un verde profondo, acqua preziosa in una campagna dove l'estate era secca e torrida. Ma se l'acqua fredda delle gebbie era stata un invito allettante per molti ragazzini che non si curavano dei divieti degli adulti e del fondo viscido e insidioso, la giovane di nome Aelin apparteneva a una generazione differente, che conosceva piscine e vasche da bagno. La ragazza scosse d'improvviso la testa, accorgendosi della nostalgia che aveva avvolto i suoi pensieri. Cercava di non pensare a casa, e per la maggior parte del tempo ci riusciva. Ma bastava un particolare stupido come una vasca dalle pareti di pietra e il rimpianto per quello che si era lasciato alle spalle la colpiva come un pugnale. La giovane chiuse gli occhi, immergendosi di più nella vasca. Presto avrebbe dovuto uscir fuori e indossare un abito più consono a una fanciulla
di quello strano completo che usava per cavalcare e poi... e poi la recita avrebbe avuto inizio. VI VISIONE NOTTURNA Nelle stanze delle donne le pareti erano ricoperte di arazzi dai colori vivaci, che mostravano nell'intreccio fitto dei fili scene di caccia o di corteggiamenti. Le giovani dame, vestite di chiaro, sedevano in cerchio e parlottavano, mentre le loro agili dita davano gli ultimi punti ai capi del corredo per la nuova sposa. La terrestre dapprima rimase sulla soglia, poi una delle donne le fece cenno di venire avanti. «Tu sei Aelin, non è vero? Siamo state avvertite del tuo arrivo». La giovane mormorò qualche breve frase di circostanza, mentre la sua interlocutrice levava appena la testa, come per farle coraggio. Quasi senza accorgersene, Aelin si ritrovò a sedere accanto alla nobildonna, e l'altra continuava a sorriderle, con quel sorriso tranquillo che infondeva al suo volto una pacata dolcezza, ammorbidendo i tratti forse un po' troppo severi degli zigomi e del naso. «Il mio nome è Viviana, potrai rivolgerti a me per qualsiasi cosa tu abbia bisogno». Nel dire questo sollevò una mano, portandola verso il fermaglio che tratteneva a stento i lunghi capelli biondo scuro. Dalle chiacchiere delle damigelle, Aelin venne presto a sapere che Viviana era la moglie del padrone del castello, e la sua serena fermezza era degna di una regina. Poi la terrestre si ritrovò in mano un panno di stoffa bianca, e qualcuno le porse un canestro pieno di rocchetti dai più diversi colori. Lei si fece rossa in volto: «Io non so cucire, né filare o tessere». Le presenti la guardarono con occhi sorpresi, ma Aelin e i suoi amici avevano messo a punto un'elaborata menzogna per spiegare quella strana mancanza. Sua madre era morta pochi giorni dopo averla messa al mondo, spiegò Aelin, e lei aveva trascorso l'infanzia attaccata alle gonne di una vecchia nutrice che aveva più bisogno di cure della bambina affidatale. Le giovani dame intente a ricamare si lasciarono sfuggire parecchi sospiri al pensiero della sua infanzia solitaria in una torre che era quasi un eremo e dell'adolescenza ancora più triste, a causa della partenza del suo caro fratello, che si era recato ad Auster per ricevere l'addestramento di cavaliere. Gli occhi delle fanciulle si riempirono di tristezza quando Aelin accennò
alla morte del padre, alcune scoppiarono addirittura in lacrime quando descrisse la scena del ritorno di Jordan, che veniva a prenderla, per portarla via con sé. «Dunque siete diretti verso Aquilon», disse Viviana, con un sorriso benevolo. La terrestre si lasciò sfuggire un sospiro. Fino all'ultimo non era stata certa che la sua storia fosse convincente. «Jordan dice che siamo stati invitati», rispose, «ma io non ne so molto di più, ed è tutto così nuovo per me». Non aveva bisogno di simulare la propria timidezza o di mostrarsi spaesata, erano cose che le riuscivano del tutto naturali. «Io sono stata nella capitale, ed è molto bella», disse la castellana. «Bella davvero. Spero di tornarci un giorno... quando non avrò tante cose di cui occuparmi». «Capisco», rispose Aelin. «Organizzare un matrimonio non deve essere un impegno da poco». «È così infatti, e il tuo aiuto ci sarà comunque prezioso». Se la giovane aveva sperato di ottenere qualcosa con quell'accenno alle nozze, non venne delusa. Molte delle ragazze divennero improvvisamente inquiete, e rivolsero uno sguardo verso una porta in ombra, appena accostata. «Nella peggiore delle ipotesi potresti raccogliere in gomitoli la lana nella cesta», continuò Viviana, «è sempre un modo per tenere occupate le mani. E ti prometto che non appena avremo un po' di tempo libero ti insegnerò io a tessere». «Ti ringrazio», disse la giovane, che pure aveva una considerazione assai scarsa delle proprie possibilità di riuscita. «Non c'è di che», rispose l'altra, ma poi si guardò intorno, e batté un paio di volte il piede per terra: «Adesso basta con questi musi lunghi!», esclamò. «Voglio vedervi sorridere, poiché non c'è ornamento più bello per il volto di una fanciulla». «Ho forse detto qualcosa di male, prima?», mormorò Aelin, in tono apparentemente ingenuo. «Non è nulla, davvero», la rassicurò Viviana. «Ma è da tanto che lavoriamo a questo corredo, e a tratti quasi dimentichiamo per quale scopo venga preparato. I matrimoni sono un'occasione di gioia, però comportano anche delle separazioni». La terrestre non disse nulla, ma le parve di sentire un suono sordo, e la
porta in ombra scricchiolò misteriosamente. «A ogni modo non mi sembra il caso di lasciarsi prendere dalla commozione», tornò a dire Viviana, «specie se consideriamo che Flora, la sorella di mio marito, la sposa... tu non l'hai ancora vista, oggi non si sente bene... Flora, dicevo, andrà a vivere soltanto dall'altra parte del fiume». Aelin continuò a non fare commenti, ed ebbe la netta sensazione che la malattia della promessa sposa fosse stata inventata lì su due piedi. «Credo che comincerò ad arrotolare quei gomitoli, o se preferite, potrei leggere per voi». Con un cenno del capo la terrestre indico un volume posato in un angolo. «Io me la cavo bene con i libri, forse perché sono stati la mia principale compagnia da quando Jordan è partito». Vi furono ancora sospiri per la sorte sventurata della giovane, ma Viviana non sembrò farvi caso, e il suo sorriso si fece ancora più largo. «Vuoi leggere per noi? Devo confessarti che è una splendida idea. Di solito è Flora a farlo, oppure io, ma lei è stanca, e io davvero troppo occupata». Così Aelin si ritrovò a recitare poesie d'amore. Il volume che le fu dato doveva essere l'unico o quasi al castello, e la ragazza non capiva poi troppo di quel che leggeva: da un lato prestava più attenzione al ritmo dei sonetti che al senso delle parole, dall'altro le poesie erano intessute di fitti richiami a un codice letterario a lei ignoto. La porta in ombra si aprì cigolando lentamente sui cardini; comparve una figura di donna, immobile sul limitare della soglia. Il volto della nuova venuta era un ovale perfetto, circondato dalle onde dei capelli corvini che le scendevano quasi fino alla vita. Nel candore del viso gli occhi erano fiamme color grigio argento; la donna stringeva tra le dita le verdi pieghe del suo abito di broccato, e ancora non parlava. «Perché esaltare l'amore perfetto quando quest'amore quasi non esiste?», mormorò infine. «Quelle poesie mi danno troppo dolore, vorrei non averle mai lette». «Io non credo che tu lo pensi davvero», le rispose Viviana, dolcemente. Ma l'altra scosse la testa e si voltò verso le vetrate delle finestre, e il fiume che scorreva sotto di esse. «Sono stanca», disse, «stanca delle belle menzogne che amiamo raccontarci, stanca delle inutili ipocrisie che non ingannano nessuno. La nostra ospite non tarderà a scoprire la reale natura del mio male, Viviana, e forse lei potrebbe trarre insegnamento dalla mia storia, lei che parla tanto di quel suo fratello adorato. Perché il mio, di fratello, mi ha venduta come se fossi
una giumenta di razza». «Flora!». «È così, Viviana, non c'è bisogno che sia io a dirtelo. Conosci il mio fidanzato, la sua vacua arroganza, l'inclinazione per le serve dai seni prosperosi, i figli bastardi che va seminando per le campagne. E anche tuo marito lo sa...». La giovane si interruppe: Viviana aveva chiuso gli occhi, stringeva la mano sinistra con un'espressione di dolore. «Ecco l'unico risultato del tuo sfogo d'ira», disse poi la donna in tono calmo, mostrando all'altra le dita sporche di sangue, «la forbice mi è scivolata di mano». «Il taglio non sembra profondo», osservò una delle damigelle. Flora fissava la cognata in silenzio. «Non è profondo, quasi non fa male», disse Viviana. «Però ho macchiato la stoffa, e nessuna sposa dovrebbe avere nel suo corredo un ricamo sporco di sangue». La terrestre piegò un po' il capo: dalle sue parti si diceva addirittura che una cosa così portasse sventura. Non che lei credesse a simili superstizioni, beninteso. «Credo che farò vedere la ferita al mastro erborista», aggiunse ancora la castellana. «E tu Aelin, vorresti accompagnarmi? Te ne sarei grata». Viviana frattanto si era levata in piedi, e stringeva nella mano sana il suo ricamo. La giovane scrittrice poté solo annuire, e alzarsi a sua volta. Era ovvio, l'altra adesso voleva solo allontanare la sua ospite dalla camera, e dare alla bella Flora il tempo di calmarsi. «Mi dispiace davvero che tu abbia dovuto assistere a una scena così poco... decorosa», disse Viviana quando ebbero lasciato la stanza della tessitura. «In fin dei conti Flora non ha detto nulla che non sia vero, ma mia sorella sembra del tutto incapace di vedere i lati positivi della situazione. Adesso però credo di averti angustiato abbastanza con le nostre piccole crisi. Forse dovremmo scegliere un argomento di conversazione più allegro». Ma se Aelin si trovava in quel luogo era per far luce sul mistero della spada verde, e qualsiasi informazione sui castelli rivali avrebbe potuto rivelarsi un indizio prezioso. «Raccontami il più possibile, invece», chiese a Viviana, seria, «perché non vorrei dire le parole sbagliate al momento sbagliato, e solo conoscendo qual è la situazione potrò evitarlo». «Sei saggia, e le tue frasi lo dimostrano, ma io non ho molto da aggiun-
gere: il cugino di Flora è un uomo attraente, ed è l'erede di tutte le terre al di là del fiume. Eppure, sino a ora non ha mostrato altre doti. Flora lo detesta. Le ho ricordato molte volte che grazie a queste nozze diventerà signora di un castello, e che non io sarò mai tanto lontana da non poterle offrire i miei consigli. Senza contare che conoscere le debolezze del proprio marito può essere estremamente utile, se si ha l'accortezza di non rinfacciargliele in un momento d'ira. Flora non vuol sentir ragioni, continua a vagare per le sale come l'anima di un condannato, sembra non rendersi conto che la cerimonia di fidanzamento non è che una promessa di matrimonio, che può essere sciolta in qualsiasi momento. E forse potrò convincere mio marito che esistono delle alternative, se...». Viviana si interruppe con un sorriso di scusa: non avrebbe aggiunto altro. Disse che erano quasi arrivate allo studio dell'erborista, e Aelin annuì appena. «Se lo desideri posso portare il tuo lavoro al lavatoio, prima che la macchia si asciughi», si offrì. La donna si voltò a guardarla. Aelin ebbe per un attimo il sospetto di aver detto la cosa sbagliata, e che non fosse decoroso per una dama pensare di poter passeggiare per le sale del castello tutta sola. Ma poi Viviana sorrise e le disse che era un'ottima idea, se lei ricordava la strada. «Aspetta», aggiunse. Si sfilò con cautela l'anello d'argento che portava all'anulare sinistro. «È un gioiello di poco conto ma non sopporto vederlo sporco di sangue, poiché è il primo dono che il mio Ezel mi ha fatto. Porta con te anche questo». «Lo tratterò con ogni cautela». «Non ne dubitavo». Quando Aelin giunse presso la fontana non c'era nessuno, solo un uomo con un mantello fatto di stracci era chino su uno dei lavacri, e si stava sciacquando il viso. Nello scorgere la ragazza lo sconosciuto si rizzò in piedi, e raccolse da terra un bastone di legno costellato di campanelli tintinnanti a un'estremità. «Posso fare qualcosa per questa bella damina?», chiese con il tono di una cantilena. «E se sì, di che mai si tratta?». La giovane si guardò intorno: non c'era nessuno che potesse intervenire per allontanare lo strano individuo dagli occhi verdi e spiritati. «Quasi non ti avevo riconosciuto, Sethrian», disse poi, in un sussurro. Raccontò all'amico quello che aveva scoperto, sul fidanzamento e sulle reazioni di Flora, sui commenti di Viviana. «A ogni modo non so dire», concluse, «se nulla di tutto ciò potrà esserci
utile». «È presto per saperlo», rispose l'altro pensieroso. «E così la castellana ti ha affidato il suo anello?», aggiunse protendendo mano. «Cosa vuoi fare?», domandò la giovane mentre gli porgeva il gioiello. «Un incantesimo», rispose il mago. Sethrian osservò in controluce il sottile cerchio d'argento. Poi prese una fiala di metallo da una delle numerose tasche di quel suo inverosimile mantello, versò alcune gocce del liquido sulla vera, e la lucidò strofinandola contro la stoffa della manica. Dopo di che restituì ad Aelin l'anello. «Tutto qui?», chiese l'altra. «E posso sapere che hai concluso?». Il mago non rispose. Si chinò verso di lei, come per baciarle la mano. «Arrivederci, deliziosa damina, spero che ci rivedremo presto. E state attenta», aggiunse in un sussurro, «perché credo che quella alle vostre spalle sia la padrona dell'anello». Prima che la ragazza potesse aggiungere qualcosa, l'incantatore si congedò, con un tintinnio di campanelli. Il cavaliere di nome Rhory era fermo in un angolo del cortile e stava verniciando di verde scuro il piatto della sua spada, com'era usanza tra i guerrieri della vallata. Sethrian si avvicinò con circospezione, ma pochi facevano caso alla sua figura a metà tra il mago e il mendicante, e se qualcuno desiderava consultarlo attendeva in un luogo meno esposto del cortile centrale della rocca. Il povero girovago con tutta probabilità non era nemmeno un vero incantatore, pensavano tutti, ma con i suoi giochi di prestigio e le sue illusioni da quattro soldi era riuscito a guadagnarsi la benevolenza dei signori del castello, di entrambi i castelli per essere precisi. «Il sole sta tramontando, cavaliere, e io mi chiedo cosa porterà la notte». «Siete voi che predite il futuro, non io, e per quel che mi riguarda non ho notato niente di strano né in questo tramonto, né...», aggiunse Rhory quasi con un soffio di voce, «in questo castello». «Io posso dirti invece che qualcosa di strano nell'aria c'è, anche se non so dargli ancora un nome». «Credi che sia a causa della spada verde?». «Dovrei vedere la lama incantata per poterti rispondere. E poi, in fondo, siamo qui soltanto da un giorno...». Sethrian non finì la frase; un gruppo di giovani uomini e donne aveva invaso il cortile e reclamava a gran voce l'esibizione del mago con i suoi
strabilianti trucchi. «Tu tieni gli occhi aperti», disse l'incantatore, poi si voltò verso il suo pubblico. Ma prima di dirigersi verso il gruppetto si fermò ancora un istante, come per ammirare la lama che l'altro stava finendo di dipingere. «Stavo dimenticando la cosa più importante», mormorò, «dì a Gwyon di non preoccuparsi se dovesse sentire delle voci, o se le ha già sentite. Perché ho lanciato un incantesimo all'altro castello, e queste potrebbero essere le conseguenze». «Io non ti capisco, Viviana. Mi hai sempre detto che l'inimicizia con i nostri cugini era assurda, e che dovevamo a qualsiasi costo trovare un accordo». «Certamente: se avessi tu il titolo di duca le porte della reggia si aprirebbero al nostro passaggio. Ma le contese secolari della valle non diradano ancora la loro ombra sinistra e stando così le cose io non oserei nemmeno metter piede nella capitale, per la vergogna». «Allora perché, adesso che il patto sta per essere concluso, vieni da me dicendo che questo matrimonio è follia?», chiese il marito della donna. «Non eri così contraria all'inizio, mi hai appoggiato per convincere Flora, poi tu e mia sorella vi siete recate in visita per un paio di giorni nell'altro castello, e da quando avete fatto ritorno, sembra che tutto sia cambiato ai vostri occhi». «Il punto è che quella visita si è rivelata molto istruttiva, mio caro, e solo allora ho avuto modo di comprendere che genere di persone fossero il tuo amato cugino e il suo degno genitore». «Sì, sì. Ho già sentito queste lamentele dalla bocca tua, e ancor più da quella di Flora. Ma non possiamo mandare tutto a monte solo perché avete la sensazione che il promesso sposo di mia sorella potrebbe rivelarsi un cattivo consorte». «Se si trattasse solo di questo», disse la castellana con voce dolce, «adesso non staremmo qui a discutere. Tuttavia non so se hai mai riflettuto su una cosa: siamo sposati ormai da tre anni e non abbiamo figli, o almeno non ancora, ma a chi andrebbero i tuoi possedimenti se ti dovesse accadere qualcosa?». «A mia sorella Flora». «A tua sorella. Mi chiedo se il tuo vecchio zio ci abbia pensato quando ti ha fatto la proposta di matrimonio. Perché è stato lui ad avere l'idea, ricordi? E se non ci ha pensato allora, potrebbe sempre farlo in seguito. Tu sei
giovane, ma basterebbe un incidente e...». «Perché me lo stai dicendo adesso? Perché a due sole settimane dal fidanzamento?». Ezel socchiuse gli occhi. «Se solo avessimo in mano qualcosa di più di una semplice supposizione, adesso già penserei a muovere guerra. Anche se loro hanno una spada che promette vittoria». «Ho visto quell'arma, tuo cugino era troppo borioso per non mostrarcela, e con tutta probabilità non è altro che una lama ricoperta di smalto, appena un gradino al di sopra della paccottiglia dipinta che esibite nei tornei e nelle parate. Ma non ti sbagli nel dire che la spada è una promessa di vittoria, almeno fino a quando ci sono degli sciocchi disposti a crederla tale». «Secondo te cosa dovrei fare, Viviana?». «Non ti sei chiesto, Ezel, come mai ho scelto proprio stasera per affrontare l'argomento? Forse tu lo ignori, ma la soluzione a molti dei nostri problemi ha varcato le soglie di questo castello». «Non sono sicuro di aver capito». «Che cosa accadrebbe se tu inviassi uno dei tuoi uomini a rubare la spada verde e venisse scoperto?». «Sarebbe la guerra». «Anche se l'uomo scelto per la missione fosse uno straniero, non immediatamente ricollegabile a te?». «Come potrei fidarmi di uno forestiero? Ammesso che riesca nell'impresa potrebbe scegliere di tenere per sé la spada, e non tornare più indietro». «Vorrà dire che dovremo dargli un buon motivo per non tradirci, e per non farsi scoprire». «E per accettare la missione, non dimenticarlo». «Anche per quello, Ezel, anche per quello. Perché vedi, io sono convinta che una sorella nelle nostre mani sia un ottimo motivo... praticamente per tutto». «Jordan, svegliati, Jordan». La voce era appena un sussurro soffocato, ma il cavaliere aprì subito le palpebre nell'udirla, e i suoi occhi furono inondati dell'oscurità circostante. «Sei tu, Sethrian?». «Sthh! Parla piano, non vorrai svegliare gli altri uomini nella camerata! Non sarei venuto fin qui se non fosse importante, ma sarò breve. Ho gettato un incantesimo su un anello...». «Aelin me l'ha detto». «... e grazie al sortilegio sono riuscito ad ascoltare una certa conversazione tra Ezel e la sua sposa. Domani ti chiederanno di rubare per loro la
spada verde, e tu dovrai accettare, ma vedi di non mostrarti troppo entusiasta». «Rubare la spada verde!», sbottò Jordan stupito, «ma per chi mi hanno preso?». «Per un giovane che ama molto la sorella. Anche se sapessero che sei uno degli integerrimi cavalieri della fede non credo rinuncerebbero ai loro progetti, tutt'altro: quale garanzia migliore dell'onestà di Auster, per degli uomini che tradiscono e temono di essere traditi a loro volta?». «Dunque devo accettare. Per Aelin». «Non si tratta solo di questo. Diciamo che ho un piano». Il sole era calato ed era la seconda notte che Aelin trascorreva nel castello sul fiume. Quel giorno la ragazza aveva potuto vedere il suo finto fratello solo da lontano, e non era nemmeno riuscita ad avvicinare l'onnipresente mago girovago. Ma nonostante la lontananza dei suoi amici non poteva dire di aver sofferto la solitudine. L'erborista aveva consigliato a dama Viviana di non piegare le dita ferite per tre giorni almeno, e dato che non riusciva a ricamare agevolmente con una mano fasciata, la donna si premurava di intrattenere Aelin. Quasi senza sapere come, la ragazza si era ritrovata a narrare alle damigelle lì intorno le storie di re Artù e dei cavalieri della tavola rotonda. Forse Sethrian l'avrebbe giudicata un'imprudenza, ma a un certo punto Viviana le aveva chiesto quali fossero il libri che le avevano tenuto compagnia nel suo eremo solitario, e lei aveva dovuto rispondere. In una società dove i libri venivano ricopiati a mano, poi, non era impossibile che molti racconti rimanessero a lungo dimenticati. Attirata da quelle storie mai udite prima, anche Flora si era unita alle dame, ma di fronte alla sorte di Lancillotto e Ginevra commentò che avrebbe voluto sentire un racconto in cui il tradimento di una moglie non dovesse necessariamente trasformarsi in tragedia. Aelin ormai si era fatta prendere la mano: la sua fonte stavolta furono le novelle di messer Giovanni Boccaccio, e le sue ascoltatrici si divertirono molto, anche Viviana, che pure sentiva talvolta il dovere di mostrarsi un po' scandalizzata. Quando la terrestre si ritirò per la notte, aveva la gola secca ma era contenta della giornata trascorsa: le piaceva la compagnia di Viviana, e anche quella di Flora, sebbene la straordinaria bellezza della dama dai capelli ne-
ri a tratti la mettesse un po' a disagio. Solo in quel momento ne capì il motivo. Flora, con i suoi grandi occhi e i lunghi capelli dalla linea inquieta, somigliava sin troppo a molte figure di donna che avevano popolato i racconti della scrittrice. Somigliava in particolar modo a una bella maga che per molto tempo era stato l'alter ego della giovane terrestre, Aelin Silvershine. Soltanto che lei aveva gli occhi viola, non grigi. «Aelin Silvershine», ripeté la ragazza poggiando il capo sul cuscino. Il cognome Silvershine, Riflessi d'Argento, l'aveva coniato in un periodo in cui aveva la passione per lo smalto color madreperla. Ma a quel tempo lei aveva solo tredici anni, e il suo personaggio dimostrava tutto l'ottimismo della giovane età. Quella Aelin non solo era splendida, ma anche abile con la magia e con la spada, e viaggiava di mondo in mondo, ossia nei romanzi che più le erano piaciuti, vestendo i panni dell'indomita eroina, o quasi. Si trattava di ricordi di sette anni addietro però: mano a mano che la terrestre cresceva anche il suo alter ego era mutato, diventando sempre più debole, e sempre più tormentato da quel sapere che le dava l'aver letto la trama di un romanzo; la conoscenza del futuro non permetteva più di modificare le cose a suo piacimento, e lei nella maggior parte dei casi poteva solo rimanere a guardare. Ma tutto quello apparteneva al passato, a un gioco che la giovane aveva dovuto abbandonare nello stesso momento in cui si era trasformato in una terrificante realtà. La ragazza sentiva le palpebre farsi più pesanti. Poi ci fu solo tenebra. Aelin volava, galleggiava immobile nel cielo notturno, e i raggi della luna le illuminavano il viso. Sto sognando, pensò, e abbassando lo guardo vide le dita pallide e affusolate, e unghie che sembravano argento brunito nella luce stellata. Sto sognando, ripeté a se stessa, e il sogno sembrava cullarla in un manto intessuto di muta e confortante dolcezza. C'era un'immensa luna piena nel cielo. Il suo chiarore si rifletteva sulle acque del fiume sottostante, e i suoi raggi disegnavano i vaghi profili delle torri rivali. Aelin, senza sapere come, si sentì trasportare delicatamente verso il forte occidentale, dall'altra parte del fiume. La giovane discese verso lo stretto sentiero della cinta muraria, e si ritrovò a camminare sospesa a un paio di centimetri da terra, come se i suoi piedi poggiassero su un tappeto invisibile. Si muoveva con passo lento, e le sentinelle appoggiate alle loro lance non la videro passare. Ma le vesti e i capelli della fanciulla si confondevano fra le tenebre e lei stessa non era che il fantasma di
un sogno. I gradini di una lunga scala la portarono in un grande salone deserto, e tutto era avvolto nel silenzio. Aelin si addentrò nel castello e riusciva a vedere nel buio almeno i contorni, se non i colorì delle cose. Scoprì anche di non poter prendere alcun oggetto, e che era in grado di camminare attraverso porte e pareti, come se il suo corpo fosse privo di consistenza. La terrestre non si stupiva di nulla: continuava a muoversi nell'atmosfera incantata del sogno. Poi, a un tratto, si accorse che sottili fili verdi brillavano nell'oscurità, e sentì le sue dita bruciare quando sfiorò, incauta, uno dei filamenti che appariva più luminoso degli altri. Pur senza comprendere il motivo che la spingeva a farlo, Aelin prese a seguire il cammino segnato da quel fioco brillio, come aveva fatto Teseo nel labirinto. Mentre procedeva, i fili verdi si intrecciavano gli uni agli altri, fino a diventare simili a serpenti di smeraldo che strisciavano lungo le pareti. Aelin continuò a camminare, mentre il pavimento e le volte delle sale erano invasi da quel verde innaturale, da quei filamenti nodosi che a tratti sembravano serpi o liane, o capelli di donna. La terrestre tuttavia non esitava, e i bagliori argentei sulla punta delle sue dita sembravano rivaleggiare con la verde luce demoniaca che si era insinuata nel buio della notte, rendendolo ancor più spaventoso. Aelin giunse in una sala dove s'incontravano molte scale, e due uomini, immobili come pietra, facevano da sentinella a un ampio portale scolpito. Lì, oltre le sbarre di ferro di un cancello, c'era la fonte del verde, serpeggiante chiarore: la sala delle guardie era illuminata a giorno e la terrestre non era in grado di volgere troppo a lungo lo sguardo in direzione del portale senza restarne abbagliata. I filamenti verdastri che le avevano fatto da guida attraverso il buio dei corridoi, ora sembravano solidi, concreti nella luce stregata che inondava ogni cosa. Alla giovane parve di vedere gli occhi dorati dei serpenti che si attorcigliavano attorno alle colonne, nel lento strisciare di una danza. La spada verde, mormorarono le labbra di Aelin, ma dalla sua gola non usciva alcun suono. Il suo sogno era legato alla pretesa maledizione, e stava trasformando i suoi timori in immagini allucinate. Forse timore era una parola troppo forte, se si considerava che la giovane non provava la benché minima inquietudine: solo un distaccato interesse per l'evolversi degli eventi. Mi chiedo quale medusa anguicrinita sia stata posta a custodia della leggendaria spada, si disse. E sorrise, poiché sapeva che presto o tardi la
realtà avrebbe spazzato via tutte le sue visioni. Sethrian verrà e mi sussurrerà nell'orecchio che la spada contesa non è nient'altro che un pezzo di latta dipinta, rideremo insieme e ci rimetteremo in viaggio. Come evocato dai pensieri della ragazza il mago fece il proprio ingresso, e la sua figura era circondata da un'impalpabile aura azzurrina. Le guardie, sprofondate nella loro immota veglia, non videro l'incantatore, i segni che tracciava nell'aria, le formule pronunciate con un filo di voce. L’azzurro che circonda Sethrian è un sortilegio d'invisibilità, intuì la ragazza. E azzurra le apparve la coltre di sonno che avviluppò le due guardie, facendole crollare a terra in uno sferragliare d'armi. «È tutto a posto?», domandò Rhory fermo sulla soglia. E poi, ancor più piano: «Sei qui, Sethrian?». Il mago non disse una parola, ma il manto di nebbia cerulea che lo circondava si dileguò, e lui e il cavaliere si scambiarono un breve sguardo d'intesa. Poco dopo anche Jordan si unì a loro, annunciando che Gwyon era rimasto indietro, di vedetta. «Sei sicuro che domani non ricorderanno niente?», disse Rhory vagamente a disagio, osservando le sagome degli uomini addormentati. «Né loro né gli altri che hanno subito la stessa sorte», ribatté Sethrian seccamente. «Ma le domande a dopo: ogni incantesimo consuma un frammento delle mie energie, e la mia parte in questa faccenda è tutt'altro che finita». «La serratura del cancello sembra abbastanza semplice da aprire», intervenne Jordan, «posso pensarci io se vuoi». «Ricorda che vorremmo evitare ogni segno di effrazione», disse il mago, «perché il furto della spada verde ci deve essere e non ci deve essere». Che caspita vuoi dire, Sethrian, pensò Aelin, e perché devi essere sempre così arguto e saccente? La verità era che qualcosa le sfuggiva, e lei non era in grado di chiedere spiegazioni. «Forse hai ragione tu», disse Jordan, «è meglio non rischiare. Se si trattasse solo di me, io e il mio orgoglio di cavaliere ci mostreremmo un po' risentiti di dover dipendere tanto dai tuoi incantesimi, ma poiché è coinvolta anche Aelin...». «In che cosa sarei coinvolta io?», sbottò la terrestre, pur sapendo già che gli altri non avrebbero sentito. Rhory si allontanò. Voleva controllare che tutto fosse tranquillo, disse, ma Sethrian non distolse lo sguardo un solo momento dal ferro del cancel-
lo. Quando l'incantatore si avvicinò alle sbarre, Aelin si accorse che il chiarore proveniente dal portale era come indietreggiato, ritraendosi verso l'interno della stanza: sembrava che la spada avesse paura della magia di Sethrian. Adesso la grande sala rimaneva nella penombra creata dai pallidi fasci di luce delle lampade a olio. Poi si udì un rumore secco: era il congegno della serratura che rispondeva ai voleri dell'incantatore. Mentre il cancello girava silenziosamente sui cardini Jordan si lasciò sfuggire un commento d'ammirazione, dichiarò senza esitare che Sethrian aveva un vero e proprio futuro da ladro davanti a sé. Soltanto dopo sembrò ricordare che lui, da cavaliere della fede, non avrebbe mai dovuto dire una cosa simile. «Non è così facile come credi», lo rassicurò il mago, «dove c'è un incantatore disposto a rubare ne comparirà sempre un altro pronto a rendere vani i suoi trucchi, dietro compenso. Talvolta c'è chi reputa vantaggioso recitare sia l'uno che l'altro ruolo. Ma non qui: nel luogo in cui ci troviamo non ci sono mai stati ladri dotati di particolari poteri, né tanto meno difese predisposte a fermarli». I serpenti smeraldini che infestavano il salone avevano occhi che splendevano nel buio, ma il mago e il cavaliere non potevano vederli, non udirono il sibilo delle loro lingue guizzanti quando oltrepassarono il portale scolpito. Aelin li seguì con passo lento e si ritrovò in una specie di cappella: vide la spada verde all'interno di una teca di cristallo, poggiata su un altare bianco. Sethrian sollevò con cautela il coperchio della teca. Socchiuse gli occhi in una smorfia di disgusto. «Ecco la spada», disse, «ecco il suo sortilegio che sembra appestare l'aria. Continuavo a sperare che non fosse così, ma le voci alla locanda non erano troppo lontane dal vero». Poi Aelin la vide: una donna bellissima era comparsa in ginocchio sull'altare, e stringeva tra le mani l'elsa della spada maledetta. Una donna bellissima, ma dal volto crudele, un verde fantasma trasparente, incorporeo. Aelin continuava a osservarla, a osservare i lunghi capelli del colore del muschio, il viso di tenera erba bagnata, gli occhi che nient'altro sembravano se non vividi smeraldi. Ma se la paura giaceva annidata nel fondo di quegli occhi, la giovane scrittrice aveva letto una trepida avidità nella piega delle labbra, e non sì sarebbe sorpresa nello scoprire dietro quella bocca carnosa i canini appuntiti di un vampiro. «Sogno o non sogno non farai del male ai miei amici», sussurrò Aelin in
un brivido di paura. La donna della maledizione si voltò di scatto, ma i suoi occhi rimasero come fissi nel vuoto. Forse lo spettro aveva udito la voce della ragazza, forse solo la sua eco, eppure nemmeno lei riusciva a vederla. «Cosa pensi di fare, Sethrian?», chiese infine Jordan. «Il nostro piano prosegue immutato, ma prima dovremo sbarazzarci della maledizione». «Tu sei in grado di dissolverla?». «Non qui, non ora, forse nemmeno in futuro. Però posso trasferirla dalla spada a un altro oggetto di metallo del drago. In questo caso il mio pugnale». Jordan tacque e non disse nulla, continuava a fissare la lama poggiata nella teca di cristallo. «Vedi questo sigillo?», disse Sethrian indicando uno strano disegno sul manico dell'elsa, che agli occhi di Aelin brillava come fiamma verde. «È un'antica runa che vuol dire discordia, disordine, caos, groviglio di morte e una decina di altri significati tutti ugualmente spiacevoli. Ed è il nucleo della maledizione». «Io cosa devo fare?». «Nulla, assolutamente nulla. Soprattutto non toccare la spada, non sfiorarla nemmeno, perché potresti provare il desiderio di farlo». «A causa della maledizione». «A causa della maledizione. Il mio coltello ha il manico d'osso, non entrerò in diretto contatto con questo spirito di discordia, ma se dovessi comportarmi in maniera strana afferrami per le braccia, trascinami via dalla cappella, stordiscimi con un colpo in testa se necessario. Quanto a te, concentrati con tutte le forze sul codice dei cavalieri, sulla lealtà e l'onore, perché ne avrai bisogno». «È davvero così pericolosa quella spada?». «È come se la lama avesse una volontà propria: la sento mentre cerca di attirarmi con il suo canto di lusinghe. Ci sono uomini che non sarebbero capaci di resistere a quella voce, forse nemmeno io l'avrei fatto, se non ci fosse stato il racconto della gente alla locanda a mettermi in allerta». «E io invece?». «Questo solo tu puoi dirlo, cavaliere. Ma abbiamo perso troppo tempo: adesso devo mettermi all'opera». Aelin vide il mago poggiare la punta del suo pugnale al centro della runa incantata, vide la dama verde chiudere gli occhi: l'espressione sul volto
di lei era indecifrabile. L'incantesimo di Sethrian si diffuse lento nell'aria; quando il mago tornò a sollevare lo stiletto la sua lama era viva e brillante, e l'antica spada del duca restava immobile, opaca. Anche lo spettro era svanito, e se non fosse stato per il brillio malevolo del pugnale si sarebbe potuto pensare che la maledizione non fosse mai esistita. «È stato facile», mormorò Jordan, ma l'incantatore non lo ascoltava: tenendo con due dita l'impugnatura del coltello, si affrettò a estrarre dalla sua borsa un largo panno di lana nera che sembrava attirare ogni forma di luce al suo interno, tramutandola in oscurità. È una specie di schermo isolante, si disse Aelin con quella conoscenza che le veniva dal sogno, mentre il mago legava con cura il pugnale nell'involto di stoffa. «Ce l'abbiamo fatta?», chiese il cavaliere. Sethrian fece un cenno di diniego: «La maledizione ha mantenuto tutto il suo potere, o quasi. Dovremo portarla con noi: per il momento è sotto controllo, ma finirà col distruggere le difese che le ho posto intorno, e non posso dire né come né quando. Io non sosterrei dunque che ce l'abbiamo fatta. Non ancora». Jordan annuì, cupo in volto. «So che è un grave fardello», aggiunse il mago, «ma vorrei che tenessi tu il pugnale». «Mi dai una grande fiducia, che forse non merito». «Non possiamo correre il rischio che il potere della maledizione si unisca a quello di un mago». Così l'involto nero passò di mano. Sethrian barcollò come se le forze lo avessero abbandonato all'improvviso. Il mago poggiò il braccio sinistro su una delle colonne, e poi la fronte sopra quel braccio. Rimase a lungo immobile, senza parlare. «Non ce la faccio», disse infine, con un sorriso triste, «sono stremato, mi si chiudono gli occhi. Dovremo tornare indietro, temo, e venire domani un'altra volta». «Domani avrai la forza di tornare sin qui, addormentare le guardie e via dicendo? Perché forse potrò tenere a bada Ezel e quella strega di sua moglie per qualche giorno, ma Aelin è nelle loro mani, e io non posso dimenticarlo». «Viviana, figlia di buona donna!», imprecò la terrestre con una smorfia, ma poi si portò una mano agli occhi. La castellana in realtà non stava costringendo nessuno a rubare o a compire altre azioni nefande. Quello era solo un sogno.
«Vedrò di farcela», promise Sethrian, «ma non stasera, non stasera. E non ha senso restare ancora, perché non abbiamo alcun interesse a farci scoprire». «Se ci vedessero ora sarebbe la fine», ammise Jordan. «Non esageriamo», disse il mago con un sorriso, «forse non sono in grado di rimodellare la tua spada perché sia uguale a quella del duca, ma addormentare un paio di uomini non è così difficile, e noi domani saremo soltanto un sogno». Jordan si chinò sulla lama maledetta, sfiorò con sguardo inquieto gli intagli d'avorio incastonati nell'elsa: «Saresti capace di incidere la runa della discordia sull'impugnatura della mia armai». «Sarei capace, ma...». Il mago si interruppe, mentre l'altro sfilava silenziosamente la lama dal fodero. La spada di Jordan era identica all'antica arma del duca. «Com'è possibile?», domandarono Sethrian e Aelin nello stesso istante. «Non ne ho la benché minima idea», rispose il cavaliere, «dovresti chiederlo al mastro fabbro di Auster. Certo mi riesce difficile credere che si tratti di una coincidenza, e se non ti ho detto nulla prima è stato perché non volevo rompere la tua concentrazione». Poi ci fu un rumore di passi. Aelin serrò le palpebre in un sussulto impaurito. La terrestre si rizzò a sedere nel letto, con le immagini del sogno interrotto che ancora le galleggiavano davanti agli occhi. Avrebbe voluto tornare nella cappella della spada verde, per una paura che non si sapeva spiegare, come se, svegliandosi, avesse davvero abbandonato i suoi amici. Ma i sogni solo di rado obbediscono alla volontà della mente, e Aelin rimase a lungo con la testa premuta contro i cuscini. Soltanto verso l'alba ricadde in un'oscurità priva di sogni e visioni. VII ANCORA IN CAMMINO «Dov'è Aelin?», disse Jordan guardandosi nervosamente intorno. «Ho preso la spada, e ora rivoglio indietro mia sorella». «Calmatevi, mio giovane amico», gli rispose Ezel con un sorriso indulgente. «Aelin non avrebbe potuto rimanere in mani migliori, e siamo stati lieti di offrirle la sicurezza della nostra dimora, mentre voi eravate impe-
gnato altrove». «La sicurezza della vostra dimora? Solo ieri a quest'ora minacciavate di ucciderla, se non avessi assecondato i vostri piani meschini!». «Io non ricordo di aver mai detto nulla di simile», rispose il signore del castello in tono duro, «e vi sfido a provare il contrario». Jordan chinò il capo, provocare l'altro non sarebbe servito. «Ieri è ormai passato», mormorò pur controvoglia, «ed eravamo entrambi molto tesi, in fondo». Ezel non fece a tempo a rispondere. La porta si aprì, entrarono Aelin e Viviana. «È tutto a posto, Jordan?», domandò la terrestre. «Adesso sì, sorellina. Piuttosto i tuoi bagagli sono pronti? Dobbiamo rimetterci in viaggio». Aelin annuì perplessa, e il cavaliere sorrise. «Quell'oggetto che ci era stato sottratto è tornato al castello, immagino», intervenne dama Viviana, «e noi sapremo essere molto generosi con voi, per compenso». «Dov'è la spada, adesso?», aggiunse il castellano, impaziente. «È sempre stata con me», rispose Jordan e sguainò la lama che portava al fianco. Era verde, ma di vernice. Confusa tra sogno e realtà Aelin non sapeva cosa pensare. Anche Viviana e il suo sposo sembravano perplessi, e Jordan si concesse un sorriso di fronte ai loro volti cupi: «Sono stato io a tingere la lama. Sarebbe stato davvero spiacevole se qualcuno si fosse accorto che avevo con me la spada del duca». «È stata una scelta saggia», ammise Viviana, e sorrise, di quel sorriso che Aelin aveva tanto ammirato. Ezel invece si era avidamente proteso sulla lama, e stava grattando via la vernice con un temperino. Il verde del metallo del drago già faceva capolino dietro il verde della pittura. «Se posso darvi un consiglio, io non avrei tanta fretta di riportare la spada al suo aspetto originario», disse Jordan con un lampo negli occhi. «Ci sarà più confusione, e paura, tra i vostri nemici, se la lama svanita dal loro castello non dovesse riapparire nel vostro». «Io credo che per un consiglio simile», fece la castellana, «dovremmo almeno raddoppiare la ricompensa pattuita per i vostri servigi». Jordan serrò le labbra, non voleva il denaro macchiato d'infamia che quei due individui gli offrivano: lui era l'erede di un feudo, e non avrebbe
dovuto abbassare il capo di fronte ai discendenti del duca né per titolo né per ricchezze. «Il denaro che ti offriranno non nascerà da gratitudine o generosità», aveva detto però Sethrian. «No, il castellano e la sua sposa vorranno legarti più strettamente al misfatto compiuto, vorranno trasformarti da vittima in complice, e sarà meglio assecondarli. Senza contare che in tutta questa faccenda noi abbiamo dovuto rinunciare a una delle nostre spade, e non esiste ricompensa che possa ripagarla». A parte quell'ultima considerazione, Jordan condivideva in pieno le parole dell'altro. Così il cavaliere accettò umilmente il sacchetto di monete che Ezel gli porgeva, quindi si affrettò a trascinare via la sua finta sorella. Lasciò il castello senza attendere oltre. A qualcuno sarebbe potuto venire in mente che nulla custodisce un segreto meglio di una tomba, e lui non voleva scoprire fino a che punto avrebbero osato spingersi la bella Viviana e il suo sposo. Aelin e Jordan sedevano accanto alla pietra dove tre giorni prima avevano nascosto le loro armi, e il cavaliere stava terminando di raccontare alla ragazza quello che era accaduto. «Figlia di buona donna», mormorò la giovane, e non sapeva se essere più sorpresa per il modo in cui Jordan descriveva le scene che lei aveva visto in sogno, o per come Viviana, così dolce e gentile, l'avesse tradita, usata. In fondo doveva essere anche lei sotto l'influenza della spada, si disse la giovane, e tuttavia sentiva come un sapore amaro in bocca. «Il piano di Sethrian è abbastanza semplice», le spiegò il cavaliere. «Abbiamo lasciato una spada verde nell'uno e nell'altro castello e se saremo fortunati entrambi crederanno abbastanza a lungo di essere in possesso dell'originale». «Questa situazione non si protrarrà in eterno, però». «È sufficiente che duri fino a quando non saremo lontani. Inoltre, più tempo passa e più debole si farà l'influenza che lo spettro della discordia può avere su questa valle». I due ragazzi vennero raggiunti dai compagni. Era tornato il momento di rimettersi in viaggio. Ma non verso Aquilon. Sethrian era stato categorico: andarsene in giro per il regno con una maledizione tra i bagagli era la cosa più sciocca che potessero fare. Rhory propose di tornare ad Auster, e alla fine sembrò la soluzione migliore. Non
era ancora tempo di recarsi a Lilài, e poi c'era il mistero delle due spade identiche che solo il fabbro del forte, forse, avrebbe saputo spiegare. Per guadagnar tempo i giovani viaggiatori si diressero verso il Fiume dei Venti. Presto un vascello li avrebbe riportati velocemente verso le terre del sud. Il cavaliere prescelto soffriva di mal di mare, e venne a sapere di questa sua debolezza nello stesso momento in cui mise piede sul ponte della barca; Jordan si ritrovò a fargli da balia, poiché Rhory, che aveva il volto dello stesso colore della dama della discordia, sembrava tollerare soltanto la presenza dell'amico d'infanzia. Sethrian, poi, non si era del tutto ripreso dalla spedizione notturna e lasciava il suo apprendista libero di unirsi all'equipaggio del vascello. Con grande gioia di Gwyon, che aveva nelle vene sangue di pescatori, o almeno così era convinto. Aelin e l'incantatore avevano preso l'abitudine di passare molte ore seduti a prua, intenti a osservare le acque del fiume. In quel punto della nave potevano parlare senza temere che i loro discorsi giungessero a orecchie indiscrete, ma passarono ancora un paio di giorni prima che la giovane si decidesse a narrare all'altro la sua visione. Sethrian l'ascoltò con volto serio, non disse nulla sino a che lei non fu giunta al termine del suo racconto. «Erano i passi di Gwyon quelli che avevi sentito», fu l'unico commento del mago, che tornò a immergersi in un pensieroso silenzio. «Insomma», disse infine Sethrian, «o tu sei davvero chi dici di essere, oppure una maga che è molto più potente di me, per avere la capacità di astrarti dal tuo corpo e riuscire al tempo stesso a tenermelo nascosto». «Dici sul serio?». «Per quel che ne so, a questo punto», mormorò l'altro cupamente, «potresti essere Isengrin in persona». «Non è possibile! Mi ci è voluto un po' ma l'ho ricordato: Isengrin è il nome di un lupo in un racconto medioevale e...». La giovane si interruppe, accorgendosi dell'illogicità della sua obbiezione. «Mettiamola così», disse l'incantatore con un sorriso appena accennato, «scrittrice o grande maga, in entrambi i casi ci guadagni qualcosa». «Perderei me stessa», ribatté la terrestre, distogliendo lo sguardo. «Guardami negli occhi Aelin: non importa chi eri, ma ciò che sei adesso. E su questo vascello ci sono altre tre persone pronte a giurare che sei una
persona speciale. Anche se forse, prima di chiederlo a Rhory, dovresti aspettare che gli sia passata la nausea». La terrestre accennò un sorriso. «Sono speciale perché sono un'indovina», aggiunse poi scrollando le spalle, «o forse un mistero ancora insoluto. E qui di speciale mi sembra che ci sia soprattutto la tua testardaggine, Sethrian, il modo in cui preferisci attribuirmi poteri straordinari piuttosto che ammettere di esserti sbagliato sul mio conto». «Adesso basta, Aelin», la interruppe il mago irritato, «non dirò ciò che vuoi sentirti dire se non lo reputo vero, e finora non ho fatto altro che tenere presenti tutte le possibilità. Almeno io non ti ho mai accusato di essere una principessa in incognito». «Una che?», fece lei sgranando gli occhi. «Rhory è convinto che tu sia Felicia, la principessa smarrita. È arrivato a questa conclusione ormai da parecchio tempo, e non credo che riusciresti a fargli cambiare idea». Aelin rimase a fissare sbalordita il mago, e l'altro ricambiava il suo sguardo con un sorriso venato di cattiveria. «Lui, a dire il vero, non voleva che ti parlassimo di questa sua intuizione», aggiunse Sethrian, «ma in fondo, presto o tardi, avresti dovuto scoprirlo». Non era questo il punto, e la giovane in qualche modo lo sapeva. Era semplicemente per ripicca, che il mago aveva parlato. «Tutto sommato il ragionamento del nostro cavaliere non è poi così campato in aria», continuò a dire Sethrian. «Non solo per l'approssimativa coincidenza di date fra la tua apparizione e la scomparsa di Felicia: tu hai le mani morbide di chi non ha mai lavorato in vita sua, e il tuo eloquio non è certo quello di una contadina. E Rhory questo non l'ha mai detto, ma io aggiungerei che a tratti sai mostrarti viziata come una vera principessa. Inoltre hai chiesto tu stessa di imparare a tirar di scherma, e una simile disciplina è parte integrante dell'educazione impartita all'erede di Levant quando...». «Infatti io non so tirare di scherma!», protestò Aelin. «...quando», prosegui Sethrian con un sorrisetto divertito, «una volta raggiunta la maggiore età, inizia il suo apprendistato da futura sovrana». «E gli altri che ne pensano di questa faccenda?», chiese Aelin, sbuffando. «Gwyon non si è pronunciato. Jordan invece si mostra meno scettico di
quanto non lo sia in realtà. D'altronde è comprensibile, considerata l'amicizia che lo lega a Rhory. Il cavaliere di Thule, poi, ha ricordato che più di una volta avevi manifestato il presentimento di un nostro futuro incontro con la principessa Felicia, e chi meglio dell'erede di Levant poteva esprimere una simile certezza?». Aelin si prese la testa tra le mani e chiuse le palpebre, stringendole forte. «La tua opinione, invece?». «La mia opinione è che vorrei vederti sul trono solo perché non riesco a immaginare una principessa più strana e fuori luogo di te». Quella era la tipica risposta da Sethrian. Suo malgrado, Aelin sorrise. «Da queste parti non hanno mai sentito parlare di monarchie costituzionali e consimili, non è vero? Ma al momento mi preoccupa maggiormente distogliere Rhory da questa sua idea assurda, se solo esiste un modo per farlo». «A parte imbatterci nella vera principessa di Levant durante il nostro cammino, intendi?». La giovane sospirò, e non aggiunse altro. C'era Palen al forte di Auster quando i cinque giovani fecero ritorno, e l'amico di Sethrian sembrava essersi piazzato lì in pianta stabile. Il mago aveva lasciato Lilài perché desiderava vedere di persona il leggendario metallo del drago, e poi non aveva resistito alla tentazione di mettersi a fare esperimenti su quella strana sostanza, provando a fonderla in nuove e inusitate leghe. Benjamin, il vice comandante del forte, aveva levato le sue proteste, ma il suo superiore sembrava disposto a lasciar correre e il mastro fabbro era ancor più entusiasta di Palen per gli esperimenti. L'incantatore ormai era visto quasi di buon occhio dai cavalieri, grazie ai suoi modi affabili e la tendenza ad aiutare sempre tutti. Sul piano umano era un risultato maggiore di quelli ottenuti con il metallo del drago, che continuava a mostrarsi ostile a ogni tentativo di manipolazione. «A dire il vero stavo già per fare i bagagli e tornare a Lilài», confessò il mago a Sethrian, «quando i cavalieri di Dio sono tornati dalla loro prima caccia». I giovani di Auster erano rimasti tanto colpiti dalle prime notizie delle imprese di Rhory e Jordan che cercavano in tutti modi di imitarli. Armati di torce e reti di ferro arroventato, si erano messi alla ricerca dei mostri simili a piante, senza esitazione alcuna. «Queste creature sono un vero e proprio mistero», fu il commento di Pa-
len. «Non mi stancherei mai di studiare le carcasse che i nostri impetuosi guerrieri si trascinano dietro per trofeo». «Insomma sembra che ti trovi bene tra i cavalieri», osservò l'amico, e parlava con il tono di chi non lo avrebbe creduto possibile. «So che il comandante mi guarda con sospetto e alcuni dei suoi collaboratori sono ancora più ostili, per non parlare del guaritore del castello, convinto che io voglia rubargli il posto. Come se facessi chissà quali progetti, quando mi fermo a medicare un cavaliere che sanguina per una caduta. Invece non sto a pensarci su, lo aiuto e basta». «Mio giovane e caro amico idealista», gli rispose Sethrian con un sorriso, «tu aiuteresti chiunque e in qualsiasi momento, e sono convinto che se un mago riuscirà a conquistarsi la fiducia di Auster quello sarai tu. O qualcuno che ti somiglia». L'altro sorrise incerto. Aelin frattanto, ascoltava silenziosa il dialogo. «Io credevo però», tornò a dire Sethrian, «che tu in questi giorni fossi tutto preso da un certo globo di cristallo che ha attirato l'attenzione del nostro nemico». «Il nuovo globo è già stato ultimato. Dominique e gli altri continuano ad affollarsi attorno all'originale cercando di scoprire a cosa servisse realmente, ma riescono solo a tirare fuori le ipotesi più inverosimili». A quel punto la giovane terrestre non capì più molto, poiché il discorso si fece tecnico, e pieno di parole incomprensibili. «Io rimango della mia idea iniziale», concluse Palen. «Se la sfera ha il nome di rosa dei venti non ci vuol molto a capire che è una specie di bussola. Peccato che non sappiamo come attivarla, né fino a dove dovrebbe condurci». «Il tuo parere è quello di cui mi fido di più». Sethrian sorrise. «A meno che la nostra scrittrice non abbia qualcosa da aggiungere». Aelin divenne rossa in volto, e se ne stupì: quel genere di battute tra lei e Sethrian erano storia vecchia in fondo. Ma era lo sguardo di Palen a metterla a disagio, comprese, poiché l'incantatore la stava fissando con l'espressione di chi ha trovato un nuovo, interessante argomento di studio. Poi anche il mago dai capelli chiari se ne rese conto. Le rivolse un ampio sorriso, come di scusa. «Vieni con noi, Aelin?». La giovane si voltò; vide Rhory e Jordan che venivano verso di lei.
«Abbiamo parlato con il mastro fabbro», annunziò il cavaliere prescelto. «Ci ha detto di aver preso l'immagine delle nostre spade da un volume che mostrava i disegni di antiche armi, con tanto di misure e i metodi di lavorazione a fianco». «E così», continuò l'altro ragazzo, «ci è venuta la curiosità di dare un'occhiata al libro in questione». Anche Aelin era curiosa, ma trovare il manoscritto consultato dal fabbro risultò meno facile del previsto. Il vecchio cavaliere lasciato a guardia della biblioteca disse di non poterli aiutare, e loro non avevano neppure il titolo del libro, poiché il fabbro con cui avevano parlato non lo ricordava. D'altro canto sugli scaffali non c'erano più di un migliaio di volumi: non sarebbe stato impossibile sfogliarli tutti. Per un paio d'ore cercarono di buona lena senza approdare a nulla, e Aelin stava prendendo in seria considerazione l'idea di trovare una scusa per allontanarsi. L'odore di polvere e antiche carte aveva invaso l'aria, rendeva quasi difficile respirare. La giovane non fece a tempo a parlare tuttavia, perché Rhory sollevò trionfante un vecchio volume dalla copertina nera, e i suoi amici si affrettarono a raggiungerlo. «Ne avevamo ancora da cercare», disse il ragazzo, «era in un cassetto dello scrittoio, io l'ho aperto solo per sbaglio». La terrestre lesse, sfiorando con le dita le lettere d'argento sulla copertina: «La via è la conoscenza Stretta nelle tue mani E ciò che non cerchi Tu non troverai». «Cosa vuol dire?», domandò Rhory. Jordan si limitò a scuotere la testa, Aelin invece aveva la sensazione di ricordare un proverbio, una parabola che somigliava in qualche modo a quella strana frase, ma il suo era un ricordo sfuggente, come sospeso ai bordi della memoria. Aprirono le pagine del libro, con reverente cautela. I disegni erano tratteggiati a china, mostravano ogni minimo dettaglio delle armi rappresentate. Dietro alle immagini, però, non c'erano che delle pagine bianche, circondate da sottili cornici miniate. «Forse le note di cui parlava il fabbro riguardano solo la spada verde e
poche altre», osservò Jordan. Ma mentre i giovani continuavano a sfogliare il volume, figure e pagine vuote continuavano ad alternarsi senza interruzioni. A tratti Rhory e Jordan si fermavano a leggere sottovoce i nomi che accompagnavano i disegni, nomi che ad Aelin non potevano dir nulla, e che per i suoi compagni erano a metà tra storia e leggenda. Canto, c'era scritto sotto una spada sottile, e Rhory si fermò a spiare per un istante l'espressione della ragazza. Poiché quella era la lama che le regine di Levant si erano tramandate di generazione in generazione, da tempo immemorabile. Voltate ancora un paio di pagine i tre giovani si trovarono di fronte la spada verde, perfetta in ogni dettaglio, dal colore di smeraldo della lama, alle ombre, alle decorazioni dell'elsa d'avorio. E il foglio a sinistra del disegno era ricoperto dai tratti angolosi di minuscole lettere nere. «Discordia fu una lama ambita per il suo grande potere e tanti re combatterono per averla», cominciò a leggere Rhory, «molti piansero quando fu perduta, molti gioirono di una segreta speranza. La spada svanì nel nulla con il suo malefico potere d'illusione e non è più tornata. Preghiamo di non vedere il giorno in cui il suo malvagio riflesso scintillerà di nuovo sotto il nostro sole». «Potere d'illusione hai detto?», fece Jordan allungando il collo, e l'altro gli passò il libro perché controllasse con i suoi occhi. Il cavaliere di Thule tuttavia tacque, rimase a guardare la pagina pensieroso. «Rhory», mormorò infine, «io qui non vedo scritto nulla di quanto ci hai letto». «Cos'è che vedi?», domandò subito Aelin. «Potrebbe essere importante saperlo». Jordan prese il volume e iniziò a leggere a sua volta: «Bella era Discordia, la Tessitrice di morte, l'arma che molti bramarono sino a esserne uccisi. Per proteggerla, il re di Aquilon ordinò che dodici spade identiche venissero forgiate, e nessuno avrebbe saputo qual era la vera lama della Discordia, con tutta la sua bellezza e il suo strabiliante potere. La spada doveva essere protetta, dicevano le antiche storie, poiché in essa era celato un grande segreto. Il sovrano di Aquilon tuttavia venne tradito: tredici spade furono forgiate, non dodici, e la vera Tessitrice non fu più trovata». «Se è uno scherzo non è divertente...», iniziò a dire Rhory, ma Aelin gli fece cenno di tacere, e prese il libro dalle mani di Jordan. Stavolta sarebbe
stata lei a leggere: «Dalla testimonianza in punto di morte di colui che forgiò la spada: venne un giorno nella mia fucina, un uomo. Aveva gli occhi e i capelli neri, il volto pallido e penetrante. Non disse una parola, ma era come se dicesse alla mia mente quel che dovevo fare. Abbandonai ogni altro lavoro, ci accingemmo all'impresa di forgiare la spada che oggi è chiamata Discordia; e sentivo che lo sconosciuto, pur restando immobile, partecipava alla fatica non meno di quanto facessi io. La spada era quasi ultimata quando comparve la donna: era bellissima, bellissima e nuda, e aveva lunghi capelli verdi sciolti sulle spalle. Vidi che cercava di prendere l'arma, ma lo straniero sembrò impedirglielo con la sola forza dello sguardo. Poi l'uomo socchiuse gli occhi e i segni di una runa di luce comparvero sull'impugnatura della spada. Vidi la donna che urlava pur senza emettere alcun suono, vidi il suo corpo flessuoso e le sue chiome diventare trasparenti come vetro. La donna svanì e rimase solo il chiarore del segno misterioso che l'uomo aveva tracciato sull'elsa. Prendetevi la vostra lama di metallo verde, stavo per dire, e non vorrò neppure esser pagato. Lui non mi permise di aprir bocca: "Custodite con cura questa spada, poiché non ce ne saranno uguali. In essa è prigioniero uno spirito, e non è arma che si possa sguainare incautamente". Il suono di quella voce, fredda, melodiosa, non del tutto umana e ancora nei miei pensieri. "Custodite con cura questa spada, poiché in essa è il potere degli antichi Elaunoi, e verrà forse il giorno in cui dalla sua lama dipenderà il destino della terra". Lo straniero era già svanito, ancor prima di aver terminato di pronunciare quelle parole. E la spada per me era una serpe verde nel mezzo della mia fucina. Fui felice di donarla al mio re, quando lui me la chiese». Aelin poggiò il libro sul tavolo. I tre giovani rimasero a guardarsi stupefatti. «Non è uno scherzo», ammise poi Rhory, «ma allora di che si tratta?». «È uno strano incantesimo», rifletté l'altro cavaliere, «però non ne capisco il senso». «Non lo capisci?», ripeté Aelin. «Eppure ci è stato detto: la via è la conoscenza stretta nelle tue mani. E ciò che non cerchi non lo troverai». «E nella lingua dei comuni mortali cosa vorrebbe dire?», domandò Jor-
dan con una smorfia. «Che il libro offre le informazioni solo a chi già è sulle loro tracce. Così il vostro amico fabbro trovava nelle pagine bianche le istruzioni per forgiare le armi, poiché questo era il suo campo, o meglio la sua conoscenza, volendo parafrasare i versetti iniziali». «E dal momento che noi desideravamo sapere di più sulla spada verde il libro ha fatto in modo di accontentarci», aggiunse Rhory. «Questo non spiega per quale motivo non abbiamo letto il medesimo brano», obbiettò Jordan. «Forse semplicemente perché non siamo la stessa persona», rispose Aelin. «Io posso dirti solo che la donna del fabbro l'avevo già vista in un sogno, o almeno credo». E prima che uno dei cavalieri potesse protestare, si affrettò ad aggiungere che la sua visione le aveva mostrato solo il furto della spada verde, niente di più. «A Sethrian l'avrai detto immagino», iniziò a dire Jordan con un vago tono d'accusa, ma poi s'interruppe e sorrise alla ragazza. «Sethrian», ripeterono i due all'unisono. Anche Rhory sorrise. Sarebbe stato interessante vedere che cosa poteva cavar fuori un mago da un libro come quello. Fecero per incamminarsi. Il cavaliere prescelto stringeva tra le dita il volume incantato, Aelin però scosse la testa: «È meglio che il manoscritto rimanga qui. Non vorrei dover spiegare a Gwyon quello che abbiamo scoperto, e sai anche tu il perché, ormai». Rhory annuì, seppur cupamente. Lasciarono il libro nella biblioteca del castello. Parlare con Palen e Sethrian non fu possibile. Gwyon annunciò agli amici che i due maghi si erano rinchiusi in una stanza con un piccolo scrigno di ferro e tutti i loro incantesimi, che avrebbero preparato una custodia adeguata al pugnale della maledizione. Non volevano essere disturbati per nessun motivo al mondo. Gwyon aveva appunto il compito di non lasciar passare nessuno, per tre giorni almeno. Aelin e i due cavalieri decisero che avrebbero atteso. Non fu difficile trovare un modo per impegnare il tempo comunque. La terrestre si ritrovava con Rhory e Jordan, e insieme facevano delle lunghe, lunghe cavalcate. O almeno così credeva la gente di Auster: nessuno sapeva che per la maggior parte del tempo i destrieri dei tre giovani rimanevano tranquilli a brucare l'erba, mentre Aelin e i suoi amici si allenavano con
la spada. Rhory nemmeno immaginava quale trambusto sarebbe potuto scoppiare se una di quelle esercitazioni si fosse tenuta nel cortile del forte. Jordan invece se lo figurava benissimo, e proprio per questo aveva proposto di continuare l'addestramento della giovane a distanza di sicurezza. Giunse l'alba del quarto giorno. Palen e Sethrian avevano sul viso tutti i segni della stanchezza e la preoccupazione di chi teme che le proprie fatiche non siano valse a raggiungere davvero lo scopo. Tuttavia bastarono un paio parole di Aelin e degli altri perché i due incantatori dimenticassero ogni cosa, e si precipitassero verso la biblioteca. «Il libro non c'è più», disse Jordan in tono cupo. «Com'è possibile?», fece Aelin. «Non l'avevamo lasciato nel cassetto?». «Forse qualcuno ha pensato di rimetterlo a posto», osservò Palen, ma le sue parole non bastarono a distendere le espressioni tese dei due. «Vado a chiedere al vecchio bibliotecario», aggiunse Rhory, e non era meno allarmato dei suoi compagni. «Speriamo almeno che il vostro libro magico non abbia il potere di spostarsi da solo», commentò Sethrian con un sorrisetto. «Niente di tutto questo», disse il cavaliere prescelto facendo ritorno. «Il volume l'ha preso da Sir Nicholas tre giorni fa: intendeva donarlo a qualcuno». «Qualcuno chi?», chiese Jordan. «Il bibliotecario non lo sapeva». «Vorrà dire che dovremo risalire direttamente alla fonte». «Non sapevo che quel libro potesse esservi utile», ammise il vecchio comandante, «in tal caso avrei atteso qualche giorno prima di inviarlo a Vultur. È stato il Santo Guardiano a domandarmi il manoscritto. Quando si è recato in visita alla fortezza, uno dei suoi patriarchi ha letto dei salmi rari e sconosciuti accanto ai disegni delle armi di antichi santi. E il Guardiano mi ha chiesto di mandarglielo». «Sappiamo dov'è il libro», disse Sethrian, «è questo che conta». «Il Padre Guardiano ha sempre avuto una particolare cura per i volumi della sua biblioteca», aggiunse l'altro in tono rassicurante, «il vostro manoscritto sarà in buone mani». «Sempre che arrivi fino a Vultur», obbiettò Aelin. «In fondo mi sembra una coincidenza un po' strana che proprio quel libro abbia lasciato il castel-
lo e proprio ora. Lungo il cammino si possono incontrare un'infinità di minacce e ostacoli: briganti, mostri, maghi cattivi...». «La tua è una premonizione o semplice paura?», le chiese Sethrian. «Non abbiamo ancora trovato nulla che colleghi il nostro nemico alla spada verde. E questo non è un romanzo, dove tutto deve essere collegato per forza». «Se dovessi avere una premonizione tu saresti il primo a esserne informato», fu l'unica risposta che l'altra gli diede. «A ogni modo, penserò io ad avvertire il Santo Guardiano», disse Nicholas scuotendo la testa. «Perché adesso la vostra missione vi chiama altrove: stamattina è giunta una lettera da Aquilon, e l'arrivo del cavaliere prescelto è richiesto con la massima urgenza». Ciò significava un nuovo viaggio per nave. Rhory impallidì al solo pensiero. Sethrian e Palen dal canto loro avevano già ripreso a parlare dello scrigno di ferro, e delle modifiche da apportare prima che il mago dagli occhi verdi si rimettesse in viaggio con i suoi compagni. «Come sta Rhory?», si informò Aelin. Jordan le rispose allargando le braccia in un gesto sconsolato. «Dorme», disse, «o finge di dormire per rimanere un po' solo». La ragazza socchiuse gli occhi. Annuì, cullata dal lento sciabordio della barca. «Sai chi sono gli Elaunoi?», chiese poi al mago. «Gli Elaunoi... sono un antico popolo, che è svanito nella leggenda. Un popolo di maghi, stando a quel che si dice, ed è convinzione comune che l'isola sospesa su cui sorge Lilài sia una delle loro opere. Tutto il resto è favola, e confesso di non aver mai fatto degli studi approfonditi al riguardo». «Una delle ballate preferite di Rhory parla degli Elaunoi», intervenne Jordan, «della loro bellezza dai lineamenti sottili, dei grandi occhi, dei canti e delle danze sotto la luna». Niente orecchie appuntite?, pensò Aelin. Ma scelse di tacere. «...dove sono andati gli Elaunoi con tutto il loro potere?», continuava l'altro parafrasando i versi della canzone. «Forse hanno scelto il silenzio, e adesso il vento tace, non si leva più ad accompagnare il loro canto. Forse hanno varcato la porta delle ombre, alla ricerca di altre notti e altri soli, forse hanno varcato la porta delle stelle, alla ricerca di nuovi colori. E poi
il resto, non me lo ricordo più». VIII AQUILON E LILÀI La barca lasciò i cinque viaggiatori a Porto d'Aquilon, ma la capitale si trovava a tre o quattro giorni di distanza nell'entroterra. Il che non era necessariamente un male, perché Rhory non aveva l'aspetto di un cavaliere prescelto mentre si allontanava barcollando dalla banchina. Anche i cavalli si mostrarono lieti di essere tornati sulla terra ferma. Ancora una volta si rimettevano in viaggio. La pianura attorno alla capitale era un'immensa distesa di corolle viola, interrotta solo a tratti da borghi e villaggi, e dai campi coltivati. Ma per la maggior parte del tempo non c'era che quel viola scuro e intenso, e l'azzurro del cielo. Non si vedeva un filo d'erba ma soltanto fiori, un tappeto di fiori a perdita d'occhio, e la parola brughiera si era adagiata pigramente tra i pensieri di Aelin. La giovane non aveva mai visitato la nebbiosa Scozia, né aveva letto mai un libro delle sorelle Brönte, anche se non le era stato possibile, talora, sfuggire a qualcuna delle loro infinite riproduzioni filmiche. Ma quando pensava alla brughiera la mente della ragazza andava al promontorio di Cape Frehel, in Bretagna, dove la terra era ricoperta di quel medesimo viola e c'erano, tra il verde del mare e il rosa degli scogli incantati, la vecchia torre del faro e Fort La Latte in lontananza, forse non del tutto visibile, costruito con la stessa pietra rosata delle rocce lì intorno. Aelin socchiuse gli occhi. Il lento rumore di zoccoli faceva da contrappunto alle onde del ricordo. Nessuno parlava, e il vento si era posato. Certo da queste parti deve far proprio freddo d'inverno, pensò Aelin. Poi scosse la testa, disgustata dal modo in cui un pensiero così prosaico aveva spezzato l'atmosfera stregata. In quel momento un cavaliere vestito d'azzurro attraversava la brughiera, in sella a un cavallo nero che portava una gualdrappa azzurra e una piuma bianca sul capo. Aelin e Sethrian spronarono i loro destrieri, raggiunsero Gwyon e Rhory, che si trovavano qualche metro più avanti. Presto il cavaliere dalle vesti azzurre venne loro incontro, e si presentò con un elaborato inchino: «Il mio nome è Lint, principe di Aquilon, ed è una gioia potervi accogliere prima di ogni altro. Conosco già il cavaliere prescelto, voi dovete essere l'incantatore di nome Sethrian, e voi l'indovina comparsa nel tempio di
Vultur... Aelin se non erro. Dovrebbe esserci anche l'erede di Thule, ma immagino che non tarderà a raggiungerci. Nel frattempo, poco più avanti ho intravisto una valletta riparata tra le rocce: il luogo ideale per passare la notte». La terrestre e gli altri viaggiatori per un attimo si guardarono perplessi. Era appena mezzogiorno, e sarebbero arrivati alla reggia prima del tramonto anche senza forzare i cavalli. Rhory accennò alla lettera recante il sigillo del re, che li aveva richiamati con la massima urgenza alla capitale, ma il principe gli rispose senza esitare: «Ho scritto di mio pugno la missiva. Mio padre non l'avrebbe mai firmata se non avessi minacciato di contraffare la sua calligrafia e rubargli il sigillo. Vedete, esistono delle divergenze di pensiero sulla situazione attuale, e io ci tenevo a raccontarvi la mia versione dei fatti con la dovuta calma». La valletta di cui il principe aveva parlato era un fazzoletto di terra traboccante di verde, racchiuso in una corona di pietre bianche e scabrose, simili ai denti di un mostro addormentato. Quelle rocce proteggevano gli alberelli dai forti venti di settentrione, creando un paesaggio assai diverso dalla pianura circostante. C'era uno stagno nella valle, sembrava davvero il luogo ideale per accamparsi. «Posso offrirvi il mio aiuto, indovina?». Aelin si voltò, e vide il principe che le tendeva una mano, per permetterle di smontare di sella. La giovane sorrise: i suoi compagni di viaggio non erano avvezzi a simili attenzioni, le avevano abbandonate del tutto nel momento in cui avevano accettato di darle lezioni di scherma. E poi anche lei poteva avere a tratti degli attacchi di femminismo acuto al riguardo. Non che fosse contraria alla galanteria per principio, ma in un mondo dove l'emancipazione della donna era lontana come la luna, tendeva a prestare più attenzione a certe sottigliezze. Il principe Lint però non sapeva nulla di tutto questo, era soltanto un estraneo che cercava di essere gentile, così Aelin mise la mano nella sua con un sorriso appena accennato. Il principe sorrideva a sua volta, ma la giovane, poggiando i piedi a terra, sentì il fodero della spada sbatterle sulla coscia. L'altro aveva avuto tutto il tempo per accorgersi della presenza dell'arma. Lint tuttavia non disse nulla, e dopo un ultimo accenno d'inchino tornò a voltarsi verso il resto della compagnia. Aelin portò quasi senza accorgersene le mani verso la fibbia della cintura, ma non aveva senso liberarsi adesso della spada. Si sedette tra i fiori violetti senza dire una parola.
«Va tutto bene?», chiese Gwyon sottovoce, venendole accanto. Gwyon che era divenuto sempre più taciturno e introverso, man mano che i giorni passavano. «Va tutto bene», ripeté lei con un sorriso. «E tu invece?». «Non lo so, mi aspetto di essere guardato con sospetto per i miei poteri magici, ma non...». Il giovane tacque, come a cercare le parole giuste per finire la frase; i suoi occhi si erano posati sulla figura del principe, che era tutto intento a raccogliere le pietre da disporre attorno al fuoco, e sembrava divertirsi un mondo. Lo sguardo di Gwyon era cupo mentre lo osservava. Poi il ragazzo scosse lentamente la testa. «Mi tratta come se fossi invisibile. Oppure una specie di servo». In effetti il principe non si era nemmeno degnato di rivolgere un saluto all'altro. «Sento che potrei odiare facilmente quell'uomo», ripeté Gwyon, «ma la mia forse non è altro che invidia. Perché Lint è tutto il contrario di me, e potrei ignorare il suo rango e le sue ricchezze, però non si tratta solo di questo. Perché Lint sa qual è il suo posto nel modo, lui sa chi è adesso e chi sarà, e quella che in un impeto maligno potrei chiamare arroganza è il riflesso della sua sicurezza interiore, di tutte le sue certezze. E io all'opposto... credo che tu capisca». Aelin capiva sin troppo bene. Si morse un labbro, pensierosa. «Io ho perso il mio passato», disse, «l'ho dimenticato in cambio di un futuro incerto, ma anche tu hai perduto il tuo, è stata la magia a rubartelo, né conosci ancora ciò che ti darà in cambio. E sembra che anche in questo siamo parecchio simili noi due». «Me ne rendo conto», assentì Gwyon. «Forse è per questo' che mi sto confidando con te, adesso, e non si tratta solo di Lint, no davvero. Guarda Sethrian, qualcuno ha cercato di ucciderlo, e questa è un'ottima ragione per combattere una guerra. Rhory e Jordan sono cavalieri, e se non avessero un male da combattere sarebbero costretti a inventarsene uno. Per non parlare di Lint, che ha sulle spalle il peso del regno che un giorno sarà suo. E poi ci sono io, e non c'è alcun motivo in realtà che spieghi la mia presenza qui. Credevo che il mio maestro avrebbe avuto bisogno del mio aiuto, e mi sbagliavo. Certo, Isengrin è una minaccia per tutti i maghi, ma la maggior parte degli incantatori si è guardata bene dall'allontanarsi dalla protezione di Lilài. Tu una volta hai detto che eravamo stati tutti quanti prescelti, in un modo o nell'altro. Ma non io, no... non io».
Se la scrittrice avesse dovuto definire il personaggio di Gwyon alla sua comparsa sulla scena nessuna espressione più di ragazzo comune sarebbe servita allo scopo. Ma adesso Gwyon soffriva per quel suo essere un ragazzo comune, coinvolto in avvenimenti più grandi di lui, e Aelin tornò a sentirsi in colpa per la sorte del giovane, né era la prima volta. «Hai parlato di tutti tranne che di me». «C'è un ottima ragione per la tua presenza in questo viaggio, e sono le tue visioni. Ma se hai un tuo motivo per trovarti qui, se sei solo uno strumento di Dio, o di qualcun altro, questo non posso saperlo». «Nemmeno io lo so», sussurrò la giovane, e la sua voce si perse nella tenebra incombente. «Mio padre e i suoi cortigiani sono felici di credere che i lupi siano svaniti nel nulla, e che non faranno ritorno», spiegò Lint. «I cacciatori però hanno portato pelli morbide e bianche dai Monti di Vetro: la prova che quei lupi giganteschi hanno lasciato la pianura ma non la regione. E noi dovremmo muoverci, non attendere!». Tacque, scuro in volto, come per riprendere fiato. «Ditemi, principe», fece Sethrian senza scomporsi, «dal momento che la questione sembra starvi tanto a cuore, sapete forse se i vostri lupi avessero addosso collari d'argento, o altri manufatti umani?». «No, non direi proprio», rispose l'altro sorpreso. «Il drago che abbiamo incontrato portava un simile ornamento», ricordò Rhory, «era così che il nostro nemico lo controllava». «Adesso comprendo», annuì Lint. «Ed è un bene che i lupi siano liberi da un tale controllo, vero?». «È un bene, perché vuol dire che ragioneranno col cervello dei lupi», rispose Jordan, «ed è un male, poiché ho paura che se Isengrin ha rinunciato a controllarli, erano troppi per poterlo fare». «Magari controlla i capi branco», osservò Aelin cupa. Poi Sethrian domandò dove i lupi erano stati visti per la prima volta. «Il primo vero avvistamento è avvenuto non molto distante da Porto d'Aquilon, ma le voci, e certi strani episodi che i miei uomini hanno ascoltato in seguito, potrebbero portarci sino ai piedi delle montagne. Mio padre dice che lavoro troppo di fantasia, però». «Le montagne», ripeté Sethrian e gli altri annuirono. Era lassù, che avrebbero dovuto cercare il varco dei lupi. Ma prima li attendeva la reggia.
Il castello di Aquilon era bellissimo agli occhi di Aelin, né poteva essere altrimenti, dal momento che la terrestre adorava indistintamente tutti i castelli medioevali. Come previsto la giovane passò la maggior parte del suo tempo nei quartieri delle donne, e dunque lontano da ogni discussione degna di interesse, o quasi. Interessante senza dubbio era Nadhyra, la regina di Aquilon, con le sue lunghe trecce grigie avvolte intorno al capo e la miriade di paggi che mandava per tutto il palazzo, controllando ogni cosa senza mai allontanarsi dal suo telaio. La regina era una donna assennata, tuttavia non condivideva le preoccupazioni del figlio sul pericolo che minacciava il regno e sorrideva con indulgenza tutte le volte che Aelin accennava a parlarle della gravità della situazione. «Ho visto due guerre nella mia lunga vita», era solita ripetere, «e tu sei troppo giovane per ricordarle entrambe. Non potrò mai temere le schiere dei lupi dopo aver visto gli alabardieri di Mystral sbarcati dalle navi nere, che marciavano verso la mia reggia». «Ma Isengrin...». «Faremo ciò che è necessario quando sarà il momento, senza affannarci come il nostro impetuoso figliolo». La donna scosse la testa in un gesto lento. «A volte credo che Lint dovrebbe trovare un punto fermo, ma non sarà questa storia a darglielo. Un amore, forse...». Poi Nadhyra tornava a parlare d'altro. Le filatrici continuavano in silenzio il loro lavoro, e Aelin rispondeva alle domande della regina che era, a ogni buon conto, intenzionata a sapere tutto sul viaggio della giovane e dei suoi compagni. Aelin era incerta nel formulare un giudizio su quella donna: per istinto era portata a vedere una certa somiglianza con la dama del castello della spada verde, e questo la metteva a disagio. Non che la cosa la stupisse: sia Viviana che la regina cercavano solo di agire come avrebbero fatto delle donne intelligenti in una posizione d'alto rango. E poi c'era dell'altro. «Se grazie al vostro intervento gli eredi del duca riusciranno a mettersi d'accordo, io vi sarò infinitamente grata», disse Nadhyra, «poiché voglio un gran bene a questa mia nipote, ma so che è troppo orgogliosa per tornare a corte prima di aver ottenuto il titolo di duchessa». Viviana era figlia di una cugina della moglie del re, ed era stata a lungo sua damigella in gioventù. La madre di Lint non fece accenno ai meschini
ricatti che la sua protetta aveva architettato; Aelin fu lieta di non dover tornare sull'argomento. E se la terrestre ancora non sapeva come giudicare la regina di Aquilon, aveva ormai un'opinione ben precisa sul giovane e intraprendente patriarca della capitale. Lo detestava, in parole povere. Forse perché per mezzo di costui si era per la prima volta scontrata con i ministri di Dio, e con la loro religione. Il patriarca di Auster era molto anziano, e passava la maggior parte del tempo a dormire, i cavalieri servivano il Supremo Signore più con la spada che con la parola, il prelato di Aquilon invece era nel fiore degli anni e sembrava essere stato istruito alle dispute dialettiche della scolastica. Soprattutto, il sacerdote era entusiasta all'idea di avere tra le mani la fanciulla inviata dal Signore, e aveva già scelto per sé il ruolo di tutore e guida della misteriosa ragazza. Aelin si era autodefinita indovina, o talora sensitiva, ma quell'altro la chiamava santa, profetessa, e la giovane avrebbe provato il panico alla sola vista della tunica rossa del patriarca, se non fosse stato per la regina. Nadhyra faceva mostra di approvare le ambizioni del ministro di Dio, ma ogni sua parola era carica di una sottile ironia, e Aelin non capiva come facesse il sacerdote a non accorgersene. «Non ho evitato messe e lezioni di catechismo solo per dovermi sorbire quelle di una religione che nella mia terra nemmeno esiste», si lamentò la ragazza con Sethrian, alla prima occasione. «Lint ha detto di esser pronto a difendere con la sua spada la veggente delle stelle dai turpi progetti di un sacerdote troppo ambizioso, se può consolarti». Aelin non riuscì a comprendere se una simile affermazione nascesse dall'inguaribile impetuosità del giovane, o se sua madre non avesse calcato un po' troppo le tinte nel descrivergli la situazione. Alcune damigelle a corte sussurravano che l'antipatia della regina per il sacerdote nascesse da un amore non corrisposto, ma la terrestre non credeva proprio che alla base del comportamento della donna ci fosse la sindrome della moglie di Putifarre. «Amore non corrisposto?», ripeté Sethrian con un sogghigno. «Se un briciolo di amore c'è, in questa storia, si tratta di brama per il potere». «Ma io non sono uno strumento di potere», sibilò Aelin, «e non voglio diventarlo». «Ho già pensato a tutto: diremo al re e ai suoi consiglieri che la missione sui Monti di Vetro rischia di fallire miseramente se la veggente inviata dal
cielo non vi prenderà parte. E tu verrai con noi». Le montagne erano rocce aguzze, il verde profondo delle foreste sfumava nel grigio scabro delle cime spoglie, sassi taglienti che si contendevano il cielo. Aelin sollevò appena gli occhi: nuvole azzurre si accalcavano dense e basse sul versante occidentale, ma il sole creava sulla loro superficie indefinibili sfumature di grigio e violetto. Lint precedeva sempre il resto del gruppo, cercando informazioni utili in ogni casolare di pastori; avevano dovuto presto abbandonare i cavalli, perché i sentieri si erano fatti troppo ripidi e impervi. Procedevano lentamente, e Aelin era sempre senza fiato. In più il cavaliere prescelto, che aveva cercato di rimanere neutrale nello scontro con l'alto prelato di Aquilon, si era reso conto all'improvviso di quanto poco sapesse la ragazza della religione del Signore del Tempo. Se aveva perso la memoria, aveva smarrito anche quelle conoscenze. Bisognava rimediare. «In fondo è interessante», ammise poi Aelin. «Rhory ha il buon senso di risparmiarmi i noiosi elenchi di nomi e genealogie, e io mi ritrovo a fare un continuo paragone con il credo della mia gente. Le somiglianze si accumulano, una sopra l'altra». «Questo vorrebbe dire che i due mondi hanno un creatore, o meglio», mormorò Sethrian sollevando un sopracciglio, «una scrittrice in comune?». «Vuol dire solo che i meccanismi della mente umana in linea di massima rispondono sempre alle stesse leggi», ribatté seccamente l'altra. «Io mi chiedo piuttosto come il cavaliere prescelto concili la propria opera di indottrinamento con le tue presunte origini Levantine», osservò Sethrian. «Se non si trattasse del nostro Rhory penserei che la sua reale intenzione sia quella di provocarti, di spingere la principessa Felicia a tradirsi». «A tradirsi?», ripeté Aelin, perplessa. «A Levant c'è libertà di culto, ma non per la regina o per la sua erede, che sono rappresentanti tra gli uomini della Signora delle Messi e dei Boschi». «La Dea Bianca, Cerere, la Grande Madre», mormorò Aelin con occhi sognanti, «indubbiamente mi sento più vicina alla Madre Terra che non al Luminoso Padre del Cielo. A patto che per la Grande Dea non sia prevista l'uccisione rituale di qualche re sacro». «Prego?», fece Sethrian confuso. «La Terra è una delle divinità primordiali comuni ai popoli di ogni dove.
Io ho solo ricordato alcuni dei suoi molti nomi». «E poi hai parlato di sacrifici umani. Ma a Levant non c'è mai stato nulla di simile». «Lo credo bene!», disse la giovane. «Di fronte a un'attività così scandalosamente barbarica Vultur non avrebbe potuto fare a meno di insorgere, guidando le orde dei cavalieri della fede verso est. Anche se per un capo religioso motivato è sufficiente l'esistenza di un altro dio per richiamare gli eserciti, e i guerrieri combattono in ogni luogo dove ci sia una possibilità di conquista». «Il nostro Santo Guardiano disapprova le guerre di religione, forse perché Aquilon e Vultur non hanno ricavato niente di buono dalle ultime tre, e stavano quasi per venire sgominate nella più recente». «Tuttavia a Levant c'è libertà di culto, e qui no». «Non è esatto: tu puoi credere in quello che preferisci, solo ti è vietato di far proseliti e diffondere tra la gente i precetti di una religione che non sia quella ufficiale. L'orientamento della chiesa nei confronti di non credenti e pagani oscilla tra la tolleranza e i tentativi di conversione». «Dunque non stiamo, non sto rischiando il rogo!», esclamò Aelin. «Se l'avessi saputo mi sarei comportata diversamente ad Aquilon». «Allora è stato meglio che non ne fossi al corrente», rispose Sethrian con un sorriso, «e poi perché proprio il rogo? Davvero ci sono abitudini così incivili nella tua terra? Da come me la descrivi non l'avrei mai creduto». «C'erano, alcuni secoli fa», spiegò la giovane agitando una mano. «Il fuoco è un elemento purificatore: bruciavano gli eretici, e anche le streghe». «Gli incantatori sanno difendersi da queste parti. Quanto agli eretici, devo ammettere che l'attuale Guardiano e il suo predecessore hanno mostrato di preferire il carcere alla decapitazione. Mi sembra che il Santo Guardiano in persona abbia detto che...». Sethrian non fece a tempo a finire la frase. «L'ho trovato!», gridava Lint venendo verso di loro. «Finalmente l'ho trovato!». «Cos'è che avete trovato, principe?», s'informò il mago. «Ho trovato un pastore che sa su questi lupi più di chiunque altro, e me ne avevano parlato in molti, poiché ha la fama di essere un vecchio pazzo e lunatico. Solo oggi però sono riuscito a scovare la grotta in cui passa questo periodo dell'anno. Il resto a dopo. Lo vedrete con i vostri occhi!».
«Mio padre diceva sempre che la neve ai suoi tempi era più gelata, il sole più caldo, l'erba più verde e i lupi più grandi». Il vecchio pastore sorrise dietro la sua barba grigia e arruffata. «Non avete paura a stare qui da solo?», gli domandò Jordan. «I lupi sono sempre lupi, anche se sono grandi come un cavallo, e non ho mai avuto paura dei lupi. Vedete, io capisco il loro linguaggio». I giovani viaggiatori si guardarono l'un l'altro pieni di perplessità. Forse la fama di pazzo del vecchio non era così immeritata come loro avevano pensato. «Intendete dire che parlate con i lupi, grandi e piccoli?», chiese Rhory. «Come stiamo parlando tu e io? No, questo non è possibile. Ma i lupi leggono nel tuo sguardo, e riconoscono la paura. Io non ne provo, loro lo sanno. Uso il fuoco per tenerli lontani dalle mie pecore, ma se incontro da solo un lupo nella foresta mi limito a starmene immobile, e a fissarlo negli occhi». «Funziona sempre?», fece Jordan con sguardo attento. «Se un lupo mi attacca so come difendermi, comunque». «Anche se si tratta di uno di questi giganti bianchi?». «Una volta ne ho ucciso uno, ma è stata colpa mia. Avevo scambiato un cucciolo per un comune adulto, e l'arrivo della madre mi ha colto di sorpresa. Non si ragiona con le mamme lupo, vale per tutte le femmine che allattano i piccoli. Così ho dovuto ucciderla». «E il cucciolo?», domandò Aelin, quasi distrattamente. «Vuoi vederlo?», le chiese il pastore, con un sorriso nei suoi occhi gialli, da lupo. Anche Lint sorrise, orgoglioso di averli portati sin lì. «Credevo che i lupi non si potessero addomesticare», mormorò Rhory. «Io una volta l'ho fatto», disse il vecchio. «Non si può trasformare un predatore in una specie di cane pastore, ma il mio lupo era un buon compagno per andare a caccia». Il lupacchiotto aveva il pelo candido e folto, e non sembrava per niente innervosito dalla presenza degli estranei. Aveva una gran voglia di giocare piuttosto, e prima ancora di accorgersene Aelin aveva affondato le dita nella sua pelliccia. «Adesso potete raccontarci della valle dei lupi?», chiese Lint al vecchio. «Io ho sentito molti che ne parlavano, anche se alcuni negano che l'abbiate scoperta veramente». «Sono troppi i cacciatori venuti a implorarmi perché rivelassi loro la
strada», rispose l'altro seccamente, «sembrano non accorgersi che è follia andare a uccidere i lupi nella loro tana». «Noi non siamo venuti qui per far strage di lupi», precisò Jordan. «Non stavolta almeno, e non soltanto in cinque. Perché, nonostante il rispetto che sembrate provare per queste creature, non possiamo permettere che tornino a seminare il panico per la pianura con il nuovo inverno». «Capisco. Adesso i lupi sono pochi, riusciamo a evitarci a vicenda. Durante il tempo delle nevi erano molti di più, solo che... ho più paura della valle che dei lupi in inverno, e non mi piace parlare di quello che ho visto laggiù». «Allora è veramente là il varco!», esclamò Aelin, «la porta che conduce al mondo dei lupi!». «La porta che conduce al mondo dei lupi, hai detto...», ripeté il pastore, cupo in volto. «Io di questo non avevo parlato con nessuno». «È di vitale importanza che noi arriviamo a quel portale», lo incalzò Sethrian. Il vecchio chinò la testa. «Io ho visto l'aria tremare attorno alla visione di un cielo nero e sconfinato, e tra la neve bianca si alzavano alberi dai rami spogli e ricoperti di cristalli di ghiaccio. Se un incantatore può vedere più di quanto io ho scorto, ti farò da guida, ma verrai da solo. Non sarà una gita tra i boschi». «Sono d'accordo», rispose Sethrian in fretta, spegnendo sul nascere le proteste dei guerrieri. «Però vorrei che ci seguisse anche il mio apprendista. Anche lui ha gli occhi di un mago». Soprattutto era un mago che aveva nella sua testa più nozioni sui varchi di qualsiasi altro incantatore, Isengrin escluso. Il vecchio pastore non fece obbiezioni. Legò il suo giovane lupo alla catena e si disse pronto a partire. Ai tre non restava che mettersi in marcia. I minuti passarono lenti, sino a diventare ore, tra le rocce scabre della caverna. Aelin continuava a carezzare pigramente il pelo morbido e lanuginoso del piccolo lupo. «Non sembra un vero e proprio lupo però», commentò Jordan piegandosi sulle ginocchia, «ha un muso più affusolato, e una coda un po' troppo folta». «Sembra più una volpe, in effetti», ammise Rhory avvicinandosi a sua volta.
«Ma ha molto anche del lupo», fece Lint, «come se fosse una specie di ibrido». «Tutti però non hanno esitato a scegliere il nome di lupi per queste strane creature», rifletté il cavaliere di Thule. «Forse perché le volpi, a differenza dei lupi, non sono il genere animale che incuta paura, nell'immaginario comune», osservò Aelin. «E la stirpe del cucciolo che stai coccolando di paura ne ha portata sin troppa», concluse il principe. Per un po' rimasero in silenzio, poi giunse fino a loro un distinto rumore di passi. Lint si precipitò subito fuori, Aelin fu l'ultima ad arrivare alla soglia della grotta. «Ho una lettera per Sethrian l'incantatore», annunciò un messaggero che portava i colori di Aquilon, «è arrivata al castello pochi giorni dopo la vostra partenza, e io sono stato mandato a cercarvi». «Cosa facciamo?», domandò Jordan, congedata che fu la guardia. «Aspettiamo il ritorno di Sethrian o diamo subito un'occhiata alla sua missiva?». Rhory rivolse all'amico un'occhiata che era quasi di rimprovero, ma l'altro si limitò a sorridere: «Guarda», mormorò soppesando la lettera, «non c'è nemmeno un sigillo». «Oh, dammi qua!», esclamò Aelin in quel momento. «La leggerò io, e Sethrian mi scuserà se dirò che l'ho fatto per risparmiarmi le vostre discussioni». Era Palen a scrivere: Mio caro amico, non mi sono fermato a lungo ad Austen Sembra che il mio curioso marchingegno si sia messo a fare le bizze mentre ero via, e sono stato richiamato d'urgenza a Lilài. Al mio ritorno i lampi verdi erano cessati, né ve ne sono stati di nuovi. Ci sono d'altronde alcuni esperimenti sul metallo verde che possono essere compiuti solo in questo luogo, così ho deciso di rimanere. Qui a Lilài siamo in molti a sentire la tua mancanza, e tu e i tuoi amici sarete sempre i benvenuti. Aelin riavvolse la pergamena. Il principe Lint fissava gli altri perplesso. Ignorava alcuni dettagli essenziali, perciò era tempo di spiegazioni. Non ci misero molto a raccontargli di Gwyon e della rosa dei venti, mentre Lint ascoltava con gli occhi sbarrati. «Adesso i maghi si sentono pronti a sciogliere il sortilegio di Isengrin», concluse Jordan, «ecco il perché della lettera».
«È già tempo di ripartire?», chiese il principe. «Io verrò con voi. Ma non abbiamo ottenuto molto quassù». «Eravamo venuti per osservare, in fondo, non per agire», sussurrò Aelin. «Per osservare e non per agire», ripeté Lint, «è per questo che hai scelto di non portare più la spada al fianco?». La giovane lì per lì non seppe come rispondere, sperò soltanto di non essere arrossita. «Non voglio muoverti alcun rimprovero, mia bella indovina», disse il principe incrociando il suo sguardo con quello di Aelin, «ma adesso m'interesserebbe sapere quali sono le reali capacità dei miei attuali compagni». «La mia abilità di spadaccina dovresti chiederla a chi mi ha istruito». «Io preferirei giudicare con i miei occhi e se mi concedi un simile onore potremmo confrontarci in uno scontro amichevole, mentre aspettiamo che gli altri facciano ritorno». «Accetto», disse la ragazza. Presto vennero recuperati due bastoni di legno di uguali dimensioni, per i due contendenti. Tre paia d'occhi fissavano il duello, poiché la catena del giovane lupo era abbastanza lunga da permettergli di arrivare sino all'entrata della grotta. Ma se il cucciolo bianco era attento e silenzioso, e solo a tratti agitava la coda o faceva stridere i denti, i due cavalieri invece erano attenti e molto loquaci, facevano commenti di continuo. Jordan in particolare non perdeva occasione di rammentare ad Aelin mosse e contromosse apprese durante gli allenamenti. Rhory, forse sospettando che un simile comportamento non fosse corretto, aspettava gli affondi di Lint, e non appena il principe incalzava l'altra più da presso, subito il cavaliere tornava a sottolineare l'inesperienza della giovane. «Io credo che anche il lupo stia facendo il tifo per te», non mancò di dire Jordan, e la terrestre provava il crescente desiderio di urlare agli amici di starsene un po' zitti, o in alternativa di andare a quel paese. Probabilmente lo avrebbe già fatto, se solo avesse avuto fiato in gola. Parate, stoccate e affondi si susseguivano inesorabili, senza tregua. La giovane era costretta a indietreggiare passo dopo passo, e il suo avversario non si stava affatto impegnando: le sorrideva invece. D'altronde lei non aveva mai pensato di poter sconfiggere né Lint né nessun altro. Stoccate, parate, affondi, i colpi si ripetevano in un ritmo martellante, e la fanciulla sentì il sudore scenderle lungo il collo. Rhory e Jordan adesso tacevano, la incoraggiavano solo con lo sguardo. Affondi, stoccate, parate. La giovane aveva descritto nelle sue storie almeno un paio di scene di
duello, ma i suoi personaggi parlavano senza fermarsi, al punto che il lettore talvolta ricordava a stento che un combattimento era in corso. Certo non sarebbe stata mai in grado di descrivere il susseguirsi dei colpi, citare il nome di ogni singola mossa e contromossa. Nemmeno adesso avrebbe saputo farlo, e non le importava. Affondi, parate, affondi. Per la precisione affondi di Lint e parate di Aelin, ma la giovane aveva cessato di indietreggiare. Anche perché il tallone del suo piede sinistro sfiorava ormai le radici di un albero. E tuttavia lei non demordeva, non avrebbe saputo dire da quanto tempo ormai continuava lo scontro, sapeva solo di avere i polmoni in fiamme, in una maniera che non ricordava dai giorni in cui aveva iniziato l'addestramento. Stoccate, parate, stoccate, affondi, si ripetevano a una velocità crescente, impedendole quasi di pensare. E poi, improvvisamente, tutto era finito. La ragazza aveva sollevato il suo bastone per deviare un colpo di Lint che calava dall'alto, e quasi senza sapere come si accorse di non potersi più muovere. La sua arma era intrappolata tra la pressione dell'avversario e il tronco contorto; ormai sentiva la corteccia ruvida attraverso le vesti. Il volto del principe era vicinissimo al suo, il giovane la fissava senza dire una parola. Poi Lint si fece indietro, e salutò la sua rivale con un inchino. «Sapevo già che eri bella, Aelin... indovina, ma il tuo volto pallido è ora acceso di un rossore che ti rende a dir poco splendida. E non sei poi così male con la spada, considerata la tua inesperienza. Credo che seguirò con interesse i tuoi futuri progressi». Il principe si allontanò, e Aelin, con gli occhi quasi chiusi, si lasciò cadere verso la base dell'albero, tra le radici, per non muoversi più. Udì un rumore di passi. Erano i due cavalieri che si stavano avvicinando. «Sono fiero di te», disse Rhory, «ti sei comportata bene». «Dici sul serio?», fece la ragazza, e quelle semplici parole furono accompagnate dal suono rauco di colpi di tosse. «Dovresti avere più fiducia nelle tue capacità, Aelin», sussurrò il cavaliere prescelto. Lei sollevò il capo, lo guardò negli occhi. «Il principe avrebbe potuto disarmarmi con un solo fendente sin dal primo istante, se solo avesse voluto». «Il principe forse era troppo distratto dal rossore del tuo viso in fiamme», mormorò Jordan, scoccandole un'occhiata in tralice.
«Lint è sempre molto galante, a detta delle dame del castello», ribatté la giovane. «Se avesse detto che sono graziosa allora avresti potuto preoccuparti, ma definirmi splendida è un'esagerazione sin troppo smaccata». «A parte il fatto che su questo si potrebbe discutere, devi prendere in considerazione non solo le parole, ma anche il tono con cui sono state pronunciate». «Il principe non si innamorerà della trovatella, queste sono cose che accadono solo nei racconti, per di più di bassa lega». «E questo non è un romanzo», concluse Jordan, la sua voce era strana. «Questo non è un romanzo, come tu e Sethrian siete ormai soliti ripetervi in un gioco di allusioni che soltanto a voi è noto». Forse per davvero, forse per non rispondere, l'altra era tornata a tossire come una disperata. La città di Lilài non faceva parte dei domini di Aquilon: si trovava al confine del regno, nel cuore dell'estuario del Fiume dei Venti, ed era governata dai maghi. Lilài meritava il suo nome di città delle acque: Aelin rimase a bocca aperta nel vederla per la prima volta. Lilài sorgeva nel punto in cui il fiume si perdeva nel mare, e sottilissimi archi di cristallo azzurro si levavano dalle acque. La navicella su cui viaggiavano la giovane e i suoi amici si spinse lentamente fra i pilastri altissimi e smisurati, nella fredda foresta di quegli archi, che si intrecciavano in una volta di cristalli di ghiaccio. L'acqua era verde e silenziosa, persino Rhory sembra aver dimenticato il suo mal di mare di fronte al gioco dei raggi obliqui del sole al tramonto lungo la distesa dei pilastri azzurri. Dal basso non era possibile intuirlo, ma Aelin sapeva che la struttura cristallina formava un esagono regolare sospeso a una trentina di metri dal livello del mare. L'acqua saliva all'interno dei cristalli incantati, sino a raccogliersi in un lago limpido e immoto. E al centro del bacino artificiale c'era l'isola degli incantatori. Presto sarebbero giunti. «Non hai paura?», aveva chiesto la giovane a Sethrian. «Quando Gwyon vedrà la torre dei maghi si metterà in moto un meccanismo che non potremo più fermare». «Potremmo attendere ancora», aveva risposto il mago, «ma io temo che il tempo di un tale indugio sarebbe più utile al nostro nemico che non a noi. Studiando il suo varco, ho visto di cosa è capace. Noi non siamo neppure lontanamente alla sua altezza. E lui diventerà più forte ogni giorno che passa». Sethrian non aveva nemmeno provato a chiudere il portale. Se
anche ci fosse riuscito avrebbe solo acceso un campanello d'allarme per il loro avversario. La minuscola barca su cui viaggiavano i ragazzi si sollevò piano nell'aria, sino a raggiungere una delle aperture disposte in cerchio attorno all'isola di Lilài. Il lago della città dei maghi era trasparente come vetro, immobile nella magia creata tra cielo e mare. Sull'isola verdeggiante, nel giardino eternamente fiorito, gli incantatori avevano innalzato la propria città, ma si diceva che non fossero stati loro a creare nulla di tutto ciò che li circondava. La scrittrice non aveva dato un volto, nelle sue fantasie, al popolo costruttore, né chiedere a Sethrian era stato di grande aiuto: i maghi non amavano parlare di quel mistero insoluto; probabilmente, come aveva ammesso l'incantatore, a causa della loro stessa ignoranza. Le rive dell'isola erano di marmo intagliato e gli arabeschi tracciati sulla pietra ardevano di luce aurea: quello era l'incantesimo che proteggeva la città dei maghi, che avrebbe tenuto lontano chiunque fosse animato da cattive intenzioni. Sethrian scese dalla barca, passò senza esitare la barriera lucente, ma voltandosi verso i compagni vide che alcuni sembravano come a disagio nel percorrere il sentiero di rune stregate. La città di Lilài era composta di minuscole case color del sale, seminascoste nel verde delle piante: incapaci di eguagliare la sovraumana bellezza di un luogo che altri avevano costruito, la scelta dei maghi era stata di non cimentarsi in costruzioni grandiose e imponenti, o ricche d'oro e di smalti. Anche l'alta torre con la sua cupola di cristallo non era opera loro, ma di chi li aveva preceduti. Aelin sbirciava a tratti l'espressione ipnotizzata con cui Gwyon fissava la costruzione. Rabbrividì. Mi trovo in un luogo fuori dal tempo, pensò, che parla di un altro popolo e un'altra civiltà, forse dei misteriosi Elaunoi che hanno forgiato la spada verde. E guardo in questo silenzio inumano il frutto delle mie previsioni, di una storia tracciata con punta di grafite. Spero che Gwyon potrà perdonare, spero... I pensieri della terrestre vennero interrotti dalla comparsa di Palen, che giungeva incontro agli amici. IX LO STREGONE La visita a Lilài fu di breve durata. Il suo principale scopo d'altronde era
permettere a Gwyon di rubare la falsa rosa dei venti, e quando Sethrian e Palen terminarono di discutere e scambiarsi informazioni non c'era più motivo di restare. Gli altri maghi, per quanto interessati, non sembravano intenzionati a offrire un contributo più consistente di qualche consiglio teorico, o di un incantesimo pronunciato al sicuro in un laboratorio. La notte era ormai calata, i viaggiatori avevano preparato il loro campo tra le colline. Aelin, avvolta nelle sue coperte, fissava le stelle e non dormiva, sapeva che non sarebbe riuscita a dormire. Invidiava Lint, che pur avendo il primo turno di guardia aveva già reclinato la testa sul petto, e russava sonoramente. Ma forse lui era stato aiutato. La giovane, con gli occhi ridotti a fessure, vide Gwyon alzarsi guardingo, e incamminarsi verso le colline illuminate dalla luna. Un ovale incandescente di fuoco nero si aprì nell'oscurità del cielo notturno. Il ragazzo attraversò il varco senza voltarsi indietro. Gli alberi nella valle erano spettri scossi dal vento. Aelin si alzò. Si mise a correre verso il passaggio, e non ebbe bisogno di girarsi per sapere che Sethrian, Rhory e Jordan erano dietro di lei, armati e vestiti di tutto punto. La terrestre aveva solo le calze ai piedi, e niente spada né mantello. Non doveva tuffarsi oltre la fiamma nera. Sarebbe rimasta nella radura, insieme al principe addormentato. «Sei in grado di tenere aperto il varco, Sethrian?», domandò Jordan. «Credo di sì. Spero di non doverlo fare. Sarebbe il modo migliore per annunciare il nostro arrivo». Ma l'ovale ancora non accennava a svanire o mutare di forma. Aelin quasi non ascoltava le parole degli amici: era giunta di fronte al varco e osservava, stregata, la liquida fiamma nera in cui sembravano rimescolarsi tutti i colori dello spettro. «Forse Gwyon, senza saperlo, desidera che lo seguiamo», mormorò Rhory. «E forse, di comune accordo con Isengrin, ci sta tendendo una trappola», ribatté Jordan, «però non possiamo esitare». La terrestre fissava in silenzio le venature del fuoco nero; il suo volto e la mano tesa si riflettevano sulla superficie dell'ovale che era fiamma, acqua notturna e mercurio, e nessuna di queste tre cose. «Discutere ora non ha senso», intervenne Sethrian, «il nostro prezioso principe ereditario dorme, e l'ho addormentato io perché non cercasse di seguirci. Adesso dobbiamo andare, prima che il mio residuo buon senso mi
ricordi a quale follia ho accettato di prender parte». Il mago si avvicinò ad Aelin per scostarla dal varco, ma la giovane aveva poggiato il palmo della mano sulla superficie incantata, e ormai le dita affondavano per metà in quella tenebra di fuoco. «Cos'hai fatto?», sibilò l'incantatore. Aelin non fece a tempo a ritrarsi, poiché l'altro aveva già poggiato la destra sulle dita di lei. «Non muoverti assolutamente», la avvertì Sethrian. «Questo è un varco a una sola direzione, e se ti tiri indietro la tua mano verrà tranciata». «Forse è meglio perdere la mano, piuttosto che rischiare la mia vita, e le vostre». «Niente inutili melodrammi, scrittrice. Non ti lasceremo qui a morire dissanguata. Verrai con noi. E prendi il mio pugnale, potrebbe esserti utile dall'altra parte». «Chi lo sa», disse Rhory, «forse era destino che tu venissi». E poi la giovane non sentì più nulla, le tenebre del varco l'avevano avvolta. La prima cosa che Aelin poté vedere fu il pavimento a scacchiera, con quadrati di un rosso vitreo, lucente, e di un bianco ruvido e opaco. Sollevando la testa, scorse le colonne rosate, quindi gli archi a tutto sesto dove si alternavano pietre bianche e rosse. Stile romanico, rifletté, solo che il romanico non prevedeva che gli archi si intrecciassero a crociera, se ricordava bene. In quell'istante una figura inquietante comparve sulla soglia. La giovane smise di pensare. «Avevo ragione, Gwyon, sei stato seguito», sentì dire alla sagoma. «Uno, due, tre, quattro... manca qualcuno, apprendista?». «Non vedo il principe di Aquilon». «Attento, Gwyon», disse l'altro in un sussurro appena percepibile, «tu sai cosa accadrebbe se io credessi che hai anche solo pensato di tradirmi». «Io però non posso tradirvi». Lo sconosciuto non ribatté. Per una frazione di secondo si voltò a fissare Gwyon, che era fermo un passo dietro di lui. Dopo venne in avanti, come studiando i quattro intrusi che erano penetrati nel suo castello; Aelin aveva già intuito chi era. Isengrin vestiva di bianco e indossava una maschera d'argento che gli copriva la parte superiore del volto; Isengrin aveva dita scure e sottili, e un sorriso agghiacciante. Isengrin aveva lunghi capelli d'ebano che erano le-
gati all'altezza delle scapole da un cerchio d'argento brunito, e poi raccolti in una lunga treccia che portava appuntata sulla spalla sinistra. Se avesse descritto quella figura nelle pagine di un romanzo, Aelin avrebbe dovuto cercare una scusa per dilungarsi su dei particolari marginali in un momento cruciale, ma adesso non stava scrivendo: guardava soltanto. Erano passati solo pochi istanti da quando Gwyon aveva cessato di parlare. «Cosa devo pensare io di voi», disse il mago malvagio sollevando appena il mento, «debbo considerarvi ospiti o prigionieri, o un fastidio di cui sbarazzarmi prima possibile? O forse avete, ma io non lo credo, un motivo ragionevole per giustificare la vostra presenza nel mio dominio?». I due cavalieri avevano portato mano alla spada, ma Sethrian sorrideva tranquillo, almeno in apparenza. «Ragionevole per chi?», chiese al mago avversario. «Perché per qualcuno sarebbe estremamente ragionevole voler fermare colui che ha portato tanto scompiglio nelle terre degli uomini. Ma in verità io non sono quel qualcuno». Mentre Sethrian terminava di parlare, Aelin sentì qualcosa di freddo scivolarle lungo i polsi, e chinando lo sguardo vide il luccichio di una catena, la stessa che aveva avviluppato Rhory e Jordan. Ma alle proteste rabbiose dei due cavalieri la giovane faceva eco solo con uno sbalordito silenzio. Fino a che punto è carogna questo tuo mago?, le era stato chiesto in un altro mondo, e lei ora pagava il prezzo per non aver risposto. «Un incantesimo interessante, lo hai preparato con cura», commentò Isengrin muovendo le dita sottili. «Posso mostrarti però che al confronto con i miei poteri è ben poca cosa». Il mago congiunse i palmi e una livida serpe di ferro si annodò attorno ai polsi di Sethrian, per poi mutarsi, con un ultimo sibilo, in freddo metallo. «Non sono giunto sin qui per competere con i sortilegi di isengrin», ribatté Sethrian sollevando le mani legate, «ma per apprendere il suo sapere, se mi sarà permesso». «E non ti sei chiesto qual è il prezzo che potrei pretendere, se pure decidessi di acconsentire alla tua richiesta?». «Ho visto Gwyon, e ho visto il potere nei tuoi incantesimi. Conosco il valore della libertà, ma quello della magia è più grande». «Traditore!», urlò Jordan, e altre parole che vennero deformate dalla rabbia e dall'ira. Negli occhi di Rhory invece c'era solo un'infinita tristezza.
«Traditore?», ripeté Sethrian. «Immagino di essermi meritato un simile epiteto, ma in fondo sto solo affrettando l'inevitabile. Noi tre non avremmo potuto nulla contro Isengrin, solo soccombere. E voi non siete in grado di percepire il suo potere, la magia che circonda la sua figura, mentre io posso». «Tu puoi, è vero», ammise lo stregone vestito di bianco. «Ma io non ho ancora deciso che farmene, di te». «Potresti rispondere a una mia domanda, intanto», ribatté il giovane con un sorriso impudente, e al tempo stesso venato di una paura nascosta, «potresti dirci a che serve il globo di cristallo che il tuo apprendista ha rubato e se è a causa di un tale oggetto che rischiamo... Che rischio di morire». «Sanno anche della rosa, Gwyon, e io comincio a essere davvero scontento del tuo operato». Isengrin poi sorrise, e tra le sue dita comparve una sfera di cristallo grossa quanto un pugno, solcata da una fitta ragnatela di colore blu intenso. Uno strano lampo attraversò gli occhi verdi di Sethrian. «Non ti dirò a cosa serve il globo», sussurrò Isengrin, «ma sappi che in questa sfera è racchiuso il destino del mondo». Tutto accadde in un istante: Aelin sentì la catena ai suoi polsi farsi aria, e non pensò, non ebbe il tempo di pensare, ma si lanciò con cieco istinto verso il mago vestito di bianco, stringendo nel pugno lo stiletto di Sethrian. Isengrin respinse la ragazza con un gesto della mano. Aelin avrebbe rischiato di rompersi l'osso del collo se Sethrian non avesse attutito la caduta con il proprio corpo. Ma l'attacco della giovane, seppur intempestivo, aveva distratto il mago, e Isengrin non si accorse del pugnale lanciato da Rhory. O forse lo vide, ma non fece in tempo a fermarlo. La lama attraversò il globo, la sfera si infranse in una miriade di schegge di luce vitrea. Il bagliore avvolse la figura di Isengrin. Dove c'era stato il mago malvagio, ora restava soltanto una statua di cristallo dai riflessi d'argento, catturata in un atteggiamento di una muta sorpresa. Aelin si levò in piedi, poi aiutò Sethrian ad alzarsi a sua volta. La giovane non parlava, nella sua mente si affollavano ricordi di conversazioni dimenticate. «Ti spiace chiudere quella porta, Gwyon?», disse l'incantatore con la massima calma, fissando quasi distrattamente il metallo che ancora gli cingeva i polsi. «Abbiamo parecchio di cui discutere, e non vorremmo che uno dei servitori di Isengrin giungesse a interromperci».
«Tu dimentichi, Sethrian, che faccio parte anche io dei servitori di Isengrin». «E tu dimentichi, Gwyon, che noi abbiamo un'indovina al nostro fianco. Sapevamo dell'imposizione che ti vincola al nostro nemico ormai da molti mesi». «Sappiamo anche», aggiunse Aelin in un sussurro, «che hai più motivo di ogni altro per odiare il nostro avversario». «Resta il fatto», concluse Sethrian sogghignando, «che lui non ti darà alcun ordine sino a quando resterà intrappolato nell'incantesimo sprigionato dalla falsa sfera, e potrebbero volerci dei giorni perché riesca a liberarsi». «Avreste dovuto ucciderlo, piuttosto che imprigionarlo per breve tempo», mormorò Gwyon con voce cupa, e si voltò di scatto per chiudere la porta alle sue spalle. «Abbiamo scelto il sortilegio del gelo temporale perché eravamo ragionevolmente certi che Isengrin non si fosse premunito contro un incantesimo così inusuale e complesso. E poi c'era sempre il rischio che la magia colpisse uno di noi, ricordalo». «Credo di comprendere, ma forse capirei di più se mi raccontaste tutto con ordine. Perché se conosco il mio maestro, lui avrebbe dovuto accorgersi che il tradimento e le catene di Sethrian erano solo simulati, e invece non lo ha fatto». «Allora avevate ragione tu e Aelin!», scoppiò a ridere Jordan. «La vostra non era solo paranoia!». «Avevamo previsto che lo stregone potesse leggerci nelle menti», spiegò la terrestre a Gwyon, «ma è stato proprio lui a indicarci la via da seguire per aggirare l'ostacolo, e l'ha fatto inviandoti in mezzo a noi. Non potevamo sciogliere il suo incantesimo su di te, era troppo difficile intervenire su un'imposizione già fatta e compiuta. Però potevamo prenderla a modello, e così abbiamo appreso come dimenticare le nostre reali intenzioni, per nasconderle agli occhi di Isengrin». «Non dovevamo formulare degli ordini particolarmente complessi», aggiunse Sethrian, «solo il cieco istinto di colpire il globo di cristallo. E se la sfera non fosse stata sotto i nostri occhi io avrei cercato di prender tempo con un falso tradimento, e di spingere Isengrin a mostrarci il globo rubato. Niente di più, niente di meno». «Però un po' di paranoia c'è sempre», insistette Jordan. «Aelin non doveva venire, eppure è stata sottoposta anche lei all'incantesimo». «Non è forse stato provvidenziale?», ribatté il mago. «D'altronde dove-
vamo calcolare ogni eventualità e, tanto per dirne una, all'ultimo momento Isengrin poteva ordinare a Gwyon di portarsi dietro la nostra veggente, oppure il principe Lint». «Lo so, lo so», fece il cavaliere. «Ne abbiamo discusso fino alla nausea, mi sembra». «Intanto l'incantesimo della sfera ci protegge da Isengrin», osservò Gwyon, «ma al tempo stesso difende lui da noi. Io non vorrei essere qui quando il sortilegio andrà in frantumi». «Non è nei nostri piani che tu ci sia», rispose Aelin con un sorriso. «Posso conoscerli questi piani?». «E come avevo detto», soggiunse Sethrian, «io, noi tutti in realtà, siamo venuti per il sapere di Isengrin, e non intendiamo chiedere il suo permesso per impossessarcene. Ma prima di ogni altra cosa, non potreste cercare di liberarmi i polsi?». Rhory aprì gli occhi, si chiese per quanto tempo avesse dormito. Avevano riposato a turno, e alcuni erano stati aiutati con un incantesimo a prender sonno, ma qualcun altro era sempre rimasto sveglio, e la sala di pietra bianca e rossa che li aveva accolti al loro arrivo adesso era completamente sottosopra. In un angolo c'erano i resti della serpe di ferro che avevano dovuto spezzare a colpi di spada, dacché Gwyon non poteva disfare gli incantesimi del suo maestro, e questo non era che l'inizio. Ora una fitta serie di rune, tracciate in fretta e furia ma con mano ferma, circondava la figura di Isengrin, e avrebbe avvertito i giovani dei primi cenni di cedimento dell'incantesimo paralizzante. I libri del mago non erano più disposti negli scaffali: alcuni li avrebbero portati via, tutti gli altri erano destinati alle fiamme. Rhory aggrottò la fronte. Non sapeva che cosa pensare di fronte a una simile opera di distruzione. Non era paragonabile ai saccheggi che erano l'onta dei guerrieri, non c'era alcuna violenza incontrollata, ma solo la fredda determinazione di mutare in cenere tutto il sapere raccolto in quelle pagine. Poteva pensare agli incendi di libri voluti dalla chiesa generazioni addietro, roghi contro i quali si erano levate le proteste degli incantatori. Ancora una volta, però, c'era una differenza rispetto al passato. Nessuno in quella sala credeva che i manoscritti di Isengrin fossero il male. Ma andavano bruciati comunque, perché lo Stregone dalla Maschera d'Argento era già troppo potente. E quei libri erano potere: uno strumento che bisognava
strappare alle sue mani. Il discorso aveva un suo senso. Eppure il cavaliere prescelto continuava a sentire che c'era qualcosa di sbagliato di quel ragionamento. «L'opera di spionaggio e sabotaggio prosegue!», annunciò Aelin, vedendo che Rhory si era svegliato. «A che punto siete?», s'informò lui alzandosi. «Al punto in cui sarebbe necessaria una pausa», ribatté Gwyon scuotendo la testa, «e lunga». «Ma è tutto così affascinante...», protestò Sethrian. Poi chiuse gli occhi. «Immagino che dopo un paio d'ore di sonno, però, questi caratteri non mi sembreranno più così minuscoli e spigolosi». Posò il libro che aveva tra le mani, stropicciandosi le palpebre. «Non hai chiuso occhio, e non è bene», disse Aelin scuotendo la testa. «Te lo dice una che è stata costretta a due turni di sonno e si sente sin troppe energie addosso, in questo momento. O forse è fifa, e faccio confusione...». «Tu potresti accompagnarmi in giro per il castello», disse Gwyon. «Ci servono cibo, sacche per i libri che Sethrian vorrà portare con sé, e altro ancora». «Niente sonno per te, dunque?», chiese l'altro incantatore facendo cuscino del proprio mantello. «lo sono l'apprendista di Isengrin, e sono conosciuto come tale», gli rammentò Gwyon. «Non è opportuno che voi giriate da soli per i corridoi, ve lo assicuro». «Coperte», disse Aelin contando con le dita, «ci servono delle coperte». «Vedremo di ricordarcene. E vai a svegliare Jordan, per favore, voglio che anche lui ci accompagni». «Io resterò di guardia?», domandò Rhory sedendosi su di alcuni libri messi di lato. «Dirò alle sentinelle che il maestro non vuole essere disturbato. Ma è bene che qualcuno resti sveglio. Assicurati che Sethrian prenda sonno invece, e che non si rimetta a leggere non appena avrò voltato le spalle». «Dove si trova questo castello?», s'informò Jordan. «Sei in grado di dircelo, Gwyon?». Percorrevano un corridoio che sembrava scavato nella roccia, e tutto era avvolto in un'inquieta penombra. «Isengrin è solito rispondere a questa domanda affermando che la sua
fortezza è come un cubo formato dalle intersezioni dei confini di sei differenti universi». «È un'immagine affascinante», mormorò Aelin. «Ma completamente falsa. Io non so molto riguardo alla scienza dei varchi, quel poco che il mio maestro si è degnato di spiegarmi però, è stato sufficiente a comprendere che i punti in cui i mondi si incrociano non hanno l'aspetto di figure geometriche: sono luoghi che potremmo definire... sfumati, dove diversa è la percezione del tempo e dello spazio». Avalon e il regno degli elfi, pensò la ragazza fra sé, isole di sogno e di leggenda. «Ti riferisci ai portali?», domandò Jordan incerto. «I portali, o fenditure, come è solito chiamarli Isengrin, sono una specie di squarci nel tessuto interdimensionale», disse Gwyon. «E perché il tuo maestro ha ideato una menzogna così fantasiosa, a proposito del suo castello?», chiese poi Aelin. «Perché vuole che nessuno conosca il luogo in cui si trova la sua dimora, e vi sono alcuni dei suoi alleati che non avrebbero accettato una risposta così sospettosa». Giunsero frattanto alle cucine e l'apprendista di Isengrin diede istruzioni perché preparassero dei sacchi pieni di provviste. Gli inservienti si diedero da fare perché l'ordine venisse prontamente eseguito. «E adesso?», domandò poi Jordan. «Voglio passare dalle armerie, perché non esiste ferro o acciaio che possa competere con il metallo verde, ma le armi che Isengrin dà ai suoi uomini sono di cristallo del drago». «Sethrian ha detto che non era possibile lavorare le scaglie di cristallo grezzo», obbiettò il cavaliere, «ha affermato che sarebbe stato come voler incidere un diamante con delle lame di legno». «So cosa ha detto Sethrian, ma ho visto quello che sa fare Isengrin», fu l'unica risposta di Gwyon. La corte interna del castello era immensa, e popolata da gruppetti di uomini armati, in una scena che Aelin aveva visto già molte volte, in quei mesi. Lo spiazzo però era ricoperto da una volta di un materiale grigiastro, semi-opaco, che diffondeva tutt'intorno una strana luce pallida e ombre malate. «Non v'è alcun angolo nella fortezza», disse Gwyon, «da cui si possano scorgere il cielo e i raggi del sole, ed è stato Isengrin a volerlo». Come un vampiro, pensò tetramente la terrestre, ma poi scosse la testa: il
mago voleva soltanto negare ai suoi ospiti il benché minimo indizio sulla reale posizione del suo castello. Le armerie non erano meno grandi del cortile, e le interminabili file di rastrelliere ricoperte di spade e lance erano impregnate del fumo che proveniva dalle fucine. «Non potremo saccheggiare questo luogo come abbiamo fatto con la biblioteca», disse Gwyon, «però posso sempre procurare per tutti voi le migliori armi che i fabbri di Isengrin siano in grado di offrire». L'apprendista si rivolse al custode, un uomo dalla pelle scura e dai lineamenti grifagni che sembrava controllare ogni cosa con lo sguardo. Gwyon gli riassunse la scusa ufficiale per la presenza di Aelin e Jordan, e dei loro compagni. «...sono un piccolo gruppetto, ben affiatato. Sì, sono in quattro, e il maestro vuol affidare loro non so quale missione». «Vi serve un nuovo equipaggiamento», disse il custode squadrando attentamente la ragazza e il cavaliere. «Credo di avere già le armi adatte a voi, un ottimo blu ancora caldo di fornace». «Blu?», ripeté Aelin, e oltre a poche armi di metallo l'armeria scintillava di cristalli dei più svariati colori. «Io lo ritengo il migliore», confermò l'uomo, «alcuni preferiscono i toni più scuri, che sono i più resistenti, ma una lama nera è pesante quasi quanto una di ferro. Senza contare che quel cristallo è piuttosto raro, e non per tutti». «Il cristallo blu andrà benissimo», concordò Gwyon. «Per essere precisi blu scuro per Jordan e l'altro guerriero, blu verde per la fanciulla e il mago che li accompagna. O meglio forse un singolo pugnale di cristallo nero potrebbe...». «Isengrin approverà?». «Credi che sarei così folle da cercare di contrariarlo? Però, se non sei persuaso, puoi sempre andare a chiedere a lui di persona». Il custode preferì mostrarsi convinto, e fece provare ai due giovani un buon numero di spade prima di apparire soddisfatto. Era chiaro che l'uomo sapeva il fatto suo. Aelin in particolare si ritrovò con una lama più lunga e sottile di quella che aveva adoperato sin ora, e con un'impugnatura che sembrava fatta apposta per la sua mano. Né vennero scelte soltanto le spade: al mucchio di armi si aggiunsero presto degli scudi rotondi, cotte di maglia color verde pallido, pugnali di vario tipo, elmi, lance e ginocchiere. Motivo di discussione furono anche gli abiti intessuti di fili verdi che i
due giovani indossavano, abiti di un genere che non si era mai visto al castello di Isengrin, così Gwyon si affrettò a spiegare che si trattava di una nuova idea del suo maestro, ed era solo a livello sperimentale. Poi mentre il custode dell'armeria si allontanava per cercare chi lo aiutasse a trasportare il nuovo equipaggiamento dei guerrieri, Gwyon ne approfittò per spiegare agli altri qualcosa sui cristalli. «Le scaglie di drago cambiano di colore e consistenza col passare degli anni», disse. «I neonati sono quasi bianchi, hanno una corazza fragile e molle, se paragonata agli adulti. Crescendo mutano colore passando dall'oro al verde, al blu, al nero, attraverso tutte le gradazioni intermedie. Una volta, a dire il vero, abbiamo catturato un gigantesco drago bianco ma nemmeno Isengrin è riuscito a stabilire...». Il giovane si interruppe, mentre le grandi porte di ferro della fucina si spalancavano spargendo tutt'intorno una nuvola di fumo denso e nerastro, come se fossero stati i battenti dell'inferno ad aprirsi. Ne uscì un uomo dalla corporatura robusta, con una lunga criniera di capelli bianchi. «Posso fare qualcosa per voi, messer fabbro?», si offrì l'apprendista di Isengrin, e l'altro gli spinse tra le mani una lama che aveva il fodero e l'impugnatura di un cristallo blu intenso. «Lo Stregone dalla Maschera d'Argento mi aveva ordinato di terminare le decorazioni per questa spada entro oggi, e io l'ho fatto. Adesso mi dicono che non è disposto a ricevere nessuno, e non vorrei pensasse che non ho mantenuto i termini di consegna». Gwyon si guardò bene dal sollevare obbiezioni, e cominciò a esaminare la spada appena fuori dell'armeria, mentre Aelin e Jordan approfittavano della pausa per dissetarsi a un basso pozzo rotondo. «La lama è di un metallo argenteo, il fodero di cristallo del drago. La definirei una combinazione sciocca se non sapessi che Isengrin non fa mai nulla di sciocco». «Forse è una spada magica», osservò Aelin avvicinandosi. «O è una spada magica oppure doveva diventarlo», fece Gwyon, e le indicò con un cenno le rune nascoste nel fitto disegno stilizzato di foglie e fiori che ricopriva il fodero e l'elsa. «Adesso non sento alcuna magia, ma non significa nulla. Molti incantesimi di Isengrin hanno la caratteristica di restare nascosti». «Presto potrai sentire il parere di Sethrian», gli ricordò Jordan. «Incamminiamoci, adesso. Tu sei quello che ha dormito meno di tutti, stanotte». «Presto, ma non subito», disse Gwyon sollevando lo sguardo: strani ru-
mori e grida d'incitazione venivano dall'altra parte della corte, oltre quella specie di T formata dagli edifici delle fucine e dell'armeria. «Andiamo a vedere cosa succede?», domandò Jordan. «Sì», disse l'altro. «Ma Aelin, portala tu questa spada, indosso a te un disegno floreale darà meno nell'occhio». Poi si misero in cammino, Gwyon più avanti, i suoi compagni qualche passo più indietro. Qualcuno aveva disposto lungo un basso muretto delle minuscole anfore di terracotta dipinta, e due uomini e una donna facevano a gara a colpirle con dei ciottoli rotondi, tra il vociare dei soldati. A lanciare in quel momento era un uomo alto e pallido, vestito di scuro e con i capelli neri, che portava di traverso sulla schiena un immenso spadone nero. Nessuno osò fiatare quando sbagliò il suo tiro. E tutti tacquero subito dopo, per parecchi secondi ancora. «Uno spettacolo interessante», mormorò Gwyon. «Tre dei luogotenenti di Isengrin si sfidano, e noi possiamo osservarli». Adesso si era fatta avanti una donna per il tiro: dopo aver fissato con attenzione le cinque brocche rimaste, gettò indietro con una mano la folta massa di riccioli rossi che le circondavano il viso, poi lanciò la pietra con la mano sinistra. Prese a saltellare con un gridolino di gioia quando il sasso colpì il bersaglio. Che avesse un alto grado di potere tra i guerrieri al servizio di Isengrin non era cosa da mettere in dubbio: bastava osservare la fattura della maglia di sottilissime scaglie dorate che le ricopriva il petto procace. La donna intanto si era scostata per far spazio al terzo contendente, Aelin non poté fare a meno di notare quanto fosse bello il volto di lei; la sua maglia dorata non avrebbe sfigurato sopra il tubino nero di un abito da sera terrestre. Rendendosi conto poi di aver fissato troppo a lungo la bella guerriera, spostò lo sguardo sull'ultimo dei tre concorrenti, che ancora non si decideva a tirare. L'uomo aveva la pelle color bronzo e capelli di un biondo schiarito dal sole, che più corti sarebbero stati ricci, e gli scendevano invece in onde disordinate sulle spalle. Tutti attendevano ancora che tirasse. Aelin invece era impaziente di vederlo voltarsi per poter scorgere il suo volto e la sua espressione. Il sasso attraversò l'aria e colpì una delle brocche al fianco sinistro; lo sguardo dei contendenti e degli uomini intorno era fisso sul minuscolo orcio ondeggiante. L'anfora cadde e, spostata dal colpo verso destra di un
buon tratto, trascinò nel crollo la sua più vicina compagna. «Hai una fortuna sfacciata, Stratega», commentò la donna dai capelli rossi con una smorfia divertita. «Una buona sorte che davvero non meriti». «Non mi piace parlare di fortuna. Ho avuto modo di constatare che il momento in cui credi di essere baciato dal destino precede spesso il crollo e la caduta. D'altronde può accadere...». Nel dir questo, l'uomo aveva preso un altro sasso. «Può capitare, a volte», aggiunse, «che si adoperi la parola fortuna in maniera superficiale e avventata». Queste sue ultime parole furono accompagnate dal rumore di altre due brocche che finivano in pezzi. «Adesso rimane una sola anfora», commentò il primo dei tre capitani, «e sia io che Deirdre abbiamo ancora un sasso da tirare». Aveva parlato in un tono calmo, quasi senza inflessioni, eppure c'era qualcosa nella sua voce che fece rabbrividire Aelin; e forse non soltanto lei. «Sembrerebbe che la nostra gara non debba più considerarsi valida», rispose l'uomo chiamato Stratega, «a meno che, ovviamente, il primo di voi due a tirare non manchi il bersaglio. Ed è tuo l'onore, Anton. Se farai centro pagherò io da bere, dal momento che sono stati i miei virtuosismi a render nulla la scommessa. Altrimenti, stando ai punteggi, toccherà a te mettere mano al borsello». Anton tirò, e forse fu un bene, pensò Aelin, che riuscisse a colpire la brocca poiché aveva l'aria di chi non accettava facilmente una sconfitta. Lo Stratega sorrise, e festeggiò il vincitore con un inchino quasi beffardo. Promise da bere a tutti i presenti, e fece cenno agli altri due luogotenenti di seguirlo. Poi, voltandosi, vide Gwyon e incluse anche lui e i suoi compagni nell'invito. L'apprendista di Isengrin accettò immediatamente l'offerta. Non aveva più mostrato incertezze dal momento in cui aveva scelto di voltare le spalle al suo maestro. Gli uomini alloggiati al castello di Isengrin mangiavano in un grande camerone spoglio e austero, illuminato da lampade di vetro, ma lo Stratega e i suoi invitati passarono avanti: salendo per una stretta scala a chiocciola giunsero a una saletta riservata, una specie di sovrappalco in legno quasi a ridosso delle travi del soffitto, dove arrivava a stento il rumore delle lunghe tavolate sottostanti. «Vino per noi e birra per i soldati», fece Gwyon sedendosi, «non c'era nulla di tutto ciò al castello al tempo della mia partenza, e mi sembra un cambiamento piacevole».
«Dubito che Isengrin lo giudichi tale», commentò lo Stratega versando il vino trasparente nei calici di cristallo, «poiché il tuo maestro non si è mai curato del mangiare e del bere, ed è il genere di persona che giudica con particolare durezza quei vizi in cui lui non indulge. Eppure il cambiamento era necessario, per il morale delle truppe». «Il cambiamento era necessario», ripeté l'altro capitano in tono cupo, «dici così perché lo credi davvero, Evander, o solo perché sei stato tu a proporlo?». «La tua serietà è davvero fuori luogo, Anton», mormorò Deirdre scuotendo la massa dei riccioli rossi. «Ogni uomo dovrebbe coltivare almeno un vizio per non perdere la propria umanità, e invece sembra che tu non ne abbia neanche uno, talora». «Ciò che sembra non sempre è», disse lo Stratega osservando l'espressione truce di Anton. «Non tutti, Deirdre, amano parlare dei propri vizi come fai tu, e non tutti, devi ammetterlo, hanno vizi che possano risultare altrettanto piacevoli per chi sta ad ascoltare. Per me, a ogni modo, la disciplina è come la corda di un guinzaglio: bisogna tenderla solo nel momento opportuno». «Anche ammesso che la definizione sia corretta», tornò a dire Anton con voce fredda, «si dovrebbe sempre stabilire fino a qual punto debba allentarsi il tuo ipotetico guinzaglio. Ma tu non sbagli mai, non vero? Sai sempre dire quale sia la decisione migliore, e sai come farla accettare agli altri». «Io ho sbagliato, e più di una volta», disse lo Stratega improvvisamente serio, «e per di più a volte ho la sgradevole sensazione di non avere imparato nulla dai miei errori». «A quali errori ti riferisci, Evander?», gli chiese Deirdre, curiosa. «Sai che non ti risponderò. Non amo ricordare il mio passato, e ancor meno desidero parlarne». L'uomo tacque. Per un istante, i suoi occhi chiari si colmarono di una malinconia difficile da immaginare in quel volto dai lineamenti affilati. Poi si riscosse, domandò a Gwyon se il suo viaggio fosse andato a buon fine. «Ho portato a Isengrin ciò che desiderava, e anche di più. Vorrei aggiungere dell'altro, ma custodisco un segreto non mio». Jordan sorrise appena, di fronte all'ambiguità in quelle parole. Si chiese se al giovane non fosse stato proibito di mentire agli ufficiali di Isengrin. Simili giochi di parole sarebbero stati più nel carattere di Sethrian, se dovevano rimanere fine a se stessi.
«E questi tuoi compagni», chiese ancora Evander, «fanno parte del segreto di cui parli?». «Noi non eravamo previsti nella missione di Gwyon», intervenne il cavaliere di Thule con un sorriso obliquo, «ma il destino ci ha fatto incontrare e siamo stati lieti di seguirlo fino al vostro castello. Siamo certi che in questo luogo il coraggio e un animo spregiudicato possano ottenere molto, e io ho avuto la netta impressione che lo Stregone dalla Maschera d'Argento sia rimasto colpito da noi». Se si doveva parlare a mezze verità, anche lui ne era capace, penso Jordan accennando un sorriso. «Avete visto Isengrin?», domandò Deirdre in tono teso. «Credevo che in questi giorni fosse troppo impegnato, e non ricevesse nessuno». «Al momento dovrebbe trovarsi con il nostro incantatore», disse il cavaliere, in fretta, «a noi non ha dedicato più di qualche minuto». La donna sorrise, come se le risposta l'avesse rassicurata, o come per nascondere un più profondo turbamento. Poi si accorse che Jordan la osservava, e il sorriso che gli rivolse fu troppo dolce, troppo smagliante. Il cavaliere preferì tornare a concentrarsi su altro. «Dunque non intendi parlare della tua missione, Gwyon», osservò poi Evander, «e io ho il buon gusto di non tediarvi stasera con i dettagli della mia. Ciò che conta è che siano entrambe andate a buon fine. Posso annunciarvi infatti che la lotta dei pretendenti alla corona procede secondo i piani». Jordan serrò le palpebre. Parlava di Levant, ovviamente. Il cavaliere lanciò uno sguardo verso l'apprendista di Isengrin, come per chiedergli se fosse opportuno fare qualche domanda al riguardo. L'altro scosse impercettibilmente la testa. Presto i piatti dei sei convitati furono riempiti, e anche se Isengrin non si curava della buona cucina, c'era qualcuno che lo faceva, li al castello. Aelin, dal canto suo, continuava a tacere, stava a guardare ogni cosa. Non che reputasse di avere delle particolari capacità di osservatrice, ma dare un'occhiata intorno non avrebbe fatto male. E la bella Deirdre, che celava nello sguardo e nel lampeggiare del suo sorriso una nota fredda e tagliente, si divertiva a far la civetta con tutti gli uomini presenti al tavolo e soprattutto Jordan sembrava il suo favorito, forse perché la donna era incuriosita dalla figura del nuovo venuto, forse perché desiderava far ingelosire qualcun altro. L'ufficiale alto e pallido - Anton era il suo nome - parlava poco e man-
giava ancor meno. Se ciò fosse dovuto al comportamento disinibito della donna dai capelli di fiamma, Aelin non era in grado di dirlo, ma aveva la sensazione che non fosse soltanto Deirdre la causa del suo sguardo cupo. La giovane scrittrice si sentiva a disagio nel fissare quell'uomo e il suo cipiglio, ma le occhiate furtive che talora continuava a lanciargli incontravano solo un'impenetrabile maschera di silenzio. Quanto a Evander poi, non si provava neppure a pronunciare un giudizio nei suoi confronti. Intelligente, arguto, avido ambizioso, un sorriso beffardo eppure venato di malinconia, pericoloso era l'unica parola che le veniva in mente per descriverlo. Nella scala valori della giovane terrestre l'intelligenza occupava un posto assai alto, e in virtù dell'intelligenza era disposta a perdonare molte colpe a un personaggio di carta. Ma quello non era un libro. Aelin mangiava in silenzio e si chiedeva perché il tono di quell'uomo dovesse essere così gradevole e accattivante. Nei libri era in qualche modo sempre possibile individuare il labile confine tra bene e male, né si correvano rischi nell'attraversarlo. Nei libri... «Va tutto bene, Aelin?», le domandò Gwyon in un sussurro, e lei fece un breve cenno d'assenso, cercando di accantonare i suoi pensieri. «Mi chiedo quanto ancora dovremo aspettare, prima di iniziare a fare sul serio», disse Anton in quel momento. «I miei uomini cominciano a essere stanchi, e io più di loro». «La tua fretta è comprensibile», mormorò Deirdre con la sua voce da gatta. «Sei stato tu il primo a essere stato contattato da Isengrin, ma sai che l'attesa non è senza scopo. Non fosse altro per il fatto che una guerra magica richiede una particolare istruzione. O vogliamo che i prodigi dello Stregone dalla Maschera d'Argento terrorizzino più i nostri uomini che gli avversari?». «Me ne rendo conto», ammise l'altro, «ma inizio a detestare questo buco senza sole, e rimpiango il fragore della battaglia». «Un buco senza sole!», ripeté lo Stratega con un sorriso. «Davvero un'espressione lusinghiera per descrivere la dimora del nostro Signore. Inoltre, adesso i tuoi uomini hanno terminato il loro periodo di addestramento e sono tornati al mondo del sole: tu non sei obbligato a rimanere qui troppo a lungo, se questo luogo ti mette a disagio». «Tu invece non sembri provare nulla del genere», disse Anton in tono duro, «evidentemente questa tana è degna di un essere al par tuo». «Più di quanto tu non creda, forse», disse l'altro e poi scosse la testa. «Amo gli alberi maestosi, le foglie, il mare, le nubi, ma le solide mura di
una fortezza mi danno un senso di protezione... quasi materno». «Da dove hai tirato fuori una simile sciocchezza, Stratega?», chiese Anton con un'espressione che era quasi di scherno. «Sapevo che non avresti capito, e sarei rimasto enormemente deluso se tu l'avessi fatto». «Oggi Evander parla come un poeta», intervenne Deirdre con un sorriso. «O forse fa solo finta di esserlo, per prendersi gioco di tutti noi. Ma non m'importa, e non voglio conoscere la risposta. Qualcuno ha notizie di Shiin, piuttosto?». «Sarà da qualche parte a compiere qualche insignificante commissione per il nostro stregone», commentò Anton scrollando le spalle. «Potrà anche essersi guadagnato il titolo di capitano, ma resta quello che era quando Isengrin l'ha scelto dal novero dei miei uomini, uno zelante valletto e nulla più». «Oggi hai proprio il dente avvelenato con il mondo», notò Evander scuotendo la testa. «Hai provato a picchiare qualche servetta? In genere è un'attività che riesce a placarti». Lo Stratega quasi non riuscì a concludere la frase: l'altro gli era saltato alla gola, con un'espressione assassina sul volto. Non durò più di un attimo tuttavia, i due si fissarono negli occhi, poi Anton tornò a sedersi al proprio posto, senza più dire una sola parola. «Non per difendere Shiin», aggiunse Evander, «ma devo farti notare che agli occhi di Isengrin siamo tutti valletti, più o meno zelanti. E se lo stregone preferisce tenersi Deirdre vicina, se tu non hai la benché minima attitudine per la diplomazia, questi sono solo dati oggettivi. Non stabiliscono alcuna gerarchia fra noi». «Non ti dirò quello che sto pensando adesso. Ma solo perché domani Isengrin potrebbe trovarsi con un capitano di meno al suo servizio». «È una minaccia rivolta alla mia incolumità o stai solo pensando di lasciarci? Perché in tal caso potrei darti una mano a decidere». «Adesso basta!», intervenne Deirdre con voce ferma. «È così sciocco stare a litigare tra noi, specie quando ci sono degli estranei». A quelle parole si voltò appena verso Jordan. «Molto meglio i nostri battibecchi che la gentilezza untuosa accompagnata dal filo dei pugnali», rispose Evander senza esitare, «Anton ha un pessimo carattere e forse sbaglio nel provocarlo, ma almeno so che, pur essendo capacissimo di farmi fuori in un duello, non penserebbe neppure, nemmeno per un istante, all'eventualità di tagliarmi la gola nel sonno».
«E tu invece, Stratega? Taglieresti una gola nel sonno?», indagò Anton. La sua voce era appena udibile. «No. Credo di no. Non in queste circostanze, almeno». «È una risposta ambigua», ribatté l'ufficiale. «Vuol dire che è sincera. E poi potrebbe essere un'altra, la gola che vorrò tagliare. No, non la tua, ne dubito fortemente, ma non si può mai sapere. Ho avuto modo di imparare, purtroppo, che la clemenza mal riposta può richiedere un prezzo troppo alto, talvolta». «Credevo che tu non volessi parlare del tuo passato», mormorò Aelin, e troppo tardi si accorse di aver pronunciato quello che doveva restare soltanto un pensiero. Diventò rossa in viso e non aggiunse altro, nemmeno la frase di scusa che le era salita in gola. Evander era estremamente serio quando si rivolse alla giovane: «È la verità», disse. «Il mio passato preferisco tenerlo chiuso dentro di me, però non posso impedirgli di trapelare, come luce dalle fessure di una finestra chiusa. Mi piace troppo parlare di me perché riesca a evitarlo. E forse tu questo non lo puoi comprendere, mia silenziosa amica, ma sai ascoltare. Senza ombra di dubbio sai farlo». «Ti ringrazio», fece lei, più che altro perché non sapeva che dire. «Per aver detto la verità?». «Per aver detto una verità gradita. E non tutti lo fanno». Perlomeno quell'ultima risposta non era stata troppo idiota, e Aelin in quel momento desiderava solo tornare al suo tacito anonimato. Evander sorrise e non aggiunse altro, come se, percepito il suo disagio, avesse deciso di non prolungarlo. Lo Stratega tornò a parlare della sua missione a Levant, ma senza fare il nome del regno, o degli alleati che Isengrin si era procurato in quella terra. Aelin leggeva sul volto di Jordan lo stesso desiderio che aveva lei, cioè chiedere notizie più precise. La giovane rimaneva in silenzio però, e rispondeva con dei timidi sorrisi alle occhiate di complicità che Evander le lanciava dopo aver pronunciato una frase a suo parere particolarmente ben riuscita. Sorrideva appena, poiché si era accorta dello sguardo malevolo negli occhi di Deirdre quando si volgevano nella sua direzione. O forse lo aveva solo immaginato, ma in tutta sincerità ne dubitava. X NEBBIA AVVELENATA
Quando fecero ritorno verso le stanze di Isengrin, Jordan e i suoi compagni trovarono l'atrio ingombro delle armi e del cibo e di tutte le altre cose che avevano ordinato. Lì Rhory montava di guardia, con indosso una cotta di cristallo verde, e un'espressione tesa sul volto. «Che fine avete...». «Raggiungiamo Sethrian prima di cominciare con le spiegazioni», lo interruppe Gwyon. Nella biblioteca gli scaffali erano ormai completamente vuoti, e Sethrian era intento a studiare uno dei volumi salvati alle fiamme. L'incantatore era seduto a terra, non c'erano né tavoli né sedie nella sala, ma si affrettò ad alzarsi quando vide gli altri arrivare. Né volle sentire spiegazioni di alcun genere. Ordinò a Gwyon di andare a dormire, perché lui, così premuroso con gli altri, era l'unico a non aver chiuso occhio da più di ventiquattro ore. Il giovane non sollevò obbiezioni, e prese da una tasca le chiavi che si era fatto imprestare dal sovrintendente della fortezza. Gli appartamenti di Isengrin sembravano quasi un secondo castello all'interno del primo, e Gwyon si diresse verso una delle camere da letto che lo stregone riservava agli ospiti più illustri, o a quelli che desiderava tenere sotto stretto controllo. Sethrian propose poi ad Aelin e Jordan di raccontargli della loro giornata. I due non si fecero pregare, anche se la giovane lasciò che fosse il cavaliere a parlare, interrompendolo solo di rado, e per delle precisazioni di secondaria importanza. «Così abbiamo conosciuto gli ufficiali di Isengrin», concluse Jordan, «e vi confesso che è un'esperienza di cui avrei fatto volentieri a meno. Evander è una specie di presuntuoso che ama troppo il suono della propria voce. Anton ha il volto di un assassino e modi ancor meno rassicuranti, e quella strega dai capelli rossi e le sue lusinghe poi... sono stato lieto che tu non ci fossi Rhory, te lo confesso». «Che intendi dire?», domandò quest'ultimo, perplesso. «Vorrei vedere che cosa faresti tu, se nel bel mezzo della cena una donna si sfilasse un piede dalla scarpa e...». Jordan non terminò la frase, si fermò a guardare con espressione incerta in direzione di Aelin. Anche se veniva da un genere di società che non si scandalizzava più di tanto per un piedino fatto sotto il tavolo, la giovane comprese l'imbarazzo del cavaliere e si chinò verso uno dei libri che Sethrian aveva lasciato aper-
ti sul pavimento. Ma Rhory propose a Jordan di tornare al posto di guardia nell'anticamera, e Aelin nutriva il sospetto che i due fossero più interessati a discutere delle nuove armi che dei comportamenti lascivi di una sconosciuta. Passarono solo pochi istanti, e il tintinnio delle lame che si incrociavano confermò le sue supposizioni. «Tu sai», chiese poi la ragazza all'incantatore, «in quale modo Isengrin è riuscito a lavorare le scaglie di drago?». «Non lo so ancora. Ma la risposta è in un paio di questi libri che ti vedi intorno. Nessun cenno invece alla magia dei varchi, neppure di sfuggita. E adesso che siamo soli, puoi dirmi qual è l'opinione di una scrittrice sui nuovi personaggi comparsi all'orizzonte?». «Scrittrice...», ripeté Aelin con una punta d'amarezza, e scosse appena il capo. «Ti racconterò ogni cosa, non come indovina, né come scrittrice. Forse alla fine scoprirai che sono io ad aver bisogno del tuo consiglio». «Mia silenziosa amica», ripeté Sethrian, «è così che ti ha chiamato, non è vero? Silenziosa però lo sei soltanto in presenza di estranei, e spero tu sia ben lontana dal considerarti sua amica. Comincio a pensare che non mi sarebbe dispiaciuto fare la conoscenza di questo Stratega, magari in circostanze diverse da quelle attuali. Ama troppo il suono della sua voce, ha detto Jordan; ma se non sbaglio qualcuno ha usato più o meno le stesse parole riferendosi a me». «Dove vuoi arrivare, Sethrian?». «Avresti preferito che ti ammonissi in tono minaccioso, ricordandoti che i nostri nemici sono esseri malvagi, e che provare simpatia o pietà per uno di loro è cosa folle, stolta, esecrabile? Ma io non posso dirti una simile fesseria, e lo sai. A meno che tu non provi qualcosa di più di una semplice simpatia per questo Evander. In tal caso rispolvererei tutto un repertorio di facili e desueti moralismi, sarei più che disposto a sostenere che il mondo si divide in bianco e nero, e magari con parole più convincenti di queste». «Simpatia, amore!», sbuffò la giovane. «Che vuoi che ne sappia dell'amore, io che ho passato quasi tutti i miei anni fra libri e racconti, e ho forse più amici in questo mondo che in quello da cui provengo? Ma non è di questo che voglio parlare, e nemmeno dell'amore. Perché non è l'amore ad angustiarmi». «Il principe Lint ne sarà oltremodo lieto», commentò il mago in un tono serioso.
«A questo non risponderò neppure», fece l'altra con un sorriso che tradiva il tono offeso delle parole, «è una congiura tua e di Jordan questa, uno scherzo che è durato sin troppo a lungo». «Evidentemente non mentivi quando dicevi di non sapere nulla dell'amore», osservò l'incantatore e non volle aggiungere altro. Poi raccolse uno dei libri, sfogliò distrattamente le pagine. «Aelin», disse voltandosi verso la giovane, «tu credi che io ed Evander ci assomigliamo?». «In maniera superficiale, forse. Ma dividere gli uomini in stupidi e intelligenti non è un metodo di distinzione molto più efficace dell'abituale buoni e cattivi. No, tu sei come me, cinico più nelle parole che nei fatti, io questo però lo chiamo soltanto un salutare buon senso, e mi fido di te, completamente e ciecamente». «Che discorso solenne! Adesso dovrò far di tutto per non deluderti». L'incantatore sorrise. «Grazie, Aelin, per aver parlato così». «Credevo di essere io quella in crisi, non tu». «Mi trovo nel castello di Isengrin, ho il suo sapere tra le mani. Penso a quello che è accaduto, e la recita del mio tradimento è stata convincente solo perché io ero sin troppo adatto alla parte». «Io... mi dispiace», mormorò la giovane, quasi incerta. «Eppure forse è meglio avere la possibilità di scegliere tra il bene e il male, piuttosto che essere buoni solo perché non si è capaci d'altro», continuò il mago con espressione pensierosa. «E ora passiamo a te, che sei così turbata dal fascino di un'intelligenza asservita al male. Ma se si trattasse solo dell'intelligenza qui abbiamo Isengrin, nella sua prigione di cristallo, a cui una simile dote non fa certo difetto. Tuttavia non mi sembra che tu nutra sentimenti per così dire positivi, nei confronti del nostro stregone». «È diverso», disse lei con foga. «Isengrin ha fatto del male a qualcuno che mi era caro, io so che Gwyon ha sofferto per causa sua e tu avresti potuto morire e...». «...e non è questo il punto, o almeno credo». «Credi bene. La verità è», aggiunse Aelin dopo un breve attimo di riflessione, «la verità è che Isengrin non ha senso dell'umorismo, né malinconia...». «Isengrin», ripeté Sethrian camminando con passo lento attorno alla figura dello stregone imprigionato, «...Isengrin è il mago cattivo, come tu hai detto talvolta: non è il semplice umorismo che gli manca, ma quella vena di autoironia che è quasi un ripensamento sulle proprie azioni, una
scintilla d'umanità, una speranza di salvezza, forse». «Oh, basta», fece la ragazza. «Non possiamo parlare del nostro avversario come se si trattasse dell'incarnazione del male, e sappiamo un po' troppo poco su di lui per lanciarci in simili giudizi». «Noi non possiamo», ne convenne l'altro, «ma la scrittrice cosa direbbe?». «La scrittrice ha alzato bandiera bianca. Lei ti direbbe che non esiste un cattivo guidato dalla pura e semplice cattiveria, e adesso le sembrerebbe di aver tracciato una figura a metà, un personaggio mal riuscito. Ma non abbiamo davanti un romanzo da sfogliare e forse non capiremo mai le reali motivazioni di Isengrin, o quelle di Evander e degli altri ufficiali. E non possiamo farci nulla». «Ho dimenticato i cavalli», annunciò Gwyon al suo risveglio. «Ma rimedierò presto: sceglierò quattro veloci destrieri, e poi dei robusti animali da soma. Sarà bene inoltre trasferire vicino alle stalle almeno parte dei bagagli, così da essere pronti a ogni evenienza». «Hai detto quattro o sbaglio?», disse Jordan. «Hai fatto male i conti». «Se venissi con voi vi portereste in seno un'arma sguainata, un'arma che risponde ai voleri di Isengrin». «Proprio per questo devi rimanere lontano dal tuo vecchio maestro», ribatté Sethrian, «sarai meno pericoloso insieme a noi, e lontano da Isengrin». «Inoltre non potrai mai convincerci ad abbandonarti», concluse Rhory solennemente. «Non è una buona idea. State facendo un errore», osservò Gwyon scuotendo la testa. «È il genere d'errore che distingue i buoni dai cattivi, tuttavia», commentò Jordan. «Non è un errore», disse invece Aelin, «l'ultimo comando che Isengrin ha dato al suo assistente è stato di aiutarci nella nostra missione. Noi faremo in modo che non ci siano contrordini». «Allora, Gwyon», fece Sethrian, «ti abbiamo convinto?». «E se dicessi che non è così?». «Al momento della partenza dovremo darti un colpo in testa, e rinchiuderti dentro un sacco». L'apprendista di Isengrin annuì, incerto. «Comunque volevo chiederti una cosa, adesso», riprese Sethrian. «Per-
ché qui ci sono libri a non finire, ma io non ho potuto trovare il laboratorio di Isengrin». Gwyon non disse una parola, né fece cenno agli amici di seguirlo. Lasciò la stanza e si fermò davanti a una soglia oscura. Non c'erano maniglie né serratura, ma la porta scivolò svanendo all'interno della parete non appena Sethrian poggiò la mano su di essa. «Sembra che non ci siano ostacoli», mormorò l'incantatore sorpreso, e Gwyon, che si era voltato e ora dava le spalle all'entrata, annuì in un breve cenno d'assenso. «Mille campanelli esploderanno nella mente di Isengrin nel momento stesso in cui varcherete quella soglia, e questa è l'unica precauzione che il mio maestro aveva preso. Nessuno arriva fin qui. Nessuno sarebbe dovuto arrivarci. Poi non so... qualche oggetto più prezioso all'interno sarà custodito con degli incantesimi particolari. È da molto tempo che non metto piede nel laboratorio, e il mio maestro non vuole che io sia qui. Dovrete cavarvela da soli». Il laboratorio dello stregone era avvolto nella penombra, e strane forme, sagome scure e oggetti luccicanti, si affollavano ai margini della luce che Sethrian aveva evocato. «Affascinante», ripeteva il mago continuando a guardarsi intorno. Rhory e Jordan invece rimanevano inquieti sulla soglia. «Affascinante», mormorò ancora Sethrian, e il cristallo nel palmo della sua mano illuminava fragili alambicchi e frammenti di ossa sbiancate. Aelin camminava con passo esitante tra i tavoli, ingombri di marchingegni a cui non avrebbe saputo dare un nome, e stava attenta a non toccare assolutamente nulla. Poi il suo sguardo venne attirato da una grande pietra scura, un dodecaedro nero che aveva almeno un metro di diametro. La ragazza si chinò, fermandosi a osservare una delle facce del solido di roccia, e il riflesso della luce di Sethrian sulla pietra. E Aelin vide... Vide alberi bianchi, coronati di fiamme, alberi nodosi che crescevano attorno a un lago, e quiete, silenzio. La giovane impallidì nel riconoscere l'immagine di una delle sue storie, e distolse lo sguardo, richiamando i compagni con un filo di voce appena. Tornò a guardare tuttavia, dopo il battito di un istante, tra le sfaccettature della pietra oscura, come ricercando arcani tesori perduti, frammenti dei suoi sogni, della sua mente. Invece vide soltanto una libreria per metà aperta, con una vetrata liberty
che avrebbe meritato una maggiore cura e dentro i libri bianchi di una serie economica, scelti perché erano quelli che davano meno nell'occhio in un mobile così bello. Un mobile che la giovane terrestre aveva comprato qualche anno prima al mercato delle pulci, al tempo in cui era lei sola a darsi il nome di Aelin. Casa sua... La fanciulla nascose il capo tra le mani, avrebbe pianto forse, se Sethrian in quel momento non l'avesse raggiunta. Il dodecaedro di basalto si dimostrò incredibilmente pesante, fu un'impresa trasportarlo sino alla grande sala della biblioteca. Sethrian non sapeva dir molto sulla pietra scura, se non ciò che era già facile intuire, il suo legame con la magia dei varchi, e i portali di altri universi. L'incantatore tuttavia non aveva idea di come quel dodecaedro andasse adoperato, né Gwyon era in grado di aiutarlo: lo Stregone dalla Maschera d'Argento aveva tenuto per sé il frutto delle sue ricerche sulle fenditure e sembrava non avesse lasciato nemmeno un breve appunto al riguardo. Il macigno di basalto intagliato rimaneva un oscuro mistero, poggiato in un canto della biblioteca ormai semivuota, pietra nera sulla scacchiera bianca e rossa che ricopriva il pavimento della sala. Aelin era l'unica che fosse in grado di scorgere immagini sulle facce pentagonali della pietra, e la gemma nera venne presto dimenticata. L'avrebbero portata a Lilài, le ricerche avrebbero atteso. Perché il laboratorio di Isengrin era immenso, e l'operazione di spionaggio e sabotaggio - come Aelin l'aveva soprannominata - era ancora ben lontana dall'essere giunta a termine. Sethrian solo di rado si allontanava da quel luogo, continuando a studiare, esaminare, distruggere quanto più gli era possibile. La terrestre dal canto suo aveva ben poco da fare sotto gli archi della grande biblioteca, a parte esercitarsi con la spada, e fissare talvolta la statua argentea di Isengrin, in attesa di ritrovare la prima crepa sulla sua superficie. Ma la scherma era un'attività stancante, e la figura del mago rimaneva sempre uguale a se stessa. Poi c'erano le visioni della pietra. Aelin vedeva immagini di ogni tipo, ma la sua camera, la sua casa, le città a lei note non comparivano mai, nulla che fosse legato al pianeta terra apparve più sulle facce del dodecaedro e la fanciulla non sapeva se provare sollievo o rimpianto. Vedeva immagini di storie che aveva scritto, vedeva immagini di storie che aveva letto, e c'erano figure che non avevano alcun legame apparente con i suoi ricordi. In
particolare, agli occhi della ragazza tornava a ripresentarsi un'alba sospesa e immota su di una pianura coperta di arbusti e di fiori; talora, invece, era una valle grigia circondata da monti, con la sua grigia foresta, la grigia sorgente e un lago altrettanto grigio. Accadeva spesso che Aelin si addormentasse accanto alla pietra nera. Ma sapeva che grazie ai suoi amici non avrebbe mancato di svegliarsi nel proprio letto. Deirdre batteva le sue unghie laccate d'oro sull'orlo di vetro del calice, e il movimento delle dita sottili era l'unica traccia del nervosismo celato dietro i suoi occhi scuri. «Isengrin è occupato», ripeteva sottovoce la donna, «Isengrin è occupato. Quegli stranieri hanno libero accesso alle sue stanze, e io invece ne sono esclusa». «Tu non conosci quali progetti abbia lo stregone per quella gente», obbiettò Evander, «e io attenderei di saperne qualcosa di più al riguardo, prima di iniziare a provare invidia nei loro confronti». Deirdre si voltò verso l'altro, e non parlava. Anton, seduto in un angolo, lucidava la sua spada, si accontentava di osservare la scena con un tetro sorriso sul volto pallido. «Non sono gli stranieri a preoccupare la nostra amica», disse infine il guerriero, «è solo che non è abituata a rimanere lontano dal letto dello stregone così a lungo». Deirdre sollevò il bicchiere, e lo avrebbe lanciato in direzione di Anton, se Evander non la avesse trattenuta. «Non puoi negarlo, Deirdre», mormorò lo Stratega accennando un sorriso, «saresti assai meno tesa se fra gli ospiti di Isengrin non ci fosse anche una giovane fanciulla, che in verità non aveva affatto l'aspetto di una spadaccina». «Non aveva l'aspetto di nulla», ribatté l'altra in tono duro, «e ti sfido a dirmi un solo motivo per cui lo sguardo di Isengrin dovrebbe posarsi su di una creatura tanto insignificante». «Un volto innocente», disse l'uomo senza esitare, «e questo è qualcosa che forse tu non hai mai avuto. La tua bellezza non ha pari, Deirdre, ma può incutere timore talvolta. E poi non avrei usato la parola insignificante per descrivere il tipo». «Si sapeva che avevi dei gusti strani, Evander», fece Anton con una smorfia, «ma puoi star certo che nessuno ti negherà quella specie di ra-
gazzina quando Isengrin dovesse stancarsene, e conoscendo la cara Deirdre questo accadrà molto presto». Lo Stratega fissò l'altro per un attimo, e poi spense la sua protesta in un vago sorriso: era del tutto inutile, in certi casi, stare a discutere con Anton. «C'è qualcosa che voi ignorate», sussurrò in quel momento la donna dai capelli rossi, «perché non mi importa se Isengrin dorme con un'altra, o con molte altre. Non sono gelosa, anche se so fingermi tale. Né alcun uomo potrebbe mai accusarmi d'essere stata un esempio di fedeltà, o peggio ancora di essermi mai innamorata. Voi non sapete della Lacrima...». «Svegliati, Aelin! Svegliati!». La giovane aprì gli occhi e per poco non bestemmiò nel vedere Rhory che la scuoteva per le spalle e la strappava ai suoi sogni, che avevano i colori di una visione. «Dobbiamo andare, Aelin. Sethrian e Gwyon hanno detto che presto la statua andrà in frantumi». «Quanto manca?», s'informò la ragazza gettando le coperte di lato, pallida in volto. Rhory non lo sapeva, ma Gwyon, che passava dal corridoio con un sacco sulla spalla, disse che nulla sarebbe accaduto per almeno sei ore. Più lontano, dal laboratorio di Isengrin, giungeva un rumore di vetri rotti, di complicati alambicchi che venivano frantumati in schegge sottili. Aelin scese giù dal letto e si accinse a indossare le armi che il cavaliere prescelto le andava porgendo. Non passò molto tempo: i cinque viaggiatori si ritrovarono sotto gli archi della biblioteca, inondando la sala dello scintillio di zaffiro e smeraldo del cristallo del drago. Rhory e Jordan in particolare avevano l'aspetto di guerrieri di leggenda, e pur essendo equipaggiata in maniera non molto diversa da loro, Aelin si era guardata nello specchio prima di lasciare la sua stanza e si era ritrovata di fronte all'immagine di una ragazza graziosa travestita da combattente. Non poté fare a meno di chiedersi che cosa mai potesse vedere uno sguardo esterno, fissandola. Ma non era tempo per simili domande. «Certo è proprio un bel bottino quello che ci stiamo portando a casa», commentò Jordan, e venendole vicino le sistemò la cinghia dell'elmo. «La nostra piccola impresa servirà a dare coraggio a tutti, credo». «La nostra piccola impresa...», ripeté Sethrian scuotendo la testa. «Oh,
Isengrin non sarà affatto contento quando si risveglierà, ma temo che per lui tutto questo sarà solo un minuscolo intralcio. E non abbiamo appreso nulla sulla magia dei varchi, che era la mia maggiore speranza». «Non uccidere Isengrin?», domandò Rhory, e i suoi occhi d'ambra era fissi sulla statua circondata di rune. «Isengrin sa come proteggersi», rispose il mago, «e in un nuovo scontro con lo stregone rischieremmo di essere noi ad avere la peggio». «Io non capisco nulla di magia», commentò Jordan, «se tu e Gwyon dite però che non possiamo aspettare il risveglio del pezzo di ghiaccio e poi infilzarlo con una spada, deve essere vero. Ma se gli facessimo cadere il soffitto sulla testa, adesso, mentre non può fare nulla per fermarci?». «Anche il castello è protetto, e questa sala più di ogni altra», disse Gwyon. «I pericoli di tante fenditure aperte a breve distanza non sono pochi». «Pericoli?», fece Rhory, con un filo di voce. «Non ne so molto, ma i varchi sono strappi nel tessuto dell'universo e... e forse per quanto suggestivo un simile paragone è del tutto sbagliato. Ciò che conta è che nulla può scuotere queste mura, e di sicuro non la magia mia e di Sethrian». «Le fenditure...», mormorò l'altro incantatore. Ma poi si riscosse. Quello era il momento di fuggire, non di perdersi dietro a simili speculazioni. Si misero in marcia verso le stalle, dove li attendevano degli splendidi destrieri neri, tre giumente da soma e una specie di carro per trasportare il pesante dodecaedro nero. Aelin scosse la testa: l'armatura era leggera come un panno e tuttavia ingombrante, e lei solo dopo molto esercizio era arrivata a poter dire di essere una mediocre cavallerizza. Dopo un attimo di esitazione montò a cassetta, accanto a Gwyon. A quel punto dovevano solo raggiungere il varco che avrebbe permesso loro di lasciare il castello. C'erano otto fenditure permanenti nella rocca di Isengrin, e tracciavano i vertici del parallelepipedo formato dalle mura esterne. Purtroppo il varco che i giovani avevano scelto per la loro fuga si trovava in una parte della fortezza opposta rispetto alle stalle, e la piccola carovana si ritrovò ad attraversare il grande cortile interno in un'aria di tetro silenzio. Nessuno in verità fece caso ai cinque viaggiatori, e lo scalpiccio dei cavalli sulla ghiaia attirò solo qualche occhiata distratta. Non accadrà nulla. Adesso qualcuno interverrà per fermarci. Non acca-
drà nulla, si ripeteva Aelin, mordendosi quasi a sangue un labbro. Sentiva un'enorme paura e sperava solo di non avere un'espressione troppo spaventata. «Così siete di partenza». La giovane sussultò. Era stato Evander a parlare. Insieme a lui c'erano anche gli altri due capitani di Isengrin. Anton era coperto da capo a piedi di un'armatura di cristallo nero, e si era fermato davanti al carro, in modo da tagliargli la strada. «Siamo di partenza», confermò Gwyon, «e non ne abbiamo mai fatto mistero». «Ho mai detto il contrario?», ribatté lo Stratega, accennando un sorriso. «Noi siamo solo venuti a salutarvi, ad augurarvi buon viaggio». «E noi vi ringraziamo, ma adesso i nostri compagni ci attendono». Sethrian e Jordan si trovavano più avanti, e avevano voltato i cavalli, incerti sul da farsi. Rhory, che era in retroguardia, raggiunse in quel momento il carro e chiese agli amici se avevano bisogno di qualcosa. «Nulla, nulla», rispose Evander per loro, «abbiamo solo una sciocca domanda da farvi, e poi ci saluteremo definitivamente». «Hai terminato con le tue chiacchiere, Stratega?», intervenne Deirdre appoggiandosi all'orlo del carro. «Perché io voglio sapere dov'è finita la spada, e nessuno lascerà il castello prima». «La spada?», chiese Gwyon. «Quale spada?». «Credo si tratti della lama dal fodero blu che il fabbro ci ha affidato quando siamo andati a scegliere le nostre armi», intervenne Aelin, d'improvviso, «la spada che Isengrin ha chiamato Lacrima, quando gliela abbiamo consegnata. E temo che vedendomela al fianco qualcuno abbia mal interpretato...». «Mal interpretato!», la interruppe la guerriera dai capelli rossi. «Spero proprio per te di aver male interpretato, perché quella spada è mia e non permetterò a nessuno di sottrarmela». «Non credi che la decisione spetterebbe a Isengrin, quand'anche?», osservò Gwyon in tono pacato. Evander si piazzò tra Deirdre e il mago. «È ovvio che una simile decisione spetta a Isengrin», disse, «Ma se voi avete consegnato la Lacrima allo stregone, e così mi è parso, la questione diventa puramente accademica. Non dovrebbe dispiacervi se diamo un'occhiata ai vostri bagagli». Senza attendere una risposta, lo Stratega aveva già sollevato il telo che copriva il contenuto del carro. Ma la lama che Deirdre stava cercando non
si trovava lì. Doveva essere con ogni probabilità tra le sacche di una delle giumente da soma, e Aelin rimase a osservare la scena con il fiato corto. Evander frugava tra gli oggetti del carro adoperando la sua spada per scostarli, e ostentava una simulata noncuranza sul volto. Deirdre invece rimaneva immobile, stringeva le dita pallide e fissava ogni cosa con occhi di brace. Tra le cose ammassate nel carro spiccava la mole scura del dodecaedro incantato. Ma nessuno dei capitani di Isengrin sembrò notare il solido di basalto intagliato, nessuno di loro posò lo sguardo per più di pochi istanti sulla misteriosa pietra. «E questa cos'è?», fece Evander estraendo dal fodero la vecchia spada di Aelin, che era stata forgiata ad Auster e aveva una lama di metallo, mentre dalle fucine di Isengrin uscivano soltanto armi in cristallo purissimo. «Sai, Stratega?», intervenne Gwyon. «Quella spada ha un ottimo motivo per trovarsi nei nostri bagagli. Solo non credo che la cosa debba interessarvi più di tanto». «Mi interessa invece, mi interessa davvero». Aelin si accorse in quel momento che degli uomini armati di archi si erano disposti lungo le finestre dei piani superiori, e fu lieta di aver indossato un'armatura. «Io credo che dovremmo dirglielo», mormorò poi, sorpresa lei stessa per la risposta che aveva trovato, «credo che dovremmo dir loro del torneo». Rhory strabuzzò gli occhi, ma i guerrieri di Isengrin non guardavano lui. «Quale torneo?», chiese Evander, e continuava a sorridere. «Del torneo che si terrà ad Aquilon tra pochi giorni, e che ci permetterà di insinuarci sin dentro il palazzo reale», continuò Aelin, cercando di dar forma all'idea le era venuta. «Ma le spade di cristallo non possono venire scambiate per armi normali, in nessun modo. Con queste altre sarà sufficiente far attenzione che nessuno ne controlli il peso». «È una risposta sensata», ammise lo Stratega, «e tuttavia...». «Adesso basta», fece Deirdre, e la voce era carica di risentimento, «non ho intenzione di ascoltare oltre queste sciocchezze...». «Tuttavia mi piacerebbe sapere qualcosa di più riguardo a questo torneo, e agli affari che vi portano ad Aquilon», concluse Evander. «Sono stanca di questa recita, non sopporterò una battuta di più!», tornò a dire la mercenaria. «Dobbiamo andare da Isengrin per conoscere la verità? Bene, facciamolo subito!». «Prego?», fece Gwyon fissandola. «Cosa aspettate, dunque?». «Tu forse non lo sai, incantatore», sibilò Deirdre, «ma io ho le chiavi
degli appartamenti di Isengrin, e posso usarle con la massima libertà, a patto di rispettare due semplici condizioni. Non devo varcare mai la soglia del laboratorio, e tenermi lontana quando ci sono altri ospiti. Ma è da almeno un'ora che le stanze sono vuote». Ci fu un attimo di breve, terrificante silenzio. Gli uomini alle finestre tesero i loro archi. «Il carro è bloccato, ma tu puoi correre!», gridò Gwyon a Rhory; frattanto cinse la vita di Aelin con un braccio. Il mondo si dissolse e si ricompose, però da una diversa angolazione. Gwyon e la ragazza si ritrovarono su uno dei cavalli neri, l'incantatore aveva teletrasportato entrambi. Le frecce sibilarono nell'aria, i destrieri nitrivano. Aelin sentì che le girava la testa: se per effetto dell'incantesimo o per paura non avrebbe saputo dirlo. Se il giovane apprendista di Isengrin non l'avesse stretta saldamente sarebbe già caduta da cavallo. La terrestre chiuse gli occhi, mentre la vista si faceva confusa. I suoni, rumore di zoccoli, grida, stridio d'armi invece diventavano sempre più netti e distinti. Poi svenne. I raggi del sole le colpivano il viso. Aelin aprì lentamente gli occhi: voltandosi vide il portale oscuro incassato tra le pareti di un'altura, e i riflessi verdi del campo di forza che lo intrappolavano. Da quella via nessuno sarebbe giunto, per qualche tempo almeno. Senza dire una parola la ragazza si levò in piedi e raggiunse i suoi amici, immobili sull'orlo di una stretta terrazza di pietra. Ai loro piedi si stendeva una valle grigia, circondata da alti monti, e Gwyon era pallido in volto, aveva un'espressione terribile nello sguardo. «Sarebbe stato meglio venir presi al castello, forse». La voce del giovane era appena un sussurro. «E invece sono caduto in un errore così... stupido!». «Cosa...», sussurrò la ragazza. «Isengrin ha cambiato la disposizione dei portali». Sethrian taceva, la fronte corrugata. Rhory aveva negli occhi un ottimismo che non riusciva a esprimere a parole. Jordan aveva calato il cappuccio sul capo, il suo volto era nascosto. Secondo i piani avrebbero dovuto raggiungere il mondo dei lupi, e poi cercare il varco che da li conducesse ad Aquilon. Proprio per questo avevano portato con loro parecchi flaconi del repellente ideato nei laboratori
di Isengrin contro quelle bestiacce. Ma adesso sembrava che Aelin e i suoi amici fossero andati a finire chissà dove. «Questa è la valle dei draghi», disse Gwyon. L'apprendista dello stregone si allontanò a grandi passi, e gli altri raccontarono ad Aelin quello che erano riusciti a sapere prima dal giovane. In quella valle i rettili alati erano soliti accoppiarsi presso una sorgente d'acqua calda a loro particolarmente cara. Giungevano guidati da un istinto fortissimo, dopo un lungo ed estenuante corteggiamento tra le cime dei picchi tutt'intorno. Studiando i draghi, Isengrin aveva notato che non erano in grado di levarsi in volo e superare le irte pareti montane, se prima non si rifocillavano. Per recuperare energie, quelle creature divoravano i rami e i tronchi degli alberi che ricoprivano la parte orientale della vallata. O almeno così avevano fatto sino a quando Isengrin non aveva ammantato la foresta di una coltre di vapori venefici, che per un drago significava la paralisi istantanea, se era tanto incauto da avvicinarsi. «Credo si tratti della stessa sostanza che ho adoperato io al passo montano», spiegò Sethrian, «e se non altro posso dire con certezza che noi non subiremo alcun danno». Sarebbe stato strano il contrario d'altronde, dal momento che il metabolismo delle belve alate era completamente diverso da quello umano. «Insomma», concluse Jordan, «o per fame o per fumo i draghi sono destinati a soccombere, e quando non hanno quasi più forze per Isengrin è facile assoggettarli al proprio volere». «Questa è la sorte dei draghi», mormorò Aelin, «ma la nostra?». «Le montagne sono aspre», rispose l'incantatore, «stando a quel che dice Gwyon non ci sono sentieri. Ma noi non siamo ancora morti, e dovremo tentare quella strada, per quanto impervia ci appaia». La ragazza non disse nulla, il suo volto si era fatto cupo. «Noi ce la faremo», le promise Rhory, e si voltò a guardarla, come se avesse intuito il suo timore. «Anche tu ce la farai, a costo di portarti in spalla metro dopo metro, roccia dopo roccia». «E forse per causa mia periremo entrambi», sussurrò la giovane, in tono assai tetro. «Non lo permetterò!», esclamò il cavaliere, poi chinò il capo. «Comunque sarà ciò che chiede la volontà di Dio, e il mio onore». «Il tuo onore», ripeté la terrestre, «ma tu sei il cavaliere prescelto, il tuo compito è salvare il mondo, non una sciocca che si è cacciata nei guai di sua stessa mano».
«Insomma, Aelin», sbottò Jordan irritato, «pretenderesti davvero di essere abbandonata?». «No... io, no... non credo di avere un simile spirito di sacrificio», balbettò la ragazza, «e tuttavia...». «In fondo non importa», disse Jordan in un sospiro, «perché io non sono stato prescelto da nessuno, il titolo di erede di Thule non comporta poi responsabilità così grandi, e nulla potrebbe dissuadermi dal rischiare la mia vita per la tua». E fu così che l'intromissione di una scrittrice nel suo stesso romanzo mandò tutto penosamente a rotoli, pensò la ragazza, evitando lo sguardo dell'altro. «Nessuno di noi morirà», tornò a ripetere Rhory, e pur non essendone affatto convinta, la giovane si sforzò di sorridergli. «Avete concluso con il melodramma?», domandò Sethrian con uno sguardo un po' obliquo. «Adesso dobbiamo darci da fare, e risparmiare l'autocommiserazione per tempi peggiori... o migliori, forse». Le brutte notizie intanto non erano finite: una delle giumente da soma era stata abbattuta dalle frecce nemiche, e la perdita del suo carico andava ad aggiungersi a quella del carro. Avevano dovuto lasciarsi indietro parte dei libri rubati e pure il prezioso dodecaedro nero; date le loro condizioni, anche la scomparsa di quasi metà delle provviste avrebbe potuto creare situazioni spiacevoli in futuro. I cinque giovani ricontrollarono con attenzione i bagagli superstiti, cercando forse qualcosa da poter abbandonare, ma c'era poco o nulla che sembrasse superfluo, e a ogni modo avrebbero avuto tempo in seguito per alleggerire il carico. La prima tappa era tutta in discesa. Stando a quel che diceva Gwyon, le montagne a nord-est erano il punto meno pericoloso per tentare la scalata e si doveva attraversare l'intera vallata per raggiungerle. Si misero in marcia, fermandosi solo sul far del tramonto, ai margini della foresta avvelenata. Prepararono il campo nel più assoluto silenzio, e gli occhi di Aelin tornavano a posarsi sui rami grigi e secchi del bosco, sulla fitta nebbia violacea che sembrava aver catturato gli ultimi raggi del sole, accendendosi di una vaga luminescenza maligna. Tronchi e rami avevano assunto riflessi di perla in quella luce spettrale, e pallidi fantasmi viola accompagnavano l'ultima fase del crepuscolo. Poi cadde la notte, il bosco svanì nelle tenebre. Aelin raggiunse gli amici attorno al fuoco, e si sedette, poggiando il mento sulle ginocchia.
«C'è qualcosa che devo dirvi», esordì con voce limpida e chiara. Tutti si voltarono a guardarla. XI CANTO DI DRAGHI C'è qualcosa che devo dirvi. Il momento era arrivato. Aelin chiuse gli occhi, fece un gran respiro. «Io vi ho mentito, vi ho mentito molte volte. Ho mentito quando ho detto di non ricordare il mio passato. E ho detto una menzogna quando vi ho lasciato intendere che ero in grado di predire il futuro». Rhory era allibito, attendeva in silenzio che l'altra riprendesse a parlare. Jordan invece stava fissando Sethrian con un'espressione attenta, e non poteva essere un caso. «È ovvio che non puoi predire il futuro, perché il futuro non esiste, se non come pura possibilità», osservò Gwyon con un accenno di sorriso. «Per non essere un'indovina, comunque, sembra che tu abbia delle fonti di informazione davvero efficienti». «Il sogno della spada verde e quello di ieri notte li ho avuti davvero, ma non riguardavano il futuro, soltanto il presente. E non sapevo di avere una simile capacità quando... No, è meglio che vi racconti tutto dall'inizio, adesso. Spero vorrete sentire sino alla fine». La ascoltarono nel più assoluto silenzio, e la giovane parlò loro del suo mondo, della sua vita passata, del suo romanzo. Il tutto in frasi brevi e concise, con gli occhi fissi sul fuoco. Eppure i due cavalieri non sembravano affatto sconvolti, e Rhory le sorrideva dolcemente. «In fin dei conti non avevi mentito presentandoti come indovina, anche se allora non lo sapevi. Ignoravamo soltanto che il nostro Signore ti ha cercata molto più lontano del previsto». «Questo mette a tacere, se non altro, coloro che volevano attribuire a ogni costo delle nobili origini alla nostra indovina», aggiunse Jordan sottovoce. Rhory divenne un po' rosso. Il cavaliere di Thule rivolse un sorriso furbo alla fanciulla. «Dunque voi mi credete! Mi credete... davvero», disse Aelin. «È più facile credere», intervenne Sethrian, «quando su di te veglia un'entità superiore capace di far apparire l'improbabile e l'impossibile come
parte di un disegno predestinato. Avremmo dovuto pensarci prima, forse». «Che vorresti dire, incantatore?», chiese Jordan. «Soltanto che non è così facile, per me, accettare la storia di Aelin. Anche se non metto in dubbio la sua sincerità. Senza contare che c'è una differenza enorme, cavalieri, tra le visioni di una sensitiva e la decisione presa a tavolino di scrivere un racconto inventato». «Credo di comprendere i tuoi dubbi», ammise Gwyon, «eppure la storia della nostra amica non mi sembra così inverosimile. E io fin'ora ne so più di te riguardo alla magia dei varchi». «Non so se sia un bene o un male, però, che tu mi difenda», sussurrò la giovane. «Non capisco». «Vedi, Gwyon, tutto si riallaccia all'affascinante teoria alternativa che Aelin si è premurata di fornirmi», mormorò Sethrian. «C'è sempre la possibilità, mi ha detto, che sia stato qualcun altro a suggerire le sue frasi, e i ricordi che vi stanno dietro». «Isengrin», disse l'altro strascicando le parole, «il mio odiato maestro. E io sono la prova del suo potere in una simile arte». «Per quel che mi riguarda è molto più semplice credere alla storia di Aelin», ribatté Rhory in tono pacato, «ed è quello che intendo fare». Forse un cavaliere non poteva comprendere con esattezza quante fossero le implicazioni che si affollavano dietro al gesto di scrivere un romanzo. Forse un cavaliere non voleva - né sapeva - capire che cosa significasse l'infrangersi improvviso della linea di confine della realtà. Per poi ritrovarsi, senza comprendere come, dalla parte sbagliata della barricata. Tuttavia Rhory e Jordan non erano stupidi, pensò Aelin, no che non lo erano. Avevano un'educazione completamente diversa dalla sua alle spalle, ecco tutto. «È difficile per me credere che esistano altri mondi, altri universi», mormorò Jordan. «Ma una volta accettato questo, la storia di Aelin diventa perfettamente logica. Lei credeva di inventare ciò che una voce, la sua voce, le suggeriva da lontano... E adesso che è qui può ascoltare con molta più chiarezza. Questo dovrebbe spiegare anche le visioni». «Forse sarebbe meglio dire», osservò Gwyon, «che la vicinanza le permette di percepire in maniera più nitida gli eventi». «Non capisco la differenza». «Tu parli di qualcuno, io di nessuno. Aelin è una sensitiva e vede ciò che accade in questo mondo. Tirare in ballo degli intermediari potrebbe essere
pericoloso, sino a quando non saremo in grado di dare loro un'identità». «E poi», intervenne Sethrian, «non so fino a che punto vi convenga affermare che la voce di Dio si faccia più debole mano a mano che si allontana da questo mondo». Era un'osservazione ineccepibile, eppure Aelin ne avrebbe fatto volentieri a meno. Jordan comunque non fece commenti, e nemmeno Rhory. «Adesso si spiegano certe frasi dense di sottintesi che tu e Sethrian vi scambiavate», disse invece il cavaliere di Thule rivolto alla giovane. «Ma sappi che quanto ci hai appena detto non mi spaventa, o almeno non ancora. Di sicuro, se tu prendessi un pezzo di pergamena e scrivessi, non so... proprio in quell'istante la belva sputafuoco comparve sulle loro teste, e io vedessi un drago sospeso sopra di noi, allora non sono certo che...». «Sembra che tu abbia dimenticato qual è il nome di questa valle», osservò lei, «e che nulla dovrebbe sorprenderci meno di un simile incontro nel luogo in cui ci troviamo». «A parte il fatto che i draghi non verrebbero così vicino alla foresta di nebbia», precisò Gwyon, «piuttosto si limiterebbero a osservarci a distanza». «Là tra le rocce», disse Rhory come soprappensiero, «mi è sembrato di vedere il luccichio dei loro occhi». «Come?», chiese Sethrian. «Quando?», aggiunse subito Jordan. Entrambi balzarono in piedi, aguzzando gli occhi nella direzione indicata dall'altro. «Adesso... prima...», il giovane scosse la testa, confuso, «mi vien quasi da pensare che ho solo sognato, e poi non volevo interrompere Aelin». «È pressoché impossibile riuscire a vedere qualcosa con questo buio», commentò Sethrian. «Io però non riuscirei a dormire», obbiettò Jordan, «al pensiero che lì fuori c'è un drago». «Tre draghi», lo corresse Rhory, «o tre o nessuno. Io ho visto tre paia di occhi lampeggiare nel buio». Non dovrei essere io quella che ha le visioni? Si disse Aelin, inclinando leggermente la testa. Jordan frattanto stringeva le dita sull'impugnatura della spada, e non parlava. «Non c'è dubbio che dovremo uccidere ogni drago che ci venga a tiro»,
disse Sethrian, «se non altro per sottrarre una nuova vittima al nostro avversario e ai suoi collari d'argento. Tuttavia aspetterei l'alba per dare inizio alla caccia. I miei cristalli all'aperto servono a ben poco». «Se c'è bisogno di luce io sono pronto a fornirla», si offrì invece Gwyon, «preferisco combattere, piuttosto che tornare a pensare... a quello che non è andato per il verso giusto». «E che luce sia!», esclamò Jordan estraendo la spada. «Che luce sia», ripeté Rhory, con lo sguardo fisso nel buio e nella distanza. I draghi c'erano veramente. Ed erano tre, dando ragione alla vista acuta di Rhory. Erano lì, un enorme dragone dalle scaglie blu notte, e altri due, più piccoli e verdi, che rimanevano l'uno accanto all'altro. Gwyon aveva un'espressione ferma e immota: il giovane mago teneva alta sul suo capo una sfera di luce argentea, e la radura era illuminata a giorno. Jordan si diresse verso il luccichio metallico delle ali color di notte, mormorando parole di sfida appena sussurrate. Ma la creatura non le avrebbe comunque comprese. Il combattimento ebbe inizio, una spada e uno scudo di cristallo del drago contro gli artigli di un drago ancor vivo. Uno contro uno, come volevano le regole della cavalleria, osservò Sethrian con un filo di voce. D'altronde Rhory in quel momento teneva a bada i due draghi verdi, che piccoli erano solo per modo di dire, mentre la magia poteva ben poco contro le scaglie delle creature alate, o almeno questo valeva per i poteri di Gwyon e Sethrian. Le iridi del grande drago erano di un limpido azzurro, e brillavano come fiamme vive. Scrutando quegli spaventosi occhi alieni Aelin si strinse nel suo mantello, e nonostante ciò che dicevano le antiche norme, una lotta guerriero-contro-drago era sensata quanto i tentativi di un singolo fante ai danni di un pesante carro armato. «Non temere», le mormorò Sethrian, «i nostri cavalieri sanno il fatto loro, e impugnano spade affilate». Jordan si lanciò in un affondo improvviso, la sua lama quasi tagliò di netto uno degli artigli della belva, ma solo per rimanerci incastrata dentro. I due draghi verdi socchiusero gli occhi, le loro voci si levarono in uno stridio irreale, nel suono di clarinetti tesi a eseguire una melodia dissonante. Il bestione blu gonfiava la gola per raccogliere l'aria che alimentasse la
sua fiamma; Jordan alzò lo scudo sul capo mentre ancora cercava di liberare la spada. Rhory si mise a correre in direzione dell'amico. «Fermatevi», urlò, «fermatevi!». Stupefatto Jordan si voltò a guardarlo. E il drago anche. «Non sono impazzito, no...», tornò a dire Rhory, «io riesco a sentire le loro voci, i pensieri... le voci dei draghi. Non ha senso questo combattimento, perché è Isengrin è il solo nemico». «Tu riesci a sentire cosa?», domandò Sethrian superando Aelin a grandi passi. «Quando e in che modo, cavaliere, ti sei accorto di sentire i draghi?». «Io non lo so. Ora, adesso...», balbettò il giovane, e poi il suo sguardo si incontrò con quello della belva alata. «Non mi credono. Vedi? Né me ne stupisco. Ma tu puoi convincerli. Apri e chiudi le ali, due volte. E sapranno che mi stai ascoltando». Il drago distese e poi raccolse le sue grandi ali metalliche, in un cerchio di sguardi stupefatti. Jordan lasciò la presa sull'elsa, e sembrava incapace di proferir parola. Sethrian invece continuava a guardare affascinato il giovane cavaliere prescelto. «Il drago del passo!», esclamò Aelin all'improvviso. «Il drago del passo, sì! Deve essere quella la chiave! Perché il sangue verde si è mescolato a quello di Rhory, cadendo sulle ferite». «Non mi risulta che il sangue di drago abbia simili poteri», obbiettò Sethrian, «ma sappiamo così poco sui draghi...». «Davvero poco!», confermò Gwyon avvicinandosi, mentre il globo di luce che aveva creato si spegneva nella notte. «Nemmeno Isengrin sospetta lontanamente una cosa simile». «Dunque tu ritieni che Aelin abbia ragione», commentò l'altro mago. «Io so solo che Rhory non aveva sentito la voce del drago del passo. E adesso invece riesce a comunicare con queste creature». «Loro dicono che Aelin ha colpito nel segno», intervenne il cavaliere prescelto indicando le belve, «e non credo possano sbagliarsi». «Non sembrano adirati per l'uccisione di un loro simile», mormorò Jordan osservando guardingo gli occhi luminosi delle creature alate. Allungò una mano verso la propria spada. Non fece a tempo a toccarla. Il grande artiglio in cui era conficcata la lama si spezzò e scivolò a terra, e cadde anche l'arma del cavaliere. «I draghi combattono e muoiono», mormorò Rhory, «ciò che li sconvol-
ge è la schiavitù imposta da Isengrin ai figli del fuoco, ogni loro pensiero grida vendetta contro chi ha osato tanto». «Cosi nella valle in cui credevamo ci attendesse la morte, troviamo invece dei potenti alleati», esclamò Gwyon in un'aspra risata, «e io pagherei per essere presente quando Isengrin verrà a saperlo». Il grande drago blu piegò il lungo collo squamoso. La sua voce aveva i toni dell'oboe. «Alascura approva il tuo desiderio di vendetta, Gwyon, ed è lieto di combattere al tuo fianco», spiegò Rhory. «Lucefredda è il nome che ti danno i draghi, e dicono che dovrai esserne fiero». «Davvero?», chiese Gwyon sorpreso. «Non credevo che i draghi potessero comprendere il linguaggio degli uomini». «Loro non possono, ma io sì, e i miei pensieri non hanno segreti per i figli del fuoco», ribatté il cavaliere prescelto. «Anche se non sembra che li comprendano in pieno. I nomi umani, per esempio, non gli fanno grande simpatia, e credo che nel giro di breve tempo ci avranno ribattezzato tutti, in un modo o nell'altro. Nel tuo caso ovviamente è stato il globo di luce che avevi evocato a colpirli». «Tutto ciò potrebbe portarci a riflessioni di grande interesse», commentò Sethrian. «Ma forse, per il momento sarebbe opportuno dedicarci a questioni più concrete». «Che genere di questioni?», domandò Jordan. «Se noi abbattiamo gli alberi della foresta avvelenata, in modo che lontano dalla nebbia malefica i draghi possano nutrirsene, loro saranno disposti in cambio ad accoglierci sul proprio dorso, a portarci verso terre più ospitali?». Il suono d'oboe e di clarinetti che fuoriusciva dalle bocche dei draghi formò una melodia aspra e concitata, che sembrava suggerire una violenta eccitazione. Le belve alate erano già pronte ad accettare l'offerta di Sethrian. «Io non so se sia saggio da parte nostra sottoscrivere un simile accordo», obbiettò Jordan, e raccolse la propria spada da terra, «almeno non senza aver posto prima delle condizioni precise. I draghi non godono di buona fama nelle terre degli uomini, questi nostri inconsueti alleati potrebbero rivelarsi un pericolo non meno grave dello Stregone dalla Maschera d'Argento, ed è nostro dovere assicurarci che ciò non accada. In fin dei conti noi possiamo sempre cercare di superare i monti con le nostre sole forze, sono loro a non avere scelta».
La notte era cupa, lo sguardo di Sethrian sembrava essersi perso tra le ombre, come se i suoi occhi stessero fissando qualcosa che lui solo era in grado di scorgere. «Anche nel caso in cui non fossi attaccato alla vita», disse il mago con un filo di voce, «non potrei comunque dimenticare l'importanza dei volumi e dei fogli sottratti a Isengrin: il mio primo pensiero adesso è portare questo sapere rubato sino alla città di Lilài». «Non possiamo lasciare i figli del fuoco nelle mani dello stregone», aggiunse Rhory con veemenza. «Alascura ha promesso di vegliare perché nessun altro cada nella sua trappola, e poi non voglio abbandonare lui e le sue compagne a un simile destino». «I tuoi sono nobili sentimenti», commentò Sethrian con un mezzo sorriso, «però non posso negare che le parole di Jordan hanno il loro valore. Se la nostra alleanza deve essere qualcosa di più di un semplice patto del momento, ci saranno delle norme ben definite. Ma questo non è il tempo né il luogo per metterci a stilare un contratto. Non vorrei essere ancora qui, quando lo stregone decidesse di degnarci di una sua visita». Quella notte non dormirono che poche ore a turno. Rhory in particolare non stava fermo un istante, diceva che la fame dei draghi non l'avrebbe comunque lasciato riposare. Nessuno d'altronde desiderava rimanere in quella valle di morte un minuto più del necessario. Né si trattava di raccogliere qualche ramo da terra. Per alzarsi in volo, soprattutto con dei passeggeri in groppa, i draghi avrebbero dovuto trangugiare almeno una mezza dozzina di tronchi d'albero. Tra le cime aguzze dei monti intanto aveva fatto capolino la luna, che giungeva a illuminare il lavoro di quei taglialegna improvvisati. Non era ancora giunta la nuova alba, che già i draghi avevano trovato un nuovo nome per ciascuno dei cinque giovani umani. Rhory diceva che per i figli del fuoco erano più immagini che parole, ma quei nomi forse avevano più importanza per gli uomini che per i draghi; rappresentavano la prova tangibile della loro alleanza. Così Jordan era Artiglio, Rhory Sangueverde, Sethrian si era guadagnato l'appellativo di Tracciadisegni mentre spiegava alle creature alate che per trascinare dalla foresta i pesanti tronchi d'albero avrebbero dovuto tirare delle corde, il tutto facendo ricorso a degli schemi abbozzati sul terreno. L'episodio era avvenuto durante il periodo di sonno di Rhory, ed era la prima comunicazione priva di telepatia tra uomini e figli del cielo.
Più complicata era l'origine del nome toccato ad Aelin, Pensiero, e lei ne era particolarmente orgogliosa. Il casus belli stavolta era stato l'elenco di proibizioni che Jordan andava accumulando. «Nessun uomo dovrà essere ferito, ucciso o mangiato, né dovrà essere fatto alcun danno alle sue proprietà, alle case, agli armenti e a ogni altro animale domestico, né ai campi, e bisognerà comprendere anche i terreni incolti e le foreste troppo vicine alle zone abitate...». Ma il cavaliere prescelto aveva interrotto l'amico: i draghi erano confusi, anche con la mediazione di Rhory non riuscivano a capire ciò che l'altro diceva, e il concetto di proprietà risultava loro incomprensibile. Aelin si era subito fatta avanti: «Tutto quello che vi serve è un po' di relativismo storico, ma credo di potervi aiutare». E dato che i figli del fuoco sembravano ragionare per immagini attraverso le immagini la giovane aveva costruito il suo discorso. «Pensa a un omino armato di lancia, Rhory, a un cacciatore solitario, che incontra la preda, la uccide, la arrostisce, la mangia. Soffermati sulla fatica che il nostro cacciatore ha dovuto affrontare per sconfiggere la bestia, perché sarà uno dei cardini del discorso». Era proprio la fatica a spiegare la rabbia dell'ipotetico cacciatore preistorico quando qualcuno o qualcosa, un lupo forse, cercava di sottrargli gli avanzi messi di lato per i giorni seguenti. «Fin qui è tutto chiaro», mormorò Rhory. I draghi sapevano bene cosa voleva dire cacciare, e quello non era che il primo tassello, agli occhi della giovane. Gli omini di Aelin si moltiplicarono vertiginosamente, tanti piccoli cacciatori che si alleavano per cacciare le belve più grosse, e per difendersi da ladri e razziatori. Tutto in nome del principio che ciascuno aveva diritto a godere del frutto delle proprie fatiche. Dopo quel primo rudimentale patto sociale gli uomini scoprivano l'allevamento, imparavano a catturare vivi alcuni animali e a renderli mansueti. Anche le cure che il pastore dedicava al suo gregge equivalevano a fatica, e questo era il segno del possesso. Lo stesso criterio la giovane lo adoperò per descrivere le pratiche dell'agricoltura, e poi la divisione del lavoro, chiamando in causa sommariamente le figure di tessitori, vasai e costruttori, aggiungendo poi il passaggio dall'uso del baratto a quello della moneta sonante. I draghi avevano seguito e apprezzato il ragionamento. Per questo l'avevano chiamata Pensiero.
Rimaneva ancora una questione aperta, ed era la pretesa degli uomini di possedere un bosco, una palude o delle altre terre incolte, perché questo, l'equivalenza di stampo storicistico tra proprietà e fatica, non valeva certo a spiegarlo. «Qualcuno potrebbe pensare che la tua lezioncina non sia poi così brillante come sembrava a prima vista», fu il commento di Sethrian, «ma forse il difetto non è tanto nelle tue parole, solo nella società che descrivono». «E tu hai già qualche soluzione in mente, mago?», domandò Jordan, ma senza astio o rancore. Nella sua voce c'era soltanto una profonda stanchezza. «Per le sorti del mondo, o per la discussione in sospeso con i draghi?». «Io temo che l'unica sia dire la verità», rispose Aelin. «Gli uomini si sono spartiti il pianeta come se si trattasse di un'azione dovuta. D'altro canto, se i draghi sono creature del cielo noi siamo il popolo della terra. Se poi qualcuno è di parere contrario, quale occasione migliore di una guerra combattuta fianco a fianco per dimostrare all'uomo che non è solo sulla faccia della globo?». E forse anche così i figli del fuoco faranno meglio a non contare troppo sulle benemerenze di guerra, ma a procurarsi piuttosto un buon avvocato. Quest'ultimo pensiero, a ogni modo, la giovane lo tenne per sé. Sethrian invece aveva ancora un'ultima osservazione da fare. Attese che Rhory si fosse allontanato, segno che le sue parole non erano per i draghi, ma solo per gli uomini. «Non ti pare che manchi qualcosa, Jordan, nella descrizione della nostra amica? Poiché il dono che il Supremo Signore ha fatto ai sovrani comprende a pieno diritto il possesso della terra, e questo Aelin sembra averlo dimenticato». Jordan non disse nulla, ma quel suo silenzio fu, a voler usare una frase fatta, più eloquente di qualsiasi risposta. Sorse il sole sulla valle, e tramontò un'altra volta. Fu necessario liberare i cavalli. Non avrebbero potuto portarli con loro, ma l'idea di darli in pasto ai draghi venne presto scartata di fronte alle occhiate colme di disgusto dei cavalieri. E poi figli del fuoco, contrariamente a quel che si credeva, alla carne preferivano la legna secca: conteneva meno acqua, non lasciava residui, come le ossa, e bruciava interamente. Ormai il momento della partenza era vicino, e le stelle avrebbero tracciato per loro la strada.
Volarono via, volarono sotto la sferza di un vento ghiacciato, volarono oltre la tetra morsa delle montagne, in una notte popolata di nubi e di stelle, volarono in un'aurora priva di colore, nelle trame di un cielo grigio intessuto di luce, mentre l'oscurità ormai svaniva. Volavano ancora quando sotto il sole di mezzogiorno videro gli archi azzurri della città sospesa, i sottili archi di cristallo che sembravano protendersi tra il blu del mare e il pallido celeste dell'aria. Erano giunti a Lilài, erano ormai in salvo e quasi non sembrava vero. Abbastanza prevedibile fu invece la reazione con cui i maghi accolsero l'arrivo di quei nuovi alleati, i draghi, con le loro immense ali di metallo. Dopo i primi minuti di ferale sgomento e una volta compresa la portata del legame che univa Rhory ai figli del fuoco, gli incantatori passarono presto dalla paura al più vivo entusiasmo. Non che avessero abbandonato da un momento all'altro ogni cautela, ben inteso: c'era sempre chi si mostrava scettico o perplesso, ma i draghi erano un prezioso oggetto di studio, e la cosa non poteva essere ignorata. Alascura ripartì in tutta fretta. Zanna e Favilla, le due femmine verdi, sembravano invece aver eletto l'isola dei maghi a loro dimora, almeno per il tempo che avrebbero impiegato a deporre e far schiudere le uova. Ben nutrite e vezzeggiate, le femmine drago erano abbastanza amichevoli nei confronti degli incantatori, e il gruppetto capeggiato da Palen e Sethrian era pronto a compiere tutti gli esperimenti che fosse possibile mettere in atto senza infastidire troppo le loro due ospiti. Bisognava andarci cauti con i figli del fuoco, anche perché ormai dovevano fare a meno della mediazione di Rhory. Il cavaliere prescelto infatti aveva deciso di lasciare Lilài, dicendo che toccava a lui fare rapporto ad Auster; a lui e a nessun altro. Aelin, dal canto suo, riscopriva la biblioteca della città sospesa, e quanto fosse piacevole stare con il capo chino sui libri fino a provare quel vago senso di sazietà che è quasi nausea, ed è noia. La noia. Aelin si sentiva dell'umore giusto per scrivere il panegirico della noia; poiché la noia è quel sentimento sublime che pervade il tuo animo solo in quei momenti di calma vuota e piatta in cui nessuno sta cercando di sbranarti, ucciderti, mutilarti, o di preparare per te qualcun altro di questi trattamenti deliziosi. Nel lento cullare di quegli istanti di stasi la terrestre percepiva tutta la differenza tra quel vivere che è sopravvivere e lottare per la propria esistenza, e quello che è un semplice lasciarsi trasportare dalla corrente. Era strano, adesso trovava il tempo per svegliarsi in tarda mattinata, sce-
gliere con cura l'abito che avrebbe indossato, e riavviarsi i capelli; non solo per vanità, non esattamente. Era diventato una specie di rituale mattutino: quei gesti, con la loro apparente banalità le parlavano di una vita priva di pericoli, un'esistenza tranquilla. Trovava il tempo per riflettere sui ponderosi volumi che leggeva e che le davano un'immagine sempre più complessa e concreta di quel pianeta che non era il suo. O forse era sul proprio mondo che lei voleva, e doveva, riflettere. E allora la noia si mutava in un'insinuante e agrodolce nostalgia. «La mia terra, la mia casa», si ripeteva la giovane in un sussurro, «la mia mamma, il mio papà, tutti quelli che conoscevo...». Un triste elenco che lei stessa era tentata di concludere con qualche elemento inatteso come la cioccolata e il gelato di nocciole. Quelle ultime parole tuttavia rimanevano solo nella sua mente, simbolo di tutto ciò che era superfluo, e che non le mancava davvero. Mio padre, mia madre... tornava a ripetersi. Aveva solo vent'anni, e rischiava di non vederli mai più. Sì, mai più. L'occasione di carpire a Isengrin i segreti dei varchi dimensionali l'avevano avuta e perduta. Non se ne sarebbe presentata un'altra tanto facilmente. E poi, lei non aveva nemmeno più vent'anni. Era passato quasi un anno dal giorno in cui era comparsa nel tempio di Vultur. Ogni secondo che passava la portava lontana da ciò che era stata... Aelin scosse la testa, allontanò ogni pensiero. Forse era davvero meglio non pensare, lasciarsi portare alla deriva. Bussarono alla porta in quel momento, era Sethrian, e la giovane sorrise mentre gli apriva. «Sei già stanco degli esperimenti quest'oggi, incantatore?». «A dire il vero mi sono appena alzato, e prima di recarmi dalle nostre due mamme drago avevo pensato di salutarti». Già, lei e Sethrian avevano gli stessi orari di sveglia... Strano averlo dimenticato. «In questi giorni stiamo imparando parecchie cose sulla cura dei draghi, e sul perché sono così poco prolifici: è tutta una banale questione di temperatura», disse poi il mago, come intuendo che lei gli avrebbe chiesto qualcosa al riguardo. «Tra gli ottanta e i novanta gradi le uova prosperano, sotto gli ottanta muoiono per il freddo, al disopra dei novanta abbiamo... uova di drago ben cotte. Le scaglie cristalline non trasmettono alcun calore, le femmine di drago quindi non possono accovacciarsi sulle uova come farebbe una chioccia premurosa. Proteggono i figli sotto le ali di metallo,
ma questo vuol dire affidarsi al capriccio del sole. A meno che...». «A meno che?», ripeté la giovane. «Ma certo», aggiunse, «le sorgenti termali! Ecco perché la valle di Isengrin era tanto importante per i draghi». «Anche le fonti d'acqua calda solo in alcuni casi possiedono tutte le caratteristiche necessarie alla cova dei draghi», continuò l'altro annuendo, «ma fornire un ambiente a temperatura costante non è difficile per gli incantatori. E sembra che i figli del fuoco abbiano trovato un aiuto diverso da quello che si aspettavano, a Lilài». «È un ottimo motivo per accogliere le richieste dei loro alleati umani anche quando sembrano non capirle, non credi?». «Lo credo. Considerato che un drago femmina può deporre in media una o due uova l'anno, e che attualmente meno di un uovo su venti arriva a schiudersi...». «Temi la sovrappopolazione della stirpe dei draghi?», domandò Aelin. «Che dirti, c'è da sperare che la cura della prole distragga le mamme drago per qualche anno almeno. Ma tanto saranno sempre i maghi a decidere a quante uova dare asilo». «Sovrappopolazione?», fece Sethrian. «Ma è proprio quello che auspico! I draghi possono mangiare benissimo paglia, fieno, o alghe essiccate. E perdono ben poco del calore generato dalla loro fornace interna, tranne che nel particolare momento dell'accoppiamento, o quando decidono di sputare fiamme. Ma il punto è che i figli del fuoco potrebbero diventare di qui a cent'anni il più comune mezzo di trasporto, e il merito sarebbe di noi maghi!». «I draghi come mezzo di trasporto...», ripeté Aelin pensierosa. «Certo, potreste nutrirli a petrolio, e l'inquinamento non dovrebbe neppure essere eccessivo». «Non sono sicuro di aver capito». L'altra scosse la testa in una risata: ci sarebbe voluto un bel po' per addentrarsi in una discussione sui mezzi di locomozione della sua epoca. Eppure era proprio quello che avrebbero fatto. «Ti accompagno, parleremo lungo la strada!», disse poi con un sorriso. E sorridendo a sua volta, il mago le porse il braccio. XII IL CASTELLO DI THULE Quando Aelin giunse in cima alla bianca torre dei maghi, l'aria era in-
fuocata nel silenzio del meriggio e i raggi del sole si infrangevano sui vetri azzurri della cupola che coronava l'edificio. La terrestre ascoltava assorta i propri passi lungo l'ampia terrazza assolata; poi si accorse di non essere sola. Con un gomito poggiato al parapetto di pietra, gli occhi chiari persi nell'oceano, Jordan era lì, immobile e pensoso. I secondi passavano lenti, né la giovane né il cavaliere accennavano a parlare. Il ragazzo non dava segno di essersi accorto della presenza dell'altra, e lei si voltò, come per tornare sui propri passi. «Io sono un cavaliere della fede», disse allora Jordan, «ho giurato di difendere con la vita e la spada il credo del Supremo Signore, contro ogni manifestazione del Male». «Questo lo so», rispose la terrestre aggrottando la fronte , «o almeno dovrei saperlo». «Sai anche qual è il principale simbolo del Male che dovrei combattere?». «Il simbolo...». «È il drago, l'alato terrore dal sangue di fiamma. E se ho potuto accantonare questo pensiero, sino a quando eravamo in pericolo di vita, adesso torna a bruciarmi nella mente, come fuoco». «Io ritengo...». «Tuttavia io non voglio, non posso credere che Rhory mi stia mentendo. E Rhory continua a ripetermi che non c'è alcuna malvagità nelle menti dei draghi, ma solo una fierezza indomita e selvaggia. Né penso che sia così sciocco da essersi lasciato ingannare. E poi ci siete voi, tu, Sethrian, e a volte mi sembra questa intera isola sul mare: tutti voi mostrate solo un sorriso, di disprezzo o di condiscendenza, a seconda dei casi, verso il mio Dio, la mia religione. E forse nemmeno vi preoccupate di cosa significhi per me tutto questo». «Jordan, se ti ho in qualche modo ferito...». «No». Il cavaliere scosse la testa. «Tu non parli male delle divinità altrui, non in presenza degli interessati almeno, ma c'è chi lo fa per te, e che a dargli il suo incondizionato assenso sia proprio colei che si è autoproclamata la scrittrice della nostra storia... Ecco, questo non è esattamente un pensiero confortante». «E io cosa dovrei fare adesso?», domandò la giovane. «Provarti che Dio esiste? O che non esiste? Quale Dio, poi? Quello che governa il tuo universo, o quell'altro in cui per primo mi è stato insegnato a non credere? Il Signore del Tempo non è nemmeno l'unica divinità del tuo pianeta. Io non
posso dire se esiste un Dio o quale aspetto abbia. Non posso nemmeno negare la sua esistenza, anche se mi piacerebbe farlo. E mi riesce così facile, quando il mio interlocutore non si prende la briga di contraddirmi. Comunque io non pretendo di essere perfetta, né tanto meno di rappresentare un modello per gli altri». «E Sethrian era un modello, nella storia che stavi scrivendo?». «Tutti i personaggi di un romanzo sono modelli, ma non necessariamente modelli da seguire». «È una risposta evasiva». «Sethrian è nato, nella storia, come mio alter ego, mio portavoce. Dunque non può essere esemplare nel senso più alto del termine, proprio perché io non lo sono». «Questo è ciò che dici adesso, parlando con me». «Ma perché il ruolo di Sethrian nel mio romanzo sarebbe così importante per te?». «Forse non voglio vivere in un mondo dove i maghi sono i detentori del vero sapere, e io sono soltanto il povero idiota di turno». «Quest'ultimo epiteto preferiresti appiopparlo a Sethrian, oppure a me. Mentre invece nessuno può dirsi depositario del vero sapere». «È ciò che fa la mia chiesa». «Tutte le religioni rivelate, a dire il vero». «Anche tu, pur affermando il contrario, usi termini come in realtà, o invero, per sostenere le tue verità». «Le verità di un sapere relativo, e dunque passibile di revisione in qualsiasi momento. O almeno lo spero». «Lo speri!», ripeté il giovane, poi tacque, e rimase a fissare l'altra con i suoi occhi azzurro vetro. «Jordan, perché stai dicendo a me tutte queste cose?», chiese infine la ragazza. «Perché non a Rhory, prima che partisse, o a un altro cavaliere, o a uno dei tuoi sacerdoti dalle vesti rosse?». «Non posso parlare a Rhory, non quando lui è parte del mio problema e poi... non lo so, forse semplicemente mi fido di te». «Io... oh, grazie. Cercherò di aiutarti come posso, anche se forse riuscirò soltanto a peggiorare la situazione». «Forse è proprio così che deve essere. È necessario toccare il fondo dell'abisso, a volte». La giovane si sedette sui gradini che portavano all'interno della cupola di vetro, e rimase in silenzio.
«Da dove vogliamo cominciare?», disse poi. «Dio e la chiesa sua figlia, sono il cardine della vita di ogni credente», recitò Jordan, «e non sono passibili di errore». «Dio forse, ma la chiesa...», obbiettò l'altra, e il ragazzo la interruppe scuotendo la testa. «No, Aelin, non puoi separare il Supremo Creatore dalla sua voce in terra. O meglio, tu forse puoi, ma io non posso». Lo credi davvero o stai soltanto ripetendo la lezioncina del catechismo locale?, pensò la giovane. Tuttavia non lo disse. «Non dovrei criticare la tua chiesa», disse invece. «Si mostra molto più incline alla tolleranza di quanto non facesse il suo equivalente terrestre in certe epoche del passato. A meno che non si voglia pensare al rinascimento... Ma non mi sembra opportuno, considerando quello che poi avvenne in seguito. No, una controriforma è l'ultima cosa di cui abbia bisogno questo mondo». «Lo sai che non ti capisco», disse Jordan fissandola. «Stavo parlando più che altro con me stessa», gli spiegò la giovane. «Vedrò di rimandare a tempi migliori le cronache dell'ecclesia romana. Soprattutto perché la storia di questa terra non è il pallido fantasma degli avvenimenti di un altro mondo; non seguirà la strada che il mio pianeta ha percorso, non necessariamente, almeno. Ma una cosa, dalle vicende terrestri, l'ho imparata: persino gli istituti religiosi cambiano nel tempo, cambiano mentalità e atteggiamenti, pur affermando che al fondo della loro dottrina c'è la parola di Dio, eterna e immutabile. La mia chiesa non si è mai trovata di fronte dei draghi in carne e ossa, scheletri di dinosauro esclusi; ci sono stati tuttavia altri simboli del male, come i gatti neri, i famigli delle streghe. Adesso vengono considerati semplici animali da compagnia. Magari qualcuno ritiene ancora che portino sfortuna, ma in quel caso si può al massimo cambiare strada, e non sono nemmeno sicura che la chiesa approvi simili superstizioni». «E le streghe?», domandò il cavaliere. «L'opinione comune è che non esistano, anche se non è poi così comune come potrebbe sembrare a prima vista. Il dato di fatto comunque è che i roghi sono passati di moda da un pezzo». «Quindi tu dici che la chiesa, la mia chiesa, finirà con l’accettare i draghi», argomentò Jordan, «forse fra qualche anno, forse fra qualche secolo. E ciò che dicono i testi sacri verrà tranquillamente accantonato. Non so per quale motivo però, questo pensiero non mi è di conforto».
«Non si tratta di accantonare», lo corresse la ragazza, «ma di mutare angolo d'osservazione. Il drago è un simbolo del male, tu dici, e sta bene. La spada è un simbolo del guerriero, ti rispondo, e il drago non equivale al male, proprio come la spada non è il guerriero. Tra la cosa simboleggiata e ciò che la rappresenta non c'è che un rapporto di pura convenzionalità, anche se è un errore comune a molti popoli credere vero il contrario». «La tua argomentazione è giusta», ammise lui, «tuttavia...». La sua argomentazione avrebbe potuto venir smontata facilmente da un teologo, pensò Aelin, perché se i simboli dell'uomo sono convenzioni, i simboli di un dio invece possono considerarsi l'ossatura stessa della realtà, dove significato e significante coincidono. Era studiando Dante che aveva imparato quelle cose? Non lo ricordava. E in ogni caso non intendeva farne assolutamente menzione. «Cos'è che ti turba realmente, Jordan?». «Non lo so. O meglio, temo di saperlo, e di non riuscire a chiarirlo a parole nemmeno a me stesso». «Io credo che l'ostacolo per te non sia accettare i draghi come alleati, ma renderti conto che li consideri già tali, e questo al di là di qualsiasi dottrina religiosa. La difficoltà non sta nel conciliare le due cose, ma ammettere che in fin dei conti l'avallo della fede non ti interessa più di tanto». Colpito e affondato. L'espressione di Jordan non lasciava dubbi. «Da cosa l'hai capito?», sussurrò il ragazzo. «Non lo so, forse è solo che continuavi a ripetere ciò che un credente o un cavaliere avrebbe dovuto fare o pensare, e non quello che tu facevi, o pensavi». «Invidio Rhory», ammise Jordan. «Invidio la naturalezza con cui è riuscito a ricomporre il proprio quadro del mondo, come se nessuna dissonanza fosse mai esistita fra il suo legame con i draghi e gli insegnamenti del Supremo Signore. La fede di Rhory è viva e flessibile come un giunco. Io temo di avere nel mio animo soltanto un ramo secco, una serie di aridi precetti imparati quasi meccanicamente, e pronti a spezzarsi al primo accenno di tempesta. Ho accettato i draghi, proprio come avevo fatto con i maghi, e adesso temo di scoprire che la mia fede era falsa, e che io sono un cattivo cavaliere». «Un cavaliere!», ripeté Aelin. «È così importante per te trovarti un'etichetta, un...». «Importante, si. Forse lo è davvero», la interruppe il suo interlocutore. «In fin dei conti fa parte anche questo della mia educazione: nobile, cava-
liere, credente, non sono parole che io possa mettere di lato con una scrollata di spalle, e se pure ne fossi in grado io avrei paura, una grande paura». «Il ramo è secco forse, ma le radici sono ancora vive, mi sembra», fece la terrestre sollevando lo sguardo. «E non sono io, temo, la persona più adatta a darti consiglio. Nella migliore delle ipotesi, Jordan, io non saprei che spingerti verso l'eresia... Dovresti parlare con Rhory, o con qualcun altro che condivida la tua stessa fede, e di cui tu possa fidarti». «Ti sbagli», disse il ragazzo fissandola dritto negli occhi. «La tua opinione ha un grande valore per me. Lo avrebbe anche se tu fossi soltanto Aelin, anche se tutte le tue previsioni non si fossero avverate, ogni frase pensata, ogni sogno notturno, come invece è stato». La giovane tacque, interdetta: non sapeva cosa dire, e lo sguardo del cavaliere la riempiva di sgomento. «Se c'è una cosa che non posso predire», mormorò infine, «è proprio la non esistenza di Dio». «Non capisco». «È complicato... ma mettiamola in questo modo. Quando indosso i panni della scrittrice io descrivo un mondo dove ogni elemento è parte di un quadro razionalmente concepito, secondo i disegni di una volontà ordinatrice. La mia volontà, fino a quando la storia rimane sulla carta; Dio, il fato o il destino nel momento in cui il racconto prende vita, e si fa di carne e di sangue. Ma io dico che Dio non esiste, e le sorti dell'universo sono affidate al caso: la corrispondenza tra il romanzo e il mondo si sgretola, rivelando il caos dietro la facciata di un ordine illusorio. Non può esserci alcuna certezza nelle mie predizioni, ma solo probabilità, e posso sbagliarmi nel negare l'esistenza di Dio come qualsiasi altro essere umano». Jordan le si sedette accanto e scosse piano la testa: «Non so perché, amica mia, ma ho la netta sensazione che il tuo ragionamento segua una logica soltanto apparente, anche se non saprei dirtene il motivo». La ragazza si portò una mano alla fronte, cercando di ricordare esattamente le parole che aveva usato, e con suo grande disappunto si accorse di non riuscirci. D'altronde non poteva negare che quel suo discorso era partito da una conclusione obbligata, e ciò andava a scapito del distacco teorico. «Forse dovremmo seguire un'altra strada», disse poi, «per vedere se conduce alla medesima meta. Da un lato ci sono le mie visioni, veritiere fino al giorno d'oggi, ma con un campo d'osservazione molto ristretto. Si tratta solo di singole scene, e nessuna conteneva rivelazioni riguardo all'esistenza o alla natura di Dio. Poi ci sono i miei scritti e, certo, fino a quan-
do stavo seduta alla scrivania era facile affermare: niente divinità di sorta nei miei racconti, lascio gli Dei a delle storie meno riuscite...». Sospirò. «Di fronte alla vastità di questo mondo vivo, reale, concreto, simili frasi sembrano perdere tutto il loro valore. Come non potevo esser certa nella mia terra dell'esistenza di un dio, allo stesso modo non posso esserlo qui. Se vogliamo essere precisi poi, in nessun punto del mio romanzo io avevo affermato che gli dei non esistono, se non per bocca di Sethrian, e la sue parole al riguardo non contano, dal momento che in fatto di religione il nostro amico mago ha una posizione vagamente estremista. Proprio come me, temo». Jordan scosse il capo: «O, in altre parole, nonostante tutti i tuoi saggi discorsi contro le verità assolute, nel tuo intimo continui a credere in realtà che non esiste alcun Dio, né in questo né in nessun altro mondo». «Credere non è sapere», tagliò corto Aelin. «È irrazionale, come la fede...». A quelle parole Jordan sorrise. Scattò in piedi, e aiutò Aelin ad alzarsi a sua volta. «Ho soltanto un'ultima domanda da farti», disse. «Verrai con me quando partirò da Lilài?». «Partire per dove?». «Verso Auster e poi Vultur, sulle tracce di Rhory. Non ho deciso se parlerò con il mio amico come mi consigliavi, non subito almeno. Non c'è nulla però che io possa fare qui, nella città dei maghi, e ormai sono stanco di starmene con le mani in mano». «Con tutta probabilità nemmeno partendo concluderemo qualcosa di utile», rispose la giovane, «ma se non altro ci rimarrà il piacere del viaggio». Il castello di Thule sorgeva tra le colline cariche di vigne e di olivi, a metà strada tra la città dei maghi e il forte dei cavalieri; le sue torri spigolose e asimmetriche facevano da contrasto a un cielo azzurro e terso. L'ultima Thule doveva essere il romanzo di qualche autore latino o greco che parlava di lontane lande innevate, ma la somiglianza in tal caso non andava oltre il puro suono del nome, e le terre del feudo di Jordan erano l'immagine della macchia mediterranea. Se fossi stata io a scegliere il nome, potrei dire di aver usato un procedimento ossimorico, ma non è opera mia, pensò Aelin. Trattenne le redini del suo cavallo, mentre il sole, ormai basso nel cielo, le sfiorava il volto con una carezza tiepida.
«La mia casa», sussurrò Jordan guardando la sagoma scura della rocca, e l'altra sorrise di un segreto sorriso. Perché viti, ulivi, i pini dalle chiome scure e pungenti, erano tra le piante della sua infanzia, di estati lunghe e pigre, e anche lei si sentiva un po' a casa. Il castello di Thule aveva alte mura grigie e corrose, che si dispiegavano in un disegno irregolare attorno al nucleo più antico. La rocca era una costruzione di marmo levigato, con le sue tre bianche torri angolari, e là dove sarebbe dovuta sorgerne una quarta c'era un'ampia conca d'acqua di forma circolare. Sia l'antico castello che quello nuovo tutt'intorno sembravano far mostra della loro maestosa mole nell'aria del crepuscolo, e l'imponenza del maniero era forse sproporzionata al modesto titolo di barone, l'ultimo grado della nobiltà. Aelin rimase in silenzio, mentre un servo portava i cavalli verso le stalle, e Jordan si precipitava ad abbracciare i genitori. «Anche Rhory è stato qui, un paio di settimane fa», disse il padre del ragazzo. «Mi è sembrato insolitamente taciturno». A quelle parole il cavaliere e la terrestre si scambiarono un'occhiata d'intesa: avevano nutrito entrambi l'inconfessata paura che preso dall'entusiasmo il loro amico non sapesse trattenersi dal parlare del suo legame con i draghi. Ma Rhory taceva, lasciando le sue notizie per chi doveva davvero ascoltare, e questo era un buon segno. Se il barone intendesse dire altro al figlio, Aelin però non riuscì a saperlo, perché la madre di Jordan si affrettò a condurla con sé, via dalla polvere del cortile, attraverso le sale di pietra viva. «Sono ancora sorpresa dalla luminosità di questa stoffa di filo di drago», fece la donna fermandosi a osservare la tunica verde da viaggio che Aelin ancora indossava, «forse perché mi ricorda una delle leggende di Thule». «Temo di non intendermene molto di tessuti», mormorò la terrestre, «e tuttavia mi piacciono le leggende». «Non ne dubitavo», rispose la dama, mentre i suoi occhi azzurri guardavano lontano. «Rhory d'altronde mi ha parlato parecchio di te, e non soltanto nella sua ultima visita». Quasi senza accorgersene, Aelin si trovò sprofondata in un'ampia poltrona ricolma di cuscini, mentre la baronessa aveva sciolto in un sol gesto i candidi e lunghi capelli, e Aelin rimase a fissare il suo volto triste, che non sembrava aver riportato alcun segno dello scorrere del tempo. Il racconto ebbe inizio. «Prima che il castello di Thule sorgesse, prima dell'arrivo della nostra
stirpe, in questi luoghi c'erano le fate, le gelide figlie dell'aria notturna, che danzavano sopra gli specchi d'acqua dove si rifletteva la luce delle stelle. Un principe del nord vide le silfidi al loro convegno notturno, e si innamorò della più bella e più giovane di loro. Non osò muoversi però, e rimase a osservare la danza incantata sino a quando le ninfe non svanirono nella prima aurora. Il principe aveva dimenticato il suo regno, i suoi cari, il padre, la madre... anche una promessa sposa che lo aspettava in patria. Il suo cuore si era perso dietro alle fate, e il giovane attese notte dopo notte il loro ritorno. Attese invano, poi un giorno, al tramonto, giunse un uomo con gli occhi e i capelli neri, il volto pallido e penetrante. "Chi è stato stregato dalle fate", disse lo sconosciuto al principe, "dovrebbe cercare almeno di imparare qualcosa sull'oggetto del suo desiderio. E solo nelle notti di novilunio le pallide ninfe danzano sotto il cielo stellato". Quella sera ci sarebbe stata luna piena. Ma il principe rispose che avrebbe saputo attendere. "Attendere cosa?", ribatté l'altro; "Come catturerai una fata? Tu non nulla sai dei regni che si stendono oltre il tramonto. O rimarrai a guardare, struggendoti in un amore muto, e privo di speranze?". "Forse non voglio catturare una ninfa", mormorò il principe pensieroso, "ma solo corteggiare colei che già mi ha per suo prigioniero". "E fallirai", ribatté l'altro senza esitare. "Le sorelle gelose le impediranno di avvicinarsi a te, portandola via nella nuova aurora". Il principe, sgomento, scosse la testa. L'uomo sorrise, ma non proferì parola. "Chi sei tu? E perché sai tante cose sulle fate?", domandò il giovane. "Diciamo che nelle mie vene scorre il loro stesso sangue", rispose lo sconosciuto. "E so per esempio che nessuna di loro si tratterrebbe dal raccogliere un gioiello luccicante, dimentica del fatto che il metallo può legare alla terra una creatura della nostra stirpe, impedendole di svanire al primo sole". "Perché mi stai aiutando?", chiese il principe, quietamente. "Forse ho un secondo fine, o forse è solo uno slancio di generosità a guidarmi", si sentì rispondere. "Ma tu questo non puoi saperlo, e forse non lo saprai mai". L'uomo misterioso aggiunse che avrebbe dovuto essere il giovane a forgiare il gioiello con le sue stesse mani. E che le fate, se non l'avessero trovato bello e avessero compreso l'inganno, sarebbero svanite nel nulla, sdegnate, offese, per non più tornare.
Detto questo, scomparve. Al principe non restò che mettersi in viaggio verso la città più vicina. Divenne l'apprendista di un abile fabbro, e lavorò per tre lunghi anni nella sua fucina, mostrandosi instancabile nell'arte che lui gli insegnava». In quell'istante la porta si aprì. Ma dama Vanessa rivolse appena uno sguardo in direzione del figlio, che entrò in silenzio e raggiunse la poltrona dove Aelin sedeva, per rimanere immobile alle sue spalle. La narrazione riprese: «Dopo tre anni il giovane forgiò un bracciale di rame. Splendido, a detta di tutti. Il ragazzo era quasi convinto di avere il dono per la sua fanciulla misteriosa, anche se nulla, nel suo cuore, gli sembrava degno di lei. Il giorno dopo tuttavia il bracciale non c'era più: l'apprendista confessò al mastro fabbro di avervi trovato un difetto, ed essere stato costretto a fonderlo di nuovo. Fu poi la volta di un anello e una spilla: entrambi fecero la stessa, identica fine. Il fabbro iniziava a stancarsi di quella storia, e avrebbe voluto vendere quei gioielli che solo agli occhi del loro artefice erano imperfetti. E se non erano degni della sua innamorata c'erano infiniti compratori con molte meno pretese e tanto denaro nelle tasche. Il fabbro ignorava che il giovane corteggiava una fata, altrimenti non sarebbe stato così ansioso di intromettersi; invece, una notte, si nascose nella fucina per vegliare sulla spilla che il ragazzo aveva forgiato. Il gioiello era poggiato sul bordo della finestra aperta, sembrava catturare la luce delle stelle. Alla luce delle stelle il fabbro lo vide sciogliersi sino a diventare un liquido ovale di metallo fuso. Pallido in volto, l'uomo era sul punto di fuggire, ma si scontrò con il giovane principe che stava entrando proprio in quel momento. Di fronte al terrore negli occhi dell'altro il ragazzo non volle nascondergli più nulla. Narrò delle fate del novilunio, e del suo incontro con l'uomo che conosceva i loro segreti. Il fabbro disse allora che non aveva più niente da insegnare al giovane, e gli consigliò di rivolgersi al suo vecchio maestro, poiché solo lui poteva aiutarlo nell'ardua impresa che si era prefisso». «Probabilmente il fabbro voleva solo liberarsi del giovane principe e dei suoi invisibili protettori senza offendere né l'uno né gli altri», commentò Jordan. «Altri tre anni trascorsero», continuò la baronessa. «Sotto il nuovo maestro il principe lentamente e faticosamente imparava. L'anziano artefice era ormai quasi cieco; eppure sembrava che, con lo scemare della vista, l'abilità nelle sue vecchie dita crescesse. L'uomo era un giudice severo almeno quanto il misterioso protettore del giovane. Alla fine il principe forgiò un
bracciale d'argento, una sottile spirale che intrappolava ogni sguardo. E stringendola gelosamente al petto parti per il lago stregato». «Come...», disse Aelin con un sorriso, «niente triplicazione?». «Tripli... che?», fece Jordan, e in effetti l'uso della parola in un simile contesto doveva essere insolito per il cavaliere. «Triplicazione», ripeté la ragazza. «Dal numero dei fratelli a quello delle prove e degli aiutanti magici, il tre è un elemento che torna in quasi tutte le fiabe». «Il terzo fabbro, oltre che cieco, che cosa avrebbe dovuto essere?», domandò lui. «Se ti può consolare, comunque saranno tre i doni che il principe offrirà alla sua bella, prima di riuscire a conquistarla». «Jordan!», esclamò in quel momento Vanessa. «Posso ancora capire che voi due parlottiate, ma che tu debba addirittura anticipare la fine del racconto...». «Chiedo perdono, chiedo sinceramente perdono. E adesso andrò a cercare mio padre. Prima ha detto che voleva parlarmi». Dama Vanessa aveva già ripreso la sua storia, e narrò come il giovane principe avesse nascosto il bracciale nei pressi del lago del novilunio: «Come il suo consigliere aveva previsto, fu la fata che il principe amava a trovare il gioiello e a indossarlo, felice. Tuttavia, poco prima dell'alba, il bracciale d'argento le scivolò dal polso, cadendo nell'umida erba bagnata. Al sorgere del sole la ninfa scomparve insieme alle sue compagne, lasciando il giovane innamorato a piangere sulla propria cattiva sorte. Giunse il nuovo tramonto, e il principe ancora aspettava, nella speranza, forse, di veder comparire l'uomo che sino a quel momento l'aveva aiutato. Fu invece la fata a venirgli incontro, colei che aveva stregato ogni suo pensiero. Bella come un raggio di luna, lo guardava, e sorrideva. "Il Signore del Cancello mi ha narrato la tua storia, e ammiro la costanza e la tua dedizione. Vorrei non aver lasciato cadere il bracciale". "Resterai con me, allora?". "Non posso. Vorrei, ma non posso. Le nostre leggi lo vietano. E le altre fate... se sapessero che il Signore del Cancello mi ha permesso di venire qui da sola e parlarti... ma tu non puoi comprendere il nostro mondo e le sue regole, non nel breve tempo che ci è concesso". "Cosa devo fare?". "Forgiare un nuovo gioiello. Io non lo perderò". "Esaudirò ogni tua richiesta. E adesso addio, mio amore, non dimenticare la tua promessa".
"Addio, mio amore, e ascolta sempre i consigli del Signore del Cancello. Lui è il guardiano della porta del vostro mondo, ed è suo desiderio che il sangue degli Elaunoi si mescoli a quello umano. Noi due siamo stati scelti per questo". Poi la fata svanì. Un'altra luna trascorse, e il giovane forgiò una collana di foglie intrecciate, ancor più bella di qualsiasi gioiello avesse creato in precedenza. Troppo bella forse, perché il suo sottile disegno suscitò l'invidia di una delle altre fate, che strappò la catena di foglie dalla gola della compagna, e la ghirlanda intessuta nell'oro ricadde a terra in frantumi. Passò la notte e passò il giorno. Il giovane principe attese invano che qualcuno giungesse a parlargli. Attese per sette giorni interi, e poi l'uomo dagli occhi neri, il Signore del Cancello, gli si fece incontro. Portava con sé sette gomitoli di un filo metallico azzurro, quasi impalpabile, come ragnatela. "Le fate hanno scoperto di essere state ingannate", disse. "Un prato non produce gioielli come fiori di campo. Non permetteranno alla tua innamorata di seguirle ancora. Ma tu tesserai una lucida veste, e io la porterò a colei che aspetti. Avvolta nel filo incantato ella sarà invisibile agli occhi del popolo fatato, e potrà infine raggiungerti. Ti chiederò poi un compenso per i miei servigi, ma non è ancora giunto il momento per questo"». «No, davvero non è ancora giunto», s'intromise Jordan facendo ritorno nella sala. «Perché manca poco meno di un'ora alla cena, e Aelin non ha ancora avuto modo di rinfrescarsi dalla polvere delle strade». «Non mi ero accorta che fosse così tardi», ammise Vanessa con lo sguardo fisso verso la finestra che dava a occidente. «L'avevo immaginato», le rispose il figlio con un sorriso. «Comunque a tutto c'è rimedio», lo informò la donna, e con pochi gesti veloci tornò ad appuntarsi i capelli sul capo. «Io andrò nelle cucine, per accertarmi che tutto proceda come si deve. Tu accompagnerai Aelin nelle sue stanze, e le terrai compagnia sino a quando non sarà pronta l'acqua. Quanto a te, mia giovane amica, temo dovrai aspettare fino a stasera per conoscere la fine della storia... Oppure puoi chiedere a Jordan di raccontartela. In fin dei conti ha diritto quanto me di narrare questa leggenda». «In un modo o nell'altro spero di conoscerne presto la fine», disse la giovane, «anche se si tratta solo di una bella fiaba». «No, non è una fiaba, Aelin, ma vera storia, la nostra storia», spiegò Vanessa in tono grave. «D'altronde tu non potevi saperlo, e non sei nemmeno l'unica a pensarla in questo modo sotto questo tetto. Forse dovrei mostrarti
i gioielli di famiglia. Chissà che non possano convincerti». «Mamma...». «Cosa, Jordan?». «Nulla, mamma». «Allora a più tardi», concluse la donna, e si allontanò a passo svelto. Mentre Jordan restava a fissare in silenzio il punto in cui l'altra si era trovata. «Tutto a posto, Jordan?», fece Aelin. Il cavaliere annuì lentamente: «Mia madre deve davvero averti preso in simpatia. Non è da lei raccontare certe storie al primo venuto, o pensare di mostrargli i suoi preziosissimi gioielli». «Forse tutto sta in quello che Rhory ha detto di me. Il nostro amico è molto buono, e tanta bontà si riflette nei suoi giudizi». «Su questo non c'è dubbio». «Che ne diresti di farmi strada?», propose la giovane. «Nel frattempo potresti raccontarmi il finale della storia». «Se ti accontenti di una sintesi. Non sono bravo come mia madre», fece l'altro cingendole le spalle con un braccio. Lei annuì appena, mentre si mettevano in cammino. «Allora...», iniziò Jordan. «Passò circa un anno prima che il principe riuscisse a tessere la veste stregata, anche perché nel frattempo la sua antica fidanzata, stanca di aspettare invano il promesso sposo, si era messo a cercarlo, con un fornito stuolo di armigeri al seguito. La donna non era per nulla disposta a lasciarsi sfuggire un consorte che l'avrebbe fatta regina. Immaginati la scena: il principe si è ritirato in una caverna per sfuggire agli uomini che lo inseguono, è coperto di stracci, ha la barba lunga e il suo unico pensiero è completare la veste scintillante. La fidanzata finalmente lo trova, furibonda per un'assenza che dura ormai da sette lunghi anni. Poi la donna vede la tunica che l'altro tesseva, e dimentica di ogni offesa decide immantinente che la scomparsa del principe era dovuta al desiderio di trovare un dono degno di lei, della sua futura sposa. Così offre al fuggitivo tutta la sua benevolenza e comprensione, chiedendo in cambio solo di poter indossare subito la veste color del mare, che pure non era ancora ultimata. Segue una lunga gara di indovinelli con cui il principe cerca di prender tempo, poiché non poteva cedere alle richieste dell'altra, né trovava saggio contrariarla. Gli indovinelli in questione però li ho scordati quasi tutti, e anche quelli superstiti nella mia memoria te li risparmio. Fatto sta che quando il giovane ebbe dato l'ultimo punto la veste svanì nel nulla,
mutandosi in aria tra le sue mani. "Stregoneria!", gridò la sua vecchia fidanzata. "Costui non è il vero principe, ma un perfido incantatore che cerca di ingannarci tutti!". E non perché lo credesse davvero: il fatto era che i soldati sarebbero stati molto più inclini a giustiziare un perfido mago che non il principe erede al trono. La donna, accecata dall'ira, ormai desiderava soltanto vendetta. Il nostro eroe stava per lasciarci le penne quando comparve la sua splendida fata, e con lei il Signore del Cancello. La fidanzata crudele e i suoi armigeri caddero a terra, in un sonno profondo. "Al loro risveglio crederanno di avere trovato la tua tomba, e lasceranno le terre del sud", venne detto al giovane. "La tua fidanzata si accorderà con il re per sposare tuo fratello minore, che adesso erediterà il regno, salvando così l'alleanza e le proprie personali ambizioni. Per te invece attende un bianco castello, costruito là dove un tempo sorgeva lo stagno del novilunio. Grazie alle arti che hai appreso in questi anni, e grazie al ferro delle montagne circostanti, estenderai il tuo dominio su queste terre selvagge". Così fu. I due sposi vissero felici per diversi anni, a parte il piccolo problema che la fata non poteva levarsi la veste incantata nemmeno per lavarsi. Aggiungendo a questo la sua disdicevole abitudine di immergersi tutte le notti di luna nuova nella fonte del castello, non ci sarebbe da stupirsi se il male misterioso che la uccise non fosse altro che una banale polmonite. Nel frattempo era passata una decina d'anni dal matrimonio, erano nati due bambini e una bimba bellissima che aveva gli occhi e i capelli chiari della madre. Come ti ho già detto, però, la fata non visse a lungo con i suoi cari, e quando era sul letto di morte comparve il Signore del Cancello per portarla via. Si narra che in quell'occasione costui si mostrasse sinceramente addolorato, e tuttavia non mancò di approfittarne per impartire l'ultima serie di ordini. "Tu tramanderai ai figli maschi le arti che hai imparato in questi anni", disse, "e un giorno io mi servirò di loro. Il tuo dominio invece, le terre e le ricchezze andranno a tua figlia, e alle sue figlie dopo di lei". E lo puoi immaginare: non si contraddice tanto facilmente uno che si fa chiamare il Signore del Cancello». «Vorresti dire che queste terre vengono trasmesse per discendenza matrilineare?», chiese Aelin con un sorriso divertito. «Non proprio, o meglio, non più: quando il regno di Aquilon si è esteso verso sud anche la rocca di Thule è caduta sotto la sua egida, e Aquilon non approvava le nostre usanze. Non quando erano così simili a quelle di
Levant, e solo di rado le regine velate hanno avuto con il nostro regno dei rapporti che potessero dirsi pacifici di nome e di fatto. Il feudo di Thule ha cercato un compromesso, adottando quella che potremmo chiamare discendenza mista a preferenza femminile». «Sarebbe a dire?». «Il titolo va al primogenito, indipendentemente dal sesso, e questo è già più di quanto non accada nel resto di Aquilon, dove spesso le donne vengono prese in considerazione soltanto in assenza di altri eredi. A Thule tuttavia i maschi vengono, come dire, indotti a rinunciare ai loro diritti, e ad abbracciare la carriera ecclesiastica o quella militare. Oppure ottengono il feudo, ma si guardano dal contrarre matrimonio, in modo che alla loro morte le terre di Thule ritornino all'asse femminile. Così ha fatto il fratello di mia madre, per esempio. Nel mio caso invece non ci sono molte possibilità di scelta, dal momento che sono figlio unico, e non ci sono nemmeno eredi collaterali abbastanza vicini». Erano arrivati alla camera, e il ragazzo aprì la porta, lasciando che fosse la giovane a entrare per prima. «Questo ci porta», aggiunse poi Jordan chiudendo l'uscio dietro di sé, «al motivo per cui mi ha insospettito il comportamento di mia madre. Dama Vanessa vuole una sposa per me, una sposa d'alto lignaggio e che al tempo stesso non sia legata alle casate patrilineari del resto di Aquilon. Thule è un semplice baronato, e tuttavia è uno dei feudi più estesi dell'intero regno. Il nostro orgoglio non è meno grande. E io so, sin troppo bene, che un'indovina designata dal nostro Signore sarebbe una consorte ideale...». «Mi verrebbe da chiederti qual è il tuo atteggiamento di fronte alla così detta consorte ideale», lo interrupe Aelin con un sorriso obliquo, «ma sarò clemente e non lo farò. Né intendo ignorare il tuo avvertimento, anche se ho il sospetto che tu stia esagerando. Adesso però vorrei che tornassi a parlarmi del Signore del Cancello, e di quei servigi che avrebbe richiesto alla tua famiglia, se l'ha poi fatto davvero». «Non credi che il termine davvero sia un po' fuori luogo, riferito a una leggenda? O mia madre è riuscita chissà come a convincerti della veridicità del suo racconto?». «In ogni leggenda c'è un fondo di verità. Il problema è trovarlo». «Un fondo di verità... anche il primo fra i miei antenati che identificò il misterioso Signore del Cancello con il Dio di Vultur pensò di aver individuato un fondo di verità negli antichi racconti. Eppure ho come la sensa-
zione che non sia il genere di verità che tu stai cercando». «Il Signore del Cancello e il Supremo Signore», disse Aelin. «Si tratta di un'assimilazione interessante, anche se non così insolita come si potrebbe credere. E pericolosa inoltre, poiché una crepa nella verosimiglianza di una delle due figure potrebbe intaccare anche l'altra. Non mi risulta poi che un simile accostamento abbia ricevuto l'approvazione della chiesa di Vultur. Davvero non credevo che tu avessi degli eretici in famiglia, Jordan». Aelin pronunciò il suo nome con una strana enfasi, in un gioco che era noto a lei soltanto. «Ti spiacerebbe ripetermi», fece l'altro con lentezza ed evidente malumore, «qual era la tua domanda iniziale?». «Se il Signore del Cancello ha poi chiesto qualcosa ai fabbri di Thule». «Le leggende non si dilungano molto al riguardo. Ma credo che si trattasse di una...». Il giovane socchiuse gli occhi. «Si trattava di una spada». «Forse mi sto sbagliando», mormorò Aelin con un filo di voce, «ma il misterioso committente della verde Discordia descritto nel libro delle spade somiglia sin troppo, e non solo nell'aspetto, all'aiutante magico del principe tuo antenato. E poi i famosi sette gomitoli della tunica scintillante che altro sarebbero se non filo di drago?». «Questo proverebbe almeno che il Signore del Cancello aveva una certa familiarità con il materiale in questione». Bussarono alla porta. Erano quattro fantesche con dei secchi colmi di acqua fumante. «I lavacri dovranno aspettare, temo», disse però il cavaliere prendendo Aelin per mano. «Forse la nostra è solo una supposizione, forse no, eppure credo che sia il caso di fare qualche domanda. Potrebbe essere di vitale importanza». XIII RITORNO AD AUSTER Il barone di Thule scosse appena il capo: «Tua madre dovrebbe essere ancora nelle cucine, Jordan. Perché me lo domandi? E perché hai un'espressione così tesa?». «Dobbiamo chiederle qualcosa riguardo alla spada che il Signore del Cancello volle forgiata». «Preferirei che lo evitassi». «È necessario, padre», disse Jordan. Frattanto, Aelin ascoltava in silen-
zio. Il barone tornò a scuotere la testa. «Non capisco», aggiunse Jordan. «Che cosa ti prende?». «Sai che non provo particolare simpatia per la dedizione che tua madre coltiva nei confronti delle leggende di famiglia. Ma non è questo il punto, non stavolta. E Vanessa non sempre è stata così; un tempo era suo fratello, quel fratello che portava il tuo stesso nome, a interessarsi agli antichi racconti...». «...poi lo zio è morto», tagliò corto il ragazzo, «e insieme alle terre e al titolo, mia madre ha ereditato anche quella sua passione. Ma si tratta di storie di vent'anni addietro, e non capisco che senso abbia ricordarle adesso». «Frugando fra le carte del castello, tuo zio Jordan aveva trovato un documento nella lingua degli antichi, e non riuscì a decifrarne più di una decina di termini, ma quella manciata di parole gli mise in testa che il manoscritto parlava della creazione di una spada, la misteriosa spada di Thule, disse lui, anche se forse non ne era poi così certo come andava affermando. Nella vostra casata tuttavia non ci sono più fabbri ormai da molti secoli, e mancavano nelle terre del feudo studiosi in grado di dare un senso compiuto ai simboli sulla vecchia pergamena. Tuo zio copiò diligentemente l'antico testo, e si mise in viaggio verso la capitale, per trovare qualcuno che lo aiutasse nella sua traduzione. Da quel che mi disse prima di partire, ebbi modo d'intendere che il suo principale pensiero non era tanto la spada incantata o la storia di famiglia, e piuttosto aveva cercato una scusa per allontanarsi dalla monotonia del feudo. Ma lui non fece ritorno da quel viaggio, fu sorpreso da un gruppo di briganti e ucciso. Né puoi stupirti a questo punto se tua madre consideri maledetti la spada, il manoscritto e tutto ciò che li riguarda». «Se quel manoscritto esiste, io devo vederlo», ribadì Jordan. «Di che state discutendo?». Era stata dama Vanessa a parlare. Si fece avanti, e il suo volto impallidì mentre il suo sguardo incontrava quello del marito. Jordan le andò incontro. «Mamma...». «Ho sentito tutto. Non sai cosa mi stai chiedendo, Jordan». «C'è una maledizione che porta discordia, madre», insisté il cavaliere, «un incantesimo che è stato soltanto domato, ma non disciolto. E credo che Rhory te ne abbia parlato. C'è un libro a Vultur che forse potrebbe aiutarci al riguardo, ma non ne siamo ancora certi, e magari proprio nelle carte che
mio zio aveva trovato c'è la chiave per vincere quella crudele maledizione, se davvero, come penso, la spada verde e la lama di Thule sono la medesima cosa». La donna annuì, in un gesto solenne: «Vi mostrerò ciò che tu desideri. Ma il manoscritto non lascerà mai il castello, né porterai con te una sua copia. Se conoscete qualcuno in grado di decifrarlo, che sia lui a venire sin qui. Almeno questo, spero, vorrete concedermelo». La camera in cui la baronessa condusse il figlio e la giovane terrestre era buia: le lampade a olio non riuscivano a vincere le ombre della volta e dei pesanti archi ribassati e i loro raggi incerti davano a ogni cosa un aspetto inquietante. Tra le pietre grigie delle parete, i pannelli di rovere mostravano figure di fiori stilizzati. Dopo aver porto la propria lampada ad Aelin, dama Vanessa si avvicinò a uno dei riquadri in legno. Premette uno dei petali intarsiati: il pannello prese a scivolare lateralmente, rivelando una nicchia ricolma di scrigni e cofanetti. Pochi istanti dopo, la baronessa con mano tremante consegnava a Jordan la pergamena ingiallita dal tempo. Non attese che il figlio terminasse di sciogliere il suo cordoncino rosso: avvertì che ci sarebbe stato bisogno di più luce per leggerla e che avrebbe provveduto lei stessa. Così dicendo lasciò la stanza, camminando in fretta. Aelin e Jordan si scambiarono uno sguardo carico di costernazione: la stanza era buia, ma non tanto da impedir loro di leggere. La giovane terrestre, poi, stringeva ancora la lucerna che dama Vanessa le aveva dato. Non era per cercare un'altra fonte di luce che la baronessa si era allontanata. I due ragazzi non dissero una parola e si chinarono sulla pergamena, ricoperta di minuti caratteri color rosso rame. «Tu ci capisci qualcosa, scrittrice?», chiese Jordan socchiudendo gli occhi. «Perché io sono nell'oscurità più totale». Aelin fece un sospiro. «Lo stesso vale per me. Ti confesso che la vista di questo documento antico e incomprensibile in un certo senso mi impensierisce, ma forse mi avrebbe turbato molto di più trovare in quell'intreccio di simboli un linguaggio a me noto». «Adesso sei tu a essere incomprensibile». «Sibillina, forse, sarebbe il termine più adeguato», puntualizzò Aelin, e si voltò verso il portale d'entrata, come per assicurarsi che fossero ancora soli. «Tu sai cosa vuol dire sibillino, non è vero?». «Sì, certo...», rispose l'altro senza capire. «Non dovresti saperlo. Le sibille erano indovine e sacerdotesse del
mondo classico, e non mi sembra che abbiate nulla di simile su questa terra». «Non che io sappia, ma potrei sbagliarmi. E poi...». «Nemesi, logica, ecatombe...», disse Aelin camminando lentamente, pronunciando una parola a ogni passo, «mecenate, augure, filantropo... No, la verità è che è già difficile spiegarsi in quale modo il mio mondo e il tuo abbiano una lingua in comune. Scoprire che i linguaggi condivisi sono due... Sarebbe semplicemente troppo». C'era qualcosa che non filava in quell'ultima affermazione, pensò poi la ragazza fra sé, ma scacciò quel pensiero con un brivido. «Un Dio in comune sarebbe un'ottima spiegazione», disse Jordan tornando ad avvolgere la pergamena, «ma qualcosa mi dice che una simile eventualità tu non l'hai nemmeno messa in conto». «Una lingua non è, cavaliere, una specie di dono calato dal cielo. Una lingua è il frutto di un'evoluzione storica e umana, rispetta in ogni suo dettaglio le usanze e i trascorsi del popolo che l'ha creata. Il passaggio del latino all'italiano, per prendere il mio caso, implica tutta una serie di avvenimenti, invasioni barbariche, influenze culturali volute o non volute, ma che certo non è possibile replicare. È per questo che mi sarei messa a urlare se quella pergamena fosse stata scritta nella lingua dei miei avi, o in qualcosa che le somigliasse parecchio». «Il tuo ragionamento non fila, Aelin. Se non puoi accettare due lingue comuni, non puoi accettarne nemmeno una; eppure è incontestabile che noi due parliamo lo stesso linguaggio». «Lo so», mormorò la giovane mordendosi un labbro, «lo so sin troppo bene». «E quindi?». Aelin non rispose. Si strinse le braccia come se avesse freddo, poi sfiorò con la punta delle dita un narciso disegnato nel legno. «In tutti i libri che ho letto», sussurrò quasi soprappensiero, «libri di viaggi tra i mondi, intendo, si cerca una spiegazione per l'affinità della lingua. Chi sa perché, sono molti di meno quelli che si preoccupano per aver trovato in un altro mondo una razza identica a quella umana». «Che vorresti dire?». «Non lo so... nulla forse». Se Jordan voleva aggiungere qualcosa, non fece a tempo a parlare. Dama Vanessa era tornata sui suoi passi. E non aveva alcuna lampada con sé. «Avete trovato quello che cercavate?», chiese.
Jordan si strinse nelle spalle. «No, madre, e non mi aspettavo di riuscirci. Avevo solo la vaga speranza che gli strani poteri della nostra amica potessero leggere qualcosa fra queste pagine, ma mi sbagliavo». «Se Aelin ha percepito qualcosa», fece lei socchiudendo gli occhi, «non può che essere la maledizione che già in passato ha colpito la nostra famiglia. Perché... Guardala, Jordan: è così pallida, adesso!». Aelin bianca lo era diventata davvero. Ma né lei né il cavaliere parlarono. «Forse dovrei mostrarti davvero i nostri gioielli ora, come ti avevo promesso», disse Vanessa con voce improvvisamente dolce. «E insieme a essi dei ricordi più lieti». «Io andrò a chiedere a mio padre di inviare un messaggero a Lilài», decise Jordan. «Saranno i maghi a preoccuparsi del manoscritto. Noi ci rimetteremo presto in viaggio». Detto questo, si allontanò pensieroso. Una settimana dopo, Aelin e Jordan giunsero al forte di Auster, con le sue poderose mura di pietra dorata. Giunsero solo per sentirsi dire dal vice soprintendente che Rhory era già partito, alla volta della città santa, per chiedere udienza al Padre Guardiano. Fosse stato per loro, i due ragazzi si sarebbero immediatamente rimessi in viaggio. Di diverso parere era Benjamin, il vice soprintendente appunto, che si affrettò ad assegnare a Jordan una lunga serie di turni di guardia, ponendo fine a quelli che considerava dei futili vagabondaggi senza scopo, legati solo di nome alla missione del cavaliere prescelto. Per non parlare poi dello scandalo di una giovane vergine che viaggiava sola con un uomo. Desiderio di Benjamin era relegare la profetessa nelle sue stanze e tenercela. Inutile dirlo, aveva tutta l'autorità per farlo. Anche perché il vecchio soprintendente, stanco e provato da una lunga malattia, aveva rinunciato alla carica e sarebbe stato Benjamin a svolgere le sue funzioni, sino a quando non fosse stato nominato un successore. Aelin, dunque, vittima delle buone intenzioni di un benpensante, si ritrovò chiusa tra quattro mura, e quasi senza sapere come. Passarono i giorni, e presto la giovane arrivò a sperare che a salvarla dalle cortine di velluto delle sue stanze giungesse l'attacco di una qualsiasi orda: barbari, amazzoni, persino dei demoni sarebbero stati bene accetti. Innanzitutto non erano permesse visite - non di uomini, almeno - e Aelin era l'unica donna al castello, a parte un paio di sguattere che non osavano
certo rivolgere la parola alla nobile indovina. Di uscire dalla stanza neanche a parlarne; e quando la terrestre aveva chiesto dei libri, tutto quello che era riuscita a ottenere erano stati un volumetto di preghiere e il necessario per tessere e cucire. In preda a una noia mortale, la giovane passava le ore esercitandosi a tirar di scherma con l'attizzatoio del camino, immaginava complotti inesistenti e nuove trame di possibili romanzi. Cose, queste ultime, che finivano spesso col sovrapporsi l'una all'altra. Il vice soprintendente Benjamin era un tale testone che non voleva nemmeno concederle il permesso di far visita a Nicholas, cavaliere di specchiata onestà e ormai prossimo al suo settantesimo anno. Tirava in ballo la malattia del vecchio cavaliere, eppure qualcosa nella sua espressione lasciava intendere che il vero motivo della proibizione era un altro. O forse si trattava di un'impressione della terrestre, giustificata solo dai pessimi rapporti che aveva con l'uomo. Aelin, dal canto suo, sosteneva la tesi molto devota della necessità di prestare conforto agli ammalati, e ricordava la generosità con cui il soprintendente l'aveva accolta, a suo tempo. La giovane inviava dei messaggi ormai quotidiani al riguardo, tanto che altro aveva da fare? Persino per questa sua semplice richiesta passarono due settimane piene prima che riuscisse a strappare il sospirato permesso. Per fortuna di Benjamin - pensò Aelin, ed era un pensiero frequente in quei giorni - non sono più io ad avere in mano la penna che va scrivendo questa storia. Altrimenti l'avrei già inserito nella lista delle comparse insignificanti che servono solo a essere fatte a pezzi dal nemico. Il permesso, inaspettato, di una visita a Nicholas la addolcì un poco. Ma solo di quel tanto che bastava per distrarla dall'idea di quanto male avrebbe potuto fare a quell'insopportabile bigotto con il suo vecchio, caro attizzatoio. I minuscoli fuochi del laboratorio avevano sfumature di viola e d'azzurro. Erano disposti in cerchio, e le ampolle di vetro accostate alla fiamma gorgogliavano allegre. Sethrian socchiuse gli occhi, osservando i riflessi del sole al tramonto sulla provetta che aveva sollevato. Avrebbe dovuto controllare il colore e la temperatura del liquido all'interno, e invece rimaneva immobile, con lo sguardo stranamente assente. In quel momento un rumore di passi attirò la sua attenzione. «Com'è andata la discussione, Palen?», domandò, quasi senza voltarsi.
«Come ci aspettavamo», rispose l'amico. «Mi è stato ricordato che non abbiamo preso possesso di questo laboratorio, e che dobbiamo usarlo solo quando ne abbiamo realmente bisogno, rispettando sempre i turni di prenotazione. E poi l'importanza degli studi in cui ci siamo imbattuti non deve farci montare la testa, e altre cose simili». «Montarci la testa?», ripeté Sethrian in un sogghigno. «Ma tu questo rischio non lo corri di certo, e per me era tardi già molti anni addietro. Forse alla torre credono che sia indispensabile sfoggiare una lunga barba grigia per occupare in pianta stabile un laboratorio; a maggior ragione io non intendo smontare le tende, a costo di mettermi a bollire acqua e foglie di the nell'attesa. D'altro canto quello che abbiamo scoperto nelle settimane passate è sufficiente a giustificare l'utilizzo di queste apparecchiature per molti mesi ancora; basterà non portare alla Congrega i nostri risultati tutti in una volta». «Se lo dici tu...», rispose Palen in tono quieto. «Sai qual è la cosa più buffa?», fece Sethrian tornando a riporre la provetta nel suo sostegno. «I cavalieri, anche Aelin per certi versi, sembrano convinti che noi abbiamo l'appoggio incondizionato degli incantatori. Di sicuro loro non ci ostacolerebbero mai, qui non rischiamo di incappare in un anatema o nella scomunica, però nemmeno ci aiutano come dovrebbero. Sembra che, passato l'effetto della strage di Graecale, sin troppi maghi siano pronti a rintanarsi tra le mura della nostra città sul mare, piuttosto che scendere direttamente in campo». «E te ne stupisci?», gli domandò Palen. «Certo che no!». Sethrian scosse la testa. «Non è per questo che mi hanno diplomaticamente allontanato da Lilài, l'ultima volta? Se i miei esperimenti sulle piante si fossero dimostrati pericolosi o inaffidabili, la Congrega avrebbe potuto declinare ogni responsabilità. Salvo poi condividere con me il merito, se avessi fatto qualche scoperta realmente utile. Ma non mi è mai importato, davvero». «La tua espressione sembra dire il contrario». Sethrian scrollò le spalle e non rispose. Si alzò, raggiungendo la finestra, che si affacciava sull'ordinato intrico dei giardini di Lilài, dove il verde delle siepi si mescolava ai colori di alberi in fiore. «Mi mancano, sai?», aggiunse poi con un mezzo sorriso. «Adesso che Gwyon è partito per il castello di Thule sono rimasto io solo del gruppo, ed è strano, mi mancano tutti. Persino le occhiate ironiche di Jordan, per non parlare dei racconti terrestri che Aelin continua a tirar fuori, o quando cerca di insegnare a
Rhory una delle sue canzoni...». «È strano vederti di quest'umore nostalgico, sai?», disse Palen. Sethrian chiuse le palpebre: «Forse hai ragione. Vorrà dire che non lo racconteremo in giro». «Aelin...». Il giovane cavaliere di Thule bussò leggermente ai vetri colorati della finestra, e non passò molto tempo perché la fanciulla si precipitasse sul balcone, abbracciandolo. Per non farsi vedere, Jordan si era piegato sulle ginocchia e quella non era forse la posizione più adatta a certe dimostrazioni di affetto, tuttavia il giovane non protestò. «La malattia di Nicholas sarebbe un esaurimento nervoso», disse l'altra senza perder tempo in preamboli. «Lo scagnozzo di Benjamin che quest'oggi mi ha fatto da chaperon forse non ha usato il termine medico, ma il significato non cambia. Così, mi è stato raccomandato di non contraddire in alcun modo il vecchio cavaliere, ma senza per questo dar credito i suoi vaneggiamenti. Nicholas però era lucido mentre mi parlava. Lo è stato per tutto il tempo della mia breve visita. Solo poco prima di congedarci ha preso le mie mani tra le sue e sussurrato queste parole: "La Verde Signora regna, e ha rinchiuso la luce alata"». «La Verde Signora...», ripeté Jordan, scuro in volto. «Discordia», sussurrò Aelin, «oppure quello che è realmente il vaneggiare di un vecchio malato». «Non lo so, non lo so», fece il cavaliere, e si strinse la testa tra le mani. «Senza dubbio qualcosa sta succedendo al castello. Io credevo si trattasse delle manovre di Benjamin in vista della nomina del nuovo sovrintendente, ma adesso comincio a chiedermi se non mi sbagliavo». «La luce alata potrebbe essere benissimo una perifrasi per indicare un drago, o meglio ancora le spoglie del drago che abbiamo ucciso e condotto ad Auster. Se davvero Benjamin ha in mente qualcosa, il suo primo pensiero deve essere stato proprio il tesoro verde». «Il vice soprintendente ha proibito anche a me di vedere Nicholas», spiegò Jordan, cupo, «l'ha fatto senza mezzi termini. È tempo, ha detto, che io smetta di andarmene a piangere dal mio vecchio maestro a ogni minimo intoppo. Tanto più che lui non ha più alcuna autorità per venire incontro a me e alle mie sciocche pretese. Tutto vero, a suo modo: Benjamin ha sempre detestato la mia abitudine a scavalcare i suoi ordini, rivolgendomi direttamente all'autorità superiore». Il giovane tacque. Rifletté per un
attimo. «Mai come adesso, però, ho desiderato di poter parlare con Nicholas», sospirò guardando Aelin negli occhi. «E tu dovrai aiutarmi». Nicholas era parecchio cambiato nei giorni trascorsi nella torre. I lunghi capelli bianchi scendevano disordinati attorno a un volto scavato, solcato da occhiaie profonde. Tuttavia, il vecchio cavaliere sorrise quando vide la giovane indovina immobile sulla soglia della sua cella. «Avevo un regalo per voi, e desideravo consegnarvelo di persona», annunciò Aelin. Porse al vecchio una specie di maglione di lana verde scuro, che pareva sul punto di doversi scucire da un momento all'altro. «Non sono mai stata molto abile con i ferri», aggiunse in tono di scusa. «Solo di rado ho ricevuto un dono altrettanto gradito», le rispose Nicholas. Non immagini quanto sia vero, fece Aelin: o meglio, furono le sue labbra a sillabare le parole, pur senza emettere alcun suono. Lo sguardo della giovane tornò a posarsi sulla soglia socchiusa. Una guardia attendeva dall'altra parte. «Dovete stare attento a non tirare questo filo», spiegò al vecchio, «o vi ritroverete con nient'altro che un gomitolo». Gli si avvicinò. «Un gomitolo assai lungo, sapete?», precisò sottovoce. «Potrebbe arrivare alla base della torre, ma resterebbe pur sempre un gomitolo». Forse il vecchio cavaliere non avrebbe afferrato subito che solo un maglione preparato appositamente allo scopo si sarebbe scucito nel modo descritto da Aelin. Eppure lei gli stava parlando con un tono così concitato che l'idea non avrebbe dovuto sfuggirgli. Attese la sua risposta. Il vecchio la fissò, in silenzio. Guardò il maglione. Una scintilla di astuzia sembrò illuminargli gli occhi. «Distruggere il tuo bel regalo in questa maniera», osservò poi con fare pensoso. Aelin fece di sì con la testa, cercando di non farsi vedere dalla guardia. Nicholas imitò quel movimento, come per assentire. Si fermò. Sorrise. «Non sarebbe una cosa molto sensata da farsi», disse. «Sì, non lo sarebbe affatto». «D'altronde se sono qui è perché c'è chi dubita, o pretende di dubitare, del buon senso delle mie azioni». «Voi avete tutto il buon senso che vi serve», ribatté Aelin stancamente, come stesse ripetendo la lezione mandata a memoria di chi deve assecondare un malato, «e se vi trovate qui è solo perché c'è chi ha a cuore la vo-
stra salute». «Sarebbe folle», tornò a dire il vecchio fissando il maglione. «Volete che vi dica che cosa sarebbe folle o, per meglio dire, insensato?», aggiunse Aelin voltandosi verso la guardia, con un brillio nello sguardo. «Insensato sarebbe rompere i mobili di questa bella camera che voi solo a torto chiamate cella; insensato sarebbe cercare di calare una corda giù dalla torre quando le sbarre ancora chiudono la finestra e nessuno potrebbe attraversarle. Insensato sarebbe urlare e sbattere la testa contro un muro, e voi invece non fate nessuna di queste cose, mi sembra». «Non ancora, non ancora», disse il cavaliere carezzando con aria distratta il disegno diseguale della maglia. «E insensato sarebbe non fare mai nulla che sia insensato... Non lo pensi anche tu, mia giovane indovina?». Domani, a mezzanotte, dissero ancora le labbra di Aelin. Stavolta l'altro annuì, solennemente. «Fin qui tutto bene», sussurrò Jordan con un sorriso di soddisfazione, quando sentì sotto le dita il sottile filo nero, quasi invisibile tra le pietre del castello, nell'oscurità della notte. Nicholas aveva davvero capito il messaggio, al contrario delle guardie incaricate di sorvegliarlo. D'altronde nessuno aveva mai accusato Benjamin di scegliere i propri scherani per la loro intelligenza: il vice soprintendente chiedeva coraggio e obbedienza, non spirito d'iniziativa. Jordan scosse appena il capo. Se scalare la torre orientale a mani nude poteva sembrare pura follia, tentare di farlo con l'aiuto di un cordoncino di lana meno spesso di un mignolo risultava più che altro ridicolo. La faccenda però cambiava nel momento in cui all'interno della lana si celava un cuore di filo di drago, capace di reggere ben più del peso di un giovane cavaliere senza spezzarsi. Benjamin si era impossessato delle scaglie custodite nei sotterranei, ma non aveva controllato se fosse rimasto del filo stregato nella bottega del sarto di Auster. Intanto una cosa era assodata: quali che fossero gli intrighi del vice soprintendente, non si erano estesi fino a coinvolgere cuochi, sguatteri e sarti. Né c'era da stupirsene: Benjamin non aveva mai avuto grande considerazione di tutta la servitù, e Jordan lo sapeva. Il sarto del forte poi era rimasto deluso per il modo in cui l'avevano estromesso dalle stanze della giovane indovina, quando la sua più grande aspirazione era che gli abiti di Aelin usciti dalla sua bottega venissero notati dalle ricche dame della capitale.
Non era stato difficile tirare quell'uomo dalla loro, e Jordan in realtà avrebbe preferito non coinvolgere nessun altro. Ma né lui né Aelin erano in grado di mettere insieme qualcosa che somigliasse lontanamente a un maglione; a maggior ragione, poi, uno in grado di mutarsi in corda solo tirandone un lembo. I rischi c'erano sempre, d'altronde, e Jordan non sarebbe stato un cavaliere se non fosse stato disposto ad affrontarli. Il giovane si arrampicava, con lentezza, verso la sommità della torre. La notte era cupa, buia, illuminata da rade e opache stelle. Era la notte ideale, insomma, per la missione che Jordan si era prefisso. Continuava a inerpicarsi, pietra dopo pietra, metro dopo metro. Solo un'immagine fugace giungeva, a tratti, a incrinare la sua determinazione: il vice soprintendente di Auster, con un sorriso sardonico stampato in volto e una spada verde tra le mani. Una spada che con la sua lama avrebbe reciso quel filo cui la vita di Jordan era appesa. «Ti ci vorrebbero guanti e scarpe chiodate per quella scalata», aveva detto Aelin. I guanti di cuoio non era stato difficile trovarli, ma per gli scarponi sarebbe stato necessario l'aiuto di un fabbro, e i fabbri lì forgiavano armi: Benjamin non aveva trascurato gli armaioli di Auster, a differenza di altri più umili servitori. Gli uomini delle fucine avevano sguardi torvi e cupi, e Jordan aveva avuto il buon senso di girare al largo. Anche se era strano parlare di buon senso adesso, mentre si trovava a trenta metri dal suolo, avvinghiato a una parete di pietra troppo liscia e impervia. Ma ormai era giunto alla fine del filo. La mano del suo vecchio maestro Nicholas si protendeva oltre le grate di ferro sino a sfiorargli la fronte. «Sono lieto di vederti, ragazzo! E non immagini quanto». «Anche io sono felice, maestro. Ma non mi trovo nella posizione più adatta a convenevoli di sorta». Il soprintendente assentì, si fece serio in volto, serrò i denti: «La spada verde... Io stesso avevo sottovalutato il potere di quello strumento malefico e per molti giorni ho riso delle precauzioni degli incantatori! Ho riso sino a quando quegli occhi verdi di donna e l'inebriante profumo dei capelli non sono giunti a tormentare le mie notti... Il vecchio Nicholas è folle, starai pensando; è folle, ha detto il mio vice, in tutti i modi meno che con le parole. Ma se lo sono, e a volte sì, penso davvero di esserlo, questa mia pazzia non è... mia soltanto. Dilaga tra le sale di Auster come un morbo inarrestabile. Io ho visto Benjamin... Una notte l'ho visto, e non sognavo, mentre forzava lo scrigno costruito dai maghi e osservava pieno di bramosia il
pugnale di metallo verde. L'ho visto, ed è questo il vero motivo della mia reclusione! L'ho visto, e ho visto la Verde Signora camminare al fianco di quel povero sciocco. Era nuda e bellissima, perfida, crudele. Ma sembra che nessuno, oltre a me, riesca a scorgere quegli occhi, quelle labbra, quel seno. E io sono solo un folle, sì, o presto diventerò tale». Il vecchio cavaliere tacque di colpo, il suono delle sue parole concitate si perse nel silenzio notturno. «Aelin l'ha vista, invece», mormorò Jordan. «Aelin ha sognato proprio la donna dalle chiome verdi mentre noi rubavamo la maledizione». Il vecchio annuì, con un sorriso incerto sul suo volto stanco. «Che cosa farete adesso, Jordan?». L'altro non fece a tempo a rispondere. Una musica lenta e triste, un suono sottile di corde d'arpa giunse fino al cavaliere, seguito presto da una voce, un canto che il giovane conosceva sin troppo bene. «Rhory! Rhory qui!», esclamò il ragazzo con voce soffocata. «Anche lui è prigioniero», disse l'anziano soprintendente accompagnando la frase con un cenno del capo. «Ho cercato di dirlo ad Aelin, ma forse lei non ha capito. Non ho osato parlar chiaro o a voce alta con le guardie che ascoltavano ogni nostra parola e forse sono stato troppo criptico parlando di una voce alata...». «Adesso so come stanno le cose», gli rispose Jordan. «È questo che conta». «Aelin? Aelin, ci sei? Dobbiamo andarcene, questa notte stessa». L'erede di Thule non aveva ancora terminato di parlare che la porta a vetri del balcone si aprì, e la giovane terrestre gli venne incontro, vestita con il suo completo da equitazione e uno zaino rigonfio sulla spalla. «Dunque sapevi». «No», rispose lei scuotendo il capo, «niente visioni stavolta: solo semplice buon senso». Lasciare il castello non fu troppo difficile. Benjamin non si aspettava una simile mossa da parte loro, non così presto, almeno. E non aveva avuto il coraggio di rafforzare troppo le difese del forte: voleva far credere a tutti che niente fosse cambiato ad Auster, in quei giorni. «Conosco questo luogo come le mie tasche», aveva detto Jordan. «Non dico che uscire di qui senza essere visti sia una passeggiata, ma non è impossibile. Nella peggiore delle ipotesi dovremo mettere a nanna un paio di
guardie...». «E se ne incontriamo più di un paio?», chiese la ragazza. «Andrà tutto bene», l'aveva rassicurata il cavaliere, forse anche con più foga del dovuto. Ma l'incidente più grave avvenne quando la terrestre cadde da un muretto di mezzo metro d'altezza, dritta dritta sul brecciolino del cortile. L'alba vide Aelin e Jordan ormai distanti dalla fortezza, anche se forse non tanto lontani quanto avrebbero voluto. Auster era una macchia giallastra tra le colline, che loro guardavano con occhi pieni di stanchezza. Non potevano andare avanti all'infinito, e soprattutto non avevano ancora stabilito quale fosse la direzione da prendere. Si erano fermati nei pressi di un pino solitario, e mentre i cavalli brucavano l'erba, Jordan cercava di tracciare una mappa molto approssimativa disegnando linee nella polvere. «Noi siamo qui, a nord-ovest del forte, sulla strada opposta a quella che ci porterebbe al maniero della mia famiglia e poi alla città di Lilài. Si tratterebbe della via più logica per noi, quindi è anche la più pericolosa». «C'è Vultur a occidente», ricordò Aelin, «e il Santo Guardiano è un uomo ragionevole nonostante...». «Nonostante sia un prete?», terminò Jordan con un sorriso obliquo. «Sì, c'è Vultur, e Aquilon, a nord, ma il cammino sarebbe lungo, specie per due fuggiaschi». La scrittrice socchiuse gli occhi, indicò la strada quasi con un grido. Cinque cavalieri erano comparsi lungo il sentiero, e Jordan maledisse la velocità con cui li avevano raggiunti. «Cosa facciamo?», s'interrogò la ragazza mordendosi un labbro, e l'altro si guardò bene dal lasciarle intendere che non aveva la benché minima idea di come procedere. «Jordan di Thule!», tuonò il capo dei cavalieri. «Spero che avrai delle spiegazioni per il tuo comportamento! Hai lasciato il castello senza che nessun permesso ti fosse stato accordato, o puoi provare il contrario?». Neanche a dirlo, quello era Gabriel, il braccio destro di Benjamin. Jordan dal canto suo era più che disposto a imbastire qualche frottola, ma sarebbe stato fiato sprecato. Sguainò la spada, fissando l'altro dritto negli occhi: «Io ti sfido, Gabriel! Ti sfido per le menzogne che hanno avvelenato Auster, per la prigionia di Rhory e per quella di Nicholas. Ti sfido a negare con la forza della tua spada il mio diritto di trovarmi su questa strada, libero e privo di catene».
Quale cavaliere avrebbe resistito all'idea di un duello?, pensò Aelin fra sé. Però c'era un problema, e consisteva nel fatto che solo i cavalieri buoni restavano ai patti dopo essere stati sconfitti. «Catturatelo!», gridò Gabriel ai propri uomini quando Jordan, dopo pochi fendenti, gli fece volare di mano la spada, l'unica sua scusante era l'incantesimo di Discordia, forse. L'erede di Thule si ritrovò con il volto sprofondato nell'erba secca, e cinque guerrieri assai poco leali che torreggiavano su di lui. Aelin si coprì la bocca con una mano, per non gridare. «Presto imparerai sulla tua pelle, stolto ragazzo, quale sia la pena, il castigo, riservato al tuo tradimento», sibilò Gabriel. Aelin tornò a mordersi le labbra, ripetendo fra sé che doveva assolutamente fare qualcosa. Invece era come paralizzata. E poi... «Fermi là! Cosa sta succedendo?». A quel richiamo la giovane si voltò stupefatta: con la tempestività degna di un copione drammatico, il principe Lint era comparso sulla strada che giungeva da nord. «Altezza, quest'uomo è un traditore, e deve pagare per i suoi crimini». «Quali crimini, se mi è concesso chiederlo?». Un attimo di esitazione. Gabriel si guardò intorno, sembrò che la sua sicurezza vacillasse. «Costui ha lasciato di nascosto il forte di Auster», disse infine, «e ha portato con sé la profetessa delle stelle. Credo si possa parlare di rapimento». «Non è vero!», esclamò la terrestre. «Certo che non è vero», rispose Lint con espressione annoiata, «siete giunti sin qui dietro mia richiesta, non ricordi? Sono stato io a chiedere ad Aelin e Jordan di venirmi incontro, per il desiderio di vedere due vecchi amici». La giustificazione non stava in piedi, tuttavia il solo fatto che a pronunciarla fosse stato un principe la rendeva inattaccabile. «Se le cose stanno così», disse Gabriel, «saremo lieti di scortarvi sino al forte dei cavalieri, principe Lint, insieme ai vostri amici». «Voi cosa ne pensate?», domandò Lint agli altri due, e la risposta non tardò ad arrivare. «Sarai molto stanco, principe», disse Aelin, «dopo aver cavalcato tutta la notte, poi!». «Senza contare», aggiunse Jordan, «che c'è una locanda non molto di-
stante, e offre dei pasti assai più succulenti rispetto alla spartana cucina di Auster». «A noi non resta dunque che recare la notizia dell'imminente arrivo di vostra altezza», disse ancora il secondo di Benjamin, senza mutare espressione. «Questo rovinerebbe l'ispezione a sorpresa di cui ci avete parlato nella vostra lettera», obiettò l'erede di Thule, e Lint annuì in fretta alla sua trovata. In quel momento un rumore di zoccoli annunziò che la scorta del principe li stava raggiungendo. «Bene», disse Lint, «allora dovrò ordinare che vi tratteniate anche voi. So che il vostro zelo vi porterebbe a svelare il mio arrivo prima del tempo, e noi questo vogliamo impedirlo, non è vero?». Gabriel e i suoi uomini, ormai in netta inferiorità numerica, non osarono protestare. Alberi di lillà crescevano presso il ruscello della locanda, e i petali caduti a terra creavano una sottile distesa violetta. Era il luogo ideale per esercitarsi con la spada, e per parlare. Lì si ritrovarono Aelin, Lint e Jordan. «Draghi!», esclamò il principe. «Davvero non state scherzando! Sarebbe facile crederlo, ma...». «...ma non è così», concluse quietamente il cavaliere di Thule. «E noi che vi aspettavamo all'imbocco della valle dei lupi... Mi sono sentito abbandonato, abbandonato due volte! In fondo se non vi ho seguito nel covo di Isengrin è stato solo perché dovevo proteggere una certa fanciulla che poi all'ultimo minuto ha scelto di venire con voi». Aelin fece per protestare, ma Lint scosse la testa con un sorriso: «So che le cose non sono andate proprio in questo modo. Tuttavia è così che le ho viste, in un primo momento almeno». «Anche in un secondo e in un terzo, immagino», aggiunse Jordan sogghignando. Lint levò il capo verso l'alto. Non c'erano nubi in cielo. «È presto ancora...», mormorò il principe fra sé. Poi tornò a fissare Aelin, le domandò se gli concedeva di incrociare la propria lama con la sua, in modo da poter valutare i progressi che aveva fatto. La terrestre rispose sguainando la spada e, potere degli attizzatoi, migliorata lo era davvero. Almeno un pochino. Anche Jordan dovette ammetterlo.
Sir Gabriel, poco distante, osservava la scena disgustato. Jordan, dal canto suo, continuava a controllare l'altro. Il cavaliere di Thule avrebbe imprigionato volentieri tutti gli uomini di Benjamin, ma forse poteva esser utile portare avanti ancora per qualche tempo la commedia. Forse. Distratta dallo sguardo cupo dell'amico Aelin finì con l'inciampare, e sarebbe finita per terra se il principe non si fosse precipitato a sostenerla. Sir Gabriel borbottò una frase che la ragazza non riuscì a sentire, eppure ebbe la netta sensazione che si trattasse di qualcosa di sgradevole. Il cavaliere di Thule portò una mano alla spada. Gabriel, con espressione beffarda, lo invitava a estrarla. «Ritira quello che hai detto», sibilò Jordan. «Se anche lo facessi non basterebbe a negare l'evidenza», ribatté l'altro. «Ti ho già affrontato una volta in duello». «Potrebbe non esserci una terza». «Insomma, smettetela!», s'impose Lint piazzandosi fra i due. «Tu non ti batterai con nessuno, Jordan di Thule, perché reclamo io questo privilegio, se solo Sir Gabriel vorrà ripetere ad alta voce le parole che hanno destato la tua ira, e che io non ho avuto modo di sentire». Troppi difensori, pensò fra sé Aelin, che aveva nutrito molte fantasie nella sua testa perennemente tra le nuvole, ma non quella di vedere uno o più cavalieri con la spada in pugno a salvaguardia del suo onore. E poi... «Guardate!», esclamò indicando il cielo. Un'ombra blu era comparsa, ogni istante più nitida, ogni istante più grande, e dispiegava le ali nell'aria tersa. XIV PSICHE Era un drago che Aelin indicava col dito, e si stava dirigendo verso di loro. Gabriel gridò. Sarebbe fuggito, se Lint non l'avesse trattenuto per un braccio. La terrestre però non era così certa che la fuga fosse un'eventualità da scartare a priori. «Da settimane un drago privo di un artiglio mi segue», disse il principe in tono sommesso. «Ogni giorno, quando il sole è più alto nel cielo, l'ho visto apparire. Non posso dire di non aver provato timore... sino a quando non ho ascoltato il vostro racconto».
«Certo, si tratta di Alascura!», esclamò Jordan. «Deve aver visto il tuo volto tra i ricordi di Rhory, e per questo ha deciso di seguirti». Il drago si era fatto ormai vicinissimo, e planò a pochi passi dal gruppetto di giovani, per poi ripiegare lungo il corpo le grandi ali color di notte. «Salve, Alascura», disse l'erede di Thule, e il drago chinò il capo in risposta. Poi tracciò nell'aria il segno di un artiglio, e di una specie di nuvola, i simboli dei nomi che avevano Aelin e Jordan presso i figli del fuoco. Spiegare alla creatura quello che stava accadendo però sarebbe stato più complesso di un saluto. Dopo lunghe riflessioni, la terrestre disegnò sul terreno la sagoma alata che rappresentava Rhory, e poi le pose una striscia attorno al collo: il collare dei draghi, il simbolo della prigionia. Alascura gridò con la sua voce d'oboe. Scambiandosi uno sguardo, Jordan e Aelin decisero di non dire dove si trovasse l'amico, giusto per evitare mosse avventate. Tornarono a tracciare sulla riva sabbiosa l'immagine del drago che portava un messaggio a Lilài e poi faceva ritorno, in compagnia di Sethrian o qualche altro mago. Alascura cancellò quei segni. Si conficcò la punta di un artiglio nella gola, per poi porgere ai due ragazzi il proprio sangue, di un blu così intenso da sembrare quasi nero. Il sangue dei draghi, ricordò Aelin in un soffio, era la chiave della telepatia. Era un dono, infinitamente prezioso. Jordan prese il suo pugnale, aprì un lungo taglio nel suo braccio sinistro. La terrestre non disse una parola: si arrotolò una manica e fissò l'altro con espressione decisa. Il cavaliere socchiuse gli occhi, ma poi si limitò ad annuire. «Devo offrirmi anche io volontario?», chiese Lint in tono esitante, e Aelin serrò le labbra, mentre il metallo freddo le tagliava la carne. Eppure non si trattava che poco più di un graffio. «Il nostro regno potrebbe non accettare un monarca che parla ai draghi, non ancora almeno», disse Jordan scuotendo la testa. Il principe in verità parve sollevato. Il sangue di drago era rovente, Aelin urlò quando le cadde sulla ferita. I tagli sulle braccia dei due giovani vennero bendati, e Alascura li osservava immobile. I secondi passarono nel più assoluto silenzio, diventarono minuti, lunghi e lenti, carichi di attesa.
Poi il drago disegnò se stesso e il disco solare che toccava l'orizzonte. Senza attendere risposta, la fiera spalancò quindi le sue grandi ali e i giovani la videro svanire nel cielo. «Credo abbia detto che tornerà al tramonto», disse Aelin osservando gli ultimi segni tracciati per terra. «Oppure all'alba», aggiunse Jordan, «ma noi possiamo solo aspettare». «Non capisco», fece Lint, «prima non è voluto andare e adesso...». «Adesso ha visto che le nostre menti continuano a restargli chiuse», disse il cavaliere di Thule, «e non sappiamo quanto tempo potrebbe volerci per sviluppare delle capacità telepatiche. Forse saranno necessari giorni, mesi, settimane...». «O forse non accadrà mai», concluse Aelin stringendosi con una mano il braccio ferito. Sir Gabriel frattanto era rimasto immobile, pallido in volto. Sembrava che le sue labbra formulassero i versi di una preghiera. La locanda era piccola e accogliente, quasi di sogno. Salendo le scale Aelin sfiorò appena le tendine di pizzo bianco alla finestra, poi sollevò il capo, osservando gli intagli delle travi del soffitto, e sorrise. Aveva visto molti ostelli in quei mesi di viaggio, alcuni con cimici e pidocchi, che avevano assai poco di fiabesco. Ma ora si trovavano nei pressi di un importante crocevia, ed era il re stesso a vigilare perché le locande poste lungo le strade principali rispettassero le più elementari condizioni igieniche. E lì le lenzuola profumavano di lavanda. La giovane, raggiunta la sua camera, si gettò sul materasso, in un moto di stanchezza. Il tramonto ancora lontano. Bussarono. Era Lint. Il principe rivolse alla ragazza un sorriso incerto. «Volevo parlarti, Aelin». «Dimmi tutto», fece lei, drizzandosi a sedere. «Mia madre mi ha trovato una sposa, una fanciulla che non conosco. È bella e di nobili origini, ha detto, eppure è sempre vissuta lontano dal fasto della corte». «Non mi sembri troppo entusiasta». «Sono innamorato di te, Aelin. Voglio che sia tu la mia sposa. Se anche tu lo vuoi». Ci volle qualche minuto perché il cervello della terrestre riprendesse a funzionare. «Mi sembra che ci sia poca differenza», sussurrò infine, «tra una sposa che non hai mai conosciuto e una che conosci appena. Che cosa sai di me?
Come puoi dire di amarmi? E poi così, all'improvviso... Mi hai quasi fatto prendere un colpo!». «Io credevo che tu già sapessi...», sussurrò l'altro, e i suoi occhi scuri sembrarono quasi smarriti. Jordan mi aveva avvertito, pensò la giovane, e io non ho nemmeno preso in considerazione l'idea che potesse parlare sul serio. Lint fissava Aelin in silenzio. Aelin cercava disperatamente qualcosa un qualsiasi oggetto - su cui rivolgere lo sguardo, purché non fosse il principe Lint. «Ancora non hai risposto alla mia domanda», riuscì a mormorare poi. Forse perché non sapeva che altro dire, e il silenzio era diventato intollerabile. «Che cosa so di te?», soggiunse il principe. «Io so che sei diversa da ogni altra donna che abbia mai conosciuto, e mi hai fatto perdere la testa». Diversa lo sono, più di quanto immagini, pensò Aelin. Veniamo da due mondi diversi, e non metaforicamente. Ma questa non era una cosa che lei desiderasse confessare all'inaspettato spasimante. Non in quel momento, non durante quella discussione. Certo... una corona presentava numerose attrattive, ma anche un discreto numero di inconvenienti. Una corona... Aelin ripeté quella parola mentalmente, una, due volte, poi si ritrasse, in maniera quasi impercettibile, come inorridita. Perché se erano i futuri titoli l'unica cosa che le veniva in mente nel giudicare la proposta di Lint, allora... «Diversa dalle altre», ribatté e il suo tono si era fatto duro. «Vale a dire che non mi ami per quello che sono, ma per ciò che non sono. Vuoi la caramella con la carta diversa dalle altre, senza curarti del contenuto». Lint scosse il capo, sconsolato: «Conosco te meglio di qualsiasi altra ragazza», disse. «La corte non permette che un uomo e una donna possano spingersi oltre le barriere dei suoi costumi, Aelin». I pensieri nella mente di Aelin si affollavano: stupida, stupida, stupida. Lint è un bel ragazzo, ed è figlio di re. Inoltre sembra sincero. Cosa chiedi di più? Non lo ami. Oh, ma ne sai molto, tu, dell'amore, non è vero? «Rimane il fatto che io non ti amo», disse finalmente, serrando le labbra, «e non posso né voglio fingere il contrario». «Aelin...». «Inoltre non mi sembra il momento più adatto per pensare all'amore, con Rhory chiuso in una torre, il forte di Auster in preda alla discordia, il sangue di drago che mi circola nelle vene e chissà quale altra catastrofe in at-
tesa dietro l'angolo». «Sta bene, Aelin», sussurrò il principe. «Spero solo che vorrai parlarne ancora quando tutto sarà risolto». «Questo non posso negartelo», fece lei distogliendo lo sguardo, anche se non credeva che la sua risposta sarebbe cambiata. «Ti amo, Aelin», ribadì Lint. «E tu dovevi saperlo. Tutto il resto verrà dopo». Amore, amore! La giovane si levò in piedi, e fuggì via dalla stanza senza voltarsi indietro. Amore! Doveva sentirsi lusingata, spaventata, o cosa? Amore! Hai fatto la cosa giusta dicendo di no, rifletté, non potevi certo raccontare a Lint che erano i tuoi pensieri sulla corona di Aquilon la prima causa del tuo rifiuto. Scosse la testa, poiché era una strana forma di consolazione; ma se mai avesse provato dei rimpianti, poteva sempre ricordare che in quel regno si prospettava una vita di intrighi e continue menzogne per una regina miscredente, oppure, in alternativa, il rischio di un'esistenza fatalmente corta. «Aelin! Sembri sconvolta». «Temo di esserlo, Jordan». «Voci di draghi?». «Dichiarazioni d'amore di principi». Solo dopo aver parlato, la giovane pensò che forse avrebbe dovuto star zitta. «Spero che tu abbia rifiutato», disse lui, ed era improvvisamente serio. La terrestre non aggiunse nulla, appoggiò la schiena contro il tronco di un albero. «Se avessi detto di sì, sarebbe stato per i motivi più sbagliati». A quel punto era inutile tacere. «È questo a turbarti tanto?», le chiese Jordan. «No. Non credo: è preferibile rifiutarsi di compiere una cattiva azione, piuttosto che non riuscire nemmeno a concepirla». «Non ne sono sicuro. Sethrian. Lui sì che sarebbe pronto a sottoscrivere una simile sentenza, quando non si affrettasse poi a reclamarne per sé la paternità». «E se anche fosse?», domandò Aelin con una smorfia. «È solo che continua a sembrarmi strano quando vedo il cinismo del nostro comune amico affiorare sulle tue labbra. Tu hai un animo dolce e ingenuo, e il fatto che non ti sia accorta dei sentimenti che Lint nutriva per te ne è una prova. Invece cerchi in ogni modo di nascondere questo lato del
tuo carattere, persino a te stessa. In cambio ti sei scelta un modello che io giudico quanto meno discutibile». «Dolce e ingenua?», ripeté Aelin. «Perché non mi sono accorta di... Lint? Non sarebbe più semplice e veritiero definirmi insensibile per questo?». A quelle parole Jordan si mise le mani tra i capelli. «Smettila, adesso...», sussurrò lei. «Sai, Aelin?», disse il cavaliere socchiudendo gli occhi. «Di una cosa sono certo: se fosse stato Sethrian a chiederti di sposarlo non saresti stata così rapida e sicura nel dargli il tuo rifiuto». La giovane si portò una mano al volto, le guance erano diventate color fuoco. «Cosa vorresti insinuare? Che io... E poi cosa c'entra tutto questo con Lint?». «Non è di Lint che stiamo parlando, ma di te». Aelin schiuse le labbra per obiettare qualcosa, le richiuse di scatto. «Voci di drago!», esclamò Jordan in quel momento, guardandosi attorno. «Non senti? Alascura sta tornando!». Aelin non sentiva, poté soltanto seguire il cavaliere che correva verso le sponde del torrente. Alascura non era solo. C'era Gwyon sul suo dorso ed era cupo in viso. «Rhory è prigioniero? E di chi, di Isengrin?». La terrestre raccontò ogni cosa all'amico, mentre Jordan sembrava essersi smarrito in una conversazione silenziosa che si svolgeva tra i suoi occhi e quelli di Alascura. «Così Rhory è ad Auster, e noi abbiamo un nuovo Cantore del Sangue», commentò Gwyon sottovoce. «Il termine l'ha coniato Sethrian, ci tengo a precisarlo, ma forse non è stata un'idea poi così cattiva che ci dessimo un nome». «Ci dessimo chi?», chiese la ragazza, e ancora non distoglieva lo sguardo dall'espressione intenta del cavaliere. «Siamo una quindicina ormai, su cinquantatrè persone che hanno mescolato il loro sangue a quello dei draghi. E nemmeno tutti hanno sviluppato lo stesso livello di capacità telepatiche. Io per esempio intendo benissimo ciò che i draghi vogliono dirmi, ma alle loro menti appaio come muto. Se fossi stato un altro, la cosa li avrebbe parecchio indispettiti, ma Rhory si fida di me e dunque...». «Io non sento proprio nulla», disse la giovane, con una punta di amarez-
za nella voce. «Dopo quanto? Meno di dodici ore? Non vuol dir niente ancora». «Staremo a vedere», fece Aelin non del tutto convinta. «Nel frattempo abbiamo cose più urgenti di cui occuparci». «Certo sarà interessante sentire il parere di Sethrian su questa faccenda. Io mi trovavo a Thule quando Alascura ha risvegliato con la sua ira il mio sonnacchioso draghetto verde, e ho preferito raggiungervi subito, mandando il solo Verdicchio sino a Lilài». «Eri a Thule per la pergamena?», chiese Jordan. «È così. Ma il nome della lama dei tuoi antenati è Oro Rosso. Nulla a che vedere dunque, con la spada che ci minaccia». «C'è sempre il libro a Vultur», ricordò Aelin, «e tra le sue pagine gli occhi di un mago potrebbero trovare parecchio». «Potrebbero», ammise Gwyon, «e tuttavia non sarà necessario sconvolgere la città santa con l'apparizione di un drago. Io so già dove sta il nostro errore, non per nulla ho avuto un maestro esperto in maledizioni». Aelin annuì appena. «Il punto è questo», aggiunse il mago in fretta, «la runa con il nome discordia non era un semplice segno descrittivo, come l'hanno interpretato Sethrian e Palen, ma piuttosto un sigillo, che tratteneva la maledizione al proprio interno». «Ed è in quel segno, dunque», concluse Jordan, «che noi dobbiamo tornare a intrappolarla, se non vogliamo che la discordia si propaghi più di quanto non abbia già fatto». Era trascorsa da poco l'alba quando il principe Lint e il suo seguito giunsero ad Auster. Il principe appariva raggiante, Sir Gabriel era scuro in volto. Jordan continuava a guardarsi intorno con fare guardingo. Avevano scelto quell'ora a ragion veduta, perché la sonnolenza del castello fosse loro amica. La giovane terrestre però avrebbe preferito non apparire, lei stessa, mezza addormentata. Benjamin era venuto incontro ai visitatori con un'espressione di falsa cordialità stampata sul viso, e Lint continuava a domandare di vedere i depositi delle scaglie verdi. Le risposte del vice soprintendente si facevano sempre più evasive al riguardo, ma il principe non smetteva di chiedere e il gioco sarebbe potuto durare a lungo. D'improvviso tre draghi comparvero nel cielo sopra la fortezza: mentre
due minuscoli draghetti dorati sfrecciavano nell'intrico delle torri e dei tetti, grandi ali color di notte oscuravano il sole, sovrastando ogni cosa. «Tradimento!», gridò Benjamin. «Oh, su questo non c'è dubbio», gli disse Jordan, «il problema rimane stabilire chi sia tra noi il vero traditore». Dopo fu il panico. Tra le urla degli uomini del forte, Aelin sarebbe stata travolta se non fosse stato per Lint e Jordan che le stavano al fianco, e Benjamin si allontanò dal cortile prima che potessero fermarlo. La giovane vide che i draghi dorati si erano avvicinati alla torre orientale: usavano il loro minuscolo fuoco al pari di una fiamma ossidrica, per sciogliere il ferro delle grate. Alascura dall'alto continuava a vigilare. Le timide frecce o i sassi che scagliarono alcuni temerari non potevano nulla contro le belve alate. «Fermatevi, nobili guerrieri!», gridò Lint in quel momento. Era salito sul bordo del pozzo al centro del cortile. Nonostante la confusione tutti poterono vederlo. E mentre il principe continuava a parlare, i due draghi dorati calarono verso la corte, con i due prigionieri sul dorso. «Rhory!», esclamò Jordan. «Stai bene, Rhory?», si affrettò ad aggiungere la giovane terrestre. Il cavaliere prescelto indossava abiti laceri, il suo volto era smagrito, ma non smetteva di sorridere mentre abbracciava gli amici. I combattenti del forte osservavano la scena attoniti. «Dovete capire, cavalieri, che non sempre il nemico indicato è il vero nemico da combattere...», continuava a dire Lint, e il suo discorso martellante era quasi un incantesimo che legava all'obbedienza i guerrieri. «Forse non sono nostri nemici», disse Nicholas, «ma spero di non salire mai più su di uno dei vostri compagni alati. E dov'è mai il mio fedele vice?». L'uomo non aveva finito di parlare che un guerriero dalla fiera armatura di smeraldo fece la propria comparsa. «Adesso dovrete temere il taglio della mia lama, creature del male!», gridò Benjamin brandendo la sua spada di metallo verde. Ma i draghetti sembrarono ignorare le minacce del cavaliere: giocavano fra loro, dandosi delle scherzose zampate sul muso. Lint intimò a Benjamin di fermarsi, invano però. L'altro proruppe in una risata: «Io non obbedisco agli ordini di un principe, ma a quelli di un'entità superiore!».
Sembrava che i piccoli draghi non si rendessero davvero conto del pericolo rappresentato per loro da una lama di metallo verde. Uno dei due fece quasi per avvicinarsi a Benjamin, ma Rhory e Jordan non esitarono a pararsi di fronte al cavaliere in armatura, e Alascura calò minaccioso dal cielo. «Non ti temo!», gridò Benjamin. «È la stessa corteccia dei draghi a proteggermi dai tuoi artigli e dalle tue fiamme!». Alascura aprì le fauci, e le lingue di fuoco avvolsero il suo avversario. Non esisteva migliore protezione dalle fiamme del cristallo del drago. Ma il metallo verde era un conduttore, come tutti i metalli. Sembrava che Benjamin non lo sapesse. Aelin osservava la scena agghiacciata. «Basta così, Alascura». L'ordine veniva dalla voce tranquilla di Sethrian. Il drago poggiò le sue poderose zampe sulla ghiaia del cortile, e il mago discese dal dorso dell'animale, insieme a Gwyon e Palen. «Per fortuna ho portato con me un forte estratto contro le bruciature», commentò quest'ultimo avvicinandosi al corpo privo di sensi di Benjamin. La fiammata del drago non era durata più di qualche manciata di secondi, ma tanto era stato sufficiente. «Mi occupo io del ferito», disse ancora Palen, «voi avete altro a cui pensare». «Se il soprintendente Nicholas è tanto cortese da farci strada fino al suo studio», intervenne Sethrian, «vedremo di mettere una volta per tutte la parola fine alla maledizione di Discordia. Prima però sarà meglio distribuire questi, a chi vorrà seguirci». Il mago estrasse da una borsa una decina di medaglioni di cristallo opaco, grossolanamente abbozzati. «Dovrebbero proteggerci dagli influssi nefasti dello spirito verde», spiegò Gwyon. «Era il meglio che potessimo fare in così poco tempo». Gli amuleti vennero presto indossati. Ma nello studio il pugnale non c'era. Trovarono solo lo scrigno di ferro in cui era stato custodito, ed era vuoto. Né il colpevole tardò a presentarsi. «Sono stato io a prendere quell'arma maledetta», disse Sir Gabriel, fermo sulla soglia: era pallido in viso, stralunato. «L'ho sentita che mi chiamava, implorava, ordinava, di trarla in salvo dai suoi nemici. Le ho obbedito... come in sogno. Ho seguito le istruzioni di quegli occhi di smeraldo, e ho gettato il pugnale nei sotterranei dove Benjamin ha fatto ammassare
tutto il metallo verde». «Metallo», ripeté Sethrian aggrottando impercettibilmente la fronte, «hai detto metallo?». Il mago e i suoi compagni, quando erano partiti, avevano lasciato ad Auster solo scaglie grezze. E la domanda di Sethrian era meno banale di quanto non potesse sembrare. Perché il metallo era conduttore anche per quel che riguardava la magia. «Non mi piace per niente», sentenziò Gwyon. «Contaminando una simile quantità di metallo, Discordia avrà accresciuto la sua potenza, e adesso non sappiamo chi ci prepariamo ad affrontare». «Tuttavia dobbiamo andare», fece Jordan in un sospiro, «è persino inutile dirlo». «Io vi chiederei di accompagnarvi», disse Gabriel a capo chino, «ma già una volta ho dimostrato di non sapere resistere al fascino della maledizione». «Mi domando se il vostro tono contrito è reale o simulato», commentò Sethrian fissandolo di sottecchi, «perché Discordia non può penetrare negli animi se non trova nulla a cui appigliarsi, e l'ostilità per draghi e incantatori non è dovuta a una maledizione. La Verde Signora ha potuto spingere ad agire soltanto chi già nel suo animo desiderava farlo». «Volete accusarmi di qualcosa?», reagì Gabriel. «Non ho accuse da lanciare, solo sospetti: io non posso giudicare né voi né nessun altro in base a un semplice presentimento, ma i sospetti rimangono. E non posso fare a meno di chiedermi se indicandoci la strada per il pugnale maledetto non ci stiate consapevolmente mandando verso una trappola». Gabriel si fece avanti, minaccioso: «Se fosse stato un cavaliere a pronunciare simili parole...». «Ma io non sono un cavaliere», lo interruppe Sethrian con un sorriso, «e dal momento che è più facile per tutti addossare ogni colpa alla maledizione cattiva, ci atterremo senza ulteriori incertezze a questa rassicurante versione». «In ogni caso, forse Sir Gabriel e i suoi uomini dovrebbero prestare servizio in un luogo più sicuro di Auster, almeno fino a quando tutto non sarà tornato alla normalità», disse Nicholas in tono pacato, e le sue parole erano un ordine che pose fine a ogni discussione. La scala che portava ai sotterranei era lunga e ripida. La scala che porta-
va ai sotterranei era piena di ombre, dense tra le pietre umide. La scala che portava ai sotterranei non portava più ai sotterranei. Scendendo i gradini, Aelin e i suoi amici si erano ritrovati di fronte una distesa di acqua scura e insondabile. «Illusione. Inganno», sentenziarono i tre maghi senza indugi. Tuttavia si trattava di un'illusione molto realistica. E bagnata. «Forse dovremmo sbarrare le porte del sotterraneo, e non andare più oltre», disse Nicholas con voce soffocata. «A parte l'interesse personale di recuperare il metallo del drago che mi appartiene, io non riesco a essere d'accordo», rispose Sethrian. «Anche se riuscissimo a forgiare amuleti a sufficienza per tutti, e ci vorrebbe parecchio tempo, o un aiuto da parte dei maghi di Lilài che non possiamo pretendere, i nostri medaglioni rimangono pur sempre un rimedio temporaneo, specie adesso che Discordia è riuscita ad accumulare nuove forze. E poi gli amuleti servono ben poco quando c'è qualcuno che in cuor suo desidera rispondere alle lusinghe della Verde Signora». «Non è la prima volta che lo dite», osservò il soprintendente, «e sembra quasi che questo a voi faccia piacere, messer mago». «Non necessariamente i desideri a cui la maledizione si appella sono malvagi in sé», si affrettò a precisare Sethrian. «Però possono diventarlo». «Ma esiste un modo per spezzare le illusioni di Discordia, o dovremo attraversarle come se fossero reali?», chiese allora Aelin. «Dovremo affrontare davvero una tale prova?», si chiese Sethrian. «È solo sconfitta colei che ha intessuto l'inganno, la tela si spezza, la realtà ritorna a mostrare il suo volto. Come in un'antica leggenda. Eppure se possibile sarebbe meglio evitare tutto questo». Se possibile. Ma i ripetuti tentativi degli incantatori parvero dimostrare il contrario. Bisognava avvicinarsi alla fonte della maledizione per riuscire a domarla. Approntarono una barca con delle provviste, per un viaggio tra le illusioni. Sarebbero stati in sei ad andare: Jordan e Rhory, ovviamente, Sethrian e poi Gwyon, l'esperto in maledizioni, Aelin, che aveva visto in sogno la Verde Signora. E infine Lint. Difficile dire di no a un principe, specie due volte di seguito. Palen invece sarebbe rimasto ai confini dell'incantesimo di Discordia, vigile e all'erta. Si misero in viaggio. E non sembrava che sarebbero giunti tanto presto a
destinazione. Mentre l'acqua scura che aveva invaso i sotterranei cedeva il posto a un mare e un cielo sconfinati, era sempre più difficile credere che si trattasse di un'illusione. Lo era invece, era un'illusione. Ma ripeterselo non era sufficiente. «In fondo potremmo persino scoprire che Discordia è in grado di aprire dei varchi nel tessuto spazio-temporale», ipotizzò Sethrian, «e noi senza saperlo abbiamo lasciato i sotterranei del castello già da molto tempo». Certo era difficile credere falso il sole che ardeva sopra le loro teste. Aelin aveva dovuto ricorrere all'olio di drago come surrogato di una crema solare per la sua pelle troppo chiara. Anche questo mal si accordava a un'illusione. Passarono i giorni, passarono le notti. Pescavano per integrare le provviste e usavano la magia per ottenere acqua potabile. «Pensare che io odio il pesce!», si lamentava la giovane. «Secondo voi Discordia progetta di farci morire di noia?», chiedeva allora Jordan scuotendo la testa. Alla giovane terrestre erano cominciati a venire in mente certi racconti del suo mondo riguardo alla follia dei naufraghi. Però non ne fece parola con gli altri, e nessuno sembrava mostrare segni di squilibrio. Il pesce almeno era abbondante, e ciò teneva alla larga l'inquietante minaccia del cannibalismo. Poi comparve una linea scura all'orizzonte, che presto si mutò in una terra ricca di boschi e insenature. «Cosa accadrà adesso?», mormorò Aelin. Ma tutti lo pensavano. «Cosa accadrà?», ripeté Rhory. «Stiamo per scoprirlo». «Ogni cambiamento sarà bene accetto», osservò Jordan. E il cambiamento giunse, sotto forma di un nero castello abbarbicato sul mare, con le sue nere torri che sembravano un prolungamento della scogliera. Realtà o finzione? Un misto tra le due, forse. Percorsero il castello con le sue sale silenziose, dove volti di fanciulle in lacrime sembravano emergere dalla pietra, e colonne di cristallo riflettevano il loro pianto, tra i colori di arazzi che intessevano storie d'amore e di morte. Il palazzo era deserto, solo gli archi ogivali delle finestre erano attraversati da obliqui raggi di sole. Poi un suono d'arpa venne a guidarli, sino a un giardino ombroso, carico del profumo di gigli bianchi. «Vi aspettavo», disse una voce. Una voce melodiosa, di donna.
Una dama dai lunghi capelli neri venne loro incontro, e il suo sguardo aveva un'espressione seria e malinconica. Era bella, bellissima, e Aelin ebbe la netta impressione che gli occhi del principe Lint fossero usciti fuori dalle orbite. Né era l'unico a contemplare incantato l'affascinante sconosciuta. «Ci aspettavi?», ripeté Sethrian guardingo. «Lei ha detto che sareste venuti. E non aveva ragione di mentire». «Lei?». «La Signora della lama verde», rispose l'altra, e una sfumatura di dolore si insinuò nella sua voce, «colei che ha mutato in rocce gli abitanti di questo castello». «Rocce?», fecero gli altri a una voce, pieni di stupore. «Ha detto che ciò avrebbe aumentato il suo potere, e così è stato. Se io non sono stata toccata è solo perché la spada voleva lasciare indietro qualcuno in grado di riferirvi le sue parole di sfida». «Se una sfida è stata lanciata, noi siamo pronti a raccoglierla, mia Signora», disse Rhory in tono solenne. «L'unico rimpianto è che la nostra missione ci imponga comunque di percorrere quel cammino», incalzò Jordan, «perché questo ci vieta di credere che affrontiamo una tale impresa solo per la luce dei vostri begli occhi». «Nauseabondo!», fu il secco commento che Aelin pronunciò in un sussurro. «Nauseabondo...», ripeté soprappensiero Sethrian, che era accanto a lei. «Di certo è stato eccessivo, forse però il termine nauseabondo è un po' troppo...». «Troppo che?». «Cattivo?». «Sethrian!». «Cosa, Aelin?». La ragazza non aggiunse altro. Sethrian era intento a osservare le forme sensuali della bella sconosciuta, e non le prestava davvero attenzione. «E la spada?», chiese la terrestre fissando la dama negli occhi. «Sai dirci dove si trova adesso?». «La spada verde ha trovato la sua dimora nel bosco che si stende a occidente, ed è li che vi aspetta, Aelin». «Conosci i nostri nomi, dunque», fece lei in un sussulto. «Ma non noi sappiamo ancora il tuo».
«Io mi chiamo Psiche. E se volete seguirmi, adesso... Sarete miei ospiti stasera». Furono ospiti della dama dagli occhi verdi per quella sera, e poi il giorno seguente, e quello successivo ancora. La partenza era prossima, i cavalli già sellati, le provviste pronte. Per il primo giorno però si susseguirono tutta una serie di piccoli impedimenti e ritardi, da un libro che Sethrian voleva consultare nella biblioteca a una staffa rotta o un otre che perdeva. Il secondo giorno non accadde nemmeno questo, e Aelin si accorse inorridita che il suo amuleto bianco si era crepato. I suoi compagni pendevano dalle labbra di Psiche e sembrava che solo la terrestre si accorgesse della perfidia nascosta dietro il suo sorriso. Aelin pensava a questo, mentre camminava con passo lento nella camera popolata da statue immerse in un sonno incantato, le vittime di Discordia che forse non erano mai state carne. Il velluto delle tende profumava di muschio, le lampade sparse per ogni dove erano simili a libellule di fuoco. Ma quel luogo non era reale. No, non lo era... «Vorresti avvertirli, non è vero, terrestre? Vorresti. Eppure sai già che non ti permetterò di riuscirci». La ragazza sbarrò gli occhi. Era sola nella camera e dalla finestra poteva vedere, a distanza, la bella Psiche che conversava amabilmente con Rhory e Jordan, tra gli alberi. Eppure, stava sentendo la sua voce. Vicina, vicinissima, come se Psiche le stesse sussurrando in un orecchio: «Loro sono in mio potere, e lo sai». Aelin scosse il capo. «E io? Perché io ti vedo per quello che sei?». «Forse perché tu non rappresenti un pericolo, e trovo la tua disperazione e la tua impotenza molto più piacevoli della tua adorazione». «Forse sbagli a sottovalutarmi». «Nemmeno tu lo credi, non è vero, Aelin?». La voce di donna rise, e la sua era una risata crudele. «D'altra parte non proverei alcun gusto nel giocare una partita che fosse già vinta. È vero, esiste una possibilità di spezzare la rete che ho intessuto. Ma tu non ci riuscirai, nessuno di voi riuscirà». «Inizio a pensare che tu sia troppo sicura del potere che hai su di noi». «Davvero?», domandò l'altra con voce suadente. «Adesso ho voglia di giocare, Aelin. E giocherò, con te. Affacciati alla finestra, piccola terrestre». Psiche aveva lasciato soli i due cavalieri. Rhory e Jordan si stavano alle-
nando. Aelin si accorse, con orrore, che il combattimento amichevole si stava facendo più aspro, e feroce. Corse via, lasciandosi dietro le statue nel loro silenzio di pietra; corse a perdifiato per raggiungere i suoi amici. Nelle orecchie aveva ancora la risata della Verde Signora. «È solo un graffio, Aelin», mormorò Rhory cercando di sorridere allo sguardo cupo di lei. «Non è un graffio. Ne so abbastanza di combattimenti per rendermene conto». «In effetti faresti meglio a medicarti quella ferita», disse Jordan mentre ripuliva la propria spada dal sangue. «Guarda che per me possiamo continuare», ribatté Rhory. «E se Aelin non ci avesse interrotti...». «Ci saranno altri duelli». «Sì, ce ne saranno». I due cavalieri si scambiarono uno sguardo carico di sfida. Poi Jordan scoppiò a ridere, e così fece anche l'altro. La ragazza li fissava entrambi, senza sapere cosa fare o dire. Aveva paura, aveva un terribile sconforto nel cuore. «Calmati, Aelin», disse Jordan con un sorriso tranquillo, «questa non è nemmeno la prima ferita che vedi». La giovane sospirò. Non poteva dire agli altri delle parole di Discordia. Non le avrebbero creduto. Avrebbe perso la loro fiducia, forse per sempre. Non avrebbe parlato di Discordia, dunque. «Combattevate con una tale foga», mormorò, «non l'avrei creduto possibile nemmeno in Artù e Lancillotto, se si fossero battuti per Ginevra. Cosa che in realtà non hanno mai fatto». I cavalieri conoscevano molte leggende della terra... lei gliele aveva raccontate. Rhory diventò pallido. Jordan chinò la testa, per non incontrare lo sguardo degli altri due. «Non so se sei pazza o se hai la vista troppo acuta», considerò il cavaliere di Thule, «ma ti prometto una cosa: non sarà l'esito di un duello a deciderlo». Poi si allontanò a grandi passi. «È come ha detto Jordan. Lo stesso vale per me», fece Rhory. Anche lui si affrettò ad andare, nei pressi dell'albero rimase soltanto Ae-
lin. Non restò a lungo priva di compagni, tuttavia. Un lento battito di mani giunse alle sue orecchie: sollevando il capo vide che Sethrian era comparso da dietro una siepe. «Davvero una scenetta interessante», disse il mago in un sibilo. «Non ho potuto fare a meno di ascoltare. Mi chiedo quale sarà la tua prossima mossa, Aelin. Ma ti avverto, simili giochetti con me non funzioneranno». «Cosa stai dicendo?», sussurrò la terrestre. «Non venirmi a parlare di Isotta o Elena di Troia, o di qualsiasi altra donna fatale tratta dai racconti della tua terra! Perché non riuscirei a tollerarlo». «Sethrian...». «L'espressione di falsa innocenza riservala per qualcun altro, ragazzina! Perché io il tuo gioco l'ho capito, e con me non potrà mai funzionare». «Il mio... gioco?». Aelin tremò. «Credi che non abbia visto il modo in cui fissavi Psiche, il modo in cui ne parlavi? Ginevra! Saresti pronta a chiamarla demone o mostro se non fossi troppo paurosa per sferrare un attacco così diretto. Se non ti uccido seduta stante è solo perché riconosco nelle tue parole l'influenza della spada verde. Ma non ti perdonerò facilmente. Perché sei stata tu ad aprirle un varco, anche se ora forse nemmeno te ne rendi conto». «Un varco!», ripeté la giovane rossa in volto. «E come?». «Andiamo, Aelin! Non vorrai negare che ti piaceva il ruolo di fanciulla indifesa che riceve le cure e le attenzioni di tutti. E adesso invece ti senti così ignorata...». «Il mio medaglione è andato in frantumi», sussurrò lei. «Mostrami che il tuo è ancora integro e io potrò credere, forse...». «A che servirebbe?», disse il mago con un sorriso. «Tu vedrai ciò che Discordia vorrà mostrarti. Non che io ti faccia una colpa di questo, ovviamente. Ma diciamoci la verità: sarebbe stato molto meglio se tu fossi rimasta ad Auster. Sei sempre stata inutile, e ora più che mai». XV MAGIA D'INGANNI Aelin era immobile tra i cespugli di rose, in ginocchio e con gli occhi ancora rossi di pianto. Il profumo dei fiori era talmente intenso da risultare quasi soffocante, ma lei restava lì, immobile, come svuotata.
Non reagì nemmeno quando vide Gwyon venire verso di lei e chinarsi per sederle accanto. Se quella era la recita che la Verde Signora aveva preparato per loro, il primo passo era la presentazione dei personaggi, in fondo. «Lint era molto preoccupato per la tua assenza», spiegò il mago, «e poi si sente in colpa, perché sente il suo cuore battere per un'altra quando non è passata una luna dal giorno in cui ti aveva dichiarato il suo amore». «Ciò è molto commovente», rispose Aelin con una smorfia, «però non è stato Lint a venire a cercarmi». «Sono stato io a insistere per venire. Volevo parlarti». «Parlarmi?», ripeté la terrestre con un accento di terrore nella voce. Gwyon sorrise appena: «Tu l'hai capito che tutto questo è solo un'illusione, non è vero?». «Illusione», ripeté Aelin incerta. Non voleva sperare, aveva paura a sperare, eppure le parole dell'altro... «Sì, io so», tornò a dire Gwyon. «E probabilmente pure Sethrian, anche se non lo ammetterebbe nemmeno con se stesso. Ma non voglio illuderti adesso: io amo quest'illusione, è forse l'unica cosa che può proteggermi dal mio crudele maestro, e non farò nulla per spezzarla. Neanche se potessi». «Credevo volessi combattere Isengrin». «Volevo. Ma ho sempre saputo che non c'era possibilità di vittoria, e per me più di ogni altro. Adesso ho un'alternativa, e preferisco le menzogne della spada verde alla mia inutile vita distrutta». «E gli altri?», domandò la giovane in tono quieto. «E io?». «Non intendo essere d'ostacolo a nessuno, Aelin. Non intendo lottare contro la spada verde, ma nemmeno combatterò per lei. Se è destino che torniamo nel mondo...». «Se è destino...». «Potrei aiutarti, sai, se mi chiedessi un modo per cercare di fuggire tu sola. Questo lo farei». Aelin chiuse gli occhi. «E dovrei lasciarvi tutti indietro? Inizio a chiedermi davvero se sono le parole di Gwyon quelle che ascolto». «Un simile pensiero rischia di portarti all'ossessione». «E immagino che la cosa divertirebbe immensamente la Verde Signora». Gwyon scrollò appena le spalle. Aelin aggrottò la fronte, persa tra cupi pensieri. «Perché io?», riprese. «Perché sono io l'unica immune...». «Forse perché non sei di questo pianeta. O dotata di poteri che, in man-
canza di una definizione migliore, abbiamo chiamato "da sensitiva". O forse non sei affatto immune, credi solo di esserlo. Perché così lei vuole». «Anche questo ragionamento può condurre alla paranoia», precisò Aelin, cupa in volto. «In quale modo, poi, i malefici della spada verde avrebbero influito sulle mie azioni e sui miei pensieri?». «Forse proprio in quell'urgenza di affrontare Discordia che adesso ti anima. Non c'è nulla di eroico in te, e sei la prima ad ammetterlo». La giovane annuì stancamente. «Sarebbe così facile adagiarsi e lasciarsi cullare da questo giardino...», mormorò. «Se fossi una ragazza come tutte le altre... però non lo sono. Certo, non sono nemmeno l'eroina di questa storia, ma in tutto questo ho il nome di scrittrice. E una scrittrice sa che servono dei protagonisti alla trama, anche se non deve trattarsi per forza di eroi». «Questa non è più la tua storia, Aelin. Se mai lo è stata». «Potrà anche essere vero», ammise lei alzandosi di scatto. «Una parte di me però ragiona ancora con la matita in mano. Ed è ancora convinta che soltanto i suoi eroi potranno sconfiggere il malvagio, o quanto meno avranno un ruolo determinante nella sua caduta. Quello per cui si gioca qui, adesso, non sono solo le nostre vite e le nostre menti, ma è l'intero destino di un mondo, forse. Questa non è più la mia storia, lo so. Non posso negarlo. Sono stata io la prima a cambiarla, nel momento in cui ho rivelato a Sethrian ciò che vi riservava il futuro. Nel mio romanzo il lieto fine era assicurato, o quanto meno lo era un finale non troppo cattivo. Adesso... adesso tocca a me cercare di rimettere a posto le cose». «E come?», domandò Gwyon, con una vena di scetticismo nella voce. Aelin non aveva una risposta da dargli. Ma ci avrebbe pensato, ci stava già pensando. «Noi, dei codardi?», ripeté Lint in un sussurro smarrito. «È davvero questo che lei pensa?». «Se non lo pensa adesso, finirà col crederlo», disse Aelin in tono grave. «Ci siamo accampati nel suo castello promettendole azioni degne degli antichi eroi... ma attardandoci tra il parco e la tavola imbandita difficilmente riusciremo a mantenere gli impegni presi». «Capisco», commentò il principe, pallido in volto. «È chiaro che Psiche farà di tutto per dissuadervi dal partire», aggiunse la terrestre, «vi implorerà, si getterà in ginocchio forse: sarebbe troppo du-
ro per il suo nobile animo mandarci incontro al pericolo e alla morte senza rimpianti». Lint annuì, incerto. «D'altro canto», continuò la ragazza, «è anche vero che il cuore puro della bella andrà a colui che saprà vincere la spada verde». Con queste parole, il seme della mala pianta aveva già cominciato ad attecchire. Gli altri non potevano rimanere al castello mentre il principe era già intento a sellare il cavallo che Psiche gli aveva donato. Tuttavia... «Almeno uno di noi deve rimanere», disse Sethrian, lo sguardo incupito. «O lasceremo Psiche sola e senza difese». «Ti stai forse offrendo volontario per la difficile incombenza?», domandò Jordan con una smorfia. «Se è tanto vigliacco, faccia pure», sentenziò Lint di rimando, indicando il mago con un gesto brusco. «Rimanga lui, rimanete tutti, io andrò comunque». «Sei così avido di gloria», disse Aelin, «da non voler dividere con nessuno l'impresa che ti attende... e le eventuali ricompense?». Il principe sussultò a quelle parole, guardandosi intorno con espressione colpevole. La terrestre teneva il capo chino. Sentiva su di sé le occhiate di fuoco che Sethrian le lanciava, e non osava sostenere il suo sguardo. «Di certo non rimarremo tutti», fece Rhory tranquillo. «La partenza è stata rimandata troppo a lungo». «Qualcuno deve restare», insisté Sethrian, «ma non ho mai detto che debba essere io per forza, né che ci tengo». «Tirate a sorte», propose Psiche, all'improvviso. Non aveva mai smesso di sorridere, di un sorriso speciale, tutto rivolto alla terrestre. «Sarà il destino a decidere per voi. Comunque rimarrà anche Aelin, non è vero? Il luogo dove vi recate non è per una fanciulla inerme e poi, lo ammetto, non vorrei rimanere sola... con un uomo». Per un attimo Aelin ebbe il folle timore che i suoi amici si sarebbero paralizzati tra il desiderio di farsi belli agli occhi della dama e la gelosia al pensiero di lasciarla sola con uno di loro. Ma il momento della partenza era giunto davvero. Affidarono la scelta a dei fili d'erba, toccò a Jordan restare. Coloro che rimanevano indietro adesso potevano solo attendere. Aelin aveva salito lentamente le scale della torre, come guidata da un istinto che sapeva non suo. E quando aprì la porta, sbarrò gli occhi sulla visione che le si presentava.
Tra colonne bianche di marmo si allargava un lago del colore del sangue. Dalle pareti di pietra scolpita si levava una selva di mani imploranti e volti deformi, contratti in un urlo privo di voce. Psiche era ferma sull'orlo rosso della fonte. La sua candida veste era macchiata del medesimo colore. Eppure sul suo volto c'era un sorriso tranquillo, pensoso. «Mi chiedevo quando ti renderai conto che le tue piccole manovre sono inutili, Aelin. Del tutto inutili». «Lo credi davvero, Psiche? Ammesso che sia davvero questo, il tuo nome». «Il mio nome... il mio vero nome si è perso», ripeté l'altra, come assorta in un ricordo lontano. Com'è strana una simile osservazione da parte tua, Aelin». «Lascia perdere», disse la terrestre seccata. «Adesso mi preme di più sapere cosa pensi davvero delle manovre che hai appena definito inutili». Psiche scosse leggermente le spalle, in una risata sommessa: «Preferisci che dica futili. O vane? No, senti questa: divertenti. Divertenti, sì... Il che è un gran pregio ai miei occhi». «Ripagami, dunque, per un simile divertimento», disse Aelin con un lampo negli occhi. «Magari dicendomi quale sarà la tua prossima mossa. Tanto più che continui a ripetere che non mi temi affatto». Il riflesso di Psiche si mosse impercettibilmente sulla superficie del lago rosso. «Se avessi paura di te, per me sarebbe un gioco assumere un volto d'uomo pari in bellezza a quello che ora hai davanti. O, meglio ancora, cederti uno dei cuori caduti ai miei piedi». «Uno a caso?», chiese Aelin con una smorfia. «Oppure mi lasceresti persino scegliere?». «Non sai che ho il potere di manipolare ogni tua decisione?». A quelle parole, Psiche si avvicinò a una delle statue contorte e la baciò sulla fronte. «E se fossi tu a dover scegliere qualcuno... perché non colui che già ti ama? E che per te sarebbe così facile riamare?». «Non starai parlando di...». «Jordan. Jordan di Thule», confermò Psiche. «Non è un caso che sia stato lui il favorito del sorteggio». «Jordan...», ripeté la ragazza sgomenta. «No. Questa non è che un'altra delle tue menzogne». «Io mento di continuo, Aelin. Eppure so anche adoperare la verità, quando va a mio favore. Vuoi un'altra verità, terrestre? I tuoi amici in
viaggio torneranno indietro, uno a uno, e prima che questo giorno sia finito. La loro missione sarà ancora una volta dimenticata. Ma adesso c'è una piccola tragedia da mettere in atto». «Hai chiamato aiuto, mia Signora?». Era Jordan a parlare, fermo sulla soglia. «Vi ho sentito...». Non concluse la frase, sgranò gli occhi, come stordito. Psiche sorrise, fissando la terrestre con uno sguardo crudele. «Vuoi che ti descriva la scena che in questo momento si sta svolgendo davanti ai suoi occhi?», disse ad Aelin. «Vuoi che ti narri del pugnale che lui vede tra le tue dita e della ferita che per colpa tua mi deturpa il volto?». Aelin socchiuse le palpebre, atterrita dall'orrore e dal disgusto improvvisi che leggeva nello sguardo di Jordan. Non c'era alcuna lama nelle sue mani e non poteva dimostrarglielo. Ogni sua parola, ogni silenzio, sarebbero stati distorti da Discordia nella mente di Jordan, nel modo più crudele. Forse davvero tutto era vano. «Allontanati da lei, Aelin! Allontanati!», disse il cavaliere, mentre in un sibilo sguainava la spada. La giovane, come stordita, fece qualche passo indietro. Il volto dell'altro però divenne ancora più cupo. «Vuoi sapere con quali parole gli hai appena risposto?», mormorò Psiche. «O forse è meglio di no, forse è meglio lasciare tutto alla tua immaginazione». «Un altro passo e ti uccido, Aelin!», urlò Jordan, la voce spezzata dal dolore. «Traditrice!». «Non ho nemmeno la scusante dell'influsso della spada verde, stavolta?», chiese Aelin, senza fiato. «Ma io voglio assistere a una tragedia, non a contorte speculazioni filosofiche», spiegò Psiche con quel suo sorriso terribile. Poi giunse le mani. «No, no, ti prego, Aelin... ti prego...». Parole imploranti di una vittima crudelmente ferita, ecco come dovevano arrivare quei lamenti di Psiche al cuore e alle orecchie di Jordan. Ma nella mente della terrestre risuonavano per quello che erano: un inganno carico di derisione. «No!», esclamò Aelin mordendosi un labbro. «Non gli permetterai di uccidermi. Non lo farai. Perché non c'è nulla di divertente in un cadavere». Pochi istanti dopo però Jordan era su di lei. Aelin si trovò a terra, con una spada alla gola.
«Nulla di divertente in un cadavere?», ribatté Discordia. «Non hai considerato le reazioni orripilate dei tuoi amici e del tuo stesso assassino, quando avrò restituito loro quel tanto di lucidità che è necessaria per rendersi conto... capire...». La spada calava. Aelin serrò le palpebre. «Hai perso, terrestre», disse Psiche. Sì, aveva perso. I minuti passarono. O era il tempo a essersi dilatato, prolungando all'infinito uno stesso istante. Aelin sentiva la punta aguzza di metallo che premeva contro la sua carne. Eppure era ancora viva. Almeno per il momento. Lo sguardo di Jordan era infinitamente triste. «Non avrei mai voluto essere io, Aelin...». La ragazza non disse nulla. I loro occhi si incontrarono per un attimo. A lei sembrò che lui vedesse... davvero. «Non sarai tu, Jordan!», disse una voce. «Non sarà nessuno!». Una formula magica attraversò l'altra. Sethrian, a braccia conserte, si era appoggiato a una delle colonne di marmo. «Sethrian...», mormorò Jordan confuso. E poi: «Aelin!». Sbatté le palpebre, allontanò la spada. Aiutò l'amica ad alzarsi. «Il tuo incantesimo si è rotto, Verde Signora», sussurrò Sethrian volgendosi di scatto verso Psiche, «non è completamente distrutto, forse... ma si è allentato quanto basta da permettere a una mente forte di ribellarsi al tuo volere». «Una buona mossa, incantatore», disse Psiche con un sorriso di sfida. «Però non ti servirà a nulla. Dammi pochi istanti e il cavaliere Jordan tornerà in mio potere. Ti assicurò che sarà molto più facile aizzarlo contro di te...». «Non credo che andrà così». Stavolta era stato Gwyon a parlare. «Anche tu qui, di ritorno?», domandò Sethrian con una smorfia. «Me ne chiedo il motivo». «Ti ho seguito. Ero curioso di vedere che intendevi fare. E poi», aggiunse fissando Psiche, «ero anche disposto a soccombere volontariamente alle allucinazioni di Discordia. Ma non al prezzo dell'infelicità e della vita di chi mi è caro». «Lo sapevo... lo sapevo...», fece Aelin battendo le mani, «lo sapevo che questa sgualdrina in forma di spada non poteva avervi incastrato davvero!». «Io sono tornato sui miei passi perché ero folle di gelosia», ammise Se-
thrian con un sorriso imbarazzato, «e immagino che fosse proprio questo l'intento di Discordia, e dei continui bivi che ci ha posto davanti. Sapeva che solo separando il gruppo avrebbe potuto persuaderci a tornare indietro, uno per volta». «E state tornando. Come avevo predetto», disse proprio Psiche con voce altera. «Ecco, adesso tocca al principe Lint. Lui è completamente in mio potere. Non potrete rubarmelo». Il principe scostò Gwyon dalla porta con uno spintone e si precipitò nella sala con la spada in pugno. «Dobbiamo immobilizzarlo!», disse l'antico apprendista di Isengrin con voce soffocata. «Ho la testa confusa, Aelin», sussurrò Jordan in quel momento, «e la sensazione di essere stato a un passo dal compiere qualcosa di tremendo...». «Immobilizzarlo?», ripeté Sethrian. «Non è la strategia migliore. Forse è nel gioco della spada verde farci credere che è invincibile, ma c'è un varco in ognuno dei suoi inganni. E io dubito che sia per sua scelta». «Lint, attacca!», gridò Discordia con voce carica d'ira. Il principe, a differenza di Jordan, non sembrava mostrare né tristezza né ripensamento. «Questo gioco inizia a stancarmi», disse Sethrian. «E più di ogni altra cosa ciò che non tollero è essere ingannato». Batté le mani, un applauso beffardo all'indirizzo di Discordia. «Brava. È stato molto istruttivo vedere i prodi guerrieri ridotti al triste ruolo di marionette. Mi ha fatto capire che dovevo distruggerti». «Distruggermi!», sibilò lei. «Tu non sai quello che dici, incantatore! Mai siete stati più lontani dal distruggermi!». Ma non sembrava così sicura di sé mentre pronunciava queste ultime parole. Gwyon, frattanto, aveva creato una specie di reticolo d'energia attorno al principe furente. «Non mi sembra che ce la stiamo cavando poi così male», aggiunse sottovoce. «E se tu non fossi stata tanto presa dai tuoi giochetti con Aelin e Jordan, non ci avresti permesso di arrivare sino a questo punto». «Giusta osservazione...», fece Sethrian con un lampo negli occhi. «Gioite pure di quello che credete un trionfo!», ringhiò Discordia, simile a una delle Erinni. «Perché è una gioia fittizia la vostra, destinata a mutarsi in disperazione». A un cenno della donna, le statue prigioniere delle pareti urlarono. Al
tuono delle loro voci la magia di Gwyon cadde in frantumi, e il mago barcollò per il contraccolpo. Lint era di nuovo libero, e minaccioso. Non passarono che pochi istanti, tuttavia, che Jordan gli si parò davanti, con espressione determinata. «Tienilo occupato», disse Sethrian. «Non fargli del male, ma vedi di tenerlo occupato. È questa la chiave». «La chiave, hai detto?», ripeté Jordan, e già parava un affondo di Lint. È questa la chiave, ripeté Aelin fra sé. Ma certo! Era la spada che andava tenuta occupata: dividendo la sua attenzione, avrebbero spezzato anche il suo potere. L'erede di Thule e il principe di Aquilon continuavano a scambiarsi fendenti. Il cozzare delle lame riempiva l'aria di tintinnii sinistri. «Un bel tentativo!», disse la spada, sprezzante, «ma voi siete dei semplici esseri umani, e l'attenzione che volete contrapporre alla mia, la volontà che mettete davanti alla mia volontà, sono destinate a cedere nel momento stesso in cui il sonno e la stanchezza invaderanno le vostre membra vive! Nell'attimo in cui graveranno sui vostri occhi come catene di piombo!». Lint quasi gridò, quando sfiorò con la lama il braccio di Jordan. Ma il cavaliere era tutt'altro che vinto, tornava a rispondere colpo su colpo. «Continui a ripetere che non abbiamo speranze», sbottò Aelin, «ma uno spiraglio c'è nelle tue reti. C'è sempre stato. È nella tua natura, o rinneghi adesso le tue stesse parole?». «Tu vorresti fidarti... delle mie parole?». La terrestre non fece a tempo a rispondere. Accadde tutto in un istante. Prima la dama rideva, poi sembrò che l'aria tremasse. La risata si mutò in urlo. Psiche era scomparsa. Anche la sala e il castello erano svaniti, come nebbia. I cinque giovani si ritrovarono nei sotterranei di Auster. Rhory era a pochi passi da loro. Stringeva fra le dita un pugnale che brillava di luce verde. «Voi che ci fate qui?», domandò il giovane dai capelli biondi, perplesso. «Come ci siete arrivati? E come ci sono arrivato io?». «Siamo sempre stati in questo luogo, immagino», considerò Sethrian. «Anche se la maledizione si prodigava per farci credere il contrario». Aelin scoppiò in una risata. «Sei stato bravissimo, Rhory». «Io non ho fatto nulla», si schermì il cavaliere scuotendo la testa. «Non ho incontrato né mostri né creature fatate. Nella spada o meglio, nel pu-
gnale, ci sono quasi inciampato. Così l'ho estratto dal cumulo di metallo verde, proprio come avevate detto». «La spada era distratta», mormorò Sethrian con un sogghigno, «la tua determinazione a trovarla ha fatto il resto». «Adesso allontaniamoci», disse Gwyon alzandosi. «Sono ansioso di provare su quel pugnale certi insegnamenti del mio vecchio maestro». Solo il rumore di spade non era cessato. «Siamo al lieto fine di questa piccola avventura», esclamò Jordan parando l'ennesima stoccata del suo avversario, «ma qualcuno vorrebbe spiegarlo anche a Lint? O quantomeno illuminate questo povero cavaliere, ditegli perché il suo principe tenta ancora e in ogni modo di tagliarlo a metà!». La maledizione venne incatenata, rinchiusa in un nuovo scrigno e poi sotterrata. In una località nota solo a pochi, e che uno dei draghi di Alascura si offrì di sorvegliare. Mentre simili magie e difese venivano intessute intorno a Discordia, una convocazione era giunta da Aquilon. Al principe Lint veniva chiesto di far ritorno in tutta fretta al castello reale. Anche il cavaliere prescelto e i suoi compagni decisero di seguirlo: quello che era avvenuto ad Auster non doveva ripetersi, e la maledizione della spada verde era solo una parte della storia. Era necessario che l'alleanza con i draghi diventasse ufficiale, e tutto lasciava pensare che sarebbe stato più facile convincere prima i sovrani, e poi, con il loro appoggio, la Santa Sede di Vultur. Pure per questo i figli del fuoco condussero il gruppo fino alle vicinanze del porto di Aquilon e non oltre. Tutti concordarono che fosse meglio parlare ai reali dei loro nuovi amici, prima di presentarglieli in scaglie e ossa. La traversata della brughiera tuttavia sembrò più lunga del previsto. Forse perché mentre cavalcavano, Lint era intento in un'interminabile sequela di scuse, rivolte ora ad Aelin per il suo cosiddetto tradimento di innamorato incostante, ora a Jordan per quel graffio procuratogli durante il combattimento, ora all'intera compagnia, per il modo in cui si era lasciato manovrare da Discordia. A nulla valeva ripetergli che tutti, chi più chi meno, erano caduti sotto l'influsso della maledizione. «Un lato positivo però c'è», commentò Aelin, piano. «Adesso il principe triste si sente troppo indegno per tornare a chiedere la mia mano». «Come sei crudele, Aelin», le rispose Sethrian con un sorriso divertito. «Credevo approvassi la mia decisione, e i motivi che mi ci hanno portato».
«Approvo, approvo. Soltanto mi viene da chiedere se io avrei saputo mostrare la tua stessa... dirittura morale». «Dirittura morale». Aelin fece una smorfia. «Sai che detesto questo genere d'espressioni e dunque sarebbe troppo domandarti di non associarle alla mia persona?». Il mago sorrise. «Ti offendi di meno, immagino, se vengo a dirti che sei un cumulo di contraddizioni, mia dolce amica». «Mi conosci, Sethrian», rispose lei, sorridendo a sua volta. «Intanto almeno una cosa dovrebbe esserti chiara». «Quale?». «Che per noi sei qualcosa di più di una scrittrice caduta per errore nei meandri del suo romanzo, che ci accompagna lungo la via perché non ha altro da fare». «Io rimango della mia opinione. Non mi sembra che il mio ruolo in tutta questa faccenda sia stato determinante, ma ammettiamo per amore di brevità che non sia così. Se non ci fossi stata io, la mia parte poteva sempre sostenerla qualcun altro...». «Qualcuno sul genere della misteriosa principessa perduta, intendi? Il personaggio femminile che tu avresti scalzato?», fece Sethrian con una smorfia. «Guarda... ci rinuncio. Anche perché ho il sospetto che la promozione da spettatrice a eroina avrebbe sui tuoi nervi un effetto catastrofico». «Su questo siamo d'accordo», disse Aelin, e trattenne a stento un sospiro. «Ancora con quella storia!», sbuffò Jordan raggiungendo i due amici. «Siamo così trasparenti, cavaliere?», gli chiese Sethrian. «In genere no, incantatore, ma conosco l'espressione che assumete quando infilate nella stessa frase la parola scrittrice e la parola romanzo». Il ragazzo sorrise e scosse appena il capo. «Non era questo che volevo dirvi, comunque. C'è una sontuosa carrozza sulla strada, davanti a noi. Sarebbe buona educazione che ci recassimo tutti insieme a darle il benvenuto. E a proposito: lo stemma sulle fiancate mostra due torri verdi e un fiume che scorre nel mezzo. Dovrebbe essere familiare a tutti». Lo stemma era familiare, certo. E anche le due nobildonne che ne facevano sfoggio. «Flora, Viviana...», disse Aelin, «è bello rivedervi». «Nonostante le menzogne che ci siamo scambiate, intendi?», domandò Viviana portandosi una mano ai lunghi capelli castani.
Aelin arrossì. «Io... ecco...». «Non devi sentirti in imbarazzo», la tranquillizzò Viviana. «So di dover essere grata a te, a tutti voi. In qualche modo lo avevo intuito da sola, dal momento che dopo la vostra partenza, invece di una dichiarazione di guerra, abbiamo avuto la più grande concordia che ci sia mai stata nel nostro feudo dai tempi del primo e ora non più ultimo duca. Poi le lettere della regina Nadhyra mi hanno spiegato parecchie cose. Forse più di quanto avrei voluto sapere». «Non potremo mai ringraziarvi abbastanza per averci liberati della tirannia della spada verde», aggiunse Flora sottovoce. «E io in particolare...». Non riuscì a terminare la frase. Al solo sentir nominare la lama incantata, per poco il principe Lint non era caduto di sella. «È bellissima, è semplicemente stupenda», mormorò il principe di Aquilon, con lo sguardo fisso sulla carrozza che procedeva poco più avanti. «Non è una comune donna mortale, ma una visione divina...». «Per i miei gusti assomiglia un po' troppo a una certa spada innominata», borbottò Jordan fra sé. E tirò le redini del suo cavallo per rallentarne l'andatura. Ma Rhory era troppo di buon carattere per dare al principe una risposta cattiva, e Lint già si lanciava a descrivere i capelli, gli occhi e l'incarnato della giovane nobildonna. «Però quando stava dietro ad Aelin non era tanto prolisso», obbiettò Jordan, mentre il suo sguardo si faceva sempre più cupo. «Forse è un effetto residuo delle malie della spada verde», commentò Sethrian con un sorriso. «E, come hai giustamente notato, dama Flora somiglia sin troppo a Psiche». «È una spiegazione interessante», intervenne Gwyon, «ma ne esiste una più semplice». «Quale sarebbe?», domandò Jordan. Fra sé si chiedeva come Rhory riuscisse a non spaccare in due la testa dell'innamorato, che continuava a lamentare la propria nullità agli occhi della bella. «Diciamo che almeno un paio tra noi potrebbero sentirsi in dovere di difendere Aelin da qualche pretendente troppo zelante, per un motivo o per un altro. Nemmeno Lint è tanto cieco da non arrivarci». «Così era lui il principe», sussurrò Flora in tono pensieroso. «È strano,
me lo immaginavo diverso». «Forse perché ti basavi sulle mie descrizioni», osservò Viviana, «e io non vedevo Lint da almeno cinque anni». Aelin, sprofondata tra i cuscini della carrozza, ascoltava la discussione senza proferire parola. «Posso sapere, Flora», tornò a dire la castellana, «che impressione ti ha fatto il nostro principe?». «Non è esattamente il mio ideale», rispose lei, e fece scorrere le dita tra i lunghi capelli neri. «Ma non è affatto male. Immagino che potrei farmelo piacere. Meglio di mio cugino, in ogni caso, anche se non ci vuol molto a essere meglio di mio cugino». «Un giudizio limpido e schietto», commentò Viviana con un colpetto di tosse. «Peccato che dica forse più di quanto avremmo dovuto. Poco importa: nel giro di un paio di giorni la notizia sarà comunque di dominio pubblico». «Allora, Viviana», propose Flora con un lampo divertito negli occhi grigi, «vuoi essere tu a stupire la nostra amica con le buone nuove, o lasci a me l'onore?». «Flora non si sta recando ad Aquilon in visita di cortesia, ma per restarci. Sarà la fidanzata e poi la sposa di Lint». «O almeno così prevedono gli accordi che Viviana e Nadhyra hanno stretto», terminò l'altra. Aelin scoppiò a ridere: «Mi chiedo che faccia farà Lint quando scoprirà che eri tu la sposa da cui fuggiva! Perché l'ho visto come ti mangiava con gli occhi prima». «In effetti», Viviana sorrise, «non si può certo negare che il principe sembrasse colpito. E tu, Aelin», aggiunse fissando la giovane, «non hai... rimpianti?». «Dovrei?», chiese la terrestre scrollando le spalle. «Io credo di no», disse cauta la nobildonna. «Ma spetta a te dirlo». «Nadhyra ti ha detto...». «Sì. C'è stato anche un momento in cui le è dispiaciuto che tu non... Ma in fin dei conti non credo di potermi lamentare, data la piega presa dagli eventi». «Dovremmo proprio cambiare argomento, sai?», considerò Flora. «Stiamo mettendo a disagio la nostra amica, e non credo lo meriti». «No, non lo merita», fece Viviana sorridendo. «D'altro canto era meglio che sapesse dalla nostra bocca le notizie, piuttosto che apprenderle da
qualche paggio di palazzo, non trovi?». «L'importante è che non ci siano malintesi», disse Aelin. Viviana sorrise soddisfatta. XVI IL QUARTO LUOGOTENENTE I giorni ad Aquilon scorrevano tranquilli e affollati. Si celebravano molte azioni eroiche, e qualcuna era persino degna della celebrazione. Tuttavia, del maggior merito del cavaliere prescelto e dei suoi compagni - per meglio dire, l'alleanza con i draghi - si continuava a parlare in sordina. Poi, c'erano i preparativi per il fidanzamento. Il principe Lint era follemente innamorato. Per la terza o la quarta volta nella sua vita, aggiungeva Nadhyra sottovoce, ma tutto faceva sperare che adesso fosse quella buona. La stagione dei lupi non era ancora giunta, l'autunno dispiegava i suoi colori. C'era chi ironizzava sulla capacità di Rhory e degli altri di presentarsi al castello quando il pericolo era lontano. Ma nessuno osava pronunciare simili parole in presenza dei reali, di Lint, o dama Viviana che, nonostante la prolungata assenza da corte, aveva presto riallacciato le vecchie amicizie, e ritrovato il proprio ruolo a fianco della regina Nadhyra. Aelin, dal canto suo, era riuscita a mantenere la promessa fatta a un certo sarto di Auster, decantando il suo nome e la sua abilità ogni qual volta ne aveva l'occasione. E proprio Viviana aveva promesso che sarebbe stato chiamato nella capitale. Tra una cosa e l'altra, comunque, la terrestre trovava sempre il tempo per continuare i suoi allenamenti. O meglio era Jordan, ad assicurarsi che lei lo trovasse. «È strano», disse la giovane, ansando. «Durante i giorni di reclusione forzata avrei bramato queste lezioni. E sembra...». «Sembra cosa?», fece Jordan tuffando la testa bruna nell'acqua gelata. «Che invece di diventare più leggere, le esercitazioni si facciano ogni giorno più pesanti», rispose lei scivolando a terra, e poggiò la schiena contro il muretto del pozzo. «Non sembra, è», sentenziò il cavaliere sedendole accanto. «Così deve essere». Aelin fece per ribattere qualcosa, ma scelse di tacere, stremata. Jordan le sorrise, poi senza dire una parola porse all'amica uno straccio, perché si asciugasse la fronte.
«Lunghi capelli neri, occhi grigi e limpidi... Inutile negarlo, Flora ha l'aspetto e il portamento di una regina». Era la voce di una delle dame di corte, e molte giovani nobildonne annuirono cinguettando. «Non lo diciamo solo perché ci sei tu, Viviana», aggiunse subito un'altra dama. «Flora ha incantato l'intera corte». Viviana però non rispose, o forse lo fece troppo piano perché Aelin e Jordan potessero sentirla. Alzati e saluta. Alzati e saluta, pensava la terrestre fra sé. Ma non aveva la forza di muovere un mignolo. Così rimaneva lì, immobile, all'ombra del pozzo. «Certo non c'è paragone con quell'altra», disse una voce, maligna. «Chi, la ragazzina che va in giro vestita da maschio?». «Ragazzina... Io userei un termine diverso per definirla», aggiunse un'altra. «Certo è che il suo gioco è miseramente fallito». «Con il principe Lint almeno. Dovrà accontentarsi di una preda meno pregiata». «A ogni modo ci vuole una discreta abilità a sapersi giostrare tra quattro uomini diversi». «Per lo meno quella deve averla. Di sicuro non saranno i suoi ridicoli capelli o la pelle bruciata dal sole a fare conquiste...». «Forse», aggiunse una delle damigelle con una risatina cattiva, «ha delle doti nascoste». Aelin era come impietrita. Sentiva la mano di Jordan che stringeva la sua con forza; dalla bocca del giovane sibilarono imprecazioni. «Non vi siete ancora stancate?», domandò Viviana in quel momento. «E sapete una cosa? Credo che siate gelose. Non solo dell'Aelin che io conosco, ma persino di quella che andate immaginando». «Viviana...». «Tuttavia se spettegolare è il vostro piacere», continuò la donna, «chi sono io per imporvi di rimanere in silenzio? Ma aspettate almeno che mi sia allontanata per continuare un simile gioco». Nessuno parlò. Si udì solo il rumore di passi lungo il selciato. «Pensare che avevamo giudicato così severamente dama Viviana, a suo tempo», mormorò Aelin con un sorriso incerto. «La pagheranno», promise Jordan, «quelle livide e latranti cagne devono pagare ogni parola, ogni menzogna».
«E come?», fece la ragazza con un sospiro. «Vorresti forse sfidarle a duello?». «Sfidarle...», ripeté lui in tono pensieroso. Poi alzò appena il capo. «Intanto quelle donnacce si sono levate di torno. Potrei sfidare i loro cavalieri, ma non è questa la giusta punizione. Ci vuole qualcosa di più subdolo, crudele. E io so chi può aiutarci». «Qualcosa di subdolo... e crudele», ripeté Sethrian con una smorfia. «E il tuo primo pensiero è stata la mia persona. Ne sono davvero onorato, cavaliere». «Onorato o meno, ci aiuterai, non è vero?». «Non potremmo far finta di nulla?», domandò Aelin torcendosi le mani. «No!», esclamò Jordan. Anche Gwyon fece un cenno di diniego. «Siamo stati offesi tutti, in un certo senso. Metti pure questo in conto, Aelin», disse Sethrian con tono serio. «L'idea di avere una tresca con me è così umiliante, dunque?», ribatté lei con voce tagliente. Jordan sobbalzò a quelle parole. «L'idea di essere considerati amanti intercambiabili, forse», precisò Sethrian con un sorriso. «In effetti non posso darti torto», ammise Aelin. «Quindi non resta che metterci all'opera», concluse il mago. «Posso sapere cosa hai in mente, Sethrian?», chiese Aelin. «L'invidia è una pianta malevola, può soffocare chi l'accoglie in seno. Noi le daremo, diciamo, un adeguato nutrimento». Un sorriso enorme si era disegnato sul volto della ragazza. «Pensi all'ennesimo ballo, non è vero? Oh, Sethrian... La tua idea sollecita troppo la mia vanità, perché io non mi presti a realizzarla». «Avevo messo anche questo in conto». «Qualcuno avrebbe la compiacenza di spiegare anche a me il programma?», disse Jordan appoggiandosi alla parete. «Si tratta di una specie d'innesto tra la favola di Cenerentola e quella del Brutto Anatroccolo», fece la terrestre con un sorriso. Il cavaliere ovviamente non capì. Dovettero spiegarglielo di nuovo, e nei dettagli. «Ma Aelin è bella!», protestò Jordan pochi istanti dopo. «Va benissimo così com'è! Cosa vuoi combinare con i tuoi intrugli, Sethrian?».
«Ovvio che è bella, altrimenti quelle arpie l'avrebbero attaccata per un difetto ben peggiore del taglio di capelli. I canoni di bellezza della corte però richiedono lunghe chiome fluenti e pelle di velluto, e noi vedremo di adeguarci». Il cavaliere di Thule non si mostrava troppo convinto. Aelin invece era molto divertita dall'idea di Sethrian. «Mi chiedo solo se non sia infantile e sciocco tutto questo», considerò. «È un giochetto, per me...», la rassicurò il mago. «Non credevo fossi esperto di incantesimi di tal sorta», fu il commento ironico di Jordan. «Macché. Mi interesso a tutti gli incantesimi che potrebbero avere un'utilità nella vita di tutti i giorni». «Se lo dici tu...». Sethrian sorrise e non aggiunse altro. Poi cacciò tutti dalla stanza, tranne Aelin, ovviamente. La magia era stata compiuta. Sethrian sorrideva compiaciuto, ma ancora non parlava. La giovane terrestre si tratteneva a stento dal toccarsi di continuo il viso e i capelli. «Devo ammetterlo», commentò Aelin. «La metamorfosi magica dell'aspetto ha sempre fatto parte delle mie fantasie. Solo che un motivo così assurdo per realizzarla...». Le parole le morirono in gola. In quel momento l'incantatore aveva scostato il drappo che copriva un grande specchio ovale, e lei si ritrovò a fissare la propria immagine. I capelli erano la prima cosa che colpiva lo sguardo: lunghi, sanguigni, simili a serpi vive, erano intessuti di sottili fili color d'oro e rame. La pelle, per contrasto, sembrava ancor più pallida. Sono io, pensò la giovane, eppure... quasi non lo sono. Le ombre del volto le apparivano più profonde, marcate. Aelin non avrebbe saputo dire dove finisse l'opera di Sethrian e quanto fosse dovuto invece al suo cambiamento di quei mesi. Sbatté le palpebre: sottili venature dorate le attraversavano anche le iridi. Quell'idea era stata sua, l'aveva ripescata senza troppi complimenti da un suo vecchio racconto. «L'incanto finirà a mezzanotte?», domandò in un sussurro. «Dipende da te, e lo sai». La ragazza non riusciva ancora a staccarsi dallo specchio, e presto udì delle esclamazioni soffocate alle sue spalle. Erano Rhory e Jordan, che la
fissavano a bocca aperta. «Così è questa la dama che dovrò portare alla festa...», disse il cavaliere di Thule con uno strano sorriso. Aelin non era il tipo di fanciulla incline alle danze, per sua natura. Preferiva conversare, magari sedendo un poco in disparte. Ma il prossimo ballo sarebbe stato diverso: così voleva il piccolo piano di Sethrian. «Continuo a credere che ci sia qualcosa d'infantile in tutta questa faccenda», fece la giovane. Sethrian stava per ribattere, ma si ammutolì. Rhory si era portato una mano alla testa, con un gesto fulmineo. «Cosa succede?», gli chiese Jordan. «Non... non lo sentite?». «Sì. È come un leggero stridio...», mormorò Gwyon. Sethrian non proferì parola. Spalancò gli scuri della finestra. Un drago verde stava planando verso il cortile. «Cosa vuoi, che ci fai tu qui?», gridò Rhory affacciandosi alla finestra. «Tu e i tuoi simili dovevate stare lontani da Aquiloni». «Una buona domanda», disse una voce di donna alle loro spalle. «Che ci fa un drago nel cortile della reggia?». Era dama Viviana, con le gonne ancora leggermente sollevate e i capelli castani che scendevano in disordine, sfuggendo al nodo della sua crocchia. «Io...», il cavaliere prescelto scosse la testa, «sto cercando di comunicare con lui ma è, come dire...». «Sovraeccitato», fece Gwyon con una smorfia. «Stupido e molesto», lo corresse Sethrian. «Questo suo continuo vi ho trovati! è a dir poco assordante». «Scusate l'interruzione», tornò a dire Viviana, «ma mentre gli altri cercano di ricondurre alla ragione quell'essere, uno di voi potrebbe seguirmi? La regina Nadhyra pensa che una parola degli eroi sarebbe l'ideale per riportare la calma tra i più impressionabili». «Mi offro volontario», fece Jordan, «tanto più che, a quanto sembra, riesco a entrare in contatto solo con i draghi blu, e io e quel cucciolo non parliamo la stessa lingua». Rhory frattanto mostrava un'espressione tesa per lo sforzo, mentre continuava a lanciare i suoi improperi mentali verso il rettile alato. «Ti ringrazio», stava dicendo Viviana, poi gli occhi della donna caddero su Aelin, e la sua bocca si allargò in un sorriso stupito. «Niente!», annunciò il cavaliere prescelto. «Il nostro amico non vuole
andarsene, non senza di noi. Continua a riproporre sempre le stesse immagini: Palen, la città di Vultur e una sensazione di urgenza». «Magari è successo davvero qualcosa di grave laggiù», osservò Gwyon. «Sarebbe un motivo di più per pretendere delle notizie precise, invece di questi balbettii confusi», fu il commento di Sethrian. «Ricapitolando», fece dama Viviana, «il drago vuole portarvi a Vultur e non si riesce a farlo ragionare. Che aspettate dunque? Su da bravi, andate dal draghetto...». «Dovremmo congedarci dalle reali maestà», mormorò Rhory. «Oh, sono sicura che non se ne avranno a male, se evitate i saluti», disse la nobildonna fissando la creatura alata. «Che aspettiamo allora?», disse Aelin. «È tempo di ripartire». «Vai anche tu?», le domandò Viviana. Stava per aggiungere qualcosa, si limitò a sospirare: «Ma forse è meglio così. Ci rivedremo, comunque». «Sì, ci rivedremo». «E voi che ci fate qui?». Con queste parole il Santo Guardiano di Vultur aveva accolto i giovani viaggiatori, e il suo tono era calmo, solo vagamente sorpreso. Non era l'accoglienza che si erano aspettati, così spiegarono al sacerdote della strana insistenza del drago perché andassero fino alla città. «In effetti Palen aveva manifestato un certo desiderio di consultarsi con il suo antico compagno di studi», disse il Guardiano indicando Sethrian con un cenno del capo. «Vedete, stava esaminando quello strano libro cangiante quando una frase in particolare ha colpito la sua attenzione». L'uomo si fermò un istante, si voltò verso gli scaffali ricolmi della libreria alle sue spalle. Tra le pagine di uno dei volumi era riposto un foglietto ripiegato con cura. «Eccola, è scritta qui, la frase. La luce di vetro guida al sapere, lungo sentieri di carta e di terra. C'erano delle rune, anche. Il vostro amico è partito per Lilài, voleva verificare non so quale teoria. Il drago verde che doveva attenderlo fuori delle mura di Vultur si è levato in volo senza alcun motivo apparente, però. Palen è stato costretto a mettersi in sella, e ci vorrà qualche tempo perché sia di ritorno». «Potremmo intercettarlo e dargli un passaggio sino a Lilài e ritorno», propose Sethrian in tono riflessivo. «Potreste», concordò il sacerdote annuendo appena. «Ma io non condivido l'urgenza mostrata dal vostro... amico alato. A dire il vero, una volta che siete qui, c'è un altro incarico che vorrei affidarvi».
Quando il Santo Guardiano chiedeva, non era opportuno rifiutare. Non senza una buona ragione almeno. Zephyr era una minuscola, graziosa cittadina, con le strette viuzze di pietra bianca e colonnati di arenaria rosa che ornavano le piazze gorgoglianti di fonti. Alberi d'agrumi crescevano tutt'intorno, nei viali e nei giardini, facendo mostra dei loro frutti dorati. La città era un luogo assai piacevole, insomma, agli occhi dei cinque giovani. Mai, come tra le volte ariose di quei porticati, il pericolo era sembrato lontano. «Però ancora non me lo spiego», fece Aelin soprappensiero, «per quale motivo il Santo Guardiano ha scelto proprio noi per consegnare delle semplici lettere?». «Io scommetto», ipotizzò Jordan, «che vuole solo tenerci fuori dai piedi mentre cerca di far entrare in testa ai suoi chierici il significato di certe nuove alleanze». «Quanto potremo stare lontani? Un paio di settimane, un mese?», obbiettò Gwyon scuotendo la testa. «Per l'impresa che tu prospetti non gli basterebbero vent'anni». «Il Santo Guardiano è un uomo fondamentalmente ottimista», ribatté Sethrian con un sogghigno. «Suppongo che sia la sua fede a renderlo tale». «Cambiamo argomento, vi va?», propose Jordan in quel momento. «Vediamo di consegnare le famose lettere prima possibile, e poi godiamoci le bellezze della città senza altri pensieri». L'intenzione era buona, ma quando i cinque giunsero al palazzo del patriarca di Zephyr vennero gentilmente informati che quest'ultimo non era reperibile, né si sapeva quando sarebbe rientrato. «Provate ai laboratori di pittura», consigliò loro un grasso chierico dall'aspetto bonario. «Il patriarca non manca mai di passare da quelle botteghe, e il lavoro degli artisti merita comunque un'occhiata». Le officine dei pittori si affacciavano sull'ottagono della piazza principale, o meglio, quasi lo invadevano, dal momento che giovani artisti cercavano di catturare giochi di luci e ombre sulla strada, o di ritrarre le forme di fugaci cespi di nubi. Uno dei ragazzi indicò loro l'entrata di uno degli studi di pittura e, varcata quella soglia, i viaggiatori si sentirono avvolgere dall'odore intenso della trementina. Due pittori stavano discutendo.
«Lascia stare le mie case, Ethienne», disse uno in tono tra lo stizzito e il rassegnato. «Ti dico che quel villaggio è storto...». «Tu lascialo stare, ti ho detto. Faccio questo lavoro da quando avevi la bocca sporca di latte, mi sembra». «Sarà. Ma io sono più bravo». «E sia...». L'artista più maturo scosse la testa. «Ci sono degli ospiti, vedo. Vuoi accoglierli tu, fratellino? Ho del lavoro che mi è stato commissionato da ultimare, io». «Certo, vai pure», disse l'altro pittore con un guizzo nei suoi occhi violetti. E si avvicinò ai visitatori con un sorriso. Aelin quasi non riusciva a staccare lo sguardo da uno dei quadri, una tela che rappresentava un immane drago verde, una fanciulla bionda e l'immancabile cavaliere. Gli occhi della giovane si spostavano dai riflessi delle scaglie e dell'armatura, al grigio paesaggio di rocce desolate, simili a mostri mutati in pietra, al cielo luminoso e dorato, ai profili in controluce degli alberi spogli. «È un'impressione o la mia opera ha suscitato il vostro interesse?», chiese il giovane artista venendole accanto. «Avete un'aria così intenta...». «È molto bello», rispose Aelin voltando appena il capo. «No, non muovetevi», disse l'uomo prendendo un blocco da disegno. «Vorrei ritrarvi se me lo permettete. Un volto nuovo e grazioso da aggiungere alla mia collezione». La ragazza annuì appena. In fin dei conti nessuno le aveva mai fatto un ritratto. E questo anche se sua madre dipingeva. Per un motivo o per un altro avevano sempre rimandato, e adesso... «Mentre buttate giù il vostro schizzo», mormorò Sethrian, «potreste dirci qualcosa di più su quel quadro?». «E sapete se e quando il patriarca di Zephyr si farà vedere?», aggiunse Jordan socchiudendo gli occhi. «È per lui che siamo qui, in fondo». «Ma valeva comunque la pena venire», aggiunse il mago. Il cavaliere scrollò appena le spalle. «Vedrò di rispondervi», assicurò Ethienne il pittore, mentre la sua mano volava veloce sul foglio, «una domanda alla volta, però. Il quadro rappresenta il cavaliere prescelto mentre affronta il drago della montagna. E non è leggenda, questa». «Sì», disse Sethrian con un sorriso. «Abbiamo visto Aquilon e Vultur, le nuove storie ci sono note».
«Però l'armatura è di troppo», commentò Rhory inclinando il capo per squadrare meglio la tela, «e la nostra Aelin non ha i capelli biondi». «Le mie fonti indicavano il castano», disse il pittore soprappensiero, «ma quel colore rischiava di morire, nel quadro». «Io, fossi in voi, proverei con il colore del sangue», suggerì Jordan. «Oltretutto sarebbe più attinente alla realtà». Ethienne si fermò un istante, fissò Aelin e poi gli altri. «Credo che lo farò», aggiunse con un sorriso. «Spero vorrai tenere per te quello che hai appena scoperto», si raccomandò Sethrian. «Non desideriamo sbandierare più del necessario la nostra venuta a Zephyr». «Tutti hanno dei segreti da nascondere», rispose l'altro in tono furbo, «eppure devi ammettere che i tuoi amici non sembrano poi così interessati a celare la vostra identità». «È che fa uno strano effetto vedersi in un quadro», disse Rhory. «In realtà eravamo tutti d'accordo a mantenere l'anonimato». «Se ora mi fai la grazia di giungere le mani, Aelin...», mormorò il pittore. «No», disse la terrestre scuotendo la testa. «No?». «Non voglio quadri o schizzi o non so che altro, in atteggiamento di preghiera». «Eppure è così che ti ritrarranno molti», osservò Ethienne. «Non capisco perché una simile idea ti risulti tanto sgradita». «Lasciamo perdere...», sussurrò la giovane, e a quelle parole i suoi amici annuirono vigorosamente. «Giusto per la cronaca», aggiunse poi Jordan tornando a indicare il quadro, «come mai avete scelto un simile soggetto?». «È un favore che faccio per conto di mio zio. Da un po' di tempo a questa parte dipingo quasi soltanto su sua richiesta. Né vengo pagato: non si chiedono soldi a un parente. I miei quadri però trovano il loro posto ad Aquilon e Vultur. Non so quale delle due cose irriti maggiormente certi altri pittori della bottega...». «Vediamo un po' se indovino», intervenne Sethrian arricciando le labbra, «lo zio di cui parli è per caso il patriarca che stiamo attendendo?». «Non esattamente», fece il pittore con un colpo di tosse. «Quello l'avete già davanti. Mio zio si trova un tantino più in alto nella scala gerarchica. È il Santo Guardiano di Vultur».
«Tu... Non eravamo gli unici, dunque, a tenere nascosta la nostra identità», mormorò l'incantatore. «Diciamo che la mia carica di patriarca a volte è un po' ingombrante, e diventa quasi assurdo ostentarla quando ho la tunica da pittore e le dita sporche di colore». «Intanto queste lettere sono per voi, sacerdote», disse Jordan, ma i suoi occhi fissavano divertiti il muto imbarazzo di Aelin. Ethienne frattanto aveva aperto la missiva del Santo Guardiano. La mise da parte con una risata. «Ritratti di eroi, ecco cosa chiede mio zio. Ecco perché ha scelto proprio voi come messaggeri. Io mi ero messo all'opera prima ancora di aver letto gli ordini. Stavolta non mi si potrà proprio accusare di non essere un nipote obbediente!». Nei giorni seguenti Aelin e i suoi compagni divennero assidui frequentatori delle botteghe della piazza grande, con il loro caos di tele e colori. «Io lo trovo un luogo piuttosto piacevole», disse Ethienne, «senza contare che nelle mie vesti ufficiali, dovrei fare di tutto per convincere certi incantatori qui presenti ad abbracciare la vera fede». «Ma ufficialmente noi la abbracciamo», ribatté Sethrian con un sorriso. In realtà il pittore non faceva che parlare di religione, sembrava animato però più dal desiderio di provocare che di far proseliti. «I miei nervi, i miei poveri nervi...», canticchiò Jordan sottovoce. «Il cavaliere non ama parlare di simili argomenti?», s'informò Ethienne. «Colpa di un'educazione troppo rigida?». «Troppo severa oppure troppo poco, non si è ancora riuscito a stabilirlo», rispose Jordan asciutto. Aelin dal canto suo taceva. Come Sethrian non aveva mancato di sottolineare, lei amava parlare male della religione soltanto con chi conosceva bene. No, solo con chi non le avrebbe dato torto con troppa veemenza, l'aveva corretto Jordan. Ethienne scosse teatralmente la testa. «Oh, povera la mia chiesa, a quali figure affida la venerazione dei posteri!». «Nessuno glielo ha chiesto», rispose Aelin, con un filo di voce. Il pittore la ricambiò con uno sguardo divertito: «Comunque sia ormai è troppo tardi per tornare indietro, temo». «Un modo ci sarebbe, ed è la nostra sconfitta», fu il cupo commento di
Gwyon. «In effetti...», ammise Sethrian scuotendo la testa. «Sapete come la penso», tornò a dire l'apprendista di Isengrin. «Una simile eventualità è tutt'altro che improbabile». Ethienne si lasciò sfuggire appena un sospiro. «Perché essere così categorici?», disse allora Aelin. «Si può benissimo scoprire che sono una strega e non un'indovina dopo che abbiamo vinto». «Ma quanto pessimismo raccolto tutto insieme!», esclamò il pittore. «D'altronde io sono quello che ancora crede di riuscire un giorno a convincere quel genio di mio fratello che le sue case sono storte...». «Aelin sta sogghignando», osservò allora Jordan in tono pacato. «E in genere c'è un buon motivo perché lo faccia». «Ho solo la sensazione», spiegò la giovane con voce dolce, «che da queste parti nessuno abbia mai sentito parlare di prospettiva centralizzata e di punti di fuga. È mia intenzione porre rimedio a una simile mancanza». Così fece. Per parecchio tempo l'argomento religione venne dimenticato. Il disco d'ossidiana a tratti rifletteva il cielo sulla sua superficie di tenebra; tutt'intorno si apriva una sala di rozzi pilastri intagliati e l'uno era diverso dall'altro, come se fossero stati il vento e l'acqua a modellare la pietra rossastra, non la volontà dell'uomo. Un giovane attraversò in silenzio la sala, poi si fermò, pronunciò delle brevi parole, passandosi distrattamente le dita tra i folti capelli castani. Ci fu una luce quando ebbe terminato di parlare, e una figura bianca era comparsa nella sala. «Mio Signore...». «Dalla tua espressione, Shiin, direi che tutto procede come previsto, al castello insanguinato». «È così mio Signore, coloro che attendiamo presto saranno qui, e riceveranno la giusta accoglienza». «Su questo non ho mai avuto dubbi», disse l'uomo con un cenno d'approvazione. «Piuttosto, è di altro che intendevo parlarti». «Sono tutt'orecchi, mio Signore». I draghi erano calati dal cielo, circondando i cinque giovani in viaggio. Non erano draghi che potessero chiamarsi amici o alleati. L'argento di Isengrin brillava minaccioso sulle loro gole. Jordan si voltò per un istante verso le mura di Zephyr. Vicine, troppo vi-
cine davvero. «È una beffa, questa, o un tradimento?», s'interrogò in tono amaro. «Spero che avremo il tempo e il modo di interrogarci su questa annosa domanda», fece Sethrian in un sibilo. «Questo dipende da voi, immagino», li interruppe un giovane che li osservava, in groppa a una delle creature mostruose. «Le mie disposizioni sono chiare: devo prendere ciò che mi è stato ordinato, e poi lasciarvi andare... relativamente illesi». «E cosa cercate, per essere più precisi?», domandò Rhory in tono di sfida. «La Lacrima. Voi l'avete rubata». «In effetti è andata così», ammise Sethrian inarcando un sopracciglio. Avevano preso loro la spada al rifugio dello Stregone d'Argento. E non mostravano vergogna per un simile gesto. «Allora», fece l'uomo scendendo a terra con un salto, «collaborate, oppure no?». Aelin scosse appena il capo, fissando intimorita l'espressione decisa del luogotenente di Isengrin. «Immagino che preferiresti non sporcarti le mani, non è vero Shiin?», fu il pacato commento di Gwyon. «Immagini bene», ribatté l'altro con una smorfia. «Anche se per te farei un'eccezione, forse. E tu allontana le dita da quella spada!». Rhory si fermò, la mano sospesa a pochi centimetri dall'elsa di cristallo blu. «Un riflesso condizionato, temo», disse poi, tornando a stringere il pugno. «Non siamo in grado di affrontare un simile stormo di draghi neppure se volessimo. E non vogliamo: loro sono innocenti». «Innocenza? Non so di che parli, cavaliere. E adesso... la spada». «Ho paura che dovremo dargliela», mormorò Sethrian. «C'è solo un dettaglio», disse Aelin, «non abbiamo con noi quell'arma». «No?», fece il mago perplesso. «Io l'ho lasciata a Lilài. Pensavo che tu e Palen voleste esaminarla». «A dire il vero ero convinto...». «No, no», intervenne Gwyon. «È come dice lei. La spada è rimasta in camera di Aelin, sotto un mucchio d'abiti. Non ha mai lasciato la torre». «Nessuno si offende, mi auguro, se non credo ciecamente alla vostra storia», disse Shiin. E ordinò ai suoi uomini di perquisire i prigionieri. Aelin non aveva mentito, ma presto ci furono sei o sette spade ammon-
ticchiate per terra, e una di queste sembrava aver attirato l'attenzione del servo di Isengrin. Era una lama di metallo verde, portava sull'elsa il marchio di Discordia. Era un dono di Viviana e del suo sposo, che avevano voluto restituire la falsa spada verde a coloro che l'avevano portata al loro castello. «Possibile che sia solo un caso?», mormorò Shiin parlando quasi fra sé. «A volte il confine fra il caso e destino è assai sottile», fu l'ambiguo commento di Sethrian. Il mago fissava l'avversario con occhi attenti, come se fosse desideroso di carpire un indizio insperato da un'occhiata o da un gesto. «Questa in ogni caso la prendo io», disse Shiin in tono spiccio. «Isengrin saprà ben compensarmi». «Quella spada non vi appartiene!», esclamò Rhory. «Non potete accampare alcun diritto su di essa». «Diritti? Non ne abbiamo bisogno», ribatté l'altro con un sorriso. «Adesso comunque non mi resta che decidere chi di voi si recherà a recuperare la Lacrima di Pioggia, mentre gli altri saranno miei forzati ospiti». L'uomo si guardò intorno per un istante, poi puntò il dito su Jordan. Il cavaliere annuì appena, ma una strana luce ardeva nei suoi occhi. I draghi condussero i prigionieri verso nord, là dove sorgeva un castello di pietra rossa che nessuna mappa riportava e ben pochi occhi avevano visto. «Inchinatevi di fronte al potere di Isengrin», disse il luogotenente del mago, «capace di innalzare e far cadere torri nel giro di una notte». «Conosciamo già il potere di Isengrin», rispose Sethrian in tono pacato. «Sono le sue intenzioni che ancora ci sfuggono, e quanto abbiamo visto non lo si può definire confortante». «Non credo che il mio Signore vorrà convincervi delle sue buone intenzioni», ribatté Shiin mentre scendevano nell'ampio cortile, popolato di luminosi occhi di drago. «Semplicemente perché non ne ha bisogno». «Quel mostro del tuo padrone non ha ancora vinto!», lo avvertì Rhory. «E mi chiedo con che coraggio tu possa vantarti delle sue malefatte». «Isengrin non ha ancora vinto», disse l'altro freddamente, «ma se non impari a moderare il linguaggio non sopravvivrai fino allo scontro finale, cavaliere. Adesso, se volete seguirmi, vi mostrerò le vostre stanze». Lo seguirono. Aelin si guardava intorno esitante, mentre percorrevano i corridoi oscuri del castello. Rhory fremeva d'ira, Gwyon era tornato a im-
mergersi nel suo cupo silenzio, e Sethrian osservava ogni minima cosa con uno sguardo avido e indagatore. Shiin condusse i giovani in una sala illuminata da grandi vetrate multicolori. «Come vedete, non vi è stata riservata una cella, né è mia intenzione separarvi. Nelle camere adiacenti troverete dei lussuosi giacigli. E per il momento mi sembra che non abbiamo altro da dirci». «Aspetta», disse Sethrian. «Isengrin... lui vuole vederci?». «Non mi ha comunicato i suoi progetti al riguardo. L'unica altra cosa che dovete sapere è questa: l'intero castello, meno una sala, è schermato contro la magia, dunque non perdete tempo in vani tentativi». Poi Shiin si allontanò, chiudendo a chiave la porta dietro di sé. «Non capisco come fate a essere così calmi», ammise Rhory. «Io... io quasi provo l'impulso di mettermi a graffiare il pavimento con le unghie, tanto è forte la sensazione d'impotenza che mi ha preso!. «Credevo ti fossi abituato all'idea della prigionia, Rhory», commentò Sethrian con un filo di voce. «E questo luogo si è mostrato più accogliente della torre di Auster, sino a ora». «Auster», ripeté l'altro. «Auster era il mio regno, più che la morte non dovevo aspettarmi. Qui invece...». Lo sguardo del cavaliere prescelto si posò su Gwyon, quasi senza che lui volesse. «I tuoi timori sono giustificati», disse quest'ultimo socchiudendo gli occhi. «Forse preferiresti sentirmelo negare, ma non lo farò». «Intanto i giorni passano, e noi non sappiamo nulla», riprese Rhory, e scosse la testa. Cadere così, prigionieri senza colpo ferire... Oh, si sentiva impazzire! «Io non vorrei pensare a ciò che accadrà dopo», ammise Aelin, sprofondata in una delle poltrone di velluto verde. «Ci sono troppe immagini spiacevoli che potrebbero venirmi alla mente». «Non pensare», disse Sethrian, «è come arrendersi, non credi?». «E tu a cosa pensi?», gli domandò Aelin. «Perché stai pensando a qualcosa, non è vero?». «Penso al traditore ipotizzato da Jordan, se vogliamo essere precisi». «Vuol dire che sai chi è?», chiese Rhory con uno scatto improvviso. «E come potrei?», rispose l'altro allargando le braccia. «Ma puoi dirci comunque ciò che vai rimuginando, o no?», fece Aelin. «Non lo so», disse il mago sollevando il capo verso il soffitto.
«Temi che ci stiano spiando?», domandò Gwyon. «Ma non ce n'è motivo. A una sola domanda di Isengrin io dovrei raccontare ogni cosa». Rhory gemette, affondando le dita tra i capelli chiari. «Parlerò», disse Sethrian. «In fin dei conti non ho accumulato che vane supposizioni. Prima, però, c'è qualcosa che volevo domandarti». «Chiedi pure», rispose l'altro mago. «Parlaci del nostro carceriere». «Shiin?», fece Gwyon congiungendo le dita. «È il quarto dei luogotenenti di Isengrin, ed è forse l'unico che provi per lui qualcosa di simile alla fedeltà. Era un giovane mago fra le truppe di Anton, dotato di scarsi poteri forse, ma assai volenteroso. Lo Stregone dalla Maschera d'Argento ha notato il suo zelo. Inutile dire che non è molto amato dal resto degli alti ufficiali. E questo è quanto, io credo». «Tocca a te, Sethrian», disse il cavaliere. «Ammetto che sono curioso di ascoltarti». «In realtà trovo piuttosto scontate, e di scarso valore, le conclusioni a cui sono giunto. Innanzitutto escluderei che Isengrin possa seguire le nostre mosse grazie ai suoi poteri». Gwyon aggrottò la fronte: «Rintracciare cinque persone partendo dal nulla? È troppo difficile e insensato. Mi chiedo piuttosto se il mio antico maestro non abbia previsto un modo per trovare me, invece». «Ho considerato anche quest'ipotesi», fece Sethrian, «ma proprio sulla tua persona abbiamo compiuto delle analisi particolari e approfondite, mi sembra». «Io non lo so, non lo so. La verità è che non mi stupirei se scoprissi che una parte di me risponde ancora al volere di Isengrin, e che sono stato io, in realtà, a... cercarlo». Rhory accennò un sorriso triste. Chissà perché in quel momento gli mancava Jordan, e con lui le sue imprecazioni sulla paranoia dei maghi. «Io credo che il traditore si nasconda dietro una tunica rossa di sacerdote», sentenziò Sethrian. «Erano in molti, a Vultur e a Zephyr, a conoscere la nostra identità e la strada che avremmo preso». «Tu credi?», mormorò Rhory, senza riuscire a nascondere il suo turbamento. «Io credo. E credere non è sapere, potrei pur sempre sbagliarmi». «Non sospetterai di Ethienne o suo zio», intervenne Aelin tormentandosi una ciocca dei lunghi capelli. «Per quale motivo non dovrei?», ribatté Sethrian aspro. «Solo perché a
te sono simpatici?». «Aspetta, Sethrian», disse Rhory. «È un'accusa troppo grossa questa...». «Io...», la ragazza sbatté le palpebre. «Ho detto questo forse perché mi sono sembrati intelligenti abbastanza da capire che è Isengrin il nemico, e non i maghi, non i draghi, non le fanciulle miscredenti». «Forse», ripeté Sethrian. «Comunque non sono i soli sacerdoti che possono aver seguito i nostri spostamenti». «In fin dei conti non sarebbe così strano che Isengrin abbia una spia a Vultur», osservò Gwyon. «Ma stabilire questo, in realtà non porta a nulla, o quasi». «Vi avevo avvertito sulla natura delle mie elucubrazioni», disse Sethrian con un sorrisetto. «Sì, lo avevi fatto», ammise l'apprendista di Isengrin. E sospirò appena. «Sicuro di voler andare da solo, Jordan?», chiese Palen in tono grave. «Devo essere solo, così dicono i patti. E se dovrò violarli non sarà in modo così grossolano e evidente. C'è troppo in gioco, lo sai». «Lo so», ammise l'altro, a malincuore. «Questo pone fine alla discussione, mi sembra». «Non era una discussione, ti ho soltanto posto una domanda». «Ne sono lieto», fece Jordan. «Anche perché ci ho messo quasi due giorni a persuadere Alascura che seguirmi a breve distanza non sarebbe stata una buona idea. O almeno spero di averlo convinto». «Io frattanto ho un libro da tradurre», aggiunse Palen. «Non sarà il più rischioso dei compiti, ma se può servire allo scopo...». Il cavaliere accennò un sorriso, ma non fece commenti. La verità era che ogni minuto d'ozio gli sembrava sempre più insopportabile. Ma non avrebbe dovuto aspettare ancora a lungo. XVII LACRIMA DI PIOGGIA «Seguitemi», ordinò Shiin con voce ferma. «Lui vuole parlarvi». I prigionieri annuirono, scuri in volto. «Presto il vostro amico sarà qui», aggiunse l'uomo con voce sommessa, «già lo hanno visto cavalcare sulla strada che porta al castello di sangue». «Jordan sta arrivando», disse Sethrian. «Sarà un bene o un male?». «Questo dipende da lui, e da ciò che porterà con sé».
«Una giusta risposta», ammise il mago con un sospiro. Giunsero in una grande sala circolare: una figura bianca li attendeva al centro della corona di pilastri contorti. Isengrin... pensò Aelin, e freddi erano gli occhi scuri dietro la maschera di metallo. «Il servo traditore, il mago, la falsa indovina, il cavaliere prescelto», sussurrò lo stregone squadrandoli uno per volta. «Nel complesso non si può negare che siate degli ospiti degni di nota. Potremmo scambiarci insulti e frasi argute, ma ammetto di avere... dei modi migliori per impiegare il mio tempo. Però ho dei doni per voi, molto particolari». «Doni?», ripeté Rhory guardandolo storto. «Non per te cavaliere. Non ve ne sarebbe motivo, dal momento che essere cavaliere è la tua unica colpa: i miei omaggi sono per gli incantatori». «Possiamo conoscere dunque», disse Sethrian in un sussurro, «i premi corrispondenti alle nostre colpe?». «È presto detto». Un cerchio d'argento era comparso di fronte al giovane mago. «Per colui che ha cercato di rubare i miei sortilegi, un diadema che lo priverà di ogni potere». Sethrian fece un lento cenno del capo. Non smetteva di fissare il manufatto di Isengrin con orrore. «Indossalo», gli ordinò lo stregone. Aelin osservava la scena con occhi sgranati. «Indossalo, ho detto». Quando Sethrian poggiò il freddo metallo sulla fronte, il suo volto perse ogni colore. Forse sarebbe caduto, se Rhory non l'avesse sostenuto. «Ora al mio antico apprendista, che ha scelto di ripudiare ciò che era», continuò Isengrin, senza più curarsi dell'altro, «per lui ho un filtro che saprà cancellare quel passato, definitivamente». Ma sul viso di Gwyon non c'era alcuna espressione. «Sei stato tu a cercarmi», continuò il mago con voce dolce, «lo ricordi? Così giovane, quasi un bambino, così affamato di sapere... e di quel sapere io ero il simbolo. Ma le mie ricerche mi portavano sempre più lontano, e la conoscenza fine a se stessa non era più sufficiente. Io volevo di più, e tu hai avuto paura. Però sapevi troppo perché ti lasciassi andare. Mi hai costretto a legarti... e adesso provi di nuovo a fuggire. È l'ultima volta che accade». Gwyon fissò il liquido scuro nell'ampolla, con uno strano sorriso sul volto.
«Questo per me è davvero un dono». «Il mio scopo è impedire che il servo traditore adoperi contro di me le conoscenze che io gli ho dato. Nient'altro», disse lo stregone con voce incolore. Gwyon aveva già bevuto. I suoi occhi si erano fatti vacui. Aelin rabbrividì, quando lo sguardo della figura bianca si posò su di lei. «Una giovane che si finge guerriera pur senza esserlo. Forse anche tu meritavi un dono... ma sarà per la prossima volta». «Aelin non ha fatto nulla contro di te!», esclamò Rhory. «O meglio, quello che ha fatto...». «Si è prestata al ruolo di falsa indovina», lo interruppe Sethrian, «immagino che tanto basti per il nostro avversario». Poi gemette, tornò a stringersi il capo tra le mani. «Credo che mi congederò da voi», sussurrò Isengrin. «Ho un ultimo avvertimento da darvi. Sappiatelo: nient'altro che la solitudine saprà sciogliere il mio incanto. Adesso devo proprio dirvi addio, miei sventurati ospiti». La figura dell'incantatore si fece nebbia. Al suo posto era comparso uno specchio sospeso nel vuoto, che mostrava il cortile del castello di sangue. Solo in quel momento Aelin si accorse che anche Shiin aveva lasciato la sala. «La solitudine...», ripeté Sethrian fra sé, «la solitudine...». «Qualcuno mi spiega cosa sta succedendo?», fece Gwyon in quel momento. «Perché mi gira la testa? Questo luogo è così strano... E perché in quello specchio c'è Jordan in un cortile pieno di draghi?». Gli occhi degli altri corsero immediatamente all'immagine stregata. «Devi aver... battuto la testa proprio forte», disse Sethrian dopo un attimo di esitazione. Il suo sguardo era fisso sulla superficie del vetro, dove Shiin e il cavaliere di Thule si fronteggiavano. «La testa...». «Poi ti spiegheremo, Gwyon». I giovani continuavano a fissare la scena nello specchio: con un gesto repentino, proprio allora, Jordan estrasse in piena luce un ovale rosso sangue. I draghi agitarono le grandi ali, e le urla cariche d'ira, con la loro melodia dissonante, giunsero fino ai pilastri rossi della sala. «Cosa...». «Che...». Sethrian fece cenno agli altri di tacere. Videro Shiin sparire in uno
squarcio incantato, mentre agitava furente la spada con il marchio di discordia. I figli del fuoco, nel cortile, avevano preso a uccidere. «Arrendetevi e non vi sarà fatto del male!», gridò Jordan, e non era la prima volta. Aveva liberato i draghi dal giogo di Isengrin, e gli uomini lì intorno non volevano credere che le creature furenti avrebbero prestato ascolto alle parole di un singolo cavaliere. L'erede di Thule osservava la scena imprecando sotto voce. Poi vide i suoi amici che lo raggiungevano. Avevano lasciato il castello, e attraversarono il cortile senza che nessuno pensasse a fermarli. «Ancora una volta i draghi hanno fatto scoppiare il panico», disse Jordan. «Potrebbe andar peggio», fu la risposta di Rhory. «Le lame di quegli uomini sono abbastanza affilate da ferire i nostri amici alati, ricordalo». I guerrieri di Isengrin cominciavano ad arrendersi. I figli del fuoco gridavano esultanti, quando un rombo improvviso scosse le mura di pietra rossa. «Che succede?», gridò qualcuno allarmato. Il castello stava crollando. «Avremmo dovuto aspettarcelo, in fondo», sussurrò Sethrian, e osservava le macerie simili a sangue tra il verde tutt'intorno, «Era stata la magia dello stregone a far sorgere la rocca, e in un attimo lui l'ha potuta distruggere». «C'erano anche i suoi uomini però», obbiettò Gwyon scuotendo la testa. «Carne da macello», disse l'altro mago seccamente. «Così li ha definiti qualcuno nella nostra visita al castello di Isengrin, anche se forse non lo ricordi». «No, non ricordo nulla», fece Gwyon, e sospirò. Meglio non dirti che eri tu, in realtà, la fonte di tali parole... pensò Sethrian, ma non aprì bocca, si limitò a incurvare le labbra. Le sue dita tornarono a poggiarsi sul cerchio metallico che gli cingeva la fronte, e che lo privava dei poteri magici. «C'è un innegabile vantaggio, tuttavia, in questa distruzione improvvisa», commentò Jordan. «I nostri prigionieri adesso sembrano letteralmente morire dalla voglia di collaborare». «Per quello che valgono...», ribatté il mago. «Non hanno saputo dirci
nulla di utile, né quello che abbiamo potuto vedere delle loro qualità di guerrieri promette bene». «Proprio di questo noi non abbiamo il diritto di lamentarci», fece Jordan con un sorriso storto. In quel momento Rhory raggiunse gli amici: «Un cavaliere sta risalendo il sentiero, verso quello che era il castello di pietra rossa». «Che sia un caso?», domandò Gwyon. «In un romanzo non lo sarebbe», risposero Sethrian e Jordan a una voce, ma dal ragazzo ottennero in cambio soltanto uno sguardo perplesso. Il cavaliere sconosciuto era una donna: Jade. Aveva il volto magro, incorniciato da corti capelli neri, e neri erano anche gli occhi, con la loro espressione decisa. Aveva osservato senza mostrare il benché minimo sgomento le macerie del castello, e adesso fissava incuriosita Rhory e i suoi compagni di viaggio. «Dunque voi sareste i nemici dello Stregone dalla Maschera d'Argento, e questo luogo reca le vestigia di una vostra vittoria. Dovrei essere indispettita, poiché il vostro intervento rende inutile la mia venuta, ma forse un simile episodio saprà aprire gli occhi a qualcuno che dal potere di Isengrin si era fatto impressionare sin troppo». «E non ci dirai chi è questo qualcuno?», chiese Sethrian. «O almeno quale scopo ti ha portato sin qui?». «Per quale motivo dovrei?», rispose l'altra con un sorriso furbo. «Per permetterci di controbattere l'offerta di Isengrin, quale essa sia, con un'altra più conveniente». Jade annuì, seria in volto. «In fin dei conti non ci perdo niente a dirvelo. La mia gente possiede i progetti di una spada incantata. Ombra è il suo nome, e lo stregone ha espresso il desiderio di entrarne in possesso». «No!», fece Aelin con voce soffocata. «Non un'altra spada magica! Con questa saremmo a tre, e a quale numero dovremmo arrivare?». «Sei, credo», disse Jordan e tutti si voltarono verso di lui. «Sei spade, hai detto?», ripeté Sethrian fissandolo. «Dovreste chiedere a Palen», fece il cavaliere scrollando le spalle. «Sembra che abbia trovato il modo di strappare le informazioni a quel libro che sapete, ma ammetto di non averlo ascoltato con particolare attenzione, ero troppo preso dalla missione di salvataggio. E poi non credevo fosse importante». «Potremmo tornare a occuparci del confine sottile tra le coincidenze e un destino già scritto, ma rischiamo di diventare ripetitivi», commentò Sethrian con un smorfia.
«Non sono sicura di aver capito», ammise Jade scuotendo il capo. «Nemmeno io se è per questo», disse Gwyon con un sospiro. «Ma ci sto facendo l'abitudine». «In ogni caso la faccenda è degna d'interesse», considerò Sethrian, «e verrebbe da chiedersi se il vero valore delle lame non si riveli solo a chi le possiede tutte. Una cosa è certa: se Isengrin vuole quella spada, anche noi la vogliamo». «Non fosse altro», aggiunse Jordan, «che per il piacere di toglierla a lui». «Questo non è possibile», disse Jade in tono fermo, «voi sarete nemici di Isengrin, ma noi non siamo così folli da contrariarlo». «Non vi rendete conto di quale pericolo rappresenti Isengrin per il mondo intero?», sbottò Rhory. «Quale oscura minaccia si nasconda dietro i suoi occhi freddi e spietati, quale...». «Potrei risponderti che noi non siamo il mondo, cavaliere», lo interruppe la donna con un sorriso di ghiaccio. «E quand'anche poteste provare le vostre accuse, non è il destino del mondo che consegneremo allo stregone, ma solo una spada capace di creare strali di tenebra». «In fin dei conti se la teoria di Sethrian è giusta possiamo tenere Isengrin lontano da almeno una delle spade», disse Jordan in tono pensieroso. «Perché forgiare lame non è poi così difficile, ma certi spiritelli dispettosi sono piuttosto rari da trovare». «Staremo a vedere», ribatté il mago. «Se permettete», fece Jade, «vorrei tornare a parlare d'affari. Ho bisogno di garanzie prima di proporre a mio fratello di stipulare un contratto con voi». «Quel mucchio di armi di cristallo non è sufficiente?», domandò Gwyon indicando il cumulo lucente ancora custodito dai draghi. Gli uomini di Isengrin si erano accampati più lontano, sempre sotto debita sorveglianza, ma Sethrian e gli altri non perdevano mai di vista le armi che avevano loro sottratto. «Potrebbe non bastare, dopo quanto ho sentito stasera», disse la donna. «Tutto questo ha il sapore di un furto», fece Sethrian in un soffio. «In effetti lo trovo un termine abbastanza appropriato», rispose lei, imperturbabile. «Dovremo far ricorso alla nostra collezione di sigilli», disse Jordan mettendo mano alla borsa. «Aquilon, Auster, Vultur... Il nostro amico ha quello della città dei maghi, e io posso aggiungere l'anello della baronia di
Thule. Non avete che l'imbarazzo della scelta». «Non siamo abituati a trattare con le istituzioni ufficiali», ammise Jade osservando con sguardo attento il luccichio dei sigilli sul palmo dell'altro, «e loro non amano fare affari con noi. Ma ci si può sempre mettere d'accordo». «Noi chi?», domandò Aelin in quel momento. «Chi è quel noi che rappresenti?». L'altra la guardò inclinando appena il capo. «In effetti è una buona domanda», ammise Jordan. «Siamo ladri», disse Jade, senza battere ciglio. A quelle parole Sethrian fu il solo a non mostrarsi stupito. «Tu lo sapevi?», gli chiese la terrestre, perplessa. «C'è chi narra di una setta di ladri che farebbe uso di pugnali in grado di avvolgere nella tenebra gli avversari...», spiegò il mago scrollando le spalle. «Sono pugnali fatti a immagine della spada che Isengrin cerca», precisò Jade. «Trattare con dei ladri non è esattamente quello per cui ci hanno addestrato», fece Jordan gettando verso Rhory un'occhiata tra il nervoso e il divertito. «Ma in fin dei conti per questo è utile avere dei maghi nella compagnia: si può lasciare a loro la responsabilità del lavoro più sporco». Gwyon era partito verso sud, per guidare gli uomini di Isengrin sino al forte di Auster. Il giovane stentava a credere alla storia di draghi e spade incantate che aveva ascoltato dai suoi amici. Ma uno stormo di ali metalliche faceva da scorta al gruppo dei prigionieri, e questo non poteva ignorarlo. Gli altri avevano preso il volo in direzione opposta, seguendo le indicazioni di Jade. A essere sinceri, Sethrian aveva parlato di rimandare le trattative con i ladri, dal momento che Palen sembrava aver scoperto qualcosa d'importante. Ma nessuno era così entusiasta di comunicare alle autorità, fossero state quelle di Vultur come di Lilài, che stavano per contrarre a loro nome un debito con dei fuorilegge. Forse sarebbe stato più saggio mettere tutti di fronte al fatto compiuto. Giusto per evitare che qualcuno ponesse il veto alle trattative in corso. I figli del fuoco portarono i viaggiatori ai piedi delle montagne tra i regni di Aquilon e di Levant, e i confini segnati sulla carta si perdevano nel verde delle foreste, in una terra di nessuno. Lì vivevano e cercavano rifu-
gio briganti, bracconieri e banditi d'ogni sorta. Jade intanto aveva insistito perché Aelin e gli altri non si spingessero sino al covo della sua gente. Così proseguì da sola, allontanandosi nel freddo mattino. Passarono le ore. Erano sperduti in mezzo al nulla; il vento gelido fischiava tra i rami. Poi i draghi gridarono: degli sconosciuti si stavano avvicinando. Erano uomini vestiti di verde e marrone, cacciatori forse, e si muovevano cauti per la boscaglia. Forse era Jade lungo la strada del ritorno, oppure si trattava di una semplice coincidenza; c'era anche il rischio, poi, che si trattasse di una trappola pronta a scattare per loro. Per quanto fossero acuti, gli occhi dei draghi non riuscivano a distinguere i lineamenti di quegli uomini. Né era saggio che si avvicinassero di più: rischiavano di essere individuati a loro volta. «Vengono proprio da questa parte», mormorò Rhory, con lo sguardo un po' assente che assumeva quando ascoltava le voci dei draghi. «Che cosa facciamo?», domandò Jordan. «Ci prepariamo ad accoglierli», disse l'altro con un sorriso, «sperando non sia necessario quel genere d'accoglienza che ti costringe a sguainare le armi». Il gruppo di cacciatori li aveva raggiunti. Alla loro guida c'era una donna dallo sguardo cupo, i lineamenti delicati, e una folta chioma riccia trattenuta da un nastro nero. Ma non fu lei a parlare. Un vecchio si fece avanti, e scrutava come uno sparviero Aelin e i suoi amici. «Chi siete, cosa volete? Siete uomini di Christofer?». La terrestre sbatté le palpebre: non conosceva quel nome. Silenziosamente, fece scivolare una mano verso la spada dal fodero azzurro che portava al fianco. Si era offerta lei di tenere quell'arma preziosa, e adesso non intendeva perderla d'occhio un istante. «Noi veniamo da Aquilon», disse Jordan. «E siamo al servizio del nostro re soltanto». «Aquilon», ripeté il vecchio. «Il tuo accento conferma quello che dici». «Aquiloni», ribadì a sua volta uno dei cacciatori, pieno di disgusto. «Il regno di Levant non ha nulla a che spartire con la gente di Aquilon, e ora più che mai». «Calmati, Brine», disse in tono fermo la giovane dalla chioma ricciuta. «Questi viandanti non sono responsabili delle scelte del loro sovrano».
«Perdonami, Llys», fece l'altro chinando il capo. «Non è con me che devi scusarti». Brine sospirò, ma non aggiunse nulla. «Potremmo sapere», domandò poi la donna di nome Llys, «quali affari vi portano a Levant?». «Nessuno in particolare», disse Jordan scrollando le spalle. Subito un mormorio ostile si diffuse tra i cacciatori. «Molti mercenari sono giunti a Levant negli ultimi mesi», spiegò Llys, «e si nutrono della discordia che lacera il paese. Voi andate in giro armati. La nostra diffidenza è più che naturale». «Noi siamo cavalieri di Austeri», esclamò Rhory, «non vendiamo le nostre lame al primo venuto!». «Lo ripeto, serviamo solo il nostro sovrano», puntualizzò Jordan. «Né Aquilon ha interesse a intromettersi nelle lotte per la successione di Levant». «Anche se forse dovrebbe», aggiunse Sethrian, accigliato. «Che intendi dire?», domandò Brine. «Il male che consuma Levant non è nato a Levant», ribatté il mago. «Né morirà qui». «In realtà facciamo a meno dell'aiuto dei re stranieri», rispose Llys con un sorriso tirato. «E io temo che il sovrano di Aquilon, nel momento in cui decidesse di scendere in campo, non lo farebbe in nostro favore». «A questo non possiamo rispondere», ammise il cavaliere prescelto, «noi non sappiamo da quale parte siete schierati. E il nostro aiuto potrebbe andare soltanto alla principessa Felicia». «Se è ancora viva», sussurrò Jordan. «Anche in tal caso dubito che la corona di Aquilon sarebbe così entusiasta nel sostenere un simile partito», aggiunse Sethrian scuotendo la testa, «troppe sono le differenze tra i due regni, tra i nobili ribelli che seguono la religione del Signore del Tempo, e le regine velate che continuano a rifiutarla, io non so a chi andrebbe la scelta». Rhory aprì la bocca come per obbiettare, ma poi si limitò a scuotere la testa con un sospiro. «Non ci fidiamo di Aquilon», sussurrò Llys, «ma non diamo grande fiducia nemmeno a Lilài. Io so qualcosa sull'attacco che ha quasi sterminato la famiglia reale, e posso dirvi che dietro c'era l'opera di un mago». Isengrin. Era Isengrin. Ma nessuno ebbe modo di pronunciare quelle parole.
Un rumore di zoccoli annunziò l'arrivo di un altro cavaliere. «Loro sono qui!», gridò il nuovo venuto. «Sono già qui! In marcia lungo la riva sinistra dell'Aran!». Imprecazioni cariche di rabbia si levarono dal gruppetto dei cacciatori. «E il ponte?», esclamò Llys socchiudendo gli occhi. «C'erano i nostri uomini a sorvegliarlo, in che modo sono riusciti, quelli, a...». «Non hanno forzato il nostro blocco», farfugliò il messo, «loro...». «Un drappello di mercenari è comparso come per magia nei pressi della riva», mormorò Rhory, con gli occhi persi nel vuoto, «adesso avanzano per sorprendere alle spalle gli uomini di guardia al grande ponte di pietra». Aelin sorrise: sembrava, in un certo senso, che il ruolo di augure le fosse stato sottratto. «Come fai a saperlo?», sibilò Llys irata. «Sono vostri compagni?», incalzò Brine. «Che altro sapete su di loro?». «Se fossero nostri compagni credete che Rhory si sarebbe messo a dispensare informazioni?», ribatté Jordan con una smorfia. «Ciò non spiega comunque le parole del tuo amico», fece Llys, senza smettere di fissare il cavaliere prescelto. «I nostri avversari fanno uso di varchi dimensionali», fu la pacata risposta di Sethrian. «Non c'è bisogno di essere un oracolo per comprendere quello che è accaduto». «I vostri avversari!», ripeté la donna, scettica. «Di questo discuteremo dopo. Gli uomini al ponte, piuttosto!», aggiunse rivolta al messaggero. «Sono stati avvertiti del pericolo?». «Mio fratello è corso ad avvisarli». Aelin gettò un'occhiata verso Rhory, ma lui era concentrato, lontano, perduto nel suo mondo fatto di voci di draghi. Llys ordinò che al corriere venisse dato un cavallo fresco che lo portasse in tutta fretta verso la loro base. «Noi invece dobbiamo raggiungere il ponte», concluse, «per dare manforte agli altri». «E di questi che ne facciamo?», domandò Brine indicando Aelin e i suoi compagni. «Un colpo in testa è la cosa migliore...», borbottò qualcuno. «Giusto nel dubbio che fossero alleati con il nemico». «Non lo siamo!», protestò Jordan. «Nemmeno saremmo qui, se avessimo saputo che la guerriglia si era spostata così a nord», aggiunse Sethrian. «Questo lo dite voi...», esclamò ancora Brine.
«Si dà il caso che sia la verità. Loro non sono nostri alleati», disse una voce fredda e decisa, dalla boscaglia. «Alascura lo sapeva che c'era qualcosa nella foresta», mormorò Rhory, come riscuotendosi. «I rami però erano troppo fitti...». Uomini armati erano comparsi tra gli alberi. Erano appiedati, ma numerosissimi. Llys e i suoi compagni si guardarono cupi, alcuni avevano già incoccato le frecce. «Non potete sperare di batterci. Non fosse altro che per la nostra superiorità numerica». Aelin ebbe un brivido: aveva già sentito quella voce. Si trattava di Evander, capitano di Isengrin e loro vecchia conoscenza, ed era a capo dei nuovi arrivati. La ragazza si trovò a indietreggiare come per celare agli occhi dell'altro se stessa e l'arma rubata che portava al fianco. «Io vi consiglierei di deporre le armi», continuò Evander con un sorriso insinuante. «Poi potremo cercare di giungere a un accordo». «Io non accetto consigli da un mercenario, né tanto meno degli ordini!», sibilò Llys serrando le labbra. «Quale arroganza...», considerò Evander scuotendo la testa, «potreste pagarla cara». «Hanno armi d'acciaio», sussurrò Jordan. «Non è ancora tempo per gli uomini di Isengrin di fare sfoggio del cristallo del drago. Non nelle terre di Levant». «Ci batteremo?», gli chiese Aelin con un filo di voce. «Rhory è pronto a chiamare i nostri amici alati. Ma tu... tu stai in guardia». Imitando l'amico, la ragazza fece scivolare piano la spada dal fodero. Jordan lanciò uno sguardo preoccupato verso di lei, ma scelse di non dir nulla. «Potreste tentare la fuga», stava dicendo Evander, «ma in tal caso il ponte sarebbe perduto per sempre. I miei uomini hanno intercettato da tempo il vostro messaggero». Il cielo si era fatto scuro. Nere nubi di piombo avevano chiuso l'orizzonte. Llys stringeva, titubante, le redini del suo destriero. «Tu mettiti in salvo», le sussurrò Brine. «Pensiamo noi a trattenere questa marmaglia».
«Preparatevi!», fece Evander ai suoi uomini. «Sapete chi voglio vivo». «Spero non vi dispiaccia se combattiamo al vostro fianco», disse Rhory rivolto ai cacciatori di Levant. Fece brillare in alto la sua spada verde. Rade gocce di pioggia cadevano sul terreno. «Non siamo in condizione di rifiutare l'aiuto di nessuno, mi sembra», osservò Llys scuotendo il capo. «Mi spiace solo che siate rimasti coinvolti...». «Non preoccuparti», rispose Jordan con una smorfia. «Sta diventando un'abitudine per noi». In quel momento gli occhi di Evander caddero su Aelin. «La Lacrima...», fece, in un rauco sussurro. Poi fu tempesta. La pioggia, fitta, violenta, improvvisa, aveva cancellato il mondo. Anche le voci dei suoi amici, e i nitriti dei cavalli infuriati erano un'eco distante e confusa. Aelin arrancava nella tempesta, ogni passo era un'impresa, i suoi stivali affondavano nel fango e la pioggia martellante aveva oscurato ogni luce. Non sapeva da quanto tempo stesse vagando in quella tenebra fatta d'acqua. Aveva perso la cognizione del tempo, potevano essere passate ore, o forse soltanto minuti. Non era nemmeno certa della direzione che aveva preso correndo, e aveva potuto correre molto poco. La pioggia si era fatta troppo furiosa per muovere più di un passo alla volta. Sapeva solo di essersi allontanata dal bosco, il che era innegabilmente un bene: non solo perché laggiù era maggiore il rischio di finire nella morsa degli uomini di Evander, ma anche per il semplice fatto che gli alberi attiravano i fulmini. Di contro, i rami avrebbero in qualche modo attutito la pioggia che adesso l'accecava e che rendeva difficile ogni passo. Continuò a cercare un rifugio; a tratti sentiva delle voci, ma non sapeva dire se fossero vicine o lontane, né a chi appartenessero. L'unica realtà, in quella tenebra era la pioggia, che s'infittiva. Aelin non aveva il coraggio di chiamare aiuto: c'era sempre il rischio che sarebbe stata la persona sbagliata a prestare ascolto al suo richiamo. Adesso il terreno sotto i suoi piedi si andava mutando in pendio, e lei strinse i denti: se avesse raggiunto la base della collina sarebbe stata meno esposta alla furia degli elementi, o almeno lo sperava. Aveva ancora la Lacrima stretta tra le dita. La teneva con tanta forza che quasi sembrava si fosse fusa con la sua mano. La lama brillava di un sinistro bagliore, nel ri-
verbero dei lampi. La giovane scosse la testa, sentiva gli abiti fradici che le si appiccicavano indosso, continuava a mettere un piede davanti all'altro ma senza vedere dove, come un automa. Non era certa che fosse una buona idea continuare a muoversi, ma non era neanche sicura che sarebbe stato saggio fermarsi. Era come se quella pioggia infernale le avesse annebbiato non solo la vista, ma anche i pensieri. Poi accadde. Aelin mise un piede in fallo. Prima ancora di accorgersene, si sentì cadere in un vuoto che si fece acqua, fiume, gorgo, torrente. «Aiuto!», gridò. «Aiuto!». Ma chi poteva sentirla? A tratti si ritrovava con la testa sott'acqua, a tratti riusciva a stento a recuperare una boccata d'aria. La corrente l'aveva ghermita, e lei era del tutto inerme. «Non so nuotare! Aiuto!». Stringeva ancora la Lacrima in una mano. L'acqua tornò a sommergerla, poi Aelin si sentì afferrare per i capelli. Si guardò attorno, sputando, tossendo, e si accorse che qualcuno la stava issando su una roccia larga e piatta. «Grazie...», riuscì a dire. «Non ringraziarmi». Aelin chiuse gli occhi. Evander! Nel calcolo delle probabilità, proprio lui... Si passò una mano sugli occhi. «Grazie», ripeté stancamente. Tremava. «Non ringraziarmi, ti ho detto», disse Evander, atono. «E rinfodera quella maledetta spada. Vuoi provocare un'inondazione?». «Non... capisco...», balbettò lei, come stordita. «Rinfodera la spada, ho detto!», quasi gridò l'uomo. Non glielo fece ripetere una terza volta. La stretta del mercenario le faceva quasi male, adesso, né lei si sentiva nelle condizioni giuste per opporre resistenza. Rimise la spada nel fodero, più in fretta che poteva. «Così, brava», disse lo Stratega annuendo. Allentò leggermente la presa attorno alle spalle di lei. La pioggia stava diradandosi lentamente. «Adesso consegnamela», ordinò Evander con uno sguardo deciso. «Consegnami la Lacrima. Sarà tutto più facile, se continui a collaborare». La giovane serrò le dita sull'elsa di cristallo.
«No!», esclamò l'altro in tono d'avvertimento. «Non farlo!». La ragazza rimase a fissarlo, confusa. «Non ti sei chiesta», la incalzò Evander, «per quale motivo quell'arma ha il nome di Lacrima di Pioggia?». Aelin spalancò la bocca. Poi la richiuse. Sollevò il capo verso il cielo, ancora ingombro di nubi. «Vuoi dire che...». «Nel dubbio, io mi guarderei dall'estrarre di nuovo la spada». La giovane annuì stancamente e lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. «Slacciati la cintura», disse l'altro in tono spiccio. «Non hai bisogno di tirar fuori la lama dal fodero per consegnarmela». La giovane si voltò, evitando lo sguardo del guerriero, osservando le acque impetuose quasi con desiderio. «Siamo circondati dalla corrente», le fece notare Evander, «e questo sperone di roccia è troppo stretto e angusto per offrire campo propizio a un corpo a corpo». «Non ho alcun desiderio di ingaggiare una lotta che potrei solo perdere», disse lei in tono quieto. Ed era vero. Ma al tempo stesso non voleva, non doveva consegnare la Lacrima. Si sfibbiò la cintura, con lo sguardo ancora fisso verso il fiume. Poi fece un nodo con la cinta attorno all'elsa, perché la spada non si sfilasse nemmeno per errore. Si mosse per consegnare l'arma. Lo stratega assecondò il movimento. Con uno scatto improvviso, Aelin gli diede una spinta, facendolo barcollare. Furono pochi secondi, ma sufficienti a lanciare la spada nel fiume. Pochi istanti dopo, la giovane si trovò con il viso schiacciato contro la roccia, e il sibilo rabbioso del mercenario nell'orecchio. «Molto brava, molto coraggiosa... adesso la spada non è più alla mia portata. Tu invece lo sei, e non credere che ti lascerò andare impunita». La giovane trattenne il fiato. «Giusto a titolo d'informazione», continuò Evander con voce fredda, «la Lacrima non è ancora perduta. Si è solo incastrata fra gli scogli, guarda. Ora resta da vedere chi la recupererà per primo». «Perché non ti tuffi a prenderla?», lo provocò Aelin. Evander scosse la testa. «La corrente è troppo violenta. Non c'erano fiumi dove sono cresciuto. Non sono bravo a nuotare». «Figurati io...». La giovane sospirò. Aveva ancora il volto premuto contro lo scoglio, e la roccia era scabra e dura. La stretta dell'uomo si allentò
leggermente. Si guardarono, stremati entrambi. «Certo che ho scelto proprio un buon modo di ripagarti per avermi salvato la vita», aggiunse Aelin. «È un po' tardi per i ripensamenti», mormorò Evander. «Non è un ripensamento. Solo vorrei che le cose non fossero andate così». «Per qualche minuto ho pensato di farti male... molto, molto male. Ma sono stato io ad abbassare la guardia. Ora sfogarmi su di te non mi ridarà la spada». Evander aiutò Aelin a levarsi a sedere, e lei si ritrovò a guardare l'espressione corrucciata negli occhi chiari del guerriero. «Ovviamente se la Lacrima non dovesse finire nelle mie mani adesso, farai bene a sperare che non ti abbia sotto tiro». La giovane non disse nulla, tornò a osservare le acque. «Certo che siamo proprio in una strana situazione», aggiunse poi, in un sussurro. «Mi è capitato di peggio», rispose l'altro scrollando le spalle. «Ma condivido il tuo punto di vista». Per un attimo restarono in silenzio. «Aspetteremo che venga qualcuno a tirarci fuori dai guai?», domandò poi la terrestre. «Dobbiamo attendere almeno che la corrente si plachi». La giovane scosse la testa, nervosa. «Cosa può accadermi, nella peggiore delle ipotesi?». «A parte scivolare da questo masso e annegare, intendi?», rispose Evander con una strana risata. Aelin chinò il capo, senza dire una parola. L'uomo le strinse un braccio. Scosse la testa in un cenno d'avvertimento. «Attenta. Se ti sporgi ancora un poco l'eventualità diventerà sin troppo reale. Se è per la tua vita che temi, posso dirti che non rientra nei miei compiti ucciderti. Sappiamo qualche cosa in più su di voi dall'ultima volta che ci siamo incontrati, al castello di Isengrin. Ma lo stregone non è ben riuscito a inquadrare la tua figura di indovina delle stelle... È così che ti chiamano, no? La cosa per certi versi lo incuriosisce». La giovane serrò le labbra, senza sapere bene che dire. «Mi credi davvero il tipo che uccide a sangue freddo una fanciulla indifesa?», riprese Evander, in tono strano, come se la domanda non riguardasse lui, ma qualcun altro, altrove. Aelin scosse il capo: «Non ho detto questo. Non lo credo. Se davvero lo
pensassi non avrei mai osato farti una simile domanda». «È come se mi avessi appena strappato una promessa. Quella di lasciarti in vita», disse il guerriero con un sorriso. «Ma sai, forse non sono il genere d'uomo che si mette a uccidere se non è necessario. Però non sono nemmeno il tipo di persona che mantiene facilmente le promesse». Aelin socchiuse le palpebre. «Tu non hai motivo di mentirmi», sussurrò. «Un uomo arguto sa che percorrere sempre il sentiero della verità è il sistema più sicuro per coprire un'eventuale menzogna». «Discorso interessante, ma presenta qualche lacuna...», sottolineò lo stregono con un sorriso scaltro. «È probabile». Se Evander avesse voluto ribattere, però, Aelin non poté saperlo. XVIII LA NUBE VERDE «L'ho vista!», gridò Rhory. «È su quelle rocce!». «Io lo sapevo...», disse Jordan, «sapevo che l'avremmo trovata qui». «Ma non è sola». «Aelin!», gridò il cavaliere di Thule. «Siamo qui, non temere!». Altri però erano giunti in riva al fiume. «È lui!», urlò uno dei guerrieri di Levant. «È il capo di quei maledetti!». Brine già tendeva l'arco. «Fermo, maledizione!», urlò Jordan. «Non vorrai colpire la nostra amica!». Aelin, dalla roccia sul fiume, osservava atterrita lo svolgersi degli eventi. Evander era tornato ad afferrarla per un braccio, mentre con la mano libera cercava qualcosa nel suo farsetto. La giovane si sentì mancare il fiato. «Non temere, non ti faccio male», le disse l'uomo con un mezzo sorriso. Sulla sponda, i compagni della terrestre e i cacciatori continuavano a fissarsi in cagnesco. «Che sta succedendo?». Anche Sethrian era arrivato. E non era solo. «Non tirare, Brine, non è necessario», disse una voce di donna. La comparsa di Llys sembrò avere il potere di acquietare i suoi cacciatori. «Il ponte è crollato, ho visto un fulmine che lo colpiva», annunziò la
guerriera. «La furia dell'acqua ha fatto il resto. Il mercenario e la ragazza sono stati fortunati. Se da questo affluente fossero caduti tra i gorghi del Fiume dei Venti...». «Il ponte è crollato!», ripeté Evander voltandosi verso Aelin: sia l'uno che l'altra ascoltavano a orecchie tese le parole degli uomini sulla riva. «Lo sai cosa vuol dire? Il grosso delle mie truppe non potrà ricongiungersi all'avanguardia, e la tua ignoranza, indovina, ha segnato una mia sconfitta». «Io...». La giovane deglutì, spaventata. «Adesso l'ultima cosa che voglio è farmi catturare, sappilo», l'avvertì il mercenario. «Dunque sta attenta a ogni tua mossa». Aelin annuì. «C'è qualcosa tra gli scogli!», esclamò Brine in quel momento. Era il brillio blu della Lacrima. Jordan si tuffò per recuperarla. Il luogotenente di Isengrin serrò i denti. «In piedi!», sibilò alla terrestre. «Ho un annuncio da fare». Aelin non fece a tempo a rispondere, né alcuno seppe mai cosa Evander avrebbe voluto dire. Grandi ali blu calarono sullo scoglio, mentre il drago dall'artiglio spezzato afferrava la ragazza e il guerriero, per poi deporli sulla riva, nel silenzio stupito degli altri che guardavano. «Grazie, Alascura», disse Rhory. «Voi comandate i draghi?», esclamò Llys stupefatta. «Voi comandate i draghi?», fece Evander in un sussurro, e i suoi occhi si erano fatti attenti, quasi avidi. «I draghi sono nostri amici», spiegò il cavaliere prescelto, «perché abbiamo trovato un avversario comune». «È così?», chiese Evander alla terrestre. Gli artigli del drago si levavano fra loro, quasi come le sbarre di una prigione. «Tu cosa credi?», rispose lei. «Vorrei solo sapere come avete fatto». «A cosa servono le spade che il tuo padrone cerca?», ribatté Aelin con uno sguardo furbo. «Devono condurlo a un libro, così ha detto», rispose l'uomo scrollando le spalle. «Adesso tocca a te parlare». «Sangue di drago e telepatia», fece la terrestre dopo un istante d'incertezza. «E non ti servirà a molto saperlo». «Forse no. Però è sempre meglio che tornare a mani vuote».
Un medaglione lucente comparve nella mano sinistra di Evander. «Spero vogliate scusarmi con la principessa», disse poi, ad alta voce, «ma temo che dovremo rimandare il nostro incontro. Sarei rimasto, sarei rimasto davvero. Tanto più che non mi piace sparire di scena lasciando i miei uomini senza una guida. Ormai però è chiaro: stavolta sono stato sconfitto, e non mi resta che porgervi i miei saluti». Il medaglione brillò di più. Poco dopo Evander era svanito. Brine imprecò, mentre una delle sue frecce colpiva il terreno, là dove si era trovato l'uomo. Llys serrò le labbra, ma non sembrava intenzionata a cedere alla rabbia. «È fuggito», disse. «Sono questi i varchi dimensionali di cui parlavate?». Sethrian fece un cenno d'assenso. «E parlate ai figli del cielo». «È così». La donna si fermò a scrutare con sguardo intenso Sethrian e ciascuno dei suoi compagni. «Se fosse una trappola?», sbottò uno dei cacciatori. «Questi qua arrivano, fingono di volerci aiutare...». «Non abbiamo motivo di ingannarvi», rispose Jordan socchiudendo gli occhi, «non fosse altro per il fatto che siamo più forti di voi». «Ci sono cose che potrebbe sembrare più facile strapparci con l'astuzia», obbiettò Brine, «e il luogo in cui si nasconde la nostra principessa è uno di questi». «Vediamo di raggiungere un accordo», disse Sethrian. «Noi non vi chiederemo lumi sul vostro segreto, in cambio porterete i nostri saluti alla principessa nascosta, e poi ci separeremo in pace». «Le tue parole sono sagge, mago», osservò Llys. «Eppure la vostra venuta, i misteri che portate con voi, sollevano molte domande. Lasciate che dividiamo lo stesso fuoco stanotte. Domattina ci congederemo da amici». Le fiamme guizzavano avide, corrodevano i ceppi odorosi disseminando scintille nell'oscurità notturna. L'arpa di Rhory risuonava quieta nella penombra. Il giovane cavaliere non cantava, la melodia tra le corde era appena accennata e, nonostante l'espressione assorta, il ragazzo non cessava di ascoltare le parole che si intrecciavano attorno al fuoco. «C'è sempre stata una regina a Levant», stava dicendo Llys. «Ma più di una regina è temibile una Dea». «Colei che ha molti nomi. È così che la chiamate, non è vero?». Aelin
forse non credeva in nessuna religione, ma si lasciava affascinare da tutte. «Molti nomi e molti visi circondano la Signora, come veli d'illusione volti a nascondere la sua vera essenza», spiegò Llys. «Lei è la Madre delle Acque, gli oceani sono i suoi occhi, lei è la Figlia dei Venti, che trasporta i pollini e le piogge, lei è la Danzatrice di Fuoco, la Terra Generosa, e l'Ombra Silente...». I cacciatori ascoltavano attenti, come se le parole della donna fossero una preghiera. «Pochi infine lo sanno», continuò la guerriera, «ma la Dea ha anche il nome di Cantrice dei Draghi, e un'ala di metallo azzurro era il manto in cui si è celata ai suoi nemici». «Perché ci racconti tutto questo?», chiese Jordan. «Perché capiate il nostro stupore. Un drago è sceso al vostro fianco quest'oggi: forte è la tentazione di vedere nella sua apparizione un messaggio della nostra Signora». «Io questa storia l'ho già sentita...», sussurrò Aelin, ma così piano che nessuno le prestò attenzione. «Anche Isengrin comanda i draghi», obbiettò Sethrian. «I figli del fuoco non approvano, ma lui non ha mostrato di curarsene». «Almeno sin ora», aggiunse Jordan con un sorriso cupo. «Perché non ci dispiacerebbe cambiare le regole del gioco». «Voi avete trovato in Isengrin la causa di ogni male», fece Llys, «ma noi qui, asserragliati tra i monti al confine della nostra terra, con l'incertezza che ogni giorno ci attende al mattino, il pensiero di un inverno trascorso in questo esilio, e il timore degli inverni ancora a venire... noi non possiamo permetterci di distinguere tra un nemico e l'altro. Forse il mago per cui mostrate tanto timore ha seminato discordia, e se le nostre strade dovessero incrociarsi faremo in modo che lui lo rimpianga. Ma Isengrin adesso è lontano. Se Christofer, come voi dite, ha tra i suoi mercenari i soldati dello stregone, e forse nemmeno ne è a conoscenza, non è lui il solo ad aspirare al trono: sono in molti che forti di un titolo nobiliare, dell'oro, di parentele reali o presunte si sono fatti avanti. E tutti vorrebbero il nome di monarca, ma possono guadagnare solo quello di usurpatore». A quelle parole i cacciatori borbottarono qualche breve frase d'assenso. Una luce torva attraversava i loro sguardi. «Non è un caso se ho cominciato questa serata parlando di Dei», disse Llys. «La principessa continua a ripetere che la libertà di culto è stata e deve essere uno dei cardini della civiltà di Levant. Ma i preti vestiti di rosso,
quegli stessi che sono solerti nel proteggere il proprio gregge da ogni influenza esterna, profittando della loro fama di uomini di cultura si sono insinuati nelle case dei nobili e dei ricchi mercanti. Hanno cercato nelle nostre dimore libri antichi da cui poter apprendere, e giovani cuori a cui insegnare: e i nobili che non vedono più nella regina e nella sua erede velata la voce della Dea in terra, adesso si rivoltano contro la corona che avevano giurato di servire». «Sono parole dure, le tue», mormorò Jordan con espressione corrucciata. «E forse confondono causa ed effetto», obbiettò Sethrian. «Nessuno mi accuserà mai di essere un simpatizzante del clero. Ma mi sembra più facile dire che i nobili, mossi dal desiderio di essere indipendenti dalla casa regnante, abbiano trovato in una diversa fede la chiave per segnare il confine tra il loro ruolo e quello di una regina che è quasi dea. Forse così non si sono mostrate le ultime signore di Levant, ma in questi termini le descrive la tradizione antica, e così appaiono ancora, lontano dalle città e dai castelli, dove la vita cambia seguendo ritmi diversi, talmente lenti, a volte, da sembrare immutabili». «Non ho detto che Vultur con i suoi sacerdoti si sia posta lo scopo di minare dall'interno la compagine di Levant», ribatté l'altra. «Ma ciò che contano sono i risultati». «E i sacerdoti di Levant?», domandò Aelin, affascinata dalla discussione. «Sacerdotesse della Dea sono solo le donne della famiglia reale», spiegò Llys scuotendo il capo, «la principessa ricorda che questa tradizione è nata con il regno, ma io mi chiedo se in essa non si celi il seme di un errore». «A ogni modo è il vuoto di potere, e non le trame di Vultur, la causa della situazione attuale a Levant», fece Jordan con una certa asprezza. «E questo ci riporta a una sola persona: Isengrin». «Non posso rigettare le vostre parole come vane menzogne», ammise la guerriera, «e voi oggi ci avete visto combattere contro le truppe di un uomo che divide la nostra stessa fede. Ma Christofer non sarebbe sceso in campo, se non ci fossero stati altri pronti a farlo. Io torno a dire, con Felicia, che questa battaglia ci tocca combatterla senza aiuti di sorta. E poi... preferisco vedere dietro la strage la volontà di uno o forse più pretendenti al trono, anche se sono stati i varchi di cui andate parlando ad aprir loro la via. Non credo e non voglio credere che la mia regina e troppi di coloro che le erano intorno siano caduti solo perché così volevano i piani incomprensibili di un oscuro seminatore di caos. No, è troppo orribile morire per
mano di un nemico che non si cura né della tua identità né del tuo nome, ma solo di colpire, provocando più danno possibile». «Credo di poter capire i tuoi sentimenti», disse Sethrian con una smorfia. «Non è detto comunque che le nostre strade non debbano tornare a incrociarsi», sottolineò la donna. «Spero solo che un giorno non ci scopriremo avversari». I cacciatori si congedarono all'alba e proseguirono per la loro strada. Llys promise che avrebbe parlato alla principessa di Isengrin, dei draghi e di ogni altra cosa. Tuttavia la donna era lieta che stregoni e creature alate restassero ancora per la sua gente figure vaghe e indistinte, né tentava di nasconderlo. La giornata trascorse lenta. Al tramonto giunse Jade, e con sé aveva la lama d'ombra. «L'idea di poter incassare più soldi ha riempito di luce gli occhi del mio fratellino», disse la donna. «Forgerà due spade per venderle a entrambi i contendenti, e si riempirà le tasche d'oro. Inoltre, anche se si vanta di non essersi mai schierato nei conflitti delle nazioni civili, non gli dispiace sapere cosa accade nel mondo esterno. Cosi mi ha chiesto di seguirvi. Almeno sino a quando non avremo ottenuto il prezzo pattuito». «Dovremmo fidarci?», domandò Jordan. «Non ho chiesto la vostra fiducia», disse l'altra con un sorriso obliquo. «Ma solo di viaggiare con voi». «E tu?», insisté il giovane. «Tu ti fidi di noi?». «Come potrei non fidarmi della parola di un cavaliere della fede?», rispose la donna in tono ironico. «Non ci sono solo cavalieri», obbiettò Sethrian. Il mago sedeva un po' discosto dagli altri, ma i suoi occhi penetranti non avevano perso il loro brillio. «L'ultima cosa di cui avete bisogno è un nuovo nemico», disse Jade. «E questa consapevolezza vale molto più di quella che viene comunemente chiamata fiducia». Il rumore dell'acqua, salici piangenti che dispiegavano le loro cortine di fronde, la ruota di un mulino che girava pigra, un sottile ponte di legno. Aelin si riempiva gli occhi di quell'immagine, bella di una bellezza quasi troppo piena, che rischiava di apparire oleografica se catturata in un qua-
dro o una descrizione, ma che adesso, invece, dispiegandosi di fronte a lei le colmava d'incanto lo sguardo. Il sole iniziava solo adesso a scivolare lungo la linea dell'orizzonte, ma la giovane e i suoi amici avevano scelto di fermarsi in quel villaggio a poche ore da Vultur per la solita vecchia storia: l'alleanza con i draghi era un fatto troppo strano e inconsueto, non era ancora tempo di ostentarla. Una volta ricongiunti a Gwyon che li aspettava con i cavalli, l'ultima parte del cammino l'avrebbero percorsa abbandonando le vie del cielo. «Sei pensierosa», disse Jordan ad Aelin, raggiungendola. «Lo sono spesso, e lo sai», mormorò lei. «È una delle tue doti, in effetti. Posso chiederti a cosa stai pensando?». «A nulla, in realtà». «Eppure ce ne sono successe di cose negli ultimi tempi». «Oh, sì. Abbastanza da riempire circa otto dei miei quaderni di romanzo, direi. Solo continuo ad avere la sensazione che ci muoviamo alla cieca tra le spire di un labirinto di cui non vediamo il confine». «È una perifrasi poetica per dire che continuiamo a girare a vuoto?», domandò l'altro con un sorriso. «Non è finita ancora. Con il ritorno delle prime nevi Rhory vorrà essere ad Aquilon». «Per combattere i lupi, intendi», sussurrò Aelin mentre scendevano i gradini del vecchio ponte. «Non so quanto quanta saggezza o ragionevolezza ci sia, in tutto questo. Come Sethrian ha detto a Llys, stiamo rischiando di confondere la causa con l'effetto». «D'altro canto non abbiamo formulato ancora una strategia precisa contro Isengrin, mi sembra, e se abbiamo messo dei buoni colpi a segno è stato essenzialmente per caso. O forse dovremmo chiamarlo destino... ma a ogni modo non possiamo sapere che cosa ci riservi lo scontro con i lupi». La giovane non disse nulla. C'era, nelle parole caso e destino, qualcosa che la turbava. E non sapeva bene che rispondere all'altro. «Certo, c'è la traccia delle spade», continuò il ragazzo, «ma potrebbe rivelarsi un vicolo cieco». «Quanto scommettiamo che non riusciremo a leggere fino in fondo quel maledetto libro neanche stavolta?», domandò lei con un sorriso. «Sarebbe una scommessa che non vorrei vincere». Aelin annuì, lasciando scorrere le dita tra le fronde di un salice. «E l'incontro con i ribelli di Levant?», domandò poi. «Anche questo è opera del caso-destino?». L'altro socchiuse gli occhi. «È un po' presto per dirlo, non credi? Piutto-
sto, che ne pensa la mia scrittrice preferita dei nuovi personaggi comparsi sulla scena?». Aelin sorrise. «La scrittrice ha sempre pensato che c'era una carenza di personaggi femminili, ma adesso le sorti si sono un tantino riequilibrate, mi sembra». «Questo è un modo molto originale per non dare una risposta precisa», fece Jordan, e sorrise a sua volta. «Llys mi piace. È fiera e decisa, eppure controllata. Ammiro la sua determinazione». «Di sicuro anche la principessa deve tenerla in grande considerazione». «Se c'è davvero, una principessa», mormorò Aelin. «Che intendi dire? Credi che mentissero?». «Non ne sono certa. Ma una principessa fantasma è meglio di niente, quando non si hanno altri candidati da opporre ai pretendenti avversari». «Senza contare che nessuno conosce il volto di Felicia», rifletté il cavaliere. «Al momento giusto, si potrebbe sempre trovare qualcuno che interpreti il suo ruolo». «Staremo a vedere». «E di Jade? Che ne pensi?», aggiunse Jordan. Aelin scrollò le spalle: «Lo chiedi a me o alla scrittrice? Dato che, a quanto sembra, parlare con la seconda non ti turba più tanto». «Ho cercato di rappezzare il mio equilibrio interiore di questi tempi, e il tuo mistero è sempre stata l'ultima cosa a turbarmi». Aelin accennò un sorriso. «Però, se non sbaglio io ti avevo fatto una domanda», insistette il cavaliere. «Jade...», ripeté la terrestre in un soffio. «Ti confesso che mi lascia da pensare. Forse perché il personaggio di Aelin e la... scrittrice non sono ancora arrivati a un accordo, in merito». «Non sono sicuro di capire». «È strano, ma i ladri riscuotono molto più successo nell'immaginario fantastico di quanto non ne abbiano nella vita reale. Scaltro, astuto, furtivo, un ladro è il genere di persona che non vorresti a casa tua. Specie se non possiedi un buon allarme. Ma quando leggi un libro tutto cambia». «Vuoi dire che le regole morali non valgono più in una storia?», chiese Jordan, perplesso. «No, ma in una storia tu puoi scoprire le motivazioni profonde di ogni personaggio. Non è nemmeno necessario che il ladro del racconto metta la
sua arte al servizio di una giusta causa perché venga riscattato. Anche se questa è ovviamente la soluzione più semplice. In realtà quello che è essenziale è un'etica personale che sia condivisibile, e potrei citarti almeno un paio di figure della letteratura di consumo dei miei tempi al riguardo». «Un'etica personale che sia condivisibile? A parte la deprecabile attitudine di non rispettare la proprietà privata, intendi?». «Se rubi per fame sei perdonato. Se rubi solo ai ricchi è facile chiudere un occhio per il lettore che non possiede diamanti grandi quanto un pugno, o altre gemme di pari bellezza. Forse perché è più facile identificarsi più con il ladro che con il derubato». «Io qualche gemma notevole dovrei averla nel tesoro di famiglia», commentò Jordan. «Ma anche a volerti dare ragione tu stai parlando dei ladri in astratto, non di Jade». «Forse perché una parte di me è portata a dare un giudizio negativo su di lei, per il semplice fatto che è una ladra. Né potrebbe essere diversamente: i ladri sono parassiti della società, persone sgradevoli che incontri in momenti ancora più sgraditi, sono un pericolo, una minaccia, e nessuno potrebbe contestarlo». Aelin tacque per qualche secondo. «Poi...», riprese, «poi incontro Jade. Che, detto per inciso, non mi ha mai frugato nelle tasche, né puntato un coltello alla gola. Non so se lo abbia fatto ad altri, ma l'incertezza rende meno perentorio il mio giudizio su di lei. So che è una ladra, così si è presentata, ma guardandola vedo una donna dai tratti aspri e dalle movenze feline, una donna che ha tutte le carte per essere un'ottima alleata se solo...». «Se solo riuscissimo a convertirla al partito dei ladri che hanno aderito a una giusta causa?», concluse per lei Jordan. «Sto dicendo solo sciocchezze, lo so», disse Aelin prendendo fiato, e si passò una mano tra i capelli. Jordan fece spallucce: «No. Forse mi serve un attimo di pausa per assimilare quello che hai detto». La ragazza abbozzò un sorriso. I suoi occhi scivolarono verso il tramonto, e il rosso dei suoi colori. Ma presto giunse una voce a riscuoterla dai pensieri. «Io non voglio cercare di incantarti con false promesse. Però guarda la realtà dei fatti, Jade». Era Sethrian a parlare: lui e la ladra si erano fermati sul ponticello di legno nei pressi del mulino. «I nostri scopi forse non sono in sintonia con i vostri», continuava il ma-
go, «ma almeno hai la possibilità di conoscerne fino in fondo le conseguenze. Isengrin è un'incognita, possiamo solo provare a ipotizzare il suo obbiettivo finale, ma non è difficile concludere che i suoi piani porteranno, in un modo o nell'altro, alla distruzione degli equilibri preesistenti. E questo, io ti chiedo, conviene a te e alla tua gente?». «A quanto sembra, non sei la sola ad aver abbracciato il partito delle conversioni», mormorò Jordan. «Perché, tu preferiresti che i ladri si alleassero con Isengrin?», sussurrò Aelin in risposta. «Non ho detto questo». Il cavaliere tirò Aelin un po' indietro, attraverso la cortina delle foglie del salice. «Quanto hai detto è vero», fece Jade a Sethrian in quel momento. «Ma dubito che basterebbe a convincere Cylair, il mio adorato fratellino. È un vile, un avido, un cialtrone e un opportunista. Sto solo elencando la parti migliori del suo carattere. Inoltre ho il sospetto che un accordo più o meno leale con le autorità costituite vada contro la sua morale». «Magari mi basta convincerlo che non è buona cosa essere alleati di Isengrin», ribatté Sethrian. «Vedremo», promise Jade. «D'altro canto, sono con voi per osservare, e questo sto facendo». «E cosa hai visto finora?». «Troppo poco per trarre un giudizio definitivo, abbastanza per capire che la questione ti sta davvero a cuore, mago». «Ho i miei buoni motivi». «No. Non si tratta solo di questo», rispose la ladra, e il suo sorriso parve ad Aelin assai strano. «I tuoi occhi sono spenti, Sethrian, offuscati dal dolore per la magia che hai perduto. Si accendono di nuova luce solo quando inizi a intessere piani contro lo stregone vostro nemico». «È un modo per tenere la mente lontana dalle mie sventure personali, immagino». «Tu non credi che a Lilài riusciranno a liberarti, non è vero? Altrimenti per quale motivo dovresti attardarti così, lontano dalla città delle acque?». «Forse perché esporre la mia pena fa parte del gioco, mentre cerco di conquistare nuove forze alla causa», fece Sethrian con una smorfia. «O forse temo che questo cerchio di ferro che mi hanno costretto a indossare potrebbe trasformarsi in una trappola ancor più letale quando verrà sfilato dalla mia testa. I modi d'agire di Isengrin sono insidiosi, abbiamo avuto già
modo di impararlo». Jade stirò le labbra: «Forse la soluzione che cerchi non è a Lilài, mago. C'è altra gente che ha le arti magiche. Alcuni li troveresti nel nostro covo, e gli incantesimi di scioglimento sono tra le loro specialità». «Vedremo», disse l'incantatore accennando un sospiro. Aelin era ancora ferma sotto il salice. Jordan la teneva per un braccio, e fissava la scena con sguardo attento, come se non volesse perdersi una virgola di ciò che si dicevano il mago e la ladra. «Ti sento scettico», sussurrò Jade avvicinandosi a Sethrian. «O mi sbaglio?». «Forse no». «Sai cosa credo? Non sarà la lotta contro Isengrin ad allontanare la tua mente da quel cerchio che la cinge. Perché tutti i tuoi pensieri continuano a girare attorno a quell'anello, proprio quando più cerchi di distaccartene». «Dispensi parole di saggezza, adesso. E che altro credi? Cos'altro vorresti consigliarmi?». Era così insolito il tono di Sethrian... «Qualcosa che non ti faccia pensare?». «Quello che vuoi». Aelin sgranò gli occhi. «Si stanno...». Chiuse le palpebre, le riaprì, non credeva a quello che vedeva. «Si stanno...», balbettò. «Faremo meglio ad andare», le disse Jordan. «Si stanno baciando!», concluse la giovane, mentre l'altro la trascinava tra gli alberi. «Non credo fosse carino continuare a guardare», osservò il cavaliere, strappando una fronda di salice. Aelin si tormentò con le dita una ciocca dei lunghi capelli. Fissò prima l'amico, poi il vuoto, con sguardo inquieto. Infine fece un gran respiro e scosse la testa, con espressione divertita. «Forse dovrei ritirare quanto ho detto sulla necessità di un incremento dei personaggi femminili», considerò abbozzando un sorriso. Jordan non disse nulla. La scrutava, quasi la stesse studiando. «Che c'è adesso?», fece Aelin. «Forse dovresti dirmelo tu». «Io? Nulla! Sono sorpresa. Tu no? Insomma, nulla lasciava immaginare...». «Come non immaginavi di Lint, intendi?».
«Ma è diverso! Lì i segni c'erano, ero io che non li vedevo, però ho potuto ricomporli dopo». Jordan fissò la terrestre per un istante, poi scosse lentamente la testa: «E io che volevo soltanto sentire cosa si dicono maghi e fuorilegge lontano dalle orecchie dei cavalieri! Dovresti vedere che espressione hai in questo momento: sprizzi gelosia da tutti i pori». «Gelosa! Io! Di Sethrian!», sbuffò la giovane. «Non vorrai ricominciare con questa storia, spero!». «Perché no, se può servire a farti ragionare». «E va bene, forse lo sono», ammise lei in un sospiro. «D'altronde si può anche esserlo di un amico, o di un fratello, no?». «Povera Aelin...», fece l'altro sorridendo, e le passò una mano tra i capelli. «Quello che mi ha dato veramente fastidio è stata la sorpresa. Ancora una volta ricado nella sindrome della scrittrice che dei suoi personaggi conosce tutto, e tutto vuole conoscere, forse anche prima di loro stessi». «Questo vuol dire che se ci fossi stato io al posto di Sethrian non avresti fatto una piega», osservò Jordan, in un tono che quasi sapeva di tristezza. «Guarda che sei da tempo tra i personaggi ufficiali, anche se non ho mai scritto un rigo su di te», sussurrò la giovane; poi socchiuse gli occhi. «C'è dell'altro, comunque. Io sono sempre stata timida, insicura, e il mestiere della profetessa errante non mi infonde un particolare senso di stabilità. Però ho voi intorno, ed è molto importante. Mi farebbe paura vedervi prendere direzioni diverse da quelle che... insomma sembra proprio, come qualcuno mi ha già accusato, che io sia una piccola egocentrica, e pretenda che ogni vostra attenzione ricada su di me». L'altro si concesse una breve risata. «Magari sarai proprio tu, ad allontanarti». La ragazza inclinò la testa. Allontanarsi. Certo, aveva più probabilità di farlo lì che non nel suo mondo, eternamente chiusa nel proprio guscio. Il vento aveva preso a fischiare. Aelin suggerì che forse avrebbero fatto meglio a rientrare. Le torri di Vultur, bianche e silenziose, si stagliavano contro il cielo terso. «La città del Signore del Tempo...», sussurrò Jade, ammirata. «La città è bella», ammise Sethrian. «Però non estenderei un simile giu-
dizio a tutti gli abitanti». «È una massima che vale per molti luoghi, credo. Compreso quello da cui vengo io». La donna tacque un istante. «È una mia impressione però, o il cavaliere di Thule in questo momento ci sta fissando con uno sguardo un po' torvo?». «A Jordan non piace che si parli male della sua chiesa. Forse ha paura di trovarsi a condividere un po' troppo le opinioni dei suoi detrattori. Tu non c'eri, ma di recente ha già dovuto sorbirsi le dissertazioni di una certa guerriera di Levant sul tema». «Gli uomini del sud di Levant sono sempre stati intransigenti in fatto di religione, per un verso o per un altro. La gente originaria delle nostre montagne è molto più accomodante invece, né mi riferisco solo ai fuorilegge». «Continua, ti prego, è interessante». «Esistono diverse tradizioni. Io ho sentito le più disparate. Ma tutte sono volte a conciliare l'esistenza del Dio e della Dea. Più complicato è cercare di stabilire chi dei due avrebbe la preminenza. Ma tanto per Vultur queste credenze sono tutte eresie. E anche nella Levant civile sono state liquidate come superstizione». «La vostra discussione è davvero interessante», disse Jordan in quel momento, «ma temo che dovrete rimandarla». Un uomo a cavallo stava venendo verso di loro. «Non potete avvicinarvi di più», annunciò il nuovo venuto «l'accesso a Vultur è stato interdetto!». «Una nube verde aleggia con i suoi vapori tra le navate del tempio, il demonio dalla maschera d'argento ha inondato la nostra città con i suoi mortali veleni». Le parole del Santo Guardiano erano cupe, come cupa era la luce nei suoi occhi violetti. Per questo i giovani non erano potuti giungere sino alla città sacra, ma le guardie li avevano scortati via da Vultur. «Se non mi fossi trovato vicino la cattedrale nel momento in cui il portale veniva aperto, se non fossi stato lì a sentire le sue vibrazioni, io non so cosa sarebbe accaduto», spiegò Palen scuotendo la testa. «Per fortuna mi sono accorto in tempo di quel che stava accadendo, e abbiamo potuto evacuare la città». «E non ci sono stati morti, sia lode a Dio», aggiunse il sacerdote, «ma questo rimane per tutti noi un duro colpo». Aelin e i suoi amici si guardarono attoniti. Non era il ritorno che si aspettavano.
«La nostra storia finisce qui», tornò a dire il Padre Guardiano. «C'è comunque un lato positivo, più o meno. Avevo richiamato i patriarchi della fede, perché la chiesa formulasse un parere unanime sugli ultimi eventi e perché ci sono delle decisioni da prendere. E i miei alti prelati forse non si rendono conto di essere scampati a un pericolo che poteva diventare mortale; rimpiangono però le ricche sale di Vultur, i letti di piume, i caldi tappeti e i banchetti. Ci si è premurati perché sapessero chi devono ringraziare di tutto questo. Ma anche così rimane una fazione che è ostile a ogni compromesso, questo non posso negarlo». Aelin inclinò appena il capo. Il sacerdote li aveva ricevuti nello studio della sua residenza estiva, appena fuori le mura: l'edificio con la sua pietra dorata, gli scaloni e le balconate protesi verso il giardino, faceva mostra di sé nel verde che lo circondava. Ma rimaneva pur sempre una modesta dimora di campagna, in confronto all'interminabile sequenza dei saloni e dei chiostri di Vultur. «A che punto siete arrivati?», domandò Sethrian. «Discutete ancora dell'alleanza con Lilài oppure è già ai draghi che tocca ricevere il vostro avallo?». «Si parla di entrambe le cose in realtà. È prematuro invece accennare a contratti con i ladri, o alle lotte di Levant». Sui ladri nessuno avrebbe obbiettato, non a caso Jade non era presente. Per quel che riguardava Levant la faccenda poteva essere diversa, e la terrestre corrugò la fronte. «Mi fido del vostro parere», disse invece Sethrian. D'altronde si trovavano a Vultur, era alle tuniche rosse che toccava scegliere la strategia. «Non sono sicuro di aver capito», intervenne Gwyon. «Se il Concilio si pronunciasse negativamente cosa accadrebbe a queste alleanze che di fatto ormai esistono?». «Proprio nulla, temo», rispose il sacerdote con un mezzo sorriso. «Il Santo Guardiano ha la prerogativa di porre il veto sulle sentenze che vadano contro i suoi voleri. Io ho sempre cercato di non abusarne, però in situazioni particolari bisogna adottare una linea di condotta adeguata». «A livello teorico mi riesce difficile approvare un simile sistema di votazioni», ammise Sethrian con un sospiro. «Ma in questo momento e in queste circostanze...». «Con il sostegno di Vultur, anche Aquilon si mostrerebbe più decisa nel sostenere certe insolite alleanze», sottolineò Jordan, «e i nostri castelli sa-
rebbero molto più protetti se ci fosse un drago a guardia di ognuno di essi». «Non abbiamo ancora perso, mi sembra», disse il Guardiano in tono imperturbabile. «Anche se, devo ammetterlo, la parte avversa può contare sulla lingua pronta di un giovane brillante e testardo. Lo avete conosciuto: si tratta di Ethienne, della città di Zephyr». «Non è vostro nipote?», domandò Aelin sorpresa. «In persona. D'altro canto la figura di un parente così in alto nella scala gerarchica getta un'ombra fitta su di un giovane ambizioso e intraprendente. Ed Ethienne intende in tutti i modi farsi valere. Vi diranno che ero contrario alla sua nomina a patriarca, forse. Che solo controvoglia ho ceduto. Ma è risaputo: non tutto quello che si dice corrisponde a verità, e spesso le apparenze vogliono trarre in inganno». «Credo di aver capito», mormorò la terrestre, e sorrise. «Nessuno sospetta che l'armonia in famiglia sia maggiore di quanto vorrebbero le voci?», chiese Sethrian. «Chi sospetta c'è sempre, né l'ostilità tra il patriarca di Zephyr e il Padre Guardiano è poi così monolitica e incrollabile. Ma la pletora degli arrivisti travestiti da uomini di fede è incline, per sua stessa natura, ad accettare la storia del nipote ambizioso e dello zio che solo malvolentieri si serve del suo ingegno». In quel momento un rumore di passi giunse a interromperli. Un servitore vestito di grigio si avvicinò al Santo Guardiano e mormorò qualcosa. «Vogliate scusarmi», disse quest'ultimo. «Sembra che i miei sacerdoti abbiano ripreso a litigare per stabilire a chi tocchi essere ospitato nella residenza, chi debba dormire in una tenda e chi in una delle locande vicine. I vapori verdi di Isengrin hanno spazzato via d'un sol colpo le regole di un'ospitalità ritualizzata nel corso di secoli. E queste sono le conseguenze». Si allontanò. Gli altri restarono per un po' a guardarsi. Gwyon si diresse alla finestra. Aprì gli scuri. Da lì lo spettacolo della foschia smeraldina che aveva invaso Vultur era impressionante. Le nubi, più dense e scure a una decina di metri dal suolo, spezzavano quasi a metà le alte torri slanciate, cingendole con un anello oscuro. Tutt'intorno filamenti translucidi e vapori sfilacciati dall'aspetto serpentino si insinuavano tra le finestre ad arco acuto e le colonne sottili di pietra bianca e rosata. A tratti la nebbia verdastra appariva come un velo lattiginoso, a tratti si squarciava e le sue frange assumevano le sfumature di un arcoba-
leno malato. Il vento giocava tra gli archi delle torri deserte, creando una trama incantata nella nube mortale. Il silenzio regnava sopra ogni cosa. «Isengrin ha iniziato a chiudere i suoi varchi», annunziò Palen. «Molti di quelli che avevate individuato durante il vostro primo viaggio verso Aquilon adesso non esistono più». «Ed è un bene o un male, questo?», domandò Gwyon. «Non lo so», ammise il mago. «Potrebbe voler dire che non riesce a tenerne aperto più di un certo numero», ipotizzò Aelin, «e quindi alcuni ha dovuto abbandonarli». «Oppure non gli serve più colpire alla cieca», disse Sethrian cupo, «perché adesso ha imparato ad aggiustare il tiro, e può concentrarsi sui suoi reali obbiettivi. Allentare la presa va a suo vantaggio, anzi, poiché qualcuno presto potrebbe giudicarlo un pericolo meno incombente di Lilài e dei suoi draghi». «I draghi non appartengono a Lilài», protestò Rhory quietamente. «No, ma saranno in molti a pensarlo». Ribatté il mago. Il cavaliere prescelto si passò una mano sul volto. «Io speravo che l'episodio di Benjamin sarebbe servito da esempio, riguardo alla questione dei figli del fuoco!». «Secondo Benjamin i draghi erano delle entità demoniache, o questo almeno dava a intendere», disse Jordan con un sospiro. «Se la gente del regno di Aquilon vedesse nei draghi i nuovi animaletti da compagnia degli incantatori avremmo fatto già un passo avanti». «Non sino a quando i maghi verranno considerati alla stregua di entità demoniache», lo corresse Sethrian, trattenendo a stento un sogghigno. «Voi credete che Isengrin adesso ci riesca davvero?», esclamò Gwyon all'improvviso. «A scegliere con esattezza dove si formeranno i suoi varchi, intendo». «Non possiamo dirlo», ammise Palen scuotendo la testa. «Il caso di Vultur resta isolato, sin ora». «A parte la reggia di Levant», gli ricordò Jordan, «e il salto del fiume lì, tra i monti al confine». «Nel caso del fiume Isengrin aveva un margine di approssimazione di parecchi chilometri», obbiettò il mago. «Né sappiamo che cosa sia accaduto davvero nella capitale di Levant». «Inoltre per quale motivo», sussurrò Aelin, «se lo stregone avesse sviluppato una simile abilità, ora dovrebbe astenersi dall'usarla?». «E noi non saremmo più qui», fu il lugubre commento di Sethrian, «a
farci domande di tal sorta». «Il varco dei lupi è ancora attivo?», domandò Rhory in quel momento. «Lo è a quanto ne so», rispose Palen. «Ma non vuol dir nulla. Isengrin sa da tempo che conosciamo quel portale: potrebbe decidere di lasciarlo aperto solo per sviare la nostra attenzione». «Avrei preferito che non ci fosse più». «Proprio allora mi preoccuperei io», ribatté invece Jordan. «Forse Isengrin non ha ancora una completa padronanza della magia dei varchi», disse infine Palen. «Ma sta imparando. Dobbiamo temere il momento in cui non avrà più nulla da apprendere». «Riguardo a questo c'è qualcosa che vuoi mostrare ai tuoi amici, non è vero?», disse il Santo Guardiano, che proprio allora aveva fatto ritorno. «Stavo aspettando voi». Il sacerdote annuì e si avvicinò allo scrittoio. Prese una chiave d'argento da una delle tasche della sua tunica. La chiave apriva un cofanetto di metallo finemente inciso. Dentro di esso giaceva un volumetto dalla copertina consunta, che Aelin aveva già visto. «Ho quasi paura», sussurrò la giovane. «Tutte le volte che ci avviciniamo a quel libro succede qualcosa di strano e imprevisto». «Vedremo di battere gli imprevisti sul tempo», rispose Palen con un sorriso. «Allora, già lo sapete, ho scoperto che poggiando la rosa dei venti sulla copertina del libro ogni enigma svanisce, e tutto il suo sapere si apre ai nostri occhi. O almeno, io spero sia tutto». «Insomma: si può leggere adesso?», chiese Aelin allungando una mano verso il volume. «Soltanto se conosci la lingua antica. Ma io l'ho tradotto...», Palen gettò un'occhiata verso il Padre Guardiano, «e un paio di sacerdoti hanno controllato quello che andavo decifrando. Se vogliamo leggere, dunque...». Era una domanda retorica. Tutti lo volevano, ovviamente. XIX LA FRECCIA La magia dei varchi non appartiene a questa terra, non le è mai appartenuta. Era un'arte degli Elaunoi, che vagavano tra gli universi, affamati di bellezza e sapere. La saggezza degli Elaunoi era grande, ma il popolo delle stelle per molto tempo non vide - o non volle vedere - che il seme della distruzione era
insito nella chiave della sua gloria. I varchi aperti tra i mondi erano figli di Caos e Entropia... «Che diavolo vuol dire Entropia?», chiese Jordan sollevando il capo dalle traduzioni di Palen. «Dalle mie parti indica la naturale tendenza del calore a diffondersi in maniera uniforme», gli spiegò Aelin, «un tempo raccolta e concentrata negli ammassi luminosi delle stelle, l'energia resterà negli infiniti spazi cosmici in granelli impercettibili e assolutamente inutilizzabili. I più fiduciosi dicono che poi l'universo tornerà a contrarsi... ma qui la situazione è un'altra, dato che si parla di varchi tra più dimensioni». Il cavaliere di Thule la guardò stralunato. «Io non ci ho capito nulla», farfugliò Rhory. «Io ho capito solo che i varchi sono dannosi», fece Gwyon. «A quello ci arrivavo anch'io...». «Diciamo che Entropia è sinonimo di Caos», propose Sethrian, «e noi intanto continuiamo a leggere, che ne dite?». Quando compresero che i portali potevano condannare gli universi alla morte del Caos, gli Elaunoi decisero di porre fine alla loro magia. Si ritirarono dai mondi sigillando le soglie che avevano aperto, lasciando dietro di sé soltanto il ricordo di prodigi ineffabili. Medesima sorte venne riservata al pianeta che noi calpestiamo; il popolo delle stelle lasciò questa landa ai figli della terra e a quelli del fuoco, che erano stati condotti qui da altri regni lontani per vivere in armonia e in pace. «Quali regni lontani?», domandò Rhory. «Forse proprio la terra di Aelin», propose Jordan. «Questo spiegherebbe perché parliamo la stessa lingua». «E quella antica invece è diversa perché apparterrebbe agli Elaunoi?», domandò Sethrian. «Sarebbe sensato, ma è il genere di teoria che mi mette addosso uno sgradevole senso d'inquietudine». «Non dirlo a me», fece Aelin scuotendo la testa. «Comunque sia non dobbiamo prendere per oro colato tutto quello che c'è scritto», ricordò il cavaliere di Thule. «Se sento parlare ancora una volta della luminosa nobiltà degli Elaunoi, io vomito», annunciò la terrestre scuotendo il capo.
«Mi chiedo il perché di tutta questa ostilità nei confronti della bontà d'animo», osservò Rhory. «Forse perché», disse Jordan con un sorriso, «siamo costretti a ricordare che noi non l'abbiamo?». «O più semplicemente perché questo libro è stato scritto dagli Elaunoi o dai loro seguaci», intervenne Sethrian, «e c'è qualcosa di indelicato nel parlare della propria bontà. Suona... come dire...». «Spudoratamente falso», concluse Aelin per lui. Tutti i mondi però sono destinati a finire, i soli si spengono, lo scorrere delle ere ha spesso il rintocco della catastrofe. Perché la loro partenza non fosse una condanna senza appello gli Elaunoi non vollero che i varchi fossero perduti per sempre. Pagine antiche, coperte di rune, disveleranno la strada quando ogni altra via sembrerà all'uomo preclusa. Ma perché il segreto non venga alla luce prima del suo tempo, sei lame incantate fanno da guardia al mistero. E solo chi riuscirà a ricomporre il cerchio delle spade potrà sfogliare il libro stregato. «Così abbiamo la conferma che Isengrin non è mosso dalla passione di collezionare armi rare», commentò Jordan. «Sapevamo già di doverlo ostacolare in questo suo intento», osservò Rhory. «Adesso», ribatté Sethrian, «sappiamo che dobbiamo precederlo». «Tu... credi?», disse il cavaliere dai capelli biondi, perplesso. «Il sapere custodito dalle spade è l'unica arma che ci consente di opporci alla magia dei varchi. Isengrin procede a tentoni su questa via ma è anni luce avanti a noi...». «...e come ha detto Palen, sta imparando», concluse Aelin. «Vuol dire che anche tu sei del parere di Sethrian?», domandò Jordan. «Io comprendo le vostre ragioni, ma credete davvero che sia saggio dissotterrare il tesoro ambito? Potremmo ritrovarci a offrirlo su un piatto d'argento al nostro avversario». «I varchi rappresentano un rischio mortale, così è scritto», ricordò il mago. «Non solo per le creature che i portali riescono a vomitare, ma per la loro stessa esistenza. Devono essere chiusi. Non conosciamo l'entità del pericolo, è vero; potrebbero volerci secoli, o millenni perché la minaccia delle fenditure dimensionali si realizzi. Ma la trama del reale potrebbe iniziare a frantumarsi tra un giorno, tra un anno...».
«Se non ha già cominciato a farlo», aggiunse Aelin. «Io, vi ricordo, sono giunta da un varco che nessuno si era dato pensiero di aprire». «Mi chiedo se Isengrin sia a conoscenza di un simile pericolo», mormorò Gwyon. «Non ne ho idea», disse Sethrian. «Ma per quello che sappiamo... dalle nostre fonti... sembrerebbe di no. Forse la questione gli è indifferente. Comunque non possiamo avvertirlo: equivarrebbe a scoprire tutte le nostre carte». «Senza contare che con tutta probabilità non ci crederebbe», osservò Aelin. «Già», fece Jordan con una smorfia ironica, «a nessuno piace sentirsi dire che la propria arma preferita ha degli sgradevoli effetti collaterali, come la distruzione degli universi circostanti». «Dobbiamo cercare le spade», disse Rhory, «non vedo altra scelta. Le lame incantate continuano a pararsi sul nostro cammino, e non per una manovra di Isengrin. Adesso questo libro misterioso ci permette di dare allo stregone un colpo che potrebbe essergli fatale. Sembra che tutto si stia ricomponendo, non più sotto l'egida del caso, ma nella trama di un disegno che chiamerei provvidenziale. .. se non fosse per il fatto che almeno un paio di persone qui dentro storcerebbero il naso a una simile parola». «Ti ringrazio per l'ultima frase, Rhory», fece Aelin, «ha contribuito a smorzare il tono della tua tirata che era, tremo a dirlo, un po' troppo da... cavaliere prescelto». L'altro piegò il capo per un istante, poi si concesse un sorriso: «Dirò solo che sono ottimista allora, e che secondo me dobbiamo buttarci». «È una scelta saggia», mormorò Sethrian con voce dolce. «Altrimenti mi avresti costretto a ricordare che questo libro potrebbe essere facilmente definito opera del maligno, piuttosto che del Signore del Tempo». «Il Signore del Tempo raccolse le pieghe del suo eterno fluire», recitò Jordan a occhi chiusi, l'espressione intenta, «l'energia si fece materia, nacquero i soli e i pianeti. Tutto taceva, la terra percorreva la sua orbita avvolta in un silenzio immoto. Il Signore scelse questo frammento di roccia, dalle sue lacrime colpite dalla scintilla nacque la vita». «Non c'è alcun accenno agli Elaunoi nei nostri testi sacri», disse Gwyon scuotendo la testa, «e invece il libro stregato vorrebbe che ci avessero portato loro, su questo mondo». «Un buon motivo per tener nascosto quel volumetto al Concilio, non credete?», ribatté Sethrian.
«Io non sono turbato», ribatté Rhory scuotendo il capo, «ma capisco che per altri la faccenda potrebbe essere diversa». «Non è detto che il turbamento debba essere per forza una cosa negativa», disse Jordan. «Non per tutti almeno. Per me non lo è stato». Sei colonne guardavano a occidente, pietre bianche infisse tra le zolle erbose, di roccia levigata, priva di decorazioni. Sei alberi crescevano a oriente, e tra i loro rami si levava un manto di color verde cupo, anche in quell'autunno inoltrato. Il semicerchio di pietra si abbracciava a quello di piante vive, e questa era la radura in cui si riuniva il Concilio. «Conosco i miei sacerdoti», aveva detto il Guardiano, «molti di loro rifiuterebbero le parole di un incantatore prima ancora di averle sentite». «Quindi mi state invitando a tacere», era stata la placida risposta di Sethrian. «Cercherò di andare incontro ai vostri desideri». «Non ho detto che dovete rimanere in silenzio, non esattamente. Ma è meglio che voi maghi lasciate a qualcun altro il compito di esporre i fatti». «Non credo che avrò difficoltà al riguardo», borbottò Gwyon, «io non ricordo nemmeno il viaggio che dovremmo raccontare». Aelin era giunta alla conclusione che se il ragazzo fosse venuto a conoscenza dei segreti della sua memoria perduta, sarebbe successo nel peggiore dei modi. Perché tutti continuavano a tacere, al riguardo. Ma la giovane in quel momento aveva altro per la testa. Il Padre Guardiano, frattanto, non aveva ancora terminato di parlare. L'autorità che subordinava i cavalieri agli uomini di chiesa, disse, poteva essere usata come un'arma che imponesse loro il silenzio nel momento meno opportuno. Esclusi tutti gli altri, il sacerdote aveva indicato una persona ben precisa perché raccontasse le loro avventure: una fanciulla venuta da un altro mondo, una giovane che portava il nome d'indovina, una terrestre che si sentiva decisamente inadatta a pronunciare qualsiasi discorso. Le avevano fatto indossare un abito bianco con un mantello blu lucente, simile a una notte stellata. Così vestivano le antiche profetesse, e prima fra tutte l'Ancella dei Boschi, che conosceva il volto del Signore del Tempo. Aiutando la ragazza a prepararsi, Jade non aveva mancato di notare che il manto di drago della Dea dai Molti Volti non era poi molto dissimile da quello. La terrestre però si era limitata a sorridere: più di una dea aveva indossato e indossava simili ornamenti. Iside, per esempio, e non era la sola. Adesso Aelin osservava i sacerdoti con i loro sguardi severi. Toccava a lei, ormai.
Raccontò quanto le era stato detto di raccontare, incespicando talvolta sulle parole, narrò una storia di draghi e incantatori, dove tornava a far capolino una lama di nome Discordia, ma di tutte le altre spade stregate non fece menzione. Parlò di Isengrin e dei suoi luogotenenti, caricando le tinte fosche dei personaggi. Poi non restò che attendere. «Il vostro è un racconto affascinante, Aelin, tuttavia solleva molte domande», disse Ethienne scandendo ogni parola. Aveva una luce tagliente nello sguardo. «Non avete che da chiedere, e io cercherò di rispondere», ribatté la terrestre. «Forse le domande dovrebbero cominciare proprio dalla ragazza», borbottò un grasso prelato che sembrava sentire la mancanza degli scranni imbottiti di Vultur. «Molti misteri circondano la sua figura», ammise il patriarca di Zephyr. «E non tutti appartengono a questo mondo, si dice». Sethrian socchiuse gli occhi: il nipote del Guardiano offriva un appoggio formale all'uomo che aveva parlato, ma le sue parole quasi accrescevano l'aura incantata che circondava la ragazza. «Adorano il Signore del Tempo, nel luogo da cui provieni, fanciulla?», domandò Ethienne. «Io credo di sì. Ma non è quello il nome che gli vien dato». Un cupo mormorio attraversò l'assemblea. Simili parole erano dispiaciute a molti. «Il Signore del Tempo ha mostrato a noi il suo viso recitò con voce serena un anziano sacerdote ma ve salvezza per chi non l'ha scorto se ha saputo trovare la sua vera essenza». «Divinità fatte d'ombra si nascondono lungo il sentiero risuonò, quasi monotona, una cantilena dallo schieramento opposto
usano un volto simile al vero per intrappolarti con fatali lusinghe». «Una discussione teologica su un credo di cui nulla sappiamo sarebbe davvero avvincente», osservò Ethienne con leggerezza, «e d'altro canto bisogna apprezzare Aelin per la sincerità con cui ha voluto risponderci. Anche se immagino che non avesse scelta: in che modo avrebbe potuto nasconderci quanto ignora della vera fede?». «Credevamo che con la memoria anche simili insegnamenti sarebbero tornati alla mente dell'indovina», disse qualcuno che Aelin non conosceva, ma che doveva essere vicino al Padre Guardiano. «C'era chi lo credeva, lo sappiamo», ribatté Ethienne con un sorriso scaltro. «A volte però un'eccessiva fiducia si trasforma in presunzione». Un nuovo mormorio attraversò la radura. Aelin sbatté le palpebre: era come assistere a un gioco di cui non conosceva le regole, ma sentiva che il patriarca di Zephyr aveva appena riportato un punto a suo vantaggio. «Come può essere chiamata indovina del Signore, allora, questa fanciulla?», insistette il prelato grasso. «Io non mi sono mai arrogata un simile titolo», intervenne la giovane, «né vi ho parlato di visioni, ma solo di quanto hanno visto i miei occhi». «Come possiamo fidarci?», tornò a ripetere il prelato. «È comparsa nella cattedrale!», esclamò qualcuno. «Quella stessa cattedrale che adesso è invasa dai vapori mefitici?». «Il tempio di Dio è precluso al male. Così è scritto», disse il Santo Guardiano parlando per la prima volta. «Ma non può albergare il male in una coltre di fumo, poiché esso risiede nella mano che l'ha evocata». Il Concilio rispose con un cenno d'assenso rituale, ieratico. Ciò che diceva il Guardiano in materia di fede, non poteva essere contraddetto. A ogni modo, il patriarca di Zephyr approfittò del momento per indirizzare la discussione sul binario che più gli premeva. Chiese alla ragazza se fosse in grado di sentire le voci dei draghi. «I miei amici parlano alle loro menti», spiegò Aelin. «Io con i figli del fuoco ho scambiato solo dei segni tracciati sulla sabbia». «Assurdo!», protestò un sacerdote. «I draghi sono belve sanguinarie, non conoscono né scrittura né pensiero!». «In effetti hanno delle difficoltà a capire i simboli grafici», intervenne
Sethrian, «ma nel disegno se la cavano piuttosto bene». L'incantatore si guadagnò diverse occhiatacce. Ciò non parve turbarlo. «E chi ci prova che sia realmente così?», tuonò ancora uno dei prelati. «Potremmo convocare uno dei nostri amici dalle grandi ali», continuò Sethrian con il medesimo tono indisponente. Come da copione, un borbottio rabbioso e spaventato accompagnò le parole del mago. Ethienne tornò a farsi avanti. Nello stesso istante il sibilo di una freccia attraversò l'aria: Aelin cadde a terra, colpita. Silenzio. Un silenzio esterrefatto, cadde sulla radura. «Sono viva...», provò a dire la giovane, ma una fitta di dolore le deformò i lineamenti del viso. Sethrian si chinò su di lei, mentre Rhory, Gwyon e Jordan correvano dietro all'arciere sconosciuto. «Sono viva», ripeté la ragazza, in un soffio. «Lo so, ma non muoverti», le disse Sethrian. «Indossavo la veste di filo di drago sotto la tunica...». «Lo so», ripeté lui sorridendo, e le poggiò un dito sulle labbra, «l'urto è stato comunque forte, e poi...». «E poi, cosa?», sussurrò lei. «La stoffa di sotto non si è lacerata». Il mago sospirò, sollevato. «Temevo l'effetto del veleno, ma non hai nemmeno un graffio». «Veleno...», ripeté la ragazza serrando le labbra. «La freccia è pulita. Ti rimarrà solo un livido, Aelin. Qui, all'altezza del cuore». Era un livido piuttosto doloroso, a onor del vero. La terrestre però si guardava bene dal lamentarsi. Il Santo Guardiano aveva sospeso il Concilio. Del sicario non si trovava traccia. Jordan aveva raccolto un arco e una faretra gettate in un fosso, ma chi li aveva impugnati sembrava essere sparito nel nulla. «Dalle mie parti faremmo ricorso alle impronte digitali», aveva detto Aelin sollevando il capo dai cuscini. Poi, ovviamente, le toccò spiegare di che si trattava. «È ingegnoso», ammise Jordan. «Senza un sospetto a cui prendere le impronte per confrontarle con quelle lasciate sull'arco, un simile stratagemma servirà a ben poco», commentò Sethrian.
«Possiamo provare un trucchetto da incantatori però», disse Palen, «se non c'è un'interferenza magica». «L'onore tocca a te, io temo», fece Sethrian con un tono un po' aspro. Palen accennò un sorriso di scusa all'amico privato dei poteri. Si concentrò sull'arma. Comparve una pallida figura in nero, ma il suo volto era coperto da un panno stretto attorno al capo. «Non c'era bisogno di interferenze», mormorò Palen scuotendo la testa mentre l'immagine si faceva sfocata e poi svaniva, «questa strada è comunque inutile». «Era lui il sicario?», domandò Jordan. «Sì, per quello che ne abbiamo potuto vedere». «E aveva le mani guantate», osservò Aelin, «quindi, niente impronte». «Almeno abbiamo un'idea della sua corporatura...», disse Rhory. «Media», fece Sethrian scuotendo la testa. «...e l'altezza», continuò il cavaliere prescelto. «Media anche questa. Il che vale a dire che non abbiamo niente di niente in mano». «Io penso che il sicario ormai sia già lontano», considerò Gwyon. «Se non si è messo una tunica rossa per mescolarsi alla folla», obbietti) Jordan. «Il Santo Guardiano ha sguinzagliato i suoi uomini», tornò a dire l'apprendista mago con un sospiro. «Speriamo solo che le ricerche diano qualche risultato». «Io vorrei sapere chi c'è dietro tutto questo», fece Rhory scuotendo il capo. «E io vorrei averlo tra le mani», ribatté Jordan con espressione truce. «Di questo discuteremo poi», intervenne Palen. «Aelin deve riposare, adesso». «Sethrian?», chiamò la ragazza. Non erano passati che pochi minuti da quando gli altri se ne erano andati. «Ti serve qualcosa?», domandò il mago abbandonando le carte che stava studiando. «Vorrei che mi ipnotizzassi». «A scopo divinatorio?», le chiese l'uomo con un sorriso. «Ti sembra una cattiva idea? So che i miei cosiddetti poteri non sono serviti a molto, finora».
«A parte indicarci la presenza di un drago, la vera natura di Gwyon e di conseguenza il modo per infiltrarci nel covo del nostro nemico, intendi?». «Si tratta di cose che ho scritto, e non sognato». «Però tentar non nuoce», concluse Sethrian. Estrasse la lente esagonale che portava al collo. Per un istante fissò con amarezza quello che era il simbolo dei suoi poteri di mago. «Mettiamoci all'opera», disse, serrando le labbra. Aelin poté solo annuire. Si levò a sedere. Era strano, pensò alzandosi: il dolore sembrava svanito. Si voltò, e vide la propria figura addormentata, con i lunghi capelli color sangue sparsi sul cuscino. Il sogno profetico ha inizio, si disse Aelin. O almeno uno che pretende di essere tale. Se le illuminazioni poi non le giungevano dall'alto, avrebbe dovuto guardarsi un po' intorno; in ogni caso sarebbe stato divertente. «Ciao, ciao, Sethrian», sussurrò. Attraversò la barriera di legno della porta. I corridoi della residenza estiva del Santo Guardiano erano deserti. Solo gli occhi di alcune lanterne spente scrutavano la giovane al suo passaggio. Quando giunse alla grande scalinata che si affacciava sull'atrio, vide le figure rosse che si aggiravano nella sala sottostante. I sacerdoti si muovevano con lentezza, raggruppandosi in capannelli che si ingrandivano per poi tornare a disperdersi, e formarsi di nuovo. Era una danza arcana, fluida, sinuosa, e nella visione del sogno Aelin la vedeva ora fugace come le faville del fuoco che si spengono nell'aria, ora più lenta, quasi fino a raggiungere la stasi del tempo immobile. La giovane sbatté le palpebre, riscuotendosi da quella visione ipnotica, e scese di corsa le scale. Molti sacerdoti, presto si accorse, parlavano di lei. E non solo per l'episodio della freccia. Discutevano di ogni sua parola, soppesandola e analizzandola, cercando talvolta un significato nascosto che lei in alcun modo avrebbe saputo dare. Si chiedevano se fosse giocatrice o pedina nella complicata partita che aveva per scacchiere il regno. E pedina di chi, se tale era. Alcuni temevano che grazie a lei il Santo Guardiano avrebbe accresciuto il suo già grande potere, altri accusavano il capo della chiesa di eccessiva ingenuità.
Ma non c'è nessuno degli uomini che sostengono il Guardiano? Si chiese fra sé Aelin. Anche se poteva venir fuori che erano proprio questi i suoi alleati. Forse era lei che non riusciva a seguire le sottigliezze dialettiche delle tuniche rosse. «Ci sono notizie, Ethienne?». Il giovane scosse la testa. «Ho parlato a lungo con il Padre Guardiano, per sentirmi dire nulla di più di quanto già non sapessimo. L'indovina è illesa, riposa. E non ve traccia dell'aggressore». «Non abbiamo nessun indizio sulla sua identità?». Ethienne tornò a scuotere il capo. «Tuo zio non ha provato a incolpare il crudelissimo stregone che sarebbe alla causa di ogni male?». «Isengrin?», ripeté il sacerdote di Zephyr. «Non ci si aspetta che il nostro avversario sia così stupido. Ogni suo attacco in questo momento ci porta più vicini a Lilài, al di là delle giuste paure e della giusta cautela». «Non mi sembra che abbia seguito un simile ragionamento», obbiettò un altro prelato, «quando ha lasciato che i suoi vapori mefitici si riversassero su Vultur». «Se quell'attacco fosse andato realmente a segno», spiegò Ethienne, «adesso non ci sarebbe più nessuno a discutere sui pro e i contro di queste sgradevoli alleanze». «E grazie a un mago, guarda caso, la trappola è stata sventata», borbottò il sacerdote che si era scagliato contro Aelin al Concilio. «Solo un mago d'altronde», obbiettò qualcuno, «poteva accorgersi di quel varco demoniaco, o no?». «Noi intanto non dobbiamo fare l'errore puerile di incolpare Erhitrus di tutto». Erhitrus. Chi era costui? «Eppure», continuò il sacerdote, «se non è responsabile della nube potrebbe esserlo della freccia». Ma certo, che stupida, pensò la ragazza, Erhitrus doveva essere il Santo Guardiano. «E lui che vuole questa alleanza dai dubbi effetti». «Per non dire nefasta». «O empia». «Sacrilega». «Aspettate un attimo», disse Ethienne, «conosco mio zio, e non dico che
non sarebbe capace di ordire una simile trama. Ma in tal caso avrebbe scelto con più discernimento il bersaglio. Sarebbe stato lui stesso a venire colpito, o forse uno di noi. Per il semplice fatto che il sangue su di una tunica rossa avrebbe sollevato molta più impressione nell'assemblea conciliare, che di tuniche rosse è popolata». Gli altri sacerdoti borbottarono delle vaghe parole d'assenso, e Aelin si rese conto in quel momento di quanto fosse vano ascoltare quelle discussioni. Ethienne più tardi avrebbe raccontato tutto a lei e ai suoi amici, se non si trattava di un semplice sogno. La giovane si incamminò verso l'uscita, lasciandosi dietro l'atrio brulicante di tuniche. Quel suo sogno incantato, si chiese, aveva davvero uno scopo? In un romanzo lo avrebbe, pensò, e non poté fare a meno di arricciare le labbra a quell'idea. In una storia, d'altronde, una funzione perfettamente lecita di quella visione poteva essere di montare una dopo l'altra delle brevi scene scollegate tra loro, che poco o nulla avevano a che vedere con il sicario misterioso. Se questo fosse un libro, continuò a riflettere Aelin con un sorriso, i lettori si sarebbero ormai scocciati di questi continui riferimenti al romanzo. La terrestre era ormai di fronte al portone della villa. Per un istante ebbe il timore che non sarebbe riuscita a lasciarsi alle spalle le mura della costruzione. Ma attraversò anche quella porta come fosse di fumo. E quando fu dall'altra parte riuscì soltanto a sgranare gli occhi per lo stupore. La distesa di alberi che ricordava aveva cambiato aspetto. Donne nude incise nel legno dei tronchi levavano le loro molteplici braccia a sostegno di un tintinnante ventaglio di foglie di giada. Il prato si era mutato in una notte stellata in cui le donne-albero affondavano i piedi; un baluginio di stelle danzava in un lento ruotare attorno all'intrico di radici. La giovane si incamminò lungo il sentiero, fragile nastro di pietra sospeso sul magico abisso, e non cessava di guardarsi intorno, incantata. Non avrebbe più cercato uno scopo al sogno, non di fronte a quella visione. A un tratto, le parve di sentire le voci di Rhory e Jordan. «Nulla. Non abbiamo trovato nulla», disse con un sospiro il cavaliere prescelto. «Nulla? Certo che come investigatori facciamo proprio pena», gli fece
eco Jordan. «Ci stiamo provando, no?». «Provare non basta. Io, al solo pensiero che quel disgraziato possa farla franca...». Rhory sospirò ancora. «Non avevo capito quanto Aelin mi fosse diventata cara», aggiunse Jordan in un sussurro, «e quando l'ho vista cadere...». La ragazza si fermò, come impietrita. «L'ho sentita, sai?», tornò a dire l'erede di Thule. «Lì al fiume, ho udito la sua voce nella mia testa. Per questo ero certo...». Per un attimo sì udì solo uno stormire di foglie, quindi la giovane sentì la vista annebbiarsi. Era come se ogni cosa attorno a lei sì fosse fatta fluida, e l'universo si rimescolasse in un liquido calderone. Anche il desiderio di ascoltare fino in fondo le parole di Jordan sembrava essersi disciolto e fuso in quell'immagine luminescente di caos primigenio. Poi il mondo tornò a ricomporsi. Aelin si guardò intorno: sì trovava in una sala di pietra, piena di tavoli e panche di pietra. Uomini di vetro sedevano immobili al desco; vetro e roccia erano le portate che lo imbandivano. Tutto era immobile, privo di vita, solo la luce danzava sul cristallo. La terrestre vide e udì due figure discoste dagli altri, avvolte in mantelli neri, che parlavano sottovoce. «Sono stupito, davvero». Aelin sì avvicinò. Era stato un uomo dal volto magro a parlare. Lo scintillio dorato dei suoi occhi aveva una luce tagliente, aguzza. «È così, proprio non credevo di incontrarti da queste parti, Jade». «È da molto che non ci vediamo», sussurrò la ladra, con la sua voce da contralto. «È stato Cylair a mandarti?». «Lui, sì. Ma io sarei venuta comunque. Strane cose stanno accadendo in questi giorni». «Vivendo a Vultur ho visto lo svolgersi di molte trame», disse l'uomo dagli occhi gialli. «Per i diretti interessati nulla ogni volta è più importante. E ogni volta io vedo quanto poco ci sia da curarsi dei piccoli giochi e dei raggiri di questa gente. Salvo che per i soldi che posso spremergli, s'intende». «Potrei darti ragione, ma ho avuto modo di intuire che il ruolo dei sacerdoti di Vultur è in realtà ancor più marginale di quello che potrebbe essere il nostro».
«Tu vuoi un ruolo in questa faccenda?», ripeté l'altro, incredulo. Jade si strinse nelle spalle: «Non ho ancora deciso, in realtà». «E posso chiederti», disse l'uomo, guardingo, «perché sei venuta a cercarmi?». «Perché non voglio che le tue frecce o i tuoi pugnali interferiscano: quello che è accaduto al Concilio non mi è piaciuto per niente». «Mi stai forse accusando di qualcosa?», fu la risposta beffarda. Aelin tornò a fissare lo sconosciuto, la fronte alta, le sopracciglia inarcate, le linee dure del naso e degli zigomi, le labbra leggermente increspate... «Non ho bisogno di accusarti. E lo sappiamo entrambi», lo incalzò Jade. «Conosco poche persone capaci di insinuarsi oltre il cerchio delle guardie, colpire con tanta precisione e poi svanire nel nulla. Di queste, solo una si trova a Vultur». «E quindi?». «Quindi devi essere molto attento. Perché se qualcosa di brutto dovesse accadere ancora ad Aelin o agli altri suoi compagni, io tornerei a cercarti, e per te non sarebbe piacevole». «Ho ricevuto giusto oggi un messaggio del mio ultimo cliente», ghignò l'uomo. «Dice che, pur non essendo andato a segno, l'attentato ha comunque raggiunto il suo scopo e che non c'è bisogno di riprovare. Credo soprattutto che quel taccagno sia felice all'idea di non dovermi pagare l'intero compenso, dato che l'indovina è ancora viva». «Dunque eri stato pagato proprio per ucciderla». «Perché, tu cosa pensavi?». «C'era una piccola possibilità che fosse tutta una messinscena, ma le tue parole fugano ogni dubbio». «Non sono sicuro di aver capito», disse il sicario scrollando le spalle. «Né mi importa più di tanto. C'è altro che vuoi dirmi, Jade?». «Sei tu che potresti dirmi qualcosa. Perché mi interessa ogni informazione che possa permettermi di risalire al mandante della freccia». «Conosci le nostre regole». «E tu sai che non userei mai a tuo danno ciò che stai per dirmi». «Non l'ho visto in faccia comunque», rispose l'altro. «Portava una maschera nera che gli copriva quasi per intero il viso. Era un uomo di chiesa, ne sono certo. C'era un non so che di inconfondibile nel suo modo di parlare, di muoversi». «Non è molto».
«Aveva una spilla a forma di falco d'argento. Mi ha colpito perché era un gioiello particolare, e solo uno sciocco poteva indossarla nel momento in cui desiderava tenere nascosta la propria identità». Una spilla a forma di falco d'argento... Aelin sbatté le palpebre. Poi tutto si fece nero. «Un falco d'argento, dite? No, non mi pare di aver visto simili ornamenti in giro, ma potrei aver solo prestato poca attenzione», disse il Santo Guardiano pensoso. «Perché questa domanda?». «È per un sogno che Aelin ha fatto», spiegò Sethrian scrollando le spalle. «Nulla d'importante». «Se non fosse importante non me lo avreste chiesto», rispose l’altro osservando in tralice la ragazza. «Potrebbe essere un indizio per trovare il mandante dell'attentato», aggiunse lei. «Ma non abbiamo alcuna certezza». «Inoltre mettere certi cavalieri furenti a parte di questa flebile immagine sarebbe un rischio, date le circostanze», concluse il mago. «Ci vuole uno che conosca Vultur per osservare gli uomini di Vultur». Il Guardiano si guardò intorno. «E un sacerdote per spiare dei sacerdoti. Dunque sono io il vostro uomo». L'incantatore annuì. «Se dovessi scorgere la spilla che cercate, cosa mi consigliate di fare?», chiese ancora il religioso, «Un sogno, lo sapete, non è una prova. Anche se viene da una fanciulla che ha già mostrato degli strani poteri». «Nessun consiglio, se non quello di tenere gli occhi aperti». Se avessero consultato Jade forse il sogno avrebbe potuto non essere più tale. Ma sia Sethrian che Aelin avevano deciso che non sarebbe stato opportuno. Gli interessi della ladra non coincidevano affatto con i loro, e cercare di forzarle la mano poteva essere una pessima idea. «Farò quello che posso», promise il Padre Guardiano. «E...». «E?». «Ammetto che in questi giorni cupi non mi dispiacerebbe una seconda pelle come quella che ha preservato Aelin dalla freccia». Sethrian tornò ad annuire. La terrestre, nel frattempo, non si perdeva una parola ma i suoi occhi vagavano per la stanza, soffermandosi sui più svariati oggetti: dalle figure di demoni alati scolpite nel legno di un antico leggio, alla trama del damasco verde delle tende, al sorriso ultraterreno della fanciulla dipinta in uno dei
quadri di Ethienne. Infine il suo sguardo cadde sul solito libricino nero. «Di tanto in tanto torno a sfogliarlo», disse il Santo Guardiano indicandolo, «ma per me sgrana soltanto preghiere. Stupende preghiere, inni che ogni volta mi affretto a copiare. Quasi non vedo il collegamento tra quelle pagine, gli Elaunoi e i loro segreti. E se anche c'è un debole filo, non credo che possa aiutarci». «Questo libro nasconde molte storie», fece Sethrian, «forse più di quante il globo stesso non ci abbia rivelato». Aelin prese a sfogliare le pagine vuote e ingiallite. «Le traduzioni, piuttosto, come proseguono?», domandò il Guardiano. «La maggior parte del testo parla del funzionamento della rosa dei venti», spiegò Sethrian. «Eppure non mi sarebbe dispiaciuto leggere qualcosa di più proprio sulle sei lame incantate». «Non è strano, poi?», obbiettò il sacerdote. «Non era stato proprio questo volumetto a dirvi tanto su Discordia?». «È così. Il globo d'altronde, secondo l'indizio che ha colto Palen, doveva svelare il vero... ma non necessariamente ogni cosa». Un fischio sommesso uscì in quel momento dalle labbra di Aelin. «Lupus in fabula. Parli delle spade, e guarda cosa vado a trovare!». «Cosa?». «Adesso leggo: Sei spade, sei talismani Riuniti in cerchio Nell'antico legame Fiamma che traccia Nel fuoco la strada Tenebra nera D'oscurità vessillo A una spada dà nome Il suo liquido canto Un'altra è di silenzio vestita Solitudine è inciso Sulla lama sottile Psiche cerca ancora la vita Ultima è infine La figlia del lampo. Sei spade forgiate
Sei spade perdute Attendono ancora L'antico richiamo». «Non dice molto», commentò il Santo Guardiano. «Eppure è affascinante». «Suggerisce più di quanto pensiate», fu il commento di Sethrian. «La Solitudine è la chiave per sciogliere gli incantesimi...», ricordò Aelin. «Non è quanto ha detto Isengrin?». Il mago assentì. «Lo Stregone dalla Maschera d'Argento vuole che cerchiate per lui le spade», disse il sacerdote pensieroso. «E mi chiedo se sia saggio assecondare il suo desiderio». «I motivi che ci spingevano all'impresa non hanno perso il loro valore», ribatté Sethrian. «Anche se non mi trovo nella posizione per parlare in maniera imparziale, adesso». «Forse dovremmo attendere prima di stabilire una decisione definitiva, né possiamo essere solo noi a prenderla». Sethrian si limitò a chinare ancora il capo in segno di assenso, ma in questo caso non sembrava troppo convinto. «Tu Aelin, non dici nulla?», chiese. «Stavo ancora sfogliando il libro, speravo di trovare qualcos'altro». Sethrian si avvicinò per osservare pure lui le pagine incantate. «Non mi hai risposto però». «Hai così tanto bisogno di sapermi schierata dalla tua parte?», reagì Aelin. «Lo sono. Perché se non partiamo alla ricerca delle spade, Isengrin cercherà un nuovo modo per costringerci a farlo, o per impossessarsi del globo incantato. Dovremo esser cauti, certo, ma già lo sapevamo». Riprese a voltare con sguardo assente le pagine vuote. In quel momento l'incantatore fermò la sua mano. «Ecco, qui leggo qualcosa di molto interessante», disse. «Solitudine è il nome di uno spirito che si nasconde: cerca il silenzio, l'ombra, ha scelto per sé l'esilio dal mondo degli uomini. La lama incantata si rivela nemica di ogni vincolo materiale o immateriale, il suo primo nome nella lingua degli Elaunoi vuol dire Colei che Scioglie. Poche sono le leggende sorte su una spada che desidera rimanere celata, ma tutte concordano nell'attribuirle il potere di spezzare ogni incantesimo con il solo tocco della sua lama».
«Era proprio quello che volevate leggere, non è vero?», fu il commento del Guardiano. «È così», sospirò Sethrian. «E questa spada potrebbe liberare non solo me, ma spezzare anche il sortilegio che ha seppellito nella memoria di Gwyon troppi dei suoi ricordi». «Mi chiedo che cosa penserebbe Gwyon di tutto questo però», mormorò Aelin, «del passato che potrebbe riavere e che ancora non sa di aver perduto. O decideremo per lui ancora una volta?». Sethrian strinse le spalle: soprattutto sua era stata l'intenzione di tenere l'amico nell'ignoranza, forse perché l'ossessione della magia perduta gli faceva apparire quasi dolce l'oblio dell'altro. Non era poi così importante se una parte della sua mente gli diceva che aveva preso la decisione sbagliata e il tono di rimprovero della giovane terrestre lo irritava soltanto. «Digli tutto se vuoi, in fondo a me che importa?». Aelin lo guardò con espressione stranita. «In ogni caso, adesso devo andare», tagliò corto il mago, «di tutto questo avremo occasione di parlare in futuro». XX LA RICERCA DELLE SPADE Il Concilio era tornato a riunirsi, e la brusca conclusione della precedente assemblea sembrava dimenticata. Di nuovo i sacerdoti si facevano incalzanti, tutti presi dal compito di snidare la quintessenza del male, apparsa dinanzi a loro nelle forme ingannevoli di un patto d'alleanza. «Voi dite che le menti dei draghi sono pure», fece Ethienne trapassando con lo sguardo Rhory e Jordan. «È quello che abbiamo percepito», disse il cavaliere prescelto. «Possono essere creature fiere e combattive, ma la loro mente non mostra alcuna malizia». «Questa è la vostra parola», ribatté Ethienne, «e nessuno vuole mettere in dubbio la parola di due valorosi cavalieri, tuttavia...». «Ecco l'immancabile "tuttavia"...», borbottò uno dei sacerdoti legati al Guardiano. «Tuttavia è facile trarre in inganno chi vuole vedere solo buone intenzioni», riprese il patriarca di Zephyr. «Senza contare che la prolungata convivenza con uomini dalle menti notoriamente contorte potrebbe contri-
buire a storcere un flusso di pensieri troppo retto e leale». Stava dicendo che i cavalieri erano ingenui, e i maghi potevano averne approfittato per far loro il lavaggio del cervello. Molti sacerdoti si affrettarono ad annuire. «Ma se non vi fidate della parola di due cavalieri chi potrà convincervi del nostro racconto?», domandò Sethrian scuotendo la testa. «Le insidie del male sono molteplici e la fiducia è un dono troppo prezioso per farne cattivo uso», rispose Ethienne in tono quieto. «Eppure le scritture ci insegnano che un uomo consacrato a Dio non può essere corrotto dal male. Non da una forma del male che giunga a lui dall'esterno». Aelin corrucciò la fronte. Non era proprio certa di aver capito. «Sta proponendo che sia un sacerdote a unire la sua mente a quella dei draghi», le disse Jordan in un soffio, «solo un uomo di chiesa può dirsi consacrato al Signore, gli stessi cavalieri sono benedetti da Dio». E la gente normale no?, fu tentata di rispondere. Ma sapeva benissimo che l'amico non intendeva questo, in fondo. I sacerdoti che si opponevano all'alleanza mostravano volti inquieti. Si erano fatti condurre da Ethienne, dando l'assenso alle sue parole in maniera pressoché incondizionata. E adesso lui proponeva di mescolare il suo sangue a quello dei figli del fuoco, e prima ancora che gli uomini vestiti di rosso si rendessero conto di quanto stava accadendo, la sfida venne accettata. Un minuscolo drago dalle ali verdi planò nel cerchio di alberi e colonne. I sacerdoti osservavano sbalorditi il luccicare delle squame: mostravano tutti il medesimo stupore, sia seguaci del Guardiano che i loro oppositori. Aelin si avvicinò al draghetto e gli carezzò il muso. Le scaglie che ricoprivano l'animale erano troppo spesse perché potesse sentire il tocco lieve della giovane, ma un simile gesto era ugualmente di grande effetto sugli uomini che osservavano la scena. Una leggera ferita venne aperta nel palmo del patriarca di Zephyr. Una singola goccia di smeraldo cadde nel suo sangue rosso. Non trascorsero che alcuni istanti, e il drago obbediva docilmente agli ordini del pittorepatriarca. Pochi istanti, troppo pochi forse: c'era da sospettare che il contatto tra Ethienne e i draghi fosse nato già prima di allora, e che quella fosse solo una recita organizzata a uso e consumo dei sacerdoti. Ma si trattava di un dettaglio di nessuna importanza. Le allegre capriole del cucciolo di drago non avevano fugato tutti i dubbi dei sacerdoti, ma chi voleva opporsi all'alleanza aveva perduto gran parte
dei propri argomenti a sfavore. Qualsiasi obbiezione sarebbe stata stroncata con un invito a provare di persona la malvagità o la santità dei draghi. «In fin dei conti sembra che io mi sia sbagliato», ammise Ethienne con candore. «Ma non farò l'errore di rifiutarmi di ammetterlo». «Vorresti dire che...». «Dovremmo cedere su tutta la linea?». Il sorriso del patriarca si allargò di più, mentre si voltava a fronteggiare le espressioni serie dei suoi interlocutori. «Leggo in queste creature un animo fiero e generoso», disse con voce dolce e quieta, «ma c'è chi, pur appartenendo alla stirpe degli uomini, di tali qualità non ha modo di vantarsi. E io non vorrei, per nulla al mondo, lasciare i figli del fuoco nelle mani di chi vede in loro solo un bieco strumento di morte». Parlava di Isengrin o di Lilài? Di entrambi forse, oppure la risposta era lasciata alla discrezione di chi ascoltava. Tre giorni dopo, il Concilio emanava la sua decisione definitiva. L'alleanza con i draghi era voluta dal Signore del Tempo; le parole stilate riguardo all'accordo con i maghi suonavano un po' meno chiare. Sembrava che impedire a Lilài di far fronte comune con i figli del fuoco contro i fedeli di Dio fosse il primo motivo di quel patto. Ma era comunque una vittoria, e Jordan si diceva lieto di non rischiare più la scomunica. Restava da decidere quale sarebbe stata la prossima mossa. Era difficile combattere un nemico che si nascondeva nell'ombra e mostrava il suo volto solo quando era pronto a colpire. Ancora una volta, la chiave per snidare lo Stregone dalla Maschera d'Argento sembrava legata alla magia dei varchi. Tutto portava alle spade incantate. La sgradevole sensazione che proprio quello fosse il gioco di Isengrin non era motivo sufficiente a frenarli. E poi, scegliendo di non far nulla avrebbero solo dato più tempo al nemico per organizzare qualcosa di peggio. «Così partiremo», sussurrò Aelin mentre camminavano per la foresta. «Sembra di sì», le rispose Jordan. «Ci rimettiamo in viaggio. Il Santo Guardiano ha liberato Rhory dai suoi impegni verso Aquilon, non dovrà più recarsi a combattere contro i lupi delle nevi. Il principe Lint poi li ha affrontati nelle loro terre, quando si aspettava che tornassimo per quella via dal castello di Isengrin, e ha più esperienza di chiunque altro al riguardo».
«Né è detto che le belve del gelo faranno la loro comparsa. Palen mi ha accennato che laggiù a Lilài sono a un passo dal ricostruire la formula del repellente sottratto a Isengrin». «Sul nostro cammino invece, si parano sei spade». «Sei talismani», precisò Aelin in tono pensieroso. «Certo... è strano, però». «Che cosa?». «Si tratta, come dire, di talismani ingombranti. Avrei capito se si fosse trattato di anelli o di medaglioni...». «Magari un motivo c'è, solo che ancora non lo conosciamo». L'altra si limitò ad annuire. «Sethrian ha parlato a Gwyon, sai?», fece poi il cavaliere. «Gli ha raccontato ogni cosa, e non si può dire che abbia agito con tatto». «E Gwyon come l'ha presa?». «Sospettava già qualcosa, credo. Non mi è sembrato troppo sorpreso». La giovane annuì di nuovo, senza sapere bene che dire. Poteva preoccuparsi per Sethrian, poteva preoccuparsi per Gwyon. Oppure poteva ricondurre i pensieri alle parole che aveva pronunciato Jordan nella visione del sogno. Io l'ho sentita, sai... Parole in apparenza innocenti, non sarebbe stato fuori luogo chiedere all'altro conferma o smentita su quel frammento di allucinazione. Eppure non lo faceva. Forse per il tono con cui l'altro le aveva pronunciate. «Siete qui». Ethienne sorrideva ai due giovani, e con lui c'era un sacerdote dalla corta barba nera. Era un uomo dallo sguardo acuto, uno che in quei giorni si era sempre schierato dalla parte del Guardiano. «Volevo presentarvi Feanor, il patriarca di Tramontana», disse il pittore. «Il Santo Guardiano ha invitato me e il primo sacerdote degli Avamposti Meridionali all'esperimento di questa sera», aggiunse il nuovo arrivato. «Loro sono i più importanti membri della gerarchia ecclesiastica al di fuori di Aquilon», spiegò Ethienne. «Sull'appoggio dei nostri sovrani sappiamo di poter contare, ma non si deve dimenticare che esistono anche altri regni». «I più importanti...», ripeté Feanor scuotendo la testa, «hai scordato il patriarca di Kore, nelle terre di Levant». «Il nostro confratello non si è presentato al Concilio, è troppo preso dall'ambizione di diventare patriarca di Levant, temo. Le regine non hanno mai permesso che un tempio del Signore sorgesse nella loro capitale, e il
nome di una minuscola cittadina come Kore porta assai poco lustro agli occhi di un uomo desideroso di riconoscimenti». «Con un tempio a Levant potremmo trovare nuovi fedeli in quella città, bisogna considerare anche questo», gli ricordò Feanor. «E io mi auguro che ciò possa accadere, ma non può essere il nostro obbiettivo prioritario in una situazione del genere». «Io posso darti ragione, Ethienne. Ma molti, anche tra coloro che sostengono il Guardiano, la pensano diversamente. È difficile tenere davanti agli occhi un nemico invisibile». «Proprio per questo, così dicono, i pericoli che l'uomo non sa scorgere nascondono le più raffinate insidie». Un terzo sacerdote si era avvicinato. Si trattava di un uomo minuto dall'espressione serena. Era stato lui a parlare. «Dovevo immaginare che tu avresti detto qualcosa di simile, vecchio amico», commentò Feanor. L'altro si limitò a sorridere placidamente. Si trattava di Liljum, spiegò Ethienne facendo le presentazioni. Era il religioso degli Avamposti Meridionali. «Noi però i mostri li abbiamo visti, non sognati», obiettò Jordan. «Quelle creature non hanno raggiunto le terre lontane che mi ospitano», disse Liljum, «ma a quanto mi è stato detto la loro presenza non affligge più il regno di Aquilon». «Molti sono pronti a vedere in questo il segno di un intervento divino. E non posso dire che la cosa mi faccia piacere», aggiunse Ethienne. «Tramontana è libera da creature malefiche di sorta», intervenne Feanor, «e così anche gli altri regni a nord. Non vi sono conflitti in corso e le sale del mio sovrano si riempiono di nuovo lusso. Il che considerate certe peculiarità del carattere di re Khirsten, non è necessariamente un bene, al contrario». «I tuoi sono solo sospetti?», domandò Ethienne. «O c'è qualcosa di più fondato nei tuoi timori?». «Feanor non è tipo da esprimere giudizi avventati», sussurrò Liljum, «a me basta questo». «Basterà, ma...». Il patriarca di Zephyr aveva improvvisamente mutato espressione. Altre tuniche rosse si stavano avvicinando; Aelin vide i volti dei sacerdoti irrigidirsi, la conversazione si fece fredda, mentre i tre tornavano a fingersi nemici, sotto lo sguardo disattento dei chierici che incrociarono
lungo il sentiero. Poi furono di nuovo soli. «Mi chiedo quanto abbiano capito l'indovina e il suo compagno delle nostre discussioni», disse il sacerdote degli Avamposti. «Forse non siamo stati troppo cortesi nei loro confronti». «Molte cose mi sfuggono, in effetti», ammise Aelin. «A partire da quell'accenno a re Khirsten... e poi so poco delle terre al di là di Aquilon». «Sarò lieto di parlarvi del meridione». «Le spiegazioni dovranno attendere», lo interruppe Ethienne. «Perché siamo arrivati». Erano giunti in un prato silenzioso. Irte pietre di colore rossastro si ergevano simili a lance di sangue scagliate da titani, tra gli alberi neri e contorti. Aelin socchiuse gli occhi, pensando che per colpa di Isengrin potevano anche aver perso i fastosi saloni di Vultur, ma le radure incantate non mancavano di certo. «È la prima volta che adoperiamo questo strumento», sottolineò Palen mentre stringeva in una mano il globo di vetro, o meglio, la sua ennesima copia. «So che abbiamo scelto un luogo piuttosto fuori mano, ma alla residenza estiva del Santo Guardiano sono custodite due delle spade magiche, e questo avrebbe creato un'interferenza». «In realtà la lama d'ombra non è più nella villa», interloquì Sethrian. «Ho chiesto alla sua attuale custode di portarla altrove, perché ciò potrebbe aiutarci a compiere una verifica sperimentale del potere del globo». «Si», fece l'altro mago dopo un istante d'esitazione, «immagino sia una buona idea». «Aspettate un attimo», obbiettò Jordan. «Ci stai dicendo, Sethrian, che hai raccontato a una ladra quello che stiamo per fare e perché? Senza prenderti la briga di avvertirci?». «Sul secondo punto potrei anche darti ragione, ma ho avuto modo di constatare che la nostra ladra sa benissimo come venire a conoscenza di ciò che le interessa, quando vuole. Perciò ho pensato di dirle quel tanto che bastava a tenerla buona». «Oh, certo», commentò l'altro con una smorfia. «Dopo questa rassicurante dimostrazione di armonia in seno al gruppo degli eroi», chiese Ethienne, «possiamo andare avanti?». Palen non disse nulla. Sollevò la sfera di cristallo. A un suo cenno,
Gwyon mormorò la formula che l'altro mago aveva decifrato dal codice. Sethrian osservava la scena con sguardo obliquo. La sfera si illuminò e cinque diversi colori la attraversarono: un blu vivido e intenso, nero senza fondo, vaghi bagliori verdi e, più pallidi e sfumati, il viola e l'azzurro. «Verde è il colore di Discordia», disse Rhory. «Il blu invece è legato alla Lacrima», aggiunse Aelin. «La falsa sfera donata a Isengrin era invasa da quel colore poco prima che venisse distrutta». «Non è difficile immaginare che il nero indichi l'arma che ha il nome di Ombra», disse invece Ethienne. «È lui», confermò Sethrian. «Il colore è troppo forte per indicare una spada lontana. E poi... sposta un po' il globo verso sinistra, Palen». L'altro si affrettò a obbedire, e videro la sfera tingersi quasi completamente di nero. «Quella è la direzione in cui dovrebbe essersi mossa Jade con la lama, come io le ho chiesto», spiegò poi il mago. «Non mi sembra ci siano dubbi». «Perdonate la domanda», intervenne Liljum, «ma non dovrebbero essere sei, le spade? Eppure i colori del globo ne indicano solo cinque». «Forse una lama è schermata», azzardò Jordan. «O forse adesso non esiste», disse Aelin. «Nessuna spada è eterna, nemmeno quelle incantate. La Lacrima è uscita dalle fucine di Isengrin poco prima del nostro arrivo al castello». «Potremmo non trovarla proprio questa sesta spada però», fece il cavaliere di Thule, «e allora tutti i nostri progetti dove vanno a finire?». «Non è detto che al momento opportuno l'indizio giusto non compaia», osservò Rhory, «in fin dei conti non sarebbe nemmeno la prima volta che succede». «Potrebbe non accadere, stavolta», ribatté Sethrian. «Ma se Fiamma è perduta anche Isengrin avrà subito una sconfitta. E io ho altri motivi per cercare le spade. O meglio, una di esse in particolare». «Viola o azzurro», domandò Feanor socchiudendo le palpebre, «quale traccia seguirete?». «Entrambe, credo», disse Palen in tono pratico, tornando a riporre la rosa dei venti nella sua tunica. «Quando abbiamo duplicato la sfera incantata per Isengrin ne è stato creato più di un esemplare, a titolo di prova». «Quindi gli eroi si dividono, almeno per qualche tempo», commentò Se-
thrian. «Ovviamente sappiamo di non essere così indispensabili alla ricerca...». Rhory scosse la testa perplesso, ma il mago si limitò a sorridere e continuò il suo discorso: «Non siamo indispensabili. Persino coloro che vedono la mano di Dio e del fato nelle vicende che ci hanno avuto per protagonisti concorderanno che in qualsiasi momento potremmo essere costretti a passare il testimone, e ritirarci dalle scene. Ma per quel che mi riguarda, sono curioso di vedere come andrà a finire. Lo ammetto». «La curiosità è uno strano motivo per intraprendere un'impresa», sentenziò Feanor. «Se ne possono facilmente trovare di peggiori», obbiettò Liljum, e sorrise. Erano ritornati alla residenza del Santo Guardiano. Aelin ascoltava attenta i racconti dei due sacerdoti che si erano uniti a loro. Liljum tracciava con leggerezza le immagini delle terre del Sud, parlava delle conche di antichi laghi vulcanici dalle acque di smeraldo, delle sagome nodose di alberi di legno rosato, e poi descriveva le valli percorse da un'intricata rete di fiumi, la bianca torre dei sette volti di giada che fissavano i sette orizzonti, le cupole chiare della Città dei Soli e i velieri carichi di merci, il porto, le strade e le barche illuminate da lanterne multicolori. C'era, nella voce di Liljum, il tono di chi mostrava amore e rispetto per quella che ormai era la sua terra di adozione. Ad Aelin parve di scorgere nelle sue descrizioni un che di orientale, la delicata eleganza dell'India e della Cina. O forse era solo l'inevitabile meccanismo di assimilazione fra l'ignoto e il conosciuto. «Gli uomini del meridione non riescono a concepire una chiesa gerarchicamente strutturata come quella di Vultur. Si direbbe che abbiano quasi il culto per l'eresia», Liljum scosse la testa. «Sono più che disposti, a differenza di altri, a confrontarsi con il nostro credo; ma solo per trarre da esso ciò che giudicano più consono alla loro visione. Tutto ciò rende assai difficoltoso il mio incarico, ma ne accresce anche il fascino». «Certo, poi c'è chi è pronto a giurare che l'unico a uscire convertito da tante discussioni eleganti e contorte sei stato proprio tu, Liljum», commentò Feanor con un vago sorriso. L'altro scrollò appena le spalle. «Pensavo che Isengrin potrebbe venire proprio da una delle città stato del meridione», continuò il sacerdote degli avamposti. «Quei centri, come
non accettano la sola idea dell'autorità di Vultur, non sono nemmeno troppo favorevoli a quella della Congrega, per quanto possa ricordare». Sethrian si limitò ad annuire, mentre con le dita della mano sinistra tracciava il contorno di uno dei lumi di vetro rosso posti a illuminare la stanza. Era così, Gwyon non era mai stato troppo preciso sulle origini sue e di Isengrin, come se si trattasse di un passato troppo spiacevole anche solo da nominare, ma aveva lasciato intendere che la direzione fosse quella. Anche il giovane apprendista smemorato aveva assunto un'espressione pensierosa. Aelin distolse lo sguardo da quello di Gwyon; si trovò a fissare uno dei tanti quadri di Ethienne che si affollavano lungo le pareti. Colonne rosso fuoco si levavano contro il cielo notturno, ombre di figure alate, draghi o demoni senza volto, si mescolavano alla tenebra stellata. Una processione di fanciulle attraversava la piazza bianca, fra le colonne rossastre, e le loro vesti gonfiate dal vento si contorcevano in pieghe innaturali, e così le lunghe chiome disciolte, sino a dare alle giovani un aspetto di streghe. «Non è strano in fondo che le cose stiano in questo modo», disse allora Palen. «La Congrega di Lilài è nata dall'ostilità che accompagna i maghi in queste terre. La Città dei Soli e le sue sorelle meridionali non hanno mai conosciuto nulla di tutto questo». «Qualcuno potrebbe dire che il solo nome di Isengrin giustifica una simile ostilità», argomentò Ethienne, «ma noi eviteremo di prendere una posizione del genere». «Così non vi sentirete rispondere che se Isengrin è una creatura della magia, allora solo la magia può batterlo», sibilò Sethrian. «Liljum teme il meridione», disse Feanor in quell'istante. «Le mie paure invece sono più legate alle Terre del Nord, forse perché quelle conosco». «Parlateci di Tramontana», sussurrò Aelin. «Tramontana è una terra fredda, sferzata dai venti. La capitale non dista molto da Aquilon e Levant, ma si trova oltre il baluardo dei Monti di Vetro, esposta alle nevi e ai ghiacci. E il gelo sembra albergare anche nel cuore del suo sovrano». Feanor serrò le labbra. «Re Khirsten ha molte qualità degne di un monarca, e ha già avuto modo di mostrare il suo valore sul campo di battaglia. I baroni del nord credono che la guerra sia l'unica occupazione degna di un uomo e approfittano di ogni occasione per mettere alla prova le loro lame. Il re appartiene alla medesima stirpe». «Non sono solo i nobili di Tramontana a pensarla in questo modo», disse Jordan con un sorriso ironico. «Conosco molti che sarebbero pronti ad ab-
bracciare una simile filosofia di vita, se solo non giungesse la duplice disapprovazione di Aquilon e dei sacerdoti di Vultur a smorzare ogni spirito guerriero». «A Tramontana invece anche gli uomini di chiesa esaltano il furore della battaglia, specie dopo aver tracannato il quarto boccale di birra in una fredda sera d'inverno». Feanor scosse la testa. «Fino a un centinaio d'anni fa, il compito di estirpare le ultime vestigia del culto dei boschi poteva anche tenerli impegnati. Adesso, nemmeno quello. Nessuno stupore, dunque, se Khirsten si vanta di mangiare e dormire con l'ascia in pugno». «Secondo Jade, la maggior parte dei mercenari a Levant di questi tempi viene da Tramontana», intervenne Sethrian. «Non credo avesse motivo di mentire». «Anche Llys deve aver detto qualcosa di simile, se non sbaglio», ricordò Aelin. Vero era, a ogni modo, che la donna si era mostrata sospettosa nei confronti di tutti gli stranieri, senza curarsi di far troppe distinzioni. «Tra i mercenari c'erano pure gli uomini di Isengrin», osservò Jordan, «voi credete che possa esserci un collegamento?». «Non lo escludo affatto, al contrario», disse Feanor. «Tutto dipende però dal genere di collegamento che vorreste trovare. Non penso che Khirsten sarebbe capace di stringere a cuor leggero un'alleanza con il malvagio incantatore. Ma potrebbe averlo fatto se non avesse inteso tutti i risvolti della faccenda. Di due cose sono sicuro. Grandi quantitativi di grano, lana e legname sono partiti dalla capitale in cambio di oro, gioielli e stoffe preziose. Re Khirsten non aveva mai mostrato prima un particolare interesse o attitudine per il commercio, e questo afflusso di nuove ricchezze avrebbe destato la mia attenzione anche senza le notizie che voi e i vostri viaggi ci avete portato. Poi, è certo, nessuno più di Khirsten desidera la distruzione della vecchia casa regnante di Levant. Così come sembra volerla Isengrin. E almeno questo li unisce». «Non sono sicura di capire», mormorò Aelin. «Che cosa ha il vostro re contro i sovrani di Levant?». «Una sorellastra con il loro stesso sangue», rispose Feanor scuotendo la testa. «Dama Marissa ha avuto la reggenza sino al compimento della maggiore età del fratello e ha saputo mostrarsi saggia e accorta in quegli anni. Molti non lo hanno dimenticato, nonostante il tempo trascorso, e Khirsten per tutta riconoscenza, appena messe le mani sul trono, ha invitato la sorellastra a rinchiudersi in un monastero. Marissa non ha esitato a obbedire.
Più di un barone avrebbe preferito prestare giuramento di fedeltà a lei piuttosto che a Khirsten, come c'è chi difenderebbe fino all'ultima goccia di sangue la causa del sovrano. Ma adesso non voglio stare a descrivervi la rete secolare di inimicizie e alleanze che attraversa il regno». «Quando sarà tutto finito potremmo mandare Discordia in vacanza da quelle parti», sussurrò Sethrian. «Sono certo che si divertirebbe un mondo». «Sbaglio o voi non parteggiate esattamente per il legittimo sovrano?», domandò Aelin a Feanor. «Ho dato quest'impressione?». «Appena un pizzico più del dovuto, per il patriarca che ha posto sul capo di Khirsten la sacra corona regale!», fu il commento divertito di Ethienne. «La fedeltà al re non mi impedisce di criticare i suoi eventuali difetti», disse l'altro sacerdote in tono quieto. «Khirsten trascorre troppo tempo affannandosi per il numero di visitatori che si ferma al monastero della Luce Eterna, dove Marissa dispensa consigli, riceve nobili e ambasciatori, continua a cercare di placare gli animi e a favorire le sorti di Tramontana. Nel giorno in cui suo fratello avrà la certezza che non siederanno più regine dell'antica stirpe sul trono di Levant... Io temo quello che potrebbe accadere». «Molte sono le cose che dobbiamo temere», sussurrò Liljum, «soltanto, non deve spaventarci la paura stessa. O non sapremo guardare con occhi fermi il pericolo che si cela nell'ombra. Al di là della retorica delle massime, sappiamo tutti che è così». Si sarebbero divisi. La spada viola e la spada azzurra, non avevano altri nomi al momento, si trovavano in direzioni opposte. Sethrian avrebbe seguito la traccia violetta, che portava a sud-ovest. Sia lui che Aelin ne erano convinti: era quello il colore che più rappresentava la solitudine. Rhory avrebbe percorso la medesima via: il Santo Guardiano gli aveva ordinato di dare la precedenza a quella missione, ma se fosse passato troppo vicino alla capitale c'era comunque il rischio che venisse coinvolto in una nuova e pressoché improduttiva caccia ai lupi. Rhory non sapeva dire di no facilmente. Anche Palen aveva detto di voler andare con loro. Sosteneva che i segreti delle spade lo affascinavano troppo per restarsene ancora una volta nelle retrovie. Chiaro, che il motivo era un altro. Il sapere senza magia di Sethrian e la magia senza sapere di Gwyon quasi stridevano ogni volta che
venivano a contatto. Se un altro incantatore si fosse unito al primo gruppo, la questione non avrebbe più rappresentato un problema: Gwyon a quel punto sarebbe dovuto andare a nord insieme a Jordan, e anche a Jade. La ladra aveva ricevuto il compenso per la sua gente: il Guardiano aveva prelevato dal tesoro di Vultur dei diamanti rosa grossi come noci, preziosi quasi quanto le scaglie di drago, e soprattutto con il pregio di essere fin troppo riconoscibili. Poteva essere interessante cercare di scoprire se e dove quelle pietre sarebbero tornate a far capolino. Non che questa fosse la più immediata delle preoccupazioni. La partenza era ormai vicina. «Una delle regole dei ladri è non seguire mai la politica», disse Jade ad Aelin. «È una regola saggia, tuttavia un'altra massima insegna che chi segue ogni regola è destinato al fallimento. Ho potuto dare appena un'occhiata agli intrighi di Vultur, ma è bastato per capire che questo mondo mi affascina». «Vuol dire che ci aiuterai?», domandò la terrestre. La ladra la fissò con espressione interrogativa. «Voglio dire...», si affrettò ad aggiungere Aelin, «se sarà Isengrin a vincere, tutto questo potrebbe cessare di esistere». Le due donne erano sole, nella camera della ragazza. Mentre parlavano Aelin teneva le gambe incrociate sul letto, e il capo poggiato alla spalliera di ferro battuto. «Si potrebbero trovare dei motivi migliori per stare dalla vostra parte», disse Jade con voce flautata. «Parole come ricompensa, feudo, impunità, per esempio. Il Santo Guardiano continuava a ripeterle quasi si trattasse di una formula magica». «Isengrin potrebbe darti di più». «Isengrin non mi ha fatto offerte. E poi inizio ad avere il sospetto che un'alleanza con lo stregone potrebbe rivelarsi stretta, come un collare d'argento, diciamo». «E...», Aelin esitò, «non c'è altro che potresti prendere in considerazione?». «Sethrian, dici?», domandò la ladra con un'occhiata penetrante, che ebbe il potere di far sussultare la terrestre. Non attese una risposta, scosse piano la testa, con un sorriso: «Perché dovrei basare le mie scelte su quelle di un uomo che non si aspetta questo, né lo desidera? Sethrian è come intrappolato nel rimpianto della sua magia perduta, e non sentirà più il bisogno della compagnia di una ladra quando avrà vinto la maledizione di Isengrin».
Aelin si passò una mano tra i lunghi capelli rossastri. «Non credo di saperne abbastanza per giudicare», disse. «Meglio così», sussurrò Jade, «perché non mi piacciono i giudizi sulla mia vita privata». «Non intendevo darne». «Probabilmente no». La terrestre tornò a tacere. «Forse questa discussione avrà più senso quando torneremo a incontrarci», aggiunse la ladra. «Immagino di sì. Ma la riprenderemo?». «Forse», concluse Jade. «Se torneremo a incontrarci». Le onde dell'Oceano Occidentale bagnavano le rive sabbiose. Ancora una volta i draghi avevano bruciato le distanze, attraversando in pochi giorni mezzo continente. Per un certo tratto Aelin e gli altri avevano accompagnato il sacerdote Liljum. Era buona cosa che i patriarchi iniziassero a considerare i lati pratici dell'alleanza con i figli del fuoco, o che lo facessero almeno quei religiosi che stavano dalla loro parte. Liljum dal canto suo osservava le creature alate con blanda simpatia, e aveva ricordato alcune leggende del meridione che vedevano i draghi come fonte di pioggia e fertilità della terra. Il patriarca si era ormai congedato da un paio di giorni e, adesso che la traccia del colore viola si era fatta più intensa, anche Sethrian e i suoi compagni avevano abbandonato le vie del cielo per procedere con maggiore lentezza, come stavano facendo ancora in quel momento. Il sole scendeva verso l'orizzonte, e Aelin si guardava intorno con aria distratta. Lei e Rhory avevano appena finito di allenarsi. Il cavaliere aveva preso l'arpa, presto si sarebbe messo a suonare. Palen raccoglieva conchiglie. L'odore dell'aria salmastra impregnava ogni cosa. «Rieccoci qui a percorrere i labirinti del mondo», disse Sethrian avvicinandosi alla ragazza. Aelin annuì, mentre le sue dita tracciavano sulla sabbia disegni privi di senso. «Inizio a chiedermi quando potremo tornare a mettere radici», aggiunse il mago, «e che cosa ne è adesso del mio piccolo castello». La giovane abbozzò un sorriso, e tese la mano per stringere quella dell'altro. «È un'impressione o sei piuttosto silenziosa stasera?».
«È che non saprei bene cosa dirti». «Mi osservi con la preoccupazione negli occhi, e non sei la sola». Un sorriso aspro attraversò il volto dell'incantatore, mentre pronunciava queste parole. «Non era mia intenzione», disse l'altra in un sussurro. «E la mia non era un'accusa. Non sarebbe giusto, dato che sono i miei modi scostanti ad accrescere la vostra apprensione. Peccato però che simili sguardi non facciano che rendermi più intrattabile. È una specie di circolo vizioso». «Questo posso capirlo, ma non è facile far finta di nulla». «Nessuno te lo chiede», la rassicurò Sethrian. «Eppure è strano vedere tanti occhi che ti osservano... attenti a soppesare e confrontare ogni minimo aspetto del vecchio e del nuovo Sethrian». Parlava come se il sortilegio di Isengrin fosse una barriera che aveva diviso in due la sua vita. Ed era strano sentirgli pronunciare quelle parole, quando era Gwyon, invece, che giocava tra due identità diverse, passando dall'una all'altra, cambiandole come maschere. Ma Aelin poteva capire lo stato d'animo dell'incantatore. Anche Jade parlava di due Sethrian. Solo che per lei l'intruso era il vecchio Sethrian, lo sconosciuto che forse non avrebbe desiderato incontrarla. «Lo faccio anche io, questo gioco della bilancia, sai?», continuò il mago. «Immagino sia inevitabile. Né sono troppo felice delle conclusioni a cui arrivo ogni volta». «Che cosa vuoi dire?». «Non credevo di provare un simile attaccamento ai miei poteri. Pensavo di essere più forte, superiore all'avidità che il sapore della magia riesce a suscitare negli animi, e invece mi sbagliavo». «Non dire così». Sethrian rispose con una smorfia. «Avanti», sussurrò la ragazza, «sei un po' scontroso, non lo nego, ma credi che questo conti qualcosa per noi? Capirei se avessi pensato di tradirci o qualcosa del genere...». «Non credo che Isengrin mi concederebbe una simile alternativa, dati i precedenti», disse il mago con un sorriso ironico. La giovane socchiuse gli occhi. Non si aspettava d'altronde una proclamazione d'innocenza da parte dell'incantatore. Non sarebbe stata da Sethrian una simile risposta, cerchio di ferro o meno. «Neanche quando troveremo Solitudine, neanche quando la maledizione
verrà spezzata, e dopo i tentativi di Palen so che questo è l'unico modo, neanche allora sarà più lo stesso», sussurrò il mago. «Non per me almeno». «Faccio degli strani sogni sai?», disse la ragazza d'improvviso. «Da un paio di notti a questa parte». «Sogni profetici?». «Ci sono solo Jordan, Gwyon e Jade attorno a un fuoco: parlano del più e del meno, nulla d'importante». «E cosa dicono?», domandò l'incantatore con un'occhiata penetrante. «Niente di che, davvero. Poi, non è sempre la stessa scena che si ripete. Solo le immagini sono simili. L'ultima volta, nel sogno, Jade ha detto agli altri che li avrebbe bendati per portarli al covo della sua gente. Farli entrare nell'antro è una specie di prova di fiducia, ha detto, ma non sta a lei decidere se mostrar loro la strada o meno». «Una prova di fiducia...», ripeté Sethrian, «c'è da chiedersi per chi, però». «Sempre che non sia soltanto un sogno». «Non ci conterei troppo. Jade mi aveva accennato qualcosa del genere, prima della partenza». «Io questo non lo sapevo», ammise Aelin. «I sogni ricorrenti, a ogni modo, sono già sospetti di per sé». «Potrebbe essere solo nostalgia, oppure...». «Oppure?». «Ti hanno detto che è stato Jordan a trovarti sul fiume? Lui in qualche modo sapeva già dov'eri». La giovane sbatté le palpebre. «Credevo di essere io, la sensitiva del gruppo. Com'è possibile questo?». «Il sangue di drago è sceso nelle vostre vene nello stesso istante», le ricordò il mago. «Questo potrebbe aver creato un legame». Si trovavano in una sala scavata nella roccia e le torce illuminavano gli angoli scabri delle pareti. «Credi che Jade tornerà presto?», chiese Gwyon. «A me basta che non sia qualcun altro a venirci incontro», disse piano Jordan. «Temi una trappola?». «Non da parte della nostra accompagnatrice. Se anche si fosse schierata con Isengrin non vanificherebbe in modo così grossolano tutti gli sforzi fatti per conquistarsi almeno un briciolo della nostra fiducia. Se devo dar
retta al mio istinto, comunque, io non credo che lei stia con lo stregone. Potrebbe passare dalla sua parte in futuro, forse...». «Ma quel momento non è ancora arrivato», l'interruppe la ladra, che era apparsa sulla soglia. «Sei tornata anche prima del previsto», sussurrò Jordan. «Non sono riuscita a parlare con mio fratello. A quanto pare, sta ricevendo una persona molto importante». C'era una nota di disappunto nella voce della donna, e prima che gli altri potessero aprir bocca, lei li anticipò, dicendo soltanto: «Seguitemi». Li condusse con passo svelto attraverso gli stretti corridoi tortuosi. La piega dura delle labbra le dava un'espressione decisa. A tratti si scorgevano volti di pietra rozzamente intagliati, o bassorilievi di guerrieri distesi sui loro sepolcri, figure stilizzate di fanciulle piangenti presso una fonte, altre immagini e simboli legati alla morte. «Siamo nel cuore di antiche tombe...», sussurrò Gwyon, con gli occhi sgranati. «È così», rispose Jade divertita. «E noi che ci siamo impossessati di questo luogo siamo i vermi che si nutrono del vivo cadavere del mondo. Le tombe sono state scavate nel ventre della montagna in un tempo immemorabile. In ricordo dei nobili caduti di non so quale dimenticata battaglia. Non sono molto abile nel leggere le antiche rune, e avevo chiesto a Sethrian...». La ladra non terminò la frase. Si fermò di fronte all'immagine di un drago dalle ali spiegate che si mordeva la coda sino a formare una specie di otto contorto. «È questo il punto», disse. «Il punto?», ripeté Jordan. «Nessuno conosce tutti i passaggi segreti, tutti gli angoli più nascosti. Molte tombe sono ancora inviolate, forse perché nessuno dei guerrieri ha portato nell'estrema dimora armi o gemme preziose, o forse semplicemente perché la rete delle grotte è troppo vasta. Cylair di certo non si è mai dato cura di studiare l'intrico dei passaggi. Quindi non sa che ne esiste uno in grado di condurci proprio sopra quello che è solito chiamare il suo studio privato». «Nessuno dirà mai che sei priva di risorse, Jade», commentò il cavaliere con un mezzo sorriso. Jade premette con un dito l'artiglio del drago. Una porta si aprì nel ventre della bestia.
«Diciamo soltanto che non mi piace essere tenuta all'oscuro di qualcosa». La ladra poi li guidò in una stanza grigia e spoglia. C'era una botola di legno, la fece scorrere di appena pochi centimetri. «A voce bassa possiamo parlare», sibilò agli altri. «Da qui non ci sentiranno». Jordan frattanto si era chinato per osservare con più attenzione. Uno scenario bizzarro si parò davanti ai suoi occhi. La sala al piano di sotto era gremita di colonne intarsiate, e mosaici simili a fiamme verdi correvano tra le venature del marmo candido. Verdi erano anche le pietre del pavimento, che stendeva in complicati disegni di ellissi ed esagoni intrecciati. Di fronte alle colonne c'era un altare bianco, o forse si trattava di un sarcofago. Sarebbe stato difficile dirlo con certezza: la lastra di pietra scolpita era ingombra di carte. Girando lentamente attorno alla fessura, Jordan poté vedere vasi d'argento e vetro, e statue che sembravano quasi ammonticchiate l'una sull'altra, accalcandosi in una selva di mani pietrificate che rendeva la scena quasi irreale. Era strana quella stanza, per metà vuota e spoglia, per metà convegno immobile di anime pietrificate. Era come essere tornati nel castello di Psiche, e quel pensiero strappò un brivido al giovane. In quel momento un uomo dal volto magro, scuro di capelli e di carnagione, si avvicinò all'altare, e cominciò a raccogliere i fogli e le pergamene. «Cylair», sillabò Jade lentamente. Quello dunque era suo fratello. «Penso che potremo facilmente andare d'accordo», lo sentirono dire con voce insinuante. «Le vostre offerte sono sempre allettanti, e come vedete sappiamo anche sforzarci di prevenire le richieste dello Stregone d'Argento». «Sono rimasto impressionato, questo devo ammetterlo», gli rispose una figura ancora in ombra. «Non mi resta che sperare dunque in un compenso pari alla vostra impressione». «Isengrin ha dato già modo di mostrarsi generoso con chi ne è degno», sussurrò l'altro venendo avanti. Il ladro fece un cenno d'assenso. L'ambasciatore di Isengrin era giovane, ma aveva il volto deturpato dalle cicatrici di un'orrenda ferita.
Jordan si lasciò sfuggire un sussulto. Gwyon sollevò lo sguardo verso l'amico. «Chi è quell'uomo?», sussurrò. «Perché mi è familiare?». «Si tratta di Shiin», disse il cavaliere in un soffio. Gwyon chiuse gli occhi. Era strano. Le immagini della sua infanzia, della sua gioventù, o quelle che aveva creduto tali si erano fatte impalpabili come nebbia. Invece quel volto, che apparteneva all'altra sua vita, lo aveva colpito con tutta l'intensità di un ricordo perduto... o che aleggiasse ai margini della coscienza. Non avrebbe sofferto per questo, no. Svanisse pure l'eco di una falsa vita, non ne aveva bisogno. Ma c'erano quegli altri ricordi tornavano a insinuarsi nella sua mente... Sethrian che aveva detto che l'apprendista di Isengrin - l'altro Gwyon - era stato felice di svanire nell'oblio... «C'è qualcosa che volevo chiedervi», aggiunse Shiin, rivolto a Cylair. «Di che si tratta?». «Da dove provengono quelle pergamene?». «È così importante?», chiese il ladro con una scrollata di spalle. «Potrebbe esserlo», sussurrò Shiin, mentre con un dito indicava le linee che gli attraversavano il volto. «E io non voglio correre il rischio di deludere il mio Maestro, non di nuovo». Gwyon rimase immobile, quasi non riusciva a respirare. Era stato Isengrin. Le ferite dell'ambasciatore erano opera sua. Era quello il passato che il suo alter ego aveva desiderato cancellare? «In realtà non ho una risposta precisa da darvi», spiegò Cylair. «Mio padre ha accumulato gli oggetti più strani in queste grotte. Era solito dire che ciò di cui non si conosce la natura o lo scopo può spesso rivelarsi più prezioso di quanto non suggeriscano le apparenze. Questa volta sono andato a ripescare delle pergamene coperte di polvere da una quindicina d'anni». Jade fece una vaga smorfia di disappunto. Gwyon però non riusciva a distogliere lo sguardo dai segni sul volto di Shiin. Gli avevano detto che poteva riacquistare la memoria perduta, ed era questo che lo attendeva tra i meandri della sua mente? Aveva bevuto la pozione di sua spontanea volontà, aveva ripetuto più volte che forse non avevano possibilità di vincere contro il suo antico maestro. Era questo il suo passato? Perché il ragazzo non riusciva a far propria una simile rassegnazione. «Grazie a quelle pergamene», concluse Shiin dopo un lungo silenzio, «la spada che alcuni chiamano Fiamma, altri Sangue, altri Oro Rosso, tornerà alla vita».
XXI IL MONOLITO «Ho trovato questo», annunciò Ethienne. Il Santo Guardiano socchiuse gli occhi. «Un pendente a forma di falco... Posso sapere dove lo hai trovato?». «Lo aveva un ragazzino, che giura di averlo raccolto tra i rifiuti». «Adesso invece è in mano nostra». «Ci servirà a poco, temo. L'ho portato all'incantatore che è venuto da Lilài per studiare i vapori di Vultur, ma lui ha detto che era passato troppo tempo da quando era stato gettato via perché rimanesse una traccia dell'originario possessore. Senza contare che il mago mi è sembrato molto meno interessato di quanto non lo fossero Palen e Sethrian alla faccenda. Certi incantatori hanno come il ritegno di non mostrarsi troppo pronti a collaborare con i sacerdoti. Ma torniamo al ciondolo». «Una via da seguire c'è sempre, lo sai», mormorò il Guardiano, e il nipote annuì: «Quanti sacerdoti sanno che il gioiello è comparso in una visione di Aelin?», domandò il pittore. «I nomi li conosci. Sono appena una manciata, e tutti pronti a dichiararsi fedeli sostenitori del Santo Guardiano. Dovevamo far sì che la notizia trapelasse, d'altronde, per cercare di ottenere qualche reazione utile. È da quando Rhory e i suoi amici sono stati a Zephyr che lo spettro del tradimento ci perseguita, ed è nella nostra cerchia più interna che dobbiamo cercarlo». «Chiunque sia il responsabile non si è dimostrato molto furbo», sussurrò Ethienne, mentre l'altro faceva girare lentamente il falco d'argento attorno alla sua catena, «questo è un amuleto insolito, ma non unico. E solo il colpevole avrebbe pensato di disfarsene così in fretta. Sempre che qualcuno non voglia sospettare di me, è ovvio». «Perché credi che non abbia posto obbiezioni a quella tua idea avventata di entrare in comunione con i draghi? L'odio che i figli del fuoco nutrono per Isengrin e le sue schiere è tale da cancellare ogni sospetto. E io non voglio che il benché minimo alone venga a offuscare il nome della mia famiglia». Che il Santo Guardiano rinunciasse al proprio nome di nascita nel momento in cui assumeva il suo titolo era una formalità che non valeva davvero rammentare.
«La mia idea avventata ha avuto anche altri effetti positivi, mi sembra», precisò Ethienne. «Sì», ammise lo zio con un sorriso, «e mi è stato detto che molti giovani sacerdoti iniziano a tenere in conto i privilegi che potrebbe portare il nome di Cantore del Sangue, se da termine altisonante nato dalla fantasia di qualche mago dovesse mutarsi in un titolo riconosciuto, con il beneplacito dei sovrani del regno». «Non dovrebbe essere difficile ottenere il consenso della corona», osservò Ethienne, «specie in questi giorni che il patriarca di Aquilon è lontano da casa e cerca invano di opporsi al nostro partito. Senza rendersi conto che in sua assenza sarà ancora più facile per Nadhyra e il principe vincere gli ultimi dubbi di sua maestà». «Tutto giusto, Ethienne, a parte il fatto che, ufficialmente, tu e il patriarca di Aquilon sareste dalla stessa parte». «Peccato che i miei alleati inizino a dubitare di me. Forse perché parlo ai draghi, adesso». L'altro sorrise appena, ma di un sorriso triste: «Mio nipote parla ai draghi, e io verrò ricordato come il Padre Guardiano che ha permesso alle tuniche rosse di mescolarsi agli incantatori di Lilài». Ethienne fissò lo zio con uno strano sorrisetto sul volto: «È un risultato anche questo, no? Né mi sembra che avessimo molte alternative». Il giovane poi si alzò e raccolse il blocco da disegno che entrando aveva appoggiato a fianco della scrivania. Sfogliò velocemente le pagine, fino a uno schizzo dove il rosso dei capelli di Aelin, l'indovina delle stelle, sembrava un fiume di sangue nell'erba, e la freccia sottile che le sporgeva dal petto catturava ogni raggio di luce. «Intanto, anche come artista ho il mio da fare», sussurrò. «Ho ripreso a dipingere pure per chi non sa che i miei quadri sono opera di un patriarca, e in molti mi hanno ordinato delle tele che ritraessero questa immagine, o altre legate agli avvenimenti degli ultimi mesi. È un altro modo per far sì che i maghi entrino nelle dimore dei sacerdoti, almeno in un dipinto». Il Guardiano annuì, tornando a sollevare un'ultima volta il pendente del falco: «I quadri resteranno, e con loro i Cantori, anche dopo la sconfitta di Isengrin. Non mi pento delle decisioni prese, ma temo di non essere in grado di prevederne i risvolti. E adesso c'è un altro provvedimento di cui vorrei parlarti, e che molti potrebbero non trovare saggio». «Sono tutto orecchi». «L'uomo della visione di Aelin, il sicario. Dobbiamo cercarlo, rintrac-
ciarlo e assoldarlo». «Hai in mente di far fuori qualcuno o è solo una misura preventiva?», domandò Ethienne socchiudendo gli occhi. «La seconda. Per il momento». «Vedrò quello che posso fare». «Fiamma è Oro Rosso», mormorò Jordan, né era la prima volta che lo faceva. «La spada della mia famiglia, perduta da generazioni... Aelin d'altronde l'aveva detto». «Detto cosa?», domandò Gwyon perplesso. «Che il Signore del Cancello della leggenda di Thule avrebbe potuto essere benissimo l'uomo misterioso che ha ordinato la nascita di Discordia». «E Cylair è sul punto di vendere un'altra spada», sibilò Jade. «È così preso dall'idea dei soldi da non volere neanche ascoltarmi». «In realtà tuo fratello ci è stato di grande aiuto, anche se adesso lo ignora», rispose Jordan con un lampo negli occhi. «Isengrin ha una spada in più, ma così anche noi», sussurrò Gwyon. «Gli equilibri rimangono invariati per il momento, e se riuscissimo a impossessarci della lama viola e di quella azzurra...». «Non voglio pensarci», disse Jordan. «Non mi fido. Isengrin voleva che noi cercassimo Solitudine, non dimenticarlo». «Procediamo un passo per volta», rispose l'altro con un sospiro. «E tu piuttosto, Jade: posso chiederti cosa farai?». La ladra incrociò le braccia: «Qui le nostre strade si separano, almeno per qualche tempo. Shiin ha detto che si sarebbe fermato sino a che Oro Rosso non verrà ultimata. Io posso apprendere molto da uno come lui. Mi mancano ancora dei tasselli, e non voglio prendere la mia decisione basandomi su un quadro incompleto». «La tua decisione...», borbottò Jordan. «Forse ho già deciso», si corresse l'altra con un sorriso candido. «Ma non desidero ancora dire l'ultima parola». «Oppure non vuoi dirci che hai scelto il nemico». «Questo no», disse Jade in tono serio, spostando lo sguardo su Gwyon. «Avrei la stessa fretta di firmare un patto con il maligno». «Ciò non significa che non lo farai», ribatté l'erede di Thule. «Se non avessi alternative non mi tirerei indietro. Ma in fondo sono solo una ladra, e lo stregone non ha ancora bussato alla porta per chiedere la mia anima. Se avessi buon senso cercherei di tenermi alla larga da tutto
questo, ma a volte bisogna abbandonare il buon senso e rischiare. Ne vale la pena». Il cavaliere cercò di abbozzare un sorriso. «Non cercherò di convincerti ancora». «Ci rivedremo, credo», sussurrò l'altra, e gli tese la mano. L'uomo giunse al sorgere delle prime stelle. Si avvicinò con passo leggero, quasi non lo udirono arrivare. «È stata la musica dell'arpa a guidarmi», disse. Aveva un sorriso malinconico sul volto, e due occhi scuri e pensosi. Rhory sorrise incerto, mentre Sethrian fissava cauto il nuovo venuto. «È raro che un suono di note giunga fino a questa landa, ma voi siete forestieri, e forse siete all'oscuro di tutto». «Se vorrete sedervi al nostro fuoco», mormorò Palen, «potrete raccontarci ogni cosa». L'altro annuì, e si avvicinò di qualche passo ancora. «Oltre quelle colline sorge un antico monastero dove vige il sigillo della parola. Solo un'antica preghiera viene recitata nei portici avvolti nella penombra, e i confratelli la ripetono di continuo, perché la sua eco non si spenga mai. Ogni altro suono, generato da voce umana o strumento musicale, è bandito». «Interessante», sussurrò Palen passandosi una mano tra i capelli chiari. «E tutto per preservare le frasi che il Signore del Tempo avrebbe pronunciato in questi luoghi», concluse il viaggiatore. «Voi non credete che sia così?». «Ci credo! Ma dubito che qualcuno potrà decifrare il significato nascosto in quei versi, troppo tempo è passato da allora, troppi secoli sono scivolati sulle ossa di questa terra». «A sentire una simile affermazione quasi viene voglia di provare a smentirla», intervenne Sethrian con uno scintillio negli occhi verdi. «Inoltre non ci avete detto ancora il vostro nome». «Martin. Chiamatemi Martin. Per qualche tempo ho fatto parte anch'io dei confratelli della preghiera eterna, ma poi le mura del cenobio mi si sono fatte troppo strette intorno, e preferisco parlare alla gente dei villaggi, piuttosto che agli archi di pietra consumata dal tempo». «Possiamo conoscere dunque questa preghiera?». «Sino a un centinaio d'anni fa sarebbe stato sacrilegio pronunciare i suoi versi al di fuori del monastero. Ma se volete ascoltarmi...
Si cela il secondo spirito Fra ali di morte lucenti Il tramonto indica la via Là dove contro il mare si erge La mano dell'antica pietra». Aelin e gli altri si guardarono perplessi. «Nessuno conosce il segreto di quei versi, ve l'ho detto». L'uomo scosse la testa. «Io stesso ho sperato di decifrarli in passato, e so che presso un golfo corallino, non molto distante da qui, si trova un alto pilastro di roccia intagliata che i pescatori chiamano Mano di Dio. Ma è più probabile che sia stata la preghiera a dare il nome al monolito che non il contrario». «Il monolito», ripeté pensieroso Sethrian. «Desiderate vederlo?», domandò Martin. «Perché è là che mi sto recando». «Se c'è un secondo spirito viene da chiedersi quale sia il primo», mormorò Sethrian. «Dunque seguiremo il monaco errante?», chiese Aelin sottovoce. Il nuovo venuto adesso era immerso nel sonno, e gli altri parlottavano sottovoce. «La sua pietra si trova lungo la via tracciata dalla sfera», ricordò Rhory. «I nostri cammini sembrano destinati a unirsi». «Almeno per il momento», ammise Sethrian. «Ma è inutile dirlo, dovremo guardarci le spalle». Gwyon e Jordan cavalcavano silenziosi, sembrava non avessero molto da dirsi. Ciascuno era chiuso in se stesso, perso nei pensieri che venivano scanditi dal rumore degli zoccoli contro la strada. I destrieri erano un dono di Jade, ma ali di drago nascoste tra le nubi facevano da sentinella al cammino dei giovani. Il vetro della sfera era sempre più azzurro, ritrovare l'ennesima spada incantata però non avrebbe fugato i dubbi, né creato nuove risposte. «Siamo come pezzi di un rompicapo», sussurrò Jordan d'improvviso, «tutti incastrati alla perfezione secondo un disegno che non ci è noto». «Dillo a me!», esclamò Gwyon. «Io credevo di essere finito per caso in mezzo a voi, lo credevo con tanta convinzione da sentirmi fuori posto. Ma
ero in errore. Strano a dirsi, è quasi confortante saperlo». «Forse perché il tuo biglietto per l'avventura non è anteriore alla tua nascita, a differenza del mio». Il giovane fece una smorfia. «E da bravo cavaliere io dovrei abbandonarmi alla provvidenza divina, ma per qualche motivo bizzarro al momento non è questa la mia inclinazione». Gwyon sorrise appena. L'altro fece per aggiungere qualcosa, ma poi serrò le labbra e tirò le redini del suo destriero. «Fumo... c'è del fumo tra gli alberi». Il mago socchiuse le palpebre, cercando di distinguere il filo nero nella trama di nubi sfilacciate. «Non mi sbaglio», disse Jordan. «Che pensi di fare? Giriamo alla larga o andiamo a dare un'occhiata?». L'erede di Thule sorrise: «Tu che ne dici? Non tocca solo a me decidere». Gwyon scrollò le spalle, incerto. «Insomma», disse il cavaliere scuotendo la testa, «ci troviamo in una regione che pullula di banditi, mercenari e ribelli. Tre ottimi motivi per essere cauti. E tre ottimi motivi per spingerci avanti a dare un'occhiata». «Nella speranza di trovare l'ennesimo frammento del rompicapo, magari?». «Anche quello è da mettere in conto». «Comunque sia, non ha senso rischiare: lasciamo che siano i draghi ad andare in avanscoperta», propose il mago. Il cavaliere tornò a sorridere: «Cosa credi che stiano facendo adesso?». Il resoconto di Alascura non tardò ad arrivare: una decina di soldati dalle divise rosse e oro, l'immagine del fuoco acceso, una figura umana che si divincolava in un sacco. Jordan ridusse gli occhi a una fessura al sopraggiungere della visione: «Il rosso e l'oro sono i colori nello stemma del Conte di Morgant. Un alleato di Christofer, stando a quello che ho sentito a Vultur, ma con l'ambizione sufficiente a mettersi in proprio, se solo ne avrà l'opportunità e il modo». «Il nome di Christofer non mi è nuovo», rifletté Gwyon. «Non era lui che annoverava tra i suoi mercenari uno dei luogotenenti di Isengrin?». «Centrato in pieno». «Peccato che i draghi non comprendano le parole umane», mormorò il giovane mago, «e che dunque non sappiano riferirle». «Alle parole... possiamo sempre provvedere noi».
«Guardala come si agita!», esclamò uno degli uomini. Poi ridendo prese a punzecchiare con una lancia il sacco color cuoio che era stato appeso a un ramo. Gli altri osservavano sogghignando, mentre si passavano un barilotto di birra che aveva l'aria di non essere troppo pieno. «Si agiterà di più dopo!», sghignazzò un soldato. «Anzi, perché non ci prendiamo subito un assaggio?». «Tanto che potrebbe fare?», disse un altro asciugandosi la bocca con una manica. «Più che mordere e graffiare». Jordan serrò i denti. Lui e Gwyon erano strisciati tra i cespugli e adesso erano abbastanza vicini per vedere ogni cosa. Era sin troppo facile immaginare che nel sacco ci fosse una fanciulla indifesa e inerme, una ragazzina dagli occhi sbarrati di paura come avrebbe potuto esserlo Aelin. «Che morda pure!», esclamò ancora il soldato armato di lancia. «Non farà che renderci il gioco più divertente». «Anche la mia spada morde», bisbigliò in quel momento una figura nell'ombra. «E non credo giudicheresti divertenti i suoi tagli». Jordan trattenne il fiato, mentre l'uomo veniva avanti. Era un guerriero dalla carnagione scura, vestiva di nero, a differenza degli altri, e i suoi occhi castani brillavano minacciosamente. «Perché ti impicci, amico?», disse il soldato passando la lancia da una mano all'altra. «Perché i miei ordini dicono che la prigioniera deve giungere illesa a destinazione». «Ma noi stavamo scherzando!», protestò quello, in tono però assai poco convincente. «Non è vero che stavamo scherzando?». I suoi compagni borbottarono qualcosa di incomprensibile. La ragazza nel sacco tornò a divincolarsi. «Noi non vogliamo fare nulla di male alla fanciulla», tornò a dire il soldato, «pensate piuttosto a come deve stare stretta lì dentro». Il guerriero socchiuse gli occhi, come se stesse riflettendo sulle parole dell'altro. Subito dopo aveva sguainato la sciabola, per parare il goffo fendente dell'uomo. Il soldato con la divisa rosso oro, sbilanciato dal suo stesso attacco e dalla birra che aveva in corpo, sarebbe caduto, se non si fosse appoggiato alla lancia. Il guerriero rimase a fissarlo. La lama della sua spada aveva il brillio dello zaffiro.
«Tu, maledetto», il soldato tornò a rialzarsi, «devi imparare che gli uomini di Morgant non prendono ordini da uno sporco mercenario, un assassino prezzolato, senza famiglia né onore!». Gli occhi dell'altro scintillarono cupi. Il soldato sguainò la spada a sua volta, e si lanciò di nuovo contro il combattente in nero. «Adesso!», gridò Jordan. Nulla di meglio dello scompiglio di uno scontro per cogliere gli uomini di sorpresa e liberare la ragazza. «Adesso», gli fece eco Gwyon e lanciò un incantesimo che avrebbe stordito almeno un paio di nemici. Forse non ricordava più le antiche lezioni dello Stregone d'Argento, ma nemmeno era il ragazzo sprovveduto giunto alla porta di Sethrian un paio di anni addietro. Il guerriero dalla pelle scura si liberò con un fendente dell'avversario, lasciandolo a terra sanguinante. La ferita non era mortale, ma profonda. L'uomo non si sarebbe risollevato tanto presto. Gli occhi scuri del mercenario tornarono a brillare, e lui stese la spada nel gesto di saluto che precede un duello tra pari. Jordan levò la sua arma in risposta; la lama brillava del medesimo blu zaffiro. Si sarebbe lanciato all'attacco, se gli uomini di Morgant non si fossero frapposti fra lui e il suo rivale. I soldati non avevano compreso che i nuovi venuti non venivano a dare manforte al mercenario. Il cavaliere di Thule aveva contato su un simile errore, e adesso non aveva il tempo di rimpiangere la sfida che non aveva potuto raccogliere. Era troppo impegnato a destreggiarsi contro due avversari contemporaneamente. Con la coda dell'occhio vide che Gwyon si era precipitato verso la prigioniera. I due uomini che il mago aveva colpito all'inizio non sembravano più in grado di combattere. Forse un secondo incantesimo li aveva stesi, forse si era trattato di una più prosaica botta in testa. Altri due soldati minacciavano il giovane mago, ma il riverbero di fiamma nella sua mano sinistra, reale o illusione che fosse, per adesso li teneva lontani. Uno degli avversari di Jordan si lanciò in un affondo che avrebbe potuto infliggergli una grossa ferita ma, ancora una volta, il filo di drago protesse chi lo indossava. E il nemico si era scoperto troppo, così il ragazzo non esitò ad approfittarne. La prigioniera era ormai fuori dal sacco, e nei suoi occhi color nocciola ardeva la smania di combattere. «Ci rincontriamo», disse Llys, e sottrasse a Gwyon la corta spada verde
che l'altro aveva adoperato per tagliare le corde. La guerriera di Levant sembrava pronta a uccidere. Dimostrò presto che lo era davvero. In quel momento Jordan udì un tonfo, quasi alle sue spalle. Si voltò, in un sussulto e vide un soldato che giaceva esanime appena a un passo da lui. «Stava per colpirti alle spalle», disse il mercenario, tranquillo. «Non è il comportamento degno di uno scontro leale». «Perché, c'era qualcosa di leale in questo scontro?», ribatté Jordan con un sorriso ironico. Erano rimasti solo loro in piedi. Gli uomini vestiti d'oro e rosso erano tutti a terra. «Su questo si potrebbe discutere», rispose il guerriero rinfoderando la spada. «Ma devo ammettere che a guidare la mia mano è stato anche il pensiero dei draghi che potrebbero calare dal cielo». «Sei ben informato, vedo». «Sì, lo sono». Jordan fissò l'altro senza parlare. La calma dell'avversario lo rendeva incerto. «Lascialo a me!», esclamò Llys raggiungendo il cavaliere. «Voglio che il suo sangue scorra, senza alcuna pietà. Come pietà non hanno avuto i suoi pari nello sterminare la mia... la mia regina e i suoi familiari». «Un simile sangue non ha macchiato la mia lama», rispose il mercenario dopo un istante. «Non posso negarlo, è stata la magia di Isengrin ad aprire le porte della reggia, ma...». L'uomo chiuse gli occhi, e Jordan dovette trattenere la ribelle perché non si lanciasse contro il nemico. «Uccidendomi non riporterete nessuno in vita», aggiunse il guerriero con un filo di voce, «e non potreste ascoltare la proposta che devo riferirvi». «Una proposta? Che proposta?», aveva chiesto Llys sospettosa. Ma il mercenario invece di rispondere aveva indicato con lo sguardo i soldati a terra. Non desiderava parlare in presenza dei suoi infidi alleati. «Ha ragione», sussurrò Gwyon , «dovremmo prima occuparci dei feriti». Che il fraintendimento fosse stato volontario o meno poco importava. Le parole del giovane mago valsero comunque a spezzare la tensione. «Cosa pensi di fare, Jordan», chiese poi Gwyon al cavaliere, mentre un sonno incantato veniva opportunamente a cadere sui soldati, «porteremo ad Auster anche questi prigionieri?».
«Ad Auster?», ripeté l'altro scuotendo la testa. «Aquilon non può far prigioniera la gente di Levant nella terra di Levant. Diverso sarebbe il discorso per un servitore di Isengrin, ma il nostro amico è agli ordini di Christofer adesso». «Lasciateli andare», fece Llys in tono piatto. «Sono nemici, ma anche uomini di Levant. Non è un regno di cadaveri quello che vogliamo ricostruire. Lasciateli andare, tutti meno lui». E puntò il dito contro il mercenario. «Non posso biasimare il vostro rancore», disse quest'ultimo, «ma se davvero avete a cuore il benessere del regno, invece della mera vendetta, ricordate le mie parole, vi prego. Isengrin non vuole per sé il trono di Levant, non l'ha mai voluto. Se la defunta regina avesse ascoltato le sue prime profferte nulla di tutto questo sarebbe accaduto». La donna sputò in faccia all'uomo. «Questa è la sola risposta che la principessa Felicia saprà darvi». «La principessa in tal caso dimostrerebbe di essere assai coraggiosa, ma del tutto priva di saggezza». «È da stolti rifiutare di venire a patti con gli assassini della propria famiglia?», disse Jordan in tono ironico, mentre Gwyon tratteneva la ribelle. «Piuttosto mi chiedevo quanta saggezza ci voglia per servire un padrone che punisce con orribili ferite in volto chi osa compiere uno sbaglio». «Così sapete del castigo di Shiin», fece l'altro con un bagliore improvviso nello sguardo. «Mi piacerebbe scoprire come. Ma lo stregone sa distinguere tra errore ed errore. E voi conoscete solo una delle colpe di Shiin. Certo il mio comandante non porta segni sul viso per il modo in cui l'avete costretto a fuggire nel vostro ultimo incontro». «Evander», fece Jordan soprappensiero, «potresti chiedergli da parte mia perché seguite un mago che intesse magie capaci di distruggere il mondo». «Di Isengrin voi avete visto solo la metà oscura», disse il guerriero con voce improvvisamente ferma, «e gli equilibri che vedete minacciati non sempre hanno il volto del bene. Ma riferirò la vostra domanda, per quello che può servire». «Servirà a giustificare la mia decisione di lasciarti andare». Il mercenario abbozzò un sorriso. «E... un'ultima cosa». Il cavaliere socchiuse gli occhi. «Dimmi il tuo nome perché credo che torneremo a incontrarci». «Corvo di Nottenera, così suonerebbe nella vostra lingua». Jordan si limitò ad annuire.
Una baia di pietra di un giallo così pallido da sembrare argento si apriva di fronte agli occhi dei giovani. Una distesa di cristalli di pirite, dalle forme fredde e immote, giaceva nel silenzio intriso di salsedine. Più in là, sulla striscia sottile della spiaggia bianca, s'intravedeva il rosso di rami di corallo depositati dalle acque. «Sembra un luogo strappato a un altro mondo», sussurrò Aelin. «Chi ti dice che non sia così», ribatté con un sorriso il monaco errante che li aveva accompagnati. «Si narra che il Signore del Tempo sappia rimescolare gli universi; lì si erge il pilastro che porta il nome della sua mano». Si avvicinarono all'antica pietra, e lungo la base correvano tracce di parole erose dal tempo. «Vorrei poterle decifrare», disse Palen. «La luce dell'incanto si unisce al tramonto», mormorò Martin, «così recitano gli antichi testi». Un chiarore abbacinante prese a filtrare in quel preciso momento dalle cuciture della bisaccia di Sethrian. Era una luce viola. «Cosa sta accadendo?», domandò il monaco sgranando gli occhi. Sethrian aveva preso il globo, lo fissava. Non rispose subito. «Vibra, come se sentisse la spada, come se stesse rispondendo al suo richiamo», mormorò infine. «Forse bisogna scavare», disse Rhory guardandosi intorno. «O forse no», fece Palen, ed era chino sul basamento del pilastro squadrato. Aelin si avvicinò. Frammenti di cristallo viola erano incastonati nella pietra grigiastra, sembravano catturare la luce della sfera. «Non è la spada», ammise Sethrian accostandosi a sua volta. «Forse la traccia che seguivamo si interrompe in questo luogo». «Però non può essere un caso se quei cristalli hanno attirato la sfera», obbiettò Rhory. «Non siamo su una falsa pista». «A che serve se il filo è spezzato e non riusciamo a ricondurlo alla sua origine?». Sethrian appoggiò la fronte allo spigolo del monolito, e il suo viso sembrava aver perso ogni colore. Per un istante solo il suono delle onde invase la spianata. Ma fu un breve attimo. «Stupido!», esclamò il mago. «Sono uno stupido!». Improvvisamente sorrideva.
Aelin seguì lo sguardo dell'altro: al centro del pilastro c'era un incavo esagonale. L'incantatore vi fece scivolare il globo con cautela. I raggi del sole calante presto avrebbero colpito la gemma. E la luce dell'incanto si sarebbe unita al tramonto. Così fu. Un raggio di luce viola si partì dalla sfera, per perdersi nell'orizzonte. «Siete davvero voi, dunque», disse infine Martin, che aveva osservato la scena con sguardo attonito. «Noi cosa?», domandò Palen incrociando le braccia. «Siete coloro che sono destinati a ritrovare la spada viola». «Tali sono le nostre intenzioni», ammise Sethrian, fissando l'altro con rinnovata cautela. «Perché non ci avete detto che sapevate della nostra ricerca?», chiese Palen. «Io non sapevo quale fosse la vostra ricerca. Non mi avete detto nulla». «Non potevamo», ammise il cavaliere prescelto. «Non siamo noi i soli a cercare la spada». «Per lo stesso motivo io non potevo darvi niente di più che una manciata di enigmi». «C'è altro che ci avete nascosto?», domandò Sethrian. «Nomi, frammenti di una leggenda perduta», sospirò il monaco. «Colei che Scioglie, la Lama del Silenzio, Melancolia. E, così recitano gli antichi racconti, solo alla fine dei secoli Solitudine si riunirà alle sue sorelle, per dischiudere i cancelli del Tempo». «Il nostro scopo a dire il vero sarebbe far sì che quei cancelli rimangano chiusi», obbiettò Rhory. «Non posso dire quale sarà l'esito della vostra missione», fece Martin. «Ma so che il destino guida la vostra mano. E spero che mi permetterete di accompagnarvi, di vedere la spada che per lunghi anni ho cantato». Stavano procedendo verso nord. Llys era ancora con loro. Né Jordan poteva dirsi troppo entusiasta di questo. Isengrin aveva già dato prova di saper controllare le menti; l'incontro con gli uomini di Morgant e la conseguente liberazione della giovane, rischiava di rivelarsi, alla resa dei conti, un po' meno casuale di quanto non avessero creduto. Neanche Llys comunque sembrava felice all'idea di dividere con i due giovani il cammino. Si avvicinavano al rifugio della sua gente, e con tutta probabilità anche Llys rimuginava sulla strana coincidenza del loro incon-
tro. «Usciamo ora da un covo di banditi», disse il cavaliere a mezza voce, «non sentiamo il bisogno di vedere altri... luoghi nascosti». «Non credo di poter apprezzare il paragone», sibilò la donna in tono orgoglioso. «Però forse lo vedremo davvero questo vostro rifugio», obbiettò Gwyon. «Io non credo». «Le nostre strade potrebbero non dividersi». «Non mi avete detto dove state andando né perché, ma io non vi permetterò di seguirmi oltre». «Non ti stiamo seguendo», disse Jordan, «e tu lo sai». L'altra annuì, pur non nascondendo la stizza. In realtà era stata lei a venir dietro al cavaliere e al mago, fin ora. «Cosa voleva Isengrin dalla vostra regina?», domandò improvvisamente Jordan. «Solo la principessa potrebbe rispondervi», fece Llys cupa. «Forse nemmeno lei». Gli occhi del cavaliere lampeggiarono. Ma lui rimase in silenzio. «Saremo felici di avervi con noi», aveva detto Sethrian al monaco. Era la scelta più prudente. Se Martin fosse tornato al suo antico monastero annunciando che la fine del mondo era alle porte, avrebbero potuto esserci alcune conseguenze molto sgradevoli. Delle attenzioni poco desiderate rischiavano di posarsi sulla spada viola e su coloro che l'avevano ritrovata, né erano solo gli sguardi di Isengrin che dovevano temere in quel momento. L'esplosione di un qualche movimento millenaristico, del panico e del fanatismo non potevano portare nulla di buono. I draghi giunsero al richiamo dei giovani. Il monaco li guardava attonito. «Verrebbe da chiedersi che cosa si nasconda dietro i loro liquidi occhi», mormorò. «Il mare li rende inquieti», disse Rhory fissando l'orizzonte. «I figli del fuoco temono l'acqua?». «No, non è questo. Il loro canto parla di morte». «Ma ci accompagneranno», precisò Sethrian, e il suo sguardo si era fatto bruciante. «Sembra...». Rhory si portò una mano alla tempia. «È come se volessero dirmi che conoscono già la strada». Martin ascoltava, e non cessava di scrutare i draghi.
«I figli del fuoco non compaiono nelle mie leggende», ammise il monaco. «Però è tanto ciò che ignoro». «Tutti sapremo di più alla fine del viaggio», mormorò Palen. «E speriamo soltanto», fu il cupo commento di Sethrian, «di non rimpiangere la nostra ignoranza di oggi». «Ho saputo che trascorri molto tempo con l'ambasciatore dello stregone». Jade sollevò il capo, fissando in tralice il fratello. «Qualcosa da obbiettare?». «No», rispose Cylair. «Ma mi piacerebbe sapere da cosa nasca il tuo interesse». «Tu non provi interesse?», domandò l'altra levandosi in piedi, e prese a camminare per la stanza. «Non nutri forse cura e considerazione per lo Stregone dalla Maschera d'Argento, e per tutto ciò che può riguardarlo?». «Se anche così non fosse ho imparato a prestare attenzione a ciò che attira il tuo sguardo». Cylair fece un sorrisetto. «Ma le offerte di Isengrin sono allettanti. Non che io voglia affrettarmi a stringere questo patto, però non posso fare a meno di vedere il nostro naturale alleato in chi vuole distruggere gli antichi ordini e crearne di nuovi». «Cosa ti ha promesso, un regno?», gli chiese Jade in tono brusco. Il fratello trattenne a stento una risatina: «Non l'ha detto a chiare lettere, ma... sono già re dei ladri, perché non diventare un sovrano a tutti gli effetti?». Solleticato nella sua vanità, l'uomo non sembrava rendersi conto che dei sudditi possono accettare di vedere la corona sul capo di un leone sanguinario, ma non su quello di uno sciacallo. Né Cylair sarebbe stato capace di mutarsi da fuorilegge in nobile, e rubare secondo le regole degli aristocratici. Se poi fosse riuscito in una simile metamorfosi, i suoi scherani avrebbero saputo fare lo stesso? Jade socchiuse le labbra, ironica, mentre l'altro parlava di fare del popolo della montagna un vero e proprio esercito. Ladri e banditi erano troppo individualisti, troppo presi da se stessi, rifletté la donna. Potevano essere delle ottime spie, sarebbero diventati pessimi soldati. Sempre che si fossero prestati ai piani altisonanti del loro così detto re. Forse qualcuno avrebbe potuto lasciarsi abbagliare dalla promessa di ricchezze future, forse molti lo avrebbero fatto. Restava il fatto che la fedeltà dei ladri era un filo sottile, legata più al prezioso rifugio dei cunicoli adorni di tombe, che non al carisma di una persona. O forse questo non era esatto; quando pensava
ai ladri Jade considerava soprattutto i più abili, quelli che si fregiavano di un pugnale d'ombra, come lei; suo fratello invece era bravo a tener alto l'umore del variegato popolo che trovava rifugio nella montagna. Almeno questo doveva ammetterlo. «Nessuno potrà mai dire che le proposte di Isengrin non siano degne d'interesse», soffiò Cylair in tono sornione. «Nessuno», ripeté l'altra. «Immagino sia inutile ricordarti che nostro padre ripeteva sempre di diffidare di chi ti offre più di quanto tu possa prendere». «Diceva anche che i dubbi non devono impedirti di afferrare un'occasione». Era vero, aveva detto anche questo. Jade annuì in silenzio. Tutto stava però nel cogliere l'occasione giusta, e non quella sbagliata. «E poi», sussurrò l'uomo, «la vittoria di Isengrin è ormai alle porte». «Tu dici?». Il tono apparentemente distratto della giovane non tradiva la benché minima inflessione. L'arte della dissimulazione era sorella del furto. L'altro riprese a parlare. Jade ascoltava, avida. XXII SOLITUDINE Dapprima era solo una scheggia di luce riflessa sul mare, quasi confusa nel chiarore delle acque. Avevano viaggiato a lungo. Le ali dei draghi bruciavano il cammino, ma il sole era tramontato e poi sorto di nuovo nel loro volo sull'oceano. L'isola continuava a crescere, adesso era simile a uno specchio iridato, un ovale fragile e luminoso. Aelin la fissava con occhi sgranati, mentre il vento le sferzava il viso e la loro meta s'ingigantiva mostrando i profili di cime e creste aguzze, scintillanti come scaglie di drago. Erano scaglie di drago. I figli del fuoco atterrarono sulle sponde lambite dal mare. I loro occhi erano indecifrabili, e un canto cupo e mormorato si formava nelle gole dei draghi. «È la loro Isola di Morte», disse Rhory guardandosi intorno. «Un luogo intriso di perdita e di sacralità». «La trappola dell'umanizzazione arbitraria è in agguato», sussurrò Aelin
a mezza voce. «La nozione del sacro è privilegio dell'uomo?», si domandò Sethrian con un sorriso ironico. «Sarebbe una domanda da gettare in mezzo alle tuniche del Concilio di Vultur. Magari le terrebbe impegnate per un paio di mesi, impedendo loro di occuparsi delle cose davvero importanti». La terrestre gli sorrise di rimando. Il mago, sospirando, sfiorò il cerchio di ferro che gli cingeva il capo. «È così dolce dire o pensar male degli altri, è come raggrumare il tuo malessere e farne lama». L'incantatore si concesse un altro sorriso. «Comunque non accuso il piccolo regalo di Isengrin delle mie parole taglienti. Quelle sono un dono di natura». «Non temere», disse l'altra sottovoce . «Presto sarà tutto finito». «Non proprio tutto spero», rispose il mago, mentre i suoi occhi si posavano sulla figura allampanata di Martin. «Non tutto». «Guardate!», esclamò Palen in quel momento. Poco distante dalla riva, là dove le acque si facevano più profonde, si ergeva un altro pilastro di roccia. Era il gemello della Mano, e la meta del fascio di luce violetta, non v'era alcun dubbio. «Nessuna magia potrebbe penetrare la distesa di scaglie e i pilastri sono molto antichi», disse il mago in tono pensieroso. «Il luogo delle ali di morte deve aver custodito a lungo la spada viola». «La fanciulla che arde di luce violetta ha chiesto aiuto ai figli del fuoco, promettendo loro in cambio che le navi degli uomini non avrebbero più trovato l'isola dell'ultimo volo», mormorò Rhory con gli occhi socchiusi. Aelin incrociò le braccia in un sospiro. Era l'unica, a parte Martin, a non avere alcuna percezione dei pensieri delle creature alate. «La lama è in una teca di cristallo», aggiunse il cavaliere prescelto, «ma solo mani umane sapranno afferrare la spada». «Aspetteremo sera per metterci in cammino», disse Sethrian in tono pratico, «quando i cristalli avranno cessato di moltiplicare all'infinito i raggi solari». Eppure lo sguardo del mago non si staccava nemmeno per un istante dalla piana di scaglie di drago. Una cascata sgorgava tra le rocce aguzze. Il sentiero si apriva lungo il fianco del monte in una valle silenziosa. I sempreverdi avevano sopraffatto l'oro autunnale, e l'azzurro della sfera nascosta in una tasca di Gwyon an-
nunziava che il luogo era vicino. Non avevano trovato alcuna traccia del campo di guerriglieri ancora, ma Llys continuava a seguirli, ed era sempre più cupa. «C'è qualcosa che vuoi dirci?», le chiese Jordan, fissandola in tralice. «Potrei farti io la stessa domanda», rispose l'altra in tono di sfida. «Noi stiamo cercando una spada», disse il cavaliere all'improvviso. «E Isengrin fa lo stesso. Per questo la segretezza è importante. Ma se tu sai qualcosa...». «Cercate una spada», ripeté Llys. «È quello che ho detto». La giovane non disse una parola, ma fece qualche passo avanti. Si chinò perché le sue dita sfiorassero una pietra piatta e liscia. «Cercate una spada di cristallo azzurro, una lama che vibra, colpita, di una melodia arcana». Llys scostò lentamente la roccia, rivelando il bagliore dell'arma sprofondata nella nuda terra. «Cercate la mia eredità, l'unica cosa che mia madre abbia potuto lasciarmi». Aveva preso la spada tra le mani, e continuava a fissarla, mentre la ripuliva piano dal terriccio. «È stato Isengrin il primo a mettersi sulle tracce delle lame», disse Jordan. «Canto, se questo è il suo nome, non è nemmeno l'unica spada che sta cercando. E noi vogliamo solo ostacolarlo». «Canto era il suo nome». La giovane sciolse la cintura, per legarvi il fodero della spada. «Non so fino a che punto io debba credervi, ma non avete mentito riguardo alle mire di quel vostro stregone. È lui che controlla i varchi, è lui che ha distrutto la mia famiglia e il mio regno, e adesso ne conosco il motivo». Gwyon rivolse un'occhiata interrogativa all'amico, ma l'altro gli fece cenno di tacere. La giovane donna si alzò da terra. «Un uomo con la maschera bianca è comparso alla regina pochi giorni prima della strage. Ricordo ancora le parole con cui lei mi descriveva le mani brune e sottili, i capelli corvini, lo sguardo bruciante. Lo sconosciuto non parlava, ma una voce imperiosa sembrava nascere nella mente stessa della sovrana. "Affidami i segni del comando", diceva, "deponili nelle mie mani, se non vuoi vedere il tuo regno sfiorire e appassire". Quella voce era suadente, per un istante obbedire era sembrata l'unica cosa possibile. Così
mi ha detto mia mad...». La donna si interruppe e chiuse gli occhi. «Tua madre», ripeté Jordan. «Mia madre», annuì lei dopo un istante. «La regina di Levant, mia madre. Mi faccio chiamare Llys ora, ma è solo il diminutivo di Felicia». E Jordan non sembrava sorpreso. «Affidatemi i segni del comando...», ripeté la giovane. «Mia madre non ha ceduto. Non lo avrebbe mai fatto. Vultur non desidera altro che ghermire la nostra corona, far sì che siano le mani di una tunica rossa a poggiarla sul capo della regina... le parole dello stregone richiamavano con insistenza una simile immagine. E mia madre ha vinto l'incantesimo, ma ha pagato con la vita». «Forse in realtà era questo che Isengrin desiderava», sussurrò Jordan. «Che vorresti dire?», domandò Llys in tono brusco. «Lo Stregone dalla Maschera d'Argento cercava forse un pretesto per motivare la strage. Di fronte ai suoi uomini, perché non tutti sembrano inclini all'assassinio con la medesima leggerezza, o più semplicemente davanti a se stesso». «Per la sua coscienza, dici?», mormorò la principessa con una smorfia incredula. «Se mai ne ha una», concluse Jordan, cupo. Jordan e i suoi due compagni erano ritornati a valle. Si erano accampati per la notte. Gwyon stava spiegando alla principessa Llys la storia dei talismani e del loro potere. Il cavaliere di Thule ascoltava in silenzio. Ormai aveva deciso di fidarsi della donna, non fosse altro per la naturalezza con cui aveva rivelato la sua identità, senza preoccuparsi di fornire prova alcuna del proprio rango. Una truffatrice l'avrebbe fatto, e ancor prima che le venisse richiesto. Quella giovane dai riccioli scuri aveva pronunciato il proprio nome come se fosse stato il frammento di una verità dolorosa. E Jordan aveva deciso di crederle. Ma anche se si fosse sbagliato, lui e Gwyon non le stavano raccontando nulla che Isengrin già non sapesse. «Voi dite che le sei spade potrebbero celare la chiave della sconfitta di Isengrin», mormorò la principessa serrando le labbra. Jordan si limitò a uno stanco cenno d'assenso. «La mia spada», tornò a dire Llys. «Volete la mia spada e in cambio promettete la rovina dell'assassino che ancora inseguo nel buio delle notti insonni».
Gli occhi della donna tornarono a posarsi sulla lama di cristallo. «Noi non possiamo fare alcuna promessa», disse Gwyon corrugando la fronte. «Anche se riusciremo a impadronirci del sapere degli Elaunoi saremo ancora lontani dall'aver vinto». Un sorriso tirato si disegnò sulle labbra della principessa. «Eppure varrebbe comunque la pena di tentare» sussurrò. Fece scorrere un dito sul piatto della lama. Poi compi il gesto di consegnare la spada. «Da generazioni Canto è custodita dalle giovani della mia stirpe», riprese, «la leggenda vuole che sia stato il primo degli Oracoli della Madre a disegnarla per i fabbri reali. Ma una spada non vale la guerra e il sangue, non può valerle». «E ti fidi di noi?», le chiese Gwyon incerto. Llys guardò prima il mago, poi il cavaliere, esitante. «Non devi consegnare la spada», aggiunse Jordan. «No, è un bene che rimanga in mano tua, sino alla fine. Isengrin tira le fila degli scontri a Levant mentre Aquilon e gli altri regni volgono lo sguardo altrove. Invece tutti dovranno sapere che è stata la mano della principessa Felicia a estrarre l'ultimo Talismano, e quando gli equilibri saranno ripristinati nessuno dovrà dimenticare il suo ruolo nella caduta di Isengrin». «Se Isengrin è destinato a cadere». «Se la vittoria finale spetterà allo stregone difficilmente avremo modo di preoccuparci di regni e alleanze». La principessa socchiuse gli occhi: «Apprezzo le tue parole, ma scegliere di seguirvi è un rischio maggiore che consegnare una spada, e io ho delle responsabilità nei confronti di coloro che ancora mi sostengono». Jordan fece per replicare, ma poi scosse la testa, puntando il dito verso la vallata. L'oscurità incombente rendeva incerta la figura, ma c'era ancora abbastanza luce per vederlo: un cavaliere vestito di nero cavalcava a spron battuto, e sembrava dirigersi proprio verso di loro. Si erano addentrati in un mondo irreale, una visione di sogno li circondava. Aelin si guardava intorno, con gli occhi perennemente sgranati. Al calare del crepuscolo i colori delle scaglie si erano spenti nelle tenebre, ma il riflesso delle stelle vagava sulle loro superfici di specchio, simile a un corteo di fuochi fatui, o a falene incantate. «Camminiamo sulle spoglie di morti», sussurrò la giovane mentre Rhory
le tendeva la mano per aiutarla ad avanzare sulla superficie accidentata. «I draghi non temono la morte», mormorò l'altro in tono pensieroso. «È quello che ti dicono adesso?», domandò la ragazza. «Sì. Tuttavia è difficile decifrare le loro menti. Venerano quest'isola però non si curano delle scaglie disseminate tutt'intorno. Piangono il momento in cui la vita finisce, ma ciò che viene dopo è nulla ai loro occhi. Ucciderebbero qualsiasi estraneo che giungesse in questi luoghi, e invitano noi a prendere tutto quello che possiamo». «Lo trovi contraddittorio?», gli chiese Aelin con un sorriso. «Io non direi». «Non per nulla il popolo alato ti ha dato il nome di Pensiero». La giovane si passò una mano tra i capelli. «Sono curiosa di vedere se Sethrian non si lascerà prendere da un attacco di avidità di fronte a una simile offerta. Non che io sia da meno in queste faccende, però il nostro amico incantatore è molto più sfacciato di me». «In effetti...». Ma Sethrian aveva altri pensieri per la testa in quel momento. «C'è pace qui», considerò Rhory. «Verrebbe da credere che di fronte al momento del trapasso si annullino le differenze tra uomini e draghi, e invece proprio questo luogo colora la morte di un diverso sapore». L'altra socchiuse gli occhi. «Non è una cosa che saprei descrivere a parole», continuò il ragazzo. «È più una sensazione, o forse non sono bravo a esprimermi». Aelin taceva ancora. «È forse questa la differenza», aggiunse il cavaliere: «Gli uomini costruiscono frasi attorno a ogni cosa, sino a mutarla di segno, sino a ricucire il filo di una ragione che sembrava perduta, le menti dei figli del fuoco volano più alto, lasciandosi alle spalle l'intricato groviglio dei linguaggi umani, la sua affascinante complessità, le sue contraddizioni». «Ed è un bene o un male?». «A questo non saprei risponderti, eppure ci sono momenti in cui mi sento più vicino ai draghi che agli uomini». «Lo credi davvero?», gli domandò Aelin. «O è la malinconia di questo luogo a suggerirti simili pensieri?». Il cavaliere si guardò intorno. C'era un'atmosfera lugubre, stranamente quieta. I tumuli di scaglie si erano diradati cedendo il posto a torri e archi dall'aria spettrale. C'era da chiedere chi avesse disposto in quel modo le spoglie dei draghi, sino a formare l'immagine di una città incantata, di una
regione dove la vita era sospesa come il riflesso di un sogno mai realmente vissuto. Ma forse la risposta andava cercata negli stessi antichi poteri che avevano dato vita alle spade. «La malinconia», ripeté Rhory, «la malinconia può dar forza ai nostri pensieri, non crearli dal nulla». «Abbiamo già incontrato spiriti in grado di dominare le menti». «Io conosco questi pensieri, mi sono familiari». La giovane tacque, rimase a fissare l'altro come se lo vedesse per la prima volta, quasi. «Volevano che fossi un illegittimo, sai?», disse il cavaliere all'improvviso. «Si erano inventati che ero il bastardo del fratello di dama Vanessa o giù di lì, e tutto perché Jordan e i suoi mi volevano bene. A volte mi sono chiesto se non dovessi sentirmi umiliato per simili dicerie. Tutti si aspettavano che lo fossi. Ma poi mi accorgevo che non lo ero, che non mi importava. Era così facile salire sopra i rami di un albero di melograno, osservare il mondo dall'alto...». «Adesso sono le ali di un drago il tuo melograno, è questo che vuoi dirmi?». «Non sono io a scegliere, Aelin». Rhory scosse la testa. «Abbiamo affrontato insieme quest'avventura, Sethrian si è mosso per colpa di quel cristallo assassino, Gwyon era guidato da una volontà che non conosceva, Jordan è un impiccione per natura e, a suo modo, voleva proteggermi. Io invece sono il cavaliere prescelto, e non riesco a farmi beffe della sorte che fra tanti mi ha affidato un simile compito. Certo, neanche tu hai scelto...». «Ma io non credo nel destino», concluse l'altra in un soffio. Rhory chiuse per un istante le palpebre. Il vento, soffiando tra gli archi di cristallo nero, creava strani sibili stregati. «Forse non avevi tutti i torti riguardo all'atmosfera che regna su questo luogo», fece poi, riscuotendosi. «Vieni. La spada non deve essere distante». «Jade!». «Per fortuna vi ho trovati!», esclamò la donna appoggiandosi al pomo della sella. «Le tracce che avete lasciato erano sin troppo rade». «Ci hai trovato», ripeté Jordan fissando l'altra sorpreso. Llys osservava la scena in silenzio. «Se non avete nulla in contrario io salterei i convenevoli», disse la ladra passandosi una mano tra i corti capelli scuri.
«Non ci dirai nemmeno come ci hai trovati?», chiese il cavaliere di Thule. «Seguire le nostre tracce dal rifugio della montagna mi sembra un'impresa difficile». «La notizia del vostro salvataggio era giunta sino all'ambasciatore di Isengrin, nel nostro covo», spiegò Jade indicando la principessa. «E Shiin è sempre pronto a far sfoggio di ciò che sa, conta sul fatto che ciò accresca la sua importanza». «Le notizie viaggiano in fretta», sussurrò Llys. «E ancor più», aggiunse Jordan, «se si hanno i mezzi degli uomini di Isengrin». La principessa fece una smorfia, le labbra sottili si erano increspate al suono del nome dello Stregone d'Argento. «È accaduto qualcosa di grave?», domandò Jordan alla ladra mutando espressione. «Sembra che Isengrin abbia trovato il modo di insinuare una serpe nel manipolo degli eroi», rispose Jade. «Una serpe...», ripeté Gwyon pallido in volto. «Non si tratta di te, non si tratta di nessuno di noi», precisò l'altra portandosi due dita a una tempia. «Forse è già troppo tardi ma dovevo comunque tentare di avvertirvi». «Chiamerò i draghi», disse solo Jordan. Era seduta su una roccia, aveva grandi occhi pensosi, occhi che splendevano di viola, come tutta la sua persona. Quando Aelin incontrò il suo sguardo le sembrò di leggere in quelle iridi enormi il riflesso di rami intrecciati e di nuvole arrossate al tramonto. La giovane terrestre rimase immobile, come stordita, mentre l'apparizione si portava un dito alle labbra e svaniva, ombra tra le ombre. «L'abbiamo trovata!», esclamò Rhory, chiamando gli altri, e il suo grido si infranse in quel labirinto di scaglie formando mille eco contorte. La spada violetta riposava in una teca di cristallo e argento, tra quattro pilastri lucenti. Il passaggio era troppo angusto per i figli del fuoco, ma le mani umane non tardarono a liberare la lama incantata. «Cosa percepisci?», domandò Sethrian all'altro mago, in tono quasi ansioso. «Nulla in realtà». Palen socchiuse gli occhi. «Non è la magia che noi conosciamo ad animare la spada, e il suo incanto è forse ancor più elusivo di quello delle sue sorelle».
Sethrian non disse nulla, ma sollevò la lama violetta, osservando in silenzio la superficie translucida, simile a quarzo, come per cercare qualcosa che i suoi occhi non potevano cogliere. Con un gesto lentissimo il mago poggiò la fronte sul piatto della spada: il cerchio che gli cingeva il capo si ruppe in sottili frammenti di ferro nero, scaglie che per un istante parvero fermarsi e rimanere sospese nell'aria notturna, nel bagliore immoto di un attimo privo di tempo. Aelin sbatté le palpebre mentre i pezzi di metallo ricadevano a terra. Con il fiato sospeso, Sethrian lasciò scorrere un dito sulla lama stregata. Poi sollevò il capo. Sorrise agli amici, incredulo. «È stata la spada?», chiese sottovoce Martin, avvicinandosi. «È stata la spada». Il monaco annuì solennemente, e tornò ad arretrare: «È come se volesse mostrarsi degna di tutte le leggende: si narra che la Lama del Silenzio possa sciogliere gli incanti più potenti col suo tocco, ma anche i legami della vita stessa». «Non ci vuole molto per questo», osservò Sethrian. «Qualsiasi lama che ti trapassi il cuore saprebbe levare un simile vanto». Il monaco scosse la testa, come se il senso delle sue parole fosse stato diverso e più profondo, tuttavia si guardò dal replicare. «Forse è ora di tornare indietro», mormorò Rhory all'improvviso. Aelin annuì: era come se su quel luogo aleggiasse uno strano incanto, e fermarsi più del dovuto potevano risvegliare oscuri pericoli, sortilegi in grado di carpire l'anima degli uomini. «Incamminiamoci», concordò Palen, pur non sembrando troppo convinto. Sethrian dal canto suo sembrava più interessato alla spada, e ad alcuni frammenti di ferro che aveva raccolto. Fu allora che Aelin tornò a vederla: fanciulla incorporea, spettro luminoso, l'espressione assente nello sguardo era tradita dalla piega quasi divertita delle labbra; non avrebbe potuto avere altro nome che Solitudine. «Posso prendere la spada?», chiese piano la terrestre. Quando le sue dita si furono strette intorno all'elsa violetta, ebbe come una strana scossa. L'immagine si era fatta ancora più nitida, eppure nessun altro sembrava scorgerla. Aelin taceva, era come se le parole le si fossero fermate in gola, come se fosse empietà spezzare con suoni umani quella quiete innaturale. Forse sto sognando, pensò, mentre osservava le movenze leggere del-
l'immagine stregata. «Stai bene, Aelin?». Lei quasi non sentì la voce di Palen. Continuava a tacere, osservava in silenzio quello spettro dal volto di donna che sembrava scrutare e giudicare gli sconosciuti penetrati nel suo regno. Solitudine avvicinò piano la punta delle dita al volto emaciato del monaco errante. Sotto gli occhi esterrefatti di Aelin, i lineamenti dell'uomo mutarono: erano più sottili, quasi cesellati, il colore scuro della pelle e dei grandi occhi castani ricordavano la perfezione di certi volti dell'India. I capelli bruni e lucenti erano raccolti in una treccia. «Isengrin!», esclamò Sethrian, con gli occhi carichi d'ira. Solo in quel momento la giovane comprese che l'immagine di fronte a lei era reale. E il volto di quell'uomo l'aveva già visto, ma solo dietro una maschera d'argento. «Isengrin...», ripeté la terrestre facendo un passo indietro. Il mago malvagio fu su di lei prima ancora che potesse sollevare la spada. Erba. Erba verde-azzurra, dal profumo intenso, costellata di cespugli bianchi simili a nuvole sfilacciate. Aelin lasciò scorrere le dita tra le piante di quello strano colore, come per saggiarne la consistenza. L'erba si piegò docile sotto il suo tocco, e un brivido attraversò la spina dorsale della giovane. Sollevò il capo, e scorse gli occhi di Isengrin, intenti a scrutarla. «Sei stata sfortunata. Se la sfera d'azione della Scioglitrice non si fosse allargata all'improvviso, se tu non avessi tenuto così stretta la spada, adesso non ti troveresti in questo luogo». «Io mi chiedo solo come abbiamo potuto essere così sciocchi da guidarti sino al tuo obbiettivo». Il mago sorrise, tendendole una mano per aiutarla ad alzarsi. «La rete di incantesimi che ho intessuto per vincere la vostra diffidenza avrà avuto il suo ruolo in questo». La giovane aprì leggermente la bocca, poi la richiuse. Si levò in piedi, in silenzio. «Conoscevo la strada che avreste percorso», spiegò Isengrin, «è stato facile predisporre la mia trappola. Anche se non tutto è andato come avevo calcolato, questo devo ammetterlo. Io volevo che mi portaste ben oltre l'Isola delle spoglie dei draghi». Aelin annui lentamente.
«Un rimedio però esiste», aggiunse in fretta l'uomo, con voce carezzevole. «Posso usare te come merce di scambio». «Me?», ribatté la giovane con voce tremante. «Non ha funzionato la prima volta questo giochetto», sottolineò, facendo un passo indietro. «Cosa vi lascia credere che riuscirà la seconda?». «A maggior ragione la strada già intrapresa sarà più facile da ripercorrere». «Ma...». «Cosa?», le chiese il mago trafiggendola con lo sguardo. «Nulla», disse lei, e chinò il capo. «Seguimi», le ordinò lo stregone. C'era una costruzione grigia e smozzicata che si stagliava contro il liquido colore del cielo. I merli e le torrette aggettanti erano incompleti, e la terrestre ebbe la sensazione che si trattasse in un effetto voluto. Ma quello non era tempo per simili pensieri. Aelin seguì l'altro in silenzio. «Una prigione senza sbarre, senza catene, ti circonda», la voce di Isengrin era fredda mentre premeva un dito contro la fronte della giovane. «La morte è l'unica via d'uscita, ai confini di questa valle, e io sto per togliertela». Aelin sentì come una stretta dolorosa attorno al cranio. Spalancò la bocca, ma non ne uscì alcun suono. «Non ci è voluto molto», disse il mago compiaciuto. «In nessun modo potrai cercare di ucciderti, questa è l'imposizione che ho instillato nella tua mente. Tu però non avresti potuto farlo comunque, non è vero?». La ragazza deglutì a quelle parole. «Per il resto sei libera», soggiunse lo stregone. «Le camere che potrebbero contenere qualcosa d'importante sono sigillate e non nutro, lo ammetto, un particolare interesse per come trascorrerai il tuo tempo mentre attendiamo la risposta dei tuoi compagni». Aelin si limitò ad annuire. Non vedeva l'interesse di Isengrin come qualcosa che potesse esserle di particolare conforto. «D'altro canto perché dovrei?», aggiunse l'uomo con un sorriso. «Forse la storia dell'indovina caduta dal cielo potrà ingannare qualcun altro, ma ormai è chiaro che la verità è molto più semplice. Sì, ho avuto modo di controllare. Si è aperto un varco naturale nella cattedrale di Vultur e tu ci sei finita dentro. Ma non c'è nulla di divino o profetico in questo». «Non sta a me convincervi del contrario».
«Forse dovresti, invece», disse l'altro increspando appena le labbra. «Se hai davvero qualche valore questo può solo proteggerti, adesso. E per me sarà più semplice ottenere ciò che voglio in cambio della tua libertà». E se... la giovane aprì la bocca, ma poi lentamente la richiuse. No, quella non era una domanda che desiderasse davvero pronunciare. «Spero che nell'attesa non troverai nulla da ridire sulla mia ospitalità». Il mago sorrise nel pronunciare quelle parole, e Aelin deglutì ancora: si sentiva la gola secca. Un rumore di passi attraversò la sala; il leggero tintinnare di una cotta di maglia si alternava al suono dei tacchi sulle piastrelle. «Vedo che hai catturato la nostra ladruncola», osservò Deirdre avvicinandosi a Isengrin, lasciando scivolare le dita sottili lungo il suo braccio. «E hai portato qualcosa d'interessante dal tuo viaggio, oltre a questa inutile ragazzina?». «Una spada», rispose lui. Lo sguardo della donna corse verso la lama viola che l'altro aveva poggiato sul davanzale di pietra di una delle finestre. Ma furono le dita abbronzate dello Stratega ad afferrare l'arma. «Oh, ci sei anche tu», fece Deirdre gettando al guerriero un'occhiata distratta. «Sono stato io a chiamarlo», disse Isengrin. «Ho dato a te la spada di fiamma, ho tenuto per me la lama d'ombra, la custodia del terzo Talismano voglio affidarlo a Evander». Il guerriero rispose con un accenno d'inchino. Pochi istanti dopo era già tornato a esaminare l'arma incantata, passandola da una mano all'altra per saggiarne il peso. «È una buona lama», commentò. «Ma per quel poco che ho sentito sui Talismani deve possedere qualcosa di più di un buon taglio e un perfetto equilibrio». «Solitudine è una spezza-incantesimi», spiegò Isengrin. «Dovrai prestare attenzione perché sembra che la presenza del cristallo del drago amplifichi i suoi poteri oltre il dovuto». Aelin socchiuse gli occhi. Era stato lo spirito della spada a dissolvere il sortilegio di Isengrin, non il casuale sovrapporsi di campi di potere. Non riusciva a credere di avere solo sognato. La giovane si morse un labbro: decisamente avrebbe preferito essere indovina solo per una finzione. A volte la chiamavano profetessa, a volte veggente, e lei doveva sempre chiedersi quanto c'era di vero nelle sue visioni, se nascondevano un aiuto o
una trappola. Doveva tenere per sé quei pensieri adesso, aveva visto Solitudine come una creatura viva, dotata di una sua volontà, ma Isengrin ignorava quell'aspetto della sua natura, e non sarebbe stato lei a informarlo, non doveva accadere che la piega delle labbra o uno sguardo la tradissero... La giovane sussultò, solo in quel momento si era accorta che Evander la stava fissando sottecchi. «Forse vorresti che non ti venisse affidata solo la spada?», gli chiese Deirdre con un sorrisetto maligno. «No, non credo», rispose lo Stratega imperturbabile. E si congedò senza attendere oltre. Dama Viviana lasciò scivolare stancamente sulle ginocchia il lavoro di cucito. Lo sguardo le cadde sul nero della veste. Presto sarebbero passati i quattro mesi dalla morte di suo marito. E non poteva nemmeno dire che fosse caduto gloriosamente, no, era stata una semplice caccia al cinghiale finita male. Troppe cose inoltre accadevano in quei giorni, e forse fermarsi a piangere era un lusso che presto non avrebbe più avuto. Un ambasciatore di Isengrin era giunto al castello. «Tu conosci quell'uomo, non è vero Jade?», disse infine la donna, con lo sguardo un po' perso. «Sì, lo conosco», confermò la ladra serrando le labbra. «Shiin porta sul volto le cicatrici che il suo Signore gli ha procurato e sparge in suo nome veleno e false promesse». «Non ha detto molto, stavolta», osservò la regina Nadhyra. «Ha soltanto annunziato l'arrivo di nuovi messaggeri, lasciando a loro il compito di render note le richieste dello stregone». «Si vede che Aquilon merita più attenzioni di un covo di briganti, agli occhi di Isengrin», disse Jade con un mezzo sorriso. «O forse è la diversa entità della richiesta a consigliare maggiori cautele», rifletté Viviana. «Sethrian dice che vorrà i Talismani in cambio della libertà di Aelin, e lo credo anch'io». Precisò la ladra. «Non possiamo certo abbandonarla», disse Flora in un sussurro. «Si è data troppa importanza alla figura dell'indovina delle stelle, troppi quadri sparsi per il regno ormai la ritraggono per pensare anche solo un istante di lasciarla al suo destino», mormorò Viviana scuotendo la testa. «Non era ciò che intendevo». «No, ma a mezzodì è stato di questo che ho discusso con il nostro pa-
triarca. Lui era di diverso parere, però credo di averlo convinto: una profetessa sgozzata potrà essere una martire per le generazioni future, ma un colpo mortale per il morale della nostra». «Non che questo abbia troppa importanza», disse la ladra con una smorfia. «Non sarà il patriarca di Aquilon a prendere la decisione. E nemmeno i suoi regnanti, se mi è concesso dirlo». Delle tre lame che mancavano a Isengrin una l'aveva in custodia la principessa senza regno, e Llys aveva un carattere fiero. Per orgoglio non aveva voluto mettere piede ad Aquilon, antica nemica della sua terra, e per orgoglio avrebbe tenuto lontano a ogni costo lo stregone dalla spada dei suoi avi. Ma si sentiva in debito con coloro che l'avevano liberata, e non avrebbe impedito a Jordan e agli altri di riprodurre in una fucina la lama azzurra, se glielo avessero chiesto. Un altro Talismano era stato sepolto in un luogo che solo il cavaliere prescelto e i suoi compagni conoscevano, o meglio, tale sorte era stata riservata allo spirito che animava Discordia. E poi c'era la Lacrima di Pioggia. Erano stati sempre loro a rubarla a Isengrin, ma poi l'avevano lasciata nella residenza del Santo Guardiano. Quella spada comunque non serviva davvero, come Sethrian non aveva mancato di notare: già una volta lo stregone l'aveva forgiata, poteva tornare a farlo. I giorni erano trascorsi lenti, in una solitudine che non era stata spezzata dalle ombre di sogni profetici, né dalla visita dei suoi carcerieri. La terrestre aveva vagato per le sale spoglie della torre grigia, era rimasta per ore a fissare il cielo, sdraiata tra i ciuffi d'erba verde-azzurri, pensava ai suoi amici, continuava a farlo. Forse avrebbe sognato. Se avesse reclinato il capo e chiuso gli occhi forse i sogni sarebbero arrivati. Ma Aelin non voleva. Perché ciò che lei sapeva, o supponeva, Isengrin avrebbe potuto strapparglielo di bocca sin troppo facilmente, se solo lo avesse desiderato. E se in quel momento il mago sembrava più propenso a ignorare la prigioniera, poteva sempre cambiare idea. Allora era meglio non sapere. Non c'erano nubi nel cielo stregato sopra la valle. Non c'era neppure il sole, ma solo una vaga luminosità diffusa, nel tremolio di acque incantate. Isengrin non aveva mentito nel dire che non c'erano vie di fuga. Perché si trovavano sotto il mare. Aelin una volta si era spinta sino ai confini della valle, solo per scorgere il proprio riflesso in una parete fatta di onde. «Arrovellarsi è inutile», si disse scuotendo la testa. Non riusciva a immaginare alcuna via d'uscita. Però aveva trovato il modo per non pensare:
un quaderno e una matita, non proprio come quelli che aveva lasciato a casa, ma comunque sufficienti allo scopo. Era più forte di lei. Scrivere era come una droga. Non aveva importanza se nessuno avrebbe mai letto quelle pagine. Non aveva importanza se l'ultimo mondo che aveva tracciato sulla carta l'aveva intrappolata, no, di più, fagocitata... Quello poteva essere un ulteriore motivo per rimettersi a scrivere, poteva essere la fragile speranza di una via di fuga inattesa. Non che fosse un simile pensiero a muoverla. Forse semplicemente non aveva niente da fare, oltre a nutrirsi d'angoscia e cullarsi nel silenzio. Così si era messa a scrivere. XXIII UNA STORIA INVENTATA «Il giovane si guardò intorno. L'oscurità era fitta e cupa. Gli uomini temevano la notte, si rintanavano nei loro castelli di pietra nascondendosi all'oscurità, al gelo delle stelle come all'inferno rovente dei Giorni del Meriggio. Ma non gli uomini di Darknight, che avvolti nei loro manti di pelliccia sfidavano la tenebra e le sue creature. Loro erano cacciatori». Aelin scosse la testa, fissando in silenzio la pagina che aveva riempito della sua calligrafia fitta e sottile. Era un pessimo incipit: aveva ripetuto la parola uomini a meno di due righe di distanza, anzitutto, e poi non aveva senso parlare del Meriggio se non spiegava prima che il pianeta della storia impiegava più di tre mesi a girare attorno al proprio asse, ogni ora durava giorni, e l'escursione termica era tale da rendere possibile la vita solo nelle ore crepuscolari. Non era nemmeno certa che simili condizioni fossero possibili in natura, in un mondo abitato da esseri umani almeno. Era molto suggestivo immaginare fiumi di metallo che solcavano la superficie del globo per poi solidificarsi in vene lucenti con il sopraggiungere della notte, però adesso temeva che la geografia immaginaria del suo pianeta avesse la pecca di risultare inattendibile dal punto di vista scientifico. La giovane tornò a scuotere il capo. L'affascinava l'idea di quel mondo dove la vita umana era confinata nelle ore in cui il sole è basso nel cielo, ma c'era bisogno di arrivare alla temperatura di fusione dei metalli? Un centinaio di gradi nelle ore più calde avrebbero raggiunto comunque lo scopo. E gli uomini per proteggersi avevano costruito fortezze dalle spesse pa-
reti di pietra e custodivano gelosamente le cisterne e i pozzi. Ci sarebbe stato altro da aggiungere su come gli esseri umani erano giunti in quello strano luogo, ma una simile notizia avrebbe dovuto attendere, né era la sola. Aelin detestava per principio le intrusioni dell'autore nella storia... o forse proprio lei avrebbe fatto meglio a dire del narratore nella trama, giusto per mantenersi su un piano puramente letterario. Ma il punto era un altro: se si voleva scrivere solo dall'ottica dei protagonisti veniva difficile inserire informazioni su ciò che i personaggi non sapevano, e forse ancor di più su quello che davano per scontato, come le fasi del giorno e della notte. La giovane socchiuse gli occhi con un sospiro. Riprese a leggere. «Raven fissava attento le rocce: era quella l'ora in cui le serpi nere uscivano dai rifugi, per nutrirsi dei germogli che il gelo notturno aveva stroncato. Poco più in là i sottili rami dei sylph-is, anch'essi morti e coperti di brina, brillavano alla luce delle stelle. Bisognava prestare attenzione, perché di sicuro nei pressi c'erano i viticci velenosi dei sylph-aen, che si protendevano in cerca di prede. Erano piante infide, malvagie, eppure dai loro semi tornava a nascere l'esile arbusto che alla luce del sole si copriva di frutti dorati». La ragazza si fermò. Era consuetudine nei romanzi fantasy che le piante crescessero anche a velocità spropositate. Ma forse qualcuno poteva pensarla diversamente, e contestare una simile convenzione. Un arbusto era in grado di raggiungere l'altezza di un uomo, o poco più, in meno di un mese? Dal momento però che quella storia non avrebbe avuto lettori si trattava di un quesito puramente accademico. «Sylph-is e sylph-aen: era una metamorfosi inquietante, il simbolo quasi dei due regni di tenebra e luce. Eppure ve n'era un'altra ancor più spaventosa. Bianchi spettri dal volto d'uomo si aggiravano nelle tenebre per predare e razziare, per cercare nutrimento. Vampiri, demoni: nomi cupi e leggendari aleggiavano attorno alle loro figure, e non erano che un frammento del terrore suscitato da tali creature. C'era chi diceva che esistesse un legame tra quegli esseri silenziosi e la stirpe degli uomini, che entrambi avessero la medesima origine. Ma un simile pensiero faceva gelare le ossa a Raven. Il male serpeggiava nella notte, un male ancor più infido dell'arsura del giorno». Aelin però non credeva nelle razze malvagie. I cosiddetti vampiri erano i discendenti di coloro che avevano scelto di nascondersi nel sottosuolo quando l'uomo era giunto in quel pianeta ostile, e nella luce fioca delle ca-
verne erano diventati troppo vulnerabili al sole. Non erano demoni e conservavano, a differenza dei loro cugini, molte conoscenze della vecchia terra. Si ritenevano superiori per questo. Ma era una parte della storia che avrebbe narrato in seguito, come anche quella degli scheletri delle astronavi che i vampiri conservavano quasi religiosamente. Oppure no... in fondo non era un colpo di scena poi così strabiliante. Se avesse messo all'inizio un prologo affidato agli abitanti del sottosuolo ogni cosa sarebbe apparsa sotto una luce diversa, più fredda e spietata. Sì, avrebbe fatto così. Con il sorriso ancora sulle labbra la giovane tornò a sfogliare in fretta le pagine. Dopo un lunga caccia, il giovane Raven tornava a casa poco prima dell'alba, ma trovava il castello distrutto, le mura abbattute, le preziose cisterne d'acqua sfondate, la morte tutt'intorno. Solo alcune donne e i bambini si erano salvati nascondendosi in una camera segreta, e tra gli abbracci e le lacrime si cercava il motivo di quell'attacco efferato. «Che scena lacrimevole», mormorò la ragazza storcendo un po' il naso. «Forse dovrei tagliarne una buona metà, e lasciar dire in due righe ai cattivi della distruzione avvenuta». Sì, perché c'era questo Comandante comparso dal nulla che aveva conquistato quasi tutte le fortezze della pianura, gli uomini di Darknight però avevano sempre pensato che il loro minuscolo tratto di montagna non potesse far gola a nessuno. Non avevano fatto i conti con il particolare che il castello veniva a trovarsi in posizione strategica, a metà strada tra due delle principali rocche del condottiero, e questi, per tutelare i suoi possedimenti, prima aveva offerto un'alleanza al padre di Raven, poi, di fronte al suo rifiuto, aveva scelto di ricorrere alla forza delle armi. Il giovane cacciatore, neanche a dirlo, dopo aver fissato un'ultima volta le orme che il crudele condottiero aveva lasciato nel fango del cortile devastato, decideva di partire per la fortezza più vicina. Per cercare vendetta, ma soprattutto perché con le cisterne squarciate non ci sarebbe stata acqua a sufficienza per tutti, e Raven e gli altri cacciatori non potevano rimanere. Avrebbero cercato altrove di che vivere, ognuno per la sua strada, come mercenari, lasciandosi alle spalle il nome di Darknight, per qualche tempo almeno. Perché ancor prima della vendetta era essenziale sopravvivere. «Sopravvivere», ripeté la giovane, e quella parola aveva assunto una piega amare sulla sua bocca. Era il suo modo di sopravvivere perdersi in un mondo irreale, dimenticando la realtà che la circondava? Poteva chia-
marlo così? O non era che una semplice resa? Ma a ogni modo cosa avrebbe potuto fare? Forse davvero nulla, si disse mordendosi le labbra, però non era fuggendo nelle sue fantasie che lo avrebbe scoperto. Aelin scosse la testa, fissando con sguardo spento le pagine aperte tra il verde azzurro dell'erba. L'assoluta inutilità di quelle parole scritte una dietro l'altra la faceva star male, non fosse che per la consapevolezza di una cosa: entro poche ore sarebbe tornata a scrivere. Perché non c'era proprio nient'altro che potesse fare. «Sei già di ritorno, Deirdre?». «Ho visto lo sgomento e la confusione fra quei poveri sciocchi, Stratega», disse l'altra con una risata cattiva. «È stato divertente finché è durato, ma non sarei voluta rimanere ancora». Evander annuì, pensieroso. Poi scosse la testa, e tornò ad affilare la lama viola che Isengrin gli aveva assegnato. «Ti piace quell'arma?», domandò Deirdre, sedendogli accanto. «Non più del dovuto. Ma irrito Anton se la ostento un po'». Un sorriso increspò le labbra carnose di Deirdre. «È facile far irritare Anton». «Già. E forse non ne vale la pena», ammise lo Stratega riponendo la spada nel fodero. «Dimmi piuttosto che cosa mi aspetta nel castello di Aquilon. Perché sarò io il prossimo ambasciatore». La donna annuì lentamente. «Ti racconterò ogni cosa. Solo, mi chiedevo...». Evander rimase a fissarla, in attesa. «Mi chiedevo che cosa voglia dire vedere la propria vita scambiata con le sorti del mondo», concluse la guerriera. «Di più mondi, forse», la corresse l'uomo in un sussurro. «Io lo troverei esaltante», mormorò Deirdre. «Potrebbe essere un fardello, invece». La donna rimase zitta un istante, poi scosse la testa ricciuta con decisione. «Aquilon. È di questo che dovevamo parlare, e tu puoi cominciare ad ascoltarmi». «Gli alberi di silph-is crescevano veloci. Raven aveva visto i tronchi sottili protendersi come dita dalla terra umida. E ancora più in fretta erano spuntati erbe e fiori tutt'intorno. Sembrava che una smania incontrollabile
di vivere avesse preso tutti gli esseri viventi, come fossero stati coscienti che presto il sole avrebbe posto fine al loro tempo. O forse no, pensò il giovane con gli occhi pieni di un dolore troppo intenso. Forse era proprio l'inconsapevolezza a permettere un tale rigoglio di vita. Poi l'ombra della morte, che già scivolava inquieta tra i suoi pensieri, gli si parò innanzi. Era una barca, una semplice barca fatta di sylph-is intrecciati. E già erano comparse all'orizzonte le mura del Forte del Lago, ma Raven si trovava ancora lontano dallo specchio d'acqua che dava nome alla rocca. Una barca abbandonata lungo il sentiero poteva contenere solo un corpo esanime, composto per il suo ultimo viaggio». Aelin chiuse gli occhi. Con l'escursione termica a ottanta gradi poteva esserci un lago? Magari sì, se l'acqua sgorgava abbondante da una falda freatica. O era meglio spostare tutto in riva al mare? L'oceano certo doveva esserci! Che poi a lei interessava solo la barca: poteva essere il relitto di un altro mondo che aveva laghi e fiumi, e giorni lunghi un giorno? No. Se gli antenati di quella gente erano i soliti superstiti di un naufragio spaziale non avrebbero portato con sé una simile usanza, a meno di essere un gruppo di revivalisti vichinghi, o qualche setta altrettanto strana. Forse, a conti fatti, la barca poteva essere eliminata. Ma l'oceano no. Non riusciva a immaginare la vita in un mondo senza oceani. La giovane si tormentava i capelli con una mano. Un singhiozzo le salì alle labbra. Voleva la sua mamma, i suoi cari, la sua casa. Quella nostalgia sotterranea che non si era mai davvero lasciata alle spalle tornava a invaderla con forza, perché si sentiva terribilmente sola, perché non c'era un viaggio a cavallo o uno scontro a distrarla, perché avrebbe chiesto a sua madre un parere tecnico su quel suo dubbio, lei insegnava geografia appunto, perché adesso come non mai il ritorno le sembrava lontano. È colpa mia, pensò. Aveva preso tutta quell'avventura quasi come un gioco, e ora doveva pagarne le conseguenze. Aveva paura, paura persino di pensare, di chiedersi che cosa le riservasse il domani. E fra sé e i suoi timori poteva erigere solo una fragile barriera di carta. Era un gioco anche quello. Certo, ma le era caro. Avrebbe ripreso a scrivere, quando le lacrime fossero cessate. Intanto il giovane pallido nella barca non era affatto morto, ma era stato drogato e poi legato, abbandonato al suo destino. Aveva scoperto che il
Comandante era stato assassinato a tradimento da un suo vice, e tutti lo credevano un incidente, ma lui aveva visto troppo e, anche se era un semplice menestrello, avevano deciso di liberarsi di lui. Sarebbe toccato a Raven liberarlo. Il cantastorie in cambio gli dava un avvertimento: recarsi al Forte del Lago in quei giorni era follia, perché si preannunciava uno scontro fra i sottoposti del generale ucciso. Il cacciatore però ignorava simili parole, e per poco non si faceva infilzare come un puntaspilli dalle sentinelle ostili. E poi il corso della storia portava i due fuggitivi a rintanarsi nelle grotte a occidente, in una folle corsa per precedere i giorni di pieno sole. Tutto questo Aelin l'aveva già scritto. Forse era stata persino un po' troppo patetica la descrizione del pallido sconosciuto che si caricava Raven sulle spalle per l'ultimo tratto. La giovane sorrise appena. Non avrebbe smesso di scrivere proprio ora: a quel punto toccava a una scena che adorava. O almeno così era stato fino a che era rimasta nei suoi pensieri. Adesso era tempo di provare a tradurla in parole. La terrestre si passò due dita sugli occhi. Ormai aveva smesso davvero di piangere. La liquida volta sul suo capo era luminosa come non mai. «Ancora nulla?», chiese Jade poggiando le dita sulle fredde mura merlate di Aquilon. «Osservo l'orizzonte con gli occhi e con la mente, ma dei draghi nessuna traccia», disse Sethrian in un sospiro. «Rhory e Jordan torneranno. E tu dovresti andare a riposare, è tardi, e domani chi terrà testa al nuovo ambasciatore di Isengrin?». L'altro scosse appena il capo. «Oggi lo Stratega è riuscito a fare il punto con una chiarezza agghiacciante», mormorò il mago. «Gli esperimenti di Isengrin continueranno con o senza i libri degli Elaunoi, ma in mancanza della loro preziosa guida potrebbero portare il mondo alla distruzione». «Agghiacciante, l'hai detto. Proprio la parola adeguata». «Potrebbe trattarsi di un bluff, ma ho forti dubbi al riguardo. Per quello che sappiamo dello Stregone d'Argento, tutto mi lascia pensare che...». «...non si fermerebbe davanti a nulla», concluse Jade fissandolo. «Aelin a questo punto è quasi un pretesto per le trattative, e vorrei tanto che non ci fosse andata di mezzo», disse il mago. «Perché anche se consegniamo le spade, il maledetto stregone potrebbe comunque riservarci qual-
che scherzetto. Non mi fido, e non posso fidarmi». «Lo credi davvero? Se Aelin fosse qui, prenderesti ancora così in considerazione l'idea di cedere a Isengrin i Talismani?». «Si è impossessato di Solitudine. Senza quell'arma non possiamo sperare ricomporre noi il cerchio, e di prenderlo in contropiede. E poi ha Aelin, certo. Se lei fosse qui adesso potrei ragionare con più freddezza, distacco, con maggiore discernimento. Adesso siamo costretti a seguire il tempo dettato da quel bastardo. Ciò non toglie però che il messaggio di Evander corrisponda al vero». «Ma se diamo le spade a Isengrin possiamo dirci sconfitti!». «No. Questo non è vero. I Talismani daranno allo stregone un grande potere, ma lui non sarà in grado decifrare l'antico sapere in un giorno. Non a caso ci ha offerto una tregua di cinque anni: finge di concederci il tempo che gli servirà per studiare le nuove formule». «Non potrebbe essere più semplicemente una promessa ingannevole? Nessuno si aspetta in fondo che Isengrin rispetti la parola data». Sethrian sospirò: «Un patto stipulato con la magia può essere aggirato, non infranto. È stato lo stregone a proporre un simile accordo, io però non la ritengo affatto una cattiva idea». «Cinque anni», ripeté Jade pensierosa. «Possono accadere molte cose. Potremmo trovare il modo di ribaltare questo scacco in cinque anni, o quantomeno sperarlo». L'altro annuì lentamente, poi tornò a fissare l'orizzonte. «Credo... credo che stiano tornando». «Davvero?», chiese la donna. «E portano buone notizie?». Il mago scrollò le spalle, era ancora presto per dirlo: nonostante il legame con i draghi non riusciva a leggere i loro pensieri a una tale distanza. «Ho avuto una breve discussione con il Santo Guardiano, quest'oggi», aggiunse Jade d'improvviso. «Ha sentito il bisogno, chissà perché, di informarmi che la Lacrima è ben nascosta, affidata alla custodia di un mio vecchio amico». «Quello che ha tirato la freccia ad Aelin». «Proprio lui». Sethrian aggrottò la fronte. «Magari voleva sfidarti a rubarla», ipotizzò. «La verità è che il Guardiano non è molto entusiasta all'idea di partecipare alla scelta del destino dei Talismani, e cerca un modo per evitarlo». «Mi chiedo perché Isengrin non forgi davvero una nuova spada blu, come hai suggerito tu allo zio di Ethienne», rifletté la ladra.
«Innanzitutto perché recuperare la sua Lacrima deve essere diventato un punto d'onore per lui», ribatté Sethrian. «E ieri lo Stratega ha accennato al fatto che potrebbe volerci un anno per creare una spada identica a quella». «È un tempo troppo lungo, con Aelin prigioniera», obbiettò Jade, poi scosse la testa in un gesto di disappunto. «Isengrin forse non le torcerà un capello, fino a quando la riterrà un'utile merce di scambio, ma non c'è solo lui da tenere in conto, e l'avversione di Deirdre per la nostra amica mi è sembrata tutt'altro che scemata con il passare dei mesi», osservò il mago. La ladra fece appena una smorfia. Detestava ricordare che la mercenaria dai capelli rossi si era seduta al tavolo delle trattative in qualità di ambasciatrice, mentre lei ne era stata esclusa. E non perché era una fuorilegge, ma solo perché non era un uomo. Non che avesse perso il suo tempo: aveva seguito la rete sottile di relazioni che si intrecciavano nella sala delle donne e si era preoccupata di osservare le diverse crepe nel sistema di difesa del castello. Se si fosse rimessa in attività avrebbe potuto trarre un grande profitto da quelle informazioni. Non che avesse un particolare desiderio di farlo, ma l'idea la divertiva, questo sì. «A cosa stai pensando?», chiese sottovoce Sethrian voltandosi verso di lei. «A quello che sarà dopo». «Sei spaventata o ansiosa?». «Non esattamente». Gli occhi scuri della donna si specchiarono per un istante nello sguardo dell'altro. Poi giunse un rumore di passi a spezzare le parole che forse non avrebbero pronunciato. «Ho sentito i draghi». Era Ethienne che li raggiungeva, con il fiato corto di chi aveva corso. «Sono loro, non è vero?». «Così credo», rispose Sethrian. «Bene. Mio zio vuole che lo informi prima possibile delle novità». L'incantatore fissò l'altro per un istante, annuì, e un sorriso ironico si era disegnato sulle sue labbra. «Ecco cosa succede a legare un sacerdote ai figli del fuoco: vesti rosse sempre tra i piedi, anche nei momenti più impensati. Non ve ne state più rintanati a Vultur, no, bastano le ali dei draghi a portarvi ovunque in pochi istanti!». «Sei geloso dei privilegi che devi condividere?». «Forse», ribatté il mago. «Forse dovrei mescolare anche io il mio sangue a quello dei draghi»,
mormorò Jade. «Non è una cattiva idea», commentò Sethrian, e stavolta il suo sorriso era quasi dolce. «Non lo è affatto». «È vero», aggiunse Ethienne. «I figli del fuoco non si preoccupano del nostro rango o della nostra... professione. Ma sanno distinguere un amico da un nemico». «Mi piacerebbe vedere cosa accadrebbe se sottoponessimo Isengrin al legame di sangue», disse l'incantatore con voce aspra. «L'odio dei draghi gli brucerebbe il cervello, ne sono certo». «Io invece con un po' di sangue di drago avrei fiducia, rispetto, un lucido lasciapassare per un mondo diverso dal mio». Jade rise. «La cosa più strana è accorgersi che lo desidero davvero». «Vorrei uno specchio», sussurrò Ethienne, «per mostrare al mago la sua espressione di questo istante...». Il sacerdote non attese risposta a quelle parole: i draghi erano atterrati sui bastioni vicini ed Ethienne si affrettò a incamminarsi verso di loro. «Andiamo anche noi?», disse la ladra dopo qualche istante. «Secondo te è vero?», le domandò Sethrian. «Cosa?». «Che la mia espressione si era fatta strana». L'altra sorrise appena. «Forse faresti meglio a chiederti cosa nasconde la mia, di espressione», sussurrò Jade in un tono insinuante, quasi di sfida. Ma Ethienne stava tornando, e con lui Rhory e Jordan. «L'abbiamo trovata!», annunziò il cavaliere prescelto. «È un'immensa roccia scura, scabra e irregolare. Non ce l'avremmo mai fatta da soli: i draghi hanno sentito il canto dei figli del fuoco nel sottosuolo». «Il rifugio di Isengrin è lì», confermò Jordan. «Le nostre menti non sono riuscite a superare lo strato di rocce, e anche le immagini captate dal mio Alascura sono deboli e frammentarie, ma non lasciano adito a dubbi. Sotto quel manto di pietra nera c'è il covo segreto dello stregone». «Non potrebbe essere una trappola?», obbiettò Jade. «Non credo», disse l'incantatore in un cenno di diniego. «Isengrin non ha mai studiato la telepatia dei draghi, e sino a poco tempo fa non ne conosceva nemmeno l'esistenza». «E poi, se fosse stata una trappola, non sarebbe stato così difficile localizzarla», aggiunse il cavaliere di Thule. «Se fosse stata una trappola, Isengrin ci avrebbe fatto vedere Aelin, non solo dei draghi in catene, perché è
lei che cerchiamo». «Invece i figli del fuoco non l'hanno vista», ribadì Rhory scuotendo la testa, «e Jordan sembra sicuro che lì non la troveremo». «Veramente? Eppure che i draghi prigionieri non l'abbiano vista non prova nulla», osservò Ethienne. «Non si tratta di questo. Io so che non è lì», Jordan pronunciò quelle parole con decisione. «Al fiume lo sapevo che c'era. Adesso non c'è». Gli altri si guardavano in silenzio. Solo Rhory riusciva a mostrare un sorriso tranquillo. «Abbiamo trovato il rifugio di Isengrin», disse Sethrian con un sospiro, «ma non abbiamo trovato Aelin. Se anche fosse lì... Noi non possiamo saperlo». «Vuol dire che le ricerche non sono servite a nulla?», domandò Ethienne. «Questo non è detto», sussurrò Jade. «E non che io abbia un piano preciso, ben inteso, ma questo non è affatto detto». Se solo la torre grigia fosse stata di un tanto più alta, Evander avrebbe potuto sfiorare con le dita la patina lattescente che intrappolava l'aria nel rifugio sottomarino di Isengrin. Lo Stratega sollevò appena gli occhi. Quel cielo fatto d'acqua era magico e inquietante; il suo chiarore adesso iniziava a sfumare, non per i cicli del sole, la luce non scendeva così in profondità, ma seguendo i dettami dello Stregone d'Argento. L'uomo serrò le labbra. Se il sortilegio avesse ceduto, il solo peso delle acque li avrebbe uccisi tutti, così gli era stato detto. Avrebbe preferito non saperlo. E d'altro canto, nemmeno era lì per sua scelta. Da quando era rimasto intrappolato nel suo stesso rifugio, Isengrin aveva preso in odio l'antica dimora; anche se non l'aveva mai ufficialmente abbandonata se ne teneva lontano, per quanto poteva. E di ritorno dalla sua ambasciata ad Aquilon, Evander aveva dovuto recarsi nella valle sottomarina per fare il proprio rapporto. Non che avesse molto da raccontare: i suoi interlocutori si erano comportati proprio come previsto. Avevano cercato di prendere tempo, avevano posto le condizioni per cercare di non cadere in un tranello, e avevano preteso che la spada verde restasse a loro quando tutto fosse finito. Ma al di là delle indecisioni e dei giri di parole, la morale della favola era che avevano capitolato. Forse nutrivano ancora
la speranza di trovare una scappatoia, di tender loro una trappola al nemico. Anche però quello era stato messo in conto, e tutto procedeva come da copione. Il cielo, che cielo non era, aveva assunto le sfumature cupe dell'ossidiana. E nero era il prato sottostante, ma i cespi di fiori bianchi sembravano quasi brillare: riproducevano, per chi li avesse osservati dall'alto, i complessi disegni di stelle e costellazioni. Tutto era avvolto nel silenzio mentre lo Stratega scendeva svelto i gradini della torre. Lei era un passo avanti a lui, e i suoi occhi viola splendevano di una strana luce: sembrava quasi che volessero guidarlo. Evander trattenne a stento un sorriso. Quella era la sua visione. Quando Isengrin gli aveva affidato la spada, il guerriero non avrebbe mai immaginato che uno spettro dal viso di fanciulla si sarebbe insinuato fra i suoi pensieri, diventando la compagna di lunghi silenzi. Eppure non si sentiva inquieto, quegli sguardi che solo lui sembrava scorgere erano carichi di complicità segreta. Solitudine lo stava guidando davvero, rivelando porte nascoste, corridoi e sale che gli erano sconosciuti. Lui la seguiva, affascinato, senza chiedersi il perché della strada che aveva intrapreso. Giunse in una sala illuminata da calde lampade a olio, dove una foresta di colonne verdi e pilastri grigio azzurri si stendeva fitta, per poi aprirsi a ventaglio attorno a una vasca fumante. L'acqua sgorgava dagli angoli del basamento di marmo, i vapori rendevano le figure annebbiate, ma Evander si fermò d'improvviso: aveva scorto la chioma rossa di Deirdre e credeva di sapere chi fosse il suo compagno. Il mercenario portò una mano alla tempia, fece per sgusciare via, prima che si accorgessero della sua presenza. Lo spettro viola però mosse il capo in un lento cenno di diniego, quasi incatenandolo con lo sguardo. Mi vedranno!, sibilarono le labbra dell'uomo, ma senza che ne uscisse alcun suono. Solitudine scosse di nuovo la testa. No, sembrava dire, non possono vederti. E tornò a puntare un dito verso le due figure ignare. Lo Stratega ebbe un lampo negli occhi: dopo avere fissato ancora una volta lo spirito, si decise a scivolare dietro una delle colonne. Avrebbe osservato la scena. «Così sembra davvero che ci siano cascati», esclamò Deirdre ridendo. «Faranno tutto quello che avevi previsto».
«Ne dubitavi, forse?». «Non ho mai dubitato di te», rispose la mercenaria con voce sensuale. «Eppure è piacevole, molto piacevole toccare con mano che le tue previsioni si sono puntualmente avverate». «Doveva essere così. Perché le mie menzogne erano perfettamente logiche. Lo stesso Stratega, che le ha fino a ieri difese, le ha credute vere». «Con me però ti confidi, non hai bisogno di tacermi nulla...». Isengrin si protese a baciare la donna, o almeno così parve nella coltre dei vapori. «Non credere che io ti dica tutto», mormorò il mago con voce roca. «Ma questo è il genere di segreto che posso e voglio dividere con te. I miei avversari resterebbero inorriditi se solo immaginassero, e anche molti di coloro che mi servono. Un simile dettaglio però non fa che rendere tutto ancor più divertente. Come mi diverte la certezza che tu non ti lascerai mai turbare dai miei sogni di distruzione». «Purché non sia io a essere distrutta». «Il tuo viso grazioso non deve temere una simile sorte. Anche con l'aiuto degli antichi libri ci vorranno secoli perché tutto giunga a compimento. Anche quando avrò spezzato i confini degli universi, per molto tempo la vita continuerà ad aggrapparsi alle pieghe e agli angoli del reale, passeranno millenni prima che la dissoluzione finale abbia inizio, eppure tutti ancora malediranno la mano che ha acceso il rogo tra i mondi. La mia mano». «Se questo è ciò che desideri, tu saprai ottenerlo, io lo so». «Lo sai», ripeté Isengrin con un sorriso ironico. «E sai anche cosa c'è dietro questa mia brama di rovina, o non ti sei curata di chiedertelo, appagata di quello che hai e che posso darti?». L'esitazione della donna durò solo pochi istanti: «Ciò che so lo terrò per me adesso, perché voglio tornare a sentirlo dalle tue labbra». Il mago rise, di una risata bassa e cavernosa. «Fingerò che questo sia davvero il tuo desiderio, Deirdre, e non una manovra per lusingarmi». La guerriera si strinse di più all'altro e non disse nulla. «Molti uomini», mormorò lo stregone, «si sono affannati a costruire castelli di sabbia cercando di guadagnarsi l'immortalità con le proprie opere, con regni creati o semplicemente rubati, ma la marea del tempo non si può arrestare, erode ogni traccia, persino la polvere e le macerie sono destinate a venire inghiottite. Le forze della distruzione sono inesorabili, e molto più fulgido è il nome di chi si è affidato a esse fiducioso e sprezzante della sorte. Coloro che si fregiavano del titolo di re invece giacciono inascoltati,
come le stirpi delle formiche. Io sarò l'ultimo distruttore, il più grande, e l'ultimo uomo pronuncerà il mio nome mentre l'universo si spegne». Non visto, Evander sgusciò via dalla sala. Era rimasto anche troppo. «Era questo che volevi farmi sentire?», chiese, appena fu lontano. Lo spirito viola annuì. «Credi che io possa fare qualcosa?». Solitudine sbatté le palpebre. Si arrotolò attorno a un dito un ricciolo della chioma fluente. «Non rispondi?», disse ancora l'altro. «Non vuoi? O forse... non sai? Io in questo momento non so nulla. Nulla». L'uomo si passò una mano sul volto. Lo spettro era ancora accanto a lui, lo guardava con espressione indecifrabile. «Bene», sussurrò Aelin, «Raven scopre dalle impronte lasciate nella caverna che il menestrello non era affatto tale: si trattava del Comandante in persona, lasciato a bruciare vivo nella barca funeraria dai suoi sottoposti infedeli. Certo, è un po' degradante venire scoperti grazie a una scheggia di legno in un tacco, ma non mi veniva altro in mente. Le impronte del cantastorie hanno gli stessi segni di quelle che il condottiero aveva lasciato nel fango del castello distrutto, e il giovane Darknight... capisce. Raven fissa il condottiero. Lui gli ha salvato la vita. Anche l'altro ha fatto lo stesso. Ma ha decimato la sua famiglia. E non sospetta ancora che il giovane ha scoperto la sua identità. Il drammone può avere inizio. "So chi sei". "Lo sai?". No, niente risposte. Il Comandante si limita a uno sguardo fermo e pensoso. "Avrei potuto ucciderti nel sonno, ma preferisco combattere a viso aperto. Mi hai salvato la vita, e almeno questo te lo devo". Il condottiero scosse lentamente il capo. "Non combatterò contro di te, se vuoi la mia testa devi solo venire a prenderla"». La terrestre si era alzata in piedi, leggeva i passi del manoscritto camminando avanti e indietro sull'erba, saltava intere righe a volte, altre le tagliava con un gesto deciso, e agitava la penna con fare declamatorio. «"Non è un senso di colpa tardivo il mio", disse l'uomo, "ho sempre saputo quello che facevo, e perché. Il risultato doveva avere in sé la sua ricompensa. Volevo volgere lo sguardo a nord, là dove il sole si attarda
lunghi mesi senza mai uccidere, dove gli alberi di sylph-is non sono pallidi sterpi, ma giganti imponenti... e tutto questo in realtà non ha più importanza, perché le forze che io ho sollevato adesso si lanceranno l'una contro l'altra, e nuovo sangue verrà versato, stavolta senza alcuno scopo... se non quello di marchiare di una rossa morte il mio fallimento". "Tutto questo non m'interessa". "Eppure dovrebbe, perché nel Forte del Lago c'è solo il braccio della congiura che ha decretato la mia caduta. La mente, se conosco i miei uomini, è rimasta a nord, e il mio errore e stato non capire che quei due potevano... collaborare. Ma si scontreranno adesso, perché a uno solo resti il potere. Darknight, tu lo sai, è sulla loro strada. Mi hai detto che ci sono dei superstiti...". "Devo avvertirli!", esclamò il cacciatore. "Ma non farò mai in tempo". Aggiunse con espressione sgomenta. «Ci siamo spostati troppo a ovest mentre fuggivamo. Anche partendo subito dopo il tramonto non ce la farei comunque". "Passato mezzogiorno le ombre della montagna si faranno sempre più lunghe. Conoscendo i sentieri e le grotte potrai anticipare di parecchi giorni la partenza". "Ma io non li conosco". "Io sì". Eccetera, eccetera, eccetera». La terrestre si passò una mano tra i capelli, in un gesto di frustrazione. «No, non va bene! Dov'è il terribile senso di sconfitta, la soverchiarne convinzione dell'inutilità della propria vita che avevo sentito immaginando la scena? La prima parte del discorso del Comandante suona così retorica e falsa!». «Forse perché quelle parole lui avrebbe dovuto solo pensarle», disse una voce alle sue spalle. «Da come le hai scritte non trapela la stanchezza per una lotta che si è dimostrava vana, l'animo che oscilla tra il desiderio di arrendersi e quello di ritentare. E poi c'è ancora altro, che forse nemmeno saprei esprimerti in parole. Se non le hai provate sulla pelle simili sensazioni, il pensiero del sangue sulla tua spada, la gelida consapevolezza che infine il nome di conquistatore svanisce e rimane solo quello di assassino, se non le hai provate non si può pretendere che tu sappia cogliere ogni sfumatura, credo». Aelin si era voltata lentamente. Lo Stratega era poggiato a un albero nero e la fissava con uno strano sguardo.
«Io sono una scrittrice», disse lei piano. «Dovrei riuscire a vedere anche emozioni non mie». «Vedere non è provare», sussurrò l'altro avvicinandosi, e le strappò il quaderno di mano. «Ti chiamano indovina ad Aquilon. È questo il frutto dei tuoi poteri?». «È soltanto una storia», balbettò. «Una storia», ripeté l'uomo cupo. «Un racconto inventato». «Ne sei proprio certa?». Aelin sbatté le palpebre. Poi deglutì fece un passo indietro. Il Comandante... lo Stratega... come aveva fatto a non pensarci prima? Simile il carattere, simile era l'aspetto, del primo aveva scritto che era pallido, Evander aveva la carnagione abbronzata, ma bianco sarebbe sembrato a Raven e ai suoi familiari. Nessuno aveva la pelle davvero chiara in quel mondo, a parte i cosiddetti vampiri, che però nemmeno venivano considerati persone. «Due volte no... Due volte è decisamente troppo!», gemette la giovane, e poi: «Mi dispiace davvero, non immaginavo, di stare scrivendo la tua storia... Non immaginavo che fossi tu il Comandante del Mondo del Meriggio. Non ho notato la somiglianza tra voi, e anche se l'avessi fatto al massimo avrei pensato di essermi ispirata. O forse no, dato che mi sono unita a Sethrian e agli altri proprio scrivendo di loro, comunque non stavo pensando a te adesso, è la pura verità». «Fossi in te io non scriverei di luoghi spiacevoli come il mio pianeta, se le cose stanno come dici». «Sarebbe stata comunque una via di fuga. Ma non credevo, mentre riempivo le pagine, che ci sarebbero state conseguenze. Non potevo crederlo». Evander corrugò la fronte, perplesso. «Vedi, già è difficile accettare che un mio racconto abbia aperto un varco tra i mondi», proseguì Aelin. «dire che ogni mia fantasia abbia potenzialmente la stessa scintilla, possa produrre sempre risultati del genere, fa ancora più paura». «Capisco». La giovane fissò il guerriero e si lasciò sfuggire un sospiro. «Adesso andrai a raccontare tutto a Isengrin, immagino. Del quaderno, delle mie storie, di me». Dalla tasca, il mercenario aveva sfilato un acciarino.
«Io non vedo nessun quaderno», disse, mentre i fogli bruciavano. La ragazza lo fissava stupita. «Diciamo che non mi va che Isengrin conosca il mio passato. E potrebbero esserci anche altri motivi, ma quelli preferisco tenerli per me». Aelin assentì alle parole dell'uomo. Poi sgranò gli occhi. Appollaiata tra i rami neri c'era Solitudine, con i lunghi capelli sciolti al vento, e le sue dita violacee sembravano suonare un'arpa invisibile, in una melodia senza suoni. «La vedi anche tu?», chiese Evander. La ragazza annuì lentamente. «Io non vedo niente», disse lo Stratega scandendo ogni parola: aveva lo stesso tono di prima, quando aveva negato l'esistenza del quaderno, mentre lo distruggeva. Il messaggio era chiaro, e Aelin tornò ad annuire: non avrebbe parlato. «Piuttosto vorrei sapere», aggiunse il guerriero, «fin dove è andata avanti la mia storia nella tua testolina». «Non molto in realtà: sapevo che avreste raccolto degli uomini, che ci sarebbe stato l'incontro con quelli che chiamate vampiri, ma era tutto confuso. D'altronde scrivevo solo per fuggire, non per arrivare da qualche parte». «Neanche io stavo andando da nessuna parte quando Isengrin è comparso nel nostro mondo», disse l'uomo in tono pensieroso. «Ma forse questa non è la storia che volevi raccontare». «Posso farti una domanda?», sussurrò la ragazza. «Avanti». «Ti fidi di lui?». Evander fissò Aelin per un istante. «Non mi fido», ammise. «Ma questo non vuol dir nulla. Io sono un mercenario, la fiducia non è richiesta». XXIV IL PATTO «Tutto è pronto, dunque», disse Jade con un sospiro. «Restano da perfezionare gli ultimi dettagli», precisò Sethrian, «piccole cose, come il numero di passi a cui dovranno tenersi i draghi, la durata del campo anti-magia e simili. Ma in realtà la decisione è stata presa nel momento in cui abbiamo annunciato a Evander che avevamo anche la terza
spada. E speriamo che nulla debba andar storto». «Se qualcosa andrà storto non è detto che sia a nostro svantaggio», osservò la ladra. «Piuttosto, quando vi metterete in viaggio?». «Anton ha detto che ce lo riferirà domattina. Io credo che già lo sappia, ma si diverte a tenerci sulle spine, come se riferire le istruzioni di Isengrin gli desse non so quale potere». «Non mi sono curata molto di lui, lo ammetto». Il mago scrollò appena le spalle. «È strano, sai? Tante aspettative, tante paure si vanno accumulando, eppure questa non è nemmeno la vigilia della battaglia decisiva. A volte mi chiedo se quello scontro avverrà mai». «Forse sarebbe meglio così», rispose la donna. «Lo credi?». «Che cosa te ne farai di una ladra quando tutto sarà finito?». «Sicura di volere la risposta? Potrebbe essere... impegnativa». Jade sorrise e non disse nulla. Quando il drago dall'artiglio spezzato planò dal cielo, quattro figure attendevano al margine della foresta. Jordan non ebbe occhi però che per la più minuscola e fragile: Aelin. Si sarebbe lanciato verso di lei, sì, lo avrebbe fatto, se non fosse stato per il solco stregato che li separava, con il suo chiarore livido e cupo. «Siamo soli, come d'accordo», disse Sethrian venendo avanti. Isengrin accennò un sorriso. «Anche noi lo siamo. Come d'accordo». Jordan roteò un po' gli occhi. Le assicurazioni dello stregone non davano grande affidamento, e proprio per questo avevano sorvolato con la massima cura la valle prima di atterrare. Il cavaliere tornò a guardare la terrestre, ma lei riuscì solo a fargli un sorriso spaurito. «Non resta che pronunciare le formule, e il patto sarà veramente compiuto», disse Sethrian. «Allora non potremo tornare più indietro». Isengrin annui; i suoi occhi ebbero un luccichio malevolo dietro la maschera d'argento. «Non lancerò, né ho lanciato sortilegio o incantesimo contro questa gente. Non vi saranno pugnali, non vi saranno veleni, né altro che possa recar loro danno. Non vi saranno per mano mia, e neppure da parte dei miei uomini. Le mie parole siano sigillo». Anche Sethrian recitava una formula simile: «...non celeremo le spade,
non cercheremo in alcun modo di sottrarre i libri preziosi. Né lo faranno i nostri draghi», dalle narici di Alascura uscì uno sbuffo di fumo, «o i nostri alleati. Andremo via in pace. Le mie parole siano sigillo». Il cerchio incantato lentamente si spense. Aelin, ormai libera, corse dai suoi amici, e Jordan non aspettava che di poterla stringere. «Stai bene?». «Adesso sì», sussurrò la giovane. «E non voglio essere rapita mai più». «Vedremo di fare il possibile». Detto questo, Jordan le legò alla vita la Lacrima di Pioggia. Erano in sei, sei erano le lame incantate, una per ciascuno di loro. «È tempo di metterci in marcia», annunziò la voce fredda di Isengrin. «Se vi foste accontentati di consegnarci le spade adesso potreste già ripartire, ma avete preferito fare in altro modo e non vi resta che seguirci». «Come avrei potuto perdere l'occasione di vedere la magia dei Talismani?», ribatté Sethrian con un sorriso quasi candido. «Inoltre la principessa Felicia mi ha chiesto di non perdere di vista un solo istante la sua spada, e non intendo deluderla. È già troppo sfiduciata nei confronti dei maghi senza che io venga meno alla parola data». Isengrin lo guardò negli occhi: «È facile mantenere le promesse fatte agli alleati, più difficile quando si tratta di nemici. Non per nulla abbiamo riesumato un antico e difficile sortilegio per l'occasione, e sono lieto di aver trovato chi fosse alla mia altezza nel pronunciarlo. Adoperi bene i poteri recuperati, incantatore». Sethrian ebbe un lampo nello sguardo. Ma non proferì parola, mentre si incamminavano lungo il sentiero, tra gli imponenti alberi secolari. «Gli altri come stanno?», chiese Aelin. Jordan le stava ancora vicino. «Va tutto bene», le disse sorridendo, «o meglio, tutto andrà bene quando saremo di nuovo ad Aquilon». «Aquilon?», bisbigliò lei. «Ti ho sognato, sai, camminavi lungo le mura, eri cupo e silenzioso». «Mi hai sognato altre volte, stando a quello che ha detto Sethrian. E...». C'era una strana tensione nella voce del giovane, era quasi paura. «Hai scorto solo questo? Le mie passeggiate solitarie?». La giovane annuì, piano. «Io invece ho visto erba azzurrina e fiori color del latte», disse Jordan. «Ma la tua figura era lontana e sfocata, e più cercavo di guardarti e più l'immagine fuggiva. D'altro canto sei tu la sognatrice».
Aelin tornò ad annuire. L'altro aveva descritto i prati che circondavano la sua prigione. Lei non sapeva cosa dire. Forse non sentiva nemmeno il desiderio di parlare. Jordan le rimaneva accanto come la chioccia con il pulcino. Questo bastava. Bastava davvero. Le parole erano improvvisamente superflue. «Cammineremo ancora a lungo?», domandò Sethrian allo stregone, dopo qualche tempo. «Ci fermeremo per la notte, tra un po', e domattina percorreremo l'ultimo tratto di strada», fu la risposta di Isengrin. «Allora è qui, il luogo. Non salteremo dentro uno dei vostri varchi». «Ha importanza?». «Sono solo curioso sulla nostra meta», fece Sethrian con un sorriso. «Non dirò nulla più di quanto ho detto», rispose Isengrin, secco. «Ho i miei buoni motivi per volere che sia così. Considerala un'ulteriore precauzione». La luna era alta nel cielo. Sethrian aveva lo sguardo fisso nelle fiamme, eppure era in qualche modo consapevole di ogni cosa attorno a lui. La mercenaria dai capelli rossi stava ridendo e sfidava lo Stratega a giocarsi ai dadi i turni di guardia, ma quest'ultimo non sembrava molto loquace. Isengrin si era allontanato per cercare i segni che la luna avrebbe disegnato lungo il sentiero. Così aveva detto. Jordan invece aveva tratto da canto Aelin ed era ancora intento a subissarla di piccole e continue premure. Persino la ragazza iniziava a sospettare che le attenzioni dell'altro non fossero dettate da pure e semplice amicizia, anche se forse non lo avrebbe mai ammesso. Il mago pensò che almeno avrebbe avuto qualcosa da ribattere, quando l'amica fosse tornata a chiedere di lui e di Jade. Occhio per occhio, dente per dente. Sethrian tornò a sollevare lo sguardo, perché la sua mente non andasse alla bella ladra, a ciò che poteva fare in quel momento. Era inutile chiederselo, pericoloso, forse. Le circostanze richiedevano che ognuno di loro fosse cauto persino nei pensieri. Era... inevitabile. Deirdre frattanto si era allontanata. Lo Stregone dalla Maschera d'Argento l'aveva chiamata e lei rispondeva al richiamo. Lo Stratega era rimasto accanto al fuoco, lucidava la spada viola, con lo sguardo fisso nel vuoto. Sethrian serrò le labbra: era stato a causa sua, se quell'arma era caduta in mano al nemico; era lui che aveva voluto cercarla.
«Non mi piace la notte», disse Evander in tono cupo, avvicinandosi. «Non credo negli spettri, ma sento le superstizioni della mia gente. Il nostro mondo non è fatto per la vita, non per come voi potreste intenderla. E solo Isengrin ha saputo offrirci una via di fuga». «Perché mi dici questo?», domandò Sethrian lanciandogli un'occhiata obliqua. «Forse non era a te che lo dicevo, in realtà». Il mago non fece a tempo a porre altre domande. Un rumore nella boscaglia annunziava che Isengrin e la sua donna erano di ritorno. Oltre la foresta c'era la radura, oltre la radura una livida parete di rocce. Un portale si schiuse dinanzi alla magia di Isengrin, e i sei portatori delle spade percorsero cunicoli neri e cupi, dove antiche cariatidi si perdevano nella tenebra. Lo Stregone d'Argento li guidò sino a una sala esagonale. Sei porte si aprivano su corridoi e scalinate, illuminati dalla luce di lampade antiche. Non avevano compiuto che pochi passi quando Aelin sentì le proprie membra irrigidirsi, il suo corpo si faceva come pietra. «Non c'è nulla da temere», disse Isengrin con voce quieta. «Non per una magia così semplice. La paralisi che ci ha colpito è solo un'ulteriore protezione lasciata da chi ha costruito i Talismani e questo luogo». «Non dobbiamo preoccuparci», ripeté Sethrian, e il tono era tutt'altro che convinto. «È sufficiente pronunciare i nomi segreti delle lame per liberarci», spiegò lo stregone, «Orfne, nel mio caso». La spada nera che pendeva dalla cintola dell'incantatore sembrò brillare per qualche istante. L'uomo sorrideva mentre tornava a voltarsi fissando gli altri. «Tocca a te, Deirdre», aggiunse poi. «Khrysòs», disse la donna. Anche lei era libera. Il sorriso di Isengrin si fece perfido. «Avanti, dillo», sbottò Sethrian. «È chiaro che non attendi altro». «Non volevo dire nulla a dire il vero, solo limitarmi a prendere le vostre spade e procedere senza di voi». A quelle parole, Deirdre strappò la Lacrima dalla cinta di Aelin, regalando alla ragazza uno sguardo divertito e sprezzante. «Lei non vi ha fatto nulla!», protestò Jordan, il volto teso nello sforzo di
liberarsi. «Lasciatela stare, Aelin non vi ha fatto assolutamente nulla!». «Ma è proprio quello che intendo fare, cavaliere. Lasciarvi stare», rispose lo stregone. «Non vi posso fare del male, l'incantesimo della mutua fiducia me lo impedisce. Questa discussione comunque la rimanderei a dopo, quando tornerò a restituirvi come pattuito Canto e Discordia. Allora potrete scegliere se cercare i loro nomi, o se avete qualcosa da offrirmi in cambio della vostra libertà. Al momento è altro, che mi preme». Se Orfne era il greco per Tenebra, e Aelin una volta aveva dato proprio quel nome a un personaggio, se Khrysòs voleva dire oro, un tentativo per tradurre canto e discordia si poteva anche fare, pensò la giovane. Certo veniva da chiedersi quale fosse il nesso tra gli Elaunoi e l'Eliade, ma in quel momento per la giovane potevano essere anche gli dei dell'Olimpo, se solo questo poteva aiutarli. Isengrin dal canto suo non si curava più della terrestre e dei suoi compagni, si era avvicinato a Evander. «Approfitterò della situazione per leggere un po' nel tuo cervello, Stratega. Questo luogo abbassa anche le difese della mente, e le tue sono sempre state forti. Ciò non mi è mai piaciuto del tutto: adesso è tempo di verità, Evander del Mondo dei Giorni Lenti». «Ti ho sempre detto che ero ambizioso», rispose l'uomo con un ghigno. «Ti ho sempre detto che il ruolo di servitore mi si addiceva assai poco». «Non è la tua ambizione che devi temere adesso», disse il mago in un sibilo, e i suoi occhi dietro la maschera erano fiamme oscure. «Rimorsi di coscienza, timore per il mio operato, frammenti di una conversazione che non avresti dovuto sentire... Cosa altro c'è che mi hai tenuto nascosto?». «Scoprilo». «Sei battagliero, ma non ti servirà». «Che farai adesso? Lascerai anche me a marcire tra queste volte di pietra?». «Ci sto pensando. Sei intelligente Stratega, e mi sei stato utile in passato. Ma proprio il tuo cervello ti rende inaffidabile. Potrei usare i miei poteri per piegare la tua mente, ma insieme alla tua volontà rischierei di spezzare ciò che ti rende prezioso». «Il giochetto non ha funzionato con Gwyon, sarebbe da sciocchi ritentarci», borbottò Jordan a mezza voce. Il mago lo ignorò quasi con ostentazione. «Sai qual è la cosa più strana?», fece Evander con un lampo negli occhi. «Io non intendevo tradirti. Non adesso, non ancora. Tu costruisci in sogno
la distruzione degli universi, ma questo non cancellava il debito verso chi aveva tratto me e i miei uomini dalle piane roventi del nostro mondo d'origine. Devo ringraziarti per avermi definitivamente aperto gli occhi». «I sussulti di una coscienza troppo a lungo soffocata non sapranno fermarmi, Stratega», disse Isengrin con una risata secca. Il guerriero non proferì parola. «Dopo ci sarà tempo anche per questo», concluse il mago prendendo l'ultima spada. «Ci sarà tempo per te, per i poteri medianici della ragazza che hai cercato di nascondermi, e quant'altro di cui giudicherò opportuno discutere. Adesso no. Adesso vado a prendere ciò che è mio di diritto». Lo stregone si incamminò per una della scalinate, senza voltarsi indietro. «Non sapevo avessi questa vena eroica, Evander», sottolineò la mercenaria dai capelli rossi, avvicinandosi al guerriero, sfiorandolo quasi con la punta delle dita. «Chi si preoccuperebbe per ciò che accadrà a questo mondo tra migliaia di anni? Spero che il buio e l'attesa sappiano riportarti alla ragione. Lo spero per te, e per i tuoi uomini. Ti sono così legati che Isengrin potrebbe scegliere di non fidarsi nemmeno di loro». La minaccia nelle parole della donna non si era spenta, quando Deirdre si allontanò lungo i gradini di pietra che riflettevano la luce obliqua delle porte. «Che i varchi siano pericolosi lo abbiamo sempre saputo», disse Jordan. «Ma sono l'unico ad avere la sgradevole sensazione che ci sia dell'altro al riguardo?». Sethrian serrò le labbra: no, non era il solo. «Isengrin ha deciso che la distruzione universale sarebbe il più bel monumento alla sua memoria», sibilò Evander, cupo. «E vi assicuro che avrei preferito non saperlo». «Forse non tutto è perduto», borbottò Sethrian. «Per la causa almeno. Se altrove le cose vanno per il verso giusto...». «Altrove?», fece lo Stratega. «Altrove?», ripeté Aelin confusa. «Non posso parlare», precisò il mago. «L'informazione è sigillata nelle nostre menti», spiegò Jordan chiudendo gli occhi. «E inizio a credere che non sia stata una cattiva idea». «Isengrin è meno abile di quel che sembra», disse Evander in tono quasi divertito. «Ha letto molte cose nei miei pensieri, ma non tutto quello che avrebbe dovuto. Sembra non abbia capito che a guidarmi contro di lui, prima ancora della mia coscienza, era... una spada».
«Solitudine è qui!», esclamò Aelin sgranando gli occhi. «Non è prigioniera del Talismano!». «Da nessuna parte in realtà c'era scritto esplicitamente il contrario», ammise Sethrian. Evander rise, mentre lentamente tornava a muoversi. Lo spettro viola batté due volte le mani, come per far cenno anche agli altri di non restare immobili. «La vediamo tutti?», chiese Jordan scrutandola. «La vediamo», disse Sethrian. «E ancora una volta colei che scioglie viene in nostro soccorso». «Forse le stiamo simpatici», azzardò il cavaliere. «O forse abbiamo un obbiettivo comune. Far sì che i libri degli Elaunoi non cadano nelle mani sbagliate». La fanciulla viola annuì, in un movimento quasi impercettibile. «Che ne direste di una fuga strategica?», propose Aelin in quel momento. «Potremmo tornare alla luce del sole, spiccare il volo prima che Isengrin si accorga dell'assenza di Solitudine, e senza di lei non può evocare i libri tanto bramati. Perché non può, vero?». Gli occhi violetti dello spirito si velarono di tristezza. «Credo che alla lunga Isengrin potrà richiamarla alla spada», disse Evander, con un'espressione che ricordava stranamente quella di Rhory quando parlava ai draghi. «Vedo che stai prendendo a cuore la faccenda», mormorò Sethrian socchiudendo le palpebre. «Perché Isengrin ha voluto leggere proprio nella mia mente? Non si fida. Non si fida perché ragiono con il mio cervello. Forse oggi vuole solo farmi paura, forse. Ma non starò ad aspettare che decida che è arrivato il momento di liberarsi del sottoscritto». «Mi sembra un ragionamento sensato», concordò il mago. «La spada sembra fidarsi sia di noi che dello Stratega», disse Jordan. «Se una cosa l'ho imparata è che il potere di questi spiriti è forte. Tu vuoi attaccare, Evander, non è vero?». «Isengrin non si aspetta una simile mossa. Non credo che un'occasione del genere possa ripresentarsi tanto facilmente». «E tu a differenza di noi non sei stato vincolato da nessun giuramento», osservò il cavaliere di Thule. Solitudine batté un piede per terra. «Credo che quei giuramenti non siano più validi per nessuno di noi», fe-
ce Aelin. Lo spettro violetto aveva il potere di sciogliere ogni legame. «Però vediamo di non dirlo a Isengrin», aggiunse Sethrian con un mezzo sorriso. «Tu hai un'altra arma ora che Isengrin ti ha tolto la spada?», domandò ancora Jordan al mercenario. «Non vado mai in giro senza almeno un pugnale nello stivale». «Anche io», disse il cavaliere, poi tornò a voltarsi verso gli amici. Aveva uno sguardo preoccupato quando fissò Aelin. «Ti sentirai più sicuro se mi nascondo in un cunicolo?», chiese la giovane in un sospiro. «A dire il vero no. Preferisco averti sempre sotto gli occhi». «Non che io ci tenga a vedere l'epico confronto finale». «Se ci attardiamo ancora non ci sarà nessuno confronto», ricordò seccamente Sethrian. «Il tempo è nostro alleato, ma non dobbiamo sprecarlo. Dato che la decisione è presa, mettiamoci subito in marcia». I curvi camminamenti di basalto gettavano strane ombre sulla lava liquida, e si ricongiungevano in un'isola sospesa. «Non ci resta che aggiungere l'ultima spada», disse Isengrin con sguardo esaltato. Deirdre osservava affascinata i riflessi della lama verde che ancora stringeva tra le mani. Gli altri cinque Talismani erano già stati disposti sull'esagono di pietra, e presto il cerchio sarebbe stato completo. Ma la donna non fece a tempo ad accostarsi all'altare. Tre delle spade si levarono in aria, sibilando minacciose. «Un manto d'invisibilità», commentò Isengrin senza scomporsi. «Ma è facile da spezzare». Sethrian quasi barcollò, mentre il suo incantesimo veniva infranto. L'aura impalpabile che nascondeva lui e gli altri si strappò come un velo, ma il mago non smise di stringere la spada di cristallo azzurro. «Vi siete liberati», sibilò lo stregone, scrutando gli avversari. «Siamo stati aiutati», ammise l'altro mago. «E ciò che conta è che ora siamo qui». «Cosa pensate di fare?», disse Isengrin con un sorriso di scherno. «Non potete sottrarmi le spade, l'incantesimo che abbiamo di comune accordo lanciato ve lo vieta». «Quel sortilegio non è stato pronunciato per me», ribatté Evander facen-
dosi avanti. «Sei sicuro della tua decisione, Stratega?». «Non mi sono mai lasciato condizionare dalla morale comune nelle mie scelte, ma se devo scegliere tra distruggere e costruire non ho esitazioni. Non posso che schierarmi contro di te. Per troppo tempo il mio più grande terrore è stato di voltarmi e vedere alle mie spalle una cieca scia di morte. Non posso seguire chi quella morte vuole solo nutrire». «Sei pronto a combattere contro di me. E hai trovato chi ti protegga dalla mia magia. Ma forse i miei piani sono differenti». A un cenno del mago i camminamenti presero a tremare. Aelin, che era rimasta indietro sul bordone di roccia scura, percorse in fretta gli ultimi gradini: raggiunse gli amici appena in tempo per vedere i blocchi di basalto nero che venivano inghiottiti dalla lava. Sethrian sollevò una mano, ma giunse la voce i Isengrin a fermarlo. «Niente incantesimi, mago di Lilài! È il mio potere a sostenere nel vuoto questo sperone di pietra e certo non vorrai correre il rischio che un tuo sortilegio interferisca col mio». «Vuoi prendere il libro? Forse ora l'avrai. Ma hai pensato a come potremo lasciare la roccia sospesa, dopo?», chiese Sethrian con voce incolore. «Quando ogni spada sarà al suo posto la volta della sala di lava si aprirà come un fiore. Così ho appreso dagli antichi volumi che parlavano di questo luogo». «Potremo chiamare i draghi», intervenne Jordan sollevando il capo, ma c'era solo oscurità sulle loro teste. «Però chi dice che non ci farai precipitare non appena avrai messo le mani sul libro nascosto, stregone?». «Questo sta noi evitarlo», ribatté Sethrian. «Isengrin comunque non mente: non ho modo di usare la magia o quasi, adesso. Ma lui può ancora meno di me». «Non sottovalutare i miei poteri», gli intimò lo stregone. Una crepa si aprì nella pietra, quasi sotto i piedi dei suoi avversari. Deirdre stringeva ancora la spada verde, si era fatta mortalmente pallida. E lei era al sicuro, al fianco dello stregone. «Fallo di nuovo e getto la spada di sotto!», gridò Evander furioso. «Non sapevo che avessi la tendenza al martirio», rise il mago malvagio, impassibile. «La butterò se dovessi convincermi che stai per ucciderci». «La vostra sfiducia è comprensibile. Però non avete scelta. E non posso attaccare direttamente gli altri a causa dell'incantesimo, ma te sì, ricorda-
lo». «Non vi conviene far arrabbiare Isengrin...», sussurrò Deirdre, ma il sorriso sul suo volto era tirato, «non vorrete che perda la concentrazione». «Nonostante tutto non ho davvero l'inclinazione per il martirio», ammise Evander. «Però se qualcuno è di diverso parere...». Jordan scosse la testa, e anche Sethrian fece lo stesso. «La vostra follia ha un limite, dunque», disse Isengrin, con un sogghigno. Lo Stratega si mosse in avanti per avvicinare la spada all'altare. Poi si fermò, rimase immobile, con la lama sospesa a pochi millimetri dalla superficie di pietra. «Cosa succede adesso?», sibilò il mago indispettito. Non vedeva lo spirito viola che tratteneva la mano del guerriero. «È Solitudine», sussurrò Evander. «E mi sta dicendo... vuole avvertirmi di un pericolo». Lo spettro faceva muovere l'indice in un movimento circolare. «Le spade devono essere poste nell'ordine prestabilito», annunziò il guerriero, «altrimenti sapranno darci solo morte». «E io dovrei crederci?», chiese Isengrin. «Dovrei prestar fede a questo vano tentativo di tenermi ancora lontano dal sapere che è già mio?». «Se ne sei così convinto, poggia tu le spade sull'altare», lo sfidò Sethrian. «Non credo che lo farò, per ogni evenienza», rispose lo stregone con un sorriso ironico. «Sì, lascerò a voi un simile onore». Gli altri si fissarono senza parlare. «Non è che la spada oltre agli avvertimenti sa anche fornirti la combinazione esatta?», sussurrò Sethrian a Evander. Ma a quelle parole lo spettro scosse la testa e le lunghe chiome viola. «Non può dircelo. O forse non vuole». «E adesso che si fa?», considerò Jordan passandosi una mano tra i capelli. «Le probabilità d'indovinare sono bassissime», osservò il mercenario scuotendo il capo. «Forse non dovremo cercare d'indovinare», ribatté Sethrian. Aelin ebbe un sussulto, quando gli vide estrarre dalla tunica la lente esagonale. «Non vorrai...». «Non vedo alternative».
«Se sbagliassi...». Jordan le si avvicinò e le strinse una mano. Il suo sorriso mostrava la fiducia più completa. «Cosa stanno facendo?», chiese Deirdre a Isengrin, sottovoce. «La stanno ipnotizzando», rispose lo stregone, in tono piatto. Aelin non li vedeva né sentiva, ormai. Si era seduta per terra a gambe incrociate, scriveva su un quaderno fatto d'aria. «Avevo abbozzato lo schema delle sei spade, e adesso invece l'ho perso», disse, in tono svagato. «Comunque non è difficile da ricostruire: Solitudine è opposta a Discordia, la spada della fiamma a quella dell'acqua, e quella dell'oscurità a Canto. No. L'acqua e il canto sono legati dall'elemento sonoro, tenebra e fiamma da quello ottico. Se no nella disposizione le spade di metallo del Drago vengono tutte dallo stesso lato del cerchio, e invece è meglio alternarle. Quindi Discordia ha accanto Fiamma e Canto, che sono anch'esse spade d'attacco. E con questo l'esagono è ultimato». «È una risoluzione logica», commentò Sethrian. «Peccato che anche l'ordine suggerito poco prima lo fosse altrettanto», obbiettò Evander. Ma Jordan non aveva atteso, e quando ebbe messo al suo posto l'ultima lama un fascio di luce blu inondò l'altare. Poi quel bagliore prese le fattezze di un volto di donna, un viso che aveva in sé l'espressione malinconica di Solitudine e la piega crudele della bocca di Discordia. «Il sapere degli Elaunoi si offre a chi l'ha saputo risvegliare». La voce della nuova apparizione si levò cristallina, riempiendo di echi l'oscurità sovrastante. La volta di pietra si aprì lentamente, rivelando un cielo intessuto di nubi. «Le porte dello spazio e del tempo si riapriranno per voi». Prima che potessero fermarlo, Isengrin aveva già afferrato con mani avide il volume di cuoio comparso sull'altare. E poi lo stridio di un drago attraversò l'aria. Due grandi ali bianche oscurarono il cielo. «Spero che i vostri amici alati sappiano rispondere in fretta al richiamo», disse lo stregone facendo un passo indietro. «Perché quando io sarò andato, ogni cosa sprofonderà inesorabilmente. Non dico che non possiate salvarvi, ma la situazione in cui vi lascio è... rovente. Sei abile come mi è sembrato, mago di Lilài? Adesso hai l'occasione per dimostrarlo». Jordan socchiuse gli occhi, Alascura era vicino, molto vicino. Ma forse
non abbastanza. Sethrian era pallido, come se si stesse concentrando sulle parole di un incantesimo non ancora pronunciato. Lo Stratega aveva di nuovo lo sguardo fisso sulle spade, e poi c'era Aelin, con gli occhi ancora persi nel vuoto, ancora inconsapevoli. «La storia, è ovvio, non può finire così», sussurrò la giovane, ma era così sereno il suo volto mentre lo diceva! Il cavaliere non poteva permettere che qualcosa le accadesse. E lanciò ancora un richiamo al suo drago, con tutta la forza della sua mente. «Andiamo, Deirdre», disse allora Isengrin. Una lunga corda pendeva dagli artigli del figlio del fuoco. La roccia sospesa non avrebbe mai potuto accogliere la mole immensa di quella belva. «Andiamo», ripeté l'uomo, attirando a sé la sua mercenaria. Ma negli occhi di Deirdre brillava una strana luce. «E le spade? Vuoi lasciarle qui, alla lava e alla distruzione?». «Non avrai quest'arma!», esclamò Evander afferrando la lama viola. «Il suo potere non è per te». Appena scostò la spada dal cerchio, il fascio di luce azzurra si spense. «Non intendo scontrarmi per delle lame incantate, Stratega. Non ora che ogni secondo è prezioso». Isengrin sorrise. «Poi guarda che ha fatto a te, Solitudine, credi davvero che io possa volerla adesso?». Evander non rispose. Ma Deirdre si era sciolta dalla stretta di Isengrin e i suoi ricci scintillavano simili a fiamme: «Io non me ne andrò così!». «Vuoi forse restare?», chiese il mago inarcando un sopracciglio. «Le spade sono a un passo da me, letteralmente senza difesa...». La donna tornò ad avvicinarsi all'altare, come affascinata dal brillare delle lame. «Senza difese, già, a parte quel nostro piccolo incantesimo segno di una fiducia più volte tradita, ma che in realtà non è mai stato rotto», le ricordò lo stregone. «Non ancora», sibilò la donna. Fu un lampo: lo sguardo cattivo di Deirdre, il guizzo della spada verde, il sangue di Isengrin colpito a morte. «Tu non senti la sua voce, ma lei grida il mio nome», sussurrò la mercenaria, e sembrò che ombre di smeraldo avessero invaso il suo viso. «Con questa spada io prendo il potere: non ho più bisogno di te, stregone, non c'è più alcuna ricompensa che io debba chiederti per i miei favori». Un fiotto di sangue uscì dalla bocca del mago. Isengrin aveva lanciato il suo ultimo incantesimo: un sortilegio di morte. Ma la magia verde della
spada respinse facilmente quella dello stregone. «È inutile!», gridò Deirdre, con una voce che non era sua. «L'unione dei Talismani mi ha resa più forte di quanto tu possa immaginare, più di quanto saprà mai esserlo la mia sciocca sorella, che vuol solo fuggire. Io sono Discordia, e so dominare gli animi. E tu ora muori perché con il tuo cuore si spezza il sortilegio che mi voleva perduta, o nelle mani di coloro che mi hanno già sepolto con legami di ferro sotto la superficie della terra». Jordan sentì la gola inaridirsi a quelle parole. Ma lo stregone si era accasciato al suolo poco dopo aver pronunciato il suo sortilegio. La donna e la spada avevano parlato a un cadavere. Deirdre si avvicinò alla corda che drago bianco di Isengrin stringeva tra gli artigli. «Sicura di non voler venire, sorella?», sussurrò ancora con il suo sguardo invasato. «Solitudine non vuole seguirti», sbottò Evander scuotendo la testa. «Addio, allora». La donna non aggiunse altro, e si aggrappò alla fune. «Sa un po' di scaletta di elicottero, ma che posso farci?», commentò Aelin, parlando fra sé. «Non credo che la coda dei figli del fuoco offrirebbe una presa altrettanto buona... Piuttosto dovrei spiegare come fanno Deirdre e Discordia a comandare la belva bianca, ricordare che la spada verde ha il potere di invadere il metallo dei draghi, e le ali e le articolazioni dei figli del fuoco sono di quel materiale. Il candido drago porterà via la donna e il suo fardello stregato senza emettere nemmeno un lamento». Nessuno aveva liberato la giovane dall'ipnosi. In quel momento lo sperone di roccia prese a tremare. Gli incantesimi che la morte di Isengrin aveva spezzato erano più d'uno. «Attenta!», gridò Jordan, anche se Aelin non poteva sentirlo. Era troppo vicina all'orlo della roccia e non vedeva, non capiva. Il cavaliere la tirò a sé, traendola in salvo. «È tutto a posto», le sussurrò, dolcemente. «Tu non puoi sentirmi ma è tutto a posto». La giovane continuava a mormorare le parole del suo sogno: «Il drago bianco è ormai lontano, quasi si scontra con Alascura. La pietra continua a tremare, sotto le membra degli eroi attoniti. Il corpo di Isengrin scivola giù, e con lui il libro, ancora stretto fra le dita esanimi». Poi si interruppe e Jordan la sentì far scricchiolare le nocche una a una. «Io qui direi di fermarci. Odio troppo i crolli dell'ultimo minuto per continuare. Sethrian è un bravo mago e saprà fermare la caduta. Lui e gli altri potranno
attendere con tutta tranquillità che arrivino i soccorsi». Il cavaliere strinse di più la ragazza. Come in risposta alle sue parole, i tremori della roccia si spensero nel silenzio. «La spada nera è caduta nel vuoto, nella crepa aperta da Isengrin». Evander scosse la testa. «Il libro è perduto, la lava l'ha inghiottito, e per poco anche Canto non faceva la stessa fine, ma l'ho afferrata in tempo. Credo che la principessa la volesse indietro, d'altronde». In realtà quella non era nemmeno la vera Canto, ma solo una copia preparata per l'occasione. Sethrian tuttavia si limitò ad annuire, troppo concentrato a tenere ferma la roccia per rispondere con più di un cenno. Jordan tornò a fissare il bagliore del magma. Il libro era perduto, e con lui il mago che aveva risvegliato i varchi. Forse era un bene... «E forse questo è un finale troppo moralistico per essere uscito dalla mia penna», concluse Aelin. Il ragazzo rise, la baciò sulla fronte. Ancora non smetteva di stringerla. XXV FINE E INIZIO Il prato era verde e profumava di pioggia. «Non riesco a crederci», mormorò la terrestre guardandosi intorno. «Mi sveglio dal sogno e Isengrin è un ricordo. Certo è un peccato che non siate riusciti a prendere il libro». «Almeno non dovremo chiederci sino a che punto sia sbagliato usarlo», disse Jordan scuotendo il capo. «Lo so, è una magra consolazione, ma non me ne vengono in mente altre». La giovane annuì pensierosa. Per lei la magia dei varchi poteva essere qualcosa di più di una curiosità scientifica, di un giocattolo stregato con cui cercare piante semoventi e lupi troppo cresciuti. Poteva essere la porta di casa, ma in fondo lei non si chiamava Dorothy, e quello non era il mondo di Oz. «È inutile, non funziona». Evander scuoteva con aria di stizza il bracciale d'onice che portava al polso. «È un altro dei doni di Isengrin?», domandò Sethrian. «Lo era, ma sembra privo di ogni potere». «Posso...», fece il mago avvicinandosi, ma dopo qualche istante scosse la testa in segno di resa. Il congegno era davvero rotto, spiegò: Isengrin doveva averlo costruito in modo tale che smettesse di funzionare alla sua
morte. Evander levò il capo al cielo. Si trattenne a stento dall'imprecare contro lo stregone. «Forse se mi dai un po' di tempo riesco ad aggiustartelo». «Non funzionerebbe comunque il suo gemello, che è nelle mani del mio vice, temo. E io invece devo parlare con i miei uomini al più presto». «Credete che tutti i gingilli di Isengrin siano defunti a quest'ora?», intervenne Jordan. «I draghi potrebbero festeggiare nel sangue la recuperata libertà». «Se accadesse, sarebbe necessariamente un male?», disse Evander in un sogghigno. «Per fortuna tutte le mie truppe sono a Levant, assai lontane dai figli del fuoco e dai loro artigli. I draghi non faranno danno». «No?», chiese il cavaliere fissandolo. «Isengrin è finito, ma restano gli eserciti che lui ha radunato. Non si dissolveranno nel nulla, ci sarà da combattere». «E in questa lotta tu da che parte intendi stare, Stratega?», gli domandò ancora Jordan. «Dalla parte di chi saprà assicurare un tetto a me e ai miei uomini. Non sono affatto certo che potrò riportarli nel nostro mondo, e forse è tempo di cercare una nuova casa». «Forse... e forse un simile discorso è prematuro», disse Sethrian alzandosi. «Dobbiamo conoscere ancora l'esito di un'altra missione, e questo potrebbe cambiare molte cose». Cinque figure attendevano ai margini della spianata, dove le tessere di serpentino e marmo creavano contorte spirali verde e argento. Gli alberi di lillà facevano da corona tutt'intorno; Aelin quasi saltò giù dal drago per andare incontro ai suoi amici. «Siete tornati», constatò Jade, «e in compagnia». Lo sguardo della ladra non era il solo essere puntato su Evander e l'occhiata che gli lanciò la principessa di Levant era cupa e tagliente. «Siamo tornati», ripeté Sethrian. «Abbiamo perso Discordia, ma portiamo indietro Solitudine, e colui che la custodisce». «Lo Stratega ha deciso di passare dalla nostra parte quando ha scoperto che Isengrin fantasticava sulla distruzione dell'universo, o almeno così ci ha detto», aggiunse Jordan. «Lo stregone comunque è morto. E non credo che nessuno sentirà la sua mancanza». «La notizia della sua fine arriva sempre troppo tardi», disse Felicia, «lui
però non è l'unico che deve pagare per ciò che è accaduto a Levant». La principessa continuava a fissare Evander, ma lui non accennò a distogliere gli occhi dai suoi. «Né io né i miei uomini abbiamo preso parte alla strage», precisò. «Dire questo non basta». «Non mi giustificherò per qualcosa che non ho fatto», ribatté il mercenario. «Non sono un'anima candida, e la guerra è guerra. Ho le mie regole però, e non sono un vuoto ideale, ma il limite della mia umanità faticosamente trovato lì dove tutto è intriso di fango e di sangue. Potrei narrarvi di come Isengrin mi ha sempre lasciato intendere che gli eventi della reggia di Levant erano solo un errore, anche se non sono mai stato certo che fosse sincero, e ormai sono fermamente convinto del contrario. Potrei farti la lunga lista dei miei errori, che ci sono stati, sì. Ma non è questo il punto». Aelin socchiuse gli occhi: nel racconto che avrebbe voluto scrivere, il Comandante, dopo lunghe traversie, veniva accolto nel clan di Raven, ma solo in seguito all'ennesimo salvataggio reciproco; e l'adozione del nemico era quasi la cancellazione simbolica del suo passato. Quella però rimaneva solo una storia nebulosa: mancavano troppi dettagli perché tutto tornasse al suo posto. Una scena, tuttavia, era nitida nell'immaginazione della scrittrice: Evander aveva consegnato a Raven una spada, intimandogli di usarla su di lui se mai avesse abusato del potere che andava riconquistando. In quel momento gli occhi chiari del mercenario le scoccarono uno sguardo che invitava al silenzio. Ma lei non intendeva parlare. «Non è questo il punto», ripeté Llys sottovoce. «E quale sarebbe allora?». «Le sorti del regno di Levant». Lo sguardo della donna si fece terribile, ma Evander non smise di parlare: «Sono due i contingenti mercenari mandati da Isengrin nella tua terra. Anton si è insediato a nord-est; raccoglie sotto la sua ala anche diversi guerrieri che giungono da Tramontana aggirando la catena dei Monti di Vetro e vende la sua lama di volta in volta al miglior offerente. Se i nobili della regione si rendessero conto di quanti dei piccoli gruppi di mercenari assoldati dall'una o dall'altra parte facciano in realtà capo a lui, non credo dormirebbero sonni tranquilli. A sud-ovest invece ci sono io, e la mia specialità non è il saccheggio, ma la diplomazia». «È grazie ai tuoi maneggi che quel vermiciattolo di Christofer ha conquistato tanto seguito». «Christofer non è l'ideale, però almeno dice di voler mettere la corona
sulla testa della sorella, e i baroni meridionali non combattono per lui, ma per l'immagine tradizionale di Levant. Date loro la principessa Felicia con la sua spada, il segno della sua stirpe, e Christofer non sarà più nulla». «Sembrerebbe tutto così facile...». «Può esserlo, se riuscirete ad arrivare ai nodi del potere, nella sala del consiglio di guerra, di fronte agli occhi che contano. E io di quella sala ho le chiavi, letteralmente». Lo Stratega aveva una certa esperienza in materia di morti presunti che dovevano riconquistare il proprio nome e le proprie forze, si disse Aelin. Solo che per se stesso una scappatoia così facile da percorrere non l'aveva trovata. «Rimane un dettaglio», sussurrò Llys. «Non era un simile accordo che volevate proporre alla principessa quando mi avete catturato? Quando sono stata presa dagli uomini di Morgant cercavate qualcuno per portare a Felicia le vostre proposte, e uno dei tuoi uomini era lì per assicurarsi che tutto andasse per il verso e giusto. Solo che poi sono arrivati Gwyon e Jordan a salvarmi. Ma allora tu agivi per ordine dello Stregone dalla Maschera d'Argento. Non è un piano che nasce dalla mente di Isengrin, questo che ora mi stai a ripetere? E noi dovremmo accettarlo per buono?». «Veramente il piano è mio», precisò l'altro. «Lo stregone mi ha detto solo di porre fine al più presto al conflitto di Levant, perché la guerra civile sta prosciugando il regno, e lui invece aveva per la tua terra progetti di altra natura. Per inciso credo che volesse spingere il nuovo governo a muovere guerra ad Aquilon, o qualcosa del genere. Ma questo non ci riguarda più, adesso». «Muovere guerra ad Aquilon... Proprio un pensiero gentile nei nostri confronti», disse Jordan con un sorriso tirato. «Vi siete dimostrati un po' troppo intraprendenti per i suoi gusti, temo», spiegò Evander. «E queste sono le conseguenze». In quel momento Felicia fece un passo indietro, continuando a scrutare il mercenario. «Riferirò le tue parole alla principessa. Non mi fido di te, ma ciò non toglie che ci sia del vero in ciò che dici». L'uomo fece per risponderle. Ma poi sgranò gli occhi, e tacque. La terrestre seguì lo sguardo di Evander. Vide il bagliore violaceo di Solitudine aleggiare presso il volto di Gwyon. «È come se stesse domandando il permesso», disse Evander in un sussurro.
Aelin poté solo annuire. «Mi chiedete se voglio riacquistare i miei ricordi di un tempo?». Gwyon appariva quasi incredulo. «Sono diviso tra ciò che voi raccontate di me, e i ricordi che ormai riconosco come falsi, e che si assottigliano sempre di più. Sono sospeso tra due nulla. A volte mi sembra di essere un nulla io stesso. Certo che voglio riavere i miei ricordi!». Aelin vide la silenziosa fanciulla dal volto viola baciare la fronte del ragazzo. Gwyon si portò una mano alla tempia, come stordito. Un altro incantesimo di Isengrin era sciolto. «Lo riaccompagno alla torre», disse Palen agli altri. «Voi intanto continuate pure a discutere delle sorti del mondo». La terrestre sollevò una mano e raccolse tra le dita un minuscolo fiore violaceo portato dal vento. Era strano accorgersene... discutevano davvero delle sorti di un mondo. Si erano incamminati lungo un viale tortuoso, i rami erano carichi di ombre. Tra i cespugli in fiore si intravedeva a tratti il riverbero metallico di strane statue, volti di donna che si scioglievano in complessi intrecci geometrici, superfici di specchio che riflettevano la stessa immagine all'infinito, strutture di solidi semiaperti e fiamme stregate, o alambicchi e prismi che sorgevano dal terreno. «Se non erro», sussurrò Llys, «c'è ancora un discorso in sospeso». Avevano raggiunto uno spiazzo, e Aelin si lasciò cadere su uno dei sedili di pietra bianca che si incurvavano attorno a un vecchio pozzo a esagono. Solo la principessa ed Evander rimasero in piedi: lei immobile, con le dita strette attorno alla spada che Sethrian le aveva ridato, lui come intento a misurare il terreno con i suoi passi, ma senza mai smettere di scrutare l'altra. «Non ti fidi della mia parola?», chiese il mercenario allargando le braccia. «È più che comprensibile. Ma hai visto dove siamo? Chiedilo, e una decina di maghi accorreranno per pronunciare l'incanto che ti dia prova della mia buona fede». «Non mi stupirei se tu avessi in tasca uno degli strumenti di Isengrin, creato allo scopo precipuo di debellare un simile sortilegio». «Per quanto ne so io, tutti gli strumenti dello stregone sono andati in frantumi con la sua morte. Puoi domandare a Sethrian, se vuoi».
«In effetti quello che abbiamo visto conferma la vostra teoria», intervenne Jade. «Quello che avete visto?», ripeté Aelin, con un lampo negli occhi. «Siamo tornati nel covo di Isengrin», disse Rhory. «I draghi hanno sentito le voci dei loro fratelli prigionieri oltre la roccia. E noi abbiamo seguito quel richiamo». Era questo il segreto, allora, che Sethrian e Jordan avevano custodito nelle loro menti... «Anche voi avete cercato di aggirare gli accordi», commentò Evander in tono piano. «Dovevamo farlo», fu la fredda risposta di Llys. «Con quel suo dodecaedro stregato, e in più il nuovo sapere delle spade, quanto tempo ci sarebbe voluto al tuo padrone per ucciderci uno a uno nel sonno, nelle nostre case?». «Quindi avete rubato il cristallo nero, e non solo quello, se vi conosco appena un po'», disse Evander con un sogghigno; l'espressione degli altri diceva che non si era sbagliato. «E posso capire i vostri motivi, ma cosa avreste fatto se lo stregone fosse stato in grado di comandare i varchi anche senza l'ordigno che gli avete sottratto?». «Avevamo le nostre fonti», rispose Sethrian tranquillo. «Non serve a molto cancellare la memoria di chi si è affannato di mettere nero su bianco ogni dettaglio di ciò che ricordava. Gwyon ci aveva detto anche questo». «Così la gemma oscura è in mano vostra, adesso», osservò il mercenario. «Ed è ancora attiva, secondo Palen», aggiunse Jade. «Però, disse Rhory, «abbiamo sentito come un boato quando i collari dei draghi hanno cessato di funzionare. La loro furia era terribile». «Senza contare che io avevo passato almeno mezz'ora per capire come si apriva la serratura di quell'ordigno!», commentò la ladra scuotendo la testa. «Vuol dire che adesso i draghi di Isengrin sono tutti liberi?», domandò Jordan. «Ne dubito», rispose Evander. «Oltre ai collari c'erano salde catene a trattenerli». «Noi ne abbiamo slegati una ventina», disse Rhory. «Gli altri purtroppo erano lontani dalla nostra strada. E poi dove i figli del fuoco gridavano eravamo quasi certi di trovare anche i guerrieri di Isengrin. Non potevamo correre questo rischio».
«Rhory veramente era più che disposto a farlo», ribatté Jade. «Ma alla fine lo abbiamo trascinato via. Anche perché ci aspettavamo di veder apparire Isengrin da un momento all'altro. E io non ci tenevo a fare la sua conoscenza». «Sembrava che il mondo stesso dovesse finire», sussurrò Llys. «I draghi urlavano... Io non ho alcun legame con i figli del fuoco, ma sentivo le loro voci, ed erano terribili». Per qualche momento nessuno parlò. Non c'era vento. I raggi del sole creavano venature di luce sulla pietra e sulla superficie delle foglie. «Riferirai le mie parole a Felicia?», disse poi Evander. «Sempre che lei non le stia ascoltando in questo momento, s'intende». L'espressione di Llys rimase imperturbabile. «Cosa ti ha dato una simile idea?». «C'è un solo comandante donna nelle vostre truppe, lo so da tempo. E il pensiero che si trattasse della principessa mi aveva già sfiorato», Evander sorrise appena. «Adesso è bastato dare un'occhiata alle facce dei presenti: tra chi evita il mio sguardo e chi ha negli occhi una luce divertita, ogni dubbio svanisce. Sei tu Felicia». «Isengrin è morto, il crudele stregone è stato sconfitto», disse Ethienne. «Per le vie di Vultur non si sente parlare d'altro, adesso». «Le notizie viaggiano in fretta», constatò Rhory. «E non siamo stati noi a diffonderle», aggiunse Jordan aggrottando la fronte. Il sacerdote scosse la testa. Aveva voluto parlare in disparte con i due cavalieri, prima di render noto il suo arrivo a Lilài, e già questo era significativo. «Isengrin è morto», ripeté, «e tutti sembrano pronti a gloriarsi delle sue spoglie. Si profila la possibilità di rimescolare le pedine sulla scacchiera, di creare nuove, inaspettate alleanze». «Non mi piace questa faccenda», disse il cavaliere di Thule. «Non piace neanche a noi», Ethienne tornò a scuotere il capo. «E nelle parole del messo di Anton c'è più verità di quanto non credesse mio zio. Il suo resoconto della morte di Isengrin non si discosta molto dal vero. Manca solo la parte in cui Deirdre vi ha abbandonato nel tempio di lava». A quelle parole Jordan fece una smorfia disgustata. «Ma chi potrebbe pensare di allearsi con un individuo del genere?», do-
mandò poi Rhory incredulo. «Gwyon ha definito Anton un macellaio o giù di lì», disse cupo l'erede di Thule. «Evander non ha usato parole molto dissimili, e quando ancora erano alleati. Ma io non so che valore potrebbe avere la loro testimonianza a Vultur». «In fin dei conti cos'è? La parola di servitori di Isengrin contro quella di un antico compagno», disse il sacerdote. «Molti vedranno solo questo. E molti lo vorranno vedere». «Cosa sperano di trovare, un alleato contro Lilài e la principessa di Levant?». «Forse solo un contrappeso, per ripristinare gli equilibri sul piatto della bilancia». «E il Santo Guardiano rimane in silenzio?», chiese Rhory. «Non sta a lui pronunziarsi su questioni terrene come accordi e alleanze, fino a quando nessuna delle due parti è macchiata dal sospetto di essere un parto del demonio. O almeno la sua voce non ha un peso maggiore rispetto a quella degli altri patriarchi. E ironia della sorte, che Anton si serva di draghi, grazie a noi non è più un delitto». «Ma quei draghi non sono liberi!», protestò il cavaliere prescelto. «Il legame che li avvince è sbagliato!». «A dire il vero non conosciamo neppure la natura di quel legame, al momento», obbiettò Jordan. «Shiin o un altro mago potrebbero aver riparato i collari d'argento, ma forse Deirdre ha dovuto soltanto presentarsi come l'assassina di Isengrin, e la voce dolce della spada verde ha fatto il resto». «Ciò non toglie che in entrambi i casi il legame sia sbagliato, ingiusto», borbottò l'altro. «Non sarà con questi argomenti che ci libereremo di Anton», tagliò corto Ethienne. «La maggior parte dei sacerdoti, e di coloro che non hanno il canto dei draghi nella mente, trovano assai meno pericoloso che i figli del fuoco vengano dominati da un sortilegio, temo». Rhory scosse la testa. Ma era così che stavano le cose. «Cosa accadrà adesso?», domandò il cavaliere di Thule. «È presto per dirlo. Anton ha chiesto di essere ascoltato in una pubblica supplica. Credo che la sua richiesta verrà accolta». «C'è altro che dobbiamo sapere?». «Non è ancora certo, ma forse verrà aperta la Sala dei Re, per l'occasione». Jordan annuì, e non disse nulla.
«Non vorrai dirmi, Sethrian, che tutto questo non rappresenta una tentazione anche per te!», esclamò Palen. Mentre parlava non riusciva a staccare lo sguardo dal dodecaedro oscuro e dai mutevoli riflessi che aleggiavano sulla sua superficie. «Credo di essere diventato allergico ai cristalli neri dopo che uno di essi per poco non mi ha infilzato da parte a parte, anni fa», rispose Sethrian con un mezzo sorriso. «Sii serio!». «Devo esserlo?». Palen sbuffò esasperato. Gwyon, che aveva seguito in silenzio la scena, guardava ora l'uno, ora l'altro. «Quell'ordigno Isengrin l'ha trovato, e non creato», disse. «Ma a differenza di tutti gli altri suoi gingilli, io ne sono certo, avrebbe voluto comunque che gli sopravvivesse, solo per il pensiero del caos che avrebbe generato». «È curioso, però», disse Sethrian. «Isengrin si è rivelato un teorico del caos, e a ucciderlo è stata Discordia, che vede nel disordine il suo primo elemento». «C'è una profonda differenza». Gwyon socchiuse gli occhi, con espressione pensosa. I ricordi erano tornati, e adesso poteva comprendere molte cose che prima erano confuse e distanti. «Vuoi illuminare anche noi?», domandò l'altro, e gettò contemporaneamente un'occhiataccia a Palen, che si era avvicinato troppo al solido di basalto nero. «Il mio antico maestro è un teorico del caos, l'hai detto tu stesso. Non ama il disordine in sé, ma lo progetta a tavolino con freddezza e metodo. Se avesse potuto imporre il suo ordine su tutto e su tutti, se avesse potuto dargli la stessa ineluttabilità di una legge di natura, Isengrin non avrebbe esitato. Io lo conoscevo, ricordo i suoi gesti meticolosi, la gelida ira a stento trattenuta di fronte all'imprevisto, la cura e la cautela nell'analizzare ogni dettaglio. No, non era figlio del caos, il mio maestro, né tale era la sua ambizione. Ma di fronte a un ordine parziale, inadeguato, destinato a crollare sotto l'infierire del tempo, e un caos preordinato, inderogabile, assoluto... No, davvero non mi stupisco delle parole che Evander ha carpito a Isengrin. Il mio maestro avrebbe scelto l'assolutezza, a qualsiasi costo, in qualsiasi sua forma».
«Sono parole strane», commentò Palen. «Ordine, disordine. Pronunciati in questo modo sembrano termini privi di consistenza. Ma in realtà è di interi universi che stiamo discorrendo, e mondi, regni, città, esseri viventi». «A Isengrin non è mai importato nulla degli altri esseri umani». «Detto questo però, a noi rimane ancora una decisione da prendere», concluse Sethrian, fissando il dodecaedro. «Siamo solo noi tre i maghi che sanno della presenza a Lilài dell'ordigno di Isengrin?», domandò Gwyon. «Non esattamente», ammise Palen. «I draghi sapevano, dal momento che sono stati loro a trasportare la gemma oscura e il resto della refurtiva». «E i figli del fuoco sanno essere molto ciarlieri quando qualcosa colpisce la loro immaginazione», aggiunse Sethrian. «Il dodecaedro nero certo l'ha fatto», continuò il suo amico. «Siccome nel frattempo il numero dei Cantori del Sangue è inevitabilmente aumentato...». «È chiaro che tutta Lilài in un modo o nell'altro è stata informata del nostro bottino, o lo sarà tra breve», concluse Sethrian. «La notizia per ora è soltanto ufficiosa, ma non di meno continua a serpeggiare e diffondersi». «Quante cose interessanti mi sono perso, mentre mi tornava la memoria», mormorò Gwyon. «Non si direbbe che si è trattato solo di un giorno e mezzo. E qualche mago si è già mostrato interessato alla pietra?». Palen scosse la testa. «Io ho avuto solo dichiarazioni di disinteresse più o meno esplicite», disse Sethrian. «Ma non ci aspettavamo nulla di diverso, ora come ora. La paura e il timore, l'odio che Isengrin ha suscitato sono troppo vivi, e hanno impresso il loro segno su tutto quello che lo Stregone dalla Maschera d'Argento si è lasciato alle spalle». «Tu però temi che i maghi dimentichino presto, o forse sei solo lungimirante», osservò Palen. «Oppure non si tratta solo di questo?». «Il punto è che oltre alla tentazione della ricerca fine a se stessa potrebbero sorgere dei motivi concreti, anche validi forse, per far ricorso alla magia dei varchi». «Potrebbero, o l'hanno già fatto?», domandò Gwyon. «Io pensavo ad Aelin, lo ammetto». «Vuole tornare a casa?». «A dire il vero Sethrian non glielo ha nemmeno chiesto», ammise Palen. «Se non saremo noi a proporglielo Aelin non dirà mai nulla», precisò
l'altro. «Almeno per quanto la conosco io». «Capisco», fece Gwyon. «Ma è un buon motivo per tacere?», chiese Sethrian, quasi parlando a se stesso. «Ci sarà qualcuno che chiederà, comunque», sussurrò l'antico apprendista di Isengrin. «Me l'ha accennato lui stesso, prima che vi raggiungessi». «Ti riferisci a Evander?». «In persona. Attende solo che la sua alleanza sia più salda, ha detto. D'altro canto posso capirlo. Mentre i guerrieri, uomini e donne, lo hanno seguito per mettersi al servizio di Isengrin, il resto della tribù è rimasta nel suo mondo. Madri con i figli al seno, vecchi e bambini che potrebbero non rivedere, se le porte tra gli universi non dovessero riaprirsi». Palen tornò a fissare Sethrian: «Potrai dire a me che la curiosità scientifica non è una ragione sufficiente per mettersi a giocare con il tessuto degli universi, ma questa è una faccenda del tutto diversa». «E poi alla curiosità non c'è mai fine», aggiunse Gwyon. «Le famiglie riunite una volta lo saranno per sempre, si spera». «Potrei essere d'accordo con voi, se non fosse che per un dettaglio», disse Sethrian. «In questo modo stiamo creando un precedente». Palen tornò a scuotere il capo: «Capisco la tua obbiezione, ma...». «Una volta aperto sapremo poi richiudere lo scrigno dei sogni?», tornò a chiedere Sethrian. «Una carestia, un'epidemia, non saranno motivi sufficienti a riaprire le porte? E a che serve preservare l'integrità dei mondi per un futuro che nessuno di noi potrà vedere quando il nostro presente trabocca dei cadaveri agonizzanti che un solo gesto avrebbe potuto salvare?». «A parte il fatto che i cadaveri sono già morti, hai già in mente dove vuoi arrivare?», domandò Gwyon. «Non lo sa nemmeno lui. È questo il problema», sospirò Palen. Sethrian fece una smorfia: «C'è un limite che non deve essere superato nell'utilizzo dei varchi, e noi non sappiamo quale sia. Potremmo esserci più vicini di quanto non immaginiamo, potremmo superarlo senza nemmeno accorgercene». Il mago chiuse gli occhi. «Lo ammetto, ho pensato di distruggere il dodecaedro. O affidarlo alla custodia di Vultur, che non è molto diverso. Ma potremmo arrivare a rimpiangerlo». «Non so perché», disse Gwyon, «ma la piega presa dalla discussione mi ricorda tutti i discorsi fatti a un giovane pescatore che non voleva diventare mago». «Con una differenza, però».
«Me ne rendo conto. I motivi per aver paura stavolta sono molto più concreti e reali». «Sigilleremo la pietra in maniera tale che solo di comune accordo potremo tornare a usarla, non vedo altra scelta», disse Sethrian con un sospiro. «È un po' quello che hanno fatto gli antichi con i sei Talismani, no?», osservò Palen. «Non è la soluzione che vorrei», ammise l'altro. «Noi non siamo eterni, e chi custodirà la gemma oscura, dopo? Alla fine così, la scelta è solo rimandata». Flora sedeva immobile, le mani erano raccolte in grembo, e gli occhi seguivano silenziosi lo sguardo eccitato del suo sposo. Lint non cessava di sorriderle, mentre le raccontava della sua ultima spedizione tra i monti, gesticolava quasi, per rendere ogni parola più viva, più cruda. «Le bocche dell'inferno si sono chiuse. L'incantatore al nostro seguito l'ha detto, ogni magia è svanita, il varco si è sigillato, come se non fosse mai esistito. In quel momento ho davvero saputo che la lettera dei nostri amici diceva il vero: Isengrin è morto, morto per sempre». «Vuoi dire che non ci credevi, prima?», domandò l'altra accennando un sorriso. «Oh, di credere lo credevo, ma c'è una gran differenza tra sentirsi dire che il pericolo è passato e vederlo con i propri occhi». La donna annuì appena. E sorrise di nuovo. «Non abbiamo avuto molto tempo per esultare, però», spiegò il principe. «Il varco era svanito, ma i lupi erano ancora intorno a noi, e se devo dar retta al mio istinto ti dirò che il loro numero sembrava essere anche aumentato». «Capisco. E per quel che riguarda i portali hai già mandato dei messi per appurare se la situazione è la stessa in tutto il regno?». «Ho mandato un solo messaggero, ma era fornito di ali: presto sarà di ritorno. Senza contare che la maggior parte dei varchi ci aveva già pensato Isengrin a chiuderli. Quelli che temo di più rimangono i lupi. Sono gli unici, tra i mostri dello stregone, ad aver mostrato di potersi adattare al nostro mondo con tanta facilità, lo sai». «Sta attento», disse l'altra. Il principe aprì la bocca, per protestare, forse. Ma Flora aveva perso un fratello in una battuta di caccia, e l'uomo si limitò a un cenno d'assenso.
«Starò attento». «Mi chiedevo...». «Che cosa?». La giovane piegò capo. Lint non poté far a meno di osservare come l'onda inquieta dei capelli creasse uno strano contrasto con l'espressione serena del suo viso. «Mi hai detto che un pastore ha addomesticato un cucciolo di lupo, non è vero? Chi sa se è possibile rifarlo». «È difficile», rispose il principe vagamente sorpreso. «Per quel che riguarda i lupi comuni so che è possibile legarli a una persona, ma i loro istinti di predatori non si spengono nemmeno se quelle bestie vengono allevate dall'uomo». L'altra tornò ad annuire. «Come mai questa domanda?». «Era Viviana a parlarne», rispose la giovane, e Lint accennò un mezzo sorriso: sua cugina non parlava mai a sproposito. «Ha detto che bisognerebbe trovare il modo perché i lupi non siano solo una piaga per Aquilon». Il principe si concesse una risatina: «Non so perché, ma ho avuto la visione di un'ala dei miei soldati a cavallo di lupi grigi. Chi sa da dove può essere nata...». «Se devo essere sincera non ne ho la più pallida idea». «Forse è perché i cavalli hanno perso molte delle loro attrattive da quando sono comparsi i draghi». Flora sorrise e non disse nulla. Tutti continuavano a dirlo, non stava bene che un principe parlasse ai draghi. Lei non ne era troppo convinta, ma teneva per sé la sua opinione. Soprattutto perché sospettava che il suo consorte si fosse già segretamente sottoposto alla prova del sangue, ma con scarsi risultati a quanto sembrava. «Ripartirò presto, comunque», aggiunse Lint in tono serio. «Proteggere il castello di Aquilon è il mio primo dovere, e io ne sarò all'altezza». Una strana pioggia si era abbattuta sulla torre dei maghi, a Lilài. Aelin avanzava lungo il camminamento esterno che si snodava attorno alla cupola di cristallo osservando con aria pensosa ognuno degli oggetti caduti: c'erano due arance, tre lattine di tonno in scatola, una bottiglia di una nota bibita analcolica, pacchi di fazzoletti di carta a profusione. Palen, Sethrian e Gwyon alla fine avevano provato a riaprire un varco tra i mondi, ma con risultati disastrosi.
La gemma oscura non era sufficiente a padroneggiare la magia dei portali, e sembrava che l'antico sapere fosse ora definitivamente scomparso. Isengrin non aveva lasciato indicazioni di sorta. I tre maghi avevano peccato di sicurezza credendo di poter supplire con l'ingegno alle conoscenze perdute. Nemmeno lo Stregone con la Maschera d'Argento aveva imparato dal nulla. C'erano degli antichi volumi, questo era certo. Ma tutto lasciava pensare che Isengrin li avesse distrutti. La terrestre camminava con lo sguardo chino. Poi si fermò per raccogliere un libro. Parlava di motori, così sembrava dai disegni. L'argomento poteva essere interessante. Peccato che fosse scritto in tedesco. «Non sei un po' imprudente a salire sin qui?», fece la voce di Jordan alle sue spalle. «Sethrian ha detto che la pioggia di stranezze potrebbe non essere ancora finita». «Il richiamo era troppo forte...», ribatté la terrestre voltandosi. «E tu non corri lo stesso pericolo?». «Io sono solo venuto a prendere te». Gli occhi azzurri del giovane cercarono quelli di Aelin e lei sorrise, incerta: «Ricordi?», mormorò. «Abbiamo parlato di Dei su questa torre». «A dire il vero avrei preferito non ricordare», ammise Jordan con un sospiro. «La chiesa ha aperto le braccia ai draghi, ma questo invece di dissipare i dubbi in un certo senso li ha accresciuti». La giovane annuì, senza sapere bene che cosa rispondere. «E tu?», domandò poi l'altro quietamente. «Pensavi a casa tua adesso, non è vero?». «Come potrei non farlo?». «Giusto, domanda stupida», ammise il cavaliere, e fece affondare le dita nelle tasche. «La porta era quasi aperta», aggiunse Aelin, d'un fiato. «Ma si è richiusa troppo in fretta». La ragazza annuì lentamente. «Chiederai a Palen e agli altri di riprovare?», le domandò il giovane. «No, non credo che lo farò». Stavolta fu Jordan ad assentire. La giovane chiuse le palpebre, sospirando. «La verità è che una parte di me non vuole abbandonare questo mondo, non l'ha mai voluto. Ma ciò non spegne la nostalgia per quello che mi sono lasciata alle spalle». «La scelta non è stata tua, alla fine».
«Lo so. E per certi versi è un sollievo». La giovane fece una smorfia. «Sarebbe stata una decisione troppo difficile. La più difficile di tutta la mia vita, credo. Ma lo pago il privilegio di non dover scegliere. Non potrò nemmeno dire addio ai miei cari, dir loro che sto bene, tornare a riabbracciarli. Mi mancano. Cerco di non pensarci il più delle volte, ma mi mancheranno sempre. E l'unica mia consolazione è che le porte si sono chiuse da sole. Non sono stata io a scegliere». «Aelin...», mormorò Jordan venendo più vicino. «So che non posso dire o fare nulla per consolarti. Ma ti volevo parlare». «A me basta averti vicino, adesso», disse lei con un sorriso, «te e tutti gli altri». «Forse io potrei esserlo di più, se me lo permetti». La ragazza ebbe un sussulto, e il cavaliere sorrise mentre le prendeva una mano. Sei ingenua e non capisci, o vuoi solo fingerti tale? Perché io credo che tu abbia capito... Quelle parole erano negli occhi di Jordan, anche se il giovane ancora non parlava. Aelin avrebbe potuto credere che il tempo si fosse fermato, se non avesse sentito i battiti del suo cuore crescere a dismisura. «Jordan, io...». «Non devi rispondere subito, se non vuoi». «Io non credo che riuscirò a darti una risposta coerente... fino a quando mi stringerai la mano». «È spiacevole?». La giovane divenne se possibile ancor più rossa, e scosse la testa. Il cavaliere sollevò la mano di lei, per sfiorarla appena con le labbra. Poi la lasciò andare. Lei continuava a sorridere, lo guardava come istupidita. «È poi un male non riuscire a pensare?», le chiese Jordan. «Non puoi lasciare che a governare l'amore sia la fredda razionalità...». Anche se Pensiero è il tuo nome tra i draghi, Aelin. «Io...». La giovane deglutì. «Tu...». «Perché queste parole proprio ora?», chiese la ragazza all'improvviso. «Non volevo essere io il motivo che ti spingeva a voltare le spalle al tuo mondo. Non sarebbe stato giusto».
«E se fra un mese, o un anno, la magia dei varchi tornasse a schiudersi al nostro comando?». «E tu vorresti fermare la tua vita per un anno, o forse dieci, venti, in attesa di un prodigio sempre troppo lontano», Jordan socchiuse gli occhi. «Nemmeno questo sarebbe giusto». «Non riesco a trovare un motivo per dirti di no». Aelin esitò un istante. «Eppure ho paura a risponderti». «Paura», ripeté l'altro tornando ad avvicinarsi. «Di cosa hai paura?». «Delle conseguenze», balbettò lei. «Le conseguenze», tornò a dire il giovane, «potrei mostrartele». Aveva una strana luce negli occhi. Con due dita le sollevò il mento. Lei lo lasciò fare. Jordan accostò le labbra alle sue. Aelin dischiuse appena la bocca. E lui la baciò. «Hai ancora paura?», sussurrò il ragazzo, molto tempo dopo. «Sì», disse lei in un soffio. «Ma è una paura meravigliosa». L'altro le sfiorò il volto con un dito. «Vuoi, allora». «Proviamo», rispose Aelin, soltanto. Jordan si lasciò sfuggire una risata sommessa. «Ho detto qualcosa che non va?», domandò lei, con le guance di nuovo arrossate. Il giovane scosse piano la testa. «Nulla che non vada. Solo... avrei dovuto immaginare una simile risposta da parte tua». La ragazza inclinò il capo, senza sapere che dire. Fissò l'altro negli occhi. Jordan sorrise, tornò a stringerla a sé. E per molto tempo non ci furono parole. FINE THE END LA FIN XXVI INTRIGHI «Finisce davvero così la storia?». «Perché non dovrebbe finire in questo modo?».
«Non hai detto che succede con Anton, Deirdre e Discordia, innanzitutto». «A me piacciono i finali in sospeso». «Non fino a tal punto, si spera. E poi questo è troppo romantico per i tuoi gusti». La scrittrice sollevò per un istante gli occhi verso il soffitto, come per riflettere. «Forse avrei dovuto descrivere i dettagli del tramonto, giusto per fare un po' più d'atmosfera». L'amico la guardò scettico. «E va bene!», ammise lei. «Piuttosto avrei scritto che un pianoforte a coda era caduto fracassandosi a pochi passi dai due piccioncini. Un altro pezzo di storia comunque ci sarebbe, solo che ero indecisa se metterla o meno. E senza dubbio voglio prima inserire un'altra scena di commento». «Quale scena?». «Questa scena». «Vuoi dire che scriverai tutto quello che dico?». «No, solo quello che farà comodo a me». L'altro la fissò senza parlare. «Ebbene?», chiese la scrittrice dopo un po'. «Fai tutto tu», disse l'amico scrollando le spalle. La ragazza pestò un piede per terra. «Sei qui per commentare e commenterai!». «Che vuoi che ti dica? Al tuo alter ego di scrittrice non fa un po' impressione di essersi fidanzata con uno dei suoi personaggi?». «Aelin non hai mai considerato Jordan come tale sino in fondo. Un simile problema potrebbe presentarsi a me, ma sono passati due anni, no, tre, no, di più, da quando ho iniziato a scrivere questo romanzo: io e la ragazza della storia siamo cresciute entrambe, seguendo strade diverse. Quindi ora posso trovarle uno spasimante senza che questo sottintenda un mio fallimento sul piano emotivo». «Com'è che non hai scelto Evander, comunque? Credevo che a te piacessero i tipetti bastardi, non i cavalieri». «Evander non cerca altre donne: ha già una relazione con la sorella di Raven, e anche con una delle pallide donne delle caverne, una signora piuttosto altezzosa e non troppo facile a cedere al suo corteggiamento». «Si vede che avrà saputo della rivale». «Le tribù praticano la poligamia, non fraintendere».
«Tutto questo però non l'hai scritto». «Un accenno in futuro dovrò farlo, credo. Sylph-aen è una guerriera, quindi ha seguito Evander e il fratello tra i mondi. Ma la vampira è rimasta nel suo regno sotterraneo. Un briciolo di dispiacere per questo lo Stratega dovrà pur mostrarlo». «È un discorso affascinante», disse l'altro, non troppo convinto. «Ma sei tu a regolare la vita sentimentale dei tuoi personaggi, non fingere il contrario». «Vuoi sapere perché non ho buttato la terrestre tra le braccia di Evander?», la ragazza sorrise. «Perché nel mondo reale il bravo ragazzo guadagna molti, moltissimi punti. Jordan comunque si trova a metà tra i due estremi, e questo lo rende per Aelin semplicemente perfetto. Non che lei abbia avuto modo di riflettere sulla faccenda, ma se vuoi il parere della scrittrice, è questo». «Immagino che Evander abbia ammazzato un po' troppa gente nei suoi trascorsi». «Sì. E sono cose che si perdonano facilmente a un personaggio. Ma quando fai parte della storia è diverso». «Toglimi una curiosità», disse ancora il ragazzo dopo un attimo di riflessione. «Come puoi inserire la scena dei commenti e al tempo stesso continuare la finzione che vuole la scrittrice dentro al romanzo? Le due cose non si contraddicono a vicenda?». In quel momento bussarono alla porta. «Ora di andare!», esclamò la scrittrice afferrando la sua borsetta di raso nero. «Non vuoi risponderei». «La risposta è più semplice di quel che credi!», disse trascinando l'amico fuori dal salotto. «Ma adesso dobbiamo scattare, o arriveremo in ritardo. E a me non piace arrivare in ritardo!». «Scriverai anche questo nella tua storia», chiese l'altro socchiudendo gli occhi. «Certo. Tutto il mondo deve sapere che sei un ritardatario cronico!». Queste parole la giovane le pronunciò che erano quasi in ascensore. Il salotto era rimasto vuoto. Poi una testa fulva spuntò da dietro una poltrona di velluto blu. «Che razza di sogno», mormorò Aelin gettandosi stancamente a sedere. «Spiare un'altra me stessa che parla come se fossi un pezzo della sua storia... Ne avrei fatto volentieri a meno. Se non altro ho avuto l'approvazio-
ne del mio inconscio a me e a Jordan, anche se quegli accenni a Evander potevano evitarseli». La giovane socchiuse gli occhi, guardandosi intorno. Le mancava casa sua, quello era il cuore del sogno. Ma con ogni probabilità non l'avrebbe mai più rivista. «È possibile, però non certo», disse una voce di donna. La ragazza si alzò di scatto, portando la mano verso una spada che non trovò. Sgranò gli occhi nel fissare la figura che aveva davanti: occhi blu viola, capelli corvini, pelle chiarissima; la veste aveva il colore del sangue, le unghie i riflessi dell'argento. La riconobbe immediatamente. Era la maga che avrebbe voluto essere, quando ancora il nome di Aelin era soltanto un gioco. «Certo che in questo sogno la densità dei miei alter ego per metro quadrato batte ogni record». «La mia presenza non è casuale», disse la donna con voce da contralto. «Nei sogni tutto e caso, e nulla al tempo stesso», sottolineò Aelin. «C'è qualcosa che si agita nel tuo animo, ma per vederlo devi staccarti da te stessa». La scrittrice sbatté le palpebre confusa. «Giudica gli eventi come se fossero parti di un romanzo», sussurrò ancora la sua interlocutrice. «Io...». Aelin inclinò il capo, incerta. Ma l'altra adesso taceva, la sua figura si faceva fumo, consumandosi come una bambola di carta che brucia dal suo stesso interno. La giovane fece un passo avanti, si ritrovò a guardare la propria immagine riflessa su di un antico specchio ovale, che mostrava una ninfa liberty impressa nell'argento. Ci aveva giocato da bambina, o da ragazzina per meglio dire, e adesso lo specchio si era sollevato per venirle incontro, per mostrarle il suo viso. «Sono diversa», sussurrò Aelin sfiorandosi le labbra con un dito. «Sono diversa dalla maga dai capelli neri che avrei voluto essere a tredici anni, e sono diversa dalla scrittrice di questa terra. Direi che sono a metà tra reale e ideale, se non fossi certa di me stessa. O forse questo specchio è qui solo per ricordarmi che indietro non si torna». La giovane chiuse gli occhi. Sapeva che in qualche modo, quando li avrebbe riaperti, sarebbe stata di nuovo sveglia. Gwyon scese le scale che portavano verso il cuore dell'anfiteatro. Le
gradinate digradavano dal rosa pallido al rosso cupo; la conca di pietra era l'immancabile esagono e lo circondava una doppia corona di archi bianchi. Sui gradini del teatro vuoto sedevano gli amici del giovane: Jade giocherellava con una moneta e Sethrian non le staccava gli occhi di dosso, c'erano Rhory e Jordan, e Palen stava prendendo degli appunti su un calepino che teneva sulle ginocchia. «Hai visto Aelin?», chiese quest'ultimo a Gwyon, che scosse la testa. «Si sarà riaddormentata», commentò Sethrian accennando un sorriso. «Ancora un po' e torno alla torre per portar giù di peso, quella dormigliona», disse Jordan, e non sembrava troppo dispiaciuto all'idea. «Di che parlavate, comunque?», domandò l'apprendista di Isengrin. «Delle nuove ricchezze dei Cantori del Sangue», disse Jade facendo volare in aria ancora una volta la moneta. «E del loro possibile impiego». Gwyon la fissò con sguardo interrogativo. «I figli del fuoco vogliono donarci le scaglie dell'isola di Solitudine», spiegò Sethrian. L'apprendista annuì: i draghi custodivano gelosamente il passaggio tra la vita e la morte, e con ogni mezzo avrebbero difeso la quiete di quell'ultimo rifugio. Ma quando la vita era ormai svanita restavano solo spoglie di cristallo che per i sopravvissuti non avevano alcun valore. E poi ai figli del fuoco piaceva vedere vestiti dei loro colori i figli della terra con cui avevano mescolato il sangue. «È un dono davvero inestimabile», osservò Gwyon. «Lo sarà ancora di più se sapremo gestirlo nel modo adeguato», aggiunse Jordan. «Certo. Il cristallo del drago è prezioso per le sue qualità, ma ancor di più per quanto è raro», disse quello in tono pacato. «Non è necessario che veniate a spiegarmelo». «A te no, forse, ma qualcun altro potrebbe averne bisogno», ribatté il cavaliere di Thule. «Quanti sono al momento gli adepti?», domandò Gwyon. «Secondo i miei registri a chiedere la prova del sangue sono stati in cinquecento», disse Palen sfogliando le pagine del calepino, «maghi soprattutto, anche se di questi tempi il numero dei sacerdoti è in netta ascesa». «Non quello dei cavalieri?», fece Jordan, vagamente sorpreso. L'altro scosse la testa. «Io non me ne stupisco», disse Rhory con il suo sorriso tranquillo. L'amico inarcò un sopracciglio.
«Lo sai anche tu che i cavalieri preferiscono ucciderli i draghi». «Questo è vero», ammise Jordan. «Comunque sia, bisogna mettere in conto che non tutti gli aspiranti hanno l'approvazione dei figli del fuoco e, implicitamente, di coloro che già parlano alla mente dei draghi», osservò Palen. «Anzi, di cinquecento persone, appena un terzo sono state sottoposte alla prova del sangue, e allora il numero dei cavalieri rispetto ai sacerdoti sale in maniera vertiginosa». «Lasciamo a un altro momento però le affascinanti disquisizioni che un simile dato potrebbe suggerirci», propose Sethrian, con un tono di voce che sfidava quasi a fare il contrario. «Mi sono perso», disse Jordan, senza raccogliere la provocazione. «Perché stiamo facendo tutti questi calcoli?». «Volevo sapere in quanti potranno avanzare delle pretese sul tesoro dei draghi», spiegò Gwyon. «Questo è un punto che bisognerà chiarire», ammise Sethrian. «Il tesoro, se vogliamo chiamarlo così, andrà gestito con oculatezza». «E tu vuoi fare in modo che siamo noi ad amministrarlo, non è vero?», domandò Jordan scuotendo appena il capo. «Non dico che sia una cattiva idea, ma gli altri saranno d'accordo?». «Ci vuole un gruppo ristretto per simili incombenze», obbiettò Gwyon. «È un dato di fatto». «Anche un singolo per quel che mi riguarda, ma torno a dire, chi si occuperà della scelta?». «I draghi», disse Rhory. «Addossiamo anche a loro questa responsabilità?», chiese Sethrian con un sorrisetto. «È un bel trucco, ma non vorrei che finisse col ritorcersi contro di noi». L'altro si limitò a guardarlo storto. Gwyon accennò appena un sorriso e neppure sapeva con certezza il motivo. Forse era solo quella scena, quell'istante. C'era nell'aria un senso di familiarità, d'intesa persino nello scontro, e tra i due termini la contraddizione era solo apparente. «Nessuno vuole accusarti di aver preso in considerazione simili mezzucci», disse ancora il mago. «Nessuno penserebbe mai che la tua proposta sia volta ad accaparrarci la carica di tesoriere, ma se può servire allo scopo non vedo perché non dovremmo approfittarne». «Ciò dimostra che fare la cosa giusta dà più frutti di qualsiasi mezzuccio», rispose Rhory in tono tranquillo.
«E se a dirlo è qualcuno che è andato due volte a rubare in casa del nemico...». Il cavaliere diventò un po' rosso in volto. Ma Sethrian agitò una mano, domandò a Rhory chi avrebbero scelto i draghi, secondo lui. C'era da scommetterci, la risposta del giovane sarebbe stata quella corretta. «Io dico Pensiero». «Pensiero!», ripeté l'incantatore, quasi ridendo. «Non è il soprannome di Aelin?», domandò Jade. «È così». «Adesso i draghi hanno imparato i nostri nomi», mormorò Rhory. «Non credevo che l'avrebbero fatto». Jade non aveva un secondo nome tra i figli del fuoco, non ancora almeno. Il cavaliere prescelto sembrava quasi scusarsi per questo. «Ecco la vostra Pensiero!», disse però la ladra in tono allegro, indicando Aelin che scendeva verso di loro quasi correndo. «Ma perché proprio lei, se posso chiederlo?». «Forse perché è stata la prima a spiegare ai draghi il concetto di proprietà privata», rispose Sethrian. «Oh! Questa parte della storia mi manca». Jade sogghignò. «E anche la più elementare nozione di un simile concetto, direbbe qualcuno». «Queste cose non si dicono, si pensano soltanto», rispose l'incantatore attirandola verso di sé. «Al massimo si sussurrano alle spalle. Comunque non temere, mi occuperò io della tua buona condotta». «Mi sono persa qualcosa?», domandò Aelin in quel momento, col fiato un po' corto. «Nulla di che», le rispose Jordan sorridendole, «solo la tua possibile nomina a tesoriere dei draghi». «Se te la senti d'accettare, s'intende», si affrettò ad aggiungere Rhory. «Forse sul versante pratico dovrete aiutarmi. Senza forse», ammise lei dopo il primo istante di stupore. «D'altro canto, pur non essendo un'economista di mestiere, posso dire che il segreto della deflazione è che il prezzo è direttamente proporzionale alla domanda e inversamente proporzionale all'offerta». Gli altri la guardarono con espressioni stranite. «Sembra una formula magica per intontire la gente», commentò Gwyon sottovoce. La giovane sorrise, e si andò a sedere accanto a Jordan. «Una spesa io già l'ho in mente, lo ammetto», annunciò Sethrian, «si
tratta di una sede per i Cantori del Sangue». «Non va bene Lilài?», chiese Rhory incerto. «Che possa non andar bene a noi è comprensibile, per certi versi», aggiunse Jordan. «Ma è solo questo il punto o c'è dell'altro? Forse i maghi non sono poi così contenti di ospitarci». «Ogni mago pensa per sé», ribatté l'incantatore, «e la Congrega non ha alcuna inclinazione a far cambiare idea a chi è scettico nei confronti dei draghi, e delle nostre alleanze». «È vero», ammise Palen in un sospiro. Anche Gwyon si ritrovò ad annuire. «Credevo che i maghi di Lilài ci tenessero a coltivare dei buoni rapporti con i regni vicini», obbiettò Jordan. «Molti temono che se l'alleanza si fa troppo stretta potrebbe diventare un nodo, un'esca per riattizzare gli antichi odi sopiti. E preferirebbero che i maghi rimanessero a debita distanza dal resto del mondo», spiegò Sethrian. «Ma non possono ordinarvi di fare marcia indietro, vero?», domandò Jade. «La Congrega non comanda né proibisce, suggerisce soltanto. Però conviene sempre ascoltare i suoi moniti». «Non ci darebbero mai un ordine simile», rispose invece Palen. «Tuttavia potrebbero trovare dei metodi meno diretti per sabotarci». «Possono tagliarci i fondi, dissuadere i più giovani dall'avvicinarsi a noi, assegnare altri incarichi alle persone che si interessano al progetto dei draghi. Forse hanno già iniziato a farlo, su piccola scala. Non si tratta di ostacoli insormontabili, certo, ma la cosa è comunque un fastidio». Sethrian scosse la testa. «Io preferisco levare le tende, prima che a qualcuno venga in mente di affidarmi una bella indagine approfondita su muffe e licheni. Senza litigi o parole grosse s'intende. Solo è arrivato il momento di trovarci un posto che sia tutto per noi». «È curioso», disse Palen. «Tre anni fa non avrei mai creduto di appoggiare una linea d'azione che mi avrebbe portato a lasciare Lilài. Ma le stranezze che avete incontrato lungo il cammino mi hanno tirato fuori un po' troppo spesso dal mio laboratorio perché io ora non riesca a distaccarmene». «Che posto hai in mente per la sede, Sethrian?», domandò Rhory. «Se ce lo dici sarei curioso di andare a dare un'occhiata». «O pensavi a un luogo da costruire dalle fondamenta?», chiese Jordan, e sembrava interessato all'idea.
«Si può costruire una rocca, non una città intera, e io voglio che ci sia una città». «Non troverai molte città, ad Aquilon, disposte ad accogliere draghi e incantatori», osservò Jade. È vero, pensò Gwyon, un mago può rivelarsi utile, dieci già cominciano ad apparire come una minaccia. Per quel che riguardava i draghi poi, la situazione era ancor più complicata. «Levant è più aperta nei confronti dei maghi, lo è sempre stata», disse la ladra, ma Sethrian scosse la testa in un cenno di diniego: «Non credo che una simile scelta migliorerebbe i rapporti con Vultur. E nemmeno Felicia sarebbe troppo lieta di veder crescere nel suo regno non ancora riconquistato una colonia di sacerdoti e cavalieri della fede. Se avessi voluto puntare verso altri lidi avrei pensato alle città del meridione, non a Levant». «Perché non ci spieghi cos'hai in mente allora, invece di farci procedere per tentativi?», domandò Gwyon. «Proprio tu dovresti arrivarci». «Non sarà...». «Ma è macabro!», protestò Aelin. «Sì», disse Sethrian con un sospiro. «E proprio di Graecale che si tratta». «Dove Isengrin ha fatto fuori tutti quei maghi, non è vero?», chiese Jade. «Dove questa storia è cominciata, o quasi. Tornare a ripopolare la rocca di Graecale, ora che Isengrin è sconfitto, è un atto dovuto». «Gli abitanti della città ne saranno felici», aggiunse Palen. «Nessuno dei maghi di Lilài è andato a sostituire gli incantatori scomparsi, perché quei pochi disposti a lasciare la città delle acque li reclutavamo sempre noi, per un motivo o per un altro». «Inoltre la cittadella di Graecale è circondata dalle montagne», ricordò Sethrian, «i draghi lì potrebbero volare senza avvicinarsi troppo all'abitato». «I draghi amano le montagne e le loro correnti ascensionali», assentì Rhory. «Io torno a dire che è macabro», protestò Aelin. «È morta della gente tra quelle sale». «Seguendo il tuo criterio non dovresti metter piede né ad Aquilon né a Vultur», obbiettò Sethrian, «e nemmeno a Lilài. Nella storia di ogni città c'è del sangue». «Però è un po' cinico metterla in questo modo», disse Jordan.
«Lasciare vuota la rocca di Graecale è come farne un monumento al nostro nemico sconfitto», osservò Gwyon con sguardo cupo. Aelin annuì, incerta: «Immagino che sarà soprattutto questione di abituarsi all'idea. Adesso però parliamo d'altro». «Hai qualche preferenza sull'argomento?», le domandò Sethrian. «Più o meno. C'è un pensiero che da stanotte mi frulla in testa. Ma serve un drago per verificare la mia ipotesi, e qualcuno che lo guidi». «Dove devi andare?», chiese Rhory. «Io più tardi parto per Austen Ancora non mi sono recato di persona a fare il mio rapporto ed è tempo di rimediare». «Io devo volare verso Levant». Però qualcuno che accompagnasse Rhory ci voleva, considerando com'era finita l'ultima volta che era partito per Auster da solo. Gwyon si offrì di andare con il cavaliere, e l'espressione sollevata di Sethrian diceva che anche lui la riteneva una buona idea. «Pure io sono di partenza, e mi recherò a Vultur», intervenne Jade. «Voglio inviare un messaggio a Cylair, sperando che non scelga ancora una volta di schierarsi dalla parte sbagliata». «Come mai devi andare proprio a Vultur per mandargli una lettera?», domandò Jordan. «E poi non sarebbe più efficace affrontarlo a viso aperto?». «Affatto. Meglio dargli il tempo di riflettere sugli ultimi eventi. Se mi presentassi al covo dei ladri lo prenderebbe come un tentativo di forzargli la mano, e magari farebbe il contrario di ciò che gli dico per pura ripicca. Vado a Vultur comunque perché non sono in molti a conoscere la strada della montagna, e dal momento che uno di quei pochi lavora già per il Santo Guardiano, faccio prima a rivolgermi a lui». «Porgigli i miei saluti», disse Aelin con un tono apparentemente tranquillo. «Non mancherò. Tristam ne sarà entusiasta». «A Levant neanche a dirlo, ti accompagno io, Aelin», fece Jordan in fretta, forse troppo in fretta. «Ma perché devi andarci, chi vorresti vedere? Non sarà un certo Evander?». «Si tratta della sua spada, a dire il vero», rispose lei scrollando le spalle. «La sua spada?». «Ti spiegherò tutto dopo, promesso. La mia è solo un'ipotesi azzardata. Ma voglio verificarla».
Il castello di Christofer sorgeva nel cuore del Levant meridionale, tra le colline cariche di vigneti, ed era il quartier generale delle forze lealiste. Nelle prime intenzioni del duca c'era stata quella di conquistare il trono per la sorella facendo valere l'esile parentela con la vecchia casa regnante, ma il ritorno di Felicia, opportunamente orchestrato da Evander, aveva cambiato molte cose. Forse la giovane duchessina era stata più sincera del fratello nel riabbracciare la principessa, ma Christofer sembrava disposto a far buon viso a cattivo gioco, e a mettere da parte le sue ambizioni prima di venirne travolto. Il castello, visto dall'alto, con le sue torri di pietra bianca e i tetti d'ardesia, le mura imponenti, i merli a coda di rondine e poi gli stendardi azzurri che rilucevano al vento, sembrava quasi un palazzo delle favole. Ancor di più era simile a quegli chateaux disseminati lungo la valle della Loira che per certi versi erano, Aelin non poté fare a meno di pensarci, l'archetipo dei castelli di fiaba. Alascura lasciò lei e Jordan sulle mura, per poi tornare a spiccare il volo. Da un altro drago scesero poco dopo Sethrian e Jade. Il mago si era detto troppo incuriosito dalle ipotesi azzardate e dalle domande rivolte a una spada per non venire. E la ladra, per andare a Vultur, aveva scelto di fare un giro assai largo. «Ci siamo», disse Aelin tirando un sospiro. «Spero solo di non sbagliarmi». «Da quando in qua l'indovina delle stelle ha cominciato a sbagliarsi?», chiese Sethrian con un sorriso. «Sta aspettando il momento in cui potrà fare più danno possibile, immagino», rispose lei, piano. Frattanto si era avvicinata una giovane: portava la spada al fianco, e gli occhi e la carnagione scura suggerivano che appartenesse al mondo di Evander. «Ho visto i draghi lasciarvi sulle mura. Il mio nome è Silph-aen. Ditemi come posso esservi d'aiuto». «Stiamo cercando il tuo comandante», fece Sethrian. «È alla torre occidentale. Scruta l'orizzonte. È diventata sua abitudine farlo». C'era una vena di tristezza in quelle parole, o forse di preoccupazione. Aelin socchiuse gli occhi. «Ti ringraziamo», le rispose l'incantatore.
«So chi siete», disse l'altra semplicemente. «Evander ha parlato di voi. Vi farò strada». E si incamminò lungo le mura. Rimasero in silenzio per qualche tempo. Poi la giovane si voltò, proprio quando erano giunti all'arcata che si apriva sulla ripida scala della torre: «È vero che non potremo tornare indietro, che non rivedremo il nostro mondo?», domandò in un soffio. Così sembra, pensò Aelin, ma potremmo sbagliarci. Tuttavia non voleva alimentare una falsa speranza. Non disse nulla. «Le possibilità sono assai scarse», rispose Sethrian. La giovane di nome Silph-aen annuì gravemente. «Quello che ci siamo lasciati alle spalle dunque potremo solo rimpiangerlo. E il rimpianto può essere molto forte. Ma non vi tedierò oltre. Di qui in poi potete proseguire da soli». Aelin fece per aggiungere qualcosa. Dopo però scosse la testa e seguì gli altri in silenzio. L'uomo sulla torre aveva lo sguardo immoto, osservava le ombre che si allungavano con il sopraggiungere del crepuscolo. Ma il sole calava troppo in fretta, quel momento di quiete sarebbe presto svanito. Avrebbe dovuto scendere uno a uno i gradini, abbandonare il distacco, il silenzio... Evander si recava sempre più spesso in cima alla torre, e senza un motivo ben preciso. Forse solo per sfuggire agli impegni che si facevano sempre più pressanti, forse per ricordare che suono avesse il silenzio. «Chi è là?». Un rumore di passi aveva spezzato la solitudine della torre. Quasi per istinto Evander aveva portato una mano alla spada, poi scosse la testa e tornò ad appoggiarsi a una delle colonne di pietra. «Siete voi, non vi aspettavo. Comunque era tempo che tornassi nel mondo». «Non ti ruberemo molto tempo, credo», disse Sethrian rispondendo al cenno di saluto. «Sarà il tempo necessario. Come mai siete qui?». «Questo devi chiederlo ad Aelin». Lo Stratega si voltò verso la ragazza; tutti si voltarono verso di lei. «Vorrei parlare con lo spirito di Colei che Scioglie», disse Aelin. Gli occhi di Evander caddero verso la lama viola alla sua cintura: «Non sono in grado di evocarla a comando». «Non importa, ascolterà comunque». La giovane fece un gran respiro.
«Vedete, non sempre tutto è come sembra, e più ci penso e più la storia degli Elaunoi mi appare poco convincente. Un sogno mi ha suggerito di guardare le vicende dall'esterno, e io l'ho fatto». «Spiegati meglio», disse Evander. «È tutta la faccenda del nobile popolo che svanisce chiudendo dietro di sé i varchi incantati per preservare gli universi dalla catastrofe, a non quadrare. In realtà non mi ha mai convinto del tutto». «Vuoi dire che ti sembra illogica?», domandò Sethrian aggrottando la fronte. «Più che illogica direi stucchevole, nauseabonda. Potrei anche ammettere che gli Elaunoi siano stati così ciechi da non accorgersi che stavano giocando con il destino degli universi e che, a una tardiva comprensione del pericolo, siano seguiti dei provvedimenti affrettati. Ma questa ventata di saggezza suprema da parte di un intero popolo mi dà, lo ammetto, profondamente sui nervi». «Non credi di essere un po' troppo categorica?», domandò Jordan. «Davvero ti infastidisce l'idea che qualcuno faccia semplicemente la cosa giusta?». Aelin alzò gli occhi al cielo. Non era quello che aveva detto. Ma si sarebbe dovuta aspettare una reazione simile da parte del cavaliere. E lei era quasi la sua fidanzata. Si voltò verso l'altro, senza sapere bene che dire. Fu Sethrian a venire in suo aiuto. «Non si tratta di un qualcuno, ma di un tutti. Prendiamo Rhory: è un ragazzo d'oro, ma io non vorrei vivere in un mondo dove tutti quanti sono come lui». «Scusate se dico la mia», intervenne Evander, «ma questa storia mi sembra un tantino campata in aria. Non è affatto detto che gli Elaunoi fossero un popolo d'oro, anche se certo avevano i loro buoni motivi per farcelo credere. Non mi stupirei nell'apprendere che la loro ritirata dai mondi sia stata molto più sanguinosa di quello che vogliono dare a intendere, ma per il resto non abbiamo prove che essi mentano». «Non su questo, almeno», ammise la terrestre, e un lampo di luce le attraversò gli occhi. «Che vorresti dire?», domandò Jade. «Non starò a raccontarvi che secondo me è molto più facile indicare in una loro guerra civile la causa che ha portato gli Elaunoi ad abbandonare i mondi di frontiera. Sono solo illazioni e nemmeno il mio istinto di indovina può dare manforte a tali pensieri. Ma questi ragionamenti sono la giusta
cornice a quanto segue». La ragazza si fermò un istante, come per riprendere fiato. «Sono gli Elaunoi ad averci detto che il sapere custodito dai sei Talismani poteva rivelarsi la speranza di un mondo votato alla distruzione, non è vero?». Gli altri annuirono. «Lasciamo da parte l'esistenza del dodecaedro nero, che già in qualche modo contrasta con quando detto in precedenza», continuò la giovane. «Potrebbe trattarsi di un congegno dimenticato, o forse sia esso che Isengrin non erano di questo mondo, in origine. No, il nodo è un altro. Perché un popolo capace di creare spiriti immortali dovrebbe...». Sethrian sgranò gli occhi, aveva capito. «...affidare la salvezza di un intero mondo a qualcosa di così fragile e caduco come le pagine di un libro?», concluse la ragazza. In effetti un libro poteva avere una vita assai lunga, gli Elaunoi però non ragionavano in termini di anni o secoli, ma di millenni. In quel momento un brillio violetto annunciò la comparsa di Solitudine. Gli occhi dello spettro apparivano calmi e immoti, ma Aelin si morse le labbra nell'incrociare il suo sguardo. «Non sei tu che custodisci i segreti dei varchi», disse, «non è nemmeno la tua verde sorella. Tu sai soltanto nascondere e nasconderti, così come lei cerca l'intrigo e la confusione degli animi. Ma un terzo spirito è apparso, quando le spade si sono riunite. E non può essere casuale». L'altra ancora taceva. La terrestre serrò le labbra: «Se sai qualcosa devi dircelo! Perché ciò che sai tu lo conosce anche Discordia, e non esiterà ad adoperarlo in suo favore! Se noi consideriamo le altre spade inutili quanto credi che le ci vorrà per tornare a raccoglierle e usarle a suo piacimento? Forse non accadrà in questa generazione, la diffidenza verso i nostri nemici è ancora troppo viva, ma lei può permettersi di aspettare, e tu lo sai». Solitudine chiuse le palpebre in un gesto lentissimo. «Ha ragione Aelin, non puoi negarlo», disse Evander. Il vento era calato, e il silenzio sulla torre era ancora più tangibile. La regina Nadhyra era ferma al telaio, ma le sue mani rimanevano immobili, gli occhi fissi nel vuoto, come se stesse pensando intensamente. «Entra, Viviana», disse senza neppure voltarsi. «So che sei lì». La dama raggiunse in silenzio il telaio. Vestiva di velluto nero, il taglio era semplice, solo attraverso le sottili fenditure delle maniche si intravedeva il baluginare della seta, nera anch'essa. Il colore le donava, metteva in
risalto i capelli chiari, e la donna sembra esserne consapevole. «Mi manca, sai?». Viviana non dava mai del lei alla regina, non se erano sole. «Soprattutto al mattino, quando apro gli occhi e mi risveglio in una stanza vuota. E non lo amavo, no, ma provavo affetto per lui». «Non sono mai stata d'accordo con mio cugino per le nozze che ti ha procurato», ammise la regina. «Tuo padre era talmente concentrato sull'idea di allontanarti dalla corte e dalle sue trame da non pensare a nient'altro». «Sono tornata, però». «Sei tornata, e hai trovato Flora. E lei ama Lint, o forse si è convinta di amarlo. Il che è lo stesso, credo. Comunque quei due sono la prova che non tutti i matrimoni combinati portano dolore». «Sono tornata», ripeté Viviana. «E lui mi ha seguito. Sarebbe ancora vivo, forse...». «Non puoi accusarti di nulla». «Scusami», disse la dama chinando il capo. «Non era di questo che dovevamo discorrere». La regina scosse la testa, con un sorriso bonario. «Preferisco sentirmi in colpa per questo che per altro, forse. Ecco la verità», aggiunse Viviana in tono improvvisamente brusco. Gli occhi di Nadhyra lampeggiarono. Il cerchio si ricongiungeva, era quello il nodo. Viviana aveva mantenuto una reputazione inattaccabile di moglie fedele, sino a quando il marito era stato in vita, ma lui adesso era morto. Non che ora la donna fosse meno discreta, e nessuno avrebbe potuto trovare contro di lei il benché minimo appiglio. Peccato che non servissero prove per costruire storie su di una vedova giovane e bella. E vicina, per di più, alla cerchia dei reali. Viviana non era il genere di donna che si lasciasse sconfiggere da un pettegolezzo, ma era come se in qualche modo fosse più fragile, adesso, nonostante il più delle volte si rifiutasse anche solo di lasciarlo intuire. «Hai visto il nostro patriarca?», chiese la regina infine. «Ci siamo appena congedati, e la visita è stata... fruttuosa». Il sorriso della donna, che sapeva essere così dolce, aveva assunto una sfumatura aspra. «Molti direbbero che è assolutamente riprovevole quello che ho fatto: adoperare le proprie grazie per circuire un onesto servitore di Dio... Ma dacché il patriarca aveva tutta l'intenzione di usare il crisma della sua carica per conquistare la mia fiducia e farne strumento, io direi che siamo pari: un torto cancella l'altro».
«È convinto di averti in pugno, dunque». «Mi ha appena confidato che verrà indetto un Consiglio dei Re, e presto da Vultur giungerà la notizia ufficiale». Nadhyra socchiuse gli occhi. Era raro che la chiesa richiedesse un Consiglio. Simili riunioni non piacevano né ai sacerdoti né ai sovrani, poiché non era ben chiaro in simili frangenti dove finisse l'autorità degli uni e cominciasse quella degli altri. Ma Vultur era in grado di raccogliere allo stesso tavolo le rappresentanze di diversi paesi e di spingerli, fortuna permettendo, a prendere una decisione unitaria; questo poteva essere molto importante. «Il nostro patriarca era terribilmente eccitato nel confidarmi la notizia», soggiunse Viviana, «a sentir lui questa sarebbe l'occasione per smuovere le acque stagnanti di Vultur e portare nuova vita nella gerarchia della chiesa». Nadhyra trattenne a stento un sospiro. Se questa era l'opinione del patriarca di Aquilon allora tutto lasciava pensare davvero che la convocazione del Consiglio non fosse cosa buona. «Ti ha detto anche quale argomento si dovrà discutere?». Viviana scosse la testa: «Credo che lui stesso non abbia le idee molto chiare. Mi ha solo accennato a un mercenario pentito o qualcosa del genere. A ogni modo temo che presto ne sapremo più di quanto possiamo desiderare». «Non dubitavo». «Comunque la parte più divertente l'ho tenuta per ultima», disse Viviana accennando un sorriso. «Ed è il motivo per cui il patriarca era così ansioso di parlarmi». «Continua». «Il suo ragionamento è di una semplicità affascinante. Il re non ama viaggiare, nuoce alla sua salute, e sarebbe Lint a prendere il suo posto, di norma. Ma il principino è impetuoso e avventato, troppo amico di figure poco raccomandabili, come strane veggenti e cavalieri che parlano ai draghi. Ora se Lint fosse via al momento della convocazione ufficiale, se fosse difficile rintracciarlo, chi verrebbe mandato al suo posto, in attesa che qualcuno riesca ad avvertire il principe?». «Flora, non c'è ombra di dubbio». Nadhyra fece scorrere una mano lungo il bordo del telaio. «Potrei andare io, ma il mio posto è qui, lo sai». «Lo so io, e lo sa anche il patriarca. Lui mi ha chiesto di aiutarlo a far sì che Lint sia lontano nel momento opportuno. È davvero convinto di poter
manovrare Flora, e me, a proprio piacimento. Una simile ingenuità fa quasi tenerezza». «Lasciamogli questa illusione ancora per qualche tempo», disse la regina, e sorrise. XXVII IL CONSIGLIO DEI RE Lo spirito di Solitudine sollevò una mano, una sfera lattiginosa comparve sul suo palmo teso. Al centro del globo un volto d'uomo, pallido, i capelli e gli occhi scuri, i lineamenti forse troppo affilati, come la sua voce: «Solitudine sarà il tuo nome, il tuo compito impedire che il cerchio di spade torni a congiungersi e si faccia varco. Le tue armi saranno l'ombra e il silenzio...». Lo spettro richiuse le dita, l'immagine svanì lasciandosi dietro un vago lucore di scintille d'argento. «Chi era quell'uomo?», domandò Evander. «Il creatore dei Talismani, credo», rispose Jade. «Non sappiamo molto su di lui», aggiunse Sethrian, «ma lo abbiamo incontrato qua e là negli antichi racconti, e la descrizione coincide. Certi indizi fanno sospettare che abbia portato il titolo di Signore del Tempo, ma questa è un'altra storia». «Intanto la spada lo ha ammesso», borbottò Jordan. «Sono i sei Talismani in sé a contare, e uno è ancora in mano al nemico. Adesso diventa indispensabile recuperarlo». «Perché, prima non lo era?», ribatté il mago con un sogghigno. «Noi sappiamo di che cosa è capace Discordia». «Preferirei non ricordarlo», disse l'altro, cupo. «Piuttosto, riflettevo su una cosa». Aelin socchiuse gli occhi. «Solitudine non ha dato conferma alle mie illazioni sulla malafede degli Elaunoi, né mi aspettavo che lo facesse. Però non ha nemmeno tentato di smentirle». Gli occhi di tutti si voltarono verso lo spettro, per cercare di cogliere la sua espressione. Ma Solitudine sorrideva, come se quelle parole non la toccassero. «Non rispondi?», le domandò la terrestre. Tutto quello che fece l'altra fu mostrare le sue mani vuote. «Dice che non conosce la risposta», spiegò Evander in un sospiro. Aelin annuì. Se l'aspettava, in fondo.
«Per noi è tempo di andare», disse Jade all'improvviso. «Tutto ciò è molto affascinante ma abbiamo anche faccende più immediate a cui pensare». Richiamato dalla donna, il suo drago stava già scendendo verso la torre, e presto lei e Sethrian si rimisero in viaggio. «Noi scendiamo a piedi», sussurrò Aelin deglutendo. La torre ovest con il suo tetto aguzzo non era luogo dove un figlio del fuoco potesse atterrare, e la giovane avrebbe evitato volentieri di esibirsi in acrobazie e salti nel vuoto come avevano fatto Jade e Sethrian, se poteva evitarlo. «Io credo che vi precederò!», esclamò Evander affrettandosi a raggiungere le scale. «Ho un paio di cose da controllare e vorrei farlo prima di cena». Prima che Aelin potesse accorgersene lei e Jordan erano soli sulla torre. «Ho chiamato Alascura», le disse l'altro in un sussurro. La giovane inclinò il capo, fece per dire qualcosa. Ma non trovò le parole, scosse la testa, poi tacque. Jordan le prese la mano, non gli era sfuggita l'esitazione di lei. La ragazza sorrise, era piacevole il calore di quella stretta. «Hai trovato la risposta alle tue domande», mormorò il cavaliere. «La porta del tuo mondo forse non è chiusa davvero». «Forse». «Vuol dire che non hai rinunciato all'idea di tornare a casa». «Non lo so», ammise lei. «La porta potrà anche spalancarsi, ma forse non lo farà per me». «Dimmelo», sussurrò il giovane sfiorandole lentamente i capelli. «Dimmi che cosa pensi e perché lo pensi». «Sono passati... quanto? Quasi due anni e mezzo dal mio arrivo, e ogni giorno trascorso mi rende un po' più diversa da quella che ero. Le mie radici affondano in questa terra un poco di più, e farà male strapparle. E poi come potrei andarmene prima di aver capito se noi...». L'altro la strinse, non disse nulla. «Quando lo saprai? Quando mi dirai che sei mia?». Ma Aelin teneva gli occhi chiusi e non parlava. Il cuore le batteva forte, il calore delle braccia di lui la inebriava. «Come faccio?», chiese la giovane. «Come faccio a dire che ti amo, se non so cosa è l'amore?». «Non lo sai?», le disse il cavaliere in un sussurro. La ragazza poggiò il capo sul suo petto. Anche il cuore dell'altro seguiva
un pulsare forsennato. La amava. Era perfetto per lei. Tutto quello che le mancava era il coraggio di buttarsi nel vuoto, senza timore. «Io...». «Non dire nulla adesso, non ce n'è bisogno», sussurrò il ragazzo, e le baciò la fronte. «Consiglio, Consiglio dei Re...». Rhory scorreva con un dito il volume ornato di miniature sottili. Gwyon osservava l'amico, la sua espressione intenta negli occhi color ambra. Si erano fiondati nella biblioteca di Auster subito dopo aver parlato con il vecchio Nicholas. Lui stesso non sapeva molto, ma quello che Ethienne aveva detto giorni addietro su Anton sembrava completare il quadro. «Io non vorrei essere nei panni di chi sceglierà di allearsi con Anton», disse il mago con voce cupa. «Pericoloso lo era prima, figuriamoci adesso che non deve più rendere conto a nessuno. Tranne che a Discordia, forse». «Abbiamo già affrontato una volta Discordia», ribatté Rhory. «A maggior ragione non ho paura di ciò che resta dei capitani di Isengrin». Gwyon mugugnò qualcosa di incomprensibile, ma poi si limitò a scrollare le spalle. In fin dei conti proprio lui si era mostrato convinto che Isengrin fosse invincibile. E si era sbagliato. Non aveva senso tornare a fare due volte lo stesso errore. «L'ho trovato», disse il cavaliere. «Qui si parla del Consiglio dei Re. Però i sovrani non votano, sono solo i sacerdoti a farlo, o almeno così è scritto sul libro». «La funzione dei re quale sarebbe, allora? Prendere soltanto ordini?». «Aspetta, vediamo se dice altro più sotto. Prendono parte al Consiglio i re di Aquilon e di Tramontana, e i sovrani delle isole nord-occidentali, fratelli nella fede. Un trono è stato approntato per il regno amico di Levant, ma secondo consuetudine viene inviato un nobile che segue il culto di Vultur a occupare quel posto». Rhory scorse velocemente le pagine. «Qualcosa di simile accade anche per le città del meridione: mandano un delegato scelto tra coloro che credono nel Signore del Tempo». Gwyon annuì. «Ecco qui», continuò il cavaliere. «I re non partecipano al voto, ma garantiscono con la loro parola di far sì che le decisioni prese dal Consiglio vengano osservate da tutti». «E se uno o più sovrani sono in disaccordo con il voto emesso dai sacerdoti?».
«Sembra che i re possano richiedere una seconda votazione, ma su questo il libro si mostra piuttosto vago». «Immagino dipenda dai re che di volta in volta hanno partecipato al Consiglio, e dalla loro capacità di imporre il proprio punto di vista», rifletté Gwyon. «Mi chiedo come sarà stavolta». «Non ci resta che stare a vedere». «Jordan?». «Cosa c'è, Aelin?». «È un po' che mi guardi in un modo...». «...che ti è sgradito, forse?». La giovane divenne rossa. «No, è solo che...». «Avanti», disse lui con voce carezzevole. «Sembra quasi che tu stia cercando di carpire dai miei occhi non so quale segreto». «Ripensavo a quello che avevi detto. Che sei cambiata in questi anni, e quasi mi stupivo nell'accorgermi di quanto sia vero». La terrestre fece un gran sospiro. «Forse non sarò mai né una guerriera né un'amazzone provetta, per quanto non si possa negare che qualcosa su spade e cavalli io l'abbia imparata. Ma tutto questo resta in superficie, come il rosso dei capelli. Adesso so cosa vuol dire vedere un amico ferito tra la vita e la morte, essere prigioniera e poi riacquistare la libertà. Se mi chiedi in cosa sono cambiata non saprei dirtelo con precisione, eppure sento che è così. Forse è solo una parte di me risvegliata dagli eventi, e io non voglio che torni a dormire. Forse è la consapevolezza che in questo mondo ho... posso avere un ruolo che è mio, soltanto mio. Ho paura che tornando indietro saprei soltanto nascondermi dietro la maschera di un'altra me stessa. E poi ci sei tu». Jordan sorrise. «È orribile mettere amicizie e legami sulla bilancia», disse Aelin, «come per dare un valore e un peso a ognuno. Ma se anche ci riuscissi con tutti gli altri, come potrei con te...». «Perché ancora non sai». Non sapeva cosa provava per lui, sino in fondo. Il non detto di quelle parole tornava a porsi tra loro. La giovane storse un po' il capo, cercando di capire se ci fosse tristezza o
rimprovero nel tono del cavaliere. Jordan però se ne accorse e tornò a sorriderle. «Se me ne andassi ora, lo rimpiangerei in eterno», sussurrò la ragazza. «Questa è una cosa piacevole da sentirsi dire». «Eppure una parte di me continua urlare che, al di là di tutto, è il mio mondo che devo scegliere. E mi sentirò terribilmente in colpa quando gli avrò voltato le spalle per sempre. Certo, solo a pochi potrò confessare la verità se tornassi indietro, sarà difficile spiegare chi ero, chi sono diventata, da dove vengo e perché il mio aspetto è mutato...». «... chi è il giovane bruno che ti sei portata con te...», aggiunse Jordan. Aelin non poté fare a meno di sorridere, ma poi scosse piano la testa. «Come potrei chiederti di rinunciare per me al tuo mondo», tornò a dire il cavaliere, «se io non sono disposto a fare altrettanto?». «Tu non hai idea di cosa vorrebbe dire seguirmi». «Puoi dirmelo tu, questo». «Senza documenti, senza nulla che provi la tua identità...». Il cavaliere la fissò perplesso. Sapeva ben poco della burocrazia della terra. Ma chiunque avesse sfogliato un libro di persone che passavano da un mondo all'altro sapeva che quello era uno dei primi problemi da affrontare. «Potresti sempre fingere un'amnesia, immagino...», rifletté lei, pensierosa, «ma ha senso preoccuparsene adesso?». Non ne aveva, e Jordan tornò a stringerla a sé. Il chiostro era silenzioso nell'aria della sera, e la luce delle lampade gettava pallidi cerchi sulle pietre antiche. Dal giardino, oltre le colonne di marmo, giungevano il profumo del gelsomino e il rumore di una fonte. La ladra si guardò intorno con circospezione: aveva lasciato Sethrian nello studio privato del Guardiano, chino su quello che chiamavano il libro delle spade. L'incantatore stava ricopiando la leggenda che gli era apparsa tra le pagine, perché per qualcuno sarebbe stata istruttiva. L'ultimo proprietario di Solitudine aveva approntato una nave, per poi lasciare che il vascello naufragasse su di un'isola senza vita. E si era lasciato morire d'inedia. Gli spiriti dei Talismani non erano uno buono e uno cattivo: ciascuno perseguiva il proprio scopo, e gli uomini che si accostavano a loro dovevano conoscere la cautela. A Jade però non dispiaceva essere sola in quel momento. Il suo legame con Sethrian si era fatto sempre più forte, ma il passato preferiva affrontarlo da sola.
«Ben trovata», disse una voce alle sue spalle. Jade si voltò. «Ben trovato, Tristam. Questo non è il luogo in cui avrei immaginato un nostro incontro, ma poco male. Purché nessuno ci ascolti, andrà bene lo stesso». «Siamo in una parte dei giardini che non è molto frequentata, e in un certo senso è un compromesso tra le sale alte e i miei bassifondi». L'altra annuì, poi aguzzò gli occhi. «Vesti di rosso, Tristam, non l'avevo notato». «È il colore che dà meno nell'occhio da queste parti». La ladra accennò un sorriso. «Come vanno le cose?», domandò l'uomo. «I tuoi amici progettano ancora di farmi fuori per quella freccia?». «Credo che abbiano altro in mente per ora. Ma sono convinta che se trovassi il modo di consegnare loro il mandante...». «Non si può». Jade scrollò le spalle, in una risata: «Come se non sapessi che l'etica dei ladri, persino quella di chi porta i pugnali d'ombra, chiede solo di essere infranta». «Quando i miei attuali datori di lavoro mi hanno consegnato la lista dei sospetti non ci ho messo troppo a identificare il vero colpevole», disse Tristam. «Solo non c'erano prove per condannarlo e la mia parola, ovviamente, non vuol dire nulla. Senza contare che per il santo guardiano anche se lui era il mandante che mi aveva contattato, era difficile che si trattasse dell'ideatore dell'intrigo. Così abbiamo pensato di forzagli la mano, spaventarlo a puntino, quanto bastava perché confessasse le sue colpe, e quelle degli eventuali complici. Il sacerdote era più impressionabile di quanto non desse a vedere. È volato al suo Dio un po' prima del previsto». «Dunque non ti è rimasto nulla in mano». «Solo un cadavere. Dopo qualcuno, non io lo ammetto, ha avuto l'idea di far ritrovare il defunto con un coltello piantato nel petto. Il Santo Guardiano ha osservato le reazioni provocate da un simile ritrovamento e poi ha allungato di un po' la sua lista di sospetti». «Di chi si tratta?». Tristam scrollò le spalle, snocciolando una mezza dozzina di nomi. Lei non ne riconobbe nessuno, però li avrebbe se necessario li avrebbe rammentati, in futuro. «Per un motivo o per un altro devo tenerli d'occhio tutti quanti, ma non è
detto che fossero dalla parte di Isengrin, o che si schiereranno con quel che resta del suo esercito. Gli intrighi di Vultur sono più complicati di quanto un semplice ladro possa comprendere, e chi vuole colpire l'autorità del Padre Guardiano potrebbe scegliere di approfittare di una lotta che non è sua». «Sembra che tu abbia trovato lavoro per tutta la vita». Gli occhi gialli del sicario lampeggiarono. «Per tutta la vita, l'hai detto». Jade rimase in silenzio, come in attesa. «Un singolo uomo», continuò Tristam, «temendo che tu riveli il suo segreto, può cercare di ucciderti o incastrarti a lavoro finito. Un'istituzione che nutra una simile paura ha un'alternativa più interessante, ed è quella di offrirti un impiego». «Hai accettato? Diventerai gli occhi e il coltello della chiesa?». L'uomo non rispose, ma estrasse dal fodero il suo stiletto, con la sottile lama di ossidiana che pulsava di tenebra. «Diciamo che ci sono i pro e i contro, e siamo ancora in trattative. Ma tu, piuttosto, non sarai venuta sin qui solo per sapere come vanno i miei affari». «Volevo che facessi arrivare una lettera a Cylair». Il volto di Tristam si oscurò. «Non credo che sarei un buon messaggero. Mi sono recato al covo della montagna in cerca di reclute, perché Vultur non ha bisogno di un singolo sicario, ma di una rete di spie. E ho visto l'espressione di tuo fratello: mi guardava come se fossi un traditore. Non credo che una missiva consegnata dalle mie mani o da uno dei miei uomini avrebbe una buona accoglienza». Jade imprecò sottovoce. Sarebbe dovuta andare di persona. Non c'era altra scelta. Lint scosse piano la testa: i profili di alti macigni muschiosi si stagliavano alla luce delle fiamme, percorsi dalle nervose venature di radici di alberi, che affioravano dal terreno intaccando la roccia grigiastra. Oltre il manto delle foglie, le stelle brillavano rade, e il cielo era pece. «Dobbiamo davvero portarli con noi, principe?». «Sono cuccioli, abbiamo ucciso la loro madre», rispose Lint in tono quasi distratto. Ma i cuccioli avevano già le dimensioni di un comune lupo adulto, e l'e-
sitazione dei cacciatori era comprensibile. Per il principe invece, quei due piccoli lupi erano la cosa più interessante della spedizione. Si sentiva stanco di continuare a tendere lacci e reti contro quelle belve, ma era un'opera che andava fatta e lui doveva dare il buon esempio. Inoltre Flora gli aveva scritto, chiedendogli di portare trenta pelli al suo ritorno, per non so quale dono che andava fatto a Vultur. Non era un numero esiguo e ci sarebbe voluto del tempo. Il giovane principe sospirò, con lo sguardo ancora fisso sulle fiamme scarlatte del falò. D'improvviso uno strano vento fece piegare i rami, ma la notte era serena: a muovere le foglie non era stata la tramontana. Un drago volava basso. Lint si alzò di scatto, si precipitò verso il punto in cui la creatura doveva essere atterrata. «Rhory, Gwyon!». Il principe sorrise raggiante nel riconoscere i due, e c'era una terza figura con loro, ma rimaneva vicina al drago verde, e il mantello le nascondeva il viso. «Dovresti essere più accorto, principe», disse Gwyon in tono serio. «Se fosse stato un drago del nemico...». «Ma non lo è». Lint abbozzò un sorriso quasi di scusa. «Non lo, è per fortuna. E voi siete venuti per me o passavate da qui per caso?». «Ti stavamo cercando», ammise Rhory. «Credevamo anzi che la ricerca sarebbe durata più a lungo». «Infatti siamo in anticipo sulla tabella di marcia di almeno mezza giornata», disse il mago levando gli occhi verso il cielo notturno. «Tabella di marcia?», ripeté Lint stranito. «Prima di tutto però», disse il cavaliere con un sorriso, «dobbiamo presentarti la nostra compagna». La donna venne avanti, con passo lento e circospetto. Ciocche di ricci castani sfuggivano all'azzurro del mantello, ma il volto di lei restava in ombra. «Principe Lint, la principessa Felicia di Levant». Quella notte Lint non riuscì a prendere sonno. Non avevano voluto dirgli che stava accadendo. Eppure doveva bollire qualcosa in pentola, altrimenti non avrebbero rimandato le spiegazioni a quel modo. E poi c'era la principessa di Levant, che aveva continuato a trafiggerlo per tutto il tempo con occhiate torve. Era una bella donna, non quanto la sua Flora, ma quei lineamenti delicati non sembravano fatti per essere nascosti dietro un velo o
incupiti dall'ira repressa. Non stava a lui d'altronde formulare un simile giudizio e non sarebbe stata una buona idea anche solo tentarci. Uno degli svantaggi di avere sangue nobile era che si ereditavano inimicizie più grandi di te, e della tua volontà. Lint non aveva nulla contro Felicia, era pronto a considerarla un'alleata, ma non era lui che rischiava di perdere la patria e il regno, e in qualche modo arrivava a comprendere che la donna non poteva permettersi di non essere diffidente. Mentre le ore passarono fra simili pensieri, all'improvviso l'uomo si accorse che il sole era sorto. «Allora, ricapitoliamo», fece il principe, «c'è un Consiglio dei Re a Vultur e io sono stato indotto a rimanere tra i monti perché la mia sposa prendesse il mio posto». «Sì. È così», disse Rhory annuendo. «E potreste spiegarmi anche il motivo di una simile decisione?», domandò Lint calcando ogni parola. «Il principe di Aquilon è troppo apertamente schierato dalla nostra parte, lo sanno tutti», rispose Gwyon senza scomporsi. «Avevate paura che saltassi giù dallo scranno per sfidare a duello quel vostro Anton?», chiese l'altro con una smorfia. «La faccenda è un po' più complicata», spiegò Rhory scuotendo il capo. «E io farei volentieri a meno di tutti questi piccoli intrighi, ma non è toccato a me a decidere». «Forse lo avrei sfidato davvero a duello», disse Lint. «Dovrò stringere i denti per non farlo adesso». «Mi spiace deluderti, principe, ma se qualcuno ha diritto a un simile onore quella sono io», ribatté Felicia con sguardo deciso. Il principe di Aquilon non disse una parola: la determinazione nel tono dell'altra lo rendeva quasi sgomento, come se una simile ira non potesse, non dovesse albergare nel seno di una donna. Felicia però portava una spada al fianco, e se le cose fossero andate diversamente quell'arma sarebbe stata soprattutto il simbolo del suo potere regale. Ma le cose non erano andate diversamente. «I duelli a Vultur sono proibiti, credo», disse Gwyon spezzando il silenzio che si era creato. «Specie durante un Consiglio. Lo scopo di simili assemblee è che sia la ragione, e non la spada, l'arma con cui si decide il destino delle nazioni». «Vien da rimpiangere le care vecchie ordalie di un tempo», disse Llys
cupamente. «Il giudizio di Dio, è così che lo chiamavate, non è vero?». «Sì», fece Lint, «ma simili pratiche sono cadute in disuso da secoli». «In disuso ma non abrogate». «Mi sembra che stiamo divagando», si affrettò a intervenire Gwyon. «La testa di Anton cercheremo di prendercela con armi diverse da una spada e un duello», commentò Rhory. «Forse è tempo che vi parliamo di uno specchio verde... e di quello che può comportare». Era stato un lampo azzurro, veloce, crudele. In molti l'avevano visto crepitare sulla torre. Palen, tutto intento ai suoi esperimenti, non si era accorto di nulla. Ma la medesima luce azzurra era comparsa sulla superficie del dodecaedro nero, che giaceva dimenticato nel fondo del laboratorio. L'incantatore si era precipitato in cima alla torre, ed era quasi stupito nell'accorgersi che nessun altro avesse fatto lo stesso. Sethrian gli avrebbe detto che era ingenuo, o avventato, e subito dopo lo avrebbe seguito nella perlustrazione. Palen socchiuse gli occhi, il sole brillava sugli spigoli della cupola di cristallo azzurro, e l'aria era limpida, immobile. Sembrava tutto a posto, ma le apparenze potevano ingannare. Sollevò una mano, e pronunciò la formula che avrebbe aperto la soglia. Entrò. All'interno, il pavimento di pietra bianca era solcato da venature di metallo azzurro, che si dipanavano in un disegno irregolare e confuso, per poi infittirsi verso il centro della sala. Lì, ogni linea poi si intrecciava attorno alla figura dell'immancabile esagono. Palen qualche anno addietro aveva fatto degli studi sulla cupola: il tempo e l'abbandono avevano cancellato la memoria del suo scopo, e gli sembrava quasi un insulto alla natura dei maghi che una simile struttura facesse da corona alla loro scuola. Non aveva ottenuto molto dalle ricerche; l'azzurro che ornava la sala, aveva scoperto, era una sostanza lontanamente imparentata con le scaglie di drago. Il binomio tra cristallo e metallo lo faceva intuire, ma lui l'aveva provato. Peccato che un simile dato, invece di cancellare i dubbi, ne avesse solo creati di nuovi. Il mago si lasciò sfuggire un sospiro. La ricerca del sapere poteva essere uno degli scopi dichiarati della Congrega, ma non bastava possedere dei poteri magici perché il sacro fuoco della conoscenza si impossessasse di
te: molti incantatori trascorrevano la vita senza curarsi più di tanto delle domande che Palen al contrario sentiva così assillanti. Non rammentavano nemmeno un mistero così vicino a loro. La cupole azzurra e silenziosa, simile a un fiore ancora chiuso, era stata dimenticata e confusa nel paesaggio. E poi Palen strabuzzò gli occhi. Non era solo nella sala. «Non è possibile», mormorò. Ci fu un rumore di passi. Aelin e Jordan comparvero al suo fianco. I due ragazzi avevano una predilezione particolare per le torri e i bastioni... Ma il mago in quel momento era troppo preso dalla figura davanti ai suoi occhi, per far caso a loro. «Chi sei?», chiese avvicinandosi di un passo. C'era un giovane nella sala. Come fosse giunto sin lì, Palen non lo sapeva, e lo sconosciuto si guardava intorno stupito, sbattendo gli occhi grandi e innaturali, del colore dell'argento. «Chi sei?», ripeté il mago. La voce del nuovo arrivato si levò chiara, con leggerezza quasi musicale, in un intreccio di sillabe incomprensibili. Palen non smetteva fissare quei lineamenti sottili, la strana foggia della corta tunica azzurro cupo, il chiarore latteo dei capelli. «Elaunoi», sussurrò il mago con il fiato mozzo, e la parola si perse tra le volte della cupola di cristallo. Sette troni di legno d'ebano sorgevano tra le colonne bianche e sottili. Sei degli scranni avevano incisi negli alti schienali complicati stemmi e blasoni nobiliari: soltanto quello centrale era spoglio e privo d'intagli, per ricordare ai sovrani che il vero Signore del mondo era un altro. Flora strinse le dita sui braccioli. Poi tornò a distendere le mani: doveva apparire tranquilla. Sotto la Loggia dei Re, oltre l'ampia scalinata di marmo grigio, la folla dei sacerdoti appariva come un unico drappo di sangue vivo. Ma ogni singola voce che si levava era limpida e chiara, oltre il brusio indistinto che faceva da controcanto alle parole degli oratori. I punti principali della questione però erano stati elencati giorni addietro, e adesso i sacerdoti potevano soltanto tornare a ripeterli. Il penitente, Anton, veniva avanti a capo chino, e in pratica chiedeva il permesso di continuare la guerra a Levant con il sacro crisma della chiesa di Vultur. L'uomo affermava di aver compreso troppo tardi la natura di Isengrin, di rimpian-
gere amaramente il giorno in cui si era alleato con lo Stregone d'Argento. C'era chi giurava che Anton era un pazzo assassino o giù di lì, e Flora aveva sentito da Gwyon dei racconti a dir poco inquietanti sul suo conto. Ma certe storie non sarebbero state pronunciate di fronte al Consiglio. «Tutto bene?», chiese Liljum alla principessa. Ilpiccolo sacerdote era il delegato delle Terre Meridionali. Le città del sud trovavano saggio essere rappresentate da chi poteva, per le sue vesti di chierico, dare non solo un giudizio, ma anche un voto ben preciso sulle discussioni del Consiglio. «Tutto bene», ripeté Flora. Il suo tono era freddo, distaccato. Lei era una creatura del patriarca di Aquilon. O almeno così si era premurato di lasciar intendere quest'ultimo ai suoi alleati. E nessuno voleva smentirlo: non sarebbe stato gentile nei suoi confronti, specie adesso che era ritornato alla capitale con tanta solerzia, per offrire al sovrano malato il giusto conforto spirituale. Flora si chiese se il re sapesse di essere in fin di vita. Agli uomini la spada, alla donna l'intrigo, dicevano gli antichi. La giovane però non ci credeva, non del tutto almeno. Nadhyra e Viviana erano così, ma ciò non faceva di quel proverbio una massima universale. Flora tornò a levare il capo. Re Khirsten di Tramontana, seduto alla sua destra, stava borbottando qualche parola d'approvazione per il nobile contegno della principessa di Aquilon. Il re era irritato perché il suo patriarca, invece di sostenere gli interessi del proprio sovrano sembrava più deciso a contrastarli. E Liljum non aveva mai nascosto di essere sulla stessa linea d'onda del collega. «Ci è stato detto che dopo la morte di Isengrin i figli del fuoco erano sfuggiti al vostro controllo», ribadì Feanor, fissando Anton, «eppure se non erro è stato un drago a farvi atterrare nei pressi di Vultur». «Uno dei miei collaboratori è un mago», rispose il mercenario senza mostrare esitazioni o incertezza. «Forse le vostre fonti potranno dirvi che il suo nome è Shiin. È stato lui a provvedere perché i collari riacquistassero il loro potere». Era una menzogna. Gwyon e Rhory si erano dati cura di assistere all'arrivo di Anton, e potevano confermarlo. Ma ovviamente la loro parola, basata su cognizioni magiche e sul linguaggio dei draghi, non avrebbe avuto molta presa sull'assemblea dei sacerdoti. Khirsten si lisciò i lunghi baffi scuri, senza nascondere un sorriso. C'era chi diceva che la sua alleanza con Anton risalisse a prima della caduta di
Isengrin, ed era un fatto innegabile che molti uomini di Tramontana si fossero uniti all'esercito del mercenario. Ma non c'erano prove che ci fosse Khirsten dietro a tutto questo. O che il re sapesse di chi era servo lo spietato guerriero. Flora serrò le labbra. Non aveva bisogno di ulteriori accuse per detestare un uomo che aveva costretto la sorella a rifugiarsi in un monastero, che l'avrebbe uccisa se solo avesse potuto, per l'antico timore che lei potesse rubargli il trono. Era ancora una volta la storia dell'intrigo e della spada. La giovane piegò il capo pensando alle parole di fuoco che un tempo aveva pronunciato contro suo fratello. Non le meritava, in fondo. I sacerdoti continuavano a rivolgere le loro domande al mercenario. La discussione era in realtà del tutto priva d'interesse. Nessuno aveva cercato di mettere Anton veramente alle strette. Non avevano accennato neppure al suo rapporto con Deirdre. La donna aveva ucciso Isengrin, ma aveva anche abbandonato l'indovina delle stelle e due suoi compagni su uno sperone di roccia in procinto di sprofondare nella lava. Era una figura ambigua, non ispirava fiducia. Ma Flora aveva la sensazione che Anton avrebbe negato il legame, se gli avessero rivolto una domanda diretta. Lo lasciavano parlare invece: più lo faceva e maggiori erano le possibilità che cadesse in contraddizione. Anton era sicuro di sé, ma la battaglia non era ancora iniziata. Flora sollevò lo sguardo verso gli archi carichi d'ombre del loggiato superiore. Viviana era lì, e ascoltava. La principessa sorrise appena all'idea. Intanto sembrava che anche quell'interminabile seduta fosse giunta al termine. Anton saliva la scalinata che portava verso gli scranni dei sovrani. Avrebbe reso loro omaggio, come ogni giorno. E avrebbe gettato uno sguardo avido verso il trono vuoto di Levant. Flora sorrise, come se pregustasse gli istanti a venire: Anton nemmeno immaginava quello che stava per accadere. Fu una questione di attimi. Il mercenario si era inginocchiato di fronte alla principessa, e lei si era accostata all'uomo, sollecita: «Vi siete prostrato troppe volte di fronte a me. In questo luogo c'è un potere più grande, ed è quello che...». La donna non terminò la frase. Tutti videro il lampo verde che avvolgeva le due figure, poi la principessa si trovò a indietreggiare, con gli occhi spalancati per l'orrore. «Discordia!», gridò, e sulla sala cadde un improvviso silenzio.
Discordia, gridò la principessa. Rhory si affrettò ad abbassare lo specchio verde che teneva in mano, e che aveva proiettato la luce di una lampada verso la sala sottostante. «Nessuno ci ha visti», sussurrò Gwyon spegnendo con un soffio la lucerna. «Il nostro piccolo trucco sta funzionando». Non si potevano compiere sortilegi in quella sala. Si trattava di un piccolo mistero: il campo anti-magia era ristretto alla camera delle assemblee, non abbracciava le navate del tempio e le innumerevoli cappelle, laddove più forte avrebbe dovuto essere la mano del Signore del Tempo. Tuttavia non era la semplice opera di un incantatore a rendere la magia impossibile in quel luogo. Gli uomini di Lilài lo avevano confermato, seppure con una certa ritrosia. «Discordia!», tornò a gridare Flora, mostrandosi inorridita. «Io ho sentito il lezzo della maledizione, il fetore del suo tocco mortale, io l'ho sentito!». Poi la donna tornò a tacere. Nei suoi occhi grigi sembrava ardere una luce sovrannaturale. «Le crederanno?», domandò Rhory appoggiandosi a una delle colonne intrecciate che sostenevano l'arcata. Dovevano crederle. «Tacciono adesso. Io credo sia buon segno». Sethrian era rimasto indietro a braccia conserte, osservava la scena con espressione intenta. «Per troppi anni, troppe generazioni la mia famiglia ha pagato il tributo di sangue imposto dalla spada maledetta, e io vi dico, in nome di Dio, cacciate il male da queste sale, prima che si insinui nelle vostre anime e nei vostri cuori!». La voce della principessa era appena un sussurro, ma le sue parole erano cristalli taglienti. I suoi occhi bruciavano. «Forse dovresti riporre via quello specchio», disse Sethrian al cavaliere. «Non mi sembra prudente continuare a stringerlo fra le mani». Rhory sussultò, poi fece come gli era stato detto. «Le crederanno?», tornò a ripetere in un sussurro. Il mago lo guardò: «Non posso dirlo con certezza. Ma la menzogna era più semplice della verità, stavolta». Il ragazzo fece per dire qualcosa, ma l'altro, in un gesto lentissimo, si portò un dito alle labbra. Adesso dovevano solo ascoltare. Il silenzio nella sala era teso, nessuno ancora osava spezzarlo. Gwyon aveva stretto le dita attorno all'orlo di pietra della balconata, e vide Flora ricadere stancamente sul trono di legno intagliato.
Forse non si dovevano chiedere se le avrebbero creduto, pensò, forse dovevano domandarsi se volevano crederle. Gwyon socchiuse gli occhi: era strano come pochi secondi d'attesa potessero dilatarsi sino a inghiottire un frammento d'eternità. Molto dipendeva da quella che sarebbe stata la reazione di Anton. I sacerdoti avevano familiarità col miracolo, vero o supposto che fosse, e dopo il primo sgomento avrebbero saputo trovare il giusto ruolo alle parole di Flora. Anton era un uomo d'arme, e nelle armi aveva sempre riposto la sua forza. «Non crederete davvero a questa pazza e alle sue fandonie!». Un mormorio concitato si levò dalla sala. Flora non parlava, ma il suo sguardo era cupo, colmo di disprezzo. «Ritira quello che hai detto, sgualdrina», sibilò Anton afferrandola per i polsi. Aveva perso il controllo. La fragile calma sul suo volto era andata in frantumi come vetro. «Ritira quello che hai detto, perché è una menzogna!», tornò a ripetere il mercenario, i lineamenti contorti dalla rabbia. Accadde tutto in pochi istanti: le guardie che si precipitavano sull'uomo, il lampo del coltello di Anton, l'urlo di protesta che si levò tra i sacerdoti. L'argento della lama si tinse di sangue e una, due guardie barcollarono sotto i colpi di quell'arma proibita per un supplice. La principessa di Aquilon osservava la scena atterrita; ma il mercenario venne disarmato, la superiorità numerica dei suoi avversari era schiacciante. «Credete di aver vinto, quest'oggi?», gridò. «Vi sbagliate! Non avete fatto altro che segnare la vostra condanna!». Poi tacque, d'improvviso. Nei suoi occhi neri brillava una luce terribile. Non cessava di divincolarsi dalla stretta che lo tratteneva. «Cosa dobbiamo fare di costui?», domandò il capo delle guardie, rivolto al Santo Guardiano. Il sacerdote però non rispose. «È arrivato», disse Sethrian sottovoce, indicando le porte della sala. Lì era fermo il principe Lint e a pochi passi di distanza lo seguiva Felicia, ancora nascosta dal suo mantello. L'erede di Levant e quello di Aquilon facevano il loro ingresso. XXVIII IL VISITATORE
«Elaunoi», era stato il sussurro di Palen. «Elfi», disse Aelin sottovoce. Lo sconosciuto si chinò, schiacciò alcuni intagli sul largo bracciale di metallo che gli ornava il polso. «Ho attivato il traduttore simultaneo. Spero che riusciate a comprendermi, adesso». Palen annuì. Lo capivano, sì. «Possiamo sapere il tuo nome, e perché ti trovi qui?», domandò Jordan. Poi, dopo un attimo di ripensamento, disse allo straniero il suo nome e quello dei compagni. «Chiamatemi Sidhe», rispose l'altro dopo un istante. Aelin sgranò gli occhi, ma non proferì parola. «Sei davvero uno degli Elaunoi?», chiese il cavaliere. «Io dico di sì», sussurrò la giovane. «Immagino di esserlo», fece lo straniero passandosi una mano tra i capelli pallidi, e Palen si avvide che aveva le orecchie aguzze. «Ma queste non sono le Isole dei Beati, non è vero?». I tre si guardarono, poi scossero lentamente la testa. «Come temevo», disse piano lo sconosciuto, e tornò a chinarsi sullo schermo del suo bracciale. «Proprio il modo migliore di cominciare una vacanza...». «Possiamo aiutarti?», domandò Palen incerto, ma lo straniero sembrava troppo occupato per dargli ascolto. Continuava ad armeggiare con l'affare che portava al polso, e aveva un'espressione corrucciata. «È inutile! I dati di partenza sono precisi al millimetro, l'unica spiegazione è che ci siano delle interferenze». L'Elaunoi sollevò improvvisamente lo sguardo. «Ho bisogno di alcune informazioni». «Devi solo chiedere», gli disse ancora Palen. Sidhe socchiuse le palpebre. «Non lo so, forse non è saggio. Eravate sorpresi di vedermi. Vuol dire che la mia razza non è solita frequentare questo mondo, e forse non avete neppure una stazione funzionante». «No, noi...». «Ecco, era come temevo. Allora meno vi dico e meglio è». L'Elaunoi serrò le labbra, fece per uscire dalla sala. «Aspetta!», esclamò Aelin. «Perché?», domandò l'altro inarcando un sopracciglio.
«Io credo che conosciamo la risposta ad alcune delle tue domande. Anche se abbiamo parecchie da fartene in cambio». «Usciamo fuori di qui», disse Sidhe. «Voglio vedere in che razza di luogo sono capitato». Il cielo era particolarmente luminoso quel giorno, e il blu intenso delle profondità marine faceva da corona alle acque limpide del lago sospeso. «Benvenuto a Lilài, la città dei maghi», disse Palen, senza entusiasmo. «Maghi hai detto...», ripeté l'elfo tornando a gettare un'occhiata intorno. «Così alcuni di voi possiedono, o affermano di possedere capacità extrasensoriali. Devo controllare cosa riesce a captare il mio marchingegno, non appena la memoria avrà terminato di calcolare le coordinate di questo mondo». «Perché non gli dai una dimostrazione?», propose Jordan all'incantatore. «In fin dei conti non abbiamo nulla da nascondere». «Specie se è qualcosa che scoprirebbe comunque», aggiunse Aelin in un soffio. Palen sbuffo, sollevando una mano: la porta dietro di loro si chiuse di scatto, mentre il meccanismo della serratura girava su se stesso in uno stridio metallico. «Davvero un perfetto esempio di telecinesi», mormorò Sidhe, e fu tutto quello che disse. L'incantatore si voltò verso nord-ovest, dove tra il cielo e il mare si levavano le rive scure del continente. Le alture, sfumate nella distanza, erano cariche di nubi. «Perché non vuoi dirci nulla?», chiese, senza distogliere lo sguardo dal gioco di ombre e colori che offuscava l'orizzonte. «Perché non vuoi rispondere alle nostre domande?». «Il sapere è un privilegio, non un diritto», disse l'altro seccamente. «Io comunque non sono che un umile archivista. Non è mai stato mio compito elargire conoscenze e risposte; non tocca a me una simile responsabilità, e non la voglio. So troppo poco del vostro mondo, innanzi tutto. Contatterò i miei superiori, sì, è questo che farò. Anche se potrebbe volerci del tempo. Se non vi sta bene non avete che da dirlo. Toglierò immediatamente il disturbo». «Forse noi non possiamo obbligarti a rispondere», disse Jordan, «ma tu non puoi impedirci di porre le nostre domande». «Mi dispiace», sussurrò l'elfo con voce flautata. «Se mi trattengo è solo perché la ragazza ha detto che sapevate qualcosa d'interessante».
«Un incantatore rinnegato ha riscoperto la magia dei varchi e non ha esitato a usarla per i propri scopi», gli spiegò Aelin freddamente. «Ecco la causa delle tue interferenze. Adesso Isengrin è morto, e con lui la sua magia. Tutto sembra avviarsi alla fine, in un modo o nell'altro». «In un modo o nell'altro», ripeté l'Elaunoi. Il suo sguardo si era fatto attento. «Se andassi avanti», disse la giovane con un sorriso candido, «arriverei a una di quelle domande che sembri temere tanto». «Continua». «Isengrin voleva usare i varchi per distruggere la trama degli universi, seguendo quanto gli antichi ci hanno insegnato. E noi avevamo troppa paura di una simile eventualità per provare a ripercorrere la strada che lui aveva tracciato. Poteva finire tutto così, poteva essere un buon finale. Ma la tua apparizione conferma il dubbio che già un paio di stupidi indizi avevano sollevato. Gli antichi mentivano. La via dei portali non conduce alla morte degli universi, non necessariamente. Prova a negarlo, se ci riesci». «Non lo farò», disse l'altro in un sussurro. «Non potevi, certo, non dopo che ti avevamo sentito pronunciare la parola vacanza», sibilò la giovane. «Voi Elaunoi utilizzate i varchi dimensionali per diletto, e a noi fate credere che siano la soglia della rovina». «Hai esposto sin troppo chiaramente il tuo punto di vista. Non c'è bisogno che tu aggiunga altro». Aelin tacque, ma i suoi occhi ardevano di luce. Jordan la strinse a sé con fare protettivo. «Nulla è più dannoso di una mezza verità, e a questo punto immagino di dovervi dire qualcosa», disse poi l'elfo. A tali parole Palen non poté fare a meno di sorridere. «Prima però», aggiunse Sidhe, «vi dispiacerebbe se scendiamo dalla torre? Ho l'impressione che la cupola ostacoli i rilevamenti del mio elaboratore, e la cosa non mi piace affatto». «È questo, dunque!», disse Lint, irato. «È questo l'uomo a cui vorreste offrire il vostro perdono: un barbaro mercenario che conosce solo il linguaggio della violenza, e che non si è trattenuto dallo snudare una lama in queste sale benedette dal Signore». Flora era tornata a sedersi sul trono di legno d'ebano, ma il principe era ancora in piedi; aveva ascoltato il resoconto dell'accaduto mentre la sua furia continuava a crescere. Lint e Felicia erano giunti giusto in tempo per
assistere alla fine del dramma, ma adesso che Anton era stato trascinato via dalle guardie, al Consiglio dei Re rimaneva il compito di giudicare l'entità del suo gesto. «La vostra collera è comprensibile, tuttavia...». Lint fulminò con lo sguardo l'anziano sacerdote che aveva parlato, e questi per poco non barcollò sotto l'occhiata del principe. «In fin dei conti il supplice è stato... provocato», farfugliò il prelato. «L'accusa era durissima, e per un uomo non avvezzo alle discussioni civili...». «Il pugnale l'aveva nascosto nelle sue vesti, prima!», esclamò Lint. «E non mi sembra che ci voglia un genio a capirlo!». «Il principino è proprio fuori di sé», disse una voce nel loggiato. Rhory socchiuse gli occhi. Lui e i suoi amici erano rimasti lì a osservare tutta la scena, un quarto uomo adesso li aveva raggiunti, e il suo sussurro quasi gli faceva desiderare di avere una spada. Tristam rimaneva nell'ombra, ma i suoi occhi emanavano un lucore malevolo. «Lint ce l'ha più con i suoi alleati che con gli avversari, credo», spiegò il sicario. «È infuriato con chi ha congegnato un piano tale da mettere a rischio la sua bella consorte. Ho dovuto trattenerlo perché non si precipitasse nella sala prima del tempo». «È comprensibile, in fondo», sussurrò Sethrian. «Nemmeno una tunica di filo di drago, a volte, è una protezione sufficiente». Una tunica di filo di drago, ripeté il cavaliere tra sé. Flora ne aveva indossata una sotto le vesti, come Aelin a suo tempo. «Al principe non è piaciuto quando gli ho detto che rischiava di ostacolare le guardie piuttosto che aiutarle», continuò Tristam. «Se solo avesse visto la paura negli occhi dello sposo atterrito, il mercenario si sarebbe sentito immediatamente più forte». «Certo», disse Rhory in tono aspro, «qui abbiamo l'esperto. E tu stai a sentirlo, Sethrian!». «Io vorrei sentire quello che dicono là sotto a dire il vero. Inoltre mi piacerebbe sapere se quel sacerdote di prima è uno dei dodici sospetti, dato che come hai ricordato abbiamo l'esperto a nostra disposizione». Il giovane cavaliere serrò le dita attorno a una colonna. Le discussioni nella grande sala sfavillante di marmo e di luci gli sembravano diventate prive di senso. «Sì, è nella lista, al quinto posto», disse Tristam con noncuranza. «Ma il
fatto stesso che abbia deciso di parlare in favore di Anton depone in qualche modo in suo favore. Non oserebbe venire in aiuto del mercenario, se avesse idea di chi sta realmente difendendo». «Io credo che nessuno dei sacerdoti lo sappia davvero», intervenne Gwyon. «Isengrin non amava mostrarsi più del necessario, non era nel suo stile. Perché avrebbe dovuto contattare di persona gli alti prelati di Vultur quando poteva nascondersi dietro re Khirsten o i nobili di Levant? E se anche si fosse presentato lui stesso, certo non l'avrebbe fatto come il crudele mago distruttore». «Con i ladri della montagna ha agito diversamente, mi sembra», osservò Sethrian. «Ma posso arrivare a comprenderlo: era la tentazione di mostrarsi come un rappresentante delle forze del caos a un altro degno araldo dell'anarchia». «Il fratello di Jade poi, sembrava più propenso a stringere la mano allo stregone distruttore che a chiunque altro», aggiunse Tristam. A quelle parole il mago dagli occhi verdi sembrò incupirsi, e prese a torcersi le dita. Era il nome di Jade a fargli quell'effetto... lei non era ancora tornata. «Inutile restare ancora», disse, con voce alterata. «Continuano a parlare per inerzia, ma non prenderanno nessuna decisione, se non dopo gli interrogatori». Rhory si ritrovò a fissare la figura ammantata di Felicia. I sacerdoti forse biasimavano Lint per averla portata con sé, ma sembravano disposti a credere che la presenza della principessa fosse legata solo a un evento fortuito. La donna teneva il capo leggermente inclinato, per far sì che il suo viso restasse nascosto tra le pieghe del mantello. La principessa di Levant per tradizione copriva il proprio volto con un velo; Llys adesso celava il rancore che le ardeva nello sguardo, e rimaneva immobile, come un manichino di legno abbandonato in un angolo. Improvvisamente Rhory sentiva di capirla. E taceva, taceva. «I sacerdoti non accetteranno la prova di un incantesimo di verità pronunciato su Anton, non è vero?», osservò Gwyon in quel momento. «Temo proprio di no», disse l'uomo di nome Tristam, l'assassino dalla voce cortese. «Nulla tuttavia ci vieta di adoperare un simile stratagemma in separata sede. Se sai ciò che devi chiedere è tutto più facile, dopo. E anche se le tuniche rosse disapprovano così ciecamente l'utilizzo delle arti magiche esistono pur sempre altri mezzi di persuasione». «Come quelli che avete adoperato per togliere dalla scena un testimone
essenziale, per impedire che arrivassimo al vero mittente di un certo attentato?», domandò Rhory, in un tono che era di una calma minacciosa. «Vedo che nemmeno questo vi è stato taciuto», commentò Tristam. «Non è difficile immaginarne il motivo». «Che vorresti dire?». «Non è certo l'amor di cronaca a guidare il Santo Guardiano. Voleva soltanto che mi facessi un'idea di chi mi darebbe la caccia, se solo pensassi di abbandonare il mio attuale impiego e cambiare bandiera». «Dipendesse da me non avrei bisogno di tutta questa attesa per sfidarti a duello», ribatté Rhory. Il sicario fece un passo avanti, con un sogghigno appena accennato. «Spiacente, cavaliere, ma i duelli a viso aperto non sono nel mio stile». «Già, uno come te colpisce solo alla spalle, non è vero?». «Quando non mi è possibile fare altrimenti, estraggo questa lama nera». Un pugnale d'ossidiana era comparso tra le dita dell'uomo. «Basta un semplice movimento del polso per gettare una coltre di tenebra sugli occhi del mio avversario». «L'arma degli assassini, l'arma dei vigliacchi!», quasi gridò Rhory, e si sarebbe buttato addosso all'altro, se Gwyon non lo avesse trattenuto. «Se non fosse stato per quest'arma il segreto di uno dei sei Talismani forse non sarebbe giunto sino a voi». «Tu non sei uno di noi! Non hai il diritto di stare qui!». Sethrian corse ad affacciarsi alla balconata. La sala si andava svuotando, e il brusio che attraversava la folla dei sacerdoti si faceva sempre più animato. Nessuno dei prelati aveva mosso il capo verso l'alto, nessuno sembrava essere consapevole di quello che stava accadendo lassù. «Io non sono come voi», ripeté Tristam rinfoderando il pugnale. «Non lo sono e non ho mai chiesto di esserlo. Io non combatto per salvare il mondo, e tanto meno la mia anima. Non combatto neanche per la distruzione, né ho mai provato un simile impulso. Ma non sono qui per redimermi, o per guadagnarmi una patina di rispettabilità che non cerco». «Vuoi dire che ti interessa solo il denaro». «Mi piace tuffarmi sotto la superficie scintillante delle cose per tirare a galla tutto il loro marciume. Ed è esattamente questo il compito che mi è stato affidato». «Ci riesci proprio bene». La voce di Rhory si era acquietata, ma i suoi occhi erano più cupi che mai. «C'è una lista di... quanti? Dodici sospetti? Sei riuscito a trovare le prove che condannassero uno solo di loro? E tra
quegli uomini si aggira impunito il miserabile che ha cercato di uccidere Aelin». «Su questo non posso darti conferma. Tutto lascia pensare che il sacerdote che mi ha contattato allora e che adesso è morto fosse solo un intermediario, ma nemmeno questo è certo. Se poi vuoi un motivo per condannare uno di quei sacerdoti, uno qualsiasi, non hai che da chiedere. Tra i piccoli intrighi di palazzo, il favoritismo, la mancata osservanza di un digiuno, ce n'è per tutti. Se il Santo Guardiano volesse applicare alla lettera i codici di Vultur potrebbe punire quest'ultima infrazione con un mese o due di raccoglimento forzato in un monastero, e si sa, quando l'anima è in comunione con Dio a volte la strada che conduce al pentimento può assumere delle forme davvero inusitate». Rhory ebbe un brivido. Era facile immaginare Tristam che si introduceva nella cella di un penitente per minacciarlo con un coltello... e l'idea non gli piacque per niente. «Vuoi uccidere qualcun altro con la scusa di interrogarlo?». «Si spera che non tutti i sacerdoti soffrano di cuore», mormorò il sicario. «Questa è la tua diagnosi, ma chi ci assicura che non volessi mettere a tacere per sempre il testimone in realtà, o che non hai calcato troppo la mano per puro e semplice sadismo?». «Un incantesimo di verità potrebbe fugare i tuoi dubbi». «Simili sortilegi si possono aggirare», ribatté il cavaliere. Sethrian lanciò un'occhiata esasperata a Gwyon, ma questi aveva lasciato andare Rhory già da un po', e non sembrava intenzionato a intervenire oltre. «Se dipendesse da me», aggiunse Tristam, «mi offrirei di guidare i tuoi amici maghi nelle camere dei sacerdoti sospetti, uno per volta, stanotte stessa. Basterà un incantesimo per sciogliere loro la lingua, e un altro per cancellare il ricordo dello strano incontro notturno. Entro domattina avresti il nome del tuo colpevole. C'è solo un dettaglio...». «Lo sapevo che ci sarebbe stato». «Il Guardiano vuole quegli uomini vivi e illesi per il momento. Non si fida di loro, è vero, ma almeno li conosce, e non ci tiene a sostituirli con degli avversari dal volto ignoto. Non adesso almeno». «Il Padre Guardiano non si fida di nessuno, non è vero?», chiese Sethrian. «A giorni alterni può dar fiducia a un paio di persone, Liljum, Feanor, suo nipote, ma non si spinge oltre», assentì Tristam. «Sperando sempre che
gli insospettati non risultino essere i veri colpevoli, ma non mi sembra il nostro caso». «Sarebbe da romanzo», disse Gwyon, in un tono talmente neutro che Sethrian si ritrovò a sussultare. «Grazie della precisazione», ribatté in un sussurro, «manca anche a me Aelin». «A me non interessa quello che dice il Santo Guardiano», commentò Rhory affondando le mani nelle tasche, «e sono sicuro che anche Jordan se fosse qui direbbe lo stesso». «Sono desolato», mormorò Tristam fissando i maghi. «Non era mia intenzione seminare zizzania». L'assassino osservava gli incantatori. Sembrava quasi invitarli a schierarsi dalla parte di Rhory con quello sguardo. «Io non mi arrischio a parlar male di qualcuno che porta un pugnale identico a quello della mia donna», disse però Sethrian. «Ho come la sensazione che potrei pentirmene. Anche se ti avrei già strozzato con le mie mani, se ad Aelin fosse accaduto qualcosa». «Di questo non dubitavo». «Non ci credo», sussurrò Rhory. «Non ci credo che ti è davvero così indispensabile il beneplacito del Santo Guardiano anche solo per respirare. E io voglio la testa del colpevole. Qualcuno ha cercato di uccidere una mia amica. Dovrà pagare per questo, o non sono più un cavaliere». Alberi carichi di fiori violetti protendevano i loro rami sul viale. Il selciato era semicoperto dalle corolle fragili e cineree. I mobili occhi di Sidhe sembravano attirati dai dettagli più insignificanti, dalle curve dei tronchi nodosi, all'ondeggiare dei pallidi narcisi presso le rive del ruscello. «Questo luogo è meraviglioso, dovrei conservarne almeno un ologramma», disse. Le parole tuttavia gli morirono in gola quando incontrò lo sguardo cupo di Aelin. Jordan aggrottò impercettibilmente la fronte, ma scelse di tacere. «So che vi aspettate delle risposte, non l'ho dimenticato», aggiunse l'Elaunoi in un sussurro. «Non l'hai dimenticato», ripeté la ragazza, piano. «Il tuo bracciale», fece Palen all'improvviso, «sta lampeggiando!». Non aveva finito di parlare che l'elfo era chino di nuovo sullo schermo luminoso. Il suo volto si colmò presto di delusione: «Non hanno ancora risposto al-
la mia chiamata». «Saresti bloccato qui se non dovessero farlo, non è vero?», domandò Jordan con un sorrisetto. «A meno di usare un varco creato con gli strumenti di questo mondo». «Mi risponderanno», disse l'altro in tono tranquillo. «In realtà non dovrei stupirmi se non l'hanno ancora fatto». «E se invece non ti chiamassero?», insisté il cavaliere. «Userei gli strumenti presenti su questo pianeta. Per poi far subito rapporto ai miei superiori sulla loro esistenza, e su ogni altro dettaglio di questo mio viaggio imprevisto». Jordan fece per aggiungere qualcosa. Poi scosse la testa, si limitò a sorridere. «Non avrei bisogno del tuo permesso per adoperarli, stanne certo», aggiunse l'elfo. «Sei un po' troppo sicuro di te, Elaunoi», ribatté il cavaliere. «Questa discussione però è prematura. Ti richiameranno, hai detto». «Lo faranno. Il ritardo è comprensibile, in fondo. Sono io che ho troppa fretta di ricevere quel messaggio. Avrei preferito conoscere lo status di questo universo prima di addentrarmi in certi particolari discorsi, ma vi ho promesso delle risposte, e ve le darò». «Noi aspettiamo», disse Aelin. «Le domande e i dubbi però crescono, invece che diminuire». «Vediamo di iniziare, allora», fece Sidhe socchiudendo gli occhi. «L'uso errato dei varchi può distruggere la trama del reale, vi hanno insegnato. Ed è falso. Ciascun universo è per sua natura chiuso in se stesso, un tutto isolato e autosufficiente. Ciò che accade nel cosmo alfa non ha ripercussioni su omega, a meno che non siano in qualche modo collegati. Esistono, per amor di precisione, anche universi doppi o ternari, o più complessi ancora, legati l'uno all'altro da faglie naturali o indotte, ma noi in genere preferiamo dedicarci allo studio degli universi monade: semplificando parecchio, potrei dire che sono più facili da maneggiare, e comunque sia mi sto dilungando un po' troppo». «Abbiamo appurato che omega è salvo», disse la terrestre. «Ma la sorte di alfa quale sarebbe?». «Non sono in grado di stabilire con assoluta certezza se verrà distrutto. Posso parlare per probabilità. E stimerei una cifra dell'uno su un milione. Ma se consideriamo l'eventualità di sconvolgimenti irreversibili in una singola zona sottoposta a forti pressioni, allora i numeri cambiano».
«Continua», sussurrò Aelin. «Ci sono molte variabili da soppesare. Però passiamo nell'ordine delle percentuali in base cento». «Solo se i varchi sono adoperati in modo scorretto però». «O se lo sono stati in passato». Palen ascoltava affascinato. Aelin aveva aggrottato la fronte, sembrava pensare intensamente. «Tutta la faccenda è interessante», borbottò Jordan. «Ma chissà perché parlare di universi e mondi in astratto mi mette un tantino d'angoscia. Sapresti dirci se questo pianeta in questo universo sta per saltare in aria o se posso ancora sperare in una felice esistenza accanto alla donna che amo?». «Secondo quanto ho rilevato, non ci sono rischi imminenti», lo rassicurò Sidhe. «Potreste assistere alla formazione di varchi spontanei, e simili faglie talora portano a delle conseguenze molto spiacevoli, ma non su scala planetaria». «Nemmeno se il portale si aprisse, diciamo, sul cuore di un sole?», chiese Aelin, con un lampo di preoccupazione negli occhi. «I varchi naturali non rimangono aperti se non collegano ambienti fisici omologhi», spiegò Sidhe. «Le differenze di temperatura e pressione sarebbero fatali al passaggio dimensionale. In un certo senso è come se gli universi avessero una specie di spirito di sopravvivenza, non so se mi spiego». «Sembra una spiegazione semplicistica, per profani», osservò Palen. «Ma immagino che non possiamo pretendere nulla di più. Noi siamo profani». L'elfo annuì: «È possibile inoltre, ma non certo», continuò, «che su questo pianeta, in alcuni luoghi particolari, vi siano delle distorsioni spazio temporali. Le pieghe di Oisin, come vengono chiamate». Sidhe tornò a guardarsi intorno. I suoi occhi d'argento si erano fatti remoti. «Spero di essere stato esauriente», disse con un filo di voce. «Hai risposto a molte domande», osservò Aelin. «Ma non a quella iniziale. Perché il tuo popolo ci ha mentito, facendoci credere che l'esistenza stessa dei varchi rappresentasse un pericolo mortale?». L'Elaunoi si portò due dita a una tempia. «Perché?», tornò a ripetere Aelin. «Dovrei sapere come sono andate realmente le cose per risponderti. Potrei fare delle ipotesi, però non voglio». «Non vuoi», ribadì l'altra, cupa.
«No, non voglio. Non adesso almeno. E se poi fosse stato il vostro popolo a fraintendere quanto gli era stato detto? Non intendo difendermi da un'accusa legata a vicende che neppure conosco. Ne faccio veramente a meno». «Devi perdonarci», mormorò Palen. «Ma a chi altri dovremmo chiederle queste cose?». «Forse tornerò a parlare con voi», disse l'elfo accennando un sospiro. «Adesso però le mie domande mi premono più delle vostre». «Possiamo aiutarti?», chiese il mago incerto. «No, credo di no». Pochi istanti dopo, Sidhe era svanito nel nulla. «La testa del colpevole», ripeté Tristam in un sussurro, gli occhi gialli appena socchiusi sembravano quelli di un gatto. «È quello che ho detto», ribadì Rhory. «Lo so, e so che non menti. Sei sicuro però di non fare confusione? Forse nonostante tutto non è la testa di un sacerdote che vai cercando, ma la mia, la mia soltanto. È così difficile odiare un avversario senza volto, e io invece sono qui, in carne e ossa». «Vuoi provocarmi?», ringhiò il cavaliere. «Voglio mettere le cose in chiaro». Rhory incrociò le braccia come in attesa. «Durerà ancora molto questa discussione?», sbottò Sethrian. «Perché onestamente non vedo proprio a che serva». «No», disse il cavaliere, con un filo di voce, «voglio vedere dove vuole arrivare adesso questo assassino». «Stai facendo di nuovo confusione», mormorò Tristam dolcemente, «mi chiami assassino, ma non ti importerebbe più di tanto dei miei trascorsi, se non fosse per quella singola freccia che mi hai visto scoccare, e che non ha raggiunto il bersaglio». Sethrian ebbe un sussulto a quelle parole. Rhory invece strinse le labbra. «Non è vero». «Lo credi?». «Se fossi stato l'arciere di un esercito nemico non ti porterei rancore, non troppo almeno», ribatté il cavaliere. «Solo i nobili e i capi degli eserciti hanno il diritto di stabilire quando è lecito uccidere?».
«Ci sarà sempre una differenza tra un guerriero e un assassino. E non mi convincerai del contrario». «Oh, questo non voglio negarlo», ammise Tristam. «Ma una simile differenza tu sapresti indicarmela?». «Un guerriero combatte per una giusta causa». «Non sempre». «O almeno la crede tale». «Molti combattono solo per un buon pasto». «Un guerriero si espone al rischio della battaglia». «Anche i guerrieri tendono imboscate». «E combatte i suoi pari». «Quando non saccheggia i villaggi». Rhory deglutì, si morse le labbra. «Tu stai descrivendo un cavaliere, Rhory, un buon cavaliere», disse Gwyon, «un guerriero può essere anche un assassino, e una medaglia ha sempre due facce. Ma a che serve averlo rammentato?». «Non chiederlo a me», sussurrò il cavaliere prescelto. «La morale di questa storia è che il mondo intero è cattivo, e che la malvagità di un singolo è solo il suo riflesso?», domandò Gwyon, ancora. «No», rispose Tristam. «Non mi piacerebbe un simile ruolo». «Che vai cercando allora?», chiese Rhory. «Tutte queste parole sono solo una provocazione?». «Non è così», sussurrò l'assassino. «Tu sei libero di odiarmi, ma io devo esser certo che quest'odio non diventi un inutile intralcio. Potremmo trovarci a collaborare in futuro, che tu lo voglia o meno». «Io sono un cavaliere», disse Rhory rigidamente, «e di un cavaliere posseggo la disciplina. Non violerò i patti fino a quando avrò la certezza che tu farai altrettanto». «Collaborare potrebbe voler dire qualcosa di più che non saltarmi alla gola», osservò l'altro in tono quasi divertito. «Ma per il momento mi accontenterò di una simile dichiarazione. Spero solo di non aver turbato troppo i tuoi amici, adesso». Sethrian borbottò che non sempre era un male essere turbati. Gwyon invece quelle parole scrollò appena le spalle. «Perché sei un assassino?», domandò Rhory a bruciapelo. «Che intendi dire?». «Tutto ha un motivo a questo mondo, il tuo qual è?». «Sono malvagio, potrei risponderti. La tentazione è forte. Ma forse sa-
rebbe più corretto parlare di puro e semplice egoismo». «Non hai risposto alla mia domanda», insisté Rhory, «perché uccidere? Qual è la molla, quale il motivo? Il denaro, la sete di sangue, o cosa?». «Forse semplicemente il potere». «Non è una vera risposta». «È l'unica che potessi e volessi darti», Tristam si voltò, fece per allontanarsi. «Aspetta», lo trattenne Sethrian. «Non vi siete ancora stancati del gioco?», chiese l'assassino. «Lo sappiamo tutti in fondo che le nostre strade si incroceranno il meno possibile, e forse quest'oggi mi sono attardato anche troppo». «Abbiamo giocato abbastanza», disse il mago in tono quieto. «Adesso voglio parlare di cose serie, e nei giorni a venire la collaborazione tra noi potrebbe essere non solo teorica». «Perché?», sussurrò Jordan. Aelin sbatté le palpebre. Le sembrava di aver tenuto il capo premuto sul petto dell'altro sino a perdere coscienza di se stessa, mentre il lento respiro del giovane la cullava. «Perché lo hai fatto?», ripeté lui. La terrestre si sollevò appena, sfiorando quasi con la testa uno dei rami ricurvi che li circondavano. «Fatto cosa?», sussurrò, sedendosi a gambe incrociate accanto all'altro. «Perché lo hai provocato a quel modo, e perché avevi quella furia nello sguardo? Io quasi non ti riconoscevo». La ragazza si guardò intorno. Ma attorno a loro c'erano solo foglie. «Io non so se è prudente parlare adesso. Lui è in grado di rendersi invisibile...». «Credi che passi il tempo a spiarci?», disse Jordan, accigliato. «Non lo so», ammise lei con un sorriso. «Potremmo chiamare Palen, chiedergli di controllare. Ma non sappiamo neppure se la sua magia è la stessa dei nostri incantatori». «Anche questo è vero». «E vuoi tenerti tutto dentro? Ha proprio deciso di non dirmi nulla?». La giovane si morse un labbro, incerta. Jordan le sfiorò appena le guance arrossate. Gli occhi azzurri del cavaliere per un istante sembrarono infinitamente tristi. «Non è magia la sua», disse Aelin in un soffio, «non soltanto almeno».
«Ne sei certa?». «C'è qualcosa in quell'elfo... le parole che usa, quella specie di computer da polso... Viene da un mondo tecnologico, ne sono certa. Se credi che posso sbagliarmi, lo capisco, ma io sono sicura che è così». «È importante?». «Potrebbe esserlo. È il motivo per cui gli ho taciuto le mie origini». «Inizio a capire», mormorò Jordan. «Venite entrambi da mondi con una tecnologia avanzata, tu dici, e sarebbe per questo che riesci a cogliere con tanta prontezza le sfumature dei discorsi di Sidhe. Se lui sapesse chi sei, starebbe molto più attento alle parole che usa in tua presenza». «C'è dell'altro». Il cavaliere annuì, per nulla sorpreso. «L'ho chiamato elfo, ricordi? Lui non ha fatto una piega. E non ci sono elfi nelle vostre leggende, però i Sidhe erano un popolo mitico della vecchia terra, che veniva assimilato agli elfi in molti racconti. Oisin per essersi avventurato nel loro reame ritornò nel regno dei mortali trecento anni dopo la sua nascita. Potrei aggiungere anche le Isole dei Beati all'elenco degli strani prestiti culturali. Ma sono l'esempio meno certo». «Quando lo avrebbe nominato questo Oisin?», domandò Jordan, pensieroso. «Parlando delle pieghe temporali». Il cavaliere tornò ad assentire. «Tu lo capisci cosa vuol dire questo», disse la ragazza in un sussurro. «C'è un legame tra quegli esseri e il tuo mondo. E tu hai paura». «Un po', lo ammetto. È come se giocassimo una partita; e non ne conosciamo le regole, perché ce le tengono nascoste. Il nostro elfo smarrito ci ha detto troppo poco; per quel che sappiamo, il solo fatto di trovarmi qui potrebbe essere un delitto ai loro occhi». «No!», esclamò il ragazzo. «Tu non sei colpevole di niente. Non hai nemmeno scelto di venire!». La giovane tacque. Non poteva dare un volto ai propri timori, non poteva cancellarli, renderli vani, ma soprattutto erano suoi: suoi e di nessun altro. Jordan si sarebbe preoccupato inutilmente, e forse gli aveva già detto troppo. «Alla domanda più importante Sidhe non ha voluto rispondere», sottolineò poi la ragazza. «Non ha voluto dire il perché della menzogna, e forse il silenzio era l'unica risposta onesta che potesse darci». «Parli come se ci fosse stata davvero una risposta che ti aspettavi, o che
temevi di ricevere». «Mi aspettavo qualcosa, in effetti. Un discorsetto sulla necessità di non intromettersi nello sviluppo interno dei mondi, magari. E dopo avrei cercato di dargli un pugno in un occhio». Aelin si fermò un istante, vide che il cavaliere la guardava con un'espressione a metà tra il preoccupato e il divertito. «Non sono sicuro di comprendere il perché di una simile reazione», ammise Jordan. «Una cultura non deve essere imposta, ma non può neppure venire negata. L'argomento è troppo contorto, e non so dirti che cosa è giusto e sbagliato. Forse una regola generale neppure esiste, ed è un errore cercarla. Ma il principio della non-interferenza non ha nulla a che vedere con gli Elaunoi. Loro hanno calpestato questo mondo, hanno lasciato una traccia talmente forte da aver preso forma nella maschera di un dio. Hanno interferito. Non lo ammetteranno però. Non ammetteranno di essere dalla parte del torto. E anche se riuscissimo a metterli di fronte all'evidenza, a che servirebbe? Sono comunque loro i più forti». Le foglie scosse dal vento furono l'unica risposta a quelle parole. XXIX SOSPETTI A VULTUR Il loggiato era un susseguirsi di colonne bianche e sottili. Tra gli intervalli delle finestre e delle porte ad arco si sviluppava l'intreccio di innumerevoli affreschi. Scene miniate erano sospese fra i rami di un albero della vita, in un roveto di simboli di luce, potere ed eternità. Nei tratti stilizzati delle figure la cosa più bella erano forse gli occhi, vividi e ultraterreni, luminosi nonostante la patina ambrata che il tempo aveva gettato sulle pitture. Dai cespugli vicini si spandeva un intenso profumo di rose. Gwyon era ancora stupito per il numero esorbitante di giardini che Vultur ospitava. La piazza è un centro aperto, il chiostro per sua natura è chiuso, la piazza è laica per eccellenza... Al ragazzo sembrava quasi di sentire le parole di Sethrian, anche se il mago non era lì. Poi Gwyon si voltò, scoprì di non essere solo. «Evander», salutò con un cenno del capo. «Ti hanno chiamato a testimoniare?». «In realtà sono stato convocato come condottiero delle truppe di Felicia.
Con tanti re e governanti sotto lo stesso tetto è inevitabile che si continui a discutere di politica, anche adesso che il Consiglio è stato sospeso. Ma alcuni monarchi si turbano nel sentir parlare una donna di schiere ed eserciti, e così toccherebbe a me farlo in sua vece. Solo che, ora come ora, temo di essermi perso in questo labirinto floreale». «Posso farti strada io, se vuoi». «Da questo punto in poi, credo di sapermi orientare. Ma se vuoi farmi compagnia non ho nulla da obbiettare». Gwyon fece un cenno d'assenso. «Ho visto il vostro cavaliere biondo, prima», continuò Evander. «Suonava la cetra con espressione intenta, ai piedi di un grande albero dai frutti color sangue, ed era terribilmente cupo in volto». «L'albero era un melo. L'espressione di Rhory immagino che sia dovuta ancora una volta alle spie del Santo Guardiano. Li paghiamo soltanto per prevenire dei delitti che loro stessi avrebbero compiuto, dice, e un simile accordo equivale a cedere al più vile dei ricatti. Il che può anche essere vero, per certi versi. Ma l'offerta è partita da Vultur, non da Tristam, quindi il termine ricatto non so fino a che punto sia calzante». «Capisco». «Ed è ovvio, Rhory non si scalderebbe così tanto se non fosse per quella freccia lanciata ad Aelin. Però non potevamo aspettarci che le cose andassero diversamente». «Mi sembra di ricordare che anche io in passato ho ordinato di scagliarvi delle frecce addosso», mormorò lo Stratega. «Ma non a tradimento. E comunque credo che tu ne avessi motivo, in quell'occasione. Un sicario invece non si interroga su ciò che è giusto o sbagliato». «Non credo che i nostri arcieri abbiano perso tempo in simili riflessioni! Oltretutto non appartenevano alla mia tribù, quindi non posso neppure dire che riponevano la loro fiducia nel mio giudizio». «La situazione è comunque diversa. Agli occhi di Rhory, soprattutto». «L'altro cavaliere che cosa dice?». «A dire il vero non lo so. Jordan, di suo, avrebbe una mentalità più elastica, ma non quando si tratta dell'incolumità della nostra veggente. E poi lui e Aelin non sono ancora tornati a Vultur». Lo Stratega annuì, osservando con la coda dell'occhio le statue di fanciulle dal volto sereno e immoto, il gocciolare delle candele che stringevano nella mano leggermente sollevata, il contrasto fra i colori intensi di una
nuova serie di affreschi e il bianco di quella processione di pietra. «Ammetto di non capire del tutto la faccenda. Forse perché dalle mie parti, al di là delle regole della sacra ospitalità, siamo molto più propensi a sporcarci le mani in certe faccende. È per questo poi che qualcuno ci chiama barbari». L'uomo si interruppe un istante, con un'espressione curiosa sul volto. Continuava a tenere nascosto tutto ciò che riguardava il suo pianeta, o magari fingeva solo di volerlo fare. E c'erano altri pensieri, forse quello di un senso di colpa che si portava dietro e che nessuno in un mondo come il suo, soggetto a simili regole, aveva davvero compreso appieno. «Non hai bisogno di portarmi testimonianze, credo», disse Gwyon. «L'alleanza con il mio vecchio maestro parla da sola, per quel che mi riguarda». «Comunque anche per Rhory il tempo sarà la chiave. Pretendere che cambi idea da un momento all'altro sarebbe terribilmente sciocco», commentò Evander. «Io non sento alcun bisogno che cambi idea. Mi basta evitare i pubblici alterchi. Per il resto non è scritto da nessuna parte che dobbiamo essere tutti amici, mi sembra». «Non è scritto da nessuna parte, ma è una finzione troppo antica e radicata. È ciò che fa di un gruppo un gruppo, e... ma quello non è uno dei vostri sacerdoti, o mi sbaglio?». Era Ethienne, stava venendo verso di loro, e nonostante l'apparente compostezza c'era qualcosa di strano nel suo sguardo, una quasi luce spiritata. Gwyon gli andò incontro senza sapere bene che dire. «È successo qualcosa? Si tratta di Anton, forse?», domandò lo Stratega. Il pittore scosse la testa. «Lint ha cercato ancora di sfidare Khirsten, per le offese che lancia alla moglie», azzardò Gwyon. «A quello ci stiamo facendo l'abitudine, no, è...». Ethienne chiuse gli occhi. «Non credo che potreste indovinare». «Puoi dircelo adesso, o vuoi che chiamiamo gli altri?». Il sacerdote si passò una mano sulla fronte. «Ho avuto una visione, per così dire». «Per così dire?». Ripeté il mago. «Mio zio mi ha mandato a prendere una cosa nel suo studio. È umiliante che mi usi come factotum quando sono già un patriarca, e proprio per que-
sto lo fa molto spesso. Io vado, infilo le chiavi nella serratura. E nello studio chiuso a chiave c'è un ragazzo dai capelli bianchi seduto a gambe incrociate sulla scrivania, che se ne sta lì a leggere come se nulla fosse. "Chi sei?", gli ho chiesto. Ma quello, invece di rispondere, con un sorriso mi ha lanciato il volume. Neanche a dirlo stava sfogliando il libro delle spade, che avrebbe dovuto trovarsi in uno scrigno inattaccabile. "Da dove vieni, chi ti manda, chi sei?", torno a ripetere. "Sono della stessa stirpe di colui che chiamate il Signore del Tempo", mi risponde, "e c'è chi mi conosce come Sidhe. Altro non devo dirti". Poi schiocca le dita: un istante dopo era svanito. Se non avessi avuto ancora il libro tra le mani mi sarei convinto di aver sognato». «Perché non me l'hai detto? Perché non mi hai detto che questo mondo non è il tuo, e che tu eri una scrittrice?». Aelin si svegliò in un sussulto. Era un sogno, un brutto sogno, e non voleva conoscerne la fine. Si levò a sedere, stropicciandosi gli occhi. La luce dell'ultima falce di luna entrava dalle vetrate socchiuse, ma il cielo già si schiariva: presto sarebbe giunta l'alba. «Perché non hai detto niente?». Era la voce del sogno, la voce dell'Elaunoi apparso dal nulla. La terrestre serrò le palpebre, non osava voltarsi. «Perché... rispondimi adesso, almeno». «Il sapere è un privilegio, mi è stato detto», mormorò. «Ciò vuol dire che deve essere condiviso con discernimento, non che bisogna chiuderlo in un'urna». Aelin si alzò. Sidhe era seduto sulla sponda del letto, e la fissava con i suoi occhi di metallo liquido. «Sono una scrittrice, ora lo sai. Si è aperto un varco tra gli universi, al mio passaggio. Adesso dimmi come l'hai scoperto. E se ciò fa di me un pericolo di fronte alla tua gente, una creatura da tenere sotto controllo, o da eliminare. Queste risposte almeno me le devi». «Sì, te le devo», mormorò l'altro. Il suo tono era talmente grave che la giovane sentì un brivido correrle lungo la schiena. «La risposta alla prima domanda è abbastanza semplice», continuò Sidhe. «Ho scaricato sul mio elaboratore la memoria di uno strumento creato dalla mia gente. Voi lo chiamate libro delle spade, o qualcosa del genere. Quel volume raccoglie tutti gli eventi che ruotano attorno ai sei Talismani,
così anche le vostre avventure sono state registrate, almeno in parte». «Vuol dire che conosci le storie del libro meglio di chiunque altro, adesso», fece la terrestre con espressione cupa. «Ancora una volta il sapere è tutto per te, e poco o niente per noi». «Se può consolarti, i dati che riguardano le origini dei Talismani erano protetti e ci vorrà del tempo perché riesca a decriptarli». «Ma a quel punto non ci dirai nulla, vero?». «Dipende da quello che scoprirò. E da come la prenderanno i miei superiori quando riuscirò a contattarli. Ad ogni modo prima di criticarmi, ricorda che se sono qui non è per fare domande, ma per raccontarti qualcosa che credo tu debba sapere». «Perché sono una scrittrice», disse l'altra in tono apparentemente neutro. «Perché sei una scrittrice». Aelin fissò l'elfo in silenzio. Era entrato in camera sua nel cuore della notte: sperava forse di vincolarla a un segreto? Credeva che non si sarebbe precipitata a raccontare tutto ai suoi amici? «Essere una scrittrice mi rende così diversa da farmi meritare le tue rivelazioni?». «Questa domanda rimandala a quando avrò finito di parlare». La giovane annuì. Ma i suoi occhi continuavano a essere pieni di sospetto. «Tutto ha inizio con la mia gente», riprese Sidhe. «Il mio popolo ha una civiltà progredita, che si è diffusa oltre le stelle, una lunga vita e la possibilità di rigenerare i corpi... e una terrestre del XXI secolo tutto questo può quanto meno afferrarlo». «Afferrarlo e invidiarlo, sì», mormorò Aelin. L'altro non sembrò darvi peso. «La nostra più grande invenzione sono senza ombra di dubbio i portali dimensionali. La rete degli universi è fittissima, un intreccio di possibilità infinite. Però il nostro popolo è diverso dal tuo. Il primo varco è stato aperto inserendo i dati di un universo ricostruito a tavolino, attraverso l'elenco delle sue caratteristiche termodinamiche e dei rapporti energia materia. Poi lo abbiamo osservato crescere e svilupparsi, attendendo che desse i suoi frutti». «Aspetta», sbottò Aelin. «Parli di un universo come se si trattasse di un orto, ma per quanto gli Elaunoi vivano a lungo, i ritmi del cosmo si calcolano in miliardi di anni». «Questo è vero. Una delle prime cose che abbiamo scoperto però, è stata la possibilità di creare dei contatti asincronici».
«Vuol dire che il tempo scorre in maniera diversa nei due universi legati dal varco», rifletté Aelin, «e voi potete comprimere a vostro piacimento l'evoluzione e la crescita dei mondi che avete scelto». «Sì, è così. Fermo restando che il flusso temporale interno all'universo non subisce variazioni di sorta, e questo ci tengo a precisarlo, o qualcuno potrebbe accusarci di essere dei ladri di tempo». Il tempo non lo rubate, va bene, pensò la giovane. Annuì senza ulteriori commenti. «A lungo abbiamo studiato pianeti e sistemi solari», aggiunse l'Elaunoi, «alcuni recavano traccia di creature elementari, o presentavano comunque le condizioni necessarie per ospitare la vita, e ne abbiamo fatto le nostre colonie. Mentre continuavano le esplorazioni, abbiamo incontrato mondi con forme d'esistenza più evolute, ma solo una volta ci siamo imbattuti in una civiltà degna di questo nome». «Parli della terra», disse l'altra in un soffio. «La mia terra». «Non proprio la tua. Considera che abbiamo aperto il decimillesimo omologo poco prima che io nascessi». «Cosa è un omologo?», chiese lei. «Si chiamano così due universi talmente simili da rendere impossibile l'apertura simultanea di due varchi». La giovane strizzò gli occhi, confusa. «Mettiamola in questo modo», l'aiutò l'elfo, «una retta è composta da infiniti punti, giusto?». «Giusto». «E tra un punto x e uno y in teoria è sempre possibile individuare z, per quanto essi siano vicini». La ragazza tornò ad annuire. «Immagina di dover perforare un cartellone con un ago. Se scegli il punto x non potrai colpire poi x più un nanomillimetro. Sarebbe proprio il foro aperto in precedenza a impedirtelo, perché gli aghi, a differenza dei punti geometrici, non sono adimensionali. Bisogna chiudere il primo varco quindi, e poi aprirne un altro. Per avere un'idea più vicina alla realtà dovrei aggiungere che la mappa dei mondi non si svolge sul piano, ma su quattro dimensioni, per il resto l'esempio è estremamente calzante». «Così voi osservate il mio mondo», sibilò Aelin, «lo avete osservato migliaia di volte, conoscete tutto il suo passato e il suo futuro. Perché lo avete osservato».
«In realtà ci concentriamo su un periodo che copre circa diecimila anni dalla scoperta della scrittura. Dopo quella data la vostra civiltà tende a farsi troppo evoluta, se non incappa in qualche incidente di percorso, e le possibilità di essere scoperti aumentano a dismisura. Noi non ci teniamo ad essere scoperti». «Avete paura che gli uomini si accorgano dei vostri occhi perennemente puntati, o temete che riescano a impadronirsi delle vostre tecnologie, diventando dei pericolosi avversari?». «I nostri popoli sono molto diversi, non sono fatti per mescolarsi». «Un giorno scoprirete che i terrestri non sono altro che il vostro passato», disse Aelin in tono cupo. «È l'intuito della scrittrice che parla?», ribatté l'elfo guardandola attentamente. «Oppure è solo un modo per difendere la tua gente, come se ci fossero superiorità o disprezzo nelle mie parole?». Forse era solo gusto del paradosso, il suo. La ragazza scrollò appena le spalle. «Il mio popolo», continuò Sidhe, «ama le segrete armonie degli atomi e dei numeri, e coltiviamo con dedizione tutte le scienze. Ma non abbiamo il dono della fiaba e del sogno. Le nostre menti seguono percorsi diversi, non sono fatte per costruire storie». «Inizio a capire. In qualche modo avete scoperto che i nostri racconti aprono varchi su mondi impensati, e non vi siete fatti scrupolo di sfruttare il tutto a vostro esclusivo vantaggio». «Fai presto a lanciare accuse...». «Forse perché ne ho tutte le ragioni, tecno-elfo della malora». Sidhe continuava a guardarla con aria pensosa. «Non rispondi adesso, non è vero? Sai che non puoi farlo», ribadì Aelin. «Credo che dovrò darti il tempo di assimilare quanto ti ho detto sin ora, prima di andare avanti con la discussione». «No, aspetta!», esclamò lei protendendo una mano in avanti. Ma l'altro era già svanito. «E questo è quanto», concluse la terrestre. «Spero solo di non averti messo in pericolo raccontandoti tutto, Jordan». Il ragazzo serrò le labbra: sulle rive di candida pietra brillavano le rune dorate dell'incantesimo che proteggeva Lilài da tempo immemorabile. Ma l'isola e le acque del lago erano molto più antiche di quel sortilegio, e degli incantatori che lo avevano pronunciato. La venuta dello strano viaggiatore
non faceva che ricordarlo. «Se davvero fossi a rischio, credi che potrebbe importarmi? E non c'è pericolo, sappilo Aelin, che io desideri più di questo». «Mi è concesso almeno dissentire?». Il cavaliere sorrise, prendendole il viso tra le mani. «No, non ti è concesso». La giovane non aggiunse altro. Jordan sorrise ancora, sfiorandole appena le labbra. Osservava il rossore che era tornato a invadere le guance di lei, e gli piaceva, gli piaceva da impazzire che la sua Aelin, tante volte così seria e razionale, ridiventasse improvvisamente bambina appena lui la stringeva. «E poi, perché dovrei correre qualche rischio?», aggiunse il ragazzo. La giovane sospirò. «Perché i segreti degli Elaunoi non erano per la gente di questo mondo, forse». «Ma Sidhe non ti ha detto nulla al riguardo». Erano così vicini che Jordan poteva sentire il respiro di lei sulla sua pelle, scorgere il brillio degli occhi attraverso le palpebre socchiuse. «È un alieno, un'altra razza», gli ricordò Aelin. «Ha ammesso lui stesso che il cervello dei suoi pari segue tracciati diversi da quelli umani. Forse dava per scontato che io non dovessi parlare». «Ti preoccupi troppo», sussurrò il giovane. La ragazza non disse nulla, appoggiò il capo alla spalla di Jordan. «Forse», mormorò lui tornando a fissare il lago, «se il peso di un simile sapere è tanto grave, tutto quello che dobbiamo fare è condividerlo». «Hai le idee chiare, vedo». «Inizio a comprendere perché eri così furibonda due giorni addietro. E farò in modo che tu non sia sola quando il nostro Sidhe tornerà a farti visita». «Ti occuperai tu di farmi la guardia?», disse Aelin con un lampo nello sguardo. «Anche di notte?». Il cavaliere socchiuse gli occhi. «Da quando in qua ti sei fatta così maliziosa?». «Non sapevi che lo ero?», disse lei, avvicinando il viso a quello di Jordan. «Oh, sì», ammise il giovane cingendole la vita. «Lo sapevo, ma non per quello che riguarda...». «I rapporti di coppia? Il sesso?», bisbigliò Aelin. Jordan la fissò intensamente: era di nuovo rossa in volto, sarebbe sob-
balzata se l'avesse stretta un filo di più. «Sicura di voler parlare di questo?», le chiese, scandendo ogni parola. Quasi temeva di essere lui stesso sul punto di arrossire. «Non dovremmo vergognarcene». Il cavaliere scosse appena il capo e passò una mano tra i capelli di lei. «È solo... una richiesta insolita?», domandò. «O rientra tra le consuetudini del tuo mondo?». «Molti sarebbero pronti a giurare che un buon dialogo senza censure è alla base di ogni solida relazione a due», mormorò la giovane, «ma il mio è un mondo complicato e contraddittorio». «Ti amo», disse lui in un soffio. «Parlerò con te di qualsiasi cosa desideri. E voglio che tu lo sappia: potrai sempre accogliermi nelle tue stanze, senza alcun timore». La giovane per un po' non disse nulla, la mano nella mano di Jordan, mentre camminavano lungo la riva incantata. «E se fossi io a...», iniziò. Poi s'interruppe. «Vuoi provocarmi?». «No, non proprio. Considerala una domanda puramente teorica, ecco». «Perché tutto questo? Perché dovresti chiedermi... Vuoi mettermi alla prova?». «Forse perché non c'è nulla di male, se io ti amo e tu mi ami. E vorrei che la pensassi allo stesso modo». Jordan la fissò incerto per un istante. Poi tornò a stringerla a sé. La amava! Era cinica e ingenua al tempo stesso, a tratti parlava del matrimonio come di una convenzione da sfidare, eppure sembrava sognare un amore più puro di qualsiasi voto formale. D'altronde se non c'era un Dio a unire le vite di due sposi, perché l'assenso della società doveva valere più dei sentimenti? E che la sua bella fosse avversa alla sola idea di Dio era ormai storia vecchia. Lui preferiva non pronunciarsi al riguardo, a maggior ragione adesso, con tutto quello che stava accadendo. «Mi sposerai, Aelin?». «Sì, credo di sì». «Lo credi soltanto? Non sei ancora sicura di amarmi?». «Ti amo», sussurrò la giovane. «Io ti amo, Jordan di Thule, e nulla potrà mai convincermi del contrario. Ma non so se posso chiamare eterno questo amore, anche se adesso mi sembra impossibile che finisca. E da queste parti non c'è neppure il divorzio». Il cavaliere cadde nella trappola: le chiese cose fosse il divorzio. Lei
glielo disse. Ma aveva una luce negli occhi che non lasciava adito a dubbi: lo stava prendendo in giro, provocando. «Adesso ti prendo... ti faccio vedere io!», fece l'uomo in un tono di scherzosa minaccia. Aelin già rideva, e correva, lo sfidava a raggiungerla. E lui la inseguì lungo il ventaglio di marmo che si stendeva tra le acque e il bosco. Dama Viviana aprì le persiane della finestra, appena di un filo. Il sole illuminava il selciato della grande piazza che era il cuore di Vultur, giocando lungo le basse arcate in pietra del pronao del tempio maggiore. I trafori erano simili a fiamme, o a boccioli dalle forme improbabili, quasi sovraccarichi nel loro affollarsi di linee preziose. Parlavano di un tempo diverso da quello dell'uomo, creando uno strano contrasto con le fredde sagome degli altri palazzi. Se il vecchio Guardiano fosse vissuto più a lungo, forse gli intrecci intagliati delle bifore avrebbero invaso l'intera piazza. Il suo successore invece prediligeva uno stile più essenziale; non a caso veniva da Zephyr. «È tutto deserto», mormorò Flora avvicinandosi a sua volta alle finestre. «Non un'anima per strada, non una tunica rossa». «Preferiscono la luce delle candele a quella del sole», disse la terza donna nella stanza. A parlare era stata la principessa di Levant, prima ancella della Dea dai molti nomi, e una simile frase forse le era concessa. Viviana si voltò lentamente. Quasi senza accorgersene, Felicia aveva portato le dita alla lama che teneva sul fianco. L'elsa di cristallo brillava alla luce delle lampade più di qualsiasi gioiello o ornamento di donna. «Non è pesante quell'arma?». «Non lo è». Llys ebbe un lampo negli occhi. «E non intendo separarmene». «Non era quello che ti avevo chiesto. Anche se qualcuno potrebbe obbiettare che senza quella lama la tua presenza alle pubbliche riunioni verrebbe accolta da molti con maggiore benevolenza». «Una simile benevolenza non è quello che cerco», tagliò corto la donna di Levant. «I miei interlocutori già fanno fatica a ricordare che so impugnare una spada: non faciliterò il morbo diffuso della loro smemoratezza rassegnandomi a un'apparenza di sottane e ventagli». «La decisione sta a te, comunque».
«Non devi fraintenderci», intervenne poi Flora. «Non è l'idea delle spade in sé a turbarci. Ma la tua non è una lama comune, e le nostre cattive esperienze con uno dei Talismani sono ormai note». «Ogni Talismano ha una storia e una natura differente», obbiettò Felicia. «Il mio prezioso interprete è stato saggio quando ha deciso di tirar via dalla cintola la spada viola che gli era stata affidata. Il posto di Canto invece è al mio fianco». L'interprete era Evander, mercenario e straniero, ma dove le parole di una donna sembravano cadere nel vuoto, era possibile che qualcuno prestasse ascolto al suo comandante in capo, persino se lui non faceva altro che ripetere le stesse motivazioni e argomenti, adoperando le medesime frasi senza cambiare una virgola. «Non capisco che ci sto a fare qui», mormorò ancora Llys. «Devo davvero umiliarmi, per ciò che sarebbe un sacrosanto diritto di Levant? Parlo della facoltà di affrontare i nemici interni al paese senza che nessun altro si levi a dar loro man forte. Non sto chiedendo aiuto, nemmeno lo vorrei se me lo offrissero, e invece devo indossare le vesti di supplice, quasi, e ascoltare discorsi che non vogliono dir nulla, aggirarmi tra queste sale ostili». «Credi davvero di non aver bisogno di alcun aiuto?», le domandò Viviana. «Per battere Doros e i suoi scagnozzi? Adesso che Christofer è stato costretto a tornare dalla mia parte?». Llys batté il palmo della mano contro un bracciolo. «Non solo lo credo, ne sono sicura. E comunque si tratterebbe di un aiuto che non posso permettermi di accettare. Devo riprendermi da sola il regno, senza contrarre ipoteche sul mio futuro di regina. O la corona di Levant finirà con l'avere lo stesso valore di quelle di latta dei commedianti». «Il tuo nemico potrebbe non essere soltanto Doros», insisté l'altra. «E non mi riferisco a Khirsten di Tramontana». «Meglio, perché lui l'avevo già messo in conto». C'era un'espressione di profondo disprezzo sul volto di Felicia, inferiore solo a quello che mostrava quando parlava degli assassini della sua famiglia. «Khirsten non aspettava che una scusa per lanciarsi contro di noi», aggiunse. «Non è mai riuscito a perdonare alla sua sorellastra di aver rinunciato ai propri diritti sul trono, avrebbe preferito di gran lunga che si ribellasse, per liberarsi di lei una volta per tutte. Marissa ha il sangue di Levant nelle vene, e dato che Levant l'ha sempre difesa, anche la nostra famiglia è meritevole del suo
odio. Adesso rimango solo io, ma intendo rimanere». «Tu l'hai mai conosciuta Marissa?», domandò Viviana. «La ricordo. Ero appena una bambina quando si è rinchiusa in convento. Ma mi piaceva, e molto. Ero convinta che avrebbe dovuto battersi, però Marissa non è il genere di persona che si lasci sedurre dalle attrattive del potere, e adesso che ho provato sulla mia pelle cosa vuol dire una guerra civile, provo un nuovo rispetto per la sua decisione». Per un po' rimasero senza parlare. Dama Viviana si ritrovò a fissare uno dei quadri appesi alle pareti, un fiume d'un verde ultraterreno e tre sagome, cipressi o fanciulle, disegnate nella foschia della riva. Il Padre Guardiano aveva una passione fuori del comune per i dipinti, e la donna si chiese se, al di là delle tradizioni di famiglia, il sacerdote non cercasse nelle tele la via per riempire i silenzi, la scusa per studiare un interlocutore senza perdersi nell'inutile flusso delle parole vuote. «Sono nervosa», fece Llys alzandosi. «Non sono più abituata ai luoghi chiusi, non mi sento al sicuro tra quattro mura». «Quando riavrai il tuo trono non sarai tra quattro mura, forse?». «È vero. Ma ciò non basta a placare la mia inquietudine. E a volte fissando una tenda o uno specchio ho la precisa sensazione che qualcuno mi stia spiando». «Considerato il luogo in cui ci troviamo e il carattere del nostro anfitrione non mi stupirei se fosse proprio così». «Bussano alla porta», disse Flora in quel momento. Le tavole del soffitto avevano scricchiolato in uno strano modo al primo accenno di spie, e Viviana non poté fare a meno di sorridere. «Vi ho detto tutto, credo». Il cavaliere di Thule si guardò intorno: la preoccupazione e lo sconcerto sui volti dei presenti, Rhory, Gwyon, Ethienne, lo Stratega del Mondo di Fuoco, gli sembravano solo un riflesso di ciò che lui provava. «Non hai bisogno di aggiungere nulla», mormorò il sacerdote scuotendo la testa. «Ce n'è già abbastanza per aprire una crisi secolare in seno alla chiesa, se solo la notizia si risapesse. Un conto è la vaga ipotesi che dietro il nostro Dio si nasconda un misterioso popolo antico, un altro è ricevere la diretta conferma dei suoi compatrioti». «Se possiamo fidarci delle parole di Sidhe. E poi non erano i draghi la nostra crisi incombente?». Jordan fece una smorfia nel pronunciare tali parole. Lui quel particolare dilemma religioso l'aveva vissuto; adesso gli
sembrava che simili dubbi appartenessero a un'altra vita. «A volte una singola crisi non basta», borbottò il sacerdote. «Devono accumularsi fino ad arrivarti alla gola e soffocarti, le crisi». «A quel punto potrebbero persino rivelare degli aspetti positivi», fu il commento di Evander. «La molla che fa scattare il cambiamento, intendi?», domandò Gwyon. La risposta era quella, certo. Ma il patriarca di Zephyr scosse la testa. «È più facile cambiare per una singola persona che non per un'istituzione. Un uomo di fede può dire che un Elaunoi si è seduto sul trono del Signore del Tempo, e aggiungere subito dopo che ciò non ha nulla a che vedere con il Dio in cui crediamo. Ma la chiesa, se pronunciasse simili parole, distruggerebbe il nucleo dei suoi testi sacri, le sue radici. Per troppo tempo ci siamo dichiarati infallibili, e adesso ne paghiamo le conseguenze. Questo ritornello però inizia a esser vecchio, e noi dobbiamo pensare al momento attuale». «Dobbiamo raggiungere Sethrian e Aelin, adesso», osservò Rhory. Jordan aggrottò la fronte. Non avrebbe voluto separarsi dalla ragazza, ma serviva un permesso controfirmato per introdursi nel palazzo delle donne, e lui non l'aveva. La principessa Felicia era tra le prime persone che dovevano essere avvertite, dacché custodiva uno dei Talismani, e così avevano scelto di dividersi. In fondo la terrestre non era nemmeno sola, Sethrian era andato con lei, l'avrebbe protetta. Ad ogni buon modo il cavaliere accelerò il passo. «Poteva andar peggio comunque», disse Evander. «Poteva riapparire l'Elaunoi che sta dietro ai vostri scritti sacri, tanto per dirne una». «Puntuale per quella fine del tempo auspicata da Isengrin, magari?», chiese Gwyon con espressione cupa. Quella dello Stratega non era una battuta gradevole, pensò Jordan, soprattutto perché la lunga vita degli Elaunoi e le loro distorsioni temporali sembravano indicare che un simile ritorno non era poi così remoto e impossibile. Intanto stavano costeggiando la fiancata della cattedrale, con la sua processione di archi rampanti. Ancora poco e avrebbero raggiunto la piazza grande... Il cavaliere si fermò d'improvviso. Due guardie erano poste ai lati della strada, e avevano incrociato le loro alabarde, impedendo al gruppetto di proseguire. «Cosa succede?», domandò.
«L'accesso alla piazza è interdetto, per ordine del Santo Guardiano». Jordan fissò lo sguardo severo della guardia, poi tornò a voltarsi verso i compagni. Ethienne venne avanti, e di fronte al rosso della sua tunica i due soldati aggrottarono un poco la fronte, le aste delle loro picche tentennarono quasi. Ma non accennarono a farli passare. «Ci è stato detto di non fare eccezioni, patriarca. Un prigioniero deve essere trasferito da un edificio all'altro quest'oggi, e a nessuno è permesso l'accesso». Il cavaliere di Thule ebbe un lampo negli occhi. C'era un solo prigioniero a Vultur che meritasse simili attenzioni. «Vorrà dire che attenderemo», rispose Ethienne tranquillo. «Permetteteci però di avvicinarci quel tanto che basta per osservare la piazza. Sapevo già del vostro incarico, e con tutta probabilità non accadrà nulla, quest'oggi. Ma se qualcosa dovesse succedere, non mi spiacerebbe vederla con i miei occhi». «Voi credete che gli Elaunoi possano essere interessati ai Talismani?», chiese Llys accigliata. «È un'ipotesi plausibile», mormorò Sethrian, «ma nulla di più, al momento». «Sono stati gli Elaunoi a consegnare Canto alla mia famiglia. È strano rendersi conto che questa spada potrebbe non essere davvero mia». «Sidhe non ha mostrato particolare interesse per i Talismani», disse Aelin. «Ma se vuoi, la prossima volta che lo vedo gli farò qualche domanda al riguardo». «Sei davvero così ansiosa di rivederlo?», domandò Viviana. «Può dirmi molto. E non ho modo di tenerlo lontano. Quindi...». Le parole della giovane rimasero come sospese. Uno stridio lamentoso, simile a corde di violino, aveva invaso la stanza. Veniva da fuori. Flora si precipitò a spalancare gli scuri, e tutti corsero alla finestra. «Un drago!», urlò Aelin. Uno snello drago verde agitava le sue ali in un grido irato. Tra gli artigli stringeva una figura d'uomo, un fantoccio inerte con il volto nascosto dal cappuccio stretto attorno al collo. «Non vi siete resi conto del suo arrivo?», gridò Llys. Un gruppo di uomini si agitava lungo il perimetro della piazza, ma non sarebbero riusciti a fermare la bestia.
«Ha fatto in modo che non ce ne accorgessimo», spiegò Sethrian venendo avanti, «ha schermato i propri pensieri». Aelin sbatté le palpebre: l'immagine di capelli verdi sciolti al vento le apparve per un breve istante. Poi chiuse gli occhi, c'era solo il riflesso del sole sulle ali di metallo del drago. «Sta scappando!», urlò ancora Llys. Altre figure di figli del fuoco si stagliavano contro il cielo. A guidarle era la sagoma inconfondibile di Alascura, ma il drago avversario già si dileguava, e non ci sarebbe stato alcuno scontro. «Maledizione...», sibilò Sethrian. «Si può sapere che cosa sta accadendo?», chiese Viviana. «Discordia», fu l'unica risposta del mago. Quella parola fece cadere il silenzio sulla sala. «Tu credi che abbia incantato i draghi di Isengrin», disse Flora, pallida in volto. «L'ha fatto». Sethrian socchiuse le palpebre. «È inutile restare qui. Voglio sentire la versione dei testimoni che erano in piazza». Lasciarono la stanza senza parlare. L'incantatore era accigliato: la spada verde aveva ancora una volta dimostrato i suoi poteri. Nulla di cui essere sorpresi, certo, ma era un segnale preoccupante vedere con quanta prontezza avesse saputo asservire i figli del fuoco al proprio volere. Gli equilibri tornavano a mutare, e in peggio, stavolta. I cinque giunsero nell'atrio del palazzo. Ai piedi della scalinata c'erano i loro amici, intenti a parlare, discutevano animatamente. «L'idea poteva esser buona», stava dicendo lo Stratega. «Ma i risultati non lo sono altrettanto». «Cosa è successo esattamente?», fece Viviana avvicinandosi. «Abbiamo cercato di tendere un'esca ai nostri nemici», disse Ethienne, «e il piano, temo, ci si è ritorto contro». «Quell'uomo che il drago ha afferrato», domandò Aelin con un filo di voce, «era lui l'esca?». Il sacerdote fece un cenno d'assenso. «Abbiamo trasferito molte volte il nostro Anton da un edificio all'altro, e abbiamo sempre fatto in modo che l'informazione cadesse nelle mani di uno dei nostri sospetti», spiegò. «Eravamo certi che prima o poi qualcuno avrebbe cercato di liberarlo. Solo non ci aspettavamo che il tentativo riuscisse». «Almeno uno dei dodici sospetti deve essersi svelato adesso, o no?»,
chiese la terrestre, incerta. «In realtà siamo ormai al sospettato numero tredici». Tutti si voltarono verso la voce. C'era Tristam sulle scale, assassino e adesso spia di Vultur. L'uomo sorrise. Era lì per sorvegliare qualcuno, Sethrian ne era certo. Se adesso sceglieva di venire alla luce, voleva dire che anche lui era rimasto colpito dall'apparizione del drago. Il colpevole, disse Tristam, era un certo Laurenthal; all'incantatore il nome diceva ben poco, ma non gli sfuggì il lampo di sorpresa negli occhi di Ethienne. «Avrebbe dovuto essere dei nostri», mormorò il pittore, «non uno dei più stretti collaboratori, non uno dei più addentro ai nostri segreti, ma comunque dalla nostra parte». Rhory aveva lo sguardo di chi è convinto che l'informatore fosse da cercare in quella stanza, e non altrove. Tristam però continuava a ignorare le sue occhiate. «Così Anton ha preso il volo. Prima che potessimo interrogarlo», disse il cavaliere prescelto. «A mettere la testa sotto il cappuccio è stato uno dei miei uomini, non Anton», rispose la spia, in tono tranquillo. «E il drago gli ha spezzato il collo nell'afferrarlo, pochi secondi e non si muoveva più». Il volto dell'altro perse ogni colore, balbettò delle scuse che il sicario accolse con una scrollata di spalle. Forse stava pensando che a morire era stato pur sempre un uomo dai dubbi trascorsi, e che il dispiacere di Rhory mal si accordava con le sue affermazioni passate. «Mi piacerebbe sapere come reagirà il vero Anton alla notizia», commentò Ethienne. «Non credo si stupirebbe, anche se gli raccontassimo che Deirdre ha tentato di ucciderlo», obbiettò Gwyon. «Lui la conosce, in fondo». «E se Deirdre avesse saputo che quello non era Anton?», domandò Aelin all'improvviso. «Vorrebbe dire che qualcuno ha parlato», fece Tristam. «E non chi ci aspettavamo di veder parlare». «Non è indispensabile», ribatté la ragazza. «Mettiamo che Anton sia un telepate, adesso. Sentendo che la mente del prigioniero era muta, Deirdre non avrebbe esitato a comprendere l'inganno». Sethrian si chiese quanto tempo ancora avrebbero trascorso a enumerare ipotesi. Però era necessario farlo. Dama Viviana e la principessa Flora scelsero quel momento per congedarsi, e si allontanarono con passo lento,
nel silenzio che era calato sul grande atrio. Poi un chierico si avvicinò, sussurrò a Ethienne qualche parola: il Padre Guardiano li attendeva nella sala dei mosaici, due corridoi più in là. Lì avrebbero continuato a discutere, ma attorno a un tavolo. XXX L'ATTENTATO «Ho ricevuto una visita, pochi minuti addietro», esordì il Santo Guardiano senza preamboli. Vincent, patriarca di Skyron, noto anche come il sospettato numero sette, aveva trascinato la sua lunga tunica sino alle stanze del sacerdote, presentandosi all'uomo con un'espressione di compiaciuta riprovazione dipinta sul volto. «Siamo noi gli artefici di tutto», annunziò lo zio di Ethienne con un mezzo sorriso. «Discordia è un demone dell'immaginazione creato per marchiare d'infamia coloro che non accettano di esserci alleati, ma il prigioniero si rifiutava di dare conferma alle nostre menzogne, così abbiamo fatto in modo che la sua verità venisse ghermita dalle ali di un drago». «Che prove ha per dire che siamo stati noi?», chiese Rhory. «È un'accusa troppo grave per rimanere del tutto infondata». «Più che un accusa è un'insinuazione», lo corresse Ethienne. «E le insinuazioni non hanno bisogno di prove». «Inoltre c'è il particolare dei collari», aggiunse il Padre Guardiano. «I collari», ripeterono in più d'uno, straniti. «Quelli dei draghi», chiese Jordan. «Il drago che abbiamo visto oggi non aveva collari», fece Evander. «Non ne aveva, ne sono certo». «È proprio questo il punto», spiegò il Guardiano. «Anton ha detto al Consiglio dei Re che Shiin aveva rimesso in funzione gli strumenti di Isengrin per tenere sotto controllo i figli del fuoco», mormorò Gwyon. «E se le cose stanno così, un drago senza collare può appartenere solo alle nostre schiere», concluse il Guardiano. «Un ragionamento ineccepibile, non trovate?». «Ma c'è una falla, no?», osservò Rhory. «Insomma, se il vero Anton è ancora nelle nostre mani possiamo tirarlo fuori in qualsiasi momento». «Una simile mossa ci si ritorcerebbe contro», obbiettò Ethienne, «già ci
accusano di aver finto il rapimento, se dovessimo rivelare che il prigioniero è sempre stato nelle nostre mani, per troppa gente l'accusa da sospetto diventerebbe certezza». «Allora diciamo che Anton è stato portato via dagli artigli di un drago», propose Sethrian. «Ma noi possiamo catturarlo di nuovo. Magari in un posto dove l'uso di certi espedienti magici negli interrogatori non è sottoposto a restrizioni di sorta». «A Levant», disse la principessa serrando le labbra. Aelin in quel momento si alzò. Lasciò silenziosamente la sala dei mosaici. «Va tutto bene?». La giovane si voltò, aveva un sorriso disegnato sul volto. Jordan l'aveva seguita, lei sapeva che lo avrebbe fatto. «È la presenza di quell'uomo?», chiese il cavaliere raggiungendola, poggiando appena le mani sulle sue spalle. «È questo che ti ha fatto andar via?». «Parli di Tristam?». La ragazza accennò una specie di risata. «No, lui non c'entra nulla. Potrebbe turbarmi l'idea che usi gli incarichi della chiesa come biglietto d'immunità per i suoi sporchi traffici, ma tocca al Santo Guardiano prestare attenzione perché ciò non accada, non a me, né a te. In realtà, era agli Elaunoi che stavo pensando». «Capisco». «La guerra che combattiamo, che assorbe tutte le nostre energie, ci impedisce di guardare oltre l'immediato futuro, e forse un giorno potremo rimpiangerlo». Jordan annuì, in un sospiro: «Quanto dici è vero. Ma i nostri avversari già vorrebbero negare l'esistenza di Discordia, che pure si è mostrata, in un modo o nell'altro. E non siamo neppure certi che gli Elaunoi si trasformeranno in una minaccia». «Lo so. Io vorrei tuttavia che questo non dipendesse esclusivamente dalla loro volontà. Invece ho il timore che potremo solo subire le loro decisioni». «Lo credi davvero?». Aelin si guardò intorno, come se si aspettasse di veder comparire il volto di Sidhe da una delle arcate, o da dietro una colonna. Ma non c'era nessuno oltre a loro, e il silenzio tutt'intorno. O almeno così sembrava. «Non so se devo crederlo, ma lo temo», sussurrò la ragazza, e appoggiò il volto sul petto di Jordan, come per nascondersi soltanto, e non parlare
più. Le pareti erano un mosaico di bianche ali intrecciate, fanciulle dalle lunghe tuniche rimanevano immobili nella penombra, con il volto seminascosto da nere maschere di demone. Non c'erano finestre, non c'erano uscite, solo una grata al centro del soffitto da cui filtrava una luce malata di lanterna. Era prigioniera di una tomba. Jade si concesse un sorriso amaro a quel pensiero. Prigioniera di una tomba... era una metafora che l'aveva sempre affascinata, per la freddezza con cui segnava il suo legame con il popolo dei ladri, e con il loro rifugio nel sepolcreto della montagna. Adesso non era più simbolo. Suo fratello l'aveva rinchiusa dentro una camera mortuaria, promettendo di tenerla lì sino a quando non avesse acconsentito a obbedire ai suoi ordini. Non era riuscita a trovare un messaggero per Cylair, così era tornata indietro di persona. Adesso rimpiangeva con tutte le sue forze quella scelta. «Che idiota!», esclamò Jade scuotendo la testa, e ancora non si capacitava di essere rinchiusa in quel luogo, che l'altro l'avesse fatto sul serio, e che volesse davvero... «Cosi dovrei sposare Anton, sì. Suggellare l'alleanza dei nemici della legge. Ma perché non se lo sposa lui, perché non si ammazza e non suggella una volta per tutte quella fogna che è la sua bocca?». La donna fece una smorfia, massaggiandosi con una mano la caviglia. Il ceppo di ferro che il fratello le aveva legato al piede al suo secondo tentativo di fuga giaceva poco distante, inutilizzato. Far scattare la serratura non era stato affatto facile. «Gliel'ho persino detto, Anton è prigioniero, non può sposare proprio nessuno!», mugugnò. «Ma io dico parole senza senso, e se non si tratterà di lui mi troverà comunque uno sposo adeguato, che sia un'alleanza conveniente per i ladri. Per la Dea, quanto lo odio! Si è convinto di essere un nobile che tratta con i suoi pari. Ancora un po' e offrirà la mia mano a Doros, o a Khristen in persona!». Parlare a vuoto però non serviva a molto. Nemmeno la grata era un ostacolo insormontabile, avrebbe potuto fare una corda con le proprie vesti, e poi... di sicuro tuttavia c'era qualcuno di guardia, e di questo doveva rendergliene merito, il suo fratellino sceglieva degli uomini in gamba per sorvegliarla. In caso contrario, d'altronde, non sarebbe riuscito a tenerla rin-
chiusa. La donna serrò le palpebre. Tornava a chiedersi, e non era la prima volta in quei giorni, che cosa stesse facendo Sethrian. Gli alberi si erano stretti attorno al sentiero, formando una galleria di rami e di foglie. C'era qualcosa di magico nella penombra che era caduta lungo il cammino, nel tremolare incerto della luce fra gli spiragli di quella cortina verde. Gli zoccoli dei cavalli divoravano la strada, e Aelin rimaneva incollata al finestrino della carrozza. «Sono undici secoli», mormorò la principessa Felicia, «undici secoli che uno dei Guardiani non mette piede a Levant. Non credevo che sarebbe toccato a me rompere la tradizione». «Forse dovresti provare a considerarlo un motivo di vanto, principessa, non di rammarico», disse lo zio di Ethienne in tono tranquillo. «L'idea è stata mia, nel bene e nel male». E il motivo principale del viaggio era fornire una scorta adeguata al prigioniero che tutti credevano già libero, e che invece adesso veniva portato a Levant nel chiuso di un baule. «In ogni caso una simile visita era destinata a suscitare scalpore», aggiunse il sacerdote. «Sembra quasi che io voglia parteggiare per una delle due fazioni in lotta, quando invece è compito della chiesa rimanere imparziale, in simili contrasti terreni». «Eppure la bandiera della neutralità è stata già accantonata altre volte». Il Santo Guardiano sorrise, non si curò di rispondere. Flora ascoltava in silenzio la conversazione, mentre dama Viviana continuava a lavorare al suo ricamo, senza lasciarsi distrarre dai sussulti della carrozza. «Piuttosto, sembrate tranquillo, Guardiano, all'idea di lasciare Vultur per un viaggio che potrebbe non essere di breve durata», osservò ancora Llys. «Non temete un eccesso d'indipendenza da parte dei vostri sacerdoti?». «Lo temo sempre, per questo ho nominato un presidente temporaneo che dirigesse le sedute in mia assenza. Sono sicuro che il patriarca di Skyron saprà svolgere il proprio incarico con il massimo zelo». «Il patriarca di...». Aelin sbatté le palpebre confusa. «Ma Vincent di Skyron non è l'uomo che ci ha accusato di aver inscenato il rapimento di Anton?». «Così non dovrò stare a chiedermi se i suoi provvedimenti andranno contro di noi o a nostro favore. Se dovesse fare un passo falso, e io lo spe-
ro, c'è già chi è pronto a intervenire. Inoltre, se avessi scelto uno dei miei fidi, come Feanor o Liljum, avrei rischiato di inimicarmi una larga fetta di coloro che in un modo o nell'altro sostengono le nostre stesse posizioni. E non potevo permetterlo». «Sembrate sicuro di voi, Guardiano», disse la principessa di Levant socchiudendo gli occhi. «Devo sembrarlo. Devo esserlo. Confido comunque nell'aiuto del Signore. Se poi le cose dovessero volgere al peggio, ho lasciato a Ethienne una mia lettera controfirmata in cui ordino di indire un Concilio, con l'obbiettivo di appurare se la spada Discordia sia un manufatto d'origine umana o demoniaca. È stata citata troppe volte di questi tempi perché si continui a ignorarla. E un Concilio dottrinale ha la precedenza su tutto, ogni altra assemblea dovrà venire immediatamente sospesa». «Ma le decisioni del Concilio devono sempre ottenere la ratifica del Padre Guardiano, non ricordo bene?», fece Aelin con un sorrisetto. «Avevamo già preso in considerazione una simile scappatoia, e sembra uno stratagemma collaudato». «C'è chi dice che i Guardiani dormono con un libro di dubbi teologici sotto il cuscino», rammentò Viviana, in un tono che era solo apparentemente distratto. «Io conosco un altro detto, familiare tra le mura di Vultur», ribatté il sacerdote, «troppi Concili improvvisi e immotivati nuocciono alla salute di chi li convoca. In realtà è raro che un Santo Guardiano si sia trovato a governare un Consiglio discorde come quello attuale, almeno per quello che riguarda le questioni esterne alla chiesa». Ma era possibile un paragone con il passato?, si chiese Aelin. Gli eventi di quei giorni erano troppo particolari, troppo distanti dall'antico corso delle cose, e tutto sembrava diverso. «Discordia però è reale», obbiettò la principessa Flora, «non è un semplice stratagemma per prendere tempo, anche se alcuni vorrebbero negarle ogni potere». «Un motivo di più per indire un simile Concilio, al momento opportuno», ribadì il Guardiano. «Se dalla spada si passa ai suoi costruttori, avremo di che discutere per un centinaio d'anni», disse Aelin, cupa. Il pensiero degli Elaunoi non la abbandonava. La carrozza si fermò di colpo. Il Santo Guardiano riuscì appena a sporgere il capo per rendersi conto di cosa stava accadendo che subito si ritras-
se di scatto, serrò gli scuri gridando alle ragazze fare lo stesso, in fretta. Aelin aveva appena chiuso il pannello di noce, quando il veicolo venne scosso da un urto improvviso: dal legno spuntarono le estremità aguzze di una decina di frecce. Ci fu un urlo soffocato, poi il suono di un tonfo improvviso: dovevano aver colpito il cocchiere a cassetta. I cavalli nitrirono, Flora gridò spaventata, Viviana era diventata pallida. Aelin osservava inorridita la punta ritorta di una freccia conficcatasi a pochi centimetri dalla sua mano. «Hanno fatto saltare il ponte», disse il sacerdote. «Siamo isolati dal resto della carovana». «Non ci sono le guardie a cavallo? Non dovevano seguirci?», fece Viviana in un sussurro. «Se l'agguato è stato teso apposta per noi, dubito che si saranno dimenticati di provvedere alla scorta», disse la principessa di Levant stringendo l'elsa della sua spada. «Ma come avrebbero potuto?», domandò Flora portandosi una mano alla gola. «Le precauzioni non sono certo mancate...». «A volte le precauzioni non bastano», ricordò il sacerdote. «Specie quando ci si mette il tradimento a renderle vane», sibilò Llys facendo scorrere di pochi centimetri uno degli scuri, per cercare di vedere cosa stava accadendo fuori della carrozza. «Che vorresti dire?», chiese il Guardiano. «Oh, lo sapete! Ed è inutile stare a discuterne adesso». «Non potrebbero aver solo controllato tutte le strade che portano a Levant?», fece Aelin in un sussurro. «Vedremo. Spero», rispose la principessa serrando le labbra. Giunse nuova raffica di frecce e la carrozza tremò sotto l'urto. Di nuovo i cavalli gridarono, scalciando, cercando di liberarsi dalle loro pastoie. Vorrei che fossi qui, Jordan, pensò la terrestre, stringendo tra le dita in un gesto convulso la stoffa della veste. E le sembrava di vederlo quasi, mentre sorvegliava i cieli in groppa al suo Alascura. Ma la carrozza, nel chiuso della foresta, era nascosta allo sguardo di draghi alleati e nemici insieme. Le voci degli assalitori si erano fatte più vicine. Dovevano essere loro a trattenere i cavalli, a impedire che fuggissero, in preda al panico. Aelin chiuse gli occhi. Sentiva un nodo di terrore allo stomaco, la mente le si era annebbiata. Llys le aveva fatto scivolare una daga in una mano, però temeva che non sarebbe stata in grado di usarla, pietrificata com'era
dalla paura. Aveva affrontato il pericolo altre volte, ma c'erano sempre stati i suoi amici al suo fianco. C'era stato Jordan... D'improvviso la giovane sentì il vento che le colpiva il viso, e la stretta di due mani attorno alla vita. Spalancò gli occhi stupefatta; dalla gola le uscì un gemito soffocato nel vedere la carrozza circondata da uomini armati. Lei invece era distante, gli alberi la nascondevano alla vista dei nemici. «Tutto a posto, scrittrice? Credo di averti tirato fuori appena in tempo da quella trappola». «Dovevo immaginarlo che era opera tua», sussurrò la ragazza voltandosi verso Sidhe. «E cosa aspetti a teletrasportare anche gli altri?». Lo sguardo dell'elfo era cupo. «Mi è stato ordinato espressamente di non interferire con le vicende di questo mondo, mi dispiace». «Non puoi interferire», ripeté Aelin stringendo la daga. «Ma con me non hai esitato a farlo!». «Tu non appartieni a questo pianeta. Inoltre la tua presenza su quella carrozza non avrebbe cambiato di molto le cose. Gli ordini di quegli uomini sono di catturare la principessa di Levant e uccidere il Santo Guardiano. Per gli altri non hanno istruzioni precise, per meglio dire non ne hanno per te». «Tu credi che rimarrò qui senza far niente?». «Ci tieni così tanto a farti uccidere?». «E tu ci tieni alle mie storie di scrittrice?». Aelin quasi gridava. «Perché non credere di ingannarmi: sono le storie il nodo vitale. Sono quei racconti che ci fanno apparire per la vostra razza alla stregua di gallinelle dalle uova d'oro. È così, non è vero?». L'elfo sorrise appena. Non sembrava intenzionato a rispondere. «Sono parole tue, non mie», mormorò infine. «Sì! E se credi che resterò a guardare ti sbagli di grosso». La giovane fece qualche passo in direzione del sentiero. Socchiuse gli occhi, si mise a gridare: «Ehi, siamo qui! Siamo qui! Venite a prenderci!». E poi: «Sono la principessa Felicia, è me che cercate, non è vero?». «Siamo qui?», ripeté Sidhe in un sibilo, mentre un pugno di uomini si staccava dal grosso degli assalitori. «Sei qui. Io ho provato a salvarti, ma dato che la tua riconoscenza è questa...». «No, aspetta!». Era tardi, l'elfo era già svanito. Improvvisamente Aelin si sentì molto sola, molto stupida, molto indife-
sa. Cinque uomini stavano venendo verso di lei. E non aveva modo di fronteggiarli. «Sidhe!», tornò a gridare, impaurita. Non vi fu risposta. Iniziò a correre, a perdifiato. La foresta si fece sempre più fitta, più intricata, più nera. Un labirinto di rovi e radici ostacolava ogni passo, e presto la corsa della giovane si spense in un cieco brancolare. L'avrebbero presa, non c'era scampo, l'avrebbero presa. Sentiva le voci degli inseguitori sempre più vicine. Il bosco si era fatto buio, sembrava che la luce non sfiorasse le radici, le pietre seminascoste dalle erbacce, la terra, il fango. Aelin cadde a terra, una, due volte, ma tornava ad alzarsi, con una forza che non sapeva sua. Le voci si avvicinavano ancora. Aiuto vi prego, qualcuno mi aiuti. Aveva la spada corta di Felicia. Continuava a stringere l'elsa con tutte le sue forze. Aiuto, ho bisogno di aiuto. Ma non lo avrebbe trovato. Aiuto... Aelin, dove sei? La giovane si fermò come paralizzata. «Jordan», disse con voce tremante. Non arrenderti, Aelin, non farlo, ti scongiuro. Ma quella voce era soltanto nella sua mente, e lei era sola. Riprese a correre. Quasi piangeva, per la paura, per la stanchezza. Non aveva bisogno di voltarsi, gli uomini armati erano vicinissimi, ormai... Ci fu un rumore di rami spezzati, la visione inattesa di ali scure e lucenti. Sognava? Era del tutto impazzita? Però non sembrava un sogno. «Ti ho trovata!», esclamò Jordan saltando a terra. «Grazie al cielo ti ho trovata!». La ragazza balbettò il nome dell'altro, pochi istanti dopo era tra le sue braccia, in lacrime. Il cavaliere non disse una parola, la strinse a sé. La baciò sulle labbra, come per dirle che tutto era finito, che non doveva più temere. «M'inseguono...», disse lei asciugandosi gli occhi. «Presto saranno qui... e la carrozza, hanno circondato la carrozza, dobbiamo tornare subito indietro!». «Sono tutti salvi, stai tranquilla», le disse Jordan, sfiorandole il viso. «È
stato molto più facile trovare la carrozza che te, mia adorata. E se qualcuno dei tuoi inseguitori dovesse spuntare proprio adesso ci penserò io a farglielo rimpiangere». «Ma come avete fatto? Come siete riusciti ad arrivare proprio nel momento giusto?». «È stata la tua voce a guidarmi, il tuo pensiero». Aelin sgranò gli occhi. «Credevo che tu mi chiamassi», singhiozzò poi, «ma mi sono detta che non era vero, non poteva esserlo!». «Io ti chiamavo e tu mi hai sentito. Sapevo dov'eri, per questo sono riuscito a trovarti». La giovane annuì, accennando appena un sorriso. «Deve essere l'effetto dell'adrenalina», disse una voce alle loro spalle, e Aelin si voltò di scatto. Sidhe era di nuovo lì, con la schiena appoggiata al tronco di una quercia. «Oppure è l'accelerazione del battito cardiaco», continuò l'elfo, «o l'aumento della temperatura corporea, non ne sono certo. In qualche maniera però, i poteri telepatici legati all'assunzione del sangue di drago si intensificano nei momenti di pericolo». «Ma che stai dicendo?», sibilò la ragazza. «Ammetto di essere un profano nel campo della telepatia, senza contare che questi vostri particolari draghi non sembra siano stati catalogati dagli Elaunoi, e il loro involucro rende nulli i normali sensori di analisi in mio possesso. Ma ciò non toglie che...». «Non hai capito», lo interruppe Aelin. «Non voglio spiegazioni tecniche. Dimmi soltanto con che coraggio osi riapparirmi davanti dopo che mi hai abbandonato a quel modo!». «Avrei fatto meglio a lasciarti dov'eri», disse l'altro in tono quieto. «Oltretutto saresti sopravvissuta comunque». «È così che è andata, allora», osservò Jordan. «Avevo sentito la tua rabbia nei confronti dell'Elaunoi, ma non sapevo il perché. Dunque è stato lui a salvarti, in realtà». «Tu sei l'unico salvatore che volevo!», esclamò la ragazza. Poi tacque. Dei rumori venivano dalla boscaglia. «Siete qui?». Era Rhory, che veniva a cercarli. «Tiratela fuori dalla cella».
Prima ancora che Jade potesse rendersene conto le avevano lanciato la chiave della sua catena, e dopo aver rimosso la grata, gli uomini di Cylair fecero scivolare giù una scaletta di corda. La donna sollevò il capo, con espressione guardinga. «Perché non vieni giù tu, invece? È così accogliente il nido che mi hai procurato!». Il fratello le borbottò qualcosa di incomprensibile. Senza smettere di fissarlo Jade corrugò la fronte: delle parole sprezzanti sarebbero state più consone al personaggio, e lei lo conosceva bene. Ma se stava accadendo qualcosa, non lo avrebbe scoperto rimanendo sepolta lì sotto, e prima che Cylair riuscisse a rivolgerle una frase di senso compiuto, si affrettò a salire la scala e a raggiungerlo. «Temevo che ti fossi affezionata un po' troppo alla tua nuova dimora», sibilò l'altro a denti stretti. «Che succede, fratellino, non sei riuscito a metterti d'accordo sull'entità della mia dote?». Il ladro gettò un'occhiata nervosa alla stanza. Era teso come se gli avessero puntato l'estremità di una picca tra le scapole, e Jade sbatté le palpebre, perplessa. «Forse faremo meglio a parlarne in privato», disse Cylair. La donna si guardò bene dal protestare. Se suo fratello voleva congedare le guardie, lei non si sarebbe opposta. Rimasero soli. «Si può sapere cosa succede?», chiese subito dopo. Ma quelle parole persero significato nel momento stesso in cui la donna le pronunciava. Prima fu quasi nebbia, un'immagine sfocata, poi Sethrian era lì, e passava un pugnale da una mano all'altra, con fare distratto. «Ho appena chiesto a Cylair la tua mano», le disse. «All'inizio non sembrava troppo incline a dare il suo assenso, ma alla fine credo che i miei argomenti lo abbiano in qualche modo colpito». «Ti salterei al collo e ti bacerei, se non temessi che il mio fratellino approfitterebbe di una simile distrazione per farci qualche brutto scherzo». «Questo me lo rende ancor meno simpatico». «E tu? Come sei arrivato sin qui?», domandò poi la donna. «Ho usato la mappa della montagna che avevi lasciato. E il fiuto dei nostri lupi. Tuo fratello ne ha appena conosciuto uno, e non mi è parso troppo entusiasta. Quel giocherellone lo ha gettato a terra e gli ha leccato tutta la faccia, ma Cylair non ha aspettato di vedere quanto fossero affilate le sue
zanne per arrendersi». Jade sorrise. Sethrian le aveva detto più di quanto potesse sembrare: lei non aveva lasciato alcuna indicazione sul rifugio dei ladri, e lo rimpiangeva data l'accoglienza che aveva trovato al suo arrivo. Evidentemente il mago doveva essersi rivolto a qualcun altro per apprendere la strada del sepolcreto e riuscire a portare aiuto alla sua bella. Chi fosse la sua fonte non era difficile indovinarlo. Si trattava di Tristam, senza ombra di dubbio. Jade non era nemmeno stupita se il sicario non ci teneva a venire nominato come colui che aveva tradito il rifugio dei ladri, e questo spiegava la menzogna della mappa. D'altronde Tristam era molto più portato per il doppio gioco, mentre Jade a quel punto aveva chiuso definitivamente con la gente della montagna. Era stata fedele a suo modo, aveva sempre nutrito l'ambizione di essere qualcosa di più che una semplice ladra, ma non per questo dimenticava le lezioni apprese tra i sepolcri e le sale di pietra. Aveva provato lealtà, forse più verso il rifugio scoperto dai suoi avi che per i fuorilegge che lo abitavano. Ma tenuto conto di come l'avevano ripagata... era libera, sì, lo era davvero. In grado di continuare per la sua strada. «Lupi, hai detto?», chiese poi. «Il regalo di Isengrin, intendi». Sethrian rispose con un sogghigno. Perché il principe Lint continuava a parlare con foga del suo progetto di trasformare i lupi delle nevi in belve da combattimento, ma non aveva avuto ancora né il tempo né il modo di provare sul terreno le sue teorie. Quindi il lupo che aveva intrattenuto Cylair doveva essere quell'unico e solo che un vecchio pastore aveva allevato, e Jade sentì per la creatura un moto d'affetto improvviso. «Intanto io ho questo per te», disse il mago passandole un pugnale nero. «L'ho preso a tuo fratello, ma credo che tu sappia usarlo meglio di me». «Anche meglio di lui, se è per questo». La donna rivolse al ladro un sorriso tagliente. «Non è vero, Cylair?». L'uomo sussultò e la guardò storto, ma non disse una parola. Jade sorrise, con un'espressione di trionfo. «È uno dei misteriosi pugnali d'ombra, non è vero?», fece Sethrian. «Quelli costruiti a immagine del Talismano nero». «Non è solo questo», mormorò la ladra. «Solo i migliori hanno quest'arma... e mio fratello ha appena dimostrato quanto poco la meritasse». «È tutto a posto qui?», chiese Rhory. «E quello chi è?». «Indovina», disse Jordan in un sogghigno. «Il nostro amico elfo stava vegliando sull'incolumità di Aelin».
Sidhe sollevò un sopracciglio. Ma poi scelse di rimanere in silenzio. «Gli altri come stanno, piuttosto?», s'informò la terrestre. «Il Santo Guardiano ha un braccio piuttosto malconcio. Dama Viviana ha riportato qualche graffio e Felicia è furiosa. Ma stanno bene, e anche la principessa Flora. Lo stesso non si può dire degli uomini della retroguardia. Per loro lo scontro è stato molto duro, ci sono morti e feriti. Dovremo fermarci e non so per quanto». Ci sono morti e feriti. A quelle parole Aelin gettò un'occhiataccia verso Sidhe, ma l'altro rimaneva immobile, non mutava espressione. «Forse dovrei andare», concluse infine l'elfo. «E perché?», domandò la ragazza. «Mi è stato chiesto di non mostrarmi alla gente del luogo». «Non è un po' tardi?», ribatté Jordan. «Con noi, almeno». «A quanti l'avete detto?». «A qualcuno». «Tu eri comparso a Ethienne, perché avremmo dovuto tacere?», si affrettò ad aggiungere Aelin. «Ethienne». «Sacerdote, vestito di rosso, gli hai tirato un libro». «In effetti non avrei dovuto farmi sorprendere. Voi però non avreste mantenuto il silenzio nemmeno se ve lo avessi chiesto, non è vero?». «Noi non abbiamo segreti con i nostri amici», disse Jordan in tono piano, ma aveva uno strano brillio negli occhi. «Non solo con loro purtroppo, a volte», intervenne Rhory. Tutti si voltarono a guardarlo. «Lo sapete, no?», continuò il cavaliere prescelto. «Non erano in molti a essere a conoscenza del nostro itinerario, e tra costoro non troverete nemmeno i soliti sospetti che ci siamo divertiti ad accusare a turno. Di chi non mi fido io, già lo sapete». «Se tu avessi ragione», disse Aelin, «vorrebbe dire che Sethrian con la sua misteriosa missione è in un tremendo pericolo». «È vero», ammise Jordan, «non ha voluto darci i dettagli, ma una cosa la sappiamo tutti: quello che aveva in mente riguardava Jade e la montagna dei ladri, e l'aiuto di Tristam era essenziale». «Magari non è proprio lui a tradire», azzardò Rhory. «Sethrian era sicuro di poterlo escludere, e l'incantatore è tutto meno che ingenuo. Ma abbiamo uomini scelti da Tristam tra le file della nostra carovana, e se le loro particolari abilità dovevano guardarci dal pericolo di un'imboscata... Ebbene,
non l'hanno fatto». «Questo è innegabile», concordò l'altro cavaliere, «ma forse dovremmo cercare delle prove concrete, adesso». «Tu non puoi darci nessun indizio, vero?», fece Aelin rivolta all'elfo, che scosse immancabilmente la testa. «Non posso dirvi nulla, e lo sai. Comunque sia, io stavo solo seguendo te, l'attacco mi ha lasciato di sorpresa come tutti, o quasi». «Dovevo immaginarmi una risposta del genere». «Per quel che mi riguarda la discussione è inutile», esclamò Rhory. «E la domanda resta sempre la stessa: chi sapeva del nostro viaggio?». Noi lo sapevamo. Aelin sussultò. Quella voce... era nell'aria, l'aveva sentita! Eppure sembrava che nessuno dei presenti avesse parlato. «Avremmo dovuto pensarci», mormorò Jordan. «Non è possibile...», disse Rhory sgomento. Noi sapevamo, ripeté la voce. «Cosa succede?», chiese Aelin, confusa. «Tu lo senti?», fece Jordan. «Chi sento?». «Alascura». La giovane levò il capo verso il drago. I suoi occhi di luce azzurra sembravano gravidi di pensieri. Doveva esserci del vero in quanto aveva detto Sidhe, riguardo al legame tra telepatia e adrenalina. La giovane guardava il drago, e il drago sembrava darle il benvenuto nella sua mente. «Pensi che Sethrian l'avesse intuito?», domandò Rhory. «Per questo ci ha parlato così poco dei suoi piani?». «Non parlava della missione perché a te secca che si nomini un certo assassino, magari», ribatté Jordan. «Per questo taceva anche ai draghi?». «Non mi pare che i nostri draghi ti nascondano nulla». «Non solo a me, purtroppo, a quanto sembra». Aelin abbassò le palpebre. Tutto adesso appariva chiaro, di una semplicità agghiacciante. I figli del fuoco leggevano nelle menti dei Cantori, il potere della comunione del sangue era ormai noto. Ma i draghi, con la loro telepatia, non conoscevano il significato della parola segreto, e ora che Discordia sapeva come piegare le menti dei figli del fuoco, tutto ciò poteva trasformarsi nel fatale tallone d'Achille. Parlavamo tra noi. Non sapevamo che altri ascoltassero.
Alascura agitò un po' le ali. Non è piacevole, ci sono dei draghi che dobbiamo chiamare altri, ora. Tuttavia è necessario accettarlo. Aelin socchiuse gli occhi. I pensieri di Alascura avevano una strana semplicità che li rendeva quasi criptici. I figli del fuoco sembravano considerarsi quasi come un'unica entità, e le lotte per il cibo e le femmine non incrinavano questo accordo mentale, ma Discordia invece era riuscita nell'intento di separare i draghi l'uno dall'altro. In quel momento Sidhe venne avanti, con passo incerto: «Immagino che non mi direte cosa sta accadendo». «Puoi sempre diventare invisibile e ascoltarci mentre non guardiamo», ribatté Aelin, un poco aspra. «Ciò che sa un singolo drago potenzialmente lo sanno tutti», spiegò Rhory. «Si tratta solo di questo». L'elfo annuì, sollevando il capo a scrutare la belva. «Immagino sia un inconveniente intrinseco di tutte le conversazioni telepatiche. Le menti dei draghi si muovono su una frequenza che è insolita tra la mia gente, ma il principio rimane lo stesso». «Proprio così», sussurrò Aelin. Era per un tal motivo, ricordò, che Sethrian si era messo in viaggio all'inizio della storia. Il mago temeva che se avesse affidato all'aria le sue parole e i suoi dubbi, questi sarebbero potuti giungere a orecchie indiscrete. «Insomma, non poteva rimanere segreto il viaggio di una carovana che i draghi sorvegliavano dall'alto», borbottò Jordan. Poi si affrettò ad aggiungere che la colpa ovviamente non era solo dei figli del fuoco: rivolse ad Alascura un sorriso, come per scusarsi. Dovremo imparare a tacere. La voce del drago era quieta, solenne. «O forse a mentire», concluse il cavaliere. XXXI STORIA DI UN AMORE «Io vorrei sapere perché l'Elaunoi deve stare qui, nel castello del mio sposo», si lamentò Viviana. «Non è un nostro alleato, non fa finta nemmeno di esserlo, eppure ci siamo offerti di ospitarlo, accogliendolo a braccia aperte nella nostra dimora». «Non è un alleato», ammise il Santo Guardiano, «ma forse è opportuno
fingere che lo sia». Poi sollevò appena il capo dai cuscini. Non era moribondo, era bastata una semplice magia perché la ferita si rimarginasse, o almeno tale l'avevano fatta sembrare Gwyon e Palen, subito accorsi a curarla. Ma lui non era il primo Guardiano a esagerare la gravità di un malore, per osservare intanto le reazioni dei suoi sottoposti. Non era il primo, e non sarebbe stato l'ultimo, fino a che Vultur e i Padri Guardiani avessero continuato a esistere. L'uomo scosse la testa, pensieroso. Le scritture promettevano alla chiesa che il suo regno era l'eternità, ma non parlavano di porte socchiuse su altri universi, non parlavano di un popolo progredito e alieno, pronto a indicare nel Signore del Tempo un proprio compatriota. La maggior parte dei sacerdoti sembrava non rendersi conto della china pericolosa degli eventi: per loro, Vultur avrebbe continuato a esistere pur nella morte, il fasto dei rituali e della tradizione avrebbero nascosto agli occhi un cuore pallido, inerte. E forse la voce di un Dio redivivo sarebbe stata più fatale alla chiesa sua figlia di una divinità defunta. «Lo capisco, Padre Guardiano», disse la dama all'improvviso, «meglio sapere dove si trova quel Sidhe, piuttosto che vederlo comparire da un momento all'altro. Ma invitandolo sotto il nostro stesso tetto, gli permettiamo di studiare ogni nostra singola mossa». «Ho il sospetto che già ora l'elfo, come lo chiama Aelin, sappia su di noi e su questo mondo tutto quello che gli serve». «Non è così semplice», intervenne la terrestre. Era rimasta in un angolo in ombra, intenta a leggere uno dei testi sacri che il Guardiano aveva portato con sé. Ma quello che dicevano i due l'aveva ascoltato. «Tu credi che Sidhe abbia mentito, riguardo alle notizie carpite al libro delle spade?», le domandò il sacerdote. «Oh no, quelle le ha copiate davvero, ma non so fino a che punto sia in grado di leggerle. L'ho sorpreso a borbottare qualcosa riguardo ai problemi di decriptazione, appena l'altro giorno. E quando si è accorto che ascoltavo, mi ha detto con un sorriso smagliante che il nostro Signore del Tempo o ha fatto qualcosa di illegale o amava troppo i suoi sudditi». «Significa che staremo attenti anche a quello che diciamo». La ragazza assentì col capo, e stava per aggiungere qualcosa, ma poi si alzò di scatto; si precipitò alla finestra, strappando un sussulto a dama Viviana. «Drago a nord est!», annunziò con un gridolino. «Io scendo a vedere che cosa è successo!».
«Drago amico o nemico?», fece appena a tempo a chiedere il Padre Guardiano. «Amico!», rispose Aelin, ma la sua voce quasi venne coperta dal rumore della porta che sbatteva. Il fiume era un nastro d'ombra tra le guglie dei castelli gemelli. La valle della spada verde non aveva mutato il suo aspetto, eppure era strano tornare a fermarsi lì, anche se solo per poco. «Adesso sappiamo che Discordia si intrecciava al nucleo pulsante della storia», mormorò Aelin soprappensiero, mentre saliva le scale che portavano verso i bastioni, «forse eravamo noi a non farne parte ancora». Il fiume scorreva in un lento gorgoglio d'acque, e il vento sibilava tra le torri, come per preannunciare l'arrivo del drago. «Mi chiedo se smetteremo mai di correre a questa chiamata», commentò Gwyon, raggiungendola. «Lo chiedi alla persona sbagliata», sussurrò lei, fermandosi un istante. «Per me la voce dei draghi è un canto nuovo, non posso fare a meno di andarle incontro». L'altro sorrise appena, e la ragazza affrettò il passo, pensando tra sé che Rhory e Jordan non erano lì con loro solo perché si trovavano di pattuglia. Raggiunsero il camminamento delle mura proprio nell'attimo in cui il minuscolo drago verde tornava a librarsi in volo, lasciandosi dietro una figura vestita di nero. Tristam. Aelin serrò un po' le labbra, ma non disse una parola. «Immagino che aspettaste il ritorno di Sethrian o Jade dal rifugio della montagna», disse la spia in tono pacato. «Ma loro due non volevano più separarsi, e se fossi rimasto io solo a gestire la situazione nel sepolcreto, qualcuno l'avrebbe giudicata una scelta poco saggia». «Questo è possibile», ammise la ragazza d'un fiato. «Forse però saresti tu il primo a sentirti inquieto se nessuno desse segni di preoccupazione di fronte a una simile scelta». «È possibile», commentò l'altro accennando un sorriso. Per un istante sembrò studiarla. Lei sostenne lo sguardo, in un guizzo d'orgoglio, e poi la spia si limitò a scuotere il capo. «So che avete subito un attacco: è per questo che vi trovo in una valle sperduta, e non nelle terre di Levant. Ma giungono notizie frattanto, dalla Sede di Vultur?». «Ethienne è ripartito giusto stamattina», disse Gwyon.
«Questa è la sua quarta o quinta visita per sincerarsi delle condizioni di salute dello zio, e di sicuro non sarà l'ultima». L'incantatore si lanciò presto in un sommario racconto delle notizie che il pittore aveva portato dalla città santa, e Aelin si allontanò di qualche passo, sino a raggiungere il parapetto delle mura. Stormi di rondini avevano intrecciato i loro nidi tra le pietre smozzicate e le feritoie sottili dei castelli. Gli uccelli dalle ali nere si lanciavano verso l'acqua per poi tornare a risalire, lasciandosi dietro solo una scia di cerchi concentrici. «Ethienne per la precisione ha detto», spiegò Gwyon, «che i sospettati numero cinque, tre e dieci si erano mostrati più contenti del previsto alla notizia delle ferite del Santo Guardiano... Tu certamente saprai chi sono». «Sì, lo ricordo. Piuttosto: chi si sta occupando adesso di proteggere il Guardiano?», domandò Tristam. «Molti nutrono la convinzione che sia più facile, o forse solo più lecito, mandare all'altro mondo un uomo morente. Ma vedrò di assicurarmi di persona che le linee di sicurezza siano impenetrabili. Rientra fra i miei compiti, in fondo». Le rondini intersecavano l'aria nelle loro danze alate. Aelin si sporse un po' oltre i merli delle mura. L'altro castello era così vicino che poteva distinguere gli intagli tra pietra e pietra, e le sagome pigolanti dei pulcini nei nidi. «Doros di Levant si è precipitato a Vultur», disse ancora Gwyon, «e ha proclamato la più totale estraneità alle trame che il suo ambasciatore, Anton, aveva ordito. Ethienne afferma che qualcuno gli ha persino creduto». «Chi sa perché non ne sono sorpreso», osservò il sicario. «Doros intanto ha proposto la sua soluzione perché ogni conflitto abbia a cessare. In altre parole un matrimonio con la principessa Felicia. Ha domandato al Consiglio se è disposto a fare da mediatore per la sua richiesta. La faccenda è tutt'ora ai voti». Come se ci fossero dubbi su quale sarebbe stata la risposta di Llys, pensò la terrestre gettando un'ultima occhiata verso il fiume. D'altra parte c'era da scommetterci, era proprio un rifiuto che il nobile si aspettava, per far sì che fosse la principessa a mostrarsi dalla parte del torto. «Finché il Consiglio ha qualcosa su cui discutere ci darà meno noie», fu l'unico commento di Tristam. «Adesso però tocca a te dirci le tue novità», fece Gwyon. Aelin tornò ad avvicinarsi ai due. Quella parte della conversazione la interessava non poco. «A voler lasciare le grotte sono un po' più di quelli che avevamo previ-
sto», iniziò Tristam. «Ma non è detto che sia una notizia negativa. Perché ben pochi andranno a ingrossare le fila dell'esercito nemico, anche se adesso Cylair sembra sognare il contrario. E poi se la montagna è spopolata sarà più facile per i nuovi arrivati ambientarsi». I nuovi arrivati erano Evander e i suoi uomini, i più adatti a presidiare le caverne dei ladri, dato che avevano passato la maggior parte della loro esistenza tra monti e grotte, e fortezze simili a grotte. «È già stato deciso quando inizieranno ad arrivare?», domandò Gwyon. «Jade vuole esser certa prima che nessuno di quelli che possiedono un pugnale d'ombra sia contrario al progetto. O a distanza di tempo potrebbero esserci delle spiacevoli conseguenze, dice lei». «Questo è un dettaglio che non ci avete mai spiegato come si deve», osservò Aelin. «Sappiamo che i pugnali neri un simbolo importante per i ladri, ma non ci è stato detto nulla di più. Sono il riconoscimento di un'abilità superiore, oppure il segno di una specie di setta segreta, o qualcosa del genere?». «Se si trattasse di una setta segreta, come hai ipotizzato, dubito che potrei parlartene», ribatté Tristam. «Però non è così. C'è solo un circolo che si riunisce per stabilire chi è idoneo a conoscere la formula dei nostri pugnali, e per garantire la tutela di questo sapere nascosto. Se così non fosse, Jade avrebbe presentato la sua richiesta una volta per tutte a questa fantomatica setta, e avrebbe già una risposta. Chi porta i pugnali invece agisce per sé soltanto, ed è fiero del proprio individualismo. Non tutti gli uomini poi a conoscenza del segreto potreste chiamarli dei veri e propri fuori legge, ma certo si muovono sempre al confine della legalità». «Questo vale per l'intera società della montagna, mi sembra», osservò Gwyon. «Insomma, perché il sepolcreto sia autosufficiente devono esserci anche cuochi, pastori, tessitori, e tutto quello di cui può avere bisogno una piccola comunità montana». «Sì, è così». «Allora Jade deve parlare con quegli uomini uno per volta», insisté Aelin. «O comunque in gruppi molto piccoli», le confermò il sicario. «Non gradirebbero di venir ammassati in una stanza come un gregge... ma come mai tutto questo interessamento per la faccenda?». «Diciamo che mi piace cercare di capire come funzionano le cose, le istituzioni», fece la terrestre agitando una mano. «Istituzione e fuorilegge non sono due parole che legano tanto, però».
«Potrei dire che è proprio il genere di contrasto che stimola la mia immaginazione...». «Almeno fino a quando non è abbastanza vicino da colpirti di persona, immagino». «Sei stato tu a dirlo», commentò la giovane con un sorrisetto nervoso. «Così pare». «Comunque sia», disse infine Aelin, «dobbiamo aspettarci delle serie opposizioni da questi tizi armati di pugnale, o possiamo anche dire che la situazione è sotto controllo?». «Per il momento lo è», sospirò Tristam. «Cylair aveva vasti consensi tra i ladri di basso rango ma la sua presunzione di comandare su tutto e tutti lo ha reso inviso agli uomini delle lame d'ombra. È stato proprio reclutando una decina di questi che il colpo di stato nella montagna, se così mi è consentito chiamarlo, ha potuto compiersi. Ma Jade è cauta, forse troppo, e vuole che l'arrivo dei guerrieri di Evander abbia luogo su basi salde e sotto i migliori auspici». «Adesso, grazie alle truppe nel sepolcreto, sarà Llys a stringere il suo avversario, circondandolo a nord e a sud», aggiunse Gwyon. «Gli uomini di Evander però vorranno un posto dove restare, e bisognerà pur concederglielo». «Il rifugio della montagna sarebbe un buon luogo», osservò la terrestre pensierosa. «Oltretutto la mentalità della tribù, per la quale i vincoli interni sono sacri ma tutto è concesso nei confronti del nemico, dovrebbe essere più assimilabile a quella della comunità dei ladri...». «Verrebbe da chiederti cosa ne sai tu della comunità dei ladri», disse Tristam con un sorriso tagliente, «ma eviterò di farlo, dal momento che c'è chi è del tuo stesso parere, al sepolcreto. La verità è che Jade è troppo sentimentale, troppo affezionata a quell'ammasso di gallerie e di cunicoli, anche se ha sempre detto di volersene staccare. E l'idea di uno stato cuscinetto, o comunque di un feudo con a capo la città della montagna che tanto era piaciuta a suo fratello, adesso ronza nella testa anche a lei, potete scommetterci». «Solo che ora non è irrealizzabile», obbiettò Aelin, «o mi sbaglio?». «Per i fuorilegge la montagna era un porto franco. Mi chiedo cosa diventerà adesso». «Se conosco lo Stratega», commentò Gwyon, «lui non chiuderà la porta a nessuno. Anche se poi, forse, tenterà di arruolare i nuovi arrivati». «Il capo di un esercito deve sempre cercare nuove leve. Tanto più che
negli anni a venire continueremo a fare i conti con lo spettro della guerra», disse la spia con un sorriso tetro, e non volle aggiungere altro. Il sole era ormai un disco pallido e opaco, ma il drago verde protendeva le ali per catturare gli ultimi raggi di luce. Le ombre fra gli alberi al margine orientale della radura si erano fatte più fitte, e nel cielo comparivano le prime stelle. Colonne simili a dita spezzate si levavano dall'erba bagnata, facendo mostra di un mosaico incerto di quarzo e terriccio rossastro. C'era silenzio. Il pigro mormorio mentale del drago era l'unica voce, e i due cavalieri di guardia si scambiarono un'occhiata distratta. Custodivano l'entrata della valle, ma tutto, in quel momento, sembrava troppo tranquillo. «Nei castelli hanno acceso le luci», notò Rhory aguzzando lo sguardo. Jordan annuì con fare un po' assente. «Stai pensando a qualcosa in particolare?», gli domandò il cavaliere prescelto. «Se ci trovassimo nei pressi del castello di Christofer, o in un altro forte dove hanno già fatto l'abitudine ai draghi, magari non avremmo bisogno di montare la guardia al nulla, ecco che penso. Sarebbe bastata Favilla da sola a un simile compito. Anche se è vero che la mente umana reagisce a sollecitazioni e sa cogliere indizi differenti, quindi forse ci troveremmo qui lo stesso». «Io lo so che cosa ti rode». «Sì, ma preferirei parlar d'altro», disse Jordan scuotendo la testa. «Ogni suggerimento che non riguardi guerre e intrighi, e pericoli immediati o remoti, è bene accetto». «Io passo la mano». Rhory si voltò verso il drago. «Se hai tu qualcosa da aggiungere, Favilla...». Il drago storse appena il collo, in un gesto curioso. Quand'è che Tracciadisegni e la sua compagna faranno i cuccioli? Sono molto grandi le vostre uova? I due ragazzi strabuzzarono gli occhi. «Da dove ti è venuta una simile idea?», le chiese Rhory. Ho preso io l'uomo con il pugnale dalla montagna cava... I pensieri del mago e della donna erano molto... molto... «Non sono sicuro di volerlo sapere, sai?», la fermò Jordan alzandosi. «E poi se voi draghi vi mettete a fare simili illazioni nessuno è al sicuro». Ilgiovane scosse la testa. Era da poco che riusciva a sentire i draghi ver-
di, e le ipotesi dell'Elaunoi su pericolo e telepatia dovevano avere un fondo di verità. Ma quella era l'ultima cosa a cui desiderava pensare in quel momento... D'improvviso il cavaliere si interruppe: dei rumori provenivano dalla boscaglia. Una sagoma comparve tra i profili neri degli alberi. Era ammantata di verde. «Chi sei? Vieni avanti, non ci fai paura!», esclamò Jordan. «Lo sai chi sono», disse l'altra con voce suadente. «O non sentiresti il bisogno di ribadire il tuo coraggio di fronte a una donna sola e senz'armi, cavaliere». Con un gesto serpentino si slacciò il mantello, lasciandolo cadere a terra, e venne avanti, alla luce delle fiamme. I lunghi capelli rosso oro scendevano quasi fino ai piedi, la veste di un pallido azzurro era trattenuta solo da una catena a forma di vipera che le cingeva il seno. E uno strano bagliore malsano sembrava aleggiare sull'intera sua figura. Il drago verde tornò a schiudere le ali, in un gesto di vaga minaccia. Ancora un passo e anche il volto della donna fu illuminato. Teneva le palpebre chiuse. Una calma inquietante pervadeva i lineamenti del viso, perfetti nel loro pallore di cera. La donna sorrideva, in un silenzio carico di segreti inespressi. «Vuoi colpirmi, cavaliere prescelto?», sussurrò con voce dolcissima. «O forse sarai tu a farlo, che non hai esitato a parlarmi per primo, ma adesso invece mi guardi e taci?». «Deirdre», mormorò Jordan con voce soffocata. Era un altro, il nome che gli era salito alle labbra, ma non riusciva a pronunciarlo. «Discordia», bisbigliò la donna per lui, e la piega delle labbra aveva la sfumatura di una follia maligna. Poi i suoi occhi si aprirono, erano fiamme verdi e senza fondo, che nulla avevano d'umano. «Cosa vuoi da noi?», le chiese Rhory. «Mettervi in guardia», rise la donna, posseduta dallo spirito della spada verde. Si avvicinò ancora. E il suo viso sembrò subire una nuova metamorfosi. L'erede di Thule deglutì mentre vedeva il volto dell'altra farsi più scarno e tagliente: nella metà sinistra, un intrico di venature verdi lo invadeva, dando alla donna un aspetto misterioso e terribile. «Adesso basta!», esclamò il cavaliere dai capelli neri. «Conosciamo i tuoi trucchi e già una volta li abbiamo sconfitti, vedi dunque di riservarli per chi è più incauto di noi!».
«Io ho fatto solo ciò che era necessario a difendermi», rispose l'altra, e il tono calmo della sua voce contrastava con il lampo che le attraversò gli occhi. «In più di un'occasione avrei potuto uccidere voi e i vostri compagni, e invece siete ancora vivi. Ma l'unico ringraziamento che ho ricevuto è stato quello di venire sepolta, priva di respiro, in una tenebra fatta di ferro e incantesimi crudeli come lame». «Conosciamo anche le tue menzogne, e se sei giunta sin qui solo per intessere parole di ragnatela stai sprecando il tuo tempo». «Le mie menzogne hanno il sapore della verità, altrimenti non sarebbero così temibili. Ma non voglio proclamare una falsa innocenza, non è questo il mio scopo». La donna sollevò la mano destra: le sue dita splendevano di metallo verde. «Voi potete dire che Discordia è il male, e forse non siete lontani dal vero. Io però sono un male che è germogliato e cresciuto su questa terra; di essa ormai faccio parte, che lo vogliate o meno. Siete stati pronti a riconoscermi come creatura del male, sì. Ma adesso che un male più grande è in mezzo a voi sembrate diventati ciechi! E io devo mettervi in guardia, perché il pericolo sa nascondersi dietro quiete sembianze, ma minaccia noi tutti». «Parli dell'Elaunoi?», domandò Jordan bruscamente. «Se io sono il male, diffidate del popolo che ha fatto di me ciò che sono!», esclamò la donna avvicinandosi di un altro passo ancora. L'erede di Thule si ritrasse. Quasi invidiò la calma con cui Rhory sembrava aver accolto l'apparizione. «Il nostro ospite ci nasconde molto e noi ne siamo consapevoli», disse il cavaliere prescelto. «Ma se un simile avvertimento è tutto quello che dovevi riferirci, temo che il tuo viaggio sia stato inutile, Verde Signora». «Se le mie parole sono veleno, chiedi alla mia silenziosa sorella, giovane dal cuore puro. Chiedi a lei perché maledirò in eterno il nome degli Elaunoi, e la loro falsa giustizia. Chiediglielo, e pur a malincuore dovrà risponderti». «Lo faremo», promise Rhory con un filo di voce. «I tuoi moniti saranno tenuti da conto», aggiunse Jordan. «Tu però non ci hai detto ancora cosa speri di guadagnare da tutto questo». «Non sai, cavaliere, che per me nulla è più dolce di seminare il sospetto? E ho ottenuto più di quanto tu non possa pensare. Vi lascerò presto, già sento l'animo della mia ospite che preme per svegliarsi, ma io mi allontano vittoriosa». «La tua ospite?», ripeté Rhory. «Ti riferisci a Deirdre?».
«Se l'assassina di Isengrin sapesse della nostra conversazione sarebbe invasa dal terrore. Penserebbe che cerco nuovi alleati, che dopo essermi insinuata nella sua mente e nel suo corpo ho deciso di tradirla, così come ha fatto lei con il suo signore e amante!». Un sorriso dolce si disegnò sulle labbra di Discordia, in contrasto con l'espressione folle degli occhi. «La mercenaria sa che non può più vivere senza di me... le sono entrata nel sangue, le ho dato poteri che non avrebbe nemmeno osato immaginare, ma tutto questo ha un suo prezzo, e il contratto non si può rescindere». «Deirdre ci perdonerà se la sua sorte non ci sta troppo a cuore», disse Jordan con una smorfia. «In fin dei conti, se ben ricordo, era pronta quanto te a lasciarci sprofondare nella lava». «Io potrei giustificarmi dicendo che conoscevo i poteri del vostro incantatore: sapevo che ve la sareste cavata. Lei vi voleva proprio morti», ribatté Discordia, e sembrava che la cosa la divertisse. «Non cerchi nuovi alleati, allora», osservò Jordan in tono guardingo. «Diciamo che sono venuta qui per riequilibrare le sorti del gioco. Altrimenti lo scontro rischiava di perdere ogni attrattiva». «Sei pazza!», quasi gridò l'altro. «Sei semplicemente pazza!». «È così», sussurrò la donna, e gli strinse le dita attorno al polso. Era la sua mano sinistra, pallida, fragile in apparenza, del tutto umana. «Sei pazza...», ripeté Jordan. «Ti confiderò un segreto, cavaliere di Thule. La mia follia ha sfidato i secoli, mentre le vostre vite si consumeranno come cera. Non vi permetterò di distruggermi». Un soffio di vento improvviso giunse a spegnere il fuoco. Il grido dissonante del drago si levò nell'aria. «Non cerco alleati stanotte», ribadì lo spettro, dalla bocca di Deirdre. «Ma presto sarete voi a cercarmi, poiché avrete bisogno di me per completare il cerchio di spade. E io non mi farò prendere, no, io non soccomberò senza lottare». «La cosa dovrebbe sorprenderci?», sbottò Jordan. La donna si allontanò di scatto, la sua figura fu avvolta da una fiamma verde. «Gli Elaunoi non devono avere questa terra!», urlò, come invasata. «E tu più di ogni altro, Jordan di Thule, dovrai ricordare le mie parole! Perché loro vorranno rubarti l'eredità, il nome, la sposa, e quando quest'ultima ti verrà sottratta ricorderai chi ti aveva avvertito!».
«La direzione dovrebbe essere questa, ma se hanno acceso un fuoco da campo è troppo lontano per vederlo», disse Aelin, e si appoggiò alla colonna di foglie scolpite che segnava il confine tra due bifore. La principessa Flora sedeva lì accanto, scrutava la campagna illuminata dalla notte. «Loro vedranno il castello. E Jordan sa che sei a una delle finestre». La terrestre fece un sorriso. «È strano essere di nuovo in questo luogo», sospirò la principessa. «Sono nata qui, era la mia casa, però la ricordavo più grande. Sembra banale a dirlo, ma chissà perché le cose banali non sono mai fuori luogo. Forse perché alla gente non piace essere sorpresa». «Sorprendere è più divertente, in effetti», disse Aelin con una piccola smorfia, «ma non mi dispiace nemmeno essere sorpresa, se questo non vuol dire fare la figura della stupida, e posso cavarmela in una risata». «Ricordi le storie che ci hai raccontato la prima volta che sei venuta al castello?», chiese Flora. Aelin non fece a tempo a risponderle. Ci fu come un ronzio meccanico e la terrestre si voltò di scatto. Sidhe le fissava entrambe con un sorriso enorme. «Dame medioevali alle finestre, l'immagine era troppo bella perché non la immortalassi con il mio memorizzatore». «Forse l'effetto complessivo rischia di essere un tantino oleografico», commentò Aelin facendo un sorrisetto nervoso, «ma se tu sei contento...». «Io al contrario vi trovavo quasi inquietanti. Non è di questo però che volevo parlarti». «Di cosa allora?», sussurrò la giovane tormentando tra le dita una delle lunghe ciocche color mogano. Sidhe gettò un'occhiata verso la principessa. Era evidente che non gradiva la sua presenza. La terrestre però scosse la testa: «Ti prego di restare, Flora». «Io non credo...», iniziò a dire l'Elaunoi, ma Aelin fu pronta a interromperlo: «Te l'ho già detto, elfo, quello che so io sanno gli altri». «Sta bene, ma non mi attarderò a riformulare le mie spiegazioni secondo le conoscenze degli autoctoni, se la tua amica non dovesse comprendere». «Sarà sufficiente che tu non complichi volutamente il racconto. O rischi che nemmeno io ci capisca qualcosa». L'Elaunoi socchiuse gli occhi, e scosse appena il capo. «Alla fine ce l'ho fatta», annunciò. «Sono riuscito a mettermi in contatto con i miei capi, e
loro hanno forzato il sistema di protezione attorno ai dati che avevo raccolto». «Vai avanti». «Voi l'avevate intuito, colui che chiamate Signore del Tempo era uno della mia stirpe. Fu lui a trovare questo mondo e lo volle per sé, perché, sono parole sue, le condizioni fisiche del pianeta e la misteriosa fauna locale si prestavano a molteplici esperimenti». «Fauna locale?», ripeté Aelin. «Si riferisce ai draghi?». «Così crediamo. Abbiamo controllato i registri, e a una prima occhiata erano piuttosto parchi di informazioni. Lord Fenrir, così si chiamava, era conosciuto come un luminare della scienza e ottenne facilmente di avere un margine d'iniziativa piuttosto ampio. Trapiantare porzioni di civiltà umana su mondi disabitati, favorire la loro evoluzione e via dicendo non rientra nella nostra prassi abituale, per tutta una serie di motivi che è inutile stare a elencare, adesso». «Giocare a fare i fabbricanti di universi è pericoloso, non è vero?», sibilò la giovane con uno strano sguardo. Sidhe scrollò appena le spalle: «Fenrir non era tipo da lasciarsi prendere da manie di grandezza, al di là dei titoli altisonanti che gli uomini possono avergli attribuito. Non fu questa la causa dell'incidente». L'incidente... certo, un incidente non poteva mancare in quel racconto, pensò la terrestre socchiudendo gli occhi. «C'era una giovane. Fenrir era il suo padrino. Non era l'unica ospite che avesse invitato a vedere il suo regno, ma lei si mostrò particolarmente legata a questo mondo di boschi e castelli. E poi... la fanciulla aveva l'equivalente dei vostri sedici anni, era ancora sotto la tutela della famiglia quando annunziò di essersi innamorata di uno degli abitanti del luogo. Il risultato fu quasi uno scandalo». Ma uomini ed Elaunoi possono congiungersi in un'unione fertile? Aelin si guardò dal pronunciare la domanda. Temeva che la risposta si sarebbe tinta di risvolti troppo inquietanti. E avrebbe dovuto aspettare. «Forse dovresti leggere le esatte parole di Fenrir». L'elfo armeggiò per qualche secondo con il congegno che portava al polso, e nell'aria comparve l'immagine di una pagina di pergamena. «È scritto in italiano», notò Aelin. «La tua lingua doveva piacere molto a Fenrir, non per nulla l'ha scelta per il suo piccolo mondo. E queste parole lui le ha tracciate per gli uomini, non per gli Elaunoi».
La terrestre sbatté le palpebre. Iniziò a leggere sottovoce: «Mi ero recato a casa della mia pupilla, per suggerirle la pazienza, l'attesa. Il tempo del nostro piccolo mondo può essere dilatato all'infinito, fino a fare di un istante una vita intera, e una volta raggiunta la maggiore età lei avrebbe potuto scegliere da sola cosa fare della sua esistenza. Ma non ho trovato il benvenuto che mi aspettavo. Quell'ingenua fanciulla si era lasciata sfuggire qualcosa di troppo. Il suo segreto non era più tale. I familiari erano furibondi: ora minacciavano di diseredare la ragazza, ora di accusarmi pubblicamente per averla traviata. Fino a pochi giorni addietro avevano solo parole di lode per me e la Rosa dei Venti. Ma adesso tutto è cambiato». «Rosa dei Venti è il nome con cui Fenrir ha battezzato questo mondo, oltre che un certo globo di cristallo», spiegò Sidhe in tono neutro. Fu una questione di attimi, e un'altra pagina comparve al posto della prima. «Sono rimasto disgustato da quella visita», riprese Aelin. «Gli uomini sono poco più che bestie, ecco il responso dei saggi Elaunoi; sono creature curiose ma prive d'anima, nella cui mente logica e sentimenti si mescolano fino a formare un amalgama informe, e in definitiva non possiedono né l'una né gli altri. Contava ben poco al riguardo la mia capacità di giudizio, perché stando in mezzo agli esseri umani avevo finito con l'imbarbarirmi. Quando la ragazza nella notte è fuggita di casa, e mi ha raggiunto implorando che la aiutassi, la mia risposta è stata molto diversa da quella che le avrei dato al mattino. Ho sempre camminato al limite della legge, sfruttando a mio vantaggio i margini d'incertezza e le zone d'ombra, senza mai infrangere veramente le regole, destreggiandomi come un funambolo equilibrista. Ero fiero di questa mia abilità, ma era arrivato il momento in cui stavo per spingermi davvero oltre il limite, e non m'importava. Ho nascosto la ragazza nel mio mondo. Dai primi esperimenti che avevo compiuto sulla Rosa dei Venti e mai divulgato, avevo scoperto un piccolo trucco in grado di rendere del tutto inutili i nostri avanzatissimi congegni di ricerca, gli occhi meccanici sempre puntati sui pianeti che siamo intenti a studiare. Così ho nascosto la mia pupilla. Uno schermo foggiato sulla sua persona l'avrebbe resa invisibile ai nostri radar e ai nostri monitor. Avrebbe vissuto la propria vita secondo le sue scelte. Tutto sembrava perfetto, e invece non lo era». Aelin chiuse gli occhi, mentre anche la seconda pagina svaniva lentamente nell'aria.
«Perché anche questa mi sembra, al di là di tutte le parole strane, un'altra storia d'amore destinata a una fine orribile?», si chiese Flora. «È come se fosse questo castello a richiamarle». «Conosco il racconto», disse Aelin scuotendo la testa. «Per dieci anni la giovane è vissuta con il suo sposo ed era felice, credo. Spero. Hanno avuto dei figli. Poi però lei è morta giovane, il suo padrino non ha fatto in tempo a salvarla. Non è vero Sidhe?». «Fenrir aveva portato in avanti l'orologio del mondo. Non voleva che Psiche, la sua pupilla, vivesse un'esistenza clandestina, ma il giorno in cui avesse avuto una vera famiglia su questo mondo nessuno avrebbe potuto più strapparla via dai suoi cari, pensava». «Nessuno tranne la morte», sussurrò la principessa. E Aelin tornò ad annuire: «Conoscevo già questa parte della storia. Ma ho come il sospetto che la fine non sia ancora giunta». «Lord Fenrir era affranto per la morte della fanciulla», raccontò Sidhe. «Si sentiva responsabile e non riusciva a darsi pace. Decise allora di compiere qualcosa che è assolutamente proibito. Trasferì la memoria della giovane al di fuori del suo corpo, donandole una vita oltre la morte». «Fece di lei uno spettro?», chiese Flora sorpresa. «E perché sarebbe proibito, poi?», si affrettò a domandare Aelin. «Hai mai letto Frankenstein?», disse l'altro scuotendo la testa. «Le conseguenze di un simile gesto non sono prevedibili, soprattutto quando il procedimento viene eseguito con strumenti inadeguati e a decesso già avvenuto. Noi non siamo un puro flusso di dati, e le variabili in gioco sono troppe da riportare. Creiamo intelligenze artificiali sempre più complicate, ma il processo contrario, che pure potrebbe dare l'immortalità agli esseri viventi, finora si è dimostrato una strada senza uscita. Tuttavia non si può dire che Lord Fenrir fosse uno sprovveduto, e quasi riuscì nel suo intento... Quasi. Psiche era impazzita. Per qualche tempo lo scienziato non volle vedere la realtà, ma quando lo spirito della giovane si fece chiamare Dea dai popoli della Rosa, e prese a parlare di una guerra contro gli Elaunoi, Fenrir non ebbe più scelta. Doveva fermarla». «Così l'ha rinchiusa in una spada», fece Aelin, un po' imbronciata. «Hai saltato un passaggio, però sei sulla strada giusta». «Mi sarei risparmiata volentieri l'accenno alla morale di Frankestein, dato che l'ho sempre detestata. Per il resto non mi sembra ci voglia particolare intuito». «Credo che dovremo attendere un'altra occasione per parlare dell'etica e
della scienza», osservò Sidhe. «E ti sentirai meno contrariata se dico che non sto dando una valutazione morale, ma commentavo solo le difficoltà legate a una scienza troppo difficile e ambigua?». L'elfo serrò appena le labbra e non le diede tempo di rispondere. «Lord Fenrir a ogni modo creò un programma correttivo. Una creatura elementare, che risponde a pochi e semplici imperativi, ma in grado di smorzare, per così dire, gli sbalzi d'umore dello spettro verde. Avete conosciuto anche lei, adesso le date il nome di Solitudine». «Cosa accadde dopo?», chiese Aelin. «Fenrir non aveva più motivi per restare in questo mondo. Era un luogo che gli dava solo angoscia, e dopo avere sconfitto la Dea di Smeraldo anche lui si era guadagnato il titolo di divinità presso le genti della Rosa». «Ma Psiche adesso non era guarita dalla follia?», domandò Flora incerta. «Già questo non era un conforto?». «L'entità che nasceva dall'unione di Solitudine e Discordia racchiudeva in sé le leggi dell'equilibrio, ma aveva ormai ben poco della fanciulla che era morta. La sua sola vista era sofferenza per Lord Fenrir». «Per questo è tornato a dividere le spade?», s'informò la terrestre. «Per questo e perché non intendeva lasciare dietro di sé uno spirito che fosse ancora una volta oggetto di adorazione» annuì l'elfo. «Lord Fenrir non voleva divinità per la Rosa dei Venti, se non quelle che gli uomini potevano inventarsi da soli. Racchiuse Eris, così la chiamava, in una spada, per limitare i suoi poteri. Poi creò altre cinque lame, stabilendo che soltanto quando fossero state riunite, i segreti degli Elaunoi si sarebbero mostrati agli esseri umani. Ma questo già lo sapete». «Ciò che non sappiamo è perché l'ha fatto». «Discordia aveva già cominciato a rivelare i segreti dei varchi. Lui la privò di queste conoscenze e distrusse i manufatti e i libri che lo spirito verde aveva dato ai suoi fedeli. O almeno così credeva. E anche se Fenrir aveva domato Discordia, le parole di lei erano scese più in profondità di quanto volesse. Eris diceva che la superbia degli Elaunoi era quella di chi non aveva mai combattuto un nemico suo pari, e che un giorno il nostro popolo avrebbe pagato a caro prezzo la sua vanagloria. Eris diceva che i portali dovevano essere di chi ha il coraggio di usarli, e non di chi per primo li aveva scoperti. Diceva che il mare si affronta tuffandosi negli abissi, non camminando lungo le sponde. E privi della scienza dei varchi, sosteneva, gli uomini della Rosa dei Venti presto o tardi sarebbero tornati a essere schiavi del popolo del cielo. Spero intendesse in senso metaforico»,
precisò Sidhe roteando gli occhi, «perché la schiavitù è vietata dalle nostre leggi da tempo immemorabile». «Ma c'era del vero nelle sue parole», disse Aelin, «e Fenrir decise di lasciare il suo sapere su questo mondo. Per quando gli uomini ne avessero avuto bisogno, o più semplicemente per il tempo in cui fosse stato raggiunto il livello di civiltà più adeguata». La ragazza avanzò di qualche passo, e aveva una strana luce nello sguardo. «Ordinò a Solitudine di celarsi», riprese, «perché se la scienza dei varchi fosse stata riscoperta troppo presto, gli Elaunoi ci avrebbero perseguitato. Ma sapeva che Discordia avrebbe cercato la sorella al momento opportuno, forse anche prima. E ha diviso le spade tra i popoli degli uomini come si spargono i semi nel vento, in attesa che germoglino. Poi ha chiuso dietro di sé la porta di questo mondo, e ha fatto in modo che il tempo scorresse velocissimo, perché i frutti maturassero più in fretta. Solo che ancora una volta c'è stato un contrattempo, e i varchi si sono aperti prima del dovuto». «Tutto giusto», annuì Sidhe osservandola con attenzione. «Hai detto persino che Fenrir aveva accelerato il tempo di questo universo. Anche se credo l'abbia fatto perché i mondi a tempo lento sono molto più facili da individuare, e non per la fretta di conoscere l'esito delle proprie azioni. Oltretutto lui non è nemmeno rimasto a lungo nel nostro mondo. Si è cercato un altro pianeta, probabilmente deserto, si ci è chiuso dentro, e nessuno a tutt'ora l'ha più trovato». Vuol dire che non rischiamo una visita del creatore?, pensò la giovane socchiudendo gli occhi. Peccato che rimanga la corte degli angeli a guardarci dall'alto delle stelle. «Quanto al vostro Isengrin devo dire che è davvero sbalorditivo», continuò Sidhe, inconsapevole in apparenza degli sguardi truci che Aelin continuava a lanciargli. «Apriva varchi su mondi sconosciuti senza calcoli matematici né voli del pensiero, affidandosi soltanto alla sorte. Se fossi arrivato prima in questo mondo...». «Credevo non poteste interferire», gli rammentò la terrestre con un sorrisetto acido. L'elfo la guardò: «Abbiamo parlato anche troppo del passato, credo». «Vuol dire che sparisci un'altra volta in una nuvoletta di fumo?». «Sì, ma non subito. Vedi, c'è un problema». «Un problema?», ripeté Aelin smarrita. «Secondo le nostre sigle convenzionali questo è un universo a velocità diecimila, mentre il tuo pianeta è bloccato sul cento, per il millennio in
corso. Tu lo sai cosa succede, vero, se aggioghi allo stesso carro un razzo e una tartaruga». La giovane impallidì. «Il varco che ha causato il mio arrivo esiste ancora». «Esiste. E abbiamo bisogno di te per trovarlo». XXXII LA PORTA NON SI CHIUDE Palen richiuse la porta alle sue spalle. La sala era silenziosa, avvolta nell'odore intenso dei colori a olio e dei solventi. Pochi erano giunti fin lì, pochi sapevano che un patriarca nelle sale di Vultur si dilettava di pittura. Anche se i suoi quadri erano noti in tutto il regno. C'era una tela incompleta al cavalletto, il volto di una fanciulla dalle chiome evanescenti che si perdevano nella tenebra. Ali di metallo facevano da corona alla figura sospesa nel vuoto e lei stringeva un libro tra le mani pallide. Le nubi azzurre e violette dello sfondo erano volti urlanti, e il loro sangue era pioggia che ricadeva in rivoli stregati, in un lago da cui sbocciavano fiori dalle forme inconsuete. Il mago si trovò a pensare che forse quel quadro sarebbe rimasto nascosto, non era per gli occhi dei fedeli, ma solo per chi l'aveva dipinto. Era un'altra la tela che Ethienne gli aveva chiesto di prendere, un'icona così piccola che stava quasi in una mano, l'immagine di un santo in preghiera, dall'aspetto solenne e ieratico. «Chissà dove può essere...». Il mago si guardò intorno. Poi sentì un rumore di passi che proveniva dal corridoio deserto. La maniglia della porta si abbassò lentamente, delle voci avevano invaso l'anticamera dello studio. Ma nessun altro sarebbe dovuto giungere sin lì... Quasi per istinto, Palen pronunciò il sortilegio: un istante, e divenne invisibile. Una donna entrò nella stanza. Aveva lunghi capelli rossi, e una veste azzurra che sembrava gonfia di vento. «Il drago del cavaliere ci ha inseguite», rise la sconosciuta, «eravamo quasi alle soglie di Vultur quando è dovuto tornare indietro, ma altre ali di metallo si sono messe sulla sua strada, e noi siamo scivolate, non viste, verso la nostra meta». Dopo si accostò allo specchio, sfiorando con un gesto incerto il volto
pallido riflesso nell'immagine. «Sei imprudente, Discordia... Sei sicura che nessuno ti abbia visto? E questo ti sembra davvero il posto più adatto per lo scopo della nostra visita?». Il mago strabuzzò gli occhi. La donna parlava e rispondeva a se stessa con la medesima voce, eppure sembrava che due diversi spiriti abitassero nel suo corpo. Adesso sapeva chi era, anche se lui non aveva mai incontrato né Deirdre né la spada verde. Sentì come un brivido scendergli lungo la schiena: ora le aveva davanti entrambe, ma fuse nella stessa carne e nello stesso corpo. «Ho attraversato giardini di lapidi per giungere sino a questo luogo, ma nessuno ci ha visto, non temere. E le tue paure sono ingiustificate, donna mortale, perché non c'è nulla che io proteggerei più della mia carne e del mio stesso sangue». Deirdre chiuse gli occhi, come se fosse improvvisamente stanca. Poi si avvicinò a un grande candelabro a forma di albero. Ciascun braccio era un ramo sul quale le candele bruciavano in una luce fievole e stanca. «Presto arriveranno... Ecco, sono qui». La guerriera si voltò verso la porta. «Venite pure avanti, il luogo è sicuro, e voi siete i benvenuti». Entrarono due uomini, e il mago non tardò a riconoscere la figura imponente di Re Khirsten, mentre dietro di lui veniva, con passo esitante, il nobile Doros di Levant. Deirdre li attendeva a braccia conserte. «Abbiamo ricevuto il tuo messaggio, e siamo venuti», disse il sovrano di Tramontana guardandosi intorno. «Ma certo è un luogo inconsueto quello che hai scelto per il nostro convegno». «Ne sono consapevole», rispose l'altra con un sorriso. «I vostri alloggi però, erano senza ombra di dubbio gremiti di spie. Nessuno, invece, adopera queste sale, lo vedete? Nemmeno il pittore a cui sono state assegnate verrà a interromperci. Non c'è anima viva che possa ascoltarci». Ethienne senza dubbio non sarebbe venuto, dato che era nuovamente partito per la valle della spada. Eppure Palen, immobile accanto al quadro, fu certo che per un istante gli occhi verdi di Discordia si fossero poggiati su di lui. «Cosa devi dirci?», chiese Doros, in tono nervoso. «Che il tempo delle parole è finito», disse Deirdre con un sorriso. «Le affascinanti, estenuate ed esangui parole di Vultur, scandite dal volere del-
le tuniche rosse, vi hanno fatto dimenticare che siete uomini d'arme, e non valletti imbelli della chiesa. Adesso è giunto il momento del risveglio». «Ma siamo a un passo dall'ottenere l'appoggio che chiedevamo!», esclamò il nobile di Levant. «E così facendo regaliamo soltanto tempo prezioso ai nostri avversari». «Le mie truppe sono pronte ad attaccare da tempo», osservò Khirsten. «Ma se lo facciamo adesso Aquilon si affretterà a scendere in difesa della falsa principessa, dobbiamo anche mettere questo in conto». «Io non ho mai parlato di un attacco a Levant», disse la donna con un sogghigno. «Tutti si attendono una simile mossa, e gli occhi dei nostri nemici osservano avidi le frontiere, aspettando solo un nostro errore. Noi però possiamo conquistare tutta la riva occidentale del Fiume dei Venti prima ancora che loro abbiano avuto modo di levare le armi». I due uomini fissarono l'altra come sgomenti. Le terre a ovest del Fiume dei Venti appartenevano ad Aquilon. «Di cosa avete paura?», chiese Deirdre in un vago gesto di derisione. «Se le sorti della guerra dovessero volgere al peggio potrete sempre lasciar cadere ogni responsabilità sul crudele influsso di Discordia. Non sarete nemmeno i primi a utilizzare una simile scusa». «Ma... ma...», provò a protestare Doros. «Io non ho paura», disse Khirsten come se questo ponesse fine a ogni dubbio. «E non ho bisogno di nascondermi dietro una leggenda inventata per seminare il dubbio e l'incertezza». «Sono lieta di sentirvelo dire, maestà», disse Deirdre accennando un inchino. «Perché in questo momento i miei uomini sono già in marcia, e credo che anche le vostre truppe stiano facendo lo stesso». Lo sguardo dell'uomo fu attraversato da un bagliore metallico. «Io so come convincere la gente, credetemi», disse la donna con un sorriso dolce. «È la mia più grande arte». «Dovremo ringraziarti per esserti data pena di avvertirci allora», sibilò il re. «Certamente, dovete». Prima ancora che il mago potesse accorgersene i due uomini avevano lasciato la sala. Solo la donna si attardava. Giocava, saggiando con la punta delle dita la fiamma delle candele. «Cosa farò dell'uccellino rimasto chiuso nella gabbia...», la udì canticchiare, «dovrò lasciare che voli via, o stringere un po' le dita, sino a quando soffocherà?».
«Tu hai sempre saputo che ero qui», disse Palen mordendosi le labbra, e facendosi avanti. «Sì, lo sapevo», ammise lei voltandosi, mentre il suo sorriso si faceva più largo. «Ma anche se adesso corri ad avvertire i tuoi amici è troppo tardi comunque. Le truppe che stavate trasferendo nella montagna dovevano permettervi di accerchiare i nostri uomini a Levant, e invece finiranno loro col trovarsi circondate e isolate. Non sarà lasciando trascorrere invano il tempo che questa guerra vedrà la sua conclusione». «Che stai dicendo?». «Vi sto sfidando a rispondere ai miei colpi, non lo capisci? E anche per tale ragione che ti lascio in vita, giovane mago». «Io...». Palen chiuse gli occhi. «Io non capisco, perché fai tutto questo?». «Per mantenere una promessa che ho fatto a me stessa. E perché io so». «Tu sai». La donna chiuse gli occhi, affondò la mano nel quadro, che l'accolse come una limpida pozza. Quando tirò indietro le dita sembravano davvero bagnate, e stringevano il gambo di un papavero rosso. «I petali di questo fiore appassiscono nel giro di poche ore, e non è solo perché cresce in mezzo al grano che la sua corolla è tra i simboli di una Dea», sussurrò Discordia. «Io conosco la morte, e so che essa scende nelle vostre vite inascoltata. Voi non capite ancora che quella che chiamate vita è un nulla, e lasciate scorrere i giorni come sabbia, fino a che non rimane niente nelle vostre mani. La vita è l'istante che si condensa, la vita è il pericolo, la caducità del momento. Io vi ho dato tutto questo. E mi chiamate crudele. Ma la vita è crudele, non potrebbe non esserlo. Ha lasciato il nome di pietosa alla sua sorella armata di falce. Questa guerra avrà luogo perché io lo voglio. Potrebbe esserci di più... ma non è affatto necessario, in realtà, e vi ho detto abbastanza per trovare la strada. Se non ne sarete capaci, allora è davvero destino che questo mondo soccomba». Palen sbatté le palpebre. Sollevò una mano come per fermare la figura che indietreggiava. Ma Deirdre era già svanita. Discordia era sparita in una fiamma verde. Un drago bianco si era levato in cielo. Jordan lo aveva inseguito, mentre il grido di Favilla e lo sferzare del vento si confondevano nella stessa voce. Lo aveva inseguito. Poi uno stormo di minuscoli draghi verdi gli si era parato davanti.
Quindi l'urlo di Aelin che squarciava la sua mente. Si era precipitato al castello, solo per scoprire ciò che già sapeva. Gli Elaunoi avevano rubato la sua sposa. La profezia di Discordia si era avverata. Nel giro di poche ore, tutti i suoi compagni si erano riuniti lì. Ma lei non sarebbe tornata: questa era l'unica cosa che contava. Aveva promesso di difenderla. Aveva promesso che nessuno le avrebbe fatto del male mentre lui era assente. E aveva fallito. Di nuovo. «Gli Elaunoi non le torceranno un capello. Loro hanno sempre mostrato maggiore interesse per lei che per tutti noi». «Certo, Sethrian. E magari le hanno preparato anche una bella gabbietta con il cartellino scrittrice in lettere miniate». Detto questo Jordan tornava a sprofondare nel silenzio. I giorni passavano, Aelin non era più tornata. Avrebbero cercato Discordia, il cerchio delle spade doveva essere chiuso. O sarebbero rimasti del tutto inermi di fronte all'arbitrio degli Elaunoi? Lui sognava in realtà di tuffarsi nel loro mondo, di sottrarre una volta per tutte la propria donna alle loro mani avide. Ma era una speranza troppo sottile per aggrapparvisi. Dovevano trovare Discordia. O meglio: il punto non era trovarla, la spada verde faceva mostra di sé a capo delle schiere nemiche che scendevano giù dai Monti di Vetro. Non sarebbe stata impresa da poco, tuttavia, strapparla dalle mani e dalla mente di Deirdre. E adesso sembrava anche che la Verde Signora fosse una sua antenata, pensò Jordan. Ma questo rientrava nel novero delle cose senza importanza. Aelin non faceva ritorno. Era al centro di un reticolo di vetro e metallo, la struttura fredda e geometrica le era come cresciuta attorno. Per un istante tutto sembrò privo di senso. «Dove siamo?», chiese Aelin passandosi una mano tra i capelli. «Benvenuta al Palazzo dei Mondi», fu la risposta di Sidhe. La giovane tornò a guardarsi intorno. Si trovavano in un grande atrio, poco distanti da una fonte di cristallo rosso. La costruzione si levava verso il cielo, nel costante ripetersi di arcate di metallo sovrapposte, scale e ringhiere di vetro opaco. «È il tuo universo questo?», domandò la giovane. Ma non fu l'elfo a ri-
spondere stavolta. «Temo si tratti di notizie riservate, signorina», disse una voce. «E comunque del tutto ininfluenti sulla situazione attuale». Aelin si voltò di scatto. Un altro Elaunoi era comparso nella sala. Il suo volto aveva un'età indefinibile, gli occhi pallidi erano simili a ghiaccio. Vestiva rigorosamente di nero, portava giacca e cravatta, in un contrasto un po' incongruo con l'atmosfera aliena di quel luogo. «Dato che mi avete portato qui con la forza, rispondere alle mie domande è il minimo che potreste fare, immagino», osservò la scrittrice. Ma all'improvviso non era più interessata davvero al palazzo e a tutto ciò che poteva rappresentare. Superata la prima sorpresa, tornava a invaderla la furia per il comportamento degli elfi e la loro innata arroganza. «Le hai già spiegato perché abbiamo bisogno di lei, vero?», chiese il nuovo arrivato, rivolgendosi a Sidhe. «Certo, Lord Pendragon». «Credi che abbia capito la gravità della situazione?». «Sì, signore, ma è spaventata, e desidera delle garanzie di sicurezza». E sono furibonda perché non mi hai dato il tempo di salutare nessuno, aggiunse Aelin, mentalmente. «Il suo è un modo d'agire cauto, forse, ma che ci farà perdere tempo prezioso». La ragazza fece ticchettare le dita sulla sua veste: «Forse risparmiereste del tempo, se non fingeste che io sia invisibile», sbottò. «Non ti accadrà nulla di male, giovane terrestre», disse Pendragon rivolgendole un sorriso distratto. «Noi dobbiamo solo chiudere il passaggio, e poi potrai tornare alla tua vita normale, senza altro timore». «E se io non volessi?». «Ti rifiuti di aiutarci?». «Non è quello che ho detto!». Qual'era la sua vita normale? A quel punto nemmeno lei lo sapeva più... Pendragon le lanciò uno sguardo cupo: «Non le conviene usare quel tono, signorina, perché lei non ha la più pallida idea di quali siano i nostri reali poteri». La giovane sbiancò, fece un passo indietro: «Vorrei solo che mi spiegaste con più chiarezza quello che accadrà dopo, e che ne sarà della Rosa dei Venti». L'uomo tornò a fissarla per qualche secondo, poi il suo sguardo si posò su di un punto che si trovava oltre le spalle di lei.
«Sono sicura che Lord Pendragon è ansioso di risponderti», disse una donna venendo verso di loro, e porse la mano alla terrestre. «Piacere, comunque. Il mio nome attuale è Theoria. Tu devi essere Aelin». La giovane strinse la destra dell'altra con fare esitante. La nuova venuta portava i capelli chiari degli Elaunoi sciolti quasi fino ai piedi, e tutto di lei, dalle morbide pieghe della tunica violetta all'espressione serena del volto, sembrava emanare un senso di pace profonda. La terrestre si chiese fra sé se ci sarebbe stato da fidarsi. «Sì, sono io: Aelin... la scrittrice», mormorò. E si guardò intorno, quasi aspettandosi che qualcun altro comparisse all'improvviso. «Io sono qui per assicurarmi che il mio collega non si faccia prendere dallo zelo, a scapito dei diritti di una nostra ospite», le assicurò Theoria, e detto questo lanciò un'occhiata in tralice a Pendragon. Sidhe si era allontanato di qualche passo, assisteva alla scena nel più assoluto silenzio. «I miei diritti?», ripeté la terrestre. «A uno scrittore che abbia un legame talmente forte con il suo racconto da aprire porte tra gli universi non si può proibire l'accesso al mondo da lui sognato, così dice la legge», recitò Pendragon. «L'opinione pubblica ci farebbe a pezzi se solo pensassimo di negare o eludere questa regola». «Bene», sussurrò la ragazza. «La Rosa dei Venti però non è il tuo mondo», precisò l'altro, «non sei stata tu la prima a scoprirlo, e la faccenda rischia di risultare parecchio complicata». «Abbiamo fatto delle ricerche dall'ultima volta che ci siamo messi in contatto con Sidhe», aggiunse Theoria, «se lo desideri, puoi fare richiesta di vedere le carte». «Per quel che ne capirei... temo dovrò fidarmi della vostra parola», ammise Aelin con un sospiro. «Il mondo è tuttora intestato a Lord Fenrir», disse Pendragon, «ma questi aveva avviato le pratiche per lasciarlo in eredità alla sua pupilla, Psiche. Solo che lei è stata colpita da una morte precoce, e lo scienziato è ancora dato per disperso. I familiari della ragazza volevano appropriarsi dell'eredità, ma i legali di Fenrìr si sono opposti, sia perché la giovane era stata ripudiata, almeno a parole, sia perché bisogna attendere almeno cinquant'anni per dichiarare ufficialmente il decesso di una persona scomparsa. La Rosa dei Venti è tuttora mondo chiuso per motivi di ricerca, ed è nostro interesse che tale continui a restare. Questo vuol dire che devi scegliere: o un
pianeta o l'altro, e poi le porte torneranno a serrarsi». «Mi chiedete di fare una scelta molto dura», disse la ragazza mordendosi un labbro. «Un ponte aperto tra la Rosa e la tua terra è sconsigliabile e del tutto inappropriato», le rispose Pendragon. «Non sarebbe il primo caso. Leggo romanzi fantasy e di fantascienza da una vita, datemi un attimo e saprò citarvi almeno dieci situazioni simili». «Il punto è che un portale del genere non passerebbe inosservato», spiegò Theoria. «Ci sono opinioni molto contrastanti riguardo alla possibilità di simili scambi fra culture, si parlerebbe della Rosa dei Venti...». «E i parenti avvoltoi tornerebbero alla carica», concluse Aelin cupa. «Questo non lo vogliamo né noi né voi», fece Pendragon annuendo. «Il vostro scopo quale sarebbe?», domandò lei socchiudendo gli occhi. «In primo luogo cerchiamo di evitare che gli universi finiscano in mano a privati, specie se ospitano già delle forme di vita. E poi Sidhe si è procurato la struttura molecolare di una sostanza sconosciuta, dalle caratteristiche rare. Se il mondo resta chiuso, con qualche passaggio burocratico la formula del cristallo di drago diventerà patrimonio scientifico e dunque accessibile a tutti. Se invece dei civili si impossessano di quel pianeta chiederanno per sé il monopolio. E non credo che la cosa piacerà ai vostri figli del fuoco». «Però non è giusto!», esclamò la terrestre. Non è giusto era il genere di frase che alle orecchie della giovane era sempre suonato di un'ovvietà estrema. Il genere di frase che si pronuncia solo quando non c'è più nessun altro argomento. Questo voleva dire che le obbiezioni degli Elaunoi le erano parse sin troppo sensate. «Sono sicura che ci deve essere un sistema...», tornò a dire Aelin. «Non potete portarmi via dai miei amici a questo modo». «Se avessimo voluto strapparti ai tuoi amici», osservò Theoria in tono grave, «ci saremmo limitati a trattenerti per un paio di giorni. Loro sarebbero morti di vecchiaia. Ogni minuto qui rappresenta un tempo infinitamente più lungo sulla Rosa dei Venti. E forse faresti meglio a rimandare a dopo i dubbi e le decisioni da prendere». «Cosa devo fare?». «Guiderai il mio assistente sino all'ultimo luogo della terra che ricordi», le spiegò Pendragon. «Lì è iniziato tutto. Lì finirà». «Così questa è la tua casa», commentò Sidhe guardandosi intorno.
«Era la mia casa», disse Aelin con un groppo in gola. «Il varco deve essere vicino. Non è attivo, ma gli strumenti ne recepiscono la presenza». «Sbrigati a trovarlo». La giovane sfiorò con mano tremante la superficie di un grande tavolo ovale, le linee sinuose di un pavone scolpito su una scatolina d'argento, uno dei tanti soprammobili art nouveau sparsi nel salotto. Era la sua casa. E poteva essere l'ultima volta che la vedeva. Non c'era nessuno. Forse non si erano accorti nemmeno che lei mancava. La sua assenza, in fondo, non era durata più di poche ore, secondo il diverso scorrere del tempo tra gli universi. Ma se l'avessero vista adesso... vagava per la stanza come un fantasma e l'immagine che gli specchi riflettevano era molto diversa dalla giovane che aveva lasciato quella casa. «Posso chiederti una cosa?», fece l'elfo intanto. «Se devi...». «Perché ci detesti tanto?». La giovane tornò ad avvicinarsi all'altro. «Credevo fosse palese», sussurrò. «Non proprio», disse l'Elaunoi, ancora piegato sui propri strumenti. «Vi credete diversi, ma siete troppo simili a noi. L'avidità, l'arroganza, il senso di superiorità, i segreti della scienza e lo scaltro opportunismo. Vi guardo e continuo a pensare ai mercanti europei che scambiavano ninnoli in cambio d'oro e di schiavi per il nuovo mondo. Vi guardo e penso che a volte è spiacevole fissarsi in uno specchio. E, soprattutto, ho capito che detesto cordialmente la parte dell'indigena, nella storia». «Su questo non c'erano dubbi». Sidhe socchiuse gli occhi. «Comunque molte somiglianze che credi di aver colto tra noi e i terrestri sono dettate dal desiderio di ricreare un contesto a te noto. A partire dagli abiti di Pendragon. Ma di lui non voglio parlar male, è pur sempre il mio capo». «Ma che fortuna, proprio l'elfo impiegato al Palazzo dei Mondi doveva finire a farci visita», sbuffò Aelin. «Fortuna non direi. Dato il mio lavoro, ho la possibilità di recarmi in mondi più remoti e isolati di quelli aperti al grande pubblico». «Il grande pubblico», ripeté lei, «un'altra espressione che sembra così terrestre, così... occidentale». «Se ti immagini frotte di turisti in pantaloncini, con macchine fotografiche e occhiali da sole sei completamente fuori strada». «La tua tunica non è molto lunga, anche se manca dei tradizionali motivi
hawaiani. La macchina fotografica ce l'hai, per gli occhiali da sole non so pronunciarmi». «Forse dovrei prendere un altro esempio. I parenti di Psiche, ecco, non sono certo i soldi che cercano, anche se dal discorso di Theoria e Pendragon poteva sembrare il contrario. È più una questione di principio, e per spiegartelo con esattezza dovrei parlarti di tutta una serie di valori che non hanno un esatto corrispondente nel tuo mondo e nel tuo linguaggio». «Sai una cosa?», disse Aelin dopo un istante di riflessione. «Quando Fenrir per i parenti della sua pupilla ha tirato fuori epiteti come bastardi e razzisti non credo che stesse semplificando a beneficio degli indigeni». «Io adesso devo cercare più verso destra», tagliò corto Sidhe. La giovane seguì l'elfo, ma solo per sprofondare stancamente nel divano. Si ritrovò a giocare con il telecomando, un'occhiata dell'elfo però le fece capire che non era il caso di accendere apparecchi elettronici mentre lui era al lavoro. La ragazza chiuse gli occhi: la verità era che aveva già scelto cosa fare, solo che non riusciva a confessarlo a se stessa. Forse sarebbe stato meglio non tornare indietro. Non voleva dire addio a nessuno, sarebbe stato solo più doloroso. Ecco... teneva gli occhi chiusi e le sembrava di scorgere i mosaici di foglie di una sala di pietra verde che doveva trovarsi a Graecale, nella rocca dei maghi. Lei non l'aveva mai visitata, ma gliene avevano parlato. Lì c'erano i suoi amici, chini su un grande plastico del continente. Spostavano le figurette di legno e metallo che rappresentavano maghi, cavalieri, i guerrieri di Aquilon e quelli di Felicia, le truppe di Evander con il loro armamento leggero, e poi gli omini bianchi di Tramontana e quelli in verde di Discordia, che sembravano essere scesi quasi fino ad Auster. La ragazza serrò con forza le dita, stritolando quasi un cuscino. Ma i suoi amici non si mostravano preoccupati, sembrava che ridessero, invece. Aelin incontrò gli occhi azzurri di Jordan, era certa che anche lui la vedesse. «Trovato!». «Trovato...», ripeté la terrestre, mentre l'immagine svaniva e lei quasi protendeva una mano per afferrarla. Invano. «Sei stata tu in realtà a fare tutto. Ma poco importa», disse l'elfo. «Da qui posso acchiappare il mondo della Rosa per la coda, e frenare la sua corsa, per riportarlo a una velocità ottimale. E poi...». «E poi vengo da te, Jordan», sussurrò la giovane.
Né lo avrebbe fatto a mani vuote. Quanto poteva raccogliere del sapere della terra se lo sarebbe portato dietro. A partire da certi CD di musica, ma libri soprattutto... Certo, non avrebbe potuto riempire più di uno zaino. O forse due? In quel momento un rumore la fece sobbalzare. La porta di casa si apriva. «Noto che la scena dei saluti strappalacrime non l'hai messa». «Mi faceva semplicemente schifo. Ma nemmeno la soluzione di andarmene alla chetichella appariva soddisfacente, così ho adottato questo compromesso». «Giusto per ribadire che sei una creatura fredda come il ghiaccio e che tu e il pathos vivete su due pianeti diversi?». «Se vuoi metterla in questo modo...». «Insomma, avresti dovuto scoppiare in lacrime, non pensare ai libri da portarti dietro!». «Sai, la lista delle cose utili per un viaggio su un altro mondo ho iniziato a compilarla a undici anni. E i libri di storia e di scienze li ho sempre messi al primo posto. Quindi un simile pensiero doveva venirmi per forza». «Se lo dici tu... e adesso torni in tempo per la battaglia finale, immagino». «Leggi e scoprirai». Era una giornata grigia, uggiosa. Nuvole di piombo e mare verde in tempesta chiudevano l'orizzonte. Faceva freddo sulla torre, e Aelin lasciò cadere a terra la sua sacca dei libri. «Mi chiedo che cosa...», mormorò l'elfo. Neanche a dirlo era tornato ad armeggiare con quella specie di computerino che portava sul braccio. «Che succede adesso?», gli domandò la terrestre. «Volevo che apparissimo davanti all'entrata della cupola, e non spostati di tre metri più a destra. Non è il genere di imprecisione che mi piaccia, quando può significare la differenza tra trovarsi dentro o fuori la linea di un parapetto». «O peggio ancora nel punto esatto in cui si trova la ringhiera di pietra?», disse la ragazza con un sorrisetto nervoso. «Le interferenze causate dal cristallo azzurro le avevo messe in conto, però mi sembra ci sia qualcosa di strano...».
Qualcosa di strano come un fascio di luce che partiva all'improvviso dal cuore della cupola, per poi solcare il cielo, e svanire nella distanza. Aelin si mise a correre e poco dopo era con il naso schiacciato contro la superficie azzurra del vetro. Erano tutti lì dentro. Erano tutti lì, simili a come li ricordava, simili ma non uguali. C'erano stati dei cambiamenti in ognuno di loro, e non avrebbe saputo elencarli, forse dei capelli un po' più corti o più lunghi, delle nuove ombre sotto gli occhi, o il sorriso luminoso di Jade mentre stringeva il suo bambino. Quanto tempo sono rimasta via?, si chiese Aelin. E soprattutto chi era quella ragazza bionda che Jordan si teneva vicino? La terrestre serrò le labbra, poi vide che la sconosciuta aveva poggiato il capo sulla spalla di Rhory, e lui la abbracciava. Jordan si era allontanato, stava lasciando la sala. Si incontrarono all'arco di entrata. «Sono tornata!», disse lei senza fiato. «Sei tornata». Il cavaliere la cinse per la vita, quasi la sollevò da terra. La baciò. «Lo spettro delle spade l'aveva detto che il varco si era riaperto. Ma io non osavo crederci... e invece sei qui!». Prima che potesse rispondere, il ragazzo la stava baciando di nuovo, e la terrestre non desiderava altro. «Sono passati due anni, quasi», mormorò Jordan. «Una volta mi è sembrato di vederti. Ma temevo che ti trattenessero». «Il tempo non scorre nel reame degli elfi», disse Aelin in tono sognante. «Andiamo dentro, anche gli altri ti aspettano. E presto... resteremo soli». Jordan la sospinse nella sala. Tutti si strinsero attorno a lei. «Bentornata!». «C'è stata una bella battaglia, sai?». «Lei è Moira, combatte nelle schiere di Felicia», le dissero indicando la giovane dai capelli biondi. «Ha salvato la vita di Rhory quando abbiamo ripreso la città di Levant, e adesso...». «Ci sei mancata, a tutti quanti». «E poi ti sei persa lo scontro finale, sai?». «Ma in fondo che abbiamo fatto? A parte penetrare in un tempio di giada sorto dal nulla in una notte...». «Evitare le turbe dei fedeli appena convertiti...». «Rapire Discordia...».
«Fuggire via mentre tutto ci crollava addosso. In effetti non è stato niente di speciale». La ragazza si aggrappò a Jordan, con un sorriso stanco. Parlavano tutti troppo in fretta, era difficile seguirli. «Aspettate un attimo», disse poi, «avete detto che la spada verde si era costruita un tempio personale e che è andato in pezzi quando l'avete sconfitta?». «Sì», le confermò Gwyon. «Perché lo chiedi?», aggiunse Sethrian. «Lasciamo perdere...». Odiava i crolli dell'ultimo minuto... Per una volta però non lo disse. In quel momento Jade venne avanti e le depose tra le braccia un fagottino addormentato: era la sua bambina. «Ma lo sapevate già prima che sarei arrivata? O c'è un altro motivo per cui siete riuniti qui?», chiese la terrestre, e non smetteva di osservare con un sorriso i pugni chiusi della piccola. «Una bella domanda», disse Jordan con un sogghigno. «Prima di rispondere dovremmo invitare anche l'Elaunoi a entrare», propose Sethrian guardandosi intorno. L'elfo comparve proprio in quel momento. Non ebbe tempo di parlare, però. La luce azzurra tornò a illuminare la sala, e al suo interno comparve un'esile figura di donna. Era lo spirito nato dalle spade, che si mostrava a coloro che l'avevano evocato. «Ho terminato l'analisi del globo terracqueo», annunziò sorridente. «Non ci sono altri varchi attivi e il portale della torre è nascosto e protetto». «Che succedere ora?», domandò Aelin. «Rimanere ad aspettare la prossima mossa degli Elaunoi non sarebbe stato saggio», le rispose Sethrian. «Così ci siamo dati da fare». «Prego?», fece Sidhe inarcando un sopracciglio. «Ho innalzato le difese predisposte da Lord Fenrir», disse lo spirito con voce calma e quieta, «adesso il mondo della Rosa si è chiuso su se stesso». «Questo, per inciso, vuol dire che tu non puoi più andartene. Nessuno può», aggiunse Jordan, e strinse a sé Aelin con fare protettivo. «Non sapete contro chi vi state mettendo», avvertì l'elfo con sguardo cupo. «Sappiamo che siete forti e potenti», ribatté Sethrian, «in fin dei conti non fate altro che ripeterlo. Proprio per questo sentiamo il bisogno di assi-
curarci che la nostra pace e la nostra indipendenza non siano riposte nell'arbitrio degli Elaunoi». «Di quale pace parlate?», obbiettò Sidhe scuotendo il capo. «Se non fate altro che combattervi». «Noi non pretendiamo di essere perfetti», rispose Jordan con la massima calma. «Né intendiamo provocare la tua gente senza un buon motivo», aggiunse Palen, che era rimasto quasi tutto il tempo chino presso il cerchio di spade. «Dunque ti lasceremo ripartire prima possibile, di questo non devi aver paura». «Quali sono le vostre intenzioni?». «Se mi fornirai il giusto codice di frequenza», intervenne lo spirito sospeso nella colonna di luce, «vedrò di creare un canale diretto con i tuoi superiori, e potrai ascoltare anche tu le richieste della Rosa dei Venti». Sidhe si avvicinò a Palen, tornando a scuotere la testa, e Aelin si trovò a pensare che forse lo scontro finale non era ancora avvenuto. «Devo raccontarvi quello che è avvenuto mentre mi trovavo nel mondo degli Elaunoi», disse poi. «Sarebbe illuminante sulla natura del popolo delle stelle». «Non abbiamo molto tempo però», le ricordò Palen. «Dicci solo cosa hanno in progetto per il nostro mondo, se ti hanno raccontato qualcosa», fece Sethrian. «Mondo chiuso per motivi di ricerca», sussurrò la terrestre. Il volto del mago si fece cupo. Né fu il solo. In quel momento il fascio luminoso mutò colore, divenne trasparente come acqua. E al suo interno comparve la figura di Pendragon. «Si può sapere che cosa succede?», tuonò l'elfo. «Sembra che i nativi abbiano delle richieste, signore», si affrettò a spiegare l'altro Elaunoi. «La Rosa è scomparsa dai nostri strumenti d'osservazione, Sidhe: deve esserci un guasto». «Veramente è opera nostra», obbiettò Sethrian. «Ti spiace dire a questa gente, Sidhe, in un linguaggio a loro comprensibile, che simili fandonie non saranno tollerate?». «Se il nostro mondo appare e torna a svanire a comando, saranno ancora fandonie?», ribatté il mago prontamente, e fece un cenno a Palen. Gli altri fin ad allora non avevano parlato, ma sui loro volti c'era la me-
desima determinazione. «Immagino di dover considerare questo trucchetto opera di Lord Fenrir», disse Pendragon. «Ma la vostra ostilità è immotivata». «Questa è una cosa che possiamo scoprire facilmente. Noi vogliamo solo la certezza che questo mondo è nostro. Tutte le città, tutte le isole, le foreste e le nubi, portali compresi». «Ho capito», ribatté l'elfo in tono freddo. «Volete l'autorizzazione a impossessarvi delle nostre tecnologie. Una pretesa arrogante, ma non posso dire che mi stupisca». «Avete il monopolio per l'usanza di rubare agli altri mondi?», domandò Sethrian allargando le braccia. «Noi sappiamo. Voi usereste come bambini imprudenti ciò che non vi appartiene, e non posso permetterlo». «Dirò questo ai miei uomini?», fece Evander venendo avanti. «Hanno perso le loro famiglie, che sono bloccate su un altro pianeta, il nostro pianeta d'origine, e quel luogo non è fatto per la vita degli uomini. Io dovrei dir loro di rinunciare ai propri cari soltanto perché un tizio sospeso in una colonna di luce afferma che siamo bambini imprudenti?». «Adesso basta!», proruppe Pendragon. «Un'altra parola insolente e vi giuro che troverò il modo di forzare il vostro patetico schermo, e poi mi prodigherò personalmente perché le astronavi degli Elaunoi diano alla Rosa dei Venti la lezione che si merita». «Sciocchezze», sibilò Aelin. «Temete che l'opinione pubblica vi bacchetti se separate un singolo nucleo familiare contro il suo volere, e adesso vorreste minacciarci con l'artiglieria pesante?». «Io non ho mai parlato di armi. E l'opinione pubblica è strana: la gente si commuove per un cucciolo in lacrime, ma è pronta a diventare spietata se vede minacciato un solo briciolo della sua sicurezza». «Non ci pensiamo nemmeno a sfiorarla, la vostra sicurezza», ribatté Sethrian. «Il vostro mondo non ci interessa in realtà. Ma vogliamo porte aperte sulla patria di Evander e di Aelin, e su tutti gli altri pianeti che scopriremo con le nostre capacità e i nostri sforzi». «Voi non avete idea delle conseguenze...». «Dovrei scrivere di un mondo assolutamente letale per la vostra razza», disse Aelin a denti stretti. «E poi portarvi qualche souvenir in dono». «Lo vedi?», esclamò Pendragon tornando a rivolgersi a Sidhe. «È impossibile discutere con loro! Sembrava che la scrittrice si fosse arresa alla voce della ragione, e adesso che è spalleggiata dal suo branco torna a spu-
tare minacce!». «Preferireste lasciare la Rosa alle rivendicazioni dei Thule, signore?», domandò l'altro elfo. Dei Thule? Aelin sbatté le palpebre, confusa. «Potrebbe essere una soluzione! Affidare a loro il lavoro sporco e poi mandargli una bella ingiunzione di esproprio per abuso di potere!». I Thule? I parenti di Jordan? No! I parenti di Psiche. Gli Elaunoi avidi e crudeli che Pendragon e i suoi colleghi avevano usato per tutto quel tempo come spauracchio. La terrestre si voltò a guardare il cavaliere con gli occhi sbarrati. Aveva messo subito in relazione Psiche e la leggenda narrata da dama Vanessa. Ma non aveva ricollegato Jordan a Psiche, forse perché è strano credere che i racconti prolunghino i loro rami fino al presente. Poteva essere una strada. Doveva esserlo. «Se i parenti di Psiche provano ancora ad avanzare pretese su questo mondo potrebbero ritrovarsi con qualcosa di più di un pianeta», disse la ragazza con voce dolce. «Potrebbero trovare dei discendenti, un nipote. Chi sa come la prenderebbero». «Un nipote?», ripeté l'elfo nella colonna di luce. «Ho il piacere, Lord Pendragon, di presentarvi Jordan di Thule, cavaliere di Auster e Cantore del Sangue». «E promesso sposo di Aelin», aggiunse il ragazzo guardandola in tralice. La terrestre sorrise, ma non ebbe modo di rispondere. L'immagine di Pendragon si era fatta sfocata. Pochi istanti dopo comparve Theoria. In qualche inspiegabile modo, Aelin senti che erano a un passo dalla vittoria. EPILOGO, SULLA TORRE DI LILÀI «Io veglio ad occhi chiusi ascolto le melodie del mondo...». Aelin e Jordan si avvicinarono lentamente. Era calata la sera, solo la figura dello spettro delle spade rimaneva immobile nel silenzio della torre. «Io sfioro le mie catene, fatte di luce ed energia, e sono stata io a cercarle, perché fossero la maschera del mio volto più nero...».
La donna evanescente cantava, persa nella contemplazione di se stessa. Libellule simili a fuochi fatui danzavano intorno, sfiorando le dita sottili e i capelli. «Fa sempre così?», chiese la terrestre. «Discordia aveva le sue illusioni, Solitudine si nutriva di silenzio», disse Jordan. «Lei ha un diverso modo di giocare, e anche se deve obbedire ai nostri ordini... Non ascoltare troppo il suo canto. No, non farlo, potrebbe essere pericoloso». Aelin annui, e tornò a fissare la figura sospesa nel vuoto. «Però non avrei voluto che Psiche fosse distrutta», mormorò, con un filo di voce. «Non l'abbiamo distrutta», fece il cavaliere. «Avevamo bisogno di lei. Se la ascolti, ti dirà che voleva solo metterci alla prova, e ogni difficoltà è nata perché fossimo degni dei segreti nascosti. Ma distinguere verità e menzogna è diventato impossibile. Forse nemmeno lei ci riesce». «Però ci ha aiutato». «Contro gli Elaunoi, sì, l'ha fatto. E adesso è tutto diverso. Anche se non sono certo di essere felice del nuovo ruolo che gli eventi mi hanno assegnato. Sono il principe di questo mondo, il suo responsabile di fronte al popolo delle stelle... È strano. Questo titolo vuol dire poco o nulla per gli abitanti della Rosa, e invece noi ci stringiamo a esso perché è la chiave della nostra libertà». La ragazza gli strinse la mano, con un sorriso timido. «È anche colpa mia, immagino». «Forse sì», disse il cavaliere sorridendo a sua volta. «Ma posso accettarlo, perché tu adesso sei qui. E non dovrò mai più temere di perderti». Lo spettro delle spade cantava una melodia senza parole. I due giovani silenziosamente lasciarono la torre, con gli occhi pieni del loro amore. EPILOGO, AL PALAZZO DEI MONDI «E così anche questo caso si chiude». «Io spero di non sentir parlare della Rosa dei Venti per molto, molto tempo. Ma mi rendo conto che è soltanto un pio desiderio». «Davvero, Pendragon?». «Hai letto l'ultima richiesta di Jordan di Thule? Minaccia di chiedere la cittadinanza elaunoi, o qualcosa del genere! E dietro di lui ci sono tutti quegli altri, è ovvio».
«In fondo potrebbe anche spettargli». «Sono troppo giovani e inesperti, Theoria». «Certo che lo sono. Altrimenti non li avremmo potuti manovrare così facilmente». «La Rosa dei Venti è loro, ma per il lascito di un Elaunoi. E ciò li obbliga a rispettare le nostre leggi. Possono adoperare i portali, ma solo verso mondi che non siano già sotto l'influenza elaunoi, e questo li indurrà a sviluppare le tecniche che quel loro stregone aveva iniziato a mettere in atto. Manterranno le comunicazioni con il pianeta della scrittrice e non posso dirmi troppo entusiasta, perché noi lo stavamo tenendo sotto osservazione e così invece rischiano di inquinarlo, ma mi dovrò adattare. In compenso abbiamo la formula del cristallo del drago e sapremo come sfruttarla». «Sai, pensavo che tra maghi e rettili sputafuoco quel mondo potrebbe essere un tantino pericoloso se qualcuno provasse a conquistarlo con la forza». «Quando Lord Fenrir ricomparirà dal suo vagabondaggio credo che cercherò di metterlo ai ferri per un centinaio d'anni almeno». «Per così poco tempo, Pendragon?», rise la donna. «In fondo era pur sempre un mio allievo». «A proposito, sai come l'hanno presa i Thule?». «Non sono sicuro di volerlo sapere». «Si vantano di avere un nipote di sangue nobile...». «E noi saremmo gli esseri superiori!», commentò lui scuotendo la testa. «Tu la parte del prevenuto bigotto e razzista l'hai interpretata bene». «Forse perché un po' lo sono. Ma la prossima volta il ruolo del cattivo te lo cedo volentieri, se vuoi». «La prossima volta vedremo», sorrise Theoria. «Dovremmo brindare, sai?», disse dopo un po' l'Elaunoi che si era fatto chiamare Pendragon. «Sidhe ha portato delle bottiglie, alla maniera terrestre». «In effetti si è risolto tutto per il meglio». La donna chiuse gli occhi per un istante. «La recita è andata a buon fine». «Era necessario che recitassimo. Se avessimo generosamente concesso i diritti che gli umani credono di averci strappato con le unghie e coi denti, adesso vorrebbero di più, si sentirebbero quasi in dovere di chiedercelo». «Non ho detto il contrario». «Certo, se sospettassero che li abbiamo per così dire... guidati...». «Io credo che Aelin ne abbia quantomeno il dubbio. E lo comunicherà
agli altri. Ma tanto, che siamo dei luridi profittatori già ne sono convinti. Senza contare che un dubbio non è una certezza». «Anche questo è vero». EPILOGO, IN CASA DI UNA SCRITTRICE «Finisce così?». «Dovrei scrivere che Aelin si sveglia e ha appena sognato i due Elaunoi che parlano. Segue uno scambio di battute argute con Sethrian sull'argomento, poi arriva Jordan, metto una scena romantica, e poi non lo so, dovrei aggiungere qualcosa d'altro, perché con la nota romantica non voglio chiudere». «Questo l'avevamo capito». «Hai dei suggerimenti?», chiese la ragazza poggiando una mano contro il mento. «Se non lo sai tu come faccio io a dirtelo?». «Un paio di informazioni sono rimaste fuori, a dire il vero. Innanzitutto Khirsten di Tramontana continua a creare problemi dal suo regno nevoso, e ai suoi ordini c'è Anton, che a un certo punto deve essere stato liberato in uno scambio di prigionieri. Quella povera donna della sorella del re, ormai si è decisa a chiedere asilo politico e a fuggirsene verso sud. A Levant, per essere precisi, dove adesso Llys è regina. Però è troppo poco per farne una scena. E quel che è peggio, sui miei personaggi principali ho ben poco da dire. Ma è colpa mia se vissero felici e contenti, senza nient'altro ricordare?». «Non so che dirti». La ragazza sospirò, e per qualche momento non disse nulla. «Suonano alla porta», fece poi alzandosi. «Chissà chi è...». «Non sarà quel ragazzo bruno e con gli occhi azzurri che ha preso a girarti intorno? Quello che sembra uscito, guarda un po', dalle pagine del tuo romanzo?». «Ma no!», esclamò la scrittrice scuotendo la testa. «Jordan esce dal mio armadio, dove abbiamo nascosto il portale, mica suona il campanello!». L'amico della scrittrice socchiuse gli occhi. «Voglio controllare il tuo armadio». «Meglio di no», disse lei seria. «Perché no? Devo temere qualche valanga di abiti ammonticchiati o c'è di più?».
«Controllare il mio armadio potrebbe voler dire trovare dei cavi d'elettricità che spariscono verso un altro mondo. Controllare il mio armadio vuol dire cancellare del tutto l'illusione che il mio racconto sia vero. E tu sei sicuro di volerlo fare?». Il ragazzo non rispose. Certi segreti devono restare tali. O forse solo sfumano nel sogno. Continuano a vivere oltre la parola fine, non più sulla carta... Sono mutati in fantasie dell'ombra. FINE